Silvano Fausti - Marco

September 15, 2018 | Author: samson1106 | Category: Baptism, Evil, Jesus, Atheism, Sin
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catholic exegesis...

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INDICE 1. VIENE DIETRO DI ME QUELLO PIÙ FORTE DI ME (1,1-8)

2. TU SEI IL FIGLIO MIO, IL DILETTO (1,9- 11)

3. LO SPIRITO LO GETTA FUORI NEL DESERTO (1,12-13)

4. È GIUNTO IL MOMENTO (1,14-15)

5. QUI, DIETRO A ME! (1,16-20)

6. TACI (1,21-28)

7. E SERVIVA LORO (1,29-31)

8. FATTASI SERA (1,32-34)

9. ANDIAMO ALTROVE (1.35-39)

10. VOGLIO, SII MONDATO! (1,40-45)

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23 23

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35 35

38 38

40 40

43 43

11. IL FIGLIO DELL'UOMO HA POTERE DI RIMETTERE I PECCATI SULLA TERRA 47

(2,1-12)

12. NON VENNI A CHIAMARE I GIUSTI, MA I PECCATORI (2,13-17)

13. LO SPOSO È CON LORO (2,18-22)

14. SIGNORE È IL FIGLIO DELL'UOMO ANCHE DEL SABATO (2,23-28)

15. TENDI LA MANO (3,1-6)

16. UNA BARCA PICCOLA PER NON ESSERE SCHIACCIATI DALLA FOLLA (3,7-12)

17. E FECE DODICI PER ESSERE CON LUI E PER INVIARLI (3,13-19)

18. CHI SONO MIA MADRE E I MIEI FRATELLI? (3,20-35)

19. E DAVA FRUTTO CHE VENIVA SU E CRESCEVA (4,1-9)

20. TUTTO È IN PARABOLE (4,10-12)

21. NON INTENDETE QUESTA PARABOLA: E COME CAPIRETE TUTTE LE PARABOLE? (4,13-20)

22. GUARDATE CIÒ CHE ASCOLTATE (4,21-25)

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23. E DORMA E VEGLI, E DI NOTTE E DI GIORNO, IL SEME GERMOGLIA E CRESCE LO STESSO 100 (4,26-29)

24. È PIÙ PICCOLO DI TUTTI I SEMI DELLA TERRA (4,30-34)

25. PERCHÉ SIETE PAUROSI COSÌ? COME NON AVETE FEDE? (4,35-41)

26. ESCI, SPIRITO IMMONDO, DALL'UOMO (5,1-20)

27. LA TUA FEDE TI HA SALVATA (5,21-43)

28. E SI MERAVIGLIAVA DELLA LORO NON FEDE (6,1-6a)

29. CHIAMA INNANZI I DODICI E COMINCIÒ A INVIARLI (6,6b-13)

30. LEVARONO LA SUA SPOGLIA E LA DEPOSERO IN UN SEPOLCRO (6,14-29)

31. VENITE VOI SOLI IN DISPARTE (6,30-33)

32. ALZATI GLI OCCHI AL CIELO, BENEDISSE E SPEZZÒ I PANI, E LI DAVA (6,34-44)

33. CORAGGIO, IO SONO, NON TEMETE! (6,45-56)

34. IL LORO CUORE È LONTANO DA ME (7,1-23)

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109 109

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35. NON È BELLO PRENDERE IL PANE DEI FIGLI E GETTARLO AI CAGNOLINI (7,24-30)

36. EFFATHÀ, CIOÈ: APRITI! (7,3 1-37)

37. HO COMPASSIONE (8,1-10)

38. NON SARA DATO NESSUN SEGNO (8,11-13)

39. GUARDATEVI DAL LIEVITO DEI FARISEI E DAL LIEVITO DI ERODE (8,14-21)

40. VEDI FORSE QUALCOSA? (8,22-26)

41. MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA? (8,27-30)

42. IL FIGLIO DELL'UOMO DEVE MOLTO SOFFRIRE (8,31-33)

43. SE UNO VUOLE (8,34-38)

44. QUESTI È IL FIGLIO MIO, IL DILETTO: ASCOLTATE LUI! (9,1-10)

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159 159

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45. COME MAI STA SCRITTO DEL FIGLIO DELL'UOMO CHE DEVE PATIRE MOLTO?190 (9,11-13)

46. QUESTA SPECIE CON NULLA PUÒ USCIRE SE NON CON LA PREGHIERA (9,14-29)

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47. IL FIGLIO DELL'UOMO È CONSEGNATO IN MANI DI UOMINI (9,30-32)

48. DI CHE COSA DISCUTEVATE LUNGO LA VIA? (9,33-37)

49. NON IMPEDITELO (9,38-40)

50. NEL NOME (9,41-50)

51. NON SONO PIÙ DUE, MA UNA CARNE SOLA (10,1-12)

52. DI CHI È COME LORO È IL REGNO DI DIO (10,13-16)

53. TUTTO È POSSIBILE PRESSO DIO (10,17-31)

54. ECCO, SALIAMO A GERUSALEMME (10,32-34)

55. COSA VOLETE CHE IO FACCIA PER VOI? (10,35-45)

56. COSA VUOI CHE IO FACCIA PER TE? (10,46-52)

57. IL SIGNORE NE HA BISOGNO (11,1-11)

58. NESSUNO PIÙ IN ETERNO MANGI FRUTTO DA TE (11,12-14)

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231 231

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59. LA MIA CASA SARÀ CHIAMATA CASA DI PREGHIERA PER TUTTE LE GENTI. MA VOI NE AVETE FATTO UNA SPELONCA DI LADRI 244 (11,15-19)

60. ABBIATE FEDE DI DIO (11,20-26)

61. VI DOMANDERÒ UNA SOLA PAROLA, E RISPONDETEMI (11,27-33)

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250 250

62. LA PIETRA CHE I COSTRUTTORI RIGETTARONO, QUESTA DIVENNE TESTATA D’ANGOLO 253 (12,1,12)

63. DATE A CESARE CIÒ CHE È DI CESARE E A DIO CIÒ CHE È DI DIO (12,13-17)

64. NON È UN DIO DEI MORTI MA DEI VIVENTI (12,18-27)

65. NON SEI LONTANO DAL REGNO DI DIO (12,28-34)

66. DAVIDE LO DICE SIGNORE, E COME È SUO FIGLIO? (12,35-37)

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265 265

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67. DALLA SUA MISERIA GETTÒ QUANTO AVEVA, TUTTA INTERA LA SUA VITA271 (12,38-44)

68. NON SARÀ LASCIATA QUI PIETRA SU PIETRA (13,1-2)

69. GUARDATE CHE NESSUNO VI INGANNI (13,3-23)

70. ALLORA VEDRANNO IL FIGLIO DELL’UOMO VENIRE NELLE NUBI (13,24-27)

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71. DAL FICO IMPARATE LA PARABOLA (13,28-32)

72. LO DICO A TUTTI: VEGLIATE (13,33-37)

73. A CHE PRO QUESTO SPRECO? (14,1-11)

74. LÌ PREPARATE PER NOI (14,12-16)

75. UNO DI VOI MI CONSEGNERÀ (14,17-21)

76. QUESTO È IL MIO CORPO QUESTO È IL MIO SANGUE DELL’ALLEANZA (14,22-26)

77. TRE VOLTE MI RINNEGHERAI (14,27-31)

78. DIMORATE QUI E VEGLIATE (14,32-42)

79. SI COMPIANO LE SCRITTURE (14,43-52)

80. IO SONO (14,53-65)

81. NON CONOSCO QUEST’UOMO (14,66-72)

82. CROCIFIGGILO (15,1-15)

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293 293

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83. SALVE, O RE DEI GIUDEI (15,16-20)

84. PRENDA LA SUA CROCE (15,21)

85. LO CROCIFIGGONO (15,22-28)

86. SALVA TE STESSO (15,29-32)

87. VERAMENTE QUEST’UOMO ERA FIGLIO DI DIO (15,33-39)

88. C’ERANO ANCHE DELLE DONNE CHE GUARDAVANO (15,40-41)

89. LO DEPOSE IN UN SEPOLCRO (15,42-47)

90. GESÙ IL NAZARENO, IL CROCIFISSO, È RISORTO (16,1-8)

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91. ANDATE IN TUTTO IL MONDO E PREDICATE IL VANGELO A OGNI CREATURA370 (16,9-20)

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1. VIENE DIETRO DI ME QUELLO PIÙ FORTE DI ME (1,1-8) 11 Principio del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio. 2 Come sta scritto in Isaia profeta: “Ecco, io mando il mio angelo davanti al tuo volto, che preparerà la tua via. 3 Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, fate diritti i suoi sentieri”, 4 venne Giovanni a battezzare nel deserto e a proclamare un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. 5 E usciva verso di lui tutta la regione giudea, e tutti quelli di Gerusalemme, ed erano battezzati da lui nel fiume Giordano confessando i loro peccati. 6 Giovanni era vestito di peli di cammello, una cinta di pelle ai fianchi, mangiava locuste miele selvatico. 7 E proclamava dicendo: Viene dietro di me quello più forte di me, del quale io non sono sufficiente a inchinarmi e sciogliere il laccio dei suoi sandali. 8 Io vi battezzai con acqua, ma lui vi battezzerà in Spirito Santo. 1. Messaggio nel contesto “Viene dietro di me quello più forte di me”, proclama Giovanni alle folle, aprendole all'attesa di colui che chiamerà tutti ad andare dietro di lui. Così “la voce” prepara la via alla Parola, annunciando colui che “battezzerà nello Spirito Santo”. Questo brano introduttivo, molto denso, sarà chiaro solo alla fine. Se ciò è vero di ogni introduzione, lo è in modo particolare nel caso di Marco, che termina rimandando al principio. Dopo il titolo (v. 1), prima di mostrarci chi è Dio davanti all'uomo, Marco ci mostra come deve essere l'uomo davanti a Dio. E lo fa con due citazioni bibliche che rilevano i due filoni profetici portanti dell'AT (vv. 2-3), di cui il Battista è l'icona vivente (vv. 4-8). L'insieme è una vigorosa sintesi della rivelazione fatta ad Israele, quasi un breve sunto del cammino di Antico Testamento che ciascuno è chiamato a percorrere se vuol accogliere il Signore che viene. L'uomo che non schiude il cuore ai desideri che Dio vi ha immesso e all'attesa di ciò che lui ha promesso, non può comprendere il mistero di Gesù.

JHWH ha impiegato due millenni - che lunga educazione! - per condurre un popolo a scoprire due verità. La prima è che l'uomo è desiderio di Dio, perché, fatto a immagine e somiglianza sua, trova in lui la propria realtà. La seconda è che Dio stesso è desiderio di darsi a lui, perché, attraverso tutti i suoi doni, altro non vuole che fargli il dono di sé somma di tutti i doni e sommo dono oltre ogni desiderio. Sarà bene fermarsi su questi primi versetti per esplicitarne, almeno sommariamente, i principali temi. Altri saranno rilevati di volta in volta in ogni singolo racconto attraverso i richiami e le allusioni all'AT che contengono. La prima condizione necessaria per accogliere il Signore che viene, è la sete di giustizia. L'uomo trova uno scarto irriducibile tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere. Ma guai se si rassegna: è una situazione che Dio non vuole. Lui in persona ha promesso di venire a compiere il suo giudizio, che pone fine a ogni ingiustizia (v. 2 = Ml 3,1 ss). Questo è il primo cardine della fede di Israele: il mondo non sottostà al dominio e all'arbitrio dell'uomo peccatore e ingiusto, ma alla signoria di Dio, che è santo e giusto. La seconda condizione è la sete di libertà. L'uomo è intrappolato in molte forme di schiavitù interna ed esterna. Vede il bene, ma è incapace di attuarlo; intuisce la felicità, ma è impotente a conseguirla; si sente impedito dentro e fuori di raggiungere ciò per cui è fatto. A chi teme che la libertà sia impossibile, c'è una “voce” che grida di aprire nel deserto la strada che porta dalla terra di schiavitù alla patria del desiderio. Altrove l'uomo è in esilio. Solo qui può abitare, perché qui è la sua casa, che Dio gli ha donato e ha promesso di ridonargli (v. 3 = Is 40,1 ss). Giovanni è l'angelo (= annunciatore), cioè il profeta che, denunciando il peccato e annunciando il perdono, dispone l'uomo a convertirsi alla giustizia di Dio. Egli è insieme anche la voce di incoraggiamento, che prepara per il nuovo esodo verso la libertà. Ultimo dei profeti, è tratteggiato con i lineamenti del primo, di cui ribadisce e chiude l'insegnamento. t Elia, che viene a convertire i cuori (Ml 3,23), perché si aprano al Signore. È il profeta per eccellenza, il dito puntato su Gesù, colui che deve venire. La sua prima caratteristica è quella di vivere ciò che annuncia. Infatti sta nel deserto, già fuori dall'ingiustizia e in marcia verso la libertà. Insoddisfatto di tutto ciò che è vecchio, è in attesa del nuovo. L'uomo è qualificato da ciò che attende. “Troppo grande per bastare a se stesso” (Pascal), è sempre sbilanciato, col peso della propria verità davanti a sé. Per questo è nostalgia del futuro, con il cuore punto dal dolore di ciò che ancora non c'è. Attratto dal desiderio, è sempre in ricerca di ciò che per lui è l'essenziale, la sua stella che ancora gli manca. A differenza di tutte le altre cose, che sono ciò che sono, l'uomo in realtà è ciò che ancora non è, e diventa ciò verso cui tende. Di natura “eccentrico”, con il suo centro fuori di sé, è necessariamente viator, in cammino verso il suo “luogo naturale”, che gli sta sempre un po' più avanti. Come l'albero cresce verso l'alto e il sasso cade verso il basso, così l'uomo è misteriosamente attirato verso il suo volto nascosto. Il Battista è l'uomo dei desideri, e ne dichiara prossimo il compimento: colui che viene dietro di lui sarà il baciarsi di ogni attesa dell'uomo e di ogni promessa di Dio. Infatti ci battezzerà (= immergerà) nello Spirito Santo (= vita di Dio). In Gesù, il Dio che si immerge nella realtà umana, l'uomo si immerge nella vita di Dio. In sintesi, il v. 1 ci dice le caratteristiche, il contenuto e la divisione generale del vangelo, che è Gesù Cristo, Figlio di Dio; i vv. 2-3 evidenziano in breve l'attesa fondamentale di Israele - la venuta del Signore e la fine della nostra schiavitù; i vv. 4-8 ci presentano il Battista come incarnazione dell'attesa, che ormai sfocia nel compimento. Gesù è l'atteso: è il Signore che viene a immergerci nel suo Spirito, compiendo così la sua giustizia e guidandoci nel ritorno dall'esilio a casa. Il discepolo deve coltivare in sé quei desideri che Dio ha suscitato in Israele con la sua parola e che il Battista testimonia esemplarmente: la sete di fraternità e di libertà, il coraggio di uscire, la forza di affrontare il deserto, la conoscenza del peccato e dei perdono, la volontà di conversione, l'attesa del “più

forte” che viene e del dono del suo Spirito. Tutto ciò che Gesù farà e dirà nel seguito del vangelo, sarà progressivamente capito e sperimentato da chi ha queste disposizioni, che per altro, più che presupposte, verranno suscitate dalla sua azione e dalla sua parola. 2. Lettura del testo v. 1 Principio. In questa parola echeggia l'inizio della Bibbia, quando Dio creò l'universo (Gn 1,1). Egli non è antagonista, bensì sorgente della sua creatura. Gesù è il principio di un mondo nuovo, con cieli nuovi e terra nuova, dimora dell'uomo nuovo. Vangelo. Significa “buona notizia”, che dà gioia. Si capisce meglio la parola “vangelo” se la si confronta con “legge”. Questa fa conoscere il limite del bene, vieta e denuncia il male, giudica e condanna chi lo compie. Suo principio immediato è la coscienza. Ma fin dall'inizio l'uomo ha confuso Dio con la legge: lo ha considerato solo come padre, e per di più in modo umano e parziale; e l'ha scambiato con il proprio super-io. Certa predicazione può aver favorito questo equivoco. Il “vangelo” è la buona notizia che Dio non è il padre-padrone, giudice onniveggente e spietato. Egli non è il divieto supremo, ma la possibilità ultima dell'uomo. La coscienza giustamente ci stimola, ci giudica e ci condanna. Ma è una menzogna mortale travestirla da Dio. Egli infatti è padre in quanto madre, che perdona e accoglie sempre, con un amore proporzionale al bisogno del figlio. Più il male ci allontana da lui, più lui ci si fa vicino. La nostra miseria è l'unica misura della sua misericordia. Solo la croce rivelerà chi è Dio per noi e chi siamo noi per lui: lui è amore senza limiti e noi siamo suoi figli, amati in proporzione al nostro peccato. Il vangelo, attraverso il racconto della vita di Gesù, ci dona questa nuova esperienza di Dio. Infatti è “potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” (Rm 1,16). Marco utilizza il termine “vangelo” sette volte (13.14.15; 8, 35; 10, 29; 13,10; 14,9). Indica sia l'annuncio fatto da Gesù che l'annuncio fatto su di lui che è insieme annunciatore e annunciato. Egli infatti è presente nella parola su di lui, come il maestro interiore che parla al cuore e lo apre ad accoglierla (At 16,14). Il termine “vangelo” trova il suo complemento nel termini paralleli “Parola” e “regno di Dio”. Gesù. La “buona notizia” è Gesù stesso. La sua “carne” ci rivela chi è Dio. Tutto il vangelo parla di lui, contenuto di tutti i racconti. Quando diciamo: “Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio, il Salvatore e il Signore”, dobbiamo stare attenti a non proiettare su di lui le nostre paure e i nostri desideri, facendone l'attaccapanni di tutto l'armamentario del nostro “senso religioso”. Questo sta all'origine di ogni religiosità servile in nome di Dio e di ogni ateismo in nome dell'uomo - infatti il Dio che le religioni propongono è il medesimo che l'ateo nega. Invece di dire: “Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio”, dovremmo dire: “II Cristo e il Figlio di Dio. È Gesù”. Quest'inversione tra soggetto e predicato non è un gioco di parole. Serve per guarirci dalla perversione della nostra immagine di Dio. Infatti il soggetto è la “x” ignota di cui affermo il predicato, che è noto. Ora Dio nessuno l'ha mai visto; solo il Figlio, che è nel seno del Padre, lo ha rivelato (Gv 1, 1 8). Gesù quindi è il predicato, che ci manifesta un Dio sorprendente, totalmente altro rispetto a quello di ogni religione e di ogni ateismo. Ciò che lui fa e dice è una continua smentita di ogni nostra ovvietà e la sua croce sarà la distanza infinita che Dio ha posto tra se stesso e l'idolo (Bonhoeffer). L'uomo, in genere, più che ateo, è idolatra. Si fa di Dio l'idea che può, e l'accetta o rifiuta secondo la propria convenienza, ponendo il proprio assoluto in lui o nella negazione di lui.

L'ateismo può essere letto positivamente come istanza anti-idolatrica negazione di un Dio troppo facilmente immaginato e desiderio di uno diverso. Egli infatti è santo, radicalmente altro da ogni nostro ragionare su di lui. Il senso religioso porta in sé una domanda legittima, inalienabile dal cuore dell'uomo; ma non può generare una risposta sensata. t un giusto appetito naturale, che, se non si apre a Dio così come si rivela nella carne di Gesù, scambia i propri succhi gastrici per cibo. D'altra parte nessun appetito può produrre ciò che lo sazia! Non a caso Gesù verrà condannato a morte per bestemmia (14,64) e sarà riconosciuto Dio solo sulla croce e dalla persona meno religiosa (15,39). La storia di Gesù è la critica più radicale di ogni religione e di ogni ateismo: spiazza tutti, giusti ed empi, presentando l'umanità di un Dio ucciso dai giusti e morto in croce per gli empi - e quindi salvezza per tutti. Il vangelo vuole illuminarci su chi è Gesù. “Chi è costui?” è la domanda di Marco. La sua identità, suscitata prima come problema attraverso le sue azioni, è rivelata poi attraverso la “Parola”, che illumina il mistero di un Dio crocifisso per l'uomo. La prima parte narra i miracoli, e, liberando i nostri desideri profondi, ci fa vedere in lui la nostra speranza, il Cristo (8,29). La seconda parte purifica questi desideri, confrontandoli con “la parola” della croce, per giungere all'illuminazione che ci fa vedere in lui il Figlio di Dio (15,39). Il vangelo è tutto un'educazione del desiderio, prima suscitato e poi decantato da ogni scoria di egoismo. Cristo. È il primo attributo di Gesù. È una parola greca che traduce l'ebraico “messia”, e significa “unto”, cioè re (i sovrani si consacravano con l'unzione). Il re è l'immagine di Dio in terra: libero e potente, è l'uomo ideale, ideale di ogni uomo. In Israele c'era l'attesa di un capo che, a differenza di tutti gli altri che dominano e opprimono (10,42 ss; cf Gdc 9,8-15; 1Sam 8,1 ss), avrebbe portato al mondo la giustizia e la libertà di Dio, secondo la profezia fatta da Natan a Davide (2Sam 7,12-16). Questa parola era quasi diventata il cognome di Gesù. Marco le ridà il suo significato originario, usandola solo qui e a metà vangelo (8,29). Le azioni che lui fa mostrano e realizzano chi è il Cristo. Egli è il compimento di ogni attesa dell’uomo, finalmente restituito a se stesso nella sua integrità interna ed esterna: il lebbroso è mondato, lo zoppo cammina, la mano pietrificata si apre, cessa il dominio del male, della malattia e della morte, c'è un pane misterioso che nutre una vita nuova, guarendo orecchio, lingua e occhio, perché l'uomo ascolti, comunichi e veda. E interessante notare che Gesù non è “il” Cristo. La mancanza dell'articolo determinato vuoi dire che lui non è quel Cristo che ci aspettiamo noi. Infatti Israele attendeva un messia glorioso. Gesù invece sarà un messia che muore in croce. Figlio di Dio. L'assenza dell'articolo davanti a “Figlio” e “Dio” equivale all'articolo indeterminato: indica che ci si presenta un modo di essere Figlio e di essere Dio diverso da quello a noi noto. La seconda parte del vangelo, invece delle azioni e delle parabole di Gesù, espone la “Parola”. Essa dichiara la “passione” di Dio per noi, e lo rivela direttamente. Invece di dire ciò che fa per noi, dice, in ciò che noi gli facciamo, ciò che lui stesso si fa per noi: amore fino alla morte, e alla morte di croce! Lì, per la prima volta, conosciamo Dio ed è attribuito a Gesù il titolo di Figlio (15,39). v. 2 Come sta scritto in Isaia profeta. Marco legge l'opera del Battista alla luce dell'AT, servendosi di una citazione composita da Malachia e Isaia, attribuita a quest'ultimo. La prima parte della citazione (v. 2) indica Giovanni come un “angelo” che precede la venuta del Signore per il giudizio e annuncia il suo

giorno (MI 3,1 ss). La seconda (v. 3) lo indicherà come “la voce” che annuncia la libertà dall'esilio (Is 40,3). Ecco, io mando il mio angelo, ecc. Echeggia Es 23,20, dove Dio promette a Israele un angelo che lo difenda e lo conduca nella terra promessa. Le parole sono di Ml 3,1 ss, che parla della venuta del Signore, del “suo” giorno e del “suo” giudizio. La giustizia di Dio, secondo la Bibbia, è diversa dalla nostra che, nella migliore delle ipotesi, “dà a ciascuno il suo”. Essa invece capovolge la situazione esistente, togliendo a chi ha e dando a chi non ha (cf il Magnificat). Infatti parte dal presupposto che Dio è Padre e noi siamo fratelli, quindi uguali e liberi. Nelle nostre esperienze storiche la giustizia è sempre zoppa: quando c'è uguaglianza manca la libertà, quando c'è libertà manca l'uguaglianza. E questo necessariamente, perché manca l'origine di ambedue: la fraternità. Questa però resterà sempre ideologia, e non sarà mai realtà, se non c'è un Padre comune. Il dramma dell'umanesimo ateo è quello di una contraddizione in termini, perché chi perde Dio, perde anche l'uomo, che è sua immagine. Non resta che l'angoscia nel cuore e il nulla nella mente, rispettivi oggetti del sentire e del pensare moderno. Eguaglianza e libertà possono scaturire - anche se lentamente e imperfettamente - solo come volto concreto di una paternità comune. Questa, che nasce dall'amore, è una “giustizia superiore” (Mt 5,20), secondo la quale ognuno è figlio di Dio e si comporta con gli altri da fratello. Non ha senso parlare di Gesù e di ciò che egli compie se non si ha sete di questa giustizia (cf Lc 4,1821), che trasforma la nostra situazione da “homo homini lupus” in “homo homini deus”. Il brano citato da Malachia, come molti altri nella Bibbia, contiene minacce. Bisogna abituarsi a leggerle come quelle di una mamma che dice al figlio: “Non cadere nel pozzo, se no muori”. Si tratta di un avvertimento amorevole ed energico a non fare quel male che inavvertitamente si sta facendo. Il fine di tutte le minacce profetiche non è il male inevitabile e la punizione conseguente, ma il pentimento. Esse sortiscono il loro effetto proprio quando non si realizzano. La profezia di sciagure quindi non dice mai un evento fatale; interpella invece la libertà dell'uomo perché si converta (cf il libro di Giona). v. 3 Voce di uno che grida nel deserto. È citazione da Isaia (40,3), inizio del “libro della consolazione”, in cui il Deuteroisaia “consola” il popolo in esilio. Per la sua infedeltà ha guastato ogni dono di Dio: la libertà, l'alleanza e la terra. L'esilio di Babilonia è peggiore della schiavitù d'Egitto. Tutto è irrimediabilmente perso, a causa del proprio peccato; ormai non c'è più speranza. Ma il profeta dice di prepararsi al ritorno nella patria, perché è finita la schiavitù. A Dio nulla è impossibile, perché lui è il Signore della misericordia, ed è insieme il Signore dell'universo e di tutta la storia. Il vangelo è per chi crede che la promessa di Dio è più grande di ogni fama (Sal 138,2), e non pensa che l'aspirazione al bene sia solo illusione e madre di delusioni. Giovanni è la voce” e Gesù sarà la “parola”. Come la parola non può esprimersi senza voce, così Gesù non può esprimersi senza Giovanni e le sue richieste; e come la voce senza parola è priva di senso, così ogni nostro desiderio senza Gesù rimane privo del suo vero senso. Si può dire che tutta l'umanità è come un vociare confuso e inarticolato, che trova in lui la parola che pienamente la esprime. v. 4 venne Giovanni a battezzare nel deserto. Il deserto è il cammino tra la schiavitù e la libertà, tra Egitto/Babilonia e la terra promessa. Tensione tra un non-più e un non-ancora, è una distanza da attraversare per non tornare indietro o morire sul posto. È un luogo importante, perché in esso Dio rivela se stesso e la sua fedeltà, formandosi ed educandosi pazientemente un popolo. La nudità del deserto, alternativa allo stordimento della schiavitù e alla nostalgia dell'esilio, insegna a conoscere se stessi e Dio. Il battesimo di Giovanni, riportando al deserto, riconduce all'esperienza originaria di disponibilità a conoscere e accogliere l'azione di Dio.

proclamare un battesimo. Il battesimo è un gesto insieme di immersione e di emersione dall'acqua. 1 due movimenti opposti, che indicano rispettivamente morte e rinascita, esprimono il desiderio di una vita che non finisce inevitabilmente nel suo contrario. In natura c'è prima la nascita e poi la morte che uccide la vita; qui c'è prima la morte che uccide una vita per la morte e poi la nascita a una vita nuova oltre la stessa morte. Il battesimo di Giovanni non è una semplice drammatizzazione di aspirazioni religiose: è invece un rito che visibilizza all'esterno le disposizioni interiori di conversione. di conversione. In ebraico la parola, come in italiano, indica un cambiamento di direzione, un girarsi di 180'. In greco significa mutar testa, cambiare modo di pensare. È l'appello costante dei profeti. Convertirsi significa riorientare la vita, indirizzandola su Dio e la sua promessa. In questo volgersi a lui l'uomo torna ad essere se stesso, riflettendo colui di cui è immagine. “Sarete come Dio” (Gn 3,5), prima che incentivo al peccato a causa dell'ignoranza su Dio, è la grande promessa di chi ci ha voluti simili a sé. per il perdono. Non è che Dio perdoni perché ci siamo convertiti; egli da sempre perdona e per questo possiamo convertirci. Il suo perdono precede la nostra conversione, e la rende salvifica. Perdonare è l'opera di Dio per eccellenza, in cui rivela la sua essenza intima, altrimenti ignota: la misericordia. dei peccati. Peccare in ebraico significa “fallire il bersaglio”. Peccatore è chi non raggiunge il suo fine, come una freccia che manca il segno. Siccome il fine dell'uomo è amare Dio come è da lui amato, il peccato è l'incapacità di amare, che taglia all'uomo le sue relazioni e lo chiude in una solitudine infernale. Se il delitto è trasgressione di una norma e conosce solo il castigo, se la colpa è ferita del proprio superio e conosce solo l'espiazione, il peccato è rottura di una relazione con l'altro che ama, e conosce il dolore e il perdono. Deserto, conversione, peccato e perdono sono i termini fondamentali dell'esperienza d'Israele. Giovanni li sintetizza nel gesto simbolico del battesimo, usuale alla sua epoca e facilmente comprensibile a tutti. v. 5 E usciva verso di lui tutta la regione, ecc. La Giudea e Gerusalemme non sono più il luogo verso cui andare, ma da cui uscire. Ognuno deve uscire dai suoi “luoghi santi”, dalle sue immagini di Dio, per incontrare colui che viene. confessando i loro peccati. Ognuno riconosce il proprio peccato, lavando le proprie impurità nel Giordano, dove subito dopo si immergerà Gesù. Il “vangelo di Gesù” (= la buona notizia di Dio che salva) è destinata a chi si sa perduto; ne è escluso solo chi si ritiene giusto e non sa o non osa confessarsi peccatore. v. 6 vestito di peli di cammello. È la divisa di Elia, padre dei profeti (2Re 1,7s; 2,8), di cui Giovanni è l'ultimo figlio. Il cammello, che porta i pesi altrui e attraversa il deserto, è un'immagine di Cristo. Giovanni ne è già come rivestito. secondo le parole di Paolo ai cristiani di Roma: “Rivestitevi di Cristo” (Rm 13,14). Egli, pur venendo prima, è uno che gli va “dietro”. È il primo discepolo, che lo segue precedendolo di un passo. una cinta di pelle ai fianchi. Fa parte sia della divisa del profeta che del pellegrino. I “fianchi cinti” (Lc 12,35) indicano simbolicamente la continenza, la sobrietà, la padronanza di sé e la disponibilità al cammino propria di chi deve compiere l'esodo pasquale (Es 12,11).

mangiava locuste. È un cibo da asceta, disponibile anche nel deserto (Lv 11,22). Secondo una tradizione antica, le cavallette, che combattono e uccidono i serpenti, sono un'immagine della parola di Dio, nutrimento dell'uomo (Dt 8,3), verità che vince il serpente e la sua menzogna. miele selvatico. Altro cibo da deserto, anch'esso è figura della parola di Dio, più dolce di un favo di miele (Sal 19,11; 119,103; Ez 3,3). Per questo dice Geremia: “Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità, la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore” (Ger 15,16). Giovanni quindi fa della parola il suo cibo, che gli permette di vincere il male e gustare il bene. v. 7 Viene. Il messia e il Signore stesso è designato come “colui che viene”. Al venire da parte sua deve corrispondere l'attesa da parte nostra. Diversamente è inutile la sua venuta. Il Battista è tutto proteso verso di lui. dietro di me. Per sé sarebbe il discepolo che “viene dietro” (8,34). quello più forte di me, ecc. In realtà qui viene dietro il maestro. La sua maestà è tale che il più grande dei profeti non è degno di prestargli il più umile servizio. v. 8 lui vi battezzerà in Spirito Santo. Gli ebrei attendevano un'effusione dello Spirito per gli ultimi tempi (Gl 3,1), collegata con una purificazione mediante l'acqua (Ez 36,25 s). Colui che viene, dice Giovanni dilatando all'infinito ogni promessa, ci battezzerà nello Spirito (= vita) Santo (= di Dio), ossia ci immergerà nella vita stessa di Dio. Questo è il dono che Gesù ci farà con il suo battesimo, quando affogherà nella nostra morte per darci la sua vita. Il desiderio abissale che Dio ha messo nell'uomo è bisogno di lui: ora lo colma pienamente con il dono di sé. Questo è il suo stesso desiderio, a sempre. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come indicato a p. 9. 2. Mi raccolgo osservando il luogo: il deserto al di là del Giordano, dove Giovanni battezza e tutti accorrono. 3. Chiedo ciò che voglio: le disposizioni di desiderio e di attesa del Battista. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Misuro i miei desideri profondi con l'attesa biblica di giustizia e di libertà. Da notare:

4.

principio vangelo Gesù Cristo Figlio di Dio deserto battesimo

conversione perdono peccati viene dietro di me quello più forte di me acqua Spirito Santo

Passi utili: MI 3; Is 40, 1 -1 l; 2 Pt 3, 8-14; Sal 85.

2. TU SEI IL FIGLIO MIO, IL DILETTO (1,9- 11) 9

E avvenne in quei giorni: venne Gesù da Nazaret della Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. 10 E subito, salendo dall'acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito come colomba scendere su di lui. 11 E venne una voce dai cieli: Tu sei il Figlio mio, il diletto; in te mi compiacqui! 1. Messaggio nel contesto “Tu sei il Figlio mio, il diletto”, dice il Padre a Gesù, che si è immerso nel Giordano, affogato nel peccato delle folle che accorrono alla predicazione del Battista. Dio ha avuto tutta l'eternità per riflettere. Eppure, per presentarsi a noi e salvarci, non ha trovato altro modo che questo scandaloso: mettersi in fila coi peccatori. Gesù si rivela il Figlio andando coi fratelli più bisognosi; e il Padre lo approva solennemente. Il battesimo rappresenta la scelta fondamentale di Gesù: la solidarietà. Questa scaturisce dalla sua natura di Figlio. Conoscendo l'amore del Padre, vuol manifestarlo a tutti attraverso la sua fraternità. Se i vv. 2-8 ci dicono come è l'uomo davanti al Signore che viene, i vv. 9-11 ci fanno vedere come è il Signore davanti all'uomo. Il battesimo è la porta d'ingresso nel vangelo. Chi non passa da qui, rimane intrappolato nelle proprie attese religiose e non conosce Dio e il suo dono. Il Battista ci ha appena parlato di colui che battezzerà in Spirito Santo. Ma questi, sorprendendo tutti, si fa battezzare da lui nell'acqua, e proprio così ci darà il suo Spirito. Nessuno avrebbe mai pensato che il Signore si sarebbe immerso fino in fondo nella nostra umanità, e ci avrebbe dato la sua vita prendendosi in cambio la nostra morte. Lui ci ama, e desidera unirsi a noi. Non potendo noi salire a lui, è sceso lui verso di noi. La scena del battesimo descrive nel modo più divino il mistero dell'incanazione: lui si è fatto uomo, solidale con noi in tutto, perché noi diventassimo Dio, solidali in tutto con lui. La sua umanità è il principio della nostra divinizzazione. In questo modo Gesù inizia il suo ministero. Invece di grandi discorsi programmatici, fa un'azione vera, compiendo una scelta e assumendo uno stile che guiderà tutta la sua vita. Questo quadro iniziale infatti anticipa già quello finale (15,27-39): qui lo vediamo in fila coi peccatori, là lo vedremo in croce in mezzo a loro; qui inizia il suo servizio regale, là lo vedremo definitivamente sul trono; qui si immerge nell'acqua da cui noi tutti nasciamo, là affogherà nella morte da malfattore di cui tutti moriamo; qui si squarciano i cieli, là il velo del tempio; qui scende lo Spirito, là “spirò”; qui una voce dal cielo lo proclama Figlio, là una voce dalla terra lo riconosce tale. Il battesimo ha un carattere “passionale”. Rivela quella passione di Dio per noi che si fa compassione e non ci abbandona mai. Il battesimo è come un seme, che già contiene il grande albero del Regno, la croce.

È una miniatura accuratissima, che cesella quei lineamenti del “Figlio”, dei quali il seguito del vangelo sarà come un ingrandimento. Se è vero che il Figlio è come il Padre, allora anche Dio è totalmente diverso da quello che ogni religione afferma e ogni ateismo nega: chi avrebbe pensato un Dio in fila coi peccatori, umile e solidale con noi? E l'immagine più potente di un Dio che nessuno mai ha visto, e che ora ci fa vedere il suo vero volto. Nel racconto si evidenziano i due titoli di Gesù che corrispondono alle due parti del vangelo: egli è il Cristo, perché pieno di Spirito Santo (v. 10), ed è il Figlio di Dio, perché servo che dà la vita per i fratelli (v. 11). Gesù è il “più forte” che attendiamo. Ma viene con la forza di Dio che, essendo amore, è debolezza estrema. L'amore infatti si spoglia e dona tutto, fino al dono di sé. È il Cristo e Salvatore nostro perché sceglie di essere in tutto solidale con noi; è il Figlio di Dio e Signore nostro perché, compiendo la volontà del Padre, si fa servo dei fratelli. Il discepolo, battezzato nel suo stesso battesimo, riceve il suo stesso Spirito di figlio che lo rende fratello di tutti. 2. Lettura del testo v. 9 E avvenne. Nel vangelo si racconta una storia, qualcosa che è avvenuto una volta per sempre, e avviene sempre ogni volta che si ascolta. in quei giorni. Sono i giorni dell'annuncio di Giovanni: i giorni del desiderio, della conversione e dell'attesa. venne. Indica la venuta del Signore, “colui che deve venire”. Gesù. Significa “Dio salva”. Il suo nome corrisponde a ciò che lui è e fa. Marco non ha parlato di incarnazione o di natività. Ci ha detto di lui nient'altro che il nome nel titolo. All'improvviso, mentre da peccatori confessi ci troviamo sulle rive del Giordano, ci viene incontro quest’uomo ignoto, di cui si dice solo il nome, per altro assai comune. Quelli che lo conoscono sanno che è carpentiere (6,3). È un mestiere di poco conto, fatto da chi, non avendo terra per vivere, si adatta a quel lavoretti che in genere i contadini si fanno da sé! da Nazaret. È un paese piccolo, senza gloriose tradizioni. “Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?” (Gv 1,46). Lì dimorò circa trent'anni - tutta una vita! Questi lunghi anni di silenzio e lavoro sono un grande mistero. Dio ha scelto di condividere con noi la quotidianità, la fatica del mestiere di vivere. Ciò che consideriamo normale, ordinario, addirittura banale, è il luogo privilegiato del nostro incontro con lui. della Galilea. È una regione squalificata dal punto di vista religioso. Zona di confine, lontana dal centro, piena di contaminazioni pagane, è la Galilea delle genti (Is 8,23 = Mt 4,15). fu battezzato. Gesù, uomo qualunque e sconosciuto. anzi squalificato per chi conosce il suo lavoro, il suo paese e la sua regione, si mette in fila coi peccatori, e si fa battezzare. Marco, fin dal principio, ci chiama a vedere il nostro Salvatore e Signore in questo uomo, ultimo della fila: “Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore viene con potenza”, continua la citazione del v. 2 (Is 40,9 s). È scandaloso! Nessuno

avrebbe mai pensato un Dio così. Ma questa sua solidarietà, che lo conduce all'estrema debolezza, manifesta la potenza di un amore che lo rivela come unico e Signore. La sua “simpatia” per noi, che qui contempliamo, lo porterà lontano, molto lontano, fino a “patire con” noi e per noi la nostra morte. Egli è l'Emmanuele, il Dio amore che non può non essere il “Dio con noi”. Il vecchio Adamo si innalzò per rapire l'uguaglianza con Dio, e cadde nella morte. Il Figlio di Dio si abbassa e familiarizza con l'uomo fin nella morte, e viene innalzato a una vita nuova. Il nuovo Adamo compie la scelta contraria a quella del vecchio. Il suo battesimo è figura della sua morte. Nell'acqua del Giordano egli si immerge nel peccato di tutti quelli che vi accorrono. Noi usciamo mondi, e lui carico del nostro male. Colui che non conobbe peccato, si è fatto per noi peccato e maledizione (2 Cor 5,21; Gal 3,13). Gesù ha scelto di stare con l'uomo da una parte precisa, là dove lui stesso si divide e desolidarizza da sé e dagli altri: nel suo limite e nel suo peccato, nel suo male e nella sua morte. Lui è “con noi” proprio dove noi siamo soli e perduti, indigenti di compagnia umanamente impossibile. La sua compassione gli ha fatto valicare il limite della nostra solitudine estrema. La contemplazione di Gesù in fila coi peccatori, che si immerge nell'acqua, ha il potere di svelenarci dalla menzogna del serpente; ci corregge la falsa immagine di un Dio onnipotente, giudice tremendo, e ci presenta la potenza di un amore che si spoglia di tutto e si fa servo, portando su di sé il peso del nostro male. L'incontro con lui avviene dove pensiamo che lui sia massimamente assente: nella nostra parte negativa, nella nostra e nella sua debolezza. Se la sua potenza ci ha creati, la sua impotenza ci ha salvati. da Giovanni. Immaginate la sua sorpresa (cf Mt 3,14)! La sua attesa di uno più forte di lui è totalmente spiazzata. Senza la rivelazione dello Spirito, nessuno può cogliere il mistero della debolezza di Dio. v. 10 salendo dall'acqua. L'immersione simboleggia la morte, l'emersione la vita nuova, oltre la morte. La sua scelta di immersione contiene già l’emersione: infatti esprime un amore più forte della morte. vide squarciarsi i cieli. L'apertura del cielo, chiuso sopra l'uomo, è la grande attesa messianica: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi” (Is 63,19). La scelta di Gesù toglie ogni separazione tra Dio e uomo: la sua solidarietà rende Dio presente ovunque. lo Spirito scendere. La vita (Spirito) di Dio (Santo) scende sulla terra e la abita, restituendo all'uomo il suo volto di figlio. Lo Spirito di Dio, che è solidarietà, amore, umiltà e servizio, in Gesù è ormai presente tra di noi. Egli fa nuove tutte le cose: dà un cuore nuovo e fa rivivere le ossa aride (Ez 36,26: 37,1 ss). come colomba. La colomba richiama l'arca di Noè (Gn 8,8 ss), figura del battesimo, che segna l'inizio di una vita salvata dalle acque. Il suo volteggiare sul Giordano richiama anche lo Spirito di Dio che aleggiava sulle acque ai primordi della creazione (Gn 1,2), e le ali possenti che portarono Israele attraverso il mar Rosso (Es 19,4). Il battesimo di Gesù è principio di una vita oltre la morte, di una creazione nuova e dell'esodo definitivo. Inoltre la colomba, che incessantemente tuba, si adatta bene a raffigurare lo Spirito di Dio, che da sempre canta all'uomo il suo amore, in attesa di risposta. v. 11 venne una voce dai cieli. Dio non ha volto, ma voce. Il suo volto è quello di chi ne ascolta la parola. Questi è suo figlio, a sua immagine e somiglianza. Tu sei il Figlio mio (cf 9,7). Gesù, facendosi fratello, ha ascoltato il Padre, che lo conferma suo Figlio. Uno che ama così, non può essere che “il” Figlio, infinitamente amato. In queste parole risuona il Sal

2,7, che parla dell'intronizzazione regale. Gesù, con la sua scelta, è il re voluto da Dio - Dio stesso che regna e salva l'uomo. La confessione di Gesù come Figlio fa da inclusione a tutto il vangelo: proclamata dal Padre quando si mette in fila coi peccatori, è riconosciuta dal centurione quando muore tra i malfattori (15,39). Il Padre la riconfermerà anche a metà vangelo, dopo il preannuncio della croce (9,7). L'unico modo di rivelare di essere Figlio è condividere per amore la sorte dei fratelli più svantaggiati. Gesù è il Figlio perché “non si vergogna di chiamarci fratelli” (Eb 2,11). Dopo il titolo (1,1), solo il Padre (1,11; 9,7) e lui stesso (cf 8,38: il Padre suo; 12,6; 13,32) sono autorizzati a parlare di tale figliolanza. La gridano anche i demoni, ma per tentarlo (3,11; 5,7); e la menzionano i nemici, ma per condannarlo (14,61). C'è infatti un modo divino e un modo diabolico di riconoscerlo. Solo la sua morte toglie ogni ambiguità. La croce infatti sdemonizza l'immagine di Dio, rivelandocelo pienamente nel Figlio. il diletto (cf 12,6). Significa unico, e ricorda Gn 22,2, che parla del sacrificio del figlio Isacco. in te mi compiacqui. Richiama il primo canto del servo di JHWH (Is 42,1), che descrive colui che salva il mondo, facendosi carico di tutte le sue iniquità. La voce del Padre quindi proclama l'identità di Gesù: è Cristo e Figlio, Salvatore e Signore proprio in quanto sacrificato a servizio dei fratelli. L'identità del Figlio rende visibile la verità del Padre, finora inaccessibile: “chi vede me, vede il Padre” (Gv 14,9; cf 12,45). 3.Esercizio 1. Entro in preghiera, come indicato a p. 9. 2. Mi raccolgo osservando il luogo: sulle rive del Giordano, dove Gesù è in fila coi peccatori. 3. Chiedo ciò che voglio: conoscere in Gesù battezzato il mistero profondo di Dio. 4. Contemplo ogni parola del testo. Da notare:

Gesù da Nazaret della Galilea fu battezzato si squarciò il cielo

scende lo Spirito Tu sei il Figlio mio In te mi compiacqui

4. Passi utili: Is 55,1-11; 1Gv 5,1-9; Is 12,2-6; Gn 22; Sal 2; Is 42,1-9; Fil 2,6-11.

3. LO SPIRITO LO GETTA FUORI NEL DESERTO (1,12-13) 12

E subito lo Spirito lo getta fuori nel deserto. 13 Ed era nel deserto per quaranta giorni tentato da satana; ed era con le fiere,

e gli angeli lo servivano. 1. Messaggio nel contesto “Lo Spirito lo getta fuori nel deserto”, dice Marco di Gesù. Il suo battesimo, come il passaggio del mar Rosso, segna la fine della schiavitù. Ora rimane però da attraversare il deserto, insidiato dal nemico che vuol perderci, bloccandoci o facendoci tornare indietro. Compiuta la scelta, si pagano i costi per mantenerla fino alla fine. Adamo non aveva ascoltato la parola di Dio e fu scacciato dall'Eden nel deserto. Lo Spirito ora vi scaglia il nuovo Adamo, il Figlio che ascolta la Parola. Lì incontra tutti i suoi fratelli, e li riconduce nel paradiso perduto. Il battesimo di Gesù ci presenta un Dio solidale con il nostro male e la nostra morte; le sue tentazioni ci fanno vedere un Dio solidale con la nostra fatica di vivere in libertà. Il Cristo, che emerge grondante dall'acqua con lo Spirito nell'intimo, richiama Mosè, il pastore che guida il gregge di Dio nell'esodo (Is 63,11). Come lui, percorre il cammino di Israele dall'Egitto alla terra promessa, quando tutti furono tentati e caddero; ripercorre vittorioso la storia di ogni uomo, che da sempre è caduto e per questo non raggiunge la patria del suo desiderio. Prima dell'attività apostolica, Gesù è tentato di realizzare il regno del Padre in modo più efficace e comodo, senza restar fedele alla scelta compiuta nel battesimo. Per gli altri sinottici le tentazioni si inseriscono nella “fame” (Mt 4,2; Lc 4,2), ossia nel bisogno che l'uomo ha o è in relazione alle cose, alle persone o a Dio. È costante il pericolo di soddisfare questa fame col possesso invece che col dono unico cibo che sazia - e di non discernere le priorità e le alternative false da quelle vere. Matteo e Luca inoltre dicono espressamente che è tentato, in quanto Figlio di Dio, di usare quegli strumenti che il nostro buon senso considera ovvi: l'avere, il potere e il prestigio religioso. Ma questo significherebbe rimangiarsi la solidarietà con i fratelli - unica scelta del Figlio approvata dal Padre. Quanto è allettante essere figli di un Dio padrone e onnipotente, altrettanto è scomodo essere figli di un Dio “servo”, che è amore, povertà, servizio e umiltà. Gesù, come ciascuno di noi da Adamo in poi, fu tentato “a fin di bene”. Ci sono opportunità, che in realtà sono false; ci sono scorciatoie, che poi fanno perdere la strada! Non è forse a fin di bene che si fa tutto il male del mondo? Non bisogna agire “a fin di bene”, bensì agire bene. Perché il bene è tale solo se è bene insieme nel principio, nel mezzo e nel fine. Non è mai vero che il fine giustifica i mezzi! Questi sono sempre della natura di quello. Il brano, come il precedente, si articola in due parti: la prima ci presenta Gesù che, vittorioso sulla tentazione, è il Cristo, l'uomo nuovo, riconciliato con la natura e in condizione paradisiaca; la seconda ce lo presenta come Figlio di Dio, servito dagli angeli. In Gesù tentato tutta l'umanità fu tentata. In lui vittorioso, tutta l'umanità ha già vinto il male. È il nuovo Adamo. Il discepolo è colui che, unito a lui nel battesimo, vive la stessa scelta e la stessa difficoltà di mantenerla. Ha il suo medesimo Spirito di solidarietà coi fratelli, e vi resta fedele nonostante gli inganni del nemico. Spesso ha difficoltà a riconoscerli; e, quando li riconosce, si abbatte. Bisogna tener presente che il nemico dà tanta buona volontà a chi manca di intelligenza; a chi ha intelligenza, cerca di togliere la buona volontà, scoraggiandolo. Il Signore invece dà discernimento a chi ha zelo, perché non faccia il male credendo di fare il bene; e dà zelo a chi ha discernimento, perché non si scoraggi nel fare il bene. Sappiamo comunque che in ogni tentazione non siamo soli e abbandonati. Siamo “consolati” dalla presenza di lui, che per questo ha voluto essere tentato con noi e come noi: “Non abbiamo un sommo

sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi” (Eb 4,15). 2 Lettura del testo v. 12 lo Spirito. È lo Spirito dei Figlio, che si è manifestato visibilmente nella scelta di solidarietà coi fratelli. lo getta fuori nel deserto. Anche noi, ricevuto il battesimo, dal suo Spirito siamo spinti fuori dall'Egitto e condotti per il deserto, in cammino verso la piena libertà dei figli. Il deserto è il luogo della libertà e della tentazione, della fedeltà di Dio e del dubbio nostro, dell'amore e della contesa reciproca, del cammino e della caduta. Cifra dell'esistenza umana, è ricco di tutti i doni di Dio e di tutti i nostri tradimenti. Fatica di vivere col peso del nostro male - ma anche gioia della nube che protegge, dei fuoco che guida, della manna che nutre, dell'acqua che disseta, della Parola che illumina e dà vita - il deserto è il crogiolo in cui Dio forma l'uomo. Nella solitudine assoluta, senza distrazioni, è costretto a scegliere tra la morte e la vita, tra la sfiducia e la fiducia, tra la propria ombra e la sua promessa. v. 13 era nel deserto per quaranta giorni. I quaranta giorni richiamano la rivelazione di Mosè e il cammino di Elia (Es 34,28; 1 Re 19,1-8). Anche Israele stette nel deserto per quarant'anni, l'arco di una generazione, il tempo di una vita. Ciò significa che l'esistenza intera di Gesù fu deserto e prova, tentazione e lotta, dal principio alla fine. Anche noi, in forza del battesimo, passiamo dalla sudditanza al male alla lotta contro di esso, che dura tutta la vita. Solo chi non sceglie il bene, non è tentato dal male! tentato. La parola greca peîra, da cui peirázo (tentare), significa tentativo e prova, quindi esperimento e cimento, quindi anche esperienza e conoscenza. Deriva da peíro, che significa attraversare da parte a parte, come una punta, ed ha la stessa radice di esperimentare, esperto, pericolo, perito. La vita umana è necessariamente tentazione e sollecitazioni in tutti questi sensi, con la loro ambiguità da dirimere appunto nella libertà di chi può, per tentativi, capire e volere la verità verso cui cammina. da satana. È il nemico dell'uomo. Per sua invidia entrò la morte nel mondo (Sap 2,24). Il suo modo di agire è descritto in Gn 3: fa notare all'uomo il suo limite, gli toglie la fiducia in Dio, suggerendogli che è suo antagonista, e facendogli sembrare bene il male e male il bene. In Marco è il ladro della Parola (4,15). Con la sua menzogna sta all'origine di ogni male, perché l'uomo diventa la parola che ascolta. Se ascolta Dio, diventa come lui, padre della verità e amante della vita (Sap 11,26); se ascolta satana, diventa come lui, padre della menzogna e omicida fin da principio (Gv 8,44). Marco, a differenza di Matteo e Luca, non specifica le tentazioni. Le lascia emergere nel corso del racconto, come pericolo costante di anticipare la gloria del Figlio evitando la croce del servo. Per questo Gesù impone il silenzio al miracolati e ai demoni. È il cosiddetto “segreto messianico”, che sottende tutto il vangelo. Questa tentazione generale si articola in tentazioni particolari, tipiche di ogni uomo. La prima è il “protagonismo”, che fa confondere il regno di Dio col successo del proprio io. Affiora chiaramente dopo la prima giornata messianica, quando gli dicono: “Tutti ti cercano” (1,35). Porre il proprio io come fine assoluto, al posto di Dio stesso, è l'egoismo, causa di tutti i mali. Gesù risponderà: “Andiamo altrove”. La seconda è la ricerca del “potere mondano” per realizzare il regno di Dio. Il fine è giusto, ma il mezzo è sbagliato. Il Regno si realizza non con il potere, ma con l'impotenza di chi dà la propria vita in servizio

dei fratelli. Questa tentazione appare subito dopo la moltiplicazione dei pani, quando costringe i discepoli ad andare via (6,45). Sappiamo da Giovanni che volevano farlo re (Gv 6,15). La terza tentazione è la ricerca del “potere religioso”. Consiste nel voler piegare Dio alla propria volontà, invece di piegarsi alla sua. Gesù la subisce nell'orto (14,32 ss). È la lotta definitiva. Cadere è la perversione della fede: invece di obbedire noi a Dio, pretendiamo che lui obbedisca a noi. Credere di avere Dio in tasca è la cosa per noi più facile, e per lui più insopportabile! Tutte queste tentazioni sono impersonate da Pietro, quando rifiuta la Parola della croce (8,31 ss). Gesù lo chiama satana, perché pensa secondo gli uomini, il cui modo di valutare è opposto a quello di Dio. La tentazione maggiore di chi ha il fine buono e usa i mezzi adeguati, è di scoraggiarsi, costatando che il male riesce bene e con facilità, mentre il bene riesce male e con difficoltà - e, alla fine, è sconfitto. È lo scandalo della croce - inefficacia e fallimento del bene. Diceva Marco l'Asceta: “Come le notti seguono i giorni, così i mali seguono le buone azioni”. Sembra proprio che nessuna buona azione resti impunita! La strada iniziata nel battesimo non solo è la più dura, ma sembra anche perdente. Perdente in noi prima che fuori di noi! Ma non c'è da preoccuparsi. Essere tentati è un buon segno. Significa che si sta lottando. Solo chi è già a terra, non cade più. Chi sta in piedi è sempre esposto a cadere ( 1Cor 10,12). Sostenere queste prove è “la” prova che siamo figli di Dio. Egli ci tratta come tali, purificandoci. Diversamente saremmo bastardi (Eb12,8). Per questo, nonostante la sofferenza, siamo pieni di gioia e letizia indicibile (Gc 1,2 s; 1Pt 1,6 ss). Inoltre è da notare che Dio è fedele e non permetterà che siamo tentati oltre le nostre forze; ma con la tentazione ci darà anche la via di uscita e la forza per sopportarla ( 1Cor 10,13). era con le fiere. Gesù, fedele alla parola del Padre, è il nuovo Adamo, che vive quell'armonia con il creato che era all'inizio, prima della disobbedienza. In lui si realizza il desiderio di un'età dell'oro, in cui il lupo dimorerà insieme con l'agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà, ecc.” (Is 11,6 ss). gli angeli lo servivano. La corte celeste, che sta al servizio di Dio, ora sta al servizio di Gesù (cf 13,27). La presenza angelica rivela la sua identità: egli è il Figlio di Dio, proprio in quanto mantiene la sua scelta di servo. Il cielo è definitivamente aperto sulla terra, e si realizza il sogno di Giacobbe. Lui stesso è la scala che congiunge stabilmente Dio e uomo (Gn 28,12). Come lui, ogni battezzato che si trova nel deserto, non è mai solo: sperimenta l'aiuto del Signore nel servizio dei suoi angeli (Sal 91,11s). “Servire” nel NT è espressione concreta dell'amore. Chi serve e ama Dio e i fratelli, è amato e servito dagli angeli, anzi, da Dio stesso, che è amore e servizio. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come le volte precedenti. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: il deserto di Giuda, dove Gesù è spinto dallo Spirito e tentato da satana. 3. Chiedo ciò che voglio: chiedo al Signore di capire il valore della tentazione come purificazione, e gli chiedo intelligenza per riconoscerla e volontà per superarla. 4. Traendone frutto, medito ogni parola del testo. Da notare:

deserto quaranta giorni

Spirito fiere

tentazione angeli

4. Passi utili: Gn 3,1 ss; Dt 8,1 ss; Sal 91; 1Cor 10,1-13; Eb 2,17 s; 12,1-12.

4. È GIUNTO IL MOMENTO (1,14-15) 14

E dopo che Giovanni fu consegnato venne Gesù nella Galilea proclamando il vangelo di Dio, e dicendo: 15 È giunto il momento: il regno di Dio è qui! convertitevi, e credete nel vangelo! 1. Messaggio nel contesto “È giunto il momento “. Sono le prime parole che escono dalla bocca di Gesù. Con quattro brevi frasi due costatazioni seguite da due imperativi - Marco presenta un compendio di tutta la sua predicazione, come annuncio del Regno e chiamata ad esso. Il brano seguente sarà la risposta. Queste quattro espressioni servono anche da “chiave di lettura”. Ogni singolo racconto del vangelo si realizza per me qui e ora nella misura in cui capisco che “è giunto il momento” di accogliere ciò che è detto, perché “il regno di Dio è qui” per me, se mi “converto” e “credo nel vangelo”. La Parola è viva. Chi l'ascolta sperimenta che opera quanto dice; chi la rifiuta sperimenta il vuoto di quanto promette. Il non senso e il silenzio di Dio sono più eloquenti di qualunque discorso sul male. Gesù è il vangelo. Presente e operante nell'annuncio, egli è insieme l'annunciatore e l'annunciato, il compimento del tempo e il regno di Dio. Si entra in esso volgendosi a lui e credendogli; si risponde alla sua chiamata seguendolo nel cammino che indica e apre. Il discepolo capirà tutte queste cose alla fine, quando, visto come Gesù è vissuto e morto, ascolterà l'annuncio che lo proclama risorto e lo invita a tornare in Galilea - cioè qui, all'inizio del vangelo. Lo incontrerà e riconoscerà nella potenza della sua parola, capace di creare la risposta alla sua proposta. 2. Lettura del testo v. 14 dopo che Giovanni fu consegnato. Giovanni diceva che doveva diminuire davanti al Cristo (Gv 3,30). Ora addirittura scompare. L'attesa cessa quando giunge l'atteso; la ricerca si placa nel ritrovamento. Chi non sa cosa cerca, continua a cercare senza trovare; ma chi sa cosa cerca, smette di cercare quando trova. Per questo, quando Gesù inizia, Giovanni finisce la propria attività. E ne anticipa il destino (9,31; 10,33; 14,41 ).

venne Gesù nella Galilea. La sua “venuta” al Giordano continua ora in Galilea per poi diffondersi altrove (v. 38). Qui Gesù è cresciuto, ha lavorato e iniziato il suo annuncio e il suo cammino che lo porterà a Gerusalemme. È il luogo della “quotidianità”, che per Marco diventa il “luogo teologico”, in cui risuona per ciascuno di noi il suo appello. Il finale del vangelo (16,7) ci rimanda ancora qui, in Galilea, dove incontriamo e vediamo il Risorto. proclamando il vangelo di Dio. Il vangelo è “Gesù Cristo, Figlio di Dio” (1,1). Gesù quindi, proclamando il vangelo, proclama se stesso. Egli dice la Parola ed è insieme la Parola detta. Per questo essa è viva ed efficace (Eb 4,12), capace di muovere noi come i primi discepoli. Per Marco solo Gesù predica la buona notizia, che è lui stesso. I discepoli, come Giovanni, predicano la conversione (1,4; 6,12). Egli è l'unico vero maestro, il maestro interiore che si dona e si comunica nella parola annunciata. v. 15 È giunto il momento. Sono le prime parole di Gesù. Con lui è finito il tempo dell'attesa. Il momento presente è proprio quello che Dio ha stabilito per la nostra salvezza. L'uomo ha una concezione circolare del tempo, secondo il ritmo delle stagioni - un nascere per morire, senza novità alcuna se non la continua distruzione di ciò che è stato costruito. Spinto sulla cima, ogni volta il masso rotola a valle; e Sisifo continua la sua inutile fatica. Chronos, il tempo, divora tutti i suoi figli che genera. Ciò che ha inizio ha fine, e il fine di tutto è la fine del tutto. Anzi, tutto è da sempre finito e finisce e finirà sempre sotto terra. Questa coscienza del tempo avvelena tutta la nostra esistenza, uccidendoci con la nozione di eternità che ci portiamo nel cuore. La ruota gira su se stessa, il serpente si morde la coda: “niente di nuovo sotto il sole” (Qo 1,9). Questa concezione naturale del tempo soffoca la speranza e la storia: taglia le gambe a ogni possibilità di cammino che sfoci in qualcosa di diverso e positivo. Gli ebrei invece hanno introdotto una concezione “lineare” del tempo, che ha come punto di partenza la promessa di Dio e come punto d'arrivo il suo compimento; e nel mezzo c’è una progressione continua verso la meta. Questa a sua volta non è la fine bensì il fine, in cui si realizza ciò che ha mosso il cammino fin dall'inizio. In questa concezione ogni momento è qualitativamente diverso e individuabile come tale secondo le sue distanze dal principio e dal fine, che sono inversamente proporzionali. Il primo metro di una scalata è ben diverso dall'ultimo - e così tutti gli altri - sia oggettivamente, sia psicologicamente che fisicamente. In questo modo il tempo si fa storia; cessa di essere un continuo cadere nel nulla, nell'eterno ritorno all'identico; diventa progresso sensato verso una novità che Dio stesso ha indicato. Ciò verso cui Dio con la sua promessa ci ha incamminato, è la realizzazione di tutti quei desideri che lui stesso ha posto nel cuore, e che sono l'esatto contrario di tutte le nostre paure. Ogni male sarà sconfitto e ogni bene trionferà. Cesserà la menzogna, la sfiducia, l'egoismo, l'ingiustizia, l'insensatezza, la tristezza, l'angoscia e la morte; vincerà la verità, la fiducia, l'amore, la giustizia, la pace, la gioia, la fraternità e la vita. I profeti hanno sempre ricordato al popolo questa promessa, richiamando alla responsabilità di camminare verso di essa, in attesa di conseguirla. Con Giovanni termina la predicazione profetica, perché con Gesù si realizza ciò che i profeti hanno annunciato. E compiuta l'attesa, perché è giunto il compimento. Egli è il punto decisivo della storia, in cui si passa dal desiderio alla realtà. L'epoca bella non è quella passata, né quella futura: è qui e ora. Questo è il momento, sognato dai profeti, in cui si può vivere da uomini nuovi. Gesù, aprendo la bocca, richiama come prima cosa al valore del presente, in cui si gioca tutto. Questa coscienza sta alla radice di ogni azione. Il tempo opportuno giunge quando si capisce che l'ora di decidere è ora. Il momento decisivo è la decisione stessa. Il presente è quindi il punto in cui confluisce ciò che è stato e da cui fluisce ciò che sarà, ambedue assunti in una decisione che dà senso al passato e significato al futuro. Raccolgo ciò che ho seminato, e semino ciò che ho raccolto, sicuro che raccoglierò secondo ciò che semino!

Questa aderenza al presente è indispensabile per la sanità mentale. Diversamente vivo nell'irrealtà, passando dall'illusione sul futuro alla delusione sul passato, trascorrendo metà esistenza nella preoccupazione e l'altra metà nel rimpianto, occupato in ciò che non c'è ancora o piangendo per ciò che non c'è più. La religione giudeo-cristiana non fornisce oppio per dimenticare il male o sognare il bene: ci richiama a vivere il presente nella sua pienezza. Ogni brano del vangelo contiene una promessa di Dio. Essa diventa “realtà per me” che leggo, quando capisco che “è giunto il momento” ed è questo - in cui il Signore vuol compiere per me ciò che è raccontato, se chiedo e accolgo il suo dono. il regno di Dio è qui. È giunto il momento decisivo della storia, perché è arrivato il regno di Dio. Il “regno di Dio”, capovolgimento del regno dell'uomo che conosciamo bene (cf Gdc 9,7 ss; 1Sam 8,1 ss), è un'espressione che sintetizza tutte le aspettative di Israele. È il baciarsi di ogni desiderio nostro con ogni promessa di Dio, che sarebbe avvenuto per opera del messia, il Cristo annunciato a Davide come suo successore (2Sam 7). Il Battista è stato il precursore, la voce che lo ha annunciato ormai alle porte (vv. 2-8). Ora è venuto, è qui! La storia di Gesù che Marco ci racconta ci fa vedere cos'è questo Regno. È Gesù stesso, Dio per l'uomo e uomo per Dio, che realizza pienamente l'amore di Dio per l'uomo e l'amore dell'uomo per Dio. Nessuno più è lontano o escluso da esso; ognuno vi entra, volgendosi a lui, amandolo e seguendolo nel suo cammino, andando “dietro di lui” e affrontando il suo stesso destino di croce e di gloria, di lotta e di vittoria (8,34-38). Ma la prima è transitoria e la seconda definitiva - fatica davvero piccola in confronto al frutto! Il Regno, come suscita le nostre speranze, interpella anche la nostra libertà. Ogni brano di vangelo che leggiamo ce ne fa vedere e ce ne offre un aspetto: ciò che Gesù fa e dice, è il dono che lo devo chiedere e accogliere qui e ora. convertitevi. Significa cambiare idee e testa, cambiare cuore e direzione ai propri piedi (cf v. 5). La proposta di Gesù diventa subito responsabilità di una mia risposta. Il Regno è già venuto per sua iniziativa; ma l'ingresso è riservato alla mia libertà. La conversione è volgersi a lui, iniziando dietro di lui il suo stesso cammino. La conversione ha un momento iniziale che consiste nell'affidarsi a lui. Ma poi è un fatto che dura tutta l'esistenza, e consiste nell'orientare progressivamente ogni mio passo sui suoi, in un esodo continuo dalla menzogna alla verità, dalla schiavitù alla libertà, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, senza mai scoraggiarmi. Certi monaci fanno il voto di conversione continua. Infatti il dono di Dio eccede sempre la mia capacità di riceverlo, e inoltre la mia vita non è mai conforme a ciò che pure ho ricevuto. Per questo ogni volta che leggo il vangelo sono chiamato a convertirmi. La Scrittura esige sempre una lettura “critica” - ma per me, non per gli altri. Devo guardarmi bene dal fame una lettura “apologetica” per giustificare me e/o attaccare gli altri. La Parola non è fatta per accusare gli altri, ma per convertire me. Ognuno preferisce istintivamente applicarla al prossimo suo invece che a se stesso. Il risultato è che nessuno la prende sul serio e tutto resta come prima. Anzi, un po’ peggio di prima, perché chi legge resta vaccinato lui e si mette contro il fratello; e chi è accusato si arrocca in difesa. Questo tipo di lettura è causa di litigi, mezzo di perdizione invece che di salvezza: è ciò che ha diviso l'unica Chiesa. Come poi ci si possa dividere nel Nome che tutti unisce, solo il Divisore, lo sa! credete nel vangelo. Il vangelo è Gesù Cristo Figlio di Dio (1,1), presente in prima persona nell'annuncio. La fede non è solo l'assenso intellettuale alla verità che dice, ma l'affidarsi a lui che mi parla. Infatti anche i demoni credono, ma tremano (Gc 2,19). Il problema non è ritenere che il Signore ci sia o meno - c'è comunque, anche, se lo nego! - ma decidere che tipo di rapporto sono disposto a

stabilire con lui. Credere è amare e fare di lui la propria vita. L'atto di fede è una relazione personale con lui da amico ad amico. Solo questa è la vittoria sulla solitudine radicale dell'uomo, l'uscita dal suo inferno. Credere in concreto è aderire a Gesù e andargli dietro (cf brano seguente) per stare con lui. È orecchi per ascoltarlo, piedi per seguirlo, occhi per vederlo, mani per toccarlo e, soprattutto, cuore per amarlo. Credo al vangelo quando, leggendo un brano, mi affido a Gesù e gli chiedo con fede di saper accettare il dono specifico che in quel racconto mi fa. Allora sono convertito sotto quell'aspetto, ed è giunto il momento in cui si realizza in me quel frammento di regno di Dio. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: la Galilea, dove Gesù cammina annunciando. 3. Chiedo ciò che voglio: chiedo al Signore di non essere sordo alle sue parole. 4. Traendone frutto medito su ogni parola del testo. Da notare:

il vangelo di Dio è giunto il momento

il regno di Dio è qui convertitevi credete al vangelo

4. Passi utili: Rm 13,11-14; 2Sam 7,1-16: Gdc 9,7 ss; 1Sam 8,1 ss; Ne 9,1 ss.

5. QUI, DIETRO A ME! (1,16-20) 16

E, camminando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, gettare attorno (il giacchio) nel mare perché erano pescatori. 17 E disse loro Gesù: Qui, dietro a me, e vi farò diventare pescatori di uomini. 18 E subito, lasciate le reti, seguirono lui. 19 E, procedendo un poco, vide Giacomo di Zebedeo e Giovanni, suo fratello anch'essi nella barca ad aggiustare le reti; 20 e, subito, li chiamò.

E, lasciando il padre loro Zebedeo sulla barca con i salariati, se ne andarono dietro a lui. 1. Messaggio nel contesto “Qui, dietro a me!,, dice Gesù al discepolo. È la chiamata al Regno, appena annunciato. In tutte le religioni l'uomo cerca Dio; nel cristianesimo invece è Dio che cerca l'uomo. La sua proposta è diretta e personale: lui stesso, per iniziativa del suo amore, chiede a me di andargli dietro. “Seguirono lui” è la riposta, anch'essa diretta e personale, che il vangelo svilupperà come un cammino dietro di lui. La sua domanda e la nostra risposta sono i due elementi costitutivi della fede, ambedue immediati, e non delegabili. Nessuno può chiamarmi al posto suo; nessuno può rispondere al posto mio. Lui si impegna per primo a stare con me, e io mi impegno a stare con lui. Gli altri possono essere di aiuto o di mediazione previa, utile o addirittura necessaria; ma la fede si gioca senza intermediari, nel rapporto diretto tra me e lui. Lo stesso annuncio - e chi lo fa - mi deve portare a incontrare lui. Così dicono gli abitanti di Sicar alla Samaritana, che ha loro fatto conoscere Gesù: “Non è più per la tua parola che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il Salvatore dei mondo” (Gv 4,41). Per questo bisogna guardarsi dal cristianesimo come ideologia. È un vaccino contro la fede. Questa non consiste semplicemente nel credere che c'è un Dio, ma nel rapporto che stabilisco con Gesù come mio Signore. La fede è una concreta relazione con lui, un'amorosa appartenenza reciproca, un gioioso essere uno dell'altro. Il racconto contiene due scene parallele di chiamata e di risposta, che, come per i primi, valgono per tutti i discepoli. I due quadri descrivono in forma stilizzata l'incontro con Gesù al quale Marco vuol portare il suo lettore, e mostrano in concreto cosa significa “credere nel vangelo”. La sequela incondizionata di cui qui si parla sarà tale solo alla fine. Dove non si arriva volando, si arriva zoppicando - e talora, purtroppo, zoppicando con i due piedi (1Re 18,21)! Si tratta di una crescita lenta e faticosa, piena di incomprensioni e di ritardi, di tradimenti e di fughe. Ma già fin dall'inizio la vita del discepolo è intrecciata a quella del Maestro. Il vangelo è come un tessuto - è il vestito nuovo! - la cui trama è il cammino lineare di Gesù dalla Galilea a Gerusalemme e il cui ordito è il cammino ritorto del discepolo, il quale, cercando di seguirlo, erra di continuo. Un percorso lo si capisce solo quando è fatto, non prima. All'inizio c'è sempre un atto di fiducia - non cieco, ma ben motivato e ragionevole più dei suo contrario! - nella persona che si segue. Per chi cammina verso la libertà, Gesù è luce che illumina la notte; per chi rimane nella schiavitù, è nuvola oscura (Es 14,19 s). In questo brano si vedono gli elementi della fede. È un'attivazione di tutte le nostre facoltà sensibili, intellettuali e morali, che si mettono in gioco nel rapporto con Gesù. Lui “passa” in cerca di noi, ci “vede” e ci “chiama”; noi vediamo, ascoltiamo, comprendiamo, siamo conquistati e rispondiamo “lasciando tutto”, “seguendolo” e “andando dietro a lui”. La molla di questo dinamismo non può essere che “la grande gioia” di chi trova “il” tesoro, incomparabilmente più prezioso e più bello di tutto ciò che lascia (Mt 13,44 ss). La fede cristiana è un paio di piedi per seguire Gesù, perché si è presi da lui, l'amore assoluto, che vale più di tutte le cose, degli affetti e della stessa vita. Amarlo è l'ingresso nel Regno, la vita eterna, la realizzazione piena dell'uomo come partner di Dio (cf 10, 17.2 1).

Gesù è la Parola di Dio fatta carne, che illumina gli occhi e rallegra il cuore; è la nube e la colonna di fuoco che guida verso la libertà; è Il Signore che mi ama con tutto il cuore, e non si vergogna di chiamarsi mio fratello (Eb 2,11), per insegnarmi l'arte dell'amore (Ct 8,2). I primi che invita alla sua sequela sono degli ebrei, ai quali è lecito seguire solo Dio e la sua parola. Discepolo è colui che esclama con Paolo: “Sono stato conquistato da Cristo Gesù, e per questo corro anch'io per conquistarlo” (Fil 3,12). La sua fede è orecchi per ascoltarlo, occhi per vederlo, piedi per seguirlo: lo ascolta, lo guarda e lo segue perché lo ama, e vuol toccarlo ed essere con lui (3,14). 2. Lettura del testo v. 16 camminando lungo il mare (cf v. 19). Gesù cammina, in cerca di chi accetta il suo dono. Chiama mentre cammina, perché invita al suo stesso cammino. Lo scenario di fondo allude al mar Rosso, da cui Dio salvò il suo popolo portandolo dalla schiavitù alla libertà. Allude anche alle acque del caos primordiale, da cui tirò fuori il cosmo, portandolo dal nulla all'esistenza. La chiamata di Gesù è per un nuovo esodo, verso una creazione nuova. ride. Lo sguardo accoglie o rifiuta, dà o toglie respiro, ama o giudica, fa vivere o fa morire. Uno è come è visto dall'altro. Infatti l'occhio segue il cuore, e uno, è nella misura in cui è visto, ossia amato. Per questo dice san Francesco a Dio: “Quanto uno è ai tuoi occhi, tanto è, e nulla di più” (Imitazione di Cristo, III, L, 37). Dio da sempre guarda l'uomo con amore e rispetto. Ora in Gesù incontriamo finalmente il suo sguardo, e vediamo come siamo da lui visti. Per questo i quattro pescatori - persone normali, di cui una certamente sposata, pratiche e di buon senso - ne resteranno per sempre sedotti. E tutti gli altri dopo di loro. Vedere come Dio mi guarda è scoprire la mia essenza più profonda, che è l'amore che lui ha per me. Uno si sente chiamato quando, invece di fuggire come Adamo perché si sente nudo e giudicato (Gn 3,10), vede quanto è prezioso ai suoi occhi (Is 43,4) - un prodigio (Sal 139,14). La felicità dell'uomo è farsi trovare da questo sguardo, in cui incontra la propria verità. Simone e Andrea. Sono i primi chiamati. Due è il principio di molti. A loro seguiranno tutti gli altri. Gesù chiama all'inizio due coppie di fratelli, come poi invierà a coppie (6,7). Infatti chiama tutti a una fraternità nuova, aperta a tutti, senza escludere nessuno. gettare attorno (il giacchio) nel mare. Tutto avviene nella quotidianità della vita e del lavoro. Dio non ha bisogno di luoghi o momenti privilegiati; perché è il Signore di tutti e di tutto. Infatti chiamerà Levi mentre conta i soldi (2,14) e Paolo mentre va a perseguitare i cristiani (At 9,1 ss)! Comunque sembra che chiami proprio nei momenti meno propizi. È una sfida? v. 17 disse loro Gesù. Oltre l'occhio, Gesù rivolge loro direttamente la voce. Anche a noi, attraverso il racconto, giunge lo stesso sguardo e la stessa parola. Questa, a duemila anni di distanza, ha ancora la forza di farci alzare, lasciar tutto e seguirlo. Qui, dietro a me. Tanti libri, più o meno intelligenti, si sono scritti sulla “essenza del cristianesimo”. Marco sintetizza tutto in queste tre parole: due preposizioni di moto a luogo e un pronome personale. Tutto il vangelo mostrerà lui che cammina, e il discepolo che gli va dietro. Non lo precede né lo raggiunge dopo: lo segue, andandogli dietro. Gesù non è solo un modello da imitare, o uno che ha aperto la via: come è il principio e il fine del cammino, è anche il compagno di viaggio.

Per gli ebrei è sempre il discepolo che sceglie il maestro; appreso il mestiere, lo abbandona per farsi a sua volta maestro che indica l'unico a seguire: il Signore con la sua legge. Gesù invece sceglie il discepolo Gv 15,16) e lo chiama a seguirlo per “essere con lui” per sempre (3,14; 1 Ts 4,17). Lui è il Signore, la via, la verità e la vita - la verità che ci è venuta incontro per farsi nostra via alla vita. vi farò diventare pescatori di uomini. L'uomo nel mare annega e muore. Pescare uomini vuol dire portarli dalla morte alla vita. Gesù ha pescato oro, che cominciano a seguirlo. La sua missione nei loro confronti diventerà la loro stessa nei confronti degli altri fratelli (cf Lc 5,6; Gv 21,6). v. 18 lasciate le reti. Le reti sono per loro il capitale, il mezzo di lavoro e l'identità professionale - tutto ciò che sono e hanno. Le abbandonano non con un senso di privazione, ma mossi dalla gioia. È il gesto di libertà di chi ama, condizione per seguire l'amato. seguirono lui. Il tempo (aoristo) sottolinea l'inizio dell'azione. Seguire è la risposta al suo invito: “dietro a me”. Si segue chi si ama. Il Signore disse ad Abramo: “Alzati e va'“ (Gn 12,1). “Dove?”, chiese Abramo. “Dove ti mostrerò”, rispose, “ma se non vai, non lo puoi vedere, e io non posso mostrartelo”. v. 19 procedendo un poco. Cf v. 16: “camminando lungo il mare”. vide Giacomo di Zebedeo e Giovanni, suo fratello. Cf v. 16: “vide Simone e Andrea, fratello di Simone”. Qui si nomina anche il padre. anch'essi nella barca ad aggiustare le reti. Cf v. 16: “gettare attorno (il giacchio) nel mare”. Qui, oltre le reti, ben più grandi di un semplice giacchio, c'è anche la barca per calarle. v. 20 li chiamò. Cf v. 17: “disse loro”. lasciando il padre loro Zebedeo sulla barca con i salariati. Cf v. 18: “lasciate le reti”. Qui, oltre il capitale maggiore - barca e reti - e il lavoro migliore, si lascia anche ciò che, oltre il mestiere per vivere, dà all'uomo la sua identità personale: il suo tessuto di rapporti affettivi (padre) e sociali (salariati). se ne andarono dietro a lui. Cf v. 18: “seguirono lui”. L'azione è vista dalla parte di coloro da cui ci si stacca: se ne andarono da Zebedeo e compagni per attaccarsi a Gesù e andare dietro a lui. La seconda chiamata contiene gli stessi elementi della prima. Ma la ripetizione non è un di più. Indica innanzitutto che il fatto continua a ripetersi - anche per chi ascolta, se lo vuole! E ogni volta il fatto si arricchisce di variazioni e di ampliamenti, approfondendo l'essenziale. La ripetizione risponde inoltre alla struttura dell'uomo, che vive nel tempo, rifacendo le stesse cose. La novità è data dal suo grado crescente di simpatia, da cui nasce una conoscenza e un rapporto sempre più profondo e gustoso. La ripetizione è necessaria come tornare alla fonte per attingere l'acqua, come respirare sempre di nuovo per vivere. Ciò che è brutto, più lo vedi, più lo detesti: ciò che è bello, più lo frequenti, più lo capisci e ne gioisci. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: la spiaggia del lago di Tiberiade, dove Gesù passa e gli altri pescano. 3. Chiedo ciò che voglio: di non essere sordo alla sua chiamata. Identificandomi con Pietro e

compagni, chiedo di rispondere come loro. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

camminare lungo il mare vedere chiamare

dietro a me lasciate reti, barca, padre seguire, andare dietro

4. Passi utili: Nm 9,15-23; Sal 16; 23; Fil 3,1ss; Mt 13,44-46.

6. TACI (1,21-28) 21

Ed entrano in Cafarnao, e subito, di sabato, entrato nella sinagoga insegnava. 22 E restavano scossi dal suo insegnamento; infatti stava insegnando loro come uno che ha potere, e non come gli scribi. 23 E subito c'era nella loro sinagoga un uomo con uno spirito immondo. 24 E gridò dicendo: Che abbiamo a che fare noi con te, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Ti conosco chi sei: il Santo di Dio. 25 E Gesù lo sgridò dicendo: Taci, ed esci da lui! 26 E, scuotendolo, lo spirito immondo e gridando a gran voce uscì da lui. 27 E furono stupiti tutti quanti, così che si chiedevano insieme l'un l'altro dicendo: Che è questo? Un insegnamento nuovo con potere; comanda anche agli spiriti immondi e gli obbediscono! 28 E la sua fama uscì subito dappertutto

nell'intera regione della Galilea. 1. Messaggio nel contesto “Taci”, dice Gesù allo spirito immondo. La sua parola, come ha il potere di chiamarci a seguirlo, ha anche quello di sconfiggere lo spirito del male che è in noi. Con l'esorcismo inizia la prima giornata “messianica”. Marco dopo averci detto chi è quel Gesù che ci invita dietro a lui, ora ci dice in sintesi cosa fa per noi: con la forza della sua parola ci libera dal male (vv. 2128) e ci fa liberi per il bene (vv. 29-3 I); la sua azione non sarà spenta, bensì moltiplicata dalle tenebre che calano (vv. 32-34), e, nell'inazione della notte, attingerà dalla comunione con il Padre la forza di andare altrove (vv. 35-39). Nella cornice artificiale di un giorno di sabato - per chi incontra e segue lui inizia il sabato senza tramonto! - ci viene offerto un quadro della sua attività, il suo programma messianico. All'inizio si ricorda il suo insegnamento. La Parola, principio della creazione, è pure principio della redenzione. Ancora oggi lo incontriamo attraverso la parola del racconto evangelico. Essa ha il potere di muovere pure noi a seguirlo, come ha fatto con i primi quattro discepoli (cf brano precedente); e il primo effetto che ha su di noi che lo seguiamo, è proprio quello di liberarci dallo spirito del male. L'esorcismo è incluso nella duplice menzione dell'autorità della parola di Gesù. Il male infatti ha la sua origine nella menzogna. La verità lo sbugiarda e lo dissolve, come la tenebra quando giunge la luce. Posto all'inizio, l'esorcismo ha valore programmatico: tutta l'attività di Gesù ha come fine quello di liberare l'uomo dallo spirito del male, che lo tiene schiavo. È chiamato “spirito immondo” - per Israele immondo è tutto ciò che ha attinenza con la morte. È il contrario dello Spirito di Dio, amante della vita (Sap 11,26). Per Marco è innanzitutto il tentatore (vv. 12 s), proprio in quanto “ruba la Parola” (4,15), sostituendo nell'uomo la parola di Dio, che lo fa suo figlio, con la menzogna, che lo allontana da lui, sua vita. Per questo il pensiero dell'uomo è chiamato da Gesù satanico (8,33). Satana ha il suo volto visibile nella ricchezza che seduce (4,19; 10,22-25): è il dio mammona (Mt 6,24). Negli esorcismi è descritto come colui che possiede, depossessa e tortura l'uomo. È chiamato satana (= accusatore), diavolo (= divisore), il maligno, i1 tentatore, il principe delle tenebre, il padre della menzogna (Gv 8,44). È il principe di questo mondo (Gv 14,30); a il suo regno ed è forte (3,23.26.27); anzi, dopo il peccato, tutto è posto nelle sue mani (Lc 4,6). In Gn 3 si descrive la sua azione come un'abile manipolazione, che porta l'uomo a farsi lui stesso male. Inizia avanzando la possibilità della sfiducia in Dio, suggerendone una falsa immagine; induce poi alla disobbedienza, col mettergli davanti la vertigine del suo limite oggettivo di creatura, per prospettargli la bellezza fallace di un'autonomia senza limiti; gli rivela infine spietatamente la sua nudità e insufficienza, che gli mette paura e lo fa fuggire e nascondere da lui. Abbandonata la sorgente del proprio io, l'uomo si scava a fatica cisterne, cisterne screpolate, che non tengono acqua, se non morta (Ger 2,13). Persa la propria identità, la cerca in ciò che sempre più lo aliena da sé: l'avere, il potere, l'apparire. Di qui la crescente insoddisfazione e disistima di sé, la solitudine, l'angoscia mortale, il desiderio di salvarsi, le brame incolmabili, l'egoismo insaziabile, le ingiustizie, le guerre e il resto. Tutto questo male, una volta compiuto, rimane, si solidifica e organizza in strutture moltiplicatrici di iniquità - vere macchine di oppressione, di cui l'uomo, loro fattore, si fa ingranaggio. Alla fine egli vi resta imprigionato come un baco nel bozzolo che lui stesso ha fatto. Ma questo male indebito non è la situazione nostra definitiva. Gesù è venuto a defatalizzare la storia e a restituircela nelle nostre mani. Egli ci libera con la parola di verità, capace di zittire la menzogna che sta all'origine della nostra schiavitù, mostrandoci la realtà nostra di figli e quella di Dio che è Padre. Per questo gli esorcismi sono il segno della venuta del Regno, la fine della schiavitù dell'uomo. Non riconoscerlo, è mentire all'evidenza: è il peccato contro lo Spirito Santo (3,26-30).

Marco narra dettagliatamente tre esorcismi (qui, 5,1-10 e 9,14-29). A differenza dei miracoli, avvengono tra difficoltà e convulsioni sempre crescenti. Nell'ultimo l'esorcizzato resta addirittura privo di vita. La lotta, iniziata dopo il battesimo, dura tutta la vita, e avrà il suo culmine sulla croce. La sua morte da sconfitto per amore di chi lo uccide, sarà l'esorcismo definitivo: rivelando chi è Dio per l'uomo, vincerà definitivamente la menzogna di satana. Gesù è la parola potente di Dio. Come ha creato il mondo e dirige la storia, entra anche nel nostro cuore per illuminarlo. È la parola di verità che restituisce l'uomo a se stesso, liberandolo dal male e facendolo libero per il bene, capace di amare come è amato. Discepolo è colui che sente rivolta a sé la parola di Gesù. Essa scatena desideri e resistenze laceranti, ma è anche capace di vincere le resistenze e tradurre in realtà i desideri. Bisogna che impariamo a conoscere le reazioni interne che avvengono ogni volta che leggiamo il vangelo senza distrazioni. È importante distinguere quelle buone da quelle cattive, per accogliere e chiedere che crescano le prime, e rifiutare e chiedere la liberazione dalle seconde. Il nostro esorcismo fondamentale è il battesimo. Esso, come per Gesù, segna l'inizio di una lotta che continua tutta la vita. Ma questa fatica è già pegno sicuro della vittoria finale. Prima del battesimo c'è solo sudditanza e schiavitù tranquilla, quasi un'identificazione con il proprio male. Nell'indemoniato vediamo le nostre reazioni davanti alla Parola e la sua azione in noi. 2. Lettura dei testo v.21 Cafarnao. Patria dei primi discepoli, sarà il centro dell'attività di Gesù in Galilea. di sabato. È il giorno del riposo di Dio, compimento della creazione. Gesù opera di sabato perché la sua azione inaugura questo giorno: è l'aurora del sabato definitivo, in cui tutta la creazione raggiunge il fine per cui è stata pensata. insegnava. L'imperfetto indica un'azione prolungata e non conclusa. Come allora, così anche adesso continua ad insegnare. Questo verbo da Marco è praticamente riservato solo a Gesù (una volta sola è riferito anche ai Dodici, inviati in missione come suoi araldi, 6,30). Egli è l'unico Maestro. Noi siamo e restiamo sempre tutti suoi discepoli, che insegnano solo ciò che lui ha detto e fatto. Non si dice che cosa insegna, perché insegna se stesso attraverso il racconto di ciò che fa. Leggendo il vangelo, anche noi ci accostiamo a lui e impariamo a conoscerlo. Infatti la Parola fatta carne, è tornata Parola nel racconto del vangelo, per farsi ascoltare ancora da noi. Ad ogni parola che udiamo con l'orecchio, corrisponde sempre una parola silenziosa del Maestro interiore, che muove il cuore attirandolo a sé. Questa scatena in noi le reazioni delle nostre paure e le resistenze del nemico, che si oppongono a Dio e alla sua promessa. Dio, come ogni uomo, comunica se stesso con la parola. Essa interpella, dando la libertà di rispondere. È l'unica mediazione che non lascia residui: porta alla realtà mediata e scompare in essa. Ma è anche il mezzo più debole, che non impone nulla - diversamente non è parola di verità, bensì manipolazione tremendamente devastante. Con essa Dio esprime tutto se stesso e si dona, esponendosi al pericolo di essere rifiutato. Egli non può usare mezzi potenti, perché chi ama rispetta e crea libertà. Può solo, in caso di rifiuto, portare fino in fondo la propria debolezza - fino alla croce di un amore incondizionato. v. 22 restavano scossi. È uno stupore sconvolgente. Marco, molto parco di vocaboli - ne ha solo un migliaio - ne usa otto diversi per indicare lo stupore, e li usa per ben complessive trenta volte. La meraviglia, madre della sapienza, apre ad accogliere l'altro e la sua novità. È diversa dalla curiosità,

madre della scienza, che porta a etichettare l'altro per usarlo. La prima dovrebbe essere l'atteggiamento corretto nei confronti delle persone e di ciò che è bello e buono; la seconda nel confronti delle cose, in quanto utili. Ma guai a ridurre anche queste solo al loro rapporto di uso. Hanno sempre in sé qualcosa di “meraviglioso”, da cogliere e rispettare. Ogni volta che, leggendo il vangelo, non stupisco, in realtà non capisco. Il contrario dello stupore è la “durezza di cuore”, che rinchiude tutto nella morte dell'ovvio e del già noto, precludendo ogni novità. Gesù verrà ucciso da questa durezza di cuore (3,6). stava insegnando come uno che ha potere. La parola “potere” (greco exusía, che traduce l'ebraico shaltan, da cui “sultano”) è riservata a Dio. Lo stupore davanti alla parola di Gesù viene dal fatto che essa ha il potere di Dio: si fa seguire, libera dal male e opera quanto esprime - fa quello che dice e dice quello che fa. Ogni brano del vangelo è un dono che Dio vuol fare anche a me che leggo. Purché io chieda. Per questo in ogni lettura gli “chiedo ciò che voglio”, e voglio ciò che quel testo intende dare. È molto importante che si esprima il desiderio: ciò che non è desiderato, non può essere donato, perché non verrebbe accolto. Gesù è la parola di Dio viva ed efficace, più tagliente di una spada a doppio taglio (Eb 4,12 s). Entra nel cuore, lo mette a nudo, lo giudica, lo muove a conversione, lo giustifica e lo consola. Le reazioni nostre davanti alla Parola variano secondo la nostra disposizione di chiusura o apertura: da una parte è nemica, sgomenta, fa conoscere il peccato (cf 1Re 21,20; 2Re 22,13; 2Sam 12,13), svela i garbugli dei cuori, li sgonfia, li disperde (Lc 2,35; 1,51), trafigge il cuore e lo porta a chiedersi: “che fare?” (At 2,37); d'altra parte apre il cuore ad accoglierla (At 16,14) e compie “oggi” quello che dice (Lc 4,21), illumina gli occhi, dilata il cuore (Sal 119,105.32; 18,29), diventa dolcezza e vita (Sal 119,50.93.103). non come gli scribi. Questi spiegano la Parola come hanno imparato a scuola. Gesù, invece di spiegare, dice una parola “nuova” (v. 27), a cui obbedisce anche il male. v. 23 sinagoga. È il luogo di riunione per il culto sabatico, con lettura della Parola, la sua spiegazione e la preghiera comune. uno spirito immondo. Immondo è ciò che, avendo attinenza con la morte, esclude dalla comunità e dal culto. Lo spirito immondo si trova quindi dove non dovrebbe stare, nella sinagoga. E sembra che ci stia inosservato e a suo agio, fino all'arrivo di Gesù. v.24 gridò. È il grido impotente di rabbia e di terrore del nemico che si trova scoperto e perduto. Che abbiamo a che fare noi con te? C'è nulla in comune tra la verità e la menzogna, tra la vita e la morte. Non possono coesistere. È interessante notare il “noi”. Parla a nome degli altri demoni o anche dell'indemoniato stesso, volendosi identificare con il suo cliente? Oppure è questi che parla, e usa il plurale per indicare la divisione del proprio io o la propria connivenza col nemico? Il primo moto davanti al vangelo è per ogni lettore un senso di estraneità scomoda e dolorosa: questa parola non è per me, anzi per noi - intendendo in questo noi il male con cui siamo solidali. Sei venuto a rovinarci? Il secondo moto è peggiore: sembra che “ci” rovini. In realtà rovina solo il male che è in noi. E noi ci difendiamo, perché ci identifichiamo con esso. Perdendo questo, ci pare di perdere noi, la nostra autenticità. In realtà perdiamo solo una falsa identità, una brutta maschera che ci deturpa.

Ti conosco chi sei. Ne ha già sperimentato la forza nel deserto. Il nemico ha una conoscenza superiore, che gli uomini non hanno. il Santo di Dio. Santo è il contrario di immondo. Il male rende il suo tributo al bene: lo conosce come suo nemico. Satana cerca sempre di rivelare l'identità di Gesù e la sua gloria - per ora conosciuta appena dal Padre e da lui. I demoni continuano la loro tentazione, cercando di divulgarla prima del tempo, per fargli evitare la croce, dove solo si rivelerà a tutti. v. 25 lo sgridò. La parola è usata costantemente negli esorcismi. Nella traduzione greca dei LXX la stessa parola (epitimáo) è usata per indicare il rimprovero di JHWH. La parola di Gesù ha la stessa autorità. Taci. L’indemoniato usa il plurale; Gesù il singolare. Fa tacere il demonio nell’indemoniato, perché in lui possa parlare l'uomo. Il nemico è vinto col semplice farlo tacere. La verità infatti zittisce la menzogna. esci da lui. Lo spirito del male è un intruso nell'uomo, che è figlio di Dio. La sua parola lo fa uscire. v. 26 scuotendolo, ecc. Il male esce in modo doloroso, ma soprattutto chiassoso. Non perde volentieri il suo cliente. Di per sé neanche il malato gradisce subito la guarigione: fugge dalla libertà, per paura della responsabilità di gestire la propria vita. La liberazione non è mai un fatto tranquillo. Sembra più facile restare nella schiavitù. v. 27 furono stupiti, ecc. Riprende il v. 22, sulla novità e il potere di questa parola. v. 28 la sua fama uscì, ecc. Questa fama che si espande è anticipo di ciò che avverrà dopo: il vangelo diffonderà ovunque il potere della stessa parola, portandola fino a noi oggi. 3.Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo osservando il luogo: la sinagoga di Cafarnao. 3. Chiedo ciò che voglio: identificandomi con gli ascoltatori e con l'indemoniato, chiedo di sperimentare il potere della sua parola nel mio cuore, perché mi liberi dal nemico. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Confronto le reazioni dell'indemoniato con le mie davanti alla sua parola. Da notare:

l'insegnamento con potere lo stupore lo spirito immondo

sei venuto a rovinarci? taci ed esci

4. Passi utili: Is 55,10 ss; Eb 4,12 s; Mc 5,1-20; 9,14-27.

7. E SERVIVA LORO (1,29-31) 29

E subito, usciti dalla sinagoga, vennero nella casa di Simone e di Andrea, con Giacomo e Giovanni. 30 Ora la suocera di Pietro era a letto con febbre e subito gli parlano di lei. 31 E, fattosi avanti, la risvegliò prendendola per mano. E la febbre la lasciò, e serviva loro. 1. Messaggio nel contesto “E serviva loro”, dice Marco della suocera di Pietro guarita. È il primo miracolo, indubbiamente il più insignificante. Ci si aspetterebbe che all'inizio si racconti qualcosa di più sensazionale. Ma la cosa è istruttiva. I miracoli di Gesù non sono spettacoli di potenza. Sono invece dei segni, che rivelano da una parte la sua misericordia - una debolezza che lo porterà fino alla croce - e dall'altra ciò che vuol compiere in noi per farei uomini nuovi, a sua immagine. I primi due - la suocera e il lebbroso - sono guarigioni globali, che indicano lo spirito nuovo e la vita nuova che lui ci dona. Gli altri che seguono illustrano le varie guarigioni specifiche delle nostre membra e facoltà: i piedi per camminare dietro a lui, le mani per ricevere e donare come lui, l'orecchio per ascoltare la verità, la lingua per comunicare noi stessi e l'occhio per vedere la realtà davanti alla quale siamo ciò che siamo. Al centro c'è il miracolo della fede, un toccare che sana la vita e libera dalla morte (emorroissa e figlia di Giaìro, 5,21-45). I miracoli sono tutti nella prima parte del vangelo, e culminano nel cieco di Betsaida, che sarà illuminato due volte, come dovrà esserlo anche Pietro per vedere in Gesù oltre il Cristo anche il Figlio di Dio. Nella seconda parte c'è solo la guarigione dei cieco di Gerico, prima dell'ingresso in Gerusalemme. È il dono dell'illuminazione battesimale, che mi fa “vedere” chi è lui per me e chi sono lo per lui, nel suo mistero di morte per me. L'uomo ha bisogno di questi miracoli perché è diventato come i suoi idoli, al quali serve e che lo schiavizzano: ha piedi e non cammina. mani e non palpa, orecchi e non ode, lingua e non parla, occhi e non vede (Sal 115,4-8). Nel presente racconto la piccolezza del segno è tutta a vantaggio della grandezza del significato. Un miracolo più straordinario avrebbe attirato la nostra attenzione, a scapito di ciò di cui è segno. Se allo stolto indichi la luna, lui ti guarda la punta del dito! Con questo piccolissimo segno l'evangelista ci dà il significato di “tutti” i miracoli: sono delle guarigioni che Gesù opera per restituire a ciascuno di noi la capacità di servire, che è la nostra somiglianza con Dio. Lui stesso è Figlio in quanto servo (vv. 9-11). Il vero miracolo, che è venuto a compiere sulla terra, non è nulla di strabiliante: è darci la capacità di amare, ossia servire. La suocera di Pietro, primo frutto maturo del vangelo, è il prototipo di tutti i credenti. Nella “casa di Simone” essa è il vero maestro nella fede, perché modello di vita. Attraverso di lei Gesù ci insegna non a parole, ma coi fatti e nella verità (1Gv 3,18) chi è lui e qual è il suo Spirito, che essa silenziosamente incarna.

Le donne contavano assai poco nella cultura ebraica di allora. Non era neanche valida la loro testimonianza. Questa anziana, malata e... suocera è la prima che testimonia la vita nuova. Questo miracolo sintetizza quanto finora è stato narrato, sviluppandone un gradino ulteriore. Credere al vangelo (v. 15) significa seguire Gesù (vv. 16-20), nell'ascolto della sua parola (vv. 21 s); questa ci dà la liberazione dal male (vv. 23-28) e la libertà per il bene, che è il servizio. Questa donna è il primo “scriba”, simile a lui, che Gesù discretamente ci dona. L'ultimo sarà la povera vedova inosservata, che espressamente ci addita (12,41-44). Marco, per circa un centinaio dei suoi seicento versetti, parla di donne (e bambini, che ne sono un'appendice). Le figure femminili occupano i punti chiave del vangelo (vedi appunto qui e 12,41-44, come inclusione di tutta la sua attività; 14,1-9 e 15,40-16,8, come inclusione del racconto della sua morte e risurrezione; vedi inoltre 5,21-43 e 7,24-30, dove si illustra cos'è la fede e qual è la sua potenza). Dio ha scelto i poveri di questo mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del suo regno (Gc 2,5): con ciò che è stolto e debole confonde i sapienti e i forti, con ciò che è ignobile e disprezzato e nullo, riduce a nulla le cose che sono (1Cor 1,26 ss). Questo brano ci dia occhi nuovi ed evangelici per vedere ciò che conta davanti a Dio, che non guarda secondo le apparenze (1Sam 16,7). Gesù è il medico. Con la sua parola libera dallo spirito del male, e con il suo contatto dà la capacità del bene. È venuto per ridarci la pienezza di vita e restituirci il nostro volto di figli. Il discepolo è raffigurato dalla suocera: a letto con la febbre, incapace di servire e costretta a farsi servire o servirsi degli altri. Il contatto con Gesù la renderà come lui, che è venuto per servire (10,45). Ovviamente questo, che è il primo miracolo del vangelo, sarà l'ultimo a realizzarsi. È buona regola dire fin dal principio il fine verso cui si sta andando! 2. Lettura dei testo v. 29 dalla sinagoga vennero nella casa. C'è un passaggio dalla sinagoga, luogo del culto di Israele, alla casa, che diventerà il luogo della catechesi e del culto cristiano. In ambedue c'è il male: come spirito immondo o come “febbre”, che lo rivela. Simone e Andrea con Giacomo e Giovanni. I primi quattro iniziano il loro cammino seguendo Gesù e imparando. Diventeranno discepoli quando avranno capito di essere l'indemoniato che lui libera, la suocera che lui guarisce. I liberati e miracolati della prima parte del vangelo fanno da specchio a noi, chiamati a identificarci con loro, per chiedere e ottenere lo stesso dono. v.30 la suocera di Pietro era a letto con febbre. Questa febbre, che tiene a letto costringendo a servirsi degli altri e impedendo di servire, è figura di quel male che immobilizza ogni uomo e gli blocca la capacità di amare, sviluppandogli ampiamente quella di schiavizzare. Nella stessa casa Gesù diagnosticherà e curerà un'altra febbre che i discepoli nascondono in sé, che li fa bollire l'un contro l'altro e li rende sordi alla “parola”: il desiderio di essere il più grande (9,32-35). È la stessa febbre che i capi delle nazioni hanno in comune con Giacomo, Giovanni e tutti gli altri, mentre litigano sui primi posti (10,35-45). gli parlano di lei. Esclusi i primi discepoli, chiamati direttamente da lui, c'è sempre un tramite che porta noi a lui e lui a noi. È la mediazione della Chiesa, che prolunga nello spazio e nel tempo la sua presenza. Ma il contatto con lui e la sua parola sono sempre “immediati” e diretti, da persona a persona. La necessità della mediazione, che consiste nel parlare al Signore degli uomini o agli uomini del Signore, è

correlativa alla responsabilità che ognuno ha del proprio fratello davanti al Padre. Chi non si cura dell'altro, non ha conosciuto il Signore. v. 31 fattosi avanti. Gesù non si tira indietro davanti al nostro male. Non la nostra bontà, ma la nostra miseria attira la sua misericordia (cf 2,17). la risvegliò. La parola egheíro è usata per proclamare la risurrezione di Gesù. Al v. 35 l'altra parola usata con tale senso: si levò (anéste). prendendola per mano (cf 5,41!). La sua mano prende la nostra, e ci comunica la sua stessa vita. La guarigione avviene in silenzio, attraverso il contatto. Non è magia, ma una verità profonda: la nostra comunione con lui ci conferisce la sua forza. e serviva loro, ossia Gesù e gli altri. La nostra mano, “presa” da lui, è finalmente capace di agire come la sua. “Servire” nel NT significa amare in concreto. Gesù è il Figlio perché ha scelto di servire Dio e i fratelli (vv. 9-11). La più bella definizione che Gesù dà di sé è quella del Figlio dell'uomo venuto per servire (10,45). Il servizio è la guarigione dalla febbre mortale dell'uomo: l'egoismo, che lo uccide come immagine di Dio. La libertà che Gesù porta consiste nell'essere, mediante l'amore, a servizio gli uni degli altri (Gal 5,13). Amare veramente significa farsi carico dell'altro nei suo bisogni e nei suoi limiti. Farsi carico dei beni altrui, più che amore, suona egoismo! “Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo”, che “trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso” (Gal 6,3; 5,14). L'egoismo si esprime nel servirsi, che porta all'asservimento reciproco; l'amore si realizza nel servire, che porta alla libertà dell'altro, perché lui stesso possa servire. Solo così, nel servizio reciproco, siamo finalmente tutti liberi. Dopo aver estromesso da noi lo spirito del male, Gesù vuol riempirci del suo Spirito. Ogni miracolo restaura un tratto del nostro volto divino di figli. Il servizio può sembrare piccola cosa. Invece è l'unica in grado di cambiare tutto. Il mondo infatti è un grande banchetto di cibi prelibati. Ma c'è una regola precisa: bisogna mangiare con forchette lunghe un metro e mezzo. L'inferno è dove ognuno, cercando di mangiare da sé, muore di fame e inforca il prossimo. Il paradiso è dove ognuno dà tutti, e ognuno gode di dare e ricevere benevolenza e amore. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: la casa di Simone e Andrea, a Cafarnao. 3. Chiedo ciò che voglio: identificandomi con la suocera, chiedo di guarire dalla febbre che mi immobilizza e mi impedisce di servire. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Considero ogni parola del testo. 4. Passi utili: Mc 9,33-35; 10,35-45; Gv 13,1-17; 1Cor 1,26-29; Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12.

8. FATTASI SERA (1,32-34) 32

Ora, fattasi sera, quando cadde il sole, portavano a lui tutti gli ammalati e gli indemoniati; 33 e tutta la città era riunita presso la porta. 34 E curò molti ammalati di diverse malattie scacciò molti demoni, e non lasciava parlare i demoni perché lo conoscevano. 1. Messaggio nel contesto “Fattasi sera”. Si chiude la prima giornata di Gesù, con la sua fatica messianica. Si ritira il sole e viene il buio: anche per lui finisce la luce e inizia la tenebra. Il giorno è il tempo a disposizione dell'uomo per valutare, decidere e fare. La notte è il tempo sottratto, indisponibile, morto. L'ombra avvolge tutto e tutti: la creazione perde i suoi contorni e svapora nel nulla, mangiata dall'oscurità da cui è uscita. Unica prospettiva sicura di ogni giorno, la sera è immagine “della fatal quiete”. Lì approda ogni uomo; si infrange ogni sua pretesa e cessa ogni sua attesa. È l'ora in cui ognuno dice: “Ora basta”. E, come Elia, mette la testa sotto il ginepro per dormire (1Re 19,4 s). Dio qui ci attende, perché questa è l'ora della verità, in cui sperimentiamo che noi siamo uomini mortali, e lui è Dio. Raggiunto il nostro limite, invece di cadere nel vuoto, sconfiniamo in lui. A questo punto smettiamo ogni nostra attività, e lasciamo finalmente a lui lo spazio per intervenire. Veramente Dio dà i suoi doni all'uomo quando “dorme” (Sal 127,2). Per questo la sera di Gesù è il momento culminante dell'azione divina, anticipo di ciò che sarà alla sua morte. Durante il giorno fece un solo esorcismo e un solo miracolo; la sera invece è illuminata da un fuoco d'artificio di prodigi. La sua azione infatti fu limitata, parziale, e solo con valore di segno; la sua passione invece sarà illimitata, universale e salverà tutti realmente. La sua notte guarisce tutte le nostre notti. Inoltre è la nostra notte il luogo dove sperimentiamo la luce della sua notte. Nel passo parallelo, posto a conclusione della prima giornata di miracoli, Matteo così dichiara l'origine di tutta l'opera di Gesù: “Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie” (Mt 8,17). Con questa citazione di Is 53,4, Matteo dice chiaramente che non è la sua potenza sovrumana a guarirci, ma la sua impotenza di servo, che lo porterà sulla croce, carico dei nostri mali. Questo brano non è propriamente un racconto. È un riassunto di più fatti. In questi “sommari redazionali” l'autore ispirato, meno vincolato dalle cose da raccontare, offre ampie panoramiche teologiche, dando la cornice interpretativa al fatti stessi. Per questo sono da leggere con cura. In

concreto qui Marco vuol anticipare il senso della morte di Gesù, che sarà per tutti salvezza dai mali e dal male. Ma prima di allora la sua identità non può essere proclamata. Sarebbe malintesa! Gesù è la luce del mondo. Con la sua morte è entrato nelle nostre tenere, illuminandole della sua solidarietà divina. Con lui non c'è più notte. Il discepolo incomincia a intuire con stupore come Dio capovolge la prospettiva dell’uomo: a una vita per la morte, contrappone una morte per la vita. 2. Lettura del testo v.32 fattasi sera. Oltre questa, che conclude il primo giorno, Marco ci presenta altre sere, che vengono rispettivamente dopo le parabole (4,35), dopo il fatto dei pani (6,47), dopo l'ingresso nel tempio (11,11), dopo la purificazione del tempio (11,19), all'inizio della Cena (14,17) e dopo la sua morte, quando Giuseppe riceve in dono il suo corpo (15,42). Tutte le sere portano a questa ultima e settima, in cui finisce il mondo vecchio, e Gesù consegna se stesso alla madre terra, seme del Regno che germoglierà nel sole nuovo del mattino di Pasqua. portavano a lui. Tranne il lebbroso, l'emorroissa e la sirofenicia (1,40 ss; 5,25 ss; 7,24 ss) prototipi di tutti gli emarginati ed esclusi, che hanno accesso libero e immediato a lui, nessuno va a Cristo per conto suo. Dio ha bisogno degli uomini. Tutti i miracolati sono portati da lui o lui stesso è portato presso di loro. Anche il cieco, che lo chiamerà, prima di andare da lui, sarà chiamato attraverso altri (10,49). tutti gli ammalati. Di giorno ne guarì solo uno. Di sera “tutti” sono da lui. indemoniati. Gesù guarisce non solo dalle malattie esterne, ma soprattutto dal male interno. La guarigione dei malati è un segno provvisorio del futuro, e indica simbolicamente ciò che sarà l'uomo nuovo - anche se ancora deve morire. La liberazione degli ossessi invece vuol essere un intervento definitivo, e indica la fine del regno di satana e la venuta del regno di Dio (3,26; Lc 11,20). Ambedue sono manifestazioni della “simpatia” di Dio per gli uomini: è quella sym-pátheia compassione = patire insieme) che dal battesimo lo porta alla croce. v. 33 tutta la città era riunita presso la porta. Di mattina, alla porta della città, si teneva il giudizio di condanna contro i malfattori. Di sera, alla porta della casa di Simone, il Signore stesso compie il suo giudizio di salvezza per tutti i perduti. v. 34 curò molti ammalati. Quei “tutti” non erano pochi, ma molti. La parola “curare” in greco significa rispettare, venerare, onorare. Questa è la vera “terapia” (= cura) per i mali profondi dell’uomo. scacciò molti demoni. Si cura il malato, non il male. Noi spesso curiamo il male, a scapito del malato come odiamo il peccatore e amiamo il peccato. e non lasciava parlare i demoni. Marco sottolinea sempre il “segreto messianico”. Oltre che un aspetto importante della vita di Gesù - che non cercava la pubblicità, anzi la considerava tentazione - è anche un motivo teologico dell'evangelista. Egli si rivolge al catecumeno, e vuol fargli capire che una conoscenza di Dio prima della croce è diabolica: non rende conto né del male nostro né dell'amore suo.

perché lo conoscevano. Gli spiriti sono gli unici a sapere chi è Gesù. Hanno infatti una conoscenza superiore, che trascende la nostra. Inoltre si vede come la fede non è “conoscerlo” - anche i demoni lo conoscono! - bensì sperimentare la sua forza. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: davanti alla porta della casa di Pietro, di sera. 3. Chiedo ciò che voglio: chiedo al Signore di conoscere le sue prospettive circa la sera - e lo ringrazio dei suoi doni. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Considero ogni parola del testo. Passi utili: Sal 127; 1Re 19,1-5; 2Cor 4,7-12; 12,9 s; Mt 8,16 ss.

9. ANDIAMO ALTROVE (1.35-39) 35

E di buonora, in notte fonda, levatosi uscì se ne andò in luogo deserto là pregava. 36 E lo inseguì Simone quelli con lui; 37 e lo trovarono e gli dicono: Tutti ti cercano! 38 E dice loro: Andiamo altrove, nei borghi vicini, perché anche là proclami. Per questo infatti sono uscito. 39 E venne, annunciando nelle loro sinagoghe in tutta la Galilea e scacciando i demoni. 1. Messaggio nel contesto

“Andiamo altrove”, dice Gesù ai discepoli che lo cercano per mietere il successo di ciò che ha seminato il giorno prima. Per la seconda volta si ritira in preghiera nel deserto. Sulla bocca di Pietro, portavoce degli altri, vediamo anche la prima tentazione: “Tutti ti cercano”. Essa si cela nel pronome personale “ti”, e consiste nel cercare il proprio io invece di Dio, mettendolo al centro di tutto. È l'egoismo, principio di tutti i mali. Ma Gesù non vuole il successo personale, neanche “a fin di bene”. Si nota qui la prima incomprensione tra lui e i suoi, i primo scontro vellutato tra il pensiero dell'uomo e quello di Dio. I discepoli sono certo in buona fede: lo cercano e lo consigliano per amor suo. Vedremo d'altronde che Gesù, quand'è da solo con loro, li disorienterà sempre, soprattutto di notte (cf 4,35 ss; 6,47 ss; 14,17 ss) - ma anche di giorno, quando parlerà della “sua notte” (8,31-33; 9,31-34; 10,32-45). Per loro, chiusi nella prospettiva mondana e ciechi davanti a quella di Dio, questi disorientamenti diventeranno semi di conversione. La giornata tipo di Gesù si conclude con la preghiera notturna, che dà inizio alla nuova attività. Per lui la contemplazione è insieme termine e sorgente dell'azione, fine di ciò che ha fatto e principio di ciò che sta per fare. La preghiera è stare davanti a Dio. Fatto a sua immagine e somiglianza, davanti a lui l'uomo è se stesso; lontano da lui, è lontano da sé e dalla propria realtà, fino a diventare nulla di sé. Per questo il fine di ogni ministero è insegnare chi e come pregare, per entrare in comunione con Dio, e trovare così il rapporto vero con sé e con gli altri. La preghiera innanzitutto non è un parlare “di” Dio, ma un parlare con” Dio, stando attenti a non scambiarlo con le proprie immagini di lui (idoli). Non è trascurabile il fatto che Gesù preghi durante la notte, figura della morte. Questa non è la fine di tutto, ma il luogo del rapporto pieno con Dio, forza per un giorno nuovo. Tutte le culture hanno un senso religioso che intuisce la preghiera come relazione vitale e necessaria col trascendente. Questo è positivo in sé, anche se poi, a causa del peccato, devia naturalmente in una direzione moralistica e/o magica: si prega per tenersi buono Dio e/o piegarlo al proprio volere e ai propri bisogni. La nostra società occidentale, che vive come se Dio non ci fosse (tamquam Deus non daretur), ha messo tra parentesi l'apertura all’infinito, col bel risultato di togliere all'uomo quell'elemento che lo fa tale, dandogli senso e libertà. Anche il credente respira un'aria in cui l'unico orizzonte è quello asfissiante del manufatto umano, incapace di soddisfare la sete di senso sita nel cuore di ciascuno. Per il giudeo-cristiano la preghiera è assai diversa da quella che scaturisce dal vago senso religioso comune a tutti: è un rapporto fiducioso, filiale, rispettoso, creaturale, da persona a persona, con Dio, unico interlocutore degno dell'uomo. Si va a lui non tanto per chiedergli qualcosa, perché ci dà tutto noi stessi. il mondo e se stesso! - quanto per ringraziarlo e amarlo, conoscerlo e vivere cosi nella verità. Il dialogo con Dio è l'arte suprema che fa essere l'uomo quello che è, nella sua dignità di partner di Dio. Gesù ha la sua vita in comunione col Padre. Per questo la preghiera è il punto d'arrivo della sua giornata, la forza per non cadere in tentazione e la molla inesauribile della sua missione al fratelli. Il discepolo impara cos'è la preghiera vedendo lui che prega. La descrizione essenziale che Marco ne fa, ce ne fa comprendere gli elementi fondamentali. 2. Lettura dei testo v. 35 E di buonora, in notte fionda, levatosi. Di notte l'uomo dorme. Se veglia, nel silenzio di ogni creatura, si trova in solitudine col suo creatore, davanti al quale è ciò che è. Scopre così la propria verità

di confine tra il nulla e il tutto. Imparentato con ambedue, se fissa il primo, è angosciato, se si volge al secondo, è raggiante (Sal 34,6). Le parole “di buonora, in notte fonda, levatosi” richiamano il mattino di Pasqua (16,2), quando Gesù si levò dalla notte definitiva. Ciò significa che la preghiera è la forza che vince le tenebre. Infatti è comunione con Dio, sorgente di vita. uscì in luogo deserto. Le parole “uscire” e “deserto” richiamano l'esodo. La preghiera impedisce all'uomo di sedersi - sarebbe una trappola mortale - e lo fa uscire dalla schiavitù e dal rumori di ciò che fa e di ciò che gli fanno, per trovarsi nel deserto, dove può ascoltare l'essenziale. e là pregava. La preghiera di Gesù è il suo rapporto di Figlio con il Padre, che è venuto ad aprire a tutti i fratelli. Marco presenta Gesù in preghiera tre volte, in tre momenti chiave di tentazione e sempre di notte: qui, dopo il primo giorno, prototipo di ogni giorno, dopo il fatto dei pani (6,46) e nell'agonia nell'orto (14,32 ss). Come sarà stata la sua preghiera? Nella tradizione biblica essa è caratterizzata da un dialogo fiducioso, familiare, da amico a amico, Insistente, che si interessa degli altri e intercede per loro (cf Gn 18,22-32); è la forza per vincere il nemico (cf Es 17,8-13); è la semplicità di srotolare davanti al Signore le proprie angustie, oscurità e minacce (cf 2Re 19,10-19); ha l'aspetto di una lotta con Dio, che percepiamo come nemico, perché ci toglie le maschere e ci svela il nostro vero nome (cf Gn 32,23-33). Nel NT anche lui leva la maschera che gli abbiamo appiccicato e rivela il suo vero nome di Padre (cf 14,32-42); e noi ci scopriamo figli. Nella preghiera otteniamo infallibilmente lo Spirito Santo (cf Lc 11,9-13), la vita di Dio, l'amore reciproco tra Padre e Figlio. il cui frutto è il cambiamento radicale della nostra esistenza in una vita filiale e fraterna (cf Gal 5,22). v. 36 lo inseguì Simone. Pietro non segue ancora solo Gesù, ma anche i suoi desideri, che vede realizzarsi in lui. Crede ormai di averli perseguiti, lui si presta a cogliere l'occasione opportuna. Per questo lo insegue, quasi lo perseguita. v. 37 Tutti ti cercano. Per noi cercare Gesù, il volto di Dio, è Il fine ella vita. “Di te ha detto il mio cuore: Cercate il suo volto” (Sal 27,8). Ma per Gesù è la prima tentazione, che ha in comune con ogni uomo: quella di cercare il proprio io. L'io, quando cerca se stesso, è il nemico mortale dell'uomo, perché chiude all'altro. v.38 Andiamo altrove. Gesù conosce e respinge questa tentazione di tana, che già ha affrontato nel deserto. La forza per vincere gli viene dalla preghiera. Questa, in quanto dialogo con l'Altro, è già sconfitta all'egoismo, passaggio dall'io a Dio. nei borghi vicini. Ciò che ha fatto a Cafarnao, deve essere fatto altrove, cominciando dai villaggi più vicini, andando sempre più lontano, fino li estremi confini della terra. perché anche là proclami. La comunione con il Padre che ama tutti i figli, è la spinta verso tutti i fratelli. Anche i discepoli saranno inviati ad annunciare e a vincere il male nella misura in cui staranno “con lui” J3-15), che sta sempre presso il Padre. Contemplazione e azione non oppongono: la prima è sorgente della seconda, e questa deve portare a quella. Se uno non è unito a Dio, la sua azione è un aiutarsi più dannoso e inutile. “Chi non è con me, dice Gesù, è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Lc 11,23).

Per questo sono uscito. È uscito non solo da Cafarnao. Lui è il Figlio cito dal Padre, per portare la buona notizia a tutti i fratelli. Il suo ritorno pieno avverrà quando il vangelo sarà stato predicato a tutte le genti (3,10). v. 39 E venne. La sua uscita dal Padre è una venuta presso tutti noi. annunciando e scacciando i demoni. È la sintesi del suo ministero: l'annuncio della parola di verità che libera l'uomo dalla schiavitù della menzogna. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: il deserto dove Gesù, di notte, si ritira in preghiera. 3. Chiedo ciò che voglio: di lasciarmi istruire dalla sua preghiera. 4.Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

notte uscire deserto

preghiera ti cercano andiamo altrove

4. Passi utili: Gn 18,22-32: Es 17,8-13; 2Re 19,10-19; Gn 32,23-33; Lc 11,9-13.

10. VOGLIO, SII MONDATO! (1,40-45) 40

E viene a lui un lebbroso invocandolo e cadendo in ginocchio e dicendogli: Se vuoi, puoi mondarmi! 41 E, commosso, tendendo la mano lo toccò e gli dice: Voglio! Sii mondato! 42 E subito se ne andò da lui la lebbra fu mondato. 43 E, sbuffando con lui, lo mandò subito via, 44 e gli dice: Guarda di non dir nulla a nessuno; ma va', mostrati al sacerdote e offri per la tua purificazione ciò che Mosè prescrisse in testimonianza per loro.

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Ora egli, uscito, cominciò a proclamare molto e a diffondere la Parola, così che lui non poteva più entrare in città apertamente; ma se ne stava fuori in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte. 1. Messaggio nel contesto “Voglio, sii mondato!”, risponde Gesù. Per questo è uscito: per mondare l'uomo dalla sua lebbra. Il lebbroso, già mentre vive, è un morto civile e religioso, tagliato fuori dalla società e dal culto. Espulso nel deserto, senza relazioni con nessuno, è l'uomo gettato da vivo nell’inferno della solitudine. L'unica legge che è tenuto ad osservare, è quella di autoescludersi gridando il suo male a chi inavvertitamente lo avvicinasse (Lv 13,45). La vita non deve avvicinarsi alla morte; la sua presenza la contamina. Guarire un lebbroso è come risuscitare un morto: solo Dio può farlo (2 Re 5,7). La lebbra, col suo disfarsi della carne, rappresenta visibilmente ciò che ognuno teme e sa come suo futuro; è specchio di ogni vita, infetta di morte. La legge, che discerne tra puro e impuro, tra bene e male, tra giusto e peccatore, non può che giustamente distinguere, dividere e segregare. Nel vano tentativo di difendere la vita, non può far altro che costatare la morte. Gesù invece è la “buona notizia” di uno che tocca il lebbroso guarendolo, perdona il male sanandolo, assolve il peccatore giustificandolo (brano seguente). Gli esclusi dalla legge - addirittura i suoi trasgressori - sono i destinatari di questo dono. Infatti è il medico, venuto per i malati e non per i sani (2,17). Questo miracolo introduce una sezione di cinque dispute sulla differenza tra la legge e il vangelo. Alla fine sarà decretata la morte di Gesù stesso (2,1-3,6). Il lebbroso mondato rappresenta il passaggio dall'uomo vecchio, che la legge relega nella morte, a quello nuovo, che annuncia la “buona notizia”. È figura del battezzato che, come Nahaman il Siro, esce dal Giordano con la carne fresca di un bambino (2 Re 5,14). L'ex-lebbroso è il primo apostolo di fatto, che Gesù stesso invia al tempio, annuncio vivente del vangelo. Il secondo apostolo sarà l'ex-indemoniato, inviato presso i pagani (5,19). Questo lebbroso, con pochi altri (5,25-34; 7,26 ss; 10,46-51), chiede un miracolo: sa cosa volere, e chiede ciò che vuole. Gli altri non sanno cosa volere o non possono o non osano chiedere. Ciò che Gesù fa a loro è un'istruzione per noi, che così sappiamo cosa volere e chiedergli: esattamente il dono che fa loro. I suoi prodigi servono a liberare le nostre aspirazioni profonde, lasciate sopite perché ritenute impossibili. Vedendo e invece realizza e, abbiamo il coraggio di sperare e cominciamo a chiedere, aprendo la mano per ricevere ciò che lui ci vuol donare. Le parole brevi che Gesù aggiunge al miracoli sono un'educazione di questi desideri: spiegano cosa lui vuol darmi al di là dei miei stessi desideri, che restano sempre ambigui finché sono mossi più dalle mie paure che dalle sue promesse. Solo così posso rispondere correttamente alla sua domanda: “Cosa vuoi che io ti faccia?” (10,36.51), e chiedere ciò che voglio, volendo ciò che lui vuol darmi. Il desiderio è la facoltà più alta dell'uomo: non produce nulla, ma è capace di tutto, anche dell'impossibile - è capace di Dio stesso. Nel miracolo non si dice né il nome né il luogo né il tempo, in modo che il nome sia il mio, il luogo sia qui e il tempo sia ora. Quando ascolto il vangelo - l'ex-lebbroso stesso lo proclama come Gesù - se mi converto e mi affido a Gesù, per me si realizza qui e ora ciò che viene raccontato.

Gesù esprime la sua volontà di “mondare” la nostra vita, liberandola dalla lebbra che la devasta. La legge dichiara il male. Lui lo guarisce. Discepolo è colui che gli chiede questo dono. Ogni dono può essere fatto solo a chi lo desidera. Tutto ciò che Gesù fa e dice nel seguito del vangelo, è quanto vuol darmi e quanto posso, anzi devo, desiderare da lui, con umiltà e fiducia, chiedendolo con insistenza. 2. Lettura dei testo v. 40 viene a lui un lebbroso. Se qualcuno gli si avvicinava, il lebbroso doveva avvisarlo del pericolo che correva, in modo che lo evitasse, gridando: “Immondo, immondo” (Lv 13,45). Costui invece viene da Gesù. Solo gli esclusi, i non aventi diritto e gli impossibilitati hanno accesso immediato a lui! Il mio diritto ad accostarmi al Signore non viene dal fatto che sono giusto e degno, bello e buono. Proprio perché ingiusto e immondo, brutto e peccatore, ho il diritto di andare da lui direttamente. Questo è il “vangelo”, la buona notizia che i salva: Dio mi ama perché mi ama; la mia miseria non è ostacolo, bensì misura della sua misericordia. Lui non è la legge che mi giudica né la coscienza che mi condanna: è il Padre che dà la vita, e mi ama più di se tesso, senza condizioni, così come sono. Il mio male, la mia non-amabiltà lo spingono verso di me con un amore che non conosce altro metro che quello del mio bisogno. Gesù significa: Dio salva. Proprio e solo nella mia perdizione posso conoscerlo. invocandolo e cadendo in ginocchio. I1 pudore a invocare a salvezza e a mettersi in ginocchio davanti al Salvatore, è come quello di chi non osa dire al medico il suo male. È un falso pudore che viene dal nemico, una sprovveduta autosufficienza che maschera un'autoinsufficienza senza speranza. All'invocazione con la voce, si accompagna il gesto del corpo: si inginocchia. L'invocazione esprime il bisogno. L'uomo ha bisogno di tante cose, che gli sembrano impossibili. Ma è soprattutto malato d'impossibile: è bisogno di Dio stesso. Per questo è invocazione. Questa ottiene l'impossibile. Ogni brano del vangelo mi fa vedere un mio bisogno, ed educa il mio desiderio a formularsi nell'invocazione corrispondente. Se vuoi, puoi mondarmi. “Sei venuto a rovinarci!” è l'esclamazione del male, che si difende e cerca di identificarsi con l'uomo. Questa invece è la preghiera dell'uomo che conosce il male e vuol guarire. È la prima preghiera rivolta a Gesù: esprime un desiderio, unica possibilità per ricevere un dono. Dove manca, Gesù stesso lo provoca con la sua domanda: “Vuoi essere guarito?” (Gv 5,6). Il lebbroso non solo desidera, ma sa che Gesù può guarirlo. A una simile domanda di guarigione dalla lebbra, il re d'Israele rispose: “Sono forse Dio per dare la morte o la vita?” (2Re 5,7). Così Marco prepara la domanda di tutto il vangelo che uscirà nel brano seguente: chi è costui, che fa tali cose? Questo lebbroso sa cosa vuole - la sua lebbra è evidente! -, intuisce la possibilità nuova e chiede (cf il cieco di Gerico: 10,46 ss); ma ancora non sa se Gesù vuole. Il Signore rivelerà di non volere altro. v. 41 commosso. La parola indica un muoversi delle viscere. È l'attributo materno di Dio, che è amore per l'uomo. Dio si commuove davanti al nostro male, perché è Dio e non uomo (Os 11,9). “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il frutto delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”, dice Dio (Is 49,15). Altri codici leggono “adiratosi”. L'ira di Dio è il suo intervento salvifico: è l'ira contro il male che uccide suo figlio.

tendendo la mano. La mano è segno di azione. La “mano tesa” è attributo di Dio che compie i prodigi dell'esodo (Es 4,4; 7,19; 8,l; 9,22; 14,16; 21,26 s). Qui il Signore compie più di un gesto creatore: con la sua potenza fece una vita per la morte; ora con la sua compassione cambia la morte in vita. È il suo gesto salvatore, che porterà a compimento quando tenderà tutte e due le braccia sulla croce. lo toccò. Il contatto con Gesù, salvezza dell'uomo, è la fede, che mette comunione con lui (cf 5,25-34). Toccare suppone vicinanza estrema e ore. È importante notare che solo i malati toccano Gesù o sono toccati lui. Il nostro limite - il nostro male e il nostro peccato - è il luogo dove entriamo in contatto con lui. Dall'alto della nostra giustizia non toccheremo mai l'Altissimo. Solo nell'abisso della nostra miseria siamo toccati dalla sua infinita misericordia. Voglio. La volontà di Gesù è la stessa di Dio, “il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati” (1Tm 2,4). Gesù la esprime perché smettiamo di sperare, e desideriamo ciò che non osiamo sperare. Il suo desiderio è chiaro; e desidera che sia anche il nostro. Sii mondato! La guarigione dalla lebbra significa non solo l'essere reintegrato nella società civile e religiosa; è figura anche della salvezza dalla morte, di cui il disfarsi della carne è un anticipo. La nostra vera lebbra è paura stessa della morte, che infetta tutta la nostra vita e sta all'origine della “febbre” del brano precedente. v. 42 E subito se ne andò la lebbra. Al nostro desiderio espresso come vocazione, viene sempre incontro il suo tocco; e la sua parola ci libera. v. 43 sbuffando con lui, lo mandò via. È strano questo gesto di sbuffare. Forse voleva stare con lui, come l'uomo di Gerasa, e fargli propaganda indesiderata. È un'espressione forte, e corrisponde allo “sgridare” di 3,12; 8,30; 10,48. Gesù vuole segretezza. L'ex-lebbroso ha una missione compiere, e lo “mandò via” (= gettò fuori) per questa, come lui stesso dopo il battesimo, fu “gettato fuori” dallo Spirito nel deserto (v. 12). v. 44 non dir nulla a nessuno. Gesù ha sbuffato contro di lui per sottolineare questa proibizione. Come in quasi tutti i miracoli, c'è il cosiddetto segreto messianico” (cf v. 35), che di solito viene trasgredito. Ma qui è trasgredito per ordine dello stesso che proibisce di parlare! La contraddizione manifesta sta forse a richiamare il lettore. Quest'ingiunzione al silenzio vale per lui, che sarà autorizzato a raccontare quanto ha udito solo quando, come l'ex-lebbroso, l'avrà sperimentato in prima persona (cf. anche l'indemoniato di Gerasa, 5,19). ma va', mostrati al sacerdote, ecc. Lo manda via per compiere questa missione presso i custodi della legge. La guarigione dalla lebbra, secondo Lv 13,49, deve essere costatata dai sacerdoti. in testimonianza per loro. In questo modo il lebbroso testimonia che c'è o che fa ciò che alla legge è impossibile: tocca un lebbroso e lo monda. La legge può solo descrivere e segregare il male. Chi sarà costui che lo vince? Questa testimonianza è a favore o contro i sacerdoti? A favore, se l'accolgono, contro, se non l'accolgono. v. 45 cominciò a proclamare molto e a diffondere la Parola. “Proclamare” e “diffondere la parola” sono termini tecnici della missione. L’ex-lebbroso, primo apostolo mandato ai sacerdoti, è evangelizzazione vivente: ha sperimentato in prima persona la misericordia del Signore verso di lui, e

l'annuncia agli altri. Il vangelo sarà sempre annunciato da chi non conta. Perché il vangelo è Gesù, la pietra scartata diventata testata d'angolo ( 12,10). non poteva più entrare in città apertamente; ma se ne stava fuori in luoghi deserti. Ciò che la legge prescrive al lebbroso, ora colpisce Gesù che lo ha toccato: dimora fuori dall'abitato nel deserto. Toccandoci, si è caricato del nostro male; la nostra lebbra si è scaricata su di lui (cf Is 53,3-5). venivano a lui da ogni parte. Quando cala la sera e finisce il giorno dell'uomo, l'azione di Dio si dilata a dismisura (cf vv. 32-34). Così ora, mentre Gesù si ritira, tutti accorrono a lui (cf 3,7 ss!). È l'anticipo di quando, innalzato, attirerà tutti a sé. E chi lo vedrà sarà salvato (Gv 12,32; 3,14 s). Egli è il centro, verso il quale accorre chiunque, come il lebbroso, ha riconosciuto il proprio bisogno e chi può soddisfarlo. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo, fuori dall'abitato, in cui Gesù incontra il lebbroso. 3. Chiedo ciò che voglio: “Se vuoi, puoi mondarmi”. 4. Traendone frutto, mi identifico con il lebbroso, e osservo ogni parola. Da notare:

invocare cadere in ginocchio se vuoi, puoi mondarmi

lo toccò voglio, sii mondato va'...

4. Passi utili: Lv 13,1-2.44-46; 2Re 5,1 ss; Is 53,3-5; 1,16-19.

11. IL FIGLIO DELL'UOMO HA POTERE DI RIMETTERE I PECCATI SULLA TERRA (2,1-12) 21Ed entrato di nuovo giorni dopo in Cafarnao, si udì che è in casa. 2 E si riunirono molti, così che non c'era più posto neanche davanti alla porta, e diceva loro la Parola. 3 E giungono portando a lui un paralitico sollevato da quattro. 4 E, non potendo portarglielo dinanzi a causa della folla, scoperchiarono il tetto dove si trovava

e, fatta un'apertura, calano il lettino dove giaceva il paralitico. 5 E vista Gesù la loro fede, dice al paralitico: Figliolo, sono rimessi a te i peccati. 6 Ora c'erano alcuni degli scribi lì seduti a ragionare nei loro cuori: 7 Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere peccati se non il solo Dio? 8 E subito, conosciuto Gesù nel suo spirito che così ragionavano in se stessi, dice loro: 9 Perché così ragionate nei vostri cuori? Che cosa è più facile: dire al paralitico: Sono rimessi a te i peccati o dire: Risvegliati, solleva il tuo lettino e cammina? 10 Ora, perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha potere di rimettere i peccati sulla terra, 11 dice al paralitico: Io ti dico: Risvegliati solleva il tuo lettino e va' alla tua casa! 12 E fu risvegliato e subito, sollevato il lettino, uscì davanti a tutti, sì che rimasero meravigliati tutti e glorificavano Dio dicendo: Così non abbiamo mai visto! 1. Messaggio nel contesto “Il Figlio dell'uomo ha potere di rimettere i peccati stilla terra”, dice Gesù mentre perdona al paralitico e lo fa camminare. “Così non abbiamo mai visto”, esclamano tutti in coro. Solo Dio, può guarire dalla lebbra (2Re 5,7); solo lui può rimettere i peccati. Se la lebbra è la malattia mortale che distrugge l'esterno, il peccato è la malattia mortale che distrugge l'interno dell'uomo: è una

paralisi, che gli impedisce di muoversi e di raggiungere Dio. Gesù purifica la nostra vita dalla morte proprio perdonando il peccato e rimettendoci sul nostro cammino. Con questo racconto inizia una serie di cinque discussioni tra legge e vangelo (2,1-3,6), tra lettera che uccide e Spirito che dà la vita (2Cor 3,6). Fin dall'inizio del suo ministero in Galilea, Gesù viene a trovarsi in conflitto con le autorità religiose, che ben presto si accorderanno con quelle civili per ucciderlo (3,6). Anche al termine della sua attività, ci saranno altre cinque discussioni (11,27-12,37), nelle quali specificherà il “suo” potere, di cui qui parla. In questa, come nelle seguenti dispute, non solo si rivendica la libertà cristiana dalla schiavitù della legge e si risolvono dei problemi scottanti per la comunità cristiana, quali la sua commensalità coi peccatori (vv. 15-17), il digiuno (vv. 19-22) e la festa (vv. 2,23-3,6). Si tratta soprattutto di riconoscere il “potere” di Gesù, ciò che è venuto a fare sulla terra: egli è venuto a darci quei doni che la legge non poteva darci, ma dei quali ci aveva suscitato il desiderio, mostrandocene la mancanza e facendocene sentire il bisogno. Nessuna legge può far amare. E il comando di Dio è di amarlo (Dt 6,4 ss). Solo nel perdono, scoprendo e accogliendo il suo amore gratuito, diventiamo capaci di amare come siamo amati. Per questo il potere di Gesù, il suo unico potere, è lo stesso di Dio: perdonare. La legge è buona perché distingue il bene dal male, la vita dalla more. Ma non salva nessuno; anzi ci condanna tutti, perché seguiamo la via del male e della morte. Per la nostra coscienza, se non ci difendiamo, essa suona continuamente rimprovero e denuncia. Il cuore che sa la verità non mente a se stesso, è sempre compunto, convinto di peccato. La legge ha come fine quello di farci vedere la nostra lebbra, di mostrarci la nostra paralisi e di convincerci del nostro peccato, perché possiamo rivolgerci al medico, sapendo cosa chiedere con fede e conoscendo il dono che riceviamo. È il “pedagogo” che porta il discepolo recalcitrante dal Maestro (Gal 3,24). La sua funzione è indispensabile per condurci di continuo davanti al perdono di Dio, dove solo è superata. Per questo la legge è perenne; ma la sua funzione, anche se ineliminabile è transitoria, perché cessa una volta che si è raggiunta la grazia. Il Vangelo è la buona notizia che Dio non è né la legge né la coscienza, ed è più grande del mio cuore (1Gv 3,20). Egli è puro amore e grazia; si prende cura del mio male e della mia morte; invece di escludermi, mi tocca come il lebbroso; invece di condannarmi, mi perdona come il paralitico. Così mi guarisce da ciò che mi impedisce di camminare per la via del bene e della vita. Si può dire che, come la legge è la diagnosi del male, così il vangelo ne è la terapia. Per quanto diverse, sono ambedue necessarie, come una buona diagnosi è indispensabile per una terapia adeguata. Il centro del brano è il perdono del peccato, che nessuna legge e nessuna coscienza può concedere. In questo racconto è In gioco sia la vera immagine di Dio, che è misericordia e perdono, sia la divinità di Gesù, che ha il potere di rimettere i peccati, sia la salvezza dell'uomo, che finalmente sa di essere amato senza condizioni. Gesù è il Figlio dell'uomo che ha in terra il potere di Dio: rimettere i peccati. Qui dichiara espressamente e per l'unica volta il motivo di tutti i suoi miracoli e della sua missione (cf v. 17): mostrare questo potere. Il perdono non solo è divino, ma è Dio stesso, la cui potenza è amore senza limiti. Il discepolo è colui che per fede si sa perdonato e graziato da Gesù. Si sente non più diviso, ma riconciliato con Dio, con sé e con gli altri. La Chiesa è raffigurata come la casa dalla porta spalancata alle folle, al cui centro sta lui stesso, verso il quale tutti accorrono. Sopra di lui anche il tetto è scoperchiato, aperto verso il cielo. Ogni male e peccato cadono su di lui, che in croce porterà la nostra paralisi. Così potremo camminare verso la casa del Padre.

2. Lettura dei testo v. 1 giorni dopo. Dopo la guarigione del lebbroso Gesù si era ritirato in luoghi deserti. Da qui passa clandestinamente alla casa, dove però vengono a sapere che si trova. si udì che è in casa. La casa, che accoglie i figli, è una figura materna, immagine della Chiesa. Al suo centro sta Gesù che “dice la Parola”. Probabilmente è la casa di Pietro, dove già ha compiuto il miracolo del servizio (1,29-31). Per questo è ora luogo di accoglienza per tutti. Sarà addirittura scoperchiata, per accogliere ciò che è calato dall'alto (At 10,9 ss). v. 2 E si riunirono. In greco c'è la parola syn-ágo, da cui deriva la parola “sinagoga”, luogo di riunione del popolo in ascolto della parola di Dio. Prima Gesù usava predicare nella sinagoga (1,39). D'ora in poi ci entrerà solo ancora due volte, e solo per essere rifiutato (3,1-5; 6,1-6). Questa casa va diventando la nuova sinagoga, sempre più piena e aperta, tanto che non c'è più posto neanche davanti alla porta (cf anche 1, 33). diceva la Parola. “Parola” nel NT equivale a “vangelo”, ed è Gesù stesso, che insieme è proclamato e proclama il vangelo di Dio (cf 1,1.14). Quando udiamo la Parola, ascoltiamo lui in persona. L'annuncio è la voce; ma la Parola è lui stesso. Percepiamo quella con l'orecchio e questa il cuore. v. 3 un paralitico. L'uomo è essenzialmente viator. A struttura “eccentrica”, col suo centro fuori di sé, cammina per raggiungerlo. L’immobilismo è il suo fallimento. Gli impedisce di raggiungere il suo fine. La Bibbia ci dice che è stata la paura e il non conoscere dove andare a paralizzarlo. È una paralisi maligna, che viene dal veleno del serpente, un blocco provocato dalla menzogna antica (Gn 3). sollevato da quattro. Quattro è il numero cosmico: quattro sono gli elementi - acqua, aria, terra, fuoco -, i punti cardinali e le dimensioni del cosmo. Finora sono quattro anche i chiamati: Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni. Tutto porta a Cristo! Come tutto sussiste in lui e fu fatto mezzo di lui, così tutto tende verso di lui (Col 1,16 s). I Padri hanno visto in questi i quattro evangelisti, il cui annuncio, perpetuato nel secoli, a tutti gli uomini a Gesù. non potendo portarglielo dinanzi a causa della folla. La folla è come una siepe attorno a Gesù. Per raggiungerlo bisogna uscirne, facendo passo in avanti verso di lui. La folla è una massa di individui tutti lì, chiusi in sé e tra di loro. È il contrario dei popolo, che è un insieme differenziato e ordinato di persone in relazione una con l'altra. L’ascolto della parola di Gesù segna il passaggio da individuo a persona, da folla a popolo. scoperchiarono il tetto. Gesù, Parola di salvezza, è nascosto sia nella lettera del vangelo come il grano nella pula, sia nell'umanità della Chiesa come una persona nella sua casa. Dobbiamo con la lettura aprire il vangelo per conoscerlo, e con la fede penetrare nel mistero della Chiesa per incontrarlo. calano. Dove sta Gesù, sia nel vangelo che nella Chiesa, si entra solo calati dall'alto mediante la fede di altri fratelli, che sta all'origine della nostra. il lettino dove giaceva il paralitico. Il letto per uno sano è il luogo di riposo. Per un malato è il luogo di contenzione. È come la legge: pienezza di vita per chi la osserva - e chi la osserva? -, è carcere per chi la trasgredisce (Gal 3,22 s). Ma a Dio è piaciuto rinchiudere tutti nella disobbedienza per usare a tutti misericordia (Rm 11,32). Questo giaciglio, nominato per ben quattro volte, è importante.

v. 5 E vista Gesù la loro fede. Il paralitico non ha ancora fede; se l'avesse, camminerebbe, perché credere è seguire Gesù (cf 1,15-20). Si parla della fede dei suoi portatori. Chi già cammina, porta a Gesù chi ancora è legato dal male. Il credente è responsabile davanti a Dio dei mondo. Chi ancora non crede è portato a Cristo dalla sua fede, che diventa così carità. sono rimessi a te. Rimettere significa allontanare, mandar via. I peccati, che prima aderivano e avvolgevano l'uomo tenendolo legato, ora sono allontanati da lui. i peccati. Peccare in ebraico significa essere deviato, mancare l'obiettivo, come una freccia che fallisce il bersaglio. Il peccatore è un uomo sviato dal suo fine. Fatto per Dio, a sua immagine e somiglianza, la menzogna del serpente gli ha messo paura e sfiducia nei suoi confronti. Fuggendo da lui, è rimasto nudo, spoglio anche di sé. Cos'è un'immagine che si allontana dalla realtà di cui è riflesso? L'uomo senza Dio è alienato dal proprio io. Questa è la vera alienazione religiosa di oggi e di sempre. Perdendo Dio, l'uomo perde se stesso. Rimane creatura mancata, senza principio e senza fine, senza radici e senza senso. Immagine e somiglianza ormai solo del nulla, scompare e svapora come un ruscello che si stacca dalla propria sorgente. Ma rimane sempre nostalgia della sua verità. Non può accettarsi così! Per questo spende la sua vita a litigare con sé - e, come con sé, anche con gli altri - nell'inutile tentativo di coprire con foglie di fico la sua nudità. Tutti abbiamo peccato, e siamo privi della gloria di Dio (Rm 3,23). Chi dice di non aver peccato, fa menzognero Dio (1Gv 1,10). Il vero peccato è quello di non riconoscerlo (cf Gv 9,4 1 ). In sintesi si può dire che il peccato è in radice l'ignoranza dell'amore di Dio per noi. Lo pensiamo sì come Padre, ma in quanto datore della legge e giudice severo. Ignoriamo che è madre, amore e accoglienza infinita per tutte le sue creature. Né più né meno del religioso, anche l'ateo è vittima della falsa immagine di Dio - esattamente quella che rifiuta. In verità la nostra epoca, come qualunque altra, non è atea: è solo idolatra. È interessante notare come “idolatria” significhi culto dell'immagine. L'uomo è per sua natura insufficiente in sé perché relativo all'altro, e, in ultima istanza, all'Altro. ( trova in lui la propria realtà, o si perde nel culto dell'immagine, inabissato nel vuoto dell'apparenza. L'angoscia mortale è il posto vacante di Dio nel cuore dell'uomo: se non si volge a lui, sempre gli resta; e nessun idolo può colmarla. Notiamo anche come in un mondo ateo il senso di colpa prevalga su quello dei peccato. La colpa infatti è nei confronti della propria immagine, il peccato nei confronti dell'Altro. Se dalla finestra faccio cadere un sasso in testa a un estraneo, mi sento in colpa, dispiaciuto anche, e forse soprattutto, per ciò che ho fatto; se cade in testa a un amico, sono dispiaciuto per ciò che si è fatto. È anche importante notare che la colpa conosce solo l'espiazione; il peccato invece conosce il perdono. v. 6 scribi. In questo brano c'è l'incontro-scontro tra il potere di Gesù e quello degli scribi (cf 1,22). Sono gli esperti della legge, che dichiara il bene e il male. Essa, lungi dal giustificare l'uomo, maledice chiunque non rimane fedele a tutte le sue prescrizioni (Gal 3,10). Ma ha la funzione positiva di portarmi davanti al Maestro. Mostrandomi la mia realtà sciagurata (cf Rm 7,14 ss), mi fa invocare nella mia miseria la sua misericordia, nel mio peccato il suo perdono, nella mia perdizione la sua salvezza. L'economia della legge trova il suo compimento in Cristo. L’antica alleanza della legge prepara alla nuova, quella del perdono (cf Ger 1,31 ss). seduti. Sono immobili come il paralitico, come Levi il peccatore (cf 2,14). La loro paralisi è nel cuore. ragionare nel loro cuori. In greco c'è dialoghízo, che significa fare i conti, ragionare. Si tratta di un parlare non con l'altro, ma tra sé e sé. È un soliloquio infernale, un dialogo mancato. Un monologo è parola contro la natura della parola, perché non comunica con nessuno. È capace solo di distribuire condanne e dare morte. Nei vv. 6.8 esce ben tre volte.

v. 7 Bestemmia. Nel segreto del cuore è già concepito il verdetto della condanna di Gesù. Taciuto per tutto il vangelo, verrà espresso solo quando potrà sicuramente colpirlo: il sinedrio lo accuserà di bestemmia e ne decreterà la morte (14,64). Gli scribi accusano Gesù perché, perdonando peccati, si fa Dio. Non è questo il primo e tremendo peccato: “sarete come Dio” (Gn 3,5)? Ignorano che la vera bestemmia è la loro falsa immagine di un Dio simile all'uomo, che non perdona. Ucciso per bestemmia, Gesù ci mostrerà chi è Dio e si mostrerà come Dio (15,39). In cambio del perdono che ci accorda riceve la condanna che gli infliggiamo. Chi può rimettere peccati se non il solo Dio? (cf Es 34,7; Is 43,25; 44,22). Dio, principio della vita, è l'unico che può vincere il caos del peccato, origine della morte. Solo chi ha creato può ricreare ciò che il peccato ha decretato. Se amare è dare la vita, perdonare è far risorgere un morto; e questo non lo può nessuno, se non il creatore della vita. v. 8 conosciuto Gesù nel suo spirito. Anche il soliloquio più recondito ne1 cuore più chiuso è trasparente per colui per il quale il nostro cuore è fatto. Per questo Gesù lo conosce. E lo manifesta, non per svergognarci, ma per trasformarlo in dialogo. v. 9 Che cosa è più facile, ecc. Tutte e due le cose sono impossibili all'uomo, sia rimettere i peccati, sia far camminare il paralitico. Gesù fa quella visibile come segno di quella invisibile, più difficile e profonda. v. 10 perché sappiate. Gesù dichiara per l'unica volta il motivo dei suoi miracoli. Servono a noi per sapere la realtà che lui porta: la riconciliazione. Sono le credenziali della sua missione divina. il Figlio dell'uomo. Gesù applicava a sé volentieri quest'espressione misteriosa che, secondo che l'uditore è disposto a intendere, può significare semplicemente uomo (cf Ez 2,1) o prendere il posto stesso di Dio (cf Dn 7,13). Egli è il Figlio di Dio che si è fatto Figlio dell'uomo, nostro fratello e servo, per donarci l'amore e il perdono del Padre per tutti i suoi figli. Ci ha raccontato ciò che ignoravamo: come colui che liberamente ci ha creati, ci ama necessariamente di amore eterno (Ger 31,3). potere. La parola greca (exousia) traduce l'ebraica shaltan che indica il potere di Dio. Se il potere dell'uomo è quello di peccare e distruggere, quello di Dio è perdonare e suscitare vita. È il potere suo unico, ben diverso dal nostro che può dare la morte (Gv 19,10b). sulla terra. Il potere di perdonare, che era solo in cielo con Dio, ora è sulla terra con il Figlio dell'uomo. Lui, facendosi peccato e maledizione, ci ha riscattati dalla schiavitù del male. Lo ha fatto a caro prezzo: a prezzo del suo sangue! Sulla croce ha distrutto il chirografo della nostra condanna e ha abbattuto ogni divisione tra gli uomini e Dio e degli uomini tra loro (cf 2Cor 5,21; Gal 3,13; 1Cor 6,20; 7,23; Col 2,14 s; Ef 2,15 s). Ora, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Là dove abbondò il peccato, sovrabbonda la grazia. Questo non significa che ora possiamo peccare tranquillamente (cf Rm 8,31; 5,20; 3,8; 6,1.15). Significa invece che per sua grazia possiamo già qui in terra vivere liberi dal peccato, capaci di amare come lui ci ama. Ma, siccome la nostra vita è sempre un cammino, imperfetto fino alla fine, anche se il nostro cuore ci rimprovera qualcosa, sappiamo che lui è più grande del nostro cuore (1Gv 3,19 s) e ci perdona. È in questo perdono, per la prima volta, conosciamo Dio. Nell'attuale economia, nessun giusto lo conosce, ma solo chi è salvato dal peccato. v. 11 Io ti dico. Si sottolinea il potere della parola di Gesù: opera quello che dice, per chi l'accoglie con fede, ossia non quale parola di uomo, ma come è veramente, quale parola di Dio (1 Ts 2,13).

Risvegliati (cf v. 9). Svegliarsi è una delle due parole che indicano la risurrezione di Gesù; l'altra è levarsi, sorgere. Il perdono è una risurrezione. Svegliati, o tu che dormi nel sonno del peccato. È giunta la tua luce, Cristo, e alla sua luce puoi camminare (cf Ef 5,14). solleva il tuo lettino. Prima ti ha portato fino a Gesù; ora lo puoi portare. Questo lettuccio è come la legge: prima ti teneva imprigionato, dichiarandoti colpevole e destinato alla morte, perché la trasgredivi. Proprio essa ti ha condotto da chi perdona; ora sei risorto e puoi portare il suo giogo, che è divenuto soave e dona la vita. va' alla tua casa. La casa dell'uomo è Dio. Se ne era allontanato, ed era incapace di camminare verso di lui. Ora finalmente è guarito e può mettersi a seguire il cammino del Figlio che lo porta a casa dal Padre. Il brano, iniziato con Gesù in casa, termina con il paralitico che va verso la sua casa. Dio ha preso casa tra noi perché noi trovassimo casa in lui. Tutta la nostra vita, come prima era una fuga, ora è un ritorno. L'esilio è diventato pellegrinaggio. Ora l'uomo è risorto, cammina e sa dove andare. v. 12 E fu risvegliato. Per la terza volta esce questa parola. Il perdono dei peccati è guarigione dalla morte, perché abilita a camminare verso il Padre, vita del figlio. davanti a tutti. Si sottolinea che il miracolo è pubblico. In genere Gesù preferisce farli di nascosto, in privato. Ma qui vuol indicare a tutti il senso della sua azione. meravigliati. Alla lettera: estasiati, ossia fuori di sé. Questa meraviglia profonda strappa l'uomo a se stesso e gli fa trovare nell'altro la sua identità. È il contrario del monologo tra sé degli scribi. glorificavano Dio. La gloria di Dio è l'uomo vivente (Ireneo). E la visione di un Dio che ama e perdona è la vita dell'uomo. Così non abbiamo mai visto. È la novità assoluta della buona notizia: l'uomo è liberato dal suo peccato. Gesù rende visibile quel Dio d'amore che nessuno mai prima d'ora aveva visto. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: la casa, a Cafarnao. Probabilmente la stessa di Pietro, in cui aveva guarito sua suocera. 3. Chiedo ciò che voglio: Signore, ho visto che “vuoi” mondarmi. Fa' che sappia che tu hai il potere di perdonare e allontana da me il peccato che mi paralizza. Guarisci i miei piedi, perché possa percorrere il tuo cammino e seguirti in una vita come la tua. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

casa Parola rimettere i peccati ragionare

bestemmiare risvegliare Figlio dell'uomo potere

4. Passi utili: Gio 4,2; Is 54,1-10; 2Cor 5,14-21; Rm 5,6-11; 8,31-39.

12. NON VENNI A CHIAMARE I GIUSTI, MA I PECCATORI (2,13-17) 13

E uscì di nuovo lungo il mare tutta la folla veniva a lui e li ammaestrava. 14 E, andando avanti, vide Levi di Alfeo seduto alla gabella e gli dice: Segui me! E, risorto, lo seguì. 15 E avviene che si sdraia a mensa nella sua casa, e molti gabellieri e peccatori giacevano con Gesù e i suoi discepoli erano infatti molti e lo seguivano. 16 E gli scribi dei farisei, vedendo che mangia con i peccatori e gabellieri, dicevano ai suoi discepoli: Perché mangia con i gabellieri e peccatori? 17 E, udito, Gesù dice loro: Non hanno bisogno i sani del medico, ma i malati; non venni a chiamare i giusti, ma i peccatori! 1. Messaggio nel contesto “Non venni a chiamare i giusti, ma i peccatori”, dice Gesù. Ma sulla terra “non c'è nessun giusto, nemmeno uno” (Rm 3,10 = Sal 14,1 ss), perché “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rm 3,23). Il Signore quindi è venuto per tutti; è il medico, il Salvatore di tutti. Però lo accolgono solo quelli che sanno di essere malati e perduti. I giusti restano sempre sulla lista d'attesa della salvezza, fin che non si riconoscano peccatori. Prima non possono essere salvati. Come i pescatori (1,16-20), così anche i peccatori sono chiamati alla fede. Il perdono, di cui al brano precedente, diventa vocazione a una vita nuova. Il paralitico guarito cammina; il peccatore perdonato segue Gesù. Anche Levi, paralizzato alla gabella, risorge e lo segue, e si incammina verso la sua casa, dove mangia con il Signore. Insieme ci sono tanti altri che lo seguono, e pur continuano ancora ad essere peccatori. Abbiamo qui due scene strettamente collegate: la chiamata di Levi (vv. 13 s) e il pasto coi peccatori (vv. 15-17). La prima chiarisce che il nostro peccato non impedisce la chiamata di Gesù: il suo pasto con i peccatori mostra la pazienza che egli ha verso chi lo segue, ma non ha ancora rotto del tutto con il male.

L'eucaristia, di cui il pasto è immagine, non è solo cibo dei perfetti. È anche medicina dei deboli, viatico di tutti quelli che sono sfiduciati, ai quali rimane ancora un troppo lungo viaggio da fare (1 Re 19,8). Per questo, volendo “celebrare degnamente i santi misteri”, non dobbiamo ritenerci giusti, ma “riconosciamo i nostri peccati”; e accediamo alla comunione con lui non prima di aver detto: “Signore, non sono degno”. Gesù è il medico, venuto a portare la misericordia del Padre. Egli è amore gratuito, la cui grandezza non è in proporzione ai meriti, ma al bisogno. Alla mamma non sta più a cuore il figlio più disgraziato? La salvezza è accogliere questo amore, sorgente di una vita nuova. Uno infatti sa amare se e come è amato. Il discepolo fa parte di una comunità che non esclude nessuno: è la casa scoperchiata, al cui centro sta Gesù con il paralitico-peccatore. Gli ultimi e i lontani sono i più vicini. Se si chiude ai peccatori, esclude il suo Signore, che si è fatto peccato per noi (2 Cor 5,21): diventa, invece di una comunità cattolica, aperta a tutti i figli di Dio, (“cattolico” = universale), una setta di persone che pretendono di essere giuste, perché osservano tutte le leggi di Dio - tranne quella principale, che ci rende simili a lui: amare tutti con il suo stesso amore, che è direttamente proporzionale alla non amabilità. 2. Lettura del testo v. 13 uscì di nuovo. Nel vangelo di Marco Gesù “esce” e “cammina” di continuo. La sua vita è tutta un esodo, che traccia per noi la via da seguire. lungo il mare. Lo scenario è lo stesso della chiamata dei primi quattro (1,16-20). ammaestrava. L'imperfetto indica un'azione cominciata nel passato e non ancora finita. Il suo insegnamento infatti continua anche adesso attraverso l'annuncio del vangelo. Marco sottolinea molto l'attività didattica di Gesù (23 volte): riserva a lui la parola “insegnare” e “insegnamento”, con la sola eccezione di 6,30. v. 14 vide. Come nelle altre due chiamate precedenti (cf 1,16-19), è in gioco innanzitutto lo sguardo, ossia il cuore di Gesù. Colui che si considerava come un “vermiciattolo” - e che gli altri così consideravano - vede in esso la verità di quanto il Signore ha detto: “Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo”. Per questo “non temere, perché lo ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome, tu mi appartieni” (Is 41,14: 43,4.1). Nella nota raffigurazione del Caravaggio, lo sguardo di Gesù è un fascio di luce che alza Levi dal vortice delle tenere. Levi di Alfeo. La tradizione lo identifica con Matteo. seduto. Il paralitico giaceva a letto; Levi sta seduto, come paralizzato, a quel luogo che per lui è la sua vita. alla gabella. La chiamata di Gesù è rivolta a persone che stanno facendo altro. Si volge a gente che sta pescando, lavorando, contando soldi! La potenza creatrice del suo sguardo e della sua parola fa cose sempre più difficili. A Dio tutto è possibile. Anche chiamare alla salvezza uno tutto intento ad arricchire. Paolo sarà chiamato addirittura mentre, “fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore”, andava verso Damasco per metterli in catene (At 9,1 ss).

segui me. La fede cristiana è piedi per seguire il Signore. Si segue solo chi si ama, per poter stare “con lui” (cf 3,14). risorto. Il paralitico, che dormiva nel letto del suo peccato, è risvegliato. Levi, che è morto nella gabbia del suo egoismo, è fatto risorgere a una vita nuova. seguì. Il tempo (aoristo) sottolinea l'inizio del cammino: ha cominciato a seguirlo. Lascia tutto per la grande gioia: ha scoperto il tesoro della sua vita, ha trovato la perla preziosa (Mt 13,44 ss). v. 15 si sdraia a mensa. Secondo l'usanza dell'epoca, per i pasti solenni ci si stendeva su divani. Luca sottolinea che si tratta di un grande ricevimento (Lc 5,29). nella sua casa. Il paralitico poté camminare verso casa sua. Levi può accogliere Gesù in casa sua. In essa l'uomo e il suo Signore mangiano (= vivono) insieme. La vera dimora di Dio è l'uomo che egli ama, la vera dimora dell'uomo è Dio stesso, da amare con tutto il cuore. Lo Spirito Santo è la vita di ambedue! molti gabellieri e peccatori. I peccatori sono i trasgressori della legge. I gabellieri erano peccatori particolarmente detestati: avevano in appalto la riscossione delle tasse per conto di padroni stranieri. Odiati da tutti per il loro mestiere, erano accomunati ai pagani oppressori, alle cui dipendenze stavano. “Peccatori” significava allora anche “pagani”, la commensalità coi quali suscitava problemi nella prima comunità cristiana (cf At 11,3; Gal 2,11 s). giacevano con Gesù. Il tempo del verbo, imperfetto, indica un'azione continuata. Per Gesù era abituale stare a pranzo dai peccatori. Tra loro iniziò il suo ministero nel battesimo, in mezzo a loro lo finirà sulla croce. Lo rimproveravano di essere “mangione e beone”, “amico dei pubblicani e dei peccatori” (Mt 11,19; Lc 7,34). La parola “giacere” è la stessa che si usa per l'eucaristia, quando Gesù celebra la sua pasqua, mangiando con i suoi l'ultima cena (14,17). Il banchetto è un'immagine frequente del regno di Dio. Mangiare insieme è un atto di intimità, di pace e di letizia. Sono i familiari che mangiano insieme! Ora Dio e uomo - uomo peccatore - siedono alla stessa mensa; sono della stessa famiglia. Gesù non solo perdona i peccati (brano precedente). Fa di più: condivide la sua vita coi peccatori. Il suo esempio ci insegna a staccarci non dai peccatori, ma dal peccato. Da questo ci libera la comunione con il “medico”, venuto a guarirci proprio mediante un perdono che diventa solidarietà piena nella commensalità fraterna. erano infatti molti. Si sottolinea la moltitudine dei peccatori. È un invito a riconoscersi tra di loro. Non siamo soli! Infatti chi è senza peccato? lo seguivano. Seguire Gesù significa essere discepoli. Il tempo (imperfetto) indica che lo seguono abitualmente. E come mai sono ancora peccatori?! Ma non è questa anche la nostra esperienza (cf Rm 7,14-24)? Che fare? v. 16 gli scribi dei farisei Gli scribi sono gli esperti e i farisei gli osservanti della legge. Si tratta quindi di esperti osservanti. Sono come Paolo, che, prima della conversione, si considerava irreprensibile nell'osservanza della legge (Fil 3,6). vedendo che mangia con i peccatori e gabellieri. Si sottolinea per la seconda volta il fatto, come è visto dagli occhi dei “buoni”. Se Gesù fosse peccatore, niente di strano: starebbe con i suoi pari! Lo

scandaloso è che un giusto stia con gli ingiusti. 0 il Signore stesso è peccatore - cosa impossibile -, o sta facendo qualcosa che realmente va oltre ogni giustizia. Prima si diceva che i peccatori sedevano a mensa con lui, ora si dice che lui mangia con loro: c'è reciprocità. “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, lo verrà da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). dicevano ai suoi discepoli. I farisei non esprimono mai ciò che pensano a Gesù, se non per tendergli tranelli. Parlano in genere tra sé o parlano a un altro di un altro. Qui parlano del loro maestro ai discepoli (cf v. 24!), che avranno pensato allo stesso modo. Questo problema infatti si è presentato di continuo alla comunità cristiana: che fare con chi segue, ma non è ancora perfetto? Che fare con i peccatori nella Chiesa? Come comportarsi con i pagani? Perché mangia con i gabellieri e peccatori? Si sottolinea per la terza volta il problema, ora giunto ad espressione verbale. È importante notare che mangiare significa vivere, e mangiare insieme con Gesù indica la comunione di vita con lui. “Giacere” e “mangiare” richiamano le parole del memoriale eucaristico, in cui Gesù dona se stesso. v.17 Gesù dice loro. La domanda è rivolta al discepoli; la risposta però viene da lui. Questo è il modo di procedere proprio della Chiesa: ogni questione che le si presenta, deve trovare in lui la sua risposta. Ciò che lui ha fatto e detto è la nuova legge. Ogni problema va risolto rifacendosi a1 suo esempio. Dobbiamo trattare con i peccatori né più né meno come ha fatto lui. Egli detesta il male, ma perché ama il malato. Noi invece, quando detestiamo il malato, è perché amiamo il male. Gesù odia il peccato e predilige i peccatori. Noi invece odiamo i peccatori perché ancora siamo schiavi del peccato. Quando ameremo i fratelli con la tenerezza infinita del Padre, partendo dagli ultimi, allora sarà perfetto in noi l’amore del Figlio, e saremo simili a lui (cf Lc 6,27-38). Non hanno bisogno i sani. Sani, validi e forti, sono quelli che si ritengono giusti e autosufficienti. Bastano a se stessi e rifiutano la salvezza. Offerta anche a loro, la disdegnano, perché credono di non averne bisogno. In realtà è perché la ignorano. Pensano solo all'osservanza della legge. Ma questa condanna tutti. Solo l'amore gratuito e misericordioso di Dio salva tutti. medico. Nell'AT il medico è Dio stesso. Solo lui può curare l'uomo, come solo l'amato può curare la ferita d'amore. L'uomo è fatto per Dio, e solo “mangiando con lui” guarisce la sua malattia mortale. i malati. La funzione della legge non è giustificare, bensì convincere di peccato. Ci mostra il nostro male, perché andiamo dal medico. È il “pedagogo”, cioè lo schiavo che anticamente conduceva a frustate il figlio ribelle dal maestro (Gal 3,24). non venni a chiamare i giusti. La missione del Figlio dell'uomo sulla terra è quella di perdonare i peccatori, rivelando l'amore gratuito del Padre, unica salvezza dei figli. Chi non siede a mensa con i peccatori, non mangia con lui che mangia con loro. Si esclude dalla salvezza, e non incontra chi lo guarisce dal suo male. Chi si ritiene giusto, anche se osservasse tutte le leggi, non osserva l'unica che dà vita: l'amore gratuito. Inoltre s’imbroglia: si arrocca nella propria giustizia per difendersi da Dio, quasi fosse cattivo. Questa non conoscenza del suo amore è il peccato radicale, radice di ogni peccato. È quello di Giona, che rimprovera il Signore di essere “misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che si lascia impietosire”. Proprio così: il giusto rimprovera Dio di essere Dio, e arriva a dire: “Se è così, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere” (Gio 4,2s). È veramente grande il male dal quale il giusto deve essere liberato! È una cecità che rimane, fin che crede di vederci bene (cf Gv 9,41).

D'altra parte anche i peccatori sono sempre tentati di diventare come i giusti. Pure il figliol prodigo torna a casa con lo stolto pensiero di diventare come il fratello maggiore - pensiero che il padre si premura subito di non dargli neanche il tempo di esprimere, tanto gli dispiace (Lc 15,19b. 21s). ma i peccatori. Il peccatore, che trasgredisce la legge, sarà in grado di viverla nella misura in cui si sente amato e perdonato: è salvato e giustificato (= fatto giusto) dalla grazia di Cristo, che lo abilita a seguirlo. Il giusto invece è perduto e convinto di peccato: mangia in solitudine la sua dura pagnotta di sudore, che non dà vita (cf Sal 127,2) fin tanto che rifiuta l'invito al grande banchetto imbandito per i peccatori. La nuova giustizia è ricevere questo amore gratuito che ci rende capaci di riamare come siamo amati. Ciò che non può nessuna legge, ci è donato per grazia. Ma è una risposta progressiva, un cammino che dura tutta la vita. Saremo sempre imperfetti e migliorabili, ma non per questo desistiamo dal seguirlo, né lui desiste dal “mangiare” con noi. Per questo dobbiamo sempre graziarci a vicenda, come Dio ha graziato noi in Cristo (Ef 4,32). Se nella Chiesa si escludono dalla comunità i pubblici peccatori, non è certo per dire che Dio non li ama. Anzi, che io stesso sia anatema da Cristo per amore loro (Rm 9,3), direbbe Paolo, che ben conosce i1 suo amore per loro (2Cor 5,14 s). Lo facciamo solo per denunciare il peccato. È un servizio di misericordia anche questo! Ma deve risultare chiaro che non sono condannati. Se sono segregati dagli altri, è per avere di loro una cura maggiore, oltre che per non contaminare i più deboli. Chi volesse escluderli, va certamente contro la volontà di Gesù, medico dell’uomo e salvatore dei peccatori. Il male e le debolezze, che rimangono nel credente, non solo non devono essere motivo di condanna da parte di altri, ma neppure di scoraggiamento e di tristezza da parte dell'interessato. Come è il luogo del perdono altrui, così è motivo di fiducia e di umiltà, che attira ogni benedizione. Nulla ormai ci può più separare dall'amore che Dio ha per noi in Cristo Gesù, che ha dato la vita per noi mentre eravamo ancora peccatori (Rm 8,39; 5,8). 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: siamo a Cafarnao. La prima scena è sulla strada lungo il lago di Galilea, dove Levi siede alla gabella; la seconda nella sua casa. 3. Chiedo ciò che voglio: chiedo a Gesù di conoscere nella mia miseria la sua misericordia. Il mio peccato non deve bloccarmi e paralizzarmi; è il luogo dove incontro la sua grazia. Lui è il medico venuto a guarirmi perché possa seguirlo. 4. Traendone frutto, vedo chi sono le persone, guardo quello che fanno, ascolto che cosa dicono. Da notare:

mare ammaestrare vedere seguire

risorgere mangiare giacere a mensa medico gabellieri e peccatori giusti/peccatori farisei

4. Passi utili: Giona; Lc 15; Os 2,16-25; Sal 32.

13. LO SPOSO È CON LORO (2,18-22) 18

E c'erano i discepoli di Giovanni e i farisei che digiunavano; e vengono e gli dicono: Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano? 19 E disse loro Gesù: Possono forse i figli delle nozze digiunare, mentre lo sposo è con loro? Per quel tempo in cui hanno lo sposo con loro, non possono digiunare! 20 Ma verranno giorni quando sarà loro tolto lo sposo, e allora digiuneranno in quel giorno. 21 Nessuno cuce una toppa da uno scampolo greggio su un vestito vecchio, se no il rattoppo strappa da questo, il nuovo dal vecchio, e si fa uno sbrego peggiore. 22 E nessuno getta vino nuovo in otri vecchi, se no il vino romperà gli otri, e si perde il vino e gli otri. Ma vino nuovo in otri nuovi. 1. Messaggio nel contesto “Lo sposo è con loro”, dice Gesù dei discepoli. Per questo non digiunano. Il banchetto del brano precedente richiama per contrasto il digiuno. I peccatori, nel perdono del Figlio dell'uomo, mangiano e godono; i giusti, chiusi nella difesa della propria giustizia, digiunano e sono tristi (v. 18). Mangiare significa vivere - e la vita dell’uomo è corrispondere all'amore gratuito di Dio. Questo è il suo comando, che dà la vita (12,30; cf Dt 6,5; Lc 10,25.28). Ma amare Dio è possibile solo perché lui per

primo ci ha amati (1 Gv 4,19): “mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20), quand'ero ancora peccatore (cf Rm 5,8). Per questo i peccatori banchettano. I giusti invece digiunano perché ignorano quest'amore. Tutti intenti a meritarlo, non si accorgono che l'amore meritato non è né gratuito né amore; se ne tagliano fuori proprio con il loro sforzo di conquistarlo. Il nostro mangiare da peccatori perdonati con il Signore non è un banchetto qualunque. È un banchetto nuziale (v. 19). Questa è la gioia gloriosa e ineffabile che nessuno avrebbe osato supporre: in Gesù si celeranno le nozze di Dio con l'umanità. Lui si è unito a noi per unirci a sé; si è fatto uomo perché l'uomo diventasse Dio. Ora i due vivono in comunione e intimità di vita, formano una carne sola e hanno un unico spirito. Tutta la Scrittura ci parla dell'“amore folle” (Cabasilas) del Signore; racconta dell'eccessivo amore con cui ci ha amati (Ef 2,4). Dalle prime pagine della Genesi, attraverso i profeti e il Cantico, fino all'Apocalisse, egli rivendica di essere l'unico nostro interlocutore, il nostro partner geloso. Il rapporto donna-uomo è figura del rapporto uomo-Dio. Egli ci ha amati di amore eterno (Ger 31,3). Discepolo è colui che ha conosciuto e creduto a quest'amore di Dio per lui (1Gv 4,16): dice il suo sì a chi da sempre gli ha detto sì, e vive nella gioia dell'unione. Se nel passato digiunava nell'attesa dello sposo, ora gode della sua presenza. Anche lui conoscerà il “digiuno” (v. 20), nei giorni di tribolazione, quando lo sposo berrà il calice della morte. Ma questo digiuno gli ricorderà la sorgente della sua vita, quando il Signore si farà suo cibo, unendosi a lui indissolubilmente. Il v. 21 sottolinea la novità assoluta che Gesù porta. Al suo banchetto non si può partecipare col vestito vecchio della legge, rattoppato con pezze nuove: ci si entra solo col vestito nuovo della sua misericordia. Chi cerca ancora la giustificazione nella legge, non ha più nulla a che fare con Cristo: è decaduto dalla grazia (Gal 5,4). Infatti: “Se uno è in Cristo, è una creatura nuova. Le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17). L'immagine del vino nuovo (v. 22) ribadisce la stessa verità, aggiungendo una sfumatura: il vino è segno di gioia e di amore. Nel banchetto con Gesù ci è donata una vita nuova: lo Spirito Santo, l'amore stesso di Dio promesso per gli ultimi giorni. Questa si effonde ebbra e spumeggiante, ed è incontenibile in otri vecchi. Il cuore di pietra era l'otre vecchio per la lettera che uccide; il cuore di carne è l'otre nuovo per lo Spirito che dà vita (2Cor 3,6). Gesù parla del nostro rapporto con lui attraverso immagini semplici, che rispondono a esperienze primordiali: cibo, amore, vestito, bevanda. Egli è lo sposo, che dà inizio al banchetto nuziale al quale si accede col vestito nuovo, e nel quale ci si abbevera di uno Spirito nuovo. Ciò che è vecchio è passato; ogni sua promessa è mantenuta, ogni nostra attesa compiuta: comincia la novità del vangelo, la vita nella gioia del sì reciproco tra Dio e uomo. Con questa prospettiva si conclude tutta la Scrittura (cf Ap 22). Il discepolo è unito al suo Signore come la sposa allo sposo. L'altra parte dell'uomo è Dio! Questo mistero è grande (Ef 5,32): è il grande segreto dell'universo. 2. Lettura del testo v. 18 i discepoli di Giovanni. Per loro la salvezza è colui che deve venire. Ma non sanno che è già venuto. Tutti intenti al futuro, non vedono il presente. Anche noi cristiani spesso rischiamo di fare come loro, quando pensiamo che, quando ci saranno tempi migliori, “allora sì” potremo vivere la nostra fede, mentre ora è impossibile.

i farisei. Per loro la salvezza è l'osservanza della legge. Sposati con la propria giustizia - che non può essere che presunta - sono tutti attenti al passato, a ciò che è stato detto! La parola ha sostituito colui che parla e ne trascurano la presenza. Anche noi cristiani spesso rischiamo di essere come i farisei, quando pensiamo che “una volta sì” che si poteva vivere la fede, quando le condizioni erano ideali, mentre ora è impossibile. digiunano. Il digiuno consiste in una volontaria privazione di cibo (= vita). È un atto religioso con cui riconosciamo che la vita non ci appartiene. In quanto creature, l'abbiamo e non l'abbiamo: la riceviamo in dono, e accettiamo alla fine di esserne privi, quando moriremo. Col digiuno affermiamo anche che il cibo materiale non è la nostra vita, ed esprimiamo desiderio di quello spirituale. Ma di digiuno non si vive, anzi si muore! Tutti i giusti, di qualunque tipo, sono in digiuno permanente. Per loro la vita sta tutt'al più nel futuro o nel passato, mai nel presente. i tuoi discepoli non digiunano. Per i discepoli e per i peccatori la vita è sente nel perdono di Dio che il Figlio dell’uomo è venuto a portare. È finito il tempo dell'attesa: il regno di Dio è qui. Chi si volge al Signore e segue, mangia con lui, e vive la pienezza di gioia alla quale Dio ha destinato l'uomo. v. 19 lo sposo. Lo sposo è l'attributo di JHWH (cf Osea, Cantico, Ez ecc.). Lui è l'altra parte, senza la quale l'uomo è radicalmente solo, identico a se stesso. Amarlo con tutto il cuore e unirsi a lui, è la sua vita (Dt 30,20), il fine per cui è stato creato. Questa è la sua vera dignità, principio del suo essere persona, unica, irrepetibile e libera davanti a tutto. L'amore nuziale è il più bel modo per esprimere il nostro rapporto Dio, nella sua forza esplosiva e nella sua intima tenerezza, nella sua gioia vitale e nella sua travolgente passionalità, nel suo rispetto disinteressato e nella sua fedeltà ad oltranza. “Come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo architetto. Come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te!”. Perciò anch'io “gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, ecc.” (Is 62,5; 61,10). Con la venuta di Gesù, si compie la promessa fatta alla sposa infedele: “Ti farò mia sposa per sempre e tu conoscerai il Signore” (Os 2,21 s). Chiamandosi sposo, Dio ci dato la più bella definizione di sé e di noi. Sposo e sposa sono due termini relativi, dei quali uno non può stare senza l'altro. Colui che liberamente ci ha fatti, necessariamente ci ama di amore eterno (Ger 31,3). E ci prega: “Ascolta, amami con tutto il cuore (Dt 6,4), perché anch'io ti amo e non posso non amarti. L'amore vuol essere liberamente amato. Ti comando di amarmi non per toglierti la libertà, ma perché tu non oseresti mai farlo. La menzogna ti ha chiuso il cuore a me, ma io voglio riaprirtelo. Sì, sono innamorato di te”. Il re si è invaghito della tua bellezza (Sal 12), e dice: “Quanto sei bella e quanto sei graziosa, o amore, figlia di delizie! Un re è stato preso dalle tue trecce. Tu mi hai rapito il cuore con solo tuo sguardo” (Ct 4,9). La verità dell'uomo è l'amore di Dio per lui; la sua grandezza è quella di amarlo. E uno diventa ciò che ama. Lo stesso amore che ha fatto di Dio un uomo, è capace di fare dell'uomo Dio. è con loro. Dio, che è amore, desidera stare con chi ama: ha posto la sua delizia tra i figli dell'uomo (Pr 8,31). Egli è l'Emmanuele, il “Dio con noi”. Relazione d'amore in sé tra Padre e Figlio, è relazione con tutti e tra tutti. Anche se noi l'abbiamo abbandonato, lui non ci ha abbandonati. Nell'umanità di Gesù ora è perennemente presente, e non ci lascia più. Egli, il solo che può colmare la nostra solitudine abissale, “ci consola in ogni nostra tribolazione” (2Cor 1,4). Forza della nostra vita è la sua gioia (Ne 8, 10), segno indubitabile della sua presenza. v. 20 verranno giorni. Sono i giorni del travaglio e della croce, che il nostro sposo di sangue affronterà per darci la prova del suo amore più forte della morte (Ct 8,6).

quando sarà loro tolto lo sposo. Il venerdì santo sarà per i discepoli un giorno di digiuno. Ma in qualche misura siamo sempre un po' di venerdì. Perché la gioia della sua presenza - condizione ideale della nostra vita - per ora è piena solo nella speranza. Il suo possesso non è ancora definitivo. Passa attraverso la croce e l'ascensione, in cui il Signore ci è sottratto. Lui ha fatto della sua vita una ricerca di noi; anche noi, come la sposa del Cantico, facciamo della nostra vita una ricerca di lui. allora digiuneranno. Quelli che già hanno pregustato il banchetto si ritroveranno in cammino, per seguire colui che amano. Alla gioia dell'incontro, succede la fatica della ricerca, l'aridità della croce quotidiana, la pesantezza dell'attesa. Quando lui è con noi, tutto è gioioso e facile; quando si sottrae, riemerge la pena di vivere: hai nascosto il tuo volto, e sono rimasto turbato (Sal 30,8). È come un digiuno che ci resta da fare. La nostra vita è tra il già e il non ancora: non è più quella della sposa che lo cerca senza trovarlo, ma non è ancora l'abbraccio definitivo. Siamo come la Maddalena, che l'ha abbracciato, ma, prima di stringerlo, ha ancora un cammino da fare. Questo è il nostro digiuno, ma senza tristezza, col capo profumato (Mt 6,17), certi che se moriamo con lui, con lui anche vivremo (2 Tm 2,11). v. 21 una toppa da uno scampolo greggio. Non si rovina una pezza di panno grezzo, totalmente nuovo, non ancora lavato, per aggiustare un vestito vecchio, ma la si usa per fare un vestito nuovo. Per questo il discepolo è esortato a rivestirsi dell'uomo nuovo, a rivestirsi del Signore Gesù Cristo (Ef 4,24; Rm 13,14). vestito vecchio. Cielo e terra sono il vestito di Dio (cf Sal 104,1 s; 102,26s). “Invecchieranno tutti come un vestito e saranno cambiati” (Eb 1,11s). Con la venuta del Figlio dell’uomo sono nati cieli nuovi e terra nuova; ciò che è vecchio è passato. Ecco, faccio tutto nuovo (Is 65,1 7; 2Cor 5,17; Ap 21,5). Anche il cieco getterà il suo mantello per rivestirsi della luce di Cristo (10,50). il rattoppo. In greco, per indicare la pezza che riempie il buco (“rattoppo”), si usa una parola che significa “pienezza” (pléronia). Con Gesù non c'è solo qualche pezzetto di novità: c'è la pienezza del mondo nuovo e della vita nuova. “Se uno è in Cristo, è una creatura nuova” (2Cor 5,1 7). si fa uno sbrego peggiore. Il panno nuovo strappa il vecchio sia perché bagnandosi si restringe, sia perché, facendo maggior resistenza, concentra lo sforzo sulle cuciture. Non va bene combinare vecchio e nuovo, passato e presente, legge e vangelo. Bisogna aver il coraggio di cambiare, non di combinare. Il vangelo è un'insidia per gli equilibri prestabiliti in noi e fuori di noi: comporta sempre una novità inconciliabile con il passato. Il vecchio ha avuto la sua utilità, ma ora cede il posto alla novità del presente. L'attesa finisce nell'atteso, il cammino si placa nella meta, il moto s'acquieta nel suo fine. Termina il digiuno e comincia il banchetto. v. 22 vino nuovo. È lo Spirito nuovo, promesso dal profeta. in otri vecchi. È l'uomo vecchio, venduto al peccato. romperà gli otri. Lo Spirito di Cristo è la morte dell’uomo vecchio. Chiuso nella condanna della legge. Nel perdono nasce l'uomo nuovo. si perde il vino e gli otri. L'uomo cerca sempre di conciliare capra e cavoli. Vorrebbe il nuovo senza perdere il vecchio. Ma, a un bivio, chi non ha il coraggio di scegliere, resta fermo e perde tutte e due le

strade. Chi vuol vivere lo Spirito di Cristo e resta attaccato alla legge e al suo modo precedente di vivere, sperimenta solo la lacerazione di una cattiva coscienza. vino nuovo in otri nuovi. Lo Spirito esige e dà un cuore nuovo, di carne, otre nuovo per il vino nuovo. E crea anche strutture nuove, con rapporti diversi da quelli scontati. Il credente ha deposto “l'uomo vecchio con la condotta di prima”, si è rivestito “dell'uomo nuovo, creato secondo Dio, nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,22.24). 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: la sala dove Gesù banchetta coi peccatori. 3. Chiedo ciò che voglio: chiedo a Dio di gioire della gioia che lui ha per me; “gioisco pienamente nel Signore” (Is 61,10), che gioisce per me “come gioisce lo sposo per la sposa” (Is 62,5). 4. Traendone frutto, vedo, ascolto, osservo le persone: chi sono, cosa dicono, cosa fanno. Da notare:

digiunare banchetto sposo

panno nuovo/vestito vecchio vino nuovo/otri vecchi

4. Passi utili: Cantico dei Cantici; Is 54,1-17; 61,10 s; 62,4-5; Ez 16; Os 1-3; Sal 45; Rm 6,1-14; Ef 4,20-32.

14. SIGNORE È IL FIGLIO DELL'UOMO ANCHE DEL SABATO (2,23-28) 23

E avvenne che lui di sabato passava per i seminati, e i suoi discepoli cominciarono a fare cammino cogliendo le spighe. 24 E i farisei dicevano a lui: Vedi cosa fanno di sabato, che non è lecito? 25 E dice loro: Non avete mai letto cosa fece David, quando ebbe bisogno ed ebbe fame lui e quelli con lui? 26 Come entrò nella casa di Dio

sotto Abiatar sommo sacerdote, e mangiò i pani della proposizione, che non è lecito mangiare se non ai sacerdoti, e diede anche a quelli che erano con lui? 27 E diceva loro: Il sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato. 28 E così Signore è il Figlio dell'uomo anche del sabato. 1. Messaggio nel contesto “Signore è il Figlio dell'uomo anche del sabato”. Il c. 2, iniziato con il Figlio dell'uomo che ha il potere di rimettere i peccati, termina con il Figlio dell'uomo che è Signore anche del sabato. Tutto il capitolo è una rivelazione progressiva dell'identità di colui che ha “toccato” il lebbroso: guarisce il corpo e lo spirito, restaura la vita e offre la comunione con Dio, mangia con i peccatori e dà inizio al banchetto nuziale. Con lui la creazione giunge al settimo giorno e attinge alla sorgente da cui è scaturita. Ora è doveroso fare ciò che si pensava illecito: agire e mangiare di sabato, come Dio. Abbiamo infatti la sua stessa vita. Questo è il dono definitivo che ci fa il Figlio dell'uomo. Le trasgressioni sue e dei suoi indicano la novità del Regno, il passaggio dalla promessa al compimento, che con lui è presente. Il sabato è il giorno del Signore, Dio stesso come fine e riposo dell'uomo e di ogni suo giorno. In questo senso l'uomo sarebbe fatto per il sabato; ma, non potendo perseguirlo a causa del peccato, il sabato stesso gli viene incontro per donarsi a chi non poteva ormai più raggiungerlo. Il brano ci presenta il Signore che, nel suo giorno, passa attraverso campi seminati. Quasi per sovrimpressione, lui stesso è il grano maturo - siamo quindi verso pasqua! - le cui spighe colgono quelli che stanno con lui. Per questo “cominciano a fare il viaggio”. Infatti rimane loro ancora un lungo cammino per il quale hanno bisogno di questo cibo (cf 1Re 19,7). L'immagine - in continuazione con quella del perdono, della chiamata, del banchetto nuziale, del vestito e del vino nuovo - è un'allusione all'eucaristia, in cui i discepoli mangiano e vivono del Signore che si è fatto loro pane. L'accenno è rafforzato dal richiamo a Davide, figura del messia, e da ciò che fa nella “casa”: “mangia” “i pani” della proposizione e ne “dà” al suoi compagni che sono “con” lui (cf 6,41 s; 14,22.17). Questo cibo sabatico, alimento nuovo di cui l'uomo ormai si nutre, è Dio stesso che gli si dona come sua vita. Il codice D, nel parallelo di Luca 6, 5, aggiunge: “Lo stesso giorno, vedendo uno che lavorava in giorno di sabato, gli disse: O uomo, se sai quello che fai, beato sei tu; ma, se non lo sai, sei un maledetto e trasgressore della legge”. Gesù, il Figlio dell'uomo, si rivela Cristo (messia) e Signore (cf anche l'ultima disputa, in cui ricompare Davide: 12, 35-37). Con lui l'uomo opera e mangia di sabato, entra nella vita stessa di Dio. Per questo è stato creato. I discepoli sono quelli che stanno con lui, e vengono nutriti nel cammino dal suo pane. Essi hanno la gioia di avere ciò che ogni uomo desidera e si crede vietato: la vita stessa di Dio.

2. Lettura dei testo v. 23 di sabato. Di sabato si celebra il ricordo della liberazione d'Egitto (Dt 5,13-15), e si anticipa la liberazione ultima da ogni male, in cui la creazione giunge al suo fine e Dio stesso riposa (Gn 1,1-2,3; Es 20,8-11). In esso è proibito ogni lavoro, perché è il giorno di Dio, in cui lui solo opera per eccellenza con il suo riposo, facendo pregustare all'uomo la gioia del compimento della creazione. Gesù - e qui anche i suoi discepoli - opera di sabato. Non a caso o per dispetto (Gv 5,16). La sua azione sabatica indica che il tempo è finito e tutta la storia ha raggiunto in lui suo punto di arrivo: Dio stesso e il suo riposo. Gesù non trasgredisce il sabato, ma porta il sabato all'uomo. Per questo i cristiani non celebrano festa di sabato, che è la fine della settimana; il giorno del Signore (= domenica) è il primo della settimana, perché sempre è festa. passava per i seminati. “Tu visiti la terra e la disseti. Al tuo passaggio stilla l'abbondanza. Stillano i pascoli del deserto e le colline si cingono esultanza. I prati si coprono di greggi, le valli si ammantano di grano; tutto canta e grida di gioia” (Sal 65,10.12-14). Al suo passaggio i campi germinano frumento maturo: è la pasqua del Signore. Il grano maturo è lui, il Salvatore che germoglia dalla terra (Is 45,8); in lui la nostra terra dato il suo frutto (Sal 67,7) e quelli con lui sono i primi a goderne. i discepoli cominciarono a fare cammino. Dopo il perdono del Figlio dell'uomo, il paralitico cominciò a camminare. Con queste spighe inizia santo viaggio; è la vita nuova, l'intimità con il Signore, il suo banchetto con noi. cogliendo le spighe. Si può anche tradurre: “perché colgono le spighe”. Da qui la forza per iniziare e continuare il cammino. v. 24 cosa fanno di sabato, che non è lecito. Il sabato è come il frutto proibito, che l'uomo desidera, ma non può prendere. È Dio stesso nel riposo, inaccessibile ad ogni attività umana. Ma non è proprio Dio la vita dell'uomo, come dice Mosè: “È lui la tua vita” (Dt 30,20)? Per quell’uomo di sabato non può lavorare, ma solo vivere del suo dono. v. 25 Non avete letto. Gesù si riferisce a 1Sam 2 1,1 ss. Tutto l'AT è da leggere alla luce di ciò che Gesù fa, che, a sua volta, ne viene illuminato nel suo vero significato. Antico e nuovo testamento stanno tra loro come promessa e compimento: non si può comprendere l'uno senza l'altro. David. Per giustificarsi non occorreva scomodare Davide. Gesù lo fa perché questo re, da cui sarebbe venuto il messia, ne è anche figura, soprattutto per la sua magnanimità e misericordia. quelli con lui. I discepoli di Gesù sono equiparati ai compagni di Davide, al quale Gesù paragona se stesso. Il messia doveva essere un discendente da lui (cf 2Sam 7), ma ben superiore a lui, addirittura suo Signore (cf 12,35-37). v. 26 mangiò i pani della proposizione (Es 25,30). Sono dodici come gli apostoli. Questi pani, offerti ogni sabato, sono “posti davanti” alla faccia del Signore. “E alleanza. I pani saranno riservati ad Aronne e ai suoi figli: essi li mangeranno in luogo santo, perché saranno per loro cosa santissima” (Lv 24,8 s). e diede. Come Gesù nella moltiplicazione dei pani e nell'ultima cena.

a quelli che erano con lui. Sono i suoi compagni, che dividono con lui il pane e la vita (cf 14,17). È la più bella definizione del discepolo, fatto per essere con lui (3,14). v. 27 Il sabato è fatto per l'uomo. Significa innanzi tutto che ogni legge, anche quella più sacra del sabato, è a vantaggio dell'uomo. Questo perché nella creazione tutto fu fatto per lui, compreso il sabato, che è figura del Signore stesso della vita. L'uomo è per Dio perché Dio per primo è per l'uomo, come lo sposo per la sposa. Gesù non abolisce il sabato, ma ci fa entrare in esso, proprio mediante quel frumento paragonato al “pane” che Davide nella “casa di Dio” “prese”, “mangiò” e “diede” a quelli che erano “con lui”. Ora non c'è più separazione tra sacro e profano, non perché tutto è profanato, ma perché tutto è santo. non l'uomo per il sabato. L'uomo sarebbe fatto per amare Dio e così giungere al sabato. Ma è incapace. E Dio, nel suo amore, gli viene incontro nel Figlio dell'uomo. v. 28 Signore. In greco: kúrios, traduce il nome ebraico di Dio. è il Figlio dell'uomo. Gesù è il Figlio unico e diletto (1,11), uguale al Padre, Signore del sabato. Si è fatto nostro fratello perché noi potessimo diventare figli di Dio e mangiare del sabato. Ora comprendiamo perché il Figlio dell'uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati (2,10), e quale potere ha il suo perdono: quello di fare un'umanità nuova, in comunione con Dio. Qui culmina la rivelazione di Gesù: è il Signore, venuto a comunicarci la sua vita. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: Gesù che cammina attraverso campi di grano maturo, seguito dai discepoli che ne mangiano. 3. Chiedo ciò che voglio: conoscere il mistero di Gesù, Signore del sabato, che mi fa dono del suo cibo, di se stesso come mia vita. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, cosa dicono, cosa fanno. Da notare:

sabato lecito Davide

il sabato è per l'uomo il Figlio dell'uomo è Signore del sabato

4. Passi utili: Dt 5,12-15; Is 58,13; Sal 81; Eb 3,7-19.

15. TENDI LA MANO (3,1-6) 31 Ed entrò di nuovo nella sinagoga, e c'era lì un uomo che aveva la mano essiccata.

2

E lo osservavano se lo avrebbe curato di sabato per accusarlo. 3 E dice all'uomo che aveva la mano essiccata: Svegliati, nel mezzo! 4 E dice loro: è lecito di sabato fare il bene o fare il male, salvare una vita o ucciderla? 5 Ma essi tacevano. E guardandoli intorno con ira, contristato per la durezza del loro cuore, dice all'uomo: Tendi la mano! E la tese e fu ristabilita la sua mano. 6 E usciti, i farisei subito con gli erodiani tenevano consiglio contro di lui come farlo perire. 1. Messaggio nel contesto “Tendi la mano”. Qui punta tutta l'azione di Gesù: guarirci la mano, chiusa nel possesso e stecchita nella morte, perché accolga il dono del sabato. Questo miracolo, dice Gesù, è questione di vita o di morte. Se lo fa, ci salva; se non lo fa, è come ucciderci, perché ci lascia nella nostra morte. Non basta che lui ci faccia il dono; ci deve dare anche la mano per prenderlo. Diversamente cade a terra. Tutto ciò che finora ha fatto, e che culmina nel cibo sabatico, immagine della vita divina, Gesù lo vuol donare a me personalmente. Guarisce quindi la mia mano, perché la tenda, libera il mio desiderio, perché si protenda al suo dono. “Apri la tua bocca: la voglio riempire” (Sal 8 1,11). È il miracolo più difficile di Gesù: gli costerà la vita. Infatti subito dopo il potere religioso si allea con quello civile per eliminarlo. Ma la sua croce sarà insieme il più grande male e il massimo bene: smaschererà satana e il male che ci fa impedendoci questo desiderio, e insieme rivelerà Dio e il bene che ci vuole, capace di intenerire anche il cuore più indurito. Le sue mani inchiodate scioglieranno la nostra mano rigida. Si profila all'orizzonte l'albero dal quale penderà quel frutto verso cui possiamo e dobbiamo tendere la mano, per diventare come Dio. Questo racconto chiude una tappa del vangelo, in cui Gesù ci ha rivelato chi è lui in ciò che fa per noi. Segna anche una svolta decisiva nella sua vita: sarà costretto a “ritirarsi” definitivamente “presso il mare” (v. 7). Lì, con la potenza della sua parola, Inizierà il nuovo esodo (c. 4). Libererà il popolo dalla schiavitù del male, della malattia e della morte (c.5) e lo convocherà nel deserto, dove lo nutrirà con la sua manna (cc. 6-8).Sono i sacramenti fondamentali della Chiesa: l'annuncio, il battesimo e l'eucaristia, che sono rispettivamente la chiamata alla vita nuova, il dono e lo sviluppo di essa. Gesù completa la sua rivelazione: colui che vuol mondarci dalla lebbra è il Figlio dell'uomo che perdona e dà piedi per seguirlo, mangia coi peccatori e si proclama medico e sposo, fa il dono del sabato e guarisce la mano per riceverlo. È lo stesso che finirà in croce portando su di sé la nostra lebbra, il nostro

peccato, la nostra paralisi, il nostro digiuno, il nostro silenzio, la nostra durezza di cuore. In cambio dei bene che ci dà, avrà tutto il male che ci spetta. Discepolo è colui al quale il Signore apre il cuore e la mano, per desiderare quanto lui è venuto a dare. L'uomo, fatto per amare, è di sua natura desiderio. Gli manca sempre l'essenziale, l'infinito di cui è bisogno. Tutto quanto produce non lo riempie: è inferiore a lui. Fatto per l'altro, non può produrlo, ma solo accoglierlo. Il desiderio non fa nulla; eppure tutto accoglie, ed è capace di tutto, anche di Dio. Questi, che non è raggiunto da nessuna nostra azione, è attratto dal nostro vuoto. Togliere all'uomo il desiderio, è togliere all'uccello un'ala: invece di spiccare il volo, gira goffamente su se stesso. 2. Lettura del testo v. 1 entrò di nuovo nella sinagoga. All'inizio la sinagoga era il luogo privilegiato dell'attività di Gesù: egli è la Parola che sta di casa dove si ascolta. Rifiutato nella sinagoga (qui e 6,1-6), la sua casa sarà la cerchia dei suoi uditori (vv. 31 ss). Nella sinagoga aveva liberato dallo spirito del male. Ora apre la mano. Per ascoltarlo infatti occorre essere liberati dalla menzogna, in modo da desiderare il dono che vuol fare. la mano. La mano è fatta per ricevere, per lavorare e per dare. È desiderio quando si apre per accogliere, è lavoro quando opera per completare la creazione, è dono quando fiorisce nella condivisione. Sostituendo la presa del morso, distingue l'uomo dall'animale e lo rende simile a Dio. Tutte le scienze e le tecniche non sono che un arto artificiale, in grado di sostituire la mano, ma solo nel lavoro (homo faber), non nel ricevere e nel dare, espressioni di un cuore che è amato e ama. Se questo resta chiuso, la mano si serra nel possesso, in un delirio di potenza incontrollato, capace solo di morte. Con la mano l'uomo opera ogni bene e ogni male. essiccata. È senza linfa vitale, incapace di aprirsi per accogliere il dono, accrescerlo nel lavoro e mantenerlo nella condivisione. Da quando la menzogna di satana ci fece tendere la mano all'albero del bene e dei male, ci siamo chiusi nella nostra falsa autosufficienza. La mano essiccata è figura del nostro cuore duro, insensibile e diffidente. v. 2 lo osservavano. L'occhio è fatto per stupirsi. Guarda l'altro e lo lascia entrare nel cuore. La paura lo ha reso cattivo e ha capovolto la sua funzione: si guarda dall'altro e lo giudica, si difende e lo uccide. In questo brano si parla di mano, di occhi, di bocca (tacevano) e di cuore: tutto è chiuso per il bene, ma tremendamente aperto per il male. v. 3 dice all'uomo. Questo miracolo, a differenza degli altri, è tutto iniziativa di Gesù, che, oltre il dono del sabato, deve creare mani per prenderlo. Svegliati. È la stessa parola che dice al paralitico (2,11). Indica la risurrezione. nel mezzo. L'uomo è posto al centro della sinagoga, In cui si ascolta la legge: “Amerai il Signore Dio tuo, ecc.” (12,30; DÈ6,4 s; Lv 19,18). Essa dice cos'è la vita, ma non dà la capacità di conseguirla. La mano secca rappresenta la condanna della legge che porta chi si sa condannato davanti al Salvatore. L'uomo, posto da Gesù nel mezzo, fa da specchio a tutti quelli che stanno intorno per sorvegliarlo.

v. 4 È lecito di sabato. È la stessa domanda che fecero a lui in 2,24. La liceità di un'azione dipende dal criteri che si usano. Per questo bisogna distinguere bene se sono di Dio o meno. Quelli di Dio, che è amore, sono buoni e salvano la vita. Gli altri non sono da lui. fare il bene o fare il male. La domanda di Gesù spiazza ogni possibile risposta. È chiaro che non è lecito fare il male. Sia di sabato, che in altro giorno, bisogna sempre fare il bene. Il problema è che l'uomo è impotente a fare il bene che vuole, e ad evitare il male che non vuole: è schiavo del peccato (cf Rm 7,14 ss). Gesù qui, tagliando ogni discussione, pone la domanda retorica per rivelare ciò che in realtà sta accadendo: lui di sabato fa il bene, salva la vita, ed è condannato come trasgressore; mentre i suoi avversari, in silenzio, fanno il male e uccidono la vita, tramando la sua morte. salvare una vita. È il principio di ogni azione dell'uomo: mosso dalla paura della morte, fa tutto per salvarsi. Ma proprio così diventa egoista, e perde la vita (cf 8,35). Per salvarla bisogna aprire la mano, e accogliere Dio, il suo dono e il suo perdono, la sua intimità e il suo cibo. o ucciderla. Se Gesù non ci apre al desiderio di lui, medico e sposo, la sua cura e il suo amore per noi restano inutili. Restiamo nelle mani della legge che paralizza e uccide. v. 5 essi tacevano. “Se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa” (Sal 28,1). Per questo il Signore parla. L'uomo è la risposta che gli dà. Il silenzio è la sua morte. Anche Gesù tacerà, quando sarà condannato. Ma non sarà per giudicarci, bensì per giustificarci, portando su di sé il nostro silenzio (14,60.61; 15,4.5). guardandoli intorno. Lo sguardo di Gesù è circolare: vede ognuno e abbraccia tutti. Chi vuole, può sempre incontrarlo. con ira. La sua ira non è per chi fa il male. È venuto apposta per i peccatori! La sua ira è contro il male. contristato. La sua tristezza è per il malato, a causa del male che si fa facendo il male. durezza di cuore. Contraria allo stupore, segna le tappe dell'antievangelo. È una reazione di autodifesa, una paura che diventa chiusura in sé e attacco agli altri. Corrisponde alla mano chiusa. La parola “durezza” in greco deriva da un verbo che significa “indurirsi come pietra, calcificarsi”. È chiamata anche “sclerocardia” (cf 10,5). Causa della morte di Gesù, è prerogativa dei farisei, ma anche dei discepoli davanti al suo pane (6,52; 8,17). Come uccide Dio, uccide l'uomo, perché lo rende sordo al suo amore. Per questo, in certi codici, invece di pórosis (= durezza) si legge pérosis (= sordità) o nécrosis (= morte). Costante è il lamento dei profeti contro la malvagità ostinata del nostro cuore, duro a convertirsi (Ger 3,17; 7,24; 9,13; 13, 1 0; 16,12; 18,12; DÈ29,18). Gesù, che vuol toglierci il cuore di pietra e darci un cuore di carne (Ez 36,26; cf Ger 31,31 ss), si scontra con la nostra durezza, che lo inchioda sulla croce. Ma opera mirabile di Dio! - dal male verrà la medicina: proprio e solo la sua morte, causata dalla nostra durezza di cuore, ne sarà il rimedio efficace. Tendi la mano. Gesù comanda alla mano, chiusa nel possesso e immobile nella morte, di aprirsi e tendersi per ricevere il dono del Figlio dell'uomo. I comandi di Gesù esprimono sempre qualcosa di impossibile. Dice al paralitico di camminare, a questo di tendere la mano, e al morto di risorgere. I doni di Dio infatti riguardano sempre ciò che è impossibile all'uomo, ma non a lui.

fu ristabilita la sua mano. In greco c'è la parola “apocatastizzata”: la mano è ristabilita nella sua funzione originaria, come era prima che il peccato la rendesse incapace della sua funzione vitale. v. 6 i farisei gli erodiani. Invece dello stupore che porta alla fede, c'è una reazione negativa, che apre l'ostilità. Il potere religioso (farisei) e quello civile (erodiani) solidarizzano contro Gesù (cf 8,15; 12,13). Esiste una solidarietà “contro”, che è solo per la morte. tenevano consiglio contro di lui. È un'azione prolungata; inizia qui e durerà fino alla fine del vangelo. Il potere religioso e quello civile sono accomunati nella durezza di cuore contro il Signore. L'autosufficienza, religiosa e mondana, non può accettare il suo dono. In giorno di sabato è lecito fare il bene o il male, salvare una vita o ucciderla, aveva chiesto Gesù. Lui, con la sua trasgressione, decide per la vita; questi, con i loro scrupoli, vogliono la morte. come farlo perire. All'inizio del c. 2 Gesù fu accusato di bestemmia (2,7). Ora se ne decreta la morte. Chi profana il sabato deve morire (Es 1,13). E siamo solo all'inizio del suo ministero! Ma questo non lo impedisce. Dalla decisione all'esecuzione del male c'è sempre tutto il temo necessario e sufficiente per il bene: “Egli passò beneficando e risanando tutti” (AÈ10,38). La croce si profila ormai chiara. È il prezzo del dono che ci fa di aprirci la mano. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: nella sinagoga, di sabato. 3. Chiedo ciò che voglio: Signore Gesù, guarisci la mia durezza di cuore, liberami dalle paure e dalle false autosufficienze. Aprimi la mano; donami il desiderio di te, che è la mano per accogliere il dono che mi fai. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, cosa dicono e cosa fanno. Da notare:

mano durezza di cuore tacere ira

tristezza farisei/erodiani salvare la vita

4. Passi utili : Gn 3,1-15; Sal 81; Ez 36,23-30.

16. UNA BARCA PICCOLA PER NON ESSERE SCHIACCIATI DALLA FOLLA (3,7-12) 7

E Gesù con i suoi discepoli si ritirò verso il mare; e una grande moltitudine

lo seguì dalla Galilea 8 e dalla Giudea e da Gerusalemme e dall'Idumea e da oltre il Giordano e dai dintorni di Tiro e Sidone, una moltitudine grande ascoltando quanto faceva, venne a lui. 9 E disse ai suoi discepoli di mantenergli una barca piccola a causa della folla, perché non lo schiacciassero. 10 Infatti aveva curato molti, così che gli cadevano addosso per toccarlo quanti avevano piaghe. 11 E gli spiriti immondi, quando lo vedevano, gli cadevano davanti e gridavano dicendo: Tu sei il Figlio di Dio. 12 E li minacciava molto, perché non lo facessero manifesto. 1. Messaggio nel contesto “Una barca piccola per non essere schiacciati dalla folla”: è la richiesta di Gesù al suoi discepoli. Nasce così una delimitazione tra la folla che lo schiaccia e coloro che lo toccano e sono guariti. Si tratta di uno spazio ben preciso - e piccolo! - ma aperto a tutti. È l'istituzione della Chiesa, la comunità di chi lo segue per essere con lui e formare la sua nuova famiglia. All’interno di questa saranno scelti i Dodici, come colonne del nuovo edificio (brano seguente). La sezione precedente (1,16-3,6) era una presentazione complessiva dei suo mistero, e concludeva con l'annuncio della sua passione. Questa sezione, che va da qui al rifiuto di Nazaret (3,7-6,6), si apre con un preannuncio della pasqua: il suo “ritiro” muove le moltitudini verso di lui e il suo dono. Come dall'albero viene il frutto, così dalla croce la Chiesa. La sua perdizione diviene salvezza per le moltitudini (Is 53). Infatti al suo andarsene corrisponde un esodo di masse attirate da lui nel deserto; lì parlerà al loro cuore e ne farà il suo popolo (cf Os 2,16). Con la sua attività si era limitato ai dintorni di Cafarnao; ora, col suo fallimento, raggiunge tutti i punti cardinali. Se la sua azione fu parziale, la sua passione è universale. Le folle accorrono a lui da tutti gli orizzonti lontani, inizio e anticipo della pentecoste, quando, dopo il suo “ritiro” definitivo, manderà il suo Spirito. Cambia anche il tipo di attività - un altro grosso cambiamento sarà dopo 8,30. Prima era un annuncio del Regno in opere e parole. Ora è più un insegnamento prodigato con cura a chi ha già ascoltato, perché chi ha orecchie per intendere intenda (4,23). Così il Signore avvia la sua Chiesa, educandola all'ascolto della Parola che unisce a lui e introduce nella sua famiglia (c. 3). Questo testo non riferisce un singolo avvenimento; è una sintesi di molti fatti, che serve da transizione e da cucitura tra brani diversi. Questi riassunti, chiamati “sommari”, sono assai utili per capire il vangelo. In essi l'autore ispirato, scegliendo con libera associazione cosa, come e dove dire, scopre le proprie

intenzioni teologiche. Questi sommari non sono quindi solo una cornice narrativa, ma anche la chiave interpretativa di quanto si va raccontando. Qui Marco ci vuol insegnare innanzitutto la logica del vangelo: la morte di Gesù non è la fine di tutto, ma il compimento della salvezza per tutti (vv. 7-8). Inoltre allude all'origine e natura della Chiesa: nasce dalla croce ed è una piccola barca (v. 9). Infine parla del contatto con Gesù come guarigione dal male (v. 1 0) e di una lotta contro la tentazione del successo. Prima della croce il Signore vuole una rivelazione segreta, e non, come i demoni, una rivelazione del segreto, che solo allora sarà capito (vv. 11-12). Gesù è come il seme del capitolo successivo: muore e porta molto frutto (Gv 12,24). Egli è l'agnello che, in quanto percosso, diventa pastore del gregge (6,34; 14,27). Con il suo “ritiro”, forma il nuovo popolo di fratelli: con la sua parola lo preparerà per l'esodo definitivo, vincendo il mare (c. 4), il male, la malattia e la morte (c. 5), per nutrirlo alfine del suo pane (ce. 6-8). Il discepolo ora comincia a intravedere cos'è la Chiesa. Essa nasce dopo l'apertura della mano che fa accogliere il dono di Gesù. Da una massa informe si staglia una “piccola barca”, dove lui non è schiacciato: su di essa sarà annunciata la Parola e compiuta la traversata dal mare al deserto. Le sue caratteristiche ulteriori sono nei brani seguenti. L'attenzione ora non è più tanto sulla novità di Gesù, ma su quella di chi lo accoglie. La “cristologia” si fa “ecclesiologia”: attraverso la mano guarita i doni passano dal Figlio dell'uomo ai figli degli uomini suoi fratelli - tutta gente povera e rifiutata come lui. 2. Lettura del testo v. 7 Gesù con i suoi discepoli. L'espressione, così usuale, rischia di passare inosservata, mentre è densa di informazioni profonde. Gesù ha scelto di stare “con” i suoi discepoli e di essere loro compagno: è l'Emmanuele, il Dio con noi. Lui è con i suoi discepoli perché essi siano “con lui” (cf brano seguente). Si fa loro compagno per farli suoi compagni. si ritirò. Finora era sempre in cammino, entrava e usciva. Ora si “ritira”. La parola greca - da cui “anacoreta” - indica uno staccarsi da tutto. Ma non è una fuga, un abbandono del campo per paura dei nemici. Al momento giusto li affronterà nel modo giusto, proprio a Gerusalemme. È una solitudine di intimità con gli amici, al quali, si rivela associandoli a sé ed educandoli lentamente al suo cammino. È una nuova tappa, che comporta una strategia nuova, che già prelude il “ritiro” definitivo, quando, innalzato, attirerà tutti a sé (Gv 12,32). verso il mare. Richiama il mare del primo esodo, attraverso cui bisogna passare per uscire dalla schiavitù alla libertà del deserto. una grande moltitudine lo seguì dalla Galilea. Il chicco di grano, se muore, produce molto frutto (Gv 12,24). Il rifiuto e la condanna a morte da parte dei farisei e degli erodiani segna l'inizio del nuovo popolo (8, 15). L'efficacia evangelica è ben diversa dall'efficienza umana; trae la sua forza dall'impotenza dell'uomo che è potenza di Dio: “quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10). Perché Dio, contrariamente all'uomo, sa trarre vita dalla morte. v. 8 una moltitudine grande. Il successo è grande non solo in casa (Galilea), ma in ogni parte. Raccoglie anche dove non ha seminato! Le masse vengono da sud (Giudea, Gerusalemme, Idumea), da est (oltre il Giordano) e da nord (Tiro e Sidone). Da ovest, oltre il mare, verranno più tardi, dopo pentecoste. Le località nominate sono sette, numero che indica completezza. Dio ha scelto la pietra

scartata dal costruttori per fame principio del nuovo edificio. Questa è la sua opera mirabile al nostri occhi (12,10 s; Sal 118,22 s). Gesù non ha raggiunto il successo mediante la brama di avere, di potere e di apparire, origine di ogni male. Anzi, egli ha vinto tutto questo proprio col suo fallimento, con la povertà, il servizio e l'umiltà di chi ama. ascoltando quanto faceva, venne a lui. Queste folle non hanno ascoltato lui, ma il racconto di ciò che ha fatto. Come già allora, così anche adesso, è l'annuncio che fa “venire a lui” per toccarlo, e sperimentare in prima persona la verità di ciò che si è ascoltato. In ogni brano del vangelo dobbiamo domandargli che faccia anche con noi ciò che leggiamo che ha fatto con altri: “Che vuoi che io ti faccia?”, ci chiede ogni volta, per mettere in noi il desiderio di chiedere ciò che lui stesso desidera darci (10,51.36). Tu vuoi tutto il bene che puoi, e puoi tutto il bene che vuoi, e a ogni nostra richiesta buona rispondi: “Lo voglio” (1,41). v. 9 mantenergli. Significa tenergli sempre a disposizione. Questa barca deve sempre essere pronta per andare con lui dove lui desidera. una barca. Fatta di legno - come la croce - non viene inghiottita dal mare e mantiene in vita chi da essa si lascia portare. Non solo salva dall'abisso, ma permette di attraversarlo e giungere all'altra sponda. Già una volta con Noè scampò dalla morte umanità e bestie (Gn 6,13 ss). È figura della Chiesa che attraversa il male del mondo e porta l'uomo nella terra che Dio ha promesso. I discepoli fin dall'inizio hanno lasciato la loro barca (1,20). Ora ne hanno un'altra, su cui il loro stesso Signore viaggia e insegna alle folle (4,1; 5,2.18.21; 6,32; 8,13). Qualche volta sembra addormentarsi o assentarsi; ma in realtà è la loro fede che è assopita (4,35 ss; 6,45 ss). Su questa barca c'è un unico pane di vita; ma i discepoli lo ignorano, perché hanno il cuore indurito, preda del lievito dei farisei e di Erode (8,14 ss). piccola. In greco c'è: “barchetta”. Anche se questo diminutivo non è da urgere - sarà poi chiamata barca (4,1) - certo la Chiesa non è un transatlantico. Piccola cosa, sempre in balia delle onde, è come il suo Signore e il suo regno, che è il più piccolo di tutti i semi della terra (4,31). In essa Gesù non è oppresso. Il suo spirito di povertà, di servizio e di piccolezza vi sta a suo agio, e dà calore e vita a tutto. perché non lo schiacciassero. Ci sono due modi di toccare Gesù: uno lo schiaccia e impedisce di mangiar pane (v. 20), l'altro fa uscire da lui la forza di vita (cf 5,30). Questa folla si getta su Gesù come i polli su chi dà loro il becchime. Ma lui ne vuol fare un popolo di suoi fratelli, la sua vera famiglia, che si sazia dell'ascolto della sua parola e il cui cibo è compiere la volontà di Dio (vv. 34 s). v. 10 gli cadevano addosso per toccarlo. Toccare il fuoco, brucia; toccare Gesù, salva. Non è magia: lui è la nostra vita e il contatto con lui ci sana dalla morte. Ma toccarlo con pretesa è opprimerlo (5,31) e non salva (6,5). Toccarlo con sicura attesa è la fede che salva (5,30.34). quanti avevano piaghe (= flagelli). La prima condizione per toccare uno è quella di stargli vicino. Tutti i colpiti dal male sono vicini a lui che, fattosi prossimo a ogni ferita, è colpito dai nostri mali (Is 53,1 ss). Ma il mio gettarmi addosso a lui è con fiducia o con pretesa? Mi dà salvezza o semplicemente lo schiaccia? v.11 gli spiriti immondi, ecc. Anche i demoni cercano di “schiacciare” Gesù, e in un modo sottile che è loro proprio: dicono la verità su di lui, ma per fargli propaganda. L'errore non sta in ciò che dicono, ma nel modo. Satana, fin dal principio, è specialista in menzogna. Questa, per essere creduta, deve essere verosimile, dicendo una parte della realtà e celando l'altra: è una mezza verità, detta con secondo fine.

Ogni inganno è efficace solo se ha l'apparenza di “buono, bello e desiderabile” (Gn 3,6). Come la prima, così ogni tentazione! Qui la trappola sta nel fatto che è vero che Gesù è Figlio di Dio. Ma satana vuol anticiparne la gloria per fargli evitare la croce dove solo si rivela tale (15,39). È la tentazione che vedremo anche in Pietro (8,32 s). Inoltre la fede non è solo sapere chi è Gesù. Anche i demoni lo sanno, meglio e prima di noi. “Credono, ma tremano”, dice Gc 2,19. Credere è anzitutto sperimentarlo come colui che mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20). Una fede ideologica, assai diffusa, che tutto conosce ma nulla esperimenta, è per sé l'anticipo dell’inferno. È la pena del dannato, che conosce il bene e ne è privo. v. 12 E li minacciava molto, perché non lo facessero manifesto. Vedi ciò che farà Paolo con Silvano in un caso analogo di At 16,16-18. Il Signore non desidera pubblicità, né si serve di poteri palesi o occulti. Raggiunge tutti solo attraverso la debolezza di chi, conoscendolo, lo annuncia come amore crocifisso, povero, umiliato e umile. La propaganda va tutta in altra direzione e si serve proprio di quei mezzi che il Signore ha denunciato e rifiutato come tentazioni. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: un luogo deserto, presso il lago di Galilea. 3. Chiedo ciò che voglio: essere tra coloro che lo seguono e lo toccano, non tra coloro che lo schiacciano. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo Gesù, i discepoli, le folle di afflitti, di varie lingue e popoli, e i demoni: cosa dicono, cosa fanno. Da notare:

4.

ritirarsi mare seguire folla piccola barca

schiacciare toccare Figlio di Dio minacciare

Passi utili: Fil 2,6-11; Gn 6,13-22.

17. E FECE DODICI PER ESSERE CON LUI E PER INVIARLI (3,13-19) 13

E sale sul monte e chiama appresso quelli che voleva lui, e vennero da lui. 14E fece dodici (che chiamò apostoli)

per essere con lui e per inviarli ad annunciare 15 e ad avere potere di scacciare i demoni. 16 (E fece i Dodici) e impose a Simone il nome di Pietro, 17 e Giacomo di Zebedeo e Giovanni, fratello di Giacomo, e impose loro il nome di Boanerges, cioè figli del tuono, 18 e Andrea e Filippo e Bartolomeo e Matteo e Tommaso e Giacomo, quello di Alfeo, e Taddeo e Simone il Cananeo 19 e Giuda Iscariota, che poi lo tradì. 1. Messaggio nel contesto “E fece dodici per essere con lui e per inviarli”. I Dodici sono la “piccola barca” dove il Signore è toccato e non schiacciato (vv. 8-11); sono la sua vera famiglia, che siede in cerchio attorno a lui per ascoltarne la parola (vv. 32-35), e riceve la rivelazione del mistero del Regno (4, 1 0). Essi sono fatti espressamente per “essere con lui”, il Figlio. Questa è la realizzazione dell'uomo, che “con lui” è se stesso. Solo così è vinta quella solitudine abissale che gli è costitutiva: fatto per Dio, solo “con lui” colma il suo bisogno essenziale di relazione e compagnia. Da qui scaturisce la missione. Infatti chi è unito a lui impara a conoscere il cuore del Padre, e si offre con gioia ad andare presso chi ancora non lo conosce, perché la sua casa sia piena (Lc 14,23) e non lo è fino a che manca un solo fratello. C'è stata già una prima chiamata, in cui la fuga divenne sequela (1,16-20). Questa seconda è più profonda, e spiega perché lo si segue. Ora la sequela diviene unione e intimità con lui, dove si raggiunge la propria identità di figli. Il discepolo la conosce, e non può non portarla a tutti i fratelli. Questa seconda chiamata ci fa vedere l'essenza della Chiesa. Fatta per essere con Gesù ed essere inviata ai fratelli, ha lui come unico centro, ed è un cerchio che si estende a tutti. Senza una di queste due dimensioni, delle quali una è particolare e personale, l'altra universale e comunitaria, decade dalla sua natura. Gli apostoli l'avevano capito molto bene. Fin dall'inizio, per “tener sempre a disposizione questa piccola barca, dove lui sta con i suoi e si muove verso gli altri, illuminati dallo Spirito, scelsero di “tenersi sempre a disposizione” della preghiera (= essere con lui) e del servizio della Parola (= essere inviati) (At 6,4). L'azione apostolica è “syn-ergía” con Gesù (1Cor 3,9; 2Cor 6,1; cf 1Cor 15,10), collaborazione con lui. Egli è l'operaio della vigna; noi siamo suoi compagni che assistono e favoriscono la sua opera, collaborando, ossia “lavorando con” lui. Ma è lui che opera direttamente dando il desiderio, l'azione e l'efficacia. Noi siamo contemplativi di questa sua opera, e collaboriamo ad essa innanzitutto vedendola e accogliendola, poi sviluppandola nella risposta di lode, amore e servizio. Per questo l'apostolato non ha nulla a che fare con l'attivismo di Marta; fluisce invece continuamente dalla contemplazione di Maria, che sta ai piedi del Signore e lo ascolta. L'essere con Gesù è il principio, il mezzo e il fine di ogni apostolato, che da lì viene, da lì attinge forza e lì sfocia, facendovi confluire tutti gli uomini.

Le tre caratteristiche dei Dodici: essere con lui, essere inviati ad annunciare e a vincere il male, sono finora le note fondamentali della Chiesa, che si aggiungono a quelle già viste a proposito della “barchetta”. Gesù è l'Emmanuele, il Dio che è venuto per essere con noi, perché noi possiamo essere con lui. Con lui, “irradiazione della gloria di Dio e impronta della sua sostanza” (Eb 1,3), l'uomo torna a riflettere l'immagine e la somiglianza della propria realtà, dalla quale si era allontanato per il peccato. Lui è il centro di gravità del nostro cuore, il polo di ogni nostro desiderio, il luogo naturale della nostra vita. Con lui raggiungiamo la nostra fonte, attingiamo il nostro fine. Creati in lui, attraverso di lui e in vista di lui, solo con lui sussistiamo e siamo ciò che siamo (Col 1,16; Gv 1,1-4). Senza di lui siamo il nulla di ciò che siamo. “Sarete come Dio”, non è la tentazione satanica, ma la grande promessa che si compie nel nostro essere con lui. Il discepolo fa parte di una comunità, incentrata non su se stessa, bensì su Gesù, che la apre sempre verso tutti. È una persona libera, membro di un popolo in cui ciascuno è riscattato dalla morte, perché è con “colui che è”. La prima chiamata fu a seguirlo, lasciando le reti; la seconda pone un salto di qualità: stare con lui in intimità e amicizia. L'opera del Padre è attirarci al Figlio, per metterci con lui, in sua compagnia, e inviarci così al fratelli, perché tutti lo conoscano e lo amino. La lista dei Dodici si chiude con colui che lo tradì. Quest'unione è sempre insidiata dal divisore, che vede in ciò la sua sconfitta. 2. Lettura dei testo v. 13 sale sul monte. Mare, deserto e monte sono i luoghi dell'attività di Gesù che ricordano l'esodo. La sinagoga e la casa ricordano la terra promessa. Il monte - con l'articolo perché si tratta di un monte determinato e noto agli interessati - è il luogo dell'intimità con il Signore, della rivelazione e dell'alleanza. Richiama il Sinai, dove Dio parlò all'uomo; ma anche il Moria dove fu sacrificato il figlio. Gesù è salito per primo sul monte e da lì chiama. chiama appresso. La medesima Parola che fece cielo e terra, ora si crea un partner Non è bene per l'uomo restar solo, disse Dio (Gn 2,18). Soprattutto perché lui stesso è comunione e desidera stare con chi ama, e ama che questi desideri stare con lui. È la seconda chiamata. La prima è 1,16-20. Seguiranno una terza e una quarta (6,7 ss e 8,34 ss). La nostra conoscenza del Signore è progressiva, con tappe che scandiscono ognuna un salto di qualità e segnano una crescita della nostra capacità di rispondere alle sue sollecitazioni. quelli che voleva. Volere significa “voler bene”. Siamo chiamati perché amati. Origine di ogni elezione è il suo amore gratuito. “Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli - ma perché il Signore vi ama” ed è fedele al suo amore (Dt 7,7 s). Il privilegio dell'antico e del nuovo Israele non è motivo di esclusione di altri, bensì di missione verso tutti (vedi il libro di Giona). L'amore del Padre infatti si estende a tutti i suoi figli. Quando l'elezione diventa pretesto di esclusione, è perché non si è capito né che Dio è Padre, cioè amore, né che il Padre è Dio, cioè di tutti. Non si è capito nulla del cristianesimo! vennero da lui. La scena è scarna e solenne: Gesù che sale, chiama a sé quelli che ama e questi vengono a lui. “Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Innalzato sul monte del suo abbassamento, fa splendere la luce che tutti attira.

v. 14 E fece. Richiama l'azione creatrice di JHWH che si forma il suo popolo (cf Is 43,1; 44,2). Infatti qui sul monte il Signore crea una cosa nuova, che proprio ora nasce: il mio desiderio di essere con lui (Is 43,19; cf Ger 31,32). La sua brama da sempre è verso di me (Ct 7,11). Ora finalmente c'è anche la mia verso di lui, così che possa essere anche lui per me ciò che io sono per lui. dodici. È il resto delle dodici tribù d'Israele, riunito sul monte attorno al Servo, che sarà luce di tutte le nazioni (Is 42,6; 49,6; Lc 2,32). Questi dodici sono i patriarchi dei nuovo popolo, al quale tutti sono chiamati a partecipare, cominciando dal più lontani e bisognosi; sono le colonne della Chiesa (Gal 2,9), solidamente ancorate alla pietra, che è Cristo, unico fondamento su cui si può costruire (1Cor 3,11). Essi garantiscono la necessaria continuità tra Gesù e noi (cf 1Gv 1.1-4). Raccontandoci ciò che hanno sperimentato, ci testimoniano della sua carne, esegesi di Dio stesso (Gv 1, 18), unica norma della nostra fede e criterio di discernimento spirituale (Ef 4,20; 1Gv 4,2). (che chiamò apostoli). È una parola dal greco che significa “Inviati, mandati” (corrisponde a “messi, missionari”, di radice latina). Questo popolo è inviato a tutti gli altri non per conquista o per proselitismo: chi conosce l'amore del Padre e del Figlio morto in croce per tutti i fratelli, non può non andare verso di loro per annunciarlo. Non c'è gioia e festa finché l'ultimo fratello non siede a mensa insieme con tutti gli altri. per essere con lui. È il fine della nostra vita e della sua missione. “Essere con lui”, il Figlio, è l'essenza di ogni uomo, che è tutto e solo figlio, anche se non lo sa o non lo vuole. Senza di lui, è niente di sé, solitudine e vuoto assoluto. “Tutto ciò che esiste, in lui è vita”, fuori di lui è morte (Gv 1,3 s). Dio ha fatto l'universo per l'uomo, e l'uomo per unirlo a sé in Gesù, suo Figlio. Il termine della sequela è quello di stare con lui per sempre (1Ts 4,17), perché lui è la mia vita (Fil 1,21), che ormai è nascosta con lui in Dio (Col 3,3). Con lui sono me stesso, figlio amato dal Padre con amore infinito. Ciascuno di noi infatti è amato dal Padre con lo stesso amore unico, pieno e totale con il quale è amato Gesù, che dice: “Li hai amati, come ami me” (Gv 17,23). Accettare questo amore è vivere da figli nel Figlio, e amare con il suo stesso amore il Padre e i fratelli. Essere con Gesù significa conoscenza della verità che libera, intimità d'amore che appaga, ingresso nella vita di Dio per il dono del suo Spirito, effuso nei nostri cuori, che grida: Abbà (Rm 5,5; 8,15; Gal 4,6). Quando siamo con il Figlio, il Padre gioisce pienamente di noi e noi di lui. Il cristianesimo non è un'ideologia: è una compagnia reale con Gesù, in un rapporto da persona a persona, che coinvolge tutti i nostri sensi e le nostre capacità. Innanzitutto si sta “con lui” con gli orecchi, per ascoltare la sua parola, e poi con gli occhi, per vedere il suo volto. Questo desiderio di ascoltarlo e contemplarlo è la fede, che apre il nostro cuore a lui. Essa si concreta nella lettura della Parola e nella preghiera, nella docilità e nell'adorazione, nella riverenza e nella tenerezza. Inoltre si sta “con” lui con i piedi, per seguirlo nella sua stessa via. Questo desiderio di camminare come lui ha camminato (Cf 1Gv 2,6) è la speranza, che muove la nostra vita ad essere conforme alla sua. Essa ci fa preferire e scegliere ciò che lui ha preferito e scelto, per stargli più vicino e somigliargli più perfettamente. Questa speranza amorosa libera il nostro cuore da ogni attaccamento al male, e ci spinge ad amare per amor suo la povertà l'umiliazione e l'umiltà. Infine si sta “con” lui con le mani, per toccarlo ed avere comunione piena con lui. Questo desiderio di toccarlo è la carità, che ci identifica a lui e trasforma la nostra vita nella sua, facendoci amare e operare come lui. E perché possiamo essere con lui, lui stesso ci guarisce orecchio, occhio, piede e mano. Essere con lui, più che un punto di arrivo, è un costante punto di partenza per una sequela sempre più stretta. Dice Paolo: “Non che lo abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione;

solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch'io sono stato conquistato da Gesù Cristo” (Fil 3,12). Essere con lui significa essere stati conquistati, innamorati di lui, con desiderio struggente che fa della nostra vita un'unica invocazione: “Maranà tha”, vieni, Signore! Il nostro grido di amorosa attesa fa da eco alla sua promessa: “Sì, verrò presto” (1Cor 16,22; Ap 22,20). Nell'essere con Gesù si soddisfa la passione di Dio per noi e si placa la nostra brama di lui, stuzzicata dalla sua verso di noi. e per inviarli. Stando con lui, lo stesso amore del Padre verso tutti i suoi figli, spinge anche noi fino agli estremi confini della terra. Andare verso tutti gli uomini e stare con lui sembrano due cose contraddittorie. Ma solo in apparenza. Anche il cuore, quando si stringe, porta il sangue a tutto il corpo: è il suo movimento vitale di sistole e diastole. Più uno si stringe al Signore, più la sua azione giunge lontano. Chi aderisce totalmente al Figlio, ha già raggiunto tutti i fratelli. È falsa l'alternativa tra contemplazione e azione, vita di preghiera e vita apostolica, come è falsa l'alternativa tra fonte e rubinetto. L'unione con lui, oltre che principio e fine, è quindi anche mezzo della missione da cui perennemente scaturisce l'acqua della salvezza: nessuno dà ciò che non ha, e possiamo traboccare solo di ciò di cui siamo ricolmi. Diversamente l'apostolato è un batter l'aria, con gran fatica e nessun risultato. La missione nostra nasce dall'esser “messi con il Figlio” (sant'Ignazio); e la preoccupazione prima di chi è inviato è quella di stare unito a lui come il tralcio alla vite (Gv 15,1 ss), fino ad esser contemplativo nell'azione, come lui, che “fa” ciò che “vede” fare dal Padre (Gv 5,19). ad annunciare. Il fine primo dell'invio è l'annuncio ai fratelli. Non di ciò che si è sentito dire, ma di ciò che si è sperimentato in prima persona (Cf Gv 4,42). L'ex indemoniato, che chiede a Gesù di “essere con lui”, è inviato ad annunciare ciò che il Signore gli ha fatto e la misericordia che gli ha usato (5,18 s.). Quest'annuncio porta gli altri ad accorrere al Signore, per fare anche loro la stessa esperienza. La salvezza viene infatti dalla fede - che è incontro personale con Gesù Signore - e la fede dall'annuncio che rende noto a tutti il dono che il Padre ci ha fatto nel suo Figlio. v. 15 potere. È lo stesso di Gesù, quello della Parola di verità che vince la menzogna, come la luce vince la notte. scacciare i demoni. Satana ci aveva allontanati da Dio con la menzogna; che ci ha fatti cadere in suo potere mediante la paura della morte (Eb 2,14). Con il Figlio ci viene offerta la nostra verità: siamo figli, che veniamo dal Padre e a lui torniamo. Questa verità ci libera dalla paura della morte e dalle mani del nemico, donandoci di vivere una vita filiale. Annunciare il Regno e liberare dai demoni sintetizza tutta l'azione di Gesù che continua nella Chiesa. v. 16 impose il nome di Pietro. Simone significa “Dio ascolta, esaudisce”. Pietro significa “roccia”, immagine della fedeltà del Signore. In lui Dio ha ascoltato ed esaudito la fedeltà del suo amore. Simon Pietro ne farà esperienza nella sua debolezza e infedeltà. Per questo potrà confermare i fratelli, e rassicurarli che Dio rimane sempre fedele (cf 14,66-72; Lc 22,32 s). v. 17 Giacomo e Giovanni. Significano rispettivamente: “Dio protegge” e “Dio è benigno”. Boanerges, cioè figli del tuono. Forse si riferisce alla forza della loro predicazione, o al loro carattere intransigente e orgoglioso (9,38; 10,35. ss; Lc 9,54).

v. 18 Andrea. Nome greco, significa “uomo maschio, virile”. La tradizione lo farà finire come il suo Signore, su una croce a X, chiamata col suo nome. In Giovanni è lui che chiama suo fratello Pietro e dichiara l'insufficienza di ciò che un ragazzo ha e mette a disposizione prima della moltiplicazione dei pani (Gv 1,40 ss- 6,7). Filippo. Nome greco, significa “amante dei cavalli”. Conosce il greco, (Gv 12,21), sa far bene i conti (Gv 6,7) e chiede a Gesù che mostri il Padre (Gv 14,8). Bartolomeo. Significa “figlio di Tolomeo”. Matteo. Significa “dono di Dio”. Mt 9,9-13 e 10,3 lo identifica con Levi, il pubblicano, ex esattore di tasse (cf 2,13-17). Tommaso. Significa “gemello”. Evangelizzerà l'Oriente. Taddeo. Al suo posto Luca ha il nome di Giuda (Lc 6,16; At 1,13). Simone il Cananeo. Cananeo è sinonimo di Zelota, appartenente al movimento di lotta armata contro i romani. v. 19 Giuda l’Iscariota. Giuda secondo un etimologia popolare significa “lode” (Gn 29,35); Iscariota significa uomo di Cariot, oppure sicario (appartenente agli zeloti). che poi lo tradì. Di Giuda si dice sempre che è uno dei Dodici. Anche lui è stato chiamato perché amato. L'amore di Dio rimane immutabile e fedele l’uomo rimane sempre mutabile e infedele, aperto al tradimento. La sua funzione sarà presa da un altro (At 1,20 ss); ma la sua persona è insostituibile. Circa le persone scelte vediamo che si tratta di gente comune, senza qualifiche se non negative. Non risulta che abbia chiamato persone pie (farisei), o con cariche religiose (sacerdoti), o esperte in sacra Scrittura (scribi) o potenti (anziani). Tra l’altro, come poteva convivere un gabelliere per conto dei romani, con un onesto pescatore, che doveva pagargli le tasse, o addirittura con uno zelota? La formazione che Gesù mette in campo è realmente divina, perché nessun uomo di buon senso l'avrebbe fatta. Infatti “Dio ha scelto nel mondo ciò che è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1,28). 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: sul monte, dove Gesù per primo salì e da lì chiama gli altri. 3. Chiedo ciò che voglio: non essere sordo alla sua chiamata; chiedo al Padre che mi voglia mettere col Figlio, e al Figlio che mi prenda che mi voglia mettere come suo compagno, per stare con lui, seguendo il suo stesso cammino. Chiedo di essere conquistato da lui, di desiderare sopra ogni cosa di essere con lui. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, cosa dicono, cosa fanno. Da notare:

monte chiamare volere (amare) venire a lui

inviare annunciare potere scacciare i demoni

essere con lui

tradire

4. Passi utili: 1Ts 4,17; Fil 1,21; Gal 2,20; Gv 15,1-11; Col 3,35; At 6,4.

18. CHI SONO MIA MADRE E I MIEI FRATELLI? (3,20-35) 20

E viene in casa e si raduna di nuovo la folla così che essi non possono neppure mangiar pane. 21 E, avendo udito, i suoi uscirono per impadronirsi di lui, poiché dicevano: È fuori di sé! 22 E gli scribi, scesi da Gerusalemme, dicevano: Ha Beelzebul, e: In forza del principe dei demoni scaccia i demoni. 23 E, chiamatili appresso, diceva loro in parabole: Come può satana scacciare satana? 24 Se un regno è diviso contro se stesso, non può reggersi quel regno; 25 e se una casa è divisa contro se stessa, quella casa non potrà reggersi. 26 E se il satana è insorto contro se stesso ed è diviso, non può reggersi, ma è alla fine. 27 Ma non può nessuno entrare nella casa del forte e rapire i suoi beni, se prima non ha legato il forte, e allora rapirà la sua casa. 28 Amen, vi dico: Saranno rimessi ai figli degli uomini tutti i peccati e le bestemmie, quante ne bestemmieranno.

29

Ma chi bestemmi contro lo Spirito Santo non ha remissione in eterno, ma è reo di peccato eterno. 30 Poiché dicevano: Ha uno spirito impuro. 31 E viene sua madre e i suoi fratelli, e, stando fuori, mandarono da lui a chiamarlo. 32 E sedeva attorno a lui una folla e gli dicono: Ecco la tua madre e i tuoi fratelli (e le tue sorelle) di fuori ti cercano. 33 E, rispondendo loro, dice: Chi è la mia madre e i (miei) fratelli? 34 E, volgendo lo sguardo in giro a quelli seduti in cerchio attorno a lui, dice: Ecco la mia madre e i miei fratelli: 35 chi fa la volontà di Dio questi è mio fratello e sorella e madre. 1. Messaggio nel contesto “Chi sono mia madre e i miei fratelli.?”. Il problema del brano è il discernere se siamo “con lui” o “contro di lui”. Siamo veramente “suoi” o estranei a lui, siamo “dentro” o “fuori”, ascoltiamo la sua chiamata o lo mandiamo a chiamare, lo seguiamo o vogliamo che lui ci segua, ci lasciamo acchiappare o lo vogliamo acchiappare, accettiamo il suo perdono o lo rifiutiamo, ascoltiamo lo Spirito o lo bestemmiamo? Tutti questi interrogativi toccano la questione della nostra salvezza, che consiste nell'essere “con lui” così come è in realtà, e non come lo vorremmo noi. Il brano inizia dicendo che non potevano mangiare pane e termina con le parole di Gesù circa chi gli sta seduto intorno ad ascoltarlo: “Ecco mia madre e i miei fratelli: chi fa la volontà di Dio”. Il vero cibo dell'uomo è la parola che esce dalla bocca di Dio (Dt 8,3), che esprime la sua volontà. Questa è pienamente compiuta da chi fa cerchio attorno a lui per ascoltarlo. La voce dalla nube confermerà dicendo: “Questi è il mio Figlio diletto: ascoltate lui” (9,7). Lui è la Parola eterna del Padre. Ascoltandola, diventiamo sua madre e suoi fratelli: madre, come Maria, perché essa ha il potere di farci come lui. Uno infatti diventa la parola che ascolta. Il Padre ci vuole ascoltatori del Figlio perché ci vuole figli: ci mette con lui perché ci vuole come lui. L'appartenenza alla “barchetta” non viene da privilegi. I “suoi” secondo la carne e il sangue non ne fanno ancora parte (vv. 21.31s), come neanche i sapienti, che credono di giudicare tutto, anche lo Spirito (vv. 22-30). La vera famiglia di Gesù è fatta da chi lo ascolta (vv. 33-35). Tutto il capitolo seguente sarà sull'efficacia della sua parola, vero seme da cui crescono i figli di Dio. Il brano precedente terminava con Giuda che lo tradì. Ora vediamo che lo tradiamo perché alla sua chiamata si oppone in noi una duplice controchiamata. La prima è quella dei “suoi”, ispirata dal buon

senso e da buoni sentimenti, che lo vogliono sequestrare perché è pazzo. Infatti non cerca il proprio vantaggio e non sa sfruttare la situazione. L'altra è quella degli “scribi”, che, invece di convertirsi, usano la loro sapienza per difendersi. Per loro è vero solo ciò che è utile per mantenere le loro certezze, falso ciò che le mette in discussione. Non interessa loro servire la verità, ma servirsi abilmente di essa per confermare le proprie opinioni religiose e le proprie posizioni di potere. Gesù sta al centro del cerchio di quelli che “compiono la volontà di Dio”. Il Padre vuole che tutti siano con lui: l'ascolto del serpente ci rese figli del diavolo (Gv 8,44); l'ascolto di lui ci restituisce il nostro volto di figli. Discepolo è chi entra nel cerchio dei suo ascoltatori. Diversamente, anche se ha tutti i titoli - fosse anche suo parente! - e tutta la sapienza teologica - fosse anche il miglior scriba! - in realtà sta fuori. Corre sempre il pericolo di essere come i suoi che lo amano, ma senza conoscerlo e volerlo così come è; oppure come gli scribi, che lo conoscono, ma non lo amano, e perciò lo giudicano secondo i loro “criteri religiosi”. 2. Lettura del testo v. 20 E viene in casa. Dopo il rifiuto di 3,6, la casa succede alla sinagoga. Essa diventa esplicitamente un luogo teologico, che segna un dentro rispetto a un fuori: dentro c'è la famiglia, fuori gli estranei. Questo dentro delimita la Chiesa, che è fatta da chi sta con lui e lo ascolta. Si tratta però di un cerchio aperto a tutti gli estranei... anche al “suoi”, purché vogliano entrare con lui e non farlo uscire con loro! la folla. La folla è chiamata a diventare progressivamente popolo di Dio nell'ascolto di Gesù. mangiar pane (cf vv. 9 s; 6,31). La folla con le sue richieste toglie a Gesù e al suoi il tempo materiale per mangiare. Qualche volta a noi toglie anche il tempo per il cibo spirituale, che è “ogni parola che esce dalla bocca dei Signore”, perché è lui la nostra vita (Dt 8,3; 30,20). In questo senso Gesù dice a noi: “Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete”, e “mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 4,32.34). v. 21 i suoi. Sono i suoi parenti più stretti, tra cui conosciamo Giacomo e Giuseppe, Giuda e Simone (6,3). Il primo, figura di grande spicco, tenne il governo della Chiesa di Gerusalemme ed è ritenuto l'autore della lettera omonima (cf At 12,17; 15,13; 21,18; 1Cor 15,7; Gal 1,19; 2,9.12). I “suoi” rappresentano noi credenti, che dobbiamo passare da una conoscenza e un amore per Gesù secondo la carne a una conoscenza e a un amore secondo lo Spirito. Chiunque è in casa è sempre tentato di catturarlo, tirando lui dalla propria, invece che lasciarsi attirare da lui. uscirono. Escono non per seguirlo, ma per ricondurlo a casa. La lotta tra Gesù e i suoi è continua, anche se sottile e sorda: egli vuole che noi siamo con lui, e noi vogliamo che lui sia con noi! Gott mit uns! È il capovolgimento della fede, che ci porta a servirci di lui invece di servirlo. per impadronirsi. Sarà la parola chiave della passione. Gesù è amore e dono. Chi si impadronisce, lo uccide. Impadronirsi infatti è il contrario di donare. Come donare è dell'essenza di Dio ed è principio di creazione, così impadronirsi è negazione pratica di Dio, ed è principio di decreazione.

Impadronirsi è l'istinto fondamentale dell'uomo che non conosce Dio. Invece di dire: “Sì, grazie”, dice: “È mio”. fuori di sé. Secondo i suoi (vedi Pietro in 8,31 ss) Gesù dovrebbe avere un po' più di buon senso. Dovrebbe investire bene le sue qualità per avere di più, potere di più e valere di più. Non sono questi i mezzi utili per il trionfo del bene, per togliere il potere ai cattivi, a confusione loro e a gloria di Dio e dei suoi eletti? Gesù invece simpatizza coi cattivi e trascura i propri interessi; si può prevedere che, con la sua bontà e sprovvedutezza, andrà a finir male. È fuori di sé, è pazzo! In questo giudizio c'è amore-odio e compassione-rabbia, ultimo relitto del naufragio di tutte le speranze. Per noi, che abbiamo barattato l'intelligenza con la furbizia, saggio è chi cerca non il bene e la verità, bensì l'utile e il vantaggio proprio. Questa controchiamata del buon senso, come ha fuorviato i parenti più stretti, fuorvierà anche Giuda e gli altri. Gesù fu, è e sarà rifiutato allora, ora e sempre da amici e nemici, vicini e lontani - tutti uguali fino a quando non ci convertiamo! - proprio perché povero, umiliato e umile. Ma questa sua follia è sapienza di Dio. E mentre l'uomo, con la sua sapienza, uccide se stesso, Dio, con la sua follia, lo strappa con potenza dalla sua malattia mortale. “Essere con Gesù” esige il cambiamento dal pensiero dell'uomo al pensiero di Dio; è un cambio di direzione di 180°, un riorientamento della propria vita sui suoi passi. Senza questa conversione radicale della mente e del cuore si rimane “fuori” dalla sua famiglia, anche se si è dei suoi secondo la carne, lo si ama e gli si vuol bene! In realtà si ama in lui se stessi e i propri progetti, pronti a seguirlo quando lui ci segue e a confiscarlo quando non ci segue. Questo amore, se non si purifica, si chiama egoismo, ed è un tentativo di assimilare lui a noi invece che noi a lui. È la tentazione costante che ci porta a tradirlo, sia come singoli che come Chiesa. v. 22 gli scribi. Sono i sapienti, conoscitori della legge, che già l'avevano accusato di bestemmia quando perdonò i peccati al paralitico (2,6s). Ha Beelzebul (= Signore del sudiciume): Gesù è accusato di essere indemoniato! In forza del principe dei demoni scaccia i demoni. Gli scribi non possono negare la realtà: Gesù scaccia i demoni. La sua parola, a differenza della loro, opera quanto dice (cf 1,22). Invece di accettare con umiltà il dono, preferiscono metterla in questione. Fanno uso della loro scienza per imbrogliare se stessi, del prestigio che essa conferisce per difendersi e attaccare. La loro interpretazione maligna nasce dall'invidia. v. 23 ss Come può satana scacciare satana? I ragionamenti troppo sottili denunciano sempre il silenzio di una verità troppo palese. Se un regno è diviso, ecc. Satana (= accusatore) ha un regno vasto. Dopo il peccato domina su tutti. Lui è il “divisore”, che ha separato gli uomini da Dio e tra di loro, e li tiene schiavi nel peccato, chiusi nell'accusa della propria coscienza. è alla fine. Gli esorcismi di Gesù sono la liquidazione di satana, la liberazione dal suo dominio e l'inizio del Regno. v. 27 nessuno può entrare nella casa del forte. Satana è molto forte e nessuno può entrare nella sua casa, perché tutti gli uomini sono dentro, seduti in tenebre e ombra di morte (Lc 1,79).

se prima non ha legato il forte. Gesù è “il più forte” (1,7), che viene a ridurre in schiavitù il forte che tutti tiene schiavi. v. 28 Saranno rimessi ai figli degli uomini tutti i peccati. Gesù è venuto apposta per perdonare i peccati (2, 10). le bestemmie. Sono un peccato diretto contro Dio, attribuendogli ciò che non gli spetta o togliendogli ciò che gli spetta. Le false immagini di lui che abbiamo sono tutte bestemmie. Gesù è venuto a liberarcene, con la “sua” bestemmia, che ci presenta un Dio d'amore e tenerezza infinita, che perdona e muore in croce per i peccatori (2,7; 14,64). Egli quindi perdona ogni peccato sia nel confronti degli uomini che di Dio. v. 29 chi bestemmia contro lo Spirito Santo. L'uomo può chiudersi alla verità conosciuta, preferendo le proprie comode sicurezze. È molto pericoloso attribuirsi la buona fede, credere di essere giusti, presumere di aver ragione, non essere disposti a cambiare, scambiare la verità con la certezza - vizio comunissimo più che mai. Tutto ciò ha a che vedere con questo peccato di resistenza allo Spirito, che è l'amore di Dio che dona e perdona. In concreto questa bestemmia consiste nel non accettare il perdono incondizionato che Gesù dona nella forza dello Spirito di Dio, chiamandolo o credendolo addirittura cattivo. La bestemmia imperdonabile è non riconoscere che Dio in Gesù è grazia e perdono, cercando di vivere della propria giustizia e delle proprie giustificazioni. non ha remissione in eterno. Chi fa questo peccato ritiene di essere nel giusto, e non vuole essere perdonato di nulla: è inconvertibile fino a quando non si riconosce peccatore. È la cecità dei farisei. che rimane fino a quando credono di vederci (Gv 9,41). è reo di peccato eterno. Gesù denuncia questo peccato “eterno” non per condannare gli scribi, ma per chiamarli alla conversione, mostrando loro la gravità di quanto stanno facendo. Ogni “minaccia” di Dio nella Bibbia è di questo tipo, e raggiunge il suo effetto quando non si avvera perché ha provocato la conversione. v. 30 Poiché dicevano.- Ha uno spirito impuro. Gli scribi mentono contro la verità conosciuta, vanno contro l'evidenza. Pur di non accettare di aver torto, rifiutano che Gesù libera dal male, dicendo che è opera diabolica e bestemmia (2,7). Questa è la vera bestemmia contro lo Spirito di amore e perdono, di cui Gesù è pieno e con il quale agisce. v. 31 sua madre e i suoi fratelli. I parenti di Gesù hanno preso con sé anche sua madre. Lei certamente già da principio era passata dalla maternità nella carne a quella nello Spirito; anzi questa fu il presupposto di quella. Infatti concepì nel ventre, perché già prima aveva accolto nell'orecchio il seme della Parola, custodendolo, lasciandolo radicare e crescere fino alla sua statura piena (cf Lc 1,38.45; 2,19.51). stando fuori. Anche se “suoi”, sono estranei , fuori dalla casa in cui lo si ascolta. C'è quindi un fuori e un dentro nuovi, secondo cui è fuori chi crede di essere dentro. mandarono da lui a chiamarlo. Gesù chiamò i Dodici per mandarli a chiamare tutti a stare con lui (v. 13 ss). I suoi mandano a chiamiarlo perché stia con loro. Sono invertiti i termini della chiamata e della

missione. Quante volte chiamiamo il Signore per convertirlo e adeguarlo a noi, invece di convertirci e adeguarci alla sua chiamata! v.32 una folla. Se i suoi sono estranei, la folla di estranei, nell'ascolto della sua parola, diventa la sua vera famiglia. sedeva attorno a lui. È la posizione tranquilla e attenta del discepolo, che, come Maria, ha scelto la parte migliore. che non le sarà tolta (Lc 10,39.42). v. 33 Chi è la mia madre e i (miei)fratelli.? Gesù dichiara qui il criterio di appartenenza alla sua famiglia. v. 34 volgendo lo sguardo in giro a quelli seduti in cerchio attorno a lui. Questo cerchio di persone che lo ama e ascolta la sua parola sono i suoi. Stanno dentro, mentre gli altri sono “fuori”. Il cerchio richiama un'armonia di unità rispetto a un centro comune a tutti e di uguaglianza tra quelli che stanno intorno. È lui il centro della nostra aggregazione, l'unico Signore che si è fatto servo. E questo diventa libertà per tutti, e unico vincolo di appartenenza reciproca. È pericoloso - idolatrico addirittura - quando ci si aggrega attorno ad altri centri. v. 35 chi fa la volontà di Dio. L'ascolto di Gesù è la volontà di Dio. mio fratello e sorella. Grande e meraviglioso è il potere della Parola (cf capitolo seguente)! L'ascolto di Gesù, Parola del Padre, ci rende figli come lui, quindi suoi fratelli e sorelle. e madre. Chi lo ascolta, non solo si trasforma in lui, diventandogli fratello e sorella. Partecipa misteriosamente alla maternità stessa di Maria, che lo ha generato al mondo. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: in casa. Probabilmente la casa di Pietro a Cafarnao, che era diventata come la nuova sinagoga, dove Gesù parlava al suoi e accoglieva gli altri. 3. Chiedo ciò che voglio: chiedo di convertirmi dalle mie resistenze allo Spirito, e di ascoltarlo veramente. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, cosa dicono, cosa fanno. Da notare:

casa mangiare pane

i suoi bestemmie impadronirsi bestemmia contro lo peccati Spirito Santo volontà di Dio

4. Passi utili: Dt 6,4-9; 30,15-20; Sal 95; Gv 10,1-5.

19. E DAVA FRUTTO CHE VENIVA SU E CRESCEVA (4,1-9) 41 E di nuovo cominciò a insegnare lungo il mare: e si riunisce presso di lui moltissima folla, così che egli, salito in barca, siede sul mare, e tutta la folla davanti al mare stava a terra. 2 E insegnava loro molte cose in parabole, e diceva loro nel suo insegnamento: 3 Ascoltate! Ecco, uscì il seminatore a seminare. 4 E avvenne nel seminare che parte cadde lungo la strada, e vennero gli uccelli e la divorarono; 5 e parte cadde sul terreno sassoso, dove non aveva molta terra; e subito spuntò perché non aveva fondo di terra; 6 e quando il sole si levò, riarse, e, non avendo radice, si essiccò. 7 E parte cadde nelle spine, e vennero su le spine e lo soffocarono e non diede frutto; 8 e parte cadde sulla terra bella, e dava frutto che veniva su e cresceva, e portava uno trenta e uno sessanta e uno cento (per uno). 9 E diceva: Chi ha orecchi per ascoltare ascolti.

1. Messaggio nel contesto “E dava frutto che veniva su e cresceva” oltre ogni attesa, dice Gesù del seme che sta seminando tra tante difficoltà. Lo scenario del suo insegnamento è solenne ed evocativo: le folle, il mare, la barca. La parabola inizia e termina rispettivamente con l'invito: “Ascoltate”, “chi ha orecchi per ascoltare, ascolti”. La sua parola è il seme immortale, che ci rigenera (1Pt 1,23) a sua immagine, e ci fa entrare nella sua famiglia (brano precedente). Ma sembra che nessuno gli presti ascolto! Ciò che fa piace a tutti; ma ciò che dice gli ha messo contro tutti. I farisei e gli erodiani lo vogliono uccidere, i suoi e gli scribi lo ritengono indemoniato e pazzo. Invece di successo miete fraintendimenti, incomprensioni e morte. 1 suoi amici, per primi, gli fanno notare che il suo modo di procedere è chiaramente fallimentare. Deve cambiarlo, o almeno fare degli sconti, prima di guastare tutto! Gesù conosce bene questa tentazione, anche prima che gli altri gliela presentino. Attraverso questa parabola conferma la scelta già fatta, e spiega il mistero profondo della sua vita, che sarà anche quello della sua parola in noi, nella Chiesa e nel mondo: è il mistero del regno di Dio, quello di morte per la risurrezione. Il Regno è paragonato costantemente al seme, la cui forza vitale specifica è provata e attivata proprio dalla sua morte. Questa, lungi dal distruggerlo, è la condizione perché germini e si manifesti in tutta la sua potenza. a differenza di ogni altra cosa, che marcisce e finisce. Si accennava spesso al fatto che Gesù insegnava (1,14 s.21 s.39; 2, 2.13). Ora vediamo l'oggetto del suo insegnamento: è la sua stessa vita, spiegata con similitudini. Tutto il cap. 4 dichiara il senso positivo della crisi del suo ministero in Galilea, anticipo di quanto avverrà a Gerusalemme. Non è un fallimento, ma il luogo della verifica. Le ostilità e la croce non vanificano, ma realizzano la salvezza di Dio, la cui debolezza è più forte di ogni potenza umana. Queste parabole, mentre illustrano la storia di Gesù, ci danno anche il criterio di discernimento per essere tra i suoi e appartenere al suo regno. Non dobbiamo cercare il successo (vv. 3-9), la fama e la rilevanza (vv. 21-25), il protagonismo e la grandezza (vv. 26-32). L'opera di Dio passa attraverso le difficoltà, il fallimento, il nascondimento, l'irrilevanza, l'attesa paziente e la piccolezza, come ha fatto lui. Queste sono le qualità del seme da cui nasce l'albero del Regno. Esso è come un chicco, che porta frutto abbondante non “nonostante”, ma “perché” muore (Gv 12,24). Tutto il capitolo è strutturato su una serie di opposizioni: fallimento/successo, nascosto/manifesto, segreto/alla luce, inazione/azione, piccolezza/grandezza. In realtà l'unica opposizione è quella tra il pensiero di Dio, che non Il considera opposti, e quello dell'uomo, che vuole solo l'uno senza l'altro. Sono parabole di speranza contro ogni speranza, o meglio, di una fede che sa che la parola di Dio è un seme e non può non produrre l'effetto per cui è mandata (Is 55,11). Le resistenze che incontra, rappresentate dai vari tipi di terreno, fanno parte dei costi, come nella semina. Questa parabola è sapientemente costruita sul contrasto tra un insuccesso lungamente descritto e un risultato finale a sorpresa, rafforzato dal contrappunto. Con questa, come con le seguenti, Gesù vuol muovere alla fiducia in lui e nella sua parola, per non affogare nelle tempeste che le inevitabili difficoltà scatenano. Se guardo a queste, vengo meno; se guardo lui, sono rianimato. Per questo dice il salmista: “Tengo i miei occhi rivolti al Signore, perché libera dal laccio il mio piede” (Sal 25,15). La trappola tremenda infatti è la paura, che incanta e pietrifica chiunque la fissa. Gesù parla alle folle dalla barca, seduto sul mare, e chiede ascolto. Richiama il Dio della creazione e dell'esodo, che trionfa sulle acque. È inoltre il nuovo Mosè, che comunica la nuova legge: “Ascoltate”. E infine la Parola stessa di Dio, che chiede udienza presso gli uomini per salvarli.

Discepolo è colui che lo ascolta. La sua parola propone novità che liberano desideri, ma anche scatenano paure, suscitando nel cuore le resistenze sorde del male che vuol difendersi. 2. Lettura del testo v. 1 E di nuovo cominciò. I farisei e gli erodiani hanno deciso di ucciderlo, gli scribi lo chiamano indemoniato e i suoi - cosa che deve essergli pesata di più! - lo considerano pazzo. Tutto sembra parlare di fine. Da qui lui comincia per un nuovo inizio. a insegnare. Prima Gesù annunciava il Regno con parole e gesti potenti che lo dichiaravano e autentificavano. Ora comincia a spiegarne il mistero in parabole. salito in barca. La sua parola si rivolge a tutti dalla barca di chi già sta con lui (cf 3,9). siede sul mare. Sulla riva una marca di folla accorre a lui; ed egli siede in mezzo al mare. Colui che chiude in riserve gli abissi e come in un otre raccoglie le acque del mare (Sal 33,7), fa di questo il suo trono, e domina sovrano su tutto - anche sugli abissi del nostro cuore, così difficili da scandagliare e colmare. tutta la folla davanti al mare stava a terra. Questa folla è chiamata all'esodo, per giungere con lui all'altra riva, dove si vince il male, la malattia e la morte e si riceve il suo pane (cc. 5-6). v. 2 insegnava in parabole. La parabola dice una cosa molto semplice e nota a tutti per spiegarne un'altra nascosta e misteriosa. In questo capitolo, attraverso l'immagine del seme e delle sue qualità, Gesù spiega il segreto del Regno e della Parola che lo annuncia. L'uomo conosce bene la morte che viene dalla vita; ma nel caso del seme ha l'esperienza contraria, quella di una vita che viene dalla morte. diceva loro nel suo insegnamento. Per tre volte è ribadito il suo insegnamento. L'insegnamento del Maestro è ciò che fa il discepolo. L'imperfetto “diceva” suggerisce un'azione prolungata. v. 3 Ascoltate. “Ascolta, Israele”, inizia la professione di fede ebraica (Dt 6,4-9). La religione ebraicocristiana è fondata sull'ascolto: Dio parla e l'uomo risponde. Questo dialogo è la sua vita. Sono proibite le raffigurazioni di Dio, perché l'unica sua immagine è l'uomo che lo ascolta: è suo figlio, generato dalla parola che accoglie. Per questo dice il salmista: “Se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa” (Sal 28,1). Gesù chiede ascolto a tutti gli uomini, perché diventino simili a lui, il Figlio. La parabola è inclusa nell'invito ad ascoltarlo (vv. 3.9), proprio perché il seme di cui si parla è la parola che esce dalla sua bocca. uscì il seminatore. Gesù è il seminatore, il Figlio venuto a seminare a piene mani il regno del Padre. Ma è anche il seme, cioè la parola di Dio, che è viva ed efficace e porta frutto facendoci membri della sua famiglia (brano precedente). E sarà anche il raccolto, cioè chi l'ascolta, che si identifica con lui. v. 4 parte cadde lungo la strada. A noi sembra strano seminare fuori dall'arato. Ma in Palestina prima si seminava e poi si arava, ricoprendo il seme in attesa delle piogge. Quello caduto su eventuali viottoli, era visibile e facile preda degli uccelli prima che si arasse.

v. 5 parte cadde sul terreno sassoso. Si intende un terreno con una roccia coperta da un esile strato di humus. Ma prima di arare non si conosce che profondità abbia, e si semina ovunque e comunque. Il contadino che volesse essere sicuro in precedenza del risultato di ogni chicco non seminerebbe mai. Si mangerebbe in un mese quel sacco di grano che, “gettato via”, diventa alimento per tutto l'anno dopo. La sua azione, apparentemente in perdita, conta sulla forza del seme. Sa, e per questo osa. “Nell'andare se ne va e piange, portando la semente da gettare; ma nel tornare viene con giubilo, portando i suoi covoni” (Sal 126,6). e subito spuntò. Il sasso che sta sotto il leggero strato di terra, cedendogli umidità e calore accelera lo sviluppo del seme in piantina. v. 6 riarse. Ma come cresce, subito avvizzisce e cade, perché manca di radici che pescano linfa in profondità. si essiccò. È come la mano di 3,1-6, incapace di accogliere il dono della vita. v. 7 cadde nelle spine. Le spine nell'aratura vengono tolte. Ma facilmente le radici restano. e lo soffocarono. Ributtando, i rovi crescono e stringono e soffocano il grano. e non diede frutto. Il risultato di questa semina sembra disastrosa: il seme non attecchisce per via degli uccelli; se attecchisce, non cresce a causa dei sassi; se cresce, è soffocato dai rovi. Eppure il contadino semina ugualmente con fiduciosa certezza. Anche la parola di Gesù sembra non entrare nel cuore dell'uomo; e se entra, non mette radici; e se mette radici, è soffocata. Eppure lui va avanti nella sua semina: “per questo sono uscito” v. 8 la terra bella. C'è anche questa, che ripaga ogni fatica. Al di là di ogni resistenza, il cuore dell'uomo è fatto per la parola di Dio: è terra bella e feconda per il seme. Gesù lo sa: siamo stati creati in lui, per lui e in vista di lui (Col 1,16). e dava frutto. Indica un'azione che si prolunga. che veniva su e cresceva. Che bello il grano che sale e cresce, questa vita tenera che scaturisce dalla terra! portava. Indica un'azione continuata. uno trenta In media in Palestina un sacco di grano seminato ne dava 7/8, al massimo 11/12. Un sacco ne dà trenta? È un'esagerazione! uno sessanta. È impossibile! uno cento. È assurdo! v. 9 Chi ha orecchi per ascoltare ascolti. Siamo di nuovo richiamati ad ascoltarlo. Questo frutto, esorbitante, impossibile, assurdo è la sicurezza di Gesù. Il seme che lui sparge ha la potenza stessa della Parola che dal nulla ha creato tutto, anche il cuore dell'uomo, e sa trarre dalla morte la vita - e non una vita qualunque, ma la vita stessa di Dio. Suo infatti è il seme, che dà frutto secondo la sua specie.

In questo momento di crisi Gesù esprime così la propria fede incrollabile nel Padre, e invita noi ad averla in lui: Dio solo è Dio e Signore di tutto e di tutti, degli uomini e della loro storia. Noi vediamo oggi bene quanto abbia avuto ragione. Il suo seme è germinato per tutto il mondo; e cresce inarrestabile, senza avere altro potere che quello di essere gettato e di marcire, come lui stesso. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: le folle sulla riva e Gesù in mezzo al mare, seduto, che parla dalla barca. 3. Chiedo ciò che voglio: ascoltare, e non avere paura delle difficoltà che la Parola incontra in me; ma aver fiducia nella forza che essa ha in sé. 4. Medito sulla parabola, considerando le difficoltà che il seme incontra, e il frutto insperato che porta. Da notare:

folle mare barca ascoltare seme

strada/uccelli terreno sassoso/inaridisce spine/soffocano terra bella/trenta sessanta e cento per uno

4. Passi utili: Is 55, 1 -11; Sal 65; 126; 1Pt 1,22-25.

20. TUTTO È IN PARABOLE (4,10-12) 10

E quando fu solo, quelli intorno a lui con i Dodici lo interrogavano sulle parabole. 11 E diceva loro: A voi è stato dato il mistero del regno di Dio, ma per quelli di fuori tutto è in parabole, 12 così che guardando guardino e non vedano, e ascoltando ascoltino e non intendano, a meno che si convertano e sia loro perdonato.

1. Messaggio nel contesto “Tutto è in parabole”, dice Gesù prima di spiegare quella che aiuta a comprenderle tutte. Anche la nostra vita è come una parabola dalla nascita alla morte, in cerca della parola che le dia senso. La parabola è un parlare per immagini: cose ovvie e note illustrano altre, misteriose e ignote. La loro evidenza immediata si impone, suggerendo però qualcosa che rimane un enigma per chi sta fuori, ma diventa chiaro per chi ha la chiave per entrare. Dell'invisibile non possiamo parlare che attraverso il visibile. Se tutto il creato porta una traccia del volto di Dio, Gesù ne è l'icona perfetta. Tutta la sua vita è come un'unica parabola, che ci parla di altro: è l'esegesi del Padre, che in lui spiega pienamente le pieghe che celano il suo abisso increato. In questo brano Gesù ci dice che, se vogliamo conoscere il segreto di Dio e del suo regno, dobbiamo dimenticare le nostre risposte già prefabbricate e guardare a lui, contemplandolo, lasciandoci interrogare su cosa vuol dirci. Troviamo la risposta solamente in un rapporto personale con lui, in un costante confronto, che esige coinvolgimento e disponibilità a cambiare. Solo così possiamo vivere dei dono che è venuto a portarci: il perdono di Dio, che ci rinnova la vita. Una ricerca “staccata e scientifica” non approda a nulla. Chi vuoi rispondere da sé, senza interrogarlo e impegnarsi a convertirsi, resta “fuori”. Per lui la sua parola rimane un interrogativo senza risposta, una questione inevasa. Ma anche così non è inutile, perché lo lascia inquieto fino a quando, cercando nel modo giusto, troverà. Gesù qui dice le disposizioni necessarie per capire la parola fatta carne e tornata Parola per incarnarsi in chiunque l'ascolta. Seminata nel mondo con l'annuncio, entra nella storia umana per illuminarla e nel cuore di ciascuno per salvarlo. Ma rimane incomprensibile al di fuori di un dialogo con lui. Discepolo è chi si confronta con lui, ascoltandolo con sincerità e disponibilità a convertirsi al suo perdono. In questo brano si spiegano meglio i criteri di chi è dentro e di chi è ancora fuori della vera famiglia di Gesù (cf 3,31 ss). 2. Lettura del testo v. 10 E quando fu solo. Questa solitudine non è semplicemente silenzio e attenzione; è la qualità di un ascolto che da comunicazione si fa comunione e intimità di vita. I discepoli sono soli con il solo la cui parola può rischiarare la loro mente; sono soli con il solo che può colmare la solitudine del loro cuore. quelli intorno a lui (cf 3,32.34). Sono la sua vera famiglia, seduta attorno a lui per ascoltarlo. con i Dodici. Le moltitudini stanno con i Dodici che “sono con lui” (3,14). L'ascolto le aggrega alla loro stessa cerchia, ampliandola all'infinito, fino a che, abbracciando tutti i fratelli, il corpo del Figlio raggiunga la sua piena statura (Ef 4, 13). lo interrogavano sulle parabole. Il tempo del verbo (imperfetto) indica che si tratta di un'interrogazione insistente e prolungata. Per capire, bisogna chiedere la risposta a lui, Parola che racchiude l'enigma di ogni vita. Non cerchiamo di spiegare noi quanto solo lui può rivelare, non diciamoci da soli quanto lui vuoi dirci. Perché dietro la comunicazione c'è chi comunica, dietro ciò che dice c'è chi vuoi darsi. Interroghiamolo nella preghiera su quanto ha detto: entreremo in comunione con lui, che è il regno stesso di Dio.

v. 11 A voi è stato dato. Il regno di Dio non esige una sapienza misteriosa che si acquisti con i propri sforzi, o si conquisti con la propria intelligenza. È un dono fatto a chi ha la povertà e l'umiltà di chiederlo a Gesù. Infatti è il dialogo con lui. il mistero. Nei vangeli questa parola esce solo in questo passo dei sinottici. Indica una cosa segreta che Dio rivela: il suo progetto di salvezza per tutti gli uomini (cf Ef 3,1 ss). il regno di Dio. Il regno di Dio è un mistero per l'uomo, proprio perché è di Dio. È donato a chi ascolta Gesù. Egli infatti è venuto a rivelare e realizzare in sé il disegno di colui che vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità (1 Tm 2,4). È la verità che salva è la conoscenza dell'amore del Padre per tutti i suoi figli nel suo unico figlio Gesù. Stando con lui, entriamo nel segreto di Dio e nel segreto nostro: Dio è nostro Padre e noi siamo suoi figli. quelli di fuori (cf 3,31 ss). Sono quanti, ascoltando i propri interessi o pensieri, si oppongono o non si decidono all'ascolto di Gesù. Non lasciandosi interrogare e non interrogando, non hanno risposta. Sono i farisei e gli erodiani che decidono di ucciderlo (3,6), le folle che lo schiacciano (3,9), Giuda che lo tradisce (3,19), i suoi che lo stimano pazzo (3,21), gli scribi che lo chiamano indemoniato (3,22). O Signore, chi non è fuori, se tu con la tua pazienza non lo conduci dentro di continuo? tutto è in parabole. Per chi sta fuori la parabola resta una domanda in sospeso, un enigma mai risolto. Il linguaggio in parabole rispetta insieme la realtà di Dio, che è superiore a tutto ma di cui tutto parla, e la libertà dell'uomo, che comprende solo se vuole arrendersi alla verità che incontra ma lo trascende. Contemporaneamente interpella questa libertà, aprendole la gabbia e sollecitandola verso un orizzonte ancora ignoto. v. 12 così che. Gesù parla in parabole per farsi capire, ma senza tradire la propria verità o violentare la nostra libertà. “Così che” è un modo di citare la Scrittura, e significa: “così che in questo modo si compie quanto ha detto il profeta Isaia” (Is 6,9 s). La nostra resistenza è già stata prevista da Dio e denunciata dal profeti, appunto perché ci convertiamo. guardando guardino e non vedano, ecc. Per vedere ciò che si guarda ci vuole un cuore libero dal proprio io e accogliente. Uno vede ciò che vuole, e, soprattutto, non vede ciò che non vuole! Per questo possiamo guardare e non vedere. Però se un altro con discrezione ce lo fa notare, ci accorgiamo almeno di non vedere. Le parabole hanno la funzione di porci davanti un enigma. Anche per chi non lo capisce, rimane un interrogativo aperto, una carica provocatoria, sempre pronta ad esplodere. Gesù volgerà un rimprovero analogo ai suoi discepoli in barca (8,18). I suoi ultimi tre miracoli saranno proprio la guarigione del sordo-muto (7,31 ss) e la duplice guarigione dei cieco (8,22 ss; 10,46 ss). Come sempre Gesù denuncia il nostro male per annunciarci il bene che ci vuol dare se glielo chiediamo. a meno che si convertano. La condizione per vedere e ascoltare è convertirsi, cioè girarsi verso Gesù (cf 1,15). Chi non è disposto a cambiar mente, cuore e mani, non può capire mai nulla di nuovo. e sia loro perdonato. È quanto Dio desidera fare e il Figlio dell’uomo è venuto a portare (2,10). Per questo ha denunciato anche il peccato contro lo Spirito: perché uno lo riconosca. L'unica condizione al perdono è sapersi peccatori: l'ammissione della propria cecità prelude già la guarigione (Gv 9,41). 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito.

2. Mi raccolgo, osservando il luogo: Gesù da solo con quelli attorno a lui con i Dodici, che lo interrogano su ciò che hanno ascoltato e ricevono risposta. 3. Chiedo ciò che voglio: essere tra quelli che stanno con lui, lo interrogano e si lasciano interrogare e convertire dalla sua parola. Gli chiedo di essere tra quelli a cui è stato dato il regno di Dio. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, cosa dicono, cosa fanno. Da notare:

solo mistero regno di Dio

“fuori” parabole guardare/vedere

ascoltare/intendere convertirsi venir perdonato

4. Passi utili: Is 6,9 s; 29,9-12; Sal 32; 19.

21. NON INTENDETE QUESTA PARABOLA: E COME CAPIRETE TUTTE LE PARABOLE? (4,13-20) 13

E dice loro: Non intendete questa parabola: e come capirete tutte le parabole? 14 Il seminatore semina la parola. 15 Questi sono quelli lungo la strada: coloro nei quali è seminata la parola, e quando l'hanno udita, subito viene il satana e ruba la parola seminata in essi. 16 E questi sono similmente quelli seminati in terreno sassoso: coloro che, quando hanno udito la parola, subito l'accolgono con gioia, 17 e non hanno radice in se stessi, ma sono incostanti; poi, venendo afflizione o persecuzione a causa della parola, subito si scandalizzano. 18 E altri sono quelli seminati nelle spine: questi son quelli che hanno udito la parola, 19 e, entrate le cure del secolo e la seduzione della ricchezza e le brame per le altre cose, soffocano la parola, e diventa infruttuosa.

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E quelli seminati in terra bella sono coloro che ascoltano la parola e l'abbracciano, e portano frutto, uno trenta uno sessanta. e uno cento. 1. Messaggio nel contesto “Non intendete questa parabola: e come capirete tutte le parabole?”. Le parabole di Gesù sono introdotte da un imperfetto: “diceva”; la spiegazione alla comunità invece dal tempo presente: “dice”. La sua parola infatti è detta qui e ora per chi si lascia interrogare e interroga, disposto a convertirsi (brano precedente). Questo brano ci dice delle reazioni negative che avvengono in noi quando ascoltiamo il vangelo. È un'attualizzazione esemplare che fa la Chiesa primitiva, applicando a se stessa la parabola di Gesù (vv. 39), dopo aver sentito come ascoltare (vv. 10-12). Avere chiara la vicenda della Parola nel nostro cuore è aver la chiave per entrare in tutte le parabole. Il seme che fruttifica attraverso difficoltà, crisi e morte (vv. 1-9), oltre che la vita di Gesù, illustra pure la sorte della sua parola in noi. Anche noi siamo chiamati ad avere fiducia in essa, perché è potenza di Dio: è seme suo, che germina per forza propria la sua stessa vita divina. Però è indispensabile che sappiamo smascherare l'azione del nemico che cerca di impedirne il frutto. La sua opera di ostruzionismo trova in noi buoni alleati. Il primo è il buon senso, che, alienandoci nei nostri interessi materiali, ci rende impermeabili a tutto il resto. Il secondo è la nostra fragilità, guardando alla quale siamo presi da sfiducia. Questa non lascia attecchire in noi la verità, se non in modo superficiale. Alla minima difficoltà, le nostre paure profonde prendono il sopravvento. Il terzo alleato del nemico è il piacere, scambiato per gioia, che tende ad anestetizzarci, soffocando in noi la capacità di intendere. La Parola, come incontra, anzi scatena in noi queste tre difficoltà, così le affronta e le supera, rispettivamente mediante la fede, la speranza e l'amore. La fede vince la menzogna che ce la fa sentire estranea; la speranza la radica in noi e rinverdisce il nostro cuore essiccato dalla paura; l'amore ce la fa vivere, superando ogni idolatria che la uccide. In questo modo il seme porta in noi la pienezza del suo frutto, che è la vita dei figli di Dio. Gesù è la Parola di Dio seminata in noi. Il mistero del Regno nella storia è ormai quello del seme, che rivive in noi la sua stessa vicenda di allora. Il discepolo intende il mistero di questa parola, che gli chiarisce l'enigma della sua esistenza. Conosce bene anche le proprie resistenze. Come Gesù, anche lui nutre fiducia, cosciente delle proprie difficoltà, ma soprattutto della potenza di Dio. 2. Lettura del testo v. 13 Non intendete questa parabola: e come capirete tutte le parabole? Questa parabola ci fa discernere ciò che la Parola opera in noi. Chi intende questa, è in grado di capire tutte le altre parabole.

v. 14 Il seminatore semina la Parola. Il seminatore è Gesù. La semina è il suo annuncio. Il seme è la Parola, cioè ancora lui stesso, Parola fatta carne e tornata parola per farsi carne nel nostro ascolto. v. 15 quelli lungo la strada. L'ascoltatore è identificato con il terreno. La nostra identità infatti è data dalla nostra accoglienza al seme. Qui si tratta di un ascoltatore disattento, che sente la Parola come una delle tante parole. Cade infatti sulla “via”, che rappresenta il luogo battuto dal senso comune e dalle ovvietà, dai “si dice” e “si fa”. Tutto si volatilizza nella chiacchiera. quando l'hanno udita, subito viene il satana. I pensieri di Dio non sono i pensieri dell'uomo (Is 55,8). Questi infatti pensa secondo satana (8,33), che gli fa porre come norma di comportamento il vano tentativo di salvarsi, chiudendolo nell'egoismo. e ruba la parola. Fin dall'Eden satana è il ladro della Parola. È abile nel farcela dimenticare, inducendoci a pensare che non è per noi, togliendoci la fiducia che possiamo mai viverla, e mettendoci davanti i nostri bisogni, i nostri limiti e le nostre preoccupazioni. Come ha tentato Gesù, tenta ciascuno di noi. Se riesce a sottrarcela, ha conseguito il suo intento omicida: ci uccide nella nostra realtà di figli. La prima vittoria della Parola in noi sarà la fede, che ci fa credere a Dio e alla sua promessa più che alle nostre paure. “Questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede” (1Gv 5,4). v. 16 quelli seminati in terreno sassoso. Qui si tratta di un ascolto entusiasta, ma superficiale. Il seme non entra nelle profondità del cuore, pietrificato dalle paure, e non lo guarisce. C'è da diffidare delle “conversioni” troppo rapide e non sofferte. v. 17 non hanno radice, ma sono incostanti. Dove c'è sotto pietra, il seme germina in fretta, ma lo stelo è senza radici e ricade su se stesso. afflizioni. La fede subisce sempre tribolazioni, sia a causa del mondo che delle nostre ansie, che sono vere persecuzioni interiori. persecuzione a causa della Parola. La Chiesa di Marco sperimenta la persecuzione esterna, da parte del potere politico. Questo può perseguitarla sia visibilmente, togliendole spazio, sia più subdolamente, offrendole vantaggi per toglierle la libertà evangelica. subito si scandalizzano. Tutti i discepoli nell'ora della prova saranno scandalizzati (14,27). Lo scandalo è una pietra contro cui si sbatte. Il mistero di Gesù, roccia di salvezza, rimane anche sempre pietra d'inciampo. La seconda vittoria della Parola è la speranza, che la radica in noi e la fa penetrare nel nostro cuore illuminandone le profondità e gli angoli nascosti. v. 18 e altri sono quelli seminati nelle spine. Qui si tratta di un ascolto che, pur ben disposto (cf 6,20!), cerca di salvare capra e cavoli, nel tentativo di conciliare le esigenze di conversione con il proprio comodo. le spine. Queste spine, che vogliono regnare sul mondo intero (Gdc 9,14 s), saranno la corona di sangue del nostro Signore (15,17). v. 19 le cure. Sono le cose che ci assillano e ci stanno a cuore e si fanno oggetto di ricordo costante, fino a controllare e dominare ogni nostra azione. Diventano l'idolo, che schiavizza tutta la nostra vita.

del secolo. In greco “eone” significa il secolo presente in contrapposizione a quello definitivo che sta per venire. La vita è un cammino. Dove sei, è il luogo per raggiungere la meta. Se ti fermi, non arrivi a casa. Così è di chi dedica la sua vita a ciò che è transitorio e si dimentica di dove deve arrivare. Per questo amare il mondo è odiare Dio (Gc 4,4). seduzione della ricchezza. Il dio mammona è seducente, perché garantisce i beni necessari per vivere e rende possibile la soddisfazione di ogni altro bisogno. e le brame per le altre cose. La ricchezza stuzzica ogni brama, promettendo e permettendo di soddisfarla: piacere e lusso, potere e prestigio, vanagloria e autosufficienza. Ma la brama è insaziabile: il cibo che l'appaga, aumenta la fame. soffocano la parola. Queste spine crescono sempre e comunque. Sono le tre concupiscenze su cui si struttura il mondo (1Gv 2,16): la brama d'avere, di potere e di apparire. Generate dall'ansia di vita, hanno come vigile sentinella la paura della morte. Mediante esse, il nemico ci tiene schiavi della paura della morte per tutta la vita (Eb 2,14 s). La terza vittoria della Parola è un amore grande, capace di superare ogni illusorio piacere, rintuzzando la mondanità che sempre rinasce in noi. Questa è come i rovi: sono da bruciare ogni anno e da tagliare più volte l'anno perché non invadano il campo! v. 20 quelli seminati in terra bella. Qui si tratta dell'ascolto vero, per il quale l'uomo è fatto. Egli è sempre terra buona, argilla che Dio si è plasmata per accogliere il dono della sua parola che lo rende suo figlio. Proprio per questo l'uomo è “molto bello” (Gn 1,31). ascoltano la parola e l'abbracciano. Chi ascolta, abbraccia la Parola come la sposa abbraccia lo sposo. portano frutto. Il frutto di questo seme, unico e di gusto molteplice, è lo Spirito Santo, la vita del Padre che germina nel Figlio e in chi l'ascolta. Sogno antico dell'uomo, non è il frutto proibito, ma il dono che Dio ci fa: diventare come lui, che è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (Gal 5,22). uno trenta uno sessanta e uno cento. Questo seme è fecondo in modo incredibile e senza misura. A chi più ha, più sarà dato (v. 25): “veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore” (2Cor 3,18). Alla nostra crescita nell'ascolto della Parola non c'è altro limite che l'infinità di Dio. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: come il precedente, Gesù da solo con i suoi, che dialogano con lui per capire ciò che hanno ascoltato da lui. 3. Chiedo ciò che voglio: un cuore bello; le paure, le difficoltà, le persecuzioni e i mondani non lo rendano impermeabile, incostante e distratto nei confronti della sua parola. 4. Verifico la qualità del mio ascolto, paragonando i vari tipi di terreno al mio cuore e vedo le resistenze che in me la Parola deve vincere. Considero ogni parola del brano.

4. Passi utili: Sal 107; Gc 1,19-27; 1Gv 2,15 s.

22. GUARDATE CIÒ CHE ASCOLTATE (4,21-25) 21

E diceva loro: Viene forse la lucerna per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? Non per essere messa sul lucerniere? 22 Nulla infatti c'è di nascosto che non debba essere manifestato, né di segreto che non debba essere manifesto. 23 Se uno ha orecchi per ascoltare ascolti. 24 E diceva loro: Guardate ciò che ascoltate. Con la misura con cui misurate sarà rimisurato a voi, e vi sarà dato in aggiunta. 25 Infatti a chi ha, gli sarà dato; a chi non ha, anche ciò che ha gli sarà tolto. 1. Messaggio nel contesto “Guardate ciò che ascoltate!” Prendendo alla lettera queste parole di Gesù, ci si dice di guardare ciò che ascoltiamo. Ma come si può guardare una parola?! Sì, siamo chiamati a vedere lui, Verbo del Padre, piena identità tra ciò che è e ciò che dice. In questa contemplazione di lui attraverso la sua parola e della sua parola attraverso di lui comprendiamo il mistero del Regno. Se prima parlava di seme, ora parla di luce - altra realtà terrestre adatta a illustrare misteri celesti. Inizio della creazione. principio di vita e intelligenza, essa è più che un attributo di Dio. Egli è luce, e in lui non ci sono tenebre (1Gv 1,5); la sua parola è lampada per i nostri passi (Sal 119,105). Gesù stesso si proclama luce vera del mondo venuta per illuminare ogni uomo (Gv 8,12; 1,9).

Con queste brevi parabole Gesù spiega come mai il regno di Dio non si imponga con evidenza prepotente, ma si proponga con discrezione e modestia. Infatti la luce di Dio rimane una nube oscura al nostri occhi. La sua parola illumina, ma confondendoci sempre non poco e rivelando le nostre opacità. Gesù si mostra al mondo non in modo spettacolare - come vorrebbero i suoi (Gv 7,4!), ma in tono umile e dimesso. Evita di mettersi in mostra, ci tiene a fuggire la pubblicità. Nella sua vita esiste una tensione che a noi risulta incomprensibile: è luce, ma sta sotto il moggio; è rivelazione, ma è segreta; è manifestazione, ma nascosta. È un contrasto divino, in cui il Signore si fa vedere, ma sempre sotto il segno opposto a quello che noi attendiamo. Infatti la sua luce brillerà pienamente solo dalla croce. Questa è il lucerniere da cui si mostrerà a tutti, rivelando l'identità sua e di Dio. A chi gli dice che è ora di farsi conoscere (vv. 21-22), Gesù risponde che è ora che ci mettiamo ad ascoltarlo bene, per conoscerlo (vv. 23-25). Gesù è luce e vita del mondo. Ma solo nel nascondimento della croce svela il suo segreto, che è il mistero di Dio. Il discepolo lo ascolta e lo contempla, lasciandosi permeare da lui, in un atteggiamento di fede e di accoglienza che Dio colma del suo dono. 2. Lettura del testo v. 21 la lucerna. Le parabole del seme sottolineano la vitalità della Parola, che germina oltre la morte. Questa parabola della luce indica le qualità di questa vita: è intelligenza, calore e amore. La lampada, messa in un luogo eminente, squarcia e tenebre della notte. Gesù è la luce del mondo (Gv 8,12). La sua azione e le sue parole dovrebbero essere poste in alto, messe bene in vista per illuminare tutti. Non ha forse detto: “ Sono venuto a portare un fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso”? (Lc 12,49). Come mai allora non si dà da fare, cercando rilevanza, stima, fama, successo? Non gli mancano i mezzi! sotto il moggio o sotto il letto. È il rimprovero di chi gli vuol bene: “Nessuno agisce di nascosto, se vuol essere riconosciuto pubblicamente. Se fai tali cose, manifestati al mondo” (Gv 7,4). Lui invece sembra che metta la lampada sotto il moggio per spegnerla o sotto il letto per nasconderla! Perché si sottrae quando tutti lo cercano, non sa approfittare delle occasioni, non usa dei suoi poteri, proibisce ai guariti di fargli propaganda e fa tacere gli spiriti che rivelano la sua divinità? Sta sbagliando tattica! Pietro si sentirà in dovere di dirglielo (1,36 s; 8,32). Tutte queste cose si profilarono nette ai suoi occhi già nella luce accecante del deserto e già da allora sa da dove vengono! Per Gesù il problema del Regno non è aver rilevanza, ma conservare l'identità. La candela non deve preoccuparsi di illuminare: brucia, e per questo illumina. sul lucerniere. È il luogo naturale su cui porre la lampada. La croce sarà lucerniere di Gesù: gli darà tutta la sua rilevanza, rivelando chi è lui e chi è Dio. Anche il più lontano, il centurione che comanda il plotone di esecuzione, ne prenderà atto (15,39). “Quando sarò innalzato, conoscerete Io-sono” (= JHWH) (Gv 8,28). v. 22 Nulla c'è di nascosto che non debba essere manifestato. Proprio sulla croce sarà manifestato il segreto profondo di Dio, che all'uomo è da sempre nascosto: Dio è amore senza limiti per tutti.

né di segreto che non debba essere manifesto. Lì, nel suo massimo nascondimento, diviene manifesto ciò che satana con la sua menzogna ci nascose, presentandoci un Dio cattivo, invidioso e punitore. v. 23 Se uno ha orecchi per ascoltare ascolti. L'orecchio dell'uomo è fatto per ascoltare la parola di Dio. Questa è la sua differenza specifica dagli altri animali che periscono. Ma a causa della menzogna, ascolta più le proprie paure che la sua promessa. La fede è dar più credito alla sua che alla nostra parola. v. 24 Guardate ciò che ascoltate. Gesù richiama ad ascoltare bene, con attenzione. Il nostro ascolto deve volgersi a lui, in cui contempliamo la realtà della Parola che ascoltiamo. In lui, infatti, sono tutti i tesori della sapienza e della scienza (Col 2,3) e abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9). Dio, nessuno l'ha mai visto; lui, il Figlio, ce l'ha raccontato con la sua vita e la sua opera (Gv 1,18). Guardando la sua storia, entriamo nel segreto di Dio. La sua carne è il criterio supremo di discernimento spirituale (1Gv 4,2 s). A noi è sempre possibile “contemplare” la Parola, perché il vangelo ci racconta di Gesù che l'ha realizzata. In questa contemplazione amorosa di lui penetriamo nel mistero di Dio. Alla tua luce vediamo la luce (Sal 36,10). Con la misura con cui misurate sarà rimisurato a voi. A ciascuno è dato il mistero di Dio nella misura in cui ha fede, che è questo sguardo e orecchio su Gesù. La misura serve per valutare, pesare e giudicare. Noi valiamo, pesiamo e siamo giudicati secondo che valutiamo, pesiamo e giudichiamo Gesù e la sua parola. La nostra fede in lui è il nostro giudizio su di noi. e vi sarà dato in aggiunta. Il dono di Dio eccede ogni misura. Siamo stimolati ad accrescerla per ricevere sempre di più. C'è un dinamismo nel nostro rapporto con lui, che non cesserà mai, e ci porta a partecipare della sua infinità: più desideriamo, più otteniamo, ma otteniamo sempre più di quanto desideriamo, così che si dilati il desiderio, per ottenere ancora di più, in un crescendo continuo. L'amore infatti è senza fine. Nessun appagamento lo estingue: ciò che lo sazia, anche lo alimenta. v. 25 a chi ha, gli sarà dato. È un'esortazione a non fermarci mai nel nostro cammino di ascolto e contemplazione. Più uno è ricco, più si arricchisce. Piove sempre di più sul bagnato. a chi non ha, anche ciò che ha gli sarà tolto. Chi non ha fede, ossia non contempla e non ascolta la Parola, perde la realtà di cui è immagine; perde se stesso. Più uno è povero, più impoverisce. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: il mare, dove Gesù narra le parabole del Regno. 3. Chiedo ciò che voglio: guardare a lui, per comprendere il suo mistero di nascondimento. 4. Medito sulle parole di Gesù, vedendo come lui le ha realizzate, e, nel nascondimento della croce, ha rivelato il segreto di Dio. Da notare:

lampada (luce) segreto manifestare nascosto

orecchio/ascoltare guardare misurare avere/dare

4. Passi utili: 1Sam 16,1-13; Sal 113; 1Cor 1,26-30; Gv 8,12; 12,32.

23. E DORMA E VEGLI, E DI NOTTE E DI GIORNO, IL SEME GERMOGLIA E CRESCE LO STESSO (4,26-29) 26

E diceva: Così è il regno di Dio, come un uomo che abbia gettato il seme sulla terra: 27 e dorma e vegli e di notte e di giorno, il seme germoglia e cresce lo stesso, - come egli non sa. 28 Automaticamente la terra porta frutto, prima uno stelo, poi una spiga e poi grano pieno nella spiga. 29 Quando il frutto è pronto, subito manda la falce perché la messe è lì. 1. Messaggio nel contesto “E dorma e vegli, e di notte e di giorno, il seme germoglia e cresce lo stesso”. Non è l'azione dell'uomo che produce il Regno, ma la potenza stessa di Dio, nascosta nel seme. Tante nostre ansie per il bene non solo sono inutili, ma dannose. Come il male ha in sé la propria morte e si uccide, così il bene ha in sé la propria vita e cresce da sé, in modo inarrestabile. In queste parole Gesù evidenzia il contrasto tra l'inattività nostra e l'azione di Dio. Ma è solo apparente, perché egli agisce proprio dove noi sappiamo di non potere e attendiamo tranquilli con fiducia. L'efficacia evangelica è l'opposto dell'efficienza mondana. A Gesù dicono che bisogna darsi da fare prima che sia troppo tardi: è ora di agire con urgenza e determinazione - come gli zeloti - perché non vada perduto il frutto delle sue fatiche. Ma lui risponde che, a tirar l'erba, non cresce. Solo si strappa. La vita ha il suo ritmo, che non puoi impunemente affrettare. Una volta gettato, il seme cresce da sé, con la calma di un fiume che va al mare. “Invano vi alzate di buon mattino, tardi andate a riposare e mangiate pane di sudore: il Signore ne darà ai suoi amici nel sonno” (Sal 127,2). Il regno di Dio è di Dio. Quindi l'uomo non può né farlo né impedirlo. Può solo ritardarlo un po' - come una diga sul fiume.

“Non abbiate paura e vedrete la salvezza che il Signore oggi opera per voi. Il Signore combatterà per voi, e voi starete tranquilli” (Es 14,13 s), dice Mosè al popolo che si trova coi nemici alle calcagna e il mare davanti. La nostra salvezza sta nel volgerci a Dio; la nostra forza nell'abbandono confidente in lui (Is 30,5). Il nostro dimenarci non fa che affogarci. Chi ci salva è lui, il Signore unico di tutto e di tutti. Il credente lo sa e sta tranquillo. L'empio invece è come “un mare agitato, che non può calmarsi e le cui acque portano su melma e fango” (Is 57,20). Tutte le nostre inquietudini nel bene vengono non da Dio, ma dal nemico: sono segno di sfiducia e causa di perdizione. Questa è la parabola assoluta della fede - quella che mancherà ai discepoli la notte di quello stesso giorno, quando lui “dormirà” ed essi veglieranno costernati (vv. 35-41). Un contadino stava seduto ai bordi di un vasto campo pulito, senza un filo d'erba. Mandò altrove i bambini che volevano giocare a palla; fece deviare un viandante che lo stava calpestando per andare diritto alla sua meta; mandò via un prete che glielo chiedeva per costruire le opere parrocchiali. In quel campo c'era niente; ma il contadino lo contemplava già biondeggiante di messe. Non era un illuso: l'apparenza dava ragione agli inesperti; la realtà invece a lui, che aveva seminato e sapeva che il seme non delude. Chi non ha la sapiente pazienza del contadino, distrugge con due mani ciò che fa con una. Gesù ha seminato la Parola, ed è lui stesso il seme di Dio gettato nel campo della storia. Non è un'attività ulteriore ed esteriore che lo fa crescere. Ha solo bisogno della passività: una terra spoglia e pulita che accoglie, una pazienza fiduciosa che attende. Il discepolo sa che la sua vita è un campo seminato, e non bisogna giocarci sopra (uomo estetico), né calpestarlo per altri fini (uomo etico) né sovraedificarlo di opere sacre (uomo religioso). La terra è feconda in forza dei seme che già contiene. E, in attesa della mietitura, invoca “Maràna thà; vieni, o Signore”, volgendosi a colui che garantisce: “Sì, verrò presto. Amen” (1Cor 16,22; Ap 22,20). Egli crede nel Signore che dice: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata” (Is 55,10 s). 2. Lettura del testo v.26 Così è il regno di Dio, come un uomo che abbia gettato il seme. Il regno di Dio viene di sicuro: come un campo già seminato, la nostra terra darà certamente il suo frutto (Sal 67,7). v. 27 e dorma e vegli e di notte e di giorno. Il dormire precede il vegliare e la notte il giorno non solo perché si computava il tempo partendo dal tramonto. Il sonno e la tenebra, immagini della morte, ci ricordano che proprio morendo il seme risveglia la sua qualità specifica e produce vita. il seme germoglia e cresce lo stesso. Non è l'azione dell'uomo, ma la sua stessa forza che lo fa germinare. come egli non sa. È un prodigio che supera la nostra comprensione. Sarà la sorpresa delle donne davanti al sepolcro il mattino di pasqua. I loro occhi crederanno di sognare prima che la loro bocca si apra al riso e la loro lingua si sciolga in canti di gioia (Sal 126,2). v. 28 Automaticamente. È una parola greca che significa “per impulso proprio, per azione spontanea” (cf At 12,10!). Neanche il seme fa alcuno sforzo. Sembra gonfiarsi di morte, invece è gravido di vita.

la terra porta frutto. La terra non produce il frutto, ma lo porta, come un dono che riveste la sua nudità. prima uno stelo. L'occhio inesperto non lo distingue dall'erba. poi una spiga. È già il frutto; ma ci vuole ancora tempo prima che maturi. poi grano pieno nella spiga. il frutto maturo. Tutto questo viene “automaticamente”, senza che l'uomo vi faccia niente o capisca molto. Solo sa aspettare e pazientare tranquillo. v. 29 subito si manda la falce, ecc. La mietitura è il regno di Dio, col suo giudizio di salvezza (Gl 4,13), raffigurato nella gioia del raccolto. Tutta la storia è di Dio: lui ha seminato, lui fa crescere e lui garantisce il frutto. I popoli tumultuano, i potenti possono tutti allearsi contro per combatterlo. Lui dall'alto ride (Sal 2). Ci garantisce che tutto ovviamente anche il male - concorre a compiere il suo disegno di salvezza (cf Rm 8,28). La calma dei suo sorriso regna sovrana sul caos di ogni potenza mondana, che, senza volerlo, fa proprio ciò che lui vuole (cf At 4,27 s). 3. Esercizio 1 . Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: il mare, dove Gesù parla alle folle. 3. Chiedo ciò che voglio: la pazienza e la fiducia nella sua parola che opera nella storia mia e del mondo intero. 4. Guardo Gesù e ascolto le sue parole, vedendo come le ha realizzate nella sua vita. E considero come la sua parola e il suo regno ancora oggi agisce nel nostro cuore e nel mondo intero allo stesso modo. Da notare:

dormire notte automaticamente porta frutto

grano messe falce

4. Passi utili: Sal 119; 126; 127; Eb 4,12 ss; 1Ts 2,13; 2Pt 3,9-15.

24. È PIÙ PICCOLO DI TUTTI I SEMI DELLA TERRA (4,30-34) 30

E diceva: Come paragoneremo Il regno di Dio? O in che parabole lo metteremo? 31 Come un chicco di senapa,

che, quando è seminato sulla terra, è più piccolo di tutti i semi della terra; 32 e quando è seminato vien su e diventa più grande di tutti gli ortaggi e fa rami grandi così che sotto la sua ombra possono dimorare gli uccelli del cielo. 33 E con molte parabole simili diceva loro la Parola secondo che potevano ascoltare. 34 Ora non parlava loro senza parabole, ma in privato ai propri discepoli spiegava tutto. 1. Messaggio nel contesto “È più piccolo di tutti i semi della terra”. Con queste parole Gesù descrive l'ultima qualità del Regno. Richiamiamo in sintesi anche le altre. La prima è quella del fallimento, attraverso cui viene il successo; la seconda è quella del nascondimento, attraverso cui viene la rivelazione di Dio (vv. 21-25); la terza è quella dell'inefficienza umana, attraverso cui agisce la sua potenza (vv. 26-29). Ora, la quarta, è quella della piccolezza, in cui manifesta la sua grandezza. La storia di Gesù nella sua carne (= debolezza) ci fa vedere il modo con cui Dio agisce, e ci dà il criterio di discernimento per leggere, valutare e scegliere secondo il suo Spirito. Per questo nelle contraddizioni abbiamo speranza, nel nascondimento fiducia, nell'inefficienza forza, nella piccolezza coraggio. La venuta del Regno è ostacolata non dalla cattiveria degli uomini le persecuzioni anzi l'affrettano! bensì dalla stupidità dei buoni. La nostra inesperienza spirituale è la più grande alleata dei nemico. Questi ci dà volentieri molto zelo quando manchiamo di sapienza evangelica, perché usiamo per il Regno quegli strumenti che il Signore scartò come tentazioni - esattamente il successo, la pubblicità, l'efficienza e la grandezza. Le parabole sono uno specchio del volto di Gesù e dei suo ministero. Ci aiutano a conoscerlo, perché lo possiamo amare e testimoniare così com'è, non come ce lo inventiamo noi. Con queste parole sul chicco di senapa, Gesù risponde a chi è deluso della piccola comunità che ha messo in piedi. Il messia non doveva riunire attorno a sé tutto il popolo e dominare tutte le nazioni? Perché allora limita la sua azione a una ristretta cerchia di persone, di cui cura con pazienza l'identità, senza cercare una rilevanza più grande? Ma questo è lo stile di Dio, che desidera verità e libertà, non certezze e consenso. Se pianti un grosso tronco, nasce niente; se pianti un piccolo seme, cresce un albero. Gesù non mira al successo e non fa sconti alle masse: vuole persone autentiche, che abbiano le medesime caratteristiche di quel seme che è lui stesso. Una piccola candela illumina più di mille notti; e alla sua fiamma tutti possono accendere. Gesù è la grandezza di Dio che per noi si è fatto piccolo, fino alla morte e alla morte di croce. Proprio così diventa il grande albero, dove ciascuno e tutti possono trovare accoglienza.

Il discepolo rispecchia il suo spirito di “minorità e servizio”. Questo vince il male del mondo, che è desiderio di grandezza e di potere. 2. Lettura del testo v.30 Come paragoneremo il regno di Dio? O in che parabole lo metteremo? Si nota uno sforzo per trovare l'immagine più adatta a descrivere la grandezza del regno di Dio. v. 31 Come un chicco di senapa. La senapa è un ortaggio che in una stagione cresce in grande arbusto. è più piccolo di tutti i semi della terra. La proverbiale piccolezza dei suo seme è il termine di paragone per il regno di Dio. Gli uomini cercano di essere sempre più grandi, e per questo litigano tra di loro (vedi anche i discepoli: 9,33 s; 10,37). Gesù invece ha scelto di essere piccolo, anzi il più piccolo di tutti (Lc 9,48). Questa “minorità” è la caratteristica dei Figlio dell'uomo che è venuto per servire e dare la vita per tutti (10,45). Egli è il Signore, il primo di tutti, proprio perché ultimo e servo di tutti (9,35). Chi ama si fa piccolo per lasciare posto all'amato; il suo io scompare per diventare pura accoglienza dell'altro. Per questo la piccolezza è il segno della grandezza di Dio, diversa da quella dell'idolo (Dn 2,31-35; Lc 2,12). v. 32 vien su. È la sorpresa che sempre riserva il seme: la bellezza della vita che sale dalla terra, simile al corpo di Cristo che si leva dal sepolcro. diventa più grande di tutti gli ortaggi. Il ramoscello di Ez 17 diventa un magnifico albero. Qui la solennità dei cedro lascia il posto all'umiltà di un ortaggio. La grandezza di Dio appare sempre piccola all'uomo. È di un altro ordine: è quella dell'amore. fa rami grandi. Questi rami, tanto grandi da avvolgere il mondo intero, sono i bracci dell'albero della croce. “Le acque lo avevano nutrito e l'abisso lo aveva fatto innalzare”: le potenze del male e della morte, credendo di distruggerlo, l'hanno fatto germinare ed hanno elevato la sua cima tra le nubi (Ez 31,43). Il piccolo sasso - pietra scartata! - dopo aver abbattuto il grande colosso, diviene una grande montagna (Dn 2,35). sotto la sua ombra possono dimorare gli uccelli. “Fra i suoi rami fecero il nido tutti gli uccelli del cielo, sotto le sue fronde partorirono tutte le bestie selvatiche, alla sua ombra sedettero tutte le grandi nazioni” (Ez 31,6; cf 17,23; Dn 4,17 s). È un'immagine del regno di Dio che abbraccia tutti i popoli della terra. Proprio la piccolezza della croce manifesterà la grandezza di Dio: un potere d'amore infinito, che offre riparo e vita a tutti, cominciando dagli ultimi e dai più lontani. dimorare. In greco è “fare la tenda, il tabernacolo”, che richiama la dimora di Dio tra gli uomini. Sulla croce, dimora di Dio tra noi, tutti noi possiamo fare la nostra dimora in lui. v. 33 con molte parabole simili diceva loro la Parola. Le parabole sono tante, la Parola che illustrano è una: quella della croce. v. 34 non parlava loro senza parabole. Perché le parabole permettono a ciascuno di comprendere secondo la sua disponibilità, lasciando un residuo incompreso che stimola l'appetito di una conoscenza maggiore.

in privato, ai propri. In greco le due parole hanno la stessa radice (kaat' idían e toîs idíois). È in questo spazio privato che i discepoli entrano in intimità con lui, e diventano i “suoi propri” discepoli. spiegava tutto. Lui, il maestro interiore, è sempre disponibile a spiegare a chiunque gli chiede (cf vv. 10 ss). 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: il mare, come nel brani precedenti. 3. Chiedo ciò che voglio: capire e adorare il mistero della piccolezza di Dio, che è la sua grandezza. 4. Traendone frutto, medito ogni parola e contemplo come Gesù dalla croce l'ha realizzata, diventando il più piccolo di tutti, per accogliere tutti e offrire a ciascuno la sua casa in cui abitare. Da notare:

piccolo seme rami

parola/parabola in privato i propri

4. Passi utili: 1Sam 2,1-11; Ez 17,22-24; Gdc 7; 1Sam 17,32-51; Dn 2,31-35; Lc 2,5-12; Ap 22,1-5.

25. PERCHÉ SIETE PAUROSI COSÌ? COME NON AVETE FEDE? (4,35-41) 35

E dice loro in quello stesso giorno, fattasi sera: Passiamo di là! 36 E, congedata la folla, prendono lui com'era nella barca; e altre barche erano con lui. 37 E venne un turbine grande di vento, e le onde si scagliavano contro la barca, così che già si riempiva la barca. 38 E lui era a poppa dormendo

sul cuscino. E lo svegliano e gli dicono: Maestro, non ti curi che periamo? 39 E, risvegliatosi, sgridò il vento e disse al mare: Taci e chiudi la bocca! E cadde il vento e fu grande bonaccia. 40 E disse loro: Perché siete paurosi così? Come non avete fede? 41 E temettero di grande timore, e dicevano l'un l'altro: Chi è mai costui, che e il vento e il mare lo ascolta? 1. Messaggio nel contesto “Perché siete paurosi così? Come non avete fede?”, chiede Gesù ai suoi. Hanno ascoltato la sua parola. Ma l'hanno ricevuta come essa è veramente, quale parola di Dio, che opera in colui che crede (1Ts 2,13)? Dominati dai loro pensieri e dalle loro paure, non hanno ancora fede. Non osano andare a fondo con lui. Il battesimo è essere associati a lui nella sua morte e nella sua risurrezione. Questo racconto è un'esercitazione battesimale per vedere se la Parola ha prodotto il suo frutto: la fiducia per abbandonare la propria vita con lui che dorme e si risveglia. Lo stesso giorno delle “parabole”, i discepoli falliscono l'esame. Ma l'esperimento non è inutile; fa uscire le difficoltà del loro cuore, tardo e lento a credere. La Parola dovrà entrare in tutte le loro paure. Ma prima deve evidenziarle, anzi suscitarle e farle uscire allo scoperto, per poterle vincere. È notte, sul mare in tempesta Gesù dorme tranquillo. I suoi, che sono con lui, nelle sue stesse difficoltà, gridano di angoscia. Non capiscono questo sonno, immagine del suo abbandono alla morte. Dormendo, egli realizza la fiducia espressa nelle parabole. I discepoli, al contrario, sono in balia della disperazione. La Parola, caduta “sulla via”, non è attecchita. È entrata superficialmente; ma sotto c'è la pietra del loro cuore, che impedisce loro di affidarsi al Signore. Questa diffidenza può dissolversi solo quando si risponde alla domanda: “Chi è costui?”. L'apparente inazione del suo sonno è la massima azione in nostro favore: dorme per essere con noi anche nella valle oscura. E proprio qui si alza con tutta la potenza di JHWH, placando ogni tempesta, anche quella del nostro cuore. Gesù ci viene rappresentato nel suo mistero profondo: la notte, mentre dorme, egli è il seme gettato, la luce nascosta, la forza automatica dei Regno, la piccolezza del chicco di senapa. Ma il seme germina morendo, la luce brilla nelle tenebre, la forza vince con la calma, la piccolezza diventa grande albero. Lo

costateremo solo al suo risveglio. I discepoli si chiedono: “Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare lo ascolta?”. È la domanda fondamentale del vangelo. Il discepolo è colui che, dopo aver ascoltato la Parola, si affida a Gesù che dorme, al di là delle proprie paure. Sulla sua parola accetta di andare a fondo con lui - l’alternativa è andare a fondo senza di lui! nella speranza di emergere con lui a vita nuova. 2. Lettura dei testo v. 35 in quello stesso giorno. Il giorno in cui si rivela la Parola è lo stesso della fede e della sua prova: “Se oggi udite la sua voce, non indurite il vostro cuore” (Sal 95,8 vlg). fattasi sera. Le tenebre sono figura della morte (cf 1,32). La notte delle notti sarà quando si oscurerà il sole a mezzogiorno, e il Signore dormirà. Allora sarà la somma di tutte le difficoltà di cui Gesù raccontò nelle parabole. Passiamo di là. Proprio in questa notte si compie l'esodo e si raggiunge l'altra sponda: la sera si parte, necessariamente! v. 36 prendono lui. L'iniziativa dei discepoli è su invito del Signore, che con la sua parola non cessa di attirarli. com'era. Indica forse la fretta della notte di pasqua, decisiva per la salvezza (Es 12,11). Ma com'era Gesù? Come il grano che va sotto terra, come la luce che entra nella notte, come il seme che germoglia nel sonno, come il chicco di senapa che è piccolissimo. È importante prenderlo così com'è, non come lo vorremmo noi. altre barche erano con lui, Tutte queste barche, quasi un festoso corteo, si perdono poi di vista. Faranno naufragio? Tutti dobbiamo attraversare lo stesso mare, credenti e non credenti. Giunta la sera, tutte le barche partono. La differenza è che noi sappiamo che lui dorme con noi. È però interessante notare che anche queste barche “erano con lui”. Egli non abbandona nessuno. v. 37 venne un turbine grande di vento. ecc. Di notte si scatena l'inferno: dall'alto il vento spinge verso il basso, dall'abisso l'acqua si alza per inghiottire la barca. Nell'AT il mare è presentato come un mostro, una potenza ostile. Dio l'ha vinto nella creazione, e l'ha diviso per liberare il suo popolo. Anche le sofferenze mortali sono spesso paragonate ad acque travolgenti e profonde. La notte, il turbine, l'acqua e l'abisso sono tutte immagini della morte. Questa è “il” problema dell'uomo, unico animale cosciente di morire. Quanto pensa e fa, è per “salvarsi”. Tentativo fallito in partenza, perché sa che è disperatamente inutile! Anzi. proprio questo tentativo, rendendolo egoista, è causa di tutti i suoi mali e della sua morte. Beffa atroce: il presunto rimedio è causa del danno! v. 38 E lui era a poppa dormendo sul cuscino. La poppa è la prima parte della barca che va a fondo. Gesù è abbandonato come un bimbo svezzato in braccio a sua madre (Sal 131,2). “In pace mi corico e subito mi addormento: tu solo, Signore, al sicuro mi fai riposare” (Sal 4,9). Il suo sonno non è come quello di Giona, che disobbedisce a Dio. È sereno e tranquillo, proprio perché lo ascolta e ha fiducia in lui. È notte, e dorme, lasciando che Dio agisca (cf v. 27)! Il suo sonno è figura della sua morte, che sarà bufera, insieme scandalo e pietra di paragone per la fede dei discepoli. Davanti al mare in tempesta, essi

ondeggiano e barcollano come ubriachi: è svanita ogni loro perizia (Sal 107,27). Ma il Signore dorme nella loro barca: si fida anche di loro! E lo svegliano. Svegliati, perché dormi, Signore? Non darti riposo e non restare muto e inerte! Se no, sono come uno che scende nella fossa (Sal 44,24; 83,2; 28,1). In realtà è la nostra fede che dorme. Lui proprio in questo suo sonno, che ci fa tanta difficoltà, realizza anche per noi la fiducia di cui ha parlato. La notte prova se abbiamo capito o meno l'unica Parola nascosta nelle tante parabole del giorno. Maestro. Non hanno ancora capito che non è solo un maestro che insegna: è il Signore, la cui parola “ha autorità” (1,22.27). non ti curi che periamo? La paura della morte è la preoccupazione prima di ogni nostra azione; non perire è il nostro assoluto, il nostro dio. Il Signore stesso è invocato solo come strumento di salvezza. E lui ci sta, operando però la salvezza non da uomo, bensì da Dio. La nostra morte è sempre stata la sua “cura”, anche prima del peccato (cf Gn 3,3). Dopo crescerà, fino a farsi cura mortale. v. 39 E, risvegliatosi. Gesù si risveglia come un potente dal sonno (Sal 78,65). sgridò il vento. Lo esorcizza (“sgridò”) come i demoni. Nelle difficoltà, che sono naturali, abita il nemico che ci vuol far sua preda mediante la paura e la sfiducia. disse al mare: Taci e chiudi la bocca. Con la sua parola comanda l'abisso, e gli chiude la bocca. E cadde il vento e fu grande bonaccia. Dice ed è fatto! Ridusse la tempesta alla calma, tacquero i flutti del mare (Sal 107,29). v. 40 Perché siete paurosi così? Come non avete fede.? (cf 5,36; 9,23). La paura è il contrario della fede. Questa consiste nel non temere di andare a fondo con Gesù, e accettare, sulla sua parola, di dormire con lui che dorme per stare con noi. La fede è affidare la propria vita, la propria morte e le proprie paure al Signore della vita, che si prende cura di noi proprio con il suo sonno. v. 41 temettero di grande timore. È segno del divino. Sarà il grande timore del giorno di pasqua. Chi è mai costui? È la domanda di tutto il vangelo di Marco (cf 1,27), tema della sua catechesi. Vi risponde attraverso il racconto di ciò che lui ha fatto e detto. e il vento e il mare lo ascolta. Gesù è JHWH, il Creatore e il Salvatore, colui che fa dei venti i suoi messaggeri (Sal 104,4), e chiude in riserve gli abissi (Sal 33,7). Colui che con la sua parola ha tratto la vita dalle acque primordiali, lo stesso che con il suo soffio ha aperto il Mar Rosso, ora dorme e si risveglia. E così ci libera dal nemico, nelle cui mani ci ha cacciato la paura della morte. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: Gesù in fondo alla barca che dorme. 3. Chiedo ciò che voglio: Ti chiedo di credere nella tua parola più che alle mie paure; che la fede mi permetta di accettare il mio nel tuo sonno, la mia nella tua morte, senza lasciarmi suggestionare dalle resistenze ostili che si scatenano in me.

4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

sera dormire svegliare perire

minacciare paura fede chi è costui?

4. Passi utili: Es 14,15 s; Sal 4; 107; 131; Is 30,15.

26. ESCI, SPIRITO IMMONDO, DALL'UOMO (5,1-20) 51 E giunsero di là del mare nella regione dei geraseni. 2 E, uscito lui dalla barca, subito gli venne incontro dai sepolcri un uomo in spirito immondo, 3 il quale aveva domicilio nei sepolcri, e nessuno più poteva legarlo neppure con catene; 4 perché più volte con ceppi e catene era stato legato, ma s'era strappato da sé le catene e infranto i ceppi, e nessuno era forte da domarlo; 5 e di continuo, di notte e di giorno, nei sepolcri e sui monti, stava a gridare e si colpiva con pietre. 6 E, visto Gesù da lontano, accorse e lo adorò, 7 e, gridando a gran voce, dice: Che a me e a te, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro per Dio di non torturarmi. 8 Gli diceva infatti: Esci, spirito immondo, dall'uomo. 9 E lo interrogava: Qual è il tuo nome?

E gli dice: Legione il mio nome, perché siamo molti. 10 E lo pregava molto di non mandarli fuori da quella regione. 11 Ora c'era là, verso il monte, un branco grande di porci al pascolo, 12 e lo pregarono dicendo: Mandaci nei porci, perché entriamo in essi. 13 E permise loro. E, usciti, gli spiriti immondi entrarono nei porci; e si precipitò il branco dal pendio nel mare, circa duemila, e affogavano nel mare. 14 E i loro mandriani fuggirono e annunciarono nella città e nei campi; e vennero a vedere cos'era successo. 15 E giungono da Gesù e vedono l'indemoniato seduto, vestito e sano di mente, quello che aveva avuto la legione; e temettero. 16 E quelli che avevano visto raccontarono loro come era successo all'indemoniato e pure il fatto dei porci. 17 E cominciarono a pregarlo di andarsene dai loro confini. 18 Ed entrando lui nella barca, lo pregava l'indemoniato di essere con lui. 19 E non lo lasciò, ma gli dice: Va' a casa tua, presso i tuoi, e annuncia loro quanto per te ha fatto il Signore e ha avuto compassione di te. 20 E se ne andò e cominciò a proclamare nella Decapoli quanto per lui fece Gesù; e tutti si meravigliavano.

1. Messaggio nel contesto “Esci, spirito immondo, dall'uomo”. Immondo è lo spirito di morte che devasta e tiene legato l'uomo mediante la paura della morte. È lo stesso che ostacola la fede dei discepoli, scatenando le tempeste e impedendo di affidarsi a Gesù che dorme (brano precedente). Per giungere a credere, bisogna innanzi tutto che la Parola eserciti la sua autorità contro satana, che altrimenti subito la becca via, prima che attecchisca. Per questo la liturgia premette al battesimo la preghiera di liberazione dal male. Il primo esorcismo viene dopo l'insegnamento di Gesù (1,21-28). Anche questo, più lungo e solenne, viene dopo il suo insegnamento in parabole, alla fine del quale la sua parola ha dominato il cielo e l'abisso. Ora sottomette il male, e, nel brano seguente, la malattia e la morte. L'incontro tra Gesù e l'indemoniato fa vedere le resistenze e convulsioni nostre davanti alla sua parola. Infatti ci identifichiamo con la nostra schiavitù, e preferiamo il “nostro” male al “suo” bene (vv. 1-11). L'episodio dei porci mostra pittorescamente la grande vittoria di Cristo (vv. 12 s). Il racconto e la costatazione del fatto suscita negli uditori impauriti le stesse reazioni dei demoni, che non vogliono aver a che fare con Gesù (vv. 14-17). Anche loro, come noi, sono invitati a riconoscersi nell'indemoniato, in modo da essere liberati e diventare come lui, che è “seduto, vestito e sano di mente” (v. 15). Al suo desiderio di “essere con” Gesù, questi risponde inviandolo in missione (vv. 18-20). Ormai è apostolo, perché in grado di raccontare agli altri ciò che il Signore gli ha fatto, annunciando la sua misericordia (cf anche 1,40-45). In lui, al di là delle sue resistenze, il seme ha fruttato bene! Lui stesso, a sua volta, lo semina tra i suoi fratelli ancora lontani. Con l'ex-indemoniato inizia la missione tra i pagani, ognuno dei quali è chiamato a fare in prima persona la sua stessa esperienza di incontro liberante col Signore. Gesù è la discendenza di Eva, che schiaccia la testa al serpente antico (Gn 3,15). In lui l'uomo vince il suo vincitore, sconfiggendo il male e la sua radice: la menzogna che lo fa considerare estraneo a Dio e lo tiene nella paura della morte. La vittoria è conseguita ad armi pari con il nemico: alla sua parola falsa oppone quella vera, che s'impone con la sua autorità. Davanti alla luce che le squarcia, le tenebre che dominano l'uomo tentano l'ultima difesa. Ma la notte non può non dissolversi all'apparire del sole. Il discepolo nel brano precedente aveva paura e non aveva fede in Gesù. Ora la sua parola lo libera dal nemico e dal suoi terrori perché possa affidarsi ed “essere con lui” nel sonno e nel risveglio, per annunciarlo poi ai suoi fratelli. 2. Lettura del testo v. 1 giunsero di là del mare. Gesù fa attraversare il mare e giungere all'altra riva. È la Parola del Dio creatore e salvatore, che dà vita e conduce alla terra promessa. nella regione dei geraseni. È una zona pagana al di là del lago. La tempestosa traversata mostra, oltre le difficoltà del battesimo, gli ostacoli che il nemico frappone all'evangelizzazione dei pagani. v. 2 subito gli venne incontro un uomo in spirito immondo. Davanti a Cristo il maligno si sente irrimediabilmente perduto; si arrende e gli cade in braccio per paura. È come le farfalle notturne: irresistibilmente si gettano sulla fiamma che le brucia.

v. 3 il quale aveva domicilio nei sepolcri. La vera casa dell'uomo è un'altra. Ma il maligno lo tiene legato in tenebre e ombra di morte. Sepolcro in greco si dice mnemeîon, che significa “memoriale” (monumento), con la stessa radice di memoria, di morte e di moira (parte, sorte, fato). L'inganno del nemico fece abitare l'uomo nella memoria della morte, facendogliela considerare sua eredità, sorte fatale della sua vita. nessuno più poteva legarlo. Si sottolinea l'indomabilità del male. controllarlo e impedirne i danni.

Nessun mezzo è in grado di

v. 4 nessuno era forte da domarlo. Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire “i suoi vasi” - che lui ha invasato di sé - se prima non avrà legato l'uomo forte (3,27). Ma Gesù è il più forte (1,7) Tanto che il male esce subito allo scoperto e gli corre incontro per patteggiare la resa. Sa che è inutile la lotta e impossibile la fuga. v.5 di continuo, di notte e di giorno, nei sepolcri e sui monti, stava gridare. Continuo tormento, solitudine e grida nel vuoto: è la situazione dell'umanità senza Cristo, che ha come consorte la morte. e si colpiva con pietre. L'autolesionismo è il risvolto ultimo e più vero del male, che si vuole e si fa male. v. 6 accorse e lo adorò. Il male non può che correre e prostrarsi davanti al Signore di tutto e di tutti. Intuisce il bene subito, come un animale fiuta istintivamente il pericolo. Ma non ha nessun potere di difendersi Può solo fare strepito. v. 7 gridando a gran voce. Davanti al bene esprime rumorosamente il suo terrore. Se non abbiamo fede, riesce a terrorizzare anche noi. Gesù porterà sulla croce questo nostro orrore, e griderà per due volte. Sarà l'esorcismo definitivo (15,34.37). Che a me e a te. Significa: “Che c'è in comune tra noi due?”. Amore e egoismo, fiducia e paura, libertà e schiavitù, verità e menzogna, luce tenebre, vita e morte, sono totalmente estranei. Hanno in comune solo l'opposizione totale: o l'uno o l'altro. È impossibile un compromesso anche se il male lo tenta sempre. Il suo correre ad adorare è l'estremo tentativo del perdente, che vuol strappare al vincitore almeno un posto a sole. Questa ricerca disperata di difendersi e questa estraneità torturante sono anche le nostre prime reazioni davanti a Gesù e alla sua parola. Questa non può non scatenare le risonanze negative del cuore. Satana riesce a rubare il seme caduto sulla strada (4,15). Ma non tutto cade sulla strada! Gesù, Figlio del Dio altissimo. Per i discepoli era semplicemente il maestro (4,38). I demoni hanno una conoscenza più lucida del soprannaturale (1,34; 3,12): credono, ma tremano (Gc 2,19). Durante la vita terrena di Gesù, in Marco sono le sole creature a confessarne l'identità. Come Cristo (= “il Santo di Dio”, 1,26) e come Figlio di Dio. C'è quindi una fede demoniaca. È quella che viene prima della croce, distanza che Dio si è preso da ogni falsa immagine di sé. Ti scongiuro per Dio di non torturarmi. Strana ma vera questa preghiera. Il bene è causa di sofferenza per chi non lo ama e non lo ritiene accessibile. Conoscerlo ed esserne privi è esperienza infernale - la pena del danno. Ne abbiamo un anticipo ogni qualvolta ci dispiace il bene non nostro. È l'invidia, attraverso la quale entrò la morte nel mondo (Sap 2,24).

v. 8 Esci, spirito immondo, dall'uomo. L'uomo è un impasto di terra, fatto per contenere lo Spirito di vita, non quello di morte. v. 9 Qual è il tuo nome? Dire il nome è segno di resa. Legione il mio nome, perché siamo molti. Il male si smaschera. Legione indica il suo potere di devastazione, grande e ben ordinato. Ma indica anche lo stato di divisione profonda di chi ne è posseduto. È un'identità divisa e alienata nei vari spiriti che la dominano. Quando ascoltiamo la parola del Signore con attenzione, sperimentiamo un cumulo di spiriti contrari che cercano di identificarsi con noi. Invece vanno riconosciuti e sbugiardati come potere di male che ci vuol dominare. v. 10 E lo piegava molto. Gesù è pregato dal male, ma a suo danno! Il male non vuol bene neanche a sé. Sarà pregato allo stesso modo dai geraseni (v. 17). Ben altra sarà la preghiera dell'ex indemoniato (v. 18). Le nostre preghiere possono essere molto diverse. In questo racconto ne abbiamo tre esempi. di non mandarli fuori da quella regione. Non vogliono precipitare nell'abisso prima del tempo. Vogliono restare sul posto. Tra i pagani la Chiesa farà una forte esperienza di lotta contro satana, che si rifugia dove ancora non è giunta la luce di Cristo. v. 12 Mandaci nei porci. I porci sono per l'ebreo animali immondi, immagine del paganesimo. v.13 e affogavano nel mare. Il male non domina più la terra; si inabissa nel mare, suo luogo naturale, dove voleva annegare i discepoli (4,37). Il male affoga in se stesso. v. 14 i mandriani fuggirono e annunciarono. I mandriani fuggono come i loro porci, annunciando come i demoni ciò che per loro è certamente una “cattiva notizia”. v.15 l'indemoniato. È così chiamato perché era diventato il suo nome proprio. seduto, vestito e sano di mente. Al trambusto dei porci che precipitano, dei mandriani che fuggono e della gente che accorre, fa da contrasto colui che era stato posseduto dal male. Ora è seduto accanto a Gesù nell'atteggiamento tranquillo del discepolo che ascolta (3,32.34), rivestito e padrone di sé. È immagine dell'uomo nuovo, contrapposto al vecchio Adamo che non ascolta Dio, fugge da lui, si scopre nudo ed è in balia delle sue paure. È interessante notare come il male dell'indemoniato ricade su Gesù anch'egli, ritenuto pazzo e indemoniato, sarà legato, finirà nudo in croce griderà e scenderà nel sepolcro. Ci ha salvati a caro prezzo! v. 16 quelli che avevano visto raccontarono come era successo all'indemoniato e il fatto dei porci. Sono i due fatti sensazionali: la liberazione dell'uomo e la sconfitta del male. Ma la vittoria del bene ha i suoi costi, particolarmente duri per chi ancora non ha sperimentato la libertà. v. 17 E cominciarono a pregarlo di andarsene. Pregano Gesù che se ne vada. Alla libertà, con la sua fatica, preferiscono la sicurezza della loro schiavitù. La sua presenza risulta scomoda per loro proprio come per demoni. In modo meno spettacolare dell'ex-indemoniato, ne sono posseduti anche essi, e difendono gelosamente il loro male, travestito da ben immediato. I loro interessi, raffigurati nel porci, prevalgono su tutto! Il male adesca promettendo piaceri immediati, e dando poi la morte; il bene promette e mantiene gioia, ma attraverso un sacrificio immediato. Per questo ogni valutazione deve sempre guardare in prospettiva.

v. 18 lo pregava l'indemoniato di essere con lui. È la preghiera di chi libero. Il suo bene è “essere con lui”, il Signore, la sua vita (cf 3,14!). v. 19 non lo lasciò, ma gli dice.- Va'. Gesù sembra esaudire la preghiera dei demoni e dei geraseni (vv. 10. 13.17), ma non la sua. In realtà chi è “seduto, vestito e sano di mente”, è già un uomo nuovo. È con lui, il Figlio. Per questo, come lui, è inviato ai fratelli ancora schiavi. Ogni liberazione diventa missione. Essere con lui ed essere inviati sono le due note essenziali dell'apostolo (3,14 s). a casa tua. Prima aveva casa tra i sepolcri. Ora è mandato a chi ancora abita in essi. Come Gesù, inviato dal Padre, è andato da lui, così ora lui è inviato dai suoi, per continuare con foro la stessa opera che il Signore ha iniziato con lui. annuncia loro quanto per te ha fatto il Signore. Gesù chiama se stesso velatamente il Signore (vedi anche 11,3). Oggetto dell'annuncio è ciò che lui ha fatto “per me”. I demoni e i mandriani possono solo gridare e annunciare ciò che fa “contro di loro”. e ha avuto compassione di te. Sorgente dell'azione è la compassione: il suo amore gratuito che lo ha condotto vicino al mio male e lo condurrà sulla croce, vicino al male di tutti. Questa sua “compassione per me” è la mia esperienza personale di lui come mio Salvatore e Signore. v. 20 cominció a proclamare nella Decapoli. Come Gesù iniziò a proclamare il vangelo nella Galilea (1,14), così questi lo proclama nella Decapoli. È l'inizio della missione ai pagani. quanto per lui fece Gesù. Il vangelo è la buona notizia di quanto Gesù ha fatto per me. L'evangelizzazione non è un'esposizione di dottrina o idee - un catechismo! - ma un racconto di fatti, narrazione di ciò che lui ha operato per me, e vuol operare per chiunque ascolta. È interessante notare che gli fu detto di annunciare ciò che “il Signore” ha fatto, e lui racconta ciò che “Gesù” ha fatto. Per lui “Gesù è il Signore”. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: in un pascolo, al di là dei lago, sul pendio del monte, verso il mare, tra i sepolcri. 3. Chiedo ciò che voglio: Liberami dallo spirito di morte che è in me e si oppone a te; liberami dalla paura del bene e dalle resistenze ad affidare a te la mia vita e la mia morte. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare: sepolcro pregare di andarsene spirito immondo pregare di essere con lui legato annunciare gridare e colpirsi Signore legione avere compassione porci proclamare meraviglia 4. Passi utili: Is 38,10-20; Gio 2; Sal 130; Eb 2,14 s.

27. LA TUA FEDE TI HA SALVATA (5,21-43) 21

E avendo di nuovo Gesù attraversato (in barca) sull'altra sponda, si riunì molta folla su di lui, e stava lungo il mare. 22 E viene uno dei capi sinagoga di nome Giairo, e, vistolo, cade al suoi piedi, 23 e lo supplica molto, dicendo: La mia figliola è alla fine: che tu venga, imponga su di lei le mani perché sia salva e viva. 24 E se ne andò con lui, e lo seguiva molta folla, e lo schiacciavano. 25 E una donna, che era con flusso di sangue da dodici anni, 26 e aveva patito molto da molti medici, e aveva dilapidato tutti i suoi averi senza alcun giovamento, anzi piuttosto peggiorando, 27 avendo udito di Gesù, venendo nella folla, di dietro toccò la sua veste. 28 Diceva infatti: Se toccherò anche solo le sue vesti, sarò salva. 29 E subito seccò la fonte del suo sangue, e conobbe nel suo corpo che era guarita dal flagello. 30 E subito Gesù, conosciuta in sé l'energia uscita da lui, giratosi in mezzo alla folla, diceva:

Chi mi toccò le vesti? 31 E gli dicevano i suoi discepoli: Vedi la folla che ti schiaccia, e dici: Chi mi toccò? 32 E guardava in giro per vedere colei che aveva fatto ciò. 33 Ora la donna, con timore e tremore, sapendo ciò che le era accaduto, venne e cadde davanti a lui, e gli disse tutta la verità. 34 Egli le disse: Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo flagello. 35 Mentre ancora lui stava parlando, da casa del capo sinagoga vengono a dire: Tua figlia è morta. Perché ancora infastidisci il maestro? 36 Ora Gesù, ascoltata la parola detta, dice al capo sinagoga: Continua a non temere, solo continua ad aver fede. 37 E non lasciò nessuno con sé a seguirlo, se non Pietro e Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. 38 E giungono alla casa del capo sinagoga, e vede strepito e gente che piange e urla assai. 39 Ed entrato, dice loro: Perché strepitate e piangete? La fanciulla non è morta, ma dorme. 40 E lo deridevano. Ora lui, scacciati tutti, prende con sé il padre della fanciulla e la madre e quelli con lui, ed entra dove era la fanciulla. 41 E, presa la mano della fanciulla, le dice: Talithà Kum! che significa: O ragazza, ti dico:

Svegliati! 42 E subito risorse la ragazza e camminava. Aveva infatti dodici anni. E si stupirono subito di stupore grande. 43 E ordinò loro molto che nessuno lo sapesse; e disse di darle da mangiare. 1. Messaggio nel contesto “La tua fede ti ha salvata”, dice Gesù alla donna; e al padre della fanciulla morta: “Continua ad aver fede”. I due episodi, incastrati a sandwich e legati dalle parole “salvare”, “credere” e “toccare” (“prendere la mano”) si completano a vicenda e illustrano cos'è la fede e qual è la sua potenza. La fede è “toccare” Gesù, la sua potenza salva nella morte. I cc. 4-5 delineano l'itinerario battesimale: messo in moto dalla Parola, è ostacolato dalle nostre paure (c. 4); passa attraverso l'esorcismo che ce ne libera, e giunge qui a “toccare” Gesù. La comunione con lui vince la nostra malattia mortale e la stessa morte. La donna e la ragazza sono figura di tutti noi. Come la prima da dodici anni, cioè da sempre, perdiamo la vita, lontani dal Signore. Solo se lo tocchiamo siamo salvi, perché è lui la nostra vita. Come la seconda, in età da marito, moriamo malati d'amore (Ct 5,8) se non giunge lo Sposo che ci prende la mano. La nostra vita infatti è amarlo come siamo da lui amati. Il tema centrale è quindi la fede, quel “toccare” che salva. Per quattro volte esce questa parola nei vv. 27-31, e in più si parla di imporre e prendere la mano (vv. 23.41). Toccare suppone vicinanza. Forma prima e fondamentale di conoscenza, è contatto con l'altro. In esso il proprio limite diventa luogo di comunione. Ogni toccare inoltre è sempre reciproco: chi tocca, è toccato. C'è infine un tocco esteriore e uno interiore, che prende e trasforma il cuore. Al toccare si contrappone lo schiacciare (vv. 24.31). Mentre questo sfocerà nell'impadronirsi e nell'uccidere Gesù, quello sprigiona da lui la sua forza di vita. La salvezza, invocata anche dai discepoli sulla barca, viene da questa fede. Essa ci permette di toccarlo e di essere afferrati da lui, che prima di noi e per noi ha dormito. Nella donna vediamo inoltre il dinamismo della fede. Presuppone la costatazione di un male indebito e non accettato, col bisogno e l'incapacità di liberarsene; parte dall'ascolto di Gesù, che apre, dalla disperazione per la propria impotenza, alla fiducia nella sua potenza; giunge alfine a toccarlo di spalle, per diventare poi un colloquio faccia a faccia con lui. In Giairo invece vediamo le qualità di questa fede: è una forza più grande di ogni paura, e consiste nel fidarsi totalmente di Gesù e della sua parola anche davanti alla morte. Nella ragazza infine vediamo l'efficacia di tale fede: la risurrezione, la vittoria sul nemico ultimo dell’uomo ad essere annientato (1Cor 15,26). Gesù è il Signore, lo sposo dell'uomo, che si unisce a lui comunicandogli la sua vita. Per questo lo spirito di morte cerca disperatamente di difendersi da lui (brano precedente). Ma inutilmente, perché lui, col suo sonno, è vicino a tutti e tocca tutti i dormienti. Il discepolo è come la donna, la figlia di Sion che tocca Gesù ed è salva dal suo male; è come la ragazza morta, che risuscita al tocco dello Sposo.

2.

Lettura del testo

v. 21 si riunì molta folla. È probabilmente la stessa dell'inizio del c. 4, che aveva udito il suo insegnamento. Ora, con questo duplice miracolo, è chiamata ad aver fede. v. 22 cade ai suoi piedi e lo supplica. Giairo prega non per respingerlo dal suo territorio (v. 17; cf v. 6), ma per invitarlo nella sua casa. Vinto il maligno e la sua diffidenza, la nostra casa è ancora spoglia di vita e piena di morte finché non entra il Signore della vita. v. 23 La mia figliola. La figlia del capo della sinagoga è immagine del popolo di Dio, ma anche di ogni uomo, che è sposa di Jahvè, fatto per amarlo con tutto il cuore. È di dodici anni, in età da fidanzamento, ed è morta se non giunge lo Sposo. è alla fine. Sia Israele, il primogenito, che ogni altro uomo è da sempre alla fine, da quando si è allontanato dal suo Signore. Questo è il peccato, causa della morte di tutti (cf Rm 5,12). che tu venga. È il grande desiderio nostro, che corrisponde alla sua promessa: “Sì, verrò presto” (Ap 22,20). imponga su di lei le mani. La mano è la potenza. Con Gesù la mano di Dio, la sua potenza di amore e di vita, si posa sull'uomo. perché sia salva e viva. La salvezza implica una vita strappata dalla morte, che non sia sempre minacciata dall'essere “alla fine”. v. 24 se ne andò con lui. Giairo non deve temere alcun male perché il pastore della vita è “con lui”. La croce è il bastone che gli dà sicurezza (Sal 23,4). lo seguiva molta folla e lo schiacciavano. C'è un seguire senza fede che schiaccia Gesù, a danno suo e nostro (cf 3,9). v. 25 una donna che era con flusso di sangue. Il sangue è la vita; chi lo perde, muore. Ogni esistenza non è una perdita continua di vita, fino alla morte ? da dodici anni. Dodici sono i mesi dell'anno e dodici le tribù d'Israele. Questo numero indica totalità di tempo e di popolo. Infatti, come questa donna, da sempre e tutti costatiamo che la nostra vita è un'unica malattia incurabile e mortale. v.26 aveva patito molto da molti medici. Essa giustamente non accetta il male. Ma ciò che dovrebbe procurare salute è invece causa di sofferenza maggiore. In effetti l'ansia di vita, che vorrebbe guarirci della paura della morte, è principio di egoismo e causa di tutti i nostri mali. aveva dilapidato i suoi averi. L'uomo investe e perde tutto nel vano tentativo di liberarsi dalla morte. senza alcun giovamento, anzi piuttosto peggiorando. Il rimedio peggiora il male! L'uomo che si affanna per salvarsi, fa come uno in mare che non sa nuotare: affoga per il suo agitarsi.

v. 27 avendo udito di Gesù. La fede viene dall'ascolto del vangelo, che racconta ciò che Gesù ha fatto e detto (At 1,1). Per questo è necessario che ci sia chi lo annuncia (Rm 10,14-17). di dietro. Non osava farsi vedere: essendo immonda, le era vietato toccarlo. D'altra parte il nostro rapporto con Dio e la nostra ricerca di lui non può approdare che alle sue spalle, come fu detto a Mosè: “Vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere” (Es 33,23). Ma ormai viene il momento in cui lui stesso ci cerca col suo sguardo: volge a noi il suo volto, e noi saremo salvi (Sal 80,4.8.20). toccò la sua veste. Il toccare porta a una comunione reale. La fede è un contatto diretto e personale con Dio in Cristo. Ci salva perché ci mette in comunione con colui che è la nostra vita. L'ultimo miracolo fu proprio la guarigione della mano secca, perché potesse toccare lui e ricevere il suo dono (3,1 ss). v. 28 Se toccherò anche solo le sue vesti. Esprime la certezza di fede: la donna sa che la sua salvezza è toccare lui, o almeno le sue vesti. (Ce le lascerà in eredità sulla croce, prendendo in cambio la nostra nudità). Anche la sirofenicia sarà sicura che bastano le briciole del pane dei figli per saziare anche i cagnolini (7,28). Questa fede non è magia o feticismo: la salvezza dell'uomo è davvero la comunione con Dio, ora possibile attraverso la carne di cui si è rivestito il Figlio. sarò salva. Non dice “guarita”. La salvezza indica qualcosa di più profondo, di cui la guarigione è segno (cf 2,10). v.29 E subito seccò la fonte del suo sangue. Al contatto con lui s'arresta il flusso mortale, guarisce la ferita da cui esce la vita. Toccare produce scambio. Se lui cede a noi la sua vita, noi cediamo a lui la nostra morte immonda. Il flusso del suo sangue seccherà il nostro e ci monderà. conobbe nel suo corpo che era guarita. La donna conosce la propria guarigione nel corpo, ma non conosce ancora nello spirito colui che l'ha guarita. Gli ha toccato di dietro le vesti; ora le manca di incontrarlo faccia a faccia. v. 30 l'energia uscita da lui. È la forza (dynamis) di Dio, vita che vince la morte. Gesù è venuto a donarla a tutti. Ma solo la fede la desidera e la ottiene, quasi la strappa da lui. giratosi in mezzo alla folla. Il Signore cerca con lo sguardo e la parola colei che ha creduto in lui, per dialogare con lei. Chi mi toccò le vesti ? La domanda sembra ridicola a tutti, discepoli compresi. Ma non a lui e alla donna, che hanno sperimentato un toccare diverso. v. 31 gli dicevano i discepoli, ecc. Non sanno distinguere tra schiacciare e toccare. Il Signore, oltre che portare la donna a un livello pieno di fede, vuol portare i discepoli a quello della donna. v. 32 E guardava in giro per vedere colei che aveva fatto ciò. La sua parola e il suo sguardo cercano l'interlocutore, perché risponda. v. 33 la donna, con timore e tremore, sapendo ciò che le era accaduto. È il timore e tremore di chi, conoscendo l'azione di Dio, si presenta davanti a lui.

venne e cadde davanti a lui. Prima lo toccò di dietro. Ora gli sta davanti per rispondergli e gli cade ai piedi per adorarlo. È importante questo passaggio dalle spalle al volto, che Gesù stesso ha provocato e che la donna temeva. e gli disse tutta la verità. La “sua” verità era il suo male incurabile, la sua disperazione di sé e di tutto, la sua speranza in lui, il suo tocco e la sua guarigione. Ma solo nel parlare di tutto questo con lui si compie la fede. Ottenuto ciò che le serviva, poteva andarsene; invece Gesù la cerca perché parli con lui che l'ha servita. v. 34 Figlia. È tenero questo appellativo. Infatti le ha dato la vita. la tua fede ti ha salvata. I discepoli in barca non avevano fede (4,38). Disperati di sé, non speravano ancora in lui. Da questo brano risulta che la fede è toccarlo e parlargli faccia a faccia, la comunione e il dialogo con lui. v. 35 Tua figlia è morta. Perché infastidisci il maestro ? Mentre Gesù dice: “Figlia, la tua fede ti ha salvata”, c'è l'annuncio: “Tua figlia è morta”. È quindi inutile importunare il maestro. Finché c'è vita c'é speranza. Ma davanti al muro della morte, niente e così sia! Gesù però non è solo il maestro (cf 4,38). È anche il Signore dei vento e del mare, del male e della malattia. Ora si rivelerà il Signore della vita, che fa del nostro limite estremo la nostra comunione piena con lui. v. 36 Gestì. ascoltata la parola detta. Gesù ascolta la parola detta all'arcisinagogo, così diversa da quella che lui spiegava nelle parabole (4,33): là era una morte per la vita, qui è una vita per la morte. Continua a non temere. Come non temere davanti alla morte? È la paura di tutta la vita! solo continua ad aver fede. La fede è il contrario della paura ed ha la prova definitiva proprio davanti alla morte, unica sfidante degna di lei. Una fede che non regge davanti alla morte non serve a nulla. Queste parole richiamano quelle dette ai discepoli sulla barca (4,38). Se là erano troppo coinvolti per non temere, ora sono sufficientemente staccati e lucidi per poterle intendere. v. 37 non lasciò nessuno con sé a seguirlo. Ciò che qui avviene è il grande segreto, ora nascosto, che poi sarà rivelato a tutte le genti. se non Pietro e Giacomo e Giovanni. Saranno i tre testimoni della trasfigurazione e dell'agonia nell'orto e, con Andrea, sentiranno le sue parole sulla fine del mondo (9,2; 14,33; 13,3). v.38 strepito e gente che piange e urla. Così l'uomo esprime la propria impotenza davanti alla morte. Urla il suo dolore, per coprire la sua disperazione. Il silenzio lo affogherebbe nell'angoscia più sorda. v. 39 Perché strepitate e piangete? Sembra una domanda stupida, come quella ai discepoli in barca: “Perché siete paurosi?”. Gesù mette in questione le cose più ovvie, come dà i comandi più stolti: al paralitico dice di camminare, alla mano essiccata di stendersi, e alla morta di svegliarsi! La sua parola è un seme: fa germinare ciò che dice. La fanciulla non è morta, ma dorme. È il senso cristiano della morte. Non è la fine della vita, ma un riposo sereno in Dio, per un risveglio al sole del giorno nuovo. Sdrammatizzata, perde il suo pungiglione, che avvelena tutta l'esistenza con la prospettiva finale del nulla (1Cor 15,56).

La fede ci guarisce dal peccato di diffidenza che ci fa ignorare che veniamo da Dio e a lui torniamo. Solo così possiamo vivere e morire in pace, sapendo che dormiamo con Cristo, che per primo ha dormito nella nostra stessa barca, per risvegliarci con lui. v. 40 E lo deridevano. L'uomo fa di sé, limitato e mortale, la misura di tutto, anche di Dio; e ritiene impossibile ciò che lui stesso non può fare. Il giorno di pasqua anche i discepoli avranno grande difficoltà a credere nella risurrezione (cf anche At 17,32; 26,23 s). scacciati tutti. Gesù scaccia la paura dell'incredulità come scaccia i demoni, che in essa stanno di casa. prese con sé il padre della fanciulla e la madre e quelli con lui. Sono i cinque amici dello sposo. Con la ragazza e Gesù si raggiunge il numero di sette. v. 41 presa la mano della fanciulla. Anche lui sarà “preso” (cf 14,2) e condotto a morte. Per questo ora prende e sottrae alla morte la fanciulla. Essa appartiene a lui, venuto a prenderne la mano. Questo contatto con lui e il suono della sua voce la sveglia. Talithà Kum. “Alzati, amica mia, mia bella, e vieni” (Ct 2,10). ragazza. In greco c'è korásion. Indica la ragazza da marito. Svegliati. La stessa parola è usata per la risurrezione di Gesù. Indica lo svegliarsi dal sonno. v. 42 risorse. È l'altra parola usata per la risurrezione di Gesù. Indica il levarsi da terra. e camminava. Cammina per una via che prima non conosceva: è il sentiero della vita, gioia piena nella sua presenza. dolcezza senza fine alla sua destra (Sal 16,11). Aveva dodici anni. È l'età del fidanzamento. L'incontro con lo Sposo le ridà la vita. Il battesimo è questa unione con Cristo, di cui il matrimonio è immagine (cf Ef 5,32). stupirono di stupore grande. In greco si usa una parola che significa “essere fuori” (estasi). È realmente pazzesco, impossibile ciò che Dio opera. v. 43 ordinò che nessuno lo sapesse. Questo grande mistero sarà chiaro solo dopo pasqua, quando Gesù stesso avrà dormito e si sarà svegliato. disse di darle da mangiare. Le resta un lungo cammino da fare, come ad Elia (1Re 19,7). La vita nuova avrà un alimento nuovo, che Gesù procurerà nel deserto: il pane sarà l'amore dello Sposo che si dona alla sposa. Termina qui la descrizione del battesimo come incontro coi Signore. che libera dal mare (4,35-41), dal male (vv. 1-20), e infine dalla malattia e dalla morte. Inizierà tra poco la catechesi sull'eucaristia. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: per via e in casa dell'arcisinagogo. 3. Chiedo ciò che voglio: la fede che salva, che consiste nel “toccare” Gesù e rispondergli, con

un'esperienza di lui che mi liberi dalla paura della morte. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

imporre le mani salvare e vivere schiacciare toccare guarire energia fede pace morire

non temere aver fede dormire prendere la mano ragazza svegliarsi risorgere camminare mangiare

4. Passi utili: Sap 1,13-15; 2,23 s, Sal 30; 1Re 17,17-24; 2Re 4,8-37; 13,20 s; Gv 11

28. E SI MERAVIGLIAVA DELLA LORO NON FEDE (6,1-6a) 61 E uscì di lì e giunge nella sua patria, e lo seguono i suoi discepoli. 2 ·E, venuto il sabato, cominciò a insegnare nella sinagoga; e molti, ascoltando, erano colpiti dicendo: Donde a costui queste cose? E quale sapienza data a costui? E codesti prodigi operati dalle sue mani? 3 Non è questo il falegname, il figlio di Maria e fratello di Giacomo e Giuseppe e Giuda e Simone? E le sue sorelle non sono tra noi? E si scandalizzavano di lui. 4 E diceva loro Gesù: Non c’è profeta disprezzato se non nella sua patria e tra i suoi congiunti e nella sua casa. 5 ·E lì non poteva fare nessun prodigio, solo, imposte le mani a pochi infermi, li curò. 6a E si meravigliava della loro non fede. I. Messaggio nel contesto

“E si meravigliava della loro non fede”. I suoi si meravigliano di Gesù, e si scandalizzano che la sapienza e l’azione di Dio sia in “questo” uomo, che ben conoscono. Anche lui, a sua volta, si stupisce: venuto tra i suoi, non è accolto! Con Gesù ci troviamo davanti allo scandalo di un “Dio fatto carne”, che sottostà alla legge della fatica umana e del bisogno, del lavoro e del cibo, della veglia e del sonno, della vita e della morte. Lo vorremmo diverso. Ci piace condividere le prerogative che pensiamo sue; meno gradiamo che lui condivida le nostre, delle quali volentieri faremmo a meno. Ma la sua “carne” è il centro della fede cristiana: riconoscerla o meno equivale a essere o meno da Dio (1Gv 4,2s). Nella sua umanità, in ciò che fa e dice, in ciò che gli facciamo e subisce - nella sua storia concreta, frutto maturo del cammino d’Israele - Dio si rivela e si dona definitivamente. In essa tocca ogni uomo e da essa fa scaturire la sua sapienza e la sua forza salvifica. Come una vena profonda di acqua perenne zampilla dalla sorgente, così Dio esce da sé e si comunica a tutti attraverso l’uomo Gesù di Nazaret. Noi diciamo: “Se lo vedessi, se lo toccassi, gli crederei!”. Nulla di più falso! I suoi l’hanno rifiutato proprio perché l’hanno visto e toccato anzi, schiacciato. Noi abbiamo sempre la possibilità di inventarcene uno a misura delle nostre fantasie. La fede non è accettare che Gesù è Dio - il Dio che pensiamo noi! - ma accettare che Dio, il Dio che noi non pensavamo, è questo uomo Gesù. Quel Dio che nessuno mai ha visto, lui ce l’ha rivelato (Gv 1,18). Lo scandalo della fede, uguale per tutti. è costituito dal fatto che la sapienza e la potenza di Dio parli e operi nella follia e nell’impotenza di un amore fatto carne, che sposa tutti i nostri limiti, fino alla debolezza estrema della croce. Infatti “fu crocifisso per la sua debolezza” (2Cor 13,4). Nel capitolo precedente abbiamo visto che la fede è “toccare”. Ora vediamo “chi” tocchiamo. Tocchiamo Gesù, il falegname che finirà sul legno della croce, segno di contraddizione per tutti (Lc 2,34), ma potenza e sapienza di Dio che salva tutti. La fede è accettare proprio lui come mio Dio e mio Signore. Questo brano fa da cerniera tra l’istruzione sulla Parola e sul battesimo (cc. 4-5) e quella sull’eucaristia (6,6b-8,30). Mostra la non-fede, causa della morte di Gesù. Ma proprio così il seme, gettato sotto terra, diventerà pane di vita. La sezione precedente terminava con la mano che si apre per accogliere la vita o si chiude per ucciderla (3,6). Qui vediamo che questa mano è la fede per toccarlo, o la non-fede per respingerlo. In questo brano è portato a compimento il tema del rifiuto dei suoi, già annunciato in 3,6 e in Giuda che lo avrebbe tradito (3,19), e sviluppato poi in 3,20-35. Dietro si profila il rifiuto di Israele, ma anche quello costante del suo popolo nuovo. Pure chi crede di credere ha sufficiente sano buon senso per trovare disdicevole, sconveniente e scandaloso che Dio sia quest’uomo Gesù così come è, con ciò che consegue. “Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia! O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!” (Rm 11,32 s). Gesù è respinto dai suoi come Salvatore e Signore, perché è uno di loro, allo stesso modo in cui Giuseppe fu disprezzato, osteggiato e svenduto dai suoi fratelli. Ma proprio così sarà per loro causa mirabile di salvezza. Il discepolo, e la Chiesa stessa, deve sempre misurarsi sulla carne di Gesù, venduta per trenta sicli, il prezzo di un asino o di uno schiavo. Cardo salutis caro: la sua carne è cardine della salvezza! Infatti è sapienza e potenza, Dio stesso nella follia e impotenza del suo amore. La prima eresia - è e sarà sempre la prima! - fu minimizzare, trascurare o negare l’umanità di Gesù, che nella sua debolezza e stoltezza crocifissa è salvezza per tutti.

2. Lettura del testo v. 1 giunge nella sua patria. La prima attività di Gesù fu sulle rive del lago, con centro a Cafarnao. Ora viene a Nazaret, tra i suoi. Sappiamo già cosa pensavano di lui, e le misure prese per ricondurlo a casa (3,21). lo seguono i suoi discepoli. Sono la sua vera famiglia (cf 3,33 s). v. 2 venuto il sabato. L’ultimo sabato menzionato è quello in cui si decise di eliminarlo (3,1-6). Questo giorno ha sempre misteriosamente a che fare con il suo “sonno” - fino all’ultimo sabato, che sarà il suo riposo. cominciò a insegnare nella sinagoga. Gesù aveva frequentato con assiduità la sinagoga di Nazaret, insieme ai suoi. Lì aveva appreso a leggere la Bibbia, per scriverla nella propria vita; lì aveva imparato ad aderire con amore filiale a tutto ciò che udiva dal Padre, per rispecchiarlo nel proprio volto. Quanto gli era cara quella casa della sapienza, in cui la sua umanità cominciò a riconoscersi pienamente nella Parola, scoprendo e costruendo in essa la propria identità. erano colpiti. La meraviglia si trasforma da apertura in chiusura del cuore quando, invece di lasciarci prendere dal nuovo, cominciamo ad impossessarcene e a catalogarlo nel già noto. Donde a costui queste cose? Queste cose sono la sapienza e la potenza di cui dopo. La meraviglia comincia a chiudersi. Invece di lasciarsi mettere in questione da Gesù, mettono in questione l’opera di Dio. Perché si rivela proprio in “costui”. e non ha scelto un altro più ricco, più nobile o più dotto? quale sapienza data a costui? E codesti prodigi operati dalle sue mani.? La sapienza, attributo più alto di Dio, come può dimorare in “Costui”, povera carne come noi, che ben conosciamo? E i prodigi (alla lettera “le energie”) di Dio, come possono essere operate dalle sue mani di lavoratore, che certamente di sabato sono stanche come le nostre? È lo scandalo della fede cristiana: nell’uomo Gesù, in tutto simile a noi, abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9). Questo è il punto d’arrivo della lunga storia d’amore di un Dio che si è impegnato a essere con noi, sino a condividere la nostra debolezza e la nostra morte. Ma occorreva proprio arrivare fino a questo punto estremo di confusione, anzi di identificazione? Questo è il mistero della sua follia d’amore. E proprio qui svela la sua verità più profonda, che a noi pare blasfema, sconveniente per lui e per la sua gloria. v. 3 Non è questo il falegname? Imparò da Giuseppe., probabilmente già morto, da cui ereditò il mestiere. È bello pensare alle sue mani. Fanno la stessa opera potente di Dio; ma prima hanno imparato a lavorare, e poi hanno faticato per tutta la vita, fino a quando sosteranno inchiodate sul legno della croce! In Israele tutti possedevano la terra. Solo chi l’aveva persa, per sopravvivere faceva altri lavori modesti. Il suo consisteva nell’aggiustare o fare piccole cose o attrezzi altrui - cosa che in genere un contadino si faceva da sé nelle stagioni morte. Non era quindi un affare proficuo e di prestigio, ma da diseredati, con poca prospettiva di lucro, e aleatorio. Questa semplice parola “falegname” sintetizza tutta la sua esistenza anonima di uomo, che mutua la propria identità dal lavoro. Di lui si dice tutto dicendo: “E un falegname”! I suoi trent’anni di Nazaret riscattano la quotidianità insignificante di ogni vita, sottoposta

alla dura legge del lavoro per sopravvivere: “Con il sudore dei tuo volto mangerai il pane” (Gn 3,19). Se non sudi tu, un altro suda il doppio, e mangia niente. figlio di Maria. Non si nomina Giuseppe, come neanche in 3,21 ché doveva essere già morto. Dicendolo solo figlio di Maria, Marco riproduce la fede della comunità nella concezione verginale, che Matteo e Luca testimoniano più ampiamente. fratello. In ebraico, come presso molti popoli, i cugini sono chiamati “germani, fratelli”. Giacomo e Giuseppe, Giuda e Simone. Sono certamente tra i suoi si parla in 3,21. E le sue sorelle non sono tra noi? Sanno tutto su Gesù: cosa fa, cosa dice e chi è. Ma questa conoscenza secondo la carne non giova a nulla (2Cor 5,16). Bisogna riconoscere nello Spirito che proprio la sua carne, è la rivelazione sconvolgente di Dio - espressione piena del suo amore che l’ha portato a non vergognarsi di chiamarsi nostro fratello (Eb 2,11; Ct 8,1). Non basta essere dei suoi, appartenere al suo popolo o alla sua Chiesa, saper tutto su di lui e maneggiarlo di continuo. La salvezza viene dal toccare con fede la sua carne, cioè la sua persona nella sua debolezza uguale alla nostra. E si scandalizzavano di lui. Lo scandalo è una pietra contro cui si inciampa e si cade. Tutti gli uomini inciampano e cadono davanti grandezza dell’amore di un Dio che si fa piccolo e insignificante. v. 4 Non c'è profeta disprezzato se non nella sua patria. Constatazione amara del rifiuto di Israele, dietro cui si profila quello di tutta l’umanità Tutti rifiutiamo un Dio la cui sapienza e potenza è la follia e l’impotenza dell’amore. Lo pensiamo e lo vogliamo diverso. v. 5 E non poteva fare nessun prodigio. Il miracolo è sempre legato fede. Essa è un contatto che sprigiona da lui l’energia (= dynamis). Lui è la vita. Chi ha mani aperte, riceve il dono senz’altra misura che il proprio bisogno. L’incredulità è la mano chiusa di chi, come i suoi, avanza diritti o pretese. pochi infermi. Sono i pochi che hanno fede. v. 6a si meravigliava della loro non fede. La non-fede è qualcosa che ci manca e invece ci dovrebbe essere. È come una mano amputata. La nostra incredulità è così incredibile che il Signore stesso se ne meraviglia - unica sua meraviglia! Sarà causa della sua morte. Ma questa sarà la medicina con cui ci cura del nostro male. Omeopatia degna di Dio! 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: a Nazaret, nella sinagoga, durante il culto sabatico. 3. Chiedo ciò che voglio: di non scandalizzarmi che la sapienza e la potenza di Dio siano nel povero falegname di Nazaret. Chiedo la fede nell’umanità di Gesù, nostra salvezza. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

sapienza prodigi (energie) falegname figlio di Maria

meraviglia scandalo non-fede

4. Passi utili: Ez 2,2-5; Sal 118; 123; Ef 4,20s; 1Gv 4,2 s.

29. CHIAMA INNANZI I DODICI E COMINCIÒ A INVIARLI (6,6b-13) 6b

E girava per i villaggi insegnando. 7 E chiama innanzi i Dodici, e cominciò a inviarli a due a due, e dava loro potere sugli spiriti immondi. 8 E comandò loro di non portare nulla per via, se non il bastone solo: né pane, né bisaccia, né danaro nella cintura; 9 ma: calzate i sandali e: non indossate due tuniche. 10 E diceva loro: Dovunque entriate in una casa, lì dimorate finché non partirete da lì. 11 E qualunque luogo non vi accolga e non vi ascolti, usciti di là scuotetevi la polvere che è sotto i vostri piedi in testimonianza per loro. 12 E usciti proclamarono che si convertissero, 13 e scacciavano molti demoni, e ungevano di olio molti e li curavano. 1. Messaggio nel contesto “Chiama innanzi i Dodici e cominciò a inviarli”. I Dodici furono prima chiamati ciascuno singolarmente a seguirlo (cf 1,16-20; 2,14). Poi furono comunitariamente costituiti per “essere con lui” (3,14). Ora sono inviati ai fratelli a due a due.

Ci sono tre livelli di un’identica vocazione, con tre chiamate successive, che segnano rispettivamente il passaggio dalla dispersione alla sequela, dalla sequela alla comunione con lui, dalla comunione con lui alla missione verso tutti. Questo brano è un “breviario di viaggio”, perché gli inviati non dimentichino di riprodurre il volto di chi li invia. È la carta di identità della Chiesa apostolica, ossia mandata da Gesù - la cui missione fu in povertà, e passò attraverso fallimento, nascondimento, impotenza e piccolezza (cf c. 4). Chi è mandato ai fratelli riceve il più grande dono del Padre: è pienamente associato al Figlio, partecipe del mistero che annuncia. Con l’invio dei Dodici, Gesù non è più solo. Comincia ad essere il primo di numerosi fratelli, un chicco che già si è moltiplicato. Questa prima missione ad Israele è già un raccolto che si fa semina per un altro successivo, che sarà sempre più abbondante, fino alla fine dei tempi, quando tutti gli uomini mangeranno il pane del Figlio. Qui inizia la “sezione dei pani” (6,6b-8,30). Dopo quella sulla Parola e sul battesimo (3,7-5,43), segue la catechesi sull’eucaristia, alla fine della quale Gesù sarà riconosciuto. Egli infatti si rivela come Cristo e Signore proprio in quanto amore che per noi si fa pane e vita. L’annuncio dell’evangelo è sempre in povertà, perché proclama la croce che ha salvato il mondo. I Dodici, e quelli dopo di loro, devono avere grande cura di vivere i valori del Regno che annunciano: sono quelli che Gesù ha esposto nelle parabole del c. 4, dopo averli vissuti in prima persona. La tentazione più grossa è ritenere che ci siano altri mezzi più adatti al fine. Più che di ciò che bisogna dire, Gesù si mostra preoccupato di ciò che bisogna essere. Ciò che sei, grida più forte di ciò che dici. È vero che la parola di Dio è efficace di per sé; non è la mia testimonianza a renderla credibile. Tuttavia la mia controtestimonianza ha il potere di renderla incredibile. Nel male ho sempre un potere maggiore che nel bene: non so creare un fiore: so però distruggerlo! La povertà che Gesù “ordina” non è di tipo stoico. Viene dalla gioia di chi ha scoperto il tesoro (Mt 13,44), e conduce alla vittoria sul peccato del mondo - che consiste nella brama di avere, di potere e di apparire, strumenti mortali escogitati dalla paura della morte. La sua povertà non è una privazione, ma un valore sommo, anzi la somma dei valori della sua vita. Infatti Dio, essendo amore, è povero. Il suo avere è il suo essere, e il suo essere è essere dell’altro, nel dono di sé del Padre al Figlio e del Figlio al Padre, nell’unico Spirito. Anche per noi la povertà è la condizione per amare. Infatti finché hai cose, dai cose; quando hai nulla, dai te stesso. Solo allora ami veramente, e puoi condividere. Inoltre ciò che hai, ti divide dall’altro; ciò che dai, ti unisce, e ti fa solidale con lui. Finché non sei povero, ogni cosa che dai è solo esercizio di potere. La povertà è poi verità: tu non sei ciò che hai, ma ciò che dai; e solo se hai nulla, dai te stesso e sei te stesso. È anche libertà dall’idolo che domina il mondo - il dio mammona che garantisce la soddisfazione di ogni altro desiderio. È inoltre Il volto concreto della fede, che ti fa porre tutta la fiducia in Dio come Padre tuo e Signore di tutto. È infine bisogno di accoglienza. Per essa l’apostolo fa l’esperienza di figlio, che è bisogno di accoglienza, dando all’altro l’opportunità di esercitare in prima persona la misericordia del Padre. Già nell’AT povertà, piccolezza e impotenza sono i mezzi che Dio sceglie per vincere (cf Sam 2,1-10; Es 3,11; 4, 10; Gdc 7,2). Infatti ha scelto ciò che è stolto e debole per confondere i sapienti e i forti, ciò che è ignobile, disprezzato e nulla, per ridurre al nulla le cose che sono (1Cor 1,27 s). D’altra parte tutti noi conosciamo la grazia del Signore nostro Gesù Cristo, che da ricco che era si fece povero per noi, perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà (2Cor 8,9).

Questa lezione l’avevano appresa bene Pietro e Giovanni, quando compirono il primo miracolo della Chiesa nascente. Fecero camminare lo storpio con le parole: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina” (At 3,6). Se avessero avuto argento e oro, avrebbero fatto un’opera buona, magari un istituto per storpi! Ma la fede può venire solo dall’annuncio fatto in debolezza, perché è libera risposta alla parola di Cristo. Per vincere lo spaventoso Golia, David dovette liberarsi dell’armatura così bella che il re gli aveva offerto: “Non posso camminare con tutto questo” (1Sam 17,39). Per vincere, Gedeone dovette ridurre il suo potente esercito da 30.000 a 300: erano troppo numerosi perché Dio li facesse vincere (Gdc 7,1 ss)! L’efficacia divina dell’annuncio è inversamente proporzionale all’efficienza dei mezzi umani. Dobbiamo essere fortemente persuasi che la salvezza viene dalla croce, svuotamento che rivela Dio. Guai se la nostra potenza o sapienza la vanifica (1Cor 1,17). Per questo Paolo si presenta in debolezza, con molto timore e trepidazione, riponendo tutta la sua sapienza in Cristo, e in Cristo crocifisso (1Cor 2,2 s). E dice: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10) - forte della fiducia in Dio, la cui debolezza è più forte degli uomini. Gesù invia i suoi in povertà, come il Padre ha inviato lui. I discepoli, attraverso la missione, sono chiamati alla forma più alta di vita cristiana: sono pienamente associati al Figlio, che, conoscendo l’amore del Padre, è spinto verso tutti i fratelli. 2. Lettura del testo v. 6b E girava per i villaggi tutt'intorno insegnando. Con la sua itineranza apostolica - non ha dove posare il capo (Lc 9,58), la strada è la sua casa - Gesù fa in prima persona ciò che poi comanda. Prima che a parole, ha sempre istruito coi fatti. “Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,15). Il suo viaggiare infaticabile è espressione del suo amore che cerca tutti. v. 7 chiama innanzi i Dodici. È la terza chiamata. La prima fu alla fede e alla sequela; la seconda a essere con lui; la terza alla sua stessa missione di Figlio, che è portare l’amore del Padre a tutti i fratelli. cominciò a inviarli. È l’inizio della missione. Finirà quando sarà compiuto il disegno del Padre, che vuole che la sua casa sia piena (Lc 14,23). Ma se manca un solo figlio, è sempre vuota! a due a due. Sono in due perché si aiutino a vicenda, perché la loro testimonianza sia valida, ma soprattutto perché devono testimoniare tra loro l’amore che proclamano agli altri. Infatti se due stanno insieme, è perché c’è un terzo: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, sono in mezzo a loro” (Mt 18,20). Due inoltre è il principio di molti, germe della comunità. La missione, come non è una iniziativa privata (1Cor 9,17), così non è un incarico personale: come è da un altro, così è sempre con altri. I compagni di Gesù, se hanno imparato a essere con lui, sanno stare anche tra di loro nel suo nome, insegnando così agli altri a fare altrettanto. dava. Indica un’azione continuata: dava questo potere a ogni singola coppia. potere sugli spiriti immondi. Il potere sugli spiriti immondi è conferito loro dopo che sono stati a lungo con lui (3,13 ss). Diversamente può capitare loro come agli esorcisti di Efeso, che usavano il suo nome senza essere con lui (cf At 19,13-17)!

v. 8 comandò. Non è un consiglio. È la prima volta che Gesù comanda qualcosa. Dà solo due altri ordini analoghi (v. 39 e 8,6), usando un’unica volta metodi coercitivi (v. 45) e sempre in questa sezione. Si comanda quando si sa che l’altro da sé non farebbe, o farebbe diversamente. Soltanto l’obbedienza a lui motiva la missione in povertà. Il nostro buon senso apostolico farebbe volentieri il contrario. L’osservanza di questo comando è prova della nostra fede in lui. non portare nulla. Questo nulla è l’unica cosa di cui il Signore ha bisogno per agire e ridurre a nulla tutti i nemici dell’uomo. È la nudità della sua croce, che ha redento il mondo. Con essa ci ha arricchiti di ogni cosa, fino a darci se stesso. Chi annuncia non deve essere “per” o “con” i poveri - eventualmente per farli diventare ricchi! Deve semplicemente “essere povero”, in obbedienza al suo Signore. Diversamente partecipa del potere non della croce, ma dei mezzi che usa. per via. Il discepolo percorre la stessa via del maestro. La forza del suo cammino è il bastone di colui che lo precede. se non il bastone. Il bastone è lo strumento primordiale. Pròtesi che allunga e potenzia la mano, serve come appoggio, difesa, attacco. Dio con esso aprì il mar Rosso, fece scaturire acque nel deserto, e rese vive le acque morte di Mara. Debole cosa fatta di legno, è anche scettro, simbolo del potere. Il bastone regale che Gesù concede, mezzo potente contro ogni avversario, è la povertà, che esprime tutta la sua forza nel legno della croce. né pane. Il pane è la vita. La vita è il dono del Padre. Essi la riceveranno nel corpo del Figlio. E vivranno non di ciò che possiedono, ma di questo pane, che dà la gioia di ricevere e donare, in rendimento di grazie. né bisaccia. La bisaccia piena di provviste garantisce la vita al viandante. La sicurezza dell’apostolo non sta in ciò che ha di riserva, ma in ciò che ha lasciato per amore. né danaro nella cintura. La cintura è una fascia che, doppiata, serve da borsa per il denaro, il mediatore universale, che procura tutto. La vera ricchezza del discepolo è la povertà, che, facendo confidare solo in Dio, ce lo fa riconoscere come Padre. È madre, perché ci genera suoi figli. v. 9 calzate i sandali. Servono per camminare. È lungo il cammino di chi annuncia: deve raggiungere tutti, fino agli estremi confini della terra. Ma il suo piede non si gonfierà (Dt 8,4), se ascolterà questa parola del Signore. Gli schiavi vanno scalzi; chi evangelizza ha i calzari, perché è libero e annunzia la libertà dei figli. Sandali e bastone sono inoltre la tenuta pasquale (Es 12,1 1). non indossate due tuniche. Se ne hai due, una non è tua, ma del fratello che non ce l’ha. Se affermi che sei fratello, non potrà non chiedertela, per vedere se è vero quello che dici. Se non gliela dai, sei falso. Ma, se gliela dai, la sua fede rimarrà attaccata alla tua fragile testimonianza, invece che alla roccia della parola di Dio; e più di questa gli interesserà il vestito, con il risultato che avrai fatto nascere in lui la cupidigia che avresti dovuto vincere. Per questo è necessario avere solo una veste. E sottile la tentazione di andare in giro a dare cose di vario tipo a fin di bene. In realtà eserciti solo potere e allontani dalla fede, che è obbedienza libera alla Parola. Più sei senza cose e hai nulla da dare, più puoi condividere la tua speranza e comunicare Cristo., il solo tesoro. Allora l’unica tunica che hai ti aiuterà a essere rivestito di lui, l’uomo nuovo, veste che non si logorerà mai (Dt 8,4).

v. 10 Dovunque entriate in una casa, lì dimorate, ecc. La povertà è bisogno di accoglienza. Tu hai dato tutto per amore. Ci sarà chi ti ospita, dando dei suo. Così anche lui entra nel cerchio vitale del dono (vedi At 16,11-15). E sii contento di quel che trovi, senza cercare di meglio o far preferenze. v. 11 E qualunque luogo non vi accolga. Gesù per primo fu respinto. Il rifiuto che accompagna la missione, non distrugge, ma realizza il Regno. Non è forse un seme, che porta frutto solo se è gettato e muore? scuotetevi la polvere. Con questo gesto si visibilizza il suo peccato, forse consumato inavvertitamente. in testimonianza per loro. Nel rifiuto, che si fa croce del rifiutato, si testimonia in pienezza ciò che si annuncia: un amore incondizionato che si dona e rispetta la libertà, con le braccia sempre aperte ad accogliere. v. 12 proclamarono. Come Gesù. Vedi la sintesi del suo annuncio in Mc 1,14 s. “È piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione” (1Cor 1,21). La parola, mezzo debole, è l’unico che rende possibile una comunicazione libera. In questa debolezza si manifesta la potenza dei suo Spirito (1Cor 2,4). che si convertissero. In questa parola “conversione” sta il centro di ogni annuncio. Il modo di essere dei Dodici mostra da che e a chi convertirsi. Forse non ci sono molte altre parole da dire agli uomini se non che si convertano dal loro male al Signore. v. 13 e scacciavano molti demoni. Il loro annuncio è accompagnato dal potere che la Parola ha di vincere lo spirito di menzogna. e ungevano di olio molti infermi e li curavano. Non risulta che Gesù usasse l’olio, a differenza dei suoi discepoli (cf Gc 5,14), che ne continuano l’azione. Non è certo l’olio a guarire, né l’acqua a liberare dal peccato, né il pane o il vino a dare la vita nuova, ma il nome del Signore e la sua parola pronunciata su questi elementi. Essi sono segni sacramentali con cui Gesù significa e opera la salvezza per chi ha fede nella sua parola. 3. Esercizio 1.. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: vedo Gesù che gira attorno per i villaggi insegnando. 3. Chiedo ciò che voglio: chiedo al Padre di mettermi con il Figlio, associandomi alla sua stessa missione in povertà e gratuità, se a lui piace. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

insegnare chiamare inviare potere sugli spiriti

portare nulla annunziare conversione

4. Passi utili: Am 7,12-15; Sal 147,12-20; Mc 1,16-20; 3,13-19; At 3,1-10.

30. LEVARONO LA SUA SPOGLIA E LA DEPOSERO IN UN SEPOLCRO (6,14-29) 14

E udì il re Erode, poiché il suo nome era diventato noto, e diceva: Giovanni Battista è risorto dai morti! Per questo operano in lui le potenze. 15 Altri dicevano: È Elia. Altri ancora dicevano: Un profeta, come uno dei profeti. 16 Ma Erode, udito, diceva: Quel Giovanni che io decapitai, questi è risorto. 17 Lo stesso Erode infatti aveva mandato a prendere Giovanni, e lo legò in prigione, a causa di Erodiade, moglie di Filippo suo fratello, perché l’aveva sposata. 18 Diceva infatti Giovanni a Erode: Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello. 19 Ed Erodiade ce l’aveva con lui, e voleva ucciderlo e non poteva. 20 Infatti Erode temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e lo preservava, e, ascoltandolo, restava molto perplesso, e lo ascoltava volentieri. 21 E venne il giorno propizio, quando Erode, per il suo anniversario i di nascita, fece un banchetto per i suoi grandi, gli ufficiali e i primi della Galilea, 22 ed entrata la figlia della stessa Erodiade e avendo danzato, piacque a Erode e ai commensali.

Ora il re disse alla ragazza: Domandami ciò che vuoi, te lo darò. 23 E le giurò: Ciò che mi domanderai, te lo darò: anche la metà del mio regno. 24 E, uscita, disse a sua madre: Che chiederò? Ora quella disse: La testa di Giovanni Battista. 25 Ed entrata subito in fretta dal re, domandò dicendo: Voglio che qui ora mi dia su un piatto la testa di Giovanni Battista! 26 E, rattristatosi il re per il giuramento e per i convitati, non volle rifiutare a lei. 27 E subito il re, inviando una guardia, ordinò di portargli la sua testa. 28 E venne e lo decapitò nella prigione, e portò la sua testa su un piatto, e la diede alla ragazza, e la ragazza la diede a sua madre. 29 E, avendo udito i suoi discepoli, vennero, e levarono la sua spoglia, e la deposero in un sepolcro. 1. Messaggio nel contesto “Levarono la sua spoglia, e la deposero in un sepolcro” Con queste parole termina la storia di Giovanni, presagio di quella del Signore. Il racconto fu occasionato dalla domanda su chi è Gesù. L’invio in missione ha suscitato in giro il problema della sua identità. E il tema centrale di Marco, che troverà una prima risposta alla fine della sezione dei pani. Infatti egli è riconoscibile solo nel pane, memoriale della sua morte e risurrezione. Questo brano ci dice innanzitutto perché non lo si riconosce. Erode non può intendere la Parola, perché ha spento la voce che la proclama. L’uccisione del Battista è la consumazione del peccato. Ultimo dei profeti, egli denuncia l’adulterio del popolo - impersonato dal suo re che non ama il Signore, suo sposo. Chi, invece di convertirsi alla sua parola, preferisce fame tacere la voce, si toglie la possibilità stessa di conversione. Chi non pratica la giustizia, e non è disposto a cambiar vita, non può cercare i1 Signore e pretendere di trovarlo. Gli rimane una fame e sete di verità inappagate. È il terribile silenzio di Dio (cf Am 8,11 s). E

Dio tace, solo perché non vuole e non può condannare. Ma il suo silenzio è l’annuncio più forte del nostro peccato e della sua misericordia. Inoltre questo brano, posto dopo l’invio in missione, indica il destino del testimone. In greco testimone si dice “martire”. Il termine significa “uno che si ricorda” - si ricorda della sua missione anche a costo della vita. La sorte di Giovanni prelude quella di Gesù e di quanti saranno inviati. Può sembrare poco confortante. Ma l’uomo deve comunque morire. La differenza tra morte e martirio sta nel fatto che la prima è la fine, il secondo il fine di una vita. Il martire infatti testimonia fin dentro e oltre la morte l’amore che sta a principio della sua vita. Infine il banchetto di Erode nel suo palazzo fa da contrappunto a quello imbandito da Cristo nel deserto. Il primo ricorda una nascita, festeggiata con la morte; il secondo prefigura il memoriale della morte del Signore, festeggiato come dono della vita. Gli ingredienti del primo sono ricchezza, potere, orgoglio, falso punto di onore, lussuria, intrigo, rancore e ingiustizia - il tutto affogato nella salsa di una coscienza infelice, perplessa, ambigua, debole e, alfine, svenduta, con il macabro piatto finale di una testa mozzata in mano a una fanciulla. La storia mondana non è altro che una variazione, monotona fino alla nausea, di queste vivande velenose. Il pasto del Signore invece ha la semplice fragranza del pane, che riempie la sera fresca di un deserto che fiorisce - amore che si dona e germina in condivisione e fraternità. In sintesi: Giovanni, di cui si dice che è morto e risorto, è il preannuncio del destino di Gesù, che è lo stesso dei suoi apostoli appena inviati. È quello del seme, già illustrato nelle parabole, che costituirà l’oggetto della “Parola” nella seconda parte del vangelo. Nella missione si compie la comunione piena con Gesù: con lui si partecipa alla sua stessa compassione per il male del mondo, e in lui e come lui si diventa pane di vita per gli altri. L’apostolo perfetto è il martire, che giunge all’identità col suo Signore. Erode, scambiando Gesù con il Battista, dice senza saperlo una grande verità. Anche Paolo, perseguitando i cristiani, si sentirà dire da Cristo: “Perché mi perseguiti?” (At 9,4 s). Lui stesso affermerà poi di compiere in sé a favore dei fratelli ciò che ancora manca alle sofferenze di Cristo (Col 1,24). Gesù, attraverso la figura del Battista, ci è presentato come il risorto, santo e giusto, ucciso ingiustamente. È il primo annuncio della sua morte e risurrezione, scritto non con parole, ma con il sangue del testimone. Il discepolo, inviato a testimoniare in povertà, avrà la stessa sorte del Battista, vivendo così il mistero fecondo del seme che sparge. Però prima deve riconoscersi rispecchiato in Erode e nel vari personaggi di contorno, che raffigurano le sfaccettature del male che abita nel suo cuore, causa dell’uccisione del Giusto. 2. Lettura del testo v. 14 E udì il re Erode. La missione dei Dodici rende noto Gesù, perché tutti si interroghino su di lui e si lascino alfine da lui interrogare. e diceva.- Giovanni Battista è risorto, ecc. (cf 8,28). La confessione di Erode è un aborto che anticipa quella di Pietro (8,29). Chi è Gesù? La sua conoscenza deve farsi strada tra il nostro peccato e i nostri pregiudizi religiosi, tra Erode che lo uccide e gli altri che si fanno la domanda e si danno la risposta. La risposta verrà quando accetteremo che lui ci interroghi e ci metta in questione (cf 8,27 ss). Non c’è risposta per chi uccide o non ascolta il profeta che annuncia la parola di Dio; non c’è dialogo per chi, volendo rispondersi da sé, rimane in un vuoto soliloquio sul già noto.

v. 15 Altri dicevano.- È Elia (cf 8,28). La figura di Elia, padre dei profeti, è importante: è l’ultimo inviato prima della venuta del Signore (Ml 3,23s). Gesù dirà che è già venuto nel Battista (9,11 ss; cf 1,2). Un profeta, come uno dei profeti (cf 8,28). Tutte queste risposte religiose hanno in comune la tendenza a identificare colui che è vivo con uno che è già morto. Anche i discepoli lo cercheranno tra i morti (Lc 24,5), e lo scambieranno per un fantasma (v. 49). L’uomo non può dare altre risposte se non quelle che rientrano nella sua memoria del passato; e questa non può essere che di morte. Per questo ogni nostra risposta non può raggiungere Dio, presente e vivente. v. 16 Erode diceva.- Quel Giovanni che io decapitai, questi è risorto. Erode, anche se con paura come “cattiva notizia” - enuncia il tema fondamentale del vangelo: la risurrezione. Descritto con tutti i suoi sentimenti ambigui, è figura di ogni uomo, che alla fine fa il male che non vuole, travolto nel vortice di un gioco che gli prende la mano. v. 17 aveva mandato a prendere Giovanni e lo legò. Come Gesù, preso e legato (1 4,44-46; 15,1). a causa di Erodiade. Il peccato del re fu di adulterio, figura di quello di tutto il popolo, che è andato dietro gli idoli invece che al suo sposo. Questa figura femminile è come l’anima nera di Erode. La donna è il simbolo della sapienza, che può capovolgersi nel suo opposto. v. 18 Non ti è lecito, ecc. Non è legalismo, né semplice condanna. La profezia è sempre denuncia del peccato e appello alla conversione. Il profeta vuol salvare il peccatore per amore del quale espone la propria vita. Il Battista, ingiustamente ucciso per la giustizia e per il bene che fa all’ingiusto col suo richiamo, è figura di Gesù - il giusto che muore per gli ingiusti. v. 19 Erodiade ce l'aveva con lui. Questo rancore è la vera causa della morte del Battista, come l’invidia sarà la causa della morte di Gesù (15,10). v. 20 uomo giusto e santo. Come Gesù (cf At 3,14). Giusto è chi compie la volontà di Dio; santo è chi gli appartiene. ascoltandolo, restava molto perplesso, e lo ascoltava volentieri. È interessante questo ascolto di chi non è disposto a cambiare. Egli finisce, contro coscienza, per perpetrare ogni crimine, anche quello che non vuole. Non è spesso così il nostro ascolto? Ci piace e ci lascia perplessi. Ma ci decidiamo ad ascoltare ciò che udiamo? Anche se non accolta, la Parola è sempre utile: toglie l’alibi della buona fede, rendendo possibile la conversione. vv. 21 ss venne il giorno propizio. Il giorno della nascita di Erode sarà quello della morte di Giovanni, che, nello stesso giorno, nasce come testimone. Il giorno di nascita dei martiri è quello della loro morte, in cui si identificano totalmente con la vita nuova che testimoniano. Il banchetto di Erode e dei suoi grandi è uno spaccato tragico del mondo - danza folle di una fanciulla goduta a vista, con la movenza finale di una testa sanguinante. Erode, Erodiade e figlia, con lo sfondo di grandi ufficiali e notabili, giocati dal gioco del mondo, sono la risposta che questo dà al messaggio di Gesù e dei suoi inviati. Con tale inizio, si preannuncia uno scontro drammatico.

v. 26 rattristatosi il re non volle rifiutare. Analogo atteggiamento avrà Pilato. I potenti, impotenti a fare il bene che vorrebbero, sono capaci solo, per orgoglio e vigliaccheria, di fare il male che non vorrebbero. Sono in balia di una forza più grande di loro. v. 28 la diede. Anche il corpo di Gesù sarà dato. alla ragazza. È lo stesso nome con cui Gesù chiama la fanciulla che risvegliò prendendola per mano (5,41). v. 29 levarono la sua spoglia e la deposero in un sepolcro. Lo stesso accadrà a Gesù, il seme che germinerà in pane di vita. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: vedo la sala del banchetto di Erode e la prigione Giovanni. 3. Chiedo ciò che voglio: amare il Signore e la sua parola più della mia vita, ricordandomi che chi vorrà salvare la propria vita la perderà, chi perderà la sua vita per lui e l’evangelo, la salverà. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

Battista Elia/profeti risorgere uccidere

banchetto, danza testa (del profeta) spoglia sepolcro

4. Passi utili: Am 8,4-12; 2Cr 36,15 ss; Eb 11,36 ss; Sal 22.

31. VENITE VOI SOLI IN DISPARTE (6,30-33) 30

E si radunano gli apostoli davanti a Gesù, e gli narrarono tutto quanto fecero e quanto insegnarono. 31 E dice loro: Venite voi soli in disparte in luogo deserto, e riposatevi un poco. Erano infatti molti che andavano e venivano,

e neppure di mangiare avevano tempo. 32 E se ne andarono nella barca in un luogo deserto in disparte. 33 E li videro partire, e li riconobbero molti e via terra da tutte le città concorsero lì, e li precedettero. 1. Messaggio nel contesto “Venite voi soli in disparte”, dice Gesù ai suoi che rientrano dalla prima semina, per condurli sul posto dove darà il pane. Nella sinagoga (= “riunione”) al centro sta la Parola; qui al centro sta colui che li ha inviati, e ora li invita in solitudine, nel deserto. Sarà la nuova sinagoga, popolo riunito per ascoltare la sua parola e ricevere il suo cibo. Questo brano redazionale è il preludio immediato che inquadra e dà la chiave interpretativa per la moltiplicazione dei pani. Ci dice le caratteristiche di fondo della Chiesa, che è in stretta connessione con l’eucaristia. Infatti l’eucaristia fa la Chiesa, e la Chiesa fa l’eucaristia. La comunità dei discepoli innanzitutto è costituita dal riunirsi davanti a Gesù, unico referente di tutti e di ciascuno. La missione, come parte da lui, così porta a lui, senza distogliere da lui, anzi conducendo a lui gli altri. In questa riunione o “sinagoga” c’è un confronto di ciò che si fa e si dice con quanto lui ha fatto e detto (At 1,1), misura di tutto. La nostra profezia è il ricordo di lui, compimento di ogni promessa. In questo dialogo con la Parola sentiamo l’invito al deserto, ossia all’esodo, per trovare il vero riposo, in intimità con lui, che ci comunica il suo segreto. Sarà l'eucaristia, dove mangiamo e viviamo con lui e di lui, insieme a tutti quelli che lo vorranno seguire. Gesù è colui che chiama all’esodo e invita al deserto. La legge e la manna saranno la sua parola e il suo pane. I discepoli, chiamati per essere con lui ed essere inviati, diventano una comunità che fa di lui il centro del proprio agire, pensare e parlare. Nel confronto con lui percepiscono il suo invito al deserto, dove, nella solitudine con lui, Parola fatta pane, troveranno il loro cibo. 2. Lettura del testo v. 30 si radunano gli apostoli davanti a Gesù. La missione non è una fuga o un’evasione. Non ha come fine l’andata, ma il ritorno, perché ha nel Signore il suo cuore. e gli narrarono tutto quanto fecero e quanto insegnarono. Il dialogo con lui, al quale raccontano e sul quale commisurano tutto, è ciò che li fa Chiesa. Lui, con ciò che ha fatto e ha detto, e che il vangelo ci narra (cf At 1,1), è la pietra di paragone di quanto noi facciamo e diciamo. v. 31 Venite voi soli in disparte. Chi si confronta con la Parola, è sempre invitato a entrare più profondamente nel mistero. In 4,10.34 Gesù spiegava ai suoi, in solitudine appartata, il segreto del

Regno. Ora dà loro il suo pane. Questo invito è analogo a quello di Mt 11,28: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e affaticati, ecc.”. Al giogo della legge sostituirà quello della conoscenza e dell’amore reciproco tra Padre e Figlio, che lui è venuto a offrirci col suo pane. in luogo deserto. Sarà al di là del mare, sull’altra sponda rispetto a dove noi siamo. Gesù chiama a un nuovo esodo, e attira i suoi nel deserto, per parlare al loro cuore. Lì conosceranno chi è il Signore (cf Os 2,16-22). e riposatevi. Il riposo è la terra promessa, immagine di ciò che Dio ha veramente promesso: lui stesso. Solo in lui troviamo casa. Altrove siamo sempre esuli, fuggiaschi o pellegrini. Erano molti che andavano e venivano (cf 2,2; 5,31). La folla è un impedimento a questa intimità, a meno che si decida a seguirlo nel deserto. neppure di mangiare avevano tempo. Come in 3,20. Uscire da questa folla non suona né disprezzo né menefreghismo: è vivere la propria dignità di persona - interlocutore “privato” di Dio. È il miglior aiuto che possiamo dare all’altro, esempio a fare altrettanto (cf v. 33). v. 32 se ne andarono nella barca in un luogo deserto in disparte. Questo dettaglio, ripetuto, completa la vita dell’apostolo: è con lui, è inviato da lui, e torna a lui per trovare uno spazio di silenzio, in solitudine con lui. Qui egli ritrova se stesso, la pienezza della propria vita da cui scaturisce la sua missione. v. 33 li videro partire / li precedettero. Il loro ritiro con Gesù è la parte più fruttuosa di tutta la loro attività apostolica: causa l’esodo di manipoli di messe, ormai matura per diventare popolo attraverso la parola e il pane (cf anche 3,7 ss). 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo dove i discepoli raccontano a Gesù sulla loro missione, prima a terra e poi in barca. 3. Chiedo ciò che voglio: confrontare con lui ciò che faccio e dico, e accettare il suo invito all’intimità con lui. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

riunirsi davanti a Gesù disparte ciò che fecero

ciò che insegnarono luogo deserto riposare mangiare

4. Passi utili: Es 19; Ger 15,16-19; Ap 3,20.

32. ALZATI GLI OCCHI AL CIELO, BENEDISSE E SPEZZÒ I PANI, E LI DAVA (6,34-44) 34

E uscito vide molta folla, ed ebbe compassione di loro, poiché erano come pecore che non avevano pastore, e cominciò a insegnare loro molto. 35 Ed essendo già l’ora tarda, i suoi discepoli, avvicinatisi a lui, dicevano: Deserto è il luogo e l’ora già tarda; 36 rimandali, perché, andando nei campi e villaggi intorno, si comprino di che mangiare, 37 Ed egli rispondendo loro disse: Voi stessi date loro da mangiare. E gli dicono: Andremo a comperare duecento danari di pane, e daremo loro da mangiare?! 38 E dice loro: Quanti pani avete? Andate a vedere! E, informatisi, dicono: Cinque, e due pesci. 39 E ordinò loro di far sdraiare tutti, a gruppi e gruppi sull’erba verde. 40 E si adagiarono ad aiuole ed aiuole di cento e di cinquanta. 41 E, presi i cinque pani e i due pesci, alzati gli occhi al cielo, benedisse e spezzò i pani, e li dava ai discepoli che li porgessero loro, e i due pesci divise tra tutti. 42 E mangiarono tutti, e furono sazi, 43 e levarono di frammenti un pieno di dodici ceste, e anche dai pesci. 44 Ed erano quelli che mangiarono (i pani) cinquemila uomini.

1. Messaggio nel contesto “Alzati gli occhi al cielo, benedisse e spezzò i pani e li dava”. Sono le parole dei memoriale eucaristico (14,22s), punto d’arrivo di ogni missione, in cui riceviamo quel pane che è il Figlio e ci fa figli. Questa sezione di Marco vuoi portare a superare la sordità e cecità, per riconoscere il Signore nell’eucaristia. Il seguito del vangelo sarà tutto un confronto tra la Chiesa e questo pane, e avrà come culmine la contemplazione di un Dio crocifisso, oggetto dell’annuncio che ci fa rinascere (battesimo) e cibo che alimenta la vita nuova (eucaristia). Questo brano inizia dichiarando la sorgente del dono del Signore. È la sua compassione, la sua hesed essenza recondita di Dio, che lo porterà a dare la vita per noi. La scena si svolge nel deserto, dove il popolo ricevette le dieci parole, la manna, le quaglie e l’acqua. Ora il nuovo popolo riceve la Parola stessa che si fa suo nutrimento e vita. Il racconto contrappone due economie, due maniere diverse di amministrare la propria esistenza. Quella dell’uomo, che vive di ciò che ha o compera, e quella di Dio, che vive e fa vivere di ciò che dà, in perfetta gratuità. C’è un pane - i discepoli ce l’hanno e non lo sanno - che si moltiplica dividendolo e può saziare le moltitudini. Il racconto, chiamato “moltiplicazione”, parla in realtà di una condivisione. Proprio così nasce l’unico pane che sazia e basta per tutti. Il tema centrale del brano è “mangiare”. Mangiare significa vivere. È misteriosamente vero che l’uomo è ciò che mangia. La Sapienza dice: “Mangiate senza denaro e senza spesa. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia? Venite a me, ascoltate e voi vivrete” (Is 55,1 ss passim). L’eucaristia non è la commemorazione di un evento passato, bensì novità di vita filiale e fraterna. “Chi mangia di me, vivrà per me” (Gv 6,57), dice Gesù. Il suo pane è lui stesso, come lui stesso è la sua parola: in quanto parola ci fa vedere il mistero di Dio, in quanto pane ce lo fa vivere. Sullo sfondo c’è il ricordo dell’esodo con il dono della manna e il i miracolo di Eliseo (2Re 4,42 ss). Gesù, che dona la parola e il pane, è Parola e Pane. Vivendo di lui, viviamo la pienezza di vita che ci è stata promessa. Il discepolo mangia di questo pane. Il banchetto che Gesù imbandisce nel deserto, ben diverso da quello di Erode nel palazzo, lo fa passare da un’esistenza morta - chiusa nell’egoismo e amministrata dalla brama di avere, potere e apparire - a una vita nuova nell’amore, sotto il segno del dono e del servizio in umiltà. Fa parte di un popolo nuovo, che ha le caratteristiche del pane che mangia. 2. Lettura del testo v. 34 vide molta folla, ed ebbe compassione di loro. La compassione o misericordia non è un attributo di Dio. È Dio stesso, nel più profondo del suo abisso di amore gratuito, che verrà alla luce sulla croce. Questa compassione è l’origine del pane - la sua vita data per noi peccatori. erano come pecore che non avevano pastore. Mosè così pregò per il suo popolo sbandato: “Il Signore, il Dio della vita in ogni essere vivente, metta a capo di questa comunità un uomo che li preceda nell’uscire e nel tornare, perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore” (Nm 27,16 s). Gesù si candida pastore non per desiderio di potere, ma perché agnello immolato, che dà la sua vita per

le pecore (Gv 10,11). Secondo la promessa, Dio stesso si fa pastore del suo popolo (Ez 34,1 ss). Quando lui sarà percosso e i suoi si sperderanno, egli assicura che non li abbandonerà, ma li precederà sempre con un amore più forte della morte. Il pane appena dato ne è il pegno (14,27). cominciò a insegnare loro molto. Il primo pane che dà, è la sua parola. Infatti “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Dt 8,3). Il cibo materiale, presto o tardi, verrà meno, come la stessa vita. Ma la sua parola e la sua fedeltà dura in eterno. Questo lungo insegnamento allude all’abbondante catechesi che precede l’eucaristia: il banchetto della Parola precede quello del Pane. Senza quello, questo non è conosciuto; e quindi né desiderato né accolto per quello che è. Lo cercheremmo solo per sfamarci, come fece la folla (Gv 6,26). Non date le perle ai porci (Mt 7,6)! v. 36 si comprino di che mangiare. I discepoli, come tutti, sono chiusi nella legge ferrea del possedere e del comprare. Pensano che al massimo uno può dare quello che ha. Dette le belle parole, vogliono rimandare la folla - dalla quale poi non vorranno staccarsi. v. 37 Voi stessi date loro da mangiare. È un imperativo. Ora la Parola deve farsi Pane. I discepoli sono chiamati a “dare”, come ha fatto Gesù, passando dall’economia del possesso a quella del dono. Quella produce fame e morte, questa genera sazietà e vita. Andremo a comperare duecento danari di pane? I discepoli restano nel loro orizzonte. Non capiscono la proposta di Gesù, e pensano di dover “comperare” pane. Hanno buona volontà. La loro è una carità disponibile e oculata, pronta a pagare calcolando i costi. Ma il punto è un altro. Questo pane esiste senza comperarlo. Ce l’ha dato Gesù: è lui stesso e la sua capacità di donare. I discepoli però non sanno di averlo e non ne conoscono ancora il potere. Solo dandolo ce l’hanno; e più ne danno più ne hanno. Ma se lo tengono, ne sono privi. v. 38 Andate a vedere. Lui sa che c’è, e ordina di andare a vedere. Noi, nella nostra superficialità, non lo vedremmo. Cinque, e due pesci. A noi, anche quando lo vediamo, sembra poca cosa. Ma cinque più due fa sette, numero perfetto. La nostra povertà, il poco che abbiamo, passando per le mani del Signore, diventa nella condivisione abbondanza per tutti. v. 39 ordinò loro di far sdraiare tutti. È un ordine, perché ai discepoli pare una cosa insensata. Si può forse sfamare un popolo nel deserto (Sal 77,19)? Ma il Signore ha preparato per tutti i popoli il suo banchetto. E in quel giorno si dirà: “Ecco il nostro Dio” (Is 25,6-9). a gruppi sull'erba verde. Il gregge disperso diventa un popolo ordinato (cf Es 18,25; Nm 31,14), sotto la guida del pastore che porta ai pascoli verdeggianti (Sal 23). Davanti al Signore, esulta e fiorisce la steppa (Is 35,1). Quando si passa dall’economia del possesso a quella del dono, questo mondo, da deserto (v. 35), diventa terra promessa. Si torna all’Eden, il giardino dei figli. v. 40 si adagiarono ad aiuole. Le persone si sdraiano, cadendo sull’erba verde quasi petali colorati; e ogni gruppo è paragonato ad un’aiuola fiorita. v. 41 E, presi i cinque pani, ecc. Sono le parole del memoriale del Signore morto e risorto, nell’attesa del suo ritorno. Gesù prende dalla terra il pane e dall’abisso il pesce. Ma tiene il suo occhio verso il cielo, rivolto al Padre. Il suo prendere non è un possedere, ma un ricevere in dono, benedicendo colui

che dà ogni bene, e donando a sua volta. Il pane spezzato è il suo corpo, dato per noi sulla croce (14,22 s). e li dava ai discepoli. Questo verbo è all’imperfetto. Indica un’azione continua, in cui il Signore prosegue a dare il pane spezzato una volta per tutte. che li porgessero. I discepoli offrono il pane che sgorga da Gesù. Ogni nostro amore e condivisione verso gli altri ha in lui la propria sorgente. e i due pesci divise tra tutti. Il pesce, che vive nell’abisso, divenne presto simbolo di Cristo, il vivente oltre la morte. La parola greca ichthús (pesce) è l’anagramma delle iniziali in greco dell’espressione “Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore”. v. 42 E mangiarono tutti. Mangiare è vivere. Tutti vivono di questo pane. e furono sazi. Tutti gli altri pani non danno la vita e non saziano. Sono pani di maledizione, sudati nel duro lavoro (Sal 127,2; cf Gn 3,19). Questo invece è il pane di benedizione, il dono del Padre ai figli, condiviso dai fratelli. Solo l’amore è pane che sazia. Oggi abbiamo sovrabbondanza di pane che non fa che aumentare la fame. v. 43 e levarono dodici ceste. Il numero dodici indica totalità: dodici sono gli apostoli, le tribù d’Israele e i mesi dell’anno. Questo pane che sembrava così poca cosa, sazia tutti e non finisce mai. Cresce a chi lo sottrae a sé, si moltiplica per chi lo divide, e chi più ne dà più ne ha, avanzandone per tutti e per sempre. È l’amore, che non avrà mai fine (1Cor 13,8). A differenza della manna, va raccolto, perché non perisce. È il pane di vita eterna (cf Gv 6,48-59). v. 44 Ed erano quelli che mangiarono cinquemila. Mangiare questo pane significa vivere di Gesù e come lui. Cinquemila è appunto il numero della comunità primitiva (At 4,4), della quale si dice che viveva nella quotidianità ciò che celebrava nell’eucaristia. La vita del Figlio, data per loro, diventava lode del Padre e condivisione coi fratelli (cf At 2,42-48; 4,32-35). 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: nel deserto, che alle piogge primaverili si ammanta di verde. 3. Chiedo ciò che voglio: capire e gustare questo pane che il Signore offre. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

compassione pecore/pastore ora tarda deserto comperare da mangiare dare da mangiare pane

levare gli occhi benedire spezzare dare offrire essere sazi dodici ceste

4. Passi utili: 2Re 4,42-44; Is 25,6 ss; 55,1-3; Sal 23; 145; At 2,42-48; 4,32-37.

33. CORAGGIO, IO SONO, NON TEMETE! (6,45-56) 45

E subito costrinse i suoi discepoli a entrare nella barca e a procedere di là, verso Betsaida, mentre lui rimanda la folla. 46 E, separatosi da loro, se ne andò sul monte a pregare. 47 E, fattasi sera, la barca era in mezzo al mare e lui solo sulla terra. 48 E vedendoli provati nel remare, infatti il vento era loro contrario, sulla quarta veglia della notte, viene verso di loro camminando sul mare, e voleva oltrepassarli. 49 Essi, vedendolo camminare sul mare, pensarono che era un fantasma, e alzarono un grido. 50 Tutti infatti lo videro e furono turbati. Ora egli subito parlò con loro e dice loro: Coraggio, Io Sono, non temete! 51 E salì da loro nella barca e cadde il vento. E rimanevano in sé oltremodo stupiti. 52 Infatti non avevano capito il fatto dei pani, ma il loro cuore era indurito. 53 E, attraversato, approdarono a Genezaret e ormeggiarono. 54 E, usciti dalla barca, subito lo riconobbero, 55 e corsero per tutta quella regione, e cominciarono a portargli in barelle quelli che stavano male, ovunque udivano che si trovasse. 56 E, ovunque arrivava, in villaggi o città o campagne,

mettevano i malati sulle piazze, e lo pregavano di toccargli almeno la frangia del vestito. E, quanti lo toccavano, erano salvati. 1. Messaggio nel contesto “Coraggio, Io Sono, non temete!”, dice Gesù al discepoli che lo credono un fantasma. Non hanno capito il fatto dei pani, perché hanno il cuore indurito, commenta l’evangelista. Per questo non sanno riconoscere in colui che cammina sul mare lo stesso Gesù che ha “dormito” in esso (4,38). Questo brano ci dice l’identità misteriosa del pane. È il Signore che appare ai suoi come il Dio creatore e liberatore, dominatore del caos e salvatore dall’abisso. Egli si manifesta dicendo il Nome rivelato a Mosè: “Io Sono” (Es 3,14). Essi vedono la gloria di JHWH sulle acque, e il suo sentiero rimase invisibile (Sal 77,20). Dopo le parabole ci fu una prova per verificare se avevano capito la Parola - il Cristo che dormendo agisce, come il chicco che morendo porta frutto (4,35 ss). Ora, dopo il cibo del deserto, c’è questa prova per verificare se hanno capito il Pane - il Signore crocifisso e risorto, vincitore della morte che credeva di averlo vinto. Ma i discepoli non “sanno discernere il corpo di Cristo” (1Cor 11,29). Il vangelo, ovviamente, è scritto per quella barca che è la Chiesa. Essa, in assenza dello Sposo, è chiamata a riconoscerlo presente e operante nel pane che spezza in sua memoria. L’eucaristia non è semplice condivisione e fraternità - un amore vago e indefinito, un fantasma che ricorda il caro estinto! Il pane, per la sua parola nell’ultima cena, è lui stesso, il Signore che si dona totalmente a noi nel suo amore. Per fede lo riconosciamo in tutta la sua potenza salvifica, e in lui e per lui la nostra vita diventa un “sì” al Padre e ai fratelli. Questo dono e questa risposta di amore non sono un’illusione. È “Io Sono”, JHWH. Infatti “Dio è amore, e chi sta nell’amore, dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1Gv 4,16). Capire il pane significa nutrirsi di Cristo, assimilati a lui, Figlio del Padre e fratello di tutti. Chi mangia questo pane “dimora in me ed io in lui”, dice Gesù (Gv 6,56). Noi siamo in lui e lui in noi, in un’identica vita e in un unico Spirito, che ci pone a servizio gli uni gli altri, lavandoci reciprocamente i piedi e amandoci come lui ci ha amato. I discepoli sulla barca sono in difficoltà perché non hanno capito questo (v. 52). Il motivo è la durezza di cuore, le cui cause verranno dette in seguito. Il fatto dei pani non è capito dovunque si celebra l’eucaristia senza l’ascolto, l’obbedienza, l’amore, la condivisione e la lode di cui testimonia la prima comunità di Gerusalemme (At 2,42-48). Ai discepoli fa da contrasto la folla. Subito riconosce il Signore, lo tocca con fede ed è salva. Gesù è il Signore creatore e salvatore. È “Io Sono”, sempre con i suoi, anche dopo aver dormito sulla barca ed essersi assentato da solo sul monte. La loro fatica e difficoltà dipende dal fatto che non lo riconoscono nell’unico pane (8,14). Dando corpo alle loro fantasie, scambiano il suo stesso corpo per un fantasma. I discepoli sono sulla barca, ossia la Chiesa. Di notte, in mezzo al mare, in sua assenza e con vento contrario, non riescono a raggiungere l’altra sponda. La loro forza è il Signore. Al suo apparire, subito si fa giorno, cessa il vento e arrivano. Il seguito della sezione sarà diagnosi e terapia della sordità e cecità del nostro cuore, che ci impedisce di riconoscerlo nel pane.

2. Lettura del testo v. 45 subito costrinse i suoi discepoli. I discepoli prima volevano licenziare la folla per non deluderla. Ora non vogliono più staccarsene, e sono delusi che il Signore non li tenga con sé a mietere il successo. Gv 6,15 dice che volevano farlo re. Che piacere per loro e che opportunità per lui! È la tentazione del pane, attraverso cui conquistare il potere. Ma Gesù ha già smascherato e vinto satana nei quaranta giorni di lotta. Ora “costringe” con forza i suoi discepoli recalcitranti a imbarcarsi, per evitare loro di cadere nella trappola. Ancora qualche moltiplicazione di pane, e avrebbero conquistato la folla- poi avrebbero potuto trionfalmente marciare su Gerusalemme e, finalmente, instaurare il Regno! rimanda la folla. Non è impossibile che Gesù abbia rimandato la folla chiarendo l’equivoco con parole dure, come Giovanni riferisce che fece il giorno dopo a Cafarnao. “Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?”, gli diranno (Gv 6,60). Essi infatti lo cercano non perché hanno capito il segno, ma perché desiderano il pane (Gv 6,26). Vogliono il dono e non il donatore. Non sanno che lui stesso è il dono! v. 46 se ne andò sul monte a pregare. Marco ci presenta tre volte Gesù in preghiera notturna, e sempre in momenti di prova. A Cafarnao ci fu il primo disaccordo coi discepoli (1,35 ss): qui, sul lago, diventa loro irriconoscibile; più tardi, sul monte degli Ulivi, sarà abbandonato da tutti (14,32 ss). La solitudine sul monte, in dialogo col Padre, gli dà luce e forza per proseguire la sua scelta battesimale, quella del Figlio prediletto. Ma lo separa abissalmente da noi. v. 47 fattasi sera, la barca, ecc. È notte. I discepoli sono in balla delle onde. Il Signore è assente, in una distanza inaccessibile, sul monte, vicino al Padre. E noi ci sentiamo abbandonati, nel vano tentativo di raggiungere con le nostre forze la sponda alla quale lui ci ha inviati. v. 48 vedendoli provati nel remare. Lui vede la nostra fatica. Da soli non ce la facciamo. Ma lui dov’è? Quand’era con noi, dormiva (4,35 ss): ora, peggio, sta lontano. Ma lui veglia, come un’aquila la sua nidiata (Dt 32,11). il vento era contrario. Il vento (= spirito) contrario è causa della fatica improba e inutile. I discepoli, pur avendo mangiato il suo pane, sono ancora sotto la spinta dello spirito opposto, quello del mondo. sulla quarta veglia della notte. È l’ultima parte della notte, dalle tre alle sei del mattino. È il buio più pieno, prima dei bagliori antelucani. È l’ora della stanchezza e della disperazione, soprattutto per chi ha vegliato e faticato tutta la notte. Sarà anche l’ora della risurrezione. viene verso di loro. Il Signore interviene solo quando noi diciamo: “Basta”. Non può farlo prima, solo perché noi non glielo permettiamo. Comunque è certo che ci viene sempre incontro. Sa che senza di lui non possiamo fare nulla (Gv 15,5). camminando sul mare. La volta precedente, nel suo sonno in barca, andava a fondo; ora, nel suo vegliare, cammina sull’acqua. È un’immagine della vittoria sulla morte e sull’abisso, frutto del suo dormire, apparente sconfitta. voleva oltrepassarli. È la gloria di Dio, che va oltre (Es 33,22); è il Signore che passa, e salva i suoi (Es 12,13).

v. 49 pensarono che era un fantasma. Lo credono lo spettro di un morto, uno spirito, un’illusione, come nel giorno di pasqua (Lc 24,39). alzarono un grido. Hanno terrore mortale. v. 50 Tutti lo videro. Come il Signore risorto, è visto ma non riconosciuto. La paura chiude gli occhi e proietta sulle palpebre le sue fantasie scambiate da noi per realtà. Coraggio. È il contrario della paura, che già una volta hanno avuto in barca (4,38). Io Sono. È il nome JHWH, con cui Dio si rivelò a Mosè (Es 3,14). non temete. L’uomo non conosce Dio e da sempre ha paura di lui, che sempre gli dice: “Non temere”. v. 51 salì da loro nella barca. In sua assenza tutto sembrava finito. Ma ora è con loro, come colui che è rimasto da solo con il Padre, ed è venuto loro incontro camminando sul mare. cadde il vento. La sua presenza fa tacere automaticamente lo spirito contrario. v. 52 noni avevano capito il fatto dei pani. È la spiegazione che l’evangelista dà per la sua Chiesa. Essa si trova in difficoltà nel suo viaggio perché non ha capito che il pane che Gesù le dà è lui stesso. L’eucaristia è la forza del suo cammino, nella misura in cui riconosce in essa il suo Signore morto e risorto, mangiando e vivendo di lui, che ha vissuto per il Padre e per i fratelli. Chi ne fa un semplice rito, non discerne il corpo del Signore (1Cor 11,29). Ritenendolo un fantasma, invece della potenza della fede, sperimenta l’illusione e la delusione della magia. il loro cuore era indurito. La prerogativa dei nemici di Gesù passa ora ai discepoli (cf 3,5; 8,17). Il cuore indurito sarà causa della sua morte. Ma proprio così il seme diventerà pane, cibo di misericordia per tutti. Il brano seguente parlerà di questo cuore calcificato, di pietra (cf Ez 36,26). v. 53 E, attraversato, ecc. Con lui si approda subito! v. 54 E subito lo riconobbero. A differenza dei discepoli! v. 55 e corsero, C’è un mare di miseria che si riversa su Gesù, abisso di misericordia. v. 56 quanti lo toccavano, erano salvati. Ritorna il tema del toccare che salva (c. 5). 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: sul mare, nell’ora più fonda della notte; e poi sulla riva del lago. 3. Chiedo ciò che voglio: donami, Signore, un cuore di carne, perché ti riconosca nel pane che mi hai dato e ne sperimenti la potenza nella fede. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

costringere

coraggio

monte pregare fattasi sera vento contrario camminare sul mare oltrepassare fantasma

Io Sono non temete capire il fatto dei pani cuore indurito toccare essere salvati

4. Passi utili: Es 3,13-15; Sal 77; 1Cor 11,17-33; At 2,42-48; 4,32-37; Mc 4,35-41.

34. IL LORO CUORE È LONTANO DA ME (7,1-23) 71 E si riuniscono da lui i farisei e alcuni degli scribi venuti da Gerusalemme. 2 E, vedendo alcuni dei suoi discepoli mangiare i pani con mani immonde, ossia non lavate, 3 i farisei infatti e tutti i giudei non mangiano se prima non si sono lavati le mani fino al polso, tenendo la tradizione degli antichi; 4 - e, venendo dal mercato, non mangiano senza essersi aspersi, e molte altre cose ci sono che tengono per tradizione, abluzioni di calici, orci e vasi di rame 5 e lo interrogano i farisei e gli scribi: Perché i tuoi discepoli non camminano secondo la tradizione degli antichi, ma mangiano il pane con mani immonde? 6 Ed egli disse loro: Bene profetò Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me. 7 Ma a vuoto mi venerano insegnando insegnamenti, precetti di uomini. 8 Lasciando il comando di Dio, tenete le tradizioni degli uomini.

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E diceva loro: Bellamente trascurate il comando di Dio per osservare la vostra tradizione. 10 Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre. e: chi maledice il padre e la madre, finisca a morte. 11 Ma voi dite: Se uno ha detto al padre o alla madre: Korban - ossia dono - quanto da me ti può spettare, 12 non lo lasciate più far niente per il padre o la madre, 13 annullando la parola di Dio con la vostra tradizione che vi siete tramandata. E di cose simili a queste, ne fate molte. 14 E chiamata di nuovo a sé la folla, diceva loro: Ascoltatemi tutti e intendete. 15 Non c’è nulla da fuori dell’uomo che, entrando in lui, lo può rendere immondo; ma le cose che escono da lui, sono quelle che rendono immondo l’uomo. 16 (Se qualcuno ha orecchi per ascoltare ascolti). 17 E quando entrò in casa, lontano dalla folla, i suoi discepoli lo interrogavano sulla parabola. 18 E dice loro: Così anche voi siete privi di senno? Non capite che tutto quel che dal di fuori entra nell’uomo non può renderlo immondo, 19 perché non gli entra nel cuore, ma nel ventre, ed esce nella latrina? purificando tutti gli alimenti. 20 Diceva poi: Ciò che esce dall’uomo, quello rende immondo l’uomo. 21 Da dentro infatti, dal cuore degli uomini, escono i cattivi pensieri, fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, 22 cupidigie, malizia, inganno, dissolutezza,

occhio cattivo, bestemmia, superbia, stupidità. 23 Tutte queste cose cattive escono dal di dentro e rendono immondo l’uomo. 1. Messaggio nel contesto “Il loro cuore è lontano da me”, dice il Signore. Per questo è duro, e non capisce il pane. Le parole di Isaia, che Gesù rivolge al farisei, Marco le indirizza alla Chiesa. Ciò che tiene lontane da Dio le persone buone sono le “tradizioni religiose” staccate dall’amore, loro sorgente. L’uomo, anche se non lo sa, è sempre tradizionalista e abitudinario. Non deve inventare ogni volta atteggiamenti o risposte adeguate. Si affida al consueto, a ciò che già è stato fatto e ha appreso. Vive insomma di memoria. Ma il cristiano rompe con il passato, perché vive di una novità inaudita: la memoria del corpo e del sangue del suo Signore consegnato a lui nel pane. Questo mistero di amore è la “sua” tradizione, che ha ricevuto e a sua volta trasmette (1Cor 11,23 ss). In Israele il midollo della tradizione è la legge, data da Dio come cammino alla vita. Essa si sintetizza nel comando di amare lui e i fratelli (12,29-31). Come si vede, è buona, ma nessuno è in grado di osservarla. Per questo convince tutti di peccato. Così, mostrando il male, invita a rivolgersi al medico che può guarire. Ma l’orgoglioso preferisce difendersi. Trascurando la sostanza, si attacca a un’osservanza, talora meticolosa, di certi dettagli, per giustificare se stesso e condannare gli altri. Questo atteggiamento esce in duplice edizione, rispettivamente religiosa e laica. Ambedue hanno in comune la produzione di foglie di fico per coprire la naturale nudità, alla ricerca di una presunta - e intollerante - giustizia davanti a Dio e/o davanti agli uomini. In realtà la vera funzione della legge non è mascherare o guarire dal male, ma evidenziarlo e denunciarlo, per farci sentire il bisogno del perdono e della misericordia. Solo in questo modo conosciamo Dio così com’è e si rivela nel pane: amore gratuito che si dona. L’uso della legge e delle tradizioni come autogiustificazione è insieme effetto e causa della durezza di cuore, che impedisce di riconoscere la realtà di Dio nel pane (cf brano precedente). Il lungo discorso di Gesù si articola in quattro parti: i vv. 1-7 denunciano una religiosità esteriore in cui la legge, degradata a legalismo, è ridotta a parole e tradizioni umane che annullano la parola di Dio. I vv. 8-13 ne danno un’esemplificazione evidente, mostrando come si possa, con una tradizione religiosa, eludere il comandamento più ovvio di Dio, l’amore verso i genitori. I vv. 14-19 dichiarano che tutto il creato è buono, perché fatto per l’uomo. Sono quindi aboliti tutti i tabù e le distinzioni tra bene e male desunte dall’esterno. I vv. 20-23 mostrano il vero principio del male: il cuore dell’uomo, quando non usa delle creature per amare i fratelli. Tutto questo cosa c’entra con il “pane” di Gesù? Non a caso la discussione è centrata su leggi e tradizioni alimentari che impediscono di “mangiare”. In esse si esprime quella durezza di cuore che ci impedisce di vivere l’eucaristia, lui in persona che si dà a noi perché viviamo di lui. Ma noi riduciamo la realtà di questo dono a un fantasma, perché restiamo in una religiosità formale, che osserva tutte le leggi, fuorché quella fondamentale di amare. Nessun peccato allontana da Dio e dal suo pane quanto la pretesa di una bravura religiosa. “Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia” (Gal 5,4). L’autogiustificazione annulla la giustificazione, togliendoci la vera conoscenza di noi stessi come miseria e di Dio come misericordia. Ci spinge a fare di tutto, fino a sforzarci di amare, piuttosto che accettare di essere amati gratuitamente e fidarci di lui. Così il nostro cuore resta duro, morto e calcificato, sordo e cieco all’amore e alla vita. Abbiamo occhi che non vedono, orecchi che non odono (8,18).

Gesù, con il suo “pane”, non solo diagnostica, ma anche ci guarisce dalla nostra sordità e cecità (vv. 3137; 8,22 ss). Gesù è il maestro capace di scrivere nel nostro cuore la legge interiore dell’amore. E lo fa mediante la memoria iterata del suo “pane”, che ci rivela e dona un Dio che ci ama senza condizioni. Il discepolo mangia questo pane e ne vive, anche se immondo. Fonda la sua vita non sulla propria osservanza della legge, ma sulla sua grazia. Deve sempre guardarsi dal legalismo e da tutte le tradizioni - anche sante! - che riducono la realtà del Signore a fantasma. Inoltre accetta tutto il creato come buono, e sa che il male procede dal suo cuore di pietra, ancora incapace di amare. 2.

Lettura del testo

v. 1 farisei e alcuni scribi. I primi osservano la legge, i secondi la conoscono. Questi scribi e farisei, che d’improvviso sbucano da Gerusalemme, servono a farci capire ciò che impedisce di comprendere il fatto dei pani. v. 2 mangiare i pani con mani immonde. Tutta la discussione riguarda il cibo. L’alimento è vita, e viene da Dio. Quello materiale, che perisce, è figura di quello che non perisce: ogni pane è segno di Dio stesso che si dona. Lo si prende quindi non con mani immonde (in greco “comuni”). Lavarsele prima dei pasti, oltre che norma igienica, è anche rito di purificazione, per accostarsi col dovuto rispetto alla fonte incontaminata della vita. Ma ogni rito, quando perde il suo significato, sostituisce la cosa significata e diventa magia. Il ritualismo svuota anche le cose più sante; perfino l’eucaristia, che può essere celebrata per abitudine, per convenienza o addirittura per lucro. È comunque interessante notare che i discepoli, anche se con mani immonde, mangiano. Gli altri invece, con la loro pretesa purezza, non mangiano, e vengono da Gesù smascherati come immondi. vv.3 s i farisei infatti e tutti i giudei, ecc. Marco spiega ai suoi lettori pagani, che stanno a Roma, le norme e le tradizioni ebraiche sui pasti. v. 5 Perché i tuoi discepoli non camminano secondo la tradizione degli antichi? È già la terza volta che si parla di tradizioni e si continuerà a parlarne. Tutto il discorso di Gesù è una contrapposizione tra queste e la parola di Dio. Il vangelo è critico verso tutte le tradizioni. Le mette sempre al vaglio dello Spirito, per discernere se sono conformi o meno alla “tradizione del pane”, norma suprema. Oltre quelle religiose, soprattutto oggi, ce ne sono tante altre: il “si dice”, il “si fa”, con le implacabili leggi dell’avere, del potere, del prestigio, dei mercato, della moda. Tante abitudini, ovvie, scontate e vincolanti. impediscono di osservare l’unica legge dell’amore. v. 6 ipocriti. “Ipocrita” è il nome che nel teatro greco si dà al capocoro. È il protagonista, colui che emerge dal gregge anonimo con i suoi assoli. L’ipocrisia è quindi il desiderio di protagonismo che fa mettere il proprio io davanti a tutto e a tutti, Dio compreso. L’io diventa il proprio piccolo dio, al quale si sacrifica tutto, anche se stessi. Questo peccato, comune a tutti, chiude nell’egoismo, e porta a servirsi degli altri come piedistallo. Talora si presenta in forma capovolta, più sottile ma non migliore: si domina facendo leva sulla propria debolezza per colpevolizzare gli altri. Questo popolo mi onora con le labbra. È citazione di Is 29,13, che denuncia la religiosità fatta di parole e di osservanze rituali esterne.

ma il loro cuore è lontano da me. La vera religiosità è quella del cuore nuovo, che ama Dio e il prossimo. Diversamente è solo ipocrisia e strumento di dominio - imbiancatura esterna di un sepolcro pieno di morte. v. 7 a vuoto mi venerano. Questo culto è diretto al vuoto. Infatti non è rivolto a Dio, bensì all’io. v. 8 Lasciando il comando a Dio, tenete le tradizioni degli uomini. Il legalismo sostituisce il comando di Dio con le tradizioni degli uomini. v. 9 Bellamente trascurate il comando di Dio per osservare la vostra tradizione. Gesù ribadisce la denuncia di questo male, per metterci sull’avviso. Infatti lo facciamo istintivamente, senza malizia o avvertenza. v. 10 ss Mosè disse, ecc. Gesù porta un esempio di abilità con cui riusciamo a fare una legge religiosa che va direttamente contro il comandamento di Dio più ovvio - l’amore verso i genitori anziani e bisognosi. v. 13 annullando la parola di Dio con la vostra tradizione che vi siete tramandata. È veramente impressionante, quasi ossessiva, questa variazione sul tema da parte di Gesù: lasciate il comando di Dio, trascurate il comando di Dio, annullate la parola di Dio con le tradizioni degli uomini, la vostra tradizione, la vostra tradizione che vi siete tramandata. E di cose simili ne fate molte. Signore, tu garantisci che siamo veramente abili nell’imbrogliare noi stessi per non conoscere te. Ti preghiamo di aprirci gli occhi, perché vediamo ciò che tiene il nostro cuore schiavo di sé e lontano da te. Aiutaci a fare un accurato esame di ciò che riteniamo importante, tanto importante da considerarlo ovvio, scontato e sacrosanto, ma che non giova per amare te e gli altri. v. 14 chiamata di nuovo a sé la folla, diceva, ecc. Gesù fa davanti a tutti una dichiarazione, nel desiderio che tutti capiscano. Al discepoli e a chiunque glielo chiede, la spiegherà in privato. v. 15 Non c'è nulla dal di fuori dell'uomo che, entrando in lui lo può rendere immondo. È il principio della libertà cristiana davanti alla natura: tutto il creato è buono, perché opera di Dio, a servizio dell’uomo, suo figlio nel Figlio. È comune anche oggi, più di quanto si creda, ritenere che il male sia nelle cose, e demonizzarle: “Non prendere, non gustare, non toccare” (Col 2,21). ma le cose che escono da lui sotto quelle che rendono immondo Il male invece esce dal cuore dell’uomo, quando usa delle cose in modo scorretto, ossia quando non se ne serve per il suo fine - al quale anch’esse sono subordinate - che è quello di amare Dio e il prossimo. v. 16 (se qualcuno ha orecchi per ascoltare ascolti) (cf 4,23; 8,18). l’invito a riconoscere la propria sordità, in modo da chiedergli la guarigione (7,31 ss). v. 17 i suoi discepoli lo interrogavano sulla parabola. interrogarlo, e sentire la sua risposta (cf 4,10.35).

Chi vuol capire le parole di Gesù, deve

v. 18 Così anche voi siete privi di senno? I discepoli sono nella stessa situazione degli scribi e dei farisei (cf 8.17 s). Anche il loro cuore è lontano da Dio e indurito. Per questo non hanno capito il pane, e scambiato il Signore per un fantasma (6,52).

v. 19 purificando tutti gli alimenti. Questa dichiarazione, molto importante - fu il grosso problema del primo concilio di Gerusalemme (At 15) - segna il passaggio da una legge esterna, fatta di divieti e prescrizioni, alla libertà della grazia e dello Spirito. Gesù, con il suo sangue, ha purificato l’uomo e tutto il creato. Con lui tutto torna ad essere buono e santo, dono del Padre da usare con gratitudine e da condividere coi fratelli. Il cosmo è sdemonizzato: “le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte” (Sap 1,14). v. 20 Ciò che esce dall'uomo, ecc. Il male non viene dal di fuori, perché tutto è buono, ma dal di dentro, dal cattivo uso della nostra libertà - ossia dalle nostre schiavitù. vv. 21 s dal cuore degli uomini escono, ecc. “Ama e fa ciò che vuoi” (Agostino). Il principio dei bene e del male è il nostro cuore buono o cattivo, illuminato dall’amore o accecato dall’egoismo. Per questo la norma ultima di comportamento per fare la volontà di Dio viene dal discernimento, che, tenendo conto anche della legge, ci fa vedere più in profondità se il nostro cuore è mosso da lui o dal nemico. i cattivi pensieri, ecc. È una lista di peccati, alla cui origine sta il cuore dell’uomo, con le sue cattive intenzioni, da cui nascono tutte le cattive azioni. La serie di peccati culmina nella stupidità, propria di chi non distingue il bene dal male, la sinistra dalla destra. Questo peccato, oggi così diffuso, è il peggiore. È l’ottundimento della coscienza. v. 23 Tutte queste cose cattive escono dal di dentro e rendono immondo l'uomo. Sono le opere della carne che la legge denuncia. Chi le compie non erediterà il regno di Dio (Gal 5,21). Rendono l’uomo immondo, separato dalla vita. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: sulla sponda del lago. 3. Chiedo ciò che voglio: chiedo a Gesù di conoscere la mia durezza di cuore, e tutte le mie tradizioni, attaccamenti e abitudini che mi impediscono di vivere la legge dell’amore. 4. Sento rivolte direttamente a me tutte le parole di Gesù, che mi spiega perché il mio cuore è lontano da lui, e non capisce il fatto dei pani. Da notare:

mangiar pane immondo (comune) tradizioni/insegnamenti/precetti di uomini/ annullare la parola di Dio ipocrita cuore lontano da Dio purificare gli alimenti il “cuore” duro come principio di male

4. Passi utili: Dt 4,1-2.6-8; Sal 15; Gn l; Is 29,13; At 10; 15; 1Cor 8,6; Gal 5; Col 2,16-23.

35. NON È BELLO PRENDERE IL PANE DEI FIGLI E GETTARLO AI CAGNOLINI (7,24-30) 24

Ora, levatosi di là, se ne andò verso i confini di Tiro e Sidone. E, entrato in casa, voleva che nessuno lo sapesse; ma non poté nascondersi. 25 Ora subito, udito di lui, una donna, la cui figlia aveva uno spirito immondo, venne e si prostrò al suoi piedi. 26 Ora la donna era greca, di origine sirofenicia. E lo pregava di scacciare il demonio da sua figlia. 27 E diceva a lei: Lascia prima che si sazino i figli; poiché non è bello prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini. 28 Ora essa rispose e gli dice: Signore, sotto il tavolo anche i cagnolini mangiano delle briciole dei bambini. 29 E le disse: Per questa parola, va’: il demonio è uscito dalla tua figlia. 30 E, andata nella sua casa, trovò la bambina gettata sul letto, e il demonio uscito. 1. Messaggio nel contesto “Non è bello prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”, dice Gesù, mettendo alla prova la fede della donna. Essa invece risponde che è bello per i cagnolini prendere almeno le briciole del pane dei figli. Questo suo atteggiamento libera la potenza del Signore che le dice: “Per questa parola, va’: il demonio è uscito dalla tua figlia”. È una parola di umiltà e di fiducia, che, senza scoraggiarsi, riconosce la propria miseria e la misericordia del Padre. Il presente racconto è tutto sul pane dei figli. Sciupato da questi, è raccolto dai cagnolini. Fuori immagine, dice il motivo per cui la salvezza passa da Israele, il popolo dei figli, ai pagani, chiamati “cani” (cf At 13,46). Nessuno può salvarsi da sé con la sua bravura umana o religiosa. La salvezza è l’amore; ma nessuno può amarsi da sé. È sempre grazia dell’altro.

Il pane (= la vita) del figlio è l’amore gratuito dei Padre. Chi, come Israele, vecchio o nuovo che sia, pensa gli spetti per diritto o per dovere, non lo incontrerà mai. Il pagano invece, che si ritiene escluso, è in grado di capire che è dono. Il pane dei figli è il Figlio che ci dà la sua vita. Se i discepoli lo scambiano per un fantasma, questa donna sa che bastano poche briciole per salvare sua figlia. È interessante notare che l’esorcismo è compiuto in assenza di Gesù. Riflette la situazione della Chiesa dopo pasqua, nella quale ormai la sua presenza è riconosciuta dalla fede nel pane. Il brano precedente mostra la durezza di cuore di chi, con la legge, tiene legato il pane. Questo ne mostra la potenza, liberata dalla fede in esso. Essa c’è tra i pagani e manca tra i suoi. Questi hanno trasformato l’eucaristia in abitudine e indifferenza, o addirittura in privilegio che alimenta il proprio orgoglio. Noi, i duri di cuore, ci convertiremo quando accetteremo il pane dei figli come peccatori indegni, e lo condivideremo con tutti i fratelli, senza discriminazioni. La donna pagana, unica finora a mangiarlo, serve a suscitare la gelosia dei figli, perché apprezzino il dono che a loro per i primi è stato offerto (Rm 11,11). Gesù è chiamato per la prima e unica volta “Signore” (cf 5,19 e 11,3 dove è lui stesso a chiamarsi così). Sarà pure un altro pagano a proclamarlo Figlio di Dio (15,39). Non riconosciuto dal suoi, lo è solo dai lontani, che non accampano diritti. Infatti è amore, e, come tale, gratuito e senza condizioni. Chi crede di meritarlo, non lo può ricevere. Ciò che è meritato non è né senza condizioni, né gratuito, né amore. Discepolo è colui che, giudeo o meno, esprime la parola di fede in questo pane dei figli, dato non per merito, ma per pura grazia di Cristo. La fede altro non è che il passaggio, nel nostro rapporto coi Signore, dall’economia dello stipendio a quella del dono. 2.Lettura del testo v. 24 Tiro e Sidone. Le sue polemiche contro la legge lo hanno allontanato dai suoi, che da tempo hanno deciso di ucciderlo (3,6). Così raggiunge i lontani, dando inizio a quella missione tra i pagani che i discepoli continueranno. La persecuzione, più che arrestare, accelera la missione (cf At 8,4; 11,19). voleva che nessuno lo sapesse; ma non poté nascondersi. Gesù cerca il nascondimento. Ma proprio ciò che è nascosto viene alla luce (4,22). v. 25 udito di lui. La fede viene dall’ascolto (Rm 10,17). Ascolto di lui per chi l’ha visto, su di lui per gli altri. venne e si prostrò ai suoi piedi. È un gesto di adorazione. v. 26 greca, di origine siro-fenicia. Questa pagana (greca) e straniera (siro-fenicia) ci viene presentata come modello di fede, complementare a quello dell’emorroissa (c. 5). La donna giudea ottiene il miracolo alla presenza di Gesù, toccato con fiduciosa sicurezza; questa pagana lo ottiene a distanza, in sua assenza, credendo nel pane. La fede in esso sarà il nuovo modo di toccarlo e di entrare in comunione con lui nel periodo della sua assenza, che va dall’ascensione al suo ritorno. Solo alcuni suoi contemporanei ebbero la possibilità di toccarlo fisicamente. Ma questo non li ha esonerati dal doverlo toccare anche spiritualmente, come noi, per ottenere la salvezza. La carne non giova a nulla. v. 27 Lascia prima che si sazino i figli. Gesù è venuto per le pecore perdute della casa di Israele (Mt 15,24). È interessante notare come i figli siano per Matteo le pecore perdute, ossia i peccatori! Anche il

figlio “giusto” potrà saziarsi del pane della misericordia, solo quando si riconoscerà peccatore (cf Lc 15). Questo è il senso della legge e della predicazione profetica in Israele (vedi il libro di Giona). Osserviamo inoltre come Gesù sottoponga la sua missione a limiti di spazio e di tempo, senza strafare con deliri di onnipotenza. Accettando la condizione umana, fa solo ciò che gli spetta, sapendo che altri faranno il resto. il pane dei figli. Dall’invio dei Dodici in poi, si parla sempre di cibo e di pane. Qui si dice che è il pane dei figli! L’eucaristia è la vita stessa del Figlio - il suo corpo e il suo sangue - donata per noi perché ne viviamo. Questo pane non significa qualcosa di vago: è la presenza stessa di Dio che salva, l’Io Sono in mezzo a noi. cagnolini. I pagani erano chiamati “cani” dai giudei. Le persone religiose non hanno mai risparmiato agli altri fratelli dei titoli che certo non tornano a lode e gloria dell’unico Padre! Gesù usa l’espressione corrente, attenuandola un poco con il diminutivo, per mostrare che proprio in quanto indegna questa donna è in grado di capire il pane. Questo racconto capovolge l’equazione cani/figli = pagani/israeliti (discepoli). Infatti si diventa figli non per volontà di carne e di sangue, ma riconoscendo la gratuità dell’amore del Padre nel dono del Figlio. v. 28 Signore. I discepoli lo credevano un fantasma. Questa donna è l’unica che lo riconosce come Signore. i cagnolini mangiano delle briciole dei bambini. In questo caso i figli, per la loro presunzione, hanno lasciato cadere non solo le briciole. Hanno gettato via il pane intero. In 6,5 si dice che Gesù a Nazaret non poté compiere prodigi, perché non trovò fede. Questa donna crede che basta un poco di questo pane per saziare tutti i cagnolini (pagani) e liberare sua figlia dal male. Essa ha veramente fiducia in colui che apre la mano e sazia la fame di ogni vivente (Sal 104,28; 145,16), non dimenticando neanche i piccoli del corvo che gridano a lui (Sal 147,9; cf Lc 12,24). v. 29 Per questa parola, ecc. Secondo Gesù, è la parola della donna che salva la piccola: è la parola di fede nel pane, riconosciuto come dono del Padre che non può essere negato a nessuno dei suoi figli, israelita o pagano che sia. Questa fede è insieme conoscenza di sé come cagnolini, cioè indegni, e di lui come amore che sazia tutti per pura grazia. Questa, in Marco, è l’unica opera che Gesù compie in sua assenza; e la fa attraverso la potenza della “parola” di chi capisce e riconosce questo pane. È l’anticipo di ciò che sarà la norma nella Chiesa postpasquale: la parola-seme del c. 4 è germinata in parola-pane, che nella fede si fa vita e salvezza per tutti. Gesù dice a questa donna con ammirazione: “Davvero grande è la tua fede” (Mt 15,28). v. 30 andata nella sua casa, ecc. Essa non dubita. È sicura e torna a casa lodando il Signore. la bambina. Colei che era tra i cagnolini, in forza della fede nel pane dei figli, è ora tra i piccoli che se ne saziano. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo immaginando la casa dove Gesù si nasconde, nei territori di Tiro e Sidone.

3. Chiedo ciò che voglio: capire quanto è bello prendere il pane dei figli. Chiedo le disposizioni per gustarlo: la fede, con la conoscenza della mia indegnità e della gratuità del dono. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

casa prendere il pane dei figli cagnolini Signore parola il demonio esce

4. Passi utili: Is 56,1.6-7; Giona; Sal 100; 145; 147; Rm 11.

36. EFFATHÀ, CIOÈ: APRITI! (7,3 1-37) 31

E di nuovo, uscito dal confini di Tiro, venne per Sidone verso il mare di Galilea, sul mezzo dei confini della Decapoli. 32 E gli conducono un sordo farfugliante e lo pregano di imporgli la mano. 33 E, portandolo lontano dalla folla, in disparte, gli mise le proprie dita nel suoi orecchi e con la saliva gli toccò la lingua. 34 E, levati gli occhi al cielo, gemette e gli dice: Effathà, cioè: Apriti! 35 E subito si aprirono i suoi orecchi e si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. 36 E comandò loro di non dirlo a nessuno; ma, quanto più lo ordinava loro, tanto più abbondantemente essi proclamavano. 37 Ed erano oltremodo sconvolti, dicendo: Ha fatta bella ogni cosa, anche i sordi fa udire e i muti parlare. 1. Messaggio nel contesto

“Effathà, cioè.- Apriti,, dice Gesù al sordomuto. E l’orecchio chiuso si apre all’ascolto della sua voce, la lingua legata si scioglie per dire la parola che salva. Dio è invisibile. Ogni immagine che di lui ci facciamo è un idolo. L’unico suo vero volto è quello del Figlio che lo ascolta. La parola distingue l’uomo dagli animali. Egli non appartiene a una specie determinata, ma determina la sua specie secondo ciò che ascolta. Infatti di sua natura, non è ciò che è, ma ciò che diviene; e diviene la parola a cui presta orecchio e dà risposta. Dio è parola, comunicazione e dono di sé. L’uomo è innanzitutto orecchio, e poi lingua. Ascoltandolo è in grado di rispondergli: entra in dialogo con lui e diventa suo partner, unito a lui e simile a lui. La religione ebraico cristiana, anche se ama il Libro, non è un feticismo della lettera. È religione della parola e dell’ascolto, cioè della comunione con chi parla. Per questo essere sordomuti è il massimo male. Nel brano precedente la donna ha “ascoltato” su Gesù, e ha “detto” la parola che salva. I discepoli invece hanno orecchi e ancora non intendono (vv. 16-18; 8,18). Hanno il cuore duro incapace di capire il pane e di professare: “È il Signore”. È il penultimo miracolo della prima parte del vangelo e il terz’ultimo in assoluto. Seguono solo due guarigioni della cecità. Prima c’è l’ascolto della parola, poi l’illuminazione della fede. Chi rimane sordo, non può vedere. Solo il cuore può udire la verità di ciò che si vede. Come tutti i miracoli, anche questo, ancor più esplicitamente degli altri, significa quanto il Signore vuole operare in ogni ascoltatore. Noi tutti siamo sordi selettivi alla sua parola. Essendo creature, come diamo solo ciò che riceviamo, così diciamo solo ciò che abbiamo udito. Gesù è il medico, venuto a ridarci capacità di ascolto e di dialogo con lui. Questo miracolo ha la struttura dell’esorcismo battesimale in uso dalla Chiesa antica fino ai nostri giorni. La guarigione, come quella successiva (8,22 ss), è in due rate. Corrispondono alle due parti del vangelo di Marco e ai due misteri di Gesù, che è insieme il Cristo e il Figlio di Dio - l’atteso che realizza la nostra attesa in modo inatteso. Il segreto messianico si va sciogliendo, perché il suo pane ci mette ormai, in modo inequivocabile, di fronte alla sua verità. Ma nessuno più la intende né vede. A lui non resta che guarire la nostra sordità e cecità riconosciute. In questo racconto vediamo anche le tappe del nostro itinerario di fede. Ciascuno è chiamato a ripercorrere personalmente con Gesù lo stesso cammino del popolo di Israele, raffigurato in questo sordo farfugliante. Gesù è proclamato come colui che “ha fatto belle tutte le cose: fa udire i sordi e parlare i muti”. La seconda affermazione lo riconosce palesemente come il messia salvatore (Is 35,4 s), mentre la prima lo riconosce velatamente come il Dio creatore, che fece tutto e vide che era bello (Gn 1,3.12.18.21.25.31). Ci si avvia alla conclusione della prima parte del vangelo, che sfocerà nella confessione di Pietro (8,29), e si prelude anche il tema della seconda, che culminerà nell’affermazione del centurione (15,39). Il discepolo, come tutti, è divoratore di tante chiacchiere, ma sordo e inespressivo davanti alla Parola che lo fa uomo. Gesù lo guarisce perché possa far parte di quel popolo che sente e risponde a colui che gli dice: “Ascolta Israele, amerai il Signore ecc. “ (12,29 = Dt 6,4 s). 2. Lettura del testo v. 31 Tiro/Sidone/Decapoli. Siamo in piena zona pagana. Marco, come Paolo, sottolinea il privilegio dei lontani. L’amore può essere accolto solo da chi non lo merita. Chi lo merita, lo riduce a meretricio. Ci accostiamo a Dio non nell’apice della nostra perfezione, ma nelle nostre zone di infedeltà. Da qui passa e ripassa il cammino di chi viene a salvarci. Il luogo della fede è la nostra incredulità.

v. 32 gli conducono. Non può andare da Gesù, perché non ne ha potuto sentir parlare, anche se l’exindemoniato l’ha già annunciato (5,20). Altri lo conducono. Non si dice chi. Tutto infatti porta a Cristo. Tutto, creato in lui e da lui, tende a lui, vita di tutto ciò che esiste (Col 1,15; 1Gv 1,3 s). Inoltre chi lo ha già sperimentato è necessariamente inviato al fratelli (5,19). un sordo. Ogni uomo, fin dal principio, è sordo alla parola di Dio che lo fa figlio e gli dice: “Ascolta, amami; perché io ti amo” (Dt 6,45). Infatti ha prestato ascolto alla menzogna di satana, che l’ha chiuso in sé e agli altri, tagliandolo fuori dalla sorgente d’acqua viva (Ger 2,13). Sordo in greco significa anche “ebete, tonto”. L’uomo che non intende la Parola, rimane inebetito e intontito. Ignorando ciò che Dio ha preparato per quelli che lo amano (1Cor 2,9), gli sfugge il perché profondo e unificante di tutto. farfugliante. In greco c’è “moghilalo”, che indica uno che parla poco, con difficoltà e male: ha la lingua inceppata e impedita. Infatti chi non ascolta, non è in grado di parlare. Farfuglia e mugola suoni inarticolati: ha la capacità di parlare, ma gli manca la parola udita. Il dialogo col Signore è l’espressione piena della fede (cf 5,30-35), in cui diciamo la parola che ci salva (v. 29). Ascoltare e rispondere a lui è la nostra vita specifica di uomini creati a sua immagine e somiglianza. Infedeli, sordi e muti! Questo è il punto di partenza della fede, il luogo privilegiato dove può essere donata. e lo pregano. La preghiera altrui è la prima mediazione della fede. Il sordo non ha modo per pregarlo. Davanti a Dio è grande la nostra responsabilità nei confronti di tutti gli uomini che sono ancora sordi. di imporgli la mano. Indica la comunione salvifica con Gesù, punto d’arrivo della fede. Questa, anche se mediata dall’intercessione altrui, rimane sempre un contatto personale e diretto con lui, che opera con tappe successive. Imporre le mani su un altro, significa trasmettergli le proprie capacità e i propri poteri. v. 33 portandolo lontano dalla folla. È la prima azione del Signore. Come portò Israele con ali di aquila fuori dall’Egitto, così porta ciascuno fuori dalla terra della propria schiavitù. L’uomo, sordo per il frastuono e per la folla delle proprie occupazioni, rimane come i suoi idoli che hanno orecchi e non odono, hanno bocca e non parlano (Sal 115,5). L’esodo e il silenzio, condizioni per l’ascolto, sono la prima tappa del cammino di fede. L’uscita più difficile è quella dal proprio io; il silenzio più duro quello delle proprie preoccupazioni. in disparte, gli mise le proprie dita nei suoi orecchi. A Israele nel deserto diede la sua parola. Ora, in privato, apre l’orecchio perché possa ascoltarla. Quest’operazione delicata è compiuta non con il braccio o la mano, ma con le dita, come l’artista che cesella 1’opera plasmata con le mani. Nel silenzio e nel deserto il Signore ci lavora con la sua parola, modellando lentamente il nostro vero volto a immagine del Figlio. L’ascolto è la seconda tappa del cammino di fede - ascolto diuturno e paziente, che ci trasforma in sua icona vivente. Come possono tanti credenti in Cristo dichiararsi cristiani se non si dedicano ad ascoltarlo? Chi professa la fede cristiana, è di professione un ascoltatore di Gesù. È consolante quando nelle chiese, invece di tante parole di uomini - spesso stupide - si sente circolare con semplicità e freschezza la parola di Dio. con la saliva gli toccò la lingua. La saliva, quasi concrezione del soffio, è simbolo dello Spirito. La lettera da sola non basta: uccide (2Cor 3,6), dichiarando il nostro male. Ma la parola del Signore, fattasi pane, ha in sé lo Spirito che dà vita. Tra l’ascoltare e il fare c’è di mezzo il dono dello Spirito, che dà la forza di fare ciò che si è capito. È la terza tappa del cammino di fede, legata all’ascolto in preghiera.

v. 34 levati gli occhi al cielo. Come nel fatto dei pani (6,41), Gesù alza gli occhi. Il dono dello Spirito infatti viene dal pane, dal suo amore che dà vita per farsi nostra vita. gemette. Questo dono è doloroso e angustiante per il Signore. Tutta la creazione gli è costata solo una parola - più un semplice soffio per l’uomo. Ma darci un cuore nuovo gli costa la vita. Questo gemito prelude l’alto grido dalla croce (15,34.37). Effathà, cioè: Apriti. C’è una resistenza da vincere, peggiore del nulla: è la porta invalicabile del nostro cuore di pietra, chiuso nella paura e nella diffidenza. Se grande è la nostra resistenza, ancora più grande è la sua potenza. “Quando sarò elevato, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Nell’azione di Gesù, come nei sacramenti che la prolungano, al gesto si accompagna la parola efficace. Essa apre il nostro cuore, perché lasci entrare la luce del Signore. Anche se non lo conosce, addirittura lo teme quando lo intravede (vedi gli esorcismi!), in fondo non attende altro, perché fatto per lui. v. 35 E subito si aprirono i suoi orecchi. Il suo gemito - la parola della croce - è capace di vincere ogni chiusura e guarirci dalla sordità. si sciolse il nodo della sua lingua. Uno è muto perché sordo. Se ascolta, può finalmente parlare. Il nostro dialogo è frutto di ascolto. e parlava correttamente. Il sordo farfugliante diventa uno che sente e risponde, capace di relazione. Questa è la fede, che mette in comunione con lui da persona a persona, da amico ad amico. Il suo parlare “corretto” allude alla possibilità di un parlare scorretto. Sarà quello di Pietro, vero ma ancora inadeguato (8,29-33). Anche il cieco, per giungere a una vista perfetta, totale, penetrante e “telescopica” (8,25), avrà bisogno di un secondo intervento. v. 36 E comandò loro di non dirlo a nessuno; ma ecc. Il segreto di Gesù comincia ormai a sciogliersi. I sordi e i ciechi guariti lo proclamano. Rimane oscuro solo per quanti, non comprendendo ancora di essere sordi e ciechi, non si lasciano guarire. Chi esperimenta la salvezza di Dio, non può non raccontare. Trasgredisce il divieto, che vale per me, finché non l’avrò sperimentata anch’io. v. 37 erano oltremodo sconvolti. È lo stupore di chi conosce “Io Sono” ormai presente in mezzo a loro. E lo loda, cantandogli la bellezza delle sue opere. Ha fatto bella ogni cosa. Gesù è il Signore, il Dio creatore, che ha fatto bella ogni cosa (Gn 1,3.12.18.21.25.31). Quando l’uomo ascolta il suo Signore e gli risponde, tutta la creazione torna bella. Nasce il mondo nuovo, come Dio l’aveva pensato dal principio. i sordi fa udire e i muti parlare. Richiama Is 35,5: Gesù è il Cristo, il Salvatore, la nostra speranza, che ci fa uomini nuovi, capaci finalmente di ascoltare e rispondere. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito.

2. Mi raccolgo, immaginando la strada che va da Tiro al lago, attraverso la Decapoli, in terra pagana. 3. Chiedo ciò che voglio: Toccami, Signore, gli orecchi, fammi ascoltare la tua parola. Toccami con la saliva la lingua, donami il tuo Spirito, perché io sappia ascoltare e rispondere a te. Vinci in me tutte le resistenze che mi rendono sordo alla tua chiamata. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

sordo/farfugliante dita negli orecchi saliva sulla lingua gemere levar gli occhi

effathà fa bella ogni cosa fa udire i sordi fa parlare i muti

4. Passi utili: Is 35,4-7a; Sal 115; 146; Mc 9,14-29.

37. HO COMPASSIONE (8,1-10) 81 In quei giorni di nuovo c’era molta folla e, non avendo che mangiare, chiamati innanzi i discepoli, dice loro: 2 Ho compassione della folla, perché già da tre giorni rimangono presso di me, e non hanno che mangiare. 3 E se li rimando digiuni a casa loro, verranno meno nel cammino, e alcuni di loro vengono da lontano. 4 E gli risposero i suoi discepoli: E come potrebbe uno saziarli di pane, qui nel deserto? 5 E chiedeva loro: Quanti pani avete? Ora quelli dissero: Sette! 6 E ordina alla folla di posarsi giù per terra. E, presi i sette pani, rese grazie, spezzò, e dava ai suoi discepoli da offrire; e offrirono alla folla. 7 E avevano pochi pesciolini,

e, benedicendoli, disse di offrire anche questi. 8 E mangiarono e furono sazi, e levarono sette sporte di pezzi avanzati. 9 Erano circa quattromila, e li rimandò. 10 E, subito, salito sulla barca con i suoi discepoli giunse nelle parti di Dalmanuta. 1. Messaggio nel contesto “Ho compassione”, dice Gesù della folla che non aveva da mangiare. E, per vedere se i suoi hanno capito il pane, chiede loro: “Quanti pani avete?”. Tutto il c. 8 è un daccapo del Maestro, una ripetizione perché i discepoli capiscano la compassione del Signore, capace di saziare la fame di ogni uomo. È una variazione sui temi dei cc. 6-7: spezzar del pane, incomprensione, sordità, cecità e durezza di cuore, con relative cause. La soluzione sarà la duplice guarigione del cieco e la duplice confessione, quella di Pietro su Gesù e quella di Gesù su se stesso. Ancora una volta - sempre ancora una volta! - egli dona il pane e rinnova la sua misericordia. La sorgente getta continuamente acqua nuova, perché chiunque ha sete possa dissetarsi. Non si stanca di noi, non si scoraggia della nostra durezza di cuore. Insiste nel suo dono, una, due, infinite volte! Tutta la storia è il tempo della pazienza di Dio. Il suo amore. più ostinato di ogni nostra resistenza, si ripropone continuamente in offerta, esponendosi ad ogni possibile rifiuto. L’eucaristia è il grande mistero di un Dio che ci salva morendo per noi peccatori. Poca meraviglia che ci risulti incomprensibile. Ma il tornare quotidiano a questa memoria, il riportarla ogni giorno al nostro cuore, è la medicina per la nostra sordità e cecità. Questo testo, che può sembrare un doppione della prima condivisione, non è un di più. Infatti la ripetizione è molto importante per noi, che, vivendo nel tempo, siamo sempre in divenire; cresciamo sedimentando lentamente nel cuore ciò che viene giorno dopo giorno, senza che nessun frammento vada perduto. L’illuminazione viene dall’ascolto prolungato, ed è progressiva, a tappe, come la guarigione del sordomuto e del cieco. Per questo continuiamo a celebrare l’eucaristia e lui continuamente ci si dona. Intanto cadono dal tavolo le briciole del pane dei figli. Se ne saziano i cagnolini; e, con loro, tutti quelli che, con umiltà e fede, le raccolgono, quasi rubandole. Questo secondo racconto è più stilizzato del primo. Evidenzia maggiormente la compassione di Gesù espressa da lui stesso - e l’incomprensione dei discepoli. Separando la distribuzione del pane da quella dei pesci, mette in maggior risalto l’aspetto eucaristico. Inoltre i pani sono sette e sette le ceste avanzate - numero perfetto, che corrisponde al sette diaconi della Chiesa degli ellenisti (At 6,3). Le persone che vengono da lontano sono un’allusione ai pagani. Anche per loro è il pane. Anzi, come la sirofenicia, sono i primi a cibarsene. Gesù è la misericordia stessa dei Padre verso i suoi figli. La sua compassione lo porterà a “patire-con” noi il nostro male fino a dare la vita per noi, facendosi nostro cibo e vita. Il banchetto che egli offre, anticipo di quello celeste, è il regno di Dio, vita piena dell’uomo. Il discepolo è richiamato sempre di nuovo a far memoria del suo pane. La nostra ostinazione cederà davanti alla sua pazienza.

2. Lettura del testo v. 1 In quei giorni. È raro che Marco inizi un racconto con queste parole (cf 1,9). Ogni volta che, ascoltando e rispondendo alle parole del Signore, ripetiamo il memoriale del pane, viviamo sempre “in quel giorni” in cui Gesù ce lo ha donato. La celebrazione ci attualizza, ci rende presenti all’evento celebrato. non avendo che mangiare. Mangiare è vivere. E di che cosa può vivere l’uomo se non di Dio? Fatto per diventare come lui, di tutto il resto non può che morire. chiamati innanzi i discepoli, dice loro. Gesù spiega ai discepoli l’origine di ciò che fa. Devono conoscerla perché anch’essi saranno coinvolti in prima persona, offrendo del dono che ricevono per offrire. v. 2 Ho compassione. Nella prima condivisione, lo dice l’evangelista, qui Gesù stesso. La compassione - ebraico hesed o rahamin, che significa viscere, utero - è l’amore materno di Dio che ama perdutamente e senza condizioni, solo perché non può fame a meno. Infatti ci è più madre della stessa madre (Sal 139,13); e, anche se una madre potesse dimenticarsi del frutto delle sue viscere, lui non potrebbe dimenticarsi mai di noi (Is 49,15). Veramente questo alimento manifesta la dolcezza di Dio verso i suoi figli (Sap 16,21)! già da tre giorni. Richiama i tre giorni in cui la sua misericordia lo farà andare molto lontano, sotto terra e negli abissi, per farsi nostro pane. rimangono presso di me. In quei tre giorni egli ha dimorato presso di noi, per poter farci dimorare presso di lui. e non hanno che mangiare. Si ribadisce la mancanza di cibo. v. 3 se li rimando digiuni a casa loro, verranno meno nel cammino. Se lui ci manda via (greco apolyo) senza il suo cibo, tutti si dissolvono (ek-1yo) per strada. Nessuno può fare “il cammino” per giungere “a casa”. Come Elia, abbiamo bisogno della forza del pane donato e ridonato (1Re 19,7). È il pane degli angeli (Sal 78,25), capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto (Sap 16,20). vengono da lontano. I lontani per i giudei sono i pagani. v. 4 E come potrebbe uno saziarli di pane, qui nel deserto? I discepoli non hanno ancora capito il fatto dei pani. Questa ottusità - dopo il primo miracolo - può sorprendere chi non conosce la stupidità propria e altrui. La storia tende a ripetere gli stessi errori, a istruzione solo di chi, accorgendosi a sua volta di ripeterli, non si sente più di condannare nessuno e chiede pietà per sé e per tutti. Già Israele mormorava contro Dio dicendo: “Potrà forse Dio preparare una mensa nel deserto? Potrà forse dare anche pane?” (Sal 78,19.25). v.5 Quanti pani avete? Come nella prima condivisione e poi sulla barca, Gesù richiama l’attenzione sul pane che i discepoli non sanno di avere o trascurano. Lui l’ha dato e sa che c’è; ne conosce anche la potenza. Infatti è lui stesso, la misericordia di Dio che cerca anche chi non lo cerca, dicendo: “Eccomi, eccomi” (Is 65,1).

Sette. È il numero perfetto, che richiama il settimo giorno, compimento della creazione. L’uomo ha un pane che gli sembra poca cosa, ma che diventa capacità infinita, se gettato nelle mani di Gesù. Cosa sarebbe avvenuto se il proprietario se lo fosse tenuto e mangiato da solo? L’abbondanza del dono di Dio passa attraverso la nostra insufficienza messa a sua disposizione. v. 6 ordina alla folla di posarsi giù. La volta precedente aveva ordinato ai discepoli di far sedere la folla. Ora lo fa lui direttamente. presi i sette pani, ecc. Sono le parole che descrivono i gesti dell’ultima cena (14,22 s), quando dirà anche le parole che identificano il pane con il suo corpo dato per noi. Il pane che sazia, ossia il senso della vita, è “prendere” come dono ciò che si ha e si è, ringraziando il Padre e spezzando coi fratelli. Altro pane non fa che accrescere la fame. spezzò. Il pane non è da moltiplicare - chi di noi ne è capace? È solo da dividere - azione semplice, possibile a tutti nella misura in cui si prende ringraziando. dava ai suoi discepoli da offrire. Chi credeva di aver niente, ha ora un pane che continua a ricevere e a dare, inserendolo nel cerchio divino del dono. Gesù si serve dei discepoli per dare il pane. Dio ha bisogno degli uomini, e agisce per mezzo di loro, per renderli come lui, capaci di condividere e di dare. e offrirono alla folla. Grazie a questo pane, possono fare ciò che era loro impossibile. v. 7 avevano pochi pesciolini. I pesci sono nominati a parte, per evidenziare l’aspetto eucaristico. Vivono nell’abisso e muoiono sulla terra per far da cibo agli uomini. Sono figura del mistero di Cristo pane. v. 8 mangiarono e furono sazi. “Mangiarono e furono sazi, li soddisfece nel loro desiderio”, dice il Sal 78,29 a proposito di Israele nel deserto. Questo cibo fa vivere e dà sazietà, a differenza degli altri che lasciano morire e perciò non saziano. “Sfamasti il tuo popolo con un cibo degli angeli. Dal cielo offristi loro un pane già pronto, senza fatica, capace di procurare ogni delizia e di soddisfare ogni gusto. Questo tuo alimento manifestava la tua dolcezza verso i tuoi figli, esso si adattava al gusto di chi lo inghiottiva, e si trasformava in ciò che ognuno desiderava” (Sap 16,20 s). Per questo, Signore, oltre il pane, dacci anche buon gusto e grandi desideri. Che non lo trasformiamo nei nostri fantasmi, ma che ci trasformi in te. Anche per noi cagnolini diventi pane che ci fa figli! levarono sette sporte. Sette sono anche i diaconi che servivano gli ellenisti “venuti da lontano” (At 6). Il pane avanzato, anzi spesso sperperato dal figli, va raccolto con cura - non perisca nessun frammento (Gv 6,12) - e dato al cagnolini, perché tutti riempiano il loro ventre, e ne avanzino per i loro figli (Sal 17,14). v. 9 Erano quattromila. Rispetto alla prima, in questa seconda condivisione il numero dei pani è maggiore e quello degli sfamati minore. Mangiano di più, perché hanno più fede - dice Gerolamo. Possiamo anche dire che, in questa ripetizione, come in ogni altra, il cibo è più abbondante, ma minore è il numero di chi ne approfitta. Inoltre quattromila è quattro (come i punti dell’orizzonte) e mille (moltitudine): è una moltitudine che abbraccia la totalità della terra, i cui abitanti sono tutti figli di Dio, invitati alla mensa del Padre.

e li rimandò. I discepoli avrebbero voluto congedarli prima e trattenersi dopo (6,36-45). Gesù fa il contrario: li trattiene prima e li congeda dopo. Non vuol dominarli con il pane; solo li serve e poi li fa camminare. E lui stesso continua il suo cammino, alla ricerca di ogni fratello lontano e affamato. v. 10 salito sulla barca. Gesù va e viene continuamente dalla sponda del pane a quella opposta. Viene verso tutti, per invitare tutti ad andare nel deserto con lui, dove li sazia. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo immaginando il deserto, dove le folle hanno seguito e ascoltato Gesù per tre giorni. 3. Chiedo ciò che voglio: comprendere che il pane dell’uomo è la compassione del Signore, che mi ha amato e ha dato se stesso per me. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

mangiare compassione da lontano deserto

sette pani prese/rese grazie/spezzò/ dava da offrire essere sazi

4. Passi utili: Dt 6,6-9; Sap 16,20-29; Sal 78; 119 (sostituendo in ogni versetto il termine Parola, legge e sinonimi con “pane”).

38. NON SARA DATO NESSUN SEGNO (8,11-13) 11

E uscirono i farisei e cominciarono a discutere con lui, cercando da lui un segno dal cielo per tentarlo. 12 E, gemendo su dal suo spirito, dice: Perché questa generazione cerca un segno? Amen, vi dico: vi assicuro che non sarà dato nessun segno a questa generazione. 13 E lasciandoli, di nuovo salì, e se ne andò all’altra sponda.

1. Messaggio nel contesto “Non sarà dato nessun segno”, dice Gesù subito dopo il fatto dei pani. Le sue parole valgono per “questa” generazione, ossia per ogni generazione. Anche Israele nel deserto pretese un segno indubitabile della sua benevolenza: “È Dio in mezzo a noi, sì o no?” (Es 17,7). Ma chi chiede sempre prove senza mai fidarsi, instaura un meccanismo di ricatto che allontana sempre più dall’amore. La nostra ostinazione a non credere è la croce di Dio: lo tocca sul vivo, lo ferisce al cuore, lo uccide nella sua essenza. Gesù nel suo pane ci ha dato il segno massimo: si è fatto nostra vita, dando la vita per noi. Che altro vogliamo? Non c’è più alto di questo nei cieli, né più profondo negli abissi. Il problema non è che lui dia altri segni, ma che noi guariamo della nostra cecità. I discepoli di sempre hanno il cuore duro. Non capiscono il pane, e scambiano “Io Sono” per un fantasma. Se allo stolto indichi la luna, lui ti guarda la punta dei dito e ti dice che lì non c’è nessuna luna. Gesù è l’indice puntato sulla misericordia di Dio, è anzi la stessa misericordia fattasi per noi pane. Oltre non c’è più niente: è Dio stesso, tutto per noi. Non resta che riconoscere, adorare, gustare e viverne. Il segno ha ceduto totalmente il posto alla realtà significata. La scritta sta solo fuori dal ristorante. E insensato che uno vi entri, e, invece di mangiare, continui a chiedersi perché non c’è più l’insegna. Dentro c’è la tavola imbandita. Gesù non dà più segni. Infatti cessano i racconti di miracoli. Deve solo guarire i nostri occhi perché vediamo. In lui Dio si è espresso pienamente, dandoci tutto ciò che ha ed è, tutto ciò che voleva e poteva donarci: ha dato se stesso. Nell’eucaristia facciamo memoria e rendimento di grazie per questo dono di cui viviamo. L’unico segno ormai è la sua parola sul pane. Chi crede e l’accoglie, entra nella realtà stessa di Dio. Il discepolo, invece di chiedere segni, chieda la capacità di vedere. Se vuole prove, è perché non crede; e allora nessuna prova gli giova. Se crede, avrà segni e ne darà, secondo l’occorrenza. Qualunque segno comunque ha come unico scopo quello di portarci alla fede, ossia a obbedire alla sua parola e riconoscere il suo pane. 2. Lettura del testo v. 11 uscirono i farisei. Non si sa bene da dove sbuchino i farisei in questa misteriosa Dalmanuta, di cui sappiamo solo che è sulla sponda opposta a quella del pane. C’è sempre quest’altra sponda di farisei, anche tra i discepoli in barca. cominciarono a discutere con lui. La nostra durezza di cuore entra in conflitto con Gesù. Siamo sordi selettivi, che capiscono tutto, ma non la sua parola. La nostra lingua è sciolta in tutto, ma tremendamente annodata nel silenzio quando c’è da rispondere a lui. cercando un segno dal cielo. Il segno è qualcosa che indica qualcos’altro. Noi pretendiamo sempre da Dio che ci indichi con azioni concrete il suo favore. Vogliono un segno potente, come quello di Elia che fece venire un fuoco dal cielo e divorò i suoi molestatori (1Re 1,1 ss). Israele a Massa e Meriba mise alla prova la pazienza di Dio, e lo esasperò chiedendogli una prova ulteriore della sua presenza (Es 17,7).

Tutto ciò che esiste mostra la sua potenza e la sua assistenza rivolta a noi! Il problema non è che lui si esibisca in sempre nuove imprese, obbedendo ai nostri capricciosi ricatti senza fine, ma che noi riconosciamo e vediamo il suo amore per noi (1Gv 4,16). C’è chi, mangiando il pane che soddisfa ogni gusto, ancora col cibo sulla bocca, con avidità insaziabile chiede altre prove (Sal 78,29). Egli le darebbe volentieri, se non fossero controproducenti. L’amore infatti è un atto di fede. La richiesta continua di ulteriori garanzie non fa che rimandarlo. Lui ci ha già dato la prova massima, esponendosi per primo e offrendosi senza riserve come nostro pane. Ora aspetta solo che lo accogliamo. Per questo, a chi chiede segni, noi predichiamo Cristo crocifisso (1Cor 1,22). per tentarlo. Tentare Dio è come togliersi l’occhio: non lo puoi più vedere. Egli infatti si lascia trovare da quanti non lo tentano, e si mostra a coloro che non ricusano di credere in lui (Sap 1,2). v. 12 gemendo su dal suo spirito. È un gemito come quello di 7,37. Ora si dice che sale dal profondo, dallo spirito: fino a quando sopporterà la nostra mancanza di fede (cf 9,19)? La nostra incredulità e diffidenza sono l’angustia mortale di Dio che ci ama. Dovrà morire in croce per liberarcene. Solo allora non potremo più dubitare di lui. Perché questa generazione cerca un segno? “Questa generazione” ha sempre un senso negativo ed è ogni generazione. Essa cerca un segno per incredulità, a difesa della propria diffidenza. Amen, vi dico. Dio, quando parla in prima persona, dice: “Amen”. Il profeta, parlando a nome suo, dice: “Parola di Dio”. Gesù parla con l’autorità non del profeta, ma di Dio stesso. non sarà dato nessun segno a questa generazione. Dopo il dono di Gesù, Dio non ha più nulla da dire e da dare: nel suo pane ci ha dato se stesso. Questo è il suo ultimo gesto, che ci schiude tutto il suo mistero d’amore. Qualunque altro segno significava questo, e ha in esso il suo significato pieno. Non può darcene altri, perché nel significato cessa ogni segno. Quando giungo a Milano, cessano le scritte stradali che la indicano a chi ancora sta fuori. Ora può solo aprirci gli occhi. E ci curerà in modo progressivo (vv. 22ss) e a più riprese (10,45 ss), con pazienza e bontà infinita, ridonandoci la sua parola e il suo pane. La nostra cattiveria e ostinazione hanno pure un limite, se non altro la stanchezza. v. 13 E, lasciandoli di nuovo, salì, e se ne andò all'altra sponda. Lì, dove ha appena spezzato il pane, attende anche noi, con tutti quelli che hanno il cuore duro. Per donarsi ancora e sempre, e così aprirci gli occhi. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo immaginando la sponda del lago, dove Gesù discute con farisei e scribi. 3. Chiedo ciò che voglio: gli chiedo di comprendere il dono che mi ha fatto, e di fidarmi di lui invece di continuare a chiedere prove. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

discutere con lui cercare segni tentare

gemere questa generazione nessun segno

4. Passi utili: Es 17,1-7; 1Re 1,1ss; Sap 1,1-3; 1Cor 1,22 ss.

39. GUARDATEVI DAL LIEVITO DEI FARISEI E DAL LIEVITO DI ERODE (8,14-21) 14

E si dimenticarono di prendere pani e non avevano che un unico pane con sé nella barca. 15 E comandava loro dicendo: Vedete! Guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode! 16 E discutevano tra loro che non avevano pane. 17 E, saputolo, dice loro: Perché discutete che non avete pane? Non capite e non intendete ancora? Avete il cuore indurito? 18 Avete occhi e non vedete? Avete orecchi e non udite? E non ricordate, 19 quando spezzai i cinque pani per i cinquemila, quante ceste piene di pezzi levaste? Gli dicono: Dodici! 20 Quando i sette pani per i quattromila, quante sporte piene di pezzi levaste? E (gli) dicono: Sette! 21 E diceva loro: Non capite ancora? 1. Messaggio nel contesto “Guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode”, dice Gesù ai suoi. Il brano è tutto un rimprovero rivolto ai discepoli, un incalzare accorato di sette domande, culminanti nel duplice ricordo del pane e racchiuse tra la messa in guardia contro il “lievito” e la constatazione amara: “Non capite ancora?”. Si nomina sei volte il pane e due i suoi frammenti. I discepoli discutono perché non ce n’è; l’evangelista dice che ce n’è uno solo; Gesù a sua volta parla del lievito dei farisei e di Erode che costantemente lo insidia.

È la terza lezione in barca che Gesù dà al suoi. Nella prima hanno paura di andare a fondo, e sono chiamati ad aver fede in lui che dorme (battesimo). Nella seconda lo pensano un fantasma mentre cammina vincitore sull’acqua, e sono chiamati a riconoscerlo nel pane appena ricevuto come “Io Sono”. In questa terza, come in 7,1-23, vediamo che l’unico pane si scontra con la sordità, la cecità e l’incomprensione nostra. Tutti, nemici o amici suoi, abbiamo il cuore duro. Viviamo infatti non del suo pane, ma del lievito dei farisei e di Erode. Questo tremendo lievito lo ucciderà (cf 3,6!). Ma proprio così sarà confezionato il pane. Nelle altre due scene le burrasche venivano dal mare o dal vento; qui è lui che scatena la tempesta. Non per scoraggiare i suoi, ma per convincerli della loro cecità, in modo che, come il cieco di Gerico, sappiano cosa chiedere a lui che chiede loro: “Cosa vuoi che io ti faccia?” (10,36.51). Infatti chi non sa, non vuole; chi non vuole, non chiede; e chi non chiede, non ottiene. Sapere di essere ciechi è necessario per volere e chiedere la guarigione. “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato”, dice Gesù ai farisei, perché lui guarisce i ciechi; “ma siccome dite: noi vediamo, il vostro peccato rimane” (Gv 9,41). La funzione di questo brano corrisponde alla prima fase del miracolo che segue; vuol farci vedere che non vediamo. Siamo come il cieco che scambia uomini per alberi. Gesù, con le sue invettive sul tipo di quelle dei profeti, ci scuote davanti al mistero del pane, in modo che riconosciamo la nostra cecità davanti a ciò che occhio umano mai non vide né mai entrò in cuore d’uomo (1Cor 2,9). Il discepolo è sempre interrogato dal pane di Gesù, che lentamente lo purifica dal vecchio fermento e gli dona lo Spirito, guarendolo dalla durezza di cuore. 2. Lettura del testo v. 14 si dimenticarono di prendere pani. Gesù aveva detto al discepoli in missione di non prendere pane (6,8). Per dimenticanza, talvolta lo ascoltano! non avevano che un unico pane con sé nella barca. Gesù dalla barca istruisce gli altri; nella barca istruisce i suoi, per la terza volta. In 4,35 lo prendono così com’è, che dorme; in 6,45 ss lo scorgono vincitore dell’abisso, irriconoscibile ai loro occhi; ora lo hanno con sé come unico pane. E il Signore spiega loro ciò che lo distrugge. La Chiesa ha sempre con sé un unico pane, il solo capace di calmare ogni tempesta e colmare ogni fame. Ma ne ignora la forza. v. 15 Vedete! Guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode. L’unico pane non è capito perché insidiato da un duplice lievito, quello dei farisei e quello di Erode. Il lievito, a differenza del seme, si gonfia di morte e non di vita. È principio di corruzione, che rovina la farina. Come tutte le persone mondane, Erode cerca salvezza nell’avere, nel potere e nell’apparire. Come tutte le persone religiose, i farisei cercano salvezza dall’osservanza della legge, forma spirituale, anche più pericolosa, di ricchezza, dominio e orgoglio. Nessuno, discepoli compresi, cerca salvezza nell’amore di Dio che si fa pane - povero, utile e umile. Farisei ed erodiani sono alleati nell’uccidere Gesù (3,6). Ora scopro che anch’io sono con loro. La durezza di cuore ci apparenta tutti. Infatti, davanti a lui che si fa pane nelle mani dei nemici, tra i suoi amici uno lo tradirà, l’altro lo rinnegherà e tutti, scandalizzati, lo abbandoneranno e fuggiranno (14,17.50).

Il lievito è farina andata a male: “Un po’ di lievito fermenta tutta la pasta. Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra pasqua, è stato immolato” (1Cor 5,6-8). La Chiesa non sperimenta la forza dell’unico pane proprio perché non è mossa dallo Spirito di Cristo, ma dal fermento dei farisei e di Erode. La ricerca di autosalvezza religiosa e la brama di cose, di potere e di prestigio sono come la peste a bordo: costituiscono il tremendo lievito, che ci corrompe e ci impedisce di vivere del suo pane. Eppure c’è sulla barca, sempre con noi, anche quando lo dimentichiamo o trascuriamo. v. 16 discutevano tra loro che non avevano pane. La discussione nella Chiesa è sempre segno di mancanza di intelligenza spirituale e porta comunque alla prevaricazione del più prepotente. La verità non ha mai luogo nelle dispute, ma nella conversione e nel discernimento, nell’umiltà e nell’ascolto. L’autoritarismo e l’arroganza possono far evitare le discussioni. Ma è come buttarsi sott’acqua per non bagnarsi mentre piove. v. 17 Perché discutete che non avete pane? Il pane è la vita. Gesù fa questa domanda per richiamare l’attenzione sull’unico pane che dà la vita, a differenza d’altri fermenti che la distruggono. Sulla barca vorremmo abbondanza di pani; nella Chiesa vorremmo ricchezza di giustizia religiosa e di potere mondano, beni tanto ambiti. Per questo non riconosciamo il suo pane di misericordia, che consideriamo insufficiente. Non capite e non intendete ancora? Non capiscono la differenza tra il pane che dà la vita e quello che dà la morte. Hanno il primo, ma desiderano il secondo. E si lamentano perché manca! Avete il cuore indurito? Il cuore “calcificato”, di pietra, impermeabile alla Parola, diventa ora prerogativa dei discepoli. È il sommo male, causa insieme della morte dell’uomo e del suo Signore (3,5). Questo cuore indurito impedisce ai discepoli di riconoscerlo nel pane, facendo scambiare “Io Sono” per un fantasma (6,52). v. 18 Avete occhi e non vedete? Avete orecchi e non udite? (Ger 5,21; Ez 12,2). I discepoli sono come quelli che “stanno fuori” (cf 4,11 s). C’è stretta connessione tra occhi e orecchi: l’occhio è guidato dal cuore, e questo dall’orecchio, sotto la spinta della parola interiore che fa guardare dove prima non si guardava. E non ricordate. La via alla guarigione è il “ricordo” del pane, memoriale della sua morte/risurrezione. Il gigante del peccato è l’oblio: “Guardati dal dimenticare”, ripete il Deuteronomio. v. 19 quando spezzai i cinque pani, ecc. Gesù stesso ricorda loro lo spezzare del pane. Non si sono accorti che ne è avanzato in modo che tutti e sempre ne possano vivere? Gli dicono: Dodici. Sanno tutto. Ma capiscono niente. Sono come chi ha imparato bene il catechismo a memoria. Risposta esatta, ma intelligenza nulla! v. 20 Quando i sette pani, ecc. Il pane non fu dato una sola volta. L’unico pane - capace di saziare tutti con una vita filiale, in rendimento di grazie al Padre e in comunione con i fratelli - è sempre con loro. (gli) dicono: Sette. Sette è il numero perfetto, come è perfetto il pane, cibo della nuova creazione, che fa l’uomo nuovo.

v. 21 Non capite ancora? 0 sublimità della non conoscenza dei discepoli! Tu sai bene, Signore, perché non capiamo ancora. Ma vuoi che anche noi lo sappiamo. Siamo ciechi, e da sempre. Apri gli occhi almeno a qualcuno che ci dica che siamo ciechi. Noi non sappiamo cosa significa vedere. Sappiamo solo cosa significa sbattere dolorosamente contro la realtà e farci male gli uni gli altri. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, immaginando la barca, dove Gesù sta con i suoi discepoli nella traversata del lago. 3. Chiedo ciò che voglio: di vedere la mia cecità e sordità, la mia durezza di testa e di cuore. È una cecità e sordità specifica: riguarda solo l’unico pane. Da notare:

4.

un unico pane lievito dei farisei lievito di Erode perché discutete? non capite e non intendete?

cuore indurito occhi che non vedono orecchi che non odono ricordo del pane non capite ancora?

Passi utili: Is 29,7-12; Ger 5,20-25; Sal 115; 1Cor 5,6-8; 2,6-10.

40. VEDI FORSE QUALCOSA? (8,22-26) 22

E giungono a Betsaida, e portano a lui un cieco, e lo pregano perché lo tocchi. 23 E, afferrata la mano del cieco, lo condusse fuori dal villaggio, e, sputandogli sugli occhi e imponendogli le mani, gli chiedeva: Vedi forse qualcosa? 24 E, guardando in su, diceva: Vedo gli uomini, perché vedo come alberi che camminano. 25 E poi di nuovo gli impose le mani sugli occhi; e vedeva perfettamente, e fu ristabilito, e intravedeva tutto, chiaro e a distanza.

26

E lo inviò a casa sua, dicendo: Non entrare neppure nel villaggio. 1. Messaggio nel contesto “Vedi forse qualcosa?”. È la domanda che Gesù fa al cieco, perché i discepoli intendano. Nel brano precedente li ha persuasi della loro cecità. Sapere di non vedere è già mezza guarigione. Guarirci è per Dio più facile che suscitare Il nostro desiderio di vederci (Gv 9,41). La prima parte del miracolo serve ad evidenziare la necessità del secondo intervento. È lungo curare la nostra cecità: due condivisioni di pani, due viaggi in barca - per tacere degli altri - due interventi sul sordo e ora due sul cieco. Un poco è riuscito nel suo intento: tra breve lo riconosceremo finalmente come il Cristo. Ma sarà una comprensione ancora molto imperfetta, che ignora il mistero profondo del pane. Subito dopo comincerà a dire chiaramente la “Parola”, che il nostro orecchio non vuole ascoltare: è quella adombrata nel seme che muore e porta frutto. Tutta la seconda parte del vangelo sarà scandita da un triplice confronto con la “Parola” che spiega il pane. Il suo ricordo costante scalfirà la nostra durezza di cuore. Sapremo così cosa chiedere, e, come il cieco di Gerico, otterremo l’illuminazione definitiva. Essa è già anticipata nel secondo intervento su questo cieco, che vede chiaro tutto e a distanza. Sarà lo sguardo del centurione, la persona più lontana, che vede con chiarezza il Figlio di Dio sulla croce, lontananza massima da Dio. La guarigione del cieco di Betsaida porta a conclusione la sezione dei pani. Subito dopo Pietro riconoscerà Gesù come il Cristo. Qui, passo dopo passo, Marco ha voluto condurci con la prima parte del suo racconto; con la seconda ci porterà alla fede del centurione. Quanto Gesù finora ha fatto per i vari miracolati è ciò che vuol fare per ciascuno di noi. Le due tappe di quest’ultimo miracolo rappresentano le due tappe fondamentali del nostro cammino di illuminazione: la prima ci fa riconoscere il Cristo, nostra speranza; la seconda ci fa riconoscere, oltre ogni nostra speranza - anzi nella morte stessa di ogni nostra speranza - il Figlio di Dio che ci ama e dà la vita per noi. Questo miracolo è la grande speranza del discepolo: la misericordia di Gesù, instancabilmente e sempre all’opera, giunge a trionfare di ogni nostra sordità e cecità. Ha ragione la pazienza del contadino che ha seminato: la parola, di notte e di giorno, fa breccia nelle fessure del nostro cuore di pietra, mette radici e cresce. Questa guarigione, come quella del sordo, è una fatica dolorosa di Cristo, segnata da due suoi gemiti (7,34; 8,12). Colui che con sovranità fa zittire mare e male, che, senza volerlo, guarisce l’emorroissa e con una semplice parola risuscita la ragazza, compie ora la sua opera più dura e difficile, quella che gli costerà la croce. Fin qui tutto il vangelo aveva come fine di evidenziare e farci diagnosticare ciò che ci accomuna tutti: la durezza di cuore, gelosamente custodita sotto le foglie di fico di un’autosufficienza, religiosa e/o mondana, alimentata dal duplice fermento di cui al brano precedente. Gesù, unica luce che dà la vista, porta a compimento la nuova creazione e il nuovo esodo: ci conduce fuori per guarirci e farci vedere ciò che occhio umano mai non vide e che Dio ci ha donato nel suo pane. Il discepolo è un cieco che sa di esserlo. Riscontra in sé il fermento dei farisei e di Erode che gli impedisce di mangiare il pane dei figli. Conosce anche l’impossibilità di guarire da solo, nonostante tutti gli espedienti. E lascia che il Signore agisca. 2. Lettura del testo

v. 22 portano a lui. Il cieco è portato, come il sordo muto. Ognuno giunge a Cristo condotto da chi lo conosce. Chi non si sente responsabile dell’altro è come Caino (Gn 4,9): l’ha già ucciso come fratello, non considerandolo tale. un cieco. È figura del discepolo che, come tutti, ha occhi e non vede (8,18; 4,12). Un cieco può anche avere un corpo perfetto per lavorare, marciare o lottare. Ma non può far nulla di tutto questo: gli manca la luce degli occhi. Per lui la realtà, invece che strumento utile e piacevole, è ciò contro cui sbatte dolorosamente. Anche la più bella siepe di rose per lui è spine pungenti da evitare con cura. È come un non nato: non è ancora venuto alla luce. Vero cieco è colui che non vede la verità propria e di Dio. Conduce un’esistenza senza luce e morta, che, ignorando da dove viene e dove va, non sa in che direzione muoversi. Gesù dice: “Io sono la luce del mondo: chi segue me, non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12). e lo pregano perché lo tocchi (cf il sordo: 7,32). È importante l’intercessione per i fratelli, perché Cristo tocchi chi non può o non vuole ancora toccarlo. Come c’è l’evidente solidarietà del male, ce n’è una misteriosa, ma molto più grande, anche nel bene. Molti ingiusti non riescono a perdere l’umanità; un solo giusto invece salva il mondo intero! v. 23 afferrata la mano del cieco. Lui direttamente prende il cieco e lo conduce per mano con mano forte, come un padre suo figlio. lo condusse fuori dal villaggio. È l’esodo definitivo, fuori da ogni luogo abitato da uomini, sempre lievitato da ciò che indurisce il cuore e toglie la vista. L’uomo animale non percepisce le cose di Dio (1Cor 2,14). È l’uscita dalle tenebre alla luce, che vuol essere senza più ritorno (v. 26); è il travaglio della nascita. sputandogli sugli occhi (cf il sordo: 7,33). La saliva è immagine del respiro, forza vitale. Gesù ci comunica il suo Spirito, che scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. I segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere, se non il suo Spirito. Ora noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma quello di Dio, per conoscere tutto ciò che lui ci ha donato (1Cor 2, 1 0 s). imponendogli le mani. Quanti gesti per questo miracolo! Sarà fatica ricompensata. Il cieco è sotto le sue mani, che lo inondano di luce. Vedi forse qualcosa? Per l’unica volta Gesù dubita, anzi è sicuro di non essere ancora riuscito nella sua impresa. Sa che la nostra illuminazione, mai perfettamente riuscita, è uno sforzo mai concluso. Ma vuole che anche noi lo sappiamo, perché, vedendo di non vederci, siamo disposti a lasciarci continuamente guarire. Il primo dono che Gesù fece al fariseo Paolo fu quello di folgorarlo con la sua luce, evidenziando la sua cecità. Poi gli darà la sublimità della conoscenza di lui come suo Signore (Fil 3,8). Tra poco Gesù rivolgerà la stessa domanda ai discepoli, chiedendo loro come lo vedono: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Marco rivolge la stessa domanda alla sua comunità e a noi, per farci vedere che non vediamo ancora bene, fino a quando il fantasma dei pane non diventa l’Io Sono del mio Signore. Ma prima dovranno cadere dal nostri occhi le scaglie dei due lieviti. v. 24 guardando in su. Il brano è tutto un gioco sulla parola “vedere” (blépo), “guardare in alto” (anablépo), “vedere perfettamente attraverso” (dia-blépo), “vedere dentro” (en-blépo). Ci sono molti modi di vedere, secondo dove si volge l’occhio, secondo la limpidezza e l’acutezza della vista. C’è inoltre la

parola horáo, che significa “vedere, osservare”. La vista gioca un ruolo determinante nella morte, sepoltura e risurrezione di Gesù: è questo il mistero da contemplare, perché lì scopriamo la verità di Dio nella nostra, e la nostra in quella di Dio. Vedo gli uomini. Vede per la prima volta i suoi simili, e in loro se stesso. perché vedo come alberi che camminano. Conosce bene le piante, perché non lo scansano e ci sbatte contro. Ora gli uomini sono piante che si muovono - non sa se per venirgli contro o incontro. Questa vista, molto imperfetta, è come quella dei discepoli che scambiano l’Io Sono di Gesù per un fantasma, è come quella della Chiesa che non discerne nel pane il corpo del suo Signore. Comunque ora il cieco ha sufficiente vista per vedere che non ci vede abbastanza; già può dire qualcosa sugli uomini, come i discepoli diranno qualcosa su Gesù. Ma ci vorrà ancora un lungo cammino prima di capirlo: dovranno sbattere la faccia contro l’albero dove è appeso il Figlio dell’uomo, prima di riconoscerlo come Figlio di Dio. Scambiare uomini per alberi è immagine di ciò che facciamo, scambiando lui con le proiezioni dei nostri desideri/paure. v. 25 E di nuovo gli impose le mani. È necessario un ulteriore intervento, un contatto e una comunione iterata con lui. Questo sarà compiuto dalla seconda parte del vangelo, mediante la “Parola” che rivela pienamente il pane. Davanti a questa, i discepoli si scopriranno sempre più ciechi (vedi le tre reazioni alle tre predizioni della morte/risurrezione: 8,31 ss; 9,31 ss; 10,32 ss). Allora potrà guarirli definitivamente, insieme con Bartimeo. Tutta la catechesi del vangelo mira a mostrare la nostra cecità specifica davanti al mistero dei Dio crocifisso, per farci chiedere e ottenere la guarigione. vedeva perfettamente. È una vista che va con lucidità oltre ogni velo ingannatorio. L’illuminazione consiste nel vedere uomini come tali, e non come alberi che camminano, ossia nel capire la realtà così com’è. La nostra fede sarà vedere Gesù che va a Gerusalemme verso la sua gloria, e seguirlo nel cammino con Bartimeo (10,52). .fu ristabilito. L'occhio è “ristabilito” nella sua funzione originaria, come la mano di 3,5, quando si apre per accogliere il dono. intravedeva. In greco c’è “vedere dentro”. È una vista non solo lucida, ma acuta e penetrante. chiaro e a distanza. In greco c’è una parola che indica una vista chiara e telescopica, che va oltre ogni lontananza. tutto. Nulla si sottrae a questa vista data da Gesù con il suo Spirito, che scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio (1Cor 2,10). Sarà il dono concesso al cieco di Gerico, che lo chiama per nome, chiedendo - e ottenendo misericordia; sarà il dono concesso al centurione, che vedrà tutto lo splendore di Dio nella sua carne, fatta per noi lontananza e peccato. v. 26 lo inviò a casa sua. L’uomo non è di casa nel villaggio in cui abita da cieco. È fatto per camminare e dimorare nella luce: Dio è la sua casa, e solo lì viene alla luce, uscendo definitivamente dalle tenebre. Non entrare neppure nel villaggio. È il luogo dove languiva nell’ombra di morte (Lc 1,79), il paese dove mendicava, schiavo della sua durezza di cuore. Non deve più farci ritorno, perché è lievitato dal fermento dei farisei e di Erode, che impedisce di vedere il Signore. Cristo ci ha liberati perché

restassimo liberi (Gal 5,1). Non torniamo più sotto l’antico giogo della schiavitù, perché la nostra condizione non sia peggiore di quella di prima (Lc 11,26). 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, immaginando i dintorni di Betsaida, dove Gesù conduce per mano il cieco. 3. Chiedo ciò che voglio: Ti chiedo, Signore, di imporre su di me le mani, di darmi il tuo Spirito, di liberarmi dal lievito dei farisei e di Erode, perché possa vedere “tutto, chiaro e a distanza” il dono di te che tu mi fai. 4. Traendone frutto, e immedesimandomi nel cieco, contemplo la scena, considerando ogni parola. 4. Passi utili: Is 35; Sal 146; At 9,1-19; Ap 3,17 ss.

41. MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA? (8,27-30) 27

E uscì Gesù e i suoi discepoli verso i villaggi di Cesarea di Filippo. E, nel cammino, interrogava i suoi discepoli, dicendo loro: Gli uomini chi dicono che io sia? 28 Essi gli risposero dicendo: Giovanni il Battista, e altri Elia, altri poi uno dei profeti. 29 E lui li interrogava: Ma voi, chi dite che io sia? Rispondendo Pietro gli dice: Tu sei il Cristo! 30 E li sgridò, perché non parlassero di lui a nessuno. 1. Messaggio nel contesto

“Ma voi, chi dite che io sia?”, chiede Gesù al discepoli e a noi, che fin qui abbiamo camminato con lui. “Tu sei il Cristo”, risponde Pietro. Prima tutti si chiedevano: “Chi è costui?”. Ora lui stesso domanda: “Chi sono io per te?”. Fino a quando ci poniamo questioni su di lui, non comprenderemo nulla! Si comincia a capire qualcosa quando ci lasciamo porre in questione. Non lui, bensì noi siamo chiamati a dichiararci. Finora ci ha fatto la sua proposta; ora chiede la nostra risposta: “Rispondimi, e ti risponderò”. Il cristianesimo è la risposta a questa domanda che lui mi rivolge: “Chi sono io per te?”. La sua provocazione è anche un esame della vista, per farci costatare che abbiamo bisogno di occhi ulteriormente nuovi. Finisce così la prima parte del vangelo. Comincerà poi il cammino della seconda, che ci farà riconoscere il Figlio di Dio. La confessione di Pietro è giustapposta all’autoconfessione di Gesù (v. 31), che dice la “Parola” (v. 32). Le due confessioni sono le due facce della pietra di volta di tutto il vangelo di Marco, e segnano il passaggio da una comprensione di Gesù come Cristo a una comprensione spirituale di lui come Signore. Si varca la soglia dei desideri dell’uomo, che resta confuso e sbigottito, per entrare nella promessa di Dio, più grande di ogni fama (Sal 138,2). Questo riconoscimento conclude la sezione dei pani, iniziata con l’invio dei Dodici (6,6b). Gesù infatti lo si riconosce nel pane, in cui attua la nostra salvezza. La sua domanda è duplice, perché duplice è la risposta: quella della gente, secondo la carne, e quella del discepolo, secondo lo Spirito. Ma questa convive con quella, e, come vedremo, ha un continuo bisogno di confronto con la “Parola” per purificarsi. Gesù è il Cristo. “Cristo” era diventato quasi il suo cognome. Marco lo nomina nel titolo e lo fa riconoscere ora. Ridà così a questa parola il suo significato originario. Esso è spiegato in otto lunghi capitoli attraverso ciò che Gesù ha fatto: ha mondato lebbrosi e fatto camminare zoppi, ha guarito mani per toccarlo e ricevere da lui la vita, ha risuscitato i morti e dato loro da mangiare il pane che sazia, ha guarito l’orecchio per ascoltare la Parola e la vista per contemplare la Gloria. È quindi il Cristo, l’atteso da Israele, il discendente di Davide (2Sam 7), il re di giustizia e di pace, liberatore e salvatore del suo popolo, anzi, di tutti i popoli. Anche se molto umana, questa fede è valida, come prima tappa. Discepolo è colui che risponde alla domanda di Gesù: “Chi sono io per te?”. La fede non è delegabile. Ognuno è chiamato a dare la propria risposta, a conoscerlo, amarlo e seguirlo, anche se ancora imperfettamente. Gesù fin qui ha esaudito i nostri desideri, ma quasi solo per adescarci e disporci a ricevere un dono che sorpassa ogni nostra attesa. Ci ha avvinto a sé perché ci fidiamo di lui. D’ora in poi comincerà a non farci più doni. Il nostro occhio dovrà passare dalla sua mano vuota al suo volto, e penetrare nel suo cuore, sorgente di ogni dono. Dio infatti è amore, e null’altro ama che amare e dare se stesso all’amato. La seconda parte del vangelo ce lo presenterà così, e culminerà sulla croce, dove compirà pienamente la rivelazione di sé nel dono di sé. Il rischio nostro è di restare chiusi nella prima parte, senza mai conoscere il Signore. Infatti non cerchiamo lui, ma i suoi doni, e lo identifichiamo con questi, riducendolo a un idolo, attaccapanni dei nostri desideri o fantasma delle nostre paure. 2. Lettura del testo v. 27 uscì Gesù e i suoi discepoli verso i villaggi di Cesarea di Filippo. È il punto più lontano che Gesù raggiunge nel suo cammino in regione pagana. Anche il suo riconoscimento pieno avverrà sulla croce, il punto più lontano da Dio, e per bocca di un pagano (15,39). Il Signore, nella sua trascendenza, è sempre lontano - e per questo vicino a ogni lontananza.

nel cammino. L’uomo ha il suo centro fuori di sé, che lo sbilancia sempre in avanti. Fatto per camminare, ovunque è straniero, fuggitivo o pellegrino secondo che s’allontana o s’avvicina alla sua casa. Comunque il suo è sempre un viaggio che va dalla morte alla vita (cf brano seguente). In questo cammino Gesù interpella chiunque è con lui e desidera andare oltre. interrogava i suoi discepoli. La domanda contiene sempre la risposta. Fino a quando ci interroghiamo su Gesù, ci daremo le nostre risposte scontate. Per questo è importante non domandarci noi su di lui, ma ascoltare la sua domanda, che mette in questione noi. Gli uomini chi dicono che io sia? Gesù pone prima questa domanda perché i discepoli sappiano riconoscere il pensiero dell’uomo. Egli riconduce tutto al già noto. al passato ormai morto, di cui, piacevole o fastidioso fantasma, conserva il ricordo. Questo costituisce l’ovvietà religiosa. Tentiamo sempre di adattare Dio al letto di Procuste del nostro cervello, riducendolo a ciò che già pensiamo e difendendoci dalla novità sconvolgente che vuol portarci. v. 28 Giovanni il Battista, altri Elia, ecc. È la risposta che troviamo all’inizio della sezione dei pani (6,14). È l’unica possibile all’uomo, per il quale non c’è mai nulla di nuovo sotto il sole (Qo 1,9). Tutto è da sempre passato, e tutto sempre passerà, fagocitato dalla morte, senza mai novità alcuna. I profeti, che indicano il futuro di Dio, invece di ascoltarli, da sempre si preferisce prima ucciderli; solo dopo li si riconosce, quando non importunano più la nostra tranquillità. Anche Gesù, Parola di Dio viva e operante, è identificato con loro, catalogato con le etichette della nostra pigrizia mentale, relegato a fantasma del passato. v. 29 Ma voi. I discepoli sono un “voi”. Sta nascendo la comunità, formata da chi si lascia interpellare da lui. Da loro attende una risposta che sia un “ma” rispetto a quella scontata dalle persone religiose. chi dite che io sia? È la domanda fondamentale del vangelo. Ora Gesù stesso la pone, chiedendo al discepolo di pronunciarsi nel suoi confronti. La vera questione è questa, che lui mi rivolge personalmente: “Chi sono io per te? Cosa significo per la tua vita? Sono il tuo Salvatore e il tuo Dio, il tuo desiderio e il tuo mistero assoluto? Ti lasci mettere in discussione da me, sei disposto ad amarmi e seguirmi, per stare sempre con me, così come sono, anche quando sarò con te là dove non pensavi, ti salverò come non credevi, e mi scoprirai come non mi conoscevi?”. La fede è la mia risposta a questa domanda, che resta sempre aperta, lasciando nella provvisorietà ogni mia risposta. Tu sei il Cristo. Per i discepoli Gesù non è un fantasma del passato. In lui, unico e presente, si ravviva il loro cuore spento; con lui divampa tutto un passato di promesse e si apre un futuro di speranze. Chi può come lui dare e dire ciò di cui hanno un bisogno così sordo e cieco, una sete e una fame così profonda? Nella parola “Cristo” si cristallizza tutto quanto di bello e di buono l’uomo può attendere da Dio. Tutte le azioni e le parole raccontate fin qui danno il significato vero e pieno a questo termine, che significa messia (= unto, consacrato), re. v. 30 li sgridò, ecc. Gesù, invece di lodare Pietro, “sgrida” tutti, come i demoni, perché tacciano. Perché questa doccia fredda? Vuol spegnere il fuoco acceso? È giusto quanto Pietro ha detto; ma solo in parte. C’è un errore: Gesù non è “il” Cristo determinato dalle sue attese religiose, è invece “un” Cristo (cf 1,1) a lui ignoto, che realizza la promessa di Dio. È necessaria la seconda parte del vangelo, la “Parola” che spiega il pane, prima che possiamo riconoscere in Gesù che chiede: “Chi sono io?” la gloria di colui che dice: “Io Sono”. Il cieco fu guarito in due rate. Il discepolo vede il Cristo ancora in un’ottica molto umana. “Vedo gli uomini perché vedo come alberi che camminano”, diceva il cieco non totalmente guarito. Gesù ci farà

prendere coscienza di questo, perché gli chiediamo di vedere chi veramente è. Seguirà un’altra guarigione. Allora lo vedremo sull’albero, verso il quale il Figlio dell’uomo ormai si va decisamente incamminando. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo immaginando i1 cammino, nella regione di Cesarea di Filippo, dove Gesù interroga i suoi discepoli. 3. Chiedo ciò che voglio: conoscere chi è lui per me, che peso ha nella mia vita. È il mio Salvatore, la mia speranza, il mio desiderio? 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

cammino interrogare Ma voi, chi dite che io sia?

Cristo sgridare non dire niente a nessuno

4. Passi utili: 2Sam 7,8-16; Sal 2; 89; At 2,14-36; 3,12-26; 4,8-12.

42. IL FIGLIO DELL'UOMO DEVE MOLTO SOFFRIRE (8,31-33) 31

E cominciò a insegnar loro: Il Figlio dell’uomo deve molto soffrire ed essere riprovato dagli anziani e dai sommi sacerdoti e dagli scribi, ed essere ucciso, e, dopo tre giorni, risuscitare. 32 E con franchezza diceva la Parola. E Pietro, presolo con sé, cominciò a sgridarlo. 33 Ora egli, voltatosi e vedendo i suoi discepoli, sgridò Pietro e dice: Va’ dietro di me, satana, perché non pensi le cose di Dio, ma quelle degli uomini. 1. Messaggio nel contesto

“Il Figlio dell'uomo deve molto soffrire”. Dopo aver esposto il suo insegnamento in parabole (c. 4), Gesù comincia ora con franchezza a dire la “Parola”. È la parola della croce - stupidità e debolezza per l’uomo, ma saggezza e forza di Dio (cf 1Cor 1,18-25). Dopo aver avvinto a sé il discepolo, che lo riconosce come il Cristo salvatore, Gesù inizia a spiegargli cosa significa essere il Cristo e come viene la salvezza. Qui comincia la seconda parte del vangelo, che è tutta un’istruzione riservata ai suoi, scandita dalle tre predizioni della morte/risurrezione. È la sezione ecclesiale, in cui la comunità si confronta con il mistero del pane. È qui che vediamo la differenza, anzi lo scontro tra il pensiero dell’uomo e il pensiero di Dio. Il primo, cercando di salvarsi, diventa egoista, vivendo la morte e uccidendo la vita. Il secondo sa perdersi per amore, fino a dare la vita. La prima parte del vangelo culminò nel riconoscimento di Gesù come Cristo: la seconda terminerà nel riconoscimento di lui come Figlio di Dio ( 15,39). Il v. 31 dice la “Parola” che chiarisce l’enigma di ogni parabola e svela il mistero di Gesù ucciso e risorto, già profetato nei canti del Servo, nei salmi e nella storia dei giusti. Tutto il vangelo è introduzione sapiente, spiegazione paziente, sviluppo coerente e confronto costante con questa Parola, che dà la chiave di lettura di tutta la storia. La sapienza di Dio passa attraverso la povertà, l’umiliazione e l’umiltà; accetta le sofferenze, il ripudio e l’uccisione; e proprio così vince il male fatto dalla sapienza dell’uomo, che ricerca l’avere, il potere e l’apparire, provocando la morte propria e altrui. Pietro, come tutti noi, resta chiuso nel pensiero dell’uomo. Il suo scontro con Gesù è violento. Si farà sempre più serrato, fino al confronto finale. La croce, fatta da noi e portata da lui, rimane l’unico luogo possibile d’incontro. Il male non è esterno a noi. L’inferno non è l’altro. Il satana è presente nel cuore di Pietro e di ciascuno. La “Parola” lo fa uscire allo scoperto, con tutte le sue resistenze e convulsioni. L’esorcismo fondamentale di Cristo è la vittoria su questo male, causa di ogni altro, che viene appunto dal di dentro dell’uomo (7,20.23). Il cammino è lento e difficile, ma sicuro e rispettoso. La “Parola”, denunciando sempre più chiaramente la nostra cecità, ci pone nella necessità di chiedere la luce. Questo è il nostro massimo gesto di libertà, con cui riconosciamo la verità e ci mettiamo “dietro” a Gesù, sempre tentati, con Pietro, di metterci davanti. Gesù, appena riconosciuto come “Cristo”, rivela la sua identità di Figlio dell’uomo sofferente e quindi glorioso. Questa è la “Parola”, il suo mistero di morte e risurrezione (v. 31), al quale è legata la nostra salvezza (v. 38). Il Padre gli farà eco dal cielo e confermerà che proprio lui è il suo Figlio (9,8), perché segue il cammino del servo (cf 1,11; 15,39). Il discepolo è chiamato a confrontarsi ora con la “Parola”. Deve prendere nella barca Gesù così com’è, che dorme e si risveglia (4,36). Dopo averlo riconosciuto messia, è chiamato con Pietro ad affrontarlo e a negargli la croce, in modo da permettergli di smentirlo e salvarlo. Nella seconda parte del vangelo la Parola deve compiere in lui le due opere più difficili: scacciare il demonio sordomuto (9,14-29) e illuminare il cieco di Gerico (10,45-52). 2. Lettura del testo v. 31 cominciò a insegnar loro. Qui c’è come un nuovo inizio. Comincia la faticosa lotta tra la “Parola” e la nostra sordità e cecità. In questo versetto Gesù dichiara l’identità propria e di Dio nella nostra storia.

Il Figlio dell'uomo. Gesù chiama se stesso con questo nome, che poi la Chiesa non userà più, perché difficilmente comprensibile al di fuori del giudaismo. In ebraico ha un gamma di significati, e richiama soprattutto Dn 7, dove il Figlio dell’uomo appartiene contemporaneamente al mondo di Dio, di cui ha tutta la dignità e il potere, e al mondo dell’uomo, con il quale è solidale fino in fondo. Gesù usò volentieri questo titolo, che, senza far violenza a nessuno, permetteva a ciascuno di capire ciò che era disposto a capire, lasciandogli la possibilità di una comprensione più profonda. deve. Quanto segue è l’unico “dovere” di Gesù, che rivelerà Dio come amore. Chi ama infatti non può non condividere il male dell’amato. “Deve” (greco: deî) non indica un dovere morale, ma una necessità di tipo naturale, più profonda. Il Signore “deve” dare la vita per noi, come il fuoco deve scaldare, la pioggia bagnare e il sole illuminare. Non può essere diversamente. “Deve” inoltre richiama il compimento della promessa di Dio che non può non realizzarsi; ed è in connessione, soprattutto per Luca, con la passione di Gesù, in cui si realizza quanto la Scrittura dice a riguardo del Servo sofferente. molto soffrire. Gesù combina la figura gloriosa del Figlio dell’uomo di Dn 7 con quella del Servo di JHWH (cf Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12), la cui vita è lotta e sofferenza, per mantenere insieme la fedeltà a Dio e al popolo. essere riprovato dagli anziani e dai sommi sacerdoti e dagli scribi. Gesù sarà esaminato attentamente e gettato via dai potenti. Anziani, sommi sacerdoti e scribi rappresentano rispettivamente la categoria dei possidenti, dei potenti e dei sapienti, coloro che hanno realizzato il desiderio di avere, potere e apparire. Sono le tre maschere dell’unico male, l’egoismo, che si annida nel cuore di ogni uomo e sta all’origine di tutti i mali. Corrispondono alle tre concupiscenza sulle quali si struttura il mondo e la sua storia (1Gv 2,16), e ai tre aspetti seducenti e illusori del frutto proibito, che già ad Eva parve buono, bello e desiderabile (Gn 3,9). La perversione dell’uomo sta innanzi tutto nel giudizio sbagliato: pensa che sia bene avere invece di donare, che sia bello dominare invece di servire, che sia desiderabile apparire invece di essere ciò che si è. Il Signore invece, che è amore, non può che presentarsi nella povertà di chi dona, nell’umiliazione di chi serve, nell’umiltà di chi è vero. Per questo verrà scartato. Ma proprio così, morendo in croce, sarà il Cristo, colui che ci libera dal nostro male tremendo e ci rivela Dio. ed essere ucciso. Gesù non muore. È ucciso. La morte è ciò che capita a tutti e che tutti temiamo, perché ignoriamo di venire da Dio e di tornare a lui. Schiavi di questa paura, cerchiamo di salvarci cadendo sotto la mano di satana che con essa ci domina (cf Eb 2,14). Gesù ne è libero, perché sa di venire dal Padre e di tornare a lui; per questo sa amare fino al punto di dare la vita per noi che lo uccidiamo (Gv 13,1 ss). Ma la sua uccisione è “martirio”, ossia testimonianza di un amore più grande della vita e più forte della morte. dopo tre giorni risuscitare. L’uomo cammina verso la morte. Anche se non lo vuole, questa è per lui la parola definitiva. Ma è un inganno. La parola definitiva spetta a Dio, che è amore e vita. La risurrezione non è semplice rianimazione di un cadavere che ritorna alla condizione mortale; è invece il passaggio, attraverso la morte, a una pienezza di vita che non conosce più morte e alla quale partecipa anche il corpo, trasfigurato. Solo la prospettiva della risurrezione permette di non impostare la vita sulla paura della morte. Per questo, se Cristo non è risorto, è vana la nostra fede, e noi restiamo ancora nel nostro male (1Cor 15,17). v. 32 con franchezza. La parola greca (parresía) significa: dire tutto con libertà, coraggio e chiarezza. Gesù prima parlava sotto il velo delle parabole (4,11.33 s), ora gioca a carte scoperte.

la Parola. “La Parola” è il termine tecnico per indicare il vangelo (cf 1,45; 2,2; 4,32). È la parola della croce, sapienza di Dio e sua rivelazione totale. Lo scriba Paolo, dopo la sua conversione, riassumerà tutta la sua scienza nuova dicendo: “Ritenni di non sapere altro in mezzo a voi, se non Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1Cor 2,2). Egli è la Parola: chiarisce l’enigma di tutta la Scrittura, della storia di Dio e della nostra. Pietro, presolo con sé. Pietro prende con sé Gesù, in disparte dagli altri. È molto sicuro di sé, e non vuol fargli fare una brutta figura davanti a tutti. cominciò a sgridarlo. “Sgridare” è la stessa parola usata quando Gesù zittisce i demoni. Pietro pensa che dietro “la Parola” si nasconda una tentazione dell’ingannatore: il Cristo non si accorge che così rovina il regno di Dio? Gli dice: “Dio te ne scampi, Signore, questo non ti accadrà mai” (Mt 16,22). Quanto Gesù ha appena detto è una minaccia che fa crollare tutte le certezze “religiose” di Pietro: la sua morte da fallito sarebbe la fine di ogni speranza umana e di ogni promessa divina. È molto importante riconoscere e manifestare la nostra opposizione, dettata da un amore sincero, ma ancora carnale. v. 33 egli, voltatosi e vedendo i suoi discepoli. Gesù si rivolge a Pietro e agli altri, dai quali Pietro si era staccato. sgridò Pietro. Gesù ricambia a Pietro il rimprovero: satanico è lui, che vuol distoglierlo dalla croce. dietro di me (cf v. 34). Il discepolo non deve mettersi davanti, ma dietro al suo maestro. Non lui deve seguire noi, bensì noi lui. Pietro vorrebbe tirare Cristo dalla propria parte, invece che passare lui dalla sua. È una operazione diabolica, che capovolge radicalmente la fede: invece di obbedire noi al Signore, dovrebbe lui obbedire a noi! Gesù propriamente non dice a Pietro: “Lungi da me!”, come traducono varie versioni. Non lo manda lontano. Lo richiama vicino, ma al suo posto: “Dietro di me”. Infatti si era messo davanti. Quest’espressione “dietro di me” è la qualifica fondamentale del discepolo, ripresa al v. 34. Gliel’aveva già detta all’inizio (1,17). Gliela ripete ora che sa dietro a chi va. satana. Come nel caso degli indemoniati, in quel momento non è Pietro, bensì satana che parla in lui, e cerca di identificarsi con il suo cliente. Ora il ladro della Parola (4,15) tenta il colpo che non gli era riuscito nel deserto: chi non ha ceduto alle seduzioni del nemico, forse cederà alle istanze del miglior amico! Ma Gesù resiste a viso aperto. Quanti pensieri e azioni sataniche, compiute con amore ma senza l’intelligenza di Cristo! A chi ha zelo, satana gliene aggiunge, fino al fanatismo, ma gli vela la “Parola” - la sapienza della croce. È da notare che Pietro è chiamato “satana” non perché dice o fa qualcosa di diabolico, ma semplicemente perché pensa “secondo gli uomini”. Il satanico è molto umano. Sembra invece disumano Dio! Questa è la percezione del nostro giudizio ingannato dal maligno, specialista nel fare apparire bene il male e male il bene. perché non pensi le cose di Dio, ma quelle degli uomini. “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8). Il discernimento è difficile. Gesù, con la “Parola”, ci dà il criterio oggettivo per illuminare l’intelligenza. La preghiera poi vincerà le resistenze della volontà. Il pensiero di Dio è amore che dona la vita e giunge alla risurrezione attraverso la povertà, l’umiliazione e l’umiltà, fino alla morte da reprobo. Il pensiero dell’uomo è egoismo che cerca di salvarsi e produce morte attraverso la ricerca di avere, di potere e di apparire. Tra le due vie non c’è nulla in comune, se non la nostra “buona volontà”, quando, “a fin di bene”, utilizza per il Regno ciò che Gesù ha scartato

come tentazione. Allora nuociamo molto alla sua causa. Indossiamo la sua divisa, ma giochiamo per la squadra avversaria. È molto più facile fare goal. Da qui comincia la liberazione del discepolo, il vero esorcismo che la Parola continuamente opera in noi e nella Chiesa. Inizia la fatica di Cristo. D’ora in poi non farà più nessun prodigio. Solo guarirà il sordo muto e il cieco. E morirà in croce. Allora la nostra durezza di cuore si scioglierà e conosceremo il Signore, mentre realizza pienamente la “Parola”. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, immaginando il luogo: nello stesso cammino dove Pietro dice chi è Gesù per lui, Gesù stesso dice chi è lui per noi. 3. Chiedo ciò che voglio: Ti chiedo, Signore, per intercessione di Maria e di tutti i santi, di comprendere la “Parola”, che dice il mistero della tua croce, di mettermi dietro, non davanti a te; di non seguire il pensiero dell’uomo, ma quello di Dio. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono e che fanno. Da notare:

il Figlio dell’uomo deve soffrire anziani, sommi sacerdoti e scribi essere ucciso risuscitare

la Parola sgridare dietro di me le cose di Dio/ quelle degli uomini.

4.Passi utili: Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12; Sal 22; Is 55,8 s; 1Cor 1,18-31.

43. SE UNO VUOLE (8,34-38) 34

E, chiamata innanzi la folla con i suoi discepoli, disse loro: Se uno vuole venire dietro di me, rinneghi se stesso, e prenda su la sua croce, e segua me. 35 Chi infatti vuol salvare la sua vita, la perderà; ma chi perderà la sua vita per me e per il vangelo, la salverà. 36 Che giova infatti all’uomo

guadagnare il mondo intero e danneggiare la propria vita? 37 Che può dare infatti l’uomo per riscattare la sua vita? 38 Poiché chi si vergognerà di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo, insieme con gli angeli santi. 1. Messaggio nel contesto “Se uno vuole”. Dopo la propria (v. 31), Gesù dichiara l’identità del discepolo, e lo chiama definitivamente ad andare dietro di lui. Ci fu già una prima chiamata a seguirlo (1,16-20), una seconda a “essere con lui” (3,14) e una terza ad essere inviati (6,6b ss). Nella prima la fuga si fa sequela, nella seconda la sequela diventa comunione con lui, nella terza la comunione con lui è sorgente della missione ad annunciarlo. Ora, associato dal pane al suo stesso destino, la missione si fa croce e risurrezione, per la salvezza propria ed altrui. Così il discepolo incarna la stessa “Parola” dei suo Signore. Il v. 34 definisce il cristiano. È colui che vuol seguire Gesù crocifisso, e quindi rinnega se stesso, prende la sua croce, e gli va dietro - dietro a quel Gesù povero, umile e umiliato come si è definito nel v. 31. Il v. 34, specchio del v. 31, è un trattato sull’”essenza del cristianesimo”. Invece che in quattrocento pagine è in quattro brevissime espressioni - in der Kúrze liegt die Würze! - che sono un compendio di antropologia filosofico-teologica dal punto di vista cristiano. Il v. 35 mostra la molla segreta del pensiero dell’uomo: salvare la pelle, l’esistenza materiale, che sa di dover perdere. Questo tentativo, inutile e disperato, lo rende egoista, e gli fa distruggere sé e gli altri. Chi invece sa perdere la vita per amore di Gesù, la salva. Perché la vita vera, che non conosce tramonto, è amare con tutto il cuore colui che per primo ci ha amati. Il v. 36 smaschera l’inganno di volersi salvare mediante la brama di possedere. È il pensiero dell’uomo (v. 33). Il v. 37 mostra come l’uomo perda comunque l’esistenza, ponendogli il problema dei senso, ossia del fine. Questo permette all’uomo di essere uomo. Gli dà infatti la possibilità di un progresso e la libertà di realizzarsi. Il v. 38 infine mostra il senso del tempo presente; è il momento in cui vivere l’obbedienza alla sua parola. Da questa dipende la nostra vita vera, che è eterna. La salvezza dalla morte consegue la nostra presa di posizione qui e ora nel confronti di Gesù e del vangelo. La sua storia ormai passata diventa criterio della nostra vita presente e garanzia di quella futura. Il nostro destino è connesso alla nostra fedeltà o meno alla sua parola. Tutte queste affermazioni di Gesù saranno subito dopo confermate dalla voce del Padre, che dirà: “Ascoltate lui” (9,7). Gesù è il pastore che, con la croce, suo bastone, ci guida alla vittoria sul male e sulla morte. Lo seguiamo come la Parola che indica il cammino della vita, la nube e la colonna di fuoco che conduce dalla schiavitù alla libertà. È il Signore presente in mezzo a noi. L’amore e l’obbedienza a lui è la nostra salvezza. Questa sarà piena nel futuro, ma è da vivere già nel presente, in fedeltà al suo passato.

Il discepolo trova in queste parole di Gesù la propria identità. Per un atto di libera decisione, ama e segue non il Cristo dei propri desideri, ma quello che, come Pietro, non conosce e non vuole accettare. La “Parola” del v. 31 toglie alla nostra sequela ogni ambiguità. Dimenticarla significa seguire, invece di lui, se stessi o le proprie fisime religiose. 2. Lettura del testo v. 34 chiamata innanzi la folla con i suoi discepoli. Dopo che Gesù si è rivelato apertamente, anche il discepolo si scopre tra la folla di chi pensa secondo gli uomini. Ma la sua chiamata è rivolta a tutti. Se uno vuole. Aderire a lui non è un fatto anonimo di massa; è un atto supremo di libertà personale, decisione che ogni singolo prende quando è in grado. Ogni frutto cade dall’albero quando è maturo. venire dietro di me. I discepoli non conoscevano bene chi seguivano. Ora che lo sanno, Gesù ripete l’invito già fatto (1,16-20; 2,14), dicendo a tutti ciò che ha appena detto a Pietro: “Dietro di me”. Si segue solo chi si ama. Per questo, Signore, attirami dietro di te (Ct 1,4)! La fede cristiana è l’amore personale per Gesù, che si esprime nel desiderio di essere con lui povero, umiliato e umile piuttosto che ricchi, potenti e soddisfatti senza di lui. Andare dietro a lui è l’essenza specifica del cristianesimo. Il pericolo per noi, come per Pietro, è andare dietro a una nostra immagine religiosa di lui, invece che dietro a lui così com’è. Per questo la “Parola” del v. 31 compie in noi un esorcismo costante, proponendoci la croce come distanza infinita tra lui e tutte le proiezioni su di lui. rinneghi se stesso. Rinnegare se stesso è la piena realizzazione dell’uomo; significa vincere il falso io, l’egoismo, radice di tutti i mali. È il contrario dell’affermare se stesso, distruzione dell’uomo, che uccide l’io chiudendolo in una solitudine infernale. Narciso al fonte annega in se stesso. Affermare se stesso è rinnegare il Signore, perché è negazione di sé come sua immagine. L’uomo, sentendosi piccolo, insignificante e stupido, vuol affermarsi facendosi ricco, potente e orgoglioso. Ma è un inganno. Infatti si realizza solo quando, sentendosi amato e importante agli occhi di Dio, capisce che è bello amare, donare e servire in libertà e povertà. prenda su la sua croce. È la prima volta che esce questa parola in Marco. Gesù non porterà la sua, ma la nostra, insieme con noi. Questa croce che Luca 9,23 chiama “quotidiana” - è la lotta continua contro la falsa autoaffermazione. E la fatica maggiore è accettare che il nostro male ci sia, fino alla fine, come luogo costante della sua grazia (Rm 7,14-25). Ognuno ha la “sua” croce, perché nessun altro al posto suo può vincere l’egoismo che è In lui. e segua me. È possibile portare la nostra croce solo andando dietro a lui. Come una guida in montagna, nella foresta o nel deserto, come un esperto marinaio che naviga nella nostra stessa barca, così lui ci rende possibile l’impossibile. Il cristianesimo non propone un cammino solitario ed eroico verso una meta difficile. È consolazione di una compagnia, amore di una presenza, forza stessa della Presenza, che sta con noi che la seguiamo, come già Israele nell’esodo. v. 35 Chi infatti vuol salvare la sua vita. Salvare la vita è l’istinto di autoconservazione. Criterio di ogni azione animale, è insufficiente per l’uomo, che sa comunque di morire. Per lui ci vuole un fine positivo, che dia senso alla sua vita “mortale”. Chi scambia la salute per salvezza, si perde necessariamente.

la perderà. La vita finisce comunque. Chi cerca di salvarla, diventa egoista, e uccide la sua vera vita di figlio di Dio. Chi vuol solo inspirare e trattenere il soffio, scoppia. Non si può neanche respirare oggi l’aria di domani. Chi si dimena nell’acqua, si perde; chi fa il morto, si salva. La vita è un dono che costantemente si riceve e si mantiene nell’abbandono. chi perderà la sua vita. Persa per persa, la vita animale si può spenderla nel vano tentativo di trattenerla, o darla spontaneamente per amore. per me. “Per me infatti il vivere è Cristo” e “tutto ormai io reputo una perdita al fine di guadagnare Cristo”, dice Paolo (Fil 1,21; 3,8). “Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20), con un amore più forte della morte (Ct 8,6). e per il vangelo. Noi che non l’abbiamo conosciuto nella carne, attraverso la parola del vangelo conosciamo nello Spirito la sua carne - cardine della nostra salvezza. la salverà. La vita vera dell’uomo infatti è rispondere all’amore di Dio in Cristo Gesù, vita di tutto ciò che esiste (cf Gv 1,3-4). In nessun altro nome c’è salvezza (At 4,12). In lui salviamo la nostra essenza, perché diventiamo ciò che siamo: figli. v. 36 Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero. Per salvarsi l’uomo instaura la strategia del possedere sempre di più, nel vano tentativo di garantirsi la vita. Ma non fa che rovinarla a sé e agli altri. L’avidità di ricchezza è la grossa illusione del mondo. Sembra assicurare ogni bene, e invece è causa di tutti i mali ( 1Tim 6, 10). v. 37 Che può dare l'uomo per riscattare la sua vita? La vita vale la vita. E questa è comunque mortale. L’uomo nasce e muore. “Nessuno può riscattare se stesso o dare a Dio il suo prezzo. Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine, e non vedere la tomba” (Sal 49,8 s). La morte è comune a tutti, sapienti o stolti (Sal 49,11). L’uomo sapiente è chi lo sa e ne tira le conseguenze. “Insegnaci a contare i nostri giorni, e giungeremo alla sapienza del cuore” (Sal 90,12). v. 38 chi si vergognerà di me e delle mie parole. La salvezza dipende dalla mia personale adesione a Gesù, dal riconoscerlo e testimoniarlo con azioni e parole in un mondo che va in direzione opposta. Il mio futuro dipende dalla mia presa di posizione presente nei confronti di lui e della sua parola. È la parola della croce, di un amore più grande della morte (v. 31). questa generazione adultera e peccatrice. Ogni generazione è adultera, cioè non ama lo Sposo, l’unico da amare con tutto il cuore (12,29 s); per questo è peccatrice, cioè fallita, come un arco allentato che non raggiunge il bersaglio (Sal 78,57). anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui. Il Figlio dell’uomo, umiliato sulla croce, è anche il giudice supremo della storia. Proprio in quanto crocifisso è risorto, Signore e criterio di salvezza. quando verrà nella gloria del Padre suo. Il brano seguente lascerà intravedere questa gloria di Figlio unigenito del Padre, il quale ci ordina di ascoltarlo. con gli angeli santi. Annunciatori della sua parola (= angeli) e partecipi della sua vita (= santi), costituiscono la famiglia di Dio.

3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, immaginando il luogo dove Gesù dice queste parole. Siamo ancora in cammino, nel dintorni di Cesarea di Filippo. 3. Chiedo ciò che voglio: di non essere sordo alla sua chiamata; di voler essere con lui così com’è e seguirlo nella lotta contro il male, per aver parte con lui alla sua gloria. 4. Traendone frutto, vedo e ascolto Gesù che mi rivolge personalmente l’invito, sostando su ogni parola. 4. Passi utili: Ger 20,7-18; Fil 3; Eb 12,1-4; 1Pt 4,12-19; At 5,41; Gal 2,19 s; Sal 49; 16; 23; Dn 7,13 s; 2Tm 2,11 s.

44. QUESTI È IL FIGLIO MIO, IL DILETTO: ASCOLTATE LUI! (9,1-10) 91 E diceva loro: Amen, vi dico: ci sono alcuni di quelli che stanno qui che non gusteranno la morte, finché vedano il regno di Dio venuto in potenza. 2 E dopo sei giorni Gesù prende Pietro e Giacomo e Giovanni, e li conduce su un monte alto in disparte da soli; e fu trasfigurato davanti a loro. 3 E le sue vesti divennero splendenti, bianche molto, quali nessun lavandaio sulla terra può fare così bianche. 4 E fu visto da loro Elia con Mosè ed erano in dialogo con Gesù. 5 E rispondendo Pietro dice a Gesù: Rabbi, è bello per noi essere qui! E faremo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia. 6 Infatti non sapeva cosa rispondere; infatti erano spaventati. 7 E venne una nube che li copriva d’ombra, e venne una voce dalla nube:

Questi è il Figlio mio, il diletto: ascoltate lui! 8 E, all’improvviso, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non il Gesù solo con loro. 9 E, scendendo dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che videro, se non quando il Figlio dell’uomo sarebbe risorto dai morti. 10 E tenevano la parola, tra loro discutendo cos’è il risorgere dai morti. 1. Messaggio nel contesto “Questi è il Figlio mio, il diletto.- ascoltate lui”. la seconda e ultima volta che il Padre parla. La prima approvò Gesù come Figlio, quando si mise in fila con i peccatori per immergersi nel Giordano (1,11); ora lo conferma per noi come tale, mentre ha appena dichiarato la parola della croce. Dopo la trasfigurazione dei Figlio, irradiazione della sua gloria (Eb 1,3), il Padre non dirà più nulla. Gesù che va in croce e risorge è la Parola in cui si esprime totalmente e si rivela definitivamente. Per questo dice: “Ascoltate lui!”. La sua carne è il criterio ultimo di discernimento spirituale. Marco, a differenza degli altri evangelisti, pur conoscendole, non racconta le apparizioni del Risorto. Termina con le donne impaurite, che ascoltano l’annuncio di tornare in Galilea: “Là lo vedrete, come ha detto!” (15,7). Il finale rimanda al principio e invita a rileggere tutto alla luce dell’annuncio del Signore morto e risorto. Se lo ascolto, lo incontro nella sua parola che opera in me quello che dice, trasformando progressivamente la mia vita a immagine della sua. Il dono del pane, col miracolo del sordo e del cieco, mi abilita ad ascoltarlo e a vederlo. La sua gloria è la realizzazione di tutta la promessa di Dio, in lui già anticipata e donata a chiunque lo contempla. Vedere il suo volto infatti è la vita dell’uomo, che finalmente davanti a lui riflette la realtà di cui è specchio. “Riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito” (2Cor 3,18). Questa è l’esperienza del Vivente alla quale Marco vuol portarci. “Mostrarmi il tuo volto!”. La preghiera, ripetuta nei salmi, esprime il desiderio abissale che ci fa essere ciò che siamo. Ora l’anelito finalmente si placa (o si accende?). La trasfigurazione, narrata al centro della vita terrena di Gesù, è figura di quella risurrezione che la sua parola già opera nel cuore della nostra vita quotidiana, in attesa di quella definitiva. Essa ha il suo inizio nell’ascolto che ci guarisce, si compie nel battesimo che ci unisce a lui, si alimenta col suo pane che ci fa camminare dietro di lui, e si consuma nella visione del suo volto, che si rispecchia nel nostro. “Quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2). Tutta la creazione tende al settimo giorno; e geme e soffre come nelle doglie del parto, in attesa di entrare con noi nella gloria dei figli di Dio (Rm 8,19 ss). La trasfigurazione, non la sfigurazione - come temiamo - è il punto d’arrivo dell’universo. Il volto di Gesù, bellezza di Dio, compimento del suo disegno di salvezza, è il nostro vero volto, nel quale, per il quale, e in vista del quale siamo stati fatti (Col 1,15). In lui tutto raggiunge il suo fine e si ricongiunge al suo principio. E Dio, finalmente tutto in tutti (1Cor 15,28), riposa godendo della sua opera. Questo racconto segna una svolta decisiva sia nel cammino di Gesù, che va verso Gerusalemme, sia in quello del discepolo, al quale il Padre mostra il mistero del Figlio.

Due persone, smarrite nel bosco, si trovano a percorrere lo stesso sentiero, l’unico che c’è. Ma uno ignora dove porta. Intanto cala la sera e viene la notte. L’altro riconosce da un segno che porta a casa; tra poco siederà attorno al fuoco coi suoi. La vita è uguale per tutti. Ma uno sa solo che alla fine morirà; l’altro invece sa che sta andando verso l’incontro desiderato. Quanto diverse possono essere due cose uguali! Gesù trasfigurato è la verità di Dio e dell’uomo. Il suo volto di Figlio è la luce della nostra vita, la realtà verso cui camminiamo. In lui gustiamo il Regno già venuto con potenza e abbiamo l’anticipo della meta, la vittoria sulla morte (v. 1). Nella sequenza che va da 8,27 a 9,7 c’è una concentrazione di tutto l’insegnamento su di lui, che ha il suo culmine nella voce del Padre: “Questi è il Figlio mio, il diletto: ascoltate lui!”. Si chiude il dibattito sulla sua identità, mettendo fine alla domanda che pervade tutta la prima parte del vangelo: “Chi è costui?”. Si apre così la seconda parte, che introduce nel mistero profondo del Figlio. A Pietro, che lo riconosce come “il Cristo” (8,29), Gesù spiega di essere il “Figlio dell’uomo” che percorre il cammino del “Servo di Dio” (8,31); proprio così è il “Giudice”, la presa di posizione nei cui confronti è la salvezza di ogni uomo (8,34-38). Ora il Padre dal cielo conferma dopo aver conferito al suo corpo, anche visibilmente, la gloria che spetta al Figlio. Abbiamo qui tutti i principali titoli che definiscono Gesù: è il Cristo, il Figlio dell’uomo, il Servo, il Giudice, il Figlio. Questa rivelazione, riservata ora ai tre, sarà offerta a tutti sul Calvario. Allora, per la prima volta, facendo eco alla voce del Padre che risuona dalla nube, un uomo dirà sulla terra: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (15,39). Discepolo è colui che obbedisce alla voce del Padre che dice: “Ascoltate lui!”. Ascoltarlo significa seguirlo quando ci dice: “Dietro di me” (1,16-20), e sperimentare così il potere della sua parola che ci libera dal male, dalla febbre, dalla lebbra e dalla paralisi, e ci ridà la mano (1,21-3,6) per toccarlo, accogliere la sua vita (3,7-6,6a) e ricevere il suo pane che ci apre l’orecchio e l’occhio per riconoscerlo (6,6b-8,29). Ma bisogna ascoltarlo soprattutto quando dice la “Parola”, tirandone le conseguenze per noi (8,31-38). Ascoltando lui, il Figlio, diventiamo figli. La trasfigurazione corrisponde alla vita nuova che il battesimo ci conferisce attraverso la croce: è un’esistenza pasquale, passata dall’egoismo all’amore, dalla tristezza alla gioia, dall’inquietudine alla pace, dall’impazienza alla pazienza, dalla malevolenza alla benevolenza, dalla cattiveria alla bontà, dall’infedeltà alla fedeltà, dalla durezza alla mitezza, dall’essere in balia delle passioni alla padronanza di sé (Gal 5,22). Questa vita nuova nello Spirito è la sua presenza di risorto in noi. Sul nostro volto brilla il riflesso del suo, che è lo stesso del Padre. Il desiderio da vertigine, impossibile e tuttavia costitutivo dell’uomo: “sarete come Dio” (Gn 3,5), trova nell’ascolto del Figlio la via della sua realizzazione. 2. Lettura del testo v.1 Amen, vi dico, ecc. Queste parole di Gesù potevano essere intese come promessa di un suo ritorno a breve scadenza (cf 2Ts 2,1 ss) e dare adito a un disimpegno nel tempo presente. Ponendole qui, dopo l’invito a seguirlo e prima della trasfigurazione, dove il Padre dice di ascoltarlo, si evita tale pericolo. v. 2 dopo sei giorni. La trasfigurazione avviene sei giorni dopo l’invito a portare la propria croce (8,34). Siamo quindi nel settimo giorno, fine della creazione e riposo di Dio, giorno della nostra liberazione e della sua gloria.

Marco è sommario nella cronologia; di solito collega i fatti dicendo: “E subito dopo”. Questa indicazione di tempo vuol sottolineare che la trasfigurazione non è immediata, ma il compimento di tutta la settimana della creazione, termine del lungo travaglio dell’uomo e della sua fatica. Non è da escludere anche un richiamo al soggiorno di Gesù a Gerusalemme, che, scandito da Marco in sei giorni, si conclude con la visione della gloria del Figlio di Dio (15,39). La luce che trasforma la mia vita, e mi fa finalmente vedere la verità mia e di Dio, non è forse la visione di un Dio crocifisso per mio amore? prende Pietro e Giacomo e Giovanni. Sono già stati testimoni della risurrezione della ragazza (5,37). Saranno chiamati a riconoscere la sua gloria di Figlio anche nell’orto (14,33). Ciò che per ora è riservato a questi tre è il dono - importante ma difficile da accogliere - che Dio vuol fare a tutti. su un monte alto. Vicino al cielo, luogo di solitudine, intimità e rivelazione (cf 3,13; Es 24), questo monte altissimo rimanda all’umilissimo Golgota. Qui, davanti al Moria, dove Abramo compì il sacrificio del figlio e dove sorge il tempio (cf 2Cr 3,1), per la prima volta sulla terra sarà riconosciuta la gloria di Dio nella carne del Figlio unico. in disparte da soli. Ognuno è chiamato a questa solitudine con Gesù. Essere con lui è il fine per cui siamo creati, perché con lui siamo ciò che siamo, ossia figli del Padre. e fu trasfigurato. Il Figlio ha assunto il nostro corpo e la forma di servo, perché il nostro corpo e tutta la materia partecipasse in lui alla forma di Dio. La trasfigurazione lascia trasparire la realtà profonda di Gesù: è il Figlio, in cui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9): “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14, 9). In questa “metamorfosi” (= trasformazione) non si parla, come negli antichi racconti, di un dio che appare in forma umana, bensì di un uomo che appare in forma di Dio. In lui anche noi siamo per dono ciò che Dio è per natura: siamo partecipi della natura divina (2Pt 1,4). v. 3 le sue vesti divennero splendenti, ecc. (cf 16,5!). La gloria di Gesù è tanto eccessiva che non si riesce a descriverne non solo il riflesso nel corpo, che è come la veste della persona, ma neanche il riflesso nella veste, che copre il suo corpo. La sua veste è luminosa sopra ogni possibilità umana. Quale sarà la bellezza del Figlio? Mosè non aveva visto il Volto, ma solo le spalle. Eppure era tanta la luce che emanava da lui, che il popolo non poteva sostenerne la vista (Es 34,29-35). Ora il discepolo è chiamato a vedere a viso scoperto quel volto del quale non si riesce neanche a descrivere le vesti, e di cui la luce del volto di Mosè è un riflesso del riflesso - “cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo” (1Pt 1,12). In questo modo si balbetta qualcosa della bellezza di ciò che occhio umano mai non vide, e che Dio ha preparato per coloro che lo amano (1Cor 2,9). Le vesti bianche, che il neofita porterà la settimana dopo il battesimo, esprimono la sua vita nuova, illuminata dalla conoscenza e dall’amore del Signore crocifisso e risorto per lui. Egli infatti è rivestito dell’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera (Ef 4,24). Rivestito di Gesù Cristo (Rm 13,14), la sua vita è più luminosa e bella di quanto ogni sforzo umano di purificazione sia in grado di fare. Infatti è fulgida e splendente come una sorgente di luce. v. 4 Elia con Mosè. Elia e Mosè, il padre dei profeti e il mediatore della legge, stanno di fianco a Gesù, e lui in mezzo a loro. La legge e i profeti parlano di lui, compimento di ogni promessa di Dio. La gloria del Crocifisso risorto è la “Parola” che toglie il velo, che senza di lui rimane sulla lettura dell’Antico Testamento e sul cuore di chi lo legge (2Cor 3,14 ss). Ma è anche vero che questa gloria è comprensibile solo a partire da Elia e Mosè, senza i quali non possiamo neanche immaginare i doni preziosi e grandissimi che ci sono stati fatti

(2Pt 1,4). Per questo Pietro ci esorta a rivolgere la nostra attenzione alla parola dei profeti, come a lampada che brilla in luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino non si levi nel nostri cuori (2Pt 1,19). Tutta la Scrittura è in relazione a Gesù. Essa ci dice chi è lui, e lui ci dà ciò che essa dice: egli è la realtà di cui essa è promessa. Mosè aveva annunciato un profeta pari a lui, al quale dare ascolto (Dt 18,15). Ora ha la gioia di ascoltarlo. Elia, assunto in cielo e atteso per la fine dei tempi, vede in Gesù trasfigurato la fine del tempo, l’atteso di tutti i tempi. Né Elia né Mosè gustarono la morte, perché parlarono di lui, che l’ha vinta. E ora, primizie dei grande albero della vita, stanno con lui. v. 5 è bello per noi essere qui. È bello essere con Gesù trasfigurato. Qui raggiungiamo ciò per cui siamo fatti, e ci sentiamo a casa. Altrove è brutto e non possiamo stare, ma solo camminare, alla ricerca di questo che è il nostro luogo naturale. In Gesù trasfigurato tutta la creazione raggiunge quella bellezza che Dio le aveva aggiudicata fin dal principio (Gn 1,4.10.12.18.21.31). È il punto d’arrivo, forza che muove tutto fin dal principio. Queste parole di Pietro celano anche una tentazione: sei giorni prima non voleva accettare la parola della croce (8,32), ora vuole arrestare nella gloria il tempo, che invece deve ancora passare attraverso la passione. faremo tre tende. La tenda richiama la dimora (Gloria) di Dio tra gli uomini, che poi si fissò nel tempio. In realtà tre sono i modi con cui Dio dimora tra noi: la legge (Mosè) che ci àncora al passato, la promessa (Elia) che ci attira al futuro, e l’umanità di Gesù, presenza in cui si compie tutto il passato e termina tutto il futuro. Questa è la tenda definitiva di Dio tra gli uomini. Non saranno Pietro e gli altri due a costruire una casa per il Signore (2Sam 7): lui stesso, nella sua umanità trasfigurata, è insieme la vera casa sua e nostra, dove siamo di casa l’uno nell’altro. v. 6 Infatti non sapeva cosa rispondere; infatti erano spaventati. L'eccesso di Gloria supera ogni intendimento e coraggio umano. v. 7 venne una nube. Dio, troppo luminoso, è oscuro ai nostri occhi. Per questo la sua presenza è una nube (Es 40,34). Promessa di fecondità, guidò Israele per il deserto, facendosi luce di notte e riparo di giorno. li copriva d'ombra. La nube ricopre della sua ombra i tre fortunati, come già la Dimora (Es 40,35 LXX). È la presenza di Dio, che aveva coperto anche Maria (Lc 1,35), e li rivestirà di forza ricevuta dall’alto (Lc 24,49; At 1,8). venne una voce dalla nube. Dio abita una luce inaccessibile. Ogni immagine che ce ne facciamo è un idolo. Egli non ha volto per essere visto; ha voce per essere ascoltato. Il suo volto è l’uomo che lo ascolta. Perché ognuno è generato a immagine e somiglianza della parola che accoglie. Gesù, Parola di Dio viva ed eterna, è il seme immortale che ci genera figli (1Pt 1,23). Questi è il Figlio mio, il diletto (cf 1,11). La voce del Padre indica ai discepoli il Figlio. Se uno lo ascolta, il Padre dice a lui ciò che disse a Gesù nel battesimo: “Tu sei il Figlio mio, il diletto” (1,11). Queste parole echeggiano il Sal 2,7, che parla dell’intronizzazione regale, applicate spesso al Cristo risorto (At 4,25 s; 13,33; Eb 1,5; 5,5). Egli infatti è insieme figlio di Davide secondo la carne e figlio di Dio costituito con potenza secondo lo Spirito mediante la risurrezione (Rm 1,3). Richiamano pure il canto del Servo (Is 42,1) e alludono infine anche a Isacco, il figlio promesso e sacrificato, indicato ad Abramo come “il figlio tuo, il diletto” (Gn 22,2.12.16).

Qui vediamo la gloria di Gesù, chiamato dal Padre col nome di Figlio. Nell’orto vedremo i costi del Figlio per chiamarlo con il nome di Abbà (14,36). ascoltate lui. Gesù è il Figlio, Parola definitiva del Padre che in lui dice e dà tutto se stesso. Per questo dobbiamo ascoltarlo, soprattutto quando rivela il suo e il nostro cammino - che nessuno di noi, con Pietro, è disposto ad accettare. Qui il Padre conferma la scelta del Figlio dell’uomo come via di salvezza per tutti quanti vorranno seguirlo (8,31-38). Gesù è il profeta definitivo promesso da Mosè per l’esodo definitivo verso la libertà dei figli: “A lui date ascolto” (Dt 18,15). Il principio della nostra trasfigurazione è l’ascolto di Gesù. Non c’è altra rivelazione da cercare se non quella che ci è stata fatta nella sua carne. Egli è il Figlio obbediente, sua Parola perfetta, in cui pienamente si esprime. L’ascolto di lui ci rende come lui, figli di Dio, partecipi della sua vita. Le ultime parole del vangelo sono un invito a tornare in Galilea, ossia all’inizio del vangelo, dove incontreremo il Signore risorto: “Là lo vedrete, come vi ha detto” (16,7). Se lo ascoltiamo e lo seguiamo, come lui ci ha detto, lo vedremo così come egli è. L’importante, per vederlo risorto, è ascoltare e seguire lui nella sua “Parola” (8,31), non vergognarsi qui e ora di lui e del vangelo (8,38). Senza la trasfigurazione di Gesù neanche avremmo immaginato la gloria cui siamo destinati. Il suo pieno fulgore ci sfugge. Si è levato un lembo del manto di Dio, e siamo accecati dallo splendore. Ma ora sappiamo che c’è e conosciamo il cammino per raggiungerla: ascoltare Gesù, tra Mosè ed Elia. “Mostrami la tua gloria, mostrami il tuo volto” (Es 33,18). È la grande aspirazione dell’uomo, in cerca del proprio volto. E Dio ci esaudisce oltre ogni attesa. Il suo volto è il nostro stesso volto, che, nell’ascolto di Gesù, riverbera la stessa gloria del Figlio. A Pietro, che vuol costruire dimore, colui il cui trono è il cielo e il cui sgabello per i piedi è la terra, dice che l’unica casa a lui gradita è il cuore umile e contrito di chi lo ascolta (Is 66,1 s). Come per il Figlio, così vale per tutti i fratelli. v. 8 non videro più nessuno, se non il Gesù solo. La gloria del Figlio è quella del Gesù solo, l’uomo in cammino verso l’ignominia della croce, che tutti abbandoneranno. Di lui, e di nessun altro, il Padre dice: “Ascoltate lui”. La sua carne è la vera “esegesi” di quel Dio mai visto da nessuno (Gv 1,18), che sulla croce toglierà ogni velo. Dopo la trasfigurazione tutto torna nella quotidianità, uguale a prima. Ma in realtà abbiamo occhi diversi, per vedere che tutto è diverso. Il Padre ci ha detto chi è il Figlio e ci ha ordinato di ascoltarlo, per entrare anche noi nella stessa gloria. D’ora in poi il suo cammino, che prima non si sapeva dove andava a parare, è decisamente diretto a Gerusalemme. v. 9 ordinò loro di non raccontare a nessuno. La gloria del Figlio sarà comprensibile solo dopo la risurrezione, nel dono dello Spirito. Prima non si può raccontarla. Si cade nell’equivoco di una gloria senza la croce, che sola la rivela. quando il Figlio dell'uomo sarebbe risorto dai morti. Ogni segreto ha un termine, in cui verrà rivelato (4,22). L’annuncio del Crocifisso risorto e l’invito a seguirlo segna la fine del segreto messianico. Dopo la croce non c’è più pericolo di ambiguità. v.10 cos'è il risorgere dai morti. I discepoli ignorano ancora il mistero centrale della fede: la risurrezione di Gesù e nostra, di cui la trasfigurazione è l’anticipo. Infatti non hanno accettato la croce (8,31 s).

3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, vedendo il monte della trasfigurazione. 3. Chiedo ciò che voglio: ascoltare il “Gesù solo” che va verso la croce come via alla gloria. Domando al Padre di amarlo, per conoscerlo e seguirlo nel suo cammino di Figlio. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, cosa dicono e cosa fanno. Da notare:

si trasfigurò è bello stare qui questo è il Figlio mio, il diletto

ascoltate lui Gesù solo risorgere dai morti

4. Passi utili: Dn 7,9-10.13-14; Sal 67; Dt 18,15; Es 34,29-35; 2Pt 1; Rm 8,18-30; 2Cor 3; Fil 3,20 s.

45. COME MAI STA SCRITTO DEL FIGLIO DELL'UOMO CHE DEVE PATIRE MOLTO? (9,11-13) 11

E lo interrogavano dicendo: Perché gli scribi dicono che prima deve venire Elia? 12 E disse loro: Sì, Ella, venendo prima, ristabilisce tutto. E come mai sta scritto del Figlio dell’uomo che deve patire molto ed essere disprezzato? 13 Ma lo vi dico che anche Elia è già venuto; e gli fecero quanto volevano, come sta scritto di lui. 1. Messaggio nel contesto “Come mai sta scritto del Figlio dell'uomo che deve patire molto”. Con questo accenno alla passione, Gesù risponde ai discepoli che non capiscono cos’è la risurrezione. Sanno che essa è il compimento di ogni promessa di Dio (Ez 37,1-14) e che, secondo Ml 3,23 s, deve prima venire Elia per convertire il cuore dei padri verso i figli, perché trasmettano loro la Parola, e dei figli verso i padri, perché l’ascoltino. Gesù dice che Elia è già venuto nella figura del Battista, la cui vita è profezia di quella del Figlio dell’uomo. Chi vuol intendere la sua risurrezione, deve prima entrare nel mistero della sua passione.

Questo dialogo contiene il nocciolo di una teologia della storia, il cui punto d’arrivo è la risurrezione e il cui enigma fondamentale è la sofferenza del giusto sconfitto. Ma ciò che a noi fa problema, per Gesù è la soluzione: il male lo vince chi non lo fa e lo porta su di sé ingiustamente, come lui. Qui i discepoli si imbarcano in disquisizioni su questioni allora dibattute. Può sembrare strano che dei pescatori si improvvisino teologi; ma chi non capisce (vv. 6,10), scopre l’innata vocazione a teologare. E, come tutti, invece di riflettere sulla realtà, riferisce pareri di altri, che commentano altri che hanno detto qualcosa. E sì che hanno appena visto la realtà più grande che a uomo sia concesso contemplare! Era opinione corrente, suffragata dalle ultime parole del profeta Malachia, che prima del giorno del Signore sarebbe venuto Elia a disporre una conversione generale al Signore. Ma quando è questo giorno del Signore, che dà l’avvio al suo regno? L’inizio del vangelo identifica Elia col Battista (1,2 = Ml 3,I); e le prime parole di Gesù annunciano che il Regno è già arrivato (1,15). Non c’è quindi da aspettare qualcos’altro, ma da leggere il presente, che è sotto il segno della sofferenza del Figlio dell’uomo. Così ogni istante diventa il momento opportuno per convertirsi a lui e ascoltarlo. Solo a questa condizione si capisce il mistero della risurrezione, di cui la trasfigurazione è un anticipo. Gesù annuncia di nuovo la sua passione, senza la quale non si entra nella gloria cui siamo destinati. Il mistero del Figlio dell’uomo, prefigurato da Elia e Giovanni, è ciò che i discepoli non colgono, perché è quello del giusto sofferente. Ciò che attendiamo è già qui, ma non vogliamo riconoscerlo. Il discepolo è chiamato a capire cosa significa stare con “Gesù solo” e seguirlo nel suo cammino verso Gerusalemme. La croce non si dissolve come un incubo alla luce del mattino di pasqua. Costantemente presente nella nostra storia, è la chiave per entrare nella risurrezione. Elia e Gíovanni, rispettivamente primo e ultimo dei profeti, sono profezia non solo del Figlio dell’uomo, ma di ogni uomo che viene dopo di lui. 2. Lettura del testo v. 11 lo interrogavano, ecc. I discepoli, non avendo capito la parola della croce (8,32 s), ignorano quella della risurrezione (vv. 6,10). È giusto porre domande a Gesù, purché si sia disposti a lasciarsi istruire dalle sue risposte, diverse da quelle che noi ci attendevamo: “Io ti interrogherò, e tu istruiscimi” (Gb 42,4). gli scribi dicono che prima deve venire Elia. Prima del compimento dei disegno di Dio sulla storia, che culmina nella risurrezione (Ez 37,1-14), si attendeva la venuta di Elia. Padre dei profeti, avrebbe compiuto l’opera profetica per eccellenza (Ml 3,23 s): la conversione, che apre l’ingresso al Regno. Marco accenna a lui a più riprese (1,2; 6,15; 8,28; 15,35 s). Nella cena pasquale ebraica c’è sempre il posto pronto per lui, che deve venire immediatamente prima del Messia. v. 12 Sì, Elia, venendo prima. Gesù riconosce indispensabile la funzione di Elia. Anche lui ha posto la conversione come condizione per accogliere il Regno (1,15). ristabilisce tutto. L’apocatastasi, il rinnovamento totale che segna la fine dei tempo vecchio e l’inizio dei nuovo, non è un momento magico che verrà chissà quando. Il tempo in cui Dio instaura il suo regno è il momento stesso in cui ci convertiamo a lui. Il Regno è già arrivato; il banchetto è già imbandito. Il Signore aspetta solo che accettiamo l’invito.

come mai sta scritto del Figlio dell'uomo che deve patire molto. La croce, come apre l’enigma della storia, è la chiave per entrare nel Regno. Ad essa è legata la risurrezione e la salvezza del mondo: “È necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (At 14,22). Questo vale per il Figlio dell’uomo e per ogni uomo. ed essere disprezzato. Disprezzato in greco è “nientificato”, cioè stimato un nulla (cf Sal 22,7; Is 53,3; Lc 23,1 1). Noi disprezziamo la sua croce che ci salva, perché apprezziamo il male che ci perde: abbiamo scambiato l’albero della vita con quello della morte. v. 13 Elia è già venuto. Elia è presente in ciascun sofferente, da Abele al Battista (1,2; cf Lc 11,51), fino a Lazzaro che sta alla mia porta (Lc 16,19 s.). Colui che deve venire, viene sempre sotto le spoglie del povero: “Ogni volta che l’avete fatto a uno di questi fratelli minimi, l’avete fatto a me” (Mt 25,40), che mi sono fatto ultimo e servo di tutti (v. 35; cf 10,45). Elia, come è presente nella trasfigurazione di Gesù, lo sarà misteriosamente anche nella sua morte. Ma non per liberarlo (15,35 s), bensì per convertire a lui la persona più lontana di tutte (15,39), e introdurla nel Regno. gli fecero quanto volevano. Il giusto porta l’ingiustizia del mondo. Sulla sua debolezza grava il peso della volontà di potenza che danna l’uomo. E lì finisce. come sta scritto. Di Elia è scritto che vogliono togliergli la vita (1Re 19,2.10.14). Tutta la Scrittura è profezia della croce di Gesù, mistero di salvezza del mondo. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, contemplando le pendici del Tabor, da dove Gesù scende con i tre. 3. Chiedo ciò che voglio: chiedo al Signore la grazia di comprendere come mai sta scritto che il Figlio dell’uomo deve patire molto ed essere disprezzato. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

Elia, venendo prima, ristabilisce tutto Il Figlio dell’uomo deve patire molto ed essere disprezzato Elia è già venuto

4. Passi utili: Ml 3,22 ss; Sal 73; 79; 86; 88; Eb 11,36-38; 1Pt 2,19.

46. QUESTA SPECIE CON NULLA PUÒ USCIRE SE NON CON LA PREGHIERA (9,14-29) 14

E, venuti presso i discepoli

videro molta folla intorno a loro, e scribi che questionavano con loro. 15 E subito tutta la folla, vedutolo, fu stupita correva a salutarlo. 16 E li interrogò: Di che cosa questionate con loro? 17 E gli rispose uno dalla folla: Maestro, ho portato da te mio figlio, che ha uno spirito muto; 18 e, quando lo prende, lo scuote, e spuma e stride i denti e si fa secco. E ho detto al tuoi discepoli di scacciarlo, e non poterono! 19 E rispondendo loro dice: O generazione incredula, fino a quando sarò presso di voi? fino a quando vi sopporterò? Portatelo a me! 20 E lo portarono a lui. E, vistolo, lo spirito subito cominciò a contorcerlo, e, caduto a terra, si rotolava spumando. 21 E interrogò suo padre: Da quanto tempo è che gli capita questo? 22 E gli rispose: Dall’infanzia; e spesso anche nel fuoco lo gettò e nell’acqua, per rovinarlo. Ma se tu puoi qualcosa, aiutaci; abbi misericordia di noi! 23 E Gesù gli disse: Se puoi? Tutto è possibile per chi crede. 24 Subito gridando il padre dei fanciullo diceva: Credo! Aiuta la mia incredulità! 25 Vedendo Gesù che sopraggiungeva folla, sgridò lo spirito immondo dicendogli: O spirito muto e sordo, io te lo comando, esci da lui e non entrare mai più in lui! 26 E gridando e scuotendolo molto, uscì. E divenne come morto, così che tutti dicevano: Morì! 27 Ma Gesù, presa la sua mano, lo risvegliò,

e risorse. 28 E, entrato in casa, i suoi discepoli in privato lo interrogavano: Perché non abbiamo potuto scacciarlo? 29 E disse loro: Questa specie con nulla può uscire, se non con la preghiera (e il digiuno). 1. Messaggio nel contesto “Questa specie con nulla può uscire se non con la preghiera”, dice Gesù del demonio che i suoi discepoli non erano riusciti a scacciare in sua assenza. Si tratta dello spirito muto e sordo, che ci chiude l’orecchio alla parola di Dio, impedendo il dialogo con lui. Il nemico primo dell’uomo è l’ultimo ad essere vinto. Questo esorcismo, unico nella seconda parte del vangelo, è il più duro di tutti. È infatti quello definitivo. Se l’argomento richiama la guarigione del sordo muto (7,31 ss), il modo rimanda alla liberazione della figlia della sirofenicia (7,24-30). Là c’è una madre e una figlia, qui un padre e un figlio; là c’è la fede, qui il cammino per arrivarci, in modo che l’azione di Gesù continui anche in sua assenza. La vittoria su questa specie di demoni è il dono stesso della fede, che ci libera dalla soggezione alla menzogna di satana e ci rende capaci di ascoltare il Signore e di rispondere a lui. La fede non può essere prodotta da noi, generazione incredula. È dono che Dio offre a tutti. L’unica condizione per riceverlo è quella di chiederlo. Fondamentale è il desiderio, o almeno il desiderio di desiderare, rivolto a chi può venire incontro al mio male, anche alla mia incredulità. La mia libertà non è credere o non credere - schiavo del demonio sordo e muto, sono impossibilitato a credere - bensì desiderare e chiedere a Gesù con umiltà: “Credo che tu puoi aiutarmi nella mia incredulità: donami la fede”. Il racconto ci presenta nel padre la domanda che ciascuno deve fare per ottenere la fede, e nel figlio il passaggio dalla schiavitù al demonio sordo muto alla libertà di dialogare con Dio. Sdoppiato nelle due figure, vediamo rispettivamente il cammino e il risultato della fede. Il brano inoltre ci dice come, in assenza di Gesù, la comunità dei discepoli può continuare la sua lotta contro il male. Lui è sul monte della gloria. Noi da basso proseguiamo la sua stessa opera innanzi tutto con la preghiera per essere noi stessi liberati dall’incredulità; poi siamo in grado di liberare gli altri che hanno lo stesso spirito immondo. Questo esorcismo avviene tra spasimi e grida, convulsioni e irrigidimenti, stridor di denti e sbavamenti. Passa addirittura attraverso la morte, ultima malefatta del demonio sordo muto. Ma il Signore ha il potere di ridare la vita. Tutto il racconto allude al battesimo, in cui muore la nostra falsa identità che ci uccide, e risorgiamo alla vita nuova di figli di Dio. Partecipiamo al mistero di Gesù morto e risorto, con il quale la fede ci rende solidali. Gesù risorto, ormai definitivamente presso il Padre, è presente nella sua forza solo per chi accoglie la voce che dice: “Ascoltate lui”. Il nostro problema è credere alla sua parola, davanti alla quale ci manteniamo ostinatamente sordi (8,31s) e anche muti (vv. 32-34). Siamo veramente ciechi davanti alla gloria del Figlio dell’uomo (cf 10,32 ss). Non è l’analisi accurata o le dotte discussioni che ci salvano. Analisi all’intimo e discussioni all’esterno, anche se esatte e forse doverose, non cavano un ragno dal buco. Al massimo sono una buona diagnosi. Attardarsi in essa significa morire. La terapia è toccare lui, medico che è anche medicina: è la fede (cf 5,25ss). Ma questa ci manca - è appunto il nostro male! Non ci resta che chiederla. Sia chi crede di

credere sia chi crede di non credere è chiamato a ripetere l’invocazione del padre: “Aiuta la mia incredulità”. È l’ultima supplica prima di quella del cieco, che porta all’illuminazione. Qui è utile riprendere le varie preghiere che finora sono state rivolte a Gesù, sia in prima che per interposta persona. Si vedrà tutta un’educazione del desiderio, per sapere cosa chiedere e accettare ciò che ci vuol donare (1,40; 4,38; 5,18.23.28; 7,26.28.32; 8.22). Gesù, assente sul monte, agisce con potenza mediante la fede nella sua parola, che vince il demonio sordo muto. Il discepolo è ancora sordo muto davanti alla Parola. Posseduto dallo spirito di menzogna e di diffidenza, può essere guarito solo dalla fede, che si ottiene con la preghiera. 2. Lettura del testo v. 15 tutta la folla, vedutolo, fu stupita, ecc. Il Gesù solo, che scende dal monte per continuare il suo cammino verso la croce, ha una luce semplice e nascosta che meraviglia tutti e tutti attira a sé. La sua gloria, anche senza il fulgore della trasfigurazione, è più alta di quella di Mosè che scende dal Sinai. È la stessa di Dio, davanti al cui volto si disperdono i nemici (Nm 10,35; Sal 68,2) e si raccolgono i suoi amici. v. 16 Di che cosa questionate con loro? Al v. 33 farà ai discepoli una domanda analoga. Gesù desidera che riconosciamo ed esprimiamo a lui cosa ci sta a cuore. L’importante sapere ciò che vogliamo noi per giungere a capire ciò che vuole lui. Il discutere ha sempre una connotazione negativa: indica l’impotenza a risolvere un problema. In genere la discussione lo ingarbuglia e diventa un gioco di rivalsa di una parte sull’altra. Dalla discussione - ben diversa dal discernimento che si opera nella preghiera non esce mai la verità. Vince sempre Il peggiore, cioè il prepotente. v. 17 gli rispose uno dalla folla. Chi soffre non questiona. La sua voce si alza dalla folla. È un grido, che va diretto verso il Signore, noncurante del resto. La scena trova ormai il suo perno, e diventa un dialogo tra Gesù e il padre del fanciullo. Maestro, ho portato da te mio figlio. La guarigione del figlio, che il padre ovviamente desidera, diventerà un segno di quanto avverrà in lui stesso: il passaggio dall’incredulità alla fede. ha lino spirito muto. L’uomo è fatto per dialogare con Dio. Il mutismo è la manifestazione visibile del suo fallimento. Secondo Gesù, è associato a sordità (v. 25), che ne è la causa. Il fanciullo rappresenta ogni uomo che, per l’inganno di satana, è rimasto sordo a Dio che gli dice il suo amore, e di conseguenza non può rispondere con altrettanto amore (12,28 ss). v. 18 quando lo prende, lo scuote, ecc. La descrizione del male è minuziosa, e ripetuta per tre volte (qui e ai vv. 22.26). La sua analisi è tanto più accurata e precisa, quanto minore è la capacità di risolverlo. Esso si impossessa dell’uomo, dimenandolo come una marionetta nella sua mano. si fa secco. Perde la linfa vitale; diventa rigido e chiuso, come la mano disseccata di 3,1 ss, incapace di aprirsi al dono. ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo. continuando l’azione di Gesù (3,14 s).

La loro missione è annunciare e scacciare i demoni,

e non poterono. Sono incapaci di vincerlo perché sono a loro volta schiavi dello stesso male (cf brano seguente). Ben visibile nell’altro, è lungo il cammino per giungere a riconoscerlo in sé. Anche il padre dovrà essere portato dall’invocazione di misericordia per suo figlio alla richiesta di aiuto per la propria incredulità! È più facile vedere il volto dell’altro che il proprio. L’altro comunque ci fa da specchio. v. 19 0 generazione incredula. È la diagnosi di Gesù, che estende l’incredulità a tutti. Già l’ha denunciata nei discepoli (4,40) e riscontrata tra i suoi (6,6); ora il padre del fanciullo l’aggiudicherà a sé (v. 24). Il demonio sordo muto domina tutti. Siamo chiamati a riconoscerlo e a chiederne la liberazione. fino a quando sarò presso di voi? Ci sarà il momento in cui sarà tolto lo sposo (2,20). Che faremo in sua assenza? Ma proprio il suo essere levato renderà possibile la nostra fede (15,39). Ci farà conoscere chi è Dio e ci attirerà tutti a sé (Gv 8,28; 12,32). fino a quando vi sopporterò? L’incredulità dell’uomo al suo amore è una sofferenza insopportabile per Dio. Lo farà morire in croce. Solo lì finirà di sopportarci, quando si sarà fatto carico di tutti i nostri mali. Gesù ripete le parole di JHWH che minaccia di sottrarsi al popolo incredulo (Nm 14,27; Dt 31,17; 32,20 s, ecc.). Sulla croce vediamo il modo divino in cui si sottrae! v. 20 E, vistolo, lo spirito subito cominciò a contorcerlo, ecc. Alla presenza di Gesù le resistenze del male si scatenano. Prima restavano sopite, perché dominavano incontrastate (cf 1,23 ss). Il male si manifesta tale davanti al bene. Solo la luce fa capire che la tenebra ne è la mancanza; e l’occhio, pur fatto per essa, all’inizio soffre e se ne difende. v. 21 Da quanto tempo, ecc. Questo male c’è dall’infanzia; ma non dalla nascita. L’uomo infatti fu creato a immagine di Dio. Solo dopo lo spirito sordo si impadronì di lui. È importante sapere che il male non è la realtà prima. Diversamente non si può neanche desiderare il bene. v. 22 spesso anche nel fuoco lo gettò e nell'acqua, per rovinarlo. Il battesimo sarà essere immersi in un’acqua e in un fuoco che fa vivere (1,8). L’acqua e il fuoco che fa morire toccheranno a lui invece che a noi (Lc 12,49 s). se tu puoi. Gesù vuole e può (1,41). Siamo noi che non possiamo, anche quando vogliamo; talora, per disperazione, neanche vogliamo. Gesù desidera che noi vogliamo, per farci il suo dono. “Vuoi guarire?” (Gv 5,6), chiede al paralitico per guarirlo. aiutaci; abbi misericordia di noi. È la preghiera fondamentale dell’uomo, che è bisogno (aiutaci), e bisogno di amore gratuito (abbi misericordia). A questa preghiera corrisponde la realtà di Dio, la cui essenza è vita, e la cui vita è misericordia. v. 23 Se puoi? Tutto è possibile per chi crede. Per chi crede niente è impossibile, perché è con Dio, presso il quale tutto è possibile (10,27). Al lebbroso che gli disse: “Se vuoi, puoi mondarmi!”, Gesù manifestò la sua volontà: “Lo voglio” (1,40 s). Scontato che lui lo voglia, tutto dipende dalla mia fede. Questa è onnipotente (cf 11,22), perché accoglie la forza di Dio che viene in mio aiuto e ha compassione di me. Ma come può avere fede chi non ce l’ha? Sembra un problema insolubile, ma solo in apparenza! Infatti per avere ciò che non ho, è necessario e sufficiente sapere di non averlo e chiederlo.

v. 24 gridando il padre ecc. Il suo è lo stesso grido dei cieco che invoca (10,47), così diverso da quello dei demoni che lo vorrebbero allontanare (1,23 s; 5,7). Credo! Aiuta la mia incredulità! Il padre sembra contraddirsi: crede o è incredulo? La fede ha come suo luogo la non fede che l’ha soppiantata. Quest’uomo crede che Gesù è tanto potente da aiutarlo in tutto, anche a superare l’incredulità. Chiede la fede, e la chiede con sicurezza, fondandosi non sulla propria fede, che non c’è, ma sulla sua fedeltà. Fa appello alla sua misericordia, che viene in aiuto ai nostri bisogni, e in particolare al nostro bisogno più profondo, che è quello di affidarci a lui. La fede è il dono per eccellenza, che ci libera dal demonio sordo e muto, restituendoci alla nostra vita di figli. Questa è la preghiera che ciascuno deve fare per giungere al battesimo. Anche se è molto utile, non è sufficiente l’intercessione altrui. Tale preghiera è sempre esaudita in se stessa appena è formulata: infatti esprime la fiducia in lui oltre ogni sfiducia. v. 25 0 spirito muto e sordo. Gesù sa che lo spirito non è solo muto, come gli aveva detto il padre. È muto, perché sordo. Non sappiamo parlare perché non sappiamo ascoltare; e non sappiamo ascoltare perché il nostro orecchio è già pieno di un’altra parola. io te lo comando, esci da lui. La vittoria sullo spirito muto e sordo segna il passaggio dall’incredulità alla fede - passaggio duro, che avviene attraverso la morte e la risurrezione a una vita nuova. È il battesimo, per il quale siamo sepolti con Cristo e in lui risuscitiamo per la fede nella potenza di Dio (Col 2,12). e non entrare mai più in lui. Gesù dà questo ordine perché lo spirito immondo cerca di rientrare, con l’aiuto di sette demoni peggiori di lui. La vita del credente è sempre insidiata dal demone dell’incredulità. E se uno gli apre, la sua situazione diventa peggio della precedente (Lc 11,24-26). “Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere” (1Cor 10, 12). Ogni giorno preghiamo di “non cadere nella tentazione”. “La” tentazione è l’apostasia. Perdere la fede nella paternità di Dio è cadere nelle mani dello spirito muto, che impedisce di dire: “Abbà” - la parola che ci fa figli. v. 26 divenne come morto, così che tutti dicevano: Morì. È l’immagine di ciò che avviene nel battesimo, che ci associa al mistero di Cristo: muore l’uomo vecchio, posto nel male. La sua croce sarà l’esorcismo definitivo. v. 27 Gesù, presa la sua mano, lo risvegliò, e risorse. Sono le stesse parole usate per la risurrezione di Gesù, primogenito di una lunga schiera di fratelli (Rm 8,29). Questo fanciullo è figura di ogni battezzato, che, preso per mano da Gesù (cf 5,41), passa con lui alla vita oltre la morte. v. 28 entrato in casa, i suoi discepoli in privato lo interrogavano. Per comprendere il mistero del Regno, giova poco o nulla la discussione. Bisogna entrare in casa con lui, e interrogarlo nell’intimità della solitudine (cf 4,10; 7,17). Perché non abbiamo potuto scacciarlo.? Questo è il problema di ogni discepolo: in assenza di Gesù, come continuare il ministero che ci ha affidato (3,15; 6,7b)?

v. 29 Questa specie con nulla può Uscire, se non con la preghiera. È la preghiera del padre, che ognuno deve fare propria per ottenere la fede. Questa ci rende uomini, ossia figli di Dio, capaci di ascoltarlo e di rispondergli. “Non avete, perché non chiedete; chiedete e non ottenete, perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri" (Gc 4,2b s). In realtà noi non sappiamo neanche che cosa chiedere (Rm 8,26). Ora invece sappiamo cosa e come chiedere: chiediamo la fede, e la chiediamo appoggiandoci sulla sua fedeltà a noi. (e il digiuno). È un’aggiunta di molti codici (cf 1Cor 7,5). Il digiuno è quasi la preghiera del corpo. Si rinuncia al cibo, vita del corpo, per affermare che la vita è Dio e il vero cibo la comunione con lui. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, contemplando il luogo ai piedi del monte, dove Gesù scende e gli altri stanno. 3. Chiedo ciò che voglio: faccio mia la preghiera del padre a Gesù: “Aiuta la mia incredulità”. Donami la fiducia piena; liberami dal demonio sordo muto. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

questionare spirito muto/sordo se puoi aiutaci

tutto è possibile per chi crede aiuta la mia incredulità

4. Passi utili: Ger 2,13; Sal 78; Eb 11.

47. IL FIGLIO DELL'UOMO È CONSEGNATO IN MANI DI UOMINI (9,30-32) 30

E usciti di là, attraversavano la Galilea; e non voleva che alcuno lo sapesse. 31 Insegnava infatti ai suoi discepoli, e diceva loro: Il Figlio dell’uomo è consegnato in mani di uomini, e lo uccideranno, e, ucciso, dopo tre giorni risorgerà. 32 Ma essi ignoravano la Parola, e temevano di interrogarlo. 1. Messaggio nel contesto

“Il Figlio dell'uomo è consegnato in mani di uomini”. dell’istruzione di Gesù ai suoi discepoli. Se non si conta 9,12, è la seconda predizione della morte/risurrezione, la più succinta di tutte. È la Parola, centro della nostra fede, che esprime insieme tutto il nostro peccato e tutto l’amore di Dio per noi. La sordità che ci impedisce di accoglierla, sarà causa della sua morte. Ma questa a sua volta ne sarà la medicina. Infatti, morendo in croce per noi peccatori, ci rivelerà in modo indubitabile il suo amore. La consegna del Figlio dell’uomo è il mistero che celebriamo nella eucaristia. La Parola, che si fa nostro pane e vita, è un esorcismo continuo che ci guarisce dallo spirito sordo e muto. Gesù rivela nuovamente la sua gloria che passa attraverso la croce: è il Figlio dell’uomo umiliato e innalzato, morto e risorto. Questa Parola rivela Dio come eccessivo amore per noi (Ef 2,4), di cui tutta la bibbia parla. il discepolo è chiamato a confrontarsi con questa parola, che è l’unico pane che ha con sé nella barca (8,14). La prima volta che Gesù la manifestò, satana uscì allo scoperto, con un’opposizione netta (8,31ss). Questa seconda volta si nasconde nell’incomprensione, e fa seccare il seme nel mutismo di un cuore di pietra. Chi non capisce, normalmente interroga. Ma qui la paura, oltre che sordi, rende anche muti. I suoi hanno quello spirito che nel brano precedente non riuscivano a scacciare dal ragazzo. Tutto il resto del vangelo sarà lotta contro di esso. 2. Lettura del testo v. 30 attraversavano la Galilea. Gesù va ormai decisamente verso la croce. Dopo la trasfigurazione, il suo cammino punta diritto a Gerusalemme. Anche se accompagnato dai suoi, in realtà è solo. non voleva che alcuno lo sapesse. Vuol viaggiare clandestino; sia per evitare pubblicità ed equivoci, sia per non essere disturbato dalla folla, mentre si dedica all’istruzione dei suoi. v. 31 Insegnava infatti ai suoi discepoli. L’imperfetto indica un’azione continua. C’è un rapporto esclusivo e continuo di maestro/discepolo fra Gesù e i suoi. Tema dell’insegnamento è la “Parola”. Il cammino da Cesarea a Gerusalemme è tutto un confronto tra questa e la vita del discepolo. Il Figlio dell'uomo è consegnato in mani di uomini. Il mistero di un Dio che si fa Figlio dell’uomo per consegnarsi nelle mani dell’uomo è il centro della rivelazione. La parola “consegnare” (= tradire) unisce i vari episodi del racconto della passione: Giuda lo consegna ai capi e al soldati (14,10.44), i capi a Pilato (15,1) e Pilato ai crocifissori (15,15). Il paradosso è che lo stesso Padre lo consegna, e lui stesso si consegna a noi. Gesù, che si dona a chi lo rifiuta, è la rivelazione di Dio come amore incondizionato. lo uccideranno. Sa di consegnarsi a noi che lo uccidiamo. ucciso, dopo tre giorni risorgerà. La sua morte non è la fine di tutto, ma il principio della sua glorificazione. Fu esaltato non nonostante che fu crocifisso, ma perché fu crocifisso. v. 32 essi ignoravano la parola. L’ignoranza dell’amore di Dio è antica quanto l’opera del demonio sordo. Si squarcerà solo nella visione del Crocifisso. e temevano di interrogarlo. Il satana, rispetto alla volta precedente (8,31 ss), si fa più astuto: chiude i discepoli nel mutismo. Non hanno capito nulla in più della prima volta - se non che è meglio tacere per

evitare lo scontro. Il demonio sordo e muto che tiene in modo chiassoso il fanciullo, possiede in modo silenzioso anche i discepoli. Le resistenze che non osano uscire sono le più profonde. La parola della croce le evidenzia. Così possiamo chiedere, come il padre del fanciullo, la fede che ce ne libera. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo contemplando il luogo: Gesù cammina per la Galilea, evitando i luoghi abitati, per stare solo con i suoi discepoli. 3. Chiedo al Signore ciò che voglio: non essere sordo al suo amore per me, e non evitare lo scontro con la Parola. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

voleva che nessuno lo sapesse insegnava ai suoi discepoli il Figlio dell’uomo è consegnato in mani di uomini ignoravano la Parola e temevano di interrogarlo.

4. Passi utili: Lamentazioni; Sap 2,12-20; 2Cor 4,7-12.

48. DI CHE COSA DISCUTEVATE LUNGO LA VIA? (9,33-37) 33

E vennero a Cafarnao, e, arrivato in casa, li interrogava: Di che cosa discutevate lungo la via? 34 Ma essi tacevano; tra loro infatti avevano discusso lungo la via chi fosse il più grande. 35 Egli, sedendosi, chiamò i Dodici e dice loro: Se uno vuol essere primo, sia ultimo di tutti e servo di tutti. 36 E, prendendo un bambino, lo mise in mezzo a loro; e, presolo in braccio, disse loro: 37 Chi avrà accolto

uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e se uno accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha inviato. 1. Messaggio nel contesto “Di che cosa discutevate lungo la via?”. Gesù vuol smascherare il demonio sordo muto, che chiude i discepoli alla Parola, mettendo nel loro cuore un’altra parola. Mentre la sua è amore e umiltà, questa è egoismo e protagonismo. Chi cerca il proprio io, perde se stesso, gli altri e Dio. Chi vuol essere più grande, è perché si ritiene insignificante e senza valore. Non si sente amato, e quindi non può accettare se stesso e tanto meno gli altri. Per questo cerca continuamente di essere diverso, un po’ più alto di sé e degli altri, per risultare passabile a sé e agli altri. Dopo la prima predizione sul Figlio dell’uomo, Gesù invitò ogni discepolo a portare la “propria” croce. Questa croce è il rinnegamento del proprio falso io (8,34), la lotta contro la stupidità e l’orgoglio, che portano all’autoaffermazione a spese di tutto e di tutti. Gesù sa che ognuno vuole e deve realizzarsi. Chi vi rinunciasse sbaglierebbe, perché l’uomo è ciò che diventa. Per questo dà i veri criteri. Alla brama di primeggiare nell’avere, nel potere e nell’apparire illusoria realizzazione e reale illusione di tutti! - egli sostituisce il desiderio di servire e accogliere il piccolo. Questa è la grandezza di Dio. Essendo amore, non afferma se stesso a spese dell’altro, ma lo promuove a sue spese; non si serve dell’altro, ma lo serve; non lo spoglia di ciò che ha, ma si spoglia, a suo favore, di tutto, anche di sé, considerandolo il proprio tutto. Essere povero, umile e piccolo è la caratteristica propria di Dio che, divenuto Figlio dell’uomo, si è fatto ultimo di tutti e servo di tutti. La “minorità”, capita così bene da san Francesco, è il sommo valore umano, rivelazione piena del mistero di Dio. Il modello a cui il discepolo deve ispirarsi non è quello mondano della lotta per il dominio. Al centro della comunità nuova Gesù pone se stesso, e un bambino con cui si identifica. Alla concorrenza per essere più grande, si sostituisce il gareggiare nella piccolezza (cf Rm 12,10; Fil 2,3) e nell’accoglienza del piccolo. Gesù, il Figlio che conosce il Padre, propone a noi come criterio di realizzazione la sua piccolezza. Il discepolo è chiamato a riconoscere in sé lo spirito sordo e muto che si nasconde nella sua mania di grandezza, principio di divisione all’interno e di cattiva testimonianza all’esterno. Solo la sublimità della conoscenza di Gesù Signore gli può far capire che quanto il mondo apprezza, non è un cibo appetibile, ma rifiuto graveolente, che attacca la sua puzza a chiunque lo ambisce. La vera grandezza del discepolo è diventare come il Maestro, dice Gesù dopo aver lavato i piedi (Gv 13,14 s). 2. Lettura del testo v. 33 E vennero a Cafarnao, e arrivato in casa. È probabilmente la casa di Pietro, - figura della Chiesa che fu il centro del ministero in Galilea. Per Gesù fu facile liberare la suocera dalla febbre (1,29-31); ora c’è un’altra febbre, molto più grave, un’epidemia mortale che colpisce tutti. Vuol guarirci anche da questa, perché, come la donna e come lui stesso, possiamo servire (1,31; 10,45).

Li interrogava. Gesù interroga chi non l’ha capito e teme di interrogarlo (v. 32). Vuol evidenziare nei discepoli il demonio sordo muto che impedisce loro di intendere e di parlare. Di che cosa discutevate lungo la via? È la via verso Gerusalemme. I discepoli vi sono incamminati con lui, ma con lo spirito opposto al suo. v. 34 Ma essi tacevano. C'è in loro lo Spirito muto, sordo alla provocazione della Parola. avevano discusso lungo la via chi fosse il più grande. Questo è il motivo per cui, ascoltando la Parola, non intendono, e, interrogati, non rispondono. Lo spirito sordo muto, comune a tutti per il peccato, si esprime nel protagonismo, criterio supremo di azione di chi non si sente amato, non si ama e non ama. Per esso l’uomo sacrifica la propria vita agli idoli dell’avere, del potere e dell’apparire di più, distruggendo la propria realtà di figlio di Dio. Quando si litiga e si discute, anche all’interno della Chiesa, non è mai per amore della verità. Per questa si ricerca, si ascolta, si comunica e si dialoga. Litigare e discutere è sempre per primeggiare sull’altro. Questo desiderio mette ciascuno in lotta con sé e con gli altri, e disgrega la comunità in tanti individui chiusi in sé, dei quali ognuno pretende di essere il sole attorno al quale tutto ruota. Quando Adamo volle occupare il posto di Dio, fece solo l’errore di ignorare che sta all’ultimo posto. Circa l’essere “più grande”, bisogna notare che quel “più” è una trappola infernale, con un potere devastante senza limiti. v. 35 sedendosi, chiamò i Dodici. Gesù si siede, nella posizione del maestro che insegna. È una lezione importante. In 3,13 li chiamò e fece i Dodici per essere con lui; in 6,7 li chiamò per inviarli; ora li chiama nuovamente per mostrare la loro vera identità, che dovranno vivere e annunciare. Si può dire che qui Gesù dà la nuova legge, la sua legge. Se uno vuol essere primo, sia ultimo di tutti e servo di tutti. È una definizione di Gesù, che è il primo in quanto ultimo di tutti e servo di tutti. Diventa la norma fondamentale del nuovo popolo. Il primato dell’amore soppianta quello dell’egoismo. La libertà, che ci rende simili a Dio, è farci per amore schiavi gli uni degli altri (Gal 5,13). Così inizia l’istruzione che segue la seconda predizione della passione. Si concluderà con l’affermazione analoga: “Molti dei primi saranno ultimi e degli ultimi i primi” (10,31). Infatti il Figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la vita per tutti (10,45). La minorità e il servizio sono il segno dello spirito di Cristo. Egli offre ai suoi discepoli questo criterio di realizzazione come guarigione dalla sete di protagonismo, principio di distruzione. v. 36 prendendo un bambino. Il bambino è l’uomo non realizzato, ultimo di tutti. Insufficiente a sé e bisognoso degli altri, è ciò che gli altri ne fanno. Riceve tutto ciò che ha ed è - anche se stesso - vivendo di dono e di accoglienza gratuita. E lo fa con semplicità, perché si sente amato. Diversamente non può neanche vivere. In questo rappresenta la condizione creaturale, comune a tutti. Chi non la riconosce, vivrà in un continuo litigio con sé e con tutti, per approdare al nulla. Per questo, chi vuol entrare nel Regno, deve diventare come i bambini (cf 10,14; Mt 18,3). Bambini quanto a malizia, non quanto a giudizio, ovviamente (1Cor 14,20)! lo mise in mezzo a loro. Nella sinagoga fece venire nel mezzo l’uomo dalla mano arida e chiusa (3,3). Nella casa pone al centro questo bambino, modello dell’uomo nuovo. Il mito del superuomo è inventato da chi, non sapendosi amato e avendo paura del proprio limite, non conosce la propria dignità di creatura. Tutto ciò che hai l’hai ricevuto. E perché ti glori quasi non l’avessi ricevuto (1Cor 4,7)?

presolo in braccio. Lo abbraccia e lo solleva davanti a tutti. Ecco l’uomo! La sua debolezza è la sua forza (cf 2Cor 12,10). Il bisogno di amore e di accoglienza è la sua vera dignità di figlio di Dio, che gli impedisce di trovare altrove la propria sazietà. “Come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come bimbo svezzato è l’anima mia”, dice il salmo 131. Ciò che per il piccolo è il latte - la sua vita - per l’adulto, ormai svezzato, è l’abbandono a un amore che lo avvolge come le braccia di una madre. Senza fiducia, non si diventa mai adulti e liberi: sentirsi amati senza condizioni è l’unica possibilità per vivere umanamente. Diversamente siamo costantemente in cerca di cose sempre più grandi e superiori alle nostre forze, inquieti e angosciati come un vecchio pieno di voglie insoddisfatte in braccio alla morte, che dispera ora e sempre. Così potremmo dire, parafrasando al contrario lo stesso salmo. v. 37 Chi avrà accolto tino di questi bambini. Il bimbo è bisogno di accoglienza, amore e rispetto assoluto. Ma questo è il bisogno che ha ogni uomo per essere felice. Dio stesso di sua natura è pura accoglienza donata e ricevuta, amore reciproco tra Padre e Figlio. nel mio nome. Il nome (= persona) di Gesù, il Figlio, è l’unico luogo di verità dell’uomo, che in lui è se stesso, cioè figlio. Per questo in nessun altro c’è salvezza (At 4,12). Infatti, fuori di lui, l’uomo è fuori di sé, privo della propria identità. Agire nel suo nome è principio di comunione e di vita. Agire nel “proprio” nome - personale o collettivo - è principio di disgregazione e di morte. accoglie me. Lui, ultimo e servo di tutti, si identifica col bambino. Per questo l’amore verso l’ultimo è verso il Signore e viceversa. se uno accoglie me. Accogliere lui è entrare nella propria verità; è realizzarsi e vivere. non accoglie me. Notare l’insistenza su questo verbo. Senza amore si può anche servire, per semplice autoaffermazione o per senso di colpa. Ma non si può accogliere. Accogliere è rinnegare se stessi e affermare l’altro, rimpicciolirsi per lasciargli spazio, lasciarsi invadere e prendere senza invaderlo e prenderlo. È la realtà stessa del Dio amore, la cui vita è la reciproca accoglienza tra Padre e Figlio. ma colui che mi ha inviato. Accogliere il piccolo nel nome del Figlio è accogliere lo stesso Padre: si entra nel mistero della Trinità. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, vedendo la casa di Cafarnao, dove Gesù sta con i suoi discepoli. 3. Chiedo al Signore ciò che voglio: comprendere la grandezza dell’ultimo di tutti e servo di tutti. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

in casa Gesù interroga ed essi tacciono discutere chi è il più grande il primo sia l’ultimo e servo di tutti

il bambino accogliere nel suo nome il bambino: Gesù stesso e il Padre.

4. Passi utili: 1Cr 21,1-17; 1Sam 2,1-11; Sal 8; 131; 1Pt 2,2; Gv 13,1-17.

49. NON IMPEDITELO (9,38-40) 38

Diceva a lui Giovanni: Maestro, abbiamo visto uno che nel tuo nome scacciava demoni, (che non segue noi); e glielo impedivamo, perché non seguiva noi. 39 Ma Gesù disse: Non impeditelo. Infatti non c’è nessuno che farà un prodigio nel mio nome, e potrà subito dopo parlar male di me. 40 Infatti chi non è contro di noi, è per noi. 1. Messaggio nel contesto “Non impeditelo”, dice Gesù ai suoi, gelosi di un tale che scaccia i demoni nel suo nome, ma senza essere del “loro” gruppo. Nel brano precedente i discepoli si dividevano tra loro in nome del proprio io. Qui si dividono dagli altri in nome del proprio noi. Il proprio nome, individuale o collettivo, è principio di divisione; solo il “Nome”, che è quello di Gesù, è fattore di unità tra tutti. Chi ama gode del bene altrui. L’egoista invece non gode del bene, ma solo del suo possesso, e gli fa male quello altrui. È vittima dell’invidia, figlia dell’egoismo e madre dell’orgoglio. Essa riduce la vita a un inferno, perché produce una sofferenza proporzionale al bene, fino a una sofferenza infinita davanti al Bene infinito. Per essa entrò la morte nel mondo (Sap 2,24). La vita infatti, essendo dono e amore, è tale in quanto non posseduta. Egoismo, invidia e orgoglio possono essere in forma sia personale che collettiva. Quest’ultima, molto più dannosa, è tanto macroscopica da riuscire invisibile all’individuo, che può continuare a vivere di dedizione, servizio e umiltà nei confronti del suo “noi” - come un bandito nel confronti della banda. La scena precedente parla del demone dell’individuo, la presente di quello comunitario. I discepoli sono un “noi” ben definito e costituito. Ed è giusto che sia così. L’uomo è anche bisogno di aggregazione e appartenenza visibile. Solo che questo “noi”, invece di Gesù, ha al centro se stesso. Si tratta di una comunità che fa a livello grande quel male al quale ognuno ha rinunciato a livello individuale. È un protagonismo comunitario, che si verifica ogni qualvolta cerchiamo il “nostro” prestigio e non il servizio degli altri.

Ciò è evidenziato bene dalle parole di Giovanni: si vuol impedire del bene, perché chi lo fa “non segue noi”. Se il peccato originale del singolo è mettere l’io al posto di Dio, quello comunitario è mettere il “noi”. I discepoli pretendono di essere seguiti! È importante sapere che la Chiesa non è fatta da chi segue “noi”, ma da chi ascolta e segue lui. Maledetto l’uomo che segue l’uomo. L’unità nostra è andare dietro a lui, che ci conduce fuori da tutti gli steccati e ci apre a tutti, cominciando proprio dai più lontani e dagli esclusi. L’essere con lui, il Figlio, ci unisce al Padre e ai fratelli, e forma un “noi” che non si delimita con una siepe di proprietà, ma con una spinta interna di simpatia verso tutti. Ma non per questo il cristianesimo è fenomeno di massificazione. Gesù fugge dalle folle e forma persone che possano fare un popolo. E ognuno diventa persona nel suo rapporto indelegabile con lui, il Signore. Nel nome di Gesù la Chiesa abbraccia tutti e non esclude nessuno. In altri nomi, personali o collettivi, nascono i ghetti, gli spiriti di parte, le sette e le esclusioni. Ma chi esclude uno, esclude colui che si è fatto ultimo di tutti. Oltre che non essere cattolico (= universale), non è neanche cristiano: non ha ancora lo Spirito del Figlio che, conoscendo l’amore del Padre, è morto per tutti i fratelli. Più forte è l’unione con lui, più forte è l’unità tra di noi. Ma non è un monolitismo rigido, che teme di rompersi. È un’unità in piena libertà propria e altrui. Unico è il pastore, Gesù, e unico è il gregge. Ma non unico è l’ovile (Gv 10,16)! Nell’ovile le pecore sono munte e tosate, e muoiono di fame. Il pastore le conduce fuori da tutti i recinti, perché ,possano pascolare (Gv 10,4). Il criterio di appartenenza all’unico gregge è la nostra unione con lui, senza del quale non possiamo fare nulla (Gv 15,5). L’unione tra di noi può essere molto carnale. Molti di quelli che fanno parte della Chiesa visibile non fanno parte di quella invisibile, perché non seguono il Signore Gesù, ma se stessi, le proprie idee e i propri desideri proiettati su di lui. Alla comunità di Corinto, molto vivace e travagliata da divisioni, Paolo dà come criterio decisivo di unità: “Se qualcuno non ama il Signore sia anatema” (1Cor 16,22). E per capire lo spirito di non esclusione con il quale lo dice, basti ricordare che dice anche: “Vorrei essere io stesso anatema, separato da Cristo, a vantaggio dei miei fratelli” (Rm 9,3)! Questo brano ci ricorda che il male del brano precedente è anche a livello comunitario, oltre che personale; e ci dice che lo si supera sempre “nel suo nome”, ponendo solo lui come punto di riferimento, sia personale che ecclesiale. Gesù è il sole. Con lui al centro, tutti ruotiamo armonicamente, seguendo ognuno la propria orbita. La diversità non suona minaccia per nessuno, non è oggetto di paura e di invidia. È segno di ricchezza, e motivo di benedizione verso colui che dà ogni bene. I discepoli formano una comunità, un “noi”, che è la Chiesa. Essa non ha il suo centro in se stessa. Non fa censimenti per sentirsi forte (1Cr 21,1 ss), e non cerca la propria gloria. Serve solo il Signore, ed è aperta a tutti, con disponibilità e umiltà. Finché cerca in lui l’unità, è una e rimane libera, liberante e cattolica. Deve però sempre guardarsi dall’orgoglio collettivo, tipico del debole che si fa gregario. Nascono così le divisioni, operate dai credenti che si ritengono migliori e nella verità, pensando di avere Dio con loro (Gott mit uns!). Questi si aggregano tra di loro, lasciando in secondo piano la sequela del solo Signore. Come nel nome di Gesù ci si possa dividere tra cristiani o dagli altri, è un mistero d’iniquità tanto incomprensibile che si rinuncia a capirlo, dandolo per scontato! La causa possiamo vederla riflessa già in un’antica proposta ecumenica - e speriamo sia solo antica! che dice: “I greci ritorneranno all’obbedienza della Chiesa romana, i tartari si convertiranno per la maggior parte alla fede, i saraceni saranno distrutti, e ci sarà un solo gregge e un solo pastore” (Ruggero Bacone).

2. Lettura del testo v. 38 Diceva a lui Giovanni. L’obiezione è fatta da lui forse per il suo carattere focoso - è il figlio del tuono (3,17), che invoca fuoco su un villaggio di samaritani (Lc 9,54). Oppure, forse, essendo lui “il discepolo che Gesù amava”, rappresentava all’interno della comunità l’elemento che sempre fa problema al “noi”? Si alluderebbe allora a una tensione tra Chiesa carismatica e istituzionale, nel suoi due elementi necessari e irriducibili, che trovano unità solo nel suo nome. nel tuo nome. Tutto il resto del capitolo risolve i vari problemi della comunità nel suo “nome”, cioè nella sua persona concreta, che è l’unico criterio di discernimento. Perché “in nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12). scacciava demoni. La vittoria su satana è il fine della missione di chi “è con lui” ed è inviato da lui (3,14 s; 6,7). glielo impedivamo. Il tempo del verbo è imperfetto. Significa che tentavano di impedirglielo ripetutamente e senza risultato. Interessante che i discepoli, tutti insieme, non erano capaci di scacciare il demonio sordo muto. Ora vediamo il perché: ne sono posseduti loro stessi a livello collettivo. Incapaci di vincerlo, sono invidiosi che un “altro” ci riesca. perché non seguiva noi. La comunità dei discepoli qui appare per la prima volta come un “noi” ben delimitato e visibile. E questo va bene! Ma c’è un errore; solo lui va seguito. Chi segue la comunità, è sì pecora, ma non sua. La comunità che pretende di essere seguita, si sostituisce al suo Signore, plagiando persone, facendo congreghe, togliendo libertà e perdendo cattolicità. Ciò che mi costituisce credente è il mio rapporto personale con lui. La Chiesa me lo media, non perché si mette tra me e lui, ma perché, con la parola e i sacramenti, attraverso il tempo mi porta al contatto diretto con lui, salvezza mia e di tutti. La comunione con lui fonda quella tra di noi. Se una persona, o anche una comunità, prende il suo posto, è la rovina. Per questo Matteo, vangelo comunitario per eccellenza, dice di non chiamare nessuno maestro, padre o guida. L’unico maestro è Gesù, l’unico padre è il suo e l’unica guida il suo Spirito (Mt 23,8-10). Seguire Gesù il Signore, e non il nostro “noi”, è la differenza tra la Chiesa di Gesù che, anche se piccola, ha sempre un respiro universale, e una setta che, anche se numerosa, è sempre preoccupata solo di sé. La prima cresce sotto la spinta dello stesso amore che ha avuto Gesù, che è morto per tutti (2Cor 5,14); la seconda si diffonde per proselitismo e desiderio di egemonia, che non viene certamente da Dio. La comunità cristiana è chiamata a saper individuare in sé questo peccato originale comunitario, risvolto collettivo di quello individuale. Quando non lo riconosciamo, facciamo, a fin di bene, come i discepoli che impediscono la sconfitta del male e la venuta del Regno. Questo è ritardato più dalla cecità dei buoni che dalla perversità dei cattivi che, con la persecuzione, l’affrettano! v. 39 Non impeditelo. Il bene non va impedito, anche se non è “nostro”. Il desiderio stesso che sia “nostro” mostra che ci interessa più il “noi” che il bene. Infatti non c'è nessuno che farà un prodigio nel mio nome, ecc. Il problema è vincere il male nell’unico nome in grado di farlo. Queste sono le credenziali, senza bisogno di altre etichette. Operare nel suo nome, significa essere in lui, amarlo e seguirlo. Diversamente si può avere la sorpresa degli apprendisti stregoni di Efeso, che vogliono combattere il male nel nome di Gesù, ma senza appartenergli (At 19,1320).

v. 40 chi non è contro di noi, è per noi. Non è semplice tolleranza virtù borghese peraltro mai abbastanza apprezzata nel mondo religioso, sempre tentato di fanatismo! È annuncio della libertà dei figli di Dio, che conosce bene chi è vincolato al solo Signore. Egli non vede negli altri nemici o antagonisti da combattere, ma fratelli da amare. Questa affermazione è confermata dall’altra di Gesù che dice: “Chi non è con me, è contro di me” (Mt 12,30; Lc 11,23). Infatti la salvezza consiste nell’essere “con lui”, il Signore, e non nell’essere con noi, poveri uomini. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, immaginando il luogo: è ancora in casa a Cafarnao, con i suoi discepoli. 3. Chiedo al Signore ciò che voglio: la liberazione dall’invidia. Che mi conceda di godere del bene altrui. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

non segue noi non impedite

nel mio nome chi non è contro di noi è per noi.

4. Passi utili: Nm 11,25-29; Is 60; Sal 87; 117; At 19,13-20; 2Cor 5,14.

50. NEL NOME (9,41-50) 41

Infatti chiunque vi dia da bere un bicchier d’acqua nel Nome, perché siete di Cristo, amen, vi dico, non perderà la sua mercede. 42 E chiunque scandalizzi uno di questi piccoli che credono (in me), è meglio per lui se gli sta sul collo una mola d’asino, ed è gettato in mare. 43 Se la tua mano ti è di scandalo, tagliala! È meglio per te entrare monco nella vita,

che andare con le due mani nella geenna, nel fuoco inestinguibile 44 [dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue]. 45 E se il tuo piede ti è di scandalo, taglialo! È meglio per te entrare nella vita zoppo, che con i due piedi essere gettato nella geenna, 46 [dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue]. 47 E se il tuo occhio ti è di scandalo gettalo! È meglio per te entrare con un solo occhio nel regno di Dio, che con due occhi essere gettato nella geenna, 48 dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue. 49 Poiché ciascuno sarà salato col fuoco. 50 Buono è il sale; ma se il sale diventa insulso, con che cosa lo condirete? Continuate ad avere in voi stessi sale, e a vivere in pace tra voi. 1. Messaggio nel contesto “Nel Nome”. Il discepolo trova nel nome di Gesù la fonte, il fine e il mezzo di ogni sua azione. Fare del bene a uno nel nome proprio significa schiavizzarlo a sé. Fargli del bene nel suo nome significa essere filantropo, probabilmente ancora per onorare il proprio nome. Fare del bene nel “Nome” significa amare l’altro nella sua vera dignità di figlio di Dio con lo stesso amore del Padre. Chi fa così a sua volta diventa lui stesso suo figlio. La retta intenzione non è secondaria all’azione; è necessaria sia per fare davvero il bene dell’altro, sia per giungere noi stessi al fine per cui siamo creati. Il v. 41 dice che anche il minimo servizio compiuto nel Nome è investito di valore salvifico. Il regno di Dio è infatti vivere qui e ora l’amore del Padre. Guai a dimenticare che questa nostra realtà quotidiana e transitoria genera il futuro definitivo. Il presente, per quanto piccolo, è il seme da cui fiorisce l’eternità. I vv. 42-48 chiedono una decisione radicale: bisogna tagliare tutto ciò che è di inciampo ad altri e a me per seguire Gesù. Andare dietro a lui, è scegliere la vita. Perdere la vita per lui, è salvarla; cercare di salvarla per sé, è perderla. I vv. 49-50 si richiamano tra loro per la parola “sale”, connessa col sacrificio, con la sapienza e con la pace. Vi si dichiara la necessità del sacrificio e il pericolo di perdere la sapienza di Cristo, esortando a conservarla come principio di pace gli uni con gli altri. Così si chiude l’istruzione che Gesù ha dato “in casa”, in privato, al suoi discepoli in Cafarnao.

Gesù è il Nome. Tutto ciò che esiste, in lui trova la sua vita. Per questo è vera sapienza perdere tutto per acquistare lui. Il discepolo è colui che ha smesso di agire nel nome proprio, personale e collettivo. Unito a lui, agisce in lui e come lui, compiendo la sua stessa opera, disposto a rinunciare a tutto ciò che gli è di inciampo. 2. Lettura del testo v. 41 un bicchier d'acqua. L’amore si manifesta nei fatti più che nelle parole. Nei servizi piccoli e quotidiani si rivela più puramente che in quelli grandi e straordinari, nei quali gioca facilmente l’autoaffermazione. nel Nome. Il nome è la persona. Gesù, come è il centro della comunità, così è il cuore di ogni nostra azione e decisione. Il suo nome non è qualcosa di estraneo a ciò che facciamo. È come la direzione impressa alla freccia, che le fa raggiungere il bersaglio. In lui l’uomo ritrova la propria esistenza autentica: quella di figlio e di fratello. Fuori di lui è fuori di sé; fallisce e cade nel niente di sé. Per questo Gesù dice: “Senza di me, non potete fare nulla” (Gv 15,5). Lui infatti è il Nome. perché siete di Cristo. È la più bella definizione del discepolo; anticipa quella di “cristiano” (cf At 11,26). Indica relazione e appartenenza d’amore reciproco, perché lui per primo ci ha amati. L’uomo è sempre “di” qualcuno. Chi è di nessuno, è nella solitudine assoluta, nell’inferno. non perderà la sua mercede. La ricompensa di chi si comporta da fratello è l’essere figlio. L’ingresso nel regno del Padre non si gioca in cose eccezionali, ma nella piccolezza di quelle più semplici e necessarie (cf Mt 25,40 ss). Ogni azione umana assume la sua qualità dall’intenzione. Per questo, anche il minimo gesto compiuto nel suo nome, ha dignità massima, che non verrà mai persa. “Accoglietevi gli uni gli altri, come Cristo accolse voi” (Rm 15,7). v. 42 chiunque scandalizzi. “Scandalo” significa ostacolo, inciampo. Scandalizzare è il contrario di servire: invece di aiutare uno nel suo cammino dietro a Gesù, lo si fa inciampare e cadere. di questi piccoli che credono (in me). Per i discepoli, ancora piccoli, ossia deboli nella fede, possono essere d’inciampo anche cose per me indifferenti o addirittura buone. Devo stare attento al fratello debole, seguendo l’esempio di Paolo in 1Cor 8,1 ss e Rm 14,1-15,7. Il criterio della mia azione è l’edificazione sua. Bisogna fare la verità nella carità (Ef 4,15). La scienza senza carità gonfia chi ce l’ha, e non è utile a nessuno (1Cor 8,2). è meglio, ecc. Gesù non esorta né al suicidio né all’omicidio. Vuole dire, con questo paragone, che la morte più tremenda è meno grave che fare del male a un fratello: è uccidere in lui e in me la vita del Figlio. v. 43 Se la tua mano ti è di scandalo. Come posso essere di ostacolo ad altri, così ci può essere qualcosa che ostacola me. La mia mano, per esempio, quando è chiusa nel possesso invece che aperta al dono. Essa può agire sia per la vita che per la morte. Forse, come Briareo, ho cento mani per prendere e nessuna per ricevere e dare. tagliala. Bisogna tagliare tutte le mani con cui faccio il male, e tenere l’unica con cui opero il bene.

È meglio per te entrare monco nella vita. Non è un’amputazione masochistica o un taglio mortificante: è una potatura, per portare frutto, ed entrare nella vita, nel Regno (cf anche vv. 45.47). che andare con le due mani nella Geenna. L’alternativa è la Geenna, la valle dell’Hinnon, dove si immolavano vittime a Moloch e in seguito si bruciavano le immondizie. Chi non è disposto a essere mondato con la potatura, sacrifica se stesso all’idolo e butta via la propria vita come immondizia. fuoco inestinguibile. Il fuoco, che di continuo arde nella valle dell’Hinnon per bruciare la spazzatura, è immagine dell’inferno come fallimento dell’uomo. v. 45 Se il tuo piede, ecc. L’uomo cammina sempre. Ma dove va il mio piede, qual è la speranza che muove la mia vita? Seguo Gesù, oppure ho mille piedi che mi portano in direzioni diverse dalla sua? v. 47 se il tuo occhio, ecc. L’occhio è il desiderio. Porta con sé il cuore e determina gli obiettivi che il piede cerca di raggiungere e la mano di prendere. È quindi principio di decisione e di direzione. Devo perdere i mille occhi che inseguono cose vane, e tenere quello che sta fisso sul Signore. L’occhio da tenere è la fede, che mi fa vedere Gesù; il piede da tenere è la speranza, che me lo fa seguire; la mano da tenere è la carità, che me lo fa toccare. v. 48 dove il loro verme non muore, ecc. Sono le ultime parole del profeta Isaia, che parla del destino dei ribelli, in contrapposizione al cieli nuovi che Dio farà per l’eternità (Is 66,22-24). Il verme e il fuoco inestinguibile, che richiama ancora la valle dell’Hinnon, indicano la putrefazione e l’autodistruzione di chi non si decide per il Regno. Le parole di Gesù non minacciano una punizione. Sono un ammonimento a costatare il male in cui siamo, perché ne usciamo. L’inferno è il luogo dal quale Dio ci salva. v. 49 ciascuno sarà salato col fuoco. Per non bruciare nel fuoco con i rifiuti, il discepolo deve ardere di un altro fuoco. È lo Spirito Santo, che accende in noi una vita nuova che ha il sapore, ossia la sapienza del Figlio. Questa ci conserva dalla corruzione e ci rende capaci di sacrificio. Senza sacrificio l’uomo si riduce a bestiolina, incapace di capire e di amare, perché insegue solo il piacere. Questo è criterio sufficiente di azione per l’animale, ma non per l’uomo che, dotato di intelligenza e di volontà, è destinato alla felicità. Scambiare felicità e piacere è il grosso equivoco di sempre. Ma il piacere genera poi infelicità e solitudine; la felicità invece rimane, e genera gioia e comunione. v. 50 Buono è il sale. Il sale è simbolo di tutto ciò che dà sapore alla vita, preservandola dall’insipienza e dal vuoto. Se il sale diventa insulso. Sale senza sapore è il discepolo che non ha la sapienza di Cristo, il fuoco dell’amore che purifica dall’egoismo e dispone al sacrificio. Sale insulso è chi non è disposto a tagliare ciò che nuoce. Continuate ad avere in voi stessi sale, ecc. Gesù ci dice di continuare ad avere in noi la vera sapienza che è quella di vivere e agire “nel suo nome”. Questo è principio di pace piena, sia in noi che con gli altri. 3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, osservando il luogo: la casa di Pietro in Cafarnao, dove Gesù sta con i suoi discepoli e li istruisce. 3. Chiedo ciò che voglio: chiedo a Gesù che ogni mio desiderare, volere, capire e agire sia “nel suo nome”, ordinato solamente a lode e servizio del Padre. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

un bicchiere di acqua nel Nome siete di Cristo scandalizza

la mano il piede l’occhio sale insulso

4. Passi utili: Gn 18,1-15; Eb 13,2; Sal 103; 145; Dt 30,15-20; Sal 19,8-15; 1Cor 8; Rm 14,1-15,13.

51. NON SONO PIÙ DUE, MA UNA CARNE SOLA (10,1-12) 101 E, alzatosi di lì, viene nel confini della Giudea, e al di là del Giordano. E di nuovo folle convengono attorno a lui; e, come usava, di nuovo le ammaestrava. 2 E, facendosi avanti, dei farisei lo interrogavano, per tentarlo, se è lecito a un uomo rimandare la donna. 3 Egli, rispondendo, disse loro: Cosa vi ordinò Mosè? 4 E quelli dissero: Mosè permise di scrivere il documento di divorzio e rimandarla. 5 Ma Gesù disse loro: Per la vostra durezza di cuore vi scrisse questo ordinamento. 6 Ma al principio della creazione Dio li fece maschio e femmina. 7 Per questo l’uomo lascerà il padre suo e la madre, e si unirà alla sua donna, 8 e i due saranno in una carne sola. E così non sono più due, ma una carne sola. 9 Ciò che Dio congiunse, uomo non separi! 10 E, a casa, di nuovo i discepoli

lo interrogavano su questo. 11 E dice loro: Chiunque rimandi la sua donna e sposi un’altra, commette adulterio contro di lei; 12 e se essa, rimandato il suo uomo, sposi un altro, commette un adulterio. 1. Messaggio nel contesto “Non sono più due, ma una carne sola”, ribadisce Gesù dell’uomo e della donna creati da Dio a sua immagine e somiglianza. Infatti, proprio in quanto maschio e femmina, i due sono relazione l’uno all’altro, dono e accoglienza vicendevole, e formano insieme una sola vita nell’unico amore. In questo senso il matrimonio adombra la Trinità, compagnia perfetta, vittoria su ogni solitudine. Il rapporto maschio/femmina inoltre è figura del rapporto Dio/uomo. Dio è lo sposo dell’uomo, sua sposa, che ama di amore eterno (Ger 31,3). La bibbia non è che il racconto del suo amore incredibile, la cui prova estrema è la sua morte in croce per noi che lo rifiutiamo. Uno diventa se stesso dicendo sì a questa relazione che lo fa essere ciò che è. La nostra dignità è quella di essere suoi interlocutori e partners, simili a lui. L’amore infatti o trova o rende uguali. Il nostro destino è unirci a lui, in reciprocità di amore, nella carne del Figlio. Questo mistero è veramente grande (Ef 5,32). Ci è stato rivelato in Gesù, nel quale Dio ha indissolubilmente sposato la nostra umanità e ciascuno di noi. Il significato del matrimonio non si esaurisce quindi nella conservazione della specie (generazione della prole) o nella semplice soddisfazione di varie necessità (bisogno di aiuto); non è neanche un modo qualunque di vincere l’incompiutezza e superare la solitudine (bisogno di compagnia), dato che non è bene per l’uomo, che è relazione, essere solo (Gn 2,18). È un mistero che trova la sua espressione piena nell’amore assoluto per Dio, dove l’uomo realizza se stesso. In questa ottica si capisce l’importanza che la Chiesa dà alla monogamia. Un amore che non sia fedele e totale non è riflesso di quello di Dio, e non è amore. Nelle varie catechesi familiari (Ef 5,22-6,4; 1Tm 2,8-13; 5,1-6,2; Tt 1,5-9; 2,2-10; 1Pt 2,13-3,7; 5,1-5) il modello del rapporto sposo/sposa è sempre quello di Cristo con la sua Chiesa. Anche il celibato è comprensibile solo come testimonianza profetica di questo amore per Dio, con cuore indiviso (1Cor 7,34), al quale ogni uomo è chiamato. Un matrimonio ben riuscito è figura transitoria di questa realtà che non passa. Da qui l’eccellenza del celibato che dà senso allo stesso matrimonio. “Non tutti possono capirlo, ma solo coloro al quali è stato concesso”, dice Gesù (Mt 19,11). “Vorrei che tutti fossero come me”, dice Paolo. “Ma ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro” (1Cor 7,7). Un matrimonio riuscito, anche se è una realtà transitoria, accende già ora quella vampa del Signore che mai si spegnerà (cf Ct 8,6 s). In questo brano Gesù ci mostra come avere in noi il “sale”, cioè la sua sapienza, per quel che concerne il rapporto d’alterità e unità tra uomo e donna. Seguirà l’istruzione sul rapporto d’identità con se stesso (vv. 13-16) e di dono nei confronti delle cose (vv. 23-31). Il peccato originale, allontanando l’uomo da Dio, l’ha alienato da sé, dall’altro e dal mondo. Cristo lo restituisce a sé e all’altro, facendolo signore del creato, come era al principio. La regolamentazione del divorzio fatta da Mosè non rappresenta il disegno originario di Dio. Serve a limitare i danni e va intesa non come legittimazione, ma come denuncia dei male.

Gesù ci libera dalla durezza di cuore. In lui vediamo e accettiamo l’amore di Dio per noi, che ci offre la possibilità di vivere ciò che era “in principio”. Il discepolo riscopre in lui la vera dignità dell’uomo: essere partner di Dio e amarlo con tutto il cuore. Vive il matrimonio come immagine di questo grande mistero. Per lui il divorzio è naufragio, amore non andato in porto. La monogamia, più che una legge, è un dono evangelico. Deriva dalla coscienza dell’amore con cui si è amati ed a cui si è chiamati. 2. Lettura del testo v.1 alzatosi di lì. Gesù parte da Cafarnao (9,33) per l’ultima tappa del suo viaggio a Gerusalemme. Da lì era partito pure il cammino in direzione opposta, che abbraccia il lungo periodo che va dalla decisione della morte alla prima predizione della passione-risurrezione (3,6-8,31 s). E di nuovo folle convengono attorno a lui. Riprende anche l’istruzione alla folla, riservando un supplemento di spiegazione ai discepoli. La loro cecità crescente li accomuna per altro sempre più alla massa. Si differenziano da essa non tanto per la diversa comprensione, quanto per la diversa disponibilità. Amano Gesù, anche se non lo capiscono, disposti ad essere presi e ripresi da lui. v. 2 lo interrogavano, per tentarlo. Chiedere per tentare è azione diabolica (1,13). Bisogna chiedere come i discepoli, che stanno in casa con lui, disposti ad ascoltarlo (v. 10). è lecito a un uomo rimandare la donna. Presso molti popoli l’uomo acquista la donna comprandola dalla sua famiglia; essa diviene sua proprietà, che può abbandonare quando non gli serve più. I ricchi possono comprarne molte, come segno di potere e fonte di ulteriore ricchezza. Chiaramente questo tipo di rapporto fondato sul possesso non è secondo il disegno di Dio. Al di là della forma, anche per noi il matrimonio è sovente un possesso, una compravendita di mutue prestazioni, una prostituzione reciproca. v. 3 Cosa ordinò Mosè. Dopo aver guastato il rapporto con Dio (“ho avuto paura”) e con sé (“sono nudo”), il primo riflesso del peccato è lo stravolgimento del rapporto con l’altro/a (Gn 3,10.12.16), specchio appunto di quello con Dio. Il matrimonio, invece che amore e servizio, diventa egoismo e sopraffazione. La differenza relativa e il mutuo bisogno si fa arma di potere con cui ognuno domina l’altro. Si sta insieme solo finché dura l’interesse del più forte; cessato questo, cessa tutto. Riconoscendo la situazione di fatto, Mosè diede disposizioni sul divorzio, per limitare i danni del più debole (Dt 24,1-4). Il documento di ripudio sottrae la donna all’arbitrio dell’uomo, e le rende la libertà... di cadere nelle mani di un altro! Circa le cause sufficienti per il divorzio, ammesso da tutti, si oscillava ai tempi di Gesù tra la scuola di Shammai e quella di Hillel. Il primo, più rigoroso, lo ammetteva solo in casi di peccato di lussuria. Per il secondo, più lassista, bastava che la donna lasciasse attaccare il cibo alla pentola! v. 5 Per la vostra durezza di cuore. Gesù dice che questo è il motivo per cui Mosè permise il divorzio. La “sclerocardia” è la vera causa del male (cf 3,5; 6,52; 8,17, dove si parla di “cuore pietrificato”). Il cuore dell’uomo è indurito, non sa amare. Questo è il suo peccato, il suo fallimento, denunciato a tutti i livelli dalla legge. Essa può anche, a certe condizioni, depenalizzare un delitto per arginarne i danni, ponendo un controllo. Anche se utile o addirittura necessario, ciò non è mai però un legalizzare che renda buona o lecita la cosa.

v. 6 al principio della creazione. Con Gesù la creazione raggiunge il suo fine; torna ad essere come Dio l’ha pensata fin dal principio. Lui stesso è il principio, nel quale, per mezzo del quale, e in vista del quale tutto è stato fatto. In lui tutto ciò che è fatto ha vita e sussiste nella sua verità originaria (Ef 1,4; Col 1,16 s; Eb 1,3; Gv 1,3). li fece maschio e femmina. A sua immagine e somiglianza li fece (Gn 1,27). La differenza sessuale non è oggetto d’invidia e di possesso, ma, ponendo un’alterità complementare, fa sì che i due siano mutua relazione di dono reciproco. La bisessualità quindi porta a livello corporeo il sigillo di Dio che è amore. v. 7 l'uomo lascerà il padre suo, ecc. (Gn 2,24). È una reliquia di tradizione antica. Quando vigeva il matriarcato, l’uomo lasciava i suoi per unirsi al clan della moglie. Il significato mistico è molto profondo. Il nuovo Adamo abbandonerà il Padre, lasciando la sua dimora e ogni suo privilegio, per venire da noi e unirsi a noi in un’unica carne di servo. Questa citazione è presa dal secondo racconto della creazione, quasi a dire che, dopo il fallimento del primo, fu creato il secondo Adamo. v. 8 i due saranno in una carne sola (Gn 2,24). In questo secondo racconto si parla di Adamo addormentato, dal cui fianco è tratta Eva. È figura del Cristo morto, dal cui costato trafitto è formata la Chiesa. Egli l’ha amata e ha dato per lei tutto se stesso, corpo e sangue. Proprio così lei nasce come sposa, capace di riamarlo e formare con lui una carne sola. L’unione tra Dio e uomo, che in Gesù si sposano in un’unica persona umano-divina, è il mistero di salvezza. v. 9 Ciò che Dio congiunse. Questa è l’opera di Dio: distinguere per unire. Come ha distinto l’uomo in maschio e femmina perché si unissero nell’amore, così ha fatto l’uomo distinto da sé, per unirlo a sé in un’unica vita. uomo non separi. Separare è l’azione dell’uomo incapace di distinguere e congiungere. Separare una cosa inanimata significa dimezzarla. Separare un vivente significa ucciderlo. Rompere l’unione tra maschio e femmina è uccidere la loro vita, che è l’amore. L’uomo che non ama, non è. v. 10 a casa, i discepoli lo interrogavano. Perché l’interrogare Gesù sia diverso da quello dei farisei, vedi 4,10-12. v. 11 Chiunque rimandi la sua donna e sposi un'altra, ecc. L’adulterio non è lasciarla. Luca esorta a lasciarla per il Regno, come lo stesso Paolo dice che vorrebbe che tutti fossero come lui, senza donna (Lc 14,26; 1Cor 7,7). L’adulterio si consuma nel prenderne un’altra. v. 12 se essa, rimandato il suo uomo, ecc. Ciò che vale per l’uomo vale anche per la donna; hanno uguali doveri e diritti reciproci. “Agli sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito - e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito - e il marito non ripudi la moglie” (1Cor 7,10s). L’indissolubilità del matrimonio cristiano non è una legge difficile da osservare: è “vangelo”, la buona notizia che all’uomo è finalmente dato di amare come è amato. Il matrimonio è un sacramento, cioè partecipazione al corpo di Cristo morto e risorto per noi. Lo si vive in lui, morendo quotidianamente all’egoismo e risorgendo a vita nuova. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito.

2. Mi raccolgo, guardando il luogo: la strada su cui Gesù cammina oltre il Giordano, in Giudea. 3. Chiedo ciò che voglio: capire il mistero del matrimonio, che è lo stesso del mio rapporto con lui. Gli chiedo di guarirmi dalla durezza di cuore, di darmi un cuore nuovo, capace di accogliere il suo amore e di amare con fedeltà e misericordia. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

durezza di cuore ciò che Dio congiunse al principio uomo non separi non sono più due, ma una sola carne

4. Passi utili: Gn 1,27; 2,18-24; Sal 45; 128; Cantico dei Cantici; Os 2,16-23; Ez 16; Ef 5,21-33; Ap 19,1-10; 2Cor 11,1s; 1Cor 7,25-35.

52. DI CHI È COME LORO È IL REGNO DI DIO (10,13-16) 13

E gli portavano dei bambini, perché li toccasse. Ma i discepoli li sgridavano. 14 Ma Gesù, vedendo, si sdegnò e disse loro: Lasciate che i bambini vengano a me, non impediteli, perché di chi è come loro è il regno di Dio. 15 Amen, vi dico, chi non accolga il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso. 16 E, abbracciandoli, li benediceva, imponendo su di loro le mani. 1. Messaggio nel contesto “Di chi è come loro è il regno di Dio”, dice Gesù dei bambini che accorrono a lui. C’è un’intesa profonda con loro, che sfugge ai discepoli: li abbraccia, desidera che vengano a lui, li benedice e impone loro le mani. La scena riprende e amplia il tema di 9,36 s. Nel brano precedente si parlava del rapporto “con l’altro”, rovinato dal peccato e restaurato da Gesù. Ora si parla del nuovo rapporto “con sé”, necessario per entrare nel Regno. Adamo, che aveva posto il proprio io al centro di tutto, scopertosi nudo e bisognoso di tutto, fuggì da Dio, perché ne aveva paura. Il bambino tranquillamente è povero e riceve tutto. Niente di sé, è ciò che gli altri fanno di lui. E vive tutto questo con naturalezza. Accorrendo con fiducia da chi lo accoglie, dà libera espressione alla sua condizione filiale, accettata dagli altri e da lui come unica possibilità di vita.

Ma ciò vale di ogni uomo, che è fondamentalmente relazione e appartenenza filiale: è “di” qualcuno, in quanto figlio. Se non vuol essere di Dio, diventa di sé, di altri o di altro, alienandosi rispettivamente nell’egoismo, nella schiavitù o nell’idolatria. La presunta autosufficienza è in realtà morte dell’io. L’uomo è essenzialmente figlio, che riceve come dono d’amore tutto ciò che ha ed è, compreso il proprio io. Diversamente non esiste. Nessuno infatti dà ciò che non ha, e nessuno ha ciò che non ha ricevuto. L’orgoglio, che è in realtà paura di non essere amato, impedendo di ricevere, rende impossibile l’essere amato e l’amare. Gesù, il nuovo Adamo, è il primo che ha vissuto in pienezza la condizione filiale. Il suo essere tutto del Padre, da lui e per lui, è la sua ricchezza infinita, che riversa su tutti i fratelli che si raccolgono intorno a lui. A lui non accorrono i grandi e i potenti, ma quelli che sono come lui, piccolo e povero (9,33 ss; 10,35 ss). Accolti dal Figlio, entrano nel regno del Padre. Il brano inizia con Gesù che tocca, e termina con lui che abbraccia, benedice e impone le mani. Tutte queste espressioni di contatto esprimono la fede, come comunione fisica con lui, il Figlio. Bisogna che l’adulto, rinascendo da acqua e da Spirito (Gv 3,5), acquisti le qualità del bambino, e diventi come lui per entrare nel Regno (Mt 18,3). Il battesimo è una rinascita che, incorporandoci a lui, ci dà l’identità nostra e di Dio: noi siamo figli e lui ci è Padre. Gesù è il più grande di tutti, perché è il piccolo che acconsente pienamente al suo essere Figlio. Essere con lui è la condizione per entrare nel regno dei Padre. Discepolo è colui che nulla possiede e tutto riceve. È figlio: ciò che è, è dono, e come tale si accetta con gioia. 2.

Lettura del testo

v. 13 gli portavano dei bambini. Se la donna era possesso dei marito, il bambino era un’appendice della donna. È il povero in senso assoluto, che non possiede nulla, neanche se stesso. Vive dell’amore gratuito dell’altro, ignorando orgoglio e paura, e senza cercare foglie di fico per coprire la sua indigenza. La sua debolezza è l’unica sua forza. Egli ammette di avere bisogno degli altri e di essere “di” qualcuno che lo ama. Questa è la condizione fondamentale dell’uomo. Solo per errore -fonte di illusione e delusione continua - pensa che la sua via consista nell’avere, nel potere e nell’apparire di più. Il bambino è simile a Gesù, il Figlio che tutto riceve dal Padre. Per questo il suo mistero è rivelato ai piccoli mentre resta celato agli intelligenti e ai sapienti (Lc 10,21). perché li toccasse. Il tatto è la forma primordiale di conoscenza, di comunicazione e di comunione: toccare è unirsi a ciò che si tocca. Non si i tocca ciò che si teme o si disprezza, ma solo ciò che si ama e si i apprezza. Il “Toccare” in Marco esprime la qualità fondamentale della fede come comunione con Gesù e guarigione dell’uomo (cf 5,21-43). i discepoli li sgridavano. Anche Gesù sgridava i demoni e chi voleva rivelarlo prima del tempo stabilito. I discepoli pensano che sia per lo meno inopportuno che i bambini disturbino il Maestro, che ha cose importanti da spiegare. Per esempio, come si entra nel Regno! v. 14 Gesù, vedendo, si sdegnò. È la stessa parola che descrive il risentimento dei discepoli con la donna di Betania (14,4). Marco dice rare volte ciò che Gesù sente. Ricorda la sua compassione per chi sta male (1,41; 6,34; 8,2), la sua ira contro la durezza di cuore (3,5), l’amore del suo sguardo (10,21) e la

sua angoscia davanti alla morte (14,33; 15,34). Qui si parla del suo sdegno contro l’impedimento del bene. Il suo volto di gioia è conosciuto solo dal piccolo che va a lui. Lasciate che i bambini vengano a me. Andare a lui, il Figlio, è la salvezza dell’uomo. Il piccolo ne è irresistibilmente attratto. non impediteli (cf 14,6). Gesù dice ai suoi di lasciare e non impedire i piccoli, che sono i soli che vogliono e possono accedere a lui. di chi è come loro è il regno di Dio. Il Regno è Gesù, il Figlio povero, umiliato e umile, che può essere accolto così com’è solo da chi gli è vicino ed è come lui. E chi non lo è, lo diventa. Il lavoro che Gesù sta progressivamente facendo con i suoi discepoli è portarli alla verità del bambino. Anche gli adulti sono chiamati a diventare piccoli (Mt 18,3); anche i vecchi come Nicodemo devono rinascere (Gv 3,3 s). Quando si scopriranno ciechi, potranno con Bartimeo venire alla luce. v. 15 Amen, vi dico. È un’affermazione solenne, con l’autorità di Dio che parla in prima persona. chi non accolga il regno di Dio. Il Regno non è un prodotto da costruire, ma un dono da accogliere, che già c’è. È Gesù, il Figlio, nel quale diventiamo ciò che siamo: figli del Padre e fratelli di tutti. come un bambino. Il titolo sul quale il bambino fa forza per ottenere è la sua debolezza, il suo bisogno. Sono le qualità dalle quali l’adulto si difende, nuocendo a sé e agli altri. non entrerà in esso. All’uomo ricco e autosufficiente è difficile, anzi impossibile entrare nel Regno (v. 23 s). v. 16 abbracciandoli. Le braccia del Figlio allargate a tutti i fratelli sono l’ampio cerchio del regno del Padre: aperto a tutti, stringe solo i piccoli, gli unici che lo accolgono. li benediceva. Gesù insiste nel benedire quelli che i discepoli sgridano. imponendo su di loro le mani. È il gesto con cui si trasmette ciò che si ha dentro la propria forza e il proprio spirito. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, vedendo la casa dove sta Gesù attorniato dai discepoli e dai bambini. 3. Gli chiedo ciò che desidero e voglio: diventare come un bambino, essere portato da lui, essere toccato, abbracciato e benedetto da lui, per entrare nel Regno. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare: bambino di chi è come loro è il regno di Dio toccarechi non accoglie il regno di Dio come un sgridano bambino, non entrerà in esso sdegnarsi abbracciare imporre le mani.

4. Passi utili: Sal 8; 131; Mt 11,25-29; Gv 3,3-8; 1Pt 2,1 s; La preghiera di Gesù: Mt 6,9-13; Lc 11,2-4.

53. TUTTO È POSSIBILE PRESSO DIO (10,17-31) 17

E, uscito egli per il cammino, uno gli corse incontro, si inginocchiò a lui e lo interrogava: Maestro buono, che devo fare per ereditare vita eterna? 18 Ora Gesù gli disse: Perché mi dici buono? Nessuno è buono, se non il solo Dio! 19 Conosci i comandamenti: non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non defraudare, onora il padre tuo e la madre. 20 Ora quello disse: Maestro, tutto questo ho custodito fin dalla mia giovinezza. 21 Ora Gesù, guardandolo dentro, lo amò e gli disse: Una sola cosa ti manca: va’, vendi quanto hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni, seguimi. 22 Ma egli, inorridito per la parola, se ne andò intristito. Aveva infatti molti beni. 23 E, guardandosi intorno, Gesù dice al suoi discepoli: Quanto difficilmente

quelli che hanno le ricchezze entreranno nel regno di Dio. 24 E i discepoli stupivano per le sue parole. E Gesù di nuovo, rispondendo, dice loro: Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio. 25 È minor fatica per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio. 26 Ed essi erano enormemente sconvolti, dicendo fra loro: E chi può salvarsi? 27 Guardando loro dentro, Gesù dice: Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio, perché tutto è possibile presso Dio. 28 E Pietro cominciò a dirgli: Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e abbiamo seguito te. 29 Gesù disse: Amen vi dico, non c’è nessuno che ha lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi, a causa di me e a causa del vangelo, 30 che non riceva il centuplo adesso, in questo tempo, in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme con persecuzioni, e, nel secolo che sta per venire, vita eterna. 31 Molti primi saranno ultimi, e gli ultimi primi. 1. Messaggio nel contesto “Tutto è possibile presso Dio”, risponde Gesù ai discepoli, quando finalmente capiscono che nessuno può salvarsi. Infatti siamo tutti ricchi, sprovvisti della povertà del bambino, indispensabile per accogliere il Regno. Ma riconoscere tale impossibilità è già principio di salvezza. Infatti costatare la propria perdizione significa essere ridotti alla povertà estrema, condizione necessaria per accettare che Dio solo salva. Dopo aver visto il nostro rapporto con l’altro e con noi stessi (vv. 1-12; 13-16), ora vediamo il nostro rapporto con le cose in ordine al nostro destino.

Tutto è stato creato per noi, perché ne usiamo tanto quanto ci serve per amare Dio e i fratelli. Amiamo Dio riconoscendo il dono e lodandolo; amiamo i fratelli donando e condividendo. Ma il peccato ha messo in noi la brama di possesso. Le cose hanno preso il posto di Dio. La paura della morte ci spinge a cercare in esse, invece che in lui, la garanzia di vita. Di fatto assicurano la soddisfazione dei bisogni che abbiamo; ma non del bisogno che siamo. L’economia del possesso uccide quella del dono; capovolge il rapporto tra mezzi e fine, trasformando l’uomo da signore in servo delle creature. L’avidità di ricchezza è vera idolatria (Col 3,5), e l’attaccamento al denaro è radice di tutti i mali (1Tm 6,10). Il brano continua il tema precedente, che riguarda il problema fondamentale dell’uomo; entrare nel Regno, ereditare la vita eterna, salvarsi. Il racconto si divide in tre scene. La prima (vv. 17-22) ci presenta un ricco, che oltre le buone intenzioni per entrare nel Regno, sembra avere tutti i requisiti. Tranne però quello fondamentale, che è amare Dio e i fratelli sopra ogni cosa. L’incontro con Gesù gli renderà possibile l’impossibile, facendogli riconoscere il Signore e liberandolo dall’idolo che lo schiavizza? Gesù cerca di metterlo su questa strada, dicendogli che Dio solo è buono, e che ora può lasciar tutto e decidersi a seguirlo. Ma l’attaccamento al suoi beni lo rende cieco. Nell’alternativa Dio/mammona, sceglie mammona. Alla fine, invece della gioia di chi ha trovato il tesoro, ha la tristezza di chi si sa perduto. A differenza del nemico, che dà piacere nel male e angustia nel bene, il Signore, come dà gioia nel bene, così dà tristezza nel male perché ci si ravveda. La seconda scena (vv. 23-27) ci presenta le dichiarazioni di Gesù sull’impossibilità della salvezza, e lo stupore costernato dei discepoli. Tutti siamo troppo grandi per entrare nel Regno dei bambini: siamo cammelli che tentano buffamente di passare per la cruna di un ago. Riconoscere questa impossibilità ci fa piccoli. Più siamo ricchi, più ci scopriamo incapaci e poveri davanti a ciò che conta. La terza scena (vv. 28-31) ci presenta la constatazione meravigliata di Pietro: come mai i discepoli hanno seguito il Signore, compiendo quel passo che fa entrare nel Regno? La sua chiamata e la sua parola li ha resi poveri e piccoli, facendo loro scoprire il tesoro inestimabile per il quale si lascia tutto. La prima scena quindi è sulla necessità, la seconda sull’impossibilità e la terza sulla possibilità della povertà che apre le porte alla vita. Gesù è il Signore da amare con tutto il cuore (12,30). Il Regno è amare lui, che si è fatto nostro fratello per poter essere incontrato e baciato da noi (Ct 8,1). E si è fatto ultimo di tutti, perché amando il più povero, amiamo lui; e amando lui amiamo tutti. Il discepolo è colui che nel suo sguardo ha scoperto l’unico bene. Conquistato dal Signore, come Paolo, lascia perdere tutto e corre per conquistarlo (Fil 3,8.12). Il suo rapporto con le cose torna ad essere come era al principio, secondo il disegno di Dio: libero dall’idolatria, le vive come dono, ricevendole dal Padre e condividendole con i fratelli. 2. Lettura del testo v. 17 uscito egli per il cammino. Dopo l’istruzione in privato ai suoi, Gesù riprende il cammino che, da Cesarea di Filippo (8,27) attraverso la Galilea (9,30), porta nella Giudea (v. 1) fino a Gerusalemme (v. 32). È il cammino del maestro, che il discepolo è chiamato a seguire: quello del Figlio dell’uomo, consegnato nelle mani degli uomini (9,31). uno. Matteo 19,22 ci dice che era un giovane, Luca 18,18, un notabile. quindi giovane, ricco, buono e nobile. È un uomo pienamente realizzato - esattamente il contrario dei bambini, dei quali è il Regno (v. 15).

gli corse incontro, si inginocchiò. Il suo correre e inginocchiarsi indica le migliori disposizioni. Queste possono convivere anche con tendenze contrarie, che restano nascoste fino al momento della decisione. Solo allora escono allo scoperto e scatenano una lotta interiore molto grande. Il risultato finale è la gioia o la tristezza, secondo che si vince o si è sconfitti. Maestro buono. Il giovane ha intuito nel Maestro una bontà unica. Gesù darà molto peso a questo appellativo, che a prima vista può suonare poco più che una cortesia. che devo fare. L’uomo, a differenza dell’animale, ha il problema del “che fare”. Non è programmato dall’istinto, ma dal fine che si propone, liberamente o meno. per ereditare. La vita eterna, pur legata a un fare, è anche una “eredità”. Spetta al figlio da parte del padre, ed è legata al suo vivere da fratello. vita eterna. Unico animale cosciente di morire, l’uomo cerca la vita; ma non una qualunque, che sempre è condannata a morte, bensì una che sia libera da questa pena, senza limiti di tempo o di qualità. Questa è la “vita eterna”, orizzonte che dà senso a quella temporale. v. 18 Perché mi dici buono? Gesù lo invita a comprendere il mistero della bontà che ha intuito. Se lo capisce, ha trovato il tesoro. Nessuno è buono se non il solo Dio. È un modo discreto per suggerirgli la propria identità, lasciandogli la gioia di scoprirla e la libertà di esprimerla. È come se dicesse: “Se non sai chi sono, non chiamarmi buono, perché lo è solo Dio. Se sai chi sono, chiamami pure buono e traine le conseguenze”. v. 19 Conosci i comandamenti ecc. Tranne l’ultimo, sono solo i doveri negativi verso il prossimo (Es 20,12 ss; Dt 5,16 ss). Custodirli non dà la vita. Anche un morto osserva i primi e non trasgredisce l’ultimo! Gesù tralascia il duplice comando che dà la vita (12,30 s), perché con lui riceve una nuova formulazione: amare il prossimo è farsi fratello di tutti come lui, il Figlio, che ha dato tutto (“va’, vendi quanto hai e dallo ai poveri”); amare Dio è seguire lui, il Signore, che per primo mi ha amato e ha dato se stesso per me (“vieni e seguimi”). v. 20 tutto questo ho custodito fin dalla mia giovinezza. Questo giovane è come Paolo, che si dichiara irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dalla legge (Fil 3,6). v. 21 guardandolo dentro. Anche nelle chiamate precedenti Gesù “vede” (1,16.19; 2,14). Qui il suo occhio va oltre: entra nelle profondità del cuore. Vuol fargli vedere come è da lui visto, in modo che conosca come è da lui conosciuto (cf 1Cor 13,12). Ma è ancora cieco a questo sguardo. Dovrà chiedere di vederci, come il mendicante di Gerico (v. 51). Solo allora, come Paolo, avrà la sublimità della conoscenza di Gesù come suo Signore, sarà conquistato e si metterà a correre per conquistarlo (Fil 3,6.12). lo amò. È il centro del racconto. Lasciarsi prendere o meno da questo amore è il problema stesso della vita eterna. Questo dettaglio può essere colto e riferito solo dall’interessato. Che il giovane sia Marco stesso, alla cui madre appartiene la stanza superiore (14,12-15; At 12,12)? Sarà lui che segue Gesù da lontano fino a quando nell’orto fuggirà nudo e abbandonerà tutto, lasciando l’involucro di morte per rivestirsi delle vesti gloriose dell’annunciatore del vangelo (14,51 s; 16,5 s)?

Questo sguardo d’amore è fonte di tristezza fino a quando uno non si arrende. L’inquietudine di chi è nel male è sempre feconda. Una sola cosa ti manca. Quanto Gesù dice non è un consiglio, ma ciò che manca per ereditare la vita eterna (cf v. 17), entrare nel Regno, essere salvi (vv. 23-26). va', vendi quanto hai e dallo ai poveri. Questa è la nuova formulazione del secondo comandamento, quello dell’amore del prossimo. Per compierlo al ricco manca proprio ciò che ha e non dà a chi non ha. Chi ascolta questo comando diventa come lui, che ha dato tutto, facendosi povero e piccolo, erede del Regno. Il giovane è allontanato (“va’”), perché allontani da sé le ricchezze (“vendi e da’ ai poveri”); solo dopo può accostarsi e andargli dietro (“vieni e seguimi”). e avrai un tesoro in cielo. Il vero modo di tesorizzare presso Dio è quello di dare. Uno non ha quanto ha accumulato, bensì quanto ha donato. Il tesoro in cielo si guadagna con il dare ai poveri in terra. Non basta non nuocere al prossimo: bisogna positivamente amarlo (Lc 16,1-12). vieni, seguimi. Andare da Gesù e seguirlo, è il modo concreto per compiere il primo comandamento, quello di amare Dio. Si va a lui per stare con lui, ovunque vada. Dare ai poveri e seguire Gesù costituisce il compimento della legge - i due comandamenti dei quali non c’è l’uno senza l’altro. v. 22 inorridito per la parola. La “Parola” lo mette in una profonda crisi interiore, che si rispecchia nel volto. Nel suo cuore inizia la lotta. Il desiderio di seguire Gesù ed ereditare la vita lo lacererà, finché non sarà strappato dalla schiavitù del suo idolo. se ne andò intristito. È un uomo fallito, incapace di amare Dio, se stesso e il prossimo. Questa tristezza dura fin che dura l’attaccamento ai beni. E questo dura finché non scopre il tesoro. Solo allora può vendere tutto per la gioia (Mt 13,44), forza di ogni decisione evangelica. “La gioia del Signore è la nostra forza” (Ne 8,10). Aveva infatti molti beni. Ciò che hai e non dai ti impedisce di ottenere i1 tesoro in cielo. La molta ricchezza è impedimento maggiore; è paragonata alle spine che soffocano la Parola (4,19). v. 23 guardandosi intorno. Cf 3,5.34. Gestì dice ai suoi discepoli. Il discepolo è proprio colui che fa quanto il ricco non ha fatto (cf 1,18.20; 2,14). Quanto difficilmente quelli che hanno le ricchezze entreranno, ecc. Nel regno dei cieli infatti entra solo il bambino, povero di tutto (cf brano precedente). v. 24 i discepoli stupivano. Forse pensavano che essere giovani, ricchi, belli e buoni fosse un punto di vantaggio. Figlioli. È un termine affettuoso rivolto al discepoli (cf 2,5). v. 25 minor fatica per un cammello, ecc. Prima ha detto che è difficile. Davanti al loro stupore, invece di abbassare, alza il tiro, dicendo che è impossibile. Tanti sono ricchi nel Regno quanti i cammelli che

passano per la cruna di un ago. La ricchezza accumulata e non condivisa ci separa dal Padre e dai fratelli - è iniquo mammona (Lc 16,13). v. 26 erano enormemente sconvolti. Lo stupore dei discepoli cresce in sbigottimento. chi può salvarsi? Salvarsi è l’unico serio problema dell’uomo, che diversamente è perduto. I discepoli capiscono che siamo tutti sufficientemente attaccati ai beni per non ereditare la vita. La loro domanda suona meraviglia e sgomento: “Nessuno può salvarsi!”. v. 27 Impossibile presso gli uomini. Salvarsi non è né facile né difficile: è assolutamente impossibile all’uomo. ma non presso Dio. Solo Dio può renderci poveri e piccoli, e salvarci con tutti i poveri e i piccoli. E lo fa con tutti. E se non gli diamo il consenso prima, lo fa almeno in punto di morte. Allora anche il ricco lascia tutto, e si scopre più povero e piccolo degli altri. perché tutto è possibile presso Dio. Il mestiere di Dio è fare ciò che è impossibile all’uomo. A noi non resta che chiedere, nonostante le nostre resistenze contrarie, questo impossibile che lui solo può donarci. v. 28 noi abbiamo lasciato tutto e abbiamo seguito te ( 1,18.20). Pietro costata, con sorpresa, che per lui e per gli altri è già avvenuto l’impossibile. Senza che se ne accorgessero, è stato loro donato ciò che al ricco è stato richiesto. Il suo è un grido di stupore e di riconoscenza, una presa di coscienza dell’opera di Dio. v. 29 Amen, vi dico: non c'è nessuno che ha lasciato, ecc. Gesù conferma che il Regno è per chi ha lasciato tutto per amore suo. a causa di me e del vangelo. “A causa dì me” è detto per chi lo ha incontrato nella sua vita terrena; “a causa del vangelo” per noi che lo incontriamo dopo, nella potenza della sua parola (cf 8,38). v. 30 riceva il centuplo. Questo centuplo non è di tipo materiale. La casa è il luogo dove si ascolta la parola e si rivela il mistero del Regno (3,31; 4,1); fratelli, sorelle e madri sono la nuova famiglia di quelli che compiono la volontà di Dio (3,31-35). Questo è il campo fecondo, che porta frutto non solo nel secolo presente, ma anche in quello futuro. Non si nomina il padre, tra il centuplo: infatti chi lascia tutto e segue Gesù, entra nel regno del Figlio e scopre l’unico Padre. con persecuzioni. Il discepolo passa attraverso le stesse scelte e contrarietà del suo Maestro. Non è esente dalla croce. Proprio ad essa è legata la promessa (cf 8,34 ss). v. 31 Molti primi saranno ultimi. Sono quei primi che non sono diventati ultimi. gli ultimi primi. Sono quelli che, per amore di Gesù, sono diventati come lui, ultimo e servo di tutti (9,35; 10,45). 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, vedendo la casa da dove Gesù esce per il suo viaggio.

3. Chiedo al Signore ciò che voglio: che mi doni di lasciare tutto, per seguire lui. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

che fare per ereditare la vita eterna nessuno è buono, se non Dio solo guardandolo dentro, lo amò una sola cosa ti manca va’, vendi quanto hai e dallo al poveri vieni e seguimi chi può salvarsi inorridito per la parola impossibile se ne andò intristito noi abbiamo lasciato tutto aveva infatti molti beni il centuplo quanto difficilmente...

4. Passi utili: Sap 7; Sal 49; 63; 34; Mt 13,44-46; Lc 12,13-34; 16,1-12; Fil 3; Col 3,5; 1Tm 6,10; Gc 4,13-5,6.

54. ECCO, SALIAMO A GERUSALEMME (10,32-34) 32

Ora erano nel cammino salendo a Gerusalemme; e stava andando innanzi a loro Gesù, ed erano stupiti; ora quanti lo seguivano avevano paura. E, presi di nuovo i Dodici, cominciò a dire loro le cose che stavano per accadere a lui: 33 Ecco, saliamo a Gerusalemme, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi, e lo condanneranno a morte, e lo consegneranno ai gentili, 34 e lo scherniranno, e lo sputacchieranno, e lo flagelleranno, e uccideranno, e, dopo tre giorni, risorgerà. 1. Messaggio nel contesto

“Ecco, saliamo a Gerusalemme”, dice Gesù ai Dodici. Quanto lì compirà, manifesterà quell’amore che rende possibile adempiere quanto ha richiesto al ricco. È l’ultima delle tre predizioni che scandiscono la seconda parte del vangelo. Ormai appare all’orizzonte la mèta. Tutto il cammino a Gerusalemme è un confronto tra il discepolo e “la Parola”. Questo è il più dettagliato, quasi un sommario puntuale di quanto tra poco deve accadere. Il discorso non può essere più chiaro ed esplicito. Ma la luce piena non fa che evidenziare la cecità del discepolo. Gli occorrono occhi nuovi e cuore nuovo. All’inizio del brano Marco ci presenta un corteo silenzioso che va in salita: innanzi sta Gesù, dietro tutti gli altri, stupiti e impauriti. Egli prende “di nuovo” i Dodici in disparte - l’aveva già fatto altre volte perché ascoltino con precisione ciò che solo dopo potranno comprendere e poi annunciare. È il mistero della fede, davanti al quale per ora sono sempre più ciechi Il viaggio a Gerusalemme ha come termine la consegna del Figlio dell’uomo (cf 9,31). C’è tutta una serie di verbi, messi in fila con la semplice congiunzione “e”. Sei - il numero dell’uomo! - descrivono la nostra azione: condannare, consegnare, schernire, sputacchiare, flagellare, uccidere. È come la somma di tutto il male, che raggiunge la sua consumazione nell’uccisione dello stesso Dio. Ma la parola definitiva non spetta a noi, bensì a lui: dopo tre giorni risorgerà. Chi ha detto la prima, si riserva anche l’ultima! Egli ci lascia liberi; ma ingloba la nostra azione nella sua, offrendoci un dono impensabile. Vedendo la reazione dei discepoli (cf brano seguente), ci si può chiedere se tutta l’istruzione di Gesù non sia stata inutile. Infatti, al crescere della luce, cresce anche la cecità. In realtà non è così. Primo, perché vediamo chiaramente il nostro male, altrimenti insospettabile. Secondo, perché sappiamo ciò su cui siamo ciechi. La nostra infatti è una cecità particolare, un daltonismo specifico nei confronti della parola della croce, colore proprio di Dio. Terzo, perché chi sa di non vedere può chiedere l’illuminazione a colui che è venuto a dar la vista. Quarto, perché la guarigione è opera della stessa parola, che ci rivela il suo amore per noi. Gesù, il Giusto sofferente, il Figlio dell’uomo ucciso e risorto, umiliato e innalzato, è il mistero della nostra fede. Il discepolo è preso in disparte, con i Dodici, per confrontarsi con “la Parola”, il cui ascolto lo fa appunto discepolo. 1. Lettura del testo v. 32 erano nel cammino salendo a Gerusalemme. Si specifica per la prima volta la meta del viaggio. Il suo cammino verso la passione è una salita, un’anabasi. Gerusalemme è il termine di ogni pellegrinaggio. Lì l’uomo ritrova nella Gloria la luce del proprio volto. innanzi a loro Gesù. Lui ci precede in questo cammino sul monte, dal quale ci chiama ad andare a lui per stare con lui (3,13 ss). erano stupiti. Non capiscono, ma intuiscono che qui si compie il mistero. quanti lo seguivano avevano paura. Tra pochi giorni, non avrà lui stesso timore e tremore (14,33)? presi di nuovo i Dodici. Gesù, da quando li chiamò sul monte (3,13), li ha presi spesso in disparte. Qui comunque è la prima volta che si dice esplicitamente che li prende in quanto “Dodici”. “Prendere” è la stessa parola che esce nella risurrezione della figlia di Giairo, nella trasfigurazione e nell’agonia (5,40; 9,2; 14,33). Anche i discepoli in 4,36 prendono lui così com’è nella barca.

cominciò a dire loro le cose che stavano per accadere a lui. Gesù ha conoscenza chiara dei suo destino: è il disegno di Dio che accade nella storia. Anche il discepolo lo conoscerà con chiarezza. Infatti Paolo, che sale a Gerusalemme nell’incertezza di tutto il resto, dice: “So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni” (At 20,22 s). v. 33 saliamo a Gerusalemme. Anche i discepoli sono inclusi nel suo pellegrinaggio verso la città santa. il Figlio dell'uomo sarà consegnato (cf 9,31). Sarà Giuda a consegnarlo ( = tradirlo) (14,10). Però, se Giuda lo consegna, è lui stesso che si consegna a noi per amore (14,22). In ultima istanza è lo stesso Padre che lo consegna a noi (Rm 8,32). Così il nostro peccato contiene il suo dono. La nostra consegna di lui alla morte diventa quella consegna di lui a noi che ci dà la vita. Ecco l’opera del Signore, una meraviglia al nostri occhi (Sal 118,23): col nostro male opera il nostro bene. e lo condanneranno a morte (14,64; cf Sap 2,20; Sal 94,21). Gli danno morte per invidia (15,10), perché è l’autore della vita (At 3,15). e lo consegneranno ai gentili (15,1). Perché ogni mano di peccatore possa toccare il Salvatore (cf Sap 2,17 s; Sal 22,7 ss; 31,12; 35,15 s; 39,9; 42,11 ecc.). v. 34 e lo scherniranno (14,65). La forza e sapienza di Dio è schernita come debolezza e stupidità dall’uomo. L’amore risulta incomprensibile all’egoismo. e lo sputacchieranno (14,65; cf Is 50,6). Il disprezzo e l’umiliazione è ciò da cui l’uomo rifugge con tutti i mezzi. Segno massimo di amore, se ne coprirà la Gloria. e lo flagelleranno (15,15; cf Sal 73,14). La violenza copre di colpi il suo corpo, prima di esporlo nudo sulla croce. e uccideranno. È l’azione sesta e ultima dell’uomo, cifra di ogni suo male. e, dopo tre giorni, risorgerà. Non sta scritto: “ma, dopo tre giorni risorgerà”, bensì “e, dopo tre giorni, risorgerà”. Quasi a indicare che il Signore continua in modo sorprendente e divino la stessa azione dell’uomo, senza contrapposizione o soluzione di continuità. Ognuno fa quello che gli spetta: è proprio dell’uomo nel peccato dare morte, è proprio di Dio che è amore dare vita. La sua azione positiva non è che avvenga “nonostante” la nostra negativa. La croce di Gesù non è un incidente di percorso, da dimenticare nella risurrezione. È realmente causa della sua glorificazione. Infatti fu esaltato proprio per la sua obbedienza fino alla morte, e alla morte di croce (Fil 2,8 s). Qui è il mistero di Dio. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo vedendo Gesù che sale a Gerusalemme con i suoi. 3. Gli chiedo ciò che voglio: non essere sordo e cieco davanti al mistero della sua croce che è la mia salvezza. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Mi fermo su ogni parola di Gesù, che è la sintesi della sua passione.

Da notare:

4.

salire a Gerusalemme sputacchiare essere consegnato flagellare condannare a morte uccidere schernire risorgere

Passi utili: Is 52,13-53,12; i sette salmi penitenziali: 6; 32; 38; 51; 102; 130; 143.

55. COSA VOLETE CHE IO FACCIA PER VOI? (10,35-45) 35

E gli si fanno innanzi Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: Maestro, vogliamo che tu faccia per noi ciò che noi chiediamo a te. 36 Ma egli disse loro: Cosa volete che lo faccia per voi’? 37 Ma quelli gli dissero: Da’ a noi che, uno alla tua destra e l’altro alla sinistra, sediamo nella tua gloria. 38 Ma Gesù disse loro: Non sapete cosa chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati del battesimo di cui io sarò battezzato? 39 Ma quelli gli dissero: Possiamo! Ma Gesù disse loro: Il calice che lo bevo, lo berrete; e del battesimo di cui sarò battezzato, sarete battezzati. 40 Ma sedere alla mia destra o alla sinistra non spetta a me darlo, ma è per quanti sta preparato. 41 E, ascoltando, i dieci cominciarono a indignarsi su Giacomo e Giovanni. 42 E, chiamatili innanzi, Gesù dice loro: Sapete che quanti sembrano comandare i popoli,

li tiranneggiano, e i loro grandi li spadroneggiano. 43 Ora non così è tra voi. Ma chi vuol diventare grande tra voi. sarà vostro servo; 44 e chi vuole tra voi esser primo, sarà schiavo di tutti. 45 E infatti il Figlio dell’uomo non è venuto ad essere servito, ma a servire, e a dare la sua vita in riscatto per molti. 1. Messaggio nel contesto “Cosa volete che io faccia per voi?”, chiede Gesù a Giacomo e Giovanni. Essi non sanno ancora cosa chiedere. Ciechi come sono, chiedono il contrario di quanto lui vuol donare. Il dialogo è tutto un gioco di equivoci. introdotti da un “ma”, dove ognuno continua a dire una cosa diversa dall’altro, come avviene tra sordi. Gesù non è il Cristo dei loro desideri, ma quello della promessa di Dio. Essi lo amano; ma a modo loro, senza conoscerlo. Ne hanno fatto come un’incognita, cui danno di volta in volta il valore della loro volontà di potenza. È istintivo per l’uomo fare dei propri desideri il proprio assoluto. Poco importa se lo si chiama Giove, Manitù, JHWH o Gesù. In realtà si indica la stessa cosa. Fino a poco fa aveva anche il nome proprio di Stalin, Hitler, ecc. o quello comune di ideologie religiose o laiche di salvezza. Ora si identifica coi nomi concreti di piacere, benessere, produzione, energia sicura e pulita, ecc., o con le varie scienze che pretendono di dire l’ultimo verbo. L’uomo sostituisce naturalmente Dio con qualunque nome che gli garantisca di perseguire le proprie brame. Criterio divino di salvezza invece è la “carne” di Gesù (1Gv 4,2), cioè la sua debolezza fino alla croce, che delude ogni attesa dell’uomo, religioso o meno (cf 15,29-32). La reazione dei discepoli alla terza predizione della passione è peggiore delle precedenti. Dopo la prima ci fu il diverbio esplicito con Pietro, che pensa secondo gli uomini e non secondo Dio (8,32 s). Dopo la seconda ci fu l’incomprensione e il mutismo da parte di tutti, intenti a litigare su chi fosse il più grande (9,32 s). Ora ci si aspetterebbe un minimo di comprensione. Ma è come se Gesù non avesse detto niente. I due prediletti, invece di ascoltarlo e fare la sua volontà, vogliono che lui faccia la loro! È il capovolgimento del rapporto fondamentale di fede. Essi vogliono che lui sia garante in cielo dei loro deliri di onnipotenza in terra. Ma non è questo, sotto sotto, ciò che tutte le persone “religiose” chiedono al loro dio? Abramo, modello dei credenti, fu il primo a non scambiare la fede con le proprie sicurezze. la verità con le proprie certezze. L’uomo è desiderio. Gli manca sempre qualcosa, e la cerca e la chiede. Gesù educa il desiderio dei discepoli, perché cerchino e chiedano ciò che Dio vuol donare. Qui siamo allo scontro decisivo tra il desiderio di Dio per l’uomo e quello dell’uomo nei confronti di Dio. Ne va dell’essenza stessa di Dio: la Gloria. Per Gesù essa è amore che si fa servo, schiavo e ultimo di tutti; per gli uomini di tutte le razze - discepoli prediletti inclusi! - essa consiste nel potere mondano, travestito o meno di buone intenzioni. I discepoli hanno lo stesso peccato del mondo. Ciò non è grave, perché ogni peccatore è salvato! È grave invece non riconoscerlo, perché chi non lo riconosce, rimane in esso. Il “non così è tra voi!” è il grande miracolo che Gesù compie nella sua comunità, illuminandola della sua Gloria.

Gesù conclude il suo insegnamento, inteso a farci ammettere la nostra cecità. Il medico ci ha comunicato la diagnosi; attende che gli concediamo di guarirci. Il discepolo è colui che passa dalla domanda dell’uomo religioso, impersonato da Giacomo e Giovanni, a quella del cieco di Gerico (vv. 47.51b). I due fratelli sono da ringraziare, perché fanno vedere agli altri dieci e a quanti leggono la loro cecità. 2. Lettura del testo v. 35 Giacomo e Giovanni. Insieme con Pietro, sono i testimoni prescelti per la risurrezione della figlia di Giairo, la trasfigurazione e l’agonia dell’orto. Ancora con Pietro, più Andrea, saranno depositari del discorso escatologico. Mt 20,20 fa avanzare questa loro richiesta tramite la madre. È un complotto familiare! Lo stesso desiderio di primeggiare, già emerso come principio di divisione (9,34), spinge anche ad alleanze interessate. vogliamo. Ciò che Gesù ha appena detto si è volatilizzato nell’aria, come se non fosse mai stato. La parola è caduta sulla strada e satana l’ha rapita (4,15). È un fenomeno costante: l’uomo taglia via ciò che gli dispiace. Davanti all’impotenza del Figlio dell’uomo consegnato, si scopre allo stato puro la nostra volontà di potenza. che tu faccia per noi. Il Signore deve fare la nostra volontà, assicurando buon esito ai nostri desideri! Non c’è preghiera più distorta. Pretendiamo di addomesticare Dio, perché ci serva nei progetti della nostra gloria che, per coinvolgere anche lui, confondiamo con la sua (la “tua” gloria, v. 37!). ciò che noi chiediamo a te. “Tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo già ottenuto, e vi sarà accordato”, dirà Gesù (11,24). Ma prima bisogna sapere cosa chiedere, per non domandare ciò che lui non intende dare. Quante nostre preghiere pretendono che Dio si faccia esecutore dei nostri piani! Quand’anche fossero fatte bene e con fede, chiedono in realtà del male. Per fortuna Dio non ci ascolta. “Una volta Dio mi esaudì in ciò che chiedevo, e ne ebbi abbastanza”, diceva un padre del deserto. “Da allora cominciai a chiedergli solo di fare la sua volontà!” v. 36 Cosa volete che io faccia per voi? Gesù farà la stessa domanda anche al cieco, che però sa cosa chiedere (v. 51). Alla domanda del lebbroso: “Se vuoi, puoi mondarmi”, Gesù disse: “Lo voglio” (1,41). Ci sono cose che lui vuole e altre no. E desidera che noi le sappiamo distinguere, perché chiediamo ciò che piace a lui, non a noi. Tutto il vangelo è un’educazione dei desideri, perché, confrontandoli e conformandoli ai suoi, impariamo a volere e chiedere secondo Dio. Egli esaudisce le sue promesse, non le nostre attese. Queste vogliono confermare il nostro male, quelle vogliono liberarcene. v. 37 uno alla tua destra e l'altro alla sinistra (15,27). Volere i primi posti è un desiderio non solo mondano, ma anche religioso (9,34). È giusto voler star vicini al Signore; anzi, è bene desiderare di essere come Dio. Il male è che non lo conosciamo e crediamo di essere come lui proprio in ciò che ci rende difformi da lui. nella tua gloria. La “Gloria”, sinonimo di Dio, in ebraico significa “peso”. È il suo eccessivo amore, che dall’alto l’ha attirato verso di noi. Ogni nostra esaltazione è una vana-gloria, un peso vuoto, un

non-Dio. La “sua gloria” invece è l’abbassamento del Figlio dell’uomo crocifisso, giudizio sul mondo e fine di ogni vanagloria (8,38; 13,26; cf 14,62). Alla sua destra e alla sua sinistra, al posto dei due fratelli, si troveranno intronizzati due malfattori, fratelli di tutti noi ( 15,27). v. 38 Non sapete cosa chiedete. È la risposta del Signore a tutte le nostre preghiere che confondono la nostra con la sua gloria, la nostra con la sua volontà. Potete bere il calice che io bevo. Il suo calice è. quello che a lui stesso non piace, e del quale dice al Padre, in timore e tremore: “Leva da me questo calice. Però non ciò che voglio io, ma tu” (14,36). È il calice della croce, amaro di tutto il fiele dei mondo (Is 51,17; Sal 75,9). battesimo di cui io sarò battezzato. Il suo battesimo è il suo andare a fondo nell’abisso, in solidarietà con tutti i peccatori. La gloria di Gesù è la sua ignominiosa morte. È a questa che i discepoli chiedono di essere associati? v. 39 Possiamo. Ovviamente non hanno capito. Per volontà di carne nessuno può essere discepolo e partecipare al suo martirio, bere il suo calice e ricevere il suo battesimo. Questo è dono dello Spirito. Il calice che io bevo, lo berrete, ecc. Gesù garantisce loro che saranno suoi discepoli, anche se non sanno cosa significa. Predice il martirio ai due fratelli. Essi apriranno e chiuderanno la serie della bella testimonianza dei Dodici (At 12,2; Gv 21,23). v. 40 sedere alla mia destra o alla sinistra non spetta a me darlo. Il Figlio dell’uomo non è venuto per conferire privilegi o posti di potere. È venuto per comunicarci la sua umiltà di Figlio. Questo è il dono che il Padre concede a quanti si fanno piccoli come lui. v. 41 i dieci cominciarono a indignarsi. Ambiscono gli stessi posti (cf 9,34). Se si sdegnano, è perché hanno nel cuore le stesse ambizioni. Questa reazione dei dieci contro i due evidenzia il peccato del mondo, comune anche a tutti loro, per il quale Cristo muore. v. 42 quanti sembrano comandare. Servirsi degli altri per primeggiare, asservendoli e schiavizzandoli, è il principio che governa il mondo. Notare come è fine “sembrano comandare”. In realtà costoro non sono capi, ma poveri uomini capovolti, che credono di essere dritti! v. 43 Ora non così è tra voi. Perché tra noi c’è il Figlio dell’uomo che è diverso da noi. chi vuol diventare grande tra voi (9,34). C’è una grandezza che va desiderata e chiesta al Signore. Lui stesso la desidera per noi, e attende che gliela chiediamo. sarà vostro servo. La vera grandezza è servire, cioè amare non a parole, ma con i fatti. Servire significa promuovere il bene dell’altro. È il contrario di servirsi e asservire, espressione fondamentale dell’egoismo. Servo è colui il cui lavoro è dell’altro. v. 44 chi vuole esser primo, sarà schiavo di tutti. Grande è chi serve, primo chi si fa schiavo di tutti. Questa è la vera libertà (Gal 5,13), che ci rende simili a Dio. Schiavo è colui che è dell’altro. v. 45 il Figlio dell'uomo non è venuto ad essere servito, ma a servire, e a dare la sua vita. È la più bella definizione che Gesù dà di sé. Sintetizza il senso della sua venuta e di tutta la sua esistenza: egli è nostro servo e schiavo, che mette a nostro servizio la sua opera e la sua stessa vita.

in riscatto per molti. Molti è un ebraismo per “moltitudini, tutti”. Richiama Is 53,10-12. Qui Gesù interpreta la sua morte come causa della nostra vita. Il suo destino di giusto sofferente lo lega a tutto il male del mondo, che porta su di sé e vince per tutti. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, vedendo Gesù coi Dodici in cammino verso Gerusalemme, dove va a morire per noi. 3. Gli chiedo ciò che voglio: vedere la sua gloria, bere il suo calice, ricevere il suo battesimo. Aprimi, Signore, gli occhi sul tuo mistero di umiliazione. La tua gloria è essere servo e schiavo di tutti per amore, fino a dare la vita. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

vogliamo che tu faccia per noi ciò che ti chiediamo che volete che io faccia? la tua gloria il calice e il battesimo servire e dare la vita

4. Passi utili: Lc 1,46-55; Gv 13,1-17.

56. COSA VUOI CHE IO FACCIA PER TE? (10,46-52) 46

E giungono a Gerico. E, uscendo egli da Gerico con i suoi discepoli e gran folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, cieco, mendicante, sedeva al lato del cammino. 47 E, udito che è Gesù il Nazareno, cominciò a gridare e dire: Figlio di David, Gesù, abbi pietà di me! 48 E molti lo sgridavano, perché tacesse; ma egli molto di più gridava: Figlio di David,

abbi pietà di me! 49 E, fermatosi, Gesù disse: Chiamatelo. E chiamano il cieco, dicendogli: Coraggio, svegliati, ti chiama. 50 Ora egli, gettato il suo mantello, balzò in piedi, e venne da Gesù. 51 E, rispondendogli, Gesù disse: Cosa vuoi che io faccia per te? Ora il cieco gli disse: Rabbuni, che io veda! 52 E Gesù gli disse: Va’, la tua fede ti ha salvato. E subito vide, e lo seguiva nel cammino. 1. Messaggio nel contesto “Cosa vuoi che io faccia per te?”, chiede Gesù al cieco. È la stessa domanda che a questo punto il vangelo fa a ciascuno di noi, che, come lui, si ritrova cieco, seduto e fuori strada. E noi facciamo nostra la sua risposta: “Gesù, abbi pietà di me. Che io veda”. Solo così otteniamo la vista: abbiamo la fede che salva, e lo seguiamo nel suo cammino (v. 52). Fine di tutta la catechesi di Gesù ai suoi discepoli e di Marco al suo lettore è portare qui, dove si compie l’ultimo miracolo, quello definitivo: la guarigione dalla cecità. Il cammino del vangelo, è utile ripeterlo, è un’educazione del desiderio, per sapere cosa chiedere. Giacomo e Giovanni, identificati alfine con questo cieco, sanno cosa chiedere e volere. Dove non avviene questa identificazione coi cieco che guarisce, c’è quella con il fico che scopre la sua sterile nudità (11,12-14.20). Questo miracolo è l’illuminazione battesimale che ci fa nascere, uscire dalle tenebre alla luce. È il dono dello Spirito per vedere ciò che Gesù fa a Gerusalemme e scrutare nel Crocifisso la profondità di Dio (1Cor 2,10). Nel vangelo di Marco questo cieco è l’unico - dopo i demoni, ma in modo ben diverso! - che chiama Gesù per nome. Ha con lui un rapporto personale di conoscenza e di familiarità. Chiamare Gesù è pronunciare il Nome, il solo in cui c’è salvezza (At 4,12). Questo cieco è specchio di ciascuno di noi. Attraverso l’ascolto ha sentito la promessa di Dio, e può desiderare e chiedere ciò che vuol donarci. L’invocazione del nome di Gesù trova risposta nella sua chiamata, che lo fa balzare in piedi, gettare il mantello, andare da lui, pregarlo e ottenere la vista, in modo da poterlo seguire nel suo cammino. Questa è la salvezza concessa a chiunque invoca il suo nome (At 2,21). Da questo racconto la fede è orecchi per ascoltare, bocca per gridare, piedi per accorrere a lui, mani per gettare il mantello e occhi per vederlo e seguirlo. Il suo principio è la miseria riconosciuta, il suo mezzo è l’invocazione della misericordia, il suo compimento è l’illuminazione che fa vedere il Signore.

Qui, dopo le tre predizioni della passione, si compie la seconda parte dei miracolo del cieco di Betsaida. “Vedi forse qualcosa?”, gli aveva chiesto Gesù (8,23). Ora, che ci è chiaro ciò che non vediamo, sappiamo cosa chiedergli per “vedere chiaramente a distanza ogni cosa” (8,25). Subito dopo questo racconto comincia il primo dei sei giorni di Gesù a Gerusalemme. È la settimana della nuova creazione. Ora ci dà gli occhi per vederla, così che non scambiamo più gli uomini per alberi che camminano (8,24), ma vediamo Dio stesso nel Figlio dell’uomo che si offre dall’albero della vita (15,39). Gesù è la luce del mondo (Gv 8,12), il Figlio di David che esercita la sua regalità usando misericordia, il Signore che dà la vista ai ciechi (Sal 146,8). L’invocazione del suo nome è la nostra salvezza. Infatti è il Nome. E ci salva perché è tutto misericordia rivolta alla nostra miseria. Il discepolo è generato come tale dall’invocazione del nome di Gesù e della sua misericordia. Così guarisce dalla sua cecità, e può contemplare nel Crocifisso ciò che occhio non vide né orecchio udì né mai entrò in cuore di uomo, e che Dio ha preparato per coloro che lo amano (1Cor 2,9). È illuminato: vede finalmente la realtà. 2. Lettura del testo v. 46 giungono a Gerico. È città inespugnabile, come la cecità dei discepoli. Ma presso Dio nulla è impossibile (v. 27). Gerico è la porta della terra promessa, che sarà aperta in modo semplice e prodigioso. Cade non con le armi, ma al suono delle trombe dei sacerdoti e al grido del popolo (Gs 6,12-20). Da Gerico, posta a m. 250 sotto il livello del mare, inizia la salita a Gerusalemme. con i suoi discepoli e gran folla. I discepoli vanno con Gesù. Ma il loro cuore e i loro occhi sono altrove. Ogni uomo In realtà scende da Gerusalemme a Gerico (Lc 10,30). Bartimeo. Significa in ebraico “figlio di Timeo”. Questo cieco non ha nome; è semplicemente il “il figlio di Timeo”. cieco. Per il cieco tutto è notte. È immagine del discepolo, che non capisce (4,13), non ha fede (4,40), è privo di intelletto (7,18), ha occhi e non vede (8,18), ha il cuore indurito (6,52; 8,17). La sua cecità è specifica: riguarda “la Parola” (8,32 s; 10,35 ss), davanti alla quale è sordo e muto (9,32 ss). Ma ora che la sordità è stata guarita dall’esorcismo che ha espulso la menzogna (7,3 I ss, 9,14 ss), rimane ancora la cecità: vede solo il buio che ha negli occhi e il vuoto che ha nel cuore. Questo, che è il luogo delle paure, per la sua promessa diventa il luogo dei desideri. Essi non producono nulla, ma raggiungono proprio ciò che, impossibile da produrre, viene solo come dono. Tutte le realtà principali la vita e l’amore, se stessi e gli altri - sono doni. Il desiderio naturale di vedere Dio” è l’apice del nostro spirito, la nostra ultima possibilità, che ci permette di contemplare lui e diventare come lui. Questo nostro desiderio è come un occhio che non vede, fino a quando non incontra Gesù, sua luce. Il cieco è uno che non è mai venuto alla luce. È ancora come un non-nato, sepolto nelle tenebre. Per lui la realtà non ha ancora il proprio senso. mendicante. Chi dice: “Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla”, non sa di essere un infelice, miserabile, povero, cieco e nudo. È bene che si procuri il collirio per ungere gli occhi e recuperare la vista (Ap 3,17 s)!

Il mendicante è uno che di professione “chiede” ciò che vuole. È simile al bambino, che vive di ciò che riceve. Rappresenta la situazione creaturale e filiale accettata. La parola greca indica, più che la povertà, la sua qualità di “uno che desidera, brama, chiede, domanda”. È l’unica qualità positiva del discepolo. Si può infatti commettere per orgoglio la stupidità di non chiedere ciò di cui si ha bisogno. sedeva. Invece di camminare, siede, immobilizzato dalla sua cecità. Non vedendo, non sa dove andare. al lato del cammino. Non cammina sulla via dei maestro: sta ai bordi. v. 47 udito che è Gesù. Il cieco può udire e parlare. L’orecchio e la lingua fu già guarita dalla parola potente (7,3 1 ss; 9,14 ss). La fede viene dall’ascolto (Rm 10,17), principio della visione, che ne è il compimento (1Cor 13,12). il Nazareno. È l’unica volta che il redattore dà questo appellativo a Gesù (cf 1,24; 14,67; 16,6). Sottolinea la realtà storica di Gesù - i suoi trent’anni di Nazaret, lo scandalo che la potenza e la sapienza di Dio si rivelino nella debolezza della sua carne (cf 6,1 ss). cominciò a gridare. il grido, forma fondamentale di preghiera, esprime sofferenza e disagio. C’è un grido che si alza dall’abisso (Sal 130) e un altro che si leva dalla terra di schiavitù (Es 2,23 s). Ci sarà infine il grido di Gesù dall’alto della croce (15,37). Dio non può non udirlo, come una madre quello del figlio. Il nostro diritto per rivolgerci al Signore non è l’apice della nostra bravura religiosa, ma l’abisso della nostra miseria - perché siamo suoi figli, e lui è il Padre delle misericordie (2Cor 1,3). La forza di questo grido farà cadere il muro della cecità. Figlio di David. Così sarà subito dopo acclamato (11,10). Gesù è il messia, promesso a Davide come suo discendente (2Sam 7), colui che porta la regalità del Signore, che aiuta i poveri e dà la vista al ciechi (Sal 146,8). Tra poco mostrerà la sua gloria, che è la stessa di Dio. Ora ci dà gli occhi per vederla. Gesù. Significa “JHWH salva”. È il nome di Dio tra gli uomini. Pronunciarlo ci salva (Rm 10,13; At 2,21). Non è magia. Chiamare per nome una persona vuol dire conoscerla ed amarla; e la nostra salvezza è conoscere e amare Dio. Gesù è il Dio che ci è venuto incontro. “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12). Noi siamo seduti nell’abisso di Gerico - inferno delle nostre solitudini - presi dagli interessi, venduti al peccato, appiccicati al nostro io, timorosi della vita e della morte. L’invocazione del suo nome è la medicina che ci libera e ci fa suoi discepoli. È antichissima nella Chiesa la preghiera del Nome di Gesù Signore, usando il grido del cieco, abbinato a quello del pubblicano di Lc 18,13. In lui il Padre ci concede tutto e non ci nega nulla (Rm 8,32; Gv 14,13 s; 15,16). Lui infatti è solo Amen, il sì totale di Dio all’uomo come suo figlio e il sì del Figlio al Padre (2Cor 1,19 s), in cui tutte le promesse sono compiute. Attraverso lui sale a Dio il nostro amen e scende a noi ogni benedizione. abbi pietà. La misericordia è l’essenza di Dio. Egli non è misericordioso: è misericordia - amore che si riversa necessariamente su tutti i suoi figli, non in proporzione al merito, ma al bisogno. Misericordia in ebraico si dice hesed e rahamin, due parole che indicano la fedeltà sicura e operosa di un amore viscerale, materno, uterino. Gesù rivela questo Dio proprio perché mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20), primo tra i peccatori (1Tm 1,15).

di me. Io in persona sono l’oggetto di tutto l’amore del Padre in Gesù. L’amore infatti non si divide per il numero dei figli, ma è tutto intero per ciascuno. v. 48 lo sgridavano, perché tacesse. Probabilmente a sgridarlo sono gli stessi apostoli, infastiditi dal suo grido, mentre stavano discutendo su cose importanti - a chi i primi posti? Molte voci cercano di soffocare in noi questo grido che si alza nella notte. La voce che più ci vuol far desistere è quella della nostra sfiducia. ma egli molto di più gridava. È il modo giusto di reagire alla tentazione di tacere. Il suo grido lacera le tenebre, superando ogni scoraggiamento. abbi pietà di me. È l’unica preghiera ripetuta due volte. Due è il principio di molti. Questa preghiera, che va sempre ripetuta, è quella dell’umile, che squarcia il cielo e va oltre le nubi (Sir 35,17). Questa invocazione è come il respiro e il battito del cuore, che non possono mai cessare. v. 49 fermatosi, Gesù. Il Signore non può non fermarsi a questo grido. Una mamma, anche se ne ode volentieri la voce, può non ascoltare le richieste del figlio, soprattutto se sono stupide o nocive. Ma non può non accorrere quando grida. Chiamatelo. La chiamata a Gesù avviene attraverso la parola di altri. Ma chi ci chiama è sempre lui, presente nella sua parola. chiamano il cieco. Gli apostoli, i veri ciechi, hanno l’incarico di chiamarlo. Saranno chiamati anche loro, quando capiranno di essere come lui. Finché credono di vederci, il loro peccato rimane (Gv 9,41). È comunque consolante che la chiamata del Signore operi efficacemente al di là delle qualità personali dell’apostolo. Coraggio. È quello che manca al discepoli, che non riconoscono il fatto dei pani (6,50). Sinonimo di fede, è il contrario della paura (4,40; 5,36). svegliati. “Svegliati, o tu che dormi, destati dal morti, e Cristo ti illuminerà”, dice un antico inno battesimale (Ef 5,14). La luce di Cristo è il suo Spirito, il suo amore per noi. Effuso sulla croce, dà la vista anche al centurione, che vede la Gloria (15,39). Ricevuto nel battesimo, si desta in noi per l’invocazione del nome di Gesù. v. 50 gettato il suo mantello. Il mantello è tutto per lui. Vestito, coperta, materasso e casa, è la sua unica sicurezza. Per questo bisogna restituirlo al povero che l’ha dato in pegno prima del tramonto del sole, “perché egli possa dormire con il suo mantello e benedirti” (Dt 24,12). Questo povero getta via ogni sua sicurezza, senza esserne richiesto; e va da Gesù, a differenza del giovane ricco, che ne fu richiesto e si allontanò triste. balzò in piedi. Prima era seduto. e venne da Gesù. Gettato via il mantello, va da Gesù. Che il suo mantello sia la cecità che lo avvolge e immobilizza? v. 51 Cosa vuoi che io faccia per te ? È la stessa domanda rivolta a Giacomo e Giovanni (v. 36). È la domanda decisiva del vangelo. Solo se sono cieco, e so di esserlo, so cosa voglio, e glielo chiedo.

Rabbuni. È forma enfatica di rabbi e significa “mio maestro”. Gesù non è solo il maestro che insegna per mestiere a tutti. È il “mio” maestro. che io veda. Finalmente Gesù ode la domanda che da sempre aspetta. Vedere il Signore è la vita dell’uomo. Nato per questo, è sempre inquieto finché non contempla il Volto. Gesù in croce squarcerà il velo del tempio e rivelerà pienamente Dio sulla terra. La parola greca anablépo significa “guardare in alto” o “vederci di nuovo”. La fede è un “guardare in alto” lui, appeso in croce per me. Lì io vedo ciò che mai avevo visto, perché la menzogna antica me l’aveva nascosto dal principio: il suo amore per me. Lì ottengo la sublimità della conoscenza di Gesù, mio Signore (Fil 3,8). v. 52 la tua fede ti ha salvato. In 5,34 la stessa espressione è rivolta alla donna che lo ha toccato. La comunione con lui e la visione del suo amore è la liberazione da ogni male e la pienezza di ogni bene. La fede che salva è vedere lui. vide. Vede il Figlio di David che gli sta davanti e gli usa misericordia; vede il Regno che è già venuto e aspetta che qualcuno desideri entrarci. e lo seguiva. Il primo miracolo terminò con la suocera di Pietro che “serviva” (1,31). L’ultimo chiude il cerchio, terminando con il cieco che segue colui che sale a Gerusalemme, “per servire e dare la sua vita in riscatto per molti “ (v. 45). nel cammino. È la via che va dalla morte alla vita, contraria a quella di ogni uomo, che va dalla vita alla morte. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, immedesimandomi nel cieco seduto fuori strada mentre Gesù passa. 3. Chiedo a Gesù e ripeto con desiderio ciò che voglio: Gesù, abbi pietà di me, che io veda. 4. Traendone frutto, immedesimato nel cieco, ascolto le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Cosa vedo? Da notare: Gerico gettare via il mantello cieco cosa vuoi che io ti faccia? mendicante Rabbuni, che lo veda sedeva la tua fede ti ha salvato al lato della strada vedere, seguire, cammino udito gridava Gesù, abbi misericordia di me chiamatelo 4. Passi utili: Ger 31,7-9; Sal 34; 126; Is 42,1-7; Sir 35,12-18; Gv 8,12; Ef 5,14.

57. IL SIGNORE NE HA BISOGNO (11,1-11) 111 E, come si avvicinano a Gerusalemme, a Betfage e Betania verso il monte degli Ulivi, invia due dei suoi discepoli e dice loro: 2 Andate nel villaggio di fronte a voi, e subito, entrando in esso, troverete un asinello legato, sul quale nessun uomo mai si è seduto; slegatelo e portatelo. 3 E se qualcuno vi dica: Perché fate questo? dite: Il Signore ne ha bisogno, e lo invia qui subito. 4 E andarono e trovarono l’asinello, legato davanti alla porta fuori sul bivio, e lo slegano. 5 E alcuni di quelli che stavano lì dicevano loro: Che fate, slegando l’asinello? 6 Ed essi dissero loro come disse Gesù, li lasciarono. 7 E portano l’asinello da Gesù, e gli gettano su i loro mantelli, e sedette sopra di esso. 8 E molti stesero i loro mantelli sul cammino. e altri fronde tagliate dai campi. 9 E quelli che precedevano e quelli che seguivano gridavano: Hosannà! 10 Benedetto Colui che viene nel nome del Signore, Benedetto il regno che viene del padre nostro David. Hosannà negli altissimi! 11 Ed entrò in Gerusalemme nel tempio, e, guardata intorno ogni cosa,

essendo già l’ora tarda, uscì a Betania con i Dodici. 1. Messaggio nel contesto “Il Signore ne ha bisogno”, dice Gesù ai discepoli dell’asinello. È l’unica volta che chiama se stesso “il Signore”, ed è l’unica cosa di cui ha bisogno. Inizia con questo racconto il primo dei sei giorni a Gerusalemme. Ha appena guarito l’occhio. Ora fa la luce, principio della creazione. È il suo amore umile e servizievole - raffigurato nell’asinello - origine del mondo nuovo. Questo episodio sintetizza quanto ha fatto finora e farà in seguito, illuminando il suo modo di realizzare il Regno. Ci si aspettava che il Signore venisse con gloria e potenza, prendendo il dominio su tutto. Ed effettivamente viene; ma la sua gloria è l’umiltà, la sua potenza è l’amore, il suo dominio è il servizio. Non viene con il cavallo, come il re che tiene il potere. Non viene con il carro da guerra, come chi desidera conquistarlo. “Umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina” (Zc 9,9). Le caratteristiche dell’asinello, vero protagonista del racconto, sono le stesse del suo messianismo: egli è il primo in quanto ultimo e servo (9,35), che dà la vita in riscatto per tutti (10,45). Il suo titolo regale apparirà chiaramente sulla croce (15,26), e proprio nella sua morte si capirà chi è il Signore (15,39). Il somaro, che porta la soma degli altri, è immagine di Gesù, che per primo ha fatto ciò che ci ha lasciato come legge. “Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo”, dice Paolo (Gal 6,2). Questo essere schiavi per amore è la vera libertà (Gal 5,13s), compimento della legge, realizzazione in terra del regno dei cieli. Su quest’asinello “nessuno è mai salito”; e nessuno desidera salire. Inoltre è “legato”. Gesù. che per primo vi è salito, è venuto a liberarlo, a “slegarlo”. Infatti la capacità di servire è la nostra somiglianza con Dio. Legata in tutti, il Signore è venuto a slegarla. Il cristianesimo non è una nuova “religione”, che lega o ri-lega l’uomo con leggi vecchie o nuove. È la libertà di amare, ossia di servire e appartenere all’altro. Questo racconto ci apre l’intelligenza per discernere il Regno. Viene e verrà come è venuto. La fine dei tempo sarà quando questa sua venuta umile sarà accolta da tutti. Lui non ha altro modo di venire, presente e futuro, di quello con il quale è presentato in questa salita a Gerusalemme. Noi siamo ciechi davanti al “figlio di David”. Come Giacomo, Giovanni e gli altri, desideriamo la gloria mondana, non quella di Dio. Questo brano narra il fatto due volte, prima preannunciandolo e poi riferendolo (cf anche 14,12ss). Ciò che Gesù ha detto e fatto è per noi profezia di ciò che accade e accadrà sempre. Oltre la “presa di potere” della sua città, il racconto ci presenta l’ingresso della Gloria nel suo tempio. Questa “visita del Signore” fu già proclamata fin dall’inizio dal Battista, il messaggero mandato davanti al suo volto a preparare la via (1,2 = Ml 3,1). Ma ora che entra nel suo tempio, chi sopporterà la sua venuta, chi resisterà al suo apparire (MI 3,l)? Gesù è il re che libera, il Signore che dà la vita. È re in quanto servo per ciò che fa per noi; è Signore in quanto schiavo per ciò che si fa per noi. Il suo regno in terra viene nell’essere servi e schiavi gli uni degli altri per amore. Il discepolo ha gli occhi guariti per vedere il mistero del suo re e Signore, che si rivelerà pienamente sulla croce. Per questo getta ogni falsa sicurezza, investendo tutto nel servizio. Liberatosi del mantello come il cieco, ne riveste l’asinello.

2. Lettura del testo v. 1 si avvicinano a Gerusalemme. Appare all’orizzonte la città santa, termine del pellegrinaggio di Gesù, che ha appena detto: “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato, ecc.” (10,33). Betfage. Significa “casa dei fichi”. Ma il Signore non troverà che foglie e resterà con la sua fame. Qui i pellegrini si purificavano per entrare nella città santa. Qui anche Gesù ci purifica da ogni nostra falsa attesa su di lui. Betania. Significa “casa del povero”. Sarà l’ultima abitazione di Gesù, il povero su cui sarà effuso il profumo (14,3 ss). Cederà il posto alla “stanza superiore, dove effonderà se stesso (14,12 ss). verso il monte degli Ulivi. Posto a oriente della città, da lì si attendeva il messia. Da questo monte Ezechiele vide tornare la gloria che da lì era fuggita (Ez 43,1 s; 11,23). Su questo monte si compirà la Scrittura: il Figlio dell’uomo sarà preso dagli uomini (14,49); e da lì tornerà presso il Padre (At 1,22). invia due dei suoi discepoli (cf 6,7). I due sono inviati come il Battista a preparare la via del Signore che viene (1,2). v. 2 troverete. È una profezia. I discepoli, ovunque andranno, troveranno sempre con sorpresa l’asinello. Gesù lo prevede, come conosce il proprio destino a Gerusalemme. E predispone tutto. un asinello. Per sé in greco c’è “puledro”. Sappiamo che è un asinello dalla citazione implicita di Zc 9,9, che contrappone l’asinello al cavallo e al carro. Il primo è l’umile animale che serve, il secondo e il terzo sono rispettivamente la cavalcatura di chi si serve o di chi vuol farsi servire dagli altri. Il messia sarebbe arrivato con l’asinello, che raffigura la capacità di servire, ossia di amare. legato. Ma è legato ovunque a causa del peccato, che è appunto l’incapacità di amare. Questo asinello richiama le parole di Giacobbe su Giuda, da cui sarebbe uscito il re: “Egli lega alla vite il suo asinello, e a scelta vite il figlio della sua asina”. Ora lo scioglie, perché “lava nel vino la veste e nel sangue dell’uva il manto” (Gn 49,11). sul quale nessun uomo mai si è seduto. Nessuno mai ha cavalcato questo messianismo umile e debole prima di lui. E, “dietro lui”, nessuno lo desidera, neanche Pietro (cf 8,32 s). Tutti sogniamo un messia forte e potente. slegatelo. È il comando di Gesù ai suoi discepoli. La loro missione è la sua stessa: slegare la capacità di servire. Questo infatti è il suo “mandato”, quello “nuovo”: “che vi amiate gli uni gli altri, come lo vi ho amato” (Gv 13,34). e portatelo. Su di esso Gesù va a Gerusalemme: il re viene nel suo regno, Dio nell’uomo. “Colui che deve venire” può venire solo con l’asinello, perché è Dio, e non uomo. v. 3 Perché fate questo? Il perché di questa scelta sfugge a tutti, discepoli compresi. Il Signore ne ha bisogno. L’unica spiegazione è la fede nella parola di Gesù, che così ha fatto e detto. È l’unica volta che designa se stesso come il Signore. Infatti sarà riconosciuto come Dio, e Dio stesso

sarà riconosciuto come tale, solo dall’alto della croce, dove consumerà il suo servizio (15,39). Il graffito che rappresenta Alexamenos che adora un uomo crocifisso dalla testa d’asino è proprio blasfemo? Oppure bestemmia chi vuole far scendere il Salvatore dalla croce (15,29 s)? Quest’asinello è l’unica cosa di cui il Signore abbia bisogno per mostrarsi tale. Tra poco avrà anche fame. Dio infatti è amore, e ha bisogno di essere amato. Il regno è il suo amore corrisposto dal nostro. Ma l’amore non può essere proposto con il cavallo o con il carro, con l’orgoglio o con la violenza. Combinare amore e orgoglio, è incrociare asino e cavallo; si ottiene un mulo, che è sterile e senza intelletto (Sal 32,9) come il nostro ministero non fatto in debolezza. Combinare poi amore e violenza è incrociare asino e carro armato; si ottiene un mostro apocalittico, che ha solo il linguaggio e l’apparenza dell’agnello - come le nostre crociate a fin di bene. lo invia qui subito. Egli usa per primo questo asinello, e poi lo mette per sempre a nostra disposizione “inviandolo”, come i due discepoli (v. 1). v. 4 andarono e trovarono l’asinello legato. Legato da sempre, i discepoli, inviati a due a due, avranno la gioia di trovarlo ovunque nel loro cammino. e lo slegano. Sono inviati a fare questo. Notare quante volte esce la parola “legare” e “slegare”! v. 5 Che fate, slegando l’asinello? La domanda esprime incomprensione e perplessità. Cosa pretendi di fare, liberando la capacità di servire? Credi forse di cambiare il mondo? Non vedi che ci perdi, anzi ti perdi, e tutto resta come prima? v. 6 dissero loro come disse Gesù. La risposta non viene dal nostro buon senso. Se stesse in noi, faremmo ben altro! Facciamo così solo per obbedienza a quanto ha detto Gesù, il Signore (v. 3). li lasciarono. Nessuno ci contende questo tipo di messianismo. Se litighiamo, non è certo per servire (cf 9,33 ss; 10,41 ss). Se uno vuol servire, tutti lo lasciano. Peggio per lui! È stupido, pensano i furbi e i potenti. Al massimo lo derideranno e perseguiteranno. Ogni cattiveria infatti ricade sempre su chi sta sotto. Ma la stupidità e la debolezza di Dio è più sapiente e più forte degli uomini (1Cor 1,25). v. 7 E portano l’asinello da Gesù. I due fin dal principio del mondo si cercano. Ora finalmente si incontrano! Come si saranno guardati? gettano su i loro mantelli. Come il cieco, anche i discepoli ora si liberano del mantello. Investono ciò che hanno gettandolo sull’asinello. e sedette sopra di esso. Dall’alto dell’asinello viene il Regno promesso e appare il Signore nella sua gloria. v. 8 molti stesero i loro mantelli sul cammino. Tutto il cammino del Re che viene è un tappeto di sicurezze buttate via e gettate nel servizio umile. fronde tagliate. Gli alberi della foresta si rallegrano davanti al Signore che viene (Sal 96,12, s; cf Sal 118,27b). Invece di restare sterili, come i rami del fico (v. 13), queste fronde portano Gesù, frutto pieno della terra e della benedizione di Dio (Sal 67,7).

v. 9 quelli che precedevano e quelli che seguivano. Quelli che seguono, al momento decisivo fuggiranno tutti (14,50); quelli che precedono saranno gli stessi che grideranno “crocifiggilo” (15,13 s). È proprio impossibile a tutti seguirlo in questo cammino (10,27)! Hosannà. È un’acclamazione di gioia per la certezza dell’aiuto di Dio. Originariamente significa: “Deh, salvaci!”. La salvezza che chiedono arriva. Ma la rifiuteranno, perché non viene con il cavallo e il carro, come sperano. Per questo, anche se la invocano, non la riconosceranno, e l’hosannà si tramuterà in “crocifiggilo!”. v. 10 Benedetto Colui che viene nel nome del Signore (Sal 118,26 s). “Colui che deve venire” viene in povertà e umiltà, perché viene nel nome del Signore. Sia benedetto lui, che porta ogni benedizione! Chi viene diversamente, viene nel proprio nome. E sia maledetto, perché porta con sé ogni male - anche a fin di bene. “Chi si vergogna di incedere sull’umile cavalcatura di Cristo, vilipende il Signore, che volle incedere su un asino” (Gioacchino da Fiore). il regno che viene. Così, e non diversamente, viene il Regno: comincia sull’asinello e si compie tra sei giorni sul trono della croce. Là sarà scritto a piene lettere il suo titolo regale (15,26) e sarà proclamata la sua divinità (15,39). Ma già qui sull’asino è re e Signore. del padre nostro David. Questo è il messia di Israele, il re promesso come successore a David (2Sam 7,11 ss). v. 11 entrò in Gerusalemme, nel tempio. Il termine del suo cammino nella città santa è ciò per cui è santa: il tempio. Già fin dall’inizio dei vangelo si prepara questo ingresso del Signore nel suo tempio (1,2 = Ml 3,1 ss). guardata intorno ogni cosa. Nulla sfugge al suo sguardo circolare (cf 3,5). Cosa vede nel luogo dove dovrebbe stare la Gloria? essendo già l’ora tarda. La notte scende sul tempio. La Gloria esce. Nelle altre due “ore tarde” si consegnerà a noi (14,17) ed entrerà nel sepolcro ( 1 5,42). 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, immaginando la via da Betania alla città santa e Gesù che, cavalcando l’asinello, attraverso il monte degli Ulivi, giunge in Gerusalemme. 3. Chiedo a Gesù ciò che voglio: comprendere la lezione dell’asinello, mistero del suo servizio in povertà e umiltà. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

asinello legato nessun uomo mai si è seduto slegatelo portatelo perché fate questo?

il Signore ne ha bisogno gettarono i loro mantelli sedette su di esso Benedetto colui che viene nel nome del Signore il Regno che viene

4. Passi utili: Gdc 9,7-15; 1Sam 8; 2Sam 7,11; Zc 9,9 s; Sal 96; 98; 118; 2Cor 8,9.

58. NESSUNO PIÙ IN ETERNO MANGI FRUTTO DA TE (11,12-14) 12

E il giorno dopo, uscendo essi da Betania, ebbe fame. 13 E, vedendo da lontano un fico che aveva foglie, venne (a vedere) se dunque vi trova qualcosa; e, venutovi, trovò nient’altro che foglie. Non era infatti il tempo di fichi. 14 E rispondendo gli disse: Nessuno più in eterno mangi frutto da te! E udirono i suoi discepoli. 1. Messaggio nel contesto “Nessuno più in eterno mangi frutto da te”, dice Gesù rivolgendosi al fico. Esso, come la vigna, è un’immagine del popolo che Dio si è coltivato, perché produca frutti a lui graditi. La sua dolcezza è paragonata alla legge, che si sintetizza nell’amore di Dio e del prossimo (12,28 ss). Di questo il Signore ha fame e si diletta sommamente. Ma alla sua venuta (cf l’episodio seguente) trova solo foglie: tanta apparenza e nessuna sostanza. Il fico aveva l’attenuante che non era ancora la sua stagione. Ma per noi non c’è scusa alcuna. “Il tempo è finito” (1,15), disse Gesù. Finita l’attesa, è ora di fare frutti. Il Regno è già venuto. Siamo ormai chiamati a riconoscere la visita del Signore. La sua venuta ha bisogno dell’asinello, la capacità di servire e amare. Questa è la sua fame. Ma non trova cibo da parte nostra. Al di là del fogliame, di cui, da Adamo in poi, siamo abili produttori e consumatori, non trova un fico secco. Davanti al Gesù povero e umile, si scopre la sterilità di chi non lo accoglie così com’è. È utile notare che il Signore non se la prende con il popolo. Ne fa le spese questo fico, che non c’entra. In realtà quest’albero, che porta su di sé la maledizione nostra, è immagine della croce. Da essa penderà il dolce frutto, nel quale la nostra sterilità diventa feconda. Il Crocifisso infatti è il sì pieno di Dio all’uomo, e dell’uomo a Dio. Luogo d’incontro e di comunione tra i due, è il nuovo tempio. L’episodio del fico senza frutti, che lascia cadere le foglie, incornicia quello del tempio, che sarà distrutto. Il vecchio tempio, fatto da mani d’uomo, lascerà il posto a uno nuovo, non fatto da mani d’uomo (14,58), che sarà casa di preghiera per tutte le genti. Gesù è il Signore. La sua venuta “debole” è il suo giudizio sul fico e sul tempio, cioè sul popolo e sulla sua immagine di Dio. Ma la condanna ricade sul fico, ossia sul legno della croce; e il tempio distrutto sarà il suo corpo dato per noi. Questo è il suo giudizio: un’offerta incondizionata di salvezza, appello definitivo alla conversione.

Discepolo è colui che dà il frutto di cui il Signore ha fame: accetta il suo amore povero e umile, e ne vive. 2. Lettura del testo v. 12 il giorno dopo. Da qui in avanti Marco segna nettamente i sei giorni della nuova creazione, che culminano sulla croce. Betania. Significa “casa del povero”. Qui vediamo la povertà di Dio, che ha “fame”; e la povertà nostra, che non abbiamo nulla da dargli. ebbe fame. La fame dell’amore è essere amato. Di questa fame morirà il Signore. v. 13 vedendo da lontano. Gesù vede “da lontano” il fico, come le donne staranno a guardare da lontano l’albero della croce (15,40). Anche Pietro lo seguirà da lontano (14,54). un fico. L’osservanza della legge è gradita a Dio come la dolcezza del fico al palato. Albero domestico della terra promessa, è il primo e l’ultimo che produce frutti, direttamente dai rami e senza fiori - come la croce! Il fico è figura del popolo della legge, di cui Dio si compiace, e della legge stessa, nella quale chi cerca trova sempre frutto. che aveva foglie. All’inizio della primavera, in marzo, quando sono spuntate le foglie, il fico dà i primi frutti. I secondi, più abbondanti, sono alla fine dell’estate. In Galilea può dar frutti per dieci mesi all’anno, e, anche gli altri due, si può sempre trovare in esso qualcosa. Non trovare un fico secco significa trovare proprio niente. Le sue foglie hanno una lunga ascendenza biblica. Indicano tutto ciò che l’uomo fa per coprire la sua nudità, la propria insufficienza non accettata (Gn 3,7). venne (a vedere) se vi trova qualcosa. Dio ha sempre mandato nella sua vigna i suoi servi, i profeti, per vedere se dava i frutti sperati. Ora viene lui stesso. È la svolta decisiva nella storia della salvezza, il giudizio (cf la parabola dei vignaioli, 12,1-12). trovò nient’altro che foglie. Dalla sua prima visita nel giardino alla sua ultima nella terra promessa, Dio non trovò mai i frutti sperati. L’uomo è fin dall’origine nel peccato, incapace di amare Dio e il prossimo. Ha solo foglie, dietro le quali si nasconde per vergogna di sé e paura dell’altro. non era il tempo di fichi. Gesù compie questo “contro-miracolo” appositamente fuori stagione per farci capire che il presente è sempre il momento di far frutto. “Oggi” è il giorno del Signore, e dobbiamo affrettarci finché dura questo giorno (cf Eb 3,13; 4,11). Con la sua venuta tra noi, non vale più la solita scusa: non è questo il momento, bisogna aspettare tempi migliori! Non c’è più da attendere, perché il Signore è qui, e il suo regno è già venuto; bisogna solo convertirsi per potervi entrare. v. 14 Nessuno più in eterno mangi frutto da te. Non ci sarà alcun frutto, se non ci si converte al Signore povero e umile. La maledizione della nostra sterilità ricade su una pianta innocente. La croce sarà l’albero sul quale si abbatte il nostro male, e Gesù stesso porterà ogni maledizione - come sta scritto: “Maledetto chi pende da legno” (Dt 21,23; Gal 3,13).

udirono i suoi discepoli. Infatti la lezione è impartita a loro, non al fico. Inoltre l’annotazione serve per riprendere la scena il giorno seguente (v. 20), dopo la visita al tempio che, inclusa nella vicenda del fico, trova così la sua cornice interpretativa. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, immaginando la via da Betania a Gerusalemme, al cui bordi Gesù vede il fico. 3. Chiedo ciò che voglio: costatare la mia sterilità, la mia incapacità a soddisfare la “fame” del Signore. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Il fico rappresenta tutti gli uomini che, da Adamo in poi, non hanno risposto alla fame di Dio, nascondendo dietro le sue foglie la loro sterilità. Da notare:

la “fame” del Signore le foglie del fico, senza frutti la “maledizione” del fico

4. Passi utili: Mic 7,1-7; Sal 14; Lc 13,6-9; Mc 12,1-12.

59. LA MIA CASA SARÀ CHIAMATA CASA DI PREGHIERA PER TUTTE LE GENTI. MA VOI NE AVETE FATTO UNA SPELONCA DI LADRI (11,15-19) 15

E vengono a Gerusalemme. E, entrato nel tempio, cominciò a scacciare quelli che vendono e comprano nel tempio, e rovesciò le tavole dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe, 16 e non lasciava che alcuno trasportasse qualcosa attraverso il tempio. 17 E insegnava e diceva loro: Non sta scritto: la mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti? Ma voi ne avete fatto una spelonca di ladri! 18 E udirono i sommi sacerdoti e gli scribi,

e cercavano di rovinarlo; avevano infatti paura di lui, poiché tutta la folla era colpita dal suo insegnamento. 19 E, quando fu sera, uscivano fuori dalla città. 1. Messaggio nel contesto “La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti. Ma voi ne avete fatto una spelonca di ladri”. Queste parole di Gesù indicano rispettivamente ciò per cui è fatto il tempio e ciò che noi ne facciamo, dando al suo gesto di “purificazione” il significato di annuncio della passione. La scena è inclusa tra la maledizione del fico e l’istruzione sulla preghiera e la fede. Come il fico, il tempio non produce frutto, perché non è più il luogo della fede e della preghiera. La venuta del Signore ne evidenzia la sterilità e compie il giudizio. Presso tutti i popoli il tempio è “santo”, cioè separato dal resto, che ad esso si ordina. È il luogo del culto e della legge, il fulcro di tutta la vita religiosa e civile, il centro dello spazio e del tempo. La sua distruzione è la rottura dell’asse attorno al quale tutto ruota: è la fine del mondo. Con Gesù crocifisso finisce il mondo vecchio e nasce quello nuovo, in cui non c’è più il tempio, “perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio” (Ap 21,22); cessa la funzione del tempio, separato dal pro-fano, perché tutto diventa dimora di Dio. Il vecchio mondo cercava di avere Dio al proprio centro, senza riuscirci per la sua empietà. Nel nuovo mondo Dio stesso ha posto al proprio centro l’uomo, mettendosi con la sua croce nel cuore di ogni empietà. Fin dall’inizio il racconto di Marco punta su questa visita del Signore al tempio, parlando del messaggero che ne prepara la strada (1,2 = Ml 3,1 ss). La distruzione del tempio sarà capo di accusa nel suo processo (14,58) e motivo di irrisione ai piedi della croce (15,29). Eppure proprio alla sua morte si squarcerà il velo del santo dei santi e il centurione prototipo di “tutte le genti” - riconoscerà la Gloria (15,38 s). Gesù è il nuovo tempio, il mondo nuovo, l’uomo nuovo. “In lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). Con lui entriamo in comunione con Dio, nostra vita. In lui Dio ci benedice e la nostra terra dà il suo frutto (Sal 67,7). Il discepolo, aderendo a lui, diventa pietra viva per la costruzione di un edificio spirituale (1Pt 2,5). Ogni battezzato forma con lui un solo corpo, senza distinzione tra giudei e pagani, perché ha il suo stesso Spirito (1Cor 12.13). Incorporato in lui per il battesimo, ognuno di noi diventa tempio di Dio. Egli infatti è l’uomo nascosto del cuore (1Pt 3,4), l’uomo interiore che per la fede abita nei nostri cuori. In lui gustiamo tutta l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Dio per noi, e siano ricolmi di tutta la sua pienezza (Cf Ef 3,16-19). 2. Lettura del testo v. 15 vengono a Gerusalemme. Gesù trascorrerà in Gerusalemme l’ultima settimana, passando il giorno in città e la notte fuori, in Betania o sul monte degli Ulivi. entrato nel tempio. Era già entrato il giorno prima, guardando intorno ogni cosa (v. 11). In esso si attendeva la venuta del Signore, immediatamente preceduta dal suo messaggero (Ml 3,1 ss). Il

messaggero fu il Battista (1,2); Gesù è il Signore, che viene per il giudizio e la salvezza definitiva. La scena si svolge nell’atrio, che con i suoi 475x300 metri, era il luogo più adatto al commercio. cominciò a scacciare quelli che vendono e comprano nel tempio. C’era tutto un mercato attorno al tempio, autorizzato dai sacerdoti con grossi vantaggi. Oltre che del culto, era anche centro di potere politico ed economico. Ma Gesù è il messia che viene con l’asinello e vince con la povertà, l’umiliazione e l’umiltà. Scaccia dal tempio i commercianti, come aveva scacciato dagli ossessi i demoni. La “purificazione” del tempio, che qui inizia, è figura della purificazione della nostra immagine di Dio, inquinata dalla proiezione dei nostri deliri. Il nostro “senso religioso”, che pur presenta un’istanza buona di apertura al trascendente, se non è purificato dalla “carne” (= debolezza) di Gesù, è il peggior nemico della fede cristiana: produce una religiosità più o meno arrogante e potente che è la principale causa dell’ateismo (Cf Is 52,5; Rm 2,24). Oltre a quello materiale, nel tempio c’è anche un altro commercio, spirituale. È quello della religiosità naturale quando, con la moneta sonante delle prestazioni, intende comperare la grazia di Dio. È un male gravissimo, figlio diretto del “grande peccato”, che, dipingendo un Dio cattivo, induce a placarlo e ottenerne le grazie dietro pagamento, come fosse una prostituta. È il peccato del giusto, che va direttamente contro l’essenza di Dio che è amore gratuito. Il discorso più duro contro di lui è proprio quello di dire: “Che vantaggio abbiamo ricevuto dall’aver osservato i suoi comandamenti?” (Ml 3,13s). cambiavalute. Per l’offerta al tempio, i pellegrini dovevano cambiare il denaro greco o romano, che era impuro, nel corrispondente giudaico. Quest’esigenza di “purità” legale diventava ottima occasione di sporchi guadagni nel cambio. venditori di colombe. Le colombe sono l’offerta dei poveri. Era dovuta dalla donna dopo il parto e per la guarigione da varie malattie “impure” (Lv 12,8; 14,22; 15,14-29). È facile deteriorare la religione a piccolo commercio, che può giovare alle opere nostre, ma certamente non a Dio e alla sua buona immagine. v. 16 non lasciava che alcuno trasportasse qualcosa attraverso il tempio. L’atrio del tempio, così vasto, era attraversato da chi doveva portare qualcosa dall’altra parte, senza doverne fare il giro. Quante volte la nostra religiosità non fa di Dio la scorciatoia per raggiungere i nostri obiettivi? C’è una manipolazione irrispettosa di Dio. Invece di amare e servire lui, ci serviamo di lui per conseguire i nostri amori, piccoli o grandi. Ma la sua presenza non è il talismano automatico della salvezza (cf 1Re 9,4-9). Con Gesù, vero volto di Dio, il tempio cessa di fare da copertura al male dell’uomo: verrà distrutto (c. 13), come l’immagine negativa che in esso si annida. v. 17 casa di preghiera. La preghiera è la comunione con Dio, salvezza dell’uomo. Questo è il vero senso del tempio, che sarà la carne di Gesù, piena comunione tra Dio e l’uomo. per tutte le genti. Genti significa “pagani”. Dio vuol entrare in comunione con tutti, perché tutti sono suoi figli. Già Is 56,7, qui citato, aveva previsto questo tempio. ne avete fatto una spelonca di ladri. È utile leggere Ger 7,1-14, da cui è presa la citazione. Vi si minaccia la distruzione del tempio. Dio non avalla le nostre malefatte. Perdona senza limiti il peccatore e non si fa suo giudice; ma neanche può farsi suo complice nel peccato. Il tempio è o casa di preghiera o spelonca di ladri.

Gesù denuncia chi guida o tollera questo traffico. È il rimprovero più forte che abbia rivolto al giudaismo dell’epoca. Ma il tempio è immagine della Chiesa, depositaria della stessa promessa, ma anche incline alla stessa infedeltà. Tutto ciò che è accaduto a Israele infatti è come un esempio, scritto per ammonimento nostro (1Cor 10,11): “Perciò temi. Se infatti Dio non ha risparmiato i rami naturali, tanto meno risparmierà te”, dice Paolo alla comunità di Roma (Rm 11,20 s). v. 18 i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano di rovinarlo. Questo suo gesto di “purificazione” ha come risposta la sua condanna. I suoi nemici, scavandogli la fossa, gettano le fondamenta per il nuovo tempio. avevano paura di lui. Avvertono come minaccia il favore del popolo, di cui gode. Ma durerà poche ore (cf 15,11). tutta la folla era colpita dal suo insegnamento. Come in Galilea, all’inizio, la gente lo ascolta per ora con meraviglia e stupore. v. 19 E, quando fu sera. Sul tempio cala la notte definitiva, come sul corpo di Gesù morto e consegnato per noi (15,42; 14,17). uscivano fuori dalla città. Non è ancora giunta la sua ora. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, immaginando il cortile del tempio, con tutto il suo traffico. 3. Chiedo ciò che voglio: la purificazione del tempio, un rapporto con Dio che sia gratuito, “puro” dalla contaminazione dei miei interessi. Chiedo di cercare il Signore per il Signore, non per i suoi favori. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

il tempio comprare/vendere trasportare casa di preghiera

per tutte le genti spelonca di ladri cercavano di rovinarlo

4. Passi utili: 1Re 9,4-9; Ml 3; Ger 7,1-14; Is 56,1-7; Sap 9; Sal 63; Rm 11,16-24; Col 2,9; 1Pt 2,1-5; Ap 21.

60. ABBIATE FEDE DI DIO (11,20-26) 20

E, passando via all’alba,

videro il fico seccato dalle radici. 21 E Pietro, ricordandosi, gli dice: Rabbi, ecco: il fico che hai maledetto è seccato. 22 E, rispondendo, Gesù dice loro: Abbiate fede di Dio. 23 Amen, vi dico: Chi dice a questo monte: Togliti e gettati nel mare, e non dubita nel suo cuore, ma crede che ciò che dice avviene, gli sarà accordato. 24 Per questo vi dico: Tutto quanto pregate e chiedete, credete che l’avete ricevuto, e vi sarà accordato. 25 E quando state in piedi a pregare, perdonate se avete qualcosa contro qualcuno, perché anche il Padre vostro nei cieli perdoni a voi le vostre cadute. (26) Ma se voi non perdonate neanche il vostro Padre che è nei cieli perdonerà le vostre cadute. 1. Messaggio nel contesto “Abbiate fede di Dio”, dice Gesù. Il fico è stato seccato per istruire i discepoli sulla fede; il tempio è stato purificato per diventare casa di preghiera. Alla sterilità del primo, ricco solo di foglie, corrisponde il pullulare di affari nel secondo. Infecondità nel bene e fecondità nel male vanno di pari passo. In questo brano si parla della fede e della preghiera, radice da cui viene il frutto dello Spirito, che essenzialmente è amore e perdono. Gesù vede la fede di chi viene a lui (2,5), chiede ai discepoli se ce l’hanno (4,40) e dice all’emorroissa e al cieco: “La tua fede ti ha salvato” (5,35; 10,52). L’incredulità impedisce la sua azione (6,6), ed è guarita dall’invocazione: “Aiuta la mia non-fede” (9,24). Le sue prime parole sono: “Abbiate fede nel vangelo” (1,15). A Giairo dice: “Non temere, abbi fede” (5,36), e al padre del sordomuto: “Tutto è possibile per chi ha fede” (9,23). I discepoli li chiama “questi piccoli che hanno fede in me” (9,42). Tutte queste parole di Gesù illustrano cosa è la fede in lui, volto visibile del Dio invisibile. Credere non è solo sapere che c’è un Dio, essere supremo e buono, onnipotente e onnisciente, sovrano e giudice di tutti - c’è anche per chi non crede! È aderire a Gesù e alla sua parola, amarlo e seguirlo per essere con lui (1,15-20; 3,14), perché lui è il Signore, l’interlocutore fondamentale della mia vita. La fede si esprime come preghiera verso l’alto e come perdono verso chi ci sta a fianco. La prima ci mette in dialogo col Padre (cf 1,35-38; 6,46; 14,3 ss), il secondo coi fratelli. Non ci può essere l’uno senza l’altra e viceversa. Ambedue sono appunto possibili in Gesù, Figlio di Dio e fratello di tutti. Gesù è il Signore. La fede in Dio è conoscere, amare e seguire lui così com’è, non come lo vogliamo noi.

La sua parola accolta con fede ci trasforma, compiendo in ciascuno di noi i miracoli che il vangelo ci racconta. Diversamente restiamo senza frutto come il fico, e il nostro rapporto con Dio rimane un mercato di compravendita, come il tempio. Discepolo è colui che ha fede nell’uomo Gesù, potenza e sapienza di Dio, proprio nella sua debolezza. Chi è in comunione con lui, il Figlio donato per noi, è unito con il Padre e con i fratelli: prega e perdona. 2. Lettura del testo v. 20 passando via all’alba. La luce del sole scopre la nudità dei fico. Vederla è già l’alba del terzo giorno. Sarà un giorno assai lungo, in cui Gesù ci insegnerà qual è il suo potere e qual è il nostro fine (11,2013,37). v. 21 Pietro, ricordandosi. Anche al canto del gallo Pietro si ricorderà di quanto Gesù ha detto il giorno prima (14,72). Allora, ritrovandosi nudo e senza foglie, sarà chiamato ad avere fede in lui. v. 22 Abbiate fede di Dio. Gesù non chiede fede in qualche idea, bensì nel Dio che si rivela in lui povero e umile che finisce in croce. Questa è la fede “di” Dio. Le altre sono dell’uomo, proiezioni dei suoi desideri. v. 23 Amen. L’affermazione di Gesù è con autorità divina. Questa parola ha la stessa radice della parola ebraica “fede”, e indica certezza, fiducia e stabilità. Chi dice a questo monte, ecc. Sembra più facile spostare i monti nel mare che smuovere i discepoli e immergerli nella sequela di Gesù! e non dubita nel suo cuore. “Se qualcuno di voi manca di sapienza la domandi a Dio, che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare, e gli sarà data. La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare mossa e agitata dal vento; e non pensi di ricevere qualcosa dal Signore un uomo che ha l’animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni” (Gc 1,5-8). La prima qualità della fede, che la rende tale, è la certezza, la stabilità oltre ogni nostro dubbio. Non è un presumere in sé o in formule magiche, ma un abbandonarsi al Signore e al suo amore per noi. Se non c’è, si può e si deve chiederla, come il padre del sordomuto (9,24). Se non otteniamo, quando non chiediamo ciò che è male (cf Gc 4,3), è perché chiediamo male, cioè senza fede. v. 24 Tutto quanto pregate e chiedete. Tutto è dono di Dio, termine della nostra lode. Quanto siamo e abbiamo è oggetto di ringraziamento; quanto ci manca, è oggetto di richiesta. Ma all’uomo manca sempre l’essenziale: il Signore stesso. Ora egli ci si è concesso in Gesù. Per questo dobbiamo ripetere la preghiera del cieco: “Che io veda”. Vedere lui è la fede che salva. credete che l’avete ricevuto, e vi sarà accordato. Chi non ha fede è inutile che chieda: non ottiene. Chieda tuttavia la fede stessa. È vero che Dio vuol donarla a tutti. Va però chiesta, perché ogni dono può essere fatto solo a chi lo desidera! La preghiera è allungare la mano per riceverlo. Dobbiamo credere che ciò che chiediamo avviene (v. 23), perché in realtà è già avvenuto. Se il Padre ha dato il Figlio per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? (Rm 8,32).

La preghiera è il respiro stesso della fede. Il nostro rapporto fondamentale con Dio è quello di chiedere/ricevere in umiltà e fiducia, gioia e riconoscenza amorosa. Questo dialogo con lui è la nostra partecipazione alla vita del Figlio. v. 25 perdonate. Chi non perdona al fratello non può pregare il Padre. Deve però chiedergli di perdonare, domandando perdono di non saper perdonare. perché anche il Padre vostro nei cieli perdoni a voi le vostre cadute. Chi non perdona ai fratelli, non ha lo Spirito del Figlio. Non conosce il Padre: non accetta che lui è amore gratuito per tutti i suoi figli. v. 26 Ma se voi non perdonate, ecc. (Mt 6,15; cf Mt 18,21-35). Chi non perdona resta chiuso nel suo peccato. È cieco. Ma ora sa cosa chiedere. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, immaginando la scena: è mattina, sulla strada per Gerusalemme, davanti al fico essiccato, con Gesù e i discepoli. 3. Chiedo ciò che voglio: aver fede, saper chiedere con fiducia e perdonare. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Posso immedesimarmi con il fico secco, figura di chi non ha fede e non sa pregare né perdonare. Da notare:

abbiate fede di Dio non dubitare

credete che l’avete ricevuto perdonate

4. Passi utili: Gn 18,16-33; Sal 27; Lc 11,9-13; Gc 1,5-8; Rm 8,31-39; 2Cor 1,19-22; Mt 6,14s; 18,2135.

61. VI DOMANDERÒ UNA SOLA PAROLA, E RISPONDETEMI (11,27-33) 27

E vengono di nuovo a Gerusalemme. E, mentre cammina nel tempio, vengono da lui i sommi sacerdoti e gli scribi e gli anziani, 28 e gli dicevano: Con quale potere fai queste cose? O chi ti ha dato questo potere per fare queste cose? 29 Ma Gesù disse loro: Vi domanderò una sola parola, e rispondetemi; e io vi dirò con quale potere faccio queste cose.

30

Il battesimo di Giovanni era dal cielo o dagli uomini? Rispondetemi! 31 E ragionavano fra loro dicendo: Se diciamo: Dal cielo, dirà: Perché allora non gli avete creduto? Ma diremo: Dagli uomini? 32 Temevano la folla, poiché tutti ritenevano che Giovanni era davvero un profeta. 33 E, rispondendo a Gesù, dicono: Non sappiamo! E Gesù dice loro: Neppure io vi dico con quale potere faccio queste cose. 1. Messaggio nel contesto “Vi domanderò una sola parola, e rispondetemi”. È la risposta di Gesù a chi lo interroga. Nel recinto del tempio inizia una serie di cinque dispute, con cui manifesta il suo potere: è quello della fedeltà e libertà di Dio (12,1-12.13-17), che è vita e amore (12,18-27.28-34). La rivelazione culmina in una lunga domanda, la cui risposta, lasciata a noi, chiarisce tutto: egli è il Signore (12,35-37). La sua attività iniziò con cinque polemiche sulla legge, che determinarono la decisione di ucciderlo (2,13,6); ora termina con queste cinque sul potere, che concludono alla sua condanna a morte. Ma proprio questa lo manifesterà come il Figlio di Dio! La questione riguarda tutta la sua attività, che si esprime in pieno nella “purificazione” del tempio: per dire e fare ciò che dice e fa, qual è il suo potere, e da dove viene? È la domanda fondamentale su di lui. Egli risponde, ma a una condizione: che noi siamo disponibili a rispondere a una sua domanda circa il Battista, che ha predicato “un battesimo di conversione per il perdono dei peccati” (1,4). Accettiamo il suo “battesimo” come da Dio, siamo cioè disposti a convertirci, riconoscendo il nostro peccato e il suo perdono? Solo così possiamo conoscere il “più forte” che viene dopo di lui e ricevere il battesimo nello Spirito Santo (1,7 s.). Questa è la condizione previa per conoscere Gesù come Signore, e sperimentare la sua forza di salvezza. Chi si crede nel giusto e non vuole convertirsi, non ottiene risposta: “Neppure io vi dico, ecc.”. Gesù ci pone davanti al bivio della fede: o mettere in questione il Signore e la sua parola, o lasciarsi mettere in questione. La prima via porta al silenzio di Dio e al nulla dell’uomo; la seconda al dialogo fecondo con lui. Nella prima parte del vangelo noi ci interrogavamo: “Chi è costui?”. Lui ha risposto pazientemente, con tutto ciò che ha fatto e detto. Nella seconda è lui stesso che ci interroga: “Ma voi chi dite che io sia?”. Rispondimi e ti risponderò! Se uno vuol capire la Parola. più che interpretarla, si lasci interpretare da essa. Discepolo è colui che, rispondendo alla sua domanda, è disposto a convertirsi, a volgersi dal proprio peccato al suo perdono. Solo costui conosce e sperimenta il “potere” di Gesù Signore. 2. Lettura del testo

v. 27 E vengono di nuovo a Gerusalemme. È il suo terzo ingresso, in tre giorni consecutivi. È martedì. Sarà una giornata lunga. Inizia davanti al fico essiccato, si svolge sullo sfondo del tempio e abbraccia le ultime istruzioni, che vanno da 11,20 a 13,37. cammina nel tempio. Il Signore, venuto per la sua visita, “cammina” per l’ultima volta nel tempio. Il giorno dopo si farà preparare quello nuovo. Sarà la stanza superiore, dove si dona al suoi, per restare sempre con loro e in loro. i sommi sacerdoti egli scribi e gli anziani. Rappresentano rispettivamente il potere politico-religioso, culturale ed economico, così diversi da quello di Dio, raffigurato nell’asinello. Tutti i grandi della terra si alleano contro il Signore e il suo messia (Sal 2,2; At 4,26 s). v. 28 Con quale potere fai queste cose? (Vedi anche 1,21.27 e 2,10, a proposito della sua parola e del suo perdono efficaci). “Queste cose” si riferiscono alla purificazione del tempio, come gesto culminante di tutta la sua attività. I suoi nemici gli chiedono quale potere ha, cioè di che natura è. Gesù lo mostrerà nelle dispute seguenti. chi ti ha dato questo potere? Da dove gli viene? Questa domanda specifica la prima: la natura del suo potere deriva dalla sua origine. v. 29 Gesù disse loro: Vi domanderò una sola parola. Gesù risponde con una domanda. e rispondetemi. Alla quale dobbiamo rispondere noi. e vi dirò con quale potere, ecc. Se noi rispondiamo a questa domanda, ci rivela il suo potere. v. 30 Il battesimo di Giovanni, ecc. La sua domanda riguarda il battesimo di conversione, annunciato da Giovanni (1,4). Lo riconosciamo da Dio (“dal cielo”) e lo accettiamo? La disponibilità a convertirci è la porta d’accesso al suo mistero. v. 31 E ragionavano fra loro, dicendo, ecc. Invece di rispondere a lui, preferiscono chiudersi in sé. Il loro parlare non è un dialogo. Resta il monologo di chi cerca non la verità, ma la difesa di presunti interessi. Da una parte non vogliono convertirsi e dall’altra non vogliono perdere il favore del popolo religioso. v. 32 Giovanni era davvero un profeta. Il profeta è colui che chiama tutti a conversione. v. 33 Non sappiamo. Quando non siamo disposti a cambiare e a metterci in discussione, ci trinceriamo dietro questa tragica parola: “Non so”. Più che ignoranza, nasconde la malafede di chi non vuoi ricredersi. Quanta nostra buona fede in realtà non è un alibi? Neppure io vi dico con quale potere, ecc. Gesù non può rispondere a chi non è disposto a convertirsi. Questo suo silenzio sarà oggetto di meraviglia nel suo processo. Ma è un atto di misericordia: invece di difendersi accusandoci e di giustificarsi giudicandoci, tace (14,60s; 15,4s). Il “silenzio di Dio” è la sua parola più eloquente: grida un amore senza riserve, che si offre sempre, in attesa di una risposta. 3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, vedendo l’atrio del tempio, dove Gesù passeggia e insegna, dopo averlo purificato dal mercanti. 3. Chiedo ciò che voglio: rispondere al suo appello di conversione e non rifugiarmi dietro il rifiuto del silenzio. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

con quale potere fai queste cose? vi domanderò una sola parola rispondetemi e io vi dirò

il battesimo di Giovanni non sappiamo neppure io vi dico

4. Passi utili: Os 11,7-9; Is 1,2-28; Ez 33,1-20; Ne 9; Rm 1,18-32; Sal 51.

62. LA PIETRA CHE I COSTRUTTORI RIGETTARONO, QUESTA DIVENNE TESTATA D’ANGOLO (12,1,12) 121 E cominciò a parlar loro in parabole: Un uomo piantò una vigna, e pose attorno una siepe, e scavò un torchio e costruì una torre e l’affittò ad agricoltori, e s’allontanò dal paese. 2 E inviò agli agricoltori, a suo tempo, un servo, per prendere dagli agricoltori dei frutti della vigna. 3 E lo presero e picchiarono e rimandarono vuoto 4 E di nuovo inviò loro un altro servo; colpirono in testa anche lui e lo schernirono. 5 E inviò un altro, e uccisero anche lui; e molti altri (inviò), dei quali alcuni picchiarono ed altri uccisero. 6 Aveva ancora uno, il figlio diletto. Lo inviò ultimo da loro, dicendo: Rispetteranno il figlio mio. 7 Ma quegli agricoltori dissero tra sé: Costui è l’erede!

Venite, uccidiamolo; e l’eredità sarà nostra! 8 E lo presero, l’uccisero, e lo gettarono fuori dalla vigna. 9 Che farà dunque il Signore della vigna? Verrà e rovinerà gli agricoltori e darà la vigna ad altri! 10 Neanche avete letto questa Scrittura: La pietra che i costruttori rigettarono, questa divenne testata d’angolo. 11 Dal Signore venne questo, ed è meraviglioso ai nostri occhi? 12 E cercavano di impadronirsi di lui, ed ebbero paura della folla. Infatti compresero che disse la parabola per loro. E, lasciatolo, se ne andarono. 1. Messaggio nel contesto “La pietra che i costruttori rigettarono, questa divenne testata d’angolo”, dice Gesù ai sommi sacerdoti, agli scribi e agli anziani che lo interrogano e non si lasciano interrogare. Anche con loro, pur non potendo rispondere, mantiene aperto il dialogo. Per questo, sotto il velo delle parabole (cf 4,10), dichiara di che tipo è il suo potere e da dove gli viene: è quello del “Figlio”, e gli viene dal suo essere rigettato, ucciso e gettato fuori proprio da loro! Con questa parabola allegorica Gesù dà la chiave di lettura della storia di Israele - paradigma di quella di ogni uomo - come scontro senza incontro tra la fedeltà di Dio e l’infedeltà nostra. La sua offerta di amore si trova sempre davanti al muro ostinato del nostro rifiuto. Alla sua crescente bontà, corrisponde un crescendo della nostra cattiveria. Sembra proprio un amore infelice, senza possibilità di riuscita. Ma il Signore opera una meraviglia ai nostri occhi, facendo della croce, apice del nostro male, il dono del suo massimo bene: noi lo uccidiamo, togliendogli la vita, e lui ci fa vivere, donandoci la sua vita. La nostra malvagità non vanifica il suo piano. “Davvero”, diranno gli apostoli rivolgendosi al Padre, “in questa città si adunarono insieme contro il tuo santo servo Gesù, che hai unto come Cristo, Erode e Ponzio Pilato con le genti e i popoli di Israele”; ma alla fin fine, senza saperlo, non fecero che “compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano preordinato che avvenisse” (At 4,27 s.). Tutto il male nostro e della nostra storia, lungi dall’essere il fallimento del disegno di Dio, non fa che compierlo in modo più sublime, mostrando il suo potere, che è solo e tutto misericordia. Il potere dell’uomo è quello di fare il male dal bene; quello di Dio è fare il bene dal male. Egli vorrebbe diversamente; ma rispetta la nostra libertà. Tuttavia è Dio proprio perché sa colmare la nostra miseria con la sua misericordia, facendo del nostro rifiuto la sua offerta incondizionata di amore. È la vittoria della croce, scontro inevitabile, che diventa incontro definitivo. “O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio”, che “ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia” (Rm 11,33.32). Solo lo Spirito è capace di farci penetrare in questo che è il mistero stesso di Dio. Se il rifiuto di Israele fu salvezza per tutti, cosa non sarà la sua conversione? Paolo la vede come il compimento ultimo del disegno di salvezza universale (Rm 11,11-15).

Gesù è il Figlio, l’unigenito che si è fatto servo e ultimo di tutti, dando la vita per noi che gli diamo la morte. Questo è il suo potere: la sua fedeltà oltre ogni nostra infedeltà, appello definitivo alla conversione. Discepolo è colui che nella pietra scartata riconosce il Figlio, il suo Signore e Salvatore, testata d’angolo del nuovo tempio. 2. Lettura del testo v. 1 cominciò a parlar loro in parabole. A chi lo interroga ed è disponibile a rispondere, Gesù confida il mistero del Regno e spiega tutto (4,11.34). Per questo la “Parola” è annunciata con chiarezza ai discepoli (8,32) e con parabole agli altri, secondo che possono intendere (4,33). La nostra disponibilità a convertirci è la misura della nostra intelligenza spirituale. Un uomo piantò una vigna. La vigna è Israele che Dio si è piantato. Richiama Is 5,1 ss, che contiene tutta una recriminazione di Dio nei confronti del popolo (cf Sal 80). e pose attorno una siepe. La siepe delimita e protegge. Può essere immagine della legge, che separa dagli altri il popolo che si è scelto come sua proprietà (Es 19,5), perché sia santo come lui è santo (Lv 11,44; 19,2). scavò un torchio. È dove si spreme e scorre il frutto della vigna. Nel Getsemani, che significa “luogo del torchio”, sarà spremuto Gesù, frutto maturo dell’obbedienza al Padre. costruì una torre. La torre serve da guardia. In essa il Targum vede il tempio. Tutti questi dettagli indicano la cura con cui Dio si è costruito la sua vigna, dotandola della sua parola e della sua presenza. l’affittò ad agricoltori. Sono i capi del popolo, responsabili dei frutti della vigna. s’allontanò dal paese. Dio è discreto. Fa tutto ciò che il suo amore gli detta, poi, dice il testo greco, se ne va all’estero, fuori del suo popolo. Rimane come in disparte - straniero ed estraneo - in attesa della risposta dell’uomo. Il quale può anche dire, nella sua dotta stupidità, che non esiste (Sal 10,4; 14,1). v. 2 inviò agli agricoltori, a suo tempo, un servo. I servi sono i profeti, inviati da Dio ad esigere i suoi frutti. frutti della vigna. I frutti della vigna sono l’obbedienza alla legge, che consiste nell’amore di Dio e del prossimo. È ciò di cui Gesù ebbe fame (cf 11,12). v. 3 lo presero e picchiarono. È la sorte del profeta, che risulta sempre scomodo. rimandarono vuoto. La missione dei profeti rimane senza esito. La vigna non dà frutti, come il fico sterile. v. 4 di nuovo inviò loro un altro servo. Dio non si scoraggia. Non lascia mai mancare i suoi profeti, che denunciano il nostro peccato e annunciano la sua misericordia.

colpirono in testa anche lui. L’uomo non desiste dal suo male. Alza la mira, e colpisce anche la testa. Si allude al Battista che fu decapitato? lo schernirono. Oltre la violenza fisica, anche il linciaggio morale. Sulla sorte dei profeti vedi la splendida sintesi di Eb 11,35b-38. v. 5 inviò un altro. La sua fedeltà non è sconfitta dalla nostra cattiveria. uccisero anche lui. Come risposta alla sua bontà c’è un aumento di malvagità: prendere, picchiare, colpire in testa, schernire, uccidere. Uccidere il profeta è la consumazione del male: si spegne la voce che denuncia il peccato, togliendosi la possibilità di conversione. e molti altri. Dio non viene mai meno nel suo amore per noi. dei quali alcuni picchiarono ed altri uccisero. L’ostinazione nostra nel male è proporzionale alla sua nel bene. “Il Signore Dio dei loro padri mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché amava il suo popolo e la sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio” (2Cr 36,15s). Nella sua ira dovrebbe venire per il giudizio e sterminare tutti. Ma è Dio e non uomo. il suo istinto freme di compassione (cf Os 11,8s). Non conosce altra vendetta che mostrare maggior amore - anzi il massimo amore che è possibile a lui che è amore. v. 6 Aveva ancora uno, il figlio diletto. Per questo, dopo l’invio dei “servi”, invia il suo tesoro, Gesù, il Figlio diletto, l’unico che egli ha (cf 1,11; 9,7). “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1). Lo inviò ultimo. È il dono ultimo della sua fedeltà. Dopo di lui, non ha più nulla da darci, perché insieme con lui ci ha donato ogni cosa (Rm 8,32). Rispetteranno il figlio mio. È l’ultima sua speranza. v. 7 Costui è l’erede. Gesù non è solo un profeta o un servo: è il Figlio di Dio, “erede di tutte le cose, e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo” (Eb 1,2). Venite, uccidiamolo. Sono le stesse parole dei fratelli di Giuseppe, rosi dall’invidia (Gn 37,20). L’uccisione del Figlio di Dio è il massimo male pensabile. Come la cattiva sorte di Giuseppe, così la morte di Gesù sarà salvezza per tutti quelli che non si è vergognato di chiamare suoi fratelli (Eb 2,11). l’eredità sarà nostra. Con grande sorpresa - questa è l’opera meravigliosa di Dio! - sarà vero. Lui ci dona quanto gli rubiamo, la sua stessa vita. v. 8 lo presero, l’uccisero. È il destino di Gesù. e lo gettarono fuori dalla vigna. Gesù patì fuori della porta della città (Eb 13,12).

v. 9 darà la vigna ad altri. La vigna qui rappresenta il popolo di Dio, e gli agricoltori personificano l’ostinatezza nel male, che , come nei capi, cova in ciascuno di noi. L’indurimento di parte di Israele divenne causa di salvezza per i pagani (At 13,46). Questi, secondo Paolo, servono per muovere la “gelosia” di Israele, perché si converta (Rm 11,11-24). v. 10 questa Scrittura. Gesù cita dal Sai 118,22s, già cantato dal popolo al suo ingresso in Gerusalemme (11,9s = Sal 118,26). La pietra che i costruttori rigettarono. La pietra è Gesù, il Figlio disprezzato dai capi del popolo, scartato dai “costruttori”, che prima erano chiamati “agricoltori”. Si passa qui dall’immagine della vigna a quella di casa o tempio di Dio. divenne testata d’angolo. Il giorno di pasqua si capovolge la situazione: Gesù disprezzato e crocifisso è risorto e glorificato, principio del nuovo tempio e della nuova Gerusalemme. v. 11 Dal Signore venne questo. Questa è la grande opera di Dio: il peggior male che noi potessimo fare, è cambiato da lui nel massimo bene. meraviglioso ai nostri occhi. È lo stupore del mattino di pasqua, la sorpresa di come Dio vinca nella sua sconfitta, e offra a tutti una via d’uscita insperabile. v. 12 cercavano di impadronirsi di lui. Eseguono quanto Gesù ha appena detto del figlio (v. 8). ebbero paura della folla. “Crocifiggilo!”.

La folla per ora sta con lui.

Quando lo vedrà umiliato, griderà:

compresero, ecc. Chi capisce, o si converte o si indurisce. Questa seconda ipotesi è quella prevista nella parabola. Il Figlio muore proprio per salvarci da questo indurimento. lasciatolo se ne andarono. Se ne vanno, ma per poco. Mancano infatti ancora tre giorni al compiersi di questa parabola che Gesù ha raccontato. La sua parola è comunque efficace, anche per chi la contrasta. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, immaginando il tempio dove Gesù passeggia con i suoi discepoli, circondato dalla folla e dai nemici. 3. Chiedo ciò che voglio: comprendere la meraviglia che compie Dio, vincendo la nostra infedeltà con la sconfitta della sua fedeltà. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

le cure prodigate alla vigna l’ostinazione dei vignaioli “uccideremo l’erede e l’eredità sarà nostra” la pietra che i costruttori hanno rigettato divenne testata d’angolo.

4. Passi utili: 2Cr 36,15s; Is 5,1-7; Sal 80; 118; Rm 11,11-32; Eb 11,35-38.

63. DATE A CESARE CIÒ CHE È DI CESARE E A DIO CIÒ CHE È DI DIO (12,13-17) 13

E inviano da lui alcuni dei farisei e degli erodiani, per intrappolarlo con la parola. 14 E, venendo, gli dicono: Maestro, sappiamo che sei veritiero, e non ti curi di nessuno, perché non guardi a faccia d’uomini, ma, secondo verità, insegni la via di Dio. È lecito dare il tributo a Cesare, o no? Che lo diamo, o non lo diamo? 15 Ma egli, conosciuta la loro falsità, disse loro: Perché mi tentate? Portatemi il denaro, che lo veda. 16 E quelli lo portarono. E dice loro: Di chi è quest’immagine e l’iscrizione? E quelli gli dissero: Di Cesare. 17 E Gesù disse loro: Date a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio. E si meravigliavano di lui. 1. Messaggio nel contesto “Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”, risponde Gesù ai farisei e agli erodiani. La loro trappola è perfetta. Se dice di non pagare il tributo, viene eliminato dai romani che occupano la Palestina; se dice di pagarlo, si inimica il popolo, che attende un messia “politico”, che prenda il potere e liberi dall’occupazione straniera. Certa teologia, sempre di moda sotto vari nomi, è vecchia quanto il mondo!

La risposta di Gesù non è una semplice astuzia per eludere il problema e non cadere nel tranello. Non dice semplicemente: “Date a ciascuno ciò che gli spetta”, senza determinare ciò che spetta a ciascuno. Ai suoi tempi il dominio di un sovrano si estendeva ovunque la sua moneta aveva corso legale. È ovvio che dove circola quella di Cesare, si sottostà al suo dominio, e si rispettano le regole del gioco, tra cui quella di pagargli il tributo (cf Rm 13,1-7; 1Pt 2,13 ss). Ma per Gesù il problema è un altro: dare a Dio ciò che è di Dio. Come la moneta porta l’immagine di Cesare e appartiene a Cesare, così l’uomo è immagine di Dio e appartiene a Dio. Il tributo da pagargli è quello di darsi a lui, amando lui con tutto il cuore, e il prossimo come se stessi (v. 30 s). Questo comando, prima impossibile a causa del peccato, ora con Gesù possiamo e dobbiamo viverlo, in ogni nostra singola azione. Circa l’autorità civile è utile distinguere il contenuto dal modo. Il suo contenuto è quello di servire al bene comune. In questo senso, anche se le sue forme sono storicamente più o meno imperfette, è legittima e positivamente voluta da Dio (cf Rm 13,14). Normalmente il modo nel quale è esercitata è quello dei capi delle nazioni (cf 10,42) - comune a ogni uomo, discepoli compresi - che bramano l’avere, il potere e l’apparire. Questo modo non è voluto da Dio. Frutto del peccato che alberga nel cuore di ognuno, non è per il bene, bensì per il male comune. Schiavizza tutti, sia chi lo esercita sia chi lo subisce, togliendo a tutti, dominatori e dominati, la libertà - che è ciò per cui siamo immagine e somiglianza di Dio. Questo brano aiuta a capire il “potere” del Figlio dell’uomo, che mette sempre in crisi quello dell’uomo. È infatti amore, servizio e umiltà. Questo significa dare a Dio ciò che è di Dio. Così diventiamo ciò che siamo: simili a lui, di cui portiamo l’immagine. E questo non solo a livello personale, ma anche nei rapporti civili, con i modi alternativi di gestire l’autorità, perché non degradi da servizio a dominio. Gesù risponde con precisione alla domanda dei suoi avversari, prendendo le sue distanze da loro, come anche dagli zeloti, che vogliono prendere il potere, pensando che per ottenere il regno di Dio basti semplicemente cambiare etichetta al regno dell’uomo. Di illusi del genere, ingenui o meno, ce n’è sempre tanti, in ogni epoca! Inoltre ci dà anche il criterio in base a cui scegliere: in ogni cosa bisogna sempre prima dare a Dio ciò che è di Dio. Solo così sapremo cosa dare al Cesare di turno. In concreto le prime comunità cristiane pagavano tranquillamente il tributo; rifiutando però ogni assolutizzazione del potere e ogni sua imposizione ingiusta (obiezione di coscienza). Ma la loro resistenza non era con gli stessi mezzi del potere, bensì con la povertà della testimonianza, ossia col martirio. È l’unica arma efficace (cf Ap 13). Gesù, nella sua umanità di Figlio dell’uomo che serve per amore, ci restituisce il volto di Dio a immagine del quale siamo fatti. In esso ci offre la vera libertà, possibile a chiunque sia povero. Il re, che può fare quello che vuole, si crede l’uomo ideale, ideale di ogni uomo. In realtà non è un uomo libero: è schiavo e fallito, immagine capovolta di Dio. Sulla regalità umana, vedi l’apologo bellissimo di Gdc 9,8-15 e 1Sam 8, che mostrano perché Dio non vorrebbe che in Israele ci fosse un re. Il discepolo è testimone di Gesù, l’uomo nuovo e libero, che sa amare e servire in questo mondo di schiavitù e di peccato, obbedendo o disobbedendo al potere costituito secondo che serve o meno all’uomo. Non pensa al “particular suo”, non concorre con gli altri per arraffare e spartirsi la torta; è contro ogni ingiustizia e pretesa totalitaria. Non rivendica però alcun potere. Il rimedio sarebbe peggiore del danno! Infatti non c’è nulla di peggio delle teocrazie o delle dittature a fin di bene. Giustificano anche i peggiori abusi e delitti!

2. Lettura del testo v. 13 farisei ed erodiani. Si erano già alleati in 3,6. Gesù aveva ammonito i discepoli di guardarsi dal lievito dei farisei e di Erode (8,15). I farisei zelavano per la legge, gli erodiani simpatizzavano per Erode. Si accordano contro Gesù, perché lo avvertono come insidia comune, anche se per motivi diversi. per intrappolarlo con la parola. Speravano che Gesù si dichiarasse apertamente contro i romani, per accusarlo. Se si fosse dichiarato per loro cosa improbabile - avrebbe almeno perso il favore del popolo. Il potere non usa mai la parola per la verità - anche quando la dice, come qui ma per avere l’altro in mano. v. 14 Maestro, sappiamo che sei veritiero. È il più bel complimento rivolto a Gesù in tutto il vangelo. Lodano la sua libertà di giudizio per farlo cadere più facilmente nella trappola di dichiararsi contro i romani. È lecito. La questione è posta in termini non politici o giuridici, ma di coscienza: qual è la volontà di Dio nel confronto del tributo ai romani? dare il tributo. Era il “censo”, imposta personale e fondiaria. Pagarla significava riconoscere la signoria dei romani. Gli zeloti la consideravano idolatria e si ribellavano con le armi, perché l’unico Signore è Dio. I farisei l’accettavano, fino alla redenzione finale del messia, da ottenere con le preghiere. Agli erodiani invece la cosa non faceva problema, anche se il loro rapporto di dipendenza da Roma non era sempre pacifico. lo diamo o non lo diamo? Vogliono una risposta pratica, che comunque lo comprometta davanti al popolo o davanti all’autorità civile. v. 15 conosciuta la loro falsità. Gesù conosce la verità del nostro cuore - con tutte le sue falsità, che talora noi stessi ignoriamo. Perché mi tentate? Prendere il potere politico in nome di Dio è una tentazione sempre attuale, sia per noi che per Gesù. Lo accompagnò per tutta la vita, dal deserto alla croce (cf Lc 4,6; Gv 6,15: Mc 15,2.26.32). Il presupposto dei suoi avversari è confondere il potere mondano con quello di Dio, cercando di conseguire il suo regno con il pensiero e i mezzi dell’uomo. Portatemi il denaro, che lo veda. L’uso del denaro è l’accettazione implicita del potere di chi l’ha coniato. Gesù non ha con sé la moneta, a differenza di loro. Le loro parole non presentano quindi un vero problema per loro, sono solo un’insidia per Gesù. Ma cadono nella fossa che hanno scavato (Sal 7,16). v. 16 Di chi è quest’immagine? Il danaro porta l’effigie dell’imperatore Tiberio e di sua madre. Agli ebrei era proibito farsi un’immagine di Dio. L’unica sua immagine è l’uomo che lo ascolta. Era anche vietato fare immagini dell’uomo, perché immagine di Dio. l’iscrizione. L’iscrizione sulla moneta porta il nome e il ruolo divino dell’imperatore: “Tiberio Cesare Imperatore, figlio del divino Augusto”. Il titolo regale di Gesù non lo troveremo iscritto su alcuna moneta, bensì sulla croce (15,26).

v. 17 Date a Cesare ciò che è di Cesare. La moneta è sua, e gli va restituita. Solo chi è povero e ha lasciato tutto, è libero, e può entrare nel regno di Dio. a Dio ciò che è di Dio. Questo è il problema: l’uomo, immagine di Dio, è di Dio e deve ritornare a lui. Con Gesù inizia la sua signoria. Il suo regno è un nuovo rapporto con sé, con il mondo e con gli altri: un modo di vivere filiale e fraterno, libero dal possesso e dal dominio, in atteggiamento di dono e di servizio. Questa è la vera libertà, che con Gesù inizia qui ed ora, in questo mondo posto nella schiavitù e nel male, senza attendere tempi migliori. Chi dà a Dio ciò che è suo, impara cosa e come dare a Cesare ciò che gli spetta. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, immaginando il cortile del tempio, dove Gesù si trova con i suoi. 3. Chiedo ciò che voglio: chiedo a Dio di dargli me stesso, come lui si è dato a me. Farò mia questa preghiera: “Prendi e ricevi, Signore, tutta la mia libertà, intelligenza e volontà. Ciò che ho e sono, è dono tuo. A te io rendo tutto, perché lo amministri secondo il tuo volere. Dammi il tuo amore e la tua grazia. E sono ricco abbastanza, e nulla più ti domando” (sant’Ignazio di Loyola). 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

sei veritiero ecc. di chi è l’immagine e l’iscrizione? insegni la via di Dio date a Dio ciò che è di Dio lo diamo o non lo diamo il tributo a Cesare? perché mi tentate? portatemi il denaro

4. Passi utili: Gdc 9,8-15; 1Sam 8,10-22; 2Sam 7,5-17; Is 11,1-11; Sal 72; Rm 13,1-10; Ap 13.

64. NON È UN DIO DEI MORTI MA DEI VIVENTI (12,18-27) 18

E vengono sadducei da lui, che dicono che non c’è risurrezione; e lo interrogavano dicendo: 19 Maestro, Mosè scrisse per noi che se un fratello di uno muore e abbandona moglie senza lasciar figli, il fratello di lui prenda la moglie, e susciti seme al suo fratello. 20 C’erano sette fratelli.

E il primo prese moglie, e morendo non lasciò seme. 21 E il secondo la prese, e morì non lasciando seme. E il terzo lo stesso. 22 E i sette non lasciarono seme. Ultima di tutti, anche la moglie morì. 23 Nella risurrezione, quando risorgono, di chi di loro sarà moglie? Tutti e sette infatti l’ebbero in moglie. 24 Disse loro Gesù: Non forse per questo vi ingannate, perché non conoscete le Scritture né la potenza di Dio? 25 Quando infatti risorgano dai morti, né si ammogliano né si maritano; ma sono come angeli nei cieli. 26 Circa i morti che risorgono, non avete letto nel libro di Mosè sul roveto, come gli parlò Dio dicendo: Io sono il Dio di Abramo, (il) Dio di Isacco e (il) Dio di Giacobbe? 27 Non è un Dio dei morti, ma dei viventi. Molto v’ingannate. 1. Messaggio nel contesto “Non è uni Dio dei morti ma dei viventi”, risponde Gesù al sadducei e a chi, come loro, non crede nella risurrezione dai morti. La serie di queste discussioni, che concludono il suo insegnamento, partono dalla domanda: “Con quale potere fai queste cose?”. Egli risponde che il suo potere è comprensibile solo da chi si converte (11,27 ss), perché è quello della pietra scartata (vv. 1-12) - ben diverso da quello di Cesare, che opprime e dà la morte (vv. 13-17). Ora afferma che è lo stesso del Dio dei viventi, che dà la vita al morti. La risurrezione nostra, di cui questa disputa parla, è il centro della fede cristiana. Senza di essa “è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede”, scrive Paolo a quelli di Corinto (1Cor 15,14). Supera qualunque pretesa ed esula dall’attesa di chiunque, che, davanti alla morte, si ritrova impotente, e non attende più nulla. Indeducibile da qualunque premessa, ci è rivelata solo dalla promessa di Dio; improducibile da qualunque sforzo, è puro dono del suo amore. Per questo su di essa si inganna chiunque ignora “le Scritture” e “la potenza di Dio”. La risurrezione di cui qui si parla non è la rianimazione di un cadavere, che torna alla vita di prima come, per esempio, la figlia di Giairo (5,21 ss). È il passaggio non a un’altra vita, uguale alla precedente, ma a una vita altra, nuova e diversa, in comunione con Dio, nella pienezza della sua gloria, alla quale partecipa anche il corpo (1Cor 15,35-58). Dio stesso infatti è la nostra vita (Dt 30,20) - come l’amato è la vita di chi ama. Chi non crede alla risurrezione si inganna, dice Gesù all’inizio e alla fine della sua risposta. È ancora vittima della menzogna che lo fa vivere nell’ombra di morte.

Solo la Scrittura e l’esperienza di Dio ce ne libera, facendoci conoscere l’amore dal quale veniamo e al quale torniamo. La fede nella risurrezione in Israele è un frutto maturo e tardivo, che trova la sua formulazione più alta in 2Mac 7. Gesù con le sue opere e le sue parole, ma soprattutto con la sua morte e risurrezione, ci libera dal dominio della paura della morte, causa di ogni nostro male, e ci dona la piena conoscenza della promessa e della forza del Dio vivente. Il discepolo, battezzato “nel nome” di Gesù, immerso in lui e incorporato in lui, è per sempre con lui (1Ts 4,17). Morto all’ignoranza e al peccato, è risorto a una vita nuova di conoscenza e di amore; vinto il potere della morte, vive per Dio (cf Rm 6,1-11). 2. Lettura del testo v. 18 sadducei. Discendenti di grandi famiglie e proprietari terrieri, ricoprivano le più alte cariche sacerdotali e costituivano la classe dirigente. Di tendenza ovviamente conservatrice, ritenevano ispirati solo i primi cinque libri della bibbia - il Pentateuco, attribuito a Mosè. Rifiutavano in blocco l’autorità degli altri libri. dicono che non c’è risurrezione. La fede nella risurrezione non è formulata esplicitamente nel Pentateuco. Nella bibbia emerge solo lentamente, come punto d’arrivo dell’esperienza di Israele. Espressa velatamente in certi Salmi (Sal 16,9-11; 49,16; 73,23-28) e forse in Gb 19,25-27, è chiara solo nei libri più recenti (Dn 12,2; 2Mac 7,14; 12,43). Sap 1-5 parla dell’immortalità dell’anima, che per sé non è da confondere con la risurrezione dei corpi. Questa implica la partecipazione del corpo trasfigurato alla gloria dei figli di Dio. I sadducei somigliano a tanti credenti attuali. Credono in Dio, ma non nella sua promessa. Chiusi nel materialismo, non credono praticamente e/o teoricamente al fine cui Dio ci ha destinati. È l’alienazione più tragica dell’uomo, che perde ciò per cui è fatto, l’orizzonte che dà senso alla sua vita. v. 19 Mosè scrisse per noi. È la legge del levirato (Dt 25,5 ss): se uno muore senza discendenza, suo fratello ne sposa la moglie, per suscitargli posterità. Morire senza figli è una maledizione (cf Gdc 11,37 s; Gn 30,1 ss; 1Sam 1,6 ss). La generazione è una protesta contro la morte, una sopravvivenza della “specie” - vittoria illusoria, perché non fa che accrescere il numero dei mortali! Uno però ha almeno la soddisfazione di perpetuare il suo nome nei figli, nella speranza di veder compiuta in loro la promessa di Dio. La legge del levirato era inoltre molto importante per regolare l’eredità terriera. Cosa tutt’altro che trascurabile per i sadducei, nobili e ricchi. v. 20 ss C’erano sette fratelli, ecc. Si narra questo caso per mostrare l’assurdità della risurrezione e metterla in ridicolo. Inoltre se ci fosse non varrebbe più la legge della monogamia, istituita nella creazione (Gn 2,18-24). v. 24 vi ingannate. Chi non crede alla vita personale futura, resa possibile dalla risurrezione dei corpi, si inganna. Ignora chi è Dio e chi è lui per Dio. non conoscete le Scritture. La sua identità di Padre e la nostra di figli ci è testimoniata in tutte le Scritture, non solo nel Pentateuco. La rivelazione è stata progressiva, adattata alla nostra capacità di intendere. Proprio all fine c’è il vino migliore (Gv 2,10).

né la potenza di Dio. Dio è amore più forte della morte, più tenace degli inferi (Ct 8,6). La sua fedeltà non può venir meno: dura in eterno (Sal 117,2). Se io, con la morte, vengo meno, a lui non resta che ridarmi vita. “Riconoscerete che io sono il Signore quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri” (Ez 37,13). Infatti ha creato tutto per l’esistenza, perché è un Dio amante della vita (Sap 1,14; 11,26). v. 25 Quando risorgano dai morti, ecc. Qui Gesù parla della possibilità della risurrezione, mostrando l’infondatezza dell’obiezione dei sadducei. Essi pensano che sia un ritorno alla vita precedente, mentre si tratta di una nuova creazione, in cui l’immagine cede il posto alla realtà. Il rapporto donna/uomo nel matrimonio è immagine del rapporto uomo/Dio. Lui è lo sposo. La nostra unione con lui è la vita eterna, un destino di gloria che neanche osiamo immaginare. v. 26 Io sono il Dio di Abramo, ecc. Qui Gesù mostra la realtà della risurrezione proprio attraverso Mosè, la cui autorità è riconosciuta anche dai sadducei. Si rifà all’esperienza del roveto ardente, dove Dio si definisce come il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe (Es 3,1 ss). Un Dio che appartiene a loro, a cui loro appartengono. v. 27 Non è un Dio dei morti, ma dei viventi. Questa è la più bella definizione di Dio, che risponde al nocciolo dell’esperienza biblica. Quindi, se lui è Dio dei nostri padri, che già sono morti, o è un Dio dei morti, il che contraddice la fede d’Israele, o i padri già morti devono conoscere in lui una vita oltre la morte. Come può il Dio vivente appartenere a loro se sono definitivamente morti? Una relazione cessa se scompare uno dei due termini! Se l’autore della vita è mio e io sono suo - e la morte c’è! - non può non esserci la risurrezione dai morti. È una deduzione esperienziale dall’amore di Dio e dalla sua fedeltà. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, immaginando il luogo: l’atrio del tempio, dove Gesù passa gli ultimi giorni della sua vita, insegnandoci le cose ultime. 3. Chiedo ciò che voglio: conoscere le Scritture e la potenza di Dio, per sostituire la morte con la risurrezione - unico orizzonte per una vita libera dalla paura e dall’egoismo. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto, e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

sadducei discendenza risurrezione promessa di Dio e sua potenza risurrezione come appartenenza di Dio a noi e di noi a lui

4. Passi utili: Es 3,13-15; Dt 25,5-10; 2Mac 7; 12,43-45; Gb 19,25-27; Ez 37,1-14; Sal 16; 1Ts 4,1318; 1Cor 15.

65. NON SEI LONTANO DAL REGNO DI DIO (12,28-34)

28

E, venendo avanti, uno degli scribi, che li aveva uditi discutere, visto che aveva loro risposto bene, lo interrogò: Qual è il comandamento primo di tutti? 29 Rispose Gesù: Il primo è: Ascolta, Israele, Signore è il Dio nostro, l’unico Signore; 30 e amerai il Signore tuo Dio con tutto intero il tuo cuore, con tutta intera la tua vita, con tutta intera la tua mente, con tutta intera la tua forza. 31 Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Altro comandamento non c’è più grande di questi. 32 E gli disse lo scriba: Bene, Maestro, con verità hai detto che egli è l’unico, e non ce n’è altri se non lui; 33 e amarlo con tutto intero il cuore, con tutta intera l’intelligenza, e con tutta intera la forza, e amare il prossimo come se stesso, è meglio di tutti gli olocausti e i sacrifici. 34 E Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: Non sei lontano dal regno di Dio. E nessuno osava più interrogarlo. 1. Messaggio nel contesto “Non sei lontano dal regno di Dio", risponde Gesù allo scriba che ha capito il comandamento che sta a principio della legge. Non è lontano, ma, per entrarvi, gli manca una cosa: amare Gesù, il Signore che gli si è fatto vicino.

Il brano conclude dicendo che nessuno più osava interrogarlo. Il nostro silenzio lo costringerà a provocarci perché lo interroghiamo, per capire chi è lui: è il Signore (brano seguente). Solo dopo la croce ci sarà uno - Giuseppe di Arimatea - che attendeva “il Regno” e “osò” “chiedere”. Ebbe in dono il corpo di Gesù (15,43 ss). Infatti solo lì sappiamo chi è il Signore: colui che per primo ci ha amati. La nostra vita è amare Dio e unirci a lui (cf Dt 30,20), diventando per grazia ciò che lui è per natura. L’amore per lui è via alla divinizzazione: uno diventa ciò che ama. Dio non solo è madre e padre, amore rispettivamente necessario che dà la vita e libero che non la soffoca; è anche sposo, al quale aderire formando con lui un’unità pur nella distinzione. Il nostro peccato fu ignorare questo amore, voltandogli le spalle. Gesù è venuto a portarcelo in ogni lontananza, fin sulla croce, perché ognuno possa vederlo e conoscere così le Scritture e la potenza del Dio dei viventi (cf brano precedente). Chi risponde a questo amore è passato dalla morte alla vita; chi non ama, rimane nella morte (1Gv 3, 14). Gesù ha un solo potere: quello di donarsi in modo assoluto, proponendosi ed esponendosi fin sulla croce, in attesa di essere corrisposto. Discepolo è chi riconosce e crede nell’amore che Dio ha per lui in Gesù (1Gv 4,16). Il Cantico dei Cantici svela la nostra verità: siamo la risposta alla proposta di Dio. 2. Lettura del testo v. 28 uno degli scribi, visto che aveva risposto bene, lo interrogò. Non c’è polemica in questa domanda. C’è desiderio di conoscere è disponibilità ad ascoltare. L’unico pericolo è che il desiderio cessi prima di esser appagato. il comandamento primo di tutti. La vita dell’uomo dipende dall’obbedienza alla parola di Dio (Dt 30,15 ss). Qui lo scriba chiede qual è il “primo” dei comandamenti. Cerca il loro criterio ispiratore e unificatore per non cadere in un legalismo vuoto, che frantuma l’esistenza. v. 29 Ascolta, Israele, ecc. Gesù richiama lo “Shema” (Dt 6,4 ss), recitarsi nella preghiera del mattino e della sera. Prima del comando c’è “Ascolta Israele!”. Infatti è possibile amarlo solo nella misura in cui conosciamo il suo amore per noi, incredibile per chi non ascolta la parola che lo rivela. Signore è il Dio nostro, l’unico Signore. Il nostro amore non si rivolge a un idolo, ma all’unico Signore, pieno di maestà e degno di riverenza Egli ci ha creati e salvati, mostrandosi unico Signore e Signore nostro. v. 30 amerai il Signore tuo Dio. Se non ce l’avesse comandato, non avremmo mai osato. Fa tenerezza un Dio che chiede: “Ascolta, per favore! Voglimi bene, perché io sono innamorato di te. Anzi, siccome non mi credi, te lo comando: amami!”. L’amore o trova o rende simili. Il suo per me l’ha fatto uomo, il mio per lui mi fa Dio. Amare significa lodare, riverire e servire. Lodare, il contrario di invidiare, è gioire del bene dell’amato; riverire è rispettarlo e tenerne conto per timore di perderlo; servire è mettergli a disposizione ciò che si ha, ciò che si fa e ciò che si è. Impariamo cos’è l’amore dal Signore stesso, che ha gioito del bene nostro più che del suo, ha stimato noi più di sé, e ha posto la propria vita a nostro servizio. Questo comando ci fa capire chi è lui: è colui che è da amare perché è l’amore. Se amare è il fine per cui siamo creati, il nostro peccato o fallimento (in ebraico hattat = fallire) è il non esserne capaci.

con tutto intero il tuo cuore. Il cuore è il centro da cui scaturisce ogni azione. Dio accetta di non essere amato, ma non di essere secondo. Non sarebbe Dio. Lui è il polo unico, in base a cui oriento ogni mia scelta; è l’assoluto che non voglio perdere, il primo e l’unico. il mio Signore. Nessun altro desidero all’infuori di lui, che solo sazia la mia fame. con tutta intera la tua vita. Lui è il Signore di ciò che sono e di ciò che faccio; vale più della mia vita, che metto a suo servizio, come lui ha fatto con me. con tutta intera la tua mente. L’amore è intelligente: ama conoscere per amare di più. L’intelligenza è come l’occhio del cuore. Non si può amare ciò che non si vede, come non si può non cercare di vedere chi si ama! con tutta intera la tua forza. Tutto ciò che ho, qualità personali e mezzi esterni, è da usare tanto quanto serve ad amare lui. Amandolo così, mi realizzo pienamente, diventando simile a lui, che è tutto e solo amore in sé e per me. v. 31 Il secondo è questo. L’amore per l’uomo non è in alternativa a quello per Dio. Ne scaturisce come l’acqua dalla fonte. Per questo è “secondo”. Non perché sia secondario, ma perché ogni amore deriva e scende dall’alto. Chi lo pone come primo scambia il rubinetto con la sorgente. E, se si stacca da questa, rimane senz’acqua. Amerai il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18). La nostra capacità di amare è più grande di qualunque realtà creata; è infinita, perché fatta per Dio. Il prossimo non va amato in modo assoluto; sarebbe farne un dio, mentre è un uomo. Lo si carica di un peso che non può portare, e lo si distrugge. In genere lo si butta via, con delusione e odio, quando ci si accorge che è limitato. L’altro devo amarlo come me stesso, cioè come uno che realizza sé amando Dio. Quindi lo amo in verità solo se lo aiuto a diventare se stesso, raggiungendo il fine per cui è stato creato, che è appunto quello di amare Dio sopra ogni cosa. Per questo molto del cosiddetto amore, che schiavizza sé e l’altro, è una scimmia di Dio. È necessaria una lunga purificazione perché diventi amore. Ogni uomo è persona libera proprio perché in relazione diretta e unica con Dio. Per questo un amore possessivo - diretto ed esclusivo schiavizza e uccide (éros e thànatos: amore e morte), mentre l’amore vero libera e dà la vita (agápe e zoé). come te stesso. Amare se stessi perché amati da Dio è somma sapienza e principio di ogni buona azione. Come posso odiarmi se Dio mi ama; e come posso amare l’altro se odio me stesso? Altro comandamento non c’è più grande di questi. “Pieno compimento della legge è l’amore” (Rm 13,10). Ogni altro comando ha in questo suo senso, e ne è un’espressione. Ciò che non viene dall’amore e non porta ad esso, non è volontà di Dio. v. 32 egli è l’unico, ecc. Lo scriba risponde bene. Ma, come i1 ricco 10,17, non ha ancora capito che il Signore unico da amare è davanti lui. v. 33 e amarlo, ecc. è meglio di tutti gli olocausti e i sacrifici. Lo scriba risponde ripetendo quella parola che è da ascoltare, ricordare e raccontare ai propri figli (Dt 6,6 ss). Come ogni ripetizione, è uguale solo parzialmente, con quelle dimenticanze, accentuazioni, variazioni o amplificazioni che

possono essere indotte dalla nostra disattenzione o dallo Spirito di Dio. Qui lo scriba tralascia l’amore con tutta la vita (sarà proprio della povera vedova: v. 44), e aggiunge che questo è il vero culto (cf 1Sam 15,22; Os 6,6). Onorare Dio e santificare il suo nome infatti compiere la sua volontà, discernendo ciò che è buono, a lui gradito, perfetto. Questo è il culto spirituale (Rm 12,1s), che fa di noi la sua d mora. È da notare che il dialogo si svolge nell’atrio del tempio, luogo del culto e del sacrificio, del quale presto si dirà che verrà distrutto (13,1 ss) v. 34 aveva risposto saggiamente. Questo scriba è il primo a cui Gesù riconosce la saggezza. Essa consiste nel capire non tante cose più o meno sottili, bensì ciò per cui siamo fatti. Non sei lontano dal regno di Dio. Questa risposta inattesa attende un nuova domanda: “Perché? Cosa manca ancora?”. Al ricco, Gesù rispose che una sola cosa gli mancava per entrare nel Regno: lasciare ogni cosa per seguire lui (10,17-21). A questo scriba dice che non è lontano da Regno: è vicino e ci entrerà solo se oserà fino in fondo interrogarlo. Allora capirà l’amore di Dio per lui, e saprà amare come è amato. nessuno osava più interrogarlo. Gesù vuole essere interrogato. Lui stesso, nel brano seguente, pone la domanda decisiva, suggerendo la risposta. Signore, tu vuoi essere interrogato da me, perché io impari da te cos’è l’amore e chi è il Signore. Se lo non oso chiedere, continua tu a interrogarmi, fino a quando io ti interrogherò. E tu istruiscimi (Gb 42,4). 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, immaginando l’atrio del tempio, dove Gesù sta con i suoi. 3. Chiedo ciò che voglio: Ti chiedo di entrare nel Regno, amandoti, perché tu sei il mio Signore. Ti chiedo di amarti come tu vuoi che io ti ami e di amare il prossimo come me stesso. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono e che fanno, fermandomi attentamente su ogni parola. 4. Passi utili: Dt 6,4-13; Lv 19,18; Sal 45, Cantico dei Cantici; Os 2,16-25; Ap 21-22.

66. DAVIDE LO DICE SIGNORE, E COME È SUO FIGLIO? (12,35-37) 35

E, rispondendo, Gesù diceva, insegnando nel tempio: Come dicono gli scribi che il Cristo è figlio di David? 36 Lo stesso David disse nello Spirito Santo: Disse il Signore al mio Signore:

Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi. 37 David stesso lo dice Signore; e come è suo figlio? E la molta folla lo ascoltava volentieri. 1. Messaggio nel contesto “Davide lo dice Signore, e come è suo figlio?”. Così Gesù interroga chi non osa più interrogarlo, per sollecitarlo a scoprire la sua identità. La prima parte del vangelo culminò nella domanda: “Ma voi chi dite che io sia?”. E Pietro lo riconobbe come il Cristo, figlio di David (8,29). La seconda culmina in questa, nella quale lui stesso suggerisce che il Cristo non solo è il figlio promesso, ma addirittura il Signore, colui che ha promesso, superiore a ogni attesa. Lo dirà chiaramente davanti al sinedrio (14,61 s) e lo capirà il centurione ai piedi della croce (15,39). Questo brano è un’unica interrogazione di Gesù, che conclude tutte le dispute. Non c’è che una risposta possibile, che si può dare o rifiutare: è quella della vedova, che dà tutta la sua vita (brano seguente). È quanto manca allo scriba per entrare nel Regno, dal quale non è lontano (brano precedente). Seguirà la parola sulla fine del mondo vecchio e l’inizio di quello nuovo (c.13), e la Parola per eccellenza, il racconto della sua passione/risurrezione (cc. 14-16), che legittima e provoca tale risposta. Gesù, figlio di David secondo la carne, è Figlio di Dio secondo lo Spirito di risurrezione (Rm 1,3). È il Signore, che si è fatto mio fratello e mi ha mostrato tutto il suo amore perché lo possa riamare. Con la sua parola e la sua vita lui mi interroga. Siamo abituati a dire: “Gesù è il Signore”, e applichiamo a lui le nostre idee su Dio. Invertendo soggetto e predicato, dovremmo imparare a dire: “II Signore, che nessuno mai ha visto, è Gesù”, colui che mi ama e dà la vita per me che lo uccido. Discepolo è chi, nella forza dello Spirito, riconosce, ama e segue il suo Signore nell’uomo Gesù, nella sua “carne”, come ce la tramanda il vangelo. E su di lui corregge tutte le sue idee (= idoli!) su Dio. In genere andiamo dietro non a lui, ma alle nostre fantasie che applichiamo a lui. 2. Lettura del testo v. 35 rispondendo, Gesù diceva, insegnando nel tempio. Siamo sempre nel tempio, di cui non resterà pietra su pietra (13,1 ss). Alla sua morte si spaccherà il velo, dietro cui si cela la Gloria, e anche la persona più lontana conoscerà il Signore (15,38 s). Ora suggerisce ciò che manca allo scriba, proponendo una domanda precisa su di sé. La risposta ad essa ci fa cristiani. Come dicono gli scribi. Questo finale del c. 12 è tutto sugli scribi, che insegnano la parola di Dio. Gesù domanda com’è possibile che, come essi dicono, il messia sia il figlio di David, se David lo chiama Signore. Non c’è altra possibilità che riconoscerlo figlio di David secondo la carne e Figlio di Dio secondo lo Spirito (Rm 1,3). È la fede cristiana in Gesù, vero uomo e vero Dio, che nella sua umanità ci insegna la verità di Dio.

il Cristo è figlio di David. Gesù è il messia promesso a David come suo discendente (2Sam 7). Pietro l’ha riconosciuto (8,29) e la folla inneggiato (11,9 s). La cosa è vera, ma parziale nel contenuto e inesatta nel modo. Anche il cieco lo chiama figlio di David (10,46 ss), ma, per avere la fede che salva, dovrà essere guarito, per vederlo e seguirlo come colui che va a Gerusalemme a dare la vita. v. 36 David disse nello Spirito Santo. “Nessuno può dire: il Signore è Gesù, se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1Cor 12,3). Come ha ispirato i profeti e tutti gli autori della Scrittura, così ispira il cuore di chi ascolta a riconoscere in lui il Signore. Gesù cita dal Sal 110 già allora letto in chiave messianica, che sarà ampiamente usato dalla Chiesa primitiva per celebrare la sua glorificazione pasquale (cf At 2,34 s; Eb 1,13; 1Cor 15,25). Disse il Signore. È Dio, l’unico Signore. al mio Signore. È il messia discendente di David, che lui riconosce come suo Signore. Siedi alla mia destra. Il messia ha prerogative divine: sedere alla destra di Dio significa avere il suo stesso potere. finché io ponga, ecc. Indica la vittoria finale dei Signore su tutti i suoi nemici. Ultimo nemico ad essere vinto sarà la morte, sconfitta nel giorno della sua risurrezione (cf 1Cor 15,25 s). v. 37 David stesso lo dice Signore. Gesù esplicita il punto della questione: se David chiama Signore suo figlio, significa che questo è ben più che suo figlio. E chi sarà? David l’ha già profetato, nella forza dello Spirito: è il Signore. Chi risponde a questa domanda, conosce l’identità di Gesù e il suo “potere”, oggetto di questi capitoli finali. Intuiamo il mistero, nel quale lui stesso ci introduce; ma ancora non lo comprendiamo. Possiamo però, come il cieco di Gerico, gridare il suo nome e invocare il Figlio di David, che abbia misericordia di noi. Lui ci illuminerà. Appena lo seguiremo, nella carne di Gesù umiliata e glorificata, avremo la conoscenza del Signore. “Non scandalizziamoci del figlio di David, per non incontrare l’ira del Signore di David” (Agostino). E la molta folla lo ascoltava volentieri. La parola vera diletta il cuore, attratto ad essa dalla “gioia della verità” (sant’Agostino). L’ascolto è il principio di tutto, ma non è tutto. O porta all’adorazione dell’unico Signore, o finisce nel grido: “Crocifiggilo! “ (15,13 s). Anche Erode ascoltava volentieri Giovanni (6,20). Ma alla fine, invece di obbedire alla sua parola, trovò più comodo tagliargli la gola. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, immaginando il tempio, dove Gesù passeggia e insegna per l’ultima volta la verità ultima. 3. Chiedo ciò che voglio: il suo Spirito, per riconoscere in lui che va in croce il mio Dio e Signore. 4. Medito su chi è Gesù per me. È solo il Cristo, oggetto delle mie speranze? Accetto la sua povertà, umiliazione e umiltà fino alla croce? È il mio Signore? Riconosco nella sua debolezza, nel suo amore e servizio, il vero volto di Dio, il senso della mia vita, colui che mi

ama e amo con tutto il cuore? 4. Passi utili: 2Sam 7,5-17; Sal 110; Rm 1,1-3; 1Cor 12,3; Ef 1,3-23; Col 1,13-20; Ap 5,9-14.

67. DALLA SUA MISERIA GETTÒ QUANTO AVEVA, TUTTA INTERA LA SUA VITA (12,38-44) 38

E nel suo insegnamento diceva: Guardatevi dagli scribi, che amano andare in giro in lunghe vesti, 39 e saluti sulle piazze, e primi posti nelle sinagoghe, e i primi divani nei banchetti, 40 i quali divorano le case delle vedove, e per ostentazione pregano a lungo. Costoro si prenderanno più grave condanna. 41 E, seduto davanti al gazofilacio, osservava come la folla getta monete nel gazofilacio; e molti ricchi gettavano molto. 42 E, venendo, sola una vedova povera gettò due spiccioli, che fanno un quadrante. 43 E, chiamati innanzi i suoi discepoli, disse loro: Amen vi dico: Questa povera vedova ha gettato più di tutti quelli che gettano nel gazofilacio. 44 Infatti tutti gettarono dal loro superfluo. Ma costei, dalla sua miseria, gettò tutto quanto aveva, tutta intera la sua vita. 1. Messaggio nel contesto “Dalla sua miseria getto quanto aveva, tutta intera la sua vita”, dice Gesù della vedova. Ormai sta per andarsene, ma ci lascia in eredità un maestro discreto, che continua in silenzio la sua lezione. Chi ha orecchio per intendere, intenda. Il brano è un contrappunto: bisogna guardarsi dagli scribi, i falsi maestri che tanto amiamo, e guardare alla vedova, vero maestro che preferiamo ignorare. I primi hanno il culto della propria immagine: amano con tutto il cuore se stessi, e si servono di tutto e di tutti, anche del Signore e della sua parola per

primeggiare. Sono il prototipo riuscito del peccato fondamentale che è nel cuore di ogni uomo: il protagonismo, che mette l’io al posto di Dio. La povera vedova, invece, sola e inosservata, povera e umile, “getta” tutta la sua vita: è come Gesù, che si è fatto ultimo di tutti, e ha messo la sua vita a servizio di tutti. Ha il suo stesso Spirito, è il vangelo vivo, in cui possiamo sempre vedere il volto del nostro maestro. Da lei si diffonde il buon profumo di Cristo, per la vita del mondo (cf 2Cor 2,14). La prima azione prodigiosa di Gesù fu la guarigione della suocera di Pietro, perché potesse servire (1,29-31). L’ultima sua istruzione prima del discorso escatologico, quasi il suo testamento, è indicarci questa vedova. Senza che lei lo sappia, Gesù la mette in cattedra al posto suo, perché prolunghi nel tempo la sua presenza. Essa dà tutto per il tempio, che presto verrà distrutto (c. 13). Il tempio in realtà è Gesù stesso, che interpreta il suo gesto come risposta concreta alla sua ultima domanda. Lui è il Signore; la fede è riconoscerlo come tale, amandolo con tutta la vita (v. 30), perché lui per primo mi ha amato con tutta la sua vita. Ma tale risposta può maturare solo sull’albero della croce. Questa vedova ne è come il frutto anticipato. Il fico sterile e secco comincia a dare le sue primizie. Gesù ci indica il modo di riconoscerlo Signore e rispondere alla sua domanda precedente: come questa vedova getta nel tesoro del tempio tutto ciò che ha, così noi gettiamo e affidiamo a lui la nostra vita. Il discepolo è rappresentato da questa donna, che agisce come il suo Signore, facendo per lui quanto lui ha fatto per lei. È il compimento perfetto del vangelo (cf 14,3-9). 2. Lettura del testo v. 38 Guardatevi da. Gesù ci dice di guardarci con orrore da ciò che guardiamo con ammirazione. gli scribi. Sono gli esperti della Scrittura, che era anche codice di diritto. Erano quindi teologi e avvocati. Professione magra la prima, ma certamente ben rimunerata la seconda! amano. Il loro amore non è per Dio, ma per il proprio io, per il quale bramano quanto ritengono desiderabile. lunghe vesti. Amano abiti belli e costosi, da festa, non da lavoro. L’abito è il modo primo per distinguersi agli occhi di tutti. Copre il corpo, dandogli l’apparenza desiderata. v.39 saluti sulle piazze. Amano la stima e la riverenza altrui. primi posti nelle sinagoghe. Amano essere primi davanti a Dio. primi divani nei banchetti. Amano essere primi davanti agli uomini. Essere il “primo “, il “più grande”, è il protagonismo, origine di tutti i peccati (cf 9,34; 10,35 ss). Gli altri, e Dio stesso, sono ridotti a proprio piedistallo. v. 40 divorano le case delle vedove. Oltre l’apparire e il potere, amano l’avere, procacciato con furto e senza scrupoli. Mediante i soldi si ottiene tutto il resto. La vedova non ha il marito che la protegge. Debole ed esposta, è di nessuno. Per questo è di Dio, che ne prende le difese. Gli scribi, in quanto esperti della legge, dovrebbero difenderla a suo nome.

La casa in Marco è figura della Chiesa, e la stessa vedova rappresenta la comunità dei discepoli, quando le sarà tolto lo Sposo (2,20). Questi scribi rappresentano quindi ciascuno di noi, nel nostro aspetto di mondanità, che distrugge la Chiesa. v. 41 seduto. È la posizione del maestro che insegna. davanti al gazofilacio. È il tesoro del tempio, che sarà distrutto. Aveva tredici casse, in cui si mettevano i tributi e le offerte. Un sacerdote controllava la validità della moneta e ne dichiarava ad alta voce l’entità. osservava. Nulla sfugge al suo sguardo, che non guarda le apparenze, ma vede il cuore (1Sam 16,7). come la folla getta. In questo brano esce sette volte la parola “gettare”. Ci sono però due modi di gettare: uno che vale secondo gli uomini e l’altro secondo Dio. molti ricchi gettavano molto. Secondo gli uomini i ricchi gettano molto; secondo Dio poco, perché danno dei superfluo, e per farsi vedere. v. 42 sola una vedova. Tra i tanti, il suo sguardo nota questa vedova. povera. In greco c’è “pitocca”. Il cieco di Gerico è mendicante, chiede l’elemosina (10,40). Questa invece non chiede; nella sua povertà, è in grado di dare. gettò due spiccioli. Sottolinea che erano due, perché poteva darne solo uno e tenersi l’altro. Gesù sa che è tutto quanto ha. che fanno un quadrante. È una moneta di circa 3 gr. di bronzo - un valore minimo. v. 43 chiamati innanzi i discepoli. È l’ultima chiamata per i discepoli. Anche la precedente fu per un’istruzione sull’umiltà (10,42). Il maestro, che ormai sta per lasciarli, resta seduto, e insegna chi guardare al suo posto. Li chiama ad osservare ciò che neanche hanno visto, e che comunque ritengono di poco conto. Amen, vi dico. L’affermazione è solenne, con l’autorità di Dio che parla in prima persona. Questa povera vedova ha gettato più di tutti. Nel giudizio di Dio i primi sono gli ultimi e gli ultimi i primi (10,31). v. 44 tutti gettarono del loro superfluo. Quando uno si è garantito tutto, dà a Dio gli avanzi, per aver vantaggio anche da questi. Certo non è questo il modo di riconoscerlo come Signore. È ridurlo a un idolo (cf Is 44,9-20). costei, dalla sua miseria. La parola greca indica “essere all’ultimo posto”. Anche il Signore si è fatto ultimo, per farci ricchi: “Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era si è fatto povero per voi, perché diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9). gettò tutto quanto aveva. A differenza del giovane ricco (10,21 s) e come il cieco che buttò il mantello (10,50), essa getta via tutto.

tutta intera la sua vita. È la risposta piena dell’uomo al Figlio dell’uomo. Così lo riconosce come Signore, e adempie al primo comando: amarlo con tutta la vita (v. 30). Questo è l’unico modo di entrare nel Regno, che è dei poveri e dei piccoli. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, immaginando il luogo dove Gesù, davanti al tesoro del tempio, guarda chi fa le sue offerte. 3. Chiedo ciò che voglio: riconoscere Gesù come mio Signore, offrendogli me stesso e la mia vita. 4. Traendone frutto, guardo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

guardatevi dagli scribi cosa fanno secondo Gesù molti ricchi gettavano molto solo una vedova povera gettò due spiccioli gettò quanto aveva, tutta intera la sua vita.

4. Passi utili: 1Re 17,9-16; 2Re 4,1-7; Sal 138; 146; 1Cor 1,26-3 l; 2Cor 8,9.

68. NON SARÀ LASCIATA QUI PIETRA SU PIETRA (13,1-2) 131 E uscendo egli dal tempio, gli dice uno dei suoi discepoli: Maestro, guarda che pietre e che costruzioni! 2 E Gesù gli disse: Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sia distrutta! 1 . Messaggio nel contesto “Non sarà lasciata qui pietra su pietra”, dice Gesù del tempio, la cui stabilità, bellezza e grandezza, suscitano l’ammirazione di chiunque lo veda. La fine del tempio significa la fine del mondo, figura della morte e risurrezione di Gesù (cc. 14-16). L’uomo è l’unico animale che sa di avere una fine. Cosciente della propria morte, cerca di sapere quando sarà; ne spia i segni, nell’illusione di controllarla. Ma proprio così, invece di scansarla o

allontanarla, si fa sua preda anticipata. Cade sotto il suo dominio dispotico, ipnotizzato e soggiogato dalla paura. La gazzella pascola tranquilla tenendo sott’occhio il leone. È più veloce di lui! Ma chi corre più veloce del tempo che va e della morte che viene? Il vangelo non soddisfa il nostro prurito di curiosare circa il futuro. Non vuole alimentare la nostra ansia, ma vincerla con la fiducia. Con la croce è già venuta la fine del mondo vecchio e il principio di quello nuovo. Ciò che è avvenuto al Signore, è quanto avviene e avverrà a ciascuno di noi e a tutta la storia. Il c. 13 non intende fare previsioni catastrofiche e ineluttabili. Alla luce della storia di Gesù, vuol farci leggere il nostro presente per viverlo con responsabilità e determinare così il nostro futuro, che dipende appunto da ciò che facciamo ora. Il discorso “escatologico”, molto unitario, parla del “compimento finale” (v. 4) che sfocia nella venuta del Figlio dell’uomo nella sua gloria (v.26). Questo compimento e questa venuta può e deve essere letto a tre livelli: uno passato, uno futuro e uno presente. Quello passato ci serve per leggere con fede il presente, e quello futuro per viverlo con speranza. Ciò che conta è il presente, come luogo della fedeltà al Signore. Questo discorso, più che dirci le ultime cose che avverranno, ci svela il senso ultimo delle cose che avvengono. Gran parte di esso parla di guerre, carestie e terremoti. Non sono che gli ingredienti della nostra storia posta sotto il segno del peccato. È qui che viviamo la sua stessa pasqua! I rantoli del vecchio mondo che agonizza, sono anche le doglie del parto del mondo nuovo che nasce. Le parole che qui Gesù dice si sono avverate nella sua epoca e si avverano in ogni epoca. Per questo l’evangelista dice: “Chi legge, capisca!” (v. 14). Infatti la storia del Figlio dell’uomo rivela il mistero dell’uomo e del cosmo: in lui è il destino di tutto e di tutti. Nella prima comunità era molto vivo il desiderio del suo ritorno glorioso. È l’anelito di ogni credente, come è il gemito di tutta la creazione (Rm 8,22). Ma c’era anche il pericolo di falsi allarmismi e facili inganni, con la tentazione di abdicare alle responsabilità presenti. L’ansia struggente per la meta rischiava di mozzare il fiato e tagliare le gambe per il cammino. Un fanatismo disimpegnato ed alienante poteva fare da surrogato alla sequela di lui nella vita concreta. Per questo il discorso è una doccia fredda contro un’attesa febbrile ma vuota, che si accende per ogni novità e si rimpinza di ogni curiosità; ma è anche un richiamo a un’attesa appassionata e operante, con gli occhi aperti sul presente. Noi non attendiamo con lo stesso fervore. Forse non attendiamo più nulla. Il nostro mondo si è addirittura dimenticato di avere un futuro - e quale! Pensiamo che non ci sia un fine positivo per tutta la nostra vicenda umana. Questo vuoto angosciante di memoria e di speranza è causa del proliferare di tante sette che parlano della fine del mondo - con date e scadenze puntualmente smentite. Infatti l’uomo, senza futuro, non può vivere; è già morto. Bisogna riprendere in tutto il suo vigore il messaggio escatologico di Gesù, per ridare alla nostra vita asfittica il respiro della speranza. Altrimenti ci si inventa speranze fasulle. Senza mete non si cammina. Tutto il discorso di Gesù ridireziona le domande allarmate dei discepoli circa il “quando” e “quali segni” della fine dei mondo, dicendo “quale” è il fine e “come” vivere ora. La fine del tempio, presagio della fine di tutto, è iscritta nella finitezza di tutto ciò che esiste all’infuori di Dio; il modo tragico in cui tutto finisce, è conseguenza del nostro peccato. Gesù crocifisso dà al tutto un significato positivo, nuovo per noi, ma da sempre nascosto in Dio. Nel c. 13 ci si dice il senso profondo della realtà: la verità definitiva verso cui cammina è la stessa che si è rivelata nel Signore morto e risorto (cc. 14-16). A qualcuno il tono del discorso può sembrare un po’ eccessivo. Ma la verità non è sempre paradossale, al di là di ogni opinione corrente?

Gesù è il tempio distrutto e riedificato in tre giorni (14,58; 15,29.38.39). Il discepolo sa che c’è una fine: la morte. Ma sa anche che c’è un fine: la risurrezione. Questo illumina tutto del suo vero senso, infondendogli una fiducia costruttiva. A differenza di chi ha ideologie positive o negative, egli né si illude, né si delude. Gli altri sono ottimisti o pessimisti; lui è realista, perché ha speranza. 2. Lettura del testo v. 1 uscendo egli dal tempio. Presso tutti i popoli il tempio rappresenta l’ombelico del mondo, il centro vitale attorno a cui cresce e si organizza lo spazio e il tempo, l’urbanistica e il calendario, tutta l’attività con la sua fatica e il suo riposo, con la sua pena quotidiana e la sua gioia festiva. È il luogo sacro, separato da tutto, da cui tutto riceve senso e verso cui tutto tende. Per Israele era il luogo della “legge” e della “Gloria”; lì stava l’ordinamento eterno che proviene dal caos e l’abitazione di Dio in mezzo al suo popolo. Andare al tempio è presentarsi davanti al Volto, di cui si è immagine e somiglianza. Il pellegrinaggio è raggiungere il proprio volto, trovare la patria del proprio desiderio, entrare in comunione con la propria vita. Per il cristiano il tempio è innanzitutto Gesù, “in cui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). È poi la stessa comunità, le cui persone sono “pietre vive per un edificio spirituale” (1Pt 2,5). È infine il cuore di ogni credente, dove dimora “l’uomo nascosto” (1Pt 3,4), Gesù Cristo, l’uomo interiore che abita per la fede nei nostri cuori (Ef 3,16s). Per questo la nostra preghiera è “in” Gesù, e avviene nel nostro cuore. Questo è il nuovo tempio, dimora dello Spirito, in cui si adora Dio in spirito e verità (Gv 4,24). Gesù che esce è la Gloria che abbandona il suo tempio (Ez 10, 18-22). uno dei suoi discepoli. È un discepolo anonimo, che ha il nome di ogni discepolo. che pietre e che costruzioni. Si diceva che chi non ha visto il tempio, non ha mai visto un edificio splendido. È il tempio grandioso, iniziato da Erode nel 19 a.C. , per la cui costruzione vennero impiegati 100.000 uomini e 1.000 sacerdoti muratori per i lavori interni. Ancora in via di costruzione e di abbellimento ai tempi di Gesù, sarà terminato solo sei anni prima della distruzione, avvenuta nel 70 d.C. Il discepolo è affascinato dal dettaglio (che pietre) e dall’insieme (che costruzioni). Il tempio è fascinoso, bello e grande; ha le caratteristiche dell’idolo, che sarà frantumato da un sassolino (Dn 2,3135). Infatti, a causa del peccato, nel tempio si cela una profonda ambiguità, tipica di ogni religione: la pretesa di possedere Dio e averlo disponibile, riducendolo a soddisfazione del proprio bisogno di sicurezza. Si veda la denuncia, scandalosa non solo per i contemporanei, che ne fa Geremia 7,1-15; 26,1 ss. v. 2 Non sarà lasciata qui pietra su pietra. Del tempio non sarà lasciata pietra su pietra, perché il nostro peccato ne ha fatto la peggior torre di Babele: visibilizza il nostro tentativo di toccare il cielo, e di assicurarci una potenza illimitata, servendoci anche di Dio (cf Gn 11,4-6). La profezia della sua distruzione non è una novità (cf Ger 7,1-15; 26,6). Avrà un ruolo decisivo nel processo contro Gesù (14,58) e sarà argomento di irrisione ai piedi della croce (15,29). La fine del tempio è la fine del mondo: si rompe l’asse cosmico, e tutto regredisce nel caos. Così l’intendono i discepoli, dando a Gesù l’occasione del suo lungo discorso sulla fine del mondo. La maledizione del tempio - la stessa dell’uomo, peccatore eppure gloria di Dio - sarà portata da Cristo, vero tempio distrutto e riedificato in tre giorni.

3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo immaginando il tempio. da cui Gesù esce coi suoi discepoli. 3. Chiedo a Gesù di capire il motivo della fine di tutto e della mia morte alla luce del suo mistero di morte e risurrezione. Considerare: Il significato del tempio con la sua bellezza e la sua ambiguità. Gesù che ne esce e lo abbandona: sarà distrutto come il suo corpo. Il nuovo tempio dove si adora Dio in spirito e verità. 4. Passi utili: Ger 7,1-15; 1Sam 4,1-11; 1Re 9,4-9; Sal 84; 1Cor 6,19; 1Pt 2,4 s. 3,4; Ap 21,22s.

69. GUARDATE CHE NESSUNO VI INGANNI (13,3-23)

3

E sedendo egli sul monte degli Ulivi, di fronte al tempio, lo interrogava in disparte Pietro e Giacomo e Giovanni e Andrea: 4 Di’ a noi quando saranno queste cose, e quale il segno quando staranno per compiersi tutte queste cose? 5 Ora Gesù cominciò a dire loro: Guardate che nessuno vi inganni. 6 Molti verranno nel mio nome, dicendo: Io sono; e inganneranno molti. 7 Ma quando ascolterete di guerre e rumori di guerre, non spaventatevi. Bisogna che avvengano, ma non è ancora la fine. 8 Infatti si leverà nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno terremoti qua e là, vi saranno carestie. Principio di doglie è questo! 9 Guardate a voi stessi: vi consegneranno a sinedri,

e sarete percossi in sinagoghe, e comparirete davanti a governanti e re per causa mia, in testimonianza per loro. 10 E prima bisogna che il vangelo sia annunciato a tutte le nazioni. 11 E quando vi conducono per consegnarvi, non preoccupatevi cosa direte; ma quanto vi sarà dato in quell’ora, questo dite; infatti non siete voi a parlare ma lo Spirito Santo. 12, E il fratello consegnerà a morte il fratello e il padre il figlio, e insorgeranno figli contro genitori e li uccideranno. 13 E sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi resisterà sino alla fine, questi sarà salvato. 14 Ma quando vedrete l’abominio della desolazione stare dove non bisogna - chi legge comprenda! 15 allora quelli in Giudea fuggano sui monti, e chi è sul terrazzo non scenda e non entri a prendere qualcosa dalla sua casa, 16 e chi è nel campo non torni indietro a prendere il suo mantello. 17 Ahimè per le donne gravide e per le lattanti in quel giorni. 18 Ma pregate che non sia d’inverno. 19 Quei giorni infatti saranno afflizione, quale non fu simile dal principio della creazione che Dio creò, fino ad ora, e non sarà più. 20 E se il Signore non accorciasse i giorni, non sarebbe salva nessuna carne. Ma per gli eletti che ha eletto accorciò i giorni. 21 E se allora uno vi dica: Ecco qui il Cristo! Ecco là! continuate a non credere! 22 Infatti si leveranno falsi cristi e falsi profeti,

e daranno segni e prodigi a fine d’ingannare, se possibile, gli eletti. 23 Ma voi guardate: a voi ho predetto tutto! 1. Messaggio nel contesto Guardate che nessuno vi inganni”, dice Gesù al suoi discepoli circa il quando e i segni della fine del mondo. Sia per la prima generazione cristiana, che vide la guerra giudaica, sia per la seconda, che vide la persecuzione dei discepoli a Roma, sia per tutte le successive, è facile cadere nella tentazione di leggere i propri mali come segno della catastrofe imminente. Gesù ha appena parlato della distruzione del tempio. I discepoli pensano che sia anche la fine del mondo, e domandano “quando” e “quale segno” del “compimento di tutto”. Gesù li esorta a sostituire l’allarmismo col discernimento. Invece di preoccuparsi del futuro, devono occuparsi del presente, in fedeltà operosa alla sua parola. È inutile speculare: nessuna risposta teorica muta il dato di fatto sicuro. La finitezza del tutto s’impone. Ma proprio questa può essere vissuta da noi o come angoscia mortale, o come dipendenza filiale da Dio. Tra l’altro la fine del mondo non è prevedibile da nessun segno; non è in continuità con gli eventi storici, perché costituisce una rottura definitiva. Non possiamo prevedere neanche la nostra morte. Quand’anche ci riuscissimo, non avremmo ottenuto altro che anticiparla a causa della paura! I mali che accadono, e che noi stessi facciamo, fanno parte della nostra storia dopo il peccato. Ma proprio questa è da leggere ormai come luogo di salvezza, alla luce del Signore morto e risorto. Il cristiano è contro l’alienazione, sia quella religiosa che quella laica. Non si rifugia in una speranza celeste incontaminata dalle vicende terrestri, sognando un futuro bello che gli faccia dimenticare il presente brutto; neanche evade nell’illusione di un mondo felice, cadendo nella negazione del male, ritenendolo un semplice gradino inferiore nell’evoluzione ascendente della natura, della specie, della classe operaia o altro. Sa che il male è male, e, per sé, non ne viene alcun bene. Vive tutto lo spessore e il peso di una realtà di peccato. Ma sa che in essa è presente il suo Signore crocifisso. Si fa quindi sua memoria vivente, incarnandolo nella propria vita. Unito a lui, partecipa e prolunga in sé la sua stessa vicenda di morte salvifica. Il limite e il negativo - che conosce come gli altri e riconosce meglio degli altri - non ha per lui l’incanto fatale della fine che ipnotizza, rendendo tutta la vita una mimesi della morte. Lo assume nella forza della risurrezione, che permette di vivere il presente con intelligenza disincantata e volontà decisa, con libertà responsabile e fedeltà operosa nei confronti del Signore, che per primo ha percorso lo stesso cammino. Egli, entrato nel nostro medesimo tunnel, ha sfondato il muro che ci separava dalla vita e ci relegava nella paura della morte. La storia presente - è sempre e solo presente quello che possiamo vivere! - non è da vedere con le lenti nere delle nostre paure, ma con l’occhio limpido della parola di Dio. Questa ci fa scorgere come nel nostro male, che è indubitabile, si opera la salvezza di Dio. Per questo Gesù vuol bandire tutte le apprensioni, infondendoci fiducia e coraggio. La struttura del brano evidenzia questo intento, racchiusa com’è tra due messe in guardia contro ingannatori e allarmisti (vv. 5-6.21-23). Infatti la paura deresponsabilizza e cerca le sue conferme in ciarlatani e falsi profeti che pascolano di risposte immediate ogni bocca beante in domande ansiose. C’è poi la descrizione degli ingredienti normali della storia: guerre, terremoti e carestie (vv.7-8). Conseguenza del peccato e prodromi di morte, sono il segno che il mondo finisce; ma non sono la fine, bensì l’inizio delle doglie, parto del mondo nuovo!

Al centro c’è la descrizione del discepolo (vv. 9-13). La sua persecuzione, insignificante per chi la fa e scoraggiante per lui che la subisce, è in realtà il vero segno della fine del male. Egli, testimoniando a tutti l’evangelo, è la creatura nuova, che vive ciò che annuncia, partecipando della lotta e della vittoria del suo Signore. Segue la descrizione misteriosa di un male abominevole (vv,. 14-20), che sembra preludere il ritorno del Signore. È la grande afflizione che bisogna attraversare, ma non è ancora la fine. Il discorso conclude infine, come già detto, mettendo in guardia contro i falsi Cristi (= salvatori) e profeti (vv. 21-23). L’unico salvatore è il Signore Gesù, che ha anche “predetto tutto” (v. 23) ciò che ci serve sapere. La nostra profezia è il “ricordo” di quanto lui ha fatto e detto. Gesù è venuto, viene e verrà; era, è e sarà. Viene al presente e verrà nel futuro come già è venuto nel passato; è e sarà ciò che era e si è manifestato a noi nella sua carne. Dal suo passato - unica profezia! abbiamo il parametro per vivere il presente e conoscere il futuro. Quanti parlano della fine del mondo promettono ai loro discepoli di scampare dai mali che incombono. È una menzogna, perché tutti viviamo la stessa realtà. Gesù invece insegna come viverla positivamente, promettendo ai suoi di associarli alla sua stessa sofferenza redentrice. E questa è una promessa divina. Gesù è il rivelatore completo, la cui storia contiene ogni storia e tutta la storia. Il suo passato ci dice il nostro futuro e ci fa capire il nostro presente come il momento della testimonianza. Il discepolo sa che il mondo è posto nel male. Non si stupisce né si allarma, e lo legge come luogo in cui testimoniare il suo Signore. 2. Lettura del testo v. 3 sedendo di fronte al tempio. Seduto in atteggiamento da maestro, Gesù sta davanti al tempio, di cui ha appena predetto la distruzione. v. 4 quando saranno queste cose. L’uomo sa “che” deve finire, lui e il suo mondo, ma ignora “quando”. Chi pretende di soddisfare questa curiosità, trova subito uditorio. Ha meno fortuna chi, invece di predire il futuro, cerca di far capire il senso del presente. quale il segno. In tutto ciò che vede l’uomo spia il segno per presagire quando arriva il nemico che teme, nell’illusoria pretesa di controllarlo. Ma proprio così cade sotto il suo sguardo pietrificante. staranno per compiersi queste cose (Dn 12,7 LXX). La distruzione del tempio e la fine del mondo non sono un’abdicazione di Dio nel governo del mondo; entrano invece nel “compimento” del suo piano. Gesù insisterà su questo aspetto, trascurando i segni e il quando. Staccherà anzi il quando della fine da ogni speculazione sui segni. A lui sta a cuore che il discepolo sappia non quando deve morire, ma come deve vivere. v. 5 Guardate che nessuno vi inganni. È il ritornello di tutto il discorso. È ingannatore chiunque parla del quando e interpreta i segni in tale senso. Infatti ottiene solo l’effetto di terrorizzare l’uomo, piegandone così la libertà a ogni suo arbitrio e fanatismo. v. 6 Molti verranno nel mio nome. Gli ingannatori sono “molti” e si presentano nel “nome” di Gesù. Ma sono falsi, anche se forse in buona fede, perché dicono ciò che lui non ha mai detto, anzi ciò che espressamente ha detto di ignorare (v. 32)!

lo sono (cf 6,45; 14,62). È una dichiarazione di identità, o addirittura una pretesa superiore, divina (Io Sono = JHWH)? inganneranno molti. Molti gli ingannatori e molti gli ingannati, che vivranno il presente in sudditanza alla morte invece che al Signore della vita. v. 7 guerre e rumore di guerre. È la manifestazione del peccato. La rottura col Padre porta necessariamente al conflitto tra i fratelli. Qui si parla della guerra giudaica; ma ogni epoca e ogni popolo ha purtroppo la sua ! non spaventatevi. La paura non è rimedio, sua scintilla che accende e legno che alimenta il male. Il discepolo non ne è terrorizzato o scoraggiato: sa che lo si vince col bene (Rm 12,21). Bisogna che avvengano. Il male “bisogna” che avvenga, come la croce di Gesù (8,31; 9,12). Dato che c’è, non può non venire a suppurazione. “A peste, fame et bello, libera nos Domine!”. Il male siamo noi a farlo. La punizione non viene da Dio, ma è interna al male stesso come sua conseguenza, e serve da lezione positiva al bene. Se mi do una martellata in testa, sento dolore; e ciò mi fa capire di smettere. La nostra esperienza però ci dice che non siamo liberi di non farci male. Possiamo però scegliere se chiedere a Dio la forza di smettere, oppure usare la mano sinistra per prendere un analgesico, continuando con la destra a darci martellate. ma non è ancora la fine. Gesù dissocia la fine del mondo dalla guerra giudaica, come da ogni guerra in corso. Anche se noi oggi possiamo distruggere il mondo, la fine sarà solo quando l’avrà stabilito la “pazienza” di Dio, “che non vuole che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2Pt 3,10). Infatti “vuole che tutti gli uomini siano salvati, e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4). v. 8 nazione contro nazione. È una situazione di guerra generale. Il male imperversa dappertutto. Non c’è pace in nessun luogo. terremoti. È come se la terra si ribellasse all’uomo, scuotendoselo di dosso. carestie. Sono conseguenza delle guerre e dei terremoti, ma anche della siccità. Pure il cielo si ribella alla terra, che si ribella all’uomo, che si ribella al fratello perché si è ribellato al Padre! Lo staccarsi da Dio è l’inizio della caduta nel caos. principio di doglie. Gesù non dice che è la fine, bensì “principio”; e non parla di dolore, bensì “doglie”. La stessa realtà ha contemporaneamente due letture opposte: sofferenze di morte e travaglio del parto. La fine dell’uomo vecchio è anche nascita di quello nuovo. Probabilmente la guerra giudaica, esplosa nel 66 d.C. , faceva presagire ai cristiani l’imminente ritorno del Signore. Con queste parole si vuole far intendere che siamo solo al “principio” delle doglie. Prima della nascita della nuova creatura, l’uomo perfetto, secondo la statura piena di Cristo (Ef 4,13), c’è di mezzo un lungo travaglio, che è quello di tutta la storia, che non finirà prima che Dio sia tutto in tutti (1Cor 15,28). v. 9 Guardate a voi stessi. Dagli eventi esterni l’attenzione si sposta ai discepoli. vi consegneranno, ecc. Essi saranno esposti a persecuzione, come il loro Signore. Compiono nel loro corpo quello che ancora manca alla sua passione per la salvezza del mondo (Col 1,24). Gesù non

promette loro altro privilegio che quello di essere simili a lui. Chi non fa il male, lo porta; e solo così lo vince. È il travaglio che genera l’uomo nuovo. per causa mia (8,33; 10,29). Motivo della persecuzione è l’amore per Gesù e la fedeltà alla sua parola. “È una grazia, per chi conosce Dio, subire afflizioni, soffrendo ingiustamente” (1Pt 2,19). in testimonianza per loro. La persecuzione non è sterile. È “martirio” (= testimonianza), prova d’amore davanti a tutti, seme fecondo che cade nella terra. Non distrugge il discepolo, ma lo costituisce tale, testimone del suo Signore. v. 10 prima bisogna che il vangelo sia annunciato a tutte le nazioni. Il fine della storia è la conoscenza dell’amore del Padre da parte di tutti i suoi figli. È una necessità (“bisogna”) assoluta del piano di Dio. L’annuncio è l’opportunità per tutti di accettarlo. Per questo Marco ha anche scritto il suo vangelo. v. 11 quando vi conducono per consegnarvi, ecc. Nelle persecuzioni non siamo soli e abbandonati. Siamo assistiti dal Consolatore, che ci consola in ogni nostra desolazione (2Cor 1,3). La sua gioia è la nostra forza per testimoniare Gesù: ci fa dire e fare ciò che noi non siamo in grado di dire e fare. vv. 12s il fratello consegnerà a morte il fratello, ecc. (cf Mic 7,2-6). L’odio dei propri familiari è segno del caos assoluto: il disordine tocca il nido della vita, intaccandone la sorgente. Il peggio del male tocca al discepolo - come già prima al suo Signore, che sta al di sopra di ogni suo affetto e della stessa vita. v. 13 chi resisterà sino alla fine, questi sarà salvato. Il tempo è più lungo del previsto, e l’angustia lo rende ancor più lungo. Per questo è necessaria la perseveranza, capace di farsi carico del male, senza abbandonarne il peso prima della fine. v. 14 l’abominio della desolazione stare dove non bisogna (Dn 9,27; 12,11). Si allude al massimo male: l’idolo posto nel tempio. Ciò capita ogni qualvolta il male, prendendo il posto di Dio, ne assume le caratteristiche di necessità, totalità e assolutezza. Il peccato si consuma nel conferire a Dio le caratteristiche del male, o al male le caratteristiche di Dio. L’abominio della desolazione si compie sulla croce, dove Dio stesso si fa peccato e maledizione per noi. chi legge comprenda. Ognuno deve comprendere e vivere questo mistero di perdizione e di salvezza nella propria epoca. Cosciente che queste parole sulle cose ultime possano essere facilmente fraintese, Marco esorta chi legge a capire, per spiegare bene, senza indurre nessuno in errore. vv. 15s allora fuggano sui monti, ecc. È una esortazione di Gesù alla prima comunità a lasciare Gerusalemme che sarà distrutta. In casi di guerra la città fortificata è il luogo più sicuro. Ma se cade, è una trappola mortale. Quando il male ha la pretesa di assolutezza, è bene fuggire dalla città degli uomini verso il monte, da dove verrà l’aiuto (Sal 121,1). Bisogna lasciarla, come Sodoma e Gomorra, senza volgersi indietro. Anche nelle persecuzioni è bene nascondersi, finché non è venuta l’ora della testimonianza. v. 17 Ahimè per le donne gravide e per le lattanti. È la compassione di Gesù per chi genera la vita in tale situazione di morte. Inoltre le donne incinte e allattanti sono impedite nella fuga. v. 18 non sia d’inverno. D’inverno piove e i fiumi si gonfiano, ostacolando la fuga. Con queste parole Gesù esorta i discepoli a fuggire da Gerusalemme a Pella, e Marco esorta i cristiani di Roma a sottrarsi alla persecuzione, per evitare il pericolo di compromettersi con la bestia.

v. 19 afflizione quale non fu simile dal principio della creazione, ecc. Sia la morte di Gesù che la distruzione di Gerusalemme che la testimonianza del discepolo sono la grande angustia, la porta stretta alla vita nuova. v. 20 se il Signore non accorciasse, ecc. Il Signore desidera salvarci, e commisura sempre le prove sulle nostre forze (1Cor 10,13), abbreviandole per amore dei suoi discepoli perseguitati (gli eletti). v. 21 Ecco qui il Cristo! Ecco là! In questa grande tribolazione il desiderio del suo ritorno si fa più intenso, ed è facile cadere nell’inganno di volerlo vedere qui o là. Invece non è ancora il suo ritorno, ma ciò che lo precede. v. 22 si leveranno falsi cristi. Sono i falsi portatori di una salvezza che non passa attraverso la croce di Gesù e nostra. Sono gli anticristi, che non riconoscono “Gesù venuto nella carne”, ossia nella debolezza (1Gv 4,2). Oggi ce n’è tanti quante sono le ricette di salvezza. falsi profeti. Sono quanti parlano di Gesù (v. 6), dicendo però ciò che lui non ha detto, ossia le scadenze sulla fine del mondo. Sono quelle persone religiose che, anche in buona fede, soddisfano le domande curiose, invece di richiamare alla fiducia e alla fedeltà al Signore. segni e prodigi. Di miracoli e prodigi ingannatori ce ne sono tanti anche nella nostra epoca. Confondono la salute con la salvezza, distruggendo infine ambedue. v. 23 Ma voi guardate. All’allarmismo, che sfocia in credulonerie poi sempre gabbate, Gesù contrappone il discernimento. a voi ho predetto tutto. Il criterio del discernimento è quanto lui ha detto - nulla di più, nulla di meno. Egli è la Parola unica e totale del Padre: “Ascoltate lui” (9,7). La sua “carne” ci manifesta quel Dio che nessuno ha mai visto e altrove mai vedrà. La profezia è ricordo di lui, parola fatta carne e tornata parola per farsi nostra carne nell’ascolto. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo immaginando il monte degli Ulivi, dove Gesù con i quattro discepoli sta di fronte al tempio. 3. Chiedo al Signore il discernimento, per vedere nel mali presenti la partecipazione alle sue sofferenze, in modo da aver parte alla sua gloria (cf Fil 3,10). 4. Considerare: il pericolo di allarmismi e ingannatori sul quando e quali i segni (vv. 5-6.21-23); il senso delle guerre, dei terremoti, delle carestie e dell’abominio della desolazione (vv. 78.14-20); il senso della testimonianza del discepolo che sta al cuore del discorso (vv. 9-13). 4. Passi utili: Gn 6-8; Sal 49; 1Ts 4,1-5,11; 2Ts 2,1-3,15.

70. ALLORA VEDRANNO IL FIGLIO DELL’UOMO VENIRE NELLE NUBI (13,24-27) 24

Ma in quei giorni, dopo quell’afflizione, il sole sarà oscurato, e la luna non darà la sua luce, 25 e gli astri staranno a cadere dal cielo, e le potenze dei cieli saranno scosse. 26 E allora vedranno il Figlio dell’uomo venire nelle nubi, con molta potenza e gloria. 27 E allora invierà gli angeli, e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra all’estremità del cielo. 1. Messaggio nel contesto “Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire nelle nubi”. È la grande promessa di Gesù. A questo incontro con lui tutta la storia è condotta dalla mano sapiente e paziente di Dio. La creazione è in cammino verso la rivelazione del Figlio dell’uomo, nel quale ogni uomo è figlio in comunione con il Padre. La fine del mondo non è il cadere di tutto nel nulla, ma il compiersi di ogni speranza al di là e al di sopra di ogni attesa, in una pienezza che nessuno osa immaginare. L’invocazione del credente: “Maranà thà: vieni, o Signore” (1Cor 16,22), presta voce al gemito di tutta la creazione (Rm 8,19-23), che con aspirazione da vertigine tende a lui, nel quale, per mezzo del quale e in vista del quale tutto è stato fatto (Col 1,15s). Egli infatti è la vita di tutto ciò che esiste (Gv 1,3b-4). La fine del mondo non è qualcosa di tremendo. È anzi il fine sommamente desiderato, la meta agognata. Paolo spera che avvenga mentre lui ancora vive (2Cor 5,1-5). È infatti l’incontro tra la sposa, che nello Spirito grida: “Vieni”, e lo sposo che garantisce: “Sì, verrò presto” (Ap 22,17ss). Queste parole di Gesù presentano il quadro finale della vicenda cosmica. Al centro sta la venuta del Figlio dell’uomo (v. 26), che segna la fine del mondo vecchio coi suo male (vv. 24-25) e l’inizio di quello nuovo, in comunione con lui (v. 27). La prima comunità cristiana ha visto nella distruzione del tempio il segno della fine del mondo. Fuggita verso i monti per scampare dall’eccidio, era in fervida attesa del ritorno di Gesù. Non mancavano falsi cristi e falsi profeti che l’annunciavano prossimo. Ma non bisogna lasciarsi ingannare. Sarà “dopo” quell’afflizione e dopo tutta la storia di afflizioni, e comporterà qualcosa di totalmente nuovo, uno sconvolgimento in cui si arresterà il tempo e si confonderà lo spazio. L’avvenimento sarà palese: tutti lo vedranno. Per questo è inutile fare speculazioni o cercare segni particolari. Queste parole di Gesù si realizzano nella sua crocifissione, ormai prossima. Essa è la sua intronizzazione, la sua venuta in potenza e gloria per compiere il giudizio di Dio e la sua salvezza. La sua croce è la chiave di lettura di tutta la storia.

Questa è una parabola, un “enigma”, che trova in quella la “parola” che lo spiega. Il mistero di Gesù morto e risorto costituisce la sua prima venuta. Esso continua nella vita quotidiana del discepolo, che è come la sua seconda venuta, anticipo o garanzia della terza, quella finale. Questa non sarà che lo svelarsi di ciò che ora già c’è in modo nascosto; perché non c’è nulla di nascosto che non debba venire alla luce (4,22). La venuta gloriosa del Signore e il suo giudizio è quindi a tre livelli: uno passato, quello della croce, dove tutto è compiuto (Gv 19,30); uno presente, quello della nostra sequela, e uno futuro, quando sarà compiuto in tutti ciò che già lo è in lui e in chi lo segue. La prima venuta, testimoniata dalla Parola, è norma di fede, che ci fa attendere il futuro nella speranza e vivere il presente nell’amore. La storia è sotto il segno della croce, gloria ora segreta che poi si manifesta. Il braccio potente, con cui Dio ha vinto il male, sono le braccia misericordiose del Figlio allargate a tutti i fratelli. Con queste parole Gesù risponde alla domanda: “Quale il segno” della fine del mondo (v. 4). Gesù è il Figlio dell’uomo giudice della storia. Sulla croce si rivela tale e manifesta il giudizio del Padre: è il suo stesso di Figlio che si fa fratello di tutti i peccatori per salvarli. Questo è il fulgore pieno della gloria e della potenza divina, la cui rivelazione, che già avviene nella vita del credente, è il futuro di tutto il creato. Il discepolo conosce il giudice e il suo giudizio. Vive quindi con fiducia, speranza e “giudizio”, prendendo come criterio di vita il Figlio che ama il Padre e i fratelli. 2. Lettura del testo v. 24 Ma. Si passa a considerare qualcosa di diverso, anzi di opposto a quanto fanno gli uomini. Dio si riserva la parola definitiva. A lui, che ha detto la prima, spetta anche l’ultima. E dirà il suo “ma”, ponendo fine alla perdizione e inizio alla salvezza. in quei giorni. Sono i giorni della grande afflizione, che indicano la morte di Gesù e la distruzione di Gerusalemme. Continueranno nella persecuzione dei discepoli, fino “a quel giorno e a quell’ora” che solo il Padre conosce (v. 32). dopo quell’afflizione. Il Figlio dell’uomo si manifesterà “dopo” che si sarà consumata ogni afflizione come per Gesù e per Gerusalemme, così per ciascuno di noi e per il mondo intero. Il male del mondo deve “spurgarsi” nella croce del Giusto e di chi è con lui, prima che si riveli la Gloria. La fine del mondo è “dopo” ogni avvenimento mondano: è un “dopo” rispetto a tutto ciò che c’è prima. Non va quindi dedotta da nessun avvenimento, per quanto sia catastrofico. il sole sarà oscurato, ecc. Sono immagini. Sole e luna sono l’orologio cosmico. Si rompono e si arresta il tempo. Gli astri, con il loro moto, definiscono l’universo. Si confondono e si annulla lo spazio. È un modo - solo un modo? - per significare la regressione al caos, punto zero dell’universo. La morte si rimangia la vita. Nella fine del mondo avverrà quanto è avvenuto nella morte di Gesù, quando si oscurò il sole meridiano (15,33) e la luce stessa del mondo si spense e s’inabissò nella tenebra. v.25 le potenze dei cieli saranno scosse. Crollano i cardini del mondo: l’alto diventa basso. Allora avverrà quanto è avvenuto sulla croce - abbassamento estremo dell’Altissimo.

v. 26 E allora vedranno. Non sarà una cosa segreta, ma ben visibile. Avverrà quanto avvenne nella morte di Gesù, quando il centurione vide e conobbe Dio (15,39). il Figlio dell’uomo venire nelle nubi (cf Dn 2,13). Queste parole di Gesù, causa della sua condanna a morte (14,62), si sono realizzate proprio nella sua esecuzione. Alla fine avverrà ciò che è avvenuto ai piedi della croce: il Figlio dell’uomo apparirà nella nube abissale della sua gloria, e sarà riconosciuto come il Signore che viene per il suo giudizio. Per Marco il Figlio dell’uomo è colui che perdona i peccati (2,10), è il Signore del sabato (2,28), deve soffrire e risorgere (8,31; 9,9.12.31; 10,33), è venuto per servire e dare la vita per tutti (10,45) e se ne va consegnato nelle mani dei peccatori (14,21.41). Questo è quello che ci giudica (8,38; 14,61s). Ma quale sarà il suo giudizio, se lui, il giudice, è uno che muore in croce per noi peccatori? Quale il giudice, tale il giudizio! E questo è il suo giudizio, in cui compie ogni giustizia di Dio: lui, che è giusto, porta su di sé ingiustamente il nostro peccato e giustifica tutti gli ingiusti che si riconoscono tali e accettano la sua grazia. In questo giudizio finalmente capisco chi è Dio per me e chi sono io per lui. Cessa finalmente l’inganno che mi ha allontanato da lui, dando inizio alla mia storia di morte. Ormai, caduto il giudizio mio o altrui su di me, vivo del suo, che è la mia verità e salvezza. le nubi. Sono il luogo della rivelazione di Dio giudice. Egli si manifesta nella nube, perché, luce eccessiva, solo velandosi può rivelarsi. Ma quando sarà rotto il velo del tempio (15,38), allora lo vedremo faccia a faccia: nel nascondimento massimo svelerà la sua gloria più intima. con molta potenza e gloria. La gloria di Dio - splendore della sua essenza, ciò per cui lui è se stesso - è l’amore misericordioso. Sarà manifesto a tutti proprio sulla croce. v. 27 invierà gli angeli. Inviato in greco si dice “apostolo” e angelo significa “annunciatore”. Gli apostoli sono inviati come annunciatori della gloria di Dio - angeli del suo giudizio sulla storia. Il fine della loro missione è riunire attorno al Crocifisso tutti gli eletti. riunirà i suoi eletti. I suoi eletti sono i discepoli - e lui ordinò di fare suoi discepoli tutti (Mt 28,19). Meta della storia è la riunione con lui, il Figlio che riversa su tutti l’amore del Padre. Il desiderio nostro è di essere rapiti fra le nuvole per andare incontro a lui, “e così saremo per sempre con i1 Signore” (1Ts 5,17). “Vieni Signore Gesù” (Ap 22,20). dall’estremità della terra all’estremità del cielo. La croce è la riunione di tutto e di tutti nell’unica gloria. Le sue braccia si allargano per racchiudere gli estremi confini della terra e la sua asta si alza dall’abisso dell’universo alla volta del cielo. Il Figlio dell’uomo è il grande albero del Regno, in cui tutti i popoli trovano il loro nido (4,30ss), e fanno di Dio la loro dimora. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo immaginando il monte degli Ulivi, dove Gesù sta con i quattro discepoli di fronte al tempio. 3. Desidero e chiedo al Signore: “Vieni, Signore Gesù! Fammi vedere la tua gloria”. 4. Considero il senso della storia:

cielo e terra passeranno; il Signore viene come giudice sulla croce, nella sua gloria e potenza; il fine della sua venuta è salvarci e riunirci attorno a sé. 4. Passi utili: Dn 12,1-3; Gl 1,15-2,11; Sai 90; 1Ts 5,1-11; 2Ts 2,1-12; Ap 21-22.

71. DAL FICO IMPARATE LA PARABOLA (13,28-32) 28

Ora dal fico imparate la parabola: quando già il suo ramo si fa tenero e germina le foglie, sapete che è vicina l’estate. 29 Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sapete che è vicino, alle porte. 30 Amen, vi dico: Non passerà questa generazione fin che non avvengano tutte queste cose. 31 Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno affatto. 32 Ma circa quel giorno e l’ora, nessuno sa, né gli angeli nel cielo, né il Figlio, se non il Padre. 1. Messaggio nel contesto “Dal fico imparate la parabola”, dice Gesù: quando esso germoglia, è segno che inizia l’estate. Ma il fico, sterile e maledetto (11,12), sta per germogliare proprio ora. Fra tre giorni vedremo pendere dall’albero un frutto, primizia di una stagione feconda. Fuori parabola: con la croce di Gesù è già finito il mondo vecchio e iniziato quello nuovo. Viviamo ormai nel tempo definitivo della salvezza; ogni momento è quindi l’ora dei frutti (11,13), perché il tempo è finito e il regno di Dio è qui (1,15). Il brano si articola in quattro parti. I vv. 28-29 presentano una parabola di discernimento: tutti i mali descritti sono come il germinare del fico, segno evidente della stagione dei frutti. Il v. 30 dice “quando” tutto questo avviene: nella stessa generazione degli ascoltatori di Gesù, che fra tre giorni, vedendolo sulla croce, sarà chiamata a fare frutti degni di conversione. Come allora, così ora e sempre ogni generazione è chiamata a contemplarlo e a convertirsi. Il v. 31 assicura la certezza dell’evento: tutto passa, ma non la sua parola, che ci ha promesso la sua venuta.

Il v. 32 infine afferma l’incertezza dell’ora: quanto è sicuro l’evento, altrettanto è ignoto il giorno e l’ora. Chi sa discernere il segno del fico e si converte, vive ogni istante in vigilanza e fedeltà (brano seguente). Gesù in croce è il primo frutto del fico che germoglia. Già l’inverno è passato (Ct 2,11.13). Il volto di Dio si è illuminato su di noi e la nostra terra ha dato il suo frutto (Sal 67,1.7). Chiunque si volge a lui, entra nel Regno. La sua morte, avvenuta una volta per tutte, è per ogni generazione il passaggio dalla morte alla vita. La promessa del suo ritorno è infallibile; l’ora è ignota, perché ogni istante sia attesa. E intanto ogni giorno è “quel giorno” e ogni ora è “quell’ora” in cui camminiamo incontro a lui che viene, fino all’abbraccio definitivo. Il discepolo sa discernere in Gesù morto e risorto il frutto di vita, e ne vive ora e sempre, fino alla rivelazione piena di tutto il mistero nascosto. 2. Lettura del testo v. 28 dal fico. Il fico già ci ha istruiti, facendoci capire che è ormai sempre la stagione buona (11,12 ss). È l’albero che fa i primi e gli ultimi frutti. Prodotti direttamente dal tronco, senza fioritura, durano sulla pianta per tutto l’anno; chi cerca, ne trova sempre almeno uno. Se il fico sterile rappresenta noi, quello fecondo è la croce, dove troviamo Gesù, dolce frutto dell’amore del Padre e dei fratelli, Parola fatta carne. imparate la parabola. È l’ultima parabola di Gesù. quando il suo ramo si fa tenero. All’inizio della primavera comincia a scorrere la linfa, e i rami, da secchi, si fanno teneri. In questa stagione il fico dà i primi frutti. La primavera è l’accadere di “queste cose” - la grande tribolazione con ciò che precede e ciò che segue - che coincidono con la croce di Gesù, in cui ogni tribolazione germina frutto di vita. germina le foglie. Le foglie del fico servivano per coprire la nudità (Gn 3,7) e la propria sterilità (11,12ss); ora guariscono le nazioni (Ap 22,2). sapete che è vicina l’estate. È la stagione dei frutti. La croce ne segna l’inizio inarrestabile. Gesù è il primo di una numerosa schiera (Rm 8,29). v. 29 quando vedrete accadere queste cose. Questa parabola ci dice quando viene il Signore: quando accadono “queste cose” descritte prima, che accadono sempre. Venuto nel nascondimento della croce, viene nella croce quotidiana del discepolo e verrà alla fine, rivelandone la gloria. In tutto il travaglio della storia ormai possiamo leggere il gemito della nuova creatura che nasce. Il capo è già nato. Ora devono uscire alla luce tutte le membra. sapete che è vicino, alle porte. Fra tre giorni, il primo frutto sarà appeso al tronco, fuori la porta delle mura (Eb 13,12). Con lui è giunto il regno di Dio. Basta che ci convertiamo a lui e lo seguiamo (1,1520).

v.30 Non passerà questa generazione finché non avvengano tutte queste cose. Gesù ha detto questo per la sua generazione, che tra poco vedrà la sua gloria. Ma vale anche per quella successiva, che vedrà nella croce di Gerusalemme il diffondersi della gloria nel mondo. Marco lo dice per quelli di Roma e per quanti verranno dopo - chi legge comprenda! perché vedano nelle proprie tribolazioni lo stesso mistero di morte e risurrezione del Signore. v. 31 Il cielo e la terra passeranno. Cielo e terra significa tutto. La scena di questo mondo passa (1Cor 7,31). Ma non viene distrutto: viene trasfigurato, reso partecipe della gloria dei figli (Rm 8,19-23). ma le mie parole non passeranno. La sua parola rimane in eterno, come la sua fedeltà e il suo amore (Sal 148,6; 117,2). Solo lui, che dice: “Amen”, è la roccia stabile su cui fondare la propria vita. v. 32 quel giorno. È il giorno della morte di Gesù che ogni singolo e l’universo intero rivive nei propri giorni di vita e rivivrà in pienezza nel proprio giorno di morte. l’ora. Non conosciamo l’ora della sua ultima venuta, ma sappiamo che lui torna in ogni ora della notte e del giorno: di sera, quando si dona, di notte quando va nell’orto, a mezzanotte quando lotta, alle tre di notte quando è preso, al canto del gallo quando è rinnegato, al mattino quando è condannato, alle nove quando è crocifisso, a mezzogiorno quando si oscura il sole, alle tre quando spira, alle sei quando entra nella notte del sepolcro per il riposo sabatico. Ogni ora della notte - ed è sempre notte - chi tiene gli occhi aperti e veglia, lo vede venire. nessuno sa, né gli angeli né il Figlio. Quanto è certo e determinato l’evento, altrettanto è incerta ed indeterminata l’ora e il giorno della fine nostra, della fine del mondo e della sua ultima venuta. Così Dio ha saggiamente stabilito per il nostro bene. Infatti, se sapessimo il giorno e l’ora, cadremmo in un terrore pietrificante o in un’attesa alienante, invece di vivere ogni istante facendo la sua volontà. Inoltre, non sapere il quando ci fa vivere la nostra finitezza come luogo di conversione dalla paura della morte all’abbandono filiale nelle mani del Padre. Quel giorno poi dipende anche dalla nostra libertà così dura a convertirsi, alla quale viene incontro la pazienza di Dio. Quel giorno e quell’ora, infine, è ogni giorno e ogni ora in cui ci decidiamo per lui. È infatti sempre questo il tempo di dare frutto. Gesù è il rivelatore del Padre, che ci ha detto tutto (v. 23) quanto occorreva che conoscessimo. Venisse anche dagli angeli, ogni altra rivelazione sulla fine del mondo è certamente sempre falsa e fuorviante. Non è importante sapere quando finisce. Sappiamo che certamente finisce. Anzi sappiamo che già è finito, ed è giunto il momento di passare dalla morte alla vita. se non il Padre. Il Padre conosce il tempo del ritorno a casa di tutti i suoi figli. Anzi, il tempo è già venuto, ed è questo, in cui tutti siamo invitati. Ma come mai tarda tanto l’estate, se il fico ha già dato la primizia? Tutta la storia ormai non è altro che il tempo della pazienza di Dio. “Davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono. Ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2Pt 3,8 s). Infatti vuole che tutti gli uomini siano salvati (1Tm 2,4) e che la sua casa sia piena (Lc 14,23). Ma come potrà essere piena la casa di un padre, se manca anche un solo figlio? Nel Figlio dell’uomo, fattosi maledizione e peccato per noi (Gal 3,13; 2Cor 5,21 ), è già tornato a casa l’ultimo dei suoi figli. Per questo bisogna far festa e rallegrarsi (Lc 15,32). È quanto celebriamo nell’eucaristia.

3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo guardando il tempio dal monte degli Ulivi, dove Gesù sta seduto con i quattro apostoli. 3. Chiedo al Signore ciò che voglio: imparare dal legno della croce a leggere le tribolazioni del presente come le doglie del parto della vita nuova, e vedere in esse il mio essere associato alla sua “gloria”. 4. Medito sulle quattro affermazioni di Gesù: dal fico imparo a discernere nel travaglio la visita del Signore che viene; tutto si compie sempre in “questa generazione”: questo è il tempo in cui si decide la vita eterna; tutto passa, ma la parola del Signore rimane in eterno; solo il Padre conosce il giorno e l’ora ultima. Ma ogni giorno e ogni ora è per me l’ultima, il momento di decidermi a seguire Gesù, passando dalla morte alla vita. 4. Passi utili: Ml 3; Sal 73; Rm 8,18-23; 2Cor 4,7-5,10; 1Cor 7,29-31.

72. LO DICO A TUTTI: VEGLIATE (13,33-37) 33

Guardate, vigilate! Infatti non sapete quando è il momento. 34 Come un uomo in viaggio, lasciata la sua casa e dato il potere ai suoi schiavi, a ciascuno il proprio lavoro, e ordinò al portinaio di vegliare. 35 Vegliate dunque: non sapete infatti quando viene il signore della casa se di sera, o a mezzanotte, o al canto del gallo, o all’alba. 36 Che arrivando all’improvviso non vi trovi a dormire. 37 Ora, quel che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate!

1. Messaggio nel contesto “Lo dico a tutti: Vegliate”. Così Gesù conclude il suo ultimo discorso. Il brano è tutto una variazione sul tema della vigilanza. Inizia con le parole “guardate, vigilate”, nel mezzo raccomanda due volte di vegliare, e alla fine estende a tutti l’esortazione: “Vegliate”. Il cristianesimo non è oppio. Fa tenere gli occhi aperti, come la saggia civetta, per scrutare nella notte ciò che c’è, ed è nascosto ai più fino a che non viene il sole. Star svegli è necessario, ma non basta. Il Signore, quando ci ha lasciato, ci ha dato il suo stesso “potere”. Siamo quindi responsabili di fare e dire quanto lui ha fatto e detto, fino al suo ritorno. La vigilanza costante quindi è riempita da una fedeltà operosa. La storia non è una sala d’attesa. È piuttosto un cammino alla sequela di lui, verso il quale tendiamo. Il suo venire a noi è ormai il nostro andare a lui: il ritorno del Figlio è affidato al nostri piedi di suoi fratelli che camminiamo come lui ha camminato. La storia è il luogo del discernimento (brano precedente), che ha come condizione l’attesa vigilante e come risultato l’operosità fedele. La vigilanza è l’occhio del cuore aperto sul Signore per vederlo mentre viene in ogni presente; l’operosità è la mano per compiere con responsabilità l’incarico ricevuto. Il Signore è già arrivato alla meta. La sua assenza è ormai la distanza che a noi tocca colmare, percorrendo il suo cammino, fino a quando saremo sempre con lui. Gesù se ne è andato, ma non ci ha abbandonati. Ci ha lasciato tutto quanto aveva: il suo stesso potere di Figlio. Infatti ci ha battezzati nel suo Spirito, perché possiamo vivere come lui ha vissuto. Il discepolo deve guardarsi dal fanatismo di chi attende con agitazione, speculando su date e scadenze, come pure dalla delusione di chi non attende più e dorme. Nell’attesa del suo ritorno definitivo, sa che fare: mettere a servizio dei fratelli il suo dono nello Spirito. 2. Lettura del testo v. 33 vigilate. Veglia chi teme o desidera una presenza ancora assente. La parola greca (agrypnéo) significa uno che pernotta in aperta campagna, attento ai rumori della notte, oppure una persona insonne che invano va a caccia di sonno. Nella grande notte del mondo, il discepolo è posto come sentinella. la sua funzione profetica (Ez 3,16). Non dorme come gli altri, ma resta sveglio, ed è sobrio (1Ts 5,6). Infatti sa che è tempo di svegliarsi dal sonno (Rm 13,11). Se prima era tenebre, ora è luce nel Signore; e si comporta da figlio della luce, portando il frutto della luce (Ef 5,8 ss; 1Ts 5,1 ss). Infatti si prepara per l’incontro desiderato. non sapete quando è il momento. La vigilanza deve essere costante perché si ignora il momento della sua ultima venuta. E non c’è da indagare su giorni e su ore; ci basti sapere che ogni giorno e ogni ora è il momento opportuno in cui vivere l’incontro con lui, in attesa di quello definitivo. v. 34 un uomo in viaggio. La parola greca indica uscire dal proprio popolo, emigrare all’estero, lontano (cf 12,1). Gesù se ne è andato da noi. Ci separa da lui lo stesso cammino che lui ha fatto quand’era tra noi, e che noi dobbiamo a nostra volta compiere per essere con lui. ha dato il potere ai suoi schiavi. Servo è uno il cui lavoro appartiene ad un altro. Schiavo è uno la cui vita appartiene a un altro. Noi siamo schiavi, perché siamo del Signore. Proprio così siamo uguali a lui,

che si è fatto nostro servo e schiavo, per essere tutto di noi. Il potere che ci ha dato è il suo stesso di Figlio che ama il Padre e i fratelli. Ci viene dal suo Spirito, ed è quello della parola che rimette i peccati, scaccia i demoni, porta a conversione e fa riconoscere il Signore (1,20.27; 2,10; 3,15; 6,7; 11,28.29.33). a ciascuno il proprio lavoro. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito, per l’utilità comune (1Cor 12,7). Non ha dato tutto a tutti, perché non ci chiudessimo nell’autosufficienza. Ha dato a ciascuno qualcosa, perché ognuno serva il fratello in ciò che ha, e sia servito in ciò che non ha, e così viviamo nel servizio reciproco. Non conta il tipo di prestazione; basta che ognuno, secondo il dono ricevuto, compia la sua. Comune a tutti, è la legge fondamentale di mangiare il pane col sudore della propria fronte (Gn 3,19). Chi mangia senza sudore fa sudare un altro, che per di più non mangia. Per questi Paolo dice: “Chi non vuol lavorare, neppure mangi “ (2Ts 3,10). ordinò al portinaio di vegliare. Il custode ha una responsabilità particolare circa la vigilanza. Il suo lavoro specifico è richiamare tutti, perché chi non veglia, non attende, e chi non attende, non accoglie colui che viene. v. 35 Vegliate dunque. Non solo il portinaio, ma tutti dobbiamo vegliare. “Questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Rm 13,11-14). Vegliare significa questo. non sapete infatti quando viene il signore della casa. Si insiste sul non speculare su date precise circa il suo ritorno. Il punto è un altro: vivere da figli della luce e del giorno (1Ts 5,5), rivestiti del Signore (Rm 13,14), in ogni ora della notte. E allora ogni ora sarà un incontro con lui e un passo verso l’incontro definitivo. di sera, o a mezzanotte, o al canto del gallo, o all’alba. Sono le varie ore della notte. Richiamano il racconto della passione: la sera si consegnò in pasto ai suoi, a mezzanotte agonizzò e fu tradito, al canto del gallo fu rinnegato, all’alba fu condannato. Le quattro ore in cui vegliare corrispondono ai quattro sonni del discepolo. v. 36 arrivando all’improvviso non vi trovi a dormire. Tutti questi momenti coglieranno i discepoli nel sonno, all’improvviso. La carne è debole, non ancora rivestita della forza dello Spirito. La sua venuta è quella dello sposo per chi l’attende e ha fatto di lui la sua vita (Mt 25,6); è invece quella del ladro (1Ts 5,2) per chi ha posto altrove il suo tesoro. v. 37 quel che dico a voi. Il discorso era rivolto a Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea (v. 3). lo dico a tutti. Attraverso loro è rivolto a tutta la Chiesa di ogni tempo. Vegliate. È la parola ultima che Gesù dice a tutti, dopo aver predetto tutto (v. 28). Poi inizierà il racconto della passione. 3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo vedendo il monte degli Ulivi, dove Gesù sta con i quattro davanti al tempio. 3. Chiedo al Signore ciò che voglio: attenderlo con vigilanza e fedeltà nel mio lavoro. 4. Considerare: Il “potere” che Gesù ci ha dato. Svolgo il lavoro comune a tutti e il mio compito specifico? Cosa significa non dormire, vigilare e vegliare? 4. Passi utili: Is 63,16-64,7; Sal 80; Rm 13,1-14; 1Ts 3,10; 1Cor 12,4-31; Mt 25,1-13. 14-30.

73. A CHE PRO QUESTO SPRECO? (14,1-11) 141 Ed era la Pasqua e gli Azzimi dopo due giorni. E cercavano i sommi sacerdoti e gli scribi come impadronirsi con inganno e ucciderlo. 2 Dicevano infatti: Non nella festa, perché non ci sia un tumulto del popolo. 3 E, mentre egli era in Betania, nella casa di Simone il lebbroso, sdraiato a mensa, venne una donna che aveva un alabastro di profumo di nardo puro, molto prezioso; infranse l’alabastro e lo versò sul suo capo. 4 E c’erano alcuni irritati in se stessi: A che pro si è fatto questo spreco di profumo? 5 Si poteva infatti vendere questo profumo a più di trecento danari e darli ai poveri. 6 E fremevano contro di lei. Ma Gesù disse: Lasciatela! Perché le date fastidio? Ha fatto un’opera bella in me. 7 Infatti sempre avete i poveri con voi, e quando volete potete far loro del bene; me invece non sempre avete. 8 Ha fatto quanto poteva,

ha anticipato di profumare il mio corpo per la sepoltura. 9 Amen, vi dico: ovunque sarà annunciato l’evangelo nel mondo intero, sarà raccontato anche ciò che lei ha fatto, in ricordo di lei. 10 E Giuda Iscariota, uno dei Dodici, se ne andò dai sommi sacerdoti per consegnare lui a loro. 11 Ora essi, udendo, si rallegrarono, e promisero di dargli danaro. E cercava come consegnarlo a tempo opportuno. 1. Messaggio nel contesto “A che pro questo spreco?”. Queste parole nei confronti della donna esprimono bene il mio sentimento davanti alla passione del Signore: perché questo spreco di amore? Non poteva risparmiarsi un po’? Chi comprende questo eccesso entra nel mistero di Dio. Con questa scena delicatissima Marco dà il la al racconto centrale della nostra fede. In tutto l’evangelo, il gesto compiuto dalla donna è l’unico che Gesù gradisce e approva senza riserve. Solo lui capisce lei e solo lei capisce lui. Ciò che essa fa è chiamato “opera bella”, “vangelo”. Il complotto per ucciderlo (vv. 1-2) e il tradimento (vv. 10-11) sono la cornice oscura che fa contrappunto alla luminosità del quadro, e indicano la situazione di chi non è dalla parte della donna. Gesù fu proclamato messia nel battesimo (1,9 s) e riconosciuto tale da Pietro dopo il pane (8,29). Ora, mentre va in croce, è consacrato da una donna. Quanto essa fa è la realizzazione piena del vangelo: “II Signore crea una cosa nuova sulla terra: la donna cingerà l’uomo” (Ger 31,22). La sposa risponde finalmente all’amore dello sposo, che la ama di amore eterno (Ger 31,3). La reciprocità d’amore tra uomo e Dio è punto d’arrivo di tutta la creazione. Il racconto è un vaso prezioso, da cui esala il profumo di molti misteri nascosti. Infatti l’unzione della donna è la consacrazione di Gesù oltre che come messia, anche come profeta, sacerdote, altare e vittima, che pure venivano consacrati con l’olio. E ci rivela anche cos’è la fede: riconoscere Gesù povero e morente come proprio Salvatore e Signore, amandolo con tutto il cuore. Inoltre quanto fa questa donna è figura di quanto farà Gesù sulla croce: il vaso del suo corpo sarà rotto, e ne uscirà per tutta la terra il profumo di Dio. In sintesi: in questa donna è rappresentata la verità di ogni uomo, sposa di Dio, che incontra la verità di Dio, sposo dell’uomo. Protagonista del brano è il profumo, che emana dal ritrovarsi dei due, impregnando e avvolgendo tutto. Come l’amore, il profumo di sua natura non può non donarsi. Invisibile a tutti e da tutti percepibile, lo si avverte anche al buio, piacere di una vicinanza gradita, gioia di una compagnia che rompe la solitudine. In ebraico profumo si dice shemen. Richiama shem (= nome), che indica la presenza di Dio tra gli uomini. Dio infatti è amore e letizia che non può non comunicarsi e donarsi. Il suo profumo si espanderà proprio dalla croce, dove il suo nome sarà conosciuto e glorificato anche dal più lontani (15,39). Nel Cantico dei Cantici Dio, mai nominato se non nel finale posteriore (8,6), ha nome “profumo effuso” (Ct 1,3). Infatti è amore amante, presente ovunque è amato.

Gesù interpreta il gesto della donna anche come vittoria sulla morte e profezia di risurrezione: lo unge prima che muoia, intuendo che il profumo non è per coprire l’odore di morte, ma per donare al Vivente. L’amore infatti è più forte della morte (Ct 8,6). Il racconto ruota su due gruppi di persone. Da una parte i sommi sacerdoti, gli scribi, Giuda e tutti gli altri; dall’altra Gesù solo con la donna e la donna in silenzio e sola con lui. In corrispondenza ci sono due gruppi di parole. Da una parte c’è: impadronirsi, inganno, uccidere, tumulto, vendere, denaro, comprare, fremere, dare fastidio; dall’altra alabastro, profumo, nardo genuino, rompere, effondere, sprecare, dare, beneficare, opera bella, vangelo. Con il primo gruppo si può scrivere tutta la storia umana, col secondo quella di Dio in Gesù. I due gruppi di persone e di parole esprimono due economie opposte. Da una parte c’è quella dell’egoismo, che si impadronisce, compra, vende con denaro, calcola e uccide, adirandosi e dando fastidio. È l’economia dell’uomo. Dall’altra c’è quella dell’amore che dona in gratuità e spreca follemente. È l’economia di Dio. Il tutto è evidenziato nel contrasto dei due odori che si succedono: la puzza di morte nella casa di Simone il lebbroso lascia il posto al profumo di vita. Gesù sta terminando il suo cammino. Dopo aver dato tutto ciò che ha, è giunto il momento in cui dà ciò che è: sulla croce si romperà il vaso, e ne uscirà il profumo. Discepolo è colui che diventa come questa donna. Ciò sarà possibile solo dopo la passione/risurrezione, come risposta all’amore del suo Signore. 2. Lettura del testo v. 1 Ed era la pasqua e gli Azzimi dopo due giorni. Si nomina per la prima volta la grande festa giudaica, che inizia con la cena dell’agnello pasquale e si protrae per una settimana, in cui si mangia pane azzimo, senza lievito. È il memoriale dell’uscita dalla schiavitù d’Egitto, promessa del mondo nuovo. Nella cronologia di Marco siamo di mercoledì, il quarto degli otto giorni in cui è scandito il finale del suo vangelo. La pasqua cadrà al sesto, di venerdì, giorno della creazione dell’uomo, e coinciderà con la morte di Gesù. La sua croce è infatti liberazione definitiva dalla schiavitù degli idoli - conosceremo chi è Dio! - e creazione dell’uomo nuovo. i sommi sacerdoti e gli scribi. Insieme con gli anziani, sono gli attori della passione. Sono come le tre maschere del male, e rappresentano la struttura del mondo nelle sue tre concupiscenza, il desiderio di avere, di potere e di apparire. Queste tre brame alienano rispettivamente dalle cose, dalle persone e da se stesso l’uomo che si è alienato da Dio. Qui non sono nominati gli anziani, la cui funzione è svolta egregiamente dai discepoli, che calcolano il dono o lo consegnano in cambio di denaro. impadronirsi. Parola chiave della passione, esprime il male radicale dell’uomo. Questi necessariamente “prende” perché è figlio, creatura che riceve quanto ha ed è. Se prende in dono rimane nella vita, unito al Padre che ringrazia e ai fratelli con cui divide. Se si “impossessa”, si separa dal Padre e si divide dai fratelli. Il peccato di Adamo e di ogni uomo è rubare il dono. La salvezza di Dio è donare ciò che è rubato. Il Figlio, dono perfetto del Padre, fatto oggetto di possesso, verrà ucciso. con inganno. Chi si impadronisce, sempre inganna; ma anche si inganna, anzi è ingannato. Credendo di procurarsi un bene, si fa il massimo male: perde la sua somiglianza con Dio.

e ucciderlo. Fine di ogni possesso è la morte. I mezzi, vedremo, saranno danari, baci, spade e bastoni (vv. 11.43 ss). Il solito gioco dell’uomo, che, senza saperlo, gioca se stesso. v. 2 Non nella festa. Invece il momento opportuno sarà proprio la festa. Infatti noi con il possesso uccidiamo il dono e la vita; ma la sua morte sarà dono incondizionato, principio di nuova gioia. perché non ci sia un tumulto del popolo. Il popolo, che finora gli è favorevole (12,37), al momento opportuno farà tumulto per condannarlo (15,11-14). v. 3 mentre era in Betania. Da qui entra ed esce negli ultimi giorni trascorsi a Gerusalemme. È diventata la sua dimora: infatti significa “casa del povero” (11, 1.11.12). nella casa di Simone il lebbroso. All’inizio del suo ministero Gesù ha guarito un lebbroso (1,40 ss). Una scena simile a questa è descritta da Luca in casa di Simone il fariseo (7,36 ss). Simone il lebbroso e Simone il fariseo sono come un’unica persona. Infatti il peccato del fariseo, che non si sente amato e non ama, non è forse una lebbra che intacca il cuore dell’uomo e ne divora la carne? Nella sua casa, graveolente di morte, entra ora il Signore della vita. Ci darà il suo profumo, e avrà in cambio il nostro fetore. sdraiato a mensa. Gesù partecipa a suo agio alla nostra mensa; condivide tutto con noi, perché noi condividiamo tutto con lui. venne una donna. Sappiamo da Giovanni che è Maria, sorella di Marta e di Lazzaro (Gv 12,1 ss). È la stessa che fa l’ “unica cosa necessaria”, scegliendo “la parte migliore, che non le verrà tolta” (Lc 10,42). Marco ne tace il nome, come pure Luca nella scena analoga, dove è presentata come la prostituta che diventa finalmente sposa (Lc 7,36ss). alabastro. Si dice il materiale di cui è fatto il vaso che contiene il profumo. È prezioso, come il corpo di Gesù, in cui abita tutta la pienezza della divinità (Col 2,9). di profumo. Ct 1,3 dice che il nome (shem) dello sposo è profumo (shemen). È il nome vero di Dio, amore e dono per tutti. Sulla croce si romperà il vaso prezioso e la sua essenza si effonderà, impregnando la terra intera. di nardo puro. Il nardo è un preziosissimo profumo orientale. La parola “puro” in greco (pistikós) richiama la parola “fede” e significa: atto a suscitare fede, ossia genuino. Questo profumo effuso non potrà non essere creduto, e susciterà necessariamente fede nel Signore, finalmente riconosciuto nella sua genuinità. molto prezioso. Si sottolinea la preziosità dei profumo. infranse l’alabastro. Non basta aprire il vaso? È necessario lo spreco perché ci sia amore. Solo rompendolo esce tutto ciò la cui misura è non avere altra misura che la totalità. versò sul suo capo. Tutto avviene in silenzio. Sul suo capo scende l’olio di letizia che lo consacra re, profeta, sacerdote, altare e vittima. E lui si compiace della bellezza di ciò che fa la sposa (Sal 45,8.12). La casa del lebbroso si riempie del profumo. Come il vaso, anche il suo corpo sarà spezzato; come il profumo, anche il suo sangue sarà riversato sulle moltitudini (v. 24).

v. 4 alcuni irritati. Marco non dice chi sono. Tra questi alcuni c’è ciascuno di noi, che si sente indisposto e a disagio davanti a tanto amore. A che pro questo spreco? È quanto ciascuno di noi si chiede davanti alla croce di Gesù. Non basta una sola goccia a lavare il mondo intero? Perché questa follia d’amore? Solo chi capisce questo è in grado di rispondere alla richiesta che Gesù fece al ricco, e così adempiere il comando dell’amore (10,21; 12,29 ss) ed entrare nel Regno. Questo infatti è la reciprocità d’amore tra uomo e Dio. v. 5 Si poteva vendere. Comprare e vendere appartiene all’economia di possesso. Chi calcola è ancora nell’egoismo e nella morte. L’amore non conosce calcolo. trecento danari. È il salario di trecento giorni lavorativi, la fatica e la vita di un anno! darli ai poveri. Chi crede che l’amore per il Signore sia sottratto ai fratelli, è come chi pensa che l’acqua della sorgente sia sottratta al secchio. Inoltre l’elemosina del superfluo non risolve la povertà, anzi la mantiene, aggiungendovi la dipendenza. Solo il dono di tutto dà inizio al mondo nuovo (cf 12,44). v. 6 E fremevano. Gesù fremette davanti al lebbroso (1,43); noi davanti al profumo. È un’ira che si esprime sbuffando. Ma la sua è contro il male, la nostra contro il bene. E siamo capaci anche di darle una motivazione nobile e religiosa. Lasciatela. Gesù ne prende le difese, approvandola totalmente. È lo specchio di quanto lui ha fatto e vuole insegnarci a fare. Perché le date fastidio? Il fastidio interiore che proviamo davanti al suo amore lo riversiamo su di lei. Vorremmo cambiare lei invece di noi. Ha fatto un’opera bella. Bella è solo l’opera come esce dalle mani di Dio, ancora non toccata dal male (Gn 1,4.12.18.21.31). Nella donna riverbera la bellezza originaria di quando egli creò il mondo e l’uomo a sua immagine. È l’inizio della nuova creazione. in me. L’opera bella ha come termine la persona del Signore Gesù: è risposta personale d’amore verso di lui, che, andando in croce, compie l’opera bella per eccellenza. v. 7 sempre avete i poveri con voi. “Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, dice colui che si è identificato con i poveri, rivestendosi della loro carne (Mt 28,20; 25,35 ss). La nostra risposta d’amore a lui, che si è fatto ultimo e servo di tutti (9,35; 10,45), è sorgente di quanto faremo per loro. Non si tratterà di un’elemosina che li umilia, ma di un amore che ci eleva alla loro dignità, che è quella del Signore stesso. v.8 Ha fatto quanto poteva. È come la vedova, che dà tutto quanto ha, tutta la sua vita (12,44). L’amore ignora il tanto e il poco: conosce solo il tutto. Come è impossibile al giusto che calcola, è invece donato alla povera vedova e alla peccatrice (cf Lc 7,36 ss). ha anticipato di profumare il mio corpo per la sepoltura. Siamo due giorni prima della sepoltura. Due giorni dopo andranno inutilmente a profumarlo. L’olio “comperato” non servirà (16,1). L’unzione

anticipata è interpretata da Gesù come preannuncio della sua risurrezione. Il profumo della donna persisterà sul suo corpo crocifisso e glorioso. Dove c’è un amore che dà tutto, c’è già vittoria sulla morte. v. 9 ovunque sarà annunciato l’evangelo. Il vangelo è il ricordo/racconto di “Gesù Cristo Figlio di Dio” (1,1). sarà raccontato anche ciò che lei ha fatto, in ricordo di lei. L’evangelo diventa racconto/ricordo di questa donna. C’è quindi identificazione tra lei e Gesù. Infatti, mediante l’amore reciproco, sposo e sposa fanno una carne sola. Questa donna è il vangelo vivo, il buon profumo di Cristo che si effonde per il mondo intero, prototipo di tutti quelli che hanno ottenuto la vita ( 2Cor 2,14 ss). v. 10 E Giuda Iscariota. Il gesto della donna è come la croce di Gesù, giudizio di Dio che discrimina. Chi non è con lei che è con Gesù, è contro di lei, alleato di Giuda e di tutti gli altri che sono contro Gesù. per consegnare lui. Ora inizia il racconto della storia del vaso prezioso, il suo corpo consegnato nelle mani dei peccatori. v. 11 si rallegrarono. Anche il male conosce una sua gioia. Ma è ingannevole, e c’è solo come promessa non mantenuta. Ne segue infatti sempre amarezza e confusione. promisero di dargli danaro. Il danaro è lo strumento normale per comprare/vendere e consegnare ciò di cui ci si vuol impadronire. Trecento denari è il valore del profumo donato; a trenta sicli, prezzo dello schiavo (Mt 26,15; Es 21,32), è svenduto il dono di Dio. E cercava come consegnarlo a tempo opportuno. Il tempo opportuno della consegna di Gesù, contro la previsione dei capi, sarà proprio la festa di pasqua. Perché la nostra pasqua è lui, immolato per noi (1Cor 5,7). 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo immaginando la casa di Simone il lebbroso, dove Gesù sta a mensa con i suoi. 3. Chiedo al Signore ciò che voglio: capire il perché dello spreco della donna e suo. 4. Traendone frutto, ascolto, vedo e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Inoltre posso considerare attentamente i due gruppi di persone e di parole, che esprimono rispettivamente due logiche e due economie: quella del dono e della vita, quella del calcolo e della morte. Sentire anche i due odori: quello della lebbra e quello del profumo. 4. Passi utili: Dt 6,4-8; Sal 45; Lc 7,36-50; Mc 12,28-34; Cantico dei Cantici; 2Cor 2,14-16; Ap 22,1720.

74. LÌ PREPARATE PER NOI (14,12-16) 12

E il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la pasqua, gli dicono i suoi discepoli: Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu mangi la pasqua? 13 E invia due dei suoi discepoli, e dice loro: Andate nella città, e vi verrà incontro un uomo che porta un vaso d’acqua. Seguitelo; 14 e, dovunque egli entri, dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov’è il mio luogo di riposo, dove io possa mangiare la pasqua con i miei discepoli? 15 Ed egli vi mostrerà una stanza superiore, grande, arredata, preparata; e lì preparate per noi. 16 E uscirono i discepoli, e vennero nella città, e trovarono come disse loro, e prepararono la pasqua.

1. Messaggio nel contesto “Lì preparate per noi”, dice Gesù ai discepoli, indicando come trovare il luogo del banchetto. È giovedì, vigilia di Pasqua. Quattro volte esce il verbo “preparare”; per questo bisogna individuare quello che il Maestro chiama “il mio luogo di riposo, dove io possa mangiare la pasqua con i miei discepoli”. Tutto il vangelo di Marco è una lunga introduzione al racconto della morte e risurrezione di Gesù, e vuol condurci a questo luogo, in cui si celebra l’eucaristia, nostra pasqua. Il brano ci suggerisce i passi necessari per prepararci alla cena del Signore, che subito dopo verrà narrata.

1. Per ben quattro volte si nomina la pasqua ebraica. Bisogna innanzitutto conoscere che cosa essa è, perché solo alla sua luce è comprensibile l’eucaristia cristiana, compimento di quella liberazione di cui l’esodo è promessa. 2. Si parla di immolare la pasqua, cioè l’agnello. Bisogna anche essere coscienti che questa liberazione avviene a caro prezzo: costa il sangue dell’agnello immolato, che è Cristo (1Cor 6,20; 7,23; 5,7). 3. Gesù inoltre prevede ciò che avviene e lo affronta con coscienza. Bisogna quindi sapere che la sua morte non è un incidente sul lavoro o una brutta sorpresa, bensì il costo preventivato - la sua per la nostra vita! 4. Gesù infine non solo sa, ma liberamente vuole, anzi preordina tutto, esattamente come nella scena dell’ingresso a Gerusalemme Bisogna allora tener presente che la sua morte è non semplicemente subita, ma il frutto di tutta la sua vita di Figlio che ama il Padre e i fratelli. 5. Oltre questo, il discepolo deve anche cercare la stanza superiore: è il problema centrale del brano. L’uomo con la brocca d’acqua, figura di colui che porta al battesimo, indicherà come trovare questo luogo dove si mangia, cioè si vive col Signore la sua stessa pasqua. Chi ne resta fuori, non gusta del grande dono. Gesù è l’agnello immolato, che coscientemente e liberamente ha dato se stesso per noi. Egli è la nostra pasqua, liberazione da ogni male. Il discepolo si “prepara” a mangiare con lui innanzitutto sapendo cos’è la pasqua, poi disponendosi, come lui, a farsi carico del male del mondo con coscienza e libertà, e infine trovando la “stanza superiore”. 2. Lettura del testo v. 12 il primo giorno degli Azzimi. È giovedì, 14 Nisan, vigilia della pasqua. Secondo vari calcoli, probabilmente siamo al 6 aprile dell’anno 30. Gesù morirà il giorno dopo, venerdì 15, giorno di pasqua. Già la vigilia si inizia a mangiare pane azzimo, simbolo di purezza, togliendo il lievito, simbolo di corruzione. Marco suppone che si conosca la pasqua ebraica. Essa è innanzitutto liberazione dagli idoli che schiavizzano. Segna inoltre la fine dell’oppressione dell’uomo da parte dell’uomo, perché Dio non tollera l’ingiustizia. È infine rottura con il peccato e con la morte, attesa di cieli nuovi e terra nuova. Tutti questi vari significati della pasqua ebraica sono la promessa che trova compimento nella croce di Gesù, e servono per capirne pienamente la portata. quando si immolava la pasqua. Pasqua sta per agnello pasquale. La nostra pasqua è Cristo, immolato per noi (1Cor 5,7). Lui è l’agnello senza difetto e senza macchia, già preparato prima della fondazione del mondo 1Pt 1,19 s), che si fa carico del peccato del mondo (Gv 1,29). La pasqua di Gesù è martirio, ossia testimonianza di un amore più forte di ogni male e della stessa morte, capace di farsi solidale coi fratelli fino alla debolezza estrema: “Fu crocifisso per la sua debolezza” (2Cor 13,4). Mangiare la pasqua con lui significa essere associati alla sua stessa passione per il mondo, disposti a pagarne i costi, che assumiamo liberamente, nonostante le paure e le resistenze contrarie (cf vv. 32 ss; Mt 5,11; At 4,23 ss; 5,41; 14,22; 20,23; Eb 12,8 ss; Gc 1,2 ss; 1Pt 1,6 ss; 2,19). Dove vuoi che andiamo a preparare. Il problema è trovare il luogo “dove” preparare la pasqua.

perché tu mangi la pasqua. Gesù in prima persona mangia (“tu mangi”), ossia vive questa pasqua in cui dà la propria vita. v. 13 vi verrà incontro un uomo che porta un vaso d’acqua. Secondo i Padri, quest’uomo che porta l’acqua ( in greco bastázon = che porta, richiama baptizon = che battezza) è colui che, dando il battesimo, introduce nella sala superiore, dove si celebra l’eucaristia. Tocca a lui indicare questo luogo. La brocca di cotto, in greco kerámion, in ebraico marekah, richiama il nome di Marco, autore del vangelo, nella cui casa forse si svolse l’ultima cena e nacque la prima Chiesa (cf At 12,12). Seguitelo. Lui lo conosce bene questo luogo, da cui viene e al quale vuole portare tutti. v. 14 Il Maestro dice. È l’unica volta che Gesù chiama se stesso Maestro. Lui è il solo Maestro interiore; noi tutti siamo suoi discepoli, ascoltatori di lui, parola del Padre che apre il nostro cuore alla verità (cf At 16,14). Dov’è il mio luogo di riposo. Il Maestro ha un luogo che chiama “mio” perché è solo suo, da sempre; qui lui trova “riposo”, perché qui sta di casa. La stessa parola (katá1yma) è usata da Luca per indicare anche il luogo in cui Gesù nasce (Lc 2,7). In questo luogo infatti il Figlio nasce in noi e noi nasciamo figli: è il vero “natale dell’anima” (M. Eckhart). dove io possa mangiare la pasqua. Qui lui mangia, ossia vive il suo mistero pasquale. con i miei discepoli. Qui la sua pasqua diventa nostra: noi mangiamo con lui, entrando in comunione di vita con lui. v. 15 egli vi mostrerà una stanza superiore. Questo luogo sta in alto, fuori dalle comuni occupazioni in cui l’uomo abita. Questa stanza superiore è il luogo “teologico” in cui si realizzano tutti i misteri della nostra fede. Qui Gesù dà il suo corpo e appare risorto; qui gli undici dimorano con Maria e gli altri, e, perseverando in preghiera, ricevono lo Spirito (At 2,1ss); qui si ritrova la prima comunità per ascoltare la Parola e condividere il pane, celebrare l’eucaristia e pregare (At 2,42); fino ad At 12,12, da qui parte e qui arriva ogni missione. Non si tratta solo di un luogo materiale in cui si svolgono gli ultimi avvenimenti di Gesù e i primi della Chiesa. Nuovo tempio in cui si rende culto in spirito e verità (Gv 4,24), la “stanza superiore” è il mio stesso cuore, in cui abita l’uomo nascosto del cuore (1Pt 3,4), l’uomo interiore (Ef 3,16), che fa del mio corpo il tempio dello Spirito (1Cor 6,19). Qui posso comprendere con tutti i santi l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, per essere ricolmo di tutta la pienezza di Dio (Ef 3,17 s). Qui vedo e gusto quanto è buono il Signore (Sal 34,9) e ricevo il mio essere me stesso da lui, che è a me più intimo di quanto non lo sia io (Agostino). Il “dove” della pasqua è la mia verità profonda: lui che vive in me, e mi fa essere ciò che sono. Questo luogo è il centro della mia persona, il fondo e l’occhio dell’anima, la punta dello spirito, la sorgente dell’io, la mia finestra su Dio, l’abisso di luce da cui scaturisco e dove io dico a lui ciò che lui da sempre dice a me : “Eccomi”. È il mio essergli figlio in Gesù, nel quale, per mezzo dei quale e per il quale sono creato ed esisto. Questo luogo non lo raggiungo con complicate speculazioni trascendentali. Mi viene insegnato da colui al quale chiedo, secondo la parola del Maestro. E questi mi dice semplicemente come il Signore abita in me per mezzo della fede ( Ef 3,16), e come io posso dimorare sempre più stabilmente in lui, ascoltando la sua parola che ha la capacità di manifestarsi al mio cuore (Gv 14,23). Qui, al suono della voce esterna, il Maestro fa risuonare la sua parola interna. È nascosta e spirituale; come il vento, si fa percepire dal movimento che ravviva dove passa. Queste “mozioni” sono oggetto di “discernimento” in

ordine a ogni “decisione”, che voglia produrre un’“azione” conforme alla volontà di Dio. Il cuore in questo senso sta al centro dell’etica cristiana (cf 7,6.21). Queste “mozioni” sono inoltre oggetto di “comunicazione” tra i fratelli, principio di “comunione” e fondamento della “comunità” - fatta appunto da persone che mettono insieme le risonanze dello Spirito, come una molteplicità di note che si compone in un’unica armonia. Chi non entra nel proprio cuore e non percepisce ciò che si muove dentro, resta fuori dal luogo vitale del cristianesimo. Rimane nell’ambiguità o nella falsità, nella legge o nella menzogna. Preparare la pasqua e cenare col Signore significa accedere a questa stanza superiore. Chi la raggiunge non è mai solo. È sempre “consolato” da colui che sempre gli è presente come suo Dio, amore eterno e reciproco tra Padre e Figlio. Qui, al di fuori da tutti i rumori e gli stordimenti, scopro la mia verità, che è la sua presenza e il suo amore per me. Qui la sua parola risuona in me, portando luce, fiducia, gioia, pace, forza e libertà di amare. Qui entro finalmente in comunione col mio io, con Dio e con gli altri: è il luogo della Chiesa. grande, arredata preparata. Sono le caratteristiche della stanza superiore, riposo suo e anche mio, dove lui mangia con me. Essa è “grande”, tanto grande da contenere il Signore stesso e tutti gli uomini in un’unica comunione di figli col Padre; è “arredata”, ossia adorna di tappeti, piena di ogni comodità e bellezza; è “preparata”, pronta da sempre ad accogliere la venuta del suo Signore, perché fatta per questo. lì preparate per noi. La stanza c’è ed è già preparata; come l’agnello pasquale è già preparato prima della creazione del mondo (Ap 13,8 Vg.). Manca ancora solo il mio ingresso in essa, seguendo l’uomo che porta il vaso d’acqua. Questa è la preparazione ultima. v. 16 trovarono come disse loro. Chi ascolta la parola dei Maestro ha la sorpresa di trovare che è vero quanto lui dice. prepararono la pasqua. Nel finale si sottolinea ancora, come all’inizio, “la preparazione” della pasqua. Ora sappiamo come e dove. Seguirà la cena pasquale, in cui riceviamo il dono del corpo e del sangue del Signore. “Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo immaginando Gesù fuori Gerusalemme, probabilmente in Betania, che inizia e istruisce i suoi discepoli su come prepararsi per mangiare la pasqua. 3. Chiedo al Signore ciò che voglio: mi insegni a pregare, mi introduca nella stanza superiore, mi doni conoscenza, disponibilità al sacrificio e libertà per mangiare con lui. 4. Medito esplicitando i seguenti punti del racconto: Cos’è la pasqua ebraica. Come la morte di Gesù compie ogni promessa. L’atteggiamento di Gesù davanti alla sua morte: sa e accetta liberamente la sua passione. La stanza superiore: vederne le caratteristiche; come e dove cercarla e trovarla. 4. Passi utili: 1Pt 2,19; Mt 5,11 s; At 5,41; 1Pt 1,6-9; Gc 1,24; Eb 12,1-12; 2Cor 11,21b-12,10; Col 1,24: 2Re 4,8-10; Sal 16; 1Cor 6,19; Ef 3,14-19; 1Pt 3,4; Ap 3,20.

75. UNO DI VOI MI CONSEGNERÀ (14,17-21) 17

E, fattasi sera, viene con i Dodici. 18 E, mentre stavano sdraiati e mangiavano, Gesù disse: Amen, vi dico: uno di voi mi consegnerà, che mangia con me. 19 Cominciarono a rattristarsi a dirgli uno ad uno: Forse io? 20 Ma egli disse loro: Uno dei Dodici, il quale intinge con me nel piatto. 21 Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma ahimè per quell’uomo per mezzo del quale il Figlio dell’uomo è consegnato. Bene per lui se non fosse nato quell’uomo. 1. Messaggio nel contesto “Uno di voi mi consegnerà”, dice Gesù l’ultima sera che passa con i suoi. Poi viene la notte. Siccome per gli ebrei il tramonto del sole segna il cambio di data, siamo all’inizio di venerdì, suo sesto giorno a Gerusalemme. Nel racconto della Genesi in questo giorno Dio creò l’uomo, che subito si allontanò da lui. Da allora cominciò a cercarlo, percorrendo ogni lontananza per raggiungerlo. La croce, ormai imminente, sarà il punto più lontano, oltre il quale non può fuggire. Lì finalmente lo incontrerà. È il momento più importante di tutta la creazione, in cui Dio corona il suo desiderio così a lungo vagheggiato: abbracciare colui che ama. Seguendo la tradizione, Marco, di solito così sommario nelle sue indicazioni di tempo, scandisce ogni ora di questo giorno, che inizia col tramonto, si prolunga nelle diverse veglie notturne, culmina nell’oscurarsi del sole meridiano e termina con la deposizione vespertina nel sepolcro. È un giorno di tenebra, un’unica notte dal principio alla fine, in cui il Signore entra in tutte le nostre notti e l’uomo conosce molte notti! D’ora in poi il racconto è un concerto, una lotta tra la passione infinita di Dio per l’uomo e l’indifferenza mortale di questi nei suoi confronti. La narrazione procede in un gioco costante di luce e di ombre: la luce del mondo si perde in tutte le nostre ombre, e le illumina della sua presenza.

Sdraiato a mensa con i suoi, il Signore della vita annuncia la sua morte per noi, e si offre come cibo e bevanda a noi che lo uccidiamo. Davanti a lui che si dona, si evidenzia il nostro peccato. “A che pro tutto questo spreco?” (v. 4). Ogni discepolo, che sta con lui attorno alla stessa tavola, si chiede: “Sono forse io colui che tradisce e lo consegna alla croce?”. La risposta è facile. Se non sono dalla parte di Gesù e della donna di Betania, sono tra coloro che lo vendono, lo comprano, lo consegnano, lo prendono e lo uccidono. Se non sono nell’economia dell’amore e della vita, sono in quella dell’egoismo e della morte. Se non vivo il dono che ricevo donando a mia volta, sono chiuso nell’inferno del mio io, nemico di me, degli altri e di Dio. Nell’ultima cena, davanti all’amore di Gesù che dà se stesso, la nostra cecità si fa evidente: siamo diversi da lui, immersi nella tenebra più profonda. Giuda non è il mostro che siamo abituati a pensare. È “uno dei Dodici”, come si dice sempre di lui; “uno di voi”, “che mangia con me”, “che intinge con me nel piatto”, dice Gesù. Egli ha tanti fratelli quanti sono gli uomini. Il suo è il mio stesso peccato, a causa del quale il Signore muore; è il peccato del mondo, dove ciascuno di noi ha la sua quota di partecipazione. Il suo è “il” male dal quale devo essere salvato. Esso consiste, più che nel vendere il dono, nel rifiutarne il perdono: “Ho sbagliato, quindi pago!” (cf Mt 27,30). Il suo suicidio, tentativo estremo di autogiustificazione, è l’ultimo frutto del primo peccato - quello di Adamo che, non conoscendo l’amore gratuito di Dio, pensa di guadagnarselo facendo il giusto o di punirsi quando è ingiusto. Se Giuda ignora il suo amore - e per questo lo rifiuta Gesù, morendo per lui, glielo rivela. Questa è l’essenza del vangelo: Dio è amore infinito e incondizionato per tutti i peccatori. Il Signore, nel tradimento e nel suicidio di Giuda, ha certamente sperimentato il fatto più sconvolgente: la tragedia di un amore fallito. Possiamo a buon diritto affermare che è morto per lui, prima che per tutti gli altri. Infatti l’amore non ha altra misura che il bisogno dell’amato. Gesù si dona a una comunità di persone che lo tradiscono, rinnegano e fuggono. Sa già che, nonostante la buona volontà, non siamo in grado di fare altro. E si dona non “nonostante”, bensì “per questo”. Lo annuncia in anticipo perché sappiamo che il suo amore, libero e sovrano, si riversa su di noi gratuitamente, non per i nostri meriti, anzi prevedendo i nostri demeriti. Noi invece vorremmo sempre un amore meritato, senza accorgerci che, se è meritato, non è amore. Sarebbe debito e non dono. Il discepolo trova in Giuda la sua prima identificazione - poi ce ne saranno altre - se vuol comprendere che Gesù muore per lui. Il preannuncio del peccato serve ad assicurargli che il suo amore fedele resiste ad ogni male, peraltro già preventivato. La nostra miseria è il recipiente della sua misericordia. Il nostro peccato è la nostra parte di vangelo. L’altra è il suo perdono, che fa della nostra perdizione il luogo della sua salvezza. 2. Lettura del testo v. 17 fattasi sera. Con il calar delle tenebre inizia il nuovo giorno: è già pasqua. viene con i Dodici. Gesù ha fatto i Dodici per essere con lui (3,14). Sono con lui perché lui è con loro, nella stanza superiore per cenare insieme. v. 18 Amen, vi dico. Gesù non ama fare previsioni sul futuro (cf 13,32). Ha usato la sua preveggenza solo per dirci come trovare l’asinello (11,13s) e la stanza superiore (vv. 12ss), le due cose fondamentali da cercare. Ora ci predice anche il nostro peccato. Parla con autorità divina, dicendo: Amen. Il nostro peccato è la prima verità di fede che ci garantisce il vangelo. È la nostra stessa verità, uguale e contraria a quella di

Dio che è perdono. “Certa è questa parola: se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2Tm 2,11-13). uno di voi. Con queste parole Gesù non vuole indicare o scoprire il colpevole. Dichiara solo il male e la nostra solidarietà con chi lo compie: è uno di noi. mi consegnerà. Il Signore si consegna a chi se ne impossessa e lo dà ai nemici: si dona a chi lo prende e lo butta via. Giuda non compie un gesto unico ed eccezionale nella sua tragicità. Cerchiamo di capirlo attraverso lo stesso racconto di Marco. Anch’egli, come tutti gli altri, fu chiamato perché amato (3,13), e ha risposto perché cercava il regno di Dio. È solo caduto nell’equivoco, comune a tutti, di confonderlo con la realizzazione del proprio io. Di conseguenza cerca quei mezzi normali che a tale fine si usano: l’avere, il potere e l’apparire. Più che lui, è Gesù il “traditore”, perché ha deluso le sue attese. Giuda, come gli altri discepoli, deve essere entrato in crisi quando vede che lui evita il successo e comincia a mostrare la sua “follia” e la sua debolezza (cf 1,35 ss; 3,19 ss; 6,6b-13.39.45; 8,11-21.31-33; 9,32 ss; 10,32 ss). Giuda, in fondo, invece di seguire Gesù, persegue in lui i propri desideri: cerca nel Regno la propria realizzazione, e lui dovrebbe essere strumento per conseguirla. Ma lo stesso vale anche per Pietro (8,33), Giacomo e Giovanni ( 10,36 ss) e tutti gli altri (9,34; 10,41). Nessun discepolo accetta come proprio Salvatore e Signore il messia povero e umile che va in croce. Giuda rappresenta ciascuno di noi, che, con il nostro senso religioso, più o meno buono, e con il nostro buon senso, più o meno religioso, pensiamo sempre istintivamente non secondo Dio, ma secondo gli uomini, alias secondo satana (8,33). che mangia con me. È citazione dal Sal 41,10, che parla di un infelice perseguitato e abbandonato dagli amici: “Anche l’amico, in cui confidavo, anche lui, che mangiava il mio pane, ha alzato contro di me il calcagno”. v. 19 Cominciarono a rattristarsi. Si rattristano non solo per il destino di Gesù, ma anche per la scoperta della propria connivenza col traditore. Diversamente si sarebbero solo adirati o sdegnati. Invece si accorgono di essere tutti coinvolti nello stesso male, come risulta dalla domanda che fanno. e a dirgli uno ad uno. eucaristica.

Questo esame di coscienza si impone a chiunque sta attorno alla mensa

Forse io? Tutti iniziano, a uno a uno, a identificarsi nel traditore. Nessuno si sente affidabile; ognuno sa di non avere il pensiero di Cristo, e scopre latente il proprio tradimento. Lui si dona, e io cosa faccio? Non sono forse dall’altra parte? v. 20 Uno dei Dodici. Gesù conferma la verità della loro sensazione, e sottolinea ancora una volta la solidarietà loro col traditore: “Uno di voi”. Non è un estraneo. È loro fratello, anzi gemello. intinge con me nel piatto. Tutti stanno mangiando dallo stesso piatto, in un gesto d’intimità familiare. v. 21 Il Figlio dell’uomo se ne va. Gesù se ne va, ossia muore, per questo peccato comune a tutti noi. come sta scritto di lui. Non che Giuda debba recitare un copione prestabilito, in cui gli tocca fare questa brutta parte. L’uomo fa il male perché, dopo il peccato, non può fare diversamente. Ma Dio lo sa; e nel

suo amore ha fissato un piano di salvezza che ne tiene conto: il Figlio dell’uomo se ne va, portando su di sé il male di ogni uomo. Questo sta scritto di lui. ahimè per quell’uomo. Non è una minaccia, ma un lamento di dolore. Gesù è dispiaciuto del male che si fa chi gli fa del male. “Ahimè” significa “mi dispiace”, “sento dolore”. Realmente il male dell’amato ricade su chi ama. La croce di Gesù è il dolore di Dio, il suo ahimè per il male del mondo. Bene per lui se non fosse nato quell’uomo. Non è maledizione ma avvertimento, perché Giuda prenda coscienza del male che sta facendo a se stesso, male così grave da distruggere la sua vita. Queste parole di Gesù rivelano la sua infinita misericordia: si preoccupa non di sé, ma del destino di chi lo uccide. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo immaginando la stanza superiore, dove Gesù è sdraiato a tavola con i suoi. 3. Gli chiedo: sono forse io a tradirti? Che io scopra il mio peccato. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Mi fermo su ogni espressione del testo, identificandomi con tutti i discepoli, Giuda compreso, che gli chiedono l’uno dopo l’altro: “Sono forse io?”. 4. Passi utili: Is 54,7-10; Os 11; Sal 41; Rm 5,6-11; 2Tm 2,11-13.

76. QUESTO È IL MIO CORPO QUESTO È IL MIO SANGUE DELL’ALLEANZA (14,22-26) 22

E mentre essi mangiavano, preso del pane, benedicendo lo spezzò, e diede loro e disse: Prendete, questo è il mio corpo. 23 E, preso un calice, rendendo grazie, lo diede loro, e ne bevvero tutti; 24 e disse loro: Questo è il mio sangue dell’alleanza,

il quale è versato per molti. 25 Amen, vi dico: Non berrò più dal frutto della vite, fino a quel giorno in cui lo beva nuovo nel regno di Dio. 26 E, cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. 1. Messaggio nel contesto “Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue dell’alleanza”, dice Gesù sul pane e sul vino nell’ultimo pasto coi suoi. Un sacrificio - qualunque esso sia - dell’uomo a Dio, fa parte di ogni religione. Il cristianesimo invece si fonda sul sacrificio di Dio all’uomo. Questo brano ci presenta l’istituzione dell’eucaristia. L’ultima pasqua di Gesù diventa cena dell’Agnello, il banchetto in cui ci nutriamo di lui, facciamo memoria della sua passione, ci abbeveriamo del suo Spirito e riceviamo il pegno della gloria futura. “Culmine e fonte di tutta la vita cristiana” (Lumen Gentium, 11), l’eucaristia veramente “è tutto e ci dà tutto” (G. Dossetti): è tutta la creazione che si fa corpo del Figlio, è l’umanità intera assunta nella sua carne, è Dio che si dona all’uomo. Tutto il vangelo porta ad essa e parte da essa. L’annuncio infatti ha come fine quello di introdurci nella stanza superiore, perché possiamo vivere di lui che è morto per noi, e ha come principio la vita nuova che da lui scaturisce. Parola e Pane non sono solo intimamente congiunti: la Parola si fa Pane. Questo breve testo è il nucleo genetico del Nuovo Testamento. I fratelli, riuniti a mensa per celebrare la memoria del Signore morto e risorto, asceso al cielo e presente in mezzo a loro, ricordano e raccontano ciò che ha detto e fatto, realizzando le varie promesse dell’Antico Testamento che illustrano un aspetto sempre nuovo del dono di cui vivono nell’attesa del suo ritorno. I vangeli sono nati per comprendere il mistero che si celebra nell’eucaristia, sintesi e compimento, in modo sovraeminente, di tutte le Scritture. Infatti, se queste sono memoria di quanto Dio ha fatto per noi, l’eucaristia celebra ciò che lui si è fatto per noi, facendoci il dono dei doni: donandoci se stesso. Dio non può darci nulla di più di questo pane, che davvero contiene ogni delizia (Sap 16,20). In esso il suo amore raggiunge il suo fine: unirsi a noi e farsi nostra vita. Le predizioni del tradimento e del rinnegamento, che racchiudono il racconto, evidenziano il senso profondo dell’eucaristia: è un amore totale e assolutamente gratuito, che si dona a chi tradisce e lo misconosce. La gemma più preziosa di tutta la Bibbia è incastonata nel nostro peccato, che solo racchiude la misericordia di Dio, anzi Dio misericordia. Il perdono del suo amore, fedele oltre ogni nostra infedeltà, riversa su di noi la sua essenza più recondita. Adoriamo l’umiltà di Dio, che, per essere desiderato da chi ama, si fa pane, suo bisogno fondamentale. Mangiare non è solo introiettare, ma anche vivere - si vive di ciò che si mangia. E non è neppure solo assimilare, ma anche in qualche modo essere assimilati - si diventa ciò che si mangia. Per questo chi mangia di questo pane, che è il Figlio, vive di lui e diventa figlio. Veramente l’eucaristia è la forza divinizzatrice in cui ci “ri-cordiamo”, ossia portiamo al cuore, al centro della nostra persona, il dono che lui ci fa di sé, per assumerlo e assimilarci a lui. Essa è il “sì” reciproco e totale tra il Creatore e la sua creatura, rapita nella compiacenza e nell’amore mutuo Padre/Figlio, che abbraccia tutti e pervade tutto. Per essa siamo incorporati pienamente in Cristo, nel quale siamo ciò che siamo secondo Dio. Questa è la vita eterna pregustata e anticipata, seme che cresce fino alla sua misura piena e si moltiplica fino a raggiungere tutti gli uomini.

Per essa ancora diventiamo “martiri”, testimoni memori di Gesù, vivendo già, nell’attesa del suo ritorno, la sua gioia di Figlio, in perenne lode al Padre e armonia coi fratelli. Gesù, dopo averci restituiti a noi stessi, ci fa ora il dono di sé, per renderci come lui, figlio del Padre. Il suo corpo e il suo sangue dati per noi rivelano Dio come amore assoluto e infinito; e insieme ci donano di diventare per grazia ciò che lui è per natura. L’eucaristia realmente divinizza l’uomo. Ma senza alcuna confusione: distinto da Dio, è realmente unito a lui in un unico amore e in un’unica vita. Il discepolo conosce l’indegnità propria e la dignità del dono; e vive questa distanza con amore gioioso, silenzio adorante e canto di lode. È la vita filiale, sorgente di vita fraterna. Attorno alla mensa, nella comunione con lui, nasce la comunità tra di noi. Se è vero che la Chiesa fa l’eucaristia, è perché ancor prima l’eucaristia fa la Chiesa. 2. Lettura del testo v. 22 mentre essi mangiavano. È la cena pasquale, preparata il giorno prima nella stanza superiore, dove lui mangia con noi e noi con lui. Mangiare insieme è vivere insieme, essere compagni, che condividono lo stesso pane, lo stesso cammino e la stessa meta. preso. Prendere è l’azione che costituisce la creatura. Ha la vita, ma non è la vita; tutto riceve: “Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?” (1Cor 4,7). Ma ci sono due modi di prendere: con la mano aperta per accogliere il dono, o con la mano chiusa per rapirlo. del pane. Il pane, che alimenta di continuo la vita, è figura di ogni dono di cui l’uomo vive, e soprattutto del dono che lo fa uomo: la parola d’amore del Padre che gli dà la vita del Figlio. Per l’eucaristia Gesù prende il pane e il vino, non il frumento e l’uva. Non solo il frutto della terra - la semplice natura - ma anche quello dell’uomo - la sua storia e la sua cultura - è assunto nel corpo del Figlio. benedicendo. Anche Adamo prese, ma rubando con invidia, senza riconoscere il dono e senza benedire colui che dà ogni bene. Impadronirsi del dono significa distruggerlo nella sua natura e staccarsi da chi dona. Prendere benedicendo invece significa ricevere come dono ed entrare in comunione col donatore. Nella benedizione ogni briciola di vita ritrova la sua sorgente; ogni realtà, per quanto piccola, diventa segno di un amore infinito, che solo sazia la fame dell’uomo. Altro pane, per quanto ne accumuli, non fa che accrescerla, fino a ucciderlo. Gesù, il Figlio è l’unico che prende il pane e benedice, ossia riceve se stesso e la propria vita come dono d’amore del Padre. lo spezzò. Prendere con benedizione dal Padre comporta il condividere coi fratelli. Il dono d’amore diventa capacità di donare per amore, perché uno ama se e come è amato. Ma vivere l’economia del dono in quella del possesso esige il sacrificio di sé, perché non c’è ancora reciprocità. L’amore non corrisposto comporta la morte di chi ama, il quale arriva a donare la vita a chi gliela rapisce. Il suo corpo donato, portando su di sé tutta la maledizione del nostro rifiuto, diventerà pane spezzato per noi, fonte perenne di ogni benedizione. Il vaso è rotto e lascia uscire tutto il profumo.

e diede loro. Gesù “prende”, “benedice”, “spezza” e “dà”: mantiene il circolo vitale del dono, senza interromperlo col possesso. La vita è come il respiro: se lo tieni, soffochi. Gesù prende e dà perché benedice e spezza, vivendo in ciò che prende l’amore del Padre e in ciò che dà l’amore dei fratelli. Egli è il Figlio, perché prende con gioia; è uguale al Padre, perché dà. e disse. La sua parola creatrice fa quanto dice e dice il significato di quanto fa. Prendete. Questo imperativo è un invito a “prendere” il dono di Dio. Adamo, non temere di allungare la mano! Realmente con questo frutto ti rende uguale a sé. Ti ha dato tutto, anche te stesso. Ora ti dona se stesso, perché tu lo prenda e viva di lui. Per questo ti ha fatto e questo è il desiderio che lui ha messo nel profondo del tuo cuore. Se così non fosse, il nemico non ti avrebbe potuto ingannare, dicendoti: “Diventerete come Dio” (Gn 3,5). Tu non ci vieti, anzi ci comandi di prenderti. Desideri essere preso da noi. Ci offri la tua comunione con noi, perché noi desideriamo la nostra con te. questo è il mio corpo. Ogni pane è dono del Padre, vita del Figlio. Ora il corpo di Gesù, il Figlio, si fa nostro pane, dono perfetto del Padre a tutti i suoi figli. In esso Dio, dandoci se stesso, ci dà di essere noi stessi, nella nostra verità di suoi figli. v. 23 E, preso il calice. È il calice del vino, figura del sangue, che è vita, amore ed ebbrezza. rendendo grazie. Il sostantivo greco di questo verbo è usato da noi per indicare l’“eucaristia”. Rendere grazie (eu-charisteîn) è qualcosa di più che benedire. Infatti contiene, oltre la parola bene (eu), una parola che significa “grazia” (cháris), ossia bellezza, dono, favore, amore gratuito. Indica tutto quel complesso di atteggiamenti trasformanti che esprimono la gioia dell’amore, radice di ogni benedizione. Si bene-dice con la bocca, esprimendo la festa di un cuore eucaristico, grato per il dono. diede. La gioia del dono è forza per donare. ne bevvero tutti. I semiti non bevono sangue. È vita, e appartiene solo a Dio. Chi prende e mangia il corpo del Figlio, beve la vita di Dio: ha il suo Spirito. v. 24 e disse. Le parole sul calice, identificando il vino col suo sangue, dichiarano anche il senso della sua morte come nuova alleanza, sacrificio di espiazione e salvezza per tutti. Questo è il mio sangue. Il corpo e il sangue di Gesù sono nominati separatamente. Sullo sfondo c’è la croce, sacrificio cruento e mortale, che divide il corpo dalla sua vita. Il suo sangue diventa nostra bevanda: la sua vita si fa nostra, il suo Spirito nostro. dell’alleanza. L’alleanza si faceva in un contesto di sacrificio e di banchetto di comunione. Chi l’infrangeva, veniva maledetto, destinato a finire spaccato in due come le vittime attraverso le quali si passava per concludere il patto (Ger 34,18: cf Gn 15,17). Ma noi prima che la conoscessimo, l’abbiamo trasgredita (cf il vitello d’oro: Es 32). Il male, che avrebbe dovuto colpire noi, è invece ricaduto su di lui (Is 53,5). Infatti, quando fece la promessa ad Abramo, fu lui solo a passare come fuoco tra le due metà delle vittime squartate (Gn 15,17). Colpito dalla lancia, il suo petto sarà squarciato; e ne scaturirà il sangue dell’alleanza: “Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha concluso con voi” (Es 24,8). Questo sangue, come quello che Mosè asperse sull’altare e sul popolo (Es 24,6.8), unisce l’uomo a Dio, rendendoli consanguinei. Questa alleanza è nuova (Lc 22,20; Ger 31,31) e sarà eterna (Ez 16,60; Os 2,16-25). È “nuova” rispetto a quella antica, che era bilaterale. Infatti è unilaterale: Dio si impegna con noi, perché lui è

misericordioso e ci salva, non per la nostra giustizia, ma per il suo amore e la sua fedeltà verso di noi. Quella antica, con la legge, era necessaria come pedagogo (Gal 3,23) per condurci a questa, che è nuova, sotto il segno della grazia, in cui conosciamo chi è veramente il Signore: amore senza condizioni e perdono (cf Ger 31,33 s). Questa alleanza inoltre è “eterna”, perché non possiamo più infrangerla. Qualunque cosa facciamo, anche se lo mettiamo in croce, lui rimane sempre fedele al suo amore per noi, “perché non può rinnegare se stesso” (2Tm 2,13). “A stento si trova chi sia disposto a morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi, perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,7s). Ora “se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Chi accuserà gli eletti di Dio, se Dio giustifica?” (Rm 8,31.33). Per questo Paolo dice di essere persuaso che “né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore che Dio ha per noi in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8,31 ss). il quale è versato per molti. La sua vita e il suo Spirito è donato senza misura e per tutti, nessuno escluso. Queste parole nel contesto richiamano Is 53,11 s, in cui si parla del servo che versa la sua vita in espiazione del peccato di tutti e giustifica le moltitudini. Infatti “egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siano stati guariti” (Is 53,5). Bisogna stare attenti a non pensare un Dio come padre cattivo che castiga il suo figlio unico e buono al nostro posto. Non ci può essere distorsione peggiore del cristianesimo. Dio è buono, Padre d’immenso amore per tutti. Il Figlio, che lo conosce e ha il suo stesso amore, porta su di sé tutti i nostri mali per liberarcene. v. 25 Amen, vi dico: Non berrò più dal frutto della vite. Il nostro primo calice di vita è per lui l’ultimo, che contiene la sua morte. fino a quel giorno in cui lo beva nuovo nel regno di Dio. Il vino è bevanda della terra promessa. Gesù sarà pellegrino nel mondo, digiuno e abbeverato di morte, fino a quel giorno in cui l’ultimo fratello non si sarà arreso alla conoscenza dell’amore del Padre. Quando la sua casa sarà piena di tutti i suoi figli, sarà il regno di Dio. Fino allora Gesù continuerà a bere il calice di morte per dare a noi il calice di vita. Quanti ne bevono, sono a loro volta spinti dal suo stesso amore di Figlio verso i fratelli che ancora non conoscono il Padre (2Cor 4,12). Lo scarto tra ciò che celebriamo nell’eucaristia e ciò che vediamo nel mondo sta all’origine della missione. Essa lo colma, portando a tutti la parola e il pane della misericordia. Infatti questo cibo è necessario per tutti. A quelli che sono naufraghi nel mare in tempesta, digiuni con lui nella stessa barca carica di frumento, Paolo dice: “Vi esorto a prendere cibo; è necessario per la vostra salvezza”. E preso il pane, rese grazie davanti a tutti, lo spezzò e cominciò a mangiare “Tutti si sentirono rianimati, e anch’essi presero cibo” (At 27,34-37). È la sua messa sul mondo! v. 26 cantato l’inno. È il grande Hallel (Sal 136), che segue il piccolo Hallel (Sal 113-118). un salmo che, passando in rassegna i doni della creazione e della storia - giungendo fino al momento presente in cui Dio dà il cibo ad ogni vivente - ripete a ogni riga il ritornello: “perché eterna è la sua misericordia”. Queste parole dicono il perché profondo di tutta la creazione e di tutta la storia. Dopo l’eucaristia anche noi comprendiamo che la sua misericordia eterna è il perché ultimo di tutto quanto c’è e accade: è il trionfo del suo amore su tutto il male del mondo. Non possiamo che danzare di una gioia che nessuno può ormai rapirci. A noi, che abbiamo compiuto il massimo male uccidendo suo Figlio, Dio concede il massimo bene, donandoci la vita del Figlio. Ora comprendiamo che la sua

misericordia è eterna e onnipotente, capace di capovolgere in bene ogni male e di salvare tutto e tutti. Di questo faccio perenne eucaristia. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo immaginando la stanza superiore, dove Gesù sta a mensa coi Dodici. 3. Gli chiedo ciò che voglio: prendere il suo corpo e bere il suo calice, gustare e vivere di lui. 4. Fermarmi ad assaporare ogni parola. È la sintesi di tutta la rivelazione, realizzazione di ogni promessa, che ogni giorno vivo e celebro nell’eucaristia. 4. Passi utili: Ger 31,31-34; Ez 36,22-30; Sap 16,20-29; Sal 16; 23; Gv 6,26-58; At 27,27-38; 1Cor 11,17-33.

77. TRE VOLTE MI RINNEGHERAI (14,27-31) 27

E dice loro Gesù: Tutti sarete scandalizzati, perché sta scritto: Percuoterò il pastore, e le pecore saranno disperse. 28 Ma, dopo che sarò risuscitato, vi precederò in Galilea. 29 Ora Pietro gli diceva: Anche se tutti saranno scandalizzati, io però no! 30 E gli dice Gesù: Amen, ti dico: Tu oggi, in questa stessa notte, prima che il gallo canti due volte, tre volte mi rinnegherai. 31 E lui all’eccesso parlava: Anche se bisogna che io muoia con te, non ti rinnegherò. Ora lo stesso dicevano anche tutti. 1. Messaggio nel contesto

“Tre volte mi rinnegherai”. Così inizia il battesimo di Pietro, al quale Gesù fa prendere coscienza delle due verità di fede fondamentali: il peccato dell’uomo e il perdono di Dio. Se in Giuda vediamo il male, in Pietro vediamo il “bene”, dal quale Cristo ci salva. È quel bene che fa da manto all’orgoglio, essenza di ogni male. Presente in quantità variabile nel peccatore normale, è concentrata allo stato puro nel “giusto”. Davanti al suo amore che si consegna per tutti, Gesù prevede e predice la caduta di Pietro e di tutti. Ma la sua grazia, lungi dal venir meno, si manifesta pienamente nel cedimento dei discepoli, e promette la sua fedeltà fin oltre la morte: “Dopo che sarò risuscitato, vi precederò in Galilea” (v. 28). Il nostro peccato, in quanto misura della sua misericordia, è il luogo dell’incontro e della conoscenza di Dio. Non solo è inevitabile, ma è anche bene che Pietro cada. Così, invece di presumere per poi disperare di sé, confiderà in lui, con una speranza che non delude più. La frana di tutti i suoi buoni desideri lascerà emergere dalle rovine la roccia salda che non crolla: la fedeltà del Signore. Se Pietro non avesse rinnegato e fosse morto per Cristo, si sarebbe salvato? Per sé dobbiamo rispondere negativamente. Ciò che mi salva infatti non è il mio amore per Dio supposto che ci sia! - ma il suo per me. Il mio per lui è solo risposta e dono del suo per me. L’uomo, in quanto creatura, è sempre e in tutto secondo. Deve quindi accettare di essere tale, senza usurpare il posto del suo Creatore: è come lui, ma in quanto figlio e creato. Pietro dovrà passare dalla propria giustizia alla giustificazione, dalla legge al vangelo. È la difficilissima conversione di Paolo, che porta alla sublimità della conoscenza di Gesù come Signore (vedi Fil 3,1 ss). Siamo al nocciolo della fede cristiana. Il discepolo non è più bravo degli altri. Peccatore come tutti, ha però la gioia di conoscere il Signore morto per lui peccatore. Questo è il nuovo principio di vita, che ha il potere di guarirlo dal suo male radicale. “Il giusto vivrà di fede” (Rm 1,17 = Ab 2,4), dice Paolo, ossia: il giusto vivrà della fedeltà del Signore a lui. Nulla infatti può separarlo dall’amore che Dio ha per lui in Cristo Gesù (Rm 8,35.39). Questa fede è incrollabile, perché poggia non sulla mia fedeltà a Dio, ma sulla sua fedeltà a me. Neanche il peccato e la morte mi sottraggono a lui, perché lui si è fatto per me peccato e morte, per essere mia giustizia e vita nuova. Inoltre è molto importante che il peccato di Pietro sia previsto e predetto. Gesù muore per lui non perché lo crede bravo, ma sapendo che lo rinnega. Solo in questo modo è chiaro chi è il Signore e chi è Pietro: il Signore è amore gratuito e fedele, e Pietro è in quanto amato da lui. Davanti alla croce di Gesù tutti subiamo scandalo. Ma proprio cadendo scopriremo l’identità di Dio e nostra. La differenza tra Giuda e Pietro non è tanto nel loro peccato - comune anche a tutti noi. L’esito diverso di morte o di vita dipende dall’accettare o meno di vivere del suo perdono. Gesù sa che non siamo in grado di comprendere il mistero del suo amore; sa che cadiamo, rinneghiamo e fuggiamo. E proprio a noi promette la sua fedeltà oltre la sua stessa morte. Il discepolo deve essere, come Paolo, disarcionato da ogni sua presunzione religiosa, per comprendere che il Signore muore per lui e accettare di vivere pubblicamente della sua misericordia. 2. Lettura del testo v. 27 Tutti sarete scandalizzati. Lo “scandalo” è una pietra di inciampo. La fedeltà del Signore è una roccia contro cui ogni uomo sbatte e cade. Dio è scandaloso perché è amore, e quindi debolezza, povertà, servizio e umiltà. Contro di lui s’infrange il nostro egoismo, con la sua brama di avere. di

potere e di apparire. Tutti cadiamo, nessuno escluso, perché tutti abbiamo peccato, e non conosciamo la gloria di Dio (Rm 3,23). Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse (Zc 13,7). Quanto sta per capitare a Gesù è la prova finale che solo lui supera. Davanti alla croce del pastore tutte le pecore si smarriscono; ma la stessa croce che le disperse sarà anche il bastone che le raccoglie e guida fin oltre la valle oscura (Sal 23). “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”, perché “allora saprete che Io Sono” (Gv 12,32 ; 8,27). I discepoli saranno dispersi perché ancora ciechi davanti alla gloria (10,32 ss). Come Bartimeo devono essere illuminati. Pietro, dopo il suo pianto, sarà curato dalla sua cecità. Ma prima di accettare la terapia, dovrà convincersi della diagnosi. v. 28 dopo che sarò risuscitato, vi precederò in Galilea. La stessa promessa sarà annunciata il giorno di pasqua (16,7). In Galilea abbiamo già trovato e troveremo sempre il Signore che proclama l’evangelo (1,14). Gesù, oltre che del nostro peccato, ci assicura anche del suo amore più forte della morte (Ct 8,6). Ci sarà sempre vicino nella nostra Galilea, per accompagnarci da lì a Gerusalemme. Promette la sua fedeltà eterna a coloro ai quali ha appena predetto la loro infedeltà costitutiva. v. 29 Anche se tutti saranno scandalizzati, io però no. Pietro vive ancora di confronto e competizione con gli altri. L’egoismo e l’orgoglio ovviamente! - è più presente nel bene che nel male. In genere facciamo il male per errore, e il bene per superbia. Per questo la conversione è più difficile per il giusto che non per il peccatore. Anche se ambedue si chiudono, rispettivamente nella presunzione o nella disperazione, tuttavia la situazione del secondo è privilegiata e diventa un passaggio obbligato, perché solo nel peccato si capisce Dio come Dio, ossia perdono e amore gratuito. v. 30 Amen, ti dico. Come la predizione del tradimento di Giuda, anche quella del rinnegamento di Pietro è introdotta con “Amen”. Dio parla in prima persona, impegnando la sua veridicità. Due infatti sono le verità complementari dell’evangelo: il nostro peccato e il suo perdono, la nostra infedeltà e la sua fedeltà, la nostra miseria e la sua misericordia. Solo nella prima ci è dato cogliere la seconda. La scena del rinnegamento, qui predetta, sarà descritta con cura alla fine del capitolo. mi rinnegherai. Rinnegare corrisponde a vergognarsi di Gesù e delle sue parole (8,38). È il contrario di testimoniare; significa negare di conoscere qualcuno, non ricordarsi di lui. Il discepolo che non rinnega se stesso (8,34), rinnega il suo Signore consegnato, mettendosi dalla parte di chi lo consegna. v. 31 E lui all’eccesso parlava. Lo stesso eccesso avrà poi nel rinnegare (v. 71). L’eccesso di parola copre sempre incertezza o addirittura menzogna. Anche se bisogna che io muoia con te. Questo desiderio di stare con Gesù, anche se dettato da amore, è ancora un’affermazione di sé, l’ultima. Tutte le religioni raggiungono il loro apice nel sacrificio a Dio, come esaltazione massima dell’io religioso. Contro questo è da ribadire, come già detto, che la salvezza non è il fatto che io muoia per il Signore, ma che lui muoia per me. Ciò che salva non è anzitutto amare, ma essere amati. Al massimo di amore si muore; è dell’essere amati che si vive. Inoltre voler morire con, ed eventualmente per Cristo, invece di accettare che lui muoia con e per me, è il solito protagonismo di Adamo, che mette l’io al posto di Dio.

Infine morire per lui è il massimo che si possa fare per meritarsi il suo amore. Ma “meritare” l’amore è meretricio. Si tratta Dio come se fosse una prostituta, i cui favori sono da pagare a prezzo di opere buone. Questo è il peccato del giusto, l’unico che va direttamente contro l’essenza di Dio. “Duri sono i vostri discorsi contro di me”, dice il Signore a quelli che si chiedono che vantaggio hanno ad osservare la sua parola (Ml 3,13 s). Ogni merito infatti richiede di essere compensato. Ma l’amore o è gratuito o non è. Pretendere di meritarlo è distruggerlo. Infatti ci pone in un dilemma diabolico: se Dio lo concede, non è gratuito; se non lo concede, è cattivo. Amarlo fino a dare la vita può solo essere dono suo, risposta a lui che per primo mi ha amato ed è morto per me. Diversamente è orgoglio, quasi io fossi Dio, e inganno, quasi Dio volesse la mia morte. Per questo accettare di essere amato è previo e più difficile che (pretendere di) amare. È far dipendere la propria vita da lui, accettare di essere suo. lo stesso dicevano anche tutti. Sono tutti d’accordo, in questa pretesa come tutti litigavano su chi tra loro fosse il più grande (9,35). L’epilogo è al v. 50: “abbandonandolo, fuggirono tutti quanti”. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo immaginando il cammino dal cenacolo all’orto degli Ulivi, nella notte di luna piena, attraverso la valle del Cedron. 3. Chiedo a Gesù ciò che voglio: capire il mio peccato “religioso”, la presunzione di essere bravo e di salvarmi. Gli chiedo di capire che lui è morto per il mio peccato. 4. Considerare: Le parole di Gesù: “Tutti sarete scandalizzati”. La reazione di Pietro e la sua risposta. La protesta di tutti gli altri. 4. Passi utili: Giona; Sal 136; 117; Rm 8,31-39; 1Tm 1,15 s.

78. DIMORATE QUI E VEGLIATE (14,32-42) 32

E vengono in un podere di nome Getsemani, e dice al suoi discepoli: Sedete qui, fin che io prego. 33 E prende con sé Pietro e Giacomo e Giovanni, e cominciò ad aver terrore e angoscia, 34 e dice loro: La mia vita è nella tristezza fino a morte.

Dimorate qui e vegliate. 35 E, andando avanti un po’, cadeva per terra e pregava che, se è possibile, passi da lui quell’ora. 36 E diceva: Abbà, Padre! Tutto è possibile a te: togli questo calice da me; ma non ciò che voglio io, ma tu. 37 E viene e li trova che dormono, e dice a Pietro: Simone, dormi? Non hai avuto forza di vegliare una sola ora. 38 Vegliate e pregate, per non venire in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne debole. 39 E di nuovo, andatosene, pregò dicendo la stessa parola. 40 E di nuovo, tornato, li trovò che dormivano. Infatti i loro occhi erano appesantiti e non sapevano cosa rispondergli. 41 E viene la terza volta e dice loro: Dormite ormai e riposate. Basta. È giunta l’ora. Ecco: il Figlio dell’uomo è consegnato nelle mani dei peccatori. 42 Svegliatevi, andiamo. Ecco: chi mi consegna è qui. 1. Messaggio nel contesto “Dimorate qui e vegliate”, dice Gesù a Pietro, Giacomo e Giovanni. Sono i tre testimoni prescelti, chiamati per primi a contemplare la sofferenza di Dio per il male del mondo. Chi rimane qui e veglia, vede il grande mistero: la passione del suo Signore per lui. La bibbia ci riferisce tre notti altissime, da cui nascono i tre giorni fondamentali della storia della salvezza. La prima è quella del caos primordiale, quando Dio creò il mondo, che poi si allontanò da lui. La seconda è quella della lotta con Giacobbe (Gn 32,23 ss), quando creò il suo popolo, dandogli il nome di Israele. La terza è questa, quando il vero Israele dà a Dio il suo vero nome: “Abbà”. Se nella creazione ha posto il mondo fuori di sé, ora Dio stesso va fuori da sé - estasi dell’amore! - e si porta nel luogo più lontano: sulla bocca del Figlio che va in croce. Da qui per la prima volta il Nome esce, e risuona con potenza in ogni abisso. È la nascita di Dio nel mondo e del mondo in Dio. In questa notte ogni notte è ripiena della sua luce.

Nella trasfigurazione il Padre lo chiamò: “Figlio”; ora, nella sfigurazione, il Figlio lo chiama: “Abbà, Padre”. Là sul Tabor l’umanità di Gesù lasciò trasparire la propria divinità; qui, nell’orto, la divinità lascia trasparire tutta la sua umanità - che, rivestendosi della nostra disumanità, manifesta la Gloria. L’agonia nell’orto è la finestra sull’io più intimo di Gesù. Le sue stesse parole ci aprono al suo rapporto di Figlio col Padre, proprio nel momento decisivo della sua vita. I discepoli si ostinano tre volte a chiudere gli occhi. Ma la scena rimase impressa nella loro memoria come rivelazione suprema del Figlio e nostra salvezza. Figlio infatti è colui che compie la volontà del Padre. Per questo “nei giorni della sua vita terrena egli offri preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo dalla morte e fu esaudito per la sua riverenza”. Non fu però esaudito nel senso che fu liberato dalla morte; fu invece esaudito con la risurrezione, dopo aver “accettato bene” la morte con riverenza filiale. Infatti, “pur essendo figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì, e, reso perfetto, divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,7 ss). Il vangelo di Marco non contiene il Padre Nostro. Certamente non perché lo ignora, ma perché si rivolge al catecumeno, che solo nel battesimo conosce Dio come Padre. Ora ci fa vedere il Figlio che si abbandona con fede a lui, e lo chiama per nome. È il suo battesimo, in cui, istruendoci sul nostro, vive e dice le parole fondamentali del Padre Nostro: Abbà, Padre; sia fatta la tua volontà, che non cadiamo in tentazione. Le parole sul perdono sono state anticipate in 11,25. Il racconto è un contrappunto discepoli/Gesù, i due poli dell’asse attorno al quale ruotano le altre opposizioni: seduti/prostrato, dormire/vegliare-pregare, debole/forte, carne/spirito, mia/tua volontà. I discepoli, seduti, dormono nella debolezza della carne, chiusi nella loro volontà; Gesù, prostrato, veglia e prega nella forza dello Spirito, compiendo il passaggio dalla volontà propria a quella del Padre. Così giunge l’“ora” decisiva della storia umana, quella della fede che genera suoi figli. La vera lotta dell’uomo è con Dio, che, dopo il peccato, non è più conosciuto come Padre, bensì temuto come antagonista. La fede è il travaglioso passaggio dalla mia alla sua volontà, nella resa al suo amore in cui credo al di là di tutte le mie paure. L’agonia di Gesù segna l’“ora” in cui si abbatte il muro tra l’uomo e Dio. È la felice notte della nostra salvezza, in cui il Signore della vita si immerge in tutte le nostre notti, portando ovunque la luce del Nome. Gesù è il primo uomo, anzi l’unico, che sperimenta tutto il dramma del peccato. che è l’abbandono del Padre; e lo vive con fiducia, abbandonandosi a lui. È il “Figlio” che compie la sua volontà riscattandoci dalla diffidenza. Discepolo è colui che rimane lì davanti a Gesù in agonia e tiene gli occhi aperti. Qui conosce l’amore di Dio per lui e accetta nel fratello maggiore l’amore del Padre che lo fa figlio. 2. Lettura dei testo v.32 vengono in un podere di nome Getsemani. È un campo delimitato sul monte degli Ulivi, che sta di fronte al tempio, posto proprio tra il Getsemani e il Calvario. Getsemani significa “torchio”. Qui l’umanità di Gesù, torchiata, spremerà la sua essenza divina di Figlio, dicendo: Abbà! Sedete qui. I discepoli prendono il luogo della folla, evidenziando la distanza che li separa dal Maestro. fin che io prego. Gesù prega da solo. La preghiera è sempre solitudine davanti a Dio, unico consolatore capace di colmare il nostro vuoto costitutivo. Abbiamo già trovato Gesù in preghiera due volte: nella tentazione dopo la prima giornata (1,35 ss), e in quella dopo il fatto dei pani (6,45 ss).

Ambedue le volte era di notte. Le tenebre, immagine della morte e dei suoi terrori, è il luogo in cui Gesù è in comunione col Padre. Anche adesso, per la terza volta, lo troviamo in preghiera, mentre vince la tentazione definitiva. v. 33 prende con sé Pietro e Giacomo e Giovanni. I tre che videro la risurrezione della figlia di Giairo (5,37 ss), ora sono testimoni della sua agonia mortale. Hanno contemplato la divinità della sua umanità e udito la voce del Padre (9,2 ss); ora, al sesto giorno, contemplano l’umanità della sua divinità e odono da lui la Parola che costituisce Dio Padre e Figlio: Abbà! Da questo monte, dove insieme con Andrea (13,3) hanno ascoltato il discorso sulla fine del mondo vecchio, ora assistono all’agonia del Figlio dell’uomo e alla nascita del Figlio di Dio. Questi tre, staccati dagli altri per iniziativa di Gesù, ricevono per primi ciò che lui vuole donare a ciascuno che glielo chiede: vederlo come Figlio. cominciò ad aver terrore. È paura spinta al massimo grado: terrore della morte. Comune eredità e causa di ogni peccato, Gesù ha voluto viverla in piena solidarietà con noi. Infatti, lui che non ha peccato, si è fatto peccato per noi (2Cor 5,21), per essere presente dove noi lo consideriamo assente. Mai abbandona chi lo abbandona, per quanto fugga lontano da lui, anche nella lontananza estrema: “Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche egli ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,14 s). Come tutti, Gesù ha paura della morte. La sua è violenta e orribile, per di più ingiusta. Che bene può venire dall’uccisione dell’innocente? La sconfitta del bene non è il massimo male? Se nella prova definitiva soccombe, che rimane di buono e sensato sulla terra? Nella sua morte Gesù vive l’insensatezza di ogni morte innocente e ingiusta. e angoscia. L’angoscia è peggiore del terrore: è essere sazi di vuoto, pieni di nulla. È la possibilità negativa estrema dell’uomo: imparentato con Dio e con il nulla, se non si sente prossimo al Padre che l’ha fatto, si sente prossimo al niente da cui è tratto. È quindi strutturale alla sua condizione di creatura, continuamente salvata dal vuoto che la inghiotte. Nell’angoscia tutto cade sordamente nel caos. La vita si allontana. Dio non interviene, è anzi scomparso. La vera essenza del male è l’abbandono di Dio, la sua assenza. In realtà siamo noi a lasciare lui. Ma la pena ricade su chi ama. Ecco perché lui stesso nel Figlio prova misteriosamente il dolore del nostro distacco. Inoltre Gesù è “il Figlio”, la cui natura è “essere del Padre”. Abbandonato da lui è il niente di sé, e vive in modo infinito un male infinito. L’angoscia dell’uomo tocca davvero il cuore di Dio. v. 34 La mia vita è nella tristezza. Gesù è come avvolto dalla tristezza. Fuori come dentro, non c’è nulla che non sia dolore, terrore e angoscia. fino a morte. La stessa morte è più facile di questa vita. Infatti sta vivendo un dolore che è al di là di ogni possibile morte, suicidio compreso. Nella sua sono tutte le nostre morti, nelle quali si è battezzato fino in fondo. Dimorate qui e vegliate. L’uomo è chiamato a sostare e a tenere gli occhi aperti davanti alla passione del Signore per questo mondo perduto. Qui trova la sua vera dimora: l’amore che Dio ha per lui. Al di là di tutto quanto io possa sentire per lui, qui contemplo in silenzio e adorazione ciò che lui sente per me. È la mia salvezza.

v. 35 E, andando avanti un po’, cadeva per terra. Da dove e verso dove fugge nella tenebra, imploso dal male esterno, esploso dal male interno? Si accascia al suolo e ricade, fiore secco sulla terra che l’ha generato per tanto male. pregava. Gesù non ha in sé nessuna ragione per vivere. Tutto è finito! Solo la comunione col Padre, creduta per pura fede, è suo motivo di vita. se è possibile. Gesù aveva detto: “A Dio tutto è possibile” ( 10,27); perciò “tutto quello che domandate nella preghiera abbiate fede di averlo già ottenuto, e vi sarà accordato” (11,23). Questo è vero, ma solo perché il Figlio si è abbandonato in ogni nostra perdizione. Infatti se Dio “non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?” (Rm 8,32). passi da lui quell’ora. È l’ora della croce, dell’abbandono di Dio e del trionfo del male. Luca dice che Gesù entra in agonia e suda sangue (Lc 22,24). Nel suo sangue lotta e si dibatte la creatura nuova: è il travaglio del Figlio di Dio che nasce in terra, portando su di sé la maledizione della nostra carne di peccato. v. 36 diceva: Abbà, Padre. Nell’abbandono e nella disperazione assoluta Gesù si abbandona con fiducia assoluta a Dio. Lo chiama ed è Abbà, papà, unico fondamento della sua vita. Per questo è “il Figlio”. Questa fede nel suo amore senza nessuna prova, anzi contro ogni prova, è la guarigione dal peccato originale. Adamo non gli credette e si nascose da lui. Il nuovo Adamo, dall’abisso di ogni morte, oltre i confini del nulla, si abbandona a lui con fiducia. In lui chiunque, da ogni angolo di perdizione del mondo, può ormai rivolgersi a Dio come Padre. Qui, mentre si fa fratello di tutti i perduti, Gesù si rivela “il Figlio”, l’unico che vive l’amore del Padre. Siamo al centro della fede cristiana. Tutto è possibile a te. Gesù vive il dramma della libertà umana che può dire sì o no. Sente anche tutto il peso del no originario e la fatica per passare al sì. togli questo calice da me. Il calice del Figlio è pieno del male di tutti i fratelli. Padre, ti prego, non togliere questo calice dal fratello maggiore. Diversamente noi siamo privi del pane dei figli. non ciò che voglio io, ma tu. La nostra vera lotta è con Dio, che, dopo il peccato, percepiamo come nemico. È anzi questo il peccato. Gesù, appunto perché innocente, ne porta su di sé tutta la maledizione (2Cor 5,21 ; Gal 3,13). Noi tutti, quando preghiamo “sia fatta la tua volontà”, proviamo un timore istintivo, e pensiamo: “Cosa mai vorrà Dio?”. Questa sfiducia è l’eredità della menzogna, principio di ogni male. Gesù l’ha vinta per tutti noi, perché in lui ci riconsegnamo al Padre. v. 37 li trova che dormono. Davanti alla morte l’uomo non può che chiudere gli occhi, anticipando il sonno finale. dice a Pietro: “Simone, dormi?”. Il portinaio deve vigilare e aiutare gli altri a vegliare (13,35). In Marco è l’unica volta che Gesù lo chiama per nome. È segno di grande amicizia. È anche l’unica volta in cui sono accostati i suoi due nomi. Quello nuovo che gli viene dal fatto che il Signore gli rivela il suo vecchio - la sua verità di uomo che dorme davanti alla Gloria. Non hai avuto forza di vegliare una sola ora. Il Signore trova addormentato anche il portinaio (cf 13,35).

Ma cosa può fare l’uomo nella notte se non dormire? Gesù ci chiede di vegliare, perché ora nelle nostre tenebre è presente lui. Possiamo quindi guardare negli occhi tutte le nostre notti, senza essere travolti dalla vertigine; in esse ormai troviamo la luce del Figlio che grida: Abbà. v.38 Vegliate e pregate. La preghiera è la forza per vegliare. per non venire in tentazione. Significa “per non cadere in tentazione”. la tentazione definitiva, la grande prova della fede, da superare per essere creatura nuova. Diversamente restiamo nel sonno della morte. Lo spirito è pronto, ma la carne debole. Anche Gesù ha voluto sperimentare la debolezza della carne. Lo spirito è sempre pronto: è quello del Figlio. Ma dopo il peccato la “carne” è debole, perché vive il suo limite con sfiducia e paura, trasformando la condizione creaturale di abbandono al Padre in caduta nel nulla. La preghiera fa della nostra debolezza il luogo della potenza di Dio. Infatti ci mette in comunione con lui, rendendoci possibile tutto ciò che lui può. Se restiamo chiusi in noi, la nostra debolezza diventa la nostra perdizione. v. 39 E di nuovo pregò. La preghiera di Gesù è insistente e persistente nel tempo. La nostra vita è fatta di tanti frammenti, uno dopo l’altro. Ciascuno o è pieno della comunione col Padre, o è vuoto angosciante di morte - da anestetizzare o da rimuovere. dicendo la stessa parola. Abbà è “la” Parola: è il Figlio che esprime il Padre nell’unico Amore. v. 40 E di nuovo, tornato, li trovò che dormivano. Se il Signore non fosse venuto di continuo a svegliarli, non avrebbero intravisto, sia pure tra un sonno e l’altro, il grande mistero del suo rapporto con il Padre. i loro occhi erano appesantiti. Sul Tabor tennero gli occhi aperti (Lc 9,32). La nostra cecità è causata dalla paura della morte. Ne siamo liberati solo nella misura in cui vediamo che il Figlio per amor nostro entra e abita in essa. non sapevano cosa rispondergli. Non c’è giustificazione per questo sonno. E neanche occorre, perché comune a tutti fin dal primo uomo. v. 41 E viene la terza volta. Tre volte Gesù aveva detto di vegliare (13,33-37), e tre volte puntualmente dormono. Ma anche tre volte viene a svegliarli, perché colgano, tra un sonno e l’altro, qualche briciola del suo bagliore. Dormite orinai. Gesù ha finito la lotta; ha accettato il calice. Per questo non dice più di vegliare, ma di “dormire”. Non è un’ironia. Dormire significa morire. Dopo la sua agonia, il discepolo può abbandonarsi alla morte, perché sa che lì trova il suo Signore. e riposate. Il riposo è la terra promessa. Ormai il sonno della morte, mio limite estremo, non è la fine di tutto, ma l’incontro con lui che mi si è fatto vicino fino a questo punto. È giunta l’ora. È giunta l’ora decisiva, il momento della venuta del regno di Dio (1,15). Basta. Non manca più nulla alla nostra salvezza. Ognuno ha ricevuto ciò che gli spetta: il Figlio ha ricevuto da noi il nostro male e la nostra morte; e noi da lui il suo bene e la sua vita.

Ecco: il Figlio dell’uomo è consegnato nelle mani dei peccatori. Nelle nostre mani è consegnato il Figlio dell’uomo: il nostro peccato è pieno del suo perdono, la nostra morte colma della sua vita. La giustizia di Dio si è fatta giustificazione per tutti. v. 42 Svegliatevi, andiamo. È venuta la luce; possiamo svegliarci e camminare. La sua notte ha posto fine alle tenebre, guarendo tutte le nostre notti. È vinto l’orrore del vuoto, del caos e della morte; il Signore della vita ha colmato della sua presenza ogni abisso. In lui, sia che viviamo sia che moriamo, siamo figli, che gridano: “Abbà”, e hanno trovato nel Padre la sorgente della vita. Ecco, chi mi consegna è qui. Le prime parole di Gesù sono: “Il regno di Dio è qui” (1,15). Ora è qui con Giuda che lo consegna a morte. Nel suo essere consegnato lui si consegna a noi e il Padre stesso ce lo consegna come nostra vita. Qui finisce l’azione di Gesù e inizia la sua passione. Dio ormai esprime il suo amore direttamente, senza veli. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo immaginando l’orto degli Ulivi, dove Gesù è con i suoi discepoli nella notte del plenilunio pasquale. 3. Chiedo a Gesù ciò che voglio: dimorare lì e tenere gli occhi aperti per vedere cosa lui si è fatto per me. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Mi fermo a lungo e molte volte a contemplare ogni dettaglio del racconto. 4. Passi utili: Gn 32,23-33; Sal 40; Gal 4,4-7; Rm 8,15-17; Eb 5,7-9; 12,4-12.

79. SI COMPIANO LE SCRITTURE (14,43-52) 43

E subito, mentre egli ancora parlava, si fa vicino Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni, da parte dei sommi sacerdoti, e degli scribi e degli anziani. 44 Ora colui che lo consegnava aveva dato un segno, dicendo loro: Colui che bacerò è lui!

Impadronitevi di lui, e portatelo via ben stretto. 45 E, venendo, subito avvicinatosi a lui, dice: Rabbi! E lo baciò. 46 Ma quelli gettarono le mani su di lui, · si impadronirono di lui. 47 Ora uno di quelli che stavano appresso, estratta la spada, colpì lo schiavo del sommo sacerdote, e gli tolse via l’orecchio. 48 E, rispondendo, Gesù disse loro: Come per un ladrone con spade e bastoni siete usciti per prendermi. 49 Ogni giorno ero presso di voi nel tempio a insegnare, e non vi siete impadroniti di me. Ma che si compiano le Scritture! 50 E, abbandonandolo, fuggirono tutti. 51 E un giovinetto lo seguiva avvolto in un lino sopra il nudo, e si impadroniscono di lui. 52 Ma egli, abbandonando il lino, fuggì nudo. 1. Messaggio nel contesto “Si compiano le Scritture”, dice Gesù a chi è venuto a prenderlo per ucciderlo. Ciò che sta accadendo è il compimento di ogni promessa di Dio. Quando era libero, dal suo mantello scaturiva la vita; al suo contatto e alla sua parola gli zoppi saltavano, i sordi udivano, i ciechi vedevano e i morti si svegliavano; dalle sue mani fioriva la fragranza del pane. D’ora in poi non fa e non è più nulla: è il niente che gli altri ne fanno. Il dono, stretto in pugno, porta su di sé la maledizione del possesso. Ma proprio così adempie ogni Scrittura. Qui finisce l’azione di Gesù e inizia la sua passione. La sua azione fu particolare e limitata. I miracolati furono pochi rispetto alla massa degli uomini. Inoltre, nel giro di qualche anno, gli ex-ciechi tornarono a non vedere, e rimasero immobilizzati con gli ex-zoppi nell’abbraccio della morte che li strinse a sé con gli ex-risuscitati. Volendo guardare, ciò che fece fu efficace solo provvisoriamente, e rappresenta una piccola proroga al limite inderogabile che il tempo fissa per ogni mortale. Ciò che ha efficacia universale ed eterna è ciò che gli abbiamo fatto. Propriamente parlando, Gesù non ci ha salvati con la sua azione, ma con la sua passione. La parola chiave del brano è impadronirsi (cf v. 1). In questo gesto si esprime il peccato dell’uomo che, invece di prendere in dono, benedicendo il donatore e donando al bisognoso, prende in possesso, misconoscendo il donatore e chiudendosi al fratello. Dio, essendo amore, è dono. Impadronirsi è l’azione antidivina per eccellenza: riporta tutto al caos, che si ridivora ciò che gli ha sottratto. Se lui, per un solo attimo di secondo, volesse possedere ciò che ha e

ciò che è, all’istante non ci sarebbe più nulla. Il possesso è la negazione del dono, e quindi di ogni creatura e dello stesso Creatore. Gli strumenti per impadronirsi sono danari, spade, bastoni e baci che richiamano cuori e coppe. Sono le solite carte con cui da sempre il mondo si gioca la propria morte. Le variazioni sono infinite, quante le persone; ma ognuno le usa nella stessa tragica partita. A noi che ci impadroniamo, lui risponde rimanendo ciò che è: si dona e si abbandona nelle nostre mani, che fanno di lui quello che vogliono. Mentre noi lo prendiamo, lui si lascia “comprendere”, ossia concepire (v. 48) nella sua essenza di dono assoluto, che non si sottrae davanti a nessun male. Nel Figlio dell’uomo che si consegna nelle nostre mani, il peccato afferra il perdono, le tenebre la luce, la morte la vita. La vittoria del male diviene la sua sconfitta definitiva. Gesù, che si consegna a chi se ne impadronisce, è il compimento di tutte le Scritture. Queste infatti raccontano la passione di Dio per noi, e promettono il dono della salvezza per noi peccatori. Il discepolo capisce di essere tra coloro che prendono. Tradisce, rinnega, fugge e lo abbandona, come tutti. Il più forte tra i prodi fuggirà nudo in quel giorno (Am 2,15). Resta lui solo, che muore per il peccato di tutti. 2. Lettura del testo v. 43 Si fa vicino Giuda, uno dei Dodici. Giuda resta sempre uno dei Dodici, solidali con lui ciascuno a modo suo - chi con la spada, chi con la fuga. spade e bastoni. Il denaro, il cui accumulo è violenza ormai pulita, ottiene praticamente tutto. È il dio di questo mondo. Ciò che ancora non si può ottenere con esso, lo si ottiene con la violenza pura. Dietro il denaro (v. 11), ci sono sempre spade e bastoni. sommi sacerdoti, scribi e anziani. Sono le tre maschere del male del mondo, chiamato anche “mani degli uomini” (9,31), “mani dei peccatori” (v. 41). Raffigurano le tre brame, che muovono le mani dell’uomo a impossessarsi del Figlio dell’uomo. v. 44 colui che lo consegnava. L’unica ed identica azione (consegnare o tradire) è insieme propria di Giuda che consegna Gesù al suoi avversari, di Gesù che si consegna nelle mani dei peccatori e del Padre che lo consegna per tutti noi. Nel nostro massimo male Dio nasconde il suo massimo bene: nella consegna di Gesù sta la consegna del Figlio a tutti i suoi fratelli. A chi lo tradisce, Dio si tradisce, rivelandogli pienamente se stesso come amore e offerta di salvezza senza condizioni. aveva dato un segno: Colui che bacerò. Il bacio diventa segno di colui che bisogna prendere. Quanto amore è in realtà possesso, stravolto nel suo contrario! D’altra parte il nostro peccato non è proprio l’incapacità di amare? Il bacio scatenerà spade e bastoni, portando a compimento ciò che iniziò con denari. Impadronitevi di lui. Impadronirsi, parola chiave del brano, esce quattro volte (vedi inoltre “gettare le mani “ e “concepire”). Questo termine, che esprime il fine di ogni azione dell’uomo, segna l’inizio della passione del Figlio dell’uomo. Adamo con il suo impadronirsi si staccò da Dio e uscì dall’Eden nel caos; Gesù, col suo consegnarsi, ci riporta Dio, lasciando entrare l’Eden nel caos.

L’uomo biblico conosce due forme di ateismo: uno scientifico e l’altro pratico. Quello cosiddetto scientifico è proprio dello stolto che dice: “Dio non c’è” (Sal 14,1). Quello pratico è proprio del ricco che spadroneggia sul povero (Sap 2), pensando che Dio sta lontano e non vede. portatelo via ben stretto. Giuda teme che sgusci via, usando i suoi poteri taumaturgici. Ignora che la forza dell’amore è la debolezza, la sua astuzia la follia. v. 45 Rabbi. Così l’aveva chiamato anche Pietro sul Tabor (9,5), e i discepoli davanti al fico essiccato (11,21). Il cieco lo chiamava: “Rabbunì” (10,51). L’appellativo “Maestro” è il più usuale per chiamare Gesù (4,38; 5,35; 9,17.38; 10,17.20.35; 12,14.19.32; 13,1; 14,14). Lui infatti insegna la via di Dio. Ma la sua parola non è come quella dello scriba che spiega: ha la potenza di Dio che opera quanto dice (1,22.27; 2,5-11; 11,20). E lo baciò. Il discepolo usava salutare il maestro con il bacio. In greco katephílesen indica un bacio tenero, con abbandono e intensità. È ostentato per essere meglio notato dai suoi compari e non insospettire Gesù. v. 46 gettarono le mani sii di lui. Le mani o si aprono per accogliere il dono (3,1 ss), o si gettano con avidità per chiudersi in rapina. si impadronirono di lui. D’ora in poi non farà più niente. Diventerà il nulla al quale il possesso riduce tutto. v. 47 tino di quelli. Sappiano da Gv 18,10 che è Pietro. estratta la spada, colpì. Pietro, come tutti noi, confida nelle stesse armi dell’avversario. Anche se vuole il bene, in realtà è tra quelli che moltiplicano il male. Dio, essendo perdono e misericordia, trionfa proprio perdendo. Per fortuna i discepoli sono più deboli degli altri, che diversamente avrebbero dovuto fuggire. Quando siamo più forti e cantiamo vittoria, siamo noi i veri nemici di Gesù, il quale a causa nostra deve continuare la sua agonia nell’orto. Egli avrebbe a disposizione dodici legioni d’angeli (Mt 26,53); ma l’unica sua arma rimane ancora e sempre la debolezza di un amore che si consegna. “Rendere giustizia con la violenza” è una contraddizione nei termini (Sir 20,4). gli tolse via l’orecchio. Pietro ama Gesù, ma non conosce il suo spirito. È ancora nel campo avversario, nello stesso gioco di spade, bastoni, denari e baci. Nonostante la sua buona volontà, è anche lui prigioniero di quel male per il quale Gesù sta pagando. L’arma con cui Gesù colpirà al cuore il nemico sarà la misericordia. Vince il male usando il mite asinello, non il superbo cavallo o il potente carro (Zc 9,9). Quante difese di Gesù che non rientrano nel suo spirito! Egli non ha nemici da vincere, ma fratelli da conquistare all’amore del Padre. Ogni volta che abbiamo un nemico da combattere, siamo lontani da lui, suoi nemici noi stessi. Tutte le nostre crociate non servono che a tagliar orecchi, ossia a togliere ai fratelli la capacità di ascoltare la misericordia di Dio, unica possibilità di conversione. La spada di Pietro è profezia di tutti gli strumenti di potere che noi discepoli abbiamo usato, usiamo e useremo, ritardando la venuta del suo regno in proporzione alla nostra forza. A chi ha poco discernimento, il nemico usa accrescere tanto la buona volontà. Che Dio doni intelligenza a chi ha zelo, perché, a fin di bene, non abbia a operare alacremente per l’avversario!

v. 48 Come per un ladrone. Gesù è trattato da malfattore (Lc 22,37): l’innocente porta su di sé le conseguenze del male. per prendermi. La parola greca syllambáno indica con-prendere o concepire, ed è la stessa usata da Luca per indicare la concezione di Gesù da parte di Maria (Lc 1,31). In realtà noi comprendiamo Dio, addirittura lo concepiamo, proprio nel nostro peccato. La nostra mano, che si chiude per prendere e uccidere. racchiude il dono che per noi si fa perdono e risurrezione. E il grande mistero della nostra salvezza, unico incontro possibile tra noi e Dio, nel pieno rispetto della libertà di ambedue. v. 49 Ogni giorno ero presso di voi. Si sottolinea che lo prendono di nascosto, con inganno (v. 1 s). È sempre così in ogni prendere. si compiano le Scritture. È l’unica volta - per di più sulla bocca di Gesù - in cui Marco parla del compimento delle Scritture in modo assoluto, senza specificazioni. È il commento di Gesù a quanto sta accadendogli. Il Figlio dell’uomo preso nelle mani degli uomini peccatori è la salvezza dell’uomo, fine del disegno di Dio. Gesù è il giusto che, portando su di sé l’ingiustizia, ce ne riscatta. Infatti il male lo porta chi non lo fa; e ce ne libera solo chi, non facendolo, ha l’amore e il coraggio di portarlo. v. 50 abbandonandolo, fuggirono tutti. È la conclusione effettiva di tutte le velleità contrarie (cf v. 31!). I discepoli abbandonano Gesù perché debole. La loro fuga fa vedere che sono “con lui” solo fino a quando possono pensare che sia come lo vogliono loro. Hanno la stessa mentalità dei suoi nemici. Lo amano davvero, ma ancora come proiezione dei loro desideri, non per ciò che è. Ma chi cerca il Signore per il Signore? Quando il pastore è percosso, si segue un altro pastore - la paura della morte. v. 51 un giovinetto lo seguiva, ecc. Solo Marco parla di questo “giovinetto”. La parola riappare nell’annuncio del Risorto (16,5). È la firma dell’autore, che l’aveva seguito dal cenacolo, forse di sua proprietà (cf At 12,12), fino al giardino? Anche lui fugge nudo, lasciando finalmente tutto ciò che costituisce la sua ricchezza - che, come per il ricco, è una veste di morte (cf 15,46) - per riapparire poi, vestito di luce, ad annunciare il Risorto. Davanti al compimento escatologico ognuno si ritrova a fuggire, nudo come Adamo: “II più coraggioso tra i prodi fuggirà nudo in quel giorno” (Am 2,15). La scena è anche preannuncio di Gesù morto e risorto: lasciando la veste del suo corpo nelle mani dei violenti, sfugge loro nudo, per riapparire come “giovinetto” vestito di bianco nel mattino di pasqua. Le varie interpretazioni non si escludono; possono anche utilmente sovrapporsi. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo immaginando l’orto degli Ulivi, nel plenilunio pasquale. 3. Chiedo al Signore ciò che voglio: comprendere come le Scritture si compiono in lui, l’innocente preso dalle nostre mani di peccato. 4. Traendone frutto, guardo, ascolto, e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Da notare:

il bacio di Giuda impadronirsi

la spada di Pietro il compimento delle Scritture

la fuga di tutti 4. Passi utili: Is 52,13-53,12; Dt 8,15; Lv 25; Sal 24; 16; At 2,42-48; 4,32-37.

80. IO SONO (14,53-65) 53

E condussero Gesù dal sommo sacerdote; e convengono tutti i sommi sacerdoti e gli anziani e gli scribi. 54 E Pietro da lontano lo seguì fin dentro il cortile del sommo sacerdote, e stava a sedere insieme con i servi e a scaldarsi al fuoco. 55 Ora i sommi sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per ucciderlo, e non la trovavano. 56 Molti infatti testimoniavano il falso contro di lui, e le testimonianze non erano uguali. 57 E alcuni, alzatisi, testimoniavano il falso contro di lui, dicendo: 58 Noi udimmo che costui diceva: Io distruggerò questo tempio manufatto, e, dopo tre giorni, edificherò un altro non manufatto. 59 E neppure così era uguale la loro testimonianza. 60 E, alzatosi in mezzo, il sommo sacerdote interrogò Gesù dicendo: Non rispondi nulla? Cosa testimoniano costoro contro di te? 61 Ora egli taceva, e non rispose nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogava e gli dice: Tu sei il Cristo, il Figlio del Benedetto? 62 Ora Gesù disse: Io Sono. E vedrete il Figlio dell’uomo sedere alla destra della potenza e venire con le nubi del cielo.

63

Ora il sommo sacerdote, strappandosi le sue tuniche, dice: Che bisogno più abbiamo di testimoni? 64 Udiste la bestemmia!? Che pare a voi? Ora quelli tutti lo condannarono che era reo di morte. 65 E cominciarono alcuni a sputacchiarlo, a velargli il volto, e a schiaffeggiarlo, e a dirgli: Profetizza! E i servi lo presero a schiaffi. 1. Messaggio nel contesto “Io Sono”, dice Gesù confermando per la prima volta la sua identità di Cristo e di Figlio di Dio, e proclamandosi Figlio dell’uomo, giudice supremo di tutta la storia. Il vangelo sfocia in questa sua autotestimonianza, che risolve ogni mistero e sarà causa della sua condanna. Ma la sua uccisione sarà il sigillo di autenticità della sua rivelazione. Ai piedi della croce ogni uomo esclamerà col centurione: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (15,39). Tutto il vangelo di Marco è sotteso dalla domanda: “Chi è Gesù?”. Nella prima parte, dopo ogni miracolo, ci si chiedeva sempre, insieme alla folla e ai discepoli: “Chi è costui?”. A metà vangelo è lui che domanda: “Ma voi chi dite che io sia?” (8,29). Ora lui stesso risponde direttamente, dicendo la propria identità. Dopo queste parole non dirà più niente. Sentiremo solo la breve risposta a Pilato e il duplice grido in croce (15,2.34.37). Ormai un silenzio assoluto di stupore e adorazione avvolge la Parola. Dio non ha nulla più da dire. In essa si è totalmente espresso, dicendosi e dandosi tutto a noi, senza serbare più nulla per sé. Il confronto con la croce lo renderà evidente a tutti. Qui finisce il “segreto messianico” e ogni segreto; e comincia ogni nostra comprensione di Gesù e di Dio. Ogni teologia - e prassi corrispondente - che non parte dalla “teoria” della croce (Lc 23,48), rimane una proiezione dei nostri desideri (cf 8,33) avvelenati dalla falsa immagine di Dio. La croce è la “differenza irriducibile” tra il cristianesimo e ogni religione, compreso l’islamismo e l’ebraismo. In nessun dialogo interreligioso è da togliere questo “scandalo”, che è inciampo e salvezza per tutti. Solo partendo da qui il cristianesimo ha qualcosa di assolutamente inaudito da dire, significativo anche per l’uomo moderno. Il problema della fede cristiana non si pone prima della croce, che è appunto la distanza infinita che Dio ha posto tra sé e ogni nostra cattiva fantasia su di lui. Lì Gesù rivela per la prima volta chi è Dio e si rivela Dio. Per noi cristiani la croce è troppo ovvia, spesso ridotta a ornamento, amuleto religioso. In realtà un Dio che è un uomo, e per di più crocifisso, suona bestemmia per tutte le religioni e per tutti gli ateismi, i quali negano esattamente il dio delle varie religioni (ogni ateismo è acriticamente religioso!). Questa bestemmia, critica di ogni religione e ateismo, è l’essenza della fede cristiana: è la stoltezza e debolezza alla quale arriva la sapienza e la potenza di un Dio che è solo e tutto amore per l’uomo. Per questo

Paolo compendia ogni suo sapere con le parole: “Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1Cor 2,2). La fede cristiana consiste nell’accettare come proprio Salvatore Cristo), Dio (= Figlio del Benedetto) e Giudice (= Figlio dell’uomo) l’uomo Gesù che va in croce per me. Egli è la fine di ogni falsa speranza dell’uomo, di ogni raffigurazione di Dio come suo antagonista e di ogni giudizio che pretenda autosalvezza o presuma autogiustificazione. Ai piedi della croce si dissolve ogni menzogna, e inizia la verità che ci fa liberi (Gv 8,32). Davanti alla Gloria, così santa e diversa da ogni opinione, la reazione comune è il rifiuto. Il sommo sacerdote lo accusa di bestemmia, tutti sentenziano che è reo di morte, i servi lo dileggiano, e Pietro, in rappresentanza dei discepoli, anche di quelli che verranno dopo, professa di non conoscerlo. Gesù sarà condannato non per testimonianza altrui, ma per “questa” sua rivelazione. Gesù è il Salvatore perché si perde per noi; è il Signore perché porta su di sé il nostro male; è Giudice perché si lascia condannare in vece nostra. Così ci fa conoscere cos’è la salvezza, chi è Dio e quale è il giudizio: l’amore di uno che sa perdersi senza riserve per tutti i perduti. Il discepolo è chiamato a riconoscerlo così come è, e non come l’aveva pensato. 2. Lettura del testo v. 53 condussero Gesù. Gesù è preso, condotto e consegnato. In balia del possesso dell’uomo, diventa un puro oggetto, che ognuno maneggia come vuole. tutti i sommi sacerdoti e gli anziani e gli scribi. Costituivano il sinedrio, organo di potere supremo, anche se sotto il controllo dei romani. v. 54 Pietro da lontano lo seguì. Vuol onorare la sua parola, memore dei propositi di poche ore prima, mentre camminavano dal cenacolo all’orto. Soprattutto vuol bene a Gesù, e non può staccarsi da lui. stava a sedere insieme con i servi, ecc. Gesù è in alto, nella sala del consiglio; Pietro in basso, nel cortile con i servi. Parallela alla testimonianza del maestro, ci sarà la contro-testimonianza del discepolo. v. 55 cercavano una testimonianza contro Gesù per ucciderlo. Gesù è già condannato prima del giudizio. È quanto capita nei processi farsa. Ne consegue l’assoluzione dell’ingiusto, la cui pena è portata dal giusto consumazione di ogni male. non la trovavano. La condanna dell’innocente precede sempre il processo, il quale non fa che confermarne l’innocenza. Se così non fosse, Gesù non ci giustificherebbe: sarebbe giustamente condannato per il proprio peccato e non morrebbe da giusto, per il nostro peccato. v. 56 testimoniavano il falso contro di lui. La menzogna è lo strumento privilegiato dell’ingiustizia: stravolge la verità, giustificando arbitrio e violenza. È il mezzo fondamentale di ogni politica di parte. le testimonianze non erano uguali. La “prova” nel processo ebraico era la testimonianza concorde di due. Bei tempi in cui ci si fidava della parola (Dt 17,6; 19,15)!

v. 58 lo distruggerò questo tempio, ecc. (cf 15,29.38; Gv 2,19 ss). Il tempio, cuore di ogni istituzione, è il luogo supremo dei valori; vi abita Dio e vi si conserva la legge. Il re rappresenta a sua volta Dio in terra, e fa rispettare nel tempo la sua legge eterna. Oltre il tempio, la legge e il re, istituzioni in qualche modo comuni a tutti i popoli, anche se in forme diversificate, Israele conosce un’altra funzione, di tipo carismatico: il profeta. Egli è critico nei confronti del re e del popolo, richiamandoli all’osservanza della legge; ed è critico anche nel confronti di questa, impedendo che diventi legalismo e tenendola aperta a una promessa sempre più grande. Nella morte di Gesù finiscono queste istituzioni. Il vecchio tempio sarà distrutto per lasciar luogo al nuovo, che sarà il suo corpo crocifisso, presenza di Dio; la nuova legge sarà il suo amore che perdona; la nuova regalità sarà quella di uno che serve in umiltà, scegliendo come suo trono il patibolo dello schiavo ribelle. Anche la profezia finisce con il suo silenzio - maestà di Dio che si manifesta compiutamente. La nuova profezia sarà il ricordo della croce gloriosa, che interpreta la storia dell’uomo e rivela il mistero di Dio. Questa accusa sulla distruzione del tempio può connettersi alla sua profezia di 13,2. Ripetuta ai piedi della croce (15,29), si realizzerà nella sua morte, quando si squarcerà il velo del santo dei santi (15,38). v. 60 Non rispondi nulla? Gesù tace, come il giusto perseguitato del Sal 38,14 s. Il suo silenzio è di grande importanza per l’evangelista. Lo sottolinea due volte davanti al sinedrio e due davanti a Pilato (15,4). Se avesse risposto alle accuse, dimostrandole false, sugli accusatori sarebbe caduta la pena prevista per lui. Ma egli è l’agnello di Dio che porta il peccato del mondo (Gv 1,29), muto davanti al suoi tosatori (Is 53,7). Non apre la bocca e si lascia giudicare, perché non siamo condannati noi. Questo suo silenzio, espressione massima di misericordia, è la rivelazione estrema di Dio, cui risponde la nostra riverente adorazione. Il silenzio di Dio è segno della sua gloria irraggiungibile: “Egli non ha da rispondere” (Gb 37,23). v. 61 Tu sei il Cristo. Questo titolo, che uscirà di nuovo ai piedi della croce (15,32), è usato all’inizio del vangelo, nel riconoscimento dei demoni e di Pietro, ed esce tre volte dalla bocca di Gesù (1,1.34; 8,29; 9,41; 12,35; 13,21). Il Cristo è il messia, il discendente di Davide, il re promesso (2Sam 7), che sarebbe venuto a liberare e salvare il suo popolo. Il Figlio del Benedetto (= Dio). Questo titolo, usato in 1,1 e riconosciuto a Gesù per ora solo dai demoni, è detto dal sommo sacerdote, forse come sinonimo di messia. Ma Gesù gli dà un significato ben più profondo, che lo stesso sommo sacerdote comprenderà bene, accusandolo di bestemmia. v. 62 Io Sono. La sua morte è già decisa. Non c’è più nessun pericolo di ambiguità. Cessa quindi ogni segreto. Gesù si proclama quanto il sommo sacerdote ha detto e quale la comunità cristiana lo crede: Cristo e Signore, Salvatore e Dio. “Io Sono”, oltre che risposta affermativa alla domanda: “Tu sei?”, richiama la rivelazione dell’Esodo: Io sono è il Nome, JHWH. Il lettore è chiamato a riconoscere nel crocifisso il suo Salvatore e Signore (At 2,36). vedrete il Figlio dell’uomo, ecc. (Dn 7,13; Sal 110,11). Richiama 13,26, dove si parla della fine del mondo e del suo giudizio. Gesù, Figlio dell’uomo sofferente, Giusto giustiziato ingiustamente, è la fine del mondo e il giudizio di Dio sulla storia. I suoi giudici saranno da lui giudicati; quando l’avranno consegnato alla croce, lo contempleranno esaltato nella gloria di Dio: “Vedranno colui che hanno trafitto” (Zc 12,10). Lì siede sul trono, in tutta la sua potenza, mentre viene a giudicare. Perché la croce è il giudizio di Dio, di quel Dio che è amore, e muore per salvare tutti i peccatori, rivelando così la sua giustizia.

v. 63 strappandosi le sue tuniche. Al sommo sacerdote era vietato strapparsi le vesti (Lv 21,10). Anche il velo del tempio si squarcerà (15,38). v. 64 Udiste la bestemmia. Gesù fu accusato di bestemmia già nel suo primo miracolo pubblico, quando rivelò il suo “potere”, che appartiene al solo Dio: perdonare i peccati (2,6). La bestemmia è una parola contro Dio. Questa affermazione in effetti demolisce ogni immagine che l’uomo si fa di Dio. tutti lo condannarono. Infatti muore per tutti. reo di morte. Morirà per un reato preciso: la parola con cui si dichiara e rivela un Dio così scandalosamente diverso da tutti i nostri idoli. v. 65 cominciarono a sputacchiarlo (cf 10,34). Lo sputo, opposto al bacio di adorazione, è segno di disprezzo (Is 50,6). La nostra vanagloria esprime il suo disprezzo per la pienezza di gloria, e la sputacchia. a velargli il volto. Il più bello tra i figli dell’uomo (Sal 45,3) è oscurato dalla nostra disumanità. Il suo volto velato, volto di tutti i senza volto, è rivelazione del Volto stesso, salvezza del mio volto e mio Dio (Sal 42,12). a schiaffeggiarlo. La forza di Dio è debolezza, colpita dalla nostra violenza (Is 53,5). Non sottrae la sua faccia agli sputi e ai colpi (Is 50,6) veleno che spurga dalla nostra impotenza paurosa e rabbiosa. Profetizza. Si prende uno, gli si copre il capo e lo si colpisce, perché indovini chi lo ha percosso. È un gioco da bambini, che mima la tragica realtà dei grandi. Gesù sa chi lo ha percosso. Non sono solo loro, i poveri servi. È tutto il male del mondo, il gioco della nostra storia che si riversa su di lui. È ciò viene attraverso le mani di servi umiliati e frustrati, che duplicano il male subito, appena trovano uno più debole su cui sfogarsi. Profetizza! La profezia è parola di Dio che rivela la verità, chiama a conversione e dà salvezza. Questo volto velato del Figlio dell’uomo è profezia piena, parola potente di Dio che svela la realtà sua e nostra, e ci chiama a conversione dandoci salvezza. Questo stesso volto chiede a me: “Sai chi sono io e chi mi percuote? Profetizza!”. Sono chiamato a vedere in lui il mio Signore e Salvatore; e in me colui che lo percuote. Pietro, come poi ciascuno di noi, subirà davanti a questo volto il suo esame di fede. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo immaginando la sala del sinedrio, con tutti i suoi membri, testimoni e Gesù. 3. Chiedo ciò che voglio: conoscere nel volto velato il mistero del mio Salvatore, Signore e Giudice, giudicato e condannato per me come schiavo e bestemmiatore. 4. Traendone frutto, contemplo la scena, rilevando: le accuse contro Gesù il suo silenzio il suo volto velato, sputacchiato e percosso 4. Passi utili: Dn 7,13; Sal 110; 63; 67; 42; 1Cor 2,2; Gal 3,1.

81. NON CONOSCO QUEST’UOMO (14,66-72) 66

E mentre Pietro era da basso nel cortile, viene una delle serve del sommo sacerdote, 67 e, vedendo Pietro che si scalda, guardandogli dentro, dice: Anche tu eri col Nazareno, Gesù. 68 Ma egli negò dicendo: Né so né capisco che tu dici! E uscì fuori nell’atrio, e un gallo cantò. 69 E la serva, vedendolo, cominciò di nuovo a dire ai presenti: Costui è di quelli! 70 Ma egli di nuovo negava. E, dopo un po’, di nuovo i presenti dicevano a Pietro: Veramente sei di quelli! Infatti sei anche galileo. 71 Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: Non conosco quest’uomo di cui dite. 72 E subito, per la seconda volta, un gallo cantò. E ricordò Pietro la parola, come gli disse Gesù: Prima che il gallo canti due volte, tre volte mi rinnegherai. E si gettò a piangere. 1. Messaggio nel contesto “Non conosco quest’uomo”, dice Pietro di Gesù, di questo Gesù dal volto velato. “Mostrami la tua gloria, mostrami il tuo volto!”. L’invocazione di Mosè (Es 33,18), ripetuta in numerosi salmi, esprime il desiderio profondo dell’uomo. Fatto a immagine e somiglianza di Dio, proprio perché esule - fuggiasco o pellegrino - rimane radicale nostalgia di lui, realtà di cui è specchio e in cui ritrova se stesso. Tre sono i modi in cui il Signore manifesta il suo volto ed è presente.

Il primo è quello sofferente e glorioso, col quale fu in mezzo a noi duemila anni fa. È il suo volto passato, la sua carne umiliata ed esaltata, principio della nostra fede. È presente nella parola che lo ricorda e racconta, perché possiamo riconoscerlo ora e attenderlo nel futuro. Il secondo è quello glorioso, con cui si svelerà alla fine dei tempi. È il suo volto futuro, la sua umanità esaltata, principio della nostra speranza. È presente nella preghiera e nell’eucaristia, per darci la forza di camminare ora e raggiungerlo poi definitivamente. Il terzo infine è quello crocifisso, con cui si offre ai nostri occhi ogni giorno. È il suo volto velato, presente nel volto di tutti i senza volto, principio della nostra carità. La nostra salvezza dipende dalla presa di posizione nel suoi confronti (Mt 25,31 s). La Parola ci dà occhi per riconoscerlo, l’eucaristia forza per amarlo: fede e speranza trovano la loro pienezza nella carità. È in questo volto che, insieme con Pietro, siamo chiamati ancora oggi a riconoscerlo come Salvatore, Signore e Giudice nostro. Il regno di Dio è veramente presente in mezzo a noi, ma in un modo che non attira l’attenzione (Lc 17,21). Anzi, ci guardiamo bene dal guardarlo. Preferiamo volgere altrove il nostro sguardo, perché “non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi” (Is 53,2). Questo brano è il punto di arrivo dell’esperienza di Pietro, esemplare per ogni discepolo. Solo dopo di essa uno è abilitato ad annunciare quanto il Signore gli ha fatto e la misericordia che gli ha usato (5,19). Pietro, non riconoscendo e rinnegando tre volte il suo Maestro, non mente, come a prima vista può apparire. Confessa la propria verità: non è “con lui”, non è “di quelli” che sono suoi discepoli, “non conosce quest’uomo”. Lui conosce un altro Cristo, per il quale era anche disposto a morire; questo invece, povero e umiliato, lo sconcerta e scandalizza. il velo, che è ancora sul suo cuore, gli impedisce di riconoscere il Signore che si rivela nella sua gloria. Il pianto squarcia questo velo e Pietro scopre insieme la sua verità di uomo che non conosce il Signore, e la verità di Dio che muore per lui che lo rinnega. Al di là di ogni illusione, vede finalmente se stesso. Ma il ricordo della parola di Gesù gli impedisce di cadere nella disperazione e lo strappa dall’inferno del proprio io fallito. La scena - un cerchio di fuoco nella notte - è tutta un gioco di occhi. Uno è come è visto, ossia giudicato dall’altro. Pietro vedrà la propria realtà riflessa successivamente, e in modo diverso, negli occhi della gente e in quelli di Gesù (Lc 22,62). A lui decidere con quale sguardo identificarsi: è la scelta fra la morte e la vita. La morte è una vita sacrificata all’idolatria, al culto di buone immagini di sé da produrre per accattivarsi lo sguardo altrui; la vita è morire allo sguardo proprio e altrui, per vivere di quello del Signore. Infatti, o Signore “quanto ciascuno è ai tuoi occhi, tanto egli è, e nulla di più”, dice l’umile san Francesco (Imitazione di Cristo 111,L,37). Le lacrime di Pietro sono il battesimo del cuore. Lo purificano e lo illuminano. Lui non è quello che crede di essere; si smentisce come discepolo e perde la sua presunta identità. S’accorge di essere uno che non può gestire la propria vita come vuole; vede di non saper morire per Gesù. È invece Gesù che muore per lui. Ormai, se sceglie di vivere, troverà la propria identità nel suo sguardo, vivendo pubblicamente della sua misericordia. L’esperienza di Pietro è il passaggio pasquale tra il fuoco nella notte e l’acqua del suo pianto. Anch’io devo passarci in mezzo, e accettare di morire a me, per vivere di colui che è morto per me. Il volto velato di Gesù è lo specchio della verità. Davanti ad esso cessa la menzogna su di me e su Dio, e io sono scandalizzato dalla realtà mia e sua. È importante che Gesù abbia predetto a Pietro il rinnegamento, e che Pietro lo ricordi. Solo così vede che non lo ama perché è disposto a morire con lui; lo ama invece e muore per lui peccatore. Gesù vuol bene a Pietro non perché è bravo, ma perché gli vuole bene. Non gli perdona perché è pentito, ma può pentirsi perché da sempre è perdonato.

Il discepolo accetta l’amore gratuito di Gesù come principio della propria vita. Libero dal giudizio proprio e altrui su di sé, vive del giudizio del suo Signore che muore per lui che lo rinnega. La vera conversione, quella dalla legge all’evangelo, è il passaggio dal mio amore per Dio al suo per me. Il mio peccato diventa il luogo in cui lo esperimento inequivocabilmente. La fede si fonda sulla certezza non della mia fedeltà a lui, ma della sua a me. Nulla mi potrà separare dall’amore che Dio ha per me in Cristo Gesù - neppure la morte, non solo mia, ma neanche sua (Rm 8,31-39). L’inferno diventa il luogo proprio della salvezza. 2. Lettura del testo v. 66 mentre Pietro era da basso nel cortile. Gesù ha il suo processo nella sala del sinedrio; Pietro nel cortile, in mezzo ai servi. Il primo, in alto, testimonia di sé, ed è condannato a morte; l’altro, in basso, nella vita quotidiana, deve semplicemente riconoscerlo per avere la vita. Sappiamo dal v. 54 che Pietro era seduto tra i servi a scaldarsi al fuoco. Nella notte c’è una luce: il legno verde brucia, mentre quello secco si sta scaldando (Lc 23,3 1). v. 67 guardandogli dentro. L’incerta luce del fuoco notturno facilita gli sguardi indagatori e lascia ampio spazio alla fantasia di chi si vede osservato. L’occhio accetta o rifiuta, ama o condanna, dà vita o morte: l’uomo vive o muore dello sguardo altrui. Da qui l’importanza di come si appare all’altro. Il look, il culto dell’immagine (= idolatria), è un tentativo di accattivarsi lo sguardo altrui, per non essere rifiutato o addirittura per imporsi; è ricerca di vana gloria, ossia di peso vuoto, propria di chi non si sente amato e non conosce la vera gloria (ebr. kabod = peso), che è il peso dell’amore di Dio per lui. tu eri col Nazareno, Gesù. Gesù fece i Dodici perché fossero con lui (3,14). Con lui l’uomo è se stesso; lontano da lui è lontano da sé. Ora che il Figlio si rivela come tale, ognuno è chiamato a essere con lui. v. 68 negò dicendo: Né so né capisco che tu dici! Pietro nega di essere con “questo” Gesù; afferma di non sapere e non capire che cosa significa. Era con “un altro”, che conosceva e capiva bene - almeno così credeva! Era con il Nazareno che guariva i malati e risuscitava i morti, dava il pane e confondeva i nemici. Questo invece, che “deve soffrire molto” da parte di tutti, non l’ha mai capito; fin dalla prima volta che si è rivelato, gli si è ribellato (cf 8,29-33). E gli altri sono tutti come lui, primus inter pares (cf 9,32 ss; 10,35-51). È vero che ama Gesù, ma non accetta che sia povero, umiliato e umile: lo vuole ricco, potente e glorioso. Quando, rivelandosi sotto il velo del nostro male, si manifesta per quello che è, scopre di non essere mai stato con lui. Pietro, capo degli apostoli e della Chiesa, fa in prima persona l’esperienza che ciascuno è chiamato a fare. un gallo cantò (v. 30). Il canto del gallo segna la fine della notte e l’inizio del giorno. La luce dissolve le tenebre e appare la realtà. Anche per Pietro svaporano i fumi della sua presunzione e s’annuncia l’alba. v. 69 vedendolo, cominciò di nuovo a dire ai presenti. Pietro vede lo sguardo altrui che indaga e scruta più a fondo - quello sguardo per compiacere al quale uno deve di volta in volta modificare la sua identità. Costui è di quelli. Osservatolo meglio, la serva è sicura. Pietro certamente è di quelli che sono con Gesù, fa parte della comunità dei discepoli. L’ha ben visto i giorni scorsi, tutto contento e gongolante,

mettersi in mostra sulla spianata del tempio, mentre il maestro diceva la sua a ciascuno e zittiva tutti, col popolo che lo applaudiva. Il primo dialogo era solo tra la donna e Pietro; ora la donna coinvolge con sé i presenti e con Pietro i suoi compagni. v. 70 egli di nuovo negava. Pietro continua a negare. Infatti uno è discepolo e fa parte della comunità solo se personalmente conosce e accetta di essere con questo volto. Non giova nulla essere “di quelli”, far corpo con loro e difendere lui e se stessi in qualsiasi maniera (cf 9,38-40). Non basta neanche far parte della comunità per essere cristiani; bisogna accettare il Cristo povero e umile come proprio Salvatore e Signore. sei di quelli! Infatti sei galileo. Il suo modo di parlare tradisce la sua origine e la sua appartenenza (Mt 26,73). Sarebbe come se uno mi dicesse che sono cristiano, perché ho un linguaggio e una cultura cristiana. v. 71 cominciò a imprecare e a giurare. Pietro ha nel rinnegare la stessa eccessività che poche ore prima aveva nell’affermare la propria fedeltà (v. 31). Non conosco quest’uomo di cui dite. Essere di quelli che sono con Gesù non significa avere una ideologia cristiana che ci accorpa e neanche parlare di Cristo: significa riconoscerlo nel volto velato, col desiderio di stare con lui. Qui Pietro dichiara la sua totale estraneità a Gesù. Neanche lo nomina; è “quest’uomo di cui dite”. Finalmente vede la verità del suo rapporto con lui. Lo ama veramente. Ma c’è stato come uno scambio di persona: ora si trova davanti uno che non conosce. v. 72 per la seconda volta, un gallo cantò. Il canto del gallo è ripetuto e insistente, come i dinieghi di Pietro, che comincia a conoscersi. È lontano da Gesù: non solo lo rinnega, ma neanche lo conosce. Ora che vede la propria notte, non tarderà molto a giungere il sole. ricordò Pietro la parola, ecc. Senza questa parola, Pietro sarebbe perduto. Essa gli ricorda che il Signore lo ha scelto sapendo che lo avrebbe rinnegato; gli garantisce che il Signore lo conosce e lo ama così com’è. Lc 23,61 aggiunge il dettaglio: “Il Signore guardò dentro Pietro”. Ora egli può confrontare lo sguardo altrui e proprio su di sé con quello del Signore che lo conosceva già prima che fosse, che lo ha fatto come un prodigio (Sal 139,14), e lo considera prezioso e degno di stima, perché lo ama (Is 43,2). Noi ci raffiguriamo sempre un Dio giudice; e lo vorremmo complice. Ma l’occhio di Gesù, che qui lo rivela, non è né giudizio né complicità: è perdono e accoglienza senza limiti. In esso vedo la verità mia e sua, l’una nell’altra: la mia miseria, colmata dalla sua misericordia. si gettò a piangere. Luca dice: “Uscito fuori, pianse amaramente” (23,62). Si allontana da Gesù, confuso, deluso e amareggiato di sé. Non sa più chi è lui; gli rimangono in mano solo i cocci delle presunzioni con cui si era identificato. Chi è veramente lui, che protestava di voler morire con Gesù? Chi è Gesù che conosceva il suo rinnegamento e lo guarda con amore e dolcezza, senza rimprovero? L’acqua amara del pianto di Pietro è il mare in cui affoga il suo faraone che lo tiene schiavo, l’orgoglio religioso, la presunzione di essere bravo. O farà la fine di Giuda - ultimo gesto di autoaffermazione come autodistruzione - o cercherà inutilmente di dimenticare tutto, o si volgerà a Gesù, vivendo del suo sguardo “gentile e cortese” (Giuliana di Norwich), che lo ama senza condizioni. Questa sarà la sua risurrezione, la sua nuova identità: l’amore e la misericordia del suo Signore che muore per lui! Ma prima è necessario che esca tutta l’amarezza della sua sconfitta.

Il battesimo è questa morte del proprio io falso, sempre in cerca di conferma e autoaffermazione, per vivere pubblicamente dell’amore di Dio per me. Questo è il mio io autentico, la mia vita nuova, libera finalmente dalla paura e dal giudizio. Niente mi può separare da questo amore: né il mio peccato né la sua stessa morte (Rm 8,39). È un amore eterno (Ger 31,3), che dà la vita eterna. Cessa finalmente la menzogna che ha fatto fuggire l’uomo da Dio, sua vita. Nasce il nuovo Adamo, che non si difende più da lui, con sottomissione religiosa o ribellione atea. Finalmente si sente amato e quindi capace di riamare. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, immaginando il cortile del palazzo del sommo sacerdote, dove Pietro sta con i suoi servi attorno al fuoco. 3. Chiedo a Gesù ciò che voglio: vivere non del mio o dell’altrui, bensì del suo sguardo su di me. 4. Traendone frutto, vedo, ascolto, e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Identificarmi con Pietro, sentire e rispondere alle sue stesse domande. 4. Passi utili: Is 43,1-6; Sal 139; Rm 5,6-11; 8,31-39; 1Tm 1,15 s; 2Tm 2,1-13.

82. CROCIFIGGILO (15,1-15) 151 E subito, all’alba, facendo consiglio, i sommi sacerdoti con gli anziani e gli scribi e tutto il sinedrio, legato Gesù, lo portarono via e lo consegnarono a Pilato. 2 E lo interrogò Pilato: Tu sei il re dei giudei? Ora egli rispondendo gli dice: Tu dici. 3 E lo accusavano i sommi sacerdoti di molte cose. 4 Ora Pilato di nuovo lo interrogava dicendo: Non rispondi niente? Guarda di quante cose ti accusano. 5 Ma Gesù non rispose più niente, così che Pilato si meravigliava. 6 Ora per la festa liberava loro un prigioniero, quello che richiedevano. 7 Ora c’era quello chiamato Barabba, legato coi rivoltosi

che nella rivolta avevano fatto omicidio. 8 Ora, salita la folla, cominciò a chiedere come sempre faceva loro. 9 Ora Pilato rispose loro dicendo: Volete che vi liberi il re dei giudei? 10 Sapeva infatti che i sommi sacerdoti l’avevano consegnato per invidia. 11 Ora i sommi sacerdoti sobillarono la folla che piuttosto liberasse loro Barabba. 12 Ora Pilato di nuovo rispondendo diceva loro: Che dunque farò di quello che dite il re dei giudei? 13 Ora quelli di nuovo gridarono: Crocifiggilo! 14 Ora Pilato diceva loro: Che ha fatto di male? Ora quelli oltre misura gridarono: Crocifiggilo! 15 Ora Pilato, volendo soddisfare la folla, liberò loro Barabba; e consegnò Gesù, dopo averlo flagellato, perché fosse crocifisso. 1. Messaggio nel contesto “Crocifiggilo”, grida la folla del suo re, che non ha fatto nient’altro di male che servire invece di dominare. Con la sua croce chiedono la liberazione del delinquente. La libertà di Barabba vale la condanna del Cristo. È il grande baratto che ci salva: la morte del giusto per la vita dell’ingiusto. Il processo davanti al sinedrio ha messo in rilievo “la bestemmia”: Messia, Signore e Giudice della storia è Gesù. Il processo davanti a Pilato tratta specificatamente della salvezza: egli è il Salvatore promesso proprio in quanto servo. Condannato come Figlio di Dio e giudice, rivela chi è Dio e quale è il suo giudizio; messo sul patibolo dello schiavo come re - modo divino di regnare! - diventa salvatore di tutti. Come Dio fu respinto dall’autorità religiosa; come re fu rifiutato dal popolo e ucciso dall’autorità civile. Giudei e pagani, tutti sono alleati nell’unico peccato e nell’unica salvezza. Il re è la persona riuscita, libera e potente. Uomo ideale e ideale di ogni uomo, è considerato l’immagine di Dio in terra. Ma in Israele c’è sempre stato un atteggiamento critico verso la regalità. L’attesa del messia, radicata nella promessa fatta a David (2Sam 7), aveva trovato terreno fertile nella constatazione di quanto fosse perverso ogni potere dell’uomo sull’uomo (cf 10,40ss; Gdc 9,8-15; 1Sam 8,1 ss). Il re infatti spadroneggia sui sudditi e li rende suoi servi, togliendo loro ciò che li rende simili a Dio: la libertà. Questa infatti risulta insieme alle facoltà di capire, di volere, e di operare, capacità divine che costituiscono l’uomo nella sua unicità di persona, signore di tutto e pari con tutti, unica immagine del suo Signore.

Il re è un Dio capovolto, la cui intelligenza scambia il vero con l’utile, la cui volontà sostituisce l’amore con l’egoismo, la cui azione mira al potere invece che al servizio. È una caricatura d’uomo, l’uomo fallito! Gli strumenti che usa sono le spade e i bastoni per sottomettere i nemici, i denari e i favori per tenere in mano gli amici. La storia non è che una variazione sul tema di queste quattro note. Grande - ma anche monotona, immensamente monotona! - è la fantasia dell’uomo nel suonare all’infinito questi pochi lugubri tasti. Dio aveva promesso a Israele di liberarlo, mandando un re che lo avrebbe veramente rappresentato, anzi, regnando lui stesso. Il regno di Dio, nocciolo della predicazione di Gesù, è la grande attesa dei suoi contemporanei. Questa promessa ora si realizza: Gesù è il re autentico, libero da ogni potere, capace di testimoniare la verità di Dio. Infatti si fa schiavo di tutti, donando tutto, fino al dono di sé. Il seguito del racconto procede come un solenne cerimoniale di corte: la condanna a morte è l’editto che lo proclama re, il dileggio dei soldati è la sua incoronazione, la via crucis il suo corteo trionfale, la crocifissione la sua intronizzazione. Dall’alto del suo trono, infine, esercita il suo potere: invece di uccidere i nemici, muore per loro, uccidendo la morte, nemico ultimo di tutti. Dobbiamo contemplare il seguito del vangelo con Pietro, che, dopo il suo pianto, si scioglie e scompare per diventare tutto e solo occhio. Esso è l’organo più debole, che non modifica in nulla la realtà; ma anche il più ricco, che accoglie e lascia entrare tutto nel cuore. Ciò che d’ora in poi suona burla sulla bocca di chi non crede, è professione di fede agli orecchi di chi conosce il Signore. Gesù appare ora in solitudine assoluta. Lui, che si è abbandonato nella mani di tutti perché nessuno si sentisse solo, sperimenta l’abbandono di tutti, anche del Padre. Questa solitudine è la sua forza divina di una solidarietà estrema con tutti. Nessuno lo desidera più. Un Dio e un re così è rifiutato da tutti! Anche la folla, fino a ieri osannante, lo vuole morto. Chi, come Pilato, lo vorrebbe salvare perché innocuo, lo consegnerà alla morte. Barabba rappresenta tutti noi, uomini falliti e meritevoli di morte, che siamo salvati per la sua morte. “Cos’è la verità?” chiede Pilato (Gv 18,38). Gesù non gli risponde nulla, perché la può vedere davanti a sé: lui è la verità di Dio che libera l’uomo. La libertà è il dono più grande di Dio, che egli rispetta sempre, anche quando è contro di noi o addirittura contro di lui. Sa che essa è schiava dell’ignoranza. Ora la libera, mostrandoci la sua verità (Gv 8,32). Gesù è re. È l’uomo libero e potente che ci salva proprio perché ama sino a farsi schiavo e impotente, portando su di sé la morte di tutti - dei sinedriti e di Pilato, di Pietro e di Barabba, dei capi e della folla, dei forti e dei deboli. È il Signore che regna, e dà la libertà a tutti gli oppressi (Sal 146); la sua condanna alla morte di croce è il prezzo della nostra libertà. Il discepolo in lui vede il male proprio e di tutti. Ma contempla insieme anche il bene che lui vuole a ciascuno. A questo punto si identifica con Barabba, il delinquente condannato a morte, al cui posto viene ucciso l’innocente. È la grazia pasquale, che gli viene dal sangue dell’agnello. 2. Lettura del testo v. 1 all’alba. Dopo essere già venuto di sera, di notte e al canto del gallo (13,35), ora il Signore viene anche all’alba. Ma trova tutti addormentati. Nessuno sa riconoscerlo. legato Gesù. Il Figlio del Padre è legato come Barabba (v. 7). Esprime così la sua libertà massima, che è quella di amare fino a farsi schiavo (Gal 5,13). Le sue sciolgono le nostre catene.

lo portarono via e lo consegnarono. Il dono di Dio - Dio stesso che si dona - è ridotto dal nostro possesso a oggetto di trasporto e di consegna. Così, passato per le mani l’uno dell’altro, raggiunge tutti, prima i giudei, e poi i pagani. v. 2 Tu sei il re dei giudei? Evidentemente il sinedrio ha presentato Gesù con questa accusa, l’unica che poteva interessare a Pilato. In Palestina capitavano di frequente moti di insurrezione, in cui uno si proclamava re e ingaggiava la lotta di liberazione contro i romani. L’ultimo tentativo sfocerà nella distruzione di Gerusalemme e del tempio (70 d.C.). Tu dici. Gesù conferma di essere re. Ma come sia re, nessuno lo sospetta. Pilato stesso resterà stupito. La sua regalità infatti, è divina, e consiste nel servire per amore. v. 3 lo accusavano di molte cose. Non c’è un capo d’accusa preciso. Chiaro è comunque che bisognava eliminarlo; sia come Dio, perché nessuno accetta un Dio così, sia come salvatore, perché nessuno comprende la sua salvezza. v. 4 Pilato di nuovo lo interrogava. Le parole “interrogare” e “rispondere”, sono di continuo ripetute nel processo. L’uomo interroga, ma il Signore non risponde, se non con un “tu dici”. Lo rimanda alla sua domanda, perché metta in crisi il suo modo di pensare. Non rispondi niente? Gesù d’ora in poi tacerà. Ciò che gli stiamo facendo lo rivela pienamente. Il suo è il silenzio del servo sofferente (Is 53,7); anzi è il silenzio maestoso di Dio: “Se uno volesse disputare con lui, non gli risponderebbe una volta su mille” (Gb 9,2). È soprattutto il silenzio che rivela chi è Dio. Infatti se parlasse, saremmo tutti condannati. v. 5 Gesù non rispose più niente. Si sottolinea ancora il suo silenzio. In esso “ora i miei occhi ti vedono” (Gb 42,5). Non sei più tu che devi rispondere a me, ma io a te. Pilato si meravigliava. Il suo silenzio provoca lo stesso stupore che provocava la sua parola (cf 1,21.27). E infatti la parola più potente di Dio: dice la sua essenza di misericordia infinita. v. 6 per la festa. L’autorità usava liberare un condannato a morte, ricordo dell’antica e presagio della futura pasqua, libertà per tutti. Ora questa festa sarà la morte dell’agnello muto, il cui sangue sarà la salvezza di Barabba. liberare. Questa parola esce quattro volte nel testo. È il tema stesso del racconto, che interpreta la condanna di Gesù come nostra pasqua, nostra liberazione dalla schiavitù e dalla morte. v. 7 Barabba. Barabba significa “figlio del Padre” (Bar-abba): è il nome che si dà ai figli di ignoti. Figlio di nessuno, ribelle, omicida, legato in catene, in attesa dell’esecuzione capitale, è l’uomo, specchio di ognuno di noi. Infatti, dopo il peccato, ignorando il Padre, siamo figli e fratelli di nessuno, e viviamo l’uno contro l’altro, reclusi come in carcere, aspettando di subire la nostra morte dopo averla data ad altri. v. 8 la folla cominciò a chiedere. Tutta la folla invoca la grazia pasquale. v. 9 Volete che vi liberi il re dei giudei? Se il Giusto fosse liberato, non sarebbe il nostro re e salvatore, e noi saremmo giustamente giustiziati.

Egli è il re promesso perché assume su di sé liberamente la nostra condanna. Pilato da parte sua vorrebbe rimandarlo, perché un simile re non è in concorrenza con Cesare. Politicamente è innocente, anzi innocuo. Se come Figlio di Dio è blasfemo, come re è non-re! Religione e politica lo squalificano. È interessante notare come il potente Pilato sia impotente a fare il bene che vuole; è solo capace di fare il male, anche quando non lo vuole. v. 10 l’avevano consegnato per invidia. Per l’unica volta è detto il motivo della consegna. La morte, entrata nel mondo per invidia del diavolo (Sap 2,24), entra ora in Dio per invidia dell’uomo. L’invidia è l’incapacità di godere del bene altrui e la brama di possederlo in proprio, anche a costo di sopprimere l’altro. È il sentimento più umano e più contrario a Dio, l’egoismo. Al suo opposto c’è la lode, che consiste nel godere del bene altrui. Dio è lode e gioia per tutte le creature, in particolare per l’uomo. Il suo occhio si compiace della creazione intera (Gn 1,10.12.18.21.25.31), e il suo cuore gode di tutte le sue opere (Sal 104,31). Lodare è la nostra salvezza, perché ci fa gioire della sua stessa gioia, godere del suo stesso bene più che se fosse nostro. La lode, espressione perfetta di amore, è la nostra somiglianza con lui. Se anche fossi in paradiso, ma fossi invidioso, sarei all’inferno: sarei infinitamente triste che Dio sia infinitamente più grande di me. Se anche fosse all’inferno, ma sapessi lodare, sarei in paradiso: gioirei infinitamente che il Signore sia infinitamente bello e buono. L’invidia e la lode fanno rispettivamente della nostra vita un inferno o un paradiso. Come Gesù, anche Abele il giusto fu ucciso per invidia; per lo stesso motivo anche Giuseppe fu venduto dai fratelli - e così li salvò! v. 11 sobillarono la folla. La folla è facilmente sobillabile perché ha lo stesso modo di pensare dei capi, che per questo appunto sono i suoi capi! Anch’essa non sa che farsene di un Cristo debole. La folla è una massa di individui sempre pericolosa e bestiale. È il contrario del popolo, fatto di persone libere e ragionevoli. Per questo chi vuol dominare deve ridurre il popolo a massa. liberasse loro Barabba. Con la morte di Gesù la folla chiede la vita di Barabba. Ma insieme chiede anche la propria. La sua morte, voluta da tutti, è per la vita di tutti. È una morte “vicaria”, al posto nostro. v. 13 Crocifiggilo. La folla è un’unica bocca, da cui esce per la prima volta il grido: Crocifiggilo! In esso risuona la voce di ciascuno. Ascolto distintamente anche la mia. Questo urlo disumano è insieme invocazione della salvezza divina. v. 14 Che ha fatto di male? Nulla! Passò tra noi solo facendo del bene e risanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo (At 10,38). Per questo deve essere crocifisso. Infatti solo perché innocente, può portare il nostro male e salvarci gratuitamente. Se fosse delinquente come noi, porterebbe il suo, e meritatamente. Crocifiggilo. Il grido è ripetuto. La morte di Gesù è decisa dal capi, voluta dalla folla, eseguita da Pilato. Tutti siamo implicati. Barabba con quale animo avrà udito il grido e atteso la condanna di Gesù? v. 15 Liberò Barabba. Questa è la “soddisfazione” che Pilato concede alla folla, innanzitutto a Barabba. Il Figlio del Padre si fa figlio di nessuno e viene ucciso in vece sua; lui, il figlio di nessuno, diviene libero e figlio del Padre, che gli ha dato la vita del Figlio. È la grazia pasquale.

Barabba, dopo Pietro, è l’identificazione ultima: Gesù muore per me, la sua morte è la mia vita. Da qui conosco chi sono io e chi è Gesù: io sono un disgraziato graziato, e lui è il Signore che mi grazia a caro prezzo. Con Barabba, ogni uomo è oggettivamente liberato da Cristo che si consegna per lui. Ma pochi lo sanno. Al solo ex lebbroso che torna da lui a rendere grazie, Gesù domanda dove sono gli altri nove (Lc 17,17), inviandolo presso di loro. Infatti chi veramente lo conosce, è, come Paolo, spinto ad annunciarlo a tutti. La salvezza infatti è conoscere il Salvatore e rispondere personalmente al suo amore. consegnò Gesù. Gesù è oggetto costante di consegna. Ora è nelle mani della folla. Tutta la sua vita è un divino abbandonarsi nelle mani degli uomini - un cadere con amore fiducioso nel loro abisso che tutto colma del suo dono. dopo averlo flagellato. Questo supplizio atroce, fatto prima della crocifissione, è solo nominato. Si davano 40 colpi meno uno con l’“orribile flagello”, una frusta con l’estremità di pezzi d’osso e di metallo. È la tortura dello schiavo prima del patibolo. Poteva essere mortale. perché fosse crocifisso. Si compie così la volontà di tutti gli uomini, che non sanno che fare di questo Signore e Salvatore debole - “Fu crocifisso per la sua debolezza” (2Cor 13,4). Si compie così anche la volontà di Dio, che proprio qui si rivela Signore e Salvatore - Signore della misericordia e Salvatore dall’egoismo. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo immaginando il palazzo dove sta Pilato con i suoi soldati, davanti al quale Gesù è processato. 3. Chiedo al Signore ciò che voglio: udire anche il mio grido tra quello della folla, e sentire la stessa meraviglia e gioia di Barabba, liberato al posto di Gesù che muore per lui. 4. Contemplare i seguenti punti: Gesù legato è condotto dalla casa di Caifa al pretorio Pilato gli chiede se è re Gesù tace Barabba scambiato con Gesù la folla grida: “Crocifiggilo” Gesù flagellato 4. Passi utili: Gdc 9,2-15; 1Sam 8; 2Sam 7,1-17; Gv 13,1-17; Sal 95; Mc 10,41-45; Gal 5,13-15.

83. SALVE, O RE DEI GIUDEI (15,16-20)

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Ora i soldati lo portarono via dentro al palazzo, ossia pretorio. E convocano tutto quanto il manipolo, 17 e lo vestono di porpora, e gli cingono una corona di spine intrecciate, 18 e cominciarono a salutarlo: Salve, o re dei giudei! 19 E gli battevano il capo con una canna, e gli sputavano addosso, e, piegando le ginocchia, lo adoravano. 20 E, quando l’ebbero schernito, lo spogliarono della porpora e lo rivestirono delle sue vesti. E lo conducono fuori per crocifiggerlo. 1. Messaggio nel contesto “Salve, o re dei giudei”, dicono per scherno a Gesù i soldati. Secondo il cerimoniale di corte per il nuovo re, questa è l’incoronazione, che segue la proclamazione regale. Poi ci sarà il corteo trionfale, che lo condurrà al luogo del giudizio, dove siederà sul trono per esercitare il suo potere. Gesù ormai non è più chiamato per nome. Oggetto innominato - nefando ineffabile! - per dodici volte è indicato col pronome “lo”, “lui” termine passivo dell’azione altrui. Non è più nessuno, perché è tutti, col nome di tutti i senza nome. Uscirà col suo nome unico mentre è condotto al Calvario per la crocifissione (v. 22) e nel suo duplice grido di abbandono e di morte (vv. 34-37). Gesù è presentato come l’uomo negativo, carico del male che nessuno vuole per sé e che ognuno scarica sugli altri: “Disprezzato e reietto agli uomini, uomo dei dolori, che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori (...), è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per e nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per e sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,3-5). Trattato per gioco da re, in lui, che ne fa le spese, vediamo la brutalità del gioco che tutti facciamo. Queste righe sono un sommario di filosofia della storia. Non è scritto su carta, ma sulla carne piagata del Figlio dell’uomo. Ma “questa” carne è la nostra salvezza. Su di essa ricade. tutto il male che facciamo, e lì si arresta. Infatti c’è uno che, invece di restituirlo con interesse, ha la forza di portarlo per amore. Alla fine della coronazione Giovanni ce lo presenta dicendo: “Ecco l’uomo” (19,5). Al di là di ogni menzogna, ecco l’uomo, come lo riduciamo coi nostri giochi terribili di potere. Ma anche: “Ecco Dio” - cosa si è fatto per noi e cosa noi ne facciamo. Il volto di Gesù coronato è la verità dell’uomo. Ma anche la verità di Dio. Che altro poteva fare, che non ha fatto per noi? La contemplazione di questa scena ha il potere di liberarci dalla brama di avere, di potere e di apparire da quella stupidità e vanità che ci distrugge tutti. Gesù è l’ultimo dei giusti, su cui ricade tutta l’ingiustizia. È il colatoio, l’imbuto in cui si riversa e passa ogni malvagità. In lui vediamo senza veli tutto il male che noi facciamo e tutto il bene che Dio ci vuole.

I1 discepolo riconosce e adora il suo Signore e Salvatore in Gesù umiliato e disprezzato. Quanto per gli altri è salvezza, per lui è tragica burla; quanto per gli altri è burla, per lui è salvezza. 2. Lettura del testo 16 i soldati. Sono i ministri di quel potere che dà la morte (Gv 9,10), risultato ultimo di ogni dominio dell’uomo sull’uomo. È l’unico che Dio non ha, perché è il Signore dei viventi (12,20), amante della vita Sap 11,26), che tutto ha creato per l’esistenza (Sap 1,14). lo Gesù non ha più nome. È indicato col pronome, che sostituisce qualunque nome. Infatti è al posto di ciascuno di noi. D’ora in poi non è più soggetto di alcuna azione: è solo oggetto, pura passione, che subisce ciò che noi gli facciamo. Proprio così compie la grande opera della nostra salvezza. portarono via, dentro al pretorio (Gv 18,28). Proclamato re davanti a tutti con la condanna alla croce, ora è condotto nel palazzo dove, circondato dalla corte, è incoronato. convocano tutto quanto il manipolo. Il manipolo, costituito da 200 soldati, è la guarnigione del palazzo. I servitori della morte si radunano attorno al servo che dà la vita. Al centro dell’ingiustizia c’è il giusto che paga: ogni male che facciamo è sempre portato da un altro che è innocente, almeno nei confronti di quello che subisce. E chi è totalmente innocente, lo porta tutto. Questa è la legge fondamentale della storia. I servi asserviti alla violenza riversano sul servo di Dio il loro gioco di male, riducendolo a dolorante mimo di chi sta loro a capo. v. 17 lo vestono di porpora. La porpora, clamide scarlatta del soldato e veste di sangue di chi ha il potere, avvolge l’innocente. La violenza altrui aderisce stretta alla sua carne martoriata. gli cingono una corona di spine intrecciate. La corona indica la gloria di chi domina. Non è forse fatta sempre di spine infitte nel capo di chi è dominato, privato della sua libertà, del proprio volto a immagine di Dio? Secondo Gdc 9,8-15, le spine sono il simbolo della regalità dell’uomo. v. 18 cominciarono a salutarlo. È il saluto di sudditanza, fatto per scherno. E cos’è la sudditanza se non il più brutto scherno tra gli uomini, che svendono la loro dignità? Salve. Significa: continua a star bene! L’uomo considera bene il potere, e desidera che continui. re dei giudei. È il titolo di Gesù. Proprio ora è re: è libero e libera dal male, perché non lo fa e lo porta su di sé. v. 19 E gli battevano il capo con una canna. La canna è lo scettro regale, simbolo del comando. E cos’è il comando, se non una percossa sul capo di chi ha ragione? gli sputavano addosso. L’incoronazione, secondo il cerimoniale, comprendeva il bacio di benevolenza e di adorazione. Adorare significa proprio baciare, portando alla bocca l’oggetto del proprio desiderio. In un rapporto di dominio, cos’è la benevolenza se non uno sputo, un disprezzo reciproco?

piegando le ginocchia, lo adoravano. La prostrazione di sudditanza conclude l’incoronazione del nuovo re. Qui è una presa in giro. Cos’è la sudditanza tra gli uomini, se non una reciproca presa in giro, sia del superiore che del suddito, in un gioco di falsità? v. 20 E, quando l’ebbero schernito. La sintesi di tutta la scena è detta: “schernire”. Questo scherno o gioco infantile dell’uomo con il suo ideale di regalità è la tragica realtà del suo male che si scarica sul giusto sofferente. Gesù è Salvatore e Signore perché inizia il gioco opposto, facendosi per amore ultimo e servo di tutti. Accetto che lui, proprio così, è il mio re? Oppure continuo anch’io a schernirlo, perpetuando il brutto scherzo con i miei ideali di potere e di prestigio? lo spogliarono della porpora. È l’anticipo della nudità ultima, quando suo vestito sarà il suo stesso sangue - sublime nascita dell’uomo nuovo! lo rivestirono delle sue vesti. Queste sue vesti diverranno nostra eredità ai piedi della croce, quando lui rivestirà la nostra nudità. E lo conducono fuori per crocifiggerlo. Dopo l’incoronazione il re esce dal palazzo. Seguito dal corteo trionfale, andrà al luogo in cui si alza il suo trono, dove farà giudizio e giustizia di tutti i nemici. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo immaginando il cortile del pretorio, con tutta la corte e Gesù al centro. 3. Chiedo ciò che voglio: riconoscere in Gesù flagellato e coronato il mio Salvatore e Signore, il vero uomo e il vero Dio. Gli chiederò, nonostante ogni mia resistenza e ripugnanza, di somigliare a lui e di “scegliere piuttosto che ricchezza, povertà con Cristo povero, piuttosto che onori, umiliazioni con Cristo umiliato, e desiderio di essere considerato stolto e pazzo per Cristo, che per primo fu tenuto tale, piuttosto che saggio ed accorto secondo il giudizio del mondo” (Ignazio di Loyola). 4. Contemplo i dettagli: ogni tessera del mosaico di male, che compone il quadro della nostra storia, diventa una perla preziosa dell’amore di Dio che se ne fa carico. 4. Passi utili: Sal 93; 96; 97; Gal 6,14.

84. PRENDA LA SUA CROCE (15,21) 21

E angariano un tale che passa, Simone Cireneo, che viene dalla campagna, il padre di Alessandro e Rufo,

a prender su la croce di lui. 1. Messaggio nel contesto “Prenda la sua croce”, dice Gesù a chi vuol essere suo discepolo (8,34): Ognuno deve caricarsi e portare quella che è sua e di nessun altro. Ma chi sarà questo cireneo che porta non la sua, ma la stessa di Gesù? Lo svolgimento del racconto - siamo ormai all’apice - è interrotto per introdurre questa strana figura. Nella contemplazione della passione c’è come una sosta, una pausa per considerare il nostro rapporto con la croce di Gesù. Dopo l’Ecce homo, “Ecce homines”: ecco gli uomini, in cui si perpetua la passione del Signore. In loro possiamo continuamente vederla e misurarci con essa. Discepolo è colui che fa i conti con la croce, Simon Pietro lo sapeva e lo voleva (14,29.31). Ma la ventura tocca a un altro Simone, che non sa e non vuole, anzi è costretto dalla violenza altrui. Il tutto è per lui come un incubo spiacevole, una prepotenza disdicevole, un non senso gratuito. Eppure gli è riservata la dignità più alta che mai sia toccata a un uomo. Il Signore sta compiendo la “sua” opera più importante, coronamento di tutta la creazione; e lui lo aiuta a portare la “sua” gloria, il peso del suo amore per il mondo. Solo più tardi capirà. Per ora soltanto maledice, borbotta e si ribella, e con ragione, contro il caso malaugurato. Questo brano ci fa riflettere a fondo sulla nostra vocazione di discepoli: come avviene, e a chi tocca. Essere discepoli non è scelta nostra, ma dono di Dio. Ci viene dalla storia, al di là di ogni nostro buon proposito. Ci cade addosso quando dobbiamo portare la croce che non comprendiamo e non vogliamo, perché insensata e ingiusta. Contro ogni falsa mistica, essa per sé non viene da Dio, ma dall’uomo. Anche Gesù la porta non perché gli piace, ma perché non può fame a meno. Chi ama “deve” portare il male dell’amato. Inoltre il caso (!) vuole che portar la croce tocchi sempre all’ultimo, al più povero, a colui che non può ribellarsi - se no è peggio per lui! In altre parole: la croce la fa il forte, e la porta il debole. Il Signore fu crocifisso appunto per la sua debolezza (2Cor 13,4). Lui è debole perché ama. Ma chiunque è debole, per qualunque motivo, si trova “costretto” a fare ciò che lui liberamente assume. Se Gesù si è fatto per amore ultimo e servo di tutti, l’ultimo è obbligato a servire tutti. È come lui, anche se non lo vuole. La sua croce è quindi quella degli altri, la stessa del Signore, che si identifica con lui e lo associa a sé. Simone pare la persona più estranea. È “un tale”, viene da Cirene, in Africa; è lì di passaggio e viene dai campi, totalmente ignaro di quanto sta succedendo. Non sa e non vuole nulla di quanto il caso (cattiveria dell’uomo e/o mano sapiente di Dio?) gli va preparando. Sia detto per inciso, “il caso” è ciò che è sottratto all’intelletto e alla volontà nostra, ed è il luogo tipico dell’azione di Dio nella storia. Lui è il Signore di tutto e di tutti, nulla sfugge alla sua mano, e conduce tutto al bene (Rm 8,28). Rispetta la nostra libertà, ma anche la propria. E così si riserva di intervenire in ciò che avviene “per caso”, fuori della nostra decisione. Egli agisce negli abbondanti buchi che la nostra programmazione e perspicacia gli concede, operando in essi le cose principali, quali il nostro nascere - perché proprio io? - gli incontri determinanti della vita e il nostro incontro con lui nella morte. Così “il caso” riserva al Cireneo un misterioso destino da superdiscepolo: senza saperlo o volerlo, sostituisce addirittura Cristo nel portare la croce altrui. Diviene così immagine vivente del suo Signore, che porta il male del mondo! Ciò che il Cireneo è involontariamente per Gesù, Gesù è liberamente per ciascuno di noi. Egli porta la croce per tutti noi, Cireneo compreso, e morirà su di essa. Dirà Gerolamo: “Il Cireneo è Cristo”. Nell’uomo di Cirene e in quanti come lui portano il male che non fanno, il Signore continua la storia

della nostra salvezza. I poveri cristi sono la sua carne sofferente da amare e adorare, in cui si compie quanto ancora manca alla sua passione per la salvezza del mondo (Col 1,24). Quando annunciamo loro il vangelo, sveliamo loro questo grande mistero. E se diamo tutto per loro, è per essere uniti a loro, corpo di Cristo e seme del Regno. Gesù porta la croce dei nostro male di cui morirà. Il discepolo è associato a lui. Sa che la “sua” croce ormai non è più sua: è del suo Signore. 2. Lettura del testo v. 21 angariano. Angariare è una parola tecnica, che significa requisire uno per un lavoro coatto. un tale che passa. È la persona più indeterminata del vangelo: un tale, di passaggio, totalmente estraneo a quanto capita. Simone. Ora sappiamo il suo nome. Guarda caso, è identico a quello di Simone Pietro che, secondo le sue pretese di poche ore prima, avrebbe dovuto essere qui a morire con lui (14,29.31). Ma anche Pietro diventerà discepolo e seguirà Gesù quando, come questo Simone, sarà portato dove lui non vorrà (Gv 21,18s). Cireneo. Viene da Cirene, in Africa. Dal suo nome possiamo supporre che sia un ebreo emigrato in cerca di fortuna. Ma non deve averne fatta molta, se è tornato a lavorare i campi, forse altrui. Se fosse stato ricco, altri avrebbero lavorato per lui. Scegliendo proprio lui per portare la croce, ovviamente i soldati hanno guardato in giro per vedere quale fosse il più sprovveduto. Certamente uno furbo o potente non l’avrebbero mai beccato, neanche se avessero voluto! viene dalla campagna. Sta entrando in città, e si incontra con il corteo pasquale che ne esce. il padre di Alessandro e Rufo. Se Marco lo indica attraverso i suoi figli, significa che questi sono noti alla Chiesa di Roma, come pure sua moglie (cf Rm 16,13). È da notare che Simone di Cirene è l’unico nominato in quanto padre - non perché si stia parlando di suoi figli (come in 5,21 ss; 9,14 ss). Ed è padre non di uno, ma di due. Due è principio di molti. Infatti ha una grande posterità: tutti i cirenei della storia. a prender su la croce di lui. La croce è da sollevare e da portare: c’è un inizio in cui la si prende, e una continuazione in cui la si porta. Ognuno di noi ha da portare la “sua” croce (8,35) quotidiana (Lc 9,23), che giustamente si merita per le sue malefatte (cf Lc 23,41). Costui invece porta quella di Gesù. È il più grande dono concesso a un uomo: collaborare col Signore alla salvezza del mondo. Questo indica forse anche che la nostra croce, al momento decisivo, è sempre in realtà la sua, sulla quale muore lui e non noi. Noi siamo associati alla sua, ma senza morirne, perché lui si è associato alla nostra, morendo. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo immaginando il cammino attraverso la città dal pretorio al Golgota.

3. Gli chiedo ciò che voglio: essere associato alla sua croce, al suo mistero di morte e risurrezione. E lo ringrazio che per primo lui si è associato alla mia croce ed è morto per me. 4. Traendone frutto, guardo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. E considero anche i “casi” spiacevoli della mia vita: che senso hanno per la mia vita di discepolo? 4. Passi utili: Ger 20,7-18; Sal 33; Gv 21,15-19; Col 1,24; 2Cor 4,7-12; 11,21b-12,10.

85. LO CROCIFIGGONO (15,22-28) 22

E lo portano al luogo Golgota, che si traduce luogo del cranio, 23 E gli davano vino con mirra, ma lui non ne prese. 24 E lo crocifiggono, e si dividono le sue vesti, gettando su di esse la sorte, cosa prenda ciascuno. 25 Era l’ora terza e lo crocifissero. 26 Ed era scritta l’iscrizione della sua accusa: Il re dei giudei. 27 E con lui crocifiggono due predoni, uno alla destra e l’altro alla sinistra di lui. 28 [e si compì la Scrittura che dice: Fra gli iniqui fu annoverato]. 1. Messaggio nel contesto “Lo crocifiggono”. Con questa parola cruda si indica ciò che gli uomini fanno al Figlio dell’uomo. Consegnato nelle loro mani, il loro servizio a chi è venuto a servirli, è inchiodargli le mani alla croce. Il patibolo dello schiavo diventa suo trono regale. Qui, ultimo e servo di tutti, realizza pienamente la regalità di Dio. “Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo” (Gal 6,2), che consiste nel porsi, per amore, a servizio gli uni degli altri (Gal 5,13). È la legge di libertà (Gc 2,12) che Gesù ora compie, facendo per primo ciò che comanda a noi. In lui vediamo la sovranità universale di Dio: regna su tutti, perché porta il peso di tutti. Fu crocifisso per la sua debolezza (2Cor 13,4). È la debolezza di chi, amando, fa suo tutto il male dell’amato. L’amore è una malattia mortale, sopportabile solo da Dio, pienezza di vita.

Paolo diceva: “Ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo e questi crocifisso” (1Cor 2,2). Scandalo per la religione e stupidità per la ragione, è potenza e sapienza di Dio, del Dio amore. La carne di Gesù in croce ne è l’esibizione totale. La sapienza dell’uomo è affermare se stesso, servendosi degli altri; la sua potenza è possedere, dominare ed esaltarsi. La sapienza di Dio invece è affermare l’amato servendo; la sua potenza è spogliarsi di tutto, anche del proprio io, abbassandosi fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo è Dio, e non uomo. E per questo ci salva. La croce è il suo giudizio, con cui convince di stoltezza la nostra sapienza e d’impotenza la nostra potenza. Egoismo e morte sono vinti definitivamente. Gesù crocifisso è re. Egli è l’uomo libero, immagine di Dio, che ama e serve a sue spese, caricandosi del male di tutta la nostra debolezza e stupidità. Il discepolo riconosce nella sua carne la potenza e la sapienza di un Dio che è amore senza condizioni e senza misura. 2. Lettura del testo v. 22 Lo portano al luogo del Golgota, che si traduce luogo del cranio. È un piccolo rilievo fuori le mura, a ovest di Gerusalemme. Adamo salì sull’albero del bene e del male per elevarsi fino a Dio; ma tutta la sua ricerca di potenza non gli procurò che morte. Dio ora scende fino all’abiezione estrema e con la sua impotenza gli ridà vita. Secondo una tradizione popolare, il legno della croce viene dalla pianta che diede a tutti il frutto mortale. In effetti è fatta dal nostro peccato. Nelle raffigurazioni tradizionali, ai suoi piedi c’è un teschio e una caverna, immagini di Adamo e dell’abisso, l’uomo e il suo cosmo ritornati al caos. Ora, dal cuore della morte, fiorisce l’albero della vita. v. 23 gli davano vino con mirra. È una bevanda anestetica, per lenire i dolori atroci della morte di croce. Tutta la sapienza umana è, in ultima analisi, un tentativo - peraltro mai riuscito! - di anestesia contro la morte. “Date bevande inebrianti a chi sta per perire, e il vino a chi ha l’amarezza del cuore” (Pr 31,6). ma lui non ne prese. L’insipienza di Dio lo porta a rifiutare il calice analgesico, per gustare fino in fondo il nostro calice di morte. La sua lotta nell’orto fu proprio per bere questa coppa di amarezza e di furore (14,36). v. 24 E lo crocifiggono. La morte per crocifissione è atroce e lenta. Finché uno ha forza di vivere, si solleva sulle braccia e respira; quando non ne può più, si abbandona e muore asfissiato. Più uno lotta per non morire, più soffre. È una pena che traduce tutta la capacità di vita in orrore e dolore. Infatti l’agonia si prolunga in proporzione diretta alla vitalità che uno ha. Più che venire dal di fuori, la morte gli cresce progressivamente dal di dentro, fino a invaderlo tutto; e uno finisce quando ha spremuto l’ultima goccia di vita. La croce è figura dell’esistenza umana: insufficienza di respiro, nell’affanno continuo, fino all’impossibile, quando l’ultimo anelito diviene rantolo. Non si esprime nessuna emozione su ciò che avviene a Gesù. È realmente “nefando”, ossia indicibile. Ogni nostro dire o sentire su di lui scompare davanti a ciò che lui è per noi.

Siamo al sesto giorno, il giorno in cui Dio fece Adamo, re del creato. Il suo patibolo di schiavo ribelle tocca al Figlio obbediente, nuovo Adamo. Ne fa il suo trono, da dove compie il giudizio di Dio. si dividono le sue vesti (Sal 22,19). Adamo dopo il peccato ricoprì la propria nudità con foglie di fico. Dio le sostituì con tuniche di pelli (Gn 3,21), in attesa di dargli le vesti del Figlio, il quale, rimasto nudo, ce le lascia in eredità. Basta toccarne un lembo per essere salvati (cf 5,27 s). La sua nudità ci riveste della gloria di figli. v. 25 Era l’ora terza. Siamo al mattino del sesto giorno, quando fu creato Adamo, figlio di Dio. e lo crocifissero. Sulla croce contempliamo il Figlio del Padre che porta su di sé il nostro destino di figli e fratelli di nessuno, ribelli e omicidi. v. 26 Il re dei giudei. Il titolo di condanna è la didascalia della croce. Gesù muore così perché è re; ed è re perché muore così. È la libertà somma di Dio, che libera tutti. v. 27 con lui crocifiggono due predoni. Tre croci sono sul Golgota: due di malfattori e una del solo giusto, al centro. Le prime due, giuste e meritate, che distruggono il senso della vita, rappresentano tutti noi, ingiusti che giustamente moriamo in croce. L’altra, ingiusta e gratuita, dà senso a ogni morte: è la presenza di un amore più grande di ogni male. uno alla destra e l’altro alla sinistra. I posti che Giacomo e Giovanni volevano e gli altri contendevano (10,37.41), sono riservati al due malfattori. Al centro c’è la “Gloria”, peso di un amore infinito che sprofonda in ogni abisso. [v. 28 si compì la Scrittura che dice: Fra gli iniqui fu annoverato] (Lc 22,37 s; Is 53,12). In questa sua solidarietà estrema, che non ci abbandona neanche nella solitudine assoluta, Dio compie ogni promessa. Ormai troviamo la Gloria anche dove non dovrebbe essere, nel cuore di ogni empietà, nella stessa morte degli abbandonati da Dio. Ogni lontananza da lui ha ora al centro la sua presenza. Nessuno può più dirsi dimenticato, e lui finalmente è re di tutta la terra. C’è soltanto lui e soltanto il suo nome (Zc 14,9), che ora, dalla croce, abbraccia tutto e tutti. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo immaginando il Golgota, su cui si alzano le tre croci. 3. Gli chiedo ciò che voglio: comprendere la Scrittura e la promessa di Dio, in modo da riconoscere in lui il mio re e Salvatore. 4. Contemplo e adoro attentamente ogni parola. Dietro ciascuna c’è un abisso di tenebra che si riempie di luce. 4. Passi utili: Is 52,13-53,12; Sal 98; 99; 100; Fil 2,6-11; Ap 5,9-14.

86. SALVA TE STESSO (15,29-32) 29

E i passanti lo bestemmiavano, muovendo il loro capo e dicendo: Veh! tu che distruggi il tempio e lo edifichi in tre giorni: 30 salva te stesso e scendi dalla croce. 31 Similmente anche i sommi sacerdoti, schernendolo fra loro con gli scribi, dicevano: Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso! 32 Il Cristo, il re di Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo. E anche quelli che erano crocifissi con lui lo insultavano. 1. Messaggio nel contesto “Salva te stesso”, dicono tutti al Crocifisso. Il ritornello, ripetuto con attesa dai passanti e con ironia da chi finalmente lo gode sul patibolo, è gridato con rabbia da chi si vede inchiodato con lui alla forca. Salvarsi è la molla profonda di ogni attività dell’uomo. Il suo pulsante è la paura della morte, che, travestita da ansia di vita, suggerisce ad ogni istante il motto segreto: “Salva te stesso, pensa a te, ai tuoi interessi, a ciò che ti garantisce di sopravvivere”. L’amor proprio, che in realtà è odio di sé e degli altri, depone le sue uova di morte in ogni nostra intenzione, azione e operazione, ed è padre di tutti i mali. Chi vuol salvare la propria vita, la perde, vittima dell’egoismo che lo distrugge come immagine di Dio. Chi invece sa perderla, la salva (8,35b). Diventa come Dio, amore che dà tutto, anche se stesso, e proprio così è se stesso. Gesù, perdendosi per noi perduti, salva la vita sua e nostra, realizzando in sé e offrendo a noi un amore più forte della stessa morte. Ai piedi della croce esce allo stato puro il nostro peccato: ignoriamo Dio, e vorremmo che fosse come noi, invece di essere noi come lui. Vengono ripetute con scherno le due accuse, che già abbiamo udito nel sinedrio e nel pretorio: uno che non sa neanche salvare se stesso, come può pretendere di distruggere e riedificare il tempio, di essere re e salvatore di altri? In realtà il vecchio tempio è distrutto. Il Golgota, sdemonizzando Dio e la sua immagine, demolisce ogni nostra costruzione; l’insospettato nuovo tempio è il suo corpo crocifisso. Anche il falso ideale dell’uomo e di salvezza è distrutto. Il re, l’uomo libero che libera, è colui che sa amare in povertà, servizio e umiltà fino alla morte.

Realmente la croce è “la crisi”, il giudizio di Dio che liquida tutti i disvalori religiosi e mondani, facendo giustizia dei vari idoli che ci tengono schiavi. Gesù, in quanto crocifisso, è il nuovo tempio e il nuovo re - presenza di Dio, legge suprema e perfetta libertà. Discepolo è colui che “vede e crede” nel Crocifisso la realtà stessa di Dio e della sua salvezza. 2. Lettura del testo v. 29 i passanti. Sono probabilmente persone pie che vanno e vengono dalla città santa per la festa. Passando davanti alle tre croci, stanno attente a non contaminarsi. le bestemmiavano (cf 2,7; 14,64). La vera bestemmia, peccato diretto contro Dio, è non riconoscerlo in croce. Con essa la Gloria entra a viso scoperto nel mondo e si rivela per quello che è. Bestemmiano anche molti cristiani: tutti quelli che si comportano da nemici della croce di Cristo (Fil 3,18), ignorando la grazia. Staccare Dio dalla croce è staccarlo dalla sua essenza di amore eccessivo (Ef 2,4). muovendo il loro capo (Lam 2,15). È segno di scherno. Il nemico è soddisfatto della sua vittoria (cf Sal 22,8). Veh. Espressione di sorpresa, qui in senso sarcastico. La croce desta sempre stupore. Non è ovvia, per nessuno, neanche per i nemici. Solo il buon senso religioso di molti cristiani l’ha addomesticata tanto da renderla un motivo ornamentale, addirittura insegna per ottenere o gestire il potere. tu che distruggi il tempio, ecc. È l’accusa già fatta nel sinedrio (14,58). La distruzione del tempio va intesa come preannuncio della sua morte e risurrezione, con cui cessa ogni separazione tra Dio e uomo, e inizia un mondo nuovo. v. 30 salva te stesso. Il consiglio che ognuno dà a sé - norma suprema del suo agire - viene ora dato anche a lui. scendi dalla croce. È ciò che ognuno cerca di fare. Lui è Dio e non uomo proprio perché perde se stesso e resta sulla croce. Se cercasse di salvarsi e scendesse, corrisponderebbe alla proiezione dei nostri desideri. Sarebbe come tutti noi, specialisti nello scendere dalla croce per appendervi altri. v. 31 i sommi sacerdoti, schernendolo tra loro con gli scribi. Ai loro occhi di uomini potenti e sapienti la sua regalità pare impotenza e stoltezza. Ha salvato gli altri. È vero! E per questo perde se stesso. La sua perdizione è la nostra salvezza! non può salvare se stesso. Se si fosse salvato, non ci avrebbe salvati. In mezzo alle nostre croci sarebbe mancata la sua, solidarietà di Dio con noi. v. 32 Il Cristo, il re di Israele, scenda ora dalla croce. Gesù è il Cristo, il re potente, proprio perché si è fatto servo fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo è libero e libera noi dalla nostra schiavitù all’egoismo.

vediamo e crediamo. I potenti credono in uno che salva se stesso a tutti i costi, a spese, ovviamente, degli altri. È il loro modello. Noi invece crediamo Gesù come Salvatore e Signore, proprio perché vediamo che resta in croce. quelli che erano crocifissi con lui. Presto o tardi - ogni tardi è sempre troppo presto! - poveri e ricchi, saggi e stolti, ci troveremo tutti sulla nostra croce. Nessuno sopravvive alla propria morte. Lui si è fatto crocifiggere per essere con noi anche in quel punto, dove tutti passiamo da soli. lo insultavano. Anche - e soprattutto! - chi si trova alla fine ragiona in termini di egoismo, e non capisce la croce. Essa infatti è una potenza e una sapienza che “non è di questo mondo”, è “una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria” (1Cor 2,6 ss). La fede che salva consiste nel passaggio dall’imprecare Dio al vederlo presente nella propria morte. È ciò che in Luca fa uno dei due malfattori, vedendo vicino a sé il Crocifisso che non ha fatto nulla di male (Lc 23,39-43). 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, immaginando di essere ai piedi della croce. 3. Chiedo al Signore ciò che voglio: riconoscerlo come mio Salvatore e Signore in croce e comprendere perché questo spreco. 4. Identificandomi coi passanti, coi sommi sacerdoti e scribi, e con i crocifissi con lui, lo contemplo dal loro punto di vista. 4. Passi utili: Sap 2,12-20; 4,7-18; Sal 49; 35; 1Cor 1,17-25; Lc 23,3943; Fil 3,18.

87. VERAMENTE QUEST’UOMO ERA FIGLIO DI DIO (15,33-39) 33

E, quando fu l’ora sesta, fu tenebra su tutta la terra fino all’ora nona. 34 E, all’ora nona, gridò Gesù con voce grande: Eloi, Eloì, lamà sabachtáni, che si traduce: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? 35 E alcuni dei presenti, udendo, dicevano:

Ecco, chiama Elia. 36 Ora, correndo uno e imbevuta d’aceto una spugna, postala su una canna, gli dava da bere dicendo: Lasciate, vediamo se viene Elia, a tirarlo giù. 37 Ma Gesù, emessa una voce grande, spirò. 38 E il velo del tempio si squarciò in due, dall’alto in basso. 39 Ora vedendo il centurione, che stava lì davanti a lui, che così era spirato, disse: Veramente quest’uomo era Figlio di Dio! 1. Messaggio nel contesto “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”, dice il centurione di Gesù che vede spirare, dopo aver gridato: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Le prime parole del Sal 22, invocazione del Giusto sofferente, sono le ultime parole che risuonano dall’alto della croce. Questo grido è la somma di tutta la disperazione dell’umanità. L’abbandono di Dio è “il” male, lo sprofondare del tutto nell’abisso del nulla. Ogni nostra distanza dal Padre ora è colmata dalla voce del Figlio che si rivolge a lui dalle lontananze estreme del caos in cui si è lasciato cadere per incontrare tutti noi. Questo suo abbandonarsi assoluto a noi che l’abbiamo abbandonato, rivela il mistero stesso di Dio come amore infinito tra Padre e Figlio, aperto a tutti. Infatti non può perdersi così se non chi è infinitamente amante e amato. L’inizio del Sal 22 getta brutalmente in faccia un dato di fatto, che nel caso del giusto suona scandaloso: nel male e nella morte Dio lascia l’uomo al male e alla morte. In realtà lui è l’Emmanuele, che sta sempre “con”; noi abbiamo lasciato lui, non lui noi. Per questo lui ne porta il peso. Solo chi ama soffre la perdita! Egli sulla croce porta il male di ogni peccato: l’abbandono stesso di Dio. Così, solidale in tutto, ci garantisce ovunque e sempre il suo essere con noi. Nell’amore si scambia ciò che si ha e si è. Qui lo scambio è perfetto: Dio ci dà il suo bene e noi gli diamo il nostro male. Solo vedendolo morire così il centurione capisce chi è Gesù e chi è Dio; ed esclama, a nome di ogni lontano: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!”. Il vangelo di Marco punta a metterci davanti al Crocifisso, apice di tutta la storia di Dio e dell’uomo. La bibbia inizia col Signore che chiede ad Adamo: “Dove sei?” (Gn 3,9). La sua lunga ricerca, cominciata da allora, termina sulla croce. Qui il cammino del tempo giunge alla mèta prefissata dall’eternità: Dio trova l’uomo, anche il più lontano; e ogni uomo, anche il più maledetto, trova Dio. Il Crocifisso è l’unione consumata tra i due. La sua stessa carne, in quanto si fa carico di ogni male, è l’uomo nella maledizione del peccato; in quanto si consegna per noi alla morte, è epifania di Dio.

Tutte le promesse non sono più ricordo di un passato o desiderio di un futuro. Sulla croce sono compimento. Con essa infatti è creato il mondo nuovo e l’uomo nuovo, è celebrata la pasqua definitiva - esodo dalla schiavitù alla libertà, dall’idolo alla conoscenza di Dio, dalla morte alla vita -, viene il giorno di Dio con il suo regno, si compie il suo giudizio di salvezza per tutti, e si celebrano infine le nozze tra Dio e l’uomo. In Gesù crocifisso si realizza ogni figura dell’AT: egli è il nuovo Adamo, l’agnello pasquale, il servo/figlio obbediente, il giusto sofferente, il messia salvatore, il giudice che salva i miseri, il medico che guarisce i mali, lo sposo che sazia ogni brama. Infatti è il Figlio di Dio, Dio stesso, principio e fine di tutto. La croce è la chiave con la quale il Risorto apre ai discepoli le Scritture e la mente all’intelligenza di esse (cf Lc 24,25-27.45-46). Finalmente vediamo chi siamo noi e chi è Dio: noi siamo da lui amati infinitamente, più di se stesso - ha dato per noi il Figlio! - e lui è amore infinito, che ci ama sopra ogni misura. Oltre la croce Dio non ha più nulla da dirci o da darci: ha detto senza veli chi è lui, dandosi tutto a noi. In essa si è totalmente espresso. Esprimere significa “spremere fuori”: Dio ha come spremuto fuori di sé la sua essenza per riversarla su di noi. Il corpo di Gesù è il vaso rotto da cui esce il profumo. Il Nome è notificato e offerto a tutti. In lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9), esposta nella nudità della sua passione per noi. La croce è il segno definitivo da scrutare, anzi la realtà ultima in cui entrare, per comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità e conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza (Ef 3,18 s). Segue solo il silenzio della maestà di Dio, cui risponde lo stupore dell’adorazione nostra. Gesù crocifisso e morto rivela chi è Dio e chi è l’uomo, e unisce ambedue in un unico amore. È il sì di Dio all’uomo più lontano e maledetto, e insieme il sì a Dio dell’uomo più lontano e maledetto. La croce è rivelazione di Dio “sub contrario”, perché noi da sempre lo pensiamo all’incontrario. Vediamo infatti che la Vita muore, la Parola tace, il Primo è l’ultimo, il Signore è schiavo, il patibolo è trono, il Giudice è giudicato, il Giusto è giustiziato, il Salvatore si perde, il Benedetto è maledetto, il Santo è peccato. Realmente Dio, abbandonando se stesso per farsi in tutto simile a noi, ha rivelato chi è lui: amore più forte dello sheol (Ct 8,6). Il discepolo, come il centurione, sta davanti al Crocifisso; lo riconosce Figlio di Dio, vedendolo spirare in quel modo, mentre dà la vita per chi lo uccide. La fede che salva è conoscere in Gesù l’amore di Dio per me, più grande di ogni male e della stessa morte mia e sua. 2. Lettura del testo v. 33 E, quando fu l’ora sesta, fu tenebra, ecc. È mezzogiorno, l’ora del pieno sole. “In quel giorno oracolo del Signore JHWH - farò tramontare il sole a mezzodì e oscurerò la terra in pieno giorno” (Am 8,9). Nella morte di Gesù si consuma la decreazione che il peccato comporta. È veramente la fine (13,24): il mondo ricade nel nulla, la luce ritorna nelle tenebre. L’oscurità fitta che accompagna l’uccisione dell’Unigenito, richiama l’uccisione dei primogeniti d’Egitto. Ma proprio dal caos Dio trarrà la luce: dalle tenebre che gli mangiano il Figlio verrà la salvezza di tutti i suoi figli, Egitto compreso. Siamo a metà del sesto giorno, quando Adamo fu creato e intronizzato re del cosmo. Ma subito il peccato lo fece nascondere dalla luce del suo volto. È da allora che il suo giorno diventa tenebra sempre più fitta, fino ad oscurare il sole meridiano, fino a spegnere la luce stessa. L’uccisione di Dio è il massimo male, al di là del quale non c’è più alcun male.

v. 34 allora nona, Nel racconto della passione si contano le ore. È giunto “il” giorno, di cui si computa con cura ogni prezioso momento. Sono le tre del pomeriggio. Dopo il peccato, Dio venne a cercare Adamo, dicendogli: “Dove sei?”. Ed egli fuggì da lui, sua vita. Ora lo trova nella sua morte. gridò Gesù. Questo suo primo grido contiene tutte le notti e le morti dell’uomo lontano da Dio, È il grido del giusto oppresso, sconfitta del bene e somma di ogni male. con voce grande. Questa voce grande riempie tutti gli abissi che separano la croce di Gesù da Dio stesso. Il Verbo creatore, inarticolato come il nulla in cui è entrato, dall’altra riva del caos torna al Padre dal quale è uscito. Dio non può non udire il grido dell’oppresso (Es 2,23 s) e quello che si eleva dagli inferi (Sal 130): è lo stesso del Figlio suo unico, abbandonato sulla croce per noi. In lui è attento alla nostra voce. Se non risparmiò il proprio Figlio, ma lo diede per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui (Rm 8,32)? Questo suo grido grande dall’alto della croce è salvezza universale: riporta al Padre ogni nostra lontananza. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? È l’inizio del Sal 22. Parla del giusto su cui si riversa il male del mondo, e le cui sofferenze portano a tutti la giustizia e il regno di Dio. Il salmo termina dicendo: “Ecco l’opera del Signore!”. È un inno che passa dalla disperazione assoluta alla lode piena. È il canto di chi ha visto oscurarsi il volto di Dio ed ora vede realizzarsi tutta la sua bontà. L’abbandono di Dio è il male dell’uomo. Ora lo porta su di sé il Signore stesso - e ne muore. Il suo grido esprime un male per noi inconcepibile. Infatti Gesù è “il” Figlio, il cui essere è tutto e solo “essere del Padre”. Abbandonato da lui, vive il niente di sé - male infinito, oltre il possibile e l’impossibile. Qui è il grande mistero: Dio, Trinità d’amore in sé, si perde per salvare noi; e proprio così si ritrova pienamente realizzato anche nella nostra storia. Non c’è grido di disperazione che ormai non sia racchiuso in questo di Gesù. La sua divinità si rivela nel fatto che l’abbandono di Dio è rivolto a Dio stesso chiamandolo “mio” Dio: è fiducia filiale assoluta, gridata dall’ultima sponda a cui ha condotto la sfiducia antica. v. 35 Ecco, chiama Elia. I passanti capiscono Elia per Eloì (Dio). Il racconto coglie in questo fraintendimento l’occasione per un insegnamento importante. Elia, secondo le ultime parole dell’AT (Ml 3,22-24), doveva tornare prima della fine, per convertire il cuore dei padri verso i figli e dei figli verso i padri. La divisione padre/figlio interrompe la sorgente di vita, impedendo di trasmettere la benedizione di Dio. Gesù in croce è il figlio più lontano di tutti, che finalmente si rivolge al Padre. Questi non può non ascoltare la sua voce, e, in essa, quella di tutti coloro dei quali si è fatto fratello. È la conversione piena del cuore del Padre a tutti i figli, e del cuore del Figlio, ultimo di tutti, al Padre. Questo è davvero il giorno “grande e terribile, il giorno del Signore (Ml 3,23), che segna la fine del mondo vecchio e l’inizio del nuovo quello dei figli di Dio. v. 36 imbevuta d’aceto una spugna (Sal 69,22b). Il bere serve per allungare la vita, e quindi la sofferenza di chi soffre. Pietà o crudeltà? È difficile per l’uomo davanti alla morte distinguere i contrari! Qui è un atto di vana pietà, nell’illusoria attesa che Elia venga a liberarlo. Assunto in cielo su un carro di fuoco, egli era il santo dei miracoli impossibili. Il gesto assume anche un altro significato: noi diamo da bere a lui l’aceto - vino andato a male. gioia morta della vecchia alleanza, da sempre rotta col nostro peccato. Egli lo sorbisce fino alla feccia; è il calice dell’amarezza, accettato nell’orto per restituirlo a noi in calice di salvezza. La sua sete è quella di dissetare la nostra sete di vita (Gv 4,7; 19,28).

vediamo se viene Elia a tirarlo giù. L’attesa di un intervento finale è l’ultima a morire. Non Elia, ma Giuseppe d’Arimatea lo tirerà giù (v 46), per metterlo nel sepolcro. Dio infatti non libera dalla morte, ma nella morte. Diversamente sarebbe solo illusorio rinvio, e non liberazione reale. Dalla morte non scampa nessun mortale. L’uomo, attesa di morte, spera sino alla fine. Quando essa giunge, cessa ogni attesa. Ma proprio qui, contro ogni speranza e attesa umana, Dio è presente e dona la vita che promette: se stesso. v. 37 emessa una voce grande. Questa voce grande, più forte delle molte acque (Sal 93,4), è il grido di trionfo sul nemico e sulla morte parola possente di Dio che giudica e salva, vagito prepotente della nuova creatura che viene alla luce, ancora coperta di sangue. È finita la tenebra e la morte. Germoglia sulla terra proprio ora una cosa nuova, non ve ne accorgete? (Is 43,19). Nasce il Figlio stesso di Dio! Dalle acque della morte esce il capo, generato prima di ogni creatura (Col 1,15), primogenito di coloro che risuscitano dai morti (Col 1,18), primo di una numerosa schiera di fratelli (Rm 8,29). Questo grido riempie tutto e tutti, vivi e morti: è l’annuncio potente dell’amore di un Dio che dà la vita per noi peccatori, perché siamo suoi figli. Oltre che di trionfo e di nascita, è anche grido di gioia dello sposo che finalmente si unisce alla sua sposa. Sulla croce di Gesù, uomo e Dio sono finalmente una carne sola. La morte, unico nemico che avrebbe potuto separarli, li ha definitivamente uniti. spirò. La parola “spirare” non significa morire, bensì soffiare, buttar fuori il respiro vitale. Matteo dice: “consegnò lo Spirito” (27,50), e Giovanni: “trasmise lo Spirito” (19,30). Lo Spirito è la vita di Dio, l’amore mutuo tra Padre e Figlio. Dall’alto della croce Gesù soffia su tutto il mondo l’alito di Dio: il suo Spirito di Figlio è effuso su ogni creatura. Chi perde la sua vita la salva (8,34). Dando la sua vita, Gesù l’ha salvata per tutti: ci ha offerto la vita stessa di Dio, il suo amore di figlio e di fratello. v. 38 il velo del tempio si squarciò in due, dall’alto in basso. Nel suo battesimo si squarciò il cielo (1,10); ora il velo del tempio. Esso divideva il “santo” (tempio) dal “santo dei santi”, il luogo più intimo (Es 26,33), dove si occultava la Gloria (Es 35,12; Nm 4,5) e si custodiva l’arca (Es 40,3). Il suo rompersi è la distruzione simbolica del tempio, già predetta in 13,2, prefigurata in 11,15-19 e preannunciata dalle prime parole del vangelo (1,2; cf anche 14,58; 15,29). Con la sua morte cessa ogni separazione tra Dio e uomo: non c’è più nessun velo che li divide. Sul Golgota Dio strappa la coltre che copre il volto di tutti i popoli ed elimina la morte per sempre; e ognuno può dire: “Ecco il nostro Dio” (Is 25,7-9). Finalmente è manifesta la Gloria: il peso del suo amore per noi ha lacerato e strappato tutto ciò che lo tratteneva in seno al Padre col Figlio, e si è riversato su tutta la terra. Ogni uomo ora ha libero accesso a Dio, perché il suo amore si è dilatato e avvolge tutto il cosmo - quasi un unico utero che contiene l’unico Figlio, che è tutto in tutti. Il velo non poteva essere squarciato che dall’alto, cioè da Dio stesso; e si divide in due, perché rivela il duplice mistero di Dio e dell’uomo, che è uno solo in Gesù. v. 39 vedendo. Gli ultimi due faticosi miracoli di Gesù sono proprio per illuminare i ciechi (8,22 ss; 10,46 ss). L’uomo da sempre è cieco. Solo la croce è in grado di aprirgli gli occhi. Illuminato è colui che vede la realtà! Tutto il vangelo di Marco voleva portare a questa visione di Dio nell’uomo crocifisso. Finalmente lo conosciamo com’è, e possiamo con fiducia abbandonarci in lui in una vita filiale, libera da ogni paura. Vedere il Signore è venire alla luce: infatti la vita dell’uomo è la visione di Dio (Ireneo).

il centurione. Unico interprete autentico della croce è la persona meno adatta, che ha nessun titolo se non negativo - pagano, comandante del plotone di esecuzione, empio giustiziere del giusto. Ha l’uomo altro punto di vista per capire Dio che non sia quello della propria empietà? che stava lì davanti a lui. Marco vuol portarci a questo faccia a faccia col Crocifisso, nei panni del centurione che lo crocifigge. che così era spirato. Il confronto è con la morte di Gesù, e con questa sua morte, che avviene in questo modo che abbiamo visto. Veramente quest’uomo era Figlio di Dio. Solo qui nasce la fede, senza più pericolo di ambiguità. Tolto ogni segreto, comprendiamo per la prima volta chi è Gesù e chi è Dio. Le due conoscenze sono inseparabili tra di loro e dalla croce. Gesù infatti è Dio, perché muore così; e quel Dio che nessuno mai ha visto è quest’uomo che spira così. L’unica conoscenza che ne abbiamo è la carne di Gesù che si dona: essa è epifania, rivelazione della sua verità, che la menzogna antica ci aveva nascosta. Sulla croce Gesù manifesta chi è Dio e che è Dio: Dio è uno che ama così, e chi ama così è Dio. Si dice che “era” non perché non lo sia più, ma perché la sua morte fa capire come lo fosse anche prima, nella sua vita che il vangelo racconta. Ora dobbiamo rileggerlo e finalmente possiamo comprenderlo. Si dice “Figlio”, non “il” Figlio. La mancanza di articolo vuol dire che non è “il” figlio determinato che noi pensiamo; ma “un” figlio indeterminato che neanche sognavamo, e che proprio ora si rivela. Parimenti si dice “di Dio”, senza articolo, per significare che “questo” Dio era da noi ignorato. Un Dio crocifisso per nostro amore non lo conoscevamo neanche per sentito dire. È ignoto a ogni religione e a ogni ateismo. Questo Dio, per non diventare idolo, deve sempre restar indeterminato rispetto a tutte le opinioni del nostro senso religioso e ricevere le sue determinazioni dal Crocifisso. La “carne” del Verbo è l’unico principio di conoscenza di Dio, sua esegesi autentica (Gv 1,18), vero criterio di discernimento spirituale. L’umanità crocifissa di Gesù è il suo vaso rotto: esce il profumo, e il Nome si effonde per l’universo intero. Ecco perché tutto questo spreco, che solo può rivelare un Dio come amore, la cui misura è solo l’eccesso. Il centurione, interprete autorizzato della croce, è il primo di quanti si troveranno davanti al Crocifisso nella sua stessa condizione. Finora solo il Padre conosceva il Figlio e solo il Figlio conosceva il Padre. Il Padre lo proclamò tale nel battesimo (1,11) e lo presentò ai tre sei giorni dopo l’annuncio della passione (9,7). Il Figlio lo chiamò Padre la notte del sesto giorno, davanti alla sua morte (14,36). Ora, intronizzato sulla croce, appare a tutti e regna su tutti (cf Sal 22,29), cominciando dal più lontano. Infatti gli è il più vicino, dal momento che lui stesso è il più lontano di tutti. Gli altri riconoscimenti di Dio prima della croce erano solo tentazioni, intese a stornare dalla Gloria, che solo qui si rivela. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Con il centurione sto davanti al Crocifisso. 3. Chiedo ciò che voglio: vedere come lui spira. 4. Contemplo ogni parola e adoro la carne di Gesù, in cui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9). 4. Passi utili: Leggere e rileggere il racconto della passione è seme di contemplazione, visione

che trasforma. Infatti mi mostra chi è Dio non di spalle, in ciò che ha fatto, ma faccia a faccia, in ciò che si è fatto per me e in ciò che io gli ho fatto. Vedo, al di là di ciò che sento io per lui, ciò che lui sente per me. Può essere utile meditare le sette parole di Gesù in croce. Ci danno il vero senso di ciò che accade. 1. Lc 23,34 Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno. 2. Lc 23,43 Oggi sarai con me in Paradiso. 3. Mc 15,34 Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? 4. Gv 19,26.27 Donna, ecco tuo figlio! Ecco tua madre! 5. Gv 19,28 Ho sete. 6. Gv 19,30 Tutto è compiuto. 7. Lc 23,46 Padre, nelle tue mani affido la mia vita. Es 33,18-23; Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12; Sal 22.

88. C’ERANO ANCHE DELLE DONNE CHE GUARDAVANO (15,40-41) 40

Ora c’erano anche delle donne che guardavano da lontano, tra le quali anche Maria di Magdala e Maria, madre di Giacomo il minore e Giosè, e Salome, 41 le quali, quando era in Galilea, lo seguivano, e lo servivano; e molte altre, che erano salite con lui a Gerusalemme. 1. Messaggio nel contesto “C’erano anche delle donne che guardavano”. La vicenda di Gesù non finisce con la morte. Continua, anzi comincia il suo nuovo corso con queste donne che osservano la croce. Presto le ritroveremo, tranne Salome, al sepolcro, dove, tre giorni dopo, riceveranno per prime l’annuncio pasquale. Con loro il vangelo raggiunge il suo scopo: portare al confronto con Gesù morto, sepolto e risorto. Esse non fanno niente. Semplicemente guardano, sprofondando nella realtà che hanno davanti. È il battesimo, che le immerge in Cristo. Il far niente della contemplazione è l’azione somma, la sola capace di cambiare il cuore. Lo svuota di sé, riempiendolo di ciò che contempla. Come il Cireneo prima, così ora queste donne rappresentano il vangelo vivo. Raccolgono l’eredità del Signore, che in loro prosegue la sua storia di salvezza.

“Sotto il melo ti o svegliata”, dice lo sposo alla sposa (Ct 8,5) Vedendo il suo amore, non può non rispondervi. Tutti e quattro i vangeli vedono qui il luogo di origine della Chiesa. Dal costato aperto di Adamo è formata Eva, sposa sua e madre dei viventi; dal petto squarciato di Cristo è tratta la sua sposa, madre dei credenti (Gn 2,18 ss; Gv 19,25 ss). Al piedi della croce nasce il popolo sacerdotale, fatto di figli che hanno libero accesso al Padre; nasce il popolo regale, fatto di fratelli che si amano reciprocamente come sono amati; nasce il popolo profetico, fatto di persone responsabili, che ricordano e raccontano la gloria di Dio. La natura di una cosa è il suo nascimento (Vico). L’albero ha le qualità del seme da cui viene. Queste donne sul Calvario ci mostrano la natura della Chiesa: una realtà povera e piccola, stolta e insignificante, debole e compassionevole, che ha le stesse caratteristiche del suo Signore crocifisso. Questi due versetti sono un compendio di ecclesiologia, che descrive quel cammino che parte dalla croce e porta alla croce. I discepoli maschi, persone forti e qualificate, intelligenti e capaci, si sono eclissati. L’uomo resta finché ha qualcosa da dare o da fare. Dopo rimane solo chi ama. Cessata l’azione, inizia la compassione, che mette in gioco la persona stessa. Qui, e non prima, inizia l’amore, che rende vulnerabili a tutto il male dell’altro. E alla fine uccide. La compassione è la qualità del debole, da cui ci si difende con cura. Ma è anche la forza più grande che esista, l’unica in grado di superare la soglia invalicabile della solitudine estrema: non abbandona l’amato neanche nell’impotenza della morte. Più forte di ogni azione, arriva dove questa ha perso efficacia. A ben guardare, ogni azione che non è mossa dalla compassione non è amore dell’altro, ma affermazione di sé. La compassione ha come mezzo l’occhio. È la porta del cuore, che, invece di chiudersi, rimane aperta sull’oggetto del suo desiderio. Lo sguardo porta le donne fuori di sé, nel Crocifisso, e porta questo nel loro cuore. La contemplazione è estasi (= star fuori): fa stare l’amante fuori di sé nell’amato. Ma è anche principio di unione: fa entrare l’amato nell’amante. Lo sguardo delle donne sul Crocifisso corrisponde allo sguardo suo sul mondo, pieno dello stesso “amore crociato” che l’ha portato a quel punto. Attraverso la contemplazione di Gesù, le caratteristiche del Dio amore passano alla Chiesa e diventano le sue note essenziali, che la distinguono da qualunque altra società. Al v. 41 Marco sintetizza le altre sue caratteristiche, che sono il tessuto connettivo del suo vangelo: “seguire”, “servire”, “salire”, “con lui” fino a “Gerusalemme”. Queste parole costituiscono l’identità del discepolo. La storia di Gesù ora diventa quella della Chiesa: il volto dello sposo si rispecchia in quello della sposa. Cristo non è morto invano. Queste donne, e chi è come loro, diffondono per il mondo intero il suo profumo (2Cor 2,14 ss). Gesù è colui che mi ha amato ed ha dato se stesso per me (Gal 2,20). Discepolo è colui che sta ai piedi della croce con queste donne, e con loro compie il cammino del battesimo. Contemplandolo, commuore con lui, per poi essere consepolto e conrisorgere con lui (due brani successivi). Il “battesimo” è immergersi e affogare nel suo amore, per morire al proprio io e vivere di lui. 2. Lettura del testo

v. 40 c’erano anche delle donne. Lo sguardo “evangelico” dell’autore isola questo nucleo di donne. All’osservatore normale paiono insignificanti. Ma a loro è affidato il mistero della morte, della sepoltura, della risurrezione e dell’annuncio di Gesù. Ai tre apostoli scelti fu riservata l’immagine della morte e risurrezione nell’orto e nella trasfigurazione (cf anche 5,37). A queste donne, di cui si nominano espressamente tre, è riservata la realtà di Gesù morto e risorto. È da notare anche che, nella cultura giudaica, le donne non erano autorizzate a testimoniare. Ma la “pietra scartata” (12,10) sceglie proprio la loro testimonianza squalificata. guardavano. “Mostrami la tua gloria”. “II tuo volto, o Signore, io cerco, non nascondermi il tuo volto” (Es 33,18: Sal 27,8 s). Il grande desiderio dell’uomo - è fatto per questo! - è vedere il volto di Dio. In esso, realtà di cui è immagine, trova se stesso; lontano da esso è niente di sé. Ma nessuno può vedere Dio e restare in vita (Es 33,20). Ora, rotto il velo del tempio, lo contempliamo faccia a faccia. Il velo della nostra morte, che porta su di sé, lo rivela pienamente come amore che dà la vita per noi. Gesù crocifisso è chiamato da Lc 23,48 theoria - è l’unica teoria del Nuovo Testamento! - che significa “spettacolo”. Si apre il sipario; Dio si mostra al mondo così com’è, offrendo al nostri occhi la sacra rappresentazione della sua realtà, e dissolvendo tutte le nostre fantasie su di lui. La croce di Gesù, croce di ogni teologia, è la bestemmia che mette fine a ogni religione e ateismo, dando inizio a un parlare cristiano su Dio. Un teologare ha senso partendo solo da qui, dove Dio sdemonizza il suo volto, fa giustizia di ogni idolo e ci dà la vera conoscenza di sé. Per questo Paolo, riassumendo tutta la sua scienza teologica di rabbi convertito, dice. “Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi, se non Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1Cor 2,2). Teologo è colui che contempla e conosce bene “questa” teoria. Guardare la croce è principio di vera conoscenza. Lì cessa il segreto di Dio, e inizia la sapienza cristiana. Chi volge lo sguardo a Gesù innalzato, guarisce dal veleno del serpente e ha la vita eterna, perché conosce Dio ed è attirato a lui (Gv 3,14; 8,28; 12,32). Lo sguardo al Crocifisso è il punto di arrivo della sacra Scrittura. “Guarderanno a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37). Ad esso rimanderà costantemente il Risorto (Lc 24,25-27.44-46). Le sue ferite mostrano il mistero di Dio nella sua passione incredibile, nel suo eccessivo amore per noi. Guardandole, i discepoli gioiscono: vedono il Signore (Gv 20,20). Questo sguardo muove ad avere verso lui lo stesso sentimento che lui ha verso noi: la compassione (in greco sympátheia = simpatia). Essa rivela il segreto di Dio - ciò per cui Dio è Dio e non uomo, la sua “santità” (Lc 6,36; Os 11,9; Gio 4,2) - bruciante ogni nostra impurità. Egli non è amorevole, grazioso e misericordioso; è amore, grazia e misericordia, e si mostra tale nella sua compassione. da lontano. Pietro aveva seguito Gesù da lontano (14,54) e non lo seppe riconoscere. Anche il cammino di queste donne comincia da lontano. Ma il loro sguardo le porterà sempre più vicine, fino a toccare il suo corpo ed entrare nel suo stesso sepolcro. Pietro l’aveva seguito per tener fede ai propri propositi; e lo abbandona. Queste donne lo contemplano crocifisso e si avvicinano. È il moto stesso del battezzando che progressivamente si immerge nella sua morte, fino a commorire e a essere consepolto con lui, per conrisorgere con lui a nuova vita (Rm 6,3 s; Col 2,12). Maria di Magdala. Da lei Gesù scacciò sette demoni (Lc 8,2). Qualcuno la identifica con la donna che gli lavò i piedi con le lacrime, glieli asciugò coi capelli e profumò con l’unguento (Lc 7,36 ss), compiendo lo stesso gesto di Maria, sorella di Lazzaro (14,1 ss = Gv 12,1 ss). Maria, madre di Giacomo il minore e Giosè. È forse Maria di Cleope, zia di Gesù (Gv 19,25), del quale Giacomo e Giosè sono cugini (6,3).

e Salome. Il suo nome deriva da shalom, pace. È nominata solo da Marco. Tra le tante persone che c’erano si parla di queste tre, in allusione ai tre testimoni della morte/risurrezione della figlia di Giairo, della trasfigurazione e dell’orto. v. 41 quando era in Galilea. È il luogo d’inizio del ministero di Gesù, dove risuona l’appello del Regno e l’invito alla sequela (1,14-20). Lui stesso l’ha indicato come luogo d’incontro dopo la risurrezione (14,28; cf 16,7). lo seguivano (cf 1,16 ss; 8,34 ss). Il discepolo segue Gesù nel suo cammino, facendo le sue scelte, per mangiare infine con lui la sua pasqua. Tutto il vangelo è ricordo/racconto della vita del Maestro, che si fa via del discepolo per diventare sua vita. lo servivano. Seguire Gesù in concreto significa servire (cf 1,29-3 1) e diventare come lui, il figlio/servo (cf 1,11), il Figlio dell’uomo che è venuto a servire e dare la vita per tutti (10,45). Servire è il contrario di servirsi. Esprime amore concreto, non con la lingua, ma coi fatti e nella verità (1Gv 3,18). e molte altre. Il corteo è esclusivamente femminile. La donna rappresenta la verità profonda dell’uomo proprio per le sue qualità “deboli”, che la rendono simile a Dio: amore umile, accogliente, servizievole, compassionevole e fecondo. Le cosiddette qualità forti sono il fallimento dell’uomo. L’egoismo, l’orgoglio, il potere, il dominio, la durezza chiudono nella sterilità della solitudine. Sono l’inferno. “Chi non diventa donna, non entrerà nel regno dei cieli”, si potrebbe dire, rifacendo il verso al finale del vangelo apocrifo di Tommaso. salite con lui. L’apostolo è chiamato a essere “con lui” (cf 3,13 s), anche quando il cammino è in salita. Qui vediamo qual è il monte sul quale è salito e dal quale chiama: il Calvario. Essere con lui è la vita dell’uomo, che in lui trova la propria realtà di figlio. Paolo desidera essere per sempre con lui: questa è la vita eterna (1 s 4,17), perché lui è la sua vita (Fil 1,21). a Gerusalemme. È il luogo della gloria di Dio, termine di ogni cammino di sequela, di servizio e di salita con lui. 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo ai piedi della croce. 3. Mi chiedo cosa ha fatto Gesù per me e cosa ho fatto, faccio e farò io per lui. Gli chiedo di non essere sordo al suo amore e affidargli la mia vita. 4. Con queste donne contemplo il Crocifisso e medito ogni parola, facendo con lui ciò che lui per primo ha fatto con me: mi ha guardato, ha avuto compassione, mi ha seguito, servito, e ha voluto essere con me, fino alla morte. 4. Passi utili: Sal 34; 1Cor 1,26-31; 2,1-10; 2Cor 3,17 s; 1Gv 3,2.

89. LO DEPOSE IN UN SEPOLCRO (15,42-47) 42

E quando già fu sera, poiché era parasceve, cioè presabato, 43 venendo Giuseppe d’Arimatea, nobile consigliere, - anche lui era uno che attendeva il regno di Dio osò entrare da Pilato, e chiese il corpo di Gesù. 44 Ora Pilato si meravigliò che già fosse morto, e, chiamato il centurione, lo interrogò se da molto fosse morto; 45 e, informato dal centurione, regalò le spoglie a Giuseppe. 46 E, comperato un lino, calatolo lo avvolse nel lino, e lo depose in un sepolcro che era tagliato dalla roccia; e rotolò una pietra sulla porta del sepolcro. 47 Ora Maria Maddalena e Maria di Giosè contemplavano dove era posto. 1. Messaggio nel contesto “Lo depose in un sepolcro”. Il primo pezzo di terra promessa, che Abramo ottenne a caro prezzo, fu il sepolcro di Sara (Gn 23). Il sepolcro di Gesù racchiude la realtà di ogni promessa: contiene quel seme che, gettato sotto terra, diviene il grande albero del Regno. Adoriamo nel sepolcro l’umiltà del Signore. Egli è in tutto simile all’uomo. È humus, umiltà essenziale. Tratto dalla terra, ad essa è destinato. Gesù, secondo la tradizione, nasce in una grotta e in una grotta conclude la sua vita terrena. Dio, uscito da sé alla ricerca dell’uomo in fuga, percorsa ogni lontananza, alla fine del sesto giorno l’ha trovato sulla croce. Ora scende con lui negli inferi. È sabato. Compiuta ogni fatica, finalmente anche lui riposa. Riposa del nostro sonno. Nel suo sonno con noi è il nostro riposo in lui. La sua discesa agli inferi è il mistero più grande della fede, limite ultimo possibile della kénosis. Rivela un Dio amore solidale con noi in tutto, fino a diventare ciò che nessuno vuol essere e ognuno diventa: il niente di sé. Nel sepolcro finalmente incontra tutti, nessuno escluso. È il luogo di convegno universale. Gli uomini sono mortali, e si distinguono, ma solo provvisoriamente, in già e non ancora morti. Tutto il passato è lì nel sepolcro. Il futuro non ancora, ma è solo questione di tempo. Il

presente, fauce della morte, è la porta di passaggio in cui ciò che sarà è inghiottito da ciò che non è più. Negli inferi tutti si riuniscono, stolti e sapienti, ugualmente sconfitti e vinti. Lì la morte regna sovrana sull’uomo e la sua storia. Ora il Signore penetra nell’abisso che ognuno paventa per tutta la vita, e verso cui corre tanto più velocemente quanto più cerca di allontanarsene. Ma cosa fa lì? Annuncia il vangelo (1Pt 3,19). La buona notizia è proprio il fatto che lui sia lì. Dove temo il nulla di me, ora incontro colui ai cui occhi sono tanto prezioso e degno di stima (Is 43,4) che dà la sua vita per me. Il mio limite assoluto è ormai l’incontro con la sorgente da cui scaturisco. Il Signore non mi libera dalla morte, bensì nella morte. Sta con me anche nella valle oscura (Sal 23,4), per liberarmi con la sua morte dalla paura della mia morte, che mi tiene schiavo per tutta la vita (Eb 2,14). Per garantirmi di questo, ha scelto di darmi il segno più sicuro: si è fatto solidale col mio sepolcro, perché non possa più dubitare che lui sia con me ovunque mi trovi, anche nella maledizione estrema. La morte riveste ancora il suo carattere di drammaticità, soprattutto per il peccato - pungiglione della morte è il peccato (1Cor 15,56)! Ma la contemplazione del sepolcro di Gesù me ne libera progressivamente. Dietro la pietra c’è tutto ciò che temo e da cui fuggo. Ora so che lì c’è il Signore che mi ama e che amo. Il vero sepolcro è al di qua della pietra. È il mio cuore, che ancora vive nella menzogna. Essere battezzato significa accettare la mia vita e la mia morte rispettivamente come dono di Dio e abbandono in lui. Questo è l’atto di fede che mi guarisce dalla sfiducia, radice di ogni male. E mi cura insieme dall’egoismo: se lui pensa a me più che a sé e meglio di me, sono esonerato dal preoccuparmi per me. La mia vita, affidata a lui, trova la sua “gloria”, il suo peso. L’amore suo per me è la mia vera identità, che mi rende possibile un’esistenza nuova. Non ho più bisogno di cercare la “vana gloria” (peso vuoto), riempiendomi del vuoto mortifero degli idoli. Liberato dalla paura del futuro, posso finalmente vivere con gioia il presente, godendo di ogni dono, senza l’affanno di possederlo nel timore che sfugga. So che la parola ultima non è la morte come fine di tutto, ma la vita piena di tutto ciò che ora è solo parziale. Ora posso fissare negli occhi anche la morte, senza restare pietrificato. Nel sepolcro incontro Dio stesso, che si dona a me definitivamente. Mosè, arrivato a 120 anni, non voleva morire. Accettò alfine a una sola condizione: che Dio lo baciasse sulla bocca. Si può accettare di morire - e quindi di vivere! - solo se la morte è unione di amore con lui. La sposa del Cantico sospira: “Mi baci con i baci della sua bocca” (Ct 1,2). Il sepolcro di Gesù è questo bacio, respiro di un amore più grande degli stessi inferi (Ct 8,6). Gesù sepolto compie il moto discendente dell’incarnazione: si unisce a ogni uomo, che trova nel sepolcro la sua ultima verità. La tomba del Cristo, impotenza assoluta, è il caos primordiale. Ma, potenza estrema dell’amore, è anche il grembo vitale da cui Dio fa nascere la creatura nuova. Discepolo è colui che, dopo aver contemplato la croce, ora contempla il sepolcro dove sta colui che lo ama di amore eterno (Ger 31,3). Ed entra misticamente per essere consepolto con lui. Solo così è liberato dalla paura della morte - talora nei giovani è paura di vivere - sapendo che è l’incontro con lui. 2. Lettura del testo

v. 42 E quando già fu sera. È la sera del sesto giorno, inizio del settimo, il sabato. È l’ultima. Poi non ci sarà più notte. Tra poco la luce, entrando nel sepolcro - unica grande notte di tutto e di tutti illuminerà ogni tenebra. era parasceve, presabato. Parasceve significa “preparazione”. È il tempo immediatamente prima del sabato, in cui si fanno gli ultimi preparativi prima di dar inizio alla gioia e al riposo festivo. v. 43 Giuseppe d’Arimatea, nobile consigliere. Il Signore raccoglie i primi frutti del suo amore tra i più lontani. Se il centurione pagano l’ha giustiziato, Giuseppe fa parte del sinedrio che l’ha giudicato. uno che attendeva il regno di Dio. Le prime parole di Gesù sono: “II tempo è finito, il regno di Dio è qui” (1,15). Il Regno è un mistero confidato a chi lo interroga (4,11). È un seme che porta frutto (4,19): gettato sottoterra, germoglia da sé (4,26). È il più piccolo di tutti i semi, che diventa grande albero, rifugio per tutti (4,30 s). In esso entra chi ha il coraggio di decidere e tagliare tutto ciò che gli nuoce (9,47). È dei piccoli, che lo accolgono in dono (10,14.15). Il ricco resta fuori (10,23.24.25), perché non accetta di stare col re, che viene povero e umile sull’asinello (11,10). Allo scriba, che bene risponde sul comandamento dell’amore, Gesù dice: “Non sei lontano dal Regno” (12,34a). Deve solo “osare” “interrogare” a fondo su questo argomento colui che gli sta davanti. Solo allora capisce nello Spirito chi è il Signore (12,34b-37). Il re promesso si manifesta con gloria e potenza grande proprio sulla croce (14,62). Lì si notifica a tutti come il Cristo che perde se stesso per salvare gli altri (15,3132). Ora Giuseppe, che attendeva il Regno, ottiene in dono il corpo di Gesù. Questo è il Regno: il Figlio dell’uomo consegnato definitivamente nelle mani degli uomini. osò entrare da Pilato. La morte di Gesù dà coraggio a chi prima non ne aveva. Era discepolo nascosto, per paura dei Giudei (Gv 19,38). chiese il corpo di Gesù. La costellazione di parole “regno di Dio”, “osare” e “chiedere” (o “interrogare”) esce anche dopo il comando dell’amore, quando Gesù risponde allo scriba che non è lontano dal “regno di Dio” e nessuno “osa” più “interrogare” (12,34). Il regno di Dio invece è proprio il dono fatto a chi osa chiedere il corpo di Gesù, realtà piena dell’amore - sì totale di Dio all’uomo e dell’uomo a Dio e ai fratelli. v. 44 Pilato si meravigliò che già fosse morto, e, chiamato il centurione, ecc. La morte di Gesù è attestata per due volte ciascuna da tre testimoni: Giuseppe chiede a Pilato, Pilato al centurione, il centurione informa Pilato e Pilato dona infine la spoglia a Giuseppe. È molto importante questa morte: contemplata dal centurione e dalle donne, è accertata insieme da amici e nemici, che si passano il corpo di Gesù. v. 45 regalò le spoglie. Il corpo crocifisso, dato a chi aspetta il Regno, è dono grande e prezioso somma di tutti i doni. Questo corpo è epifania di Dio, martirio di un amore più grande di ogni male e ogni morte. Il Figlio dell’uomo è nelle mani dei peccatori, che ne fanno quello che vogliono. Se prima lo uccidono, ora lo accolgono. Chiedo a Giuseppe di stargli vicino, e aiutarlo. “Palpando con una certa curiosità, maneggia tutte le piaghe del tuo salvatore, così morto per te”, scrive Landolfo di Sassonia (Vita di Gesù Cristo, Venezia, 1570, Prologo, p. 2). La curiosità sia chiedergli di ognuna: “Perché questa ferita, ricevuta in casa dei tuoi amici?” (cf Zc 13,6); e chiedergli di tutte insieme: “Perché questo spreco?” (14,4).

v. 46 comperato un lino. Un lino avvolge il suo corpo morto. Il giovinetto, fuggendo, lascia nelle mani dei nemici il suo lino (14,51 s). Ciò che si compra e si vende ha attinenza con la morte, e viene sempre lasciato indietro dalla vita. Invece il profumo donato e sprecato rimane. Certamente, dopo due giorni, il corpo del Signore odora ancora dell’amore di Betania. calatolo. Non Elia (15,36), ma Giuseppe leva giù dalla croce Gesù. Non può essere tolto prima: solo lì è perfetto il dono di Dio. lo avvolse nel lino. Tutto quanto può fare l’uomo col suo sapere e col suo potere è solo nascondere la morte. Gesto di pietà che copre orrore pietà per l’altrui morte, orrore per la propria! Questo velo bianco richiama però ossessivamente il buio da dimenticare. lo depose in un sepolcro. Sepolcro in greco significa “ricordo”. La morte è la memoria fondamentale dell’uomo. Ognuno finisce nel sepolcro, ricordo profondo e sotterraneo da cui comincia a rifuggire da quando è uscito dal ventre della madre, per andarci inesorabilmente incontro. Ora il ventre della morte contiene il seme della vita. Cosa può fare la tenebra che concepisce la Luce? Quale sarà stato il suo incontro con Adamo, Abramo, Giuseppe, Davide, e con tutti i peccatori? tagliato dalla roccia. Da Abramo e Sara, sterili e morti, Dio ha suscitato un popolo innumerevole, come le stelle del cielo e l’arena del mare. Dal sepolcro di Cristo, grembo nuovo della madre terra, siamo tutti generati a vita nuova. “Guardate alla roccia da cui siete stati tagliati” (Is 51,1). rotolò una pietra sulla porta del sepolcro. È una pietra molto grande; sotto di sé racchiude ogni creatura. Chi la potrà rotolare via (16,3)? Ma ora, nel suo silenzio, è entrato il Verbo di Dio creatore. Dio è nel non-Dio, e, nel settimo giorno, riposa dalla sua opera. v. 47 Maria Maddalena e Maria di Giosé contemplavano dove era posto. È importante guardare questo luogo preciso, dove è sepolto il seme. Da lì germina l’albero della vita. Manca Salome. Certamente ha qualcosa da fare: forse comperare i profumi in tempo utile, prima della notte del sabato, in modo d’averli pronti per l’alba del giorno dopo. Ma ogni fare, e soprattutto comprare e vendere, risulta inutile. La sindone “comprata” sarà lasciata come quella del giovane, che fugge nudo (14,52); il profumo “comprato” resterà inservibile, testimonianza di qualcosa che non si è donato. Questo l’aveva capito la donna di Betania, che certamente anche adesso resta al sepolcro, dove è nascosto colui il cui nome è profumo effuso (Ct 1,3). Tra poco, al terzo giorno, dopo aver colmato gli abissi informi, romperà la pietra, squarcerà la terra e si diffonderà per l’universo intero. Prima però deve riposare. E il suo riposo è scendere negli inferi e riempire tutti quelli che là sono e saranno; poi travaserà dalla bocca del sepolcro. Salome, assente, lascia il posto a ciascuno di noi. Contempliamo e adoriamo. O Dio, nessun cielo riempie il mio occhio, nessuna terra colma il mio cuore, nessuna acqua estingue la mia sete, nessun fuoco scalda la mia notte. Tutto è niente. Cieco l’occhio e oscuro il cuore, terra il cielo e abisso il suolo, arena l’acqua e fuliggine il fuoco. La vita senza vita grida, silenzio più vasto dell’universo, angoscia scavata più giù del nulla, grande come te, di cui è vuoto. Ma ora hai mostrato il tuo volto, e sono consolato. Con Simeone canto: lascia che il tuo servo vada in pace. In pace mi corico e subito mi addormento: tu solo al sicuro mi fai riposare, sereno e tranquillo come bimbo svezzato in braccio a sua madre. 3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo davanti al sepolcro. 3. Chiedo ciò che voglio: ricevere con Giuseppe in dono quel corpo, stare con le donne davanti al sepolcro, sentire ciò che sentono, vedere ciò che vedono. 4. È la contemplazione più facile del vangelo. C’è nulla da vedere. Solo una pietra, che chiude la vista su tutto. Dietro c’è la tenebra che pavento e su cui proietto le mie paure. In realtà lì c’è la luce, e la pietra del sepolcro mi separa dalla mia vita. Il sepolcro sono io. 4. Passi utili: Gn 23; Sal 130; 131; 1Cor 15,55 s; 1Pt 3,19 s; Eb 2,14s.

90. GESÙ IL NAZARENO, IL CROCIFISSO, È RISORTO (16,1-8) 161 E, passato il sabato, Maria Maddalena e Maria di Giacomo e Salome comprarono aromi per venire a ungerlo. 2 E molto presto, il primo dei sabati, vengono al sepolcro, sorto già il sole. 3 E dicevano tra loro: Chi ci rotolerà via la pietra dalla porta del sepolcro? 4 E, guardando su, osservano che è stata rotolata via la pietra: era infatti grande assai. 5 Ed entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto alla destra, avvolto in veste bianca; e si spaventarono. 6 Ora egli dice loro: Non spaventatevi. Gesù cercate, il Nazareno, il Crocifisso. È risorto, non è qui! Ecco il luogo dove lo posero. 7 Ma andate,

dite ai suoi discepoli, e a Pietro: Vi precede nella Galilea; lì lo vedrete, come vi ha detto. 8 E uscite, fuggirono dal sepolcro; infatti le aveva prese tremore e terrore. E non dissero niente a nessuno; temevano infatti. 1. Messaggio nel contesto “Gesù il Nazareno, il Crocifisso, è risorto”. È il grido pasquale di vittoria sulla morte, che dal sepolcro risuona per il mondo intero. L’annuncio incredibile del Crocifisso risorto è il principio del “vangelo” di Gesù Cristo Figlio di Dio (1,1). Le donne sono le prime ad ascoltarlo e a ricevere la missione di raccontarlo. La prova negativa è l’assenza indebita del suo corpo là dove dovrebbe essere presente, come tutti: “Non è qui, ecco il luogo dove era deposto!”. Il sepolcro è vuoto. Allora come adesso, chiunque può costatarlo. La prova positiva è la promessa ricevuta dalle donne e trasmessa agli apostoli, che giunge fino a noi: “Vi precede nella Galilea; lì lo vedrete, come vi ha detto”. I quattro evangelisti si diversificano molto in questa parte finale. Vogliono infatti portare il lettore all’incontro col Risorto. E questo avviene secondo livelli diversi, corrispondenti alle diverse tappe del cammino di fede in cui ciascuno si ritrova. Marco, vangelo del catecumeno, vuol portare alla fede nella potenza della Parola. In essa incontriamo il Signore vivo e operante in mezzo a noi, in modo che gli affidiamo la nostra vita nel Battesimo e, introdotti nella stanza superiore, mangiamo con lui. Comunque tutti concordano nel fatto che la Parola e il Pane sono il luogo del riconoscimento pieno di colui che sempre accompagna la sua Chiesa nel cammino, come i due discepoli di Emmaus. Non è la fede principio della risurrezione, bensì la risurrezione principio della fede: “Se Cristo non è risorto, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1Cor 15,14.17), ribadisce Paolo. La gioia del Risorto è la forza del nostro cammino; ci mette alla sua sequela, vivendo e morendo con lui, per aver parte alla sua stessa vita oltre la morte (cf Fil 3,10). La risurrezione di Gesù non è una semplice rianimazione di cadavere, come nel caso della figlia di Giairo che torna a vivere una vita “mortale”. È partecipazione del corpo alla sua gloria di Figlio, primizia di tutti noi che saremo per sempre con lui, nostra vita ormai nascosta in Dio (cf 1Ts 4,17; Fil 1,21; Col 3,3). La risurrezione non è deducibile da nessuna premessa né producibile da nessuna pretesa umana. Prima che agli altri (cf At 17,18-32; 26,24!) risulta incredibile ai discepoli stessi. Sia loro che noi possiamo dedurla solo dalla promessa di Dio e attenderla dalla comunione con lui. La conoscenza delle Scritture e della sua potenza (12,24) è per tutti la via d’accesso alla fede nel Risorto. I primi l’hanno anche visto, per testimoniarlo a noi che veniamo dopo. Ma pure chi l’ha visto, lo riconosce come noi solo attraverso la luce della Parola e la forza del Pane. La risurrezione di Gesù - e la nostra futura - è corporea, come lo fu anche la sua morte! La prova ne è il sepolcro vuoto, riportato da tutti quattro i vangeli. Paolo tenta di spiegarci con quale corpo risorgeranno i morti. Non sarà più mortale, ma trasformato a immagine dell’uomo celeste, come quello di Gesù risorto (1Cor 15,35 ss).

Il sepolcro vuoto smentisce l’ultima attesa dell’uomo. Infrange la sola certezza assoluta ponendogli un enigma insolubile. L’unica spiegazione è l’annuncio del Risorto, l’unica verifica l’incontro personale con lui, offerto a chiunque accoglie con fede la Parola. Marco non narra le apparizioni. Pur conoscendole, termina il vangelo con un “infatti” (greco: gár), lasciandolo chiaramente in sospeso. Invece di concludere, lo apre con l’invito a tornare in Galilea, luogo in cui comincia il racconto. Il finale quindi rimanda all’inizio, dove Gesù annuncia che il tempo è finito e il regno di Dio è qui per chi si volge a lui e si mette a seguirlo (1,14 s). Non resta che verificarlo. Chi è disponibile, esperimenta il primo incontro col Risorto: la sua Parola ha la forza di dargli animo, per affidarsi a lui e seguirlo (1,16-20). Poi lo libera dal male e gli dà la capacità di servire (1,21-31); monda la sua vita dalla lebbra e la purifica dalla morte; gli perdona i peccati e lo fa camminare; gli fa aprire la mano per ricevere il dono, ecc. (cf 1,453,6). Ogni miracolo raccontato è ciò che la parola potente del Signore risorto opera in noi, adesso come allora. Essa infatti è un seme che ha il potere di generarci figli di Dio, trasformando tratto dopo tratto la nostra esistenza. A metà vangelo, chi accetta “la Parola” e l’invito a seguirlo, lo “vede” trasfigurato (8,31-9,9). La trasfigurazione in Marco sostituisce i racconti della risurrezione. Il discepolo, guarito passo dopo passo, vede il volto del Figlio nel proprio di fratello, e sperimenta la sua potenza di risorto nella propria vita rinnovata. La trasfigurazione rivela non solo la divinità di Gesù, ma anche la gloria che lui dà a noi. Chi ha conosciuto e creduto all’amore di un Dio crocifisso, abbandona in lui la propria vita e la propria morte, e diventa un uomo nuovo, passato dalla notte al giorno. È la piena illuminazione battesimale, alla quale Marco vuol portare il suo lettore. La seconda parte del vangelo diventa poi tutta un confronto tra la Parola fatta Pane e la nostra vita nelle sue diverse relazioni con noi stessi, con gli altri, con le cose e con Dio. Giunti alla fine del vangelo, siamo sempre di nuovo rimandati all’inizio, in un movimento concentrico a spirale, in modo che ogni volta cresciamo sempre di più, fino alla statura piena di Cristo (Ef 4,13), quando Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28). Ma già fin d’ora, al centro della nostra vita come a metà del vangelo, c’è una esperienza di trasfigurazione, che procede di pari passo con l’accettazione della croce. Ogni rilettura del vangelo non è una semplice ripetizione per non dimenticarlo. Ogni volta ci riporta al “principio” (1,1), e ne usciamo più simili a lui, invitati a tornare sempre allo stesso principio. Volendo distinguere i vari livelli successivi di lettura - l’uno conduce all’altro ed è da esso incluso potremmo parlare di un primo che porta dal precatecumenato al catecumenato, di un secondo che porta dal catecumenato al battesimo, e di un terzo infine che è proprio del battezzato, chiamato a un progresso senza fine nella conoscenza e nella sequela del suo Signore. La sorgente non dà mai la stessa acqua: una vita che si ferma, è morta. Il precatecumeno comincia a conoscere la storia di Gesù. Essa, facendogli balenare la promessa di Dio, libera in lui i desideri profondi per cui è fatto. È il primo incontro col Risorto, che con la sua parola apre il cuore (At 16,14). Il finale gli propone di riprendere dall’inizio, credendo che lui compie quanto dice. Allora si scatenano tutte le resistenze contrarie alle speranze concepite. A lui scegliere se ripiegare con paura nel silenzio e nella fuga, come anche le donne in un primo tempo, o tentare il rischio, chiedendo la fede. Chi accetta il salto, esce dalla folla. Cessa di essere semplice spettatore e diventa parte interessata, coattore con Gesù di ogni scena. Diventa catecumeno. Il catecumeno crede alla Parola e ritorna in Galilea, lasciandosi coinvolgere da ciò che il Signore dice con autorità. Sperimenta allora di essere sempre l’altra persona per la quale lui dice o fa qualcosa: è il discepolo chiamato che segue, l’indemoniato che è liberato, la suocera che è guarita, il lebbroso che è mondato, ecc. In questa ripetizione è importante la preghiera, in cui chiedo con fede che quanto è raccontato avvenga anche a me. Incontro così il Signore risorto nelle sue parole e nelle sue azioni, che mi trasformano perché possa seguirlo fino alla croce e contemplarlo come mio Salvatore e Signore.

Allora scopro che la mia paura è diventata fiducia, la mia fuga sequela e il mio silenzio urgenza d’annuncio. Sono quindi pronto al battesimo: affido la mia vita e la mia morte a lui che è morto per me ed è risorto, ed entro nella Chiesa, la comunità dei fratelli che vivono la vita nuova. Il battezzato desidera seguire sempre più da vicino il suo Signore, per essere con lui (3,14) ed essere mandato ad annunciarlo (6,6b ss), percorrendo il suo stesso cammino dalla croce alla gloria (8,34 ss). Mentre la prima tappa, che è per tutti, porta il curioso al catecumenato, e la seconda porta il catecumeno al battesimo, questa terza, più tipicamente ecclesiale, non porta altrove. E tuttavia non resta mai conclusa. Anche qui il finale rimanda daccapo, in un crescendo di amorosa conoscenza. Ogni rilettura è un nuovo tocco di Cristo che mi illumina ulteriormente. “Vedi forse qualcosa?”, domanda Gesù al cieco di Betsaida. La mia vista è sempre inadeguata a ciò che è da vedere: più è pulita, più contempla e riceve Gloria, in un moto di desiderio e sazietà senza fine. A questo livello si possono anche utilmente fare letture tematiche, secondo gli argomenti che il testo stesso suggerisce nella sua articolazione: 1. Chi è l’uomo davanti a Dio: la promessa dell’AT (1,1-8). 2. Chi è Dio davanti all’uomo: Gesù compimento di ogni promessa (1,9-13). 3. Chiamata e risposta al Regno: la fede come sequela di Gesù (1,14-20). 4. Programma del Regno: una giornata messianica (1,21-45). 5. Rapporto legge/vangelo: Gesù opera ciò che è impossibile alla legge (2,1-3,6). 6. Il nuovo popolo: con Gesù in ascolto della Parola (3,7-35). 7. Fede nella Parola: seme di Dio (4,1-34). 8. Passaggio del mare: fede e battesimo come liberazione dal male e dalla morte (4,35-6,6a). 9. Parola e Pane: missione ed eucaristia (6,6b-8,29). 10. La Chiesa a confronto con la Parola: Gesù morto e risorto principio di vita nuova (8,31-10,51). 11. Il “potere” di Gesù: il Figlio servo (11,1-12,44). 12. La fine del mondo: il senso del presente alla luce del mistero di Gesù morto e risorto (13,1-37). 13. La Parola fatta Pane: Gesù morto e risorto (14,1-16,8). Si possono anche utilmente sviluppare letture tematiche trasversali, con taglio cristologico, ecclesiologico, sacramentale, storiologico, ecc.; oppure scegliere specifici temi teologici (discepolato, croce, segreto messianico, conoscenza di Dio, ecc.) o pratici (rapporto con la Parola, con sé, con gli altri dentro e fuori la Chiesa, coi beni, ecc.). In genere si fa l’errore di cominciare da questi tipi di lettura per soddisfare la curiosità, quasi cercando un ricettario di risposte alle nostre domande. Ma è bene lasciarle per ascoltare le domande che il testo fa, e le risposte nuove che suscita. In ogni lettura si tenga presente che nella prima parte dei vangelo si offrono piuttosto i frutti e i semi (miracoli e parabole), mentre nella seconda l’albero e le radici (croce e Parola). Gesù è il Crocifisso risorto, presente nella Parola, che mi invita ad accogliere e sperimentare il suo amore per me, per seguirlo e a mia volta annunciarlo. Il discepolo, entrato nel sepolcro, lo trova vuoto di morte e pieno dell’annuncio di vita. Come le donne, reagisce dapprima con paura (= incredulità), fuga e silenzio. È invitato a superare questa resistenza, per sperimentare il potere della Parola, che cambia la paura in fede, la fuga in sequela e il silenzio in annuncio. È l’esistenza del battezzato che, commorto e consepolto con Cristo, conrisorge con lui a una vita nuova, quella di figlio di Dio e fratello degli uomini. 2. Lettura del testo

v. 1 passato il sabato. Il sabato, fine di ogni fatica, è passato. I cristiani festeggiano il giorno dopo, che è l’inizio della settimana. Viviamo ormai oltre il settimo, nell’ottavo giorno che è festa senza fine. Da quando Dio si è riposato nella tomba dell’uomo, l’uomo ha raggiunto il riposo di Dio. comprarono aromi. Questi aromi sono inutili come tutte le cose che si comprano e vendono. Il nardo odoroso fu invece donato al Vivente (14,3 ss). Non c’è lezzo di morte da coprire, ma profumo di vita che si effonde. v. 2 molto presto. È l’alba dell’ottavo giorno che non conosce più tramonto. vengono al sepolcro. La morte è la memoria alla quale l’uomo ritorna di continuo con orrore e pietà. È il suo ricordo fondamentale. Le donne, grembo di vita, si recano al sepolcro, bocca di morte della madre terra, alimentata dal loro generare. sorto già il sole. Il sole, oscurato nell’agonia di Gesù, era calato con lui nella tomba. Ora è sorto quello nuovo, ma nessuno ancora lo sa. v. 3 Chi ci rotolerà via la pietra? Nessuno è in grado di rotolare via la pietra che chiude nella morte. Neanche le donne che danno la vita; generano infatti per la morte. v. 4 guardando su, osservano che è stata rotolata via la pietra. Ma ora, per chi solleva lo sguardo, il sigillo della morte è infranto, e dal di dentro! era infatti grande assai. Tanto grande da racchiudere tutto e tutti. v. 5 entrate nel sepolcro. Provo anch’io a entrare con loro nel sepolcro. È lì, e non prima o altrove, che risuona l’annuncio del Risorto. La salvezza non è dalla morte - sarebbe falsa, perché siamo mortali - ma nella morte. videro. Dalla croce in poi il problema è “vedere”. Per questo gli ultimi due miracoli di Gesù sono il dono della vista. Tra i due c’è tutta la seconda parte del vangelo che annuncia la morte e risurrezione di Gesù, la “Parola” che dà luce agli occhi (Sal 19,8). un giovane. È lo stesso termine usato in 14,51. seduto alla destra. Non è un fuggitivo impotente. È “seduto alla destra”, nel fulgore della gloria di Dio. avvolto in veste bianca. Non è più avvolto in una sindone o nudo. come un dormiente o uno sconfitto. È rivestito di luce, con la candida veste della vittoria, come il Signore trasfigurato (9,3). Questo giovane è figura di chiunque annuncia il Risorto, e del Risorto stesso, presente nella parola che annuncia. si spaventarono. Non è l’orrore del vuoto, ma il terrore della pienezza traboccante, l’eccessività del divino. È la sorpresa di una vita nuova, giovane e luminosa, proprio nel luogo oscuro della morte, dove dovrebbero stare i cadaveri dei suoi vinti. È stata vinta la vincitrice di tutti! Spogliata del suo bottino, le restano in mano solo le spoglie - il lenzuolo di chi credeva di ghermire!

v.6 Non spaventatevi. Da Gn 3,10 la paura è la prima reazione dell’uomo davanti a Dio. Per questo ogni volta che interviene deve dire: “Non temere”. cercate. Uno trova ciò che cerca; cerca ciò che desidera; e desidera ciò che gli manca, e di cui non può fare senza. Gesù il Nazareno, il Crocifisso. È risorto. Sono le parole del kérygma, che proclama la buona notizia: Gesù di Nazaret, di cui tutto il vangelo è ricordo e racconto, quello che finì sulla croce, proprio lui in persona è risorto! È la parola fondamentale della fede cristiana, incredibile a tutti. Noi conosciamo una vita per la morte; qui c’è una morte per la vita. È importante ogni parola di questo annuncio: il Risorto è l’uomo Gesù, il carpentiere di Nazaret, la sua carne crocifissa. Tutta la debolezza umana è inscindibile dalla gloria che io cerco. non è qui. È importante venire al sepolcro, e vedere che non è qui. Qui dovrebbe essere, dove ognuno attende di finire e dove finisce ogni attesa. Ma la promessa di Dio smentisce la nostra certezza più certa. Questo “non è qui” è una constatazione oggettiva della risurrezione, anche se in senso negativo. È infatti un’assenza inspiegabile. Se fosse spiegabile, sarebbe l’ultimo imbroglio, il peggiore (Mt 27,64). Inoltre, se il corpo fosse nel sepolcro, la morte non sarebbe vinta, e non ci sarebbe il vangelo di salvezza. Ci sarebbe solo una dottrina su come vivere e morire piamente. Ma questo non cambia la realtà! Ecco il luogo dove lo posero. È quanto possono vedere coloro che vanno pellegrini al sepolcro, allora come adesso, amici o nemici di Gesù, credenti o meno. Per cogliere l’annuncio pasquale, è necessario un confronto onesto, senza barare, con la morte - primo tabù dell’uomo, che è coscienza di vita perché ne conosce anche il contrario. Bisogna entrare nel sepolcro, “nostra” verità, e perlustrarlo bene. Solo da qui si può vedere se e quale senso abbia la nostra esistenza. La promessa di Dio deve entrare nella morte, veleno di tutta la vita dell’uomo. v. 7 andate, dite. Le donne sono mandate a portare l’annuncio del Risorto ai discepoli. Sono apostole (= inviate) degli apostoli. Superapostole quindi! ai suoi discepoli, e a Pietro. Come predisse lo scandalo di tutti e il rinnegamento di Pietro, ora, risorto, ribadisce la sua fedeltà, già promessa (14,28), e in particolare a Pietro, che, dopo il rinnegamento, poteva dubitarne. Vi precede nella Galilea. La Galilea è dove inizia la predicazione di Gesù, e ha luogo il primo incontro coi discepoli. Il lettore, se vuole fare la stessa esperienza, è rinviato lì, a riascoltarlo con loro. Le apparizioni del Risorto furono sia a Gerusalemme che in Galilea. Marco non ne racconta appositamente nessuna; annuncia solo quelle in Galilea, per farci andare lì. lì lo vedrete, come vi ha detto (cf 14,28). Anch’io, se riprendo il racconto dal principio, mi ritrovo in Galilea. Se qui ascolto ciò che lui dice, lo incontro nel vangelo, che è Gesù Cristo Figlio di Dio (1,1), che annuncia se stesso (1,14), proclamando la fine del tempo e la venuta del Regno (1,15). Se l’accolgo come parola di Dio, quale veramente è, mi accorgo che opera ciò che promette (1Ts 2,13). E mi metto a seguirlo. Ogni passo del racconto diventa allora un incontro salvifico con lui, che dice e fa per me quanto è narrato. Per la potenza del suo Spirito mi ritrovo progressivamente trasfigurato. Ero tenebra, egoismo, tristezza, inquietudine, impazienza, malevolenza, cattiveria, asprezza e schiavitù. Ora divento luce, amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, libertà (Gal 5,22). Vivo una vita da figlio nel Figlio, risorto nel Risorto.

v.8 uscite, fuggirono dal sepolcro. Davanti alla buona notizia, le prime reazioni delle donne, in questo simili a tutti gli uomini, sono di resistenza: disobbedienza e fuga invece di sequela. infatti le aveva prese tremore e terrore. Sono prese da uno spavento “tremendo”, che scuote loro le ossa e le fa uscire di sé. Invece della fede, c’è la paura, segno d’incredulità (cf 4,40). E non dissero niente a nessuno. Non vogliono essere prese per pazze e visionarie (cf Lc 24,11). Invece dell’annuncio, c’è il silenzio. Prima di giungere alla fede, devono emergere tutte le reazioni negative del nostro cuore davanti al kérygma. È troppo grande per noi ciò che Dio dona. temevano. Si ribadisce la paura. Ma l’annuncio, caduto nello stagno della nostra incredulità, ha sconvolto tutto. Chi ha letto fin qui il vangelo, si trova a un bivio: ascoltare le proprie paure e andarsene, ormai per sempre inquietato da una possibile buona notizia, oppure ascoltare il desiderio che essa gli ha posto nel cuore? Questo è come pietrificato. Ma la Parola è un seme. Deposto nel terriccio di una crepa, cresce e rompe la roccia. infatti. Il vangelo di Marco termina con questa parola, con cui non si può concludere. La particella gàr (= infatti) non può stare in chiusura, tanto meno di un libro! L’annuncio rimane sospeso. S’è diffuso nell’aria e non può più essere chiuso. Il vangelo infatti rimane ormai aperto per sempre, anche per chi lo getta via. E non finisce qui, ma rimanda al principio, per finire nell’orecchio e nel cuore di chi l’ascolta fin che la sua paura diventa fiducia, la sua fuga sequela e il suo silenzio ricordo/racconto per altri. Infatti è il vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio (1,1). Il Risorto, oltre che annunciato, è l’annunciatore dell’annuncio (1,14). Qui ogni uomo lo incontra, potenza di Dio e salvezza per chiunque crede (Rm 1,16). 3. Esercizio 1. Entro in preghiera, come al solito. 2. Mi raccolgo, immaginando le donne che vanno al sepolcro. 3. Chiedo ciò che voglio: gioire che il Signore è risorto. 4. Entro con le donne nel sepolcro, e, traendone frutto, vedo, ascolto e osservo tutto. 4. Passi utili: Sal 16; 30; 1Cor 15; Lc 24; Gv 20-21; At 17,16-21.32 s; 26,22-25; Sal 147; Rm 1,16; 10,11-17; 1Cor 1,21; 1Ts 2,13.

91. ANDATE IN TUTTO IL MONDO E PREDICATE IL VANGELO A OGNI CREATURA (16,9-20) Risuscitato al mattino nel primo giorno dopo il sabato, apparve prima a Maria di Màgdala, dalla quale aveva cacciato sette demòni.

Questa andò ad annunciarlo ai suoi seguaci che erano in lutto e in pianto. Ma essi, udito che era vivo ed era stato visto da lei, non vollero credere. Dopo ciò, apparve a due di loro sotto altro aspetto, mentre erano in cammino verso la campagna. Anch’essi ritornarono ad annunziarlo agli altri; ma neanche a loro vollero credere. Alla fine apparve agli undici, mentre stavano a mensa, e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato. Gesù disse loro: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno”. Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano. Nota: Questo finale, pur essendo canonico, non è di Marco. “È un’autentica reliquia della prima generazione cristiana” (Swete), che contiene un riassunto delle apparizioni del Risorto e una sintesi della teologia dell’annuncio. Le parole, che non sono di Marco, riflettono però bene la sua ottica kerygmatica.

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