Semiografia e semiologia della musica contemporanea”…
Short Description
prefazione al testo di Paolo Tortiglione...
Description
Dal testo all’atto: una prefazione Parlare di notazione, o di “semiografia e semiologia della musica” significa ragionare dell’importanza di decrittare il testo in quanto punto di partenza necessario, fornitore primario di indicazioni per il “fare la musica”, per trasformare “segni” su carta in musica agita: from Text, to Act, parafrasando Richard Taruskin (Text & Act). Sappiamo bene che, nella tradizione eurocolta moderna (postromantica), l’ermeneutica del testo passa attraverso la filologia della partitura. In essa partitura non si risolve l’opera, poiché quest’ultima è costituita da un messaggio sequenziale, tipico di ogni arte performativa, e che sottostà a un vettore tempo ineludibile in quanto caratteristico di quest’arte. L’opera musicale non è dunque un oggetto, un messaggio oggettuale, come il più delle volte accade, o è accaduto, per il prodotto dell’arte figurativa o architettonica, ma si svolge nel tempo e non è mai qui, tutta e adesso, bensì esiste solo nella memoria o nell’aspettativa dell’ascoltatore o in entrambe nel medesimo tempo; quando l’opera musicale si compie, giunge all’ultima nota, essa non è più: è solo reminescenza, più o meno consapevole. Inoltre l’opera non è tale, in quanto partitura o segno, ma in quanto decrittazione, interpretazione della partitura e del coacervo di segni, indicazioni, suggerimenti. La partitura sarebbe dunque un sistema prescrittivo per la realizzazione dell’opera (sia esso più o meno “stenografato”, più o meno cogente, o semplicemente indicazione di serie di comportamenti tesi all’ottenimento di esecuzioni “fedeli” di date opere) sottolineando, però, che la musica è un sistema notazionale, non un sistema linguistico, e che garantisce l’identità dell’opera sulla base delle sue caratteristiche costitutive che proprio nel sistema notazionale sono tassonomicamente classificate e articolate; senza notazione, storicamente, non sarebbe possibile concepire l’idea di opera in termini correnti e la notazione, come afferma Michela Garda, “ha la funzione di definire l’opera come la classe di tutte le esecuzioni congruenti con la partitura”. La tradizione occidentale relativa alla musica colta, fortemente influenzata nel passato come in tempi recenti dall’ermeneutica letteraria, ha sovente identificato la Werktreue con la Texttreue, la fedeltà all’opera con la fedeltà al testo. Ecco perché è necessario cercare di capire che cosa il testo pare dirci, quali sistemi di codificazione “altri” la musica del Novecento ha realizzato per indicare variabilità e varianze parametriche che una certa standardizzazione mercantile ha mancato di evidenziare (non sempre colpevolmente). Ed ecco perché uno storico della musica, un estetologo, al limite, può non trovarsi in difficoltà a ragionare di un testo che si occupa di semiografia e semiologia musicale (anche se, in verità, questi termini mi intimoriscono), anche quando la propria attività specifica nel campo della semiografia musicale la si è svolta solamente insegnando, un quarto di secolo addietro, “Elementi di teoria musicale e notazione” in un centro di musica antica. E semiografia musicale, può pure essere sinonimo di notazione musicale, credo. L’occuparsi in quello specifico di musica antica (interesse che ho sempre condiviso con quello per la musica contemporanea e del Novecento), così come il lavorare in questi ultimi tempi sulle questioni relative alla critica dell’autenticismo, non inficiano la possibilità di ragionare sulla notazione, sulla “semiografia”; anzi, di questo pure si nutrono, e riguardano, peraltro indifferentemente, il passato remoto, quello prossimo e il presente, perché fan riferimento allo speciale rapporto tra testo e opera che sta alla base del fare musica e che mette in gioco un personaggio-chiave: l’interprete; con tutte le sfumature lessicali che tale termine ha nella nostra lingua: dal traduttore al traditore, dall’ermeneuta all’esecutore. Una matassa aggrovigliata di gerarchie e di finalità, che ricorda l’Hofstadter di Gödel, Escher e Bach, un testo che alcuni anni fa godette di una certa risonanza anche tra i musicisti o i musicofili. Occorre star bene in guardia rispetto a quel che il testo pare suggerire; e i testi che si occupano di sciogliere enigmi lessicali o semiologici (come quello che il prof. Paolo Tortiglione ha scritto con tanta passione, tanta acribia e tanta chiarezza) sono sempre i benvenuti. Sovente utilizzo, infatti, questo apologo – segnalatomi diversi anni or sono dal compianto amico Edoardo Benvenuto – per dar conto della complessità delle cose e dei complessi mod i con cui noi diciamo le cose. Esso suona più o meno così: “Sapete com’è morto Omero? Omero - racconta Aristotele - è morto di stizza per non essere stato capace di risolvere un enigma. Aveva chiesto all’oracolo quale fosse la sua patria e il dio gli rispose così: “L’isola di Io è patria di tua madre ed essa ti accoglierà morto; ma tu guardati dall’enigma di giovani uomini”. Dice Aristotele che, qualche tempo dopo, Omero giunse all’isola di Io e qui, seduto su uno scoglio, vide dei pescatori che si avvicinavano alla spiaggia; chiese loro se avevano preso qualcosa. Quelli, che non avevano pescato nulla, ma si spidocchiavano, dissero: “Quanto abbiamo preso, lo abbiamo lasciato. Quanto non abbiamo preso, lo portiamo.” Essi alludevano con un enigma al fatto che i pidocchi che avevano preso li avevano uccisi e lasciati cadere, e quelli che non avevano preso se li portavano nelle vesti. Omero, pensando invece ai pesci, non ci capì nulla, e tanto si incaponì invano a decifrare l’enigma che morì per lo sconforto.” Non si tratta semplicemente di un apologo su quanto sia malagevole comunicare esperienze che partono da
tradizioni, ottiche e scale gerarchiche differenti, ma pure intenzioni diverse: credo infatti che qui, con tutte le difficoltà (o forse solo di “pre-giudizi” di difficoltà) del caso, si stia operando uno sforzo per non intender “pidocchi” per “pesci”; questa, in fondo, è una questione di secondo piano. Il tema di maggior interesse, a parer mio, è quello di “ciò che si porta” e non s’è “preso” e di “ciò che si lascia” perché “preso”, o, meglio, di quanto appare portato o lasciato: è qui che si annida un nodo di ambiguità persino maggiore di quello che il livello superficiale della comunicazione sembra monopolizzare. E mette in gioco tradizione (memoria collettiva) e memoria individuale. Perché, in realtà, non possiamo certo parlare di una partitura del tal compositore come dell’opera: non esiste, insomma, la Quinta Sinfonia di Beethoven, né è mai esistita, salvo le sue indicazioni più o meno prescrittive: la partitura. Sono esistite, ed esistono ed esisteranno, la Quinta di Karajan, di Muti, di Toscanini, di Klemperer, di Furthwängler, di questa o di quella orchestra, e di mille altri interpreti… E tutte hanno necessità di essere confrontate con la loro scaturigine: il testo scritto della sinfonia, i segni su carta che contengono le indicazioni per la messa in atto di essa. A fare diversa e auraticamente irripetibile ogni “lettura” di una partitura è ciò che abbiamo o non abbiamo “preso”, quel che abbiamo “portato” o “lasciato”: come interpreti, come trait-d'union tra pagina e suono, e come ascoltatori, professionali o meno, come esseri “psicologici”. Da un lato, insomma, la necessità di chiarire il significato del testo, la corretta traduzione, in lingua corrente, delle istruzioni d’uso; dall’altro la coscienza che questo gesto, questa operazione è assolutamente necessaria quanto assolutamente insufficiente: da essa si deve partire, non si può che partire. “Alice chiese al Gatto: «... vuoi dirmi, di grazia, che strada devo prendere? » «Dipende da dove vuoi andare» rispose il Gatto. «Mi è indifferente» disse Alice. «Allora è anche indifferente prendere una strada piuttosto che un’altra» sentenziò il Gatto. «Purché giunga in qualche sito» completò Alice. «Purché cammini - disse il Gatto - puoi esser sicura di giungere in qualche sito.»” Il resto è musica. Così come, soprattutto nella contemporaneità, sono presenti istanze diverse, fors’anche divergenti, che metto in gioco parametri che si pongono in alterità rispetto alla “composizione” musicale. Ha affermato Alberto Abruzzese, parlando di arte, ma con parole leggibili dal punto di vista del suono: “... l’immersione dovrebbe essere il contrario delle composizione, nel senso che la composizione è esattamente una regola dell’arte contemporanea, fondata sull’arte antica, secondo la quale i diversi elementi vanno composti in una forma armonica. Questa è l’arte nel senso tradizionale. L’immersione invece raccoglie tutti quei linguaggi che si sono sottratti alla regola della composizione e hanno tentato di realizzare, attraverso linguaggi emotivi, esperienziali e psicofisici, un’immersione diretta dentro una rappresentazione o un’immagine [...] queste situazioni, ... sono chiaramente situazioni che sollecitano i sensi e che quindi creano reazioni e fanno vivere lo spettatore dentro una dimensione particolare. Una dimensione che non distingue più tra chi ha prodotto il testo e chi lo sta fruendo”. Tutto ciò presuppone dei notevoli salti di livello, che ridefiniscono non solo i ruoli degli attori musicali (produttori, elaboratori, fruitori o, in termini più tradizionali e dunque meno realistici: compositori, interpreti, pubblico), bensì – e prima ancora – le geografie, le topologie del suono e dell’ascolto. È un fatto che la tecnologia porta a ragionare artista e utente in termini che vanno ben oltre a quelli del materiale sonoro “semplice” così come la tradizione armonico-tonale ci ha consegnato (quantunque messo in discussione già a partire dalla Klangfarben Melodie schoenberghiana e quindi dagli strutturalismi novecenteschi o dalla risposta aleatorio-gestuale a essi): frutto del remix da file sharing (ma i supporti han potuto essere perfino più arcaici nel rap o nello scratching) sono partiture non-lineari nelle quali in citazionismo esiste, ma perde di ogni senso e di ogni effettiva referenzialità storico-estetica e si riduce a materiale, a grumo sonoro. Ma questa, come s’usa dire, è un’altra storia. E se vogliamo restare nel solco di una tradizione di studi accademizzata, se vogliamo venire incontro a esigenze di docenti e di studenti che lavorano su un repertorio novecentesco ormai facente parte, senza tema di smentita, dell’iter studiorum consolidato degli allievi dei conservatori di musica italiani ed europei in questa fase di ridefinizione dei curricula, se vogliamo fare questo, ecco che, con questa Prospettiva Semiografica e Semiologica della musica del 900 di Paolo Tortiglione, abbiamo in mano quel che si può tranquillamente definire “uno strumento utile, financo indispensabile”. Stefano A. E. Leoni Direttore del Laboratorio di Musica e Sociologia delle Arti, IMES, Università degli Studi di Urbino, “C. Bo” Docente di Storia della Musica e Storia ed Estetica Musicale, Conservatorio di Musica “G. Verdi”, Torino
io eviterei, a questo punto e dato il taglio della breve introduzione, un appesantimento con note,
comunque la cit. di Abruzzese viene da http://www.mediazone.info/site/it-
IT/TEMI/Temi/immersive_art_abruzzese.html
View more...
Comments