scrittura_creativa

April 24, 2017 | Author: Lanostra Professoressa | Category: N/A
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Enzo Fileno Carabba

Come scrivere una storia senza durare fatica Corso di scrittura creativa

Casa editrice G. D’Anna Messina-Firenze

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Redazione

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Impaginazione

Davide Cucini



Segreteria di redazione

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Indice Una specie di introduzione

4

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L’incipit (o magari l’inizio)

5

2

L’azione

11

3

Il personaggio

20

4

Il dialogo e l’ambiente

31

5

Pensieri

43

6

Il dato nascosto

50

7

Non saltare questo capitolo

57

8

l’attesa

63

9

Il finale

70

4 4

Una specie di introduzione Nessuno ha mai commesso un errore piú grave di colui che non ha fatto nulla solo perché poteva fare troppo poco. E. Burke, A Vindication of Natural Society, 1756

Era il 1997, anno piú, anno meno. Dato che avevo pubblicato alcuni romanzi, racconti e storie di vario tipo, mi chiesero per la prima volta di tenere un corso di scrittura creativa. L’espressione «scrittura creativa» mi faceva ridere, ma dissi di sí. Non me ne sono pentito. Da allora ho tenuto corsi nei luoghi piú vari: dalle scuole elementari al carcere, passando per un corso rivolto a operatori sanitari sottoposti a stress. Per la verità l’espressione «scrittura creativa» continua a farmi ridere, la trovo ambigua: una volta arrivò un ragazzo munito di pennarelli stranissimi. Secondo lui l’importante nella scrittura creativa non erano le parole ma il loro colore. Chiaramente è un punto di vista interessante. Ma io nei corsi, dato che non mi intendo di colori, mi limito a cercare di far capire come funziona una storia quando la scrivi. A forza di insegnare ho imparato qualcosa io stesso. Mi sono convinto di alcune cose che dicevo. Prima non mi ero mai posto problemi del tipo «Come si scrive una storia?». La scrivevo e basta. L’idea di base è che esiste un «pensiero narrativo». Cioè, ci si può esprimere attraverso personaggi in movimento. Questi personaggi, quando prendono vita, ti sorprendono e ti fanno fare esperienza di qualcosa di nuovo. Scrivere un racconto non è come fare un tema: in un tema scrivi quello che conosci. Scrivendo una storia scopri qualcosa che non conoscevi. Scrivere una storia non è nemmeno come studiare la letteratura o fare l’analisi letteraria: in un certo senso è proprio l’opposto. Analizzare una storia e scriverla sono due attività molto diverse. Analizzare è come fare un’autopsia: smembri un corpo steso lí davanti a te. Invece raccontare una storia è un atto vitale. Ci sono due frasi di Ray Bradbury che mi sembra parlino di questo: Prima, come tutti i dilettanti, pensavo fosse possibile sbattere, picchiare, sconquassare un’idea per farla venire al mondo. Dopo un trattamento del genere, naturalmente, ogni idea decente incrocia le zampe, si gira sulla schiena, fissa negli occhi l’eternità e muore [...] Arrivai al buon vecchio modo di scrivere per mezzo dell’ignoranza e dell’esperimento e mi sono spaventato quando le verità sono uscite dai cespugli come una quaglia prima dello sparo. R. Bradbury, Lo zen e l’arte della scrittura

Con questo non voglio dire che uno scrive a caso. Esiste un artigianato da padroneggiare ed è di questo che parleremo. Diciamo che devi sí esercitare un grande controllo su quello che scrivi (il controllo sulla materia è una capacità che appartiene a tutte le arti) ma devi anche lasciarti un po’ andare. Quando scrivi una storia, e la storia viene bene, di solito è perché hai raggiunto zone di te che neanche sapevi di avere. E ne esci come rivitalizzato. Almeno, a me succede cosí. Quando scrivo qualcosa che mi appassiona mi sembra che tutto luccichi attorno a me. A volte. Altre è come se fossi riuscito a pescare qualcosa di grosso dentro me stesso.

L’incipit (o magari l’inizio)

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1

5 5

L’incipit (o magari l’inizio) Innanzitutto è bene che la mente divenga immediatamente pura e non contorta. In generale tutte le persone sembrano scoraggiate. Y. Tsunetomo, Hagakure

Sono pronto a essere smentito, ma penso che nessuno scrittore si alzi e dica: «Oggi scrivo un incipit». Incipit è una parola che serve ad analizzare, piú che a scrivere. Però è vero che da qualche parte bisogna pur iniziare. Un racconto, come tutte le cose di questo mondo, ha un inizio e una fine.



1.1

Catapultare il lettore Un buon racconto deve catapultare il lettore in un mondo. Può essere un mondo plausibile, un mondo fantastico, quello che vi pare. Ma deve essere un mondo coerente. E il lettore deve essere catapultato dentro fin dalle prime parole. Mi sembra che sia stato Dostoevskij a scrivere che se non catturi il lettore nelle prime dieci pagine non lo catturi piú. E considera che ai tempi di Dostoevskij la gente andava in carrozza. Oggi la gente va talmente veloce che se non la catturi nelle prime due pagine probabilmente non la catturi piú. Lo so, è molto triste, e tutto questo si presta a un’aspra critica del mondo contemporaneo. Ma non siamo qui per questo. L’aspra critica la faremo un’altra volta. Per adesso proviamo a scrivere un inizio che catturi il lettore. Io credo che un buon inizio sia soprattutto un fatto di energia: è l’energia compressa nelle parole che conta. La maggior parte delle persone, quando si inoltra per la prima volta nel nobile campo della narrativa attiva, tende a scrivere piú che altro i propri pensieri e a fare lunghe riflessioni sul personaggio. Caoticamente, senza energia. O magari lo descrive lungamente, il personaggio, prima di cominciare a fargli far qualcosa, pover’uomo. In questo modo perfino il personaggio muore di noia. Si può iniziare dicendo: Marco è un ragazzo di diciassette anni che si alza tutte le mattine alle 7 e frequenta il liceo Taldeitali. È innamorato della compagna di classe Rosamunda Soncarina ma è molto timido. Finalmente ha deciso di dirglielo. Ha stabilito di dirglielo quella mattina, ha elaborato proprio un piano preciso: glielo dirà offrendole un panino. Ma quando arriva a scuola scopre che l’edificio è allagato. Oppure: Quando arrivò davanti al portone e vide che l’ingresso della scuola era diventato uno stagno, con la preside che ci camminava dentro con la gonna scozzese sollevata, capí che il panino al salame non gli avrebbe portato l’amore. Nel primo caso l’autore (che sarei io) spiega subito che Marco è un ragazzo di diciassette anni, che frequenta un liceo ecc. Nel secondo caso invece tutto questo è dato per scontato per catapultare il lettore nel mondo di Marco, senza tanti preamboli.

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6 6

L’incipit (o magari l’inizio)

Nel primo esempio ho scritto che Marco si sveglia alle 7 perché, tenendo tanti corsi nelle scuole, sono perseguitato da personaggi che si svegliano alle 7. Basta coi personaggi che si svegliano alle 7! A meno che questo dettaglio non abbia importanza per la storia. Sono anche perseguitato da elfi e serial killer, ma di questo parlerò piú in là. Perle di saggezza

C’è un romanzo di Nabokov, La difesa di Luzin, che inizia cosí: A colpirlo soprattutto fu il fatto che, da lunedí, sarebbe stato Luzin. Che cavolo significa? Che il protagonista cambia identità? Si fa una plastica facciale e cambia nome perché è inseguito dalla mafia? Oppure il suo cognome non gli piace e lo cambia per motivi estetici? Niente di tutto questo. È semplicemente un ragazzino che sta per iniziare la scuola, e da lunedí – riflette – verrà chiamato per cognome. Oppure, in Gita al faro di Virginia Woolf c’è un bambino che vuole fare una gita al faro. Ma il romanzo non inizia dicendo «C’è un bambino che è cosí e cosà e vuole fare una gita al faro e quindi chiede quando ci andranno». Ecco come comincia: Sí, di certo, se domani farà bel tempo. Cioè, inizia direttamente dalla risposta.

Mi viene in mente un altro esempio (che non sarà raffinato come Gita al Faro ma è molto efficace e spero aiuti a capire quello che intendo): Quando tornai a casa e vidi che la pistola non era piú nel cassetto capii che la nonna* era andata di nuovo a rapinare il supermercato. Che è una cosa ben diversa da dire: Il protagonista si sveglia alle 7, è un tipo cosí e cosí e ha una nonna che gli dà dei problemi. Nel primo caso la narrazione scaraventa direttamente il lettore nel mondo di questo nipote (e soprattutto di questa nonna, che in prospettiva sembra essere il personaggio piú interessante).

esercizio

Fai un elenco dei tuoi incipit preferiti (di libri, canzoni, fumetti ecc.) e illustra le tue scelte in un breve testo.

* Riprendo questa nonna rapinatrice da un nobile professore (Valerio Camporesi) che la usa per i suoi esercizi di italiano: invece di proporre ai suoi allievi le solite frasi noiose usa frasi con questa nonna rapinatrice. Mi sembra un’ottima idea: una nonna rapinatrice può aiutare la lingua italiana.

L’incipit (o magari l’inizio)



1.2

1

7 7

Sapere tutto o non sapere nulla? Tra il sapere tutto e il non sapere nulla ci possono essere delle vie di mezzo. Borges, grandissimo scrittore argentino, diceva che lui cominciava a scrivere quando aveva in mente l’inizio e la fine della storia, ma non sapeva cosa c’era in mezzo. Una persona può scrivere alcune storie e non altre. E spesso le storie che può scrivere sono proprio quelle di cui viene in mente l’inizio senza bisogno di tante spiegazioni.

Perle di saggezza

Sento il bisogno di accennare altri esempi. Tutti conoscono Il Signore degli Anelli, non di persona ma perché hanno letto il libro o piú probabilmente visto il film. Il primo capitolo inizia cosí: Quando il signor Bilbo Baggins di Casa Baggins annunziò che avrebbe presto festeggiato il suo centoundicesimo compleanno con una festa sontuosissima, tutta Hobbiville si mise in agitazione. Qui non viene detto perché compie centoundici anni. Forse è un mondo dove piú o meno tutti arrivano a centoundici anni (per di piú ci arrivano perfettamente in grado di dare una festa sontuosissima)? O c’è una ragione particolare per cui Bilbo Baggins arriva a centoundici anni di età senza che – come si dice poche righe piú giú – il tempo lasci tracce su di lui? Oppure l’inizio di Harry Potter e la pietra filosofale di J.K. Rowling: Il signore e la signora Dursley, di Priver Drive numero 4, erano orgogliosi di poter affermare che erano perfettamente normali, e grazie tante. Erano le ultime persone al mondo da cui aspettarsi che avessero a che fare con cose strane e misteriose, perché sciocchezze del genere proprio non le approvavano. Qui, per dire, non si comincia spiegando che Harry Potter vive in questa famiglia terribile. Anzi. Si inizia invece dicendo quello che il signor e la signora Dursley pensano di se stessi senza commenti dell’autore. Sarà poi il lettore, catapultato, a farsi un’idea della situazione da solo.

Vorrei fare un ultimo esempio, tratto da un romanzo che ho pubblicato io, Pessimi segnali, in cui il protagonista presta servizio sulle ambulanze della Croce Rossa, nel Valdarno, come obiettore di coscienza. Anche io ho prestato servizio come obiettore di coscienza sulle ambulanze della Croce Rossa, nel Valdarno. Solo che mentre al protagonista non va mai bene nulla, io sono un tipo buonissimo. Ma insomma, non mi andava di spiegare tutto questo dall’inizio, cioè non mi andava di iniziare in questo modo: Angelo arriva in un paesino e gli sembrano tutti strani. Il romanzo infatti inizia cosí: Morivano di continuo, come per un’ossessione. Non li capivo. Erano dappertutto: per le strade e nelle case. Noi li portavamo via, con la sirena che urlava e incendiava l’aria. Mi sembravano tutti uccisi. Correvamo nel ghiaccio e nel sole. Incidenti, malattia, lamiere, andavamo incontro a questo senza sapere nulla. L’unica cosa che sapevo era che sicuramente esisteva un colpevole, da qualche parte. C’è sempre un colpevole. Una persona che non sa nulla, che non ha ricevuto spiegazioni preventive, piomba come in una botola leggendo queste righe. Almeno spero. esercizio

Prendi un libro che ti piace. Cerca di scordarti che hai letto il libro e che quindi sai a cosa si riferiscono gli accenni iniziali. Guarda come inizia e rifletti: cosa capisce uno che legge questo inizio? Illustra le tue riflessioni in un breve testo.

1

8 8



1.3

L’incipit (o magari l’inizio)

Scrivere di qualcosa che ti interessa Per scrivere un buon inizio (ma anche un buon seguito) devi individuare una situazione che accenda qualcosa dentro di te. Mi ricordo di aver letto la confessione di un autore che si chiama Stephen Vizinczey (I dieci comandamenti di uno scrittore: verità e menzogne in letteratura). Piú o meno diceva questo (lo riassumo con parole mie): Quando ho cominciato a scrivere amavo molto Balzac. Ora, Balzac è bravissimo a descrivere stanze, armadi, comodini, cose cosí. Trasmette una vera passione quando parla di armadi. E allora anche io ero convinto di amare gli armadi e i comodini, e riempivo i miei racconti di armadi e comodini. Solo che i miei racconti erano noiosissimi. Perché? Ci ho messo anni per capire che a me degli armadi in verità non importa nulla. Mi piacciono solo quando ne parla Balzac, perché evidentemente Balzac provava davvero una segreta passione per gli armadi. Quando me ne sono reso conto mi sono dedicato ad altri argomenti. Per esempio, facendo corsi nelle scuole leggo tanti racconti dove appaiono elfi o orchi. Questo accade soprattutto da quando è uscito il film del Signore degli anelli. Premesso che a me Il Signore degli anelli è sempre piaciuto, non ne posso piú degli elfi di cui mi capita di leggere nelle scuole. E la differenza non è solo che Tolkien era «piú bravo». La differenza, secondo me, è che Tolkien pensava tutto il giorno a mondi popolati da elfi e orchi. Per cui il mio suggerimento è: inizia scrivendo di qualcosa a cui pensi anche quando non scrivi.

Perle di saggezza

A proposito di Honoré de Balzac (1799-1850), nel romanzo Papà Goriot a un certo punto descrive la pensione Vauquer. Su credenze appiccicose, lungo le pareti, sono posate caraffe sbreccate, opache, dischi di metallo marezzato, pile di piatti di spessa porcellana a bordi blu […]. I mobili sono di quelli indistruttibili, ovunque proscritti, ma piazzati lí come rottami della civiltà degli Incurables. […] Per spiegare come questo mobilio sia vecchio, screpolato, marcio traballante, corroso, monco, orbo, invalido, agonizzante, se ne dovrebbe fare una descrizione che ritarderebbe troppo la parte interessante della nostra storia e che i lettori frettolosi non perdonerebbero. E poi (a parte che è interessante notare come già allora si preoccupasse del lettore frettoloso) continua con una descrizione dello squallore della pensione. È uno squallore in qualche modo entusiasmante, per come lo descrive Balzac, soprattutto da quando entra in scena la signora Vauquer, con la sua figura rotonda da topo di chiesa (ti consiglio di leggerlo, il suo ingresso topesco).

Lo stesso discorso vale per i serial killer, o comunque per i racconti horror. Una cosa è dire «Avevo paura, una paura terribile». Altra cosa è far provare paura al lettore. Spesso piú uno dice «Avevo paura» e piú il lettore si annoia. Magari invece un particolare scagliato al momento giusto, tipo «aveva le pantofole gialle» per qualche motivo terrorizza chi legge. (Questa cosa delle pantofole terrorizzanti la traggo dal film di Pupi Avati La casa delle finestre che ridono, ma non te la posso spiegare altrimenti ti rovino l’effetto). Il mio suggerimento è: se vuoi far paura utilizza un personaggio, una situazione che davvero ti fa paura, o ti faceva paura da bambino. Io non ci credo che tutti siano terrorizzati dai serial killer.

L’incipit (o magari l’inizio)

1

9 9

Io per esempio da bambino ero spaventato dal riflesso del mio volto sul rubinetto. Quella è una paura da cui potrei partire. Poi certo dovrei continuare, non è che uno può scrivere duecento pagine descrivendo un rubinetto. Questa sí che sarebbe una cosa spaventosa, ma per la noia. Me ne rendo conto. Ma questa è un’altra storia. esercizio

Fai un elenco di argomenti che ti interessano e di situazioni che stimolano la tua immaginazione. Di quali situazioni/argomenti ti piacerebbe scrivere? Inizia a pensare fortemente all’incipit della tua storia. Butta giú qualche idea. Ma aspetta, non scrivere ancora. Continua a pensarci.



1.4

Il gorgo e l’onda Non c’è nessuna legge che stabilisce in generale come scrivere e in particolare come iniziare. Io però ti propongo di catapultare direttamente il lettore in una situazione. Se poi non ti piace catapultare ed essere catapultato (perché devi partecipare anche tu al volo) possiamo ricorrere a un’altra immagine. L’inizio è come una porta. Cerca di far sí che appena uno entra non debba star lí due ore a esaminare l’ingresso ma sia risucchiato da un gorgo fatto dalle tue parole. L’importante in un inizio non sono le cose che sai o le cose che spieghi, ma le aspettative che susciti. Prendi qualcuno di cui ti fidi, fagli leggere il tuo inizio e interrogalo: «Ehi, ma tu cosa ti aspetti dopo questo inizio?». Se lui con aria desolata risponde: «Nulla, non mi aspetto nulla» e poi si addormenta, allora forse devi ritoccare qualcosa.

Perle di saggezza

Uno dei piú famosi inizi di romanzo nel Novecento è quello di Cent’anni si solitudine di Gabriel García Márquez: Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. In effetti questo è un tipico inizio che ti proietta in un altro mondo. Anche dal punto di vista dell’uso del tempo. Molti anni dopo? Molti anni dopo rispetto a cosa? Poi te lo spiega, ma nel frattempo la tua mente è entrata in un piccolo gorgo in cui sai che si troverà di fronte al plotone di esecuzione e che suo padre lo portò a conoscere il ghiaccio. Un inizio ancora piú famoso è quello de La metamorfosi di Franz Kafka: Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Anche qui ti trovi catapultato in un mondo, o meglio in un letto (da cui però si apre un mondo) senza tanti preamboli. È bello poi vedere come Kafka riesca a cogliere i dettagli dell’insettone immondo steso a letto. Non è che semplicemente dice che lui sta nel letto. Ma riesce a vederlo (a vedere come sta la coperta, come stanno le zampette) con l’occhio della mente e quindi poi della penna.

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10 10

L’incipit (o magari l’inizio)

È chiaro che l’inizio a gorgo e quello a porta non sono gli unici inizi possibili. Immagino che gli inizi possibili siano infiniti e ognuno deve trovare il suo. Eccone un altro. Perle di saggezza

Questo è l’inizio de Le streghe di Roald Dahl, un altro libro famosissimo, anche se rivolto a un pubblico diverso: Nelle fiabe le streghe portano sempre ridicoli cappelli neri e mantelli, e volano a cavallo delle scope. Ma questa non è una fiaba: è delle STREGHE VERE che parleremo. Ci sono alcune cose importanti che dovete sapere, sul loro conto; perciò aprite bene le orecchie e cercate di non dimenticare quello che vi dirò. Le vere streghe sembrano donne qualunque, vivono in case qualunque, indossano abiti qualunque e fanno mestieri qualunque. Per questo è cosí difficile scoprirle. Una VERA STREGA odia i bambini di un odio cosí feroce, furibondo, forsennato e furioso, da non poterselo immaginare.

Questo inizio non è un gorgo e non è una porta. È una grossa onda che si avvicina con regolarità. È una spiegazione: ma non è una spiegazione noiosa. Ti obbliga a rivedere il mondo con occhi diversi. Perché scopri che tutte le donne possono essere streghe e che sono davvero cattive. La spiegazione che io ti chiedevo di evitare è quella che mi spiega cose che piú o meno so già. Qua invece il mondo, il tuo mondo normale, ti appare all’improvviso nuovo. E questo ti dà un brivido di gioia. Per me almeno è cosí: i libri che non mi dicono nulla di nuovo non mi appassionano. Se invece un libro mi dice che le streghe portano i guanti, sono calve come un uovo e sono convinte che i bambini puliti puzzino di cacca di cane, beh, allora sí che mi sembra interessante. Perle di saggezza

L’inizio di Anna Karenina (Tolstoj) è questo qua: Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo. Come può essere classificato? Non saprei. Ma mi piaceva citarlo, per dire che puoi iniziare anche con un motto.

esercizio

Ora tocca a te. Devi catapultare il lettore in un mondo. Fantastico, realistico, quello che vuoi. Ma ricorda: deve essere un mondo coerente! Puoi cercare di far risucchiare il tuo lettore da un gorgo, puoi lasciarlo sospeso tra le cose dette e quelle non dette. Oppure puoi travolgerlo con un’onda, una situazione, una visione del mondo insolita e inaspettata. O ancora, sorprenderlo con un motto, come se avessi la verità in tasca. Tieni presente però che sei tu il tuo primo lettore e che se la tua storia non ti interessa, non interesserà neppure gli altri. Intesi? Ora dimentica tutto questo e scrivi un inizio non piú lungo di cinque righe.

L’azione

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L’azione Non è strano infatti il non sapere ciò che non si è mai appreso, ma l’ascoltare ed il vedere spesso, e tuttavia non ricordare, questo è lo strano. Chrétien de Troyes (XII secolo), Perceval il Gallese

Bene, avete scritto il vostro inizio e ne siete soddisfatti. Cominciando avete fatto un sacco di scelte di cui non vi siete neanche resi conto. Ed è meglio cosí. Però ormai che il dado è tratto potete anche cominciare a pensarci, con leggerezza. Avete scelto chi narra la storia, da quale mondo, che tono di voce ha, un sacco di cose importantissime a cui non conviene pensare troppo. Che però hanno delle conseguenze. Se per esempio avete cominciato dicendo una cosa tipo: La prima volta che vidi un cane avevo 97 anni dovete ricordarvi che il tipo di cui si parla è un tipo particolare, almeno dal nostro punto di vista, dato che la maggior parte di noi ha l’occasione di vedere cani prima del novantasettesimo compleanno. Conosco un sacco di gente capace di scrivere inizi promettenti (che ti danno la sensazione di catapultare il lettore in un mondo, o di farlo risucchiare dal gorgo dietro la porta) e poi non sa come continuare. Questo perché buttare là qualche frase a effetto è abbastanza semplice. Difficile è entrare in un mondo coerente. D’altra parte non puoi stare lí troppo a chiederti: sarà coerente il mio mondo? È una domanda giusta ma troppo impegnativa. Vai avanti, poi vedremo.



2.1

Qualcuno che fa qualcosa (di credibile) Per andare avanti c’è un solo modo. In una storia, di solito, c’è qualcuno che fa qualcosa. Non fate quella faccia. La maggior parte delle persone quando «crede» di narrare una storia tende ad ammassare sfoghi, pensieri sul mondo o a fare un riassunto della storia che dovrebbe narrare. Spesso i pensieri in sintesi dicono: io sono bello, il mondo è brutto. Invece il riassunto è del tipo: lottò con i mostri e vinse. Ma detto cosí non ci credo. A nessuna delle due cose. Ho bisogno di qualche dettaglio. Ho bisogno di respirare con i dettagli. Altrimenti capisco che chi racconta è un bugiardo. Il personaggio deve avere attorno a sé un mondo credibile. Magari fantastico, ma credibile. Direi un vasto mondo, altrimenti si ritrova a essere come uno squalo bianco in un acquario: gli squali bianchi negli acquari muoiono. Il mondo di cui stiamo parlando per essere credibile deve essere pieno e tridimensionale, perché il mondo di cui abbiamo esperienza è pieno e tridimensionale (come

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L’azione

minimo). Per esempio: la maggior parte delle persone quando comincia a scrivere fa riferimento solo alla vista. E questo conferisce al racconto un effetto di curiosa piattezza. Nel mondo reale la gente ha caldo, ha freddo, sente profumi e odori sgradevoli, tocca superfici lisce e ruvide, e cosí via*. Perle di saggezza

Nel Sergente nella neve Mario Rigoni Stern non comincia dicendo: Eravamo in Russia, c’era la guerra e c’era tanta neve. Sarebbe generico. Un riassunto freddo (e non a causa della neve). Lo potrebbe dire chiunque. Comincia invece dicendo: Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Un grandissimo inizio. Sei subito lí con lui. Respiri con lui. Capisci che è vero.

L’altra cosa che capita, quando le persone provano per la prima volta a scrivere narrativa, è la seguente: fanno parlare tutti i personaggi nello stesso modo. E a quel punto io lettore non ci credo. Mi capita di leggere racconti in cui un ragazzo dice: Mi recai al bagno. Ebbene: a questa frase non ci credo. Se un mio amico ai tempi della scuola mi avesse detto «Mi reco al bagno» avrei pensato che fosse impazzito. A meno che non si trattasse di una frase ironica. Insomma quello che voglio dire è che uno deve essere molto sincero quando fa parlare un personaggio altrimenti suona falso. Perle di saggezza

Molti miei amici mi hanno sconsigliato di leggere la Poetica di Aristotele ai corsi, se non voglio che la gente scappi buttandosi dalla finestra. Da allora tengo solo corsi al pianterreno. A proposito della tragedia (che comunque è una forma di narrazione) Aristotele dice: Dal momento che l’imitazione si compie agendo, innanzitutto è necessario che una parte della tragedia sia una buona sistemazione di ciò che si vede [...] La tragedia è imitazione di un’azione ed è compiuta da persone che agiscono – le quali necessariamente hanno determinate qualità in relazione al carattere e al pensiero [...] La tragedia infatti è imitazione non di uomini, ma di azione e vita [...] Non si agisce dunque per imitare i caratteri, ma si assumono i caratteri attraverso le azioni: perciò i fatti e il racconto sono il fine della tragedia. Mi sembra che stia dicendo, tra l’altro, che i personaggi devono venire fuori da come parlano e da come agiscono. E mi sembra che dica che uno non deve scrivere mi reco al bagno quando invece il suo personaggio direbbe corro al cesso (è solo un esempio di coerenza stilistica). E che tutto questo deve esser incanalato nel flusso di una storia coerente. * C’è una prodigiosa eccezione: Flataland, di Edwin A. Abbott, in cui si descrive un mondo bidimensionale abitato da figure piatte: il narratore è un quadrato.

L’azione

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esercizio

Hai fatto le tue scelte. Ora continua la tua storia facendo riferimento a un senso che non sia la vista. Dico continua perché ti propongo, facendo i vari esercizi, di sviluppare la stessa storia. Ti suggerisco di «impolverarti». Se per esempio il protagonista attraversa l’Atlantico in pedalò, non scrivere «Attraversò l’Atlantico in pedalò», anche perché cosí il racconto finisce subito. Devi dirmi com’è la sabbia quando lui spinge il pedalò verso l’acqua: calda? Fredda? Scricchiola? Risuona? È umida? E come è l’acqua? Verde? Blu? Marrone (spero di no)? Insomma, devi convincermi che davvero questo pazzo sta attraversando l’Atlantico in pedalò.



2.2

Anche dire è fare: sprigionare idee e concetti Nel racconto Il camaleonte di Anton Cˇechov è difficile trovare una spiegazione o un pensiero riportato esplicitamente. Diciamo che l’unica spiegazione è data dal titolo. Per il resto capisci tutto da quello che i personaggi fanno e da quello che i personaggi dicono (d’altra parte anche dire è fare). L’ispettore di polizia Ociumielov attraversa la piazza del mercato, con un pastrano nuovo e un involto in mano. A un certo punto si sentono delle voci, un guaito. Un uomo è stato morso da un cane. Al che Ociumielov si mostra severo: il cane sarà soppresso e il padrone del cane verrà punito, deve imparare a rispettare i regolamenti! Poi però viene fuori che il cane è di proprietà del potente generale Zigalov. Allora l’ispettore cambia immediatamente atteggiamento. Insinua dei dubbi: come ti ha potuto mordere, dice alla vittima del morso, tu sei un pezzo d’uomo e lui è un cagnolino. Forse ti sei scorticato il dito con un chiodo e poi ti è venuto in mente di dire una bugia. Arriva un altro personaggio e afferma che quello non è il cane del generale. Allora l’ispettore cambia ancora atteggiamento: ribadisce che il proprietario deve essere punito. Ma un altro ancora dice che forse effettivamente quel cane è del generale. Al che l’ispettore, per paura del potere, cambia di nuovo (è spudorato). Poi passa il cuoco del generale e afferma che quel cane non è del generale. Ociumielov torna al primo atteggiamento: bisogna sopprimerlo e basta. Ma quando il cuoco precisa che sí, quel cane non è del generale, nel senso che appartiene al fratello (un uomo ancora piú potente, si intuisce), allora c’è la svolta definitiva: l’ispettore dice che è un gran bel cagnolino e manda via – minacciandolo – l’uomo che si lamentava per il morso. Ecco. Ho raccontato questa storia malissimo. Ma giuro che l’ho fatto apposta. Un eroico sacrificio per farvi gustare meglio – guardando le differenze – la spaventosa abilità di Čechov. Ho scritto cose come «l’ispettore si mostra severo»: mentre Cˇechov rende l’idea, in quel punto, semplicemente con le parole dell’ispettore e i movimenti della sua faccia. Ho scritto che è «spudorato» ma Cˇechov non ha avuto bisogno di dirlo. Ho scritto «L’ispettore cambia idea»: una frase simile, una spiegazione simile, non c’è nel racconto di Cˇechov. Semplicemente si riportano le frasi dell’ispettore e chiunque lo capisce da solo, che l’ispettore ha cambiato idea e che è spudorato. Ho scritto che questi cambiamenti derivano dal fatto che «ha paura del potere» rappresentato dal generale Zigalov e da suo fratello. Ma, anche in questo caso, una frase del genere (cosí teorica) nel racconto non si trova. Semplicemente è un concetto che si sprigiona dalla narrazione. Come un ramo da un albero.

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L’azione

Forse potremmo dire questo: da una buona narrazione si sprigionano idee con naturalezza. I cambiamenti dell’ispettore si intuiscono grazie a tutte le manovre col pastrano: se lo toglie, se lo rimette, ha caldo, ha freddo, proprio per via delle emozioni contrastanti. Prova a rileggerlo ad alta voce: vedrai apparire la faccia dell’ispettore (e degli altri). Distinguerai perfino il tono con cui vengono pronunciate le parole, senza bisogno che venga descritto. A me almeno succede cosí. Le parole mi risuonano nella testa. Perle di saggezza

Molti hanno letto le storie di Stephen King, «il re del brivido», come viene definito. Se non hanno letto le sue storie hanno visto film tratti dalle sue storie (Shining, It, Il miglio verde ecc.). Nel romanzo Misery non deve morire c’è, in estrema sintesi, un uomo prigioniero di una psicopatica. Ma nel libro non c’è mai scritto che lei è una psicopatica. in un saggio dove racconta come scrive le sue storie (On writing, Autobiografia di un mestiere), King dice: è importante ricordare che lei si vede equilibrata e razionale. E poi aggiunge un’osservazione molto istruttiva circa il fatto di limitare le spiegazioni: La vediamo passare attraverso pericolosi cambi di umore, ma ho cercato di non scrivere mai frasi esplicite come: Quel giorno Anna era depressa, forse con inclinazioni suicide. Oppure: Quel giorno Anna sembrava particolarmente felice. Se sono io a dovervelo dire, ho perso. Nel racconto di Raymond Carver Meccanica popolare (tratto dalla raccolta Di cosa parliamo quando parliamo d’amore) ci sono un uomo e una donna che stanno litigando (parecchio! Spero non siate tipi impressionabili) ma se andate a vedere non c’è mai scritto «litigavano», che a pensarci bene è un concetto astratto abbastanza complesso. Semplicemente si capisce da quello che fanno e quello che dicono. Lui era in camera da letto che cacciava i vestiti in valigia, quando lei comparve sulla porta. Sono contenta che tu te ne vada! Sono contenta che tu te ne vada, ho detto. Mi senti? Lui continuò a mettere la sua roba in valigia. […] Sapessi come sono contenta che tu te ne vada! Cominciò a piangere. Non riesci nemmeno a guardarmi in faccia, eh? Poi lei vide la fotografia del bambino sul letto e la prese in mano. Capisci benissimo che lei non è per niente contenta. Ma ufficialmente non c’è scritto. Sono contenta. Cominciò a piangere. Basta. Un personaggio è come un figlio: non lo puoi ammorbare troppo con le tue riflessioni (un po’ sí, ma non troppo). Gli devi dare vita e lasciarlo andare. Oppure, mi viene da dire, una storia è come un albero. Non puoi aggiungere rami a un albero prendendo dei bastoni e incollandoli al tronco, non sarebbe una buona idea. A volte certe riflessioni aggiunte alla storia sembrano cataste soffocanti di rami incollati. Meglio i rami veri (personaggi vivi) che cercano la loro strada verso il sole. esercizio

Leggi Il camaleonte di Anton Čechov. Dopodiché, continua la tua storia cercando di sprigionare concetti, idee, di far capire al tuo lettore il carattere, i dubbi, le intenzioni, i desideri del tuo o dei tuoi personaggi, senza però spiegarli apertamente. Tutto questo in mille battute.

L’azione



2.3

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Facendo finta di nulla: la descrizione Devo dire qualcosa sulla descrizione. L’esercizio che ho proposto poco fa, quello di impolverarsi, o al limite di insabbiarsi (visto che il protagonista spinge il pedalò su una spiaggia) può essere interpretato come un esercizio di descrizione. Dato che la maggior parte delle persone tendono a piantarsi sulla descrizione come muli, o come alpinisti terrorizzati in mezzo alla parete, ecco che io vi chiedo di descrivere senza far pesare il fatto che state descrivendo. Per esempio in quel racconto di Carver di cui abbiamo parlato poco fa, quel racconto in cui quei due litigano senza bisogno di dire che litigano, l’ambiente è descritto con pochi tocchi. Si capisce che non stanno in una reggia, ma in un posto piccolo e direi, senza offesa, piuttosto squallido. Ma se andate a vedere le frasi da cui avete tratto questa impressione vedrete che sono poche e leggere.

Perle di saggezza

Meccanica popolare di Carver inizia cosí: La mattina presto il tempo era cambiato e la neve stava sciogliendosi in acqua sporca. Scorreva giú a rivoli dalla piccola finestra all’altezza della spalla che dava sul giardinetto dietro la casa. Fuori le macchine schizzavano fango sulla strada, dove stava diventando buio. Ma stava diventando buio anche in casa.

Apparentemente non ci sarebbe bisogno di menzionare la piccola finestra all’altezza della spalla: non è che questa piccola finestra ha un rilievo particolare per quanto riguarda lo sviluppo degli eventi, non è che un cecchino (magari la nonna rapinatrice) spara dall’esterno e colpisce un personaggio alla spalla. Ma la piccola finestra all’altezza della spalla ci dice che non siamo in un palazzo scintillante e ci fa capire da dove stiamo guardando la neve che si scioglie: mettendo a fuoco l’esatta direzione dello sguardo (che passa attraverso la piccola finestra) si potenzia la descrizione.

Perle di saggezza

Ecco come lo scrittore Tiziano Scarpa commenta il racconto di Carver: Carver sosteneva di lavorare cosí: quando scriveva un racconto lo leggeva e toglieva alcune parole. Poi lo rileggeva e toglieva altre parole. Poi lo rileggeva e toglieva altre parole. Poi lo rileggeva e non toglieva piú niente: «Altrimenti non c’è piú il racconto». Vi invito a tenere presente questa frase, «altrimenti non c’è piú il racconto». Non diceva: «Altrimenti mancherebbe qualcosa di importante», oppure: «Altrimenti certi punti risulterebbero oscuri», ma proprio: «Altrimenti non c’è piú il racconto». Anche Čechov, un maestro per Carver, diceva: «Scrivi tutto, poi cancella quasi tutto». Ecco cosa ha scritto Raymond Carver: Se le parole sono appesantite dall’emozione incontrollata dello scrittore, o se sono imprecise e inaccurate per qualche altro motivo – se sono, insomma, in qualche maniera sfocate – fatalmente gli occhi del lettore scivoleranno sopra di esse e non si sarà ottenuto un bel niente. Il senso artistico del lettore non sarà affatto stimolato. Henry James diceva che questo infelice genere di scrittura era affetto da «debolezza di specificazione».

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L’azione

Allora il mio suggerimento è questo: provate a selezionare pochi caratteri che diano l’idea dell’ambiente, mentre l’azione prosegue. esercizio

Descrivi l’ambiente con pochi tocchi, mentre l’azione prosegue come un fiume. Insomma… non fare una lunga descrizione sull’ambiente in cui si svolge l’azione. Se i tuoi personaggi stanno dialogando, prova ad aggiungere, vicino a un «disse», mentre guardava dalla finestra del terzo piano di quel palazzo fatiscente. Ma senza esagerare. Solo pochi tocchi. Qua e là.



2.4

E intanto il tempo scorre… accelera, rallenta e salta L’azione implica un personaggio che si muova nello spazio e nel tempo. Credo che la cosa piú importante in una narrazione sia dare la sensazione che il tempo scorra. Anzi, sia creare il tempo. È un tempo inventato, che inizia con la prima parola e finisce con l’ultima. È come una scatola magica: ogni volta che la apri il tempo della storia, di quella storia, comincia a scorrere di nuovo. Come si fa a rendere il tempo? Non lo so. Un ragazzo una volta mi portò un racconto che piú o meno diceva: Stava correndo a piú non posso quando la pallottola arrivò velocissima. Il ragazzo sosteneva che in quel punto del racconto il tempo andava velocissimo. Piú veloce di cosí: lui corre e la pallottola arriva veloce. Ma secondo me non è cosí. È vero che la pallottola arriva veloce, su questo non ci piove. Ma se scrivi la pallottola arrivò veloce l’effetto è lentissimo. Se invece scrivi Stava correndo quando sentí un calore alla gamba e un attimo dopo rotolava lungo il pendio l’effetto è veloce.

Perle di saggezza

C’è un brano di Stephen King che mi sembra istruttivo, nonostante non sia tratto da uno dei suo romanzi famosi, o forse proprio per quello. È contenuto nella introduzione a On Writing e non è un brano dove fa sfoggio della sua abilità, racconta un episodio «normale» cosí, tranquillamente, e proprio per questo si vede secondo me un talento naturale nell’evocazione del tempo. C’è Stephen King a due anni e mezzo, forse tre. Era un bambino dotato di forza straordinaria perché solleva un blocco di calcestruzzo. Non sapevo che nel lato inferiore del blocco di calcestruzzo le vespe avevano costruito un piccolo nido. Una di esse, scocciata forse dall’improvviso trasloco, volò fuori a pungermi un orecchio. Il dolore fu folgorante, come un’inalazione venefica. Fu il peggior dolore mai sofferto nella mia breve vita, ma rimase al suo culmine solo per pochi secondi. Quando mi lasciai cadere il blocco sul piede scalzo maciullandomi tutte e cinque le dita, mi scordai totalmente le vespe. La caduta del blocco di calcestruzzo è veloce! Se avesse detto qualcosa del tipo: La vespa mi punse, lasciai cadere il blocco che con spaventosa velocità cadde e mi maciullò il piede sarebbe stato lento.

L’azione

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Vorrei fare qualche altro esempio sul tempo. Prendiamo Madame Bovary, di Gustave Flaubert. Madame Bovary è la storia di una donna che legge troppo e allora tradisce il marito*. A un certo punto è in giro per la campagna, a cavallo, con quello che di lí a poco diventerà il suo primo amante. L’autore vede e dunque scrive che mentre cavalcano l’erba gli arriva alle caviglie perché è alta, oppure sente il suo fruscio e cose del genere. I due smontano da cavallo e l’uomo allarga le braccia e comincia ad avvicinarsi alla donna con intenzioni inequivocabili. È a qualche metro da lei. (A parte che io non lo farei mai: avvicinarsi a una donna con sguardo allucinato e braccia aperte quando sei lontano! Mi sembra ridicolo, ma sono fatti suoi). Insomma, l’invasato si sta avvicinando a Madame Bovary. Se ben ricordo, perché non intendo andare a controllare (ho paura di essere smentito) si passa direttamente alla donna che dice qualcosa del tipo: Fermo, lasciami. L’avvicinamento è stato cosí veloce che lui l’ha già afferrata. Senza bisogno di dire La raggiunse velocemente, la afferrò con brutalità. È chiaro che è stato veloce come è chiaro che non è un tipo delicato. Uno dei modi con cui si rendono le accelerazioni o i rallentamenti in una storia è il cambiamento dei tempi verbali. Intendo proprio dal passato al presente, cose del genere. Se vai a vedere ti accorgerai che è rarissimo trovare un romanzo dove non si salti da un tempo all’altro. A cominciare da quel testo meraviglioso e terribile che è Se questo è un uomo,di Primo Levi. Un libro che probabilmente hai letto a scuola ma che ti invito a rileggere per conto tuo, tra qualche tempo. Insomma può sembrare sacrilego citare un libro cosí importante solo per sottolineare che ci sono molti salti di tempo ma io ne sono rimasto cosí colpito che lo dico. La cosa che mi ha stupito è che la prima volta che l’ho letto non me ne sono accorto, di questi salti di tempo. Sono talmente naturali che non li noti se non stai attento.

Perle di saggezza

Con la assurda precisione a cui avremmo piú tardi dovuto abituarci, i tedeschi fecero l’appello. Alla fine – Wieviel Stück? – domandò il maresciallo; e il caporale salutò di scatto, e rispose che i «pezzi» erano seicentocinquanta, e che tutto era in ordine; allora ci caricarono sui torpedoni e ci portarono alla stazione di Carpi. Qui ci attendeva il treno e la scorta per il viaggio. Qui ricevemmo i primi colpi: e la cosa fu cosí nuova e insensata che non provammo dolore, nel corpo né nell’anima. Soltanto uno stupore profondo: come si può percuotere un uomo senza collera? I vagoni erano dodici, e noi seicentocinquanta; nel mio vagone eravamo quarantacinque soltanto, ma era un vagone piccolo. Ecco dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi, una di quelle famose tradotte tedesche, quelle che non ritornano, quelle di cui, fremendo sempre un poco increduli, avevamo cosí spesso sentito narrare. Proprio cosí, punto per punto: vagoni merci, chiusi dall’esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiú, verso il fondo. Questa volta dentro siamo noi. P. Levi, Se questo è un uomo

* Ogni tanto scherzo, ma c’è un fondo di verità.

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L’azione

Voglio improvvisare un esempio piú leggero di salto di tempo: Me ne uscii di casa, quella mattina di ottobre, il mondo mi sorrideva e io sorridevo a lui. Ci eravamo simpatici. Avevo sentito alla televisione che una tigre del bengala si aggirava nella città, affamata di uomini. Le solite balle che dicono alla televisione, mi dissi. A proposito di creature affamate di uomini, avevo un appuntamento con Lucrezia alle 11. Girai l’angolo. C’era un odore strano. Ed ecco che la mole enorme di una tigre del bengala guizza su di me. Qui il cambiamento di tempo dovrebbe imprimere una accelerazione agli eventi. Può anche succedere l’opposto. Mettiamo che uno scriva un racconto in cui dei ragazzi vanno in discoteca. Mettiamo che il racconto inizi con questa frase: La sera in cui Marco passò a prendere Lucia non sapevano che sarebbero stati pestati selvaggiamente da un buttafuori drogato. A questo punto tu lettore sei avvertito che saranno pestati da un buttafuori drogato (non ho niente contro i buttafuori drogati, è solo un esempio). Per cui quando arrivi al brano che dice qualcosa del tipo Ecco che l’enorme buttafuori si avvicina sbavante e minaccioso, brandendo come arma una copia delle poesie di Leopardi vivrai la scena al rallentatore. esercizio





Prova a giocare col tempo. Ma come si fa? Chiedi al tuo insegnante di italiano. Vorrei poterti dire che si tratta di un senso istintivo del tempo, che dipende dall’energia, dalla forza del tuo racconto. Ma potrebbe non bastare. Come dicevo nell’introduzione, c’è un artigianato da padroneggiare! E in questo caso si tratta soprattutto di sintassi e punteggiatura. Prova a scrivere qualche riga, sfruttando i tuoi personaggi, in cui: - il tempo accelera; - il tempo rallenta; - il tempo salta; - il tempo scorre. Poi fai l’analisi logica del periodo e trai le tue conclusioni. Impara l’arte e mettila da parte…

2.5

Fermati! Se ti fermi prosegui È vero che il tempo che si crea dentro la storia è un tempo a sé. Apri la scatola e quello fluisce. Ma è anche vero che questo tempo influisce sulla tua vita. Detto cosí risulta abbastanza misterioso. Voglio dire semplicemente che quando scrivi una storia lunga devi saperti fermare in tempo ogni giorno. Molti scrittori, da Hemingway a Gabriele García Márquez, hanno detto che loro smettevano di scrivere quando sapevano come ricominciare il giorno dopo. Cioè non raschiavano il fondo del barile, se posso usare questa rude espressione. Dunque fai cosí. Scrivi. Poi ti fermi quando sai come riprenderà la storia. Cosí la tua fantasia sotto sotto continua a lavorare. Se ti fermi in tempo non esaurirai la tua curiosità verso la storia che stai scrivendo, non esaurirai neppure la curiosità del lettore e ti verrà naturale andare avanti. È paradossale ma possiamo dire cosí: se ti fermi prosegui.

L’azione

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Questo non è un esercizio ma un consiglio. Scrivi, seguendo le mie indicazioni ma anche evitandole. Scrivi, ma non troppo. Fermati quando ancora non hai detto tutto. Ora sei stanco, se hai una buona idea, tienila per domani. E continua a pensarci. A pensarci… e pensarci…



2.6

Un passo indietro e due in avanti Nel primo capitolo ho proposto il seguente inizio: Quando tornai a casa e vidi che la pistola non era nel cassetto capii che la nonna era andata di nuovo a rapinare il supermercato. Visto che in generale ti ho suggerito di eliminare il piú possibile riassunti e spiegazioni, in questo caso particolare proporrei di togliere «a rapinare». A me sinceramente piace. Ma se qui ci esercitiamo a togliere riassunti e spiegazioni bisogna riconoscere che non importa dirlo subito che è andata a fare una rapina. È una spiegazione. Capiremo la situazione quando il protagonista corre al supermercato e trova la nonna asserragliata nel reparto sottaceti che, puntando con mano sicura la pistola, dice al direttore: Se non mi fai uscire di qua con il malloppo ti farò saltare la testa, cetriolino.

Perle di saggezza

Valerio Evangelisti, uno scrittore che ammiro, ha scritto che è importante imparare tre cose: Si impara come sospendere l’azione, per rinviarla a un altro capitolo, e ciò è elementare. Si impara come seguire sempre l’ambito visuale dei propri protagonisti, in modo che ciò che ne è escluso resti ignoto e potenzialmente minaccioso. E ciò è già meno elementare. Si impara a misurare la diversa scansione del tempo dell’azione in chi scrive rispetto in chi legge.

Del primo e del terzo punto abbiamo già parlato (ve ne sarete accorti!). Del secondo punto – seguire l’ambito visuale del protagonista – parleremo nel prossimo capitolo. Almeno credo.

esercizio

… e pensarci… Ma nel frattempo, visto che sei lí che non scrivi, prova a rileggere la tua storia. Il tuo incipit è stato proprio un gorgo? Proprio un’onda? Vuoi aggiungere qualcosa? O forse è meglio se levi qualche dettaglio? E poi? Non avrai mica anticipato qualcosa che sarebbe stato meglio tenerti per te? O sei stato cosí egoista da nascondere qualcosa di indispensabile affinché il tuo lettore capisca? E lí? Troppo lento? Troppo veloce? Cambia il tempo, modifica la frase. Metti un punto. Hai una vaga idea di dove stai andando a parare? Sistema un po’ la casa, arrivano ospiti.

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Il personaggio

Il personaggio Voi potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri, poiché essi hanno i propri pensieri. K. Gibran, Il profeta

Abbiamo parlato dell’inizio. Abbiamo parlato dell’azione. Parliamo del personaggio. Perle di saggezza

Gibran prosegue cosí: Potete dare alloggio ai loro corpi, ma non alle loro anime, poiché le loro anime dimorano nella casa del futuro che voi non potete visitare neppure in sogno. Voi potete sforzarvi di essere come loro, ma non cercate di renderli simili a voi. Poiché la vita non va all’indietro e non si trattiene sullo ieri. Voi siete gli archi dai quali i vostri figli vengono proiettati in avanti, come frecce viventi. La citazione in realtà si riferisce ai figli, ma trovo che vada molto bene per descrivere l’autore e i suoi personaggi.

Quando tengo i corsi, arrivo e dico: «Ehi, il personaggio te lo devi immaginare molto bene». Allora salta fuori qualcuno che dice: «Già fatto, mister, io il personaggio me lo immagino benissimo. Solo che non riesco a proseguire la storia». Io allora so che non ci siamo. Per molto bene intendo meglio. Meglio di come te lo immagini quando pensi di immaginarlo bene. Diciamo che non devi immaginarlo, devi dargli vita, come a un figlio. Detto questo, un figlio prima di lasciarlo andare bisogna almeno che nasca e raggiunga una certa età.



3.1

È nato: identikit di un personaggio Un modo per aiutare la nascita di un personaggio è fare una scheda che lo riguarda. In un foglio a parte, separato dal racconto, metti tutto quello che sai di lui. Tutto quello che ti viene in mente e che per te è importante. Età, peso, lavoro, residenza, abitudini sessuali. Anche e soprattutto le caratteristiche piú personali: ha un’andatura sbilenca, quando si arrabbia le pupille cominciano a ruotare furiosamente, ha paura dei divani. Devi sapere se il tuo personaggio vive al Polo Nord o a Roma, e se di professione è Papa o ortolano, perché tutto questo comporta delle conseguenze non trascurabili. Ma io sono convinto che sono i piccoli dettagli che fanno vivere (oppure sgonfiare come un pupazzo) il personaggio. Il suo modo di muovere la mano quando è imbarazzato, per esempio. Cose che puoi dire solo tu e che fanno dire al lettore: «Ah, ma allora questo qua esiste davvero». Se riesci a far dire al lettore «Ah, questo qua esiste davvero» sei a posto. Perché le

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cose che capiteranno al personaggio interesseranno sul serio il lettore. Altrimenti gli puoi far capitare le cose piú straordinarie che tanto non gliene fregherà niente a nessuno. Ti suggerisco di partire da qualcosa di (apparentemente) semplice. Cioè di non fare la scheda di uno zombie che sta cercando cibo in un supermercato quando improvvisamente incontra una vecchina rapinatrice e se ne innamora follemente. Semplicemente ti dico: prendi tuo zio, tua sorella, un tuo amico, una persona che ami o che vorresti amare, una persona che odi. Insomma, prendi qualcuno che conosci e cerca di catturare le sue caratteristiche. Dove lavora e dove vive sono cose facili da dire, ma io ti chiedo di cogliere qualcosa di piú sottile: ciò che di quella persona ti colpisce. esercizio

Nella storia che hai iniziato a scrivere avrai inserito qualche personaggio: ora è arrivato il momento di schedarlo. Fai la scheda del tuo personaggio o di un personaggio che vorresti introdurre. O meglio, la scheda di almeno un personaggio: puoi anche scrivere venti schede.



3.2

Parla come parli Il personaggio non può stare sempre zitto, a meno che non sia una storia di muti. Nella scheda metti qualcosa a proposito del modo di parlare del personaggio. Usa frasi lunghe? Usa frasi brevi spezzettate? Potresti anche scrivere, nella scheda, i modi di dire del personaggio. Tutti hanno dei modi di dire ricorrenti. Tex Willer dice spesso «Corpo di mille fulmini», Dylan Dog «Giuda Ballerino», un politico importante dice sempre «Devo dire con grande chiarezza». (Mi fa ridere che dica sempre le cose «con grande chiarezza». Come se uno potesse affermare: «Voglio dirlo in modo abbastanza confuso»). Mia nonna ogni tanto mi diceva: «Vlocco», che deve essere una forma romagnola per tonto, ma me lo diceva con affetto (almeno spero). Chiunque ha un proprio modo di parlare, che dipende da chi è, da dove vive. Nessuno usa un parlato generico nella realtà. Invece quando le persone iniziano a scrivere un racconto di solito obbligano i personaggi a esprimersi in modo innaturale. Per esempio: Mi volgo verso Mario. Apparentemente non c’è niente che non va in questa frase. Ma se ci pensate bene è inquietante. Se un mio amico mi dice «Mi volgo verso Mario» rimango perplesso. Non dovete pensare che io abbia solo amici rozzi. La verità è che poche persone dicono «Mi volgo verso Mario». All’inizio del nostro viaggio nell’arte di raccontare storie ho fatto un esempio analogo. Mi capita spesso di leggere frasi tipo «Mi reco al bagno», magari messe in bocca a protagonisti assai rudi. Certo, ci può essere un personaggio che parla in modo letterario, o in modo scolastico, o comunque in un modo diverso dai nostri compagni abituali. Per esempio è difficile che il Dracula classico, un signore elegante che vive in un castello, dica «Corro al cesso». Ma se è per questo Dracula, nonostante il consumo di liquidi, non va neanche mai al bagno.

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Il mio amico di infanzia Nicola era un tipo particolare. Io gli riferivo cose interessantissime, secondo me. Qualsiasi cosa gli raccontassi lui rispondeva: E allora? La cosa mi spiazzava. Per me lui è tutto in quel «E allora?». Vi ricordate della nonna rapinatrice? L’abbiamo lasciata che stava dicendo qualcosa del tipo: Ti farò saltare la testa, cetriolino. È esattamente la frase che uno si aspetta da una nonna rapinatrice. O perlomeno è quello che mi aspetto io. Ma potrebbe anche dire: È dunque giunta l’ora che tu mi consegni il vile incasso, spregevolissimo peccatore. Perché parla cosí? In questo caso le sue parole condizionerebbero pesantemente la storia, perché dovresti giustificarle. Magari la nonna è una fanatica religiosa, non lo so. Ma so che dovresti giustificarle. Oppure il buttafuori che stava per picchiare i due ragazzi comincia a citare frasi di Leopardi. Per esempio il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, visto che siamo di notte: Bella notte, amico. Bella in verità; e credo che a vederla da terra, sarebbe piú bella. I due ragazzi strabuzzano gli occhi perché loro sono a terra e non si rendono conto che il buttafuori sta citando Leopardi. Anche qui le parole del buttafuori condizioneranno la storia: magari si scopre che è il figlio del professore di italiano di uno dei due ragazzi. Mi rendo conto che mi sono un po’ lasciato andare con gli esempi, ideando personaggi strani che quindi parlano in modo strano. Ma è solo per dare l’idea di quello che dico con esempi iperbolici. In realtà è molto piú difficile creare personaggi «normali» che parlano in modo «normale», ma non generico. C’è una cosa che si dice sempre a proposito del parlato dei personaggi. La voglio dire anche io. Se prendi un registratore, registri una persona che parla e poi trascrivi il testo non salterà fuori un buon racconto. Non risulterà nemmeno credibile. Il parlato in un racconto è sempre una finzione che prende alcune cose dalla realtà ma poi le sistema all’interno di un’architettura. Perlomeno questo è quanto sostengono coloro che hanno paura di essere soppiantati da un registratore. esercizio

Aggiungi alla scheda sul personaggio osservazioni sul suo modo di parlare, i modi di dire, frasi tipiche, e altre caratteristiche che ti vengono in mente.



3.3

Quando il gioco si fa duro Ora che hai la scheda del personaggio cosa ne fai? Non buttarla. Direi che potresti tenerla lí, la guardi ogni tanto. La scheda è un modo per fissare alcune caratteristiche e soprattutto per segnalare a te stesso che quel personaggio esiste davvero e se ne va nel mondo, nel suo mondo, indipendentemente da te. Quando scrivi che il tuo

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personaggio va al cinema, mettiamo, tu lo fai andare al cinema sapendo un sacco di cose su di lui. Se sei bravo le cose che sai di lui (e che hai messo nella scheda) si sentiranno anche se non le dici. Perle di saggezza

Ecco cosa diceva Hemingway: Se un prosatore conosce abbastanza bene quello di cui sta scrivendo può omettere le cose che conosce e il lettore, se lo scrittore scrive con abbastanza verità, avrà la sensazione di quelle cose con la stessa forza con cui l’avrebbe se lo scrittore le avesse formulate. La dignità del movimento di un iceberg è dovuta al fatto che soltanto un ottavo di esso emerge dall’acqua.

Mi sembra che il concetto sia chiaro. Dicevamo che il personaggio è come un figlio, in questo senso non è tuo schiavo e non fa quello che vuoi tu, perlomeno non nella nostra società. Una volta ho sentito un romanziere che a me piace molto, Vargas Llosa, raccontare che aveva conosciuto una persona che era stata torturata e allora si era messo a scrivere la sua storia. Ma nella versione finale del libro, un libro pieno di personaggi come quasi tutti i libri di Vargas Llosa, ha tolto proprio la storia di quel personaggio perché suonava falsa, il personaggio in qualche modo si ribellava. Non le voleva fare quelle cose. Naturalmente sentire che un personaggio si ribella è una questione di sensibilità. Io te lo dico perché tu ne tenga conto: magari quando non ti va di scrivere una scena non è che sei pigro, è che il personaggio sta acquisendo personalità e si rifiuta. Una volta che il tuo personaggio esiste, una volta che è ben definito, devi fargli incontrare dei problemi, devi metterlo in situazioni imbarazzanti o difficili. Le storie nascono quasi sempre da questo. Può essere uno che è andato a combattere una guerra e non riesce a tornare a casa e incontra energumeni con un occhio solo; può essere uno che vuole dichiarare il suo amore a una ragazza di fronte a un panino al salame (come tutti sanno il panino al salame è afrodisiaco) ma trova la scuola allagata; può essere uno che va a prendere uno yogurt in frigorifero e ci trova una testa mozzata. Insomma devi buttare il personaggio nel pentolone della storia, che è un po’ come il pentolone della vita. Sono le famose esperienze che formano il carattere. («Odio le esperienze che formano il carattere», mi disse un mio amico). esercizio

Una volta che hai definito bene (ma dico bene!) il personaggio, scaraventalo dentro un problema di cui tu stesso ignori la soluzione.



3.4

Tu sai ciò che lui non sa Magari tu sai qualcosa che lui non sa. Tu sai per esempio che dietro la porta dell’ufficio del direttore del supermercato c’è la vecchietta rapinatrice, armata di un gigantesco cocomero (la pistola l’ha persa, o non vuole sprecare colpi). Ma il direttore del supermercato, che sta tornando in ufficio, non lo sa.

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Molte situazioni stimolanti in narrativa nascono proprio da questo: il personaggio ignora qualcosa che l’autore e il lettore sanno benissimo. Magari il ragazzo che vuole fare la dichiarazione d’amore offrendo un panino al salame ignora che il padre della ragazza è morto proprio mangiando un panino al salame, soffocato da un boccone troppo grosso (era un uomo impetuoso, e la mamma non gli aveva insegnato a masticare bene). In questo modo quando la ragazza impallidisce di fronte al panino al salame (perché nel frattempo il ragazzo ha guadato la pozza d’acqua in cui vagava la preside) lui non capisce il vero motivo per cui impallidisce, pensa che sia amore. Quando poi lei si mette a piangere lui si dice: «Che sensibilità! Allora è fatta». Già immagina di foderare un letto con insaccati vari quando lei gli rivela la verità. Potrebbe risultare una scena intensamente drammatica, commovente. Soprattutto quando lui getta via il panino. Il fatto che il lettore sappia qualcosa che il personaggio non sa è molto comune. A parte quando la narrazione è in prima persona. È ovvio che nel caso della prima persona questa cosa del lettore che sa qualcosa che il personaggio non sa è piú difficile. Perché il lettore deve capire dalle stesse parole del personaggio ciò che il personaggio non capisce. Per esempio: Come sono fortunato. La dolce Lisa mi ama tanto, lo so. Chissà perché ieri mi ha detto: «Brutto sgorbio fila via che devo spassarmela con un altro». Qui per esempio il lettore intuisce che la dolce Lisa forse non lo ama cosí tanto, e che il personaggio è un inguaribile ottimista. Rimane il fatto che l’esempio tipico di personaggio che non sa ciò che sa il lettore è forse l’horror. La professoressa Mannini vuole interrogare, apre il registro e ignora che quel registro è in realtà una porta spazio temporale che la porterà nella terra dei ripetenti cannibali. Il lettore lo sa, perché ha visto un ripetente cannibale modificare il registro per trasformarlo in una porta spazio temporale. A quel punto qualsiasi frase, anche la piú banale, qualsiasi piccolo avvenimento, assume un significato diverso. Un colore diverso. Una maggiore intensità. esercizio

Hai messo nei guai il tuo personaggio. Prosegui la storia facendo in modo che il lettore venga a conoscenza di qualcosa che il personaggio ignora. è tipico dell’horror (C’è un bambino diabolico armato di machete, dietro la porta), ma non solo.



3.5

Non esageriamo con la bontà! Molte persone hanno la tendenza a scrivere di personaggi troppo buoni, bravi e intelligenti. Questo perché concepiscono il personaggio come una proiezione di se stessi e quindi si sentono o vogliono apparire buoni, bravi e intelligenti. Questo dal mio punto di vista è un gravissimo errore. Spesso è piú facile affezionarsi al cattivo che al buono. Calarsi in personaggi cattivi o comunque sfaccettati, pieni di luci e di ombre (come siamo tutti noi) dà un’enorme soddisfazione.

Il personaggio

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Io abito in un paesino che si chiama Impruneta. Posso benissimo scrivere in un racconto: Come tutti sanno gli abitanti dell’Impruneta sono buoni solo per essere impiccati. E cosí via. Voglio dire: non devi per forza scrivere un racconto mettendoci dentro quello che pensi (o quello che ritieni di dover pensare per fare bella figura). Quello che pensi può essere il sottofondo, una sensazione. È piú che sufficiente. Perle di saggezza

Personalmente amo i personaggi un po’ stupidi, o che sembrano un po’ stupidi (anche se loro non se ne rendono conto). Ogni tanto qualcuno mi ha detto: «Ma come fa a creare personaggi cosí stupidi e negativi?». Il bello è che si riferiva a personaggi che io non trovavo particolarmente stupidi o negativi, magari – in qualche caso – gli episodi incriminati erano episodi autobiografici. Io allora ho detto: Eh, è difficile, ci ho lavorato molto per costruire questo personaggio cosí insopportabile. Ma non era mica vero nulla. Ero io quello! Tuttavia ricorda sempre quello che ha detto Joyce Carol Oates: Il compito di uno scrittore è creare personaggi, non essere un personaggio.

Tempo fa uno dei miei quattro figli frequentava l’asilo nido. Alcuni genitori illuminati (!) protestarono perché, a loro avviso, le favole lette dalle maestre avevano personaggi troppo cattivi e paurosi. Al che le maestre ci portarono nella stanza dei peluche e ci fecero notare che il piú accarezzato di tutti (lo si vedeva perché era consumato) era quello del lupo. Cappuccetto rosso senza il lupo non è nessuno! esercizio

Scrivi una scena utilizzando gli aspetti peggiori della tua personalità. Puoi decidere di far fare, pensare o dire al tuo personaggio qualcosa di irritante. Oppure, se non l’hai già fatto, puoi far entrare in scena un personaggio odioso o addirittura cattivo, che renderà la vita difficile al tuo personaggio principale.



3.6

Evoluzione Ci sono grandi personaggi sostanzialmente immobili, che piú o meno restano sempre uguali. Per esempio Sandokan, almeno a quanto ricordo. O Winnie Pooh. Io però ti propongo di far evolvere il tuo personaggio. Voglio dire: se il racconto inizia con lui che ama lei, non è detto che la debba amare tutto il tempo. Magari a un certo punto cambia idea. Per esempio: Buttò via il panino al salame e le disse: ti amo, sí, ti amo. Non aveva finito di pronunciare quelle parole che si era già pentito. Ognuno ha le sue preferenze, che vengono da chissà dove, chissà da quale zona della personalità. Io per esempio apprezzo molto il personaggio del vendicatore. Un esempio può essere il Conte di Montecristo di Alexandre Dumas. All’inizio è un po-

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vero marinaio ignorante. Viene tradito e finisce in un carcere terribile. Lí si trasforma. Dopo un po’ lo ritroviamo geniale, ricchissimo, praticamente invincibile. Abbastanza cattivello. A quel punto le sue azioni ti danno grande soddisfazione. Proprio perché lo conosci, ti sembra di conoscerlo, hai l’impressione di aver passato le sue esperienze. In casi come il Conte di Montecristo il personaggio cambia davvero. Ma può anche darsi che lui non cambi per nulla, è solo che tu (scrittore o lettore) scopri nuove sfaccettature. Magari lui ama lei, è vero, ma ama anche un’altra! Ha, diciamo, una doppia personalità dal punto di vista sentimentale. Oppure la ama sí, ama solo lei, ma è anche infastidito dal fatto che lei ride cosí tanto quando ascolta alla televisione le battute del comico Taldeitali, che lui trova orrendo. Oppure la ama sí, ma non sopporta che lei preghi sei ore al giorno. La cosa interessante è che uno può essere infastidito dal fatto che lei ride alle battute del comico Taldeitali e al tempo stesso amarla davvero. Magari non le confesserà il suo fastidio ma ciò non toglierà forza al suo amore. Perle di saggezza

Non esagerare il culto della verità; non c’è uomo che alla fine d’una giornata non abbia mentito, a ragione, molte volte. J. L. Borges, Frammenti di un Vangelo apocrifo, (in Elogio dell’ombra)

esercizio

Fai evolvere il tuo personaggio (o i tuoi personaggi). Se poi «evolvere» ti sembra un verbo troppo astratto ti dico semplicemente: fagli fare qualcosa che all’inizio non pensavi potesse fare. Il tuo personaggio buono potrebbe diventare cattivo, il cattivo potrebbe cambiare strada e via dicendo.



3.7

L’angolo del ragazzo distratto Prima di andare avanti mi volto indietro e ripeto le cose per sicurezza. Con il personaggio puoi comportarti cosí: 1. immaginarlo; 2. buttarlo in una situazione problematica; 3. non cercare di sembrare troppo buono o troppo intelligente grazie a quello che gli fai fare. Non ci crede nessuno; 4. farlo evolvere, o perlomeno mostrare sfaccettature inaspettate.

esercizio

Rileggi tutto ciò che hai scritto alla luce delle cose dette finora. Nei prossimi paragrafi ti propongo tre ambientazioni, ciascuna con dei personaggi caratteristici e delle situazioni in qualche modo tipiche. Puoi decidere di esercitarti su tutti i fronti o scegliere quella che piú si addice alla tua storia. Ma potresti anche mischiare le situazioni e i personaggi… Intanto vai avanti. Capirai da solo.

Il personaggio



3.8

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Sport: un tenero sbruffone A volte nei racconti dei ragazzi si parla di calcio. Spesso però i personaggi di questi racconti non hanno volto umano. Faccio un esempio: Giocammo la partita. Fu molto dura. Ma poi Gianluca segnò un gol bellissimo e alla fine vincemmo. Io ti chiedo invece di darmi l’idea che i personaggi esistono davvero. Mi devi convincere che esistono davvero, che sono individui singoli e irripetibili.

Perle di saggezza

C’è un racconto di Osvaldo Soriano in cui lui descrive l’arrivo di un nuovo allenatore. Osvaldo Soriano all’epoca faceva il calciatore, il racconto si intitola Orlando el Sucio (in Fútbol) e dice cosí: Orlando detto el Sucio, cioè lo Zozzo, venne in squadra come allenatore nel 1961. Dichiarò che ci avrebbe guidati a conquistare la coppa, per mano o a calci. – Io sono un vincitore nato –, ci disse, e si stropicciò il naso schiacciato. Era piccolo, con la pancetta e i capelli unti, e si ritrovava cosí tante tasche nel vestito che quando andava in viaggio non aveva bisogno di una valigia. Dopo il primo allenamento chiamò uno per uno tutti noi della rosa. Non so che cosa abbia detto agli altri, ma portò Pancho Gonzalez e me in un angolo del campo e ci offrí una caramella al limone che tirò fuori dalla tasca piú piccola.

Appena ho letto queste righe il personaggio dell’allenatore mi si è impresso nella mente. Non è piú soltanto l’allenatore. Lo vedo. Vedo la sua pancetta, i capelli unti, le tasche, le caramelle al limone che (come scoprirò poi) offre spesso. E soprattutto già intuisco quello che emergerà successivamente: io sono un vincitore nato dice, Orlando el Sucio. È un po’ uno sbruffone. Ecco, ho appena detto sbruffone, ma ho sbagliato. Nel racconto non c’è mai una parola cosí diretta. Orlando el Sucio, nonostante poi faccia cose al limite della legalità, è sempre raccontato con delicatezza. Diciamo che è un sognatore che ha il senso del destino. Perle di saggezza

Salvador Dalí è uno dei piú famosi pittori del XX secolo. Se sei un ragazzo colto hai visto le riproduzioni dei suoi quadri. Se sei un ragazzo ignorante le hai viste lo stesso, anche se non lo sai. Nella sua autobiografia, intitolata La mia vita segreta, dice cosí: A sei anni volevo diventare cuoco. A dieci, Napoleone. Da allora in poi, le mie ambizioni son sempre divenute crescendo.

Anche il lettore piú disattento capisce che Dalí non era esattamente un personaggio modesto. Se leggerai la sua autobiografia ti accorgerai che nonostante la sua alta opinione di sé viene fuori un personaggio tenero. esercizio

Entra in scena un tenero sbruffone. O perlomeno uno sbruffone, se poi riesci a infondergli un po’ di tenerezza ti faccio i miei complimenti.

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3.9

Il personaggio

Amore: non è tutto oro quello che luccica Nella Cripta dei Cappuccini di Joseph Roth a un certo punto il protagonista è in treno con Elisabeth, la donna che ama e che ha appena sposato. Potrà stare con lei solo sedici ore, poi dovrà partire per la guerra. Quindi quelle sedici ore potrebbero essere le prime e le ultime.

Perle di saggezza

Sedici ore avevamo davanti a noi, sedici lunghe, piene, intense, brevi, fugaci ore. Eppure, a dispetto di questa situazione, comincia a notare in lei dettagli sorprendenti. Pensai a mio suocero e trovai anche qualche somiglianza fra lei e lui... Qualche suo particolarissimo gesto delle mani era palesemente ereditato dal padre, echi lontani e ingentiliti della mimica paterna. Un certo suo comportamento durante il viaggio verso Baden, nella ferrovia suburbana, quasi mi offese. Cosí, per esempio, neanche dieci minuti dopo che il treno si era messo in moto, tirò fuori un libro dalla valigietta. Era accanto all’astuccio da toeletta, sopra la biancheria – io pensai alla camicia da sposa – e già il fatto che un libro qualsiasi potesse stare sopra una veste pressoché sacramentale mi parve indecoroso. Per di piú era una raccolta di bozzetti di uno di quegli umoristi tedeschi del nord [...] Aveva anche un modo di accavallare le gambe che francamente mi sembrava indecente. Le chiesi se il libro le piaceva. «Spiritosissimo!» sentenziò senza esitare. Mi porse il libro perché giudicassi io stesso. Cominciai a leggere una delle stolide storie verso la metà, dove si parlava dell’aureo umorismo di Augusto il Forte e delle sua relazione con un’impertinente dama di corte. I due aggettivi, per la mia sensibilità del tutto sintomatici delle anime prussiane e sassoni non appena godono il loro riposo domenicale, mi bastarono.

esercizio

Potresti provare a scrivere qualcosa di analogo ma con personaggi piú vicini a te. Per esempio: un ragazzo è a una festa piena di persone allegre, c’è anche la ragazza che ama e che lo ama. Eppure è confuso e non sa perché, ci sono piccoli particolari che lo infastidiscono enormemente.

3.10 Fantastico: un personaggio impegnativo Fin qui ho immaginato che tu scrivessi di personaggi piú o meno normali. Ti consiglio di continuare cosí. Però non è detto. Per esempio, nel Racconto di Natale Dino Buzzati fa entrare in scena addirittura Dio. Anche per Dio, in sede narrativa, valgono le cose che abbiamo detto per personaggi piú limitati. Non basta dire «c’era Dio». Lo devi evocare. Deve in qualche modo fare la sua comparsa nel mondo visibile, perché questo è il terreno in cui nella maggior parte dei casi si svolgono le storie. Perlomeno questo è quello che accade nel Racconto di Natale. Perle di saggezza

Nella sera di Natale Dio dilaga nel tempio, per l’arcivescovo, le navate ne rigurgitano letteralmente, al punto che le porte stentano a chiudersi e, pur mancando le stufe, fa cosí caldo che le vecchie bisce bianche si risvegliano nei sepolcri degli storici abati e salgono dagli sfiatatoi dei sotterranei sporgendo gentilmente la testa nelle balaustre dei confessionali.

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Dio dilaga, rigurgita. Io lo percepisco come un mare, o come un vulcano. E poi ci sono gli effetti secondari nel mondo fisico: queste vecchie bisce bianche che risalgono gli sfiatatoi. Un’immagine veramente potente e inusuale per dare l’idea del dilagare di un dio.

Se ti dovessi dare un consiglio ti direi questo: se ti misuri con un personaggio molto impegnativo come può essere Dio cerca di coglierne gli effetti terreni: le bisce bianche che risvegliate dal calore salgono gli sfiatatoi. Magari un giorno o l’altro illuminerai direttamente l’umanità dicendo quello che pensi di Dio e delle sue implicazioni ben oltre gli angusti limiti dell’universo fisico, ma per adesso occupati degli effetti secondari, fisici. Continuiamo a leggere il racconto di Buzzati. All’inizio c’è Dio che dilaga e rigurgita nel duomo, fa risvegliare le vecchie bisce bianche. Trabocca. Poi arriva un barbone, la porta gli viene aperta dal prete, Don Valentino: «Che quantità di Dio...» dice il barbone. Ora, la cosa straordinaria è che quando leggi il racconto le frasi «Che quantità di Dio... me ne potrebbe lasciare un pochino» ti paiono abbastanza normali. Anche se in realtà è la prima volte che senti trattare Dio in questi termini. Ma proprio questo lo rende vero, meno astratto. Don Valentino si rifiuta di dare un po’ di Dio al barbone. Dio sparisce dalla Chiesa e allora Don Valentino si dà all’inseguimento di Dio. Molto preoccupato per la scomparsa, dato che Dio serve all’arcivescovo, la sera di Natale. Compaiono frasi tipo: «Dio non c’era neppure lassú». Uno se lo immagina appollaiato. Oppure (quando don Valentino è nel pieno del suo inseguimento): «Iddio sgusciò fuori dalla stanza». E ancora piú in là: «Ecco quindi Don Valentino ai limiti di una vastissima landa, e in fondo, proprio all’orizzonte, risplendeva dolcemente Dio come una nube oblunga». Buzzati riesce a portare Dio sul terreno del visibile. Non voglio essere irrispettoso ma questo Dio che dilaga, che riempie tutti gli spazi, mi richiama alla nonna delle Streghe di Roald Dahl, di cui abbiamo parlato all’inizio. Perle di saggezza

La nonna era una signora vecchissima e rugosa, imponente e massiccia, vestita di pizzo grigio. Troneggiava maestosa nella poltrona, riempiendola tutta, e neppure un minuscolo topolino sarebbe riuscito a trovar posto accanto a lei. Piú in là ci sono altri dettagli che caratterizzano ancora meglio la nonna, per esempio fuma il sigaro, ma io trovo che questo riempiendola tutta renda tangibilmente l’idea.

Sinceramente preferirei che tu «usassi» appunto tua nonna, tua sorella, il tuo fidanzato, un tuo amico, per i tuoi primi personaggi. Insomma ti suggerisco di evitare personaggi troppo impegnativi come le divinità, per cominciare. Ma non mettiamo limiti alla Provvidenza.

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esercizio

Fai entrare in scena un personaggio non «umano», magari ultraterreno, magari no. Oppure fai in modo che a un certo punto si scopra che il tuo personaggio in realtà non è quello che sembra e possiede dei poteri soprannaturali. Ma cerca di coglierne gli effetti tangibili, terreni, fisici. Insomma, lo devi evocare e convincere me e il tuo lettore che davvero il tuo personaggio esiste.

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Il dialogo e l’ambiente Nessuno salta i dialoghi. Nicoletta

La storia nasce dalla geografia. C. Romiti

Fin qua abbiamo stabilito che una storia deve avere un inizio e che l’inizio deve essere come un tuffo ben riuscito: se ti schianti sull’acqua poi non hai voglia di nuotare, e invece devi aver voglia di nuotare nelle cose che succedono. Ci deve essere qualcuno che fa qualcosa: di solito costui prende il nome di personaggio (ci possono essere anche cento personaggi, uno è il minimo). Abbiamo detto che sotto il nome di «personaggi» ci possono essere individui molto diversi: l’Arcangelo Gabriele come anche il tuo vicino di casa. Io sinceramente ti consiglio di cominciare dal tuo vicino di casa. È piú facile, puoi osservarlo prima di scrivere. Ma poi fai come vuoi. Del resto non è detto che le due possibilità (l’Arcangelo Gabriele o il tuo vicino di casa) siano in contraddizione: osservandolo attentamente potresti scoprire che il tuo vicino di casa in effetti è l’Arcangelo Gabriele. Ti ho anche suggerito di non tratteggiare esclusivamente personaggi buonissimi e intelligentissimi perché generano noia. Se scrivi solo di ragazzi che dopo aver risolto complicate equazioni aiutano le vecchiette a attraversare la strada rischi di creare degli ingorghi. In un romanzo nessuno salta i dialoghi. Non so chi l’ha detto ma qualcuno l’ha detto. In ogni caso, un attimo fa l’ho fatto dire a Nicoletta, mia figlia, cosí ora posso citare la frase in tutta tranquillità. Quasi tutti saltano le descrizioni lunghe, per quanto geniali: questa è la dura realtà e te ne devi rendere conto. Per cui conviene imparare a scrivere dialoghi. Abbiamo già detto alcune cose a proposito del parlato, nel capitolo sul personaggio: il parlato e il dialogo non sono la stessa cosa? In effetti piú o meno è vero. Chi dialoga usa il parlato. Gli argomenti si intrecciamo. In realtà forse tutte le cose sono un’unica cosa. Ma noi dobbiamo per forza provare a sciogliere questa unità. Diciamo che finora abbiamo accennato a come dovrebbe parlare un personaggio, al limite anche quando parla da solo. Ora riprendiamo l’argomento insistendo maggiormente sui momenti in cui, oltre a parlare da solo, parla anche con altri. Spero per lui che questi momenti siano numerosi.



4.1

Non devono sentirsi osservati In teoria ogni personaggio dovrebbe avere un suo modo di parlare, questo l’abbiamo già detto. Una cosa importante è che i personaggi non devono «sentirsi osservati», come si dice in gergo. Cioè non devono dire delle cose solo per spiegarle al lettore. Tipo: Ehi Maria, tu che sei mia moglie da vent’anni, come stai? Abbastanza bene, ma ieri abbiamo litigato e io sono ancora nervosa.

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Se scrivi un dialogo cosí, o stai scherzando o hai sbagliato qualcosa. Oppure stai descrivendo due squilibrati. Voglio fare altri esempi. Vi ricordate la storia di quel ragazzo che vuole fare la dichiarazione d’amore alla compagna di classe? Mettiamo che tu non abbia spiegato nulla di questi due fino a ora. Beh, per rimediare non puoi scrivere: Ehilà Carmela, come ti va a te che come me frequenti la III B del liceo classico Diego Armando Maradona? E vi ricordate il racconto di Carver, Meccanica popolare, quello in cui quei due litigano senza bisogno che l’autore dica «stavano litigando»? Andatelo a rileggere. Perle di saggezza

Salinger, l’autore del Giovane Holden, che come saprai è diventato una leggenda anche perché ha vissuto recluso e irraggiungibile, ha scritto anche dei racconti (Nove racconti, Einaudi). Ecco un brano da Una giornata ideale per i pescibanana. Dall’apparecchio venne una voce di donna. – Muriel? Sei tu? La ragazza scostò un poco il ricevitore dall’orecchio. – Sí, mamma. Come stai? – disse. – Ero in pena da morire. Perché non hai telefonato? Come stai? Stai bene? – Ho cercato di chiamarti ieri sera e l’altro ieri. Ma qui il telefono... – Davvero stai bene, Muriel? La ragazza allargò l’angolo tra il ricevitore e l’orecchio. – Sto benissimo. Fa un gran caldo. Oggi è la giornata piú calda che ci sia stata in Florida dal... – Perché non hai telefonato? Ero in pena da... – Mamma, senti, c’è bisogno di urlare cosí? Ti sento benissimo, – disse la ragazza. – Ti ho chiamata due volte, ieri sera. Una volta erano appena passate le... – L’avevo detto a tuo padre che probabilmente avresti chiamato, ieri sera. Ma lui niente, ha voluto a tutti i costi... Ma stai bene, Muriel? Dimmi la verità. – Sto benissimo. Fammi il piacere, smettila di farmi sempre la stessa domanda. – Quando siete arrivati? – Non so. Mercoledí mattina, presto. – Chi ha guidato? – Lui, – disse la ragazza. – E non agitarti. Ha guidato come un angelo. Non avrei mai creduto. – Ha guidato lui? Muriel, mi avevi dato la tua parola d’ono... – Mamma, – interruppe la ragazza, – se ti dico che ha guidato come un angelo. Sotto gli ottanta dal principio alla fine, se vuoi saperlo. – Non ha piú fatto quei suoi scherzetti con gli alberi? – Ti dico che ha guidato come un santo, mamma. Va bene? Gli ho detto di tenersi sempre vicino alla striscia bianca eccetera eccetera, e lui ha capito subito cosa volevo dire, e mi ha preso alla lettera. Cercava addirittura di non guardarli, gli alberi: me ne sono accorta benissimo. A proposito, papà se l’è poi fatta rimettere a posto, la macchina?

Mi piace molto come queste due NON si sentano osservate. Infatti parlano tra loro, non spiegano nulla al lettore, eppure il lettore, a poco a poco (devi leggere tutto il racconto) capisce tutto. Il marito della ragazza ha avuto dei problemi, problemi abbastanza gravi, direi. La madre della ragazza è oppressiva. Mi piace come si accavallano quando parlano. Spesso neanche si rispondono. Una fa una domanda, l’altra dice una cosa che non c’entra, come accade nella vita reale.

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Inoltre se la madre urla non è che il narratore dice «La madre urlava». Lo si capisce semplicemente perché la figlia dice che non c’è bisogno di urlare. Ogni parola, ogni atto è messo a fuoco con grande intensità. Per esempio la figlia allarga sempre di piú l’angolo tra il ricevitore e l’orecchio, evidentemente perché non ne può piú della madre. Però si è anche detto, e se non si è detto lo dico ora e lo ripeterò tra un po’, che in un racconto uno deve avere qualcosa da aspettare. Puoi descrivere un dialogo perfettamente, ma se non trasmetti la sensazione che sta per accadere qualcosa è tutto inutile. Secondo me questa sensazione qui è data dagli accenni al marito della ragazza, che in effetti è il pezzo forte del racconto. Si capisce che giocando con gli alberi ha distrutto la macchina del padre di lei. E piú in là, a proposito di parlato, si citano delle frasi di questo personaggio (poi appare anche il personaggio, ma intanto è come dire «anticipato» dalle sue stesse frasi). Quando finalmente arriva lui in carne e ossa tu sei pronto ad assaporare la storia. Da una parte ti sembra già di conoscerlo, questo pazzerello. Dall’altra ti risulta ancora molto misterioso. Personalmente è la mia combinazione preferita: quando qualcosa mi risulta un po’ familiare e un po’ misteriosa, allo stesso tempo. esercizio

Scrivi un dialogo senza che i personaggi si sentano osservati. Tremila battuta dovrebbero bastare.



4.2

Che l’azione proceda Un’altra cosa importante è che il dialogo non deve interrompere l’azione. Non sempre, perlomeno. Cerca di sviluppare la capacità di dire le cose che succedono mentre i tuoi personaggi parlano Per esempio: Beppo stese la gambe sul tavolo e continuò a fumare il sigaro. Perfino un sigaro da cinquecento grammi sembrava piccolo nelle sue mani da scimmione. «Ehi piccola, lo so che mi ami. È vero, mi è capitato di fare zumpa zumpa con la tua amica del cuore, ma non sarà questo ha separarci, vero?». «No, non sarà questo» disse lei con aria soave, un po’ triste. Frugava nella borsetta. Era una donna minuta, delicata, con una strana luce negli occhi. «Lo dicevo io che sei una brava donnina» disse Beppo togliendo le gambe dal tavolo e protendendole verso di lei. Però si bloccò di colpo. Perché quella soave creatura aveva finalmente finito di frugare nella borsetta. Aveva trovato quello che cercava. E lo stava puntando verso di lui. «Ehi piccola, ma che fai, metti giú. Qualcuno potrebbe farsi male». «Potrebbe veramente» sorrise lei, con una punta di malinconia. Gli esempi che improvviso per questo libro sono quasi sempre scherzosi; non ti chiedo di fare altrettanto, cioè di farli scherzosi anche tu, è solo un modo per rendere il concetto piú chiaro possibile. Poi starà a te scrivere cose piú raffinate delle mie. Comunque, spero che dal dialogo si capisca che lei sta puntano verso di lui una pistola. O comunque qualcosa che lui non apprezza. Potrebbe anche essere una fionda, o un bazooka. Ma è improbabile che tenesse un bazooka nella borsetta.

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Altro esempio. Ci sono due alpinisti in cordata su una parete. Quello che sta sotto dice: Ehi, che fai con quel coltello. Bum. Fine del racconto. Attraverso queste due scenette (in verità troppo simili, ma mi piaceva mettere l’esempio dell’alpinista: amo le montagne), insomma, attraverso queste due scenette ho descritto brevi momenti. Invece attraverso il dialogo, se sei bravo, puoi descrivere avvenimenti ben piú lunghi e complessi, addirittura avvenimenti concatenati: un naufragio a cui segue l’arrivo su un’isola, una festa di Capodanno che comincia bene ma poi, durante la festa, finisce un amore, qualsiasi cosa in cui ci sia gente che parla. esercizio

Scrivi cinquemila battute in cui i personaggi parlano e intanto l’azione prosegue.



4.3

La voce vera Io penso che il dialogo puro abbia una forza particolare, i personaggi irrompono senza bisogno di essere accompagnati.

Perle di saggezza

Se uno pensa ai primi lettori della narrazione scritta, può immaginare come il salto, arbitrario, dalla voce del narratore a quella di alcuni personaggi che, improvvisamente, scandivano frasi precise, dovesse sembrare problematica. C’era qualcosa di assurdo, in quel salto; cambiava la pasta della voce (quella del narratore era ormai un sottofondo opaco, mentre quella che scattava tra le virgolette era suono vivo, voce accentata, voce «vera»); e rimaneva un sottofondo di inverosimile in quella possibilità di riascoltare, anni dopo, le precise parole di qualcuno, come se la memoria del narratore potesse davvero aver registrato tutta quella mole impressionante di parole. Insomma, era un punto delicato, in cui la credibilità della narrazione vacillava. Per questo, chi scriveva sentí il bisogno di un solenne apparato di segni che ammortizzasse, per cosí dire, l’impatto con quell’assurdo: una sequenza di segnali che suggerivano al lettore un rallentamento, un cambio di registro, forse perfino uno slittamento della percezione: duepunti, aperte virgolette, lettera maiuscola... In questa sequenza il duepunti assume una funzione decisiva. Rappresenta, per cosí dire, il portale attraverso cui il lettore viene trasportato in quella realtà virtuale, in quell’effetto speciale, che è la voce in diretta. A. Baricco, Leggendo Gadda

Poi Baricco prosegue dicendo che quella che all’inizio doveva sembrare una cosa inaudita, l’irrompere di una voce «vera» nella narrazione, è diventata col tempo un’ovvietà, una cosa normale. Cosí tutto l’apparato di segni messo su per agevolare l’operazione (le virgolette, i due punti, le lineette) è diventato non dico inutile (sono in molti a usarlo ancora) ma perlomeno non obbligatorio. Quello che volevo dire, semplicemente, è che l’irrompere della voce «vera» in un racconto non è una cosa banale come può sembrare. Che prima richiedeva necessariamente due punti, virgolette, lineette ecc. Che ora questo armamentario di segni non

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è piú obbligatorio ma che la capacità di fissare una voce su una pagina continua a essere una questione piú delicata di quello che sembra. La voce ti sembra di afferrarla, ma se la stringi troppo ti muore tra le mani. Carver (e tanti altri) ripete continuamente disse. Alcuni lettori e alcuni scrittori sono disturbati da testi in cui continuamente si ripete disse, perché appunto lo sentono come una ripetizione poco musicale. Altri non gli danno peso, considerano disse (e simili) quasi come fosse un segno di interpunzione, come fosse un punto o una virgola. I romanzi sono pieni di punti e di virgole senza che nessuno dica: «Ehi, ripeti troppe volte la virgola». Non ci sono sinonimi per le virgole. D’altra parte è vero che un eccessivo utilizzo di verbi come ribatté, contestò, acconsentí, convenne può anche risultare troppo ricercato. In certi racconti sta bene, in altri sta male. «Ci vuole orecchio», come cantava Iannacci. Sull’argomento se sia meglio ripetere disse o non ripeterlo non mi sbilancio. esercizio

Prova a sperimentare le tre possibilità: 1. riscrivi il brano che hai elaborato per l’esercizio precedente usando continuamente disse (quando i personaggi dicono qualcosa); 2. poi riscrivi lo stesso pezzo sostituendo il rozzo (o essenziale) disse con verbi piú ricercati e precisi tipo appunto: blandí, minacciò, contestò; 3.  infine togli tutto e lascia solo il dialogo puro. Poi rifletti sulle differenze.



4.4

Gesti e espressioni: la via descrittiva e la via telepatica Abbiamo detto che se registri una conversazione al bar e poi trascrivi la sbobinatura non ti viene un bel racconto. Questo perché molte conversazioni meritano di essere dimenticate, non c’è nulla da fare. Anche alcune conversazioni che sul momento ti sembravano memorabili. Ma non è solo per questo che la sbobinatura non funziona. Perché con una conversazione da dimenticare puoi scrivere in realtà un bellissimo racconto, altrimenti ci sarebbero solo racconti dove la gente dice «Il dado è tratto», «Eppur si muove», e cosí via. (A proposito, potresti provare a scrivere un racconto usando solo frasi famose). Insomma puoi scrivere un bellissimo racconto usando frasi insignificanti. Ma perché? Una delle ragioni mi sembra questa. Le persone comunicano anche con il corpo, attraverso i gesti, le espressioni della faccia. Cosí un dialogo al bar tra due amici del tipo: E Francesca? Francesca è veramente bona! Apparentemente un dialogo rozzo, può in realtà risultava sottile. Perché magari le espressioni e i gesti fanno capire che i due interlocutori sono due poeti squisiti. Il problema è che in un racconto devi sostituire gesti ed espressioni con le parole. Anche gesti minimi, una lieve alzata di spalla, un roteare di pollici, cose cosí.

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Io vedo due vie e ti propongo di trasformarle in due esercizi. Magari ce ne sono cento, ma io ne vedo due. •  La prima via: descrivi i gesti e le espressioni. •  La seconda via (piú difficile): non descrivi gesti e espressioni, ma li immagini cosí intensamente da farli arrivare al lettore per via telepatica. Infatti in fondo tutta la letteratura non è altro che un grosso esperimento di telepatia. Perle di saggezza

Nel racconto Il camaleonte di Čechov (lo abbiamo letto all’inizio) ti immagini le espressioni dei protagonisti anche quando non sono descritte. Invece nel racconto Orlando el Sucio di Osvaldo Soriano (abbiamo letto l’inizio) le espressioni sono descritte in modo (per me) indimenticabile: Lei ha l’aria di uno che non segnerà goal a nessuno, – disse e guardò gli occhi tristi di Pancho. Orlando aveva le pupille grigie come nuvole di temporale e la barba mal rasata.

esercizio

Prova le due vie descritte sopra, quella (brevemente!) descrittiva e quella telepatica.



4.5

Storia e geografia Un mio amico mi ripete sempre che la storia nasce dalla geografia. Cosí il modo di vivere e di parlare dei personaggi è modellato dall’ambiente in cui vivono. Per esempio, nel racconto Orlando el Sucio di Osvaldo Soriano (a questo punto vattelo a leggere!) spesso i dialoghi sono interrotti da ventate che fanno tremare le baracche in cui si trovano i personaggi. Questo perché siamo a nord della Patagonia (mi sembra), comunque in una zona selvaggia, dal nostro punto di vista. E questa natura selvaggia preme da ogni parte, anche se non viene mai descritta minuziosamente. Solo accennata.

Perle di saggezza

– In area di porta non si può caricare il portiere. – No, non si tratta di questo, bisogna pungerlo, nient’altro. Dapprima non capimmo, ma quando sciolse il fazzoletto vedemmo le spine di cactus legate con un filo azzurro. – Qui, capito? – Indicò la sagoma del portiere all’altezza delle natiche. – Rimangono duri come statue. Prese due spine, le guardò controluce e ce ne diede una per uno. González osservò la sua con curiosità e con un po’ di ripugnanza, lui, che lasciava sempre il campo con i complimenti degli avversari. – Io non sono un criminale, – disse, e gettò la spina sul tavolo. In quel momento il vento fece tremare le finestre e ci trovammo coperti di polvere. O. Soriano, Orlando el Sucio in Fútbol

Proprio Soriano disse che un racconto cosí in Italia non avrebbe avuto senso.

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esercizio

Prova a trasferire il tuo racconto. Magari il tuo racconto è ambientato in Sicilia. Ebbene, lo trasferisci in Veneto. O in Cina. Se non c’è niente da modificare c’è qualcosa che non va. Il racconto deve nutrirsi del luogo in cui è ambientato. Come non esiste un parlato generico, cosí non esiste un luogo generico. (È vero, esistono i famosi «non luoghi». Ma qui non possiamo dire tutto. Se vuoi ti documenti e scrivi un racconto sui «non luoghi», magari un «non racconto»). Stavamo dicendo: perché il dialogo abbia senso devi pensare molto bene allo spazio in cui si muovono i personaggi. Ma non si tratta solo di vedere se i due stanno parlando a Milano o sulla Luna, ci sono anche spazi piú modesti da considerare attentamente. Perle di saggezza

Umberto Eco, raccontando come ha scritto Il nome della rosa, dice: Ho scoperto dunque che un romanzo non ha nulla a che fare, in prima istanza, con le parole. Scrivere un romanzo è una faccenda cosmologica, come quella raccontata dalla Genesi (bisogna pur scegliersi dei modelli, diceva Woody Allen). [...] Intendo che per raccontare bisogna anzitutto costruirsi un mondo, il piú possibile ammobiliato sino agli ultimi particolari. [...] Il primo anno di lavoro del mio romanzo è stato dedicato alla costruzione del mondo. [...] Marco Ferreri una volta mi ha detto che i miei dialoghi sono cinematografici perché durano il tempo giusto. Per forza, quando due dei miei personaggi parlavano andando dal refettorio al chiostro, io scrivevo con la pianta sott’occhio, e quando erano arrivati smettevano di parlare.

Trovo che questo brano sia istruttivo. I piú non ci pensano affatto. Magari ci sono due che parlano percorrendo un corridoio di dieci metri, non smettono di camminare eppure dicono cosí tante parole che ci vorrebbero trenta minuti a pronunciarle tutte. A meno che non sparino parole a raffica. Sono cose di cui tenere conto. Può anche darsi che il lettore non se ne renda conto, ma avverte sotto sotto qualcosa di stonato, qualcosa che non va, come si legge nei romanzi horror poco prima che le cose precipitino. E infatti sta per succedere la cosa piú terrificante, per uno scrittore, piú di un serial killer cannibale che ti ha appena portato come cena dalla moglie zombie: il lettore sta per abbandonare il libro. Chiaramente ci sono le eccezioni. Ci sono sempre le eccezioni. È come per il calcio o per qualsiasi altra cosa: la realtà è talmente sfaccettata che potresti discutere per millenni senza arrivare a una conclusione. E infatti è da millenni che l’umanità discute inutilmente. Non farebbe meglio a rilassarsi? A parte questa mia considerazione filosofica, stavo parlando di eventuali eccezioni. Per esempio prendiamo la mappa dell’Isola del tesoro, famosissimo romanzo di Robert Louis Stevenson (l’autore di Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, un personaggio straordinario, non so perché non l’ho citato nel capitolo sul personaggio). Insomma, a quanto ricordo di aver letto, la mappa dell’isola del tesoro non ha senso. Questo perché Stevenson scrivendo cambiò idea molte volte, quindi l’isola in qualche modo si trasforma nel corso del romanzo. Eppure il romanzo è bellissimo lo stesso, tale è la potenza immaginativa di Stevenson.

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Confesso che a me piacciono molto le isole che si trasformano mentre scrivo. Mi danno una certa gioia, un brivido. Ma il lettore del nostro tempo non le ama, vuole essere rassicurato da isole stabili. Ma insomma io non starei a complicare le cose. Di solito un testo funziona meglio se ti immagini il luogo in modo coerente. Ti consiglio, se ne hai l’occasione, di guardare i disegni fatti da Boccaccio per illustrare alcune delle sue novelle. Puoi capire come lui veramente vedesse la scena. esercizio

Disegna uno degli ambienti in cui si svolge il tuo racconto e quando scrivi attieniti rigorosamente al disegno. Ora, sinceramente, io ho provato a fare quest’ultimo esercizio e il risultato è stato disastroso. Ma solo perché non so disegnare. Comunque è stato divertente. E poi puoi sempre aiutarti inserendo delle parole. Se proprio non riesci a disegnare una scala di ventisei scalini allora fai uno scarabocchio e ci scrivi accanto «26 scalini». Il colpo d’occhio sarà comunque piú immediato rispetto a un testo scritto e basta.



4.6 Come non diventare un grande maestro dell’umanità e usare, in compenso, il discorso indiretto libero Può darsi che tutto si riduca a questo: devi riuscire a rendere duttile il tuo linguaggio, a cogliere le sfumature. Non è per niente facile. Mi capita spesso di incontrare persone molto espressive nella vita reale che quando scrivono si mummificano all’istante. Penso che dipenda dal fatto che il linguaggio orale (che comprende il parlato ma anche le pause e le espressioni) esiste da milioni di anni. Invece il linguaggio scritto esiste solo da migliaia di anni. Una miseria, in confronto. Per cui il linguaggio orale è molto piú potente ed è piú facile padroneggiarlo. È piú «radicato» nelle nostre cellule, penso io. La gente lo usava quando andava a caccia di mammuth, ne ha avuto di tempo per affinarsi! Non a caso molti grandi maestri dell’umanità (per esempio Socrate o Buddha) si sono rifiutati di scrivere. Con questo non voglio dire che devi diventare un grande maestro dell’umanità e rinunciare a scrivere. Il tuo professore potrebbe non essere d’accordo. Voglio solo dire che devi cercare di rendere duttile il tuo linguaggio e che uno dei modi di renderlo duttile è il discorso indiretto libero. Bisogna ammettere che l’espressione «discorso indiretto libero» è abbastanza impressionante. Respinge. Nessuno direbbe: «Oggi scriverò un bel discorso indiretto libero». Come nessuno direbbe: «Oggi scriverò una macrosequenza». Io invece ora lo dico: «Scriviamo un bel discorso indiretto libero». Perle di saggezza

Il discorso indiretto libero è un discorso in cui: Il discorso del narratore imita quello del personaggio o il personaggio si esprime attraverso la voce del narratore. A. Marchese, L’officina del racconto,semiotica della narratività

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Angelo Marchese è stato mio professore al liceo e devo dire che mi è rimasto nel cuore. Io a scuola ero un po’ inquieto (è anche vero che avevo una professoressa di latino e greco che era tale e quale la professoressa maga inquisitrice di Harry Potter 5 e questo giustifica la mia inquietudine) ma Angelo Marchese mi è rimasto nel cuore. Per cui, per tutti i dettagli e le varianti dell’indiretto libero, rimando ai testi di Angelo Marchese. Però voglio fare degli esempi concreti in cui il dialogo è reso attraverso l’indiretto libero. Cominciamo con un esempio in cui l’indiretto libero non c’è (poi ce lo mettiamo): Era un bel giorno di primavera. Uscito di scuola incontrai Marco. Era un po’ arrabbiato con me. Gli dissi: «Ciao carissimo, che bella giornata, eh?». Mi disse: «Sei un ladro, me li rendi o no quei cento euro? O devo mandarti mia zia Erminia a spezzarti le gambette?». In questo caso, come dicevo, non c’è discorso indiretto libero. E non c’è neanche qui sotto, anche se è sempre un modo pienamente legittimo di rendere il dialogo: Incontrai Marco... Mi disse che ero un ladro, che gli dovevo rendere quei cento euro altrimenti avrebbe mandato la zia Erminia a spezzarmi le gambe. Il discorso indiretto libero eccolo finalmente (è quello in corsivo): Incontrai Marco. Era un po’ arrabbiato con me... Ero un ladro, glieli rendevo o no quei cento euro? O doveva mandarmi la zia Erminia a spezzarmi le gambette? In teoria, se uno prende le parole alla lettera, è il personaggio stesso che in un momento di pessimismo si definisce ladro, si chiede se glieli rende o no quei cento euro, e si domanda se il simpatico amico deve mandare la simpatica zia Erminia a spezzargli le gambe. In pratica, invece, chiunque legga capisce che è l’altro che sta parlando, è l’altro che lo insulta e lo minaccia. Le parole dell’altro vengono inglobate dal narratore che le fa proprie, le usa senza dire disse che, senza mettere virgolette, usa le stesse identiche parole adattando solo il tempo e la persona che parla. Non piú: sei un ladro ma: ero un ladro. Oso sostenere che non c’è romanzo senza indiretto libero (spero che non andiate a spulciare la letteratura mondiale per smentirmi, sarebbe indelicato), perché appunto l’indiretto libero offre duttili possibilità. Come molte cose della scrittura e dell’arte in genere, a spiegarlo risulta complicato, ma quando è lí anche il lettore piú sprovveduto lo capisce al volo, se prescindiamo dai casi piú disperati. Voglio fare altri esempi: Uscii di casa in un bel giorno di primavera. (Questo esce sempre di casa un bel giorno di primavera, ndr). Incontrai un tipo con una valigetta che sosteneva di essere un notaio. Cominciò a parlarmi dello zio Pasqualone. Gli dissi che non l’avevo mai sentito nominare, questo zio Pasqualone. Lui sbarrò gli occhi e aprí la valigetta, tirando fuori dei documenti. Scherza-

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vo? La volevo sapere la verità? Lo zio Pasqualone era morto e mi aveva lasciato in eredità i suoi pozzi petroliferi in Arabia Saudita. Qui è il notaio che dice: Scherza? La vuole sapere la verità? Lo zio Pasqualone è morto e le ha lasciato in eredità i pozzi petroliferi in Arabia Saudita. È chiaramente il notaio a parlare, anche perché il protagonista ignorava di avere uno zio Pasqualone e soprattutto non sapeva nulla dei pozzi petroliferi. Oppure: Andai alla lavagna. Non sapevo nulla. La professoressa mi guardò stanca. Cosa aveva fatto per meritare un alunno cosí? Doveva chiamare ancora una volta i miei genitori? Non mi vergognavo? Non è lui che si interroga su cosa abbia fatto la professoressa per meritare un alunno cosí ecc. Insomma spero che la cosa sia chiara. Esistono molti altri casi di indiretto libero. Piú ambigui. A volte non si capisce se vengono captati pensieri o parole. Io però ti suggerisco di cominciare usando l’indiretto libero per rendere il dialogo, come negli esempi che ho fatto io. Questo ti libererà dalla dittatura del discorso diretto e anche dal ripetere sempre: disse che e cose del genere. Poi potrai sempre esplorare le altre possibilità. Perle di saggezza

A proposito delle altre possibilità dell’indiretto libero, puoi dire quello che disse Gabriele D’Annunzio quando gli chiesero se conosceva l’inglese (o il francese, non mi ricordo): Io il francese me lo immagino.

esercizio

Usa l’indiretto libero in modo analogo a quello dei nostri esempi.



4.7

Sentire le voci In una famosa frase, Flaubert afferma che bisognerebbe vivere come un borghese e scrivere come un pazzo. Una blanda tendenza alla pazzia è necessariamente presente in un narratore, proprio per questa attenzione alle voci. Tu devi stare attento a voci non tue, a voci che non esistono. Ma devi essere ben convinto della loro esistenza. Una volta parlavo con un signore che è stato a lungo ospite dei manicomi. Ha detto un sacco di cose interessanti e sensate. Alla fine salutandomi ha rivelato: Sai, io sento le voci...

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Ha sorriso astutamente e ha aggiunto: Però metto i tappi. Tutti a scuola leggono Rosso Malpelo di Giovanni Verga ma sono in pochi ad apprezzarlo. È il destino di molte cose che si leggono a scuola. Sarà l’ambiente. Se invece che dentro un’aula lo leggessi, che so, in cima all’Etna, farebbe tutto un altro effetto. Ma non si può pretendere che tutte le scolaresche vadano in cima all’Etna a leggere Rosso Malpelo (c’è troppo vento). Perle di saggezza

Malpelo si chiamava cosí perché aveva i capelli rossi ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo.

G. Verga, Rosso Malpelo

In questa frase, come in tutto il racconto, Verga intercetta quello che dicono le persone. Racconta i fatti attraverso una specie di coro. Questo chiaramente può essere fatto raccontando di qualsiasi ambiente, non solo pescatori o contadini: un gruppo di ragazzi come un gruppo di vescovi, una comitiva di alieni o un’associazione di neonazisti. Non si tratta tanto di un artificio quanto di un modo di vedere le cose: vederle (o sentirle) attraverso le voci degli altri. Tra l’altro non è una cosa replicabile a comando. Devi essere capace di farlo e devi essere capace in quel momento. Devi essere come una radio che capta le voci. Se in quel momento la radio è spenta non c’è niente da fare. Nei Malavoglia (sempre di Giovanni Verga) questa capacità raggiunge dei risultati impressionanti. esercizio

Prova a imitare padron ‘Ntoni, che si esprime attraverso detti popolari e via via ne intensifica l’uso, fin quasi al delirio. Non ti sto dicendo di usare proverbi o detti di cui magari non sai nulla, ma di usare modi di dire ricorrenti che puoi dominare. Io, per esempio, leggo sempre le scritte sui muri, nei bagni e sulle panchine e devo dire che, pur cambiando città spesso, queste scritte si assomigliano tutte, come se appunto quelli che scrivono sulle panchine facessero parte di un’unica comunità, molto piú diffusa sul territorio rispetto ai pescatori. Tuttavia, accanto alle costanti ci sono le sorprese. Perle di saggezza

Ecco cosa ho letto (in italiano) su un muro a Basilea: Una vita senza amore è come un muro senza piatti.

Mi capita di andare in scuole in cui tutti sembrano spenti, i ragazzi come i professori. Poi leggo qualche scritta sui muri o sui banchi e noto invece una certa energia. Uno dei misteri piú grandi in cui mi sono imbattuto è il seguente: chi scrive nei bagni dei professori? A volte vi leggo frasi che vanno ben oltre i limiti della morale at-

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tuale. Chi le scrive: ragazzi che si infiltrano o i professori stessi rivelando la loro vera personalità? Confesso che preferisco la seconda ipotesi. Perle di saggezza

Altre scritte degne di attenzione (queste opera dei ragazzi, presumo): Facciamolo nella torba, tra i lombrichi. Oppure: Marco bel branzino. Oppure ancora: Quello che conta è ciò che a voi non interessa.

Avrete notato che quest’ultima è diversa rispetto alle precedenti: è severa, terribile, quasi biblica. Ma tutte hanno una loro energia e allora dico: bisogna conservare questa energia, questa scintilla, anche scrivendo racconti. esercizio

Ascolta le voci. E prova a farle tue.



4.8

Basta coi dialoghi plausibili! In generale tutte le cose che leggete nei manuali di scrittura a proposito dei dialoghi mirano alla costruzione di dialoghi plausibili. E quello che ho detto finora a proposito dei dialoghi mira alla creazione di un dialogo plausibile. Ora che l’ho fatto, e che quindi ho la coscienza a posto, posso anche allargare il discorso dicendo che non è affatto detto che un dialogo debba essere plausibile dal punto di vista realistico. Basta che sembri plausibile quando lo leggi. All’inizio di questo libro vi ho pregato di non usare continuamente verbi come volgersi o recarsi, sopratutto se il vostro protagonista è un ragazzo di 17 anni che si interessa solo a donne e motori. Ma, se sei bravo, puoi anche scrivere di uno scimmione che dice: Devo recarmi nella foresta per amoreggiare con la mia squisita scimmiona. Certo, poi devi sostenere un intero racconto in cui il tuo scimmione parla in questo modo e non è facile come sembra. Auguri.

esercizio

Prova a scrivere un breve dialogo poco plausibile.

Pensieri

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Pensieri I pensieri sono sottoposti alla legge di gravità, nel senso che fanno molto piú facilmente la via dalla testa alla carta che quella dalla carta alla testa, e perciò bisogna aiutarli su quest’ultima strada con tutti i mezzi a nostra disposizione. A. Schopenhauer, Sul mestiere dello scrittore e sullo stile

Il punto è che tutta la scrittura è pensiero. Non vorrei avventurarmi in terreni troppo impegnativi per me, dato che questo non è un testo di filosofia, ma mi sembra chiaro che le parole sono scatole pieni di pensieri, o cavalli su cui cavalcano i pensieri nel tempo (forse è meglio cavalli, le scatole stanno troppo ferme). In particolare la narrazione è un mondo in cui i pensieri prendono forma e agiscono. Dato che il pensiero è ovunque, perché ogni parola ne contiene una certa dose, tutto quello che abbiamo detto nei capitoli precedenti è anche un discorso sul pensiero.



5.1

Monologhi soporiferi I primi tempi, quando ho cominciato a tenere corsi di scrittura, a un certo punto chiedevo di scrivere un monologo interiore. Chiedevo di scoperchiare il cranio del personaggio, come faceva Joyce con grande destrezza, e trascrivere su carta i pensieri contenuti in quella testa. Ho dovuto smettere, perché quando poi leggevamo il risultato ad alta voce in classe la gente si addormentava. Poi a fine lettura si scuotevano e esclamavano: «Ma è bellissimo, come è vero!». Bugiardi. È per questo che ho cominciato a privilegiare l’azione. Cerchiamo comunque di puntualizzare alcune cose. Perché al mio corso la gente si addormentava quando leggevamo monologhi interiori? Secondo me per i seguenti motivi: •  uno, perché i pensieri erano falsi. Spesso nascevano dal narcisismo dell’autore e non da una storia che in qualche modo, a un certo punto, deve diventare esterna; •  due, perché non obbedivano a un principio di economia. Ammettiamo che sia vero che bisogna scoperchiare il cranio del personaggio per vedere cosa c’è dentro. Quasi tutti per fare questo bloccano il personaggio, lo immobilizzano e cominciano. Invece io ti chiedo di farlo con una tale grazia che il personaggio continua a camminare, o a guidare la macchina, insomma continua a fare quello che stava facendo. Non: fermi tutti, ora il mio personaggio pensa. Ma: la storia va avanti e intanto il mio personaggio pensa, con naturalezza. Mia madre, quando la aiutavo a mettere in ordine, da bambino, sosteneva che se cominciavo a parlare smettevo di aiutarla, che non sapevo fare le due cose contemporaneamente: che se parlavo mi bloccavo.

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Pensieri

Non fare sí che il tuo personaggio si fermi sempre quando pensa: sarebbe penoso. esercizio

Scrivi un brano (o un pezzo della tua storia, questa precisazione vale sempre) in cui ciò che succede è raccontato dai pensieri del personaggio. In definitiva dovrebbe valere tutto quello che abbiamo detto in precedenza: per esempio deve scorrere il tempo. Solo che le azioni sono sostituite dai pensieri.



5.2

Hai mai pensato a cosa pensi? Scrivere DAVVERO quello che si pensa non è facile come sembra. Nel Tropico del cancro Henry Miller dice che se un uomo DAVVERO ci riuscisse sarebbe un evento cosí clamoroso che il mondo andrebbe in frantumi.

Perle di saggezza

Cito il brano perché è bello: Se a volte incontriamo pagine esplosive, pagine che feriscono e bruciano, che strappano gemiti e lacrime e bestemmie, sappiate che sono pagine di un uomo alle corde, un uomo a cui non resta altra difesa che le parole e le parole sono sempre piú forti della menzogna, peso schiacciante del mondo, piú forte di tutte le ruote e i cavalletti che i vili inventano per infrangere il miracolo della personalità. Se un uomo mai osasse tradurre tutto quel che ha nel cuore, mettere giú quella che è la sua vera esperienza, quel che è veramente verità, io credo che allora il mondo andrebbe infranto, che si sfascerebbe in frantumi, e né dio, né accidente, né volontà potrebbe mai radunare i pezzi, gli atomi, gli elementi indistruttibili che componevano il mondo.

Beh... alla luce di questo brano ti auguro di non essere mai un uomo che scrive pagine esplosive, pagine che feriscono e bruciano, dato che dovresti essere un uomo alle corde. Però ho riportato il brano solo per dire che non è affatto facile scrivere quello che pensi in un dato momento. Mi sembra di averti raccontato di quel mio amico di infanzia che tutte le volte che gli raccontavo qualcosa mi rispondeva: «E allora?». Era piuttosto frustrante. Immagina che quel mio amico (Nicola, si chiamava) sia accanto a te quando scrivi i pensieri dei personaggi. Voglio dire: molti autori, quando gli si fa notare che una certa pagina (magari venti pagine!) in cui vengono riportati i pensieri del personaggio è noiosa, rispondono: ma lui pensa davvero questo. Ebbene, ammettiamo che sia vero, ammettiamo che i pensieri siano verosimili. Non nel senso esplosivo di cui parla Miller, ma nel senso piú mite di un uomo che non è alla corde: pensieri che non stridano troppo rispetto alla nostra esperienza del mondo. La domanda, spesso, sorge ugualmente spontanea: e allora? Perché me li stai raccontando? Il fatto che il personaggio lo pensi veramente non è sufficiente.

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Tempo fa il professore che ha dato il via alla saga della vecchietta rapinatrice ha scritto un racconto dove un lui conosce una lei su internet. Quando si incontrano davvero lui pensa: brutta brutta brutta. Stavamo leggendo ad alta voce questo racconto in classe, a lezione, al che è intervenuta una ragazza le cui dichiarazioni non mancano mai di suscitare scalpore: «Interessante, molto interessante questo punto di vista maschile». Io non capivo. Nella discussione successiva è venuto fuori che secondo questa ragazza quando una donna incontra un uomo non lo giudica mai in base a categorie tipo «brutto» o «bello». Io ero piuttosto perplesso. Sinceramente e senza offesa, non riesco a immaginare a TUTTE le donne come esseri ben superiori rispetto al volgare aspetto fisico. Gliel’ho detto e lei ha risposto, piú o meno: non dico che tutte le donne giudichino gli uomini solo in base a criteri altamente spirituali, ma non pensano «brutto» o «bello». Pensano a cose piú precise, come «unto» o «peloso». Non so quale sia la verità. (Anzi, io penso che le donne pensino «bello» e «brutto», cosí, banalmente, ma non lo dire a nessuno). Infatti ho messo il punto interrogativo al titolo di questo capitoletto. Però è una bella questione. Una questione che riguarda la plausibilità, la verosimiglianza dei pensieri. Dai anche tu la tua risposta a questo quesito. esercizio





Un uomo e una donna si incontrano per la prima volta. Racconta il loro incontro attraverso i loro pensieri. Ovviamente, puoi raccontare il primo incontro tra i tuoi personaggi, ad esempio inserendo un flashback.

5.3

Verosimiglianza Per me il pensiero del personaggio deve essere verosimile ma anche sorprendente. Per ottenere questo i pensieri devono muoversi, come animali. L’equilibrio tra verosimiglianza e sorpresa è molto difficile. Ma ti chiedo di provare. Faccio qualche esempio.

Perle di saggezza

Questo è l’inizio di Memorie dal sottosuolo di Fëdor Dostoevskij: Sono un uomo malato... Sono un uomo maligno. Non sono un uomo attraente. Credo che mi faccia male il fegato. Del resto, non me ne intendo un’acca della mia malattia e non so con certezza che cosa mi faccia male. Non mi curo e non mi sono curato mai, sebbene la medicina e i dottori li rispetti. Inoltre, sono anche superstizioso all’estremo; beh, almeno abbastanza da rispettare la medicina. (Sono sufficientemente istruito per non essere superstizioso, ma sono superstizioso). Nossignori, non mi voglio curare per malignità. Voi altri questo, di sicuro, non lo vorrete capire. Ebbene, io lo capisco. S’intende che non saprei spiegarvi a chi precisamente io faccia dispetto in questo caso con la mia malignità; so benissimo che anche ai dottori non posso in nessuna maniera «fargliela» col non curarmi da loro; so meglio d’ogni altro che con tutto questo danneggio unicamente e solo me stesso e nessun altro. Ma tuttavia, se non mi curo, è per malignità! Se mi fa male il fegato, ebbene, mi faccia pure ancora piú male.

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Pensieri

Trovo questo brano profondamente sorprendente e profondamente verosimile. Perché? Beh, innanzitutto non lo trovi tutti giorni un individuo che esordisce dicendo che è un uomo maligno. Ma il bello (per me) di questo soggetto è che non giustifica la sua affermazioni con spiegazioni tipo: Mi piace squartare nani. No, questa sarebbe una spiegazione clamorosa, a effetto, a cui non crederei. Mi verrebbe da dire: Ma perché squarti nani, caro? Non potresti darti una calmata? Ma dentro di me non ci crederei, saprei benissimo che quello l’ha scritto solo per farmi impressione (poi magari apre il frigo e c’è davvero un nano squartato dentro, ma è improbabile). Invece quest’uomo di Memorie dal sottosuolo dice che lui è maligno perché non si vuole curare. Questo è sottile, contorto, ma anche molto chiaro. In qualche modo universale. Penso che le primissime battute non abbiano bisogno di commento. Uno se le rilegge e ci riflette da solo. Però segnalo una reazione personale: quando precisa Credo che mi faccia male il fegato ho un soprassalto di attenzione. Già prima ero attento, perché l’inizio è molto bello. Ma con quella precisazione sono definitivamente con lui. Un’altra cosa che voglio sottolineare sono i movimenti, le fluttuazioni del suo pensiero. Per esempio la parentesi in cui dice Sono sufficientemente istruito per non essere superstizioso, ma sono superstizioso. Queste divagazioni in realtà sono sintesi, obbediscono a un forte senso dell’economia espressiva. Perle di saggezza

Molto piú in là nel testo c’è un brano che a grandi linee penso si capisca anche estratto cosí di peso, senza conoscere il contesto, o perlomeno – leggendolo attentamente – si possono cogliere le cose di cui abbiamo parlato finora a proposito del pensiero: Bevi il tè – dissi irosamente. Ero stizzito contro me stesso, ma si intende che doveva farne le spese lei. Un tremendo rancore ribollí tutt’a un tratto nel mio cuore contro di lei; credo che l’avrei uccisa addirittura. Per vendicarmi di lei, giurai mentalmente di non dirle nemmeno una parola in tutto il tempo. «È lei la causa di tutto», pensavo. Il nostro silenzio si era già protratto forse cinque minuti. Il tè era sulla tavola; non lo toccavamo: io giunsi al punto che non volevo cominciare a bere apposta per gravare cosí ancora maggiormente la mano su di lei; e quanto a lei, le era difficile cominciare. Piú volte ella mi guardò con triste perplessità. Io tacevo ostinatamente. Il martire principale, naturalmente, ero io, perché avevo piena coscienza di tutta la disgustosa bassezza della mia maligna stupidità, e nello stesso tempo non potevo assolutamente trattenermi.

Mi piace quel Ero stizzito contro me stesso, ma s’intende che doveva farne le spese lei. È una sintesi magistrale. Molti vedono nei pensieri del personaggio una scusa per scrivere tutto quello che gli passa per la mente (all’autore e al personaggio) invece i pensieri vanno dosati come qualsiasi altro elemento, quando entra nel raggio d’azione del linguaggio.

Pensieri

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Forse potremmo rendere la cosa con questa immagine: il mondo è una spiaggia sterminata. I granelli sono pensieri, azioni, dettagli: TUTTO. Ma una storia ha una forma, un inizio e una fine. Se è una storia fatta di parole, che è il nostro caso, le parole sono come formine. Tu metti la sabbia del mondo nelle formine e poi disponi il contenuto compattato sulla pagina. È inutile prendere un secchio e tirare sabbia dappertutto. Ti va negli occhi e non vedi piú niente. Meglio scegliere con cura le formine, la sabbia (asciutta? bagnata?) e cominciare il lavoro. esercizio

Scrivi una paginetta (o anche di piú) cercando di trovare un equilibrio tra verosimiglianza e sorpresa. Non è facile, lo so. Ma puoi provare a dosare i pensieri, senza gettare sabbia dappertutto e senza fare affermazioni clamorose che poi suonerebbero false.



5.3

Onnisciente a chi? Il narratore «micapocosapiente» I pensieri devono avere un limite, come i prezzi. Nel caso della narrazione in prima persona è chiaro che incontreremo un fiume di pensieri del personaggio. Il limite è dato dal fatto che il personaggio coincide con il narratore. Tutto quello che è fuori da lui sarà illuminato solo parzialmente, dal suo punto di vista. Nel caso del narratore onnisciente, in teoria questa entità – il narratore onnisciente – non ha limiti. Fortunatamente in pratica è impossibile trovare un narratore che non incontra limiti: il risultato sarebbe disastroso.

Perle di saggezza

Si cita sempre Alessandro Manzoni come esempio di narratore onnisciente, o meglio di autore che utilizza il narratore onnisciente (che fatica usare questa parola, ci credo che poi siano in molti a preferire la televisione). Invece anche nei Promessi sposi incontriamo dei limiti precisi, contro cui si infrangono i pensieri: infatti si fa riferimento al ritrovamento di un manoscritto dilavato e graffiato, che descrive cose che Manzoni non capisce completamente: Taluni però di que’ fatti, certi costumi descritti dal nostro autore, c’eran sembrati cosí nuovi, cosí strani, per non dir peggio, che, prima di prestargli fede, abbiam voluto interrogare altri testimoni; e ci siam messi a frugar nelle memorie di quel tempo, per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a quel modo. Una tale indagine dissipò tutti i nostri dubbi: a ogni passo ci abbattevamo in cose consimili, e in cose piú forti: e, quello che ci parve piú decisivo, abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, de’ quali non avendo mai avuto notizia fuor che dal nostro manoscritto, eravamo in dubbio se fossero realmente esistiti. E, all’occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianze, per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore sarebbe piú tentato di negarla. Insomma, Manzoni, il narratore onnisciente, si è dovuto persino documentare. Mi sembra il contrario dell’onniscienza.

Se poi per onniscienza si intende saltare da una testa all’altra, riprendere i pensieri dell’uno e dell’altro, allora certo, questo tipo di narratore lo fa. Io però smetterei di chiamarlo onnisciente e lo ribattezzerei «micapocosapiente».

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Pensieri

esercizio

Non posso sapere chi narra la tua storia. Prova comunque a scrivere un brano col narratore «micapocosapiente». Salta da una testa all’altra mettendoti dei limiti.



5.4

Sincerità e originalità Molti chiedono: come faccio ad attribuire ai miei personaggi pensieri originali? Ho già detto che, per come la vedo io, un autore che cerchi sistematicamente di attribuire ai personaggi pensieri originali e intelligenti vada incontro al disastro. Quasi sempre verrà fuori il narcisismo dell’autore, piú che la storia. D’altra parte è vero che a volte, scrivendo, hai la sensazione che i tuoi personaggi pensino cose davvero insignificanti e tu stesso sei poco interessato a quello che pensano. Che fare? La prima cosa che mi viene in mente è semplice: cambia personaggio. Se i suoi pensieri proprio non ti interessano abbandonalo, perché protrarre una convivenza forzata? Ma magari tu non vuoi abbandonarlo. Magari sotto sotto ti sei ispirato a te stesso e dunque non puoi abbandonarti. In questo caso ti invito a essere piú sincero. Quasi sempre i pensieri appaiono banali perché non sono sinceri. Magari non hai scritto quello che pensi ma quello che ritieni di dover pensare, quello che – secondo te – ti farà fare bella figura. Se riesci a scrivere i tuoi pensieri (o quelli del personaggio in cui ti cali) sinceramente, allora non saranno mai banali. Può darsi che non siano intelligenti, ma non saranno banali. Insomma io credo che ci sia un nesso profondo tra originalità e sincerità. Quando parlo di sincerità non mi riferisco a quella volta che hai rubato la marmellata. C’è anche una sincerità dell’immaginazione. Voglio spiegarmi raccontando quello che mi ha detto una volta un mio amico. Mi ha detto che spesso le persone quando sentono i racconti sui lager nazisti reagiscono con turbamento moderato. Sí, sono un po’ turbate, ma non quanto dovrebbero essere. E questo deriva (sempre secondo il mio amico) dal fatto che tutti noi, automaticamente, quando ascoltiamo storie sui lager nazisti ci mettiamo nella parte delle vittime. Nessuno di noi pensa che, in simili circostante storiche, avrebbe potuto recitare la parte dell’aguzzino. Eppure quando le circostanze storiche si verificano, salta sempre un sacco di gente pronta a recitare quella parte. Perché? Non lo so.

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Sicuramente è un bell’esercizio (letterario e non solo) provare a entrare nella mente dell’aguzzino. Ma non in modo stereotipato. Intendo provare sinceramente: e se IO (non un personaggio generico), se IO diventassi un aguzzino in un campo di concentramento? Secondo il mio amico che in certi momenti storici saltino fuori tanti aguzzini deriva anche dal fatto che nessuno crede di poterlo diventare. Mi rendo conto che come esercizio è un po’ forte, e, soprattutto, difficilmente si incastra con la tua storia. Ma non è detto. Potresti comunque esercitarti su un altro tema: perché odio mia sorella quando si pettina? Anzi, perché il mio personaggio odia sua sorella quando si pettina? Per fare questo «esercizio» devi sfruttare le tue caratteristiche psichiche piegandole in questa oscura direzione.

Pensieri



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Il flusso di coscienza e la telepatia Parlando di pensiero potremmo disquisire lungamente di flusso di coscienza, di discorso indiretto libero e altri modi in cui il pensiero può prendere forma in un testo. Ma io ti suggerisco di concentrarti piú che altro sulla domanda cruciale: cosa pensa veramente questo personaggio? È una domanda semplice solo in apparenza. Se riesci davvero a catturare i suoi pensieri tutto il resto verrà di conseguenza. Se invece capisci cos’è il flusso di coscienza dal punto di vista tecnico ma non riesci a entrare umanamente nella testa del tuo personaggio allora è tutto inutile. Come ho già detto, la narrativa è una forma di telepatia tra l’autore e il lettore. Ma prima ancora è una forma di telepatia tra i personaggi e l’autore.

esercizio

Cosa pensa il tuo personaggio?

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Il dato nascosto

Il dato nascosto Chiunque pronunci una verità offensiva sperando cosí di salvare la propria anima dovrebbe riflettere sul fatto che quel tipo di anima non merita affatto di essere salvata.

M. Twain

C’è un dato nascosto che cambia il senso degli avvenimenti. Un dato che ti obbliga a ripensare agli avvenimenti in chiave diversa. Penso che questa del dato nascosto sia una possibilità molto importante dell’arte narrativa. La maggior parte delle persone quando inizia a scrivere ha la tendenza a collocare tutto nell’ordine «giusto», o diciamo meglio nell’ordine «logico». Ma l’ordine logico spesso non è quello con cui facciamo esperienza della vita per cui – se utilizzi sempre e solo quello – per quanto tu scriva bene la narrazione risulterà piatta, noiosa, senza emozione. Se invece alterni scene minuziosamente descritte a dati nascosti allora tutto sembrerà – anzi diventerà – misteriosamente vero.



6.1

Come un romanzo… anche la vita riserva delle sorprese Ogni tanto tengo corsi di scrittura creativa per professori. Una volta c’era un professore veramente particolare. Durante la lezione si metteva in pose strane e faceva domande ancora piú strane. Se per esempio io avevo parlato per due ore del dialogo lui chiedeva: E se scrivessi un dialogo? Era appunto due ore che parlavamo di questo! Io però, signorile come sempre, non perdevo la calma e dicevo: Ma sí, un dialogo, ottima idea E cosí andammo avanti per settimane, anzi per mesi. Le pose e le domande erano sempre da lasciarti senza fiato. Non dovrei dirlo, ma giunsi a non gradire la presenza di quell’uomo. Mi metteva a disagio. Speravo sempre non ci fosse e tutte le volte eccolo lí! Pronto a scoccare una delle sue formidabili domande. Ma perché lo faceva? Perché veniva a lezione? Le sue domande erano cosí assurde che dovevano per forza essere provocatorie. Quell’uomo veniva per prendermi in giro, ecco la verità. La cosa era resa ancora piú diabolica dal fatto che aveva un’espressione buona e gentile. Direi un’espressione simpatica, se non fossi giunto a odiarlo. Un anno dopo l’ho incontrato di nuovo, per caso. L’ho visto di lontano, per cui ho cercato di sfuggirgli cambiando direzione. Ma anche lui mi aveva visto. Dotato di un’agilità incredibile ha reso vani tutti i miei tentativi di fuga finché non mi ha bloccato in un angolo. Ci siamo salutati e io pensavo: chissà cosa mi dirà, certo qualcosa di assurdo e terribile tipo: E se ci salutassimo?

Il dato nascosto

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Invece ha detto: Sai, il corso mi è piaciuto molto. Solo che io sono sordo Sordo! Quell’uomo era sordo! Ecco perché faceva quelle strane domande, per assicurarsi di aver capito bene il concetto principale della lezione. Ecco perché si metteva in quelle strane pose: mi ha infatti spiegato che non era proprio completamente sordo, ma mettendosi in pose strane qualche suono riusciva a captarlo. Quindi non era cattivo, non veniva lí per prendermi in giro, le sue domande erano vere domande e il tutto si spiegava con la sua sordità. Ci avessi pensato dieci anni non ci sarei mai arrivato, eppure la soluzione era semplice. Solo che io ero talmente convinto che quell’uomo mi provocasse da non riuscire a vedere la verità. esercizio

Ti sei mai trovato in una situazione simile? Non nel senso di essere perseguitato da un professore sordo, ma di aver mal interpretato degli atteggiamenti, delle parole o altro perché ti mancavano delle informazioni fondamentali o semplicemente eri profondamente convinto che le cose stessero in un modo e invece… Inizia a pensare a come sfruttare la tua esperienza per rendere piú accattivante la tua storia.



6.2

Il venditore di aringhe Faccio altri esempi di dato nascosto, cioè un particolare che ti obbliga a ripensare a quanto hai letto e ti fa vedere le persone in una luce diversa. Traggo questi esempi non piú dalla mia vita ma dalla letteratura. Naturalmente dicendoti fin da subito che c’è un dato nascosto ti rovino l’effetto. Nei racconti o nei romanzi non c’è scritto: attenzione, dato nascosto a pagina 16. D’altra parte devo farlo, per spiegarmi bene. Del resto, già ti ho rivelato altri dettagli, come il fatto che nei Promessi sposi Renzo alla fine ritrova Lucia. Ops, non l’avevo fatto? Vabbè, ormai lo sai. Ma forse te lo eri immaginato.

Perle di saggezza

Il racconto che riporto quasi per intero si intitola Il venditore di aringhe ed è di Carmiggelt, un autore olandese. Era di mattina, e a uno di quei bei banchetti fissi, piantati ad Amsterdam su quattro robuste zampe di legno lungo i canali, mi feci servire un’aringa. «Cipolline?» domandò l’uomo, nel suo grembiulone da lavoro fresco di bucato. Era un uomo robusto e dalle spalle larghe e ben squadrate, ma la capigliatura iniziava a incanutire – un devoto del calcio, ebbi l’impressione, uno di quelli che non manca una domenica allo stadio. «Niente cipolline» risposi. C’erano altri due uomini intenti a masticare, giunti insieme, credo, e tutti e due in tuta da lavoro. «C’è chi le vuole e c’è chi invece non le vuole, le cipolline» sentenziò uno dei due, spaziando con la mente. Il venditore di aringhe annuí. «Io, per esempio, con le aringhe non ci metterei mai il cetriolo sotto aceto, come fanno tanti» sentenziò a sua volta l’amico, con l’aria però di chi, un po’ vanesio, pensa di esibire una propria ineffabile dote. «Dammene un’altra per favore» dissi, appena ebbi finito. L’uomo delle aringhe me la tagliò in tre bocconi e infilò la mano lustra di umori di pesce nel vaso delle cipolline. «No, niente cipolline» ripetei.

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Il dato nascosto

Lui sorrise, come per scusarsi della disattenzione. «Ero un attimo soprappensiero» disse.

Qui mi fermo un attimo per segnalare come, in pochi tratti – perché in letteratura è importante l’economia – sono descritti il luogo e le persone: i banchetti piantati su quattro robuste zampe di legno, l’omone e i suoi movimenti, quando infila la mano lustra di pesce nel vaso delle cipolline; e anche quei due che parlano di cetrioli con aria vanesia. È un po’ quello che chiedevo all’inizio del nostro percorso: una scena filmata con le parole. A differenza del racconto di Carver, quello in cui ci sono due che litigano, qui l’autore interviene con la sua ironia e i suoi commenti. Ma riprendiamo il racconto di Carmiggelt. Mentre io scrivevo questa parentesi il protagonista del racconto è entrato in un caffè dall’altra parte della strada. Perle di saggezza

«Cosa le servo?» domandò una signora anziana da dietro il banco. «Caffè». Mentre lei ciabattava verso la credenza, entrò una grassona dall’aspetto trasandato, che alcuni mesi prima si era tinta i capelli di giallo paglierino, ma poi si era lasciata sopraffare dalla nostalgia per il suo color bruno naturale, per cui adesso portava sul cranio una capigliatura bicolore. «Hai sentito?» disse ad alta voce. «Che cosa?». «Il figlio di quello che vende le aringhe qui davanti. Oh non è andato a sbattere col motorino contro il tram?» riprese. «Eh! È successo ieri. Ci ha lasciato la buccia, sai? I medici non sono riusciti a salvarlo, all’ospedale. Qualcuno è venuto a dirglielo mezz’ora fa, a suo padre». La signora anziana mi posò davanti una tazza di caffè. «Ma figuriamoci...» commentò. Io guardai dall’altra parte della strada. Quei due in tuta da lavoro che poco prima stavano a battibeccare erano spariti. Il venditore di aringhe, in tutta la sua massiccia presenza, se ne stava a pulire il suo pesce con l’abilità di chi ripete la stessa operazione per l’intera giornata. «Un ragazzo di diciassette anni» disse la grassona. «Studiava per pasticciere. E a un’esposizione, ultimamente, ha vinto anche un terzo premio con un castello fatto di cioccolata». «Sono dei maledetti aggeggi, quei motorini» commentò la signora anziana.

Mi piace il linguaggio delle due signore sciatte, è sciatto anche lui, il linguaggio, per cui è credibile. I piú avrebbero fatto dire alle due sciattone qualcosa del tipo: «Lo sai? È avvenuto un terribile incidente». «Quale incidente?». «È morto il figlio del venditore di aringhe». «Che notizia terribile». Invece il dialogo è molto piú «quotidiano» e dunque, in questo caso, piú triste: Ma figuriamoci commenta la signora anziana dopo aver posato la tazza di caffè. Se dovessi dire in quale punto mi convinco profondamente della morte del ragazzo probabilmente sceglierei questo Ma figuriamoci. Molto piú potente di «quale sciagura». E adesso terminiamo la lettura del racconto.

Il dato nascosto

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Perle di saggezza

Dal volto del venditore di aringhe non trapelava alcuna emozione. Non c’era né dolore, né sbigottimento, né malinconia o disperazione. Assolutamente niente. Ora serviva una ragazza che ne voleva portare via alcune e gliele avvolgeva in un foglio di carta oleata. «E quei ragazzi vogliono sempre fare gli spacconi con quei cosi sotto il sedere» soggiunse la grassona. «Ma il tram non si fa mica da parte per farti passare...» Sull’altro lato della strada il venditore di aringhe faceva il resto all’ultima cliente che aveva servito. Poi riprese a pulire la proprio mercanzia. Aveva sul volto un’espressione impassibile. Ma d’un tratto mi tornò alla memoria che, alla seconda aringa che mi ero fatto servire, a proposito delle cipolline, per scusarsi con un sorriso mi aveva detto: «Ero un attimo soprappensiero». Fine del racconto.

Mi sembra che la chiave di volta del racconto sia la frase Ero un attimo soprappensiero. È qui il dato nascosto. La prima volta che uno legge la frase non gli dà molta importanza. Visto che Carmiggelt è molto bravo a riportare dettagli, sembra un dettaglio tra i tanti. Poi il racconto ti costringe a ripensarci. Apprendi che quell’omone era soprappensiero perché gli era stata appena portata la notizia, e quindi capisci (almeno io la intendo cosí) che quell’omone apparentemente impassibile è in realtà impietrito dal dolore. Continua a fare il lavoro di sempre come un automa. Ripensi al fatto che l’omone, che ci era apparso un po’ un bruto, ha detto quella frase Ero un attimo soprappensiero e improvvisamente ti appare una frase un po’ strana ma anche delicata. Perlomeno, io la vedo cosí. Quello che è certo è che c’è un dato nascosto che ti obbliga a ripensare alla storia e che approfondisce il personaggio. Lo approfondisce proprio nel senso che gli dà uno strato in piú. Ammesso che sia possibile dare strati. Abbiamo detto che un personaggio oltre a esistere deve anche svilupparsi, come qualsiasi persona. Certo, questo di solito non vale per il racconto breve, e non è neanche una regola da seguire in modo fanatico. Diciamo che è bello quando il personaggio si sviluppa. Mostra lati inaspettati o ne acquisisce di nuovi. Per rendere questa ricchezza penso sia utile il d.n. (chiamo cosí amichevolmente il dato nascosto, da ora in poi). E non per strani motivi tecnici e accademici ma perché la nostra vita, se la guardi bene, è piena di dati nascosti.

esercizio

Scrivi un brano (o un capitolo della tua storia) che contenga un d.n. che ti obbliga a ripensare al personaggio. Magari un d.n. tratto dalla tua vita. Se invece ti coglie un desiderio irrefrenabile di scrivere, puoi lanciarti esplorando anche un'altra possibilità. Un d.n. clamoroso. Esempio: la nonna rapinatrice è in realtà la sorella del protagonista. Si è trasformata in seguito alla puntura di un animale misterioso. Oppure un altro esempio, piú serio: «L’uomo bianco è a bordo dell’arca da cosí tanto tempo / che crede che il ponte sia la terraferma» (Leslie Allan Murray).

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6.3

Il dato nascosto

Quello che non ti chiedo Quando si parla di d.n. vengono in mente cose tipo «l’assassino è il maggiordomo», oppure «tutti gli abitanti del paesino Taldeitali in realtà sono alieni». C’è una famosa scena di Profondo rosso di Dario Argento in cui il protagonista percorre un corridoio pieno di quadri. Successivamente, ripensadoci, capirà che uno di quei presunti quadri era in realtà uno specchio e che l’orrenda faccia che ha visto era quella dell’assassina alle sua spalle. Nel film Il sesto senso c’è un d.n. che obbliga a ripensare il film scena per scena, e anzi addirittura fanno rivedere fisicamente (non ripensare) molte scene alla luce del d.n. Un altro film che probabilmente hai visto è The others, che si ispira al grande libro Giro di vite di Henry James, di cui piú in là parleremo. Anche qui c’è un dato nascosto abbastanza clamoroso. Tutto questo va benissimo. Ma non è questo quello che io ti chiedo, per il momento. Quello che io ti chiedo è di trarre il d.n. dalla tua esperienza, come – per quanto mi riguarda – nel caso del professore che mi perseguitava. Dico questo perché qui il d.n. mi interessa non tanto come mezzo per colpi di scena clamorosi, quanto come mezzo per approfondire personaggi o situazioni all’apparenza semplici ma tali che – se li guardi bene – posso rivelare grandi ricchezze. Non è male per esempio scrivere partendo da un litigio che ti ha visto protagonista. Primo perché i litigi veri sprigionano un’energia che può essere molto utile per raccontare storie. Visto che i litigi sono cosí spiacevoli, perlomeno sfruttiamoli, dico io! Secondo perché quando scrivi del tuo litigio, se guardi attentamente a quello che è successo, magari scopri un d.n. che ti mostra come l’altro non avesse poi tutti i torti. Certo, questo non accade se scrivi il racconto appena terminato il litigio, o comunque quando il litigio è ancora caldo dentro di te. In tal caso scriverai solo una serie di offese (può andare bene anche cosí).

esercizio

Scrivi un racconto o un pezzo della tua storia costituito da una serie di offese (senza esagerare), magari prendendo spunto da un fatto realmente accaduto. Se scrivi quando le acque dentro di te si sono calmate e raffreddate allora magari scoprirai qualcosa di analogo a Ero un attimo soprappensiero. Questa di ripensare a un litigio cercando di coglierne aspetti che sul momento non avevi colto (senza fingere di essere buono!) è una bella esperienza, al di là del valore di quello che uno scrive. E non dimenticarti di far scorrere il tempo.



6.4

Un predatore nel paesaggio limpido Nel racconto di Ernest Hemingway intitolato Un canarino in dono il protagonista e sua moglie sono a bordo di un treno che va dall’Italia a Parigi. L’attenzione però si concentra soprattutto su una signora americana che sta portando un canarino in dono alla figlia. Vengono riportati (o meglio ricreati, alla luce di quanto abbiamo detto fin qui) i discorsi e i ragionamenti della signora. Che risulta abbastanza fastidiosa. Tutto è chiaro. La signora a forza di domande riesce anche a far parlare la moglie del protagonista della loro luna di miele in un posto che è bellissimo in autunno e cose del genere. Alla fine del racconto, quando già sono scesi dal treno, si dice: «Stavamo tornano a Parigi per mettere su casa separatamente».

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Improvvisamente scopri cosa hai letto: la storia della fine di un amore. E quindi sei costretto a ripensare a tutto quello che hai letto in una luce nuova. Lui e lei si stanno lasciando. Magari vorrebbero litigare, o riappacificarsi, chi lo sa. Ma sale questa signora molto fastidiosa, americana come loro, che monopolizza l’attenzione. Scendono dal treno e se ne vanno, ognuno per la propria strada, senza dirsi nulla. È straziante. Ma lo è anche per l’effetto retroattivo della rivelazione. La cosa piú importante che volevo dire però è la seguente: nel racconto è tutto molto chiaro, il d.n. si inserisce in un contesto di grande chiarezza. Molti scrivono un testo in cui non si capisce nulla, o comunque un testo non convincente, che non ha presa sulla mente (non ha aderenza) e poi dicono: Eh beh, ma è perché ci sono diciassette dati nascosti. Io ti propongo invece UN solo d.n., in agguato come un predatore in un paesaggio limpido. Le citazioni che ho messo all’inizio di questo capitolo stanno a significare che non devi dire sempre la verità, quando scrivi. Nessuno ti sta interrogando. Puoi benissimo arrampicarti sugli specchi se riesci a farlo. (Ho sempre odiato la frase «Non arrampicarti sugli specchi» e l’espressione di coloro che la dicono). Puoi benissimo dire: Maria era brava e bella. Poi si scopre che invece non lo è. Molte cose sono possibili in un racconto, come nella comune esistenza: si scopre che il protagonista si è sbagliato (perché capisce poco, perché non aveva informazioni sufficienti, perché lo hanno imbrogliato); o che chi ricorda e racconta la storia ricorda e racconta male riguardo a qualche punto determinante.

esercizio

Continua la tua storia dicendo «Eppure non era vero che...» (devi individuare un punto che mentre scrivevi ti sembrava vero ma adesso secondo te, ripensandoci, non lo è).



6.5

Sul filo del rasoio Cosa c’è sotto l’impermeabile? C’è poi un caso particolare che accenno per amore di completezza, come esercizio lo trovo impegnativo. È il caso in cui il dato nascosto non è poi cosí nascosto, aleggia su tutta la narrazione. E allora per tutta la lettura ti chiedi: ma cosa mi sta dicendo quest’uomo? È quello che mi immagino o mi sbaglio? In Giro di vite di Henry James la protagonista si trova a fronteggiare dei fantasmi terribili. Ma per tutto il libro non saprai mai se i fantasmi esistono davvero o sono il frutto della sua mente. Detto cosí sembra noiosissimo. Questo perché quasi tutti noi, se scrivessimo una storia del genere, la renderemmo noiosissima. Invece il libro (da cui è stato vagamente tratto il film The others) è attraversato da una forte tensione. Perché le due versioni tornano alla stesso modo: 1.  ci sono i fantasmi; 2.  lei è pazza.

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Il dato nascosto

E tornano non solo dal punto di vista pratico, dal punto di vista delle cose che succedono nel mondo fisico. Ma anche dal punto di vista psichico. La protagonista è convinta che i fantasmi vogliano impossessarsi dei due bambini che lei è incaricata di assistere in quanto baby sitter (detto in termini moderni). Chiaramente i fantasmi vogliono fare delle cose orribili a questi bambini, e le hanno già fatte quando erano vivi, infatti i bambini – caso raro mi sembra – hanno conosciuto i fantasmi da vivi, dato che i fantasmi, da vivi, facevano parte della servitú. Da morti non prestano piú servizio ma continuano a perseguitare i minorenni. Come succede spesso in questi casi, i personaggi piú terrificanti sono proprio i bambini. Sono cosí perfetti e gioiosi che in effetti ti inquietano e soprattutto inquietano la protagonista, convinta che anche i bambini vedano come lei i fantasmi e che conoscano come lei (anzi, molto meglio di lei) l’abisso di orrore che li assedia. Insomma forse ho usato troppe parole ma volevo dire che le reazioni eccessive e isteriche della protagonista sono plausibili in tutti e due i casi. Nel caso che ci siano i fantasmi è chiaro. Chi di noi non sarebbe un po’ nervoso se sapesse che dei fantasmi vogliono impossessarsi dei bambini a cui fa da baby sitter? Ma anche nell’altro caso: i fantasmi esistono solo nella sua mente e lei è una maniaca repressa: infatti le sue paure sono infarcite di allusioni sessuali. Perle di saggezza

All'improvviso, in quelle circostanze, mi resi conto che sull'altra sponda del mar d'Azof avevamo uno spettatore interessato […] cominciai ad avvertire con sicurezza, pur senza vederla, la presenza d’una terza persona. […] Non vi era nulla di ambiguo tutt’intorno; assolutamente nulla, almeno, nella convinzione che si andava affermando in me a proposito di ciò che avrei visto diritto davanti a me, al di là del laghetto, se solo avessi alzato gli occhi. […] C’era là, in piena vista, un oggetto estraneo... una figura a cui negai subito, appassionatamente, il diritto di trovarsi dov’era. Ricordo d’aver fatto tutte le ipotesi possibili al riguardo, dicendo a me stessa che non vi sarebbe stato niente di piú naturale, per esempio, dell’apparizione di uno degli uomini che lavoravano nella tenuta, o anche di un messaggero, di un portalettere, di un garzone di bottega venuto dal villaggio. Ma questi pensieri ebbero scarso effetto sulla mia pratica certezza, in quanto ero già convinta, pur senza aver ancora alzato lo sguardo, che non c’entravano per nulla con la specie e il contegno del nostro visitatore. H. James, Giro di vite

Tutto il libro è un po’ come quei maniaci che si aprono l’impermeabile. Solo che è un maniaco situato a una certa distanza, e non capisci mai se lui sotto l’impermeabile è nudo o sei tu che te lo immagini cosí.

esercizio

Questo esercizio è troppo difficile, nemmeno te lo propongo. Se però la prendi come una sfida, puoi provare a rivedere tutta la tua storia alla luce di un d.n.

Non saltare questo capitolo

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Non saltare questo capitolo Io sono vivo, voi siete morti. P. K. Dick

A questo punto del nostro cammino voglio ribadire alcune cose che abbiamo già detto per poi dire una cosa in piú. Un po’ come quelli che fanno qualche passo indietro per prendere la rincorsa e poi spiccare un balzo in avanti. Per far questo prendo spunto dal racconto Le nevi del Kilimangiaro di Ernest Hemingway.



7.1

Il paracadutista invisibile Il protagonista e sua moglie sono bloccati in Africa, ai piedi del Kilimangiaro. Stavano facendo un safari. Lui è ferito una gamba e stanno aspettando l’aereo che li metterà in salvo. Tutto questo non è detto con un riassunto come ho appena fatto io, ma paracadutandoci direttamente in compagnia dei due, senza spiegazioni. Di magnifico c’è che non fa male esordisce lui riferendosi alla ferita. Il lettore impiega un po’ di tempo per orientarsi nella situazione, proprio come uno che fosse stato appena paracadutato (un paracadutista invisibile, intendo, altrimenti condizionerebbe il dialogo).



7.2

Uno sguardo luccicante Non puoi morire, se non ti arrendi gli dice lei. Dove lo hai letto? Sei cosí maledettamente stupida dice lui. Tra i due serpeggiano sentimento e aggressività. Ma oltre ai rapporti tra i due, nel racconto si aprono descrizioni di impressionante limpidezza: Poi si adagiò nella cuccetta e rimase in silenzio per un po’, guardando i margini della boscaglia nel tremolío dell’aria sopra la pianura arroventata. C’erano delle gazzelle che spiccavano piccole e bianche sul giallo dello sfondo e, lontano, vide un branco di zebre, bianche contro il verde della boscaglia. Era un campo simpatico, quello, sotto grossi alberi addossati a una collina, con acqua buona e, vicinissimo, uno stagno quasi asciutto dove la mattina si posavano le grandule. Questa è una cosa che ti ho chiesto nei capitoli precedenti. Descrizioni nitide. Non ho usato queste parole, però ti ho chiesto descrizioni nitide per esercitare in te la capacità di vedere le cose.

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Non saltare questo capitolo

Se il tuo personaggio arriva in piazza del Duomo, dí qualcosa su piazza del Duomo. Naturalmente ci sono delle eccezioni. Mettiamo che il tuo personaggio arrivi in piazza del Duomo, magari il Duomo di una città che visita per la prima volta, per cui in teoria dovrebbe essere interessato. Ma se sta litigando con la fidanzata allora è plausibile che la sua attenzione non sia rivolta al Duomo, o lo sia in modo molto marginale. esercizio

Non descrivere qualcosa che in teoria dovrebbe essere descritto. Un esempio ovvio: gita di classe a Parigi. La classe è di fronte alla Gioconda. In teoria tutti dovrebbero stare lí a guardare la Gioconda. Ma Luca è innamorato di Stefania, una sua compagna di classe. Si accorge che finalmente, per la prima volta, lei lo sta guardando piena di interesse. È probabile che Luca lascerà perdere la Gioconda preferendole Stefania. A quel punto sarebbe assurdo, nel racconto, descrivere la Gioconda come se Luca fosse uno storico dell’arte.



7.3

Oscillazione delle voci. Non c’è tre senza quattro Lasciamo Luca e Stefania al loro destino e ritorniamo da quei due bloccati alla base del Kilimangiaro. Era andata a prendere un po’ di carne e, sapendo quanto gli piaceva osservare la selvaggina, si era allontanata di parecchio per non disturbare il piccolo tratto di pianura che poteva vedere lui. Era sempre piena di riguardi, pensò. […] Non era colpa sua se quando l’aveva conosciuta lui era già finito. Come poteva, una donna, sapere che non dicevi mai quel che pensavi: che parlavi solo per abitudine e per metterti il cuore in pace? Da quando lui aveva cominciato a dire una cosa pensandone un’altra le sue bugie avevano piú successo con le donne di quando diceva la verità. Non era tanto che mentisse quanto che non c’erano verità da dire. Aveva fatto la vita che voleva e quella vita era finita e poi aveva continuato a viverla con gente diversa e con piú soldi, con i migliori dei soliti posti e alcuni nuovi. Non ci pensavi e tutto andava a gonfie vele... Già in questi brani vediamo vari modi di esprimere il pensiero del personaggio. Quando dice Era sempre piena di riguardi, pensò chiunque capisce che sta pensando. Ma anche quando dice cose tipo Non era colpa sua se quando l’aveva conosciuta lui era già finito... Questo è il famoso indiretto libero. Ne abbiamo già parlato a proposito del dialogo ma penso sia abbastanza facile «trasferire» le cose che abbiamo detto al discorso sul pensiero. Quello che piú mi preme, qui, è vedere la varietà di voci con cui è reso il pensiero. A un certo punto per esempio comincia a darsi del tu: Non ci pensavi, e tutto andava a gonfie vele... Piú in là dice: ma dentro di te dicevi che avresti scritto di questa gente; dei ricconi; che non eri proprio uno di loro ma una spia nel loro territorio.

Non saltare questo capitolo

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Poi si smentisce cambiando persona: Invece non lo avrebbe mai fatto. In un certo senso, se lo analizzi, è un vero caos. Ma in verità queste oscillazioni corrispondono a oscillazioni interne. Il protagonista pensa che quella donna è piena di riguardi, che non è colpa sua (di lei) se quando si sono conosciuti lui era già finito, e poi improvvisamente udendo uno sparo in lontananza (è lei che è andata a caccia) ecco come prosegue il testo: Sparava molto bene questa brava, questa ricca puttana, questa premurosa sorvegliante e distruttrice del suo talento. Sciocchezze. Lo aveva distrutto da solo, il suo talento. Lui continua a oscillare tra aggressività e comprensione. In un modo che appare molto verosimile. Quando il testo dice Sparava molto bene questa brava, questa ricca puttana, questa premurosa sorvegliante e distruttrice del suo talento (è indiretto libero) chiunque capisce che sono i pensieri di lui, anche se non c’è scritto. Non è l’autore che giudica la donna una ricca puttana sorvegliante distruttrice del suo talento (bella definizione); è il protagonista. Credo che il motivo per cui le oscillazioni di pensiero del protagonista appaiono verosimili è che Hemingway sfruttava le parti peggiori di sé, o comunque parti non proprio positive. Che era poi un esercizio che ti ho già proposto. Hemingway riesce a attribuire al personaggio pensieri terribili. Chiaramente nessun autore è i suoi personaggi, questo l’abbiamo già detto, se non altro perché il personaggio nasce con la prima parola del testo e muore con l’ultima, mentre l’autore è nato prima e continua a vivere dopo, si spera. Però l’autore ne è il nutrimento. Diciamo che l’esperienza dell’autore è il concime. Insomma, ricapitolando: • quando nel testo si dice C’erano delle gazzelle che spiccavano piccole e bianche... vuol dire che ci sono delle gazzelle; • quando si dice Era piena di riguardi, pensò vuol dire che il personaggio sta pensando. Il testo lo dichiara apertamente (sono cose ovvie, lo so, ma ho bisogno di ribadirle per poi andare avanti); • quando si dice Questa ricca puttana non significa che stiamo parlando di una donna che nonostante sia benestante è dedita alla prostituzione, ma sono i pensieri del protagonista che è preda di uno dei suoi (frequenti) soprassalti di aggressività. Nel testo non si dice che sono i suoi pensieri ma è chiaro lo stesso. Queste sono tre possibilità. Ma ne esiste un’altra. Non c’è tre senza quattro.

esercizio

Prova a far oscillare anche tu i pensieri del tuo personaggio e a creare un po’ di confusione nella forma. Deve essere una confusione «chiara» però: leggendo si deve capire chi dice cosa e chi pensa cosa.

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7.4

Non saltare questo capitolo

Ti sei mai chiesto dove sei veramente? Nel racconto Le nevi del Kilimangiaro ci sono dei brani in corsivo. A parte il primo brano in corsivo, all’inizio, che è una specie di porta misteriosa, gli altri sono dei romanzi condensati in poche righe. Il racconto è quindi attraversato da una specie di fiume sotterraneo; il fiume è costituito da questi romanzi condensati che ogni tanto emergono in superficie. È interessante vedere come, nonostante la vaghezza dei riferimenti, il nocciolo della questione sia chiaro. Ma non è di questo che voglio parlarti, io voglio parlarti del quarto caso. Ecco il racconto verso la fine: Era di mattino, e lo era già da un po’ e lui sentí l’aereo. Apparve all’orizzonte, piccolissimo, e poi fece un largo giro sul campo e i boys uscirono di corsa per accendere i falò, usando il cherosene, e sopra vi ammucchiarono dell’erba per far due grosse fumate ai due capi del pianoro, e la brezza mattutina spingeva il fumo verso l’accampamento e l’aereo fece altri due giri, questa volta a bassa quota, e poi planò e si mise orizzontale e atterrò senza scosse; ed ecco il vecchio Compton venire verso di lui, in pantaloni, giacca di tweed e feltro marrone. «Che succede, vecchio mio?» disse Compton. «Una gamba malandata» gli disse lui. «Colazione?». «Grazie. Solo un goccio di tè. È il Puss Moth, sai. Non potrò caricare la memsahib. C’è posto solo per un passeggero. Il vostro autocarro sta arrivando». Helen aveva preso Compton in disparte e stava parlando con lui. Compton tornò indietro piú allegro che mai. «Ti carichiamo subito» disse. «Tornerò dopo a prendere la mem. Ora temo che dovrò fermarmi ad Arusha per fare rifornimento. Meglio muoversi». «E il tè?». «Oh, posso farne a meno, sai». I boys avevano sollevato la brandina e girando intorno alle tende verdi la portarono giú per la discesa... I boys (gli aiutanti indigeni, diciamo) portano il protagonista (come mi mette a disagio questa parola cosí lunga, ma non mi viene in mente altro, non mi piace neanche personaggio, se vuoi sapere la verità) insomma lo caricano a bordo dell’aereo. Quindi l’individuo e Compton prendono il volo. È una partenza memorabile, solenne, anzi direi di una solennità inusuale in Hemingway. Dura una pagina! Hemingway ci dice cosa vedono dall’aereo, un paesaggio grandioso. Al tempo stesso ci sono dei momenti in cui lo sguardo dell’individuo viene parzialmente coperto dalla giacca di Compton, tanto per tornare sul realismo dello sguardo. Continuiamo: Poi furono sopra le prime colline, con gli gnu che vi si aprivano un sentiero, e poi sopra montagne con improvvisi abissi di foreste verdi e rigogliose, e i compatti versanti di bambú, e poi di nuovo la grande foresta, scolpita in rilievi e cavità finché non l’ebbero attraversata, e le colline digradarono, e poi un’altra pianura, ora assolata, e bruna e purpurea, da cui si alzavano correnti di calore che facevano sobbalzare l’aereo, e Compie che si voltava per vedere come se la passava Harry. Poi ci furono altre montagne, scure, davanti a loro. E poi, invece di proseguire per Arusha, virarono a sinistra, perché Compie evidentemente si era accorto di avere abbastanza carburante, e abbassando lo sguardo Harry vide una nuvola rosa in movimento, che sorvolava il terreno, e poi saliva, come la prima neve di una tormenta, che non si sa da dove venga, e capí che dal sud stavano arrivando le locuste. Quindi cominciarono a cabrare, e pareva che andassero a est, e poi fu buio ed erano in mezzo a un temporale, con la pioggia cosí fitta che sembrava di volare attraverso una cascata, e poi ne uscirono e Compie voltò la testa e sorrise e puntò il dito e là, davanti a loro, tutto quello che

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lui poté vedere, vasta come il mondo intero, grande, alta e di un bianco incredibile nel sole, era la vetta quadrata del Kilimangiaro. E allora seppe che era là che stava andando. Di solito a questo punto, quando leggo il racconto ad alta voce, chiedo alle persone se hanno capito cosa sta succedendo. Ricevo le risposte piú varie. Una volta un ragazzo ha ipotizzato che andassero a sciare. Tu hai capito cosa sta succedendo? esercizio

Scrivi le varie ipotesi e poi confrontale con il finale del racconto.



7.5

Il quarto caso Ecco il finale: Proprio allora la iena smise di uggiolare nella notte e prese a emettere uno strano suono, umano, quasi come se piangesse. La donna lo sentí e si rigirò nel letto, inquieta. Non si svegliò. Nel sogno si trovava nella casa di Long Island ed era la sera prima del debutto in società. Chissà come, c’era anche suo padre, che era stato molto sgarbato. Poi il rumore che faceva la iena divenne cosí forte che lei si svegliò e per un attimo non capí dov’era e fu presa da una grande paura. Allora impugnò la torcia elettrica e la puntò sull’altra branda, che avevano portato dentro dopo che Harry si era addormentato. Helen vedeva la sua forma sotto la zanzariera, ma Harry chissà come aveva messo fuori la gamba, che ora penzolava da un lato della branda. Le bende si erano tutte slacciate e lei non poteva sopportare quella vista. «Molo» chiamò «Molo! Molo!». (Molo è uno dei boys, ndr) Poi disse: «Harry! Harry!». Poi alzando la voce: «Harry! Ti prego. Oh Harry!». Nessuno rispose. E Helen non udiva il suo respiro. Fuori dalla tenda la iena mandò lo stesso strano rumore che l’aveva svegliata. Ma Helen non l’udí, tanto forte le batteva il cuore. Insomma: Harry è morto. La moglie si sveglia e si rende conto che è morto. Questo non è detto rozzamente ma si capisce con quel finale impressionante di Helen che non sente piú niente tanto forte le batteva il cuore. Ma allora la scena in cui arriva il vecchio Compton e lo carica sull’aereo per portarlo in salvo? Quella scena si è svolta solo nella mente di Harry. È questo il quarto caso che volevo sottolineare: siamo nella mente di un personaggio ma non lo sappiamo. Ricapitolando: •  quando dice che le gazzelle saltano le gazzelle stanno saltando; • quando dice pensò sta pensando, siamo nella sua mente e questo viene dichiarato; • quando dice sparava molto bene questa ricca... siamo nella mente di Harry, non viene dichiarato ma si capisce; • invece nella scena dell’aereo siamo nella mente di lui ma non lo sappiamo, lo scopriamo solo alla fine.

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Mi sembra fosse proprio Hemingway a raccomandare «Niente trucchi!» in narrativa. Ora questo finale a sorpresa sembra proprio un trucco. Ma se leggi l’intero racconto scoprirai che non è vero. Hemingway avverte piú di una volta il lettore. A un certo punto per esempio dice: Non credere a quella storia del teschio e della falce. Possono essere, altrettanto facilmente, due poliziotti in bicicletta o un uccello. Nonostante questo, però, quando arriva la morte con il volto di Compton non te ne rendi conto. Però se rileggi il brano in cui compare Compton, tutto torna, non ci sono imbrogli. Quando lo rileggi noti delle stranezze illuminanti. Senza bisogno di mettere particolari visibilmente sinistri, o falci che gli spuntano da sotto la giacca. Prima di tutto quando Harry gli dice che ha una gamba malandata Compton non gli chiede dettagli, come farebbe qualunque amico. Poi gli dice che sull’aereo c’è posto solo per una persona: chiaramente, la morte deve portare via solo lui. Inoltre l’amico Compton prima chiede il tè, poi non beve, dice che può farne a meno. Ma come! Ora te lo bevi, gli direi fosse un mio amico. E come se non bastasse dopo aver parlato con Helen torna indietro piú allegro che mai. Come sarebbe a dire piú allegro che mai: che amico disgustoso. Ci sono altri particolari del genere, non te li sto a dire tutti, per esempio viene citato un corso d’acqua che non aveva mai visto, quando è sull’aereo. Questo sembra segnare, rileggendolo, il passaggio in una terra nuova. esercizio

Scrivi un racconto o un frammento in cui siamo nella mente di un personaggio e non lo sappiamo. (Chiaramente per valutarne l’effetto dovresti farlo leggere a qualcuno che non sa in anticipo che siamo nella mente di un personaggio).

L’attesa

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l’attesa Questo di sette è il piú gradito giorno, / pien di speme e di gioia.

G. Leopardi

Mi piace quando nei racconti c’è un senso di minaccia. Tanto per cominciare, fa bene alla circolazione. Ci deve essere della tensione, il senso che qualcosa sta per accadere, che certe cose si sono messe in moto e non si possono fermare.

R. Carver

Nella vita, come in un racconto, io credo, ci deve essere qualcosa da aspettare. Ci deve essere la palpitante sensazione che qualcosa sta per accadere, al di là che poi accada davvero o meno. La prima forma di attesa che mi viene in mente è la speranza. Forse anche la piú bella. Una vita senza speranze è una vita grigia. Infinite altre però sono le forme di attesa. Alcun opposte, rispetto alla speranza: per esempio quando su un racconto grava un senso di minaccia, anche lí aspetti qualcosa. Qualcosa che speri non si realizzi, ma lo aspetti lo stesso. O magari sotto sotto vuoi che si realizzi, attendi il disastro come una liberazione. Di solito l’eroe positivo è mosso dalla speranza, da una speranza bella e luminosa. E su questo non me la sento di dir nulla perché è facile da capire, anche se non è per niente facile da fare. È piú facile ritrarre in modo credibile e interessate un viscido individuo che ha desideri sordidi e contorti piuttosto che uno che ha nobili speranze. Non so perché, forse questa verità ci dice qualcosa di spiacevole sulla natura umana, ma è cosí. Quello che è inquietante non è tanto che ci sia un cosí gran numero di individui viscidi e contorti, quanto che a tutti noi (parlo degli abitanti del nostro tempo) piaccia piú ascoltare la loro storia che quella di un cavaliere senza macchia e senza paura. Perché all’individuo viscido e contorto ci crediamo e al cavaliere senza macchia e senza paura un po’ meno.



8.1

Suspense e sorpresa La suspense è una forma di attesa. Non tutte le attese sono suspense. Quando aspetti il treno non c’è suspense, a meno che da quel treno non dipenda la tua vita. Allora diciamo che la suspense è un treno da cui dipende la tua vita. La suspense è quando ti senti in bilico. La parola viene dal latino suspensus: sospeso, indeciso, inquieto. Un esercizio interessante può essere questo: prendi una storia che ti piace e chiediti in quali punti l’attesa è piú forte, per te. Per esempio nel La magica medicina di Roald Dahl il protagonista è un bambino con una nonna tremenda. Il poveretto decide di somministrare alla vegliarda un intruglio in cui ha versato qualunque cosa (la magica medicina, appunto) nella speranza ci cambiare la consanguinea. Spiando i miei figli ho notato che l’attesa è fortissima finché lui crea la magica medicina, e ancora piú forte quando deve farla bere alla nonna. Dopo il libro continua a essere bello ma l’attesa meno forte. Almeno per quanto riguarda la mia famiglia.

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L’attesa

Perle di saggezza

Alfred Hitchcock è uno dei maestri della suspense, quindi dell’attesa carica di minaccia. È un regista che ha girato capolavori della storia del cinema come La finestra sul cortile, Caccia al ladro (qua la minaccia è meno forte, ma non perdiamoci in dettagli), Vertigo, Psycho. Intervistato da un altro grande regista, François Truffaut, Hitchcock chiarí a meraviglia il punto: La differenza tra suspense e sorpresa è molto semplice e ne parlo molto spesso. Tuttavia nei film c’è spesso confusione tra queste due nozioni. Noi stiamo parlando, c’è forse una bomba sotto questo tavolo e la nostra conversazione è molto normale, non accade niente di speciale e tutt’a un tratto: boom, l’esplosione. Il pubblico è sorpreso, ma prima che lo diventi gli è stata mostrata una scena assolutamente normale, priva di interesse. Ora veniamo alla suspense. La bomba è sotto il tavolo e il pubblico lo sa, probabilmente perché ha visto l’anarchico che la stava posando. Il pubblico sa che la bomba esploderà all’una e sa che è l’una meno un quarto – c’è un orologio nella stanza–; la stessa conversazione insignificante diventa tutt’a un tratto molto interessante perché il pubblico partecipa alla scena. Gli verrebbe da dire ai personaggi sullo schermo: «Non dovreste parlare di cose cosí banali, c’è una bomba sotto il tavolo che sta per esplodere da un momento all’altro». Nel primo caso abbiamo offerto al pubblico quindici secondi di sorpresa al momento dell’esplosione. Nel secondo caso gli offriamo quindici minuti di suspense. F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock

Si potrebbe obiettare che Hitchcock è un regista e non uno scrittore. È un’obiezione che non prendo neanche in considerazione. Questo capitolo è dedicato all’attesa perché è un concetto piú complesso e raffinato rispetto a quello di sorpresa. Resta il fatto che, secondo me, la narrazione deve essere una sorpresa continua. Ma non nel senso di mettere continuamente bombe che esplodono sotto il tavolo. Parlo anche di piccole e continue sorprese che rinnovano l’esperienza. Come uno che avanza per la prima volta in canoa lungo una costa frastagliata: non è che deve incontrare piovre giganti che escono dall’acqua, la costa sarà nuova dopo ogni punta. Certo, se poi gli rubano la canoa, la sorpresa sarà maggiore. L’importanza della sorpresa (microsorpresa o macrosorpresa che sia) mi appare chiara quando guardo un film in compagnia di una persona che l’ha già visto. Alcuni, presi dall’entusiasmo, ti spiegano tutto in anticipo, con risultati disastrosi per la tua emozione. Ma non parlo solo di quelli che ti dicono chi è l’assassino o cose del genere. Questo è evidentemente un caso da denuncia (ci sono le molestie sessuali, si dovrebbe parlare anche delle molestie cinematografiche). Parlo anche di quelli che ti annunciano felici: «qui c’è una bella scena», oppure «vedrai, ora è divertente». Quando uno ti annuncia «vedrai è divertente» può essere in effetti la scena piú divertente del mondo ma ti divertirai molto meno di quanto ti saresti divertito in assenza dell’annuncio trionfale, o perlomeno perderai quell’effetto da «prima volta della canoa su una cosa frastagliata». Io in questo libro commetto spesso questo peccato. D’altra parte la natura del libro lo richiede. Spero nel tuo perdono. Perdonami alla fine, però, perché peccherò ancora.

L’attesa

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Perle di saggezza

Nel racconto Inverno in Abruzzo Natalia Ginzburg racconta di quando lei e il marito erano al confino in un paesino in Abruzzo, durante il fascismo. Qui il senso di speranza è molto forte: La fine dell’inverno svegliava in noi come un’irrequietudine. Forse qualcuno sarebbe venuto a trovarci: forse sarebbe finalmente accaduto qualcosa. Il nostro esilio doveva pur aver fine. Le vie che ci dividevano dal mondo parevano piú brevi: la posta arrivava piú spesso. Tu lettore sei tutto preso dall’attesa, dalla speranza del ritorno a casa. Poi il racconto si ferma e c’è una riflessione che aumenta l’attesa, anche se modifica la direzione (ti inquieta): C’è una certa monotona uniformità nei destini degli uomini. Le nostre esistenze si svolgono secondo leggi antiche ed immutabili, secondo una loro cadenza uniforme ed antica. I sogni non si avverano mai e non appena li vediamo spezzati, comprendiamo a un tratto che le gioie maggiori della nostra vita sono fuori della realtà. Non appena li vediamo spezzati, ci struggiamo di nostalgia per il tempo che fervevano in noi. La nostra sorte trascorre in questa vicenda di speranze e nostalgie. Poi riprende per cosí dire l’azione: Mio marito morí a Roma nelle carceri di Regina Coeli, pochi mesi dopo che avevamo lasciato il paese. Davanti all’orrore della sua morte solitaria, davanti alle angosciose alternative che precedettero la sua morte, io mi chiedo se questo è accaduto a noi, a noi che compravamo gli aranci da Girò e andavamo a passeggio nella neve. Allora io avevo fede in un avvenire facile e lieto, ricco di desideri appagati, di esperienze e di comuni imprese. Ma era quello il tempo migliore della mia vita e solo adesso che m’è sfuggito per sempre, solo adesso lo so.

Penso che non ci sia bisogno di molti commenti. Se rileggi il racconto (magari intero) potrai notare molte cose riguardo all'attesa (l’attesa della fine dell’esilio) e alla sorpresa (la morte del marito). Sono stato incerto se citare questo racconto. Un po’ perché in questa sede preferisco limitare i drammi, chiederti piccole sorprese. Ma anche perché mi sembrava di profanarlo, citando un racconto cosí drammatico solo per parlare di tecniche narrative e accostandolo implicitamente ad altri testi citati in questo libro, come Winnie Pooh. Poi ho pensato che chiunque capisca da solo che questo racconto è diverso da Winnie Pooh e che se lo cito è perché lo amo, se mi passi il verbo. Terribili sono le asciutte e improvvise parole con cui viene annunciata la morte del marito. Non so chi abbia detto che scrivere è distaccarsi dall’emozione, e non so chi abbia aggiunto che per distaccarsi dall’emozione bisogna prima esserci passati.

esercizio

Scrivi una scena due volte. La prima volta con l’effetto sorpresa. La seconda, piú delicata, cercando di infondervi suspense.

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8.2

L’attesa

La comicità e la paura

Perle di saggezza

Questi terrori sono di piú antica origine. Risalgono oltre il corpo e, senza il corpo, sarebbero esistiti ugualmente. C. Lamb, Witches and Other Night-Fears

Coloro che sognano di giorno sono esperti di molte cose che sfuggono a chi sogna solo di notte. E. A. Poe

Anche la paura è legata all’attesa e alla sorpresa. Ma direi soprattutto all’attesa: è quando attendi che il mostro salti fuori che hai piú paura. Almeno per me è cosí. Ne abbiamo già parlato, della paura, ma gli argomenti si rincorrono, quando sono vivi, o perlomeno non morti. Ti ho già consigliato di utilizzare tue paure autentiche e questo per due motivi: •  primo, quando ne scrivi poi ti fanno meno paura; •  secondo, il racconto viene meglio. Durante i corsi prima o poi capita di parlare di paura. Quando capita c’è sempre qualcuno che dice: io ho superato tutte le mie paure. Solitamente lo dice con un sorriso vagamente estatico. «Ah» faccio io compunto. Dentro di me penso: Oddio! Credo che una persona che dica di aver superato tutte le sue paure menta. Magari non vuole ingannare me, magari mente a se stesso. Comunque non è vero quello che dice. Se poi fosse vero sarebbe peggio. C’è un rapporto molto stretto tra paura, meraviglia, scoperta, conoscenza. Perle di saggezza

… paura e desiderio: paura per la minacciante e scura spilonca, desiderio per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa. Leonardo da Vinci

Se Leonardo non avesse avuto anche un brivido di paura non avrebbe scritto quel brano bellissimo. Avrebbe pensato: Toh, una grotta, vabbè e non avrebbe scritto niente. Alcune creature che ci fanno particolarmente paura probabilmente non esistono (per uno può essere lo zombie, per un altro il vampiro, eccetera, a seconda dei gusti). Ma il fatto che pur non esistendo ci facciano cosí paura dimostra che sono dotati di una potenza spaventosa.

L’attesa

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Uno dei piú grandi nemici dei mostri è il comico. Una risata può annientare un vampiro peggio della luce del sole. Quindi in linea di massima se vuoi scrivere una storia che fa paura non dovresti scrivere una storia che far ridere. Perlomeno non dovresti averne l’intenzione. Credo che tutto ciò abbia a che vedere con la creazione di un universo coerente. Sicuramente anche la comicità ha a che vedere con l’attesa. La comicità ribalta le attese. Che la comicità sia una materia incandescente e pericolosa, piú pericolosa di un mostro, lo dimostra il fatto che per lo piú i testi sulla comicità sono di una serietà mortale. Una serietà che fa a pugni con la materia di cui tratta e quindi appare fatalmente stupida. Ridicola senza volerlo. Per cui non ho mai affrontato l’argomento. Un giorno lo farò. esercizio

Prova a scrivere una scena spaventosa che poi sviluppandosi diventa comica e poi magari torna spaventosa (quindi tre scene concatenate).



8.3

Suspense sintattica Anche le frasi possono generare attesa, al di là della storia in cui sono inserite. Voglio dire, una cosa è scrivere: Fu nell’anno 2009, nel mese di agosto, mentre soffiava forte il maestrale sui nostri corpi seminudi, che mangiai un panino al prosciutto. Altra cosa è scrivere: Ho mangiato un panino sulla spiaggia. Nel secondo caso si arriva subito al dunque, nel primo la frase ha una suspense, nel senso che per capire dove va a parlare devi leggerla tutta. Prima di arrivare alla fine della frase non sai assolutamente nulla. Invece per quanto riguarda la seconda frase leggendo Ho mangiato un panino sei già parecchio avanti nella comprensione del testo, sulla spiaggia è solo una precisazione. Di solito la frase con suspense è una frase che non segue la struttura soggetto-verbooggetto.

Perle di saggezza

Per esempio questo è l’inizio de L’ombra venuta dal tempo di Howard P. Lovecraft (1890-1937, detto «il solitario di Providence», un creatore di mondi il cui sguardo cupo si allarga oltre i limiti del nostro pianeta e del nostro tempo): Dopo ventidue anni di incubo e terrore, salvo soltanto in virtú della disperata convinzione della fonte mitica di talune impressioni, sono restio a garantire la veridicità di ciò che credetti di scoprire nell’Australia Occidentale la notte tra il 17 e il 18 luglio del 1935.

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L’attesa

Questa frase è ricca di suspense, anche semplicemente dal punta di vista sintattico. Fino a sono restio non sai assolutamente chi sta per fare qualcosa: se un io, un lui, dei noi, una comitiva di loro, o insomma chi diavolo sta per entrare in scena. Prova a girare la frase per «il verso giusto» e noterai che alcuni effetti si perdono. Trovo che cominciare chiarendo in primissimo piano che lui è salvo soltanto in virtú della disperata convinzione della fonte mitica di talune impressioni sia molto allettante. Ti ho appena parlato della suspense sintattica (è una definizione inventata), cioè di quelle frasi che quando sei a metà, non hai ancora capito nulla. Trovo che sia un argomento affascinante e trascurato. Voglio però riportare un parere contrario di Schopenhauer (1788-1860, grande filosofo). Non ha nulla a che vedere con Lovecraft. Il suo punto di partenza è rappresentato dagli scrittori tedeschi della sua epoca, ma come tutti i grandi filosofi riesce ad allargare lo sguardo e a dire cose che ci interessano, o dovrebbero interessarci, sempre e ovunque. Perle di saggezza

Il vero carattere nazionale dei tedeschi è la pesantezza: essa risalta nel loro modo di camminare, nel loro modo di agire, nella loro lingua, nei loro discorsi e racconti, nel loro modo di intendere e di pensare, ma in modo del tutto particolare risalta nel loro stile letterario, nel piacere che essi traggono da periodi prolissi e intricati, a causa dei quali la memoria deve per cinque minuti applicarsi a imparare con pazienza la lezione che le è imposta, finché da ultimo, alla conclusione del periodo, l’intelletto tira le fila e gli enigmi sono risolti [...] Si industriano sempre di ottenere che l’espressione sia il piú possibile indecisa e indeterminata, di modo che tutto appare come avvolto dalla nebbia: scopo di ciò sembra essere in parte il voler lasciare un’uscita di sicurezza per ogni proposizione, in parte la boria che vuol sembrare di aver da dire piú di ciò che è stato pensato, in parte però al fondo di questa caratteristica vi è una reale ottusità e poltroneria [...] Con questi lunghi periodi, arricchiti di proposizioni secondarie incastrate l’una nell’altra e quasi ripieni di esse come oche arrostite di mele, periodi che non si possono affrontare senza prima aver guardato l’orologio, è impegnata prima di tutto la memoria mentre dovrebbero essere sollecitate piuttosto l’intelligenza e la capacità di giudizio, l’attività delle quali, proprio in questo modo, viene resa difficile e fiacca [...] Il lettore deve leggere per un po’ senza pensare nulla, ma piuttosto mandando tutto a memoria, nella speranza che la conclusione gli apra gli occhi ed egli possa dunque riuscire a pensare qualcosa [...] Solo dopo un certo tempo e una certa fatica si fa capire al lettore ciò che altrimenti avrebbe capito subito, di modo che sorge l’apparenza che chi scrive sia piú profondo e piú intelligente di chi legge. Anche questa cosa, dunque, appartiene agli artifici già ricordati, mediante i quali i mediocri inconsciamente e istintivamente si sforzano di nascondere la loro povertà di spirito e di risvegliare l’apparenza del contrario. La loro inventiva in queste cose è addirittura stupefacente. A. Schopenhauer, Sul mestiere dello scrittore e sullo stile

esercizio

Scrivi una frase con suspense sintattica (MA NON NOIOSA COME I CASI DI CUI PARLA SCHOPENHAUER).

L’attesa



8.4

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Vuoi diventare ricco? La maggior parte dei consigli di questo libro sono il frutto della mia esperienza personale. Lo considero un fatto positivo, anche se immagino che si potrebbe sostenere il contrario. Ora invece eccoti un consiglio «per sentito dire» dato che non ho mai provato a metterlo in pratica. Riguarda in particolar modo i grandi best seller d’azione e mistero, come Il codice da Vinci. Sono desolato ma devo confessarti di non aver mai scritto un grande best seller d’azione e mistero. Però gli esperti mi dicono che sono costruiti cosí: •  nel primo capitolo ci sono tre interrogativi che spingono il lettore ad andare avanti; • nel secondo capitolo uno dei tre interrogativi trova una risposta, ma è sostituito da un nuovo interrogativo; •  nel terzo capitolo un interrogativo è risolto e ne arriva uno nuovo. E cosí via; • alla fine tutti gli interrogativi sono risolti. E in questo modo il lettore non riesce a mollare la storia. Un unico interrogativo potrebbe non reggere alla distanza: potrebbe smettere di suscitare interesse a un certo punto del romanzo. Per esempio: se per cinquecento pagine ci interroghiamo su «chi ha rubato la pappa al gatto?» può darsi che a un certo punto ci prenda un certo senso di noia. Invece con la tecnica a cui ho accennato si raggiunge un giusto equilibrio tra appagamento e desiderio. Detto cosí sembra facile.

esercizio

Non ti posso proporre di scrivere un best seller d’azione e mistero, ma potresti provare a rivedere il tuo racconto alla luce di queste illuminanti indicazioni. Per esempio inserendo degli interrogativi che trovano delle risposte, o almeno uno. Il tuo racconto potrebbe diventare piú avvincente.

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Il finale

Il finale La stupidità è voler concludere. G. Flaubert, Dizionario dei luoghi comuni



9.1

Il finalone o la logica conclusione? Ci sono intere epopee sulla ricerca delle sorgenti misteriose di qualche fiume. Per esempio la ricerca delle sorgenti del Nilo. Ma non conosco epopee relative alla ricerca della foce. Lo stesso vale per una storia, che è un po’ come un fiume. Probabilmente il finale (la foce) ce l’hai già e non lo sai. Spesso il finale è già implicito nel testo. Ti suggerisco di tirare le fila, navigare verso la logica conclusione. Spesso chi scrivere ci tiene molto al finalone, a un finale che dica «hai visto, io sono il finale». È cosí preoccupato del finale che sotto sotto si disinteressa del resto, lo trascura, tira via. Con questo atteggiamento Dio non sarebbe mai riuscito a realizzare il Rio delle Amazzoni. Il finale è l’ultima cosa a cui pensare (in effetti questo è vero alla lettera). È il corso del fiume che importa. Semplicemente, rileggi quello che hai scritto. Può portarti a un finale nebbioso e sospeso, o verso un finale con un colpo di scena chiarificatore e chissà quanti altri finali. Ma penso che sia inutile sforzarsi di elencarli tutti appunto perché devi trovare il tuo, e il tuo è dettato da quello che hai già scritto, deve essere coerente con quello che hai già scritto. Direi che per la prima volta da quando hai iniziato a scrivere devi essere obbediente. Devi obbedire alle tue stesse parole. • È chiaro che se hai scritto un giallo, mettiamo, dovrai preoccuparti del fatto che tutto torni. E al tempo stesso devi continuare a giocare come il gatto col topo – il topo è il lettore con le sue aspettative – fino alla fine (vivissimi auguri!). • Mentre nel cosiddetto noir è meno importante che l’ingranaggio sia perfetto, conta piú l’atmosfera: ma allora il finale dovrà scaturire dall’atmosfera. • Se poi hai scritto la travagliata storia d’amore tra due adolescenti sarà ancora piú facile lasciare la storia un po’ in sospeso. Almeno apparentemente, perché poi qualsiasi fiume deve avere una sua sorgente, un suo corso e una sua foce. Altrimenti che fiume è? È vero che una storia non è necessariamente un fiume. C’è chi la paragona a un’esplosione che partendo da un piccolo punto (l’inizio) si irradia nel tempo e nello spazio. C’è chi la paragona a un albero che può avere anche molte diramazioni, ma è importante che tutti i rami appartengano all’albero e non ci siano oggetti estranei tipo bastoni penzolanti (magari l’autore si è affezionato a una pagina che ha scritto e la ficca a forza nella storia, cosí che quella pagina risulta appunto un bastone penzolante e non un ramo). C’è chi dice che la storia è come una freccia scoccata da un punto all’altro. C’è poi il caso di storie simili a arcipelaghi, come le Mille e una notte. Io sono affascinato dalle storie arcipelago ma in questa sede le lascerei stare: gli arcipelaghi

Il finale

9

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(anche se meno violenti delle esplosione e delle frecce) sono insidiosi e alcuni facilitano il naufragio, se non ci sono dei fari qua e là, cioè dei punti molto chiari nella narrazione, che illuminano il senso della disposizione delle isole. Per cui rimarrei sull’immagine del fiume. esercizio





Avevi già in mente il finale? Un finalone? O una logica conclusione? Aspetta un attimo prima di licenziare la tua storia.

9.2

Dato sospeso Ricorderai che abbiamo parlato del dato nascosto. Beh, almeno fingi di ricordarlo (questa finzione sarà essa stessa un dato nascosto).

Perle di saggezza

Riporto la fine del racconto di Carver Meccanica popolare, quello con i due che litigavano contendendosi il bambino. Anzi diciamo «quello con i due che litigano» perché nel tempo del racconto continua a succedere. Non entrava luce dalla finestra della cucina. Nella semioscurità lui con una mano cercò di allentare la stretta di lei e con l’altra afferrò per un braccio, sotto la spalla, il bambino che strillava. Lei sentí che le dita le cedevano. Sentí che il bambino si allontanava da lei. No! urlò nel momento in cui fu costretta a mollare la presa. Lo avrebbe tenuto lei, il bambino. Gli afferrò l’altro braccio. Lo prese per il polso e si buttò indietro. Ma lui non mollò. Sentí il bambino scivolargli via dalle mani e tirò a tutta forza. In questo modo la questione fu risolta.

Qui piú che un dato nascosto c’è un dato sospeso. (A parte che a essere sospeso è piú che altro il bambino). Evidentemente Carver vuole farci credere che il bambino venga diviso in due. Non so se tecnicamente sia possibile (e ti prego di non provarci!). Ma è chiaro che Carver con quel finale sospeso sa benissimo che noi lo pensiamo, che ci si affaccia alla mente (se non a tutti a molti) l’ipotesi dello smembramento infantile. Una volta durante un corso di scrittura creativa ho chiesto di continuare questo racconto. Per vedere come le persone avevano interpretato la storia. I pessimisti pensavano al bambino diviso in due, come in una moderna versione della storia di Salomone. Gli ottimisti che il bambino finisse nelle braccia della mamma. Poi ho registrato l’esistenza di un partito intermedio, secondo cui il bambino cade a terra. Una singola persona ha continuato il racconto in questo modo. Ambulanze, forze dell’ordine. In terra c’è il bambino che tiene in una mano il braccio della mamma e nell’altro il braccio del papà. Evidentemente era un bambino dotato di forza erculea che, innervosito da tanta confusione, ha tirato un po’ troppo. Un finale cosí non me lo aspettavo! esercizio

Scrivi il finale (o almeno uno dei finali possibili) della tua storia inserendo un dato sospeso.

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9.3

Il finale

Le conseguenze Il finale è una conseguenza del resto del libro. Trovo molto istruttivo il caso delle Streghe di Roald Dahl. (Cito spesso Roald Dahl perché mi piace molto e perché l’hanno letto quasi tutti). In questo romanzo il protagonista lotta contro le streghe e viene trasformato in un topo. Alla fine del libro lui e sua nonna hanno vinto una battaglia ma non la guerra. Il protagonista si ritrova topo e sua nonna umana. Sarebbe facile decidere di farlo tornare bambino. Invece il protagonista resta topo, perché non ci sono ragioni plausibili per farlo tornare bambino. E qui si vede come Dahl tiri le fila in modo rigoroso e verosimile.

Perle di saggezza

«Posso farti una domanda, nonna?». «Certo». «Quanto può vivere un topo?». «Ah!» disse lei. «Stavo giusto chiedendomi quando me l’avresti domandato». Tacque, continuando a fumare e a guardare la fiamma. «Insomma» insistei, «quanto viviamo, noi topi?». «Ho letto un libro sui topi. Sto cercando di documentarmi a fondo». «Perché non me lo dici, nonna?». «Se proprio vuoi saperlo, te lo dirò. Purtroppo non vivono a lungo». «Quanto?». «Un topo normale può vivere circa tre anni. Ma tu non sei un topo come gli altri; sei un bambino-topo. E questo cambia tutto». «E cioè? Quanto può vivere, secondo te, un bambino-topo?». «Senz’altro di piú». «Cioè quanto?». «Un bambino-topo dovrebbe vivere almeno tre volte di piú di un topo normale. Ossia nove anni». «Stupendo!» gridai. «è la cosa piú bella che abbia mai sentito». E qua il finale prosegue fino alla fine, come è nella sua natura. Non te lo posso riportare tutto ma ti suggerisco di leggerti l’intero libro e di andare a vedere come la fine assecondi con sincerità il movimento di tutto il testo, un po’ come una barca a vela segue il vento.

Concludendo, spesso quello che viene dopo è una conseguenza di quello che viene prima. Ma capita anche di cominciare a scrivere partendo dal finale. In tal caso quello che viene prima è una conseguenza di quello che viene dopo. Una specie di destino. esercizio

Scrivi il finale (o almeno uno dei finali possibili) della tua storia cercando di tirare le fila in modo rigoroso e verosimile (se vuoi puoi anche lasciare il dato sospeso dell’esercizio precedente).

Il finale



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Indugiare ed emozionarsi Ricordo di aver letto un brano di Konrad Lorenz, il grande naturalista, che spiegava l’origine delle sue scoperte. Nel brano Lorenz attribuisce molte sue scoperte al fatto che passava intere giornate steso sulla riva del Danubio a guardare le papere. Mi sembra che a un certo punto ipotizzi di avere un metabolismo simile a quello delle papere. Lui se ne stava lí, placido, con loro e le ha capite veramente, quelle papere. Quasi senza volerlo. Mentre altri studiosi, tutti presi dal desiderio di profitto (sia pure profitto scientifico) giravano affannosamente da un laboratorio all’altro (magari portandosi le papere, poverette). Senza vera emozione. Senza approdare a nulla. Konrad Lorenz invece stava fermo lí fino a diventare una grossa papera con la barba. È vero che non tutti quelli che di distendono in riva a un fiume fanno scoperte importanti. Ma volevo aggiungere qualcosa sulla necessità di indugiare e di emozionarsi. Un narratore non è come una guida turistica che descrive mille volte la stessa cosa annoiandosi. Un narratore è un esploratore che trova una sorgente e ne rimane vivamente colpito. Si china emozionato, tocca l’acqua luccicante nelle pozze ombrose, tra le felci. Si rialza. La segue. Appena la quantità d’acqua lo permette comincia a navigare (mettiamo che abbia una canoa, che non sia stato a Sant’Antioco). Via via che va avanti scopre un mondo di cui è il primo a stupirsi. Magari ha alcuni punti fermi: se lo aspettava di attraversare quella tal città a un certo punto, ma ci sono mille insenature che lo stupiscono. E diecimila incontri. A un certo punto si accorge che tutta quell’acqua lo ha portato vicino al mare. Oramai lo vede, il mare, in lontananza. Lo sente. Non può non sentirlo.

esercizio

Se sei arrivato fin qui, significa che hai concluso il tuo racconto. Sei riuscito a emozionarti? Hai scoperto qualcosa che non conoscevi? Rileggi ad alta voce e ascolta le parole del tuo testo come se fossero quelle di un estraneo. Che te ne pare?

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