Studi sulla canzone napoletana classica LIM
Studi sulla canzone napoletana classica € 40
a cura di Enrico Careri e Pasquale Scialò Libreria Musicale Italiana
In collaborazione con: Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa – Università degli Studi di Napoli Federico II
Con il patrocinio di: Provincia di Napoli
In copertina: Oscar Ricciardi, Vecchio suonatore di chitarra, olio su tela; Fondazione Bideri. © 2008 Libreria Musicale Italiana srl, via di Arsina 296/f, 55100 Lucca, P.O. Box 198
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978-88-7096-530-8
STUDI SULLA CANZONE NAPOLETANA CLASSICA
a cura di Enrico Careri Pasquale Scialò
Libreria Musicale Italiana
SOMMARIO
VII Presentazione IX
Introduzione di Pasquale Scialò FONTI E LINGUAGGI
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Pier Paolo De Martino – Mariadelaide Cuozzo In punta di penna e di matita: critica e iconografia della canzone napoletana nella ‘cultura delle riviste’
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Mario Franco Il cinema che canta. Il teatro e la canzone nel cinema napoletano dalle origini alla seconda guerra mondiale
107 Anita Pesce La canzone napoletana e il disco a 78 giri 147 Francesca Seller La canzone nell’editoria partenopea tra Otto e Novecento 157 Isabella Valente Sogno di una notte di fine estate. Pittori e scultori napoletani a servizio della canzone MATRICI 195 Raffaele Di Mauro Il caso Fenesta che lucive: enigma ‘quasi’ risolto 241 Simona Frasca I’m’arricordo ’e Napule di Enrico Caruso: per una genesi della popular music 257 Massimo Privitera «Carlo Mazza, Quagliarulo e soci». Le macchiette di Pisano e Cioffi
VI
297 Gianfranco Plenizio Lo core sperduto STRUMENTI 313 Carla Conti Amphion Thebas, Cantus Neapolim 379 Marialuisa Stazio Il futuro alle spalle. Canzone napoletana fin de siècle e industria culturale 431 Giovanni Vacca Canzone e mutazione urbanistica 449 Helga Sanità Piedigrotta e la Canzone. Packaging di un totem
Raffaele Di Mauro
IL CASO FENESTA CHE LUCIVE : ENIGMA ‘QUASI’ RISOLTO
Ci occupiamo di una delle più celebri canzoni napoletane, ovvero Fenesta che lucive, brano interpretato dai più importanti tenori e cantanti (da Caruso a Pavarotti, da Roberto Murolo a Fausto Cigliano), che ha dato il nome e l’argomento ad alcune pellicole cinematografiche e opere teatrali ed è stato citato sia nell’ambito della musica colta (nel poema sinfonico Vltava di Smetana, nella romanza di Mario Costa, Un organetto suona per la via) sia della cosidetta musica leggera (la canzone Nessuno mi può giudicare cantata da Caterina Caselli, secondo Lorenzo Pilat, uno degli autori, nasce proprio dall’idea melodica iniziale di Fenesta che lucive). Insomma un brano molto famoso sulla cui origine permangono ancora oggi moltissimi dubbi nonostante dell’argomento si siano occupati, come vedremo, alcuni dei più importanti studiosi di fine ’800 e del ’900. Cronologia delle prime versioni a stampa Chiunque si cimenti nello studio sulla genesi di Fenesta che lucive si renderà presto conto delle numerose inesattezze sulle date indicate dagli studiosi per le varie versioni della canzone, che spesso danno il ‘la’ a considerazioni prive di fondamento. Cerchiamo qui di indicare i dati cronologici esatti (almeno nella loro successione), avvalendoci soprattutto del prezioso contributo di Ottavio Tiby che sull’argomento ha effettuato una delle ricerche più rigorose 1 (incorrendo però anche lui in alcune imprecisioni come vedremo) di cui nessuno storico della canzone napoletana ha fatto fino a questo momento tesoro. 1843, 1ª versione ovvero versione Guglielmo Cottrau, ed. Girard e C. (anonima, in fa minore) È il 1843 l’anno esatto della prima versione stampata della canzone (intendiamo quella da noi conosciuta e cantata fino ad oggi) e non il 1841 come so1.
Cfr. OTTAVIO TIBY, Leggenda e realtà d’una canzone popolare, «Nuove Effemeridi, rassegna trimestrale di cultura», III (1990), n. 11, pp. 195-208. Si tratta della ristampa del saggio, recante lo stesso titolo, che era stato pubblicato in origine negli «Annali del Museo Pitrè», V– VII (1954-56), pp. 63-83.
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stiene Tiby o il 1842 come sostengono invece tutti gli altri.2 È infatti nel 1843, come risulta dall’avviso pubblicato sul Giornale del Regno delle due Sicilie,3 che presso la casa editrice musicale Girard e C. esce la raccolta 25 Nuove Canzoncine Nazionali Napoletane formanti seguito alla raccolta intitolata Passatempi musicali, 2ª parte, a cura di Guglielmo Cottrau, dov’è contenuta Fenesta che lucivi (è la n. 13). Questa raccolta era appunto il seguito, ovvero il secondo supplemento, della celeberrima raccolta Passatempi musicali il cui primo fascicolo era uscito invece nel 1824 (e non, come erroneamente si crede, nel 1825).4 Tiby indica come data di pubblicazione delle 25 Nuove canzoncine il mese di settembre dell’anno 1841 ma sulla base di due equivoci: 1) un avviso editoriale pubblicato nel settembre del 1841, ma questo si riferisce alle 24 Canzoncine nazionali napoletane, che sono però una scelta di alcune delle vecchie canzoncine che si trovavano nei Passatempi adattate per la voce di soprano o tenore, e non le 25 Nuove canzoncine nazionali napoletane che sono invece successive;5 2) un passo di una lettera del 1 ottobre 1841 inviata da Guglielmo alla sorella Lina Freppa in cui dice «per Donizetti…ti ho inviato cinque copie su carta da lettera delle mie ultime canzoni napoletane»6 ma riferendosi probabilmente o a quelle poi confluite nella raccolta Supplimento a’ Passatempi Musicali – 16 can2. 3.
4.
5.
6.
Tra gli altri cfr. ETTORE DE MURA, Enciclopedia della canzone napoletana, Il Torchio, Napoli 1969, vol. III, p. 143. Ecco l’avviso pubblicato in data 31 Ottobre 1843: dopo l’intestazione Novità musicali pubblicate recentemente dagli editori Girard e C. si legge tra le opere nuove pubblicate «25 nuove canzoncine nazionali in dialetto napoletano, queste 25 canzoncine popolari formano seguito alle 69 della raccolta intitolata Passatempi musicali 2ª parte, ed alle 16 del supplemento in tutto 110 sinora». Cfr. «Giornale del Regno delle due Sicilie», 1843, n. 239, 31 Ottobre. In un avviso del 10 Novembre 1824 «annunziando la pubblicazione del primo fascicolo dei passatempi musicali» (a nostro avviso stampato nell’ottobre di quello stesso anno) si invitavano «gli amatori del canto specialmente ad osservare questa raccolta» (cfr. «Giornale del Regno delle due Sicilie», 1824, n. 266, 10 Novembre). Ma vi riportiamo integralmente l’avviso pubblicato due giorni dopo sullo stesso giornale: «Passatempi musicali. Le associazioni per questa raccolta musicale, della quale si è reso conto nel n. 266 di questo giornale, si ricevono presso del sig. Giuseppe Girard editore di musica, strada Toledo n. 177. Ogni due mesi ne comparisce un fascicolo di 32 in 40 pagine, carta velina al prezzo per gli associati di un ducato ognuno» (Ibid, n. 268, 12 Novembre). Cfr. «Giornale del Regno delle due Sicilie», 1841, n. 202, 8 settembre. Vogliamo far notare che in questo stesso avviso erano pubblicizzate anche le 30 Canzoncine nazionali napoletane e siciliane, estratte dalla raccolta intitolata Passatempi musicali ed adattate per la voce di mezzosoprano o baritono, il cui numero di pubblicazione, come da noi rilevato da una copia conservata presso il conservatorio San Pietro a Maiella di Napoli, è il n. 5323: un’ulteriore prova che le 25 Nuove Canzoncine Nazionali Napoletane che hanno invece il n. 6282 (Fenesta che lucivi corrisponde al n. 6290) non possono essere che successive di qualche anno. Cfr. Lettres d’un mélomane pour servir de document à l’histoire musicale de Naples de 1829 à 1847, avec préface de F. Verdinois, Morano, Napoli 1885, pp. 77-8. Tiby viene probabilmente tratto in inganno dalla nota a piè di pagina nella quale si sostiene erroneamente che Fenesta che lucivi fa parte della raccolta a cui si riferisce Cottrau nella lettera alla sorella, ma in realtà Cottrau non parla di alcuna raccolta ma solo di composizioni, forse manoscritti.
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zoni più recenti7 oppure a manoscritti di sue composizioni che andranno poi a far parte delle 25 Nuove canzoncine ma che in quel momento non erano ancora state pubblicate. È solo quindi nel 1843 che veniva stampata per la prima volta la canzone che reca il titolo di Fenesta che lucivi e mo non luci: essa è nella tonalità di FA minore, è presentata anonima sia per il testo che per la musica e con l’indicazione canzone di Positano. Questa stessa versione fu ristampata due volte da Teodoro Cottrau (figlio di Guglielmo): la prima nella Collezione completa delle canzoncine nazionali napoletane8 verso il 1852,9 la seconda nel 1865 in Passatempi musicali – Raccolta completa delle canzoni napoletane composte da Guglielmo Cottrau.10 In queste due ristampe la canzone appare sempre col sottotitolo canzone 7.
Di questa raccolta pubblicata verso il 1842-1843, facevano parte anche due canzoni di Donizetti (La conocchia e Amor marinaro) e due tarantelle, una di Florimo (Ne vavò la chitarrella) l’altra della Malibran (No chiù lo guarracino) già pubblicate negli anni ’30 e anche la famosa Io te voglie bene assaie (con tre risposte) che era stata pubblicata anonima da Girard come canzone nuova nel 1840 (cfr. «Giornale del Regno delle due Sicilie », 1840, n. 172, 8 agosto) avvalorando quindi la tesi che sia, come sembra ormai certo, del 1839 e non del 1835 come a lungo si è creduto. Cfr. DE MURA, Enciclopedia della canzone napoletana, vol. I, pp. 158-161. 8. Di questa Collezione completa, pubblicata dallo Stabilimento Musicale Partenopeo, facevano parte ben 13 raccolte per un totale di 246 canzoncine che coprivano un arco temporale che andava più o meno dal 1824 al 1850-51. La prima raccolta era costituita dalle 68 canzoncine (44 pubblicate nel 1824-25 più altre 24 edite successivamente fino al 1829) contenute nei Passatempi musicali-2ª parte, 3ª edizione ristampate nel 1840 in tre fascicoli in seguito al grande successo di Io te voglio bene assaje (cfr. «Giornale del Regno delle due Sicilie », 1840, n. 172, 8 agosto). Vi erano poi ben cinque Supplementi a’ Passatempi pubblicati dal 1842-43 in poi (solo i primi tre a cura di G. Cottrau scomparso nel 1847, gli altri due con composizioni di Labriola, Biscardi, Rondinella e altri) più cinque raccolte di Francesco Florimo (Le montanine 1843, I canti della collina 1844, Le brezze marine 1845, Ischia e Sorrento 1848 e Le popolane 1850), una di Federico Ricci (Grida de’ venditori di Napoli 1844) e una di Nicola De Giosa (Album napoletano 1849). 9. Abbiamo indicato una data posteriore al 1852 perché è solo in quest’anno che le edizioni Girard e C. mutano il proprio nome in Stabilimento Musicale Partenopeo essendo oramai gestite principalmente da Teodoro Cottrau che ne diverrà unico proprietario a partire dal 1855. La data del 1852 è confermata da alcuni indizi: verso la fine del 1851 la denominazione è ancora Girard e C. (cfr. «Giornale del Regno delle due Sicilie», 1851, n. 190, 2 settembre), invece da un avviso del 1853 apprendiamo che l’inizio delle pubblicazioni della Gazzetta Musicale stampata dallo Stabilimento Musicale Partenopeo successore di B. Girard e C. risaliva al luglio del 1852 (cfr. «Giornale del Regno delle due Sicilie», 1853, n. 252, 19 novembre), di conseguenza è pensabile che il cambiamento sia avvenuto proprio in questo lasso temporale. Su questo vedi anche FRANCESCA SELLER-RICCARDO ALLORTO, Canti popolari e popolareschi nelle trascrizioni dell’ottocento, Ricordi, Milano 2001, p. 9. La conferma che la Collezione Completa (che sarà continuata da Teodoro anche nei decenni successivi) sia stata stampata verso il 1852 è data da un altro particolare: di essa fanno parte tutte le raccolte di canzoni popolari pubblicate da Florimo dal 1843 fino al 1851 ma non Le Serate di Capodimonte, pubblicate per l’anno 1853 dallo Stabilimento Musicale Partenopeo. 10. Questa raccolta, pubblicata dal Regio Stabilimento Musicale di T. Cottrau, contiene ben 113 canzoni (Fenesta che lucivi è la n. 77) pubblicate da Guglielmo Cottrau: molte, come noi crediamo, effettivamente composte da lui (Fenesta vascia, La festa di Piedigrotta, Aizzaie l’uoc-
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di Positano ma in entrambi i casi sia il testo che la musica vengono stavolta attribuiti a Guglielmo Cottrau. A questo punto bisogna evidenziare la totale infondatezza delle accuse rivolte sia da Di Giacomo, che aveva rimproverato Cottrau di aver pubblicato come «cosa sua» la canzone facendo una riduzione della musica che ‘pare’ gli fosse stata fornita da Luigi Ricci,11 sia da Vajro che addirittura dice: «il primo che avesse la faccia tosta di dirsi autore della musica di Fenesta ca lucive fu Guglielmo Cottrau».12 Semmai si può ‘accusare’ Teodoro di aver attribuito al padre (probabilmente per complesse ragioni legate alla tutela all’estero dei propri interessi editoriali13) la paternità di questa e altre canzoni popolari che Guglielmo aveva correttamente pubblicato come anonime. È quindi assolutamente da riabilitare la figura di Guglielmo Cottrau al quale non può essere certamente attribuito il ‘vizietto’ di dichiarare come sue canzoni popolari ma semmai il difetto opposto, di farci cioè credere popolari canzoni come Fenesta vascia e tante altre, che sono di sua composizione (almeno per quanto riguarda la musica) e di cui si attribuì la legittima paternità, e noi gli crediamo, in alcune lettere.14
11. 12. 13. 14.
chie ‘ncielo e molte altre) almeno per ciò che riguarda la parte musicale, altre solo trascritte ed elaborate (come la stessa Fenesta che lucivi oppure la famosa Michelemmà) e altre ancora attribuitegli impropriamente dal figlio Teodoro (tra queste Io te voglio bene assaje). Ovviamente è assai difficile stabilire con esattezza quali composizioni siano state raccolte dal popolo e poi elaborate e quali invece siano completamente opera del Cottrau. Nell’elenco delle 129 composizioni attribuitegli che appare in un volume biografico di Edoardo Cerillo, quelle «attinte alla fonte popolare» sono contrassegnate da un’asterisco e sono solo 15 (Fenesta che Lucivi reca anch’essa l’asterisco). Cfr. LYLIRCUS (pseudonimo di Edoardo Cerillo), Ricordi biografici napoletani dal 1820 al 1850, Guglielmo Cottrau, Marghieri, Napoli 1881 (2ª ediz.), pp. 52-6. Non cita nessuna fonte a sostegno di questa supposizione, ma ne riparleremo più avanti. Cfr. SALVATORE DI GIACOMO, “Fenesta ca lucive…”, in Napoli: figure e paesi, Newton Compton, Roma 1995 (prima in Celebrità napoletane, Trani 1896), p. 45. Cfr. MASSIMILIANO VAJRO, “Fenesta ca lucive”. Peripezie napoletane di un canto siciliano, R. Pironti e figli, Napoli 1949, pp. 9-10 (estratto dalla rivista «Folklore», IV, fasc. 1-2, aprile-settembre 1949). Lo stesso Guglielmo si era già reso conto di questo problema cercando una soluzione. Cfr. LYLIRCUS, Ricordi biografici napoletani dal 1820 al 1850, Guglielmo Cottrau, pp. 51-2 oppure Lettres d’un mélomane, pp. 64-5. Nella lettera alla sorella del 6 Maggio 1833 Guglielmo dice «Io sono non soltanto l’arrangiatore, l’unico trascrittore delle canzoni nazionali di Napoli, ma l’autore, come tu sai, di quelle che modestia a parte, sono più in voga, cioè Fenesta vascia, La festa di Piedigrotta, Aizaie l’uocchie ‘ncielo e venti altre…» (cfr. Lettres d’un mélomane, p. 19). Crediamo si riferisca alle 68 canzoncine contenute nei Passatempi-parte 2ª di cui, quindi, si attribuisce la paternità di almeno un terzo delle composizioni. In un’altra lettera del 9 Novembre 1836 dice «…ti invio la copia che ho appena fatto fare di 18 ariette napoletane composte da me (ad eccezione dei numeri 3 e 12) e che vorrei pubblicare quest’inverno con 5 o 6 che non sono ancora pronte… ne ho ancora altre in portafoglio» (ibid, p. 48). In questo caso si riferisce probabilmente ad alcuni brani che furono pubblicati nel primo Supplemento a’ Passatempi del 1842-43 e per la maggior parte alle 25 Nuove canzoncine che videro la luce soltanto nel 1843. Infine in una lettera dell’11 dicembre 1845 Cottrau dice «vi mando un quaderno di venti nuove canzoni napoletane… al di fuori di Luisella, Tiritomba, Trippole Trappole (arrangiate da Jules) e ‘O primm’ammore, tutte queste canzoni sono del mio sacco, che si impoverisce,
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1870 (circa), versione Teodoro Cottrau, ed. T. Cottrau (attribuita a G. Cottrau, in re minore) La canzone viene ripubblicata ancora da Teodoro Cottrau nella raccolta Eco del Vesuvio, Scelta di celebri canzoni napoletane,15 stavolta però il brano viene presentato in re minore, col titolo Fenesta che lucivi ma come canzone nell’album Capodimonte e attribuita (per la terza volta) versi e musica a Guglielmo Cottrau. Si conferma quindi che fu Teodoro ad attribuire la canzone al padre (morto nel 1847) e non ci stupisce il fatto che essa si ‘trasferisca’ da Positano a Capodimonte, scelta sicuramente dettata dalla linea editoriale della casa editrice che tendeva per fini commerciali a collegare canzoni popolari con luoghi noti di Napoli e provincia. È assai difficile stabilire con esattezza la data precisa di questa pubblicazione: in mancanza di elementi certi accogliamo qui l’opinione di Tiby che, in base alle sue ricerche, afferma che «la casa Teod. Cottrau, che discendeva dalla Girard era, sul finire del 1861, sul n. d’ed. 13.600, nel Marzo 1866 sul 14.500», deducendo da ciò che il n.16.287 (al quale corrisponde Fenesta che lucivi) «debba ritenersi posteriore al 1870».16 1877, versione De Meglio, ed. Ricordi (anonima, fa minore) Questa versione di Fenesta che lucivi uscì nella raccolta Eco di Napoli: 100 celebri canzoni popolari napoletane per canto e pianoforte/raccolte dal maestro Vincenzo De Meglio ovvero nel Vol.1: 50 Celebri canzoni popolari per canto e pianoforte pubblicato nel 1877 dalla Ricordi cui fece seguito, nel 1882, 17 un secondo volume con altri 50 brani. Quest’opera è stata poi più volte ristampata in tre volumi (con complessivamente 150 brani) invece dei due originari. La versione De Meglio riproduce quasi identica (c’è solo qualche piccolissima variante nell’accompagnamento armonico soprattutto nell’introduzione) la versione Guglielmo Cottrau del 1843, ritorna quindi nella tonalità di fa minore e ‘ridiventa’ anonima sia per il testo che per la musica, a conferma del fatto che fu esclusivamente Teodoro ad attribuire la canzone al padre e non altri.
non lo nascondo, con l’età» (ibid., p. 89). Si riferisce in questo caso sicuramente al 3˚ Supplemento ai Passatempi composto appunto da 20 canzoni e pubblicato proprio nel 1845 (cfr. «Giornale del Regno delle due Sicilie», 1845, n. 282, 24 dicembre). Di quest’ultima raccolta facevano parte, oltre alle quattro canzoni citate nella lettera, brani come Don Ciccio alla fanfarra, La marenarella, Carmenè! sto tinto ccà e molte altre di cui, quindi, Cottrau si attribuisce la paternità quantomeno dell’arrangiamento. 15. Si tratta di una raccolta divisa in 16 album e dal catalogo delle edizioni di T. Cottrau si apprende che si trattava di una «collezione fatta pe’ forestieri colla versione italiana in quasi tutte le canzoni». Cfr. Edizioni Musicali T. Cottrau, Stabilimento T. Cottrau, Napoli s.d., p. 32. 16. Cfr. TIBY, Leggenda e realtà d’una canzone popolare, p. 200, nota 17. 17. Le date del 1877 e del 1882 qui indicate sono quelle attribuite alle copie dei due volumi di De Meglio conservati presso la Biblioteca del Conservatorio G. Verdi di Milano.
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1892 (dopo il), versione Longo, ed. Bideri (attribuita a Vincenzo Bellini, in mi minore) È questa, a nostro avviso, l’ultima versione importante della canzone, anche perchè per la prima volta essa viene attribuita a Bellini dando così corpo alla leggenda di cui ci occuperemo dopo. Il brano qui reca il seguente titolo: Fenesta che lucive! Canzone antica napoletana del divo Maestro Vincenzo Bellini, edita dalla casa editrice Bideri di Napoli (numero di catalogo 4200), trascrizione del maestro Achille Longo. Anche in questo caso è assai difficile risalire all’anno della prima pubblicazione: Tiby indica la data del 1911 ottenuta tramite «cortese informazione della Casa Bideri» ma a noi risulta anche un’altra pubblicazione precedente nella biblioteca musicale de «La Tavola Rotonda» e risalente a una data sicuramente posteriore al 1892.18 Dal punto di vista musicale la versione Longo rispetto alle versioni precedenti presenta alcune differenze avendo un’introduzione e un accompagnamento armonico assai diversi ed alcune piccole variazioni anche nella melodia. Fin qui le versioni diciamo più significative, cui va aggiunta un’altra stampa di Fenesta che lucivi e mo non luci pubblicata dall’editore Clausetti e C.19 che riproduce esattamente la versione Guglielmo Cottrau in fa minore e anonima. Anche in questo caso non abbiamo la data della pubblicazione, ma secondo quanto abbiamo potuto rilevare da una copia conservata presso la biblioteca del Conservatorio di Napoli essa viene attribuita agli anni 1850-1851. Dobbiamo a questo punto far notare che per tutte le versioni fin qui ricordate (a partire da quella del 1843) il titolo è Fenesta che lucivi e mo non luci o semplicemente Fenesta che lucivi (ad eccezione della versione Longo denominata Fenesta che lucive) e il testo su cui si cantava la canzone era, con piccolissime varianti ortografiche, costituito dalle due sestine seguenti: Fenesta che lucivi e mo non luci, Sign’è ca nenna mia stace ammalata. S’affaccia la sorella e me lo dice: “Nennella toja è morta e s’è atterrata Chiagneva sempe ca dormeva sola, 18. È infatti solo a partire dal 1892 che l’editore Bideri iniziò a pubblicare canzoni napoletane nella quarta di copertina del suo giornale «La Tavola Rotonda», settimanale artistico e letterario che aveva visto la luce nel 1891 ma che inizialmente pubblicò solo romanze (cfr. MARIA LUISA STAZIO, Osolemio. La canzone napoletana – 1880/1914, Bulzoni, Roma 1991, pp. 109-112). Una copia della partitura di Fenesta che lucive pubblicata su «La Tavola Rotonda» è conservata presso la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Roma. 19. La canzone (pubblicata col n. 401) faceva parte della settima delle dieci raccolte della Collezione completa di canzoni napoletane pubblicate da Clausetti e C. fino al 1860. Cfr. CLAUSETTI, Catalogo delle opere pubblicate dallo Stabilimento Musicale dei fratelli Pietro e Lorenzo Clausetti, Napoli 1860, pp. 13-15. Vajro ci informa che Clausetti pubblicò di nuovo il brano, nella raccolta Canzoni, sempre anonimo ma nella tonalità di la minore (cfr. VAJRO, “Fenesta ca lucive”. Peripezie napoletane di un canto siciliano, p. 9).
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Mo dorme co li muorte accompagnata!” “Va nella chiesa e scuopre lo tavuto, Vide nennella toja comm’è tornata Da chella vocca ca n’asceano sciure Mo n’esceno li vierme, oh che piatate!” “Zi Parrochiano mio, abbice cure Na lampa sempe tienece allumata!”
Molto spesso è stata indicata erroneamente (Di Giacomo, Vajro) come prima data di apparizione del testo di Fenesta che lucive il 1854, anno in cui sarebbe stato pubblicato da Mariano Paolella20 un foglio volante stampato da De Pasquale, che riproduceva le seguenti cinque sestine:21 Fenesta che lucive e mo non luce, Fuorze nennella mia stace malata?… S’affaccia la sorella e che mme dice? “Nennella toja è morta e s’è atterrata “Chiagneva sempe ca dormeva sola, “Mo dorme co li muorte accompagnata! Cara sorella mia, che mme dicite? Cara sorella mia, che me contate?… “Guardate ‘ncielo, si non me credite, “Purzi li stelle stanno appassionate “È morta nenna vosta ah si chiagnite, “Ca quanto v’aggie ditto è beretate! “Iate a la Cchiesia e la vedite pure; “Aprite lu tavuto e che trovate? “Da chella vocca ca n’asceano sciure 20. Mariano Paolella appartiene (insieme ad altri come Totonno Tasso, Giovanni Chiovetiello ecc.) a quelli che la Stazio ha definito ‘poeti popolareggianti’ appartenenti ai ceti popolari o artigiani i quali «prendevano spunto da canzonette già circolanti per via orale o stampata… e proponevano i frutti delle loro rielaborazioni ai numerosi tipografi napoletani», distinti dai ‘poeti popolareschi’ appartenenti invece a ceti medio-alti (uno fra tutti, Raffaele Sacco) che inizialmente coltivarono le loro doti poetiche (si trattava per lo più di improvvisatori) per far ‘bella figura’ in società e che solo in un secondo momento stabilirono contatti con le tipografie. Cfr. STAZIO, Osolemio. La canzone napoletana–1880/1914, pp. 36-42. 21. Al testo che recava il titolo Fenesta che lucive e mo non luce (da notare la lieve differenza della vocale finale col Fenesta che lucivi e mo non luci della versione del 1843), faceva seguito la seguente nota dell’autore «N.B. Poche parole canticchiate dal popolo, massime dalle donniciuole, han dato argomento all’autore di scrivere la presente piccola elegia lirica. Le suaccennate parole popolari sono tanto antiche, che moltissimi pretendono risalir esse all’epoca di Mas’Aniello: nientemeno due secoli or sono!!» e con la firma M.P.
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RAFFAELE DI MAURO “Mo n’esceno li vierme, o che piatate! Zi Parrochiano mio, tienece cure Li llampe sempe tienence allummate. Ah nenna mia si' morta, poverella! Chill’ uocchie tiene chiuse e non mme guarda Ma ancora a ll’uoccbie mieie tu pare bella Ca sempe t’aggio amato e mo cchiù assaie! Potesse a lo mmacaro mori priesto, E m’atterrasse a lato a tte nennella! Fenesta cara addio; rieste nzerrata Ca nenna mia mo non se po affacciare, Io cchiù non passarraggio da sta strata, Vaco a lu Camposanto a passiare ‘Nzino a lo juorno che la morta ‘ngrata Mme face nenna mia ire a trovare.
Ma a questo punto le ipotesi sono due: – se è vero come sostiene Di Giacomo che il foglio volante risale al 1854 esso è da ritenersi sicuramente successivo alla versione Cottrau del 1843 la cui partitura riportava come testo le due sestine sopra citate che corrispondono alla prima e alla terza del testo di Paolella con qualche variante.22 – se invece il foglio volante che lo riproduce, come sostiene Leydi, risale al 1840 circa,23 allora è possibile che esso sia precedente alla versione Cottrau anche se non è detto che quest’ultimo l’abbia avuta sotto mano e se ne sia ser22. Le più evidenti «sign’è ca nenna mia stace ammalata» invece di «fuorze nennella mia stace malata» e «Va nella chiesa e scopre lo tavuto, vide nennella toja comm’è tornata» invece di «Iate a la cchiesia e la vedite pure, aprite lu tavuto e che trovate?». 23. Cfr. ROBERTO LEYDI, Canti e musiche popolari. Le tradizioni popolari in Italia, Electa, Milano 1990, p. 147. Purtroppo Leydi non ci dice in base a quale ragionamento indica tale data. Bisogna poi dire che il testo del foglio volante da lui riprodotto (da noi ricopiato sopra) è leggermente diverso da quello riportato da Di Giacomo che lo trascrisse, come lui dice, avendolo «sottocchi». Esso presenta piccole variazioni ortografiche oltre che una variazione molto evidente che riguarda i primi due endecasillabi: «Fenesta che lucive e mo non luce, fuorze nennella mia stace malata?» della copia riprodotta da Leydi diventa nella versione trascritta dal Di Giacomo «Fenesta ca lucive e mo non luce, segno è ca nenna mia stace malata». Purtroppo del foglio volante ripreso dal Di Giacomo non abbiamo una riproduzione ma, volendo dare per buono il fatto che egli l’abbia trascritto fedelmente, non ci sembra da escludere l’ipotesi che stiamo parlando di due stampe diverse, ovvero che quella riprodotta da Leydi sia la prima versione (che non a caso è senza alcuna indicazione tipografica), mentre invece quella citata da Di Giacomo sia una stampa successiva (si spiegherebbe così l’indicazione del tipografo De Pasquale e della data del 1854). Se il foglio volante di Fenesta che lucive risalisse veramente al 1840 circa, come sostiene Leydi, bisogna considerare anche l’ipotesi che l’autore non sia Mariano Paolella visto che questi era nato nel 1835 (cfr. DE MURA, Enciclopedia della canzone napoletana, vol. I, p. 133) e che quindi le iniziali «M. P.» siano da riferirsi ad un’altra persona.
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vito per la sua trascrizione che è, a nostro avviso, più credibile sia stata originata dall’ascolto diretto della canzone, avvenuto magari sul molo di Napoli24 per bocca di un cantastorie o viggianese. I dubbi al riguardo permangono ma l’unica cosa certa è che la canzone è stata cantata quasi sempre col testo delle due sestine della versione Cottrau e solo in rari casi (Enrico Caruso, Roberto Murolo, Luciano Pavarotti) con un testo ‘ibrido’ composto dalla prima sestina della versione Cottrau e l’ultima del foglio volante di Paolella («Fenesta cara addio…»). C’è da dire che se come Paolella afferma le «parole canticchiate dal popolo» gli hanno dato lo spunto per scrivere una «piccola elegia lirica», egli abbia in qualche modo rielaborato i versi ascoltati aggiungendo anche qualcosa di suo. Secondo Di Giacomo le ultime due sestine sarebbero completamente opera di Paolella ma, a nostro avviso, egli ha solo rielaborato alcuni temi comunque presenti nella versione popolare (ne daremo delle prove più avanti), aggiungendo forse qualche verso suo solo per accentuare il tono sentimentale (soprattutto nella quinta sestina) che si sostituisce per un momento al tono magico-simbolico che pervade invece le altre sestine. Leggenda n. 1: l’attribuzione a Vincenzo Bellini Il primo studioso che tira in ballo Bellini a proposito di Fenesta che lucive è Michele Scherillo in un brevissimo saggio del 1885.25 Scherillo, parlando del rapporto a suo parere indubbio tra Bellini e la musica popolare, si limita a indicare come esempio una frase musicale tratta dalla scena finale («Ah non credea mirarti») della Sonnambula e specificamente quella su cui vengono cantate le parole «Più non reggo a tanto duolo» in cui, a suo avviso, si rinviene una traccia d’imitazione popolare di Fenesta che lucive nello specifico della seconda parte «propriamente alle parole chiagneva sempre ca dormeva sola, mo dorme co’ li muorte accompagnata!».26 Subito dopo si occupa della questione il ‘solito’ Di Giacomo che nel 1896 sostiene che Fenesta che lucive ha due mosse melodiche: la prima che richiama alla mente passaggi melodici di Rossini (la preghiera «Dal tuo stellato soglio» e il duetto «Non merto più consiglio» dal Mosè e l’aria «Assisa a piè d’un salice» dall’Otello) e la seconda che richiama invece Bellini (l’aria finale della Sonnambula indicata anche da Scherillo). A questo punto Di Giacomo pone il dilemma: «si sono ispirati Rossini e Bellini alla melodia […] di Fenesta ca lucive, 24. Il molo di Napoli era in quegli anni il centro della musica popolare cittadina in cui pullulavano diverse figure: cantastorie, improvvisatori, cantori girovaghi come i viggianesi ecc. Cfr. CARLO AUGUSTO MAYER, Vita popolare a Napoli nell’età romantica, traduzione dal tedesco di Lidia Croce, Laterza, Bari 1948, pp. 144-9, 311-9. 25. Cfr. MICHELE SCHERILLO, Bellini e la musica popolare, in «Giambattista Basile», III, n. 4, (1885). Questo saggio è stato riproposto anche in «Nuove Effemeridi, rassegna trimestrale di cultura», III, n. 11, (1990), op. cit., pp. 189-90. 26. Ibid., p. 189.
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o la melodia che noi conosciamo […] si è modellata sulle note indimenticabili?».27 Come abbiamo visto sia Scherillo che Di Giacomo tirano in ballo il nome di Bellini ma senza mai sostenere che sia lui l’autore di Fenesta che lucive; eppure è proprio in questo periodo, verso la fine dell’800, che appare l’edizione Bideri della canzone. È proprio questa versione a dare ‘ufficialità’ alla leggenda indicando come autore della musica il «divo maestro Vincenzo Bellini». La partitura in questione viene poi ripresa da Molinaro del Chiaro nel 1916, sempre attribuita a Bellini, e così la leggenda prende piede. Successivamente altri studiosi riprendono la questione: ad esempio nel 1920 Giulio Fara ripropone sostanzialmente la tesi di Di Giacomo;28 è poi Caravaglios a sostenere che erano stati semmai Rossini e Bellini ad attingere, seppur ‘inconsciamente’, alla melodia popolare di Fenesta che lucive.29 Infine è Vajro ad occuparsi nel 1949 della vexata quaestio sostenendo che probabilmente Bellini trasportò inconsapevolmente le note della canzone (ascoltate in Sicilia attraverso la storia della Baronessa di Carini, di cui ci occuperemo dopo) nell’aria della Sonnambula «Ah, non credea mirarti» dove a suo parere «si rinviene intera l’ossatura ed anche i particolari di Fenesta ca lucive».30 È a questo punto che arriva negli anni ’50 l’autorevole contributo di Tiby che fa un po’ di chiarezza sull’argomento. Innanzitutto Tiby, analizzando le opere dei biografi ottocenteschi di Bellini,31 rileva che nessuno riporta l’ipotesi che egli sia l’autore della celebre canzone e bisogna attendere il 1934 prima che qualcuno ne parli.32 27. Cfr. DI GIACOMO, “Fenesta ca lucive…”, p. 45. La posizione di Di Giacomo viene ripresa nel 1907 anche da MARIA BALLANTI, La canzone napoletana, Melfi & Joele, Napoli 1907, p. 72. 28. Ecco il passo di Fara: «…Fenesta ch’alucive su cui tanto si scrisse per attribuirla all’uno od all’altro musicista e nella quale lo spunto che pare tolto alla preghiera del Mosè di Rossini va a morire e perdersi nella dolce melodia belliniana della Sonnambula» (cfr. GIULIO FARA, L’anima musicale in Italia: la canzone del popolo, Ausonia, Roma 1920, p. 152). Fara riporta in appendice (es. n. 56) al proprio libro, nella sezione Campania, la melodia di Fenesta che lucive nella tonalità di fa minore senza alcuna introduzione e alcun accompagnamento armonico. 29. Cfr. CESARE CARAVAGLIOS, Il folklore musicale in Italia, Rispoli, Napoli 1936, pp. 92-93. 30. Cfr. VAJRO, “Fenesta ca lucive”.Peripezie napoletane di un canto siciliano, p. 13. 31. Cfr. FILIPPO CICCONETTI, Vita di Vincenzo Bellini, Tip. F. Alberghetti e C., Prato 1859; ANTONINO AMORE, Vincenzo Bellini: vita, studi e ricerche, N. Giannotta, Catania 1894. Anche Scherillo (il primo a tirare in ballo il nome di Bellini) non accennò mai all’ipotesi che Fenesta che lucive fosse stata composta dal musicista catanese nè nel suo volume biografico e nemmeno nell’Album Bellini uscito nel 1886, a cura sua e di Francesco Florimo, in occasione dell’inaugurazione del monumento napoletano dedicato all’operista siciliano. Cfr. MICHELE SCHERILLO, Vincenzo Bellini: note aneddotiche e critiche, A. Gustavo Morelli, Ancona 1882 e Album-Bellini, a cura di F. Florimo e M. Scherillo A. Tocco e C., Napoli 1886. In quest’ultimo volume venivano riportati diversi pensieri di alcuni dei più grandi artisti e musicisti dell’epoca che omaggiavano la figura di Bellini. Nessuno di loro, e ciò è sintomatico, accenna a Fenesta che lucive. 32. È questo infatti l’anno in cui Luisa Cambi nella sua biografia di Bellini riporta le seguenti osservazioni: «Una lunga tradizione popolare lega il nome del giovane artista siciliano a quello di Nennella di Fenesta ca lucive. Questa canzone, attribuita a Bellini, è belliniana: per il suo dolore canoro, per la sua cadenza melodica. Tuttavia — se pure non è di Bellini … il richia-
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Poi lo stesso Tiby analizza a fondo, mettendone a confronto le due melodie, Fenesta che lucive e «Ah, non credea mirarti» (trasportando la canzone nella stessa tonalità dell’aria, ovvero la minore), dimostrando la sostanziale diversità delle due33 e smentendo così in modo netto la tesi di Vajro che nell’aria della Sonnambula rinveniva «l’intera ossatura» della canzone. Tiby accetta come unica somiglianza (confermando l’ipotesi Scherillo) quella tra una frase musicale dell’aria («Più non reggo a tanto duolo! Che un giorno, un giorno durò») e una della canzone («Chiagneva sempe ca dormeva sola, mo dorme co li muorte accompagnata»). Riportiamo le due parti melodiche messe a confronto da Tiby:
A nostro avviso più che di ‘sostanziale identità’, come dice Tiby, a parte che per le prime due battute, si può parlare solo appunto di una somiglianza, considerando anche che l’aria è in 4/4 mentre la canzone è in 12/8 e che a livello testuale nell’aria si cantano due ottonari mentre nella canzone due endecasillabi. Tiby ci fa poi giustamente notare che Franceso Florimo, che visse pienamente l’ambiente napoletano all’epoca di Bellini, del quale fu amico devoto oltre che grande ammiratore, non accennò mai nelle sue opere 34 all’ipotesi che il catanese fosse l’autore della famosa Fenesta che lucive e ci segnala un ulteriore prezioso indizio che sembra lasciar spazio a pochi dubbi: Florimo pubblica nel mo evidente a un tema della Sonnambula, e forse anche, nel preludio, al preludio di una celebre aria dei Puritani, induce a credere che la canzone sia stata scritta da qualcuno che non seppe solo imitarlo, ma veramente immedesimarsi in lui» (cfr. LUISA CAMBI, Bellini, la vita, Mondadori, Milano 1934, p. 21). La Cambi non specifica né a quale preludio di quale aria dei Puritani si riferisce e nemmeno a quale introduzione di Fenesta che lucive (ricordiamo che ce ne sono due abbastanza diverse: quella della versione Guglielmo Cottrau, ripresa da Teodoro e da De Meglio, e quella della versione Longo), ma al di là di questo Tiby fa giustamente notare che le canzoni popolari non nascono mai con un preludio strumentale, il quale viene di solito aggiunto dal trascrittore (cfr. TIBY, Leggenda e realtà d’una canzone popolare, p. 196). 33. Ibid., pp. 198-9. 34. Cfr. FRANCESCO FLORIMO, Cenno storico sulla Scuola musicale di Napoli, Lorenzo Rocco, Napoli 1869-1871; FRANCESCO FLORIMO , La scuola musicale di Napoli e i suoi conservatori, Morano, Napoli 1880-1882 (4 volumi) e FRANCESCO FLORIMO , Bellini, Memorie e lettere, G. Barbera, Firenze 1882.
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1844,35 quindi poco dopo la 25 Nuove canzoncine,36 sempre presso la Girard, la raccolta Le Montanine. Scelta di canti popolari napoletani nella quale appare il brano La morta37 che ha lo stesso testo di Fenesta che lucive diviso però in quartine di endecasillabi e non in sestine:38 Fenesta che lucive e mmo non luce Segno ca Nenna mia stace malata. S’affaccia la sorella e mme lo ddice: “Nennella toja è morta e s’è atterrata “Vaie alla chiesa e truove lo tavuto. Vide Nennella toja comm’è tornata; Tu mme dicive ca dormeva sola, Mo dorme co li muorte accompagnata”. Chella vocchella rossa comm’a rrosa Mmo vence la vammacia de la ‘nzerra… Vorria morì pur io, p’essere almeno Si no vive, abbracciate sotto terra. 35. Cfr. «Giornale del Regno delle due Sicilie», 1844, n. 31, 10 febbraio. La raccolta in realtà costituisce una «strenna musicale pel 1844» ed è quindi assai probabile che sia stata stampata verso la fine del 1843. Era allora assai diffusa la pratica di pubblicare delle raccolte in vista dell’arrivo del nuovo anno e lo stesso Florimo negli anni successivi pubblicò, sempre presso la Girard, altre raccolte di «canzoni e ballate napolitane» come strenne: «I canti della collina, strenna musicale pel 1845, anno 2˚», «Le brezze marine, strenna musicale pel 1846, anno 3˚», «Ischia e Sorrento strenna musicale pel 1849, anno 5», «Le popolane, strenna musicale pel 1851» e «Le serate di Capodimonte, strenna musicale 1853» (quest’ultima pubblicata dallo Stabilimento Musicale Partenopeo). Oltre a queste sei raccolte qui ricordate, secondo quanto si apprende anche dal catalogo delle Edizioni T. Cottrau, Florimo pubblicò altri due album di canzoni popolari: Le Napolitane del 1853-54 e Canti del Golfo del 1854-55. Nel catalogo sopra citato gli otto album (con complessivi 94 brani) di Celebri canzoni popolari di Francesco Florimo sono riuniti in una collezione completa chiamata Eco di Napoli (lo stesso titolo usato da De Meglio) e due di esse appaiono con una denominazione diversa (cambiamento forse avvenuto in sede di ristampa): la raccolta Ischia e Sorrento prende il nome di Serenate di S. Elmo e Le serate di Capodimonte diventano Le notti di Napoli (cfr. Edizioni Musicali T. Cottrau, p. 31). 36. È pensabile che le 25 Nuove canzoncine di Cottrau precedano Le montanine di Florimo soltanto di qualche mese così come si può intuire dalla vicinanza dei numeri editoriali delle due raccolte: n. 6282 per la prima e n. 6340 per la seconda. 37. Di questo brano è conservato anche il manoscritto presso il conservatorio di Napoli dove è possibile vedere inoltre la partitura a stampa di un altro brano (segnalatoci da Vajro) dal titolo La morta n. 4, facente parte della raccolta Usi e costumi napoletani descritti e messi in musica dal maestro Camillo Paturzo. Il testo, con le sue tematiche macabre, è probabilmente di origine popolare (seppure Paturzo se ne proclami l’autore) ed è assai vicino come temi a Fenesta che lucive; la musica, invece, è credibilmente opera originale dello stesso Paturzo ed è comunque assai diversa dalla nostra canzone. Su Camillo Paturzo si veda DE MURA, Enciclopedia della canzone napoletana, vol. I, p. 330. 38. Cfr. TIBY, Leggenda e realtà d’una canzone popolare, pp. 195 e 201.
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Come possiamo facilmente vedere le prime due quartine sono pressocchè identiche (a parte lievi varianti ortografiche) alle due sestine della versione Cottrau del 1843 (mancano per ognuna gli ultimi due endecasillabi: «Chiagneva sempe…» e «Zi parrocchiano mio…») mentre l’ultima quartina è completamente nuova anche se gli ultimi due endecasillabi sembrano riprendere il tema dell’abbraccio con la propria ‘nennella’ attraverso la morte che ritroviamo forse rielaborati negli ultimi due endecasillabi del foglio volante di Paolella. Ma la vera novità de La Morta è un’altra e cioè che essa ha, rispetto alla Fenesta che lucive che conosciamo, una melodia assai diversa composta da quattro frasi differenti (quindi una struttura ABCD). Vi proponiamo le prime due frasi (AB) riprese da Tiby:
Ora non possiamo esimerci dalle seguenti considerazioni: – se la musica de La Morta è creazione del Florimo stesso, come ipotizza Tiby, ciò smentirebbe ulteriormente la tesi che sia stato Bellini a comporla: avrebbe mai potuto il Florimo mettere delle note diverse sotto una composizione se avesse minimamente ‘sospettato’ che lo stesso brano era stato già musicato da colui che era il suo idolo? – se invece, come noi pensiamo, la melodia de La morta altro non è che una trascrizione seguita probabilmente da una rielaborazione (le frasi CD ci sembrano un’elaborazione colta delle prime due) del Florimo di una diversa interpretazione di Fenesta che lucive eseguita a livello popolare, ciò comunque negherebbe l’ipotesi Bellini. Alla luce di quanto emerso ci sentiamo di dire che la tesi che sia Bellini il compositore di Fenesta che lucive non ha alcun serio fondamento. Essa è, a nostro avviso, solo frutto di una leggenda metropolitana che a un certo punto trovò l’avallo ‘ufficiale’ nell’edizione Bideri; da quel momento in poi molti si sentirono autorizzati a indicare come vera la leggenda o comunque ad accettarla,39 non preoccupandosi di verificare se avesse o meno qualche consistenza.
39. Tra questi anche Carpitella: cfr. DIEGO CARPITELLA, Le false ideologie sul folclore musicale, in AA.VV., La musica in Italia: l’ideologia, la cultura, le vicende del jazz, del rock, del pop, della canzonetta, della musica popolare dal dopoguerra ad oggi, Savelli, Roma 1978, p. 232.
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Leggenda n. 2: la discendenza dalla Baronessa di Carini Ed eccoci arrivati alla seconda leggenda che da sempre gira intorno a Fenesta che lucive, ovvero che essa sia una derivazione di un antico poemetto siciliano legato alla storia della Baronessa di Carini. L’episodio a cui è legata la narrazione di questa tragica vicenda è noto e risalirebbe al 4 dicembre del 1563 quando a Carini la baronessa Caterina La Grua Talamanca, che aveva una relazione segreta col cugino Vincenzo Vernagallo, fu raggiunta dal padre Cesare che si trovava a Palermo il quale, venuto a conoscenza della peccaminosa tresca, accorse a Carini per uccidere entrambi.40 Questo poemetto fu portato alla luce ‘integralmente’ (prima non si conoscevano che alcuni frammenti 41) da Salvatore Salomone-Marino il quale dopo un paziente lavoro filologico ne fece stampare la prima versione nel 1870. Poi, dopo aver appreso dai cantastorie ulteriori varianti, fu costretto a modificarla tre anni dopo, fino ad arrivare a un’ulteriore riscrittura (a suo avviso ‘definitiva’ e non modificabile) nel 1914.42 L’operazione filologica di Salomone-Marino dopo alcuni elogi iniziali dimostrò ben presto i suoi limiti derivanti innanzitutto dalla convinzione, a nostro avviso illusoria, di poter ricostruire un testo ‘originario’ sulla base di circa 400 varianti e fu così che si sollevarono le prime critiche.43 Ma non è questo di cui ci vogliamo occupare bensì del fatto che in seguito alla ricostruzione del poemetto da lui fatta si diffuse la leggenda che Fenesta che lucive derivasse dalla storia di Carini. La convinzione nasce dal passo (cinque ottave di endecasillabi) che qui riportiamo dall’edizione del 1873: Su chiusi li finestri, amaru mia! Dunni affacciava la me’ Dia adurata; Cchiù non s’affaccia no comu sulia, Vol diri che ’ntra lu lettu è malata. ‘Ffaccia so’ mamma e dici: Amaru a tia! La bella chi tu cerchi è suttirrata! Sipultura chi attassi! Oh, sipultura, Commu attassasti tu la mè pirsuna! 40. Per le innumerevoli varianti rimandiamo alla numerosissima letteratura sull’argomento e in particolare a un accurato lavoro che ha fatto un po’ di chiarezza: AURELIO RIGOLI, La baronessa di Carini. Tradizione e poesia, Flaccovio, Palermo 1975 (2ª ed. riveduta e ampliata). 41. Riportati da Lionardo Vigo: cfr. Canti popolari Siciliani, raccolti e illustrati da Lionardo Vigo, Tipografia dell’Accademia Gioenia, Catania 1857, pp. 24-5. A tal proposito si veda anche GIUSEPPE PITRÈ, Canti popolari siciliani, raccolti e illustrati, Forni, Bologna 1980 (ristampa anastatica dell’edizione Palermo, 1870-1913), vol. I, pp. 11-26. 42. SALVATORE SALOMONE MARINO, La Baronessa di Carini. Storia popolare del secolo XVI in poesia siciliana reintegrata nel testo e illustrata co’ documenti (1870), 3ª ed, Trimarchi, Palermo 1914. 43. Cfr. ANTONINO PAGLIARO, La barunissa di Carini: stile e struttura, in «Bollettino del centro di studi filologici e linguistici siciliani», IV, (1956) oppure GIUSEPPE COCCHIARA , Le quattrocento varianti della Baronessa di Carini, in «Giornale di Sicilia», 15 dicembre 1963.
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Vaiu di notti comu va la luna, Vaiu circanni la galanti mia; Pri strada mi scuntrau la morti scura, Senz’occhi e bucca parrava e vidia, E mi dissi: Unni vai, bella figura? - Cercu a cu tantu beni mi vulìa; Vaiu circannu la mè nnammurata… - Nun la circari cchiù, ch’è suttirrata! E si nun cridi a mia, bella figura, Vattinni a la Matrici a la Biata, Spinci la cciappa di la sepoltura, Ddà la trovi di vermi arrusicata; Lu surci si mangiau la bella gula Dunni luceva la bella cinnaca; Lu surci si mangiau li nichi mani Dd’ucchiuzzi niuri can nun c’era aguali… ‘Nzignatimi unni su’ li sagrestani E di la chiesa aprissiru li porti; Oh, Diu, chi mi dàssiru li chiavi O cu li manu scassaria li porti! Vinissi l’Avicariu ginirali, Quantu ci cunti la mè ngrata sorti; Ca voggiu la me Dia risuscitari, Can nun è digna stari cu li morti Oh mala sorti, chi mi sapi dura, Mancu vidiri la mè amanti amata! Sagristanu, ti preju un quartu d’ura, Quantu cci calu na torcia addummata; Sagristaneddu, tienimilla a cura Non ci lassari la lampa astutata, Ca si spagnavi di durmiri sula, Ed ora di li morti accompagnata!…
Questa tesi fu data per buona da Scherillo nel 188544 ma fu per primo sposata in pieno da Di Giacomo che nel 1896 così si espresse: «E chi mai ha potuto pensar, finora, che la più bella, la più tenera, la più umana canzone ch’è stata tenuta fin qua per cosa nostra, potesse rampollare dalla storia del giglio carinese? I documenti che appresso pubblicherò non ne lasceranno più dubbio». 45 È inu44. Cfr. SCHERILLO, Bellini e la musica popolare, p. 189. 45. Cfr. DI GIACOMO, Napoli: figure e paesi, pp. 41-2.
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tile dire che i documenti a cui si riferisce Di Giacomo sono le ottave sopra riportate. La tesi fu confermata dagli studiosi successivi46 e da allora in poi fu riportata da quasi tutti gli storici della canzone napoletana che, senza alcun vaglio critico, hanno messo in dubbio semmai solo la derivazione della musica ma hanno dato come sicura la discendenza del testo. Il primo ad avanzare dei dubbi sull’origine testuale di Fenesta che lucive dalla storia di Carini fu Giuseppe Cocchiara che facendo un attento confronto tra le cinque ottave del poemetto e la canzone segnalò le evidenti somiglianze ma anche le numerose differenze.47 Cocchiara riprese poi alcune considerazioni espresse molti anni prima da D’Ancona che aveva sostenuto che molti dei temi (la finestra, l’amata che dorme nel cimitero con gli altri morti ecc.) della barunissa erano già ben presenti nella poesia popolare e che non era del tutto inverosimile che i cantastorie da cui Salomone-Marino aveva ascoltato la storia li avessero ‘assorbiti’ nel poemetto.48 Queste «esattissime osservazioni — scrive Cocchiara — investono in pieno anche l’origine di Fenesta ca lucive, la cui fonte non va ravvisata nella Baronessa di Carini, ma in quei luoghi comuni che sono di tutta la poesia popolare».49 Concordiamo perfettamente con Cocchiara (ripreso solo dal buon Tiby) e ci permettiamo di aggiungere le seguenti osservazioni: – la prima versione del testo dataci da Salomone Marino risale al 1870, ovvero quasi 30 anni dopo la prima versione di Fenesta che lucive del 1843: in base a quale documento si ritiene che il testo della barunissa da lui raccolto verso la fine dell’800 sia lo stesso che si cantava nel ’500? Non è possibile invece che pezzi della canzone o del foglio volante (cosa che noi non crediamo, ma che teoricamente è possibile) siano stati ripresi dai cantastorie siciliani e inglobati nella storia? – pur volendo ammettere che il testo riportato da Salomone-Marino si cantasse in modo pressoché identico nel ’500 (cosa che non sostiene neanche lui stesso), a nostro avviso è evidente che nella Baronessa di Carini, così come in ogni altra storia, siano presenti due livelli: uno puramente narrativo, legato cioè a importanti avvenimenti di cronaca che hanno avuto grande eco nel popolo, e l’altro puramente poetico, di natura magico-simbolica, per il quale spesso si
46. Cfr. BALLANTI, La canzone napoletana, pp. 65-72; GAETANO AMALFI, La canzone napoletana, Priore, Napoli 1909, pp. 36-7; CARAVAGLIOS, Il folklore musicale in Italia, p. 92; VAJRO, “Fenesta ca lucive”. Peripezie napoletane di un canto siciliano, pp. 6-9. 47. Cfr. GIUSEPPE COCCHIARA, Origine e vicende d’una canzone popolare, in «Nuove Effemeridi», III, n. 11, (1990), op. cit., pp. 191-4. In origine il saggio era apparso in «Annali del Museo Pitrè», II-IV, (1951-53), pp. 68-73. 48. Cfr. ALESSANDRO D’ANCONA, La poesia popolare italiana, R. Giusti, Livorno 1906 (2ª ed.), p. 237 e ss. 49. Cfr. COCCHIARA, Origine e vicende d’una canzone popolare, p. 194.
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usano motivi poetici precedenti innestandoli nella narrazione di un avvenimento successo in seguito.50 Alla luce di queste considerazioni ci sembra evidente che i motivi poetici riscontrabili nelle ottave della barunissa riportate appartengano proprio a quel livello magico-simbolico e che è quindi assai probabile che essi siano addirittura precedenti al caso di Carini avvenuto nel ’500. Ciò, secondo noi, è dimostrato anche dalle innumerevoli varianti, presenti in moltissime regioni italiane del centro-sud, sia della storia che dei versi della canzone51 i cui temi poetici confluiscono perfino in una ballata molto diffusa nel nord Italia: L’amante morta oppure La sposa morta.52 Ci appare invece assai meno probabile, e in questo concordiamo con De Simone (tra i pochi che hanno messo in dubbio la tesi Salomone-Marino), che «gli stessi versi siano nati come commento ad una tragica storia realmente avvenuta e che siano poi entrati a far parte del repertorio popolare come modello mitico di lamentazione, applicabile alla scomparsa tragica e prematura di qualsiasi giovane».53 C’è stato inoltre chi ha sostenuto che anche la musica di Fenesta che lucive sia nata nel XVI secolo insieme al testo poetico del poemetto della baronessa. Il più tenace assertore di quest’ipotesi è stato Vajro che così si esprime: «quale dovesse essere la musica della Storia si rileva da quelle poche melodie che riporta il Pitrè in appendice ai suoi Canti; non c’è dubbio alcuno, Fenesta ca lu50. Riportiamo a tal proposito un illuminante pensiero di Leydi che riguarda le ballate, ma che si può estendere benissimo alle storie: «In realtà appare sempre più chiaro che non è possibile ricondurre una larga parte almeno delle ballate a precisi eventi e a determinati personaggi della cronaca e della storia e che il filo narrativo, così come i nomi stereotipi dei luoghi citati e dei personaggi, appaiono più come pretesti o convenzioni per raccogliere e trasmettere significati magici e valori mitici profondi o evocazioni narrative che quali elementi portanti e significanti». Cfr. ROBERTO LEYDI, “Sentite buona gente”. La ballata e la canzone narrativa, Guida alla musica popolare in Italia, 2. I Repertori, a cura di R. Leydi, LIM, Lucca 2001, pp. 36-7. Anche lo stesso Salomone Marino ammette più o meno la stessa cosa quando afferma che «quanto agli elementi costitutivi dei canti, così lirici come narrativi… è giusto che si riconosca che essi esistono ab antico, trasmessi per tradizione, e che variamente mescolandosi e combinandosi servono alle nuove composizioni poetiche e credonsi nuovi in quantoché si presentano con apparenze moderne, mentre nel fatto non sono che quegli stessi che da secoli si sono adoperati». Cfr. SALOMONE MARINO , La Baronessa di Carini, pp. 20-1. 51. Per una panoramica abbastanza dettagliata delle varianti di Fenesta che lucivi e di alcuni pezzi tratti dalla barunissa vedere MOLINARO DEL CHIARO, Canti popolari raccolti in Napoli con varianti e confronti nei vari dialetti, pp. 209-49 (prima in MOLINARO DEL CHIARO, Un canto del popolo napoletano con varianti e confronti. Fenesta ca luciv’ e mo nu’ luce, Tip. G. Argenio, Napoli 1881). 52. Anch’essa con numerose varianti: secondo Leydi è da questa ballata che derivano i temi poetici che nel Sud ritrovano una sua «ricollocazione nella notissima canzone napoletana Finestra che lucevi». Cfr. LEYDI, “Sentite buona gente”, p. 51. 53. Cfr. ROBERTO DE SIMONE, Disordinata storia della canzone napoletana, Valentino Editore, Napoli 1994, p. 45.
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cive è proprio una parte della Baronessa di Carini».54 Vajro si riferisce alle 32 melodie riportate da Pitrè in appendice ai suoi Canti popolari siciliani,55 tra queste la n. 25 corrisponde proprio a La Principessa di Carini e ne riportiamo la melodia corrispondente al primo distico:
Dall’esame di questa melodia ci appare chiaramente che essa nulla ha a che fare con quella di Fenesta che lucive e non sappiamo in base a quale raffronto Vajro sia stato così categorico nell’affermare la discendenza della musica della canzone da quella su cui si cantava il poemetto. L’unica melodia, tra quelle riportate dal Pitrè, che ha un minimo di somiglianza con il nostro brano è una che non c’entra nulla con la storia di Carini ed è riprodotta come esempio n. 5, ovvero Mi votu e mi rivoti suspirannu:
54. Cfr. VAJRO, “Fenesta ca lucive”, p. 14. 55. Cfr. PITRÈ, Canti popolari siciliani, raccolti e illustrati, vol. II, appendice, pp. 1-16.
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Questa sì che ha una vaga somiglianza con Fenesta che lucive almeno nella prima frase melodica (che però termina sul secondo grado invece che sul quinto) ma di questo e altri brani che ricordano vagamente la canzone riparleremo fra poco. Ritorniamo adesso invece alla storia della baronessa e riportiamo un altro esempio musicale presente in un’altra raccolta di canti popolari siciliani ovvero quella di Alberto Favara. Da questa riportiamo l’esempio n. 49756 che si riferisce alla storia: 56. Cfr. ALBERTO FAVARA, Corpus di musiche popolari siciliane, Accademie di Scienze, Lettere e Arti di Palermo, supplementi agli atti n. 4 (2 vol. a cura di Ottavio Tiby), 1957, vol. II, pp. 280-1.
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Come possiamo vedere anche in questo caso non c’è praticamente alcuna somiglianza tra questa melodia e quella della nota canzone napoletana. Ma anche nel volume di Favara ritroviamo invece un altro esempio che si avvicina a Fenesta che lucive corrispondente a un Motivo di cantastorie (riportato purtroppo senza parole):57
57. Ibid., vol. II, pp. 293-4. Il violinista Cieco Sottile dice al Favara che «questa nota è molto antica… ma non è di Palermo, dove giunse portata da due fratelli all’interno della Sicilia…secondo altri essa è originaria del trapanese… con essa si cantava la storia di Zalapì, ucciso dai briganti verso il 1890, ma è probabile che altre storie ancora siano state cantate sulla sua melodia».
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Come possiamo vedere, in questo caso la prima frase melodica (A) è identica a quella di Fenesta che lucive e termina anch’essa sul quinto grado e anche la seconda frase (B), pur avendo un profilo melodico diverso, termina con la cadenza sulla tonica formando quindi la successione cadenzale melodica V-I proprio come avviene nella canzone. Abbiamo poi una terza frase (C) e la ripetizione leggermente variata della seconda (B¹) come accade in Fenesta che lucive. Quindi possiamo dire che la struttura melodica di questo Motivo di cantastorie ricalca nelle prime quattro frasi la struttura della canzone ovvero ABCB¹ (anche se con profili melodici diversi), ma mentre nella canzone le frasi si ripetono ottenendo quindi un ABAB-CB¹CB¹ nel motivo di cantastorie al posto della ripetizione abbiamo due nuove frasi (DD¹) e quindi la seguente struttura ABCB¹-DD¹CB¹. Siccome sia questo brano sia la precedente Mi votu e mi rivotu sono trascrizioni successive alla canzone almeno di mezzo secolo siamo d’accordo col Tiby che sostiene che é più probabile che siano stati i cantastorie ad ispirarsi alla canzone forse per rinnovare il loro bagaglio melodico, piuttosto che il contrario.58 Possiamo infine dire che, per quanto abbiamo avuto modo di vedere, nessun fondamento sembra avere l’ipotesi che la canzone Fenesta che lucive si cantasse sulla stessa melodia su cui si cantava la storia della baronessa di Carini. Quest’ultima pur ammettendo che si cantasse già nel ’500 (cosa di cui non abbiamo alcuna prova) non poteva che avere una melodia molto diversa da quella della canzone che a noi appare pienamente ottocentesca. Le registrazioni sul campo In questo paragrafo ci occuperemo di alcune registrazioni di Fenesta che lucive realizzate da Ernesto De Martino e Diego Carpitella negli anni che vanno dal 1952 al 1958. Si tratta di cinque registrazioni59 (finora pressoché ignorate dagli studiosi) abbastanza diverse l’una dall’altra, che ci aiuteranno a capire meglio le origini del brano che stiamo esaminando. Le analizzeremo singolarmente seguendo l’ordine cronologico nel quale sono state raccolte: 58. Cfr. TIBY, Leggenda e realtà d’una canzone popolare, p. 206. Tiby nel suo saggio riproduce un altro esempio musicale della raccolta del Favara somigliante a Fenesta che lucive e riferibile a un pezzo che ritroviamo anche nella ricostruzione della storia di Carini fatta da Salomone Marino ovvero l’ottava che inizia con Ivi a lu ‘nfernu, e mai ci avissi jùtu! (anche quest’ottava, come quelle riportate riferibili alla canzone, appartiene secondo noi ad un livello magico-simbolico, col motivo poetico della discesa all’inferno assai diffuso nella poesia popolare e molto probabilmente anch’esso precedente al caso di Carini). Lo stesso Tiby poi riporta anche un ulteriore esempio riferibile allo stesso pezzo dedicato alla discesa, stavolta però con una melodia totalmente diversa dalla canzone napoletana, ripreso da un’altra raccolta di Favara. Cfr. ALBERTO FAVARA, Canti della terra e del mare di Sicilia, Ricordi, Milano 1921, vol. I, pp. 33-7. 59. Queste registrazioni sono tutte conservate presso gli Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia di Santa Cecilia.
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1. Registrazione del 3 ottobre 1952 in Basilicata, versione zampognara, raccolta a Grottole (Matera) da Ernesto De Martino e Diego Carpitella60 È questa una versione assai suggestiva di Fenesta che lucive eseguita da due voci maschili alterne con l’accompagnamento dell’organetto. Abbiamo deciso di denominarla versione zampognara adottando la definizione di essa data da Adamo nel libretto allegato al cd dove il brano è stato pubblicato 61 (unico tra quelli che analizzeremo). Si tratta cioè di un’esecuzione tipica dei canti a zampogna (con ad esempio la ‘a’ prolungata in conclusione di verso, caratteristica di questo stile) e in cui come ci indica Adamo «il testo è del tutto irrilevante rispetto alla fondamentale identità del brano eseguito, in quanto zampognara». Analizziamo il testo62 su cui avviene quest’esecuzione: Finestr’ ca lucive e mo non lucia E che la nenna mia malata staja Finestra pi luci’ e mo non luce ah E li no finestri stanno ali castagna S’ affaccie la sorella ‘e mi lu dicia E a bella e morta era e sippullita S’affacci la sorella e mi la dice ah E sta… e s’ammullia (?) Se la vuo sci a vede’ la sua figura E sott’a Santa Maria ah nce l’hai piantata Si la vuo sci’ a vide’ dov’è prigata Sott’a la figura a Santa Maria Se ‘n ci ‘uo sci’ ca ti mitti paura E mo puortanci nu bianca fazzuletta I non ci ‘i vici’ metti paura E si mitti lu fazzoletti bianca 60. Si tratta del brano n. 11 della Raccolta n. 18. Gli esecutori sono: Antonio Carbone (canto), Giuseppe Manicone (canto) e Rocco Galante (organetto). 61. Cfr. Basilicata, registrazioni 1952 di Diego Carpitella ed Ernesto De Martino, a cura di G. Adamo, Discoteca di Stato - I.R.TE.M, Roma 1994. 62. Il testo è sostanzialmente quello riportato da Adamo nel cd sopra ricordato, abbiamo però apportato, dopo ripetuti ascolti, alcune piccole modifiche nelle parti di più difficile comprensione, cambiando ad esempio «frigata» (riportato nel cd) con «prigata» così come si riscontra in diverse varianti del brano e anche in un’altra delle registrazioni che analizzeremo. Ci resta ancora incomprensibile il secondo endecasillabo del quarto distico, abbiamo perciò messo dei puntini sospensivi e un punto interrogativo finale.
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Come possiamo vedere, nel testo sono presenti alcuni dei temi che ritroviamo nella canzone (la finestra, la sorella ecc.) ma anche altri che, non presenti nella canzone, sono ricorrenti invece nelle diverse varianti letterarie del brano63 (il fazzoletto bianco oppure la sepoltura presso un convento o una chiesa che qui è quella di Santa Maria). La struttura melodica di quest’esecuzione è di tipo AB con le due voci maschili che si alternano cantando un distico a testa. Ecco la trascrizione da noi fatta64 delle due frasi melodiche: A
B
fi - ne
- str’ - ca
lu - ci
e
che
la nen - na
mi
-
ve
-
a
e
mo non
ma - la
-
lu - cia
ya
sta
-
ta
Come possiamo facilmente vedere questa melodia (con un profilo discendente e l’ambitus di un intervallo di sesta) non ha nulla a che vedere con la Fenesta che lucive che conosciamo e dall’ascolto ci appare evidente che il testo sia di secondaria importanza rispetto alla modalità esecutiva, nel senso che in questo caso più che ‘comunicare’ il testo, lo si usa simbolicamente per effettuare un particolare tipo di esecuzione. Ciò avviene spesso nella musica della tradizione contadina ovvero della fascia agro-pastorale65 dove sulla stessa melodia si possono cantare un’infinità di testi diversi senza cambiare l’identità del pezzo che in questo caso resta sempre una zampognara.
63. Cfr. MOLINARO DEL CHIARO, Canti popolari raccolti in Napoli con varianti e confronti nei vari dialetti, pp. 209-49. 64. Abbiamo riportato solo le due linee melodiche, senza utilizzare le stanghette divisorie delle battute, e scegliendo di non avvalerci di segni diacritici o altri espedienti tipici della trascrizione etnomusicologica, perché ritenuti non ‘indispensabili’ per il fine che ci siamo proposti, ovvero quello di un rapido e semplice confronto tra le linee melodiche di queste registrazioni con quelle della canzone da noi presa in esame. 65. Facciamo qui riferimento alla divisione, suggerita da Diego Carpitella, della musica di tradizione orale in due fasce folkloriche. Carpitella infatti distingueva la musica della fascia agropastorale-marinara (ovvero la musica di area contadina, indicata come patrimonio popolare) da quella della fascia artigiano-urbana (ovvero la musica di area cittadina, indicata invece come patrimonio popolaresco). Cfr. DIEGO CARPITELLA, Musica e tradizione orale, Flaccovio, Palermo 1973, p. 53. Questa distinzione è indispensabile perchè investe vari aspetti: diversi sono i moduli melodici, le strutture melodico-armoniche, il sistema di intonazione, la concezione del ritmo, gli strumenti impiegati ecc. Su questa differenziazione vedere anche GIORGIO ADAMO , L’indagine etnomusicologica come studio dell’identità in musica, in «Studi Musicali», XXVIII, (1999), n. 1, pp. 296-7.
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2. Registrazione dell’8 ottobre 1952 in Basilicata, versione Grazia Prudente, raccolta a Pisticci (Matera) da Ernesto De Martino e Diego Carpitella66 Quest’esecuzione è forse la più interessante per la nostra indagine perché presenta molte somiglianze con la canzone, ma con alcune caratteristiche particolari. Si tratta di un’interpretazione a voce singola femminile effettuata da Grazia Prudente, che all’epoca aveva circa 40 anni. Il testo cantato è il seguente: Finestre ca lucive e mo nun lucia Certi la jemma mia malate staia Certi la jemma mia malate staia Si affaccia la sorella e me lo dicia E la tua jemma è morta e sotterrata E la tua jemma è morta e sotterrata Se non cririte a me guardate in ciela Puri le stelle stanno appassionata Puri le stelle stanno appassionata Io non ci passa chiù di questa strada Io vado in cimitero a passeggiare Io vado in cimitero a passeggiare Se la vuoi andar a veder vaje ‘nci in chiesa In convento di San Domenico sta pregata In convento di San Domenico sta pregata Se non canusci la sua ‘poltura Nu bianco fazzuletto sta menata Nu bianco fazzuletto sta menata Se non canusci la sua capellatura Vidi c’a spine e pesci sta gnettata Vidi c’a spine e pesci sta gnettata Pure alli ciure ce li aggia raccumandata Non mi tuccate la bella ca è nu peccata
Anche qui diverse sono le somiglianze con il testo della canzone e con le diverse varianti letterarie (il fazzoletto, la sepoltura in un convento che stavolta è quello di San Domenico, e in più abbiamo il riferimento ai capelli gettati come 66. Si tratta del brano n. 29 della Raccolta n. 18.
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«lische di pesci» che ritroveremo in un’altra registrazione); ma rinveniamo anche alcuni temi presenti nel foglio volante di Paolella (ovvero le stelle appassionate e la passeggiata in cimitero) a riprova che probabilmente egli fece sì un’ ‘elegia lirica’ ma partendo da temi già presenti nelle versioni popolari. Ma la cosa più interessante di questa versione è che la musica, come rilevato anche da Tiby (l’unico a tenere in considerazione questa registrazione), è molto simile a quella della nostra canzone. Essa ha una struttura melodica AB seguita dalla ripetizione leggermente variata di B, quindi un ABB¹. Ecco il primo distico così come trascritto da Tiby:67
Come vediamo, questa melodia (con un profilo melodico ad arco e l’ambitus superiore a un intervallo di decima) è assai simile a quella della canzone ma ovviamente si obietterà che questa registrazione è stata effettuata più di un secolo dopo Fenesta che lucive e che quindi è assai possibile che si tratti di un ritorno dal colto al popolare. L’obiezione è sensatissima ma ci limitiamo a far osservare che la struttura melodica della versione Prudente è un ABB¹ mentre quella della canzone è ABCB¹ manca cioè in quest’esecuzione la frase C ed è alquanto singolare che, se fosse vera l’ipotesi del ritorno nel popolare di un brano colto, essa manchi di una parte (frase C) e inoltre buona parte del testo cantato non figuri affatto nella canzone ma solo nelle diverse varianti raccolte a livello popolare. È molto più probabile invece, secondo noi, e in questo concordiamo con Tiby, che il distico melodico cantato dalla Prudente sia una versione forse ‘stilizzata’ di quello che doveva essere il distico originario su cui si cantava la canzone composto soltanto da due frasi melodiche (AB o ABB¹) a cui solo in seguito fu aggiunta in ambito colto la terza frase (C). Siamo comunque di fronte ad un’esecuzione di fascia artigiana: abbiamo cioè una cosiddetta canzone narrativa in cui è più evidente la volontà di ‘comunicare’ un testo piuttosto che una modalità esecutiva, al contrario della precedente registrazione. 67. Si può notare che la trascrizione del testo del primo distico fatta da Tiby è leggermente diversa da quella da noi fatta dopo numerosi ascolti. Di questo brano esiste un’altra trascrizione musicale ancora più dettagliata (con l’uso di segni diacritici ecc.) effettuata da Adamo: cfr. GIORGIO ADAMO, Sullo studio di un repertorio monodico della Basilicata, in «Culture Musicali–Quaderni di Etnomusicologia», I, (1982), 2, p. 144 (ora in Musica della Basilicata. Studi sulle registrazioni De Martino-Carpitella (1952), a cura di G. Adamo, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2004, p. 86).
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3. Registrazione del 14 agosto 1956 in Basilicata, versione polivocale, raccolta a Ruoti (Potenza) da Ernesto De Martino68 Anche in questo caso abbiamo un’esecuzione alquanto singolare di Fenesta che lucive, eseguita stavolta da una voce maschile più un coro di voci miste. È stato assai difficile riuscire a decifrare il testo della registrazione soprattutto nelle parti dove interviene il coro ma dopo ripetuti ascolti ecco cosa siamo riusciti a comprendere: Finestri ca lucive e ca mo ni luce… Mi crere che la nenna mia ahi malate ahi staia… Si affacci la surella e me lu dice… Ninnella toia è morta… Si me ne vache in chiesa la trovi in tavuto… Nu guadalette ca ni l’appicciate…
Laddove iniziano i puntini sospensivi entra il coro e diventa veramente un’impresa ardua riuscire a capire le parole cantate. Come vediamo i temi testuali sono quelli presenti nella canzone più altri che abbiamo già riscontrato nelle diverse varianti (abbiamo la novità del guadalette che troveremo anche nella registrazione successiva). Dal punto di vista musicale c’è da dire che la struttura melodica è sempre di tipo AB. Vi riportiamo l’incipit melodico ovvero la frase A cantata dalla voce maschile solista: A
Anche qui è chiaro che ci troviamo di fronte a una melodia totalmente diversa da quella di Fenesta che lucive. Il coro, che interviene nel momento in cui la voce solista giunge alla conclusione della prima frase (A), si muove ‘armonicamente’ nel senso che, dopo essere entrato sulla tonica, sembra fare una specie di movimento armonico II-V-I facendo in modo che il ritorno sul I grado coincida con l’approdo della voce solista sulla nota finale della seconda frase (B). La vocalità e le modalità esecutive del coro ricordano vagamente quelle adoperate dai tenores sardi o anche quelle usate nel caratteristico Miserere di Sessa Aurunca.69 Anche quest’esecuzione rientra nelle canzoni narrative ma, come spesso accade nelle esecuzioni polivocali-corali, la finalità, più che ‘comunicare’ un testo (ciò che accade invece nelle esecuzioni monodiche-solistiche), è quella 68. Si tratta del brano n. 73 della Raccolta n. 32. Gli esecutori sono Rocco Troiano (voce solista) più un coro di voci miste composto da: Gerardo Famularo, Giovanni De Nicola, Rocco Genovese, Rocco De Carlo, Carmelo Troiano, Giuseppina De Carlo, Maria Giuseppa De Carlo, Gino De Carlo, Maria Schiavone e Lucia Caivano. 69. Con uno stile vocale che comprende «passaggi di tono, effetti di suoni strisciati, attacchi e conclusioni particolari». Cfr. DE SIMONE, La tradizione in Campania, p. 53.
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di creare un ‘evento musicale’ in cui le parole, pur restando percepibili, perdono il loro valore preminente.70 4. Registrazione del 15 agosto 1956 in Basilicata, versione tarantella, raccolta al Santuario della Madonna di Monte Pierno a San Fele (Potenza) da Ernesto De Martino71 Ci troviamo qui di fronte a una tipica tarantella, cantata da voci maschili con l’accompagnamento dell’organetto.72 Il testo è il seguente: …nesta ca lucive (te voglie né, te voglie bella) Fenesta ca lucivi e mo nun lucia …nesta ca lucive (te voglie né, te voglie bella) Fenesta ca lucivi e mo nun lucia … Che nennella mia (te voglie né, te voglie bella) Che nennella mia malate staia Che nennella mia (te voglie né, te voglie bella) Che nennella mia malate staia …‘ffacce la surella (te voglie né, bella Rusina) M’affacce la surella e me lu dicia …‘ffacce la surella (te voglie né, bella figliola) M’affacce la surella e me lu dicia …nella toia è morta (te voglie né, bella figliola) Nennella toia è morta e malate nun era …nella toia è morta (te voglie né, bella figliola) Nennella toia è morta e malate nun era …va alla chiesa (te voglie né, bella figliola) Va va alla chiesa e là trovi u tavuta …va alla chiesa (te voglie né, bella Rusina) Va va alla chiesa e là trovi u tavuta …guadalette d’oro (te voglie né, bella figliola) Nu guadalette d’oro ca ni l’appicciata …guadaletto d’oro (te voglie né, bella Rusina) Nu guadaletto d’oro ca ni l’appicciata 70. Cfr. LEYDI, “Sentite buona gente”, p. 55. 71. Si tratta del brano n. 91 della Raccolta n. 32. 72. L’esecuzione è del Gruppo di San Fele composto da: Giambattista Nardillo, Rocco Nardillo, Giuseppe Ciaraulo (canto, fischi, grida e battimani); Francesco Potenza (organetto).
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In quest’esecuzione ritroviamo alcuni espedienti tipici della musica di area contadina presenti anche nella tammurriata campana, ad esempio quello di eliminare la prima sillaba (cantando ad esempio …nesta invece di fenesta), facendo in modo così che la voce entri in battere invece che in levare, e quello di inserire nel cantato delle interpolazioni testuali (nella tammurriata vengono definite stroppole o barzellette) di argomento diverso se non opposto al testo originario (inserendo ad esempio chiari riferimenti erotici in un brano in cui si parla della morte), come nelle frasi poste tra parentesi. A conferma di quanto detto riportiamo una parte del testo di una tammurriata raccolta da Roberto De Simone negli anni ’70 indicata col titolo Tammurriata di Pimonte ma in cui all’inizio viene cantato il testo di Fenesta che lucive:73 …nesta ca lucive e mmò nu’ lluce finesta ca lucive e mmò nu’ lluce e segno ca nenna mia segno ca nenna mia ah segno ca nenna mia starrà malata ah malata (j ‘o mar’j arena) j sta malata (e ‘o mar’j arena) (ah ciento n’abbandunai e ciento n’abbandunai ah ciento n’abbandunai p’amar e a tte ah ciento n’abbandunai p’amar e a tténe) …faccia la surella e me lu ddice s’affaccia la surella e me lu ddice ah Nennella toia (e Anna e damme ‘a mano ca nce ne jammo e chisto è ‘o tiempo ‘e mò fa l’anno e piccerè me vulle ‘nganna) ah Nennella toia è morta e sta aparàta aparàta (j ‘o mar’j e niente) j sta apparat'(j ‘o mar’j e niente ammore ch ‘ammo fatto ammore ch ‘ammo fatto ammore ch ‘ammo fatto è gghiuto p’ ‘o viento) …voglio j’ a schiuva’ chillu tavùto ‘o voglio j’ a schiuva chillu tavùto 73. Cfr. ROBERTO DE SIMONE, La tradizione in Campania, Emi-La Voce del Padrone, Milano 1979, pp. 54-5. Gli esecutori sono: Francesco Di Somma e Salvatore Donnarumma (canto), Ciro Minieri (tamburo), Francesco Comentale (tromba degli zingari), Ciro Amato (triccabballacche), Fioravante Cuomo e Gennaro Di Martino (castagnette).
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e trovo a Nennella (e ccòre e ffa nu càvero ca se mòre rint’ ‘o surco r’ ‘e pummaròle tu ‘a sotto e i’ ‘a coppa amm’ ‘a fa chi mòre amore) ah trovo a Nennella mia tutta aparàta ah trovo a Nennella mia tutta aparàta …cive ca rurmive sempe sola ricive ca rurmive sempe sola e mmò ruorme (e bbì e arena e chianu chià mme faì carè) e mmò ruorme cu li muorte accompagnata …cumpagnata (j ‘o mar’j e bbòla accumpagnata j ‘o mar’j e bbòla ah nun saccio cumm’ ‘e collera nun saccio cumm’ ‘e collera ah nun saccio cumm’ ‘e collera nu’ mmòro ah nun saccio cumn’ ‘e collera nu’ mmòro)
Anche in quest’esecuzione, come si può vedere, riscontriamo gli stessi due fenomeni: l’eliminazione della prima sillaba e l’uso di interpolazioni testuali di segno ‘diverso’. Riteniamo superfluo riportare anche le trascrizioni della melodia della tarantella e della tammurriata qui analizzate, perché esse vengono cantate ovviamente su due classici pattern melodici di cui ci si avvale di solito in queste forme musicali che ovviamente nulla hanno a che vedere con la melodia di Fenesta che lucive. Quello che ci premeva sottolineare era come questo testo fosse talmente diffuso in ambito contadino da essere adoperato in chiave magico-simbolica sia per l’esecuzione di una tarantella in Basilicata che per una tammurriata in Campania, presentando per di più anche alcune caratteristiche comuni. 5. Registrazione dell’ 11 agosto 1958 in Puglia, versione Maria Miucci, raccolta a Ischitella (Foggia) da Ernesto De Martino e Diego Carpitella74 Siamo giunti all’ultima registrazione sul campo da analizzare. Si tratta anche qui di un’esecuzione a voce singola femminile cantata stavolta da Maria Miucci che all’epoca aveva 34 anni. Eccone il testo: Fenestre che lumare e mo nun luce La povera nenna mia sta mala (ta) 74. Si tratta del brano n. 44 della Raccolta n. 43.
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RAFFAELE DI MAURO Fenestre che lumare e mo nun luce La povera nenna mia sta mala (ta) Si affaccia la surella e mi lu dicia La povera nenna mia sta mala (ta) Iessa durmeva che durmeve sola Mo dorme pe li murt’ accumpagna (ta) Iessi piangeva che durmeve sola75 Mo dorme pe li murt’ accumpagna (ta)
Come vediamo il testo cantato è assai simile a quello della canzone76 e anche la melodia (dopo il primo distico che sembra configurarsi quasi come una sorta di introduzione o ‘preludio’) sembra ricalcare integralmente il brano famoso adottandone la stessa struttura ABABCB¹CB¹ e le stesse cadenze melodiche:
75. È probabile che il testo del primo endecasillabo del distico precedente fosse uguale a questo e che la Miucci si sia ‘sbagliata’ (ripetendo due volte «durmeva» invece di «piangeva») e poi corretta nel distico successivo. 76. Con lievi modifiche come «lumare» invece di «lucive», «iessi piangeva ca durmeva sola» invece di «chiagneva sempe ca durmeva sola» e le sillabi finali, quelle messe tra parentesi, che non vengono cantate.
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È assai più probabile che in questa versione si sia verificato il caso del ritorno ‘dal colto al popolare’ di cui parlavamo prima, piuttosto che nella versione Prudente che a nostro avviso invece aveva una sua ‘autonomia’. Abbiamo dunque sei registrazioni sul campo (le cinque da noi analizzate più la tammurriata raccolta da De Simone) che possiamo dividere in due gruppi: – un primo gruppo relativo alla fascia agro-pastorale di area contadina in cui rientrano la versione zampognara, la versione tarantella e la versione tammurriata raccolta da De Simone; – un secondo gruppo relativo alla fascia artigiana di area cittadina in cui rientrano le altre tre registrazioni (che si configurano essenzialmente come canzoni narrative) ovvero la versione Grazia Prudente, la versione polivocale e la versione Maria Miucci. Per quanto riguarda il primo gruppo abbiamo visto che la parentela con la canzone da noi presa in esame è solo testuale e possiamo dire che le parole riferibili a Fenesta che lucive sono utilizzate in chiave magico-simbolica all’interno di specifiche modalità esecutive musicalmente già codificate (con ad esempio un profilo melodico discendente e un ambitus ristretto, tipici della musica contadina) che possono essere la zampognara e la tarantella in Basilicata o la tammurriata in Campania, nelle quali ciò che più conta non è il ‘testo’ cantato ma lo ‘stile’ in cui viene cantato. Il discorso cambia per il secondo gruppo dove a parte la versione polivocale, in cui, come detto, predomina la volontà di creare un ‘evento musicale’, nelle altre due versioni (Prudente e Miucci) il brano sembra acquisire una propria identità poetico-musicale (con ad esempio un profilo melodico ad arco e un
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ambitus esteso, tipici della musica di area cittadina) che più si avvicina al brano che conosciamo. In base a quanto osservatosi può affermare che: – l’ampia diffusione a livello tradizionale di Fenesta che lucive fa escludere a nostro avviso una sua origine colta (per intenderci l’ipotesi Bellini) perché sarebbe l’unico caso di brano colto ad avere un così grande numero di varianti musicali e testuali nell’ambito della tradizione orale; – è plausibile che il brano avesse a livello popolare una ‘doppia circolazione’: in ambito contadino come testo rituale da utilizzare per una tammurriata, una tarantella o una zampognara, in ambito cittadino come canzone narrativa in cui si raccontava la storia simbolica di una giovane donna morta prematuramente; – in ambito cittadino alcuni passi di questa storia (forse quella di Carini oppure, come noi pensiamo, una simbolica ancora più antica) probabilmente si ‘cristallizzarono’ e vennero associati a melodie elaborate da cantastorie;77 – dall’ascolto di una di queste esecuzioni cittadine di cantastorie o viggianesi (che forse la portarono a Napoli dalla Sicilia o dalla Basilicata) molto probabilmente basate su due semplici frasi melodiche (un distico AB simile alla versione Prudente) un compositore (Cottrau o chi per esso) trascrisse il brano e poi ne ‘stilizzò’ la melodia in base al gusto tematico dell’epoca, aggiungendo la frase C, l’introduzione e un accompagnamento armonico. I due documenti ‘ritrovati’ Ma eccoci giunti alla vera novità del nostro studio ovvero la scoperta di due preziosi documenti, un manoscritto autografo e una partitura a stampa, finora mai venuti alla luce. Il ritrovamento è avvenuto quando il presente saggio stava già per essere ultimato e la notevole importanza avrebbe richiesto una ‘riscrittura’ del nostro intervento. Non ce n’è stato bisogno per un semplice motivo: questi documenti convergono esattamente, sembrandone una conferma, con quelle che erano le ipotesi venute fuori nel corso della nostra indagine, c’è solo un’ulteriore ‘sorpresa’. Il primo documento ritrovato è addirittura il manoscritto di Fenesta che lucive ad opera di Guglielmo Cottrau risalente all’anno 1840. Questo documento, mai segnalato prima, venne pubblicato in una rivista denominata Regina in un numero speciale per Piedigrotta uscito nell’agosto-settembre del 1910 in calce 77. È assai probabile che tali melodie elaborate da cantastorie, posteggiatori o viggianesi subissero l’influenza della musica colta precedente (opera buffa) o dell’epoca perché era proprio nell’ambito cittadino che avveniva maggiormente uno scambio ‘bidirezionale’ tra musica popolare e musica colta. Proprio in quest’ottica, ad esempio, è spiegabile la somiglianza, da molti sottolineata, tra la prima mossa melodica (salto di quarta e procedere per gradi congiunti ascendenti) di Fenesta che lucive e altre canzoni popolari, con la famosa preghiera del Mosè di Rossini “Dal tuo stellato soglio”. Cfr. SELLER – ALLORTO, Canti popolari e popolareschi nelle trascrizioni dell’ottocento, pp. 33, 61, 84.
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ad un articolo di Di Giacomo dal titolo Fenesta vascia.78 In quest’articolo Di Giacomo diceva che gli erano venuti «tra le mani» i due manoscritti lì riprodotti, Fenesta vascia e la nostra Fenesta che lucive, e in più una copia del volume Portefeuille d’un mélomane79 in cui erano raccolte le lettere di Guglielmo scritte ai familiari.80 Non vi nascondiamo che in un primo momento abbiamo dubitato della veridicità dei documenti pubblicati da Di Giacomo, per i due seguenti motivi: – Di Giacomo non è affatto immune dal ‘vizietto’ di fabbricare falsi ‘d’autore’ per attribuire la paternità di celebri canzoni a uomini illustri: ricordiamo la falsa copiella di Michelemmà con l’indicazione di Salvator Rosa come autore, tesi ormai ampiamente smentita;81 – inoltre non comprendiamo il perché lo stesso non ci dica chi è stato a inviargli i due ‘autografi’.82 Forse qualcuno della famiglia Cottrau? O chi per loro? Questi dubbi (che in buona parte, lo ammettiamo, erano dei ‘pregiudizi’ verso Di Giacomo visti i precedenti di cui sopra) ci hanno pervaso fin dal primo ritrovamento dei due manoscritti che, pur ammettendo che non fossero autentici, comunque rappresentavano una notizia in quanto mai nessuno li aveva segnalati. Ma poi dopo un’analisi attenta abbiamo cambiato idea e ora siamo quasi certi della loro autenticità per le ragioni che cerchiamo di spiegarvi. Innanzitutto il manoscritto di Fenesta vascia (col sottotitolo di calascionata napolitana ma senza alcuna firma o data) è pressoché identico allo spartito della canzone di cui è possibile osservare una copia pubblicata nella 2ª parte
78. Cfr. «Regina, Le signore d’Italia – La contessa Raggio-Spinola», VII, n. 8, Agosto-Settembre 1910, numero speciale di Piedigrotta. Una copia di questo numero è conservata presso la sezione Lucchesi Palli della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli. Regina era una «rivista per le signore e per le signorine» e in questo numero ampio spazio veniva dato, fin dalla copertina, al matrimonio che l’anno prima aveva sancito a Genova l’unione tra la marchesina Thea Spinola e il conte Raggio. V’erano però nello stesso numero vari articoli in cui si parlava di musica: oltre a quello di Di Giacomo c’era ad esempio un intervento di Enrico De Leva dal titolo La canzone dove il maestro parlava della sua esperienza ‘romana’ e della nascita di una canzone composta insieme a Peppino Turco (l’autore della celebre Funiculì Funiculà) e c’era anche un articolo su Tamburelli e castagnette, in tema di Piedigrotta, a firma di Muzzola. 79. Cfr. Portefeuille d’un mélomanne, in «Revue Britannique», Paris, LXIII, (1887). 80. In base a questi documenti ‘nuovi’ che gli erano pervenuti, Di Giacomo nell’articolo tesseva le lodi di Guglielmo Cottrau, a suo parere un po’ ‘maltrattato’ dagli studiosi (e, con ammissione di colpa, anche da lui stesso), cercando di riabilitarne la figura oltre che di ‘raccoglitore’ anche di compositore di alcune celebri canzoni tra cui la stessa Fenesta vascia. Cfr. «Regina, Le signore d’Italia – La contessa Raggio-Spinola». 81. Cfr. DE SIMONE, Disordinata storia della canzone napoletana, p. 73. 82. Facciamo notare che nessuno dei due manoscritti reca la firma autografa di Guglielmo Cottrau.
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della raccolta Passatempi musicali del 182583 conservata presso il Conservatorio di Napoli. Sia le frasi melodiche del canto che l’accompagnamento armonico del pianoforte riprodotti nel manoscritto sono sostanzialmente identici a quelli riportati nella partitura, che tra l’altro è nella stessa tonalità di si bemolle. Fin qui tutto bene, dando per buona l’ipotesi che il manoscritto sia ‘originale’ sarebbe solo una prova in più a favore dell’attribuzione di questa canzone a Guglielmo Cottrau che peraltro in una delle sue lettere ne aveva rivendicato la paternità. Ma passando invece a esaminare il manoscritto di Fenesta che lucive ci ritroviamo invece di fronte a diverse ‘sorprese’: – non è nella stessa tonalità della prima versione stampata (versione Guglielmo Cottrau del 1843) che era ricordiamo in fa minore mentre questa è in sol minore;84 – non ha alcuna introduzione, ha un accompagnamento armonico essenziale assai diverso da quello della partitura e una coda musicale affidata al solo pianoforte; – ‘sorpresa delle sorprese’ (ma non per noi): il brano è composto esclusivamente da due frasi melodiche ovvero ha una struttura melodica AB (manca quindi la ‘famosa’ frase C); – le due frasi melodiche sono peraltro alquanto diverse da quelle che noi conosciamo attraverso la partitura della canzone. Ve le sottoponiamo: A
fe - nes - ta
B
si - gno
ca
lu - ce
-
ca nen - na
mi - a
va/e mmò
non lu
o - je sta
-
ce
ma - la
-
ta
– queste due frasi sono abbinate a cinque distici di endecasillabi (e non due sestine come nella versione stampata) che pur presentando diverse somiglianze con quelli della canzone presentano anche numerose differenze (a partire dall’incipit che qui è «Fenesta ca luceva e mmò non luce» invece che «Fenesta che 83. Si tratta del secondo volume della ristampa della 1ª edizione dei Passatempi divisa in 3 parti (che divennero 4 nella 3ª ediz. del 1829) fatta verso la fine del 1825 dopo l’esaurimento dei sei fascicoli misti iniziali usciti tra il 1824 e il 1825 (cfr. «Giornale del Regno delle due Sicilie», 1826, n. 129, 5 Giugno). Fenesta vascia fu probabilmente stampata per la prima volta nel 1824 in uno dei primi due fascicoli (i quattro successivi sono tutti del 1825) che non siamo riusciti al momento a ritrovare. Cerillo infatti indica per questo brano la data del 1824: cfr. LYLIRCUS, Ricordi biografici napoletani dal 1820 al 1850, Guglielmo Cottrau, p. 52. 84. Peraltro conosciamo varie versioni di Fenesta che lucive in diverse tonalità: la versione in re minore di Teodoro Cottrau, quella in mi minore di Achille Longo, una in la minore pubblicata da Clausetti (indicata da Vajro ma che non abbiamo avuto modo di vedere) ma nessuna in sol minore.
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lucivi e mo non luci» della versione del 1843). Ecco i cinque distici riportati nel manoscritto del 1840: Fenesta ca luceva e mmò non luce Signo ca nenna mia oje stà malata S’affaccia la sorella e mme lo dice Nennella toja è morta e s’è atterrata Vaja a la chiesia e leva lo tavuto Vide nennella toja ch’è arreventata Zi parrocchiano mio Zi parrocchiano Tiene oje le cannele sempe allumate Tu mme dicive ca dormive sola Mmo dorme co li muorte accompagnata
In questo caso, a differenza di Fenesta vascia, abbiamo sul manoscritto la seguente dedica scritta in francese: «melodie napolitaine recueillè 85 et offerte a Mademoiselle Luoff» («melodia napoletana raccolta e offerta alla signorina Luoff»). Abbiamo inoltre l’indicazione della data «11 Août 1840» (11 Agosto 1840) e, ancora più in basso, un’altra frase (di cui non riusciamo a decifrare la prima parola) che recita così «…heures, d’ineffaçables souvenirs» («…ore, degli incancellabili ricordi») con la firma di Lina Freppa, sorella di Guglielmo Cottrau.86 Sulla base di queste constatazioni ci sembra poco credibile che Di Giacomo abbia riprodotto due falsi: uno identico all’originale e l’altro invece assai diverso. E per quale motivo poi, nel caso di Fenesta che lucive, egli (o qualcuno per lui) avrebbe dovuto modificare la tonalità, il testo, la musica (cambiando le frasi melodiche e eliminandone addirittura una), mettere una data (che ricordiamo nell’altra canzone non c’è) e inventarsi una dedica scritta? Per dimostrare cosa? 85. Sul manoscritto la parola recueillè è scritta sopra un’altra cancellata che a noi, dopo un approfondito esame, è sembrata essere sempre recueillè. È probabile che Cottrau abbia scritto per la prima volta la parola, poi magari l’abbia cancellata pensando di scriverne un’altra, forse composè (cioè composta), ma poi per amore di verità abbia riscritto recueillè. 86. Lina Freppa era cantante oltre che insigne cultrice di musica. Nella società aristocratica parigina era un punto di riferimento per tutti i musicisti, famosi e meno famosi, che si fermavano nella capitale francese e che prima o poi passavano nel suo salotto. Celebri musicisti le dedicarono delle loro composizioni: ricordiamo la romanza L’abbandono. Solitario Zeffiretto scritta da Bellini, le 4 mazurke (op. 17) di Chopin e i 10 solfeggi di Crescentini. Cfr. LYLIRCUS, Ricordi biografici napoletani dal 1820 al 1850, Guglielmo Cottrau, p. 21.
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L’ipotesi del falso, a nostro avviso, non regge e bisogna solo riuscire a capire da dove arriva il manoscritto. La dedica ci dà un indizio: probabilmente Guglielmo Cottrau inviò il brano alla sorella Lina Freppa (che curava per lui i rapporti artistici in Francia) pregandola di farne omaggio a «mademoiselle Luoff» (la cui identità non siamo capaci al momento di svelare ma che probabilmente era la figlia o sorella di qualche musicista amico dei Cottrau 87) e può darsi che sia stata proprio quest’ultima in tarda età a inviare il manoscritto a Di Giacomo. Ma la domanda viene spontanea: come faceva la Luoff ad avere anche il manoscritto di Fenesta vascia che non reca invece alcuna dedica? A questo punto è secondo noi più plausibile che uno degli eredi dei Cottrau abbia raccolto entrambi i manoscritti (di cui forse la stessa Lina Frappa, morta nel 1870, aveva una copia) e ne abbia fatto omaggio a Di Giacomo, ma ci rendiamo conto che siamo sempre nel campo delle ipotesi non suffragate da alcuna prova. Vi spieghiamo adesso il modo in cui siamo giunti al ritrovamento del secondo importante documento. Riacquistata una certa ‘fiducia’ verso Di Giacomo (intendiamo verso lo storico della canzone, non verso il poeta e autore che non abbiamo mai messo in discussione) ci siamo presi la briga di verificare la fondatezza di una sua congettura sulla musica di Fenesta che lucive, quando afferma: «Luigi Ricci pare che l’abbia fornita al famoso Cottrau che ne fece una riduzione».88 Ci siamo quindi messi a cercare se tra le composizioni minori del famoso operista89 c’era qualche brano che ci riportasse alla nostra canzone ma nulla veniva fuori. Sapendo poi che Luigi aveva un fratello musicista, Federico, meno celebre ma che come lui (e spesso con lui) componeva sia opere che canzoni o ariette, abbiamo deciso di cercare anche tra le composizioni di quest’ultimo e questa volta siamo stati più ‘fortunati’. Presso la biblioteca del Conservatorio di Napoli abbiamo ritrovato un volume dal titolo C’est pour vous, album lyrique composè et dèdie aux artistes de l’opéra italienne à Vienne par Federico Ricci pubblicato a Milano chez François Lucca in cui sono contenuti 8 brani (7 ariette più un duettino) e di questi il n. 7, dal titolo Canzonetta napoletana, La mia bella… è morta, altro non è che Fenesta che lucive con più o meno lo stesso testo e la stessa musica della prima versione stampata da Cottrau nel 1843, soltanto che questa di Ricci è nella to87. Abbiamo trovato un solo Luoff musicista: si tratta di Aleksei Fjodorovič Luoff (indicato a volte anche come Lwoff oppure Lvov), un compositore e violinista russo che aveva scritto, tra le altre cose, anche il vecchio inno nazionale russo dal titolo Lord God, protect the czar. Questo Luoff visse nello stesso periodo (1796-1870) dei Cottrau e inoltre effettuò diverse tournèe in Europa con un quartetto d’archi. Tuttavia non possiamo essere sicuri che la «mademoiselle Luoff» a cui fu offerto il manoscritto di Fenesta che lucive abbia qualcosa a che fare con il musicista russo. Ci vorrebbe qualche indizio in più che al momento non siamo in grado di fornirvi. È attestata comunque la presenza in Francia del cognome Lwoff o Luoff che ha origine dal russo Lvov. 88. Cfr. DI GIACOMO, Fenesta ca lucive, p. 45. 89. Cfr. DE MURA, Enciclopedia della canzone napoletana, vol. I, pp. 341-2.
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nalità di mi minore mentre quella è in fa minore. Oltre a questa, le differenze tra le due stampe sono davvero minime sia dal punto di vista testuale che musicale. Vi sottoponiamo il testo della Canzonetta napoletana pubblicata da Ricci: Fenesta che allucive e mo non luce Segn’è che nenna mia mo sta malata S’affaccia la sorella e me lo dice Nennella toja è morta e s’è atterrata Chiagnive sempe ca dormive sola, ah! Mo dorme co li muorte accompagnata… Da chella vocca che n’asceano sciure Mo n’escene li vierme, che pietate Và nella chiesia scompa lo tuvuto Vide nennella toja comm’è tornata Sì Parrocchiano mio abbice cura, ah! Na lampa tienece sempe allumata
Come possiamo vedere il testo è pressoché identico a quello pubblicato nel 184390 (anche quello diviso in due sestine di endecasillabi). Anche la musica è praticamente identica, ci sono soltanto queste differenze: – l’introduzione di Ricci (anch’essa di cinque battute) rispetto a quella di Cottrau manca dell’accenno della melodia (suonato per ottave) fatto a batt. 4 e ha un accompagnamento leggermente diverso ma essenzialmente l’idea è la stessa; – nella melodia cambia effettivamente una sola nota: il quinto grado ribattuto (do-do) tra batt. 7 e 8 (per intenderci le note su cui si canta sign’è) di Cottrau, in Ricci diventa un passaggio sesto-quinto grado discendente (do-si7); – la differenza più evidente è che Cottrau fa ripetere due volte (allungando quindi il brano) la seconda parte ottenendo la struttura melodica ABABCB¹CB¹ mentre in Ricci è semplicemente ABABCB¹. Per attuare questa ripetizione Cottrau usa un espediente assai comune, fa terminare la prima volta la melodia vocale del B¹ sul terzo grado (cadenza imperfetta), poi affida la ripetizione della frase C al solo pianoforte e conclude infine con la voce che rientra e ripete la frase B¹ terminante stavolta ovviamente sul primo grado. In sostanza quindi possiamo dire che si tratta di due versioni quasi identiche e le cose sono due: o è stato Cottrau a fornire a Ricci la sua partitura (ma non 90. Ci sono solo delle lievi variazioni ortografiche (ad esempio «allucive e mo non luce» invece di «lucivi e mo non luci»), un’inversione tra le coppie di endecasillabi della seconda sestina (lì c’era prima «Và nella chiesia…» e poi «Da chella vocca…», qui il contrario), «scuopre lo tavuto» qui diventa «scompa lo tuvuto», «tienece cura» diventa «abbice cura», «li lampe sempe tienence» diventa «na lampa tienece sempe».
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riusciamo a capire per quale motivo quest’ultimo avrebbe spacciato per sua la composizione o la rielaborazione) oppure, come noi crediamo, è stato invece Federico Ricci a fornirla a Cottrau che infatti non se l’attribuisce, pubblicandola anonima, anche dopo averla sottoposta a un’ulteriore “aggiustatura”. L’arcano potrebbe essere facilmente svelato se sapessimo con esattezza l’anno di pubblicazione dell’album C’est pour vous di Ricci, ma, come spesso accade per le stampe musicali, esso è dato senza alcun riferimento cronologico e con la semplice indicazione del numero di edizione per ogni arietta: la nostra Canzonetta napoletana, La mia bella… è morta, dedicata al signor G. Ronconi,91 corrisponde al n. 2673. L’album di Ricci viene però dato dappertutto senza data tranne che alla biblioteca del Conservatorio di Milano dove è attribuito come anno di pubblicazione il 1840.92 Se tale data fosse confermata sarebbe evidente che la prima versione stampata di Fenesta che lucive sarebbe non più quella di Cottrau del 1843 ma questa di Federico Ricci del 1840, solo che con un titolo diverso. La cosa è, secondo noi, plausibile e i fatti potrebbero essere andati più o meno così: – Cottrau raccoglie dal popolo il brano così come riportato nel manoscritto del 1840; presumibilmente la trascrizione93 risale all’inizio di quell’anno se non addirittura a qualche anno prima;94 – la trascrizione viene fatta girare (tramite la Freppa?) dal Cottrau tra la sua cerchia di amici musicisti di cui i fratelli Ricci facevano parte;95 – Federico rielabora a suo modo il brano, ‘stilizzando’ la melodia in base al gusto tematico dell’epoca, aggiungendo la parte C (forse avendo nelle orecchie la frase «Più non reggo a tanto duolo» di Bellini?), un’introduzione e un’accompagnamento armonico. Decide quindi di pubblicare il brano nel suo album 91. Si tratta quasi sicuramente di Giorgio Ronconi (1810-1890), cantante nato a Milano, che aveva esordito verso il 1830 e si era affermato, in particolare nel repertorio donizettiano e verdiano, come uno dei migliori baritoni del suo tempo grazie alle sue eccezionali doti vocali e interpretative. 92. Secondo quanto riferitoci da Massimo Gentili Tedeschi, direttore della Biblioteca del Conservatorio di Milano, le edizioni di Lucca sono state datate in base ai numeri di lastra e ai registri di censura al momento del deposito legale e quelle possedute alla biblioteca del Conservatorio di Milano sono proprio le copie passate per la Prefettura, sono dunque datazioni molto attendibili. 93. Sul Cottrau ‘trascrittore’ di canti popolari ecco cosa ci dice Monnier: «Ei se ne andò quindi in tutti i quartieri popolari, ove pigliava le persone pel bavero e le faceva cantare, origliava agli usci, colla matita in mano, e scriveva le parole, e notava le arie… Di tal guisa, adunò in portafoglio, come in un guardaroba, migliaia di versi: poi di quel guardaroba fece un salotto; di quei bricioli di poesie, sparsi a’ quattroventi e razzolati a caso, un delizioso mosaico». Cfr. MARC MONNIER, L’Italia è ella la terra di morti?, Venezia, Naratovich, 1863, p. 223. 94. Non è del tutto escluso che Fenesta che lucivi facesse già parte delle composizioni inviate da Cottrau alla madre di cui si fa riferimento nella lettera del 9 Novembre 1836. Cfr. Lettres d’un mélomane, p. 48. 95. Gli stretti rapporti di amicizia tra Guglielmo Cottrau e i fratelli Ricci sono testimoniati anche da alcune lettere. In una di esse Luigi Ricci si rivolge a Cottrau chiedendogli aiuto in qualità di “amico e protettore”. Cfr. Lettres d’un mélomane, pp. 39-41.
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del 1840 col titolo Canzonetta napoletana. La mia bella… è morta, anche perché esso probabilmente non aveva ancora un titolo vero e proprio;96 – qualche anno dopo, nel 1843, quando Cottrau deve dare alle stampe le sue 25 Nuove canzoncine nazionali napoletane Federico Ricci ricambia il ‘favore’ offrendogli la sua rielaborazione del brano, che stavolta prende il nome di Fenesta che lucivi e sarà il titolo che lo consegnerà alla gloria e alla fortuna. Resta quindi da stabilire se da adesso in poi la canzone debba essere scritta e datata in uno dei due modi seguenti: – Fenesta che allucive… (col titolo Canzonetta napoletana, la mia bella… è morta), anno 1840, canzone popolare trascritta da Guglielmo Cottrau e rielaborata da Federico Ricci. – Fenesta che lucivi, anno 1843, canzone popolare trascritta e rielaborata da Guglielmo Cottrau.97 Bisogna infine rispondere a una domanda che fin qui abbiamo volutamente evaso: Fenesta che lucive è una canzone napoletana? La nostra risposta è: Fenesta che lucive è un classico della canzone napoletana ma non è una canzone napoletana classica. Può sembrare un gioco di parole ma non lo è. A nostro avviso può essere sicuramente classificata come canzone napoletana perché, anche nel caso fossero dimostrate le sue origini siciliane (o lucane o pugliesi ecc.), essa a un certo punto si ‘cristallizza’ nella versione in dialetto napoletano abbinata alla musica che tutti conosciamo. All’interno della canzone napoletana è sicuramente un ‘classico’ nel senso che è uno dei brani più eseguiti e cantati (un evergreen per intenderci) ma non è una canzone napoletana classica: essa fa parte di tutte quelle canzoncine o canzonette ricavate da canti artigiani di area cittadina sottoposti a una ‘limatura’ colta da maestri come Cottrau, Ricci, Florimo ecc. o da loro composte cercando di ‘imitarne’ le caratteristiche. Questa vasta produzione rappresenta quel periodo di ‘incubazione’ da cui poi verrà fuori nell’ultimo ventennio dell’800 la canzone napoletana classica in quanto canzone urbana d’autore con i suoi elementi di ibridismo e con alcune precise caratteristiche (tra cui il modello strofa-ritornello). A nostro avviso fino a quando non si comprenderà fino in fondo cosa è accaduto nella canzone napoletana nella prima parte dell’800, e in particolare dal
96. Nel manoscritto si può osservare che il titolo non è indicato a penna, come per Fenesta vascia, ma è stato probabilmente aggiunto dopo, stampato, al momento della pubblicazione sulla rivista Regina. 97. Molti, tra cui anche il De Mura, ipotizzano che sia stato Giulio Genoino a elaborare il testo per Cottrau. Nel corso della nostra indagine non abbiamo però trovato alcun indizio concreto che ci inducesse a pensare valida tale ipotesi, ci limitiamo quindi qui a segnalarla e a sottolineare che, allo stato attuale, essa non ha alcun serio fondamento. Cfr. DE MURA, Enciclopedia della canzone napoletana, vol. I, p. 88.
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1824 (anno di inizio dei Passatempi) fino al 188098 (anno di Funiculì Funiculà), cioè in quella fase che potremmo definire pre-classica, non si capirà mai completamente come nasce, cos’è e com’è fatta quella che oggi chiamiamo canzone napoletana classica. Abbiamo invece purtroppo riscontrato, conducendo l’indagine su una sola canzone (figuriamoci sull’intero repertorio che conta decine di migliaia di brani), che su questo periodo si naviga ancora ‘a vista’ perché manca una seria catalogazione del materiale (ad es. di tutti i brani pubblicati da Cottrau padre e figlio, Florimo ecc.), una rigorosa analisi scientifica e dei seri riferimenti bibliografici. È quindi con l’auspicio, che suona un po’ come un ‘impegno personale’, che si colmi al più presto tale lacuna, che vogliamo concludere il nostro presente contributo.
98. Sottolineamo una significativa coincidenza: Teodoro Cottrau muore nel 1879 quasi a simbolizzare con la sua scomparsa la fine di un ciclo e l’apertura di uno nuovo che vedrà, a partire dall’anno successivo, il passaggio alla cosiddetta fase d’oro o classica della canzone napoletana.
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Il frontespizio del numero speciale di Piedigrotta della rivista Regina del 1910 in cui furono pubblicati, allegati ad un articolo di Salvatore Di Giacomo, i manoscritti di Fenesta che lucive e Fenesta Vascia
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Il manoscritto di Fenesta che lucive datato 11 agosto 1840, pubblicato dalla rivista Regina
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Il manoscritto di Fenesta Vascia. Calascionata Napoletana, apparso sempre sulla rivista Regina
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Il frontespizio della raccolta C’est Pour Vous di Federico Ricci databile intorno al 1840
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La partitura di Canzonetta napoletana. La mia bella è morta pubblicata da Federico Ricci nell’album C’est Pour Vous
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