Ruggero Bacone Frate Francescano Fra i Primi Alchimisti

February 27, 2017 | Author: Valentina Ferracioli | Category: N/A
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Ruggero Bacone frate francescano fra i primi Alchimisti

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Ruggero Bacone frate francescano fra i primi Alchimisti

Nell'A.D. 1267 un frate inglese di nome Ruggero Bacone (A.D. 1222-1292), inviò a papa Clemente IV, il suo trattato dal titolo Opus Maius. Nel testo, Bacone esponeva le sue teorie, e informava il Pontefice che, l’anno del calendario, risultava più lungo, rispetto all’anno solare, di circa la 130-esima parte di un giorno.

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Aggiunse anche che, a partire dal concilio di Nicea, quest’errore aveva spostato all'indietro l’equinozio di primavera di ben 9 giorni, e che dunque la Pasqua, veniva celebrata nel giorno sbagliato. Ci sono ignote le reazioni del papa, anche perché questi morì, improvvisamente, nel novembre dell'A.D. 1268. Da quel momento, le teorie di Bacone, furono dichiarate eretiche, e lui stesso venne perseguito e imprigionato. Quando nell'A.D. 1348 si abbattè la peste, che sterminò, in due anni, un terzo di tutti gli europei, ovvero circa 30 milioni di persone, gli orologi meccanici con pesi e lancette, già inventati attorno all'A.D. 1320, ora cominciarono a diffondersi. I vistosi errori de l calendario, così, divenivano noti a un maggior numero di persone, e la Chiesa si convinse che era ormai necessario porvi rimedio. Se ne occupò, così, papa Giovanni XXIII (A.D. 1350-1420), se ne parlò al concilio di Basilea (Svizzera) nell'A.D. 1436, e nel Quinto Concilio Laterano a Roma dell'A.D. 1512, se ne occupò anche papa Leone X (A.D. 1450-1533), ma non si giunse ad una valida soluzione.

Nell'A.D. 1543 fu pubblicato un libro importantissimo, il De Revolutionibus di Niccolò Copernico (A.D . 1473-1543). Copernico lavorò alla sua opera per trent’anni.

Fu riluttante a pubblicarla, ben sapendo che la sua teoria eliocentrica, non sarebbe stata accol ta favorevolmente, dopo che per millenni il genere umano aveva ritenuto la Terra il centro dell’universo. Compì i suoi calcoli basandosi in parte sulle proprie osservazioni, e in parte su quelle fatte, nel corso dei secoli, dagli astronomi greci ed arabi.

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Riuscì a ottenere misure, notevolmente accurate, sia dell’anno tropico, che dell’anno siderale. Queste misurazioni di Copernico (e non la sua teori a), insieme ad altre carte astronomiche dell’epoca, furono usate per trovare l’elegante soluzione per la sistemazione del calendario, promulgata il 24° giorno di febbraio dell'A.D. 1582, con la bolla papale firmata dall’ottantenne papa Gregorio XIII.

La riforma di Gregorio giunse, dopo che egli ebbe nominato un’apposita commissione, presie duta dal matematico bavarese Christopher Clavius, e grazie ad un medico italiano, Luigi Lilio, che effettivamente elaborò la soluzione. Luigi Lilio (A.D. 1510-1576) nacque a Ciro, in Calabria. Studiò medicina e astronomia, e morì prima che la sua riforma venisse accettata. Il gesuita Christopher Clavius (A.D. 1538-1612) fu l’uomo che difese le idee di Lilio. Fu devoto difensore dell’ipotesi tolemaica dell’universo, ma lavorò duramente per difendere e illustrare la riforma, rendendo possibile la sua diffusione, oltre il ristretto gruppo di paesi che, sin dall’inizio, la adottarono. Il documento più importante dell’intero processo di riforma, fu un manoscritto, scomparso senza lasciare traccia, di Luigi Lilio. Ci resta, però, un breve opuscolo pubblicato dalla commissione, intitolato Compendium novae rationis restituendi kalendarium, ovvero una sintesi della soluzione di Lilio. Fino ad allora, tutti gli studiosi (Copernico incluso), erano erroneamente convinti che, le diverse misurazioni ottenute nei secoli, dell’anno tropico, fossero da imputarsi al fatto che quest’ultimo è variabile. Lilio propose, pertan to, di servirsi di una valutazione media delle misurazioni dell’anno tropico, e di basarsi sulle Tavole Alfonsine, che, originariamente scritte nell'A.D. 1252, e aggiornate nel corso degli anni, includevano anche la misurazione di Copernico. Il valore medio delle misurazioni dell'anno tropico, chiamato anno alfonsino, che così si calcolò, risultò più corto, rispetto all'anno giuliano, della 134-esima parte di un giorno. Tale valore medio, divenne l’anno vero da impiegare, per colmare la differenza che esisteva con l’anno del calendario giuliano, lungo, come è noto, 365 giorni e 1/4. Dato che l'anno alfonsino è più corto, rispetto all'anno giuliano, della 134-esima parte di un giorno, ciò equivale a un giorno perduto ogni 134 anni giuliani. Lilio approssimò il risultato di 134 moltiplicato 3, ovvero 402, a 400. E concluse che, il calendario giuliano, perdeva 3 giorni ogni 400 anni. Quello che dunque si fece, fu, semplicemente, di lasciare immutato il calendario giuliano, là dove Cesare stabilì che, ad un ciclo di tre anni di 365 giorni, doveva seguire un anno bisestile di 366 giorni. Tranne ad imporre anche di eliminare 3 giorni ogni 400 anni, che si decise di togliere agli anni centenari non divisibili per 400. Pagina 3 di 60

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Così: l'A.D. 1600 fu bisestile, mentre gli A.D. 1700, 1800 e 1900 no. L'A.D. 2000 è stato nuovamente bisestile, non lo saranno gli A.D. 2100, 2200 e 2300, ma l'A.D. 2400 si, e così via. Questo sistema, basato su tavole con misure imprecise dell’anno tropico, e ottenuto attraverso una discutibile approssimazione, si è rivelato, malgrado ciò, notevolmente accurato. Infatti, si perde 1 giorno, solo ogni 3.200 anni. Se, infatti, si fanno i conti, e si tiene conto del fatto che, solo ogni 400 anni, il numero di giorni è sempre lo stesso, viene fuori il cosiddetto anno calendaristico, di soli 27 secondi maggiore, dell’anno tropico relativo all’era in corso, e a cui corrisponde, appunto, 1 giorno perso solo ogni 3200 anni. Per recuperare, poi, i giorni perduti a causa dello spostamento del calendario giuliano, e riportare l’equinozio di primavera all’epoca di Nicea, Lilio suggerì di cancellare 10 giorni, tutti in una volta. Perché, però, si potesse celebrare la Pasqua, nel giorno da determinarsi secondo le modalità stabilite a Nicea, occorreva, non solo riportare al suo posto l’equinozio di primavera, ma anche accordare meglio l’anno solare con l’anno lunare. Fino ai giorni della riforma, si impiegò un ciclo di 19 anni che, però, aveva ormai accumulato un errore pari a 4 giorni. Per porvi rimedio Lilio propose una sua soluzione, anch’essa puntualmente accolta. La riforma fu dunque approvata, e così avvenne che, il giorno successivo al 4° giorno di ottobre dell'A.D. 1582 fu il 15° giorno di ottobre dell'A.D. 1582, con 10 giorni persi per sempre. Il mistero del manoscritto Voynich, l’unico codice mai decifrato. Scienza in ginocchio, in crisi anche i computer

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Roma -(Adnkronos) - Da oltre mezzo millennio esoteristi e crittografi tentano invano di svelare i segreti di uno scritto medioevale ricomparso per magia. Il destino delle carte segrete passa per Villa Mondragone a Frascati. Inattaccabile ai sistemi informatici, nella sua vetrina all’Università di Yale il libro del mistero aspetta chi sappia leggergli l’anima il codice. Ne esiste una copia sola al mondo e forse è l’ultimo enigma letterario della storia che resterà per sempre: il manoscritto Voynich (di cui si vede una pagina nella foto). Nessuno finora è riuscito a decifrare questo codice medioevale che lungo i secoli ha portato per i campi anche i crittografi militari che infransero i codici tedeschi e giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale. Il piccolo codice oscuro racconta di strani alberi e delle loro radici, che spesso hanno occhi. A strani segni mischia vegetali impossibili da identificare, mentre mostra un drago che divora una pianta. E ancora: cerchi con simboli sconosciuti, cadaveri femminili e scritte in lingue. Gallassie a spirale e diagrammi di costellazioni che non esistono. Nelle illustrazioni in inchiostro ad acqua dalle sfumature in verde e marrone, giallo, blu e rosso che compongono le sue sei sezioni del manoscritto più misterioso del tempo, ci sono anche donne nelle vasche e ninfe in tinozze, animali inesistenti e strane danze celesti. Vi si alternano in un gioco senza soluzione schizzi perfetti e a volte veloci, che sembrano usciti dalla china bizzarra di un dio perduto o forse di un bevitore. Il Voynich ha tutta l’aria di essere il manuale di un alchimista o un ghirigoro stenografico, per altri è invece un contributo alla medicina erboristica. Di certo gli ideogrammi rimandano ad altro da ciò che appare a prima vista. Il manoscritto cifrato misura 225 per 160 mm, e con i suoi oltre 250.000 caratteri ancora da comprendere, ha percorso un lungo cammino dalla sua composizione, che gli studiosi datano tra il 1470 e il 1608 e le ultime scoperte di Gordon Rugg, nel 2004. Ognuno vorrebbe avere la chiave idonea per penetrarne il messaggio. Invogliati all’impresa da una frase del testo che, secondo l’interpretazione di William Newbold, recita: ''Mi hai dato molte porte''. Forse sono quelle della cabala e del mistero esoterico. Ma non e’ che mancato anche chi ha ‘scoperto’ tra questi fogli ricomparsi quasi per magia un contraccettivo orale a base di corteccia di pino e ‘olio di evonimo’. L’affascinante leggenda che cironda il tesoro letterario di questi 102 fogli rilegati, che sanno di zolfo e di coda del demonio, è stata popolata da una folla di personaggi interessanti: alcuni erano grigi trafficoni, altri geniali studiosi, collegati tutti all’intreccio piramidale di pagine scritte con testo scientifico o magico, in un linguaggio cifrato, apparentemente basato su caratteri latini in minuscolo. Tra essi ci sono la regina Elisabetta d’Inghilterra, Pontanus e Rodolfo II. E ancora ebbero a che fare con il manoscritto misterioso il medico cieco di Praga, Marcus Marci, e Athanasius Kircher. Secondo altri il testo sarebbe invece frutto della mente geniale del monaco francescano Ruggero Bacone, compromessa da piu’ di dieci anni di isolamento in carcere. Altri vi hanno colto lo zampino di un ‘bambino’ prodigio che si chiamava Leonardo da Vinci. Mentre Johannes Marcus Marci avverte: ''Sfingi simili non obbediscono che al loro padrone''. Ma l’ipotesi più suggestiva resta quella secondo cui il manoscritto Voynich sia l’unico testo pervenutoci dei Catari, da molti ritenuti i veri custodi del Santo Graal. Questo documento sarebbe dunque l’unica copia di cio’ che rimane della loro lingua e dei loro segreti, intrecciati a doppio filo con il volto di Maria Maddalena e del suo sangue reale. C’è poi un alto mistero nel mistero: dal manoscritto mancano 8 fogli. Diverse pagine, inoltre, sono piegate e una volta aperte hanno la dimensione di una pagina doppia. Ve ne è perfino una, la più grande, che una volta dispiegata forma un solo grande foglio delle dimensioni di sei pagine. Analizzato già nel Rinascimento, il manoscritto scomparve nel 1666 per essere riscoperto nel 1912 secolo da un misterioso compratore, il libraio e antiquario Wilfred Michael Voynich. Il Pagina 5 di 60

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destino di queste carte segrete porta il manoscritto a Frascati, nella Villa Mondragone, proprietà dei Gesuiti. Proprio i discepoli di Ignazio di Loyola, specialmente i padri Beckx e Strickland, furono determinanti per la sopravvivenza del manoscritto, classificato MS 408. Nel corso dei secoli scienziati ed esegeti si sono arrovellati sui suoi simboli, che restano inattaccabili anche ai più sofisticati programmi informatici. Molti ricercatori hanno gettato la spugna, convincendosi che il testo non racchiuda un significato in assoluto e che il suo autore, in questo caso, sarebbe il più grande burlone della storia. Di sicuro sarebbe però il più fortunato, perché il suo perfetto e orchestrato inganno ha obbligato tanti a investire ingenti somme di denaro e secoli di ricerche per sciogliere un nodo che non esisterebbe. Nel frattempo anche sulla Rete da anni prosegue, in decine di blog, il dibattito sull’enigmatico libro. Nell’articolo pubblicato sulla rivista ‘Nature’ del 15 dicembre 2003 da John Withfield, Gordon Rugg afferma che e’ abbastanza verosimile che Edward Kelley e John Dee, due stravaganti inglesi approdati alla corte di Praga, abbiano fatto passare per un antico manoscritto opera di Bacone, un incomprensibile testo abilmente contraffatto, allo scopo di raggirare Rodolfo II e alleggerirlo di 600 monete d’oro. Ma per molti altri, sono la maggior parte, il libro del mistero non sembra proprio lo scarabocchio di uno psicotico bensì l’opera di uno studioso serio che aveva un messaggio da comunicare. Il più grande trofeo della crittografia resta piu’ elusivo che mai. Niente come il manoscritto Voynich è riuscito a ingannare l’umanità e la scienza per oltre mezzo millennio. Del caso, il vecchio Sherlock Holmes avrebbe detto: ''E’ un problema da cinque pipe, Watson!''. E mentre tutti gli sforzi di comprenderne figure e parole si intensificano (per chi volesse approfondire l’argomento si vedano gli ultimi due libri: Marcelo Dos Santos, ‘L’enigma del manoscritto Voynich’, edizioni Mediterranee e Richard Belfield, ‘L’enigma dei Codici cifrati’, Newton Compton Editori), nella sua vetrina di Libri Rari e Manoscritti, all’Università di Yale, quel vecchio libro ancora aspetta chi sappia leggergli l’anima. Ruggero Bacone nacque ad Ilchester, nella contea inglese di Somerset, presumibilmente intorno al 1214/1220 e morì a Oxford, si presume, nel 1294. Allo stato attuale degli studi non si hanno ancora informazioni sicure circa le date effettive di nascita e di morte. Dopo essere stato allievo, a Oxford, di Roberto Grossatesta e Adamo di Marsh, negli anni Trenta completò la sua formazione filosofica presso la Facoltà delle Arti di Parigi, di cui assorbì lo spirito pionieristico maturando una personalità libera e spregiudicata. Nel 1241 a Parigi conseguì il titolo di Maestro delle Arti, che lo abilitava all'insegnamento delle sette discipline, raccolte appunto sotto la denominazione di Arti liberali (grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, musica astronomia, geometria), che costituivano la base del curriculum di studi universitario nel Medioevo. A Parigi si distinse per esser stato uno dei primi a commentare estesamente i testi scientifici di Aristotele, da poco tradotti in latino dall'arabo, in particolare la Fisica. Questa attività gli consentì di approfondire il pensiero dei grandi commentatori arabi di Aristotele, tra cui Averroè e Avicenna. Dopo il suo ritorno a Oxford, nel 1257 entrò nell'ordine francescano, ma il suo interesse per l'alchimia e l'astrologia cominciò a destare sospetti e irritazione da parte dei suoi superiori. Durante il pontificato di Clemente IV, dal 1265 al 1268, poté godere di una condizione di relativa tranquillità, grazie alla protezione offertagli dal papa, suo amico ed estimatore. I suoi tre scritti più famosi, l'Opus maius, l'Opus minus, e l'Opus tertium, concepiti come abbozzi di una enciclopedia che non sarà mai realizzata, risalgono tutti a questo periodo. Negli anni successivi egli scrisse i Communia Mathematica e i Communia naturalium e nel 1272 il Compendium studii Philosophiae. Venuta meno la protezione di Clemente IV, negli anni '70 si moltiplicarono le accuse di eresia da parte dei confratelli, in quanto Bacone restava uno strenuo difensore dell'astrologia. Approfittando della condanna del 1277 emanata dal vescovo di Pagina 6 di 60

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Parigi Etienne Tempier contro i maestri della locale Facoltà della Arti, nel 1278 fu avviato un procedimento giudiziario nei suoi confronti che si concluse con la detenzione, durata fino al 1292. Contro la sua condanna Bacone scrisse lo Speculum astronomiae, ma la lettura delle sue opere fu interdetta. Ormai in età avanzata e gravemente malato, Bacone dedicò gli ultimi anni della sua vita alla stesura del Compendium studii theologiae, che può essere considerato il suo testamento spirituale. Dal 1294 non si hanno più notizie su di lui. Altri eminenti alchimisti del mondo occidentale furono Ruggero Bacone, San Tommaso d'Aquino, Tycho Brahe, Thomas Browne, il Parmigianino, * http://goo.gl/ZfEHg http://goo.gl/HM8Ff * Giordano Bruno, * http://goo.gl/XjvUn http://goo.gl/W4m7G * e fra gli ultimi Cagliostro. * http://goo.gl/nv3xM http://goo.gl/a8qnl * La dottrina filosofica Complessa figura di frate, mistico, alchimista, astrologo, grammatico, costruttore di specchi ustori, naturalista e forse scopritore della polvere da sparo, secondo una tradizione non confermata, Ruggero Bacone è senz'altro la personalità di maggiore spicco tra i discepoli di Roberto Grossatesta, da cui trasse origine la grande scuola filosofica di Oxford. Roberto Grossatesta, il vescovo di Lincoln vissuto tra il 1175 e il 1253, fu l'esponente principale di quel filone della filosofia platonico - agostiniana che va sotto il nome di "metafisica della Luce", un modello sorto dalla volontà di coniugare la teologia cristiana con la concezione neoplatonica della causalità intesa come "irradiazione" di Dio nel mondo. Sotto la guida di Grossatesta la scuola di Oxford si caratterizzò per una particolare attenzione ai problemi scientifici, in particolare l'ottica e l'astronomia, pur senza cancellare i tratti tipici della religiosità francescana, come l'attesa millenaristica per una imminente renovatio dell'intera cristianità che avrebbe dovuto inaugurare la futura epoca dello spirito. Da questo punto di vista, le apparenti contraddizioni presenti nell'opera di Ruggero Bacone, si possono almeno in parte spiegare a partire dal suo primo ambiente di formazione. La trilogia baconiana che comprende l'Opus maius, l'Opus minus e l'Opus tertium fu redatta tra il 1265 e il 1268, e venne inviata al papa Clemente IV unitamente ad una lunga epistola in cui l'autore delinea le linee guida del grandioso progetto enciclopedico che sarebbe rimasto incompiuto. Bacone muove da due esigenze tra loro strettamente correlate. In primo luogo, la necessità di realizzare una profonda riforma del sapere che superi la frammentazione e il particolarismo in cui tendono a cadere le singole discipline, e confluisca in una visione unitaria saldamente ancorata ai precetti della verità rivelata. In secondo luogo, l'idea che tutti i contenuti del sapere sono incorporati, in maniera esplicita o implicita, nelle Sacre Scritture. Come il pugno chiuso raccoglie tutto ciò che la mano aperta dispiega, afferma Bacone, allo stesso modo la sapienza necessaria al genere umano è contenuta interamente nelle Scritture. Dio ha creato un unico mondo, un unico genere umano, per un solo fine di salvezza: unica dev'essere pertanto la Sapienza che compendia in sé ogni singolo contenuto della conoscenza. Ne consegue che al vertice della gerarchia delle discipline bisogna collocare la teologia, raggio dell'infinita Luce di Sapienza che promana da Dio. L'ideale baconiano di reformatio e la concezione teocentrica del sapere sono pertanto i due lati di un medesimo atteggiamento epistemologico. Sotto questo profilo, la posizione di Bacone può apparire molto vicina al conservatorismo e all'epistemologia "riduzionistica" che Bonaventura da Bagnoregio aveva già fissato nel suo trattato De reductione artium ad theologiam. In quest'opera il maggiore esponente della scuola parigina francescana, vissuto tra il 1221 e il 1274, aveva decisamente negato l'autonomia del sapere filosofico, considerando la subordinazione della filosofia alla teologia come l'unico mezzo per arginare il diffondersi delle eresie. Questa preoccupazione non è certo assente in Bacone, ma contiene parecchi elementi di novità se confrontata con la rigida impostazione di Bonaventura. Pagina 7 di 60

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Partendo dal presupposto che la Scrittura contiene in sé la somma di ogni verità, Bacone sostiene che è compito del teologo approfondire il significato letterale del testo sacro senza sovrapporvi le proprie compiaciute "divagazioni", che nel caso di alcuni esegeti finiscono per degenerare in una vana moda letteraria. La presunzione di coloro che nel commento all pagina sacra trovano l'occasione per fare sfoggio del proprio ingegno di eruditi, è l'aspetto più deleterio della cultura teologica del proprio tempo che Bacone condanna senza mezzi termini, richiamandosi a un ideale di umile simplicitas in cui sono evidenti le matrici francescane. D'altro canto, se la teologia ha da essere una scienza rigorosa, il commentatore delle Scritture dovrà munirsi degli strumenti idonei: egli deve attingere in primo luogo alla conoscenza delle lingue in cui sono scritti i testi originari, e quindi l'ebraico e il greco; e inoltre, dovrà raccogliere tutti i documenti necessari per restituire la pagina sacra alla sua corretta lezione, nell'intento di isolare il testo dai commenti che con l'andar del tempo si sono sovrapposti ad esso dando origine a luoghi comuni e incrostazioni intellettuali. In tal modo Bacone fa valere l'ideale di una ricerca filologica applicata al testo sacro che anticipa in maniera sorprendente alcune acquisizioni che il pensiero filosofico farà proprie soltanto in epoca umanistica. Una volta assicurati questi punti di riferimento, Bacone procede a delineare la struttura del suo progetto enciclopedico secondo un disegno che viene efficacemente riassunto e motivato nella lettera a Clemente IV, una sorta di "discorso sul metodo". Se la dottrina rivelata rappresenta la fonte indiscussa da cui scaturisce ogni verità degna di questo nome, tre sono le strade che l'uomo può praticare per arrivare alla conoscenza. La prima è l'Auctoritas, il rimando alle Scritture attraverso la citazione del testo assunta allo scopo di dirimere una questione controversa. Questa strada è l'unica umanamente percorribile quando sono in gioco i dogmi della fede e i principi della religione, ma Bacone mette in guardia contro un uso indiscriminato delle "autorità" in filosofia, perché spesso il ricorso ad esse è segno della malafede dell'interlocutore che vuole sottrarsi a una discussione razionale o nascondere la sua incapacità di rispondere alle obiezioni col trincerarsi dietro una citazione, magari nemmeno pertinente. Ovviamente il rischio è tanto maggiore quando l'autorità in questione sia quella di Aristotele o di un altro "sapiente" elevato al medesimo rango. Nella prospettiva di Bacone, in altri termini, il richiamo all'autorità non può e non deve mai degenerare in oscurantismo. Il campo dell'argomentazione scientifica, da questo punto di vista, ci spiana la seconda via verso la verità, quella che può essere acquisita attraverso il ragionamento. Quest'ultimo, tuttavia, non va inteso nel senso della logica aristotelica, come deduzione sillogistica di verità particolari a partire da premesse universali di per sé note o dimostrate precedentemente, bensì come dimostrazione matematica all'interno di un sistema assiomatico come quello della geometria euclidea. La dimostrazione matematica assume per Bacone un valore epistemologico fondamentale destinato a rendere sempre più marginale il ruolo della logica aristotelica, che egli spesso accusa di non essere sufficientemente rigorosa. Seguendo le tracce di Grossatesta, Bacone attribuisce alla matematica il valore di scienza in grado svelarci l'ordine razionale dell'universo, a sua volta manifestazione dell'infinita Sapienza divina, in quanto la legalità ontologica del mondo fisico è costituita da rapporti di causalità comprensibili solo in termini di leggi matematiche. Come è stato più volte osservato, in questo passaggio Bacone contribuisce a fissare il principio secondo cui l'oggetto della ricerca scientifica non sono le essenze al di là dei fenomeni, o le forme sostanziali classificabili attraverso la tradizionale nomenclatura dei generi e delle specie, bensì le leggi attraverso cui comprendiamo i rapporti di interdipendenza che legano tra di loro i fenomeni in una catena di cause ed effetti. Ed è a questo punto che scaturisce, come per una intrinseca necessità, la terza via della conoscenza, quella della "scienza sperimentale" (scientia experimentalis): ogni dimostrazione matematica infatti deve ricevere conferma dall'esperienza, ovvero dal contatto diretto con la realtà nel suo diretto manifestarsi. Non bisogna tuttavia incorrere nell'errore di considerare l'affermazione baconiana come una anticipazione del metodo sperimentale moderno inteso nel senso della scienza Pagina 8 di 60

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seicentesca. Gli "esperimenti" di cui parla Bacone non sono altro che la semplice constatazione fattuale di una conclusione a cui si è giunti per via di ragionamento, e nulla hanno a che vedere con le esperienze di laboratorio della scienza "esatta". È assente in Bacone, come in tutta la scienza medievale, l'idea del metodo come insieme di strumenti attraverso cui un'ipotesi viene pubblicamente controllata e messa alla prova in base alle condizioni della sua riproducibilità universale. Alla distinzione fra le tre vie della conoscenza subentra la dottrina delle cinque discipline più "nobili" che dovranno costituire l'ossatura del progetto enciclopedico del sapere. Al primo posto Bacone colloca la morale, quella che Aristotele chiama "scienza civile". In questa disciplina si raccolgono i principi della dottrina cristiana, l'etica, e la teoria dello Stato, a dimostrazione del fatto che le conquiste del sapere pagano dell'antichità trovano il loro compimento nei dettami della Rivelazione cristiana. Il primato della morale ci illumina su un altro aspetto importante che contraddistingue l'intera opera di Bacone. Per il dottore francescano, il progetto enciclopedico di riforma del sapere deve essere funzionale a un rinnovamento etico di tutta la società, la "repubblica cristiana" come egli la chiama abitualmente. E si tratta di un processo che deve investire prima di tutto le istituzioni della Chiesa, sempre minacciate dal rilassamento o dalla corruzione dei costumi. Il primato attribuito alla morale, in questo senso, salda in maniera significativa l'aspirazione tutta baconiana a un sapere di tipo pragmatico - operativo con la tradizione mistica e riformatrice che è caratteristica dell'intero movimento francescano fin dalle sue origini. Il progetto enciclopedico costituisce una riforma complessiva del sapere del tempo che a sua volta anticipa la renovatio globale della Cristianità. Ed è proprio il primato attribuito alla scienza morale che ci permette di delineare le caratteristiche della "scienza sperimentale", che occupa il secondo posto nello schema assiologico. Questa scienza è maestra di tutte quelle che seguono, e il suo scopo, a sua volta, è quello di porsi al servizio della morale. In questa accezione larga la scienza sperimentale include l'ottica, la matematica e la conoscenza della lingue, con le quali si completa l'ossatura epistemologica su cui si articola il progetto enciclopedico. Ricollegandosi a scienziati arabi come Avicenna e Al-Hazen, Bacone interpreta il ruolo dell'ottica nel quadro della metafisica della luce di Grossatesta. Bacone è convinto che attraverso questa disciplina ancora giovane, almeno per ciò che concerne il mondo cristiano, l'uomo possa arrivare alla conoscenza della struttura geometrico - matematica del cosmo. Infatti, le leggi che governano il diffondersi della luce sono analoghe alle leggi causali che governano tutti gli altri processi della natura. Ne consegue che il fondamento dell'ottica rimanda alla quarta scienza, la matematica, vera chiave di volta di un universo che fu creato da Dio - come è attestato dal libro della Sapienza 11, 21 - "secondo numero, peso e misura". Bacone insiste sulla vastità delle applicazioni della matematica, dalla musica all'astrologia. Sebbene quest'ultimo termine all'epoca di Bacone fosse l'equivalente di quella scienza che sarà ribattezzata come "astronomia", l'autore include esplicitamente nel suo spettro semantico anche la cosiddetta "astrologia politica", ovvero lo studio scientifico degli astri necessario a chi governa al fine di deliberare ciò che è meglio per la repubblica dei fedeli. I sapienti che sono i naturali consiglieri di principi e papi devono mettere al servizio della cristianità tutti gli strumenti utili ad anticipare l'avvento del regno di Dio, senza escludere pregiudizialmente nemmeno i prodigi dell'alchimia e della magia. Questo tema viene approfondito nel suo aspetto tecnico - operativo in un trattato dal titolo Epistula de secretis operibus naturae, dove l'autore, fra le altre cose, invita a distinguere la magia falsa dei necromanti dalla magia autentica, che può efficacemente contrastare gli inganni orditi dal Maligno. Anzi, queste conoscenze sono indispensabili, perché quando i tempi saranno maturi l'Anticristo si presenterà egli stesso come "mago" e "negromante", e la padronanza della arti magiche ci permetterà di leggere in anticipo i segni dell'avvento imminente consentendoci altresì di combatterlo con le sue stesse armi in nome del trionfo finale di Dio. Nella figura del Doctor Mirabilis, come Bacone fu soprannominato per la sua abilità di alchimista versato nella Pagina 9 di 60

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conoscenza dei segreti della natura, tornano ancora una volta a convivere il mistico e lo scienziato, il profeta visionario e il pragmatico, l'uomo di chiesa imbevuto del profetismo francescano e il razionalista che attinge a piene mani dalle opere degli "astrologi" arabi. La consapevolezza che l'apprendimento delle arti magiche si colloca all'interno di un quadro escatologico che comunque rimanda al mistero della Provvidenza divina, fa sì che sia piuttosto difficile considerare la passione di Bacone per la magia e l'alchimia come una anticipazione del motivo rinascimentale dell'Homo Faber. Un accenno in questa direzione, lo si può eventualmente rintracciare nel celebre passo della Epistula de secretis operibus naturae in cui egli immagina future realizzazione tecniche di navi senza rematori, macchine volanti e apparecchi per camminare "sul fondo dei fiumi e dei mari senza pericolo alcuno". Resta tuttavia il fatto che il suo entusiasmo per i "prodigi" della scienza sperimentale, unito alla convinzione che con l'alchimia l'uomo si assicura il dominio sulla natura, non poté non destare sospetto in un momento storico in cui l'impatto della scienza proveniente dal mondo arabo nella Cristianità europea doveva mettere in discussione equilibri fino ad allora consolidati. La sequenza delle cinque dottrine più nobili che comprende morale, scienza sperimentale, ottica e matematica, si conclude con la "conoscenza delle lingue". Non si tratta semplicemente dell'idea di ampliare i compiti della tradizionale grammatica, intesa come prima arte liberale del curriculum universitario, ma di una commistione di filologia e semiotica in cui ancora una volta le proposte filosofiche di Bacone si distinguono per la grande forza innovativa. Egli sostiene che un intellettuale cristiano non deve limitarsi alla conoscenza del latino ma deve ampliare l'orizzonte al greco, all'ebraico e anche all'arabo. Importante, per quanto riguarda quest'ultimo, non soltanto al fine di impadronirsi dell'imponente patrimonio della cultura islamica, ma anche per ricondurre alla Cristianità i seguaci di Maometto utilizzando gli strumenti dell'apologetica, anziché ricorrere all'imposizione di dogmi per loro incomprensibili o, ancora peggio, alla violenza e alla guerra. Gli interessi linguistici di Bacone si inseriscono inoltre all'interno di una vera e propria riflessione semiologica, approfondita soprattutto nel tardo Compendium studii theologiae. Partendo da Sant'Agostino, egli riprende la distinzione tra segni naturali, come il fumo che segnala la presenza del fuoco, e i segni artificiali, istituiti ad placitum, per convenzione, attraverso un atto di imposizione. Bacone ribadisce che il significato di una parola non ha alcuna connessione con la natura o l'essenza delle cose designate, tant'è vero che il significato delle parole muta profondamente nel corso del tempo. Dalla libertà con cui i parlanti si appropriano del codice e del lessico nasce una spinta decisiva destinata a tradursi in una sorta di creazione continua della lingue, instabili e soggette al divenire come ogni altra istituzione umana. La significazione non si esaurisce nella referenza, ovvero il rapporto tra la parola e la cosa, ma include anche la relazione tra il segno, il suo utente, e l'interprete cui è destinato l'atto di comunicazione linguistica. Si tratta di quella dimensione che nel linguaggio della semiotica attuale afferisce al livello della "pragmatica", e Bacone è stato il primo ad averla individuata e tematizzata coerentemente. La sapienza alchemica fra immaginario e filosofia (Michela Pereira) Parleremo di Alchimia, argomento quanto mai oscuro alla maggior parte di noi, argomento fantasioso che è entrato nel luogo comune come per esprimere un concetto astruso fondato su niente, frutto di menti bizzarre e non Pagina 10 di 60

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scientifiche. Ebbene uno dei motivi per cui siamo qui è proprio per cercare di sfatare questo luogo comune e, soprattutto, cercare di creare interesse o almeno curiosità per un argomento che sta ritrovando nuove interpretazioni, che ha influenzato e influenza la Psicologia, l'Arte, la Letteratura, la Religione e da pochi anni, sorprendentemente, perfino il mondo scientifico e in particolare la Fisica Ufficiale che ha elaborato addirittura un nuovo approccio metodologico. L'idea dei "Frattali", come espressione dinamica e geometrica del Caos, della "Meccanica Quantistica" e della "Relatività", fanno parte di questo nuovo metodo. I frattali espressione grafica della congiunzione del mondo matematico e il mondo puramente estetico della natura, possiedono una caratteristica, quella di essere dotati di "ricorsività infinita". Ciò significa che la loro struttura geometrica si ripete continuamente in natura, con qualsiasi scala di ingrandimento li si voglia vedere, sempre uguale e tuttavia sempre diversa a se stessa. La fisica quantica abolisce la distinzione fra energia e materia, dimostra come in realtà l''osservatore' sia un partecipante all'esperimento atomico, che può esercitare degli effetti sulle particelle stesse. Fritjof Capra nel suo libro "Il Tao della Fisica" ad un certo punto dice: "La teoria dei quanti rivela un'unicità di base dell'universo. Mostra che non possiamo scomporre il mondo in unità piccolissime dall'esistenza autonoma. Via via che si penetra nella Materia, la natura non ci mostra nessun 'fondamento di edificio' isolato, ma appare piuttosto come una rete complicata di relazioni fra le varie parti del tutto. Il ruolo che l'osservatore riveste in queste relazioni è sempre e necessariamente essenziale. L'osservatore umano costituisce sempre l'anello finale della catena dei processi di osservazione, e le proprietà di qualunque oggetto costituito da atomi possono essere comprese solo in termini di 'interazioni dell'oggetto con l'osservatore'. Questo significa che l'idea classica di descrizione obiettiva della natura non è più valida [...]. Nella fisica atomica, non si può mai parlare della natura, senza parlare, allo stesso tempo, di noi stessi." Non solo la fisica atomica porta avanti le idee di coscienza e di unità. La teoria del 'Caos' apre la possibilità che una piccola azione possa determinare effetti che si ripercuotono sull'universo intero, definito sinteticamente come 'effetto farfalla'. I vecchi e rigidi confini fra mente e materia possono essere superati, perché nulla si crea né si distrugge, ma si trasforma. Queste nuove premesse scientifiche sono molto vicine a quelle su cui si basa l'Alchimia; per questo pare possibile che essa possa ancora fornire nuove intuizioni scientifiche. Da un punto di vista etimologico la parola Alchimia, secondo l'opinione più diffusa, deriverebbe dall'arabo "Al-Kimiya". Con tale termine gli arabi intendevano "l'arte di fabbricare l'oro e l'argento partendo da metalli diversi o vili." Nei testi che ho consultato, anche autorevoli, non c'è chiarezza sull'origine del suo significato. Tutti insistono sull'origine araba dell'articolo determinativo al, tradotto 'il', mentre molto meno chiara appare la seconda parte della parola, Kimiya, di origine incerta, ma che comunque non appartiene alla lingua araba, forse all'egiziano o al greco. All'egiziano perché sarebbe da ricondursi al termine "Chem" che significa "nero" con riferimento alla terra d'Egitto resa nera dal Limo alluvionale del Nilo (mi sembra peraltro importante e non Pagina 11 di 60

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casuale l'accostamento tra l'arte della trasmutazione e l'aspetto fertile della terra e quello fecondante del Nilo). Altri invece ritengono che la derivazione più probabile sia dalla parola greca "Chyma" con significato di "mescolare" collegata al processo di fusione del metallo. Vorrei però proporre un'altra interpretazione, un'interpretazione "alternativa" e un po' esoterica, nata da un'intuizione di René Guénon, che mi pare molto stimolante e degna di essere ricordata. Tale parola, sembra solo apparentemente di origine araba, ma meglio sarebbe dire che gli arabi hanno mantenuto il termine che invece trae origine dalla radice greca che significava "mescolare". Questa a sua volta sarebbe la traduzione greca di un termine egizio, Kemet, che connota l'Egitto come 'terra nera', in opposizione alla 'terra rossa' del deserto. Erodoto definisce l'Egitto 'dal terreno nero'. Si deve ricordare, infatti, che "l'Egitto, - scrive Plutarco - che ha la terra così nera, viene chiamato con lo stesso nome della parte nera dell'occhio, Chémia, e viene paragonato al cuore: perché è caldo, umido e si insinua tutto a meridione, ossia nel territorio di sinistra del mondo abitato, come il cuore sta nel lato sinistro dell'uomo, poiché per gli Egizi l'Oriente rappresenta il volto del mondo, il Settentrione il lato destro e il meridione quello sinistro". D'altronde, secondo lo stesso Plutarco, il cuore mentre rappresentava l'Egitto, al tempo stesso rappresentava il Cielo: "Gli Egizi - egli dice - raffigurano il Cielo, che non può invecchiare perché è eterno, con un cuore posto su un braciere la cui fiamma ne alimenta l'ardore". "Cosicché scrive René Guenon - il cuore (Chémia) è, ad un tempo, il geroglifico dell'Egitto e quello del Cielo". "In Egitto si sostiene - scrive ancora Plutarco - che Osiride è il Nilo che si congiunge con la Terra, simboleggiata da Iside, fecondandola. [...] I sacerdoti più sapienti non solo chiamano il Nilo Osiride [...], ma sono anche convinti che Osiride rappresenti senz'altro il principio e la natura dell'elemento umido in sé, origine della vita e sostanza fecondante. [...] Il mito vuole che Osiride avesse la pelle nera, perché l'acqua scurisce ogni cosa in cui viene assorbita, terra, vesti, nuvole". Egitto, dunque, come originale luogo di incontro tra Cielo e Terra, luogo del sacro rapporto tra la terra Iside e il dio Nilo Osiride, dove si può soltanto intuire che esso rappresenta il "sito recettoriale" della divina, nera, forza fecondante e trasformante la Terra. È facile vedere, da questo, l'omologia Cielo-Terra (ciò che è in basso così come ciò che è in alto) e considerato che l'Alchimia vuole ristabilire questo contatto, mi sembra evidente, salvo qualche ragionevole dubbio, il suo originale significato. Comunque sia, l'Alchimia è l'Arte della Trasmutazione. L'Alchimista, con il suo lavoro, cerca di produrre nel materiale su cui sta operando, cioè la Materia Prima, una serie successiva di mutamenti per condurlo da uno stato grezzo a uno stato perfetto e incorruttibile. Uno stato che può essere espresso, in una forma semplice ed esemplificativa, come la trasmutazione del metallo vile in oro. L'oro perché è il più perfetto dei metalli: è incorruttibile, non si ossida, né è distrutto o alterato dal fuoco, che può soltanto raffinarlo e purificarlo. Ma io non voglio entrare troppo nei dettagli più intimi dell'Alchimia, mi limiterò a fare un'introduzione storico-culturale. Innanzitutto vorrei premettere che non è assolutamente facile né, forse, possibile, dare una definizione dell'Alchimia completa e non obbiettivabile. Questa costituisce una tradizione sapienziale particolarmente difficile da comprendere, sia perché si esprime principalmente con simboli mitologici che non consentono mai una definizione precisa e univoca. Sia per la difficoltà di constatare in modo oggettivo il frutto presunto delle straordinarie trasformazioni alchemiche. Sia perché la storia dell'Alchimia investe un raggio molto ampio, sia dal punto di vista spaziale che temporale essendo praticata nella società orientale, araba e occidentale, da più di duemila anni. L'Alchimia inoltre ha attratto una grande quantità di persone, animate dagli intenti più

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disparati. Alcuni erano interessati dall'aspetto più scientifico o intimamente chimico, altri erano attratti invece dall'aspetto simbolico o filosofico. Per altri ancora si poteva aprire la possibilità di produrre farmaci realmente efficaci o una ricchezza enorme. È per questo motivo che l'Alchimia non può avere una trattazione univoca. Essa, anche se la sua struttura costitutiva principale non si è modificata, ha subito nel corso dei secoli varie modificazioni interpretative a seconda della cultura e delle motivazioni di chi l'ha praticata. Ogni alchimista ha voluto dare del proprio, ha aggiunto immagini non sempre coincidenti tra loro, e a volte ha detto e scritto tutto e il contrario di tutto, sempre combattuto dalla necessità di tenere nascosti ai "non iniziati" i segreti della "Grande Opera". Tutto ciò costituisce un aspetto particolarissimo e importante dell'Alchimia, che io trovo basilare, perché come gli alchimisti anche gli studiosi di Alchimia descrivono e definiscono la Tradizione Alchemica in base alle proprie inclinazioni e alle proprie tendenze culturali, ed è inevitabile che ciò avvenga, perché non esiste un'interpretazione "obbiettiva" dell'Alchimia. È indispensabile, nell'avvicinarsi ad essa, tener conto, contemporaneamente delle tre dimensioni di cui è composta: la dimensione scientifica, la dimensione psicologica e quella spirituale. L'Alchimia, infatti, per molti e forse anche per alcuni alchimisti, è soltanto l'Arte di fare l'oro o tuttalpiù un tentativo iniziale di una chimica irrazionale e magica. Ma se l'Alchimia non fosse altro che questo, in accordo con le parole di Mircea Eliade, non potremmo darle credito e, soprattutto, sottovaluteremmo l'intelligenza di chi per millenni ha vissuto per essa. Se l'oro fosse stato l'unico fine perseguito dagli Alchimisti non sarebbe possibile comprendere la loro pretesa saggezza. Sebbene, comunque, non sia possibile sapere con certezza quali siano le cause storiche che hanno determinato la nascita delle pratiche alchemiche, è certo però che l'Alchimia non si è costituita, come disciplina autonoma, partendo dall'intenzione di fabbricare l'oro. È noto infatti che, fin dal XIV secolo a. C., i popoli mesopotamici conoscevano le tecniche metallurgiche per raffinare l'oro. Pensare di collegare a questo una disciplina che ha ossessionato il mondo occidentale per duemila anni significa non solo dimenticare la straordinaria conoscenza che gli antichi avevano dei metalli, ma anche non riconoscere la serietà delle loro capacità intellettuali e spirituali. Il pensiero scientifico greco possedeva, come tutti noi sappiamo, una straordinaria capacità di sintesi e di analisi razionale, mentre ciò che colpisce di più nei testi alchemici è proprio l'assenza di spirito scientifico. Se dunque l'Alchimia non nasceva solo dal desiderio di produrre l'oro, né soltanto dalla ricerca scientifica, dove dobbiamo cercare le origini e le autentiche motivazioni di questa disciplina particolare? Essa, secondo un'interpretazione tra le più affascinanti proposta dallo storico delle religioni Mircea Eliade, sembra costituire il risultato dell'incontro di una corrente esoterica rappresentata dai Misteri, come il Neopitagorismo e il Neoorfismo, dall'Astrologia e dallo Gnosticismo, con le tradizioni delle tecniche metallurgiche più antiche dei Fabbri, legati magicamente al Cielo e alla Terra da conoscenze rivelate , e custodi dei segreti dei mestieri come è avvenuto anche in Cina con il Taoismo e in India con il Tantrismo. È, presumibilmente, nell'antica concezione della Terra Madre portatrice dei minerali 'embrioni' e soprattutto con il lavoro dell'uomo impegnato a estrarre i metalli dalla miniera, alla fusione e alla forgia che si deve cercare una delle fonti principali dell'Alchimia, perché l'uomo arcaico modificando con il fuoco la materia si sostituiva in qualche modo alla Madre Terra o, comunque, ne continuava l'Opera. Pagina 13 di 60

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La scoperta dei metalli ha contribuito a determinare un rapporto magico tra l'uomo e la matrice della terra nella quale sono germogliati i minerali. Ha influito considerevolmente sulla condizione dell'uomo arcaico, determinando una modificazione profonda del concetto che l'uomo aveva di sé nel Cosmo. Ha costituito uno dei più forti fattori di spinta dell'evoluzione mentale, psichica e intellettiva, e della civiltà umana. Il metallo meteorico caduto dal Cielo poi determinava un contatto altrettanto magico tra l'uomo e il Cosmo rendendolo partecipe di una realtà eterna, permettendogli di compiere magici tentativi di unificazione di quel Cosmo che la creazione aveva diviso. L'uomo ha cominciato lentamente a prendere coscienza della disgregazione del Reale determinata dalla Creazione e da questo momento, anche con metodi diversi, mentali e religiosi come l'alchimia, tenderà sempre nella sua storia a ritrovare quell'unione originale del Reale, quel momento di inizio adamitico che condizionerà ogni simbolo, ogni mito, ogni cultura, sia in oriente che in occidente. Si elaborarono delle tecniche metallurgiche che al tempo stesso costituivano dei Riti, dei Misteri in quanto implicavano la sacralità del Cosmo e si trasmettevano attraverso Iniziazioni. L'iniziazione ai Misteri consisteva nel partecipare alla passione, alla morte e alla resurrezione di un dio, che il neofita sperimentava direttamente in modo simbolico. La finalità dei Misteri era la trasmutazione dell'uomo. Attraverso l'esperienza della morte e della resurrezione iniziatiche, l'uomo come il dio diveniva immortale. I simboli grafici architettonici cominciarono ad esprimere una peculiare concezione della realtà rappresentata dalla omologia totale tra il Cielo e il Mondo. Questo implicava non solo che quanto esiste sulla terra esiste anche in Cielo, ma che a ogni cosa presente in terra ne corrisponde una identica in Cielo sul cui modello ideale è stata realizzata. E questo concetto ha seguito nei secoli un filo comune che ha tenuto unita l'evoluzione mentale dell'uomo da Platone alla scuola alessandrina con Ermete Trismegisto e la Tavola di Smeraldo, al Vangelo di Giovanni, a Dante, a M. Ficino e alla filosofia neoplatonica, a Giordano Bruno, alla tradizione indiana e cinese fino ai nostri giorni. I fiumi, le montagne, le città, i templi, che non sono altro che l'immagine stessa del Cosmo, esistono realmente a vari livelli Celesti. Una Gerusalemme Celeste è stata creata da Dio prima che la città di Gerusalemme fosse costruita dall'uomo, è scritto nell'Apocalisse del profeta Baruc. Tutto ciò che è conosciuto, tutto ciò che è reale segue questa legge magica delle corrispondenze. Il cosmo è diviso in regioni governate dagli Dei, regolate dai pianeti. Tutto ciò che succede in una zona celeste succederà anche sulla terra e sull'uomo che si trova sotto la sua influenza. Un certo metallo corrisponde a un certo pianeta. Anche gli oggetti, in quanto creati dall'uomo, possiedono un significato magico. I fatti e i gesti dell'uomo, poiché si ricollegano a oggetti considerati magici, saranno regolati da leggi sacre. Gli atti sono trasformati in riti. Poiché tutto ciò che esiste sulla terra esiste anche in Cielo, era inevitabile una corrispondenza tra il corpo umano e il Cosmo, una corrispondenza microcosmo-macrocosmo. La cultura greca fu influenzata profondamente mesopotamiche tra uomo, pianeti, dei e metalli.

da

queste

magiche

corrispondenze

Anche l'origine storica non è possibile fissarla con precisione. Essa fa la sua comparsa nel mondo occidentale intorno al I - II secolo d. C., ma esistono testimonianze, sempre secondo alcuni storici e in particolare Eliade, di tecniche alchemiche o pre-alchemiche legate comunque alla fusione mistica dei metalli almeno mille anni prima. Diventa quindi cruciale per gli storici capire e scoprire quando ci fu tale separazione, quando cioè l'Alchimia diventò una disciplina autonoma dalla semplice (si fa per dire) lavorazione e fusione dei metalli. Comunque sia, attualmente, la maggior parte degli studiosi ritiene improbabile un'origine unica dell'Alchimia, anche se ci sono sostenitori dell'origine Egizia, Cinese, o Ellenistica. Nonostante Pagina 14 di 60

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che i primi documenti alchemici risalgano, come si è detto, intorno al I secolo della nostra Era è da presumere che si sia sviluppata, prima di rendersi manifesta, anche e soprattutto, attraverso la tradizione orale con un lento processo di affinamento e fusione di teorie nate in tempi e in luoghi differenti, con il concorso scambievole delle culture occidentali, o comunque EllenisticoAlessandrina, e orientali. Secondo la tradizione antica, infatti, le tecniche alchemiche furono rivelate agli uomini da un dio o comunque da un personaggio semidivino come Ermete Trismegisto o nella tradizione mitologica greca che, forse derivata e trasformata da quella indiana o cinese, attribuiva alla dea Cibele la rivelazione agli uomini dei "Misteri" della metallurgia. ( il cui rito, secondo Mircea Eliade, servirà, con il "Mistero" della morte e della resurrezione di Attis, da modello all'alchimista per operare anche sulla materia e determinare la sua redenzione). Una versione particolarmente significativa di questa tradizione ci è tramandata da uno dei primi alchimisti a noi noti, Zosimo di Panopolis, vissuto in Egitto nel II secolo d. C. che attribuisce alla dea Iside la rivelazione agli uomini dei misteri dell'Alchimia che le erano stati a sua volta svelati da un Angelo corrotto che si era invaghito di lei. Un testo simile è possibile ritrovarlo anche nel libro di Enoch, un apocrifo dell'Antico Testamento scritto nel II secolo a. C. Più tardi, mentre in Oriente e particolarmente in Cina si continuò senza interruzione a praticare le tecniche alchemiche come ritroviamo nel Taoismo, in Occidente, con la decadenza dei Misteri dell'antichità, intorno al V-VI secolo la Tradizione Alchemica Occidentale cadde in declino, rimase però e continuò solo nel mondo arabo a cui dobbiamo la conservazione e la traduzione dei testi antichi, soprattutto ellenistici che presumibilmente sarebbero andati irrimediabilmente perduti per sempre. Gli Arabi svilupparono l'Alchimia e riuscirono a influenzare l'occidente europeo del XII secolo (tracce di questo fenomeno le ritroviamo nelle cattedrali gotiche), destando nuovamente l'interesse per l'antica tradizione. Ma essi fecero molto di più. Svilupparono la tendenza più razionale che avrebbe portato alle scoperte chimiche vere e proprie. L'Islam rappresentò il custode e il punto di incontro delle diverse correnti alchemiche orientali e occidentali antiche. Quindi l'Alchimia medievale, che nel XII secolo divenne autonoma come scienza, non fu più la stessa praticata mille anni prima, ma presumibilmente fusa con concetti orientali e forse anche Taoisti. Dobbiamo a Marsilio Ficino http://goo.gl/uQDO9 http://goo.gl/hc42W nel 1463 la traduzione per Cosimo dei Medici del Corpus hermeticum attribuito a Ermete Trismegisto http://goo.gl/k1qB1 http://goo.gl/dIQWT a cui si riferirà continuamente nei sui scritti. Ma l'opera più importante del Ficino rimane: il "De vita coelitus comparanda", in cui compendia la sua visione dei molteplici piani di una realtà, dove le immagini celesti sono segni e non cause, espressioni dei divini concetti, simboli dell'anima mundi, dell'armonia del mondo, dell'anima, delle stelle, dei demoni. Di questo gigantesco sistema l'uomo diventa il "faber" che muta, che opera, che capta e imprigiona le forze del cielo per restituire la vita, per creare magici effetti. L'uomo può arrivare a vedere il cielo popolato di figure, a loro volta distribuite in altre immagini corrispondenti a quelle stesse del mondo inferiore. A questi stessi scritti si riferirà spesso G. Bruno, come nella sua opera, "Spaccio della bestia trionfante". I testi degli antichi alchimisti sono scritti in uno stile volutamente oscuro e apparentemente sconclusionato, ornati di immagini simboliche stupefacenti ricorrenti nell'immaginario collettivo di ogni epoca, espressione dell'enorme potenza "magica" coinvolgente, presente nel processo alchemico. Sta di fatto che l'Alchimia era definita da Ruggero Bacone: "La scienza che insegna a trasformare ogni genere di metallo in un altro" e secondo un alchimista arabo del Medioevo: "Per mezzo di quest'arte, quei metalli che sono imperfetti nella miniera vengono ricondotti Pagina 15 di 60

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dall'imperfezione alla perfezione, dalla corruzione all'incorruttibilità." Tale trasformazione si ottiene mediante la "Pietra Filosofale" o "L'Elisir" la cui realizzazione costituisce quindi la meta finale della "Grande Opera". Ma a partire dal XIV secolo l'Alchimia assume anche un altro aspetto, perché oltre a perfezionare i metalli, l'Elisir svolgerà un'analoga opera di perfezionamento sul corpo umano. Comunque sia, oggi sappiamo che non è giusto ridurre l'Alchimia alla pura e semplice pretesa di fabbricare l'oro o di produrre una medicina per prolungare la vita e sappiamo che gli alchimisti stessi, nel tramandarci quest'immagine certamente bizzarra della loro Arte, hanno occultato coscientemente o incoscientemente altri significati. Solo i numerosi studi compiuti negli ultimi decenni ci hanno restituito una prospettiva più completa, consentendoci finalmente di comprendere che l'Alchimia è stata qualcosa di diverso e molto di più: una regola di vita, una ricerca di esperienze trascendenti, un modo particolare di porsi nei confronti della Natura. Dobbiamo forse al chimico francese dell'800 Marcelin Berthelot la riscoperta dell'importanza di un approccio diverso all'Alchimia. Da allora infatti si sono sviluppate molte ricerche di studiosi con obbiettivi e metodi diversi che si distinguono, principalmente, in tre direzioni. La prima considera l'Alchimia come sistema filosofico e religioso. I rapporti tra l'Alchimia e il Taoismo, lo Yoga, l'Ermetismo , il Sufismo e il Cristianesimo sono stati oggetto di studio di diversi autori come Mircea Eliade, di Andrè-Jean Festugère, di Henry Corbin. La seconda considera l'Alchimia come conoscenza magico-esoterica. Su questo piano di interpretazione si collocano,tra gli altri, pur con posizioni personali diversificate, Julius Evola, René Alleau, Titus Burckardt e René Guénon e più recentemente da Antoine Faivre. Una terza direzione di studi considera l'Alchimia come dimensione dell'immaginario. Gli aspetti irrazionali dell'Alchimia hanno attirato l'attenzione di alcuni studiosi della psicologia del profondo, da Herbert Silberer a Carl Gustav Jung e Marie-Luise Von Franz. Quindi l'Alchimia, l'Alchimia Tradizionale, consiste in una disciplina che comporta un lavoro fisico, di laboratorio, psicologico e spirituale, in quanto il metallo vile su cui si opera e l'oro prodotto possono anche essere interpretati come simboli dell'uomo che è alla ricerca del perfezionamento della sua natura. Vorrei concludere con le parole di Paracelso, medico e alchimista del XVI secolo : "La vera Pietra Filosofale si trova senza dubbio nell'inespugnabile fortezza della verità [...]. Tale pietra sembra vile, disprezzabile ed esecrabile alla gente comune, ma per i filosofi è più preziosa di qualsiasi gioiello [...]. E il cammino della verità, che rigenera e rivitalizza ciò che non esiste più, facendolo Pagina 16 di 60

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tornare ciò che era prima della corruzione, tramuta ciò che non è in ciò che dovrebbe essere. L'oro dei filosofi che rende ricchi i Saggi non è certamente l'oro con cui si coniano le monete". Sono uno studioso dell’alchimia medioevale. Mi occupo professionalmente di storia della filosofia medioevale e il mio campo dunque è una parte, un settore, un periodo di questa tradizione che, come l’introduzione di Mugnai ha mostrato, è molto ampia, multiforme e che favorisce approcci diversi, che quasi – direi stimola la presa di posizione soggettiva dello studioso, della studiosa che l’affronta, tanto che io avevo scelto come motto per un mio libro sull’argomento una frase di Carl Gustav Jung che dice "l’oggettività scientifica è il manto con cui l’occidente vela a se stesso il proprio cuore". Dunque non voglio presentarvi una visione ‘oggettiva’ dell’alchimia, ma quello che io ho trovato dentro a questa sapienza. Un altro grande psicologo del profondo del nostro tempo, James Hillman, scriveva una ventina di anni fa: "noi pecchiamo contro l’immaginazione ogni volta che interroghiamo un’immagine per conoscerne il significato pretendendo che le immagini siano tradotte in concetti". Tradurre immagine in concetti è una buona definizione per il lavoro filosofico soprattutto è una buona definizione della filosofia del tempo in cui l’alchimia ha conosciuto, nella nostra civiltà occidentale, il momento della sua massima fioritura: il Medioevo. Nell’età scolastica i filosofi, quelli ‘ufficiali’, quelli che stanno nei manuali di filosofia, definivano la filosofia come la astrazione delle verità universali dimostrabili che formavano il nucleo della dimostrazione, dalle immagini mentali, da quelli che loro chiamava noi fantasmi. Dunque definivano la filosofia come un abbandonare il campo delle immagini per approdare al campo dell’universale. Ora, anche gli alchimisti si definivano filosofi ma, come vedremo, intendevano questa definizione in senso molto diverso dai filosofi della Scolastica. Gli alchimisti cominciano a lasciare traccia di sé nella nostra cultura medioevale a partire dal XII secolo, quando i primi testi tradotti in latino dall’arabo introducono nell’occidente un sapere che viene recepito come novitas. Dall’arabo al latino si traducono in quell’epoca molti testi filosofici e scientifici, e quando si traduce – per esempio - un testo astronomico o astrologico si può risalire ad auctoritates dell’età classica per collocare questo sapere. Quando si traducono testi medici, anche lì ci sono autori della tarda anti chità che hanno costituito il solco di una tradizione.

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Quando si traducono invece testi alchemici, arriva qualcosa che è assolutamente nuovo, qualcosa che è assolutamente inedito per quella cultura, per quell’epoca. Ma, appunto, questo qualcosa è definito, dagli autori che ne scrivono, ‘filosofia’. Gli alchimisti dunque si definiscono ‘filosofi’ ma, diversamente dai filosofi scolastici, non vogliono astrarre l’universale dall’immagine, non vogliono abbandonare il sostrato materiale dell’immagine. Si può prendere come motto degli alchimisti una frase che ricorre spesso nei testi dell’elixir, quelli che appunto all’inizio del ‘300, come vedremo in seguito, sembrano riportare alla luce il significato più primitivo e più pieno del sapere alchemico. In molti di questi testi ricorre una frase che in latino dice "Accipe nigrum nigrius nigro" (prendi quella cosa oscura che è più oscura dello scuro). È l’alchimista maestro che spiega al suo discepolo, perché il sapere alchemico si trasmette in una iniziazione, in un contatto diretto, familiare fra il maestro e il discepolo, e il suo discorso concerne la materia prima, il segreto centrale dell’alchimia, il cui mistero e la cui indeterminatezza sono qualcosa che non può essere tradotto in concetti. Eppure lo stesso alchimista, che insegna a partire da questa oscurità più oscura dello scuro, si definisce filosofo. La materia prima non può essere detta, non può essere definita, non può essere ridotta in parole che esprimono concetti o appunto una definizione precisa, ma deve essere indicata attraverso un paradosso per poter essere comunicata; può solo essere mostrata, eppure si deve insegnare a raggiungerla, a lavorarla: la conoscenza della materia prima deve essere veicolata da un linguaggio che però non può essere il linguaggio della astrazione. L’alchimia dunque non è una scienza dimostrativa, come invece la filosofia si propone e riesce ad essere, in età scolastica. L’insegnamento alchemico è comunicazione di una sapienza che si apprende attraverso un’esperienza multiforme, il cui scopo iniziale è quello di mettere in contatto con il substrato materiale della realtà, ed il cui scopo finale è quello di dare a questo substrato materiale della realtà la massima perfezione. L’incorruttibilità, appunto, di cui l’oro è un simbolo ed è anche una realizzazione concreta ma parziale. Questa esperienza non esclude l’esperienza intellettuale vera e propria, ma la ingloba insieme ad altri tipi di esperienza. Gli alchimisti insegnano ai loro discepo li a documentarsi sui libri, a leggere, anzi a leggere Pagina 18 di 60

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molto perché un libro ne apre un altro, un libro dice le cose che nell’altro sono rimaste nascoste. Ma insegnano anche ad abbandonare i libri nel momento in cui non servono, nel momento in cui bisogna tacere e osservare quello che fa il maestro, nel momento in cui bisogna raccogliersi e aspettare l’illuminazione. Insegnano a non limitarsi semplicemente a leggere i libri facilmente disponibili, ma ad andarli a cercare, in una ricerca che è un viaggio, spesso figurato ma spesso anche no. Un alchimista della metà del ‘300, Leonardo di Maurperg, ha lasciato un vero e proprio taccuino dei suoi viaggi, degli incontri che ha fatto, delle ricette che ha imparato dall’uno, dei segreti che ha appreso dall’altro e dunque ci racconta quasi dal vivo quello che effettivamente era un coinvolgimento del corpo, un coinvolgimento non solo intellettuale, in questa ricerca. Quindi la ricerca, il viaggio, l’incontro casuale: tanti racconti alchemici narrano proprio della scintilla che scocca, quando uno che va alla ricerca incontra l’altro che sa - ma non sapeva dove era l’altro che sapeva, lo incontra quasi per caso, lo riconosce. Lo riconosce perché, dice un altro trattato, il Libellus de alchimia attribuito ad Alberto Magno, gli alchimisti dovunque siano si riconoscono fra loro, e se ce ne sono due o tre in una grande città, si troveranno e cominceranno a conversare fra loro. Quindi l’incontro; e poi la devozione dell’apprendista al maestro e anche l’affinamento etico, e infine l’illuminazione che può venire direttamente da Dio o può venire attraverso le parole del maestro: sono tutti modi, un mosaico di modalità con cui gli alchimisti entrano in possesso, o si potrebbe anche dire che vengono posseduti, da una sapienza che non rinuncia a voler includere la materialità del reale. Dunque la conoscenza alchemica non astrae il concetto dal fantasma, ma ne riconosce l’irriducibilità a parole: eppure si dichiara filosofia. Per non far torto a questo carattere dell’alchimia, non riducibile, appunto, a parole (per quanto possano essere non rigorosamente astratte o concettuali), ho scelto di costruire questa mia conversazione con l’aiuto di una serie di immagini. Questa scelta è anche legata al fatto che, come ho già anticipato, ritengo che un momento cruciale nella storia dell’alchimia sia il passaggio fra il ‘200 e il ‘300; perché in questo sapere, che i latini avevano ricevuto dagli arabi e nel quale dapprima avevano soltanto confusamente creduto di riconoscere una specie di super-metallurgia, l’arte di fare l’oro dai metalli vili (e questo si mantiene vero per tutti i testi del ‘200), in esso a un certo punto - per una serie di influssi interni e forse anche esterni - gli alchimisti occidentali cominciano a riscoprire quello che è il senso più complessivo dell’alchimia. L’alchimia arriva così ad essere compresa come ricerca della perfezione materiale non solo dei metalli, ma anche del corpo umano: quindi una ricerca di perfezione che coinvolge lo stesso artefice, in prima persona, e anche una ricerca di perfezione che non può prescindere da un affinamento etico e dunque da una crescita spirituale dall’inizio alla fine di questa ricerca. Questo complesso di idee lo riconosciamo nei testi del primo ‘300, e in particolare in quei testi dedicati alla ricerca dell’elixir, molti dei quali sono stati tramandati sotto il nome di un filosofo che si chiamava Raimondo Lullo, una filosofo catalano contemporaneo di Dante Alighieri, http://goo.gl/nLn9r http://goo.gl/8kQH2 che di per sé non aveva scritto niente di alchimia, anche Pagina 19 di 60

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se nelle sue opere si vede che era al corrente dell’esistenza di essa, ma anzi è diffidente nei suoi confronti. E tuttavia si cominciano a scrivere dei testi, attribuendoli a lui, che hanno, rispetto ai testi precedenti e rispetto a tutta la successiva tradizione dell’alchimia post quattrocentesca, una caratteristica estremamente interessante. Vogliono infatti chiaramente mettere in comunicazione questo sapere che nasce dal fare, da questa ricerca di un opus che produca un agente di perfezione, con il sapere filosofico del loro tempo. Il più importante, il primo di questi testi si chiama Testamentum, ed è un esempio di questo tentativo di collegare questi due piani. Usa il linguaggio dei filosofi per dire cose che un filosofo non potrebbe mai dire, per esempio che "il vero temperamento, il vero equilibrio degli elementi lo si ottiene attraverso un’operazione manuale". Un filosofo scolastico non avrebbe mai pensato che l’operazione manuale fosse una via di accesso alla filosofia: al massimo l’operazione manuale aveva una sua dignità come attività utile all’umanità, ma non una dignità filosofica. Invece l’alchimista dice proprio questo. Allora, ecco i testi dell’elixir, i testi attribuiti a Raimondo Lullo come momento nel quale io vedo confluire tutti i temi dell’alchimia in una formulazione particolarmente rilevante perché cerca il dialogo con il resto del mondo, con il resto della vita intellettuale del suo tempo. In seguito il rifiuto dell’istituzione universitaria, il rifiuto del sapere ufficiale, a confrontarsi con questo sapere alchemico, cioè ad includerlo nel novero delle discipline legittime - cioè insegnabili -, indurrà gli alchimisti a richiudersi in un ambito, sempre più ristretto, ad occultare il proprio sapere che come dice Gilbert Durand, è occulto, per noi, perché è stato occultato, in quel momento storico. Dell’alchimia pseudo-lulliana, attribuita cioè a Raimondo Lullo, esistono molti manoscritti, uno dei quali, conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze, è un documento splendido. È un manoscritto della fine del ‘400, che però riporta testi sull’elixir scritti nel secolo precedente, un manoscritto probabilmente confezionato per un medico, poiché sono molti in quell’epoca i medici che hanno interesse per l’alchimia fra il ‘300 e il ‘400; è comunque chiaramente un manoscritto commissionato da una persona molto danarosa e contiene una serie di miniature , dipinte dal celebre miniaturista Gerardo da Cremona, che accompagnano i testi. Queste miniature stanno, in genere, nei capilet tera iniziali dei testi; quindi hanno una funzione esornativa, ma anche visualizzano dei motivi che sono, in questi testi, motivi centrali. Ecco allora perché ho scelto questa serie di miniature. Non ho portato tutte

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le miniature contenute in questo manoscritto, ma una scelta che ho ritenuto particolarmente significativa. La prima immagine è proprio il primo capolettera della prima opera contenuta in questo manoscritto, il Testamentum, e ha due settori, entrambi significativi (Figura 1). L’immagine di sinistra, la donna bionda che si strappa i capelli, col volto palesemente in lacrime, è la natura che si lamenta. Il motivo di natura lugens è un motivo che percorre la poesia tardo latina e poi torna nel XII sec. e che ancora ritroviamo in Jean de Meung. Natura si lamenta e dice all’alchimista che alcuni vogliono strapparle i suoi segreti, vogliono lacerarle le vesti, afferma "morti me tradere volunt" (mi vogliono ammazzare). Riecheggia in questo lamento il titolo del libro di Carolyn Merchant, La morte della natura. La Merchant ha analizzato un accadimento storico collocandolo nel momento in cui proprio è arrivato a compimento, al tempo della rivoluzione scientifica in cui la natura come grande dea, come figura divina era ormai decaduta a oggetto dell’indagine e quindi torturabile, come diceva nel ‘600 Francesco Bacone. Nell’immagine del manoscritto abbiamo una natura che ancora è vitale ed è in grado di lamentarsi, non è ancora stata definitivamente uccisa, ma manifesta proprio nelle sue parole questo pericolo e si appella all’alchimista perché solo l’alchimista potrà comprendere i suoi segreti in maniera non lacerante, in maniera non violenta.

L’alchimista infatti, come vedremo in seguito, ha un modo di rapportarsi alla natura per cui la natura gli svela volentieri i suoi segreti, perché sa che non ne farà cattivo uso, perché ha raggiunto una consapevolezza etica che gli consente di fare buon uso dei segreti di natura e una metodologia di approccio per cui interagisce con la natura ma non "la mette alla tortura" – frase, quest’ultima, di Francesco Bacone. L’altra immagine, quella racchiusa nella lettera O, è invece un’illustrazione sintetica di che cosa è l’alchimia. La scena illustra l’angelo che guida Tobia, il Tobia biblico, nel ritorno verso casa, dove con il fiele del pesce guarirà la cecità del padre. Tobia è raffigurato un po’ più giovane che nell’episodio biblico, è un bambino (vedremo alla fine il perché di questa piccola figura di puer), e il pesce è un simbolo dai molti significati, ma qui sta chiaramente per il "farmaco’’. Dunque l’alchimia perché? Per ottenere il farmaco, non ‘un’ farmaco, ma ‘il’ farmaco, il rimedio universale. L’angelo è il segno della rivelazione, cioè indica che questo sapere alchemico è appunto un sapere dalle caratteristiche particolari. Il francescano inginocchiato, a sinistra, che ammira questa scena con devozione, è un’immagine di Raimondo Lullo. Raimondo Lullo che non Pagina 21 di 60

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fu mai veramente francescano ma si accostò all’ordine francescano e ne divenne terziario qui è raffigurato con il saio, e quindi mostra l’alchimista nella veste di un francescano, di un francescano probabilmente eremita perché il paesaggio è un paesaggio della campagna. Tutte le scene sono sullo sfondo di un paesaggio di questo genere, un paesaggio toscano, poiché Gerolamo da Cremona, l’illustratore, lavorava fra Firenze e Perugia. Il francescano alchimista indica anche un’altra cosa, e cioè il coinvolgimento di questo ordine nell’alchimia. In verità entrambi gli ordini mendicanti, e anche vasti settori della chiesa, si interessarono all’alchimia. Ma i francescani, soprattutto i francescani spirituali – cioè appartenenti a quella corrente che voleva conservare la più rigorosa adesione alla povertà e che accolgono idee tardo-gioachimite - sembrano particolarmente interessati alla ricerca alchemica dell’elixir. Ci sono molti nomi di francescani associati, leggendariamente o no, alla ricerca alchemica. Passand o alla seconda immagine vediamo, sempre sullo sfondo del solito paesaggio, la fonte del sapere dell’alchimista: il raggio, l’illuminazione divina che viene dall’alto in risposta a un chiaro atteggiamento di preghiera (Figura 2). Dunque la devozione come atteggiamento che permette di ricevere un sapere che, per quanto si definisca filosofico, percorre vie diverse da quelle della filosofia aristotelica. Come ho già detto, il sapere dell’alchimista, la metodologia che l’alchimista segue per ottenere il suo prodotto, è una metodologia che lo mette in una relazione non violenta e di collaborazione e di interazione con la natura e quindi la prossima serie di immagini vogliono proprio far vedere alcuni aspetti di questo sapere. La terza immagine simboleggia l’opus alchemico nel suo complesso (Figura 3). Opus è un termine che propriamente si traduce con l’italiano "operazione", ma perde il suo sapore; e quindi il processo alchemico si continua in genere a definire con il termine latino. L’opus alchemico viene qui illustrato con l’esempio dell’agricoltura. Il parallelo fra l’alchimia e l’agricoltura è presente in alcuni testi alchemici e, prima che in essi, negli scritti di Ruggero Bacone, un filosofo del ‘200 appartenente all’ordine francescano, che propose al papa Clemente IV un progetto di riforma della cristianità incentrato sulla sapienza alchemica, sull’astrologia e sulla scientia experimentalis in genere. Il paragone alchimia/agricoltura è Pagina 22 di 60

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raffigurato con i due buoi che tirano l’aratro; l’eremita appare nella veste dell’agricoltore che prepara i solchi. I due buoi sono uno d’oro e uno d’argento, vera foglia d’oro e vera foglia d’argento ovviamente nella miniatura (il manoscritto è una meraviglia). E il piccolo personaggio che sta sopra il carro è Mercurio, con i piedi alati e con uno strumento musicale. È una delle prime testimonianze del legame fra l’alchimia e la musica, che poi sarà sviluppato soprattutto in età barocca. Probabilmente qui è un’allusione al fatto che l’alchimia si inserisce in una visione del mondo basata sull’armonia, la visione del mondo che noi conosciamo come dottrina della ‘simpatia universale’, quella cioè per cui in un cosmo che è sostanzialmente unitario le cose si collegano fra loro non in maniera meccanica, ma per influssi qualitativi, per somiglianze, per affinità - appunto simpatie. Di fatto questa è una dottrina ermetica e l’ermetismo, ovvero la filosofia che fa capo alla figura mitica di Mercurio è lo sfondo filosofico dell’alchimia. La Tabula Smaragdina, testo ellenistico che gli alchimisti considerano come il fondamento del loro sapere, si narrava fosse stata ritrovata incisa in una tavola di smeraldo che la statua di Ermete reggeva nelle mani, in un luogo sotterraneo - quindi ritrovata al termine di un percorso iniziatico. Questo testo comincia dicendo "ciò che è in alto è come ciò che è in basso e ciò che è in basso è come ciò che è in alto per realizzare il miracolo della realtà che è una". E quindi Ermete è presentato come il capostipite, il padre, l’origine della sapienza alchemica. La quarta figura, L’alchimista, che nell’immagine precedente preparava la terra, ora la semina con semi d’oro e d’argento, come d’oro e d’argento erano i due buoi che tiravano il carro (Figura 4). Questi sono i semi della perfezione, e l’immagine sta a significare che l’alchimista non lavora in maniera innaturale o contro natura, ma prende ciò che già esiste a livello di perfezione embrionale, appunto di seme, per portare a perfezione anche tutto il resto della realtà materiale, che i processi naturali hanno lasciato imperfetto o incompiuto. Per poter compiere ciò è necessario produrre un qualcosa, il famoso lapis philosophorum, che non è una pietra, anche se il suo nome significa ‘pietra dei filosofi’’. Come dice Morieno, un alchimista arabo il cui testo fu il primo tradotto in latino nel XII secolo, "Ricordati bene che le pietre non hanno nessuna parte in quest’opera". Quindi lapis philosophorum è un nome emblematico per dire il prodotto incorruttibile dell’opus (anche chiamato elixir), prodotto che è ottenuto seminando la perfezione, che è come il frutto di perfezione che diffonde la perfezione, moltiplicandosi e rendendo perfetto tutto ciò con cui viene in contatto. L’interazione fra l’alchimista e la natura non è dunque uno stravolgimento o un intervento estrinseco sul corso naturale, ma è l’inserimento dell’intenzionalità cosciente umana, che vuole portare alla perfezione totale l’intero cursus naturae che, come dice il nostro alchimista nel Testamentum, talvolta si distorce, cioè devia dalla originaria direzione verso la perfezione. Pagina 23 di 60

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Questa direzione viene recuperata attraverso l’intenzionalità umana, la coscienza: ecco dunque l’alchimista come ‘seminatore’. Ma l’immagine del seminare è anche un’immagine che può passare dalla metafora agricola a quella sessuale: e, come vedremo, c’è uno sviluppo di questo tema. L’interazione fra l’alchimista e la natura, visualizzata come immagine femminile divina, viene ad essere pensata in termini nuziali, nei termini della coniunctio. Su questo torneremo più avanti. Nella quinta immagine vediamo l’alchimista che fa un’operazione curiosa, sta tingendo dei rami. Il riferimento immediato è alla parte di testo che ora comincia e che si intitola "rami della tintura", cioè la parte del testo che tratta del ‘tingere’. Questa espressione ci riporta alla parte manuale in senso stretto, artigianale dell’alchimia, a ciò per cui l’alchimia si definisce ed è definita una ars, non nel senso di un’arte estetica ma di una techne, cioè di un fare materiale. L’alchimia è infatti una ricerca sui materiali e perciò ha piena legittimità concepire l’alchimia anche come una madre della chimica o protochimica, come una ricerca dalla quale poi discendono anche i procedimenti scientifici della chimica. In questa ars, appunto il momento culminante si definisce tingere, perché la compenetrazione di perfezione che l’elixir opera sulle cose con cui viene messa a contatto è analoga a quella con cui una piccolissima quantità di principio del colore, per esempio della porpora diluita e lavorata e trattata in un certo modo, riesce a imbibire una grossa quantità di materiale grezzo, per esempio di stoffa. Ora però questi rami che l’alchimista sta tingendo sono rami di palma e la palma è un albero simbolico dell’immortalità, che come vedremo ricorre in un’altra immagine che incontreremo fra poco. Dunque questo suo tingere non è solo il tingere del tintore, ma ha un doppio livello di lettura: e del resto in un testo dell’alchimia dell’elixir contenuto anche in questo manoscritto, il Rosarius attribuito ad Arnaldo da Villanova, la tintura è paragonata all’anima che, portata dall’acquaspirito, imbeve il corpo materiale, rendendolo perfetto. Nella sesta figura vediamo invece un altro aspetto che è quello della cottura e del raffinamento, della separazione delle impurità dal materiale grezzo. Questa è una Pagina 24 di 60

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delle miniature più misteriose della serie (Figura 6), perché questo materiale grezzo è raffigurato con due facce umane, chiaramente, ma come vedete sono due ‘tartari’, che all’epoca in cui viene scritto il Testamentum (più che a fine ‘400, quando vengono fatte le illustrazioni) sono i popoli assolutamente al di fuori della civiltà. Questa immagine perciò dice due cose insieme: una è che metalli, minerali, esseri viventi, sono tutti una parte dell’unità del tutto. I metalli, dice un frammento attribuito ad Ermete, sono anche essi animati, sono dotati di vita; ecco perché degli esseri umani possono raffigurare i metalli posti nel fuoco a purificarsi. Il testo a cui questa iniziale dà l’avvio si apre dicendo che la purificazione che avviene nel fuoco dell’alchimista fa sollevare delle nubi nere piene di mostri, che sono le impurità che si allontanano dalla materia prima che è stata messa nel fuoco. Dunque il fuoco è presentato come lo strumento dell’alchimista, e la materia prima è esemplificata da queste due teste umane ed il nero delle impurità dai mostri (chimere, bestie strane e mitologiche che stanno allontanandosi). Dunque col fuoco l’alchimista separa le componenti di una sostanza, le componenti impure, e poi distilla, cioè fraziona una sostanza nelle sue varie componenti. La settima immagine si riferisce alla distillazione vera e propria, cioè non ad un lavoro fatto a partire da una materia prima minerale, ma ad una materia prima che è chiaramente il vino (perché c’è un torchio: Figura 7). Infatti questa iniziale si riferisce al Liber de secretis naturae, che è un testo sulla distillazione della quinta essenza, distillazione della essenza incorruttibile, luminosa, che sta nel cuore di tutte le cose ma che meglio di tutte si estrae – come dicono lo pseudo Lullo e il francescano spirituale Giovanni da Rupescissa nel 1350 - proprio dal vino. Il vino infatti deriva dall’uva, dal frutto che racchiude in se stesso il calore vitale del sole; e attraverso questa serie di trasformazioni (sole, uva, vino, quinta essenza) l’opera dell’artefice ottiene il principio vitale, che nel calore del sole è racchiuso e che è il principio quintessenziale, la quintessenza della realtà elementare. Che il frutto dell’opus sia l’anima dei metalli, o che sia la quinta essenza del vino, è uno il principio di perfezione, che racchiude in sé due caratteristiche: è "incorruttibile", sia che sia fatto raffinando metalli, sia che sia ottenuto dal vino. La quintessenza è un prodotto che invece - dice Giovanni da Rupescissa - è sovraelementare, non si corrompe, non è né freddo né caldo né umido né secco, ma ha le funzioni di tutti gli elementi, di cui è radice unica. Ma, oltre ad essere il principio della perfezione, questo prodotto è un principio dinamico, perché questa perfezione che possiede può generarla in ciò con cui viene in contatto, dunque ha in se stesso un dinamismo di ordine vitale per cui cresce e si diffonde. E’ chiaro allora che ciò che è stato ottenuto nell’opus alchemico è un’unione degli opposti, della vita e dell’incorruttibilità, o del dinamismo e della perfezione incorruttibile. Pagina 25 di 60

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C’è però un problema a cui gli alchimisti sono sensibili, alcuni almeno: la distillazione, o comunque le operazioni alchemiche in genere, permettono soltanto di estrarre il principio vitale dalle realtà materiali in cui è già presente, o permettono di crearlo, di farlo manualmente? E’ una problematica che nei testi arabi e nei testi latini si esprime con il privilegiare o meno, come materia prima dell’opus, sostanze che noi oggi definiamo organiche, oppure sostanze inorganiche. Cioè da una parte piante, tessuti animali, per esempio il sangue, oppure sostanze invece inerti, i metalli, i minerali. Nell’immagine ottava, si vede l’albero della palma, che è l’albero dell’opus alchemico; in esso tutte le foglie di destra, cioè le foglie sostituite da lettere, raffigurano i diversi stadi dell’opus che il testo descrive; alla base dell’albero c’è un vaso. Un vaso molto particolare: chi conosce la medicina medioevale vi potrà riconoscere un ‘orinale’, e dunque il liquido che contiene è urina umana che è il principio, la materia prima da cui si parte, secondo l’alchimista che ha scritto questo testo, il Liber de investigatione secreti occulti, per fare il lapis philosophorum, perché si deve partire da una sostanza che abbia già in sé il principio della vita. Immagine ottava, bis Questa però è l’opinione di una corrente dell’alchimia dell’elixir, perché altri alchimisti invece sostengono che si può partire da qualunque sostanza, anche dai metalli, anche dai minerali, perché il principio vitale si ottiene attraverso le manipolazioni, attraverso l’estrazione dell’anima (Figura 8bis). Secondo questi ultimi alchimisti, l’alchimia permette in verità di estrarre da qualunque cosa, da qualunque elemento, da qualunque materia prima, l’anima. Ed essa è il filius, che l’alchimista ha ottenuto dalla gravidanza della natura. C’è un passo, che ricorre in diversi testi quasi con le stesse parole, in cui l’alchimista raccomanda al figlio: "quando avrai ingravidato la natura" cioè quando avrai lavorato la terra e avrai seminato i semi della perfezione "aspetta il parto perché è la natura che detta i tempi e non tu". Dunque si richiede all’artefice non l’atteggiamento prometeico, del fare che è dominio sopra la natura, ma la capacità di interagire con essa, saper aspettare. Si richiede dunque all’artefice una virtù che è tradizionalmente una virtù femminile, ma che è anche una virtù degli alchimisti: la pazienza cioè il saper patire, aspettare. È perché l’alchimista sa aspettare che la natura non è violentata dal suo intervento. È perché l’alchimista riconosce alla natura il suo ruolo di soggetto vivente che non la riduce appunto ad un oggetto.

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Il testo introdotto dalla nona immagine non è dello pseudoLullo ma è attribuito ad Arnaldo da Villanova e si chiama Rosarius: ecco perché la miniatura raffigura le rose (Figura 9). Ma la rosa d’oro è anche il dono che i papi, in età tardo medievale e rinascimentale portavano alle città dove si trovavano in visita, cioè è il segno del passaggio del sacro. La rosa d’oro è anche il simbolo della perfezione materiale viva (fiore) e incorruttibile (oro). Viene spontaneo l’accostamento con quel Segreto del fiore d’oro, testo di alchimia taoista tradotto da Richard Wilhelm negli anni ‘20 del nostro secolo e commentato da Jung, testo nel quale a un certo punto si dice "quando col tempo l’opera è compiuta, è come se in mezzo al non essere ci fosse un essere". Fin qui abbiamo visto che cos’è l’alchimia; ora vediamo come si rapporta l’alchimista col sociale, chi è l’alchimista nel suo mondo. La decima immagine ci mostra che l’alchimista, l’alchimia interessa ai re (Figura 10). Il personaggio sulla destra è chiaramente un re perché ha la corona; e si può anche riconoscere con esattezza chi è, perché è il destinatario della copia di dedica del Testamentum pseudo-lulliano, Edoardo III d’Inghilterra. Ma non è affatto l’unico sovrano medievale che si interessi di alchimia: sono tanti coloro che se ne interessano, ed in particolare i sovrani si mostrano interessati alla parte metallurgica perché pensano di coniare moneta con l’oro alchemico. Da qui nasce il problema degli alchimisti come falsari, che si collega a tutta una problematica giuridica che tuttavia è articolata e complessa. C’è una tradizione, che è radicata addirittura in un breve passaggio di Tommaso D’Aquino nella Summa theologiae in cui si dice che "se gli alchimisti mediante l’opus riuscissero a fare dell’oro vero, coniare moneta con quell’oro non sarebbe peccato, sarebbe lecito"; su questa posizione si allineano diversi giuristi. Un caso emblematico di rapporto fra l’alchimia ed il potere regio si ha nell’Inghilterra del primo ‘400: l’alchimia è proibita fino a che, dopo la fine della guerra dei Cento Anni, le finanze inglesi sono distrutte. A quel punto il re Enrico IV comincia a dare delle deroghe al divieto che uno dei suoi predecessori aveva istituito, e comincia a dare il permesso a singoli alchimisti, come mostrano i documenti dell’archivio inglese pubblicati nei Patent Rolls. Ci sono una serie di

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lettere-patenti che dicono press’a poco: il tale può esercitare l’alchimia, purché lo faccia ovviamente per me, sotto la mia giuris dizione. Quando poi gli alchimisti non riuscivano - le tecniche di saggiatura dell’oro erano già ben conosciute e si poteva benissimo vedere che quel che veniva fuori dalle loro manipolazioni non era oro -, se non fuggivano i sovrani erano pronti a gettarli in galera e anche a ordinarne la messa a morte. Quindi le vicende degli alchimisti col potere sono controverse. Interesse da una parte, per una potenza che si avverte in questo sapere e che viene interpretata letteralmente come potenza di fare ricchezze pressoché dal nulla; dall’altra parte diffidenza e quindi pronto castigo. Esemplare è a leggenda di Lullo alchimista, che avrebbe fatto l’oro per il re Edoardo ma, poiché questi l’avrebbe usato per combattere i Cristiani anziché i Saraceni (scopo per cui Lullo lo aveva fatto) l’alchimista si oppone al re e di conseguenza viene messo in galera: anche se poi proprio nel carcere si narra che gli succedono cose meravigliose, riceve le rivelazioni degli Angeli... però è in galera. Nella successiva figura (Figura 11) vediamo invece che l’alchimista ammaestra i dottori e i filosofi; dunque l’alchimia non come potere, ma come sapere . L’alchimia si coniuga fra il ‘200 e il ‘300 con il sogno del farmaco universale che nasce all’interno della ricerca medica e farmacologica, forse sull’eco di ricerche orientali di cui Ruggero Bacone a Oxford poteva ben essere a conoscenza e che trova ascolto anche nella curia papale. C’è infatti molta attenzione da parte dei pontefici, dei cardinali per il farmaco che ringiovanisce, per il farmaco che mantiene il corpo efficiente. In un mondo cristiano non si può pensare al farmaco dell’immortalità in senso stretto perché questo sarebbe hybris eccessiva, ma si pensa ad un farmaco che consenta di vivere dicono gli alchimisti - fino al termine ultimo stabilito da Dio, evitando tutte le cause di morte precoce. Questa ricerca del farmaco alchemico come medicina, panacea e elixir contro tutti i mali, sfocia in una applicazione della distillazione alla ricerca Pagina 28 di 60

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farmacologica, a metà del ‘300, con il francescano Giovanni da Rupescissa che è uno dei precedenti di Paracelso della ricerca iatrochimica di Paracelso. Ciò che spiega perché i medici rinascimentali sono interessati a questo sapere. Nella dodicesima immagine il medico che stringe la mano all’alchimista è una persona particolare: è Arnaldo da Villanova, che compare in una versione della leggenda di Lullo alchimista, in cui si dice che Arnaldo sapeva fare la distillazione ma non ne conosceva il quadro di riferimento alchemico. Quando questo gli viene insegnato dall’alchimista i due diventano socii, condividono la stessa ricerca, e a questa comunanza di interessi allude il fatto che si stringono la mano in gesto amichevole (Figura 12). Nella figura successiva vediamo invece raffigurato l’interesse dei religiosi per la ricerca alchemica (Figura 13). Il monaco vestito di bianco è un certosino; e infatti l’illustrazione è riferita al Liber de secretis naturae, che l’alchimista avrebbe scritto su richiesta di un monaco della Certosa Parigina. Quello che qui viene illustrato è il momento in cui l’alchimista consegna al monaco il libro che gli è stato richiesto. Di fatto ci sono numerosi divieti di praticare l’alchimia rivolti dagli ordini religiosi ai propri membri; ma proprio il ripetersi però di questi divieti mostra che in realtà i religiosi praticavano la ricerca alchemica con tutte le implicazioni che questa ha relativamente alla salvezza del corpo e alla salvezza spirituale, con la sua richiesta di perfezionamento anche etico, di disposizione religiosa nei confronti della natura e naturalmente anche di ricerca medica dell’elixir. Del resto tutti quei liquori che nelle Certose, nelle fondazioni di antica memoria ancora si producono, testimoniamo una tradizione di distillazione che poi si è certo abbassata a scopi più utilitaristici, ma che è radicata in questo sapere. C’era, in Italia, un ordine religioso che fu soppresso alla fine del ‘600, fondato dal senese Giovanni Colombini dopo la peste nera verso il 1365/67 per assistere gli ammalati di peste e i moribondi, che venne presto ribattezzato "I Frati Speziali" o "I Fratelli dell’Acquavite". In tutte le fondazioni di questi Gesuati, c’erano officine di distillazione, perché era coi farmaci distillati che essi curavano i malati gravi e i moribondi. Un testo attribuito ad Arnaldo da Villanova racconta del resto come si possa ottenere mediante la distillazione un farmaco che è in grado di risuscitare i morti," vel quasi" – dice -, insomma non proprio del tutto. Cioè si può far sì che una persona che sta malissimo, che sta perdendo i sensi, che se ne sta andando all’altro mondo, ma che non ha fatto in tempo a fare testamento o a confessarsi, si riprenda con questo prodotto alchemico, detto appunto perciò elixir vitae, quel tanto che basta per mettersi in pace con Dio e con gli eredi: e pare che i Gesuati di questa possibilità vel quasi ne abbiano forse un po’ abusato.

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Nella figura che segue vediamo l’autorità massima del mondo medievale, il papa. Questa immagine però non è molto lineare come leggibilità, è la più misteriosa (Figura 14). Questo animale, volpe o furetto che fa cadere il triregno dalla testa del papa, io (e gli altri studiosi che hanno analizzato questo manoscritto) non riesco a interpretarla. Quello che si capisce è che c’è una certa animosità fra l’alchimista e il papa. L’alchimista agita il vaso della materia prima in maniera leggermente intimidatoria, mentre il papa – pare - sta perdendo di fronte all’altro il simbolo del suo potere: ed ecco che riappare quel piccolo puer, vestito come nella prima immagine, che mi induce a pensare che questa immagine indichi una contesa sul sacro e indichi dunque l’aspetto negativo che fa da pendant all’aspetto positivo dell’alchimia come complemento ad un discorso religioso che ha trascurato il versante della materia: ma su questo rinvio al testo di Carlo Cicali e Dario Squilloni. Di fatto, nella perfezione alchemica della materia è possibile innestare il rinnovamento della chiesa, come Bacone aveva auspicato, come il puer dell’immagine sembra mostrare, ma anche leggervi la minaccia di rovesciamento del potere temporale: e il legame della ricerca alchemica con i movimenti spirituali del tardo medioevo – cui ho già accennato - sembra andare piuttosto nella seconda direzione. La conflittualità con la figura massima della cristianità si manifesta in alcuni fatti storici: la condanna degli alchimisti come falsari che pronunciò Giovanni XXII, la persecuzione contro gli alchimisti da parte dell’inquisitore della corona d’Aragona Nicola Eimerich alla fine del ‘300, che contraddicono l’interesse che i papi e i cardinali avevano mostrato per la ricerca dell’elixir fra il ‘200 e il primo ‘300, che chiudono questa possibilità, forse perché appunto è stato compreso che l’alchimia conteneva una visione del mondo che non poteva andar d’accordo con quella che il potere ecclesiastico, alla fine del medioevo, sosteneva. Ecco allora l’alchimia che, a quel punto, rifiutata dalle università, osteggiata dall’autorità massima e ambiguamente favorita dal potere secolare, si rintana, si rinchiude in una sua sfera di ricerca, si occulta e diventa ciò che per noi oggi è una ‘scienza occulta’. E allora che vuol dire, che senso ha riprendere oggi in considerazione una ricerca di questo tipo? La risposta, o almeno la mia motivazione, è radicata sia nel discorso di Jung, su cui però qui non mi soffermo, sia in un discorso che emerge da ricerche sulla tradizione esoterica per esempio in Francia. Ritornare all’alchimia non vuol dire dedicarsi a stranezze o concedersi delle divagazioni, per quanto affascinanti, ma cercare di rimettere a tema del pensiero un materiale che non si presenta così unilaterale, così astratto, così schematicamente universale come la definizione di scienza e di filosofia nella modernità di fatto sono. L’alchimia è stata definita da una studiosa francese contemporanea, Françoise Bonardel "il continente nero del pensiero occidentale", riprendendo coscientemente quella definizione che Freud ha dato delle donne e del femminile. Continente nero in cui il pensiero occidentale ha cessato - dice Bonardel - di volersi avventurare in un dato momento della sua storia. Ecco, tornare a questo sapere significa fare un passo indietro rispetto a quel momento della storia in cui il pensiero moderno ha messo le basi per l’unilateralità e per la violenza contro la natura che lo caratterizzano, e ritrovare un sapere simbolico che - per usare una frase di Paul Ricoeur - "dà Pagina 30 di 60

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da pensare". Il simbolo dà da pensare. Il simbolo non è qualcosa da cui si astrae un concetto, ma è qualcosa su cui si lavora anche col pensiero per andare oltre, per superare questo atteggiamento prometeico unilaterale della coscienza occidentale. Dunque l’alchimia come sapienza, che superando questo atteggiamento prometeico suggerisce, indica, dà da pensare un nuovo rapporto possibile tra gli esseri umani e il mondo. Un prendersi cura del mondo nella sua materialità, un’interazione cosciente volta alla perfezione di entrambi i soggetti di una relazione, quella fra esseri umani e natura, che costituisce anche la nostra realtà. Dibattito - [Pubblico] Quando parlava sul tema della distillazione, dell’estrazione di un’essenza che in qualche modo supera l’aspetto materiale, mi sembra che facesse emergere degli echi in un certo senso heideggeriani. Nel pensiero di questo filosofo, il tema del disvelamento del naturale prefigurava un finale positivo, una techne positiva, mentre la lettura, l’approccio di tipo ecologico è di segno opposto. Nell’ars, nella techne, nell’atteggiamento di non violenza degli alchimisti nei confronti della natura mi sembra di sentire in fondo una sorta di insegnamento attualizzabile. - [Pereira] Sì! È il tema della trasformazione possibile e delle modalità possibili per trasformare. Gli alchimisti non sono sostenitori del ‘non intervento’, anzi sono sostenitori del fatto che la coscienza, il possesso dell’intenzionalità dà all’essere umano la possibilità, anzi l’obbligo in qualche modo di portare l’opera di perfezione al suo compimento. Opera di perfezione che gli alchimisti, come Cristiani, ovviamente vedono iniziata da Cristo, ma rimasta incompiuta, perché Cristo ha redento il piano spirituale, le anime, mentre è rimasto da redimere tutto il piano dei corpi e della materia. Dunque la tecnica come una possibilità positiva; e del resto Ruggero Bacone, che è appunto un personaggio chiave per capire gli sviluppi dell’alchimia fra il ‘200 e il ‘300, è convinto che le tecniche, anche quelle che oggi a noi sembrano le più astruse e quelle che anche ai suoi tempi venivano identificate con la magia e quindi con le arti dell’Anticristo, possano e debbano essere utilizzate dai Cristiani nella loro guerra contro l’Anticristo e per lo sviluppo morale dell’umanità. Bacone colloca l’alchimia nel sesto livello della sua enciclopedia delle scienze, in quei tre testi che dedica al Papa Clemente IV chiedendogli di intervenire per riformare gli studi e, attraverso gli studi, la cristianità; al settimo livello cioè al più alto quello a cui introducono le conquiste della scientia experimentalis (tra le quali c’è l’alchimia), c’è la morale. Dunque c’è una enciclopedia delle scienze che parte dal dato rivelato, dalla conoscenza biblica attraverso le lingue, attraverso la matematica, l’ottica (perché rivela il la modalità radiante in cui con cui tutte le realtà si influenzano l’una all’altra) e poi appunto le scienze sperimentali. E dopo il completo possesso di tutte queste scienze, l’apertura ad un ‘sogno tecnologico’ che per l’epoca medievale appare incredibile (si potranno fare – scrive Bacone - navi che possono scendere sotto l’acqua con degli uomini dentro, carri che si muovono da soli ecc.): ma tutto questo ha come scopo il perfezionamento morale dell’umanità. Questa pagina di Bacone è stata ripresa all’epoca del secondo Bacone, cioè nel ‘600, per dimostrare come si può dominare la natura. Ma all’epoca del primo Bacone non c’era una volontà di dominare la natura: nei testi alchemici di quest’epoca non c’è la parola né il concetto dl dominio, c’è piuttosto l’idea dell’interagire, del portare a una perfezione che è della natura e dell’artefice, dell’artefice e della natura. Non si può distinguere, a quell’altezza cronologica, fra una alchimia spirituale e un’alchimia operativa. L’alchimia operativa chiede e dà perfezione spirituale, la chiede come esigenza iniziale e la conferisce come sapienza accresciuta alla fine; e viceversa il vero sapiente non può poi che, in qualche modo, esplicare la sua sapienza operando, quindi facendo. Insomma si può vedere l’alchimia oggi come ‘cibo per il pensiero’, nel senso di materiali che permettano di immaginare, prima ancora che per pensare altre modalità di intervento umano sulla natura. Le Pagina 31 di 60

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operazioni che gli alchimisti facevano oggi non sono più un lavoro sull’ignoto: sappiamo cosa vuol dire, distillare, conosciamo le formule chimiche delle sostanze, in pratica chiunque ne abbia un minimo di voglia si può comprare l’attrezzatura, i libri e impara e fa le quintessenze di tutto quanto con risultati mirabili, più che ai tempi di Paracelso. Ma il problema dell’alchimia – quello che si manifesta nel discorso della materia prima - significa sapersi mettere in contatto con ciò che è ignoto, con ciò che è più oscuro dello scuro e saperci stare in relazione, sapendo che quella relazione è fruttifera per l’umana coscienza e per l’oscurità della materia . Questo appunto non è oggi traducibile forse nelle tecniche che per gli alchimisti erano innovative e misteriose, ma è certamente pensabile nel rapporto fra gli esseri umani e questa cosa misteriosa che è lo strapotere che il nostro stesso operare ha assunto su di noi. - [Pub.] Io volevo fare una piccola provocazione, a questo punto, visto che l’operare può determinare dei cambiamenti sia nella materia prima sia nell’operatore. Ho letto che certe ricerche di alchimisti hanno portato a delle scoperte straordinarie, eccezionali, scoperte che anche alchimisti più moderni hanno cercato di ricreare. Qualche studioso riferisce - e lo riportano anche dei fisici - che probabilmente qualche cosa è successo e presumibilmente questo qualche cosa è successo grazie a un certo potere dell’operatore sulla materia. Questo significa, in pratica, che in qualche modo la mente può determinare una alterazione o comunque che il soggetto non può essere completamente fuori dal fenomeno alchemico che riguarda la materia. La mia provocazione consiste in questo: ci sono studi che hanno cercato di dimostrarlo? Anche nell’antichità, ovviamente… E, se ci sono, che cosa è stato visto? Quali sostanze sono state ottenute? Si parla di oro che non è oro ma che è simile a oro; potrebbe esserlo ma non è proprio oro… - [Per.] Credo di capire che l’autore a cui ti riferisci è Titus Burkhardt. La sua posizione a me appare irritante, ancor prima che provocatoria, perché non da’ modo di capire alcunché, né della disposizione psicologica, né di cosa effettivamente stesse facendo, né di cosa effettivamente ha visto accadere; e se mi dice che è cosa che si dice solo ad un iniziato, allora io gli chiedo perché l’ha scritto in un libro che è regolarmente in commercio. Il problema è questo. C’è almeno un autore che è passato nella cultura latina in maniera abbastanza limitata come numero di scritti, ma che ha influenzato per l’appunto Ruggero Bacone, nell’opera in cui presenta la teoria dell’irraggiamento, il De multiplicatione Specierum, che sembra avere dei fili abbastanza solidi di collegamento con il tema dell’agente di perfezione che perfeziona. Questo autore noi lo conosciamo come addirittura " il filosofo degli arabi ", Al Kindi, il cui sapere risulta essere radicato nella sapienza orientale dei Sabei di Harran; egli sosteneva che gli astri e anche i corpi elementari e qualunque sostanza emettono dei raggi e che questi raggi sono il collegamento fra le sostanze (cause) e gli effetti che si producono. E però, secondo Al Kindi, non c’è un legame di uno a uno, fra causa ed effetto, ma ogni effetto è determinato da tutti i raggi che convergono su di esso e ogni causa, ogni sostanza irradiante emana raggi da tutta la sua sostanza, quindi in ogni direzione. Questo significa che tutta la realtà è determinata, ma che questo determinismo è talmente complesso che non possiamo conoscerlo: dunque il determinismo ontologico produce indeterminismo epistemologico. Significa inoltre che il mago, colui che conosce questo modo di agire, può modificare se stesso come centro emanante raggi e può in questo modo modificare la realtà senza uscire dal determinismo naturale, senza introdurre quindi un elemento estraneo, agendo all’interno della natura e secondo le sue leggi. Dunque questo autore, che pensava e scriveva nel IX/X secolo, pensava in termini di feed-back ...Ecco, se questo sia la stessa cosa che dice Burckhardt non lo so. Personalmente mi irrita meno Al Kindi di Burckhardt. Questo però non vuol dire che la modifica di se stesso sia una modifica ‘spirituale’ (nel senso di ‘mentale’), cioè quello che si intende banalmente quando si parla del valore spirituale o addirittura metaforico Pagina 32 di 60

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dell’alchimia, come se l’alchimia fosse una pia favoletta per cui gli alchimisti parlano delle cose che fanno, ma vengono interpretati come se le loro operazioni come se fossero pensieri, immaginazioni o addirittura fantasticherie. Non è così: il mago che si trasforma, per trasformare fa qualcosa di se stesso, con se stesso, che non è limitato al pensare di far qualcosa, cioè agisce a un livello materiale, anche se il livello materiale dei raggi è un livello materiale sottile, ovvero non la materia densa, dei corpi concreti. Certo è che Ruggero Bacone prende l’avvio da qui quando parla non mi escono più le parole di moltiplicazione delle specie. Quando poi gli alchimisti parlano di moltiplicazione dell’elixir o della perfezione indotta dall’elixir, forse si muovono ancora su quel piano. E questa concezione di fondo la possiamo forse riconoscere in una pratica che ha qualche radice nelle ricerche post-paracelsiane, e cioè nella medicina omeopatica, in cui si ritiene che il farmaco agisca a partire dall’assottigliamento che corrisponde ad una capacità di potenza, quindi a una capacità di azione più profonda e tendenzialmente più risonante (non voglio dire più ampia perché più ampia è un termine troppo ‘spaziale’ e concreto). Anche in questo caso si può pensare che siamo in un ambito di discorso che è sempre un discorso sulla realtà naturale, ma in cui la realtà naturale non è soltanto, appunto, tavole e sassi cioè non è soltanto il concreto materiale - [Pub.] È energia. - [Per.] È un modello probabilmente energetico, si! - [Pub.] A proposito dell’alchimia al tempo medievale, cui si riferiva, in letteratura ci sono diversi esempi. Volevo sentire da lei, non so… Dante… - [Per.] Dante definisce l’alchimia come imitazione della natura, e dunque sembra stare dentro la visione duecentesca dell’alchimia come formazione di metalli perfetti, di metalli nobili a partire dai metalli vili; e anche sembra non particolarmente favorevole all’alchimia, dato che mette all’inferno i due alchimisti (Divina Commedia, Inferno, XXIX, vv. 118-120 Griffolino: "nell’ultima bolgia delle diece / me per l’alchimia che nel mondo usai /dannò Minòs"; 133-139 Capocchio: "sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio, / che falsai li metalli con alchimia: / e te dee ricordar, se ben t’adocchio,/ com’io fui di natura buona scimia"). Però poi c’è tutto un filone di letteratura esoterica, che interpreta Dante e la Commedia come un poema alchemico che appunto, secondo me, va nell’ordine dell’intendere l’alchimia come metafora di qualcosa d’altro. Si possono trovare delle utilizzazioni della terminologia alchemica: per esempio termini della distillazione nei trovatori; questo mostra che l’alchimia era un sapere più diffuso di quello che noi pensiamo fra il XII e il XIII secolo. Ci sono scambi: la cultura dei trovatori si svolge in ambienti che sono un secolo dopo, certamente propensi ad aprirsi all’alchimia. Per il XII secolo e la prima metà del XIII sappiamo poco, ma per esempio ci sono certamente interessi alchemici alla corte di Federico II. - [Pub.] Mi veniva in mente di quando si fanno riferimenti alle influenze delle pietre sull’uomo; è un discorso che si può riferire all’alchimia? - [Per.] Quello delle pietre è un discorso che fa parte sempre della filosofia ermetica però non coinvolge il fare umano. Le pietre semplicemente si incastonano, si portano addosso ... - [Pub.] Però si polverizzavano.

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- [Per.] E poi si possono anche ingerire, sì, quindi c’è tutto un settore di medicina magica, talismani ecc. che fa parte di tutto quell’insieme ermetico cui appartiene anche l’alchimia. - [Pub.] Anche la perla… - [Per.] La perla è un esempio interessante. - [Pub.] Si faceva farina. - [Per.] Dentro l’alchimia pseudo lulliana c’è probabilmente l’origine di quelle che sono le perle che oggi si comprano noi per gioielli, le perle di Maiorca. Alcuni testi pseudo lulliani insegnano come fare perle che hanno le stesse virtù delle perle naturali (perché la perla ha virtù come farmaco magico ed è estremamente pregiata nella farmacologia medievale). Dunque c’è come una zona di commistione fra gli usi magico-medici e le preparazioni medico-alchemiche dove però si può distinguere, vedendolo anche dal versante dei testi letterari, e riconoscere una visione globale del mondo improntata a quello che appunto dicevo come unitarietà e armonia di tutte le cose, in cui tutto risponde con tutto e dunque le pietre, gli esseri umani, gli animali e le manipolazioni degli uni e degli altri; però il discorso sulle pietre preziose non è ‘alchemico’ in senso stretto. - [Pub.] Tutto il discorso sulla scolastica e cioè su un linguaggio, una ricerca, una metodologia di progressiva astrazione e quindi, in qualche modo, di una distillazione in cerca dell’universale, è oggetto di critica in questo particolare periodo che tu hai appena descritto. Fra l’altro, nelle immagini molto belle che ci hai fatto vedere, la ricomposizione dell’uno - dove per ricomposizione dell’uno si intende la coniunctio oppositorum - è evidente: argento e oro, la rosa dorata, i semi d’oro e d’argento gettati nel terreno arato dal toro d’oro e d’argento ecc. ecc. Il prodotto di questa unione riunisce in sé i due elementi. Mi veniva spontaneo ricollegare il tentativo del francescano, sbattuto in faccia ad un papa evidentemente indegno della sua tiara, all’immagine di Tobia che ritorna - dopo un percorso alchemico, possiamo dire - per riaprire gli occhi al padre, cioè per fargli ritrovare la giusta ottica sulle cose, se mi si permette la metafora. Questo mi sembrava molto in contrapposizione… quasi come un voler far ritrovare una vera sapienza a chi aveva fatto di una filosofia troppo scotomizzante - e quindi in qualche modo distillatoria - la materia prima. Ecco, come si conciliano queste immagini di aratura e semina, di questi semi doppi, opposti, di questo sole e questa luna, di questo oro e questo argento? Sembra si voglia nuovamente confondere queste cose, unirle, mentre il prodotto di una distillazione, come processo, appare, per lo meno a prima vista, un qualcosa che scotomizza, che tende a liberare impurità successive e quindi a scindere in qualche modo gli elementi fra di loro. - [Per.] La distillazione degli alchimisti è un separare è uno scindere in vista del riunire. Come per seminare l’oro e l’argento, questo prima non l’ho detto, bisogna averli dapprima purificati, ottenuti nella loro forma pura: cioè il seme d’oro e il seme d’argento non è un pezzetto d’oro o un pezzetto d’argento presi dalla miniera o dalla sabbia, ma è l’oro e l’argento naturale purificato alchemicamente. Dunque la distillazione alchemica è un processo di purificazione e di separazione per la riunione per riunire. Ora dall’altra parte, io dubito che si possa definire l’astrazione scolastica come distillazione. Astrarre il concetto dal fantasma, estrarre la species tecnicamente dal fantasma non significa (penso a Tommaso come esposizione esemplare), non significa propriamente prendere il fantasma come qualcosa che c’è già. La struttura concettuale non c’è come tale, non è come l’osso nella polpa che quindi io devo estrarre, ma è qualcosa che l’intelletto agente, una delle due potenze razionali dell’anima intellettuale, produce a partire dal Pagina 34 di 60

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fantasma; cioè che l’intelletto agente fa trasformando la potenzialità dell’intelletto possibile in attualità del concetto. Dunque c’è come una sostituzione a livello di conoscenza razionale di ciò che è stato portato fino ad un determinato livello, quello appunto dell’immaginario, a partire dal sensibile (l’oggetto sensibile colpisce il senso, il quale recepisce ovviamente in maniera materiale perché è colpito passivamente e poi trasmette al sensorio comune e alla fantasia, alla sede dell’immaginazione in cui l’immagine è smaterializzata, ma questa ancora non è l’astrazione, non è il concetto, è immagine del singolare). Il concetto è qualcosa che viene costruito dall’intelletto agente a partire dallo stimolo offerto dal fantasma di questo singolare, un qualcosa che mi permette di tornare in maniera diversa all’oggetto. Cioè è un concetto universale, è un’attività creativa quella dell’intelletto agente, non un’attività distillatoria. L’ultimo prodotto che io ottengo e che Tommaso chiama il verbum interius, la parola interiore, non ha più legame effettivo con l’oggetto, me lo rappresenta ma non è derivato dall’oggetto. - [Pub.] Caso mai contiene tutti gli oggetti possibili. - [Per.] Caso mai contiene tutti gli oggetti possibili, ma li contiene in una maniera per cui non contiene nessun oggetto non è in relazione di dipendenza da nessun oggetto. La distillazione che fanno gli alchimisti, invece, è una separazione delle componenti della materia che sono in ogni sostanza materiale data. Le cose sono composte quantitativamente secondo un più e un meno, cioè formano dei composti che sono instabili, che sono non perfettamente temperati; e l’alchimista separa queste componenti e le ricompone secondo una proporzione che è quella del temperamento perfetto, quindi dell’equilibrio. Per cui non toglie e non aggiunge, ma rimescola, fa circolare - dice per esempio il Rupescissa - questa quintessenza che si ottiene dalla distillazione. Nel testo classico sull’alchimia distillatoria, il Liber de consideratione quintae essentiae di Giovanni da Rupescissa, si insegna a mettere il vino, il prodotto di partenza in un vaso chiuso ermeticamente. Il sigillo di Ermete (le nostre chiusure ermetiche derivano in ultima istanza da esso) era un tipo particolare di amalgama, con il quale si tappavano i vasi. Quindi si chiude in un vaso chiuso, sigillato ermeticamente e lo si mette sul fuoco in modo che prima una parte si separi e poi ricada sulla sostanza di sotto; poi si procede a separare la seconda frazione – come diremmo oggi - e la terza e la quarta (corrispondenti ai quattro elementi, terra, acqua, aria, fuoco). Questa circolazione si fa cento volte, mille volte: i numeri sono come puramente indicativi, stanno per un numero tendenzialmente infinito di volte e questo continuo circolare fa sì che il prodotto che si ottiene alla fine che sia lo stesso materialmente di quello che si aveva all’inizio, ma trasformato nella sua propria quintessenza. Cioè in quella matrice della sua realtà elementare che a questo punto è splendent - dice il Rupescissa, e aggiunge - è splendente di colore azzurrino e se a quel punto tu apri il vaso, tu sentirai un profumo così meraviglioso che tutti gli uccelli che svolazzano nei dintorni, accorreranno tutti lì dentro attratti anche loro da questo profumo. Cioè è un prodotto che non ha più nulla del prodotto materiale che era stato inserito all’inizio, eppure non è niente di diverso da quello. Questo non è neanche lontanamente paragonabile al processo dell’astrazione e della conoscenza per astrazione in Tommaso. - [Pub.] Un’altra cosa. Nelle immagini che si sono viste, il rapporto coi due poteri, quello temporale e quello spirituale, è rappresentato in forma storico allegorica semplicemente oppure c’è una differenza, per cui il potere temporale impersonato dall’imperatore ha, agli occhi dell’alchimista, maggiori possibilità di incontro con l’opus, dato che gli viene consegnato il volume - ancora una volta doppio, mezzo d’oro e mezzo d’argento -, mentre il papa, con quell’orina quasi sbattuta sugli occhi, sembra irrimediabilmente condannato a un tuffo nella materia prima?

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- [Per.] È una domanda interessante. Nel manoscritto io ho sempre letto le immagini come richiami a personaggi specifici, anche perché per esempio rispetto al rapporto con il re c’è, sia la dedica del Testamentum, sia la leggenda, sia un sacco di notizie storiche relative. Quindi non mi sono mai chiesta in questi termini se, tendenzialmente l’alchimista ha maggior feeling col potere non ecclesiastico. Di fatto è così, storicamente è così, cioè fino nella modernità le corti, o almeno alcune corti, si aprono alla ricerca alchemica, mentre invece la chiesa chiude con la condanna di Giovanni XXII e poi dell’Inquisitore, dunque nel ‘300. Però è interessante come elemento su cui pensare. - [Pub.] In una delle immagini c’è una figura con uno strumento musicale. Che cosa c’entra la musica nel processo alchemico? È uno strumento di contatto con qualcosa di superiore? - [Per.] Dicevo che quella è, che io sappia, la prima raffigurazione, e del resto nella tradizione testuale medievale non c’è cenno a questo. È un qualcosa in più che, anche in quell’immagine, potrebbe essere semplicemente legato alla raffigurazione convenzionale di Hermes, Mercurio, però certamente suggestivo della collocazione ermetica del sapere alchemico. Ora c’è un testo dei primi decenni del ‘600, l’Atalanta Fugens di un alchimista tedesco, Michael Maier, in cui per la prima volta la corrispondenza di alchimia e musica è messa a tema. L’Atalanta Fugens è costruito come una serie di motivi, di emblemi alchemici ai quali corrisponde una serie di ‘fughe musicali, fughe nel senso tecnico della parola, che illustrano anche nella forma il tema del titolo. Atalanta inseguita da Ippomene fugge, lancia i pomi ecc. ecc. E questo viene preso come simbolo della ricerca alchemica nel suo complesso: ogni punto, ogni stadio dell’opus ha quindi una sua musica. Siamo però in piena epoca barocca, non ci sono riprese successive di questo tema, rimane quest’exploit di Michael Maier neanche particolarmente studiato o particolarmente compreso. Molto suggestivo ma niente di più. Forse è oggi, cioè nell’ambito della ricerca artistica d’avanguardia che questo tipo di suggestione qualche vola si è ripresentato. Però io qui mi avventuro male perché conosco veramente poco di questo tipo di problematiche. Storicamente, l’unica cosa che si può dire è che se c’è un legame, c’è un legame nel nome di Hermes. Il testo di Maier a me fra l’altro dà anche l’impressione certe volte che sia un testo da leggere con una doppia lettura: perché Atalanta, che è poi raffigurata come la terra incinta potrebbe anche rappresentare una critica che Maier fa agli alchimisti del suo tempo. Quindi onestamente non lo so. È un tema sul quale ho visto pochissime ricerche. Ho interpellato qualche amico musicologo ma ho ottenuto solo risposte vaghe relative a qualche compositore contemporaneo. Ma nell’età contemporanea, dopo la ripresa di questi temi col futurismo, quando sul piano della creazione artistica qualcuno teorizza di riallacciarsi oppure di fatto si riallaccia a temi della tradizione alchemica, questo assume un senso diverso dalla riflessione sull’alchimia come fenomeno storico. Introduzione alla storia dell'artiglieria Quando il primo colpo di cannone esplose fragorosamente su un campo di battaglia, dando avvio alla più grande “rivoluzione” della storia militare, il materiale che fece da propellente al proiettile non fu la polvere da sparo, ma la mente degli uomini. Quel giorno era iniziata la corsa a rendere sempre più letale il connubio tra un tubo metallico e il suo contenuto, una gara intellettuale di cui ancora non vediamo la fine. L’invenzione della polvere da sparo, miscuglio di salnitro, carbone di legna e zolfo, è immersa nelle nebbie della storia. Forse i Cinesi disponevano già prima dell’anno mille di qualche mistura incendiaria, più simile ai fuochi di artificio in realtà che alla polvere da sparo, basata sul salnitro. È infatti questo sale la componente fondamentale della polvere da sparo, perché Pagina 36 di 60

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contribuisce al composto con le sue qualità ossidanti, ovvero fornisce l’ossigeno necessario affinché il carbone di legna finemente triturato bruci così velocemente da produrre un’esplosione. Migliore la qualità del carbone di legna e maggiore sarà lo scoppio, ma qualsiasi materia organica altamente infiammabile può essere usata al suo posto. Lo zolfo, la parte minore del composto, fa praticamente solo da innesco, avendo una temperatura di infiammabilità inferiore a quella del salnitro. L’accensione della polvere provoca la subitanea produzione di gas che moltiplicano il volume originario della miscela e generano l’effetto esplosivo. Tutto apparentemente semplice, con materiali conosciuti fin dall’antichità, compreso il nitro che è citato da Plinio Seniore nella sua “Storia naturale” e forse persino nella Bibbia. Eppure tutto anche tremendamente complesso, perché imbrigliare l’energia prodotta dalla polvere da sparo e scoprire come usarla efficacemente in guerra fu un processo secolare, lento ma inarrestabile, alimentato dalle menti di innumerevoli protagonisti. La prima “ricetta” affidabile della polvere da sparo è descritta dal frate francescano e alchimista inglese Ruggero Bacone a metà del XIII secolo nell’opera “De Secretis Operibus Artis et Naturae" e consiste di 7 parti in volume di Salnitro, 5 di carbone di nocciolo e 5 di zolfo. Bacone tiene a precisare che il composto è “ben noto a tutti”, dato l’uso che già allora se ne faceva per disturbare e spaventare le persone, aggiungendo che basterebbe creare ordigni più grandi con involucri in materiale solido per provocare danni molto maggiori. Per inciso, questa polvere non è affatto nera, ma assume tonalità che vanno dal grigio al color caffé: divenne nera a metà Ottocento quando le fu aggiunta polvere di grafite per renderla meno igroscopica e per ditinguerla dalla "polvere bianca", quella senza fumo. La granata esplosiva suggerita dal francescano alchimista, però, non fu la prima linea di utilizzo della polvere da sparo. Nei primi decenni del Trecento in tutta Europa sono infatti già diffuse le armi da fuoco, la cui sola presenza è sufficiente per costringere alla resa fortificazioni considerate imprendibili: a Ghent, in Belgio, sono presenti nelle armerie dal 1313, vengono usate in Francia nell’assedio di Metz del 1323, e a Firenze si ordinano palle di ferro e “canones” nel 1326. In questo stesso anno abbiamo la prima immagine di un pezzo di artiglieria: l’erudito inglese Walter de Milemete lo illustra a uno studente di eccezione, il futuro re Edoardo III: è un “vaso di ferro” dal quale fuoriesce una pesante freccia scagliata contro le mura di una città, mentre un artigliere innesca l’esplosione con un ferro incandescente infilato in un foro dell’ordigno. La forma è proprio quella di un vaso, forse perché familiare ai fonditori di campane che erano gli unici all’epoca ad avere le necessarie competenze metallurgiche.

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Ben presto, però, i cannoni assunsero la forma tubolare che hanno ancora oggi, saldando tra loro barre di metallo attorno ad un cilindro di legno e poi tenendole strette con altre robuste cinture metalliche, come le doghe di una botte, e il fondo veniva poi chiuso avvitando una culatta. Da quel tubo si continuarono a sparare grosse frecce, ma anche, e presto soprattutto, palle di ferro e di pietra: queste ultime con il vantaggio della comodità di poterle preparare direttamente sul luogo del combattimento. La metallurgia dovette rispondere alla “esplosiva” domanda di armi con un enorme sforzo organizzativo e inventivo. Venne utilizzato ogni tipo di metallo e di lega, scegliendo poi prevalentemente bronzo e ferro, gli unici abbastanza resistenti da garantire un uso sufficientemente sicuro e prolungato nel tempo. In questa prima corsa agli armamenti, però, l’ostacolo maggiore era reperire gli ingredienti per la polvere da sparo: non il carbone di legna, perché la carbonizzazione era un procedimento ben conosciuto, né lo zolfo ma soprattutto il salnitro. Lo zolfo migliore d’Europa proveniva dalla Sicilia, e giacimenti si trovano un po’ dovunque: più è puro il minerale, più semplice distillarlo per ottenerne i cristalli. Il salnitro, invece, richiede anni per essere prodotto e raffinato. La sua efflorescenza spontanea sui muri umidi è ovviamente insufficiente, e si ricorse inizialmente all’importazione dall’Oriente. Ma la produzione diretta divenne ben presto la principale fonte di approvvigionamento, nonostante la sua laboriosità: i letti di coltura composti da animali e vegetali in decomposizione devono essere bagnati di letame e urina, che appositi addetti procurano “ripulendo” le fattorie, sfondando persino i pavimenti delle stalle. Il processo di fermentazione dura tre anni, durante i quali la massa putrescente va rivotata e areata costantemente, e nutrita con calcinacci, ceneri e scarti della fabbricazione del sapone. Poi la materia grezza così ottenuta è purificata in successivi lavaggi prima di essere distillata. I tre ingredienti vengono mescolati nel luogo di utilizzo, perché altrimenti durante il trasporto si separerebbero: è solo uno dei compiti, e nemmeno il più importante, di nuove consorterie di professionisti altamente specializzati, gli artificieri e gli artiglieri. Sanno leggere e scrivere, hanno competenze che si estendono dalla matematica, alla chimica, e persino all’ingegneria, perché le pesantissime armi da fuoco sono legate a postazioni fisse su piazzole che devono essere abbastanza resistenti da sopportarne il tremendo rinculo e bisogna schierarli là dove faranno il danno maggiore, perché spostarli sarebbe problematico. Sono civili assoldati a contratto, guardati con timore dagli altri uomini per la loro familiarità con quel fuoco “infernale”: a poco servono per riabilitarli i periodi di cristiana contrizione a cui si dedicano dopo ogni impiego bellico. Dalla collaborazione tra militari, fonditori e artiglieri nacquero armi sempre più efficaci, letali e specializzate: tozzi mortai a tiro curvo e gigantesche bombarde per gli assedi, più agili colubrine, falconi e falconetti in battaglia. Un’effervescenza creativa con scopi dichiaratamente letali, a volte forse ingenua e bizzarra, ma più spesso fertile e portatrice di preziosi contributi. Con l’invenzione nel Quattrocento degli orecchioni, perni che si prolungano ai lati della canna fissandola all’affusto, il tiro può essere elevato a piacimento, mentre dotando gli affusti di ruote si conferisce alle artiglierie una prima rudimentale mobilità. Sempre nel Quattrocento si scopre la “granulazione” della polvere da sparo, che viene bagnata, essiccata in fogli e quindi triturata Pagina 38 di 60

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in grani: questo permette di trasportarla finalmente pronta all’uso e la rende più uniforme e infiammabile. Proprio nel Quattrocento la ricetta della polvere da sparo si perfeziona, stabilizzandosi attorno a proporzioni che rimarranno valide per i successivi 4 secoli: rispetto alla formula di Bacone si riducono le quantità di zolfo e carbone a vantaggio del salnitro, per ottenere una polvere più “vivace” e che lascia meno pericolosi residui incombusti nella canna. La guerra dei Cent’Anni (1337–1453) tra Francia e Inghilterra è il primo conflitto che vide un uso esteso delle artiglierie e forse il primo impiego su un campo di battaglia ad opera del già citato Edoardo III a Crecy nel 1346, ma fu solo con la campagna d’Italia del re francese Carlo VIII (1494-1497) che venne formato il primo vero treno di artiglieria: 300 pezzi di cui 70 d’assedio, che costituivano il cuore dell’armata. Durante le guerre rinascimentali italiane le linee di sviluppo tecnologico e di impiego tattico dell’artiglieria sono già tutte tracciate: l’artiglieria deve collaborare con la sua insuperabile forza distruttiva alle operazioni militari integrandosi con le altre armi. Deve diventare più mobile, più rapida nel tiro, più potente e micidiale. Queste armi ancora rudimentali riescono a sparare solo pochi colpi al giorno, eppure nessun esercito pensa di potersene privare. Ricordo anche che per lungo tempo i cannoni furono praticamente immobili sul campo di battaglia, divenendo spesso inutili dopo i primi colpi, perché impossibilitati a seguire il corso dell’azione. Chi attaccava doveva spesso avanzare davanti ai propri cannoni, impedendo loro di tirare e in caso di sconfitta l’artiglieria rimaneva inevitabilmente preda del vincitore. L’invenzione della polvere da sparo e del cannone uno stimolo incredibile per gli studiosi rinascimentali. Gli alchimisti medioevali avevano consegnato loro un sistema d’arma di enorme potenza, non solo sul campo di battaglia, ma anche per la suggestione che sapeva creare alle menti creative. Tra i più coinvolti non poteva mancare Leonardo da Vinci, che produsse studi all’altezza del suo genio sulla balistica, sulle tecniche d’assedio, e giungendo persino a progettare un predecessore del carro armato. L’eccezionale capacità di osservazione di Leonardo nei suoi disegni riuscì a fissare la parabola di volo dei proiettili esplosivi lanciati da un mortaio, ipotizzando anche il primo esempio di bombardamento a tappeto, realizzato mediante il successivo spostamento di una ghiera dentata che orientava l’alzo del pezzo. Scienza, tecnologia e industria devono rispondere alle esigenze tattiche e strategiche, ma nell’attesa queste ultime si adatteranno a ciò che è disponibile al momento. Il Cinquecento ad esempio porta nuove tecniche metallurgiche: si riescono a realizzare i cannoni in un’unica fusione, il centro della quale è occupato da un cuore di creta. Il risultato è un cannone più robusto e di un calibro che più esattamente può corrispondere a quello dei proiettili. Vi sarà quindi meno dispersione di gas (in termini tecnici il “vento”) durante l’esplosione e un tiro più potente e preciso. A parità di calibro rispetto al passato, i cannoni possono essere più leggeri e hanno bisogno di meno carica per esprimere la stessa potenza, perché la sfruttano meglio. Le artiglierie pesanti sono ancora praticamente statiche, ma altre (molto) più leggere possono combattere in supporto ravvicinato della fanteria e sostenerne lo sforzo anche in attacco e non solo in difesa. La standardizzazione dei calibri e dei modelli non è più un miraggio e i principali innovatori militari del Seicento, come il re Gustavo Adolfo di Svezia (1594-1632), se ne fanno i propugnatori, semplificando di molto l’apparato logistico. Riducendo, infatti, la tipologia dei cannoni a pochi essenziali modelli, si razionalizza il problema di rifornirli di proiettili.

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Il processo produttivo, però, rimase ancora a lungo sostanzialmente artigianale, con tutti i pregi e i difetti che ne sono caratteristici. Per un artigiano, infatti, era impossibile produrre cannoni in serie, con le medesime caratteristiche e soprattutto con calibri perfettamente identici, ma ogni arma era un pezzo unico, diverso da tutti gli altri, perché lo stampo andava perso durante la fusione. Nel Seicento, però, l’abilità di questi artigiani aveva già raggiunto livelli di eccellenza e risultati sorprendenti. Le officine del sopracitato Gustavo Adolfo erano ad esempio capaci di produrre cannoni con differenze di calibro effettivo inferiori al 2%. L’opera degli artigiani raggiungeva però il suo apice nelle decorazioni che “abbellivano” e rendevano ancora più unici i propri lavori, a volte trasformandoli in un oggetto d’arte. La potenza e il prestigio dei re si misurava anche con la loro attenzione verso questi dettagli all’apparenza trascurabili. Verso la fine del secolo gli Svedesi introdussero per primi l'Obice, un pezzo la cui lunghezza è da 15 a 25 volte il calibro (quelli più corti sono i mortai, quelli più lunghi i cannoni): un pezzo multiruolo a tiro più curvo del cannone, la cui elasticità e leggerezza lo rese molto utile sui campi di battaglia per il tiro di bombe esplosive o per la mitraglia a distanza ravvicinata. Il Seicento porta anche i primi studi scientifici sulla balistica ad opera di Francois Blondel (16181686) che applica all’artiglieria l’opera di Galileo Galilei sulle leggi del movimento: la strada è aperta, e il matematico francese Bernard Forest de Bélidor (1698-1761) darà alle stampe nel 1731 “Le Bombardier français”, contenente le prime tabelle balistiche, con le quali dimostra che le cariche in uso all’epoca sono troppo potenti e non solo sprecano inutilmente polvere nera, ma consumano prematuramente i cannoni. Con una carica dimezzata i cannoni possono essere ancora più leggeri e, quindi, più mobili e più rapidi da caricare: un processo al quale contribuiranno a metà del Settecento lo svizzero Jean Maritz (1680–1743) prima e il francese Jean de Gribeauval (1715–1789) poi, che introdussero la tecnica della costruzione dei cannoni mediante alesaggio: il foro prodotto nella fusione perfezionava ulteriormente la corrispondenza tra le pareti della canna e la palla, permettendo un nuovo, decisivo, alleggerimento dell’arma e fornendo a Napoleone Bonaparte lo strumento agile e potente di cui aveva bisogno per le sue tattiche aggressive. La parabola del letale connubio tra polvere da sparo e cannone era giunta al suo apice: finalmente gli eserciti disponevano dello strumento che fino ad allora avevano solo immaginato, capace di muoversi sul terreno in cooperazione con le altre armi, per concentrare in un punto preciso e al momento voluto, sufficiente potere distruttivo da decidere le battaglie. Con affusti e carriaggi di poco più pesanti ma anche molto più resistenti, anch’essi invenzione di de Gribeauval, e gli artiglieri montati a cavallo, i cannoni potevano addirittura seguire gli spostamenti della cavalleria, appoggiandone l’azione con il proprio tiro ravvicinato: è la specialità dell’artiglieria a cavallo piemontese durante le guerre risorgimentali che le meritò il nome di “Voloire”, artiglieria “volante”. Una “evoluzione” quella dell’artiglieria, dunque, più che una rivoluzione, eppure era tutta già scritta fin dal Medioevo, con scienziati e tecnici a rendere reali con le loro intelligenze i desideri dei comandanti militari: un’unica storia che già contiene episodi come il “tritacarne di Verdun” della Prima guerra mondiale, la battaglia di annientamento pianificata dal generale tedesco Erich von Falkenhayn, che dal 21 febbraio al 19 dicembre 1916 distrusse le vite di 300.000 soldati francesi e tedeschi, ferendone tre volte tanti, usando armi gigantesche come i mortai da 42 cm, meglio noti come “Dicke Bertha”, la Grossa Bertha: il migliore acciaio delle fabbriche Krupp e i più potenti esplosivi di ultima generazione, avevano raccolto la letale eredità di fonditori e alchimisti di molti secoli prima. Pagina 40 di 60

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Salutiamo prima di ogni altro, con rispettosa ammirazione, il frate francescano RUGGERO BACONE, uno dei più vasti intelletti esistiti. "Questo frate, - scrive Luigi Figuier, - disconosciuto e orribilmente perseguitato mentre viveva, è la più grande figura scientifica dell'evo medio. Nessuno ha espiato più crudelmente di lui, la gloria di essere stato superiore a' suoi contemporanei e di aver preceduto di più secoli il cammino dello spirito umano. Ruggero Bacone trascorse gran parte della sua esistenza in prigione. Ora stette in una cella, dove, sottomesso a severa sorveglianza, non poté né scrivere né far calcoli senza destare sospetti, che diedero motivo a un aggravio di pena; ora in una prigione, dove subì i più vili e indegni trattamenti, come uno dei peggiori malfattori. E quale fu il suo delitto? L'ardente amore per gli studi e per l'indipendenza del pensiero". Ruggero Bacone nacque nel 1214 [a Ilchester], nella contea di Somerset. Dopo aver studiato all'università di Oxford, si recò a quella di Parigi, dove soggiornò fino al 1250. In quell'epoca tornò a Oxford e risolse di prendere l'abito francescano. Quella determinazione fu la causa di tutte le sue sventure. La confraternita dei frati cercanti non si componeva che d'individui votati all'umiltà e al digiuno, la più parte di bassa origine, convinti dell'infernalità di qualsiasi scienza. Sicché quando sorpresero il loro confratello, matematico e astronomo, a studiare perseverantemente Avicenna e gli autori arabi, quando lo sorpresero a eseguire ricerche di laboratorio, circondato da oggetti che li facevano rabbrividire, lo presero in antipatia. Bacone non conosceva la dissimulazione. Amante entusiasta della verità, osò proclamare essere l'esperienza e l'osservazione della natura le sole autorità invocabili nelle scienze. Allora il generale dell'ordine, san Bonaventura1, lo condannò a lasciare Oxford e ad esser imprigionato a Parigi, nel convento dei Francescani. Lo sventurato Bacone, [il Dottore ammirabile, Doctor Mirabilis, il fondatore del metodo sperimentale e il creatore dell'ottica, l'inventore della polvere da cannone e fors'anche del telescopio e degli occhiali per i presbiti], fu sottomesso colà a crudele sorveglianza. Non poteva inviare al di fuori nessuno dei suoi manoscritti. Grazie, però, a un frate, a lui affezionato in modo speciale, poté avvertire della sua prigionia il papa, allora Clemente IV, mente illuminata ma timida. Costui gli scrisse una lettera consolatoria (!) e, in cambio, gli chiese il libro che stava preparando. Malgrado l'assoluto isolamento in cui era, a furia di coraggio e di perseveranza, a dispetto delle dispute delle quali era oggetto, sebbene fosse stato sotto chiave, Bacone riuscì a comporre l'Opus majus ad Clementum quartum, cioè un in-folio di 477 pagine. Fra Giovanni, discepolo amatissimo del celebre alchimista, portò a Roma l'Opus Majus quando fu terminato, cioè nel 1267. L'anno stesso Bacone scrisse e spedì al papa l'Opus minus, seguito dal suo primo lavoro. Poi cominciò l'Opus tertium. Clemente IV risolve allora - nel 1287 - di dar l'ordine formale della scarcerazione dello sventurato fisico! Tornato a Oxford, Bacone pubblicò il Trattato di filosofia, nel quale attaccò vivamente il clero e i predicatori. Però Clemente IV era morto: lo sventurato frate fu carcerato nuovamente fino al 1292. Le opere di Ruggero Bacone emanano, lo ripetiamo, da uno dei più vasti talenti, de' quali possa andare orgoglioso il mondo dei pensatori. Esse devono essere ammirate tanto più, in quanto che si sa in quali penose condizioni furono composte.

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Nell'Opus Minus si trovano due trattati alchimia, pratico l'uno, speculativo l'altro. (Lo specchio alchimico1[4]). Gli altri sono: Alchimia major; Breviarium de dono Dei; De leone viridi; Secretum secretorum, Epistola de secretis operibus artis et naturae ac nullitati magiae. [Bacone morì nel 1294]. Nel 1193 nacque a Lawingen sul Danubio, nel ducato di Neuburg (Svevia) ALBERTO, discendente d'una illustre famiglia - [i conti di BOLLSTAEDT] - che gli uomini dovevano battezzare col nome di Grande. [Fu chiamato anche Albertus Magnus, Albertus Teutonicus, Frater Albertus de Colonia, Albertus Ratisbonensis, Albertus Grotus]. A trent'anni entrò ne' domenicani. La sua intelligenza s'era sviluppata lentamente; ma, appena ebbe trovata la via luminosa, progredì più lui in sei mesi, che non altri in sei anni. Della lentezza non gli rimase che la più feconda maturità nello studio delle scienze. Nel 1245, dietro consiglio ricevutone dal capitolo dell'ordine, Alberto si recò a Parigi per ottenere il diploma di magister. Soltanto l'università di Parigi, a quell'epoca la più celebre di tutto il mondo, poteva conferire quel titolo, dopo avervi professato almeno tre anni. Alberto fu accompagnato nella capitale francese da uno de' suoi allievi, da Tommaso d'Aquino, il quale in seguito illustrò pure il proprio nome e fece onore alla memoria del maestro. [Dante li menziona tutt'e due nel X canto del Paradiso: Io fui degli agni della santa greggia Che Domenico mena per cammino, U' ben s'impingua se non si vaneggia. Questi, che m'è a destra più vicino, Frate e maestro fummi; ed esso Alberto È di Colonia, ed io Thomas d'Aquino. A Parigi s'acquistò immensa fama. Tanti erano coloro che accorrevano per udirlo, che dovette far scuola in quella piazza, che da lui fu detta di maestro Alberto (Maubert)]. Noi abbiamo ragione di supporre che fu durante la residenza a Parigi ch'Alberto ricevette l'iniziazione alchimica. Difatti la capitale francese fu in quell'epoca, come pure durante tutto il medio evo, il vero santuario dell'ermetismo occidentale. L'arte spargirica e i suoi adepti visti, da una parte, di malissimo occhio dalla maggioranza de' teologi, non perdevano per questo, dall'altra, di prestigio presso la folla beffarda ma paurosa, in tutto ciò che concerneva la magia. Un certo numero di dotti e di pensatori aderivano, del resto, in pectore, alla dottrina occulta; però siccome non era bene proclamare ad alta voce tali preferenze, pel motivo del perpetuo rogo, la cui fiamma covava senza mai estinguersi, così erano rari coloro che non nascondevano le loro personali convinzioni. Alberto, al pari dei veri spiriti forti, seppe conservare la propria indipendenza, senza celare il suo pensiero, giacché, mentr'era vivo, acquisì la pericolosa riputazione di «Stregone» o d'«Alchimista», sinonimi in que' bei tempi. [Il nostro teologo e alchimista domenicano fu fatto vescovo di Ratisbona da papa Alessandro IV e, dopo morto, fu beatificato]. Dopo molti esperimenti trasmutatori e chimici eseguiti, Alberto scrisse il Libro dei minerali o del segreto dei segreti. In esso difende senza ambagi, la dottrina ermetica e fa conoscere che i metalli sono composti di un'umidità oleosa e sottile, unita fortemente e incorporata con una materia

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sottile e perfetta. In quanto alla trasmutazione, da parecchi brani del suo strano volume si rileva ch'egli la praticò con esito felicissimo. Non ci fermeremo sui diversi manoscritti, dei quali il Grande Alberto fu sagace autore; la sua scienza sembra essere stata universale giacché egli scrisse tanto sugli animali, quanto sulla fisionomia, tanto sul carattere, quanto sulle meteore [Fu infatti uno dei più fecondi poligrafi del medio evo; fu il Giaber del mondo cristiano]. L'opera sua comprende ventun volumi in folio; è però più che probabile ch'egli si sia limitato a dirigerne la redazione, perché un tal lavoro oltrepasserebbe le forze umane. La morte lo colpì a Colonia nel 1280, a oltre ottant'anni. nel 1225 (o 1227) a Rocca-secca, presso Napoli, da famiglia signorile e morì nel 1273 o 1274 a Fossanova (Napoli) [fu detto l'Angelo delle Scuole, il Dottore Angelico e l'Aquila de' teologi. A diciott'anni indossò la veste dei domenicani e recatesi a Parigi, ebbe a maestro Alberto Magno]. A costui spetta l'onore d'averlo divinato e preparato. Noi non racconteremo la vita del celebre teologo e filosofo, perché riteniamo sia cognita a' nostri lettori. Perciò ci limiteremo ad assegnare a san Tommaso d'Aquino un posto tra gli ermetisti e a citare il solo suo Tesoro d'alchimia, libriccino che dimostra la sua filiazione spirituale da Alberto il Grande. È però improbabile che l'autore della Summa totius theologiae si sia esercitato nella pratica dell'opera trasmutatoria. [Dante Alighieri trasse da San Tommaso filosofia e teologia. Lo citò più volte nella sua celeberrima opera (Purgatorio, XX, versi 67-69; Paradiso, X, versi 94-99, da noi più sopra riportati; XII, v. 109-111 e 142-144; XIII e XIV)]. ALAIN DE L'ISLE, oriundo olandese, detto il Dottore Universale, fiorì verso il 1250 [fu teologo, filosofo, poeta, storico e alchimista]. Morì, secondo si crede, a più di cent'anni, nel 1298. Studiò all'università di Parigi, durante un lungo periodo della sua vita, periodo ch'è restato quasi ignorato. Di lui s'ha una Raccolta d'aforismi sulla pietra filosofale, che si trova nel Teatro chimico; lo stile n'è pesante e oscurissimo. TOMMASO D'AQUINO nacque

ARNALDO DA VILLANOVA - [non si sa bene se sia Villa-nova d'Italia o di Francia, ma è preferibilmente da ritenere sia di quest'ultima] - fu un ermetista d'incontestabile valore. Nacque tra il 1235 e 1250 - molto probabilmente nel 1245 - in Provenza [o nell'Italia settentrionale], studiò ad Aix e poi si recò in Spagna. L'iniziazione alchimica gli fu, senza dubbio, conferita colà, dove in altri tempi pullularono numerosi occultisti. [Il loro gran focolare era Toledo, che diede nome alla scienza sacra (scienza toletana)]. A venticinqu'anni, nel 1270, Arnaldo fu laureato in medicina. Dopo avere esercitato qualche tempo a Villeneuve, fu attirato a Parigi. Si ritiene che, dopo aver soggiornato in quella città per oltre un decennio, tornasse a Montpellier. [Fu a Firenze, a Roma e in altre città d'Italia. Nel 1285 si trovava presso Pietro, re d'Aragona]. [Arnaldo, detto Arnaldus Catalanus, oltre a essere medico, chimico e alchimista di molta reputazione, fu anche astrologo e teologo. Pregiò più le opere di carità, di altruismo, di scienza, che le pratiche religiose. Questo modo di pensare lo chiarisce iniziato. Di lui fu detto che appartenesse a una setta pitagorica, ampiamente diffusa in Italia, specie nella Puglia e nella Toscana. Fu maestro a Raimondo Lullo. Morì nel 1313 in mare, presso Genova]. In un cenno come il presente non c'è concesso di dilungarci sulla sua scienza terapeutica; però bisogna segnalare il suo ardire, come medico.

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Egli osò affrancarsi dalle usanze ufficiali, in quei tempi molto più inveterate d'oggigiorno, e porre le basi d'un metodo, originale di certo e spesso anche razionale. Arnaldo da Villanova professò chimica a Barcellona, nel 1286, e operò molte trasmutazioni di mercurio in oro, tanto in Spagna, quanto appresso in Italia. I titoli delle sue opere spargiriche, giustamente molto apprezzate dagli adepti, sono i seguenti: La strada delle strade; Flos florum (Il fiore dei fiori); Lettera al re di Napoli; Novum lumen (La nuova luce); Rosarium (Il Rosario); Domande sull'essenza e sull'accidente. Si trovano nel Theatrum Chemicum e nella Biblioteca Manget Con RAIMONDO LULLO arriviamo a una delle pagine più singolari e agitate della storia dell'alchimia. Quest'adepto dev'essere da noi considerato qual maestro de' maestri, del pari che, un po' più in là, nel corso de' secoli, l'illustre Paracelso. Raimondo Lullo levò alto clamore non solo nel secolo XIII, ma in tutto il medio evo: fu considerato come un prodigio. Nato nel 1235 a Palma, capoluogo dell'isola Maiorca, da un nobile guerriero, compagno d'armi del re aragonese Giacomo I, Raimondo menò - secondo l'usanza d'allora -fino a quasi trent'anni, vita oziosissima e dissipatissima. Dapprima paggio alla corte di Giacomo I, poi siniscalco, occupava i giorni, o meglio anzi le notti, a conquidere, quantunque ammogliato, ragazze e maritate. Una di costoro, a onta delle ripetute insistenze del giovane, mostrava essere d'incrollabile virtù. Egli conobbe il segreto della sua resistenza quando, stancatala con continue dimostrazioni d'affetto, la bella gli diede un appuntamento. Durante il convegno ella si sgangherò la fascetta e si denudò il petto. E, mostrando all'amante una delle mammelle, rosa da schifosissimo cancro, gli disse: "Raimondo, puoi amarmi così?" Lullo, spaventato da sì ripugnante spettacolo, fuggì via con la disperazione nel cuore. Fin da quel momento risolse di consacrarsi a Dio solo e di adoprarsi alla conversione degli Arabi al cristianesimo. Egli mise nello studio l'ardore tolto a' piaceri, s'applicò indefessamente per conoscere profondamente non solo la lingua, ma anche la storia della religione, la filosofia e le scienze degli Arabi. Lullo completò gli studi a Parigi, dove trovò Arnaldo da Villanova. Quest'avvenimento ci spiega facilmente la sua affiliazione alla spargiria ermetica. Fu precisamente in quella città ch'egli scrisse varie opere, trattanti di tale scienza. D'indole randagia e inquieta, Lullo non rimaneva a lungo in un sito; trascorse l'esistenza viaggiando in Italia e in Spagna; poi, desiderando sempre di convertire gli infedeli al cristianesimo, s'imbarcò per l'Africa, nel 1292. Ma, catturato dai Turchi, ricuperò a stento la libertà e dovè ritornare in Europa, bandito dall'Oriente. Adorando sempre la sua chimera, malgrado i fastidi e le peregrinazioni, ripartì dall'Europa nel 1304, all'età di settant'anni, e poi anche più in là, nel 1312: visitò l'Egitto, Gerusalemme e Tunisi, predicando il Vangelo. A Bugia, la folla esasperata lo lapidò. Sottrattosi a stento al furore popolare, morì alcuni giorni dopo, in seguito alle ferite riportate. [Ciò avvenne nel 1313]. Fu negl'intervalli di quella vita emozionante e d'estrema attività che l'eccelso genio trovò modo d'ideare e di comporre le stupende opere, descrivendo gli esperimenti a più riprese felicemente riuscitigli. Di lui abbiamo: La Clavicola - Il sunto dello spirito della trasmutazione (Compendium animae transmutationis) - La dilucidazione del testamento - e il Vade-mecum o sunto delle tinture. Pagina 44 di 60

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[Nel secolo XIII si distinsero anche i seguenti alchimisti: CRISTOFORO, di Parigi. TADDÈO D'ADEROTTO, medico e filosofo fiorentino. Costui fu il fondatore della scuola medica di Bologna, nella quale insegnava nel 1250. È menzionato da Dante nel canto XII del Paradiso: Non per lo mondo per cui uno s'affanna Di retro ad Ostienso ed a Taddeo, Morì il 1295 e lasciò molte opere. Fu seppellito in un bel sarcofago di marmo nell'atrio de' frati minori, a Bologna. Vincenzo Di Beauvais o VINCENZO BELLOVACÈNSE. Fu un erudito domenicano, maestro dei figli di Luigi IX di Francia (re dal 1266 al 1270). PIETRO DE' BONIFAZI, signore provenzale. Di costui si legge nelle vite de' trovatori che, tentata invano ogni arte magica per acquistar l'amore di una dama, lasciò l'amore e si diede all'alchimia, e s'affaticò tanto che trovò una pietra, che aveva la virtù di convertire i metalli in oro. ALFONSO X, detto il Sapiente (El Sabio 1252-1284), re di Castiglia e delle Asturie. Fu principe dottissimo, amò i sapienti, coltivò le scienze con passione e si tenne in relazione coi maestri arabi. Si dice, anche, ch'abbia fabbricato oro; alcuni però pretendono ch'esso provenisse semplicemente dall'alterazione del titolo delle monete. Questo celebre re di Castiglia, che scrisse sull'alchimia in termini simbolici e cabbalistici, cioè con caratteri geroglifici propri alla scienza ermetica, usati all'epoca sua, pretese anche di possedere il segreto della trasmutazione dei metalli e dichiarò di avere imparato quella scienza da un Egiziano, fatto da lui venire appositamente da Alessandria. Egli rivelò — cioè velò nuovamente, rivestì di nuovo — i segreti alchimici da lui conosciuti in un poema (egli era anche poeta) che intitolò il Libro del Tesoro. Al suo proemio seguono trentacinque ottave in cifre che vengono offerte come chiavi di tutta l'opera. Nessuno è mai giunto a interpretare quelle cifre. Noi citeremo una quartina del poema, d'interesse storico: La pietra que llaman philosophal Sabia fazer, y me la ensenò; Fizimos la juntos, despues solo yo; Conque muchas veces crecio mi caudal. (Io sapevo far la pietra chiamata filosofale; egli - l'Egiziano - me l'insegnò; noi la facemmo insieme, poi la feci da solo. Fu in tal maniera ch'aumentai le mie finanze). Anche l'opera alchimica Clavis sapientiae, dove si scorgono le dottrine arabe, è attribuita al re cavaliere; non sappiamo però con quanto fondamento. Ad Alfonso X si deve inoltre un monumento astronomico, le tavole che prendono nome da lui, che furono usate universalmente fino al principio del secolo XVI, cioè per tre secoli, perché datano dal 30 maggio 1252, giorno del suo avvento al trono. Queste tavole, le quali, anzi ch'essere opera personale del re, furono probabilmente quelle de' molti astronomi arabi di Granata, che vivevano alla sua corte, furono pubblicate per la prima volta a Venezia, nel 1492, in un volume in-4°. Pagina 48 di 60

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Questo sovrano, possessore della scienza orientale, fu dal pontefice trattato da empio e scomunicato. GRIFFOLINO D'AREZZO. Costui si vantò con un tal Alberto, di Siena, di sapere l'arte di volare e promise d'insegnargliela. Ma lo scolaro, accortosi d'essere stato corbellato, accusò il maestro al vescovo di Siena, che lo fece bruciare vivo come negromante. Pare che Griffolino fosse alchimista falso e disonesto. Dante perciò lo pone nella decima bolgia, mettendogli in bocca queste parole: Io fui d'Arezzo, ed Alberto da Siena . . . . . . mi fé' mettere al foco; Ma quel, perch'io morì, qui non mi mena. Ver è ch'io dissi a lui, parlando a giuoco: Io mi saprei levar per l'aere a volo: E quei, ch'avea vaghezza, e senno poco, Volle ch'io gli mostrassi l'arte; e solo, Perch'io nol feci Dedalo, mi fece Ardere a tal che l'avea per figliuolo. Ma nell'ultima bolgia delle diece Me per alchìmia, che nel mondo usai, Dannò Minos, a cui fallir non lece. Sono anche probabilmente da assegnare al secolo XIII i tre alchimisti italiani GARELLO D'AQUILA, GUIDO DA CASTELLO e NICCOLO DA FIRENZE. Costoro sono menzionati come maestri famosi nell'arte di sciogliere e di comporre i metalli. Il primo (degli altri non si sa nulla) partiva l'oro dall'argento con acqua forte composta di allume di rocca, salnitro e vetriolo romano. Forse furono semplici alchimisti exoterici, cioè souffleurs, garzoni di laboratorio, chimici]. Nel secolo XIV la scienza ermetica brillò di luce più vivida, che negli antecedenti. Allora era consuetudine atteggiarsi vagamente ad alchimista e una quantità di persone si vantarono con amici di possedere il segreto della pietra, mentre, in realtà, ignoravano fin la prima parola dell'Arte per eccellenza. Quel giochetto non offre nulla di serio alla storia dell'alchimia e i nomi dei presuntuosi non meritano d'essere rilevati. Il papa GIOVANNI XXII, (Giacomo d'Euse o d'Huéze, Duéze, Dossa, Dossat, d'Usia e d'Osa, nato circa il 1244 a Cahors e pontefice dal 1316 al 1344), che fu sedotto -secondo che si dice dalla ricerca della Grand'Opéra, scrisse, pare verso il 1300 l'Arte trasmutatoria dei metalli e realizzò su vasta scala la fabbricazione dell'oro. [Difatti si narra che, mediante il processo descritto nel suo libro, ottenesse dugento verghe d'oro]. Noi non oseremo garantire né la legittimità dell'opera, né quella dei lavori pratici. Giovanni XXII fu un iniziato? Il sommo pontefice romano fu un adepto? È da ritenerlo. ["All'Università di Montpellier e a Parigi, dove imparò teologia, diritto e medicina, egli si trovò a contatto con Arnaldo da Villanova e con Raimondo Lullo, e potè perciò essere iniziato da questi due celebri occultisti, dai quali riceveva lezioni" Egli però non si giovò affatto della sua duplice elevatissima posizione, né pel bene degli Pagina 49 di 60

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uomini, né per quello della verità. [Difatti, nel 1317 lanciò contro gli alchimisti la bolla Spondent pariter; nel 1320 ne fulminò un'altra contro gli Adoratori del diavolo, nome col quale designò complessivamente stregoni e albigesi, nel 1327 fece bruciare l'astrologo Cecco d'Ascoli e nel 1328 fece processare il carmelitano Ricordi come fattucchiere. I roghi dell'Albigese completarono la collana delle sue opere umanitarie. Al pari di Giovanni XXII, GIOVANNI DI MEUNG, mediocre scrittore, non attirerà gran fatto la nostra attenzione. [Costui, secondo alcuni, scrisse il Romanzo della rosa e due trattati alchimia. Secondo altri, egli aumentò soltanto di diciottomila versi tale romanzo, dovuto alla penna di GUGLIELMO DI LORRIS. Il Romanzo della rosa è una epopea alchimica, della quale i letterati francesi vanno sì alteri da paragonarla perfino ai poemi italiani. Certo è, peraltro, che le rose colte dal Meung e da Dante provengono dallo stesso rosaio: la scienza segreta del Templari. Il Lorris, nel suo idillio bisenso, descrive

. . . . . . . un nobile castello, Sette volte cerchiato d'alte mura; - analogo, cioè, a' sette gradi de' gnostici cantori d'amore (i trovatori di lingua d'oc, provenzali e italiani; i trovèrì di lingua d'oil, francesi; i minnesanger o minne singeri tedeschi e i love singers inglesi), - le quali mura sono altissime - come la verità celata nell'albigesismo - e tutte dipinte di figure emblematiche - come i geroglifici ermetici o le abraxas valentiniane - e racchiudono un misterioso giardino - la gnosi o scienza sacra - in cui non è dato accedere se non conosciuti i sensi segreti di quei geroglifici - cioè le verità esoteriche. Giovanni di Meung, o Iehan di Meun, detto dopimi (lo Sciancatello), morì tra il 1310 e il 1322]. GIOVANNI DI RUPESCISSA fu, come il precedente, alchimista incerto, talché meriterebbe d'essere classificato piuttosto tra i chimici. [Spacciavasi profeta, parlava di due anticristi e cercava di crescere col mistero nel concetto degli uditori. Clemente VI (1342-1352) e Innocenzo VI (1352-1362), lo fecero imprigionare per le sue prediche. "Un suo libro, il Vade mecum in tribulatione, sta in un codice cartaceo della Marciana. Un suo manoscritto tratta di alchimia medica col titolo De famulatu philosophiae, sive de consideratione quintae essentiae. Dice di aver studiato filosofia naturale per quindici anni; desidera il suo libro giovi ai poveri di Cristo, non ai tiranni od agli avari, ad conservandam vitam longo tempore; vuole si studi con religiosa attenzione, altrimenti si riesce solo falsificatori di monete; loda come conservatrice delle forze l'aqua ardens, anima vini, acqua vitae; e se un vecchio ogni mattina beva un sorso di quest'acqua con infusa essenza d'oro e di perle, torna come all'età di quaranta o cinquant'anni. A noi tarda di venerare la memoria del grande filosofo ermetico NICOLA FLAMEL. Del resto, chi non conosce la storia della sua esistenza, consacrata tutta al lavoro, alla perseveranza e alla beneficenza? I suoi particolari si possono trovare nella Storia della filosofìa ermetica del LengletDufresnoy e nell'Alchimia e alchimisti del compianto Luigi Figuier. Contentiamoci di riassumere i punti salienti d'una biografia. Flamel venne al mondo [a Pontoise] nel 1330, secondo che generalmente si crede. Abbracciò la carriera di scrivano pubblico, prese moglie e si stabilì a Parigi, nel quartiere di San Giacomo della Beccheria. Colà trascorreva i suoi giorni accanto a Pernella, senza ambizione, assorto dalle proprie occupazioni, quando uno strano manoscritto, che si procurò nel 1357, produsse un completo cambiamento nel suo sistema di vita. Quell'antico libro d'Abramo Ebreo, scritto con geroglifici, simboli e linee miniate, gettò il turbamento nello spirito di Flamel. Egli non ebbe requie fino a che non pervenne a decifrarlo; però, essendo ignaro dei primi elementi Pagina 50 di 60

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dell'ermetismo, le sue veglie diedero sterili risultati. Sprecò più di vent'anni in tali pazienti ricerche. Vedendo che con le sole sue forze non riusciva a decifrare il significato delle figure, risolse di consultare un dottore ebreo, capace di dargliene la spiegazione, e partì per la Spagna. Colà incontrò un rabbino, il maestro CANCHES, che lo mise sulla via e che s'esibì d'accompagnarlo in Francia; disgraziatamente però morì strada facendo. Flamel, basandosi sulle incomplete istruzioni del dotto ebreo, lavorò ancora tre anni: Io fui d'Arezzo, ed Alberto da Siena . . . . . . mi fé' mettere al foco; Ma quel, perch'io morì, qui non mi mena. Ver è ch'io dissi a lui, parlando a giuoco: Io mi saprei levar per l'aere a volo: E quei, ch'avea vaghezza, e senno poco, Volle ch'io gli mostrassi l'arte; e solo, Perch'io nol feci Dedalo, mi fece Ardere a tal1[25] che l'avea per figliuolo. Ma nell'ultima bolgia delle diece Me per alchìmia, che nel mondo usai, Dannò Minos, a cui fallir non lece. Sono anche probabilmente da assegnare al secolo XIII i tre alchimisti italiani GARELLO D'AQUILA, GUIDO DA CASTELLO e NICCOLO DA FIRENZE. Costoro sono menzionati come maestri famosi nell'arte di sciogliere e di comporre i metalli. Il primo (degli altri non si sa nulla) partiva l'oro dall'argento con acqua forte composta di allume di rocca, salnitro e vetriolo romano. Forse furono semplici alchimisti exoterici, cioè souffleurs, garzoni di laboratorio, chimici]. Nel secolo XIV la scienza ermetica brillò di luce più vivida, che negli antecedenti. Allora era consuetudine atteggiarsi vagamente ad alchimista e una quantità di persone si vantarono con amici di possedere il segreto della pietra, mentre, in realtà, ignoravano fin la prima parola dell'Arte per eccellenza. Quel giochetto non offre nulla di serio alla storia dell'alchimia e i nomi dei presuntuosi non meritano d'essere rilevati. Fattori Arcani e Alchimia Antica arte e tradizione mistica che arrivò ad avere, dal XII secolo in poi, una profonda influenza su un certo numero di pensatori medievali. Nel suo significato più stretto, l' alchimia è stata definita dagli studiosi come l' arte di tramutare i metalli non nobili in oro. A questa definizione può tuttavia essere aggiunto il concetto metafisico, elaborato da altri scrittori, secondo il quale la pratica di quest'arte avrebbe trasformato lo stesso alchimista da imperfetto a un essere dall’elevata grazia spirituale. L'alchimia, come la sua controparte, l'astrologia, divenne universalmente nota e fu praticata da Egiziani, Cinesi e Greci molto tempo prima che lo fosse dai Bizantini, dagli Arabi e dagli Europei. Chiamata l’”Arte” o la "Grande Opera", cercò, attraverso un numero apparentemente Pagina 51 di 60

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infinito di componenti o materiali, tra cui oro, argento, piombo, ferro, rame, zolfo, stagno, mercurio, sali, alluminio, cloruro, ammonio, arsenico e acidi, di conferire l'immortalità. Gi alchimisti inoltre ritennero che la vita eterna fosse il prodotto di una formula complessa, l' elixir vitae, chiamata anche la pietra filosofale, che si supponeva trasformasse i metalli non nobili in oro. Nella tradizione occidentale, la pratica dell'alchimia iniziò probabilmente intorno al III secolo a.C. nel mondo ellenico. malgrado gli Arabi avessero loro specifiche correnti di pensiero. Alchimisti greci di rilievo furono Bolos di Mendes, Synesio e Zosimo. I loro sforzi furono importanti soprattutto nel preservare le teorie o dottrine alchemiche come quelle di Ermete Trimegisto (la versione greca del dio egiziano Thot) -il Corpus hermeticum e l'Emerald Tablet - e il Libro della tradizione segreta di Apollonio di Tiana. L' alchimia ellenica, influenzata dai Cinesi e Indiani, passò ai Bizantini e quindi agli Arabi. L' alchimia araba deve la sua evoluzione non solo ai Greci ma anche ai suoi praticanti orientali, in particolare a quelli della città siriana di Harran. Al-Razi, alchimista e medico dell'inizio del x secolo, lasciò un'impronta importante sulla sua arte e fu influenzato dal suo predecessore Jabir ibn Hayyan, o Geber, e dagli Jabiriani. I loro scritti, compresi i loro contributi relativi alla medicina, arrivarono in Occidente nel XII secolo. Grazie alle crociate e ai maggiori contatti tra Oriente e Occidente, le opere arabe cominciarono ad apparire in Europa. Nel XII secolo, Gerardo di Cremona tradusse Al-Razi e Roberto di Chester, nel Libro di Morienus, muovendo i primi passi per una maggiore conoscenza del sapere alchemico. Ulteriori studi, analisi e raccolte di cognizioni e precetti vennero poi pubblicati nel XIII secolo da Vincenzo di Beauvais, Arnaldo di Villanova, Ruggero Bacone e Alberto Magno. La maggiore diffusione dell'alchimia portò tuttavia a una maggiore opportunità per i suoi disonesti praticanti di compiere truffe e frodi. Con l'obiettivo di creare oro dai metalli non nobili, falsi alchimisti vendevano falsi trattati agli incauti. Un'opera come la Summa perfezione (ca. 1300), attribuita a Geber, fu probabilmente di origine europea. In risposta al declino della vera alchimia, i legittimi alchimisti nascosero le loro formule e i loro libri dietro un intenzionale e complicato amalgama di immagini, simboli e messaggi arcani. Molti dicevano di aver fatto fortuna grazie alla "Grande Opera". Nonostante la condanna della Chiesa e una prolungata aria di cattiva reputazione, l' alchimia costituì la transizione vitale dagli studi di Paracelso ai progressi in farmacologia, medicina e nella nuova scienza della chimica. Pietra Filosofale Alchimia Il concetto ha apparentemente avuto origine dalle teorie dell'alchimista Geber. Egli analizzò ciascuno dei quattro elementi aristotelici nei termini delle quattro qualità di base: caldo , freddo , secco e umido . In questo modo, il fuoco era caldo e secco, la terra fredda e secca, l'acqua fredda e umida, e l'aria calda e umida. Teorizzò inoltre che ogni metallo fosse una combinazione di questi quattro principi, due di questi interiori e due esteriori. Partendo da queste premesse, si pensò che la trasmutazione di un metallo in un altro potesse essere effettuata riarrangiando le sue qualità di base. Questo cambiamento sarebbe stato mediabile attraverso una sostanza detta al-iksir in arabo (dalla quale viene il termine occidentale " elisir "). Viene spesso immaginata come una polvere asciutta, ottenuta da una pietra mitica, la pietra filosofale. Harry Potter Nella serie di Harry Potter , la pietra filosofale compare nel primo episodio, che ha appunto questo titolo, ed è custodita in un corridoio segreto ad Hogwarts , da un'enorme cane a tre teste. Pagina 52 di 60

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È dotata di immensi poteri e Voldemort , usando il professor Raptor , tenterà di impadronirsene. Fra gli altri poteri, la Pietra ha quello di assicurare una vita eterna al suo creatore, che nella serie è l'alchimista Nicolas Flamel , che ha più di 600 anni. Nel corso delle vicende tuttavia la pietra verrà distrutta. Ruggero Bacone ( Ilchester , Somerset , Inghilterra , 1214 - Oxford , Inghilterra , 1294 ), in inglese Roger Bacon e ampiamente noto con l'appellativo latino di Doctor Mirabilis , fu un frate francescano inglese e uno dei maggiori pensatori del suo tempo. Come filosofo diede grande importanza alle osservazioni dei fatti e va considerato come uno dei padri dell' empirismo. Per certi aspetti può considerarsi uno dei rifondatori del metodo scientifico, ma non sono pochi i suoi collegamenti con l' occultismo e le tradizioni alchemiche. Del resto, come fa notare Clive Staples Lewis le credenze magiche non sono tipiche del Medio Evo , ma sorgono "gemelle" con l'interesse per la scienza naturale, tanto che il maggiore sviluppo della magia si ebbe proprio tra il XVI secolo e il XVII secolo, in contemporanea con la rivoluzione scientifica . Primi anni Nasce presso Ilchester da una famiglia probabilmente benestante, ma che per gli eventi turbolenti del regno di Enrico III d'Inghilterra viene spogliata delle sue proprietà e vede molti dei suoi membri costretti all'esilio. Ruggero Bacone studia a Oxford , dove riceve una formazione prevalentemente aristotelica e successivamente diventa frate francescano (probabilmente nel 1233 ) e professore nella stessa Oxford. Quindi si trasferisce in Francia per studiare all' Università di Parigi , allora il maggior centro della vita intellettuale europea. I due grandi ordini monastici dei francescani e dei domenicani , da poco costituiti, stanno cominciando a contendersi il primato nel dibattito teologico. Alessandro di Hales guida i Francescani, mentre l'ordine rivale dispone di Alberto Magno e Tommaso d'Aquino . Le capacità di Bacon si fanno presto riconoscere ed egli si guadagna l'amicizia di personaggi eminenti come Adam de Marisco e Robert Grosseteste , vescovo di Lincoln . Nel corso dei suoi insegnamenti e delle sue ricerche egli esegue e descrive vari esperimenti. Maturità e opere La formazione scientifica che Bacone ha ricevuta lo convincono che il dibattito accademico del suo tempo presenta gravi pecche. Aristotele è conosciuto solo attraverso traduzioni scadenti; nessuno dei professori vuole cimentarsi con lo studio del greco . Analoga situazione per lo studio delle Sacre Scritture. La scienza fisica non viene sviluppata attraverso esperimenti secondo lo stile degli aristotelici, ma mediante argomentazioni basate sulla tradizione. Bacone si allontana dalla routine scolastica e si dedica allo studio delle lingue e alla ricerca sperimentale. L'unico insegnante che rispetta è un certo Petrus de Maharncuria Picardus , cioè "della Piccardia", probabilmente identificabile con un matematico chiamato anche Petrus Peregrinus di Piccardia , che forse è l'autore di un trattato manoscritto, il De Magnete , conservato nella Bibliotheque Imperiale di Parigi. Il contrasto tra la poca notorietà di quest'uomo con la fama goduta dai loquaci giovani dottori suscita la sua indignazione. Nei suoi libri Opus Minus e Opus Tertium Bacone porta avanti una violenta invettiva contro Alessandro di Hales e un altro professore, che a suo parere, impara insegnando agli altri e adotta un tono dogmatico che gli consente di essere accolto a Parigi tra gli applausi come se valesse quanto Aristotele, Avicenna o Averroè . Bacone incontra poi il Cardinale Guy le Gros de Foulques , che si interessa delle sue idee e gli chiede di compilare un trattato sistematico. Bacone inizialmente esita a causa della regola dell'Ordine francescano che vieta che i suoi membri pubblichino alcunché senza un permesso specifico. Ma il cardinale diventa il papa Clemente IV e torna a sollecitare Bacone di ignorare il Pagina 53 di 60

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divieto e di scrivere il suo trattato in segreto. Bacone allora acconsente e nel 1267 invia al papa la sua opera, intitolata Opus Majus , un trattato sulle scienze (grammatica, logica, matematica, fisica e filosofia). Questa viene seguita nello stesso anno da una Opus Minus , un sommario delle idee più rilevanti della sua prima opera. Nel 1268 riesce ad inviare al papa la sua Opus Tertium ; questi però muore quello stesso anno. Bacon cade allora in disgrazia e successivamente dallo stesso Ordine francescano viene imprigionato per la seconda volta nel 1278 , con l'accusa di diffusione di idee dell' alchimia araba, ma senza dubbio anche per il fatto che le sue proteste contro l'ignoranza e l'immoralità del clero avevano fatto nascere nei suoi confronti una accusa di stregoneria . Becone rimane imprigionato per più di dieci anni, fino a che l'intercessione di alcuni nobili inglesi gli assicura la liberazione. Nei suoi scritti Bacone reclama una riforma degli studi teologici. Si dovrebbe meno enfasi alle distinzioni filosofiche minori discusse nella Scolastica , mentre la stessa Bibbia dovrebbe tornare al centro dell'attenzione e i teologi dovrebbero studiare approfonditamente le lingue nelle quali i testi originali sono stati composti. Egli in effetti padroneggia parecchie lingue e lamenta la corruzione dei testi sacri e delle opere dei filosofi greci dovuta ai numerosi errori di traduzione e di interpretazione. Inoltre Bacone spinge tutti i teologi a studiare accuratamente tutte le scienze e di aggiungerle al normale curricolo universitario. Bacone disponeva di una delle più autorevoli intelligenze del suo tempo, e forse di tutti i tempi, e nonostante i tanti svantaggi e impedimenti che deve subire, riesce a compiere molte scoperte e ad avvicinarsi a un numeroancora maggiore. Egli rifiuta diseguire ciecamente le autorità precostituite, sia sul piano teologico che su quello scientifico. La sua "Opus Majus" contiene trattazioni di matematica , ottica , alchimia e manifattura della polvere da sparo ,le posizioni e le estensioni dei corpi celesti , compresa la chiara affermazione della rotondità della terra; l'opera inoltre anticipa successive invenzioni come il microscopio , il telescopio , gli occhiali, le macchine volanti e le navi a vapore. Bacone studia anche l' astrologia ed è convinto che i corpi celesti esercitino una influenza sul fato e la mente degli umani. A lui sideve anche una critica al calendario giuliano allora in uso. Per primo dopo gli scienziati elenistici riconosce lo spettro visibile in un bicchiere d'acqua, secoli prima dei lavori di ottica di personaggi come Marcantonio de Dominis , Cartesio e Isaac Newton . A lui si devono anche misurazioni sull' arcobaleno . Egli fu un entusiasta sostenitore e praticante del metodo sperimentale come mezzo per acquisire conoscenze intorno al mondo: sul tema, è famosa la sua polemica con Alberto Magno , proprio per stabilire che cosa intendere per metodo scientifico. Egli si era anche ripromesso di pubblicare una ampia enciclopedia , ma di questa sono comparsi solo pochi frammenti. Nelle opere di fantasia Molti autori, soprattutto a partire dall'epoca rinascimentale, sono stati attratti dalla figura di Ruggero Bacone come l'incarnazione del saggio e sottile possessore di conoscenze negate ai più e forse proibite, simile a un dottor Faust . Intorno alla sua figura sono cresciute numerose leggende e storie impossibili a verificarsi, ad esempio quella che egli avesse creato una testa di ottone parlante in grado di rispondere ad ogni quesito; questa diceria ha un ruolo centrale nell'opera teatrale Friar Bacon and Friar Bungay scritta da Robert Greene intorno al 1589 . Probabilmente la più completa ed accessibile descrizione della vita di Ruggero Bacone è contenuta nel libro Doctor Mirabilis , scritto nel 1964 dall'autore di fantascienza James Blish. Si tratta del secondo libro (inedito in Italia) di una trilogia quasi religiosa, intitolata After Such Knowledge (o Apocalisse ), e si configura come un racconto completo, a tratti autobiografico della vita di Bacone e del suo sforzo volto a sviluppare una "scienza universale". Si tratta di un testo basato su ricerche approfondite anche per un accademico e ricco di riferimenti, comprese ampie citazioni dalle opere dl protagonista, ma presentato secondo lo stile romanzesco; l'autore lo considera un'opera di fantasia o una visione . Pagina 54 di 60

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La Filosofia della natura di Ruggero Bacone Il libro è uno studio sulla filosofia della natura di Ruggero Bacone. Questo frate francescano, eclettico pensatore, si rivela un personaggio di grande interesse nella storia della scienza e della filosofia medievale, figura emblematica di un'epoca in cui si assiste al consolidarsi di due distinte prospettive filosofiche: una di orientamento aristotelico, presso l'università di Parigi, con Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, e una linea prevalentemente platonica nello Studium di Oxford, con Roberto Grossatesta e lo stesso Bacone.

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Dopo aver studiato e insegnato diversi anni a Parigi, dove assimilò la filosofia di Aristotele, Bacone fece ritorno alla sua terra d'origine, stabilendosi ad Oxford, ove entrò in contatto con le idee di Roberto Grossatesta, che prospettavano una visione platonica del cosmo e una fisica basata sulla conoscenza delle strutture matematiche della natura e sulla pratica sperimentale . La cultura di Bacone è così ampia da meritargli l'appellativo di “doctor mirabilis”, il campo dei suoi interessi vastissimo: matematica, ottica, alchimia, studio delle lingue, filosofia morale, diritto, teologia. Pagina 56 di 60

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Non si tratta tuttavia di una erudizione tanto multiforme quanto caotica, ma del frutto di un lungo studio orientato da una precisa visione unitaria del sapere . Lunghi anni di ricerca trovano una sintesi nella sua opera più famosa, l' Opus Maius , scritto intorno al 1267 e inviato al pontefice Clemente IV, per esporgli le basi di una riforma sistematica di tutto il sapere , volta al rinnovamento culturale della civiltà cristiana. Nel redigere questo ambizioso programma Bacone è animato da una profonda convinzione della veridicità di quanto si attesta nel Secretum Secretorum , un testo pseudoaristotelico di carattere esoterico, che conobbe grande diffusione, in cui si narra di una antica sapienza, rivelata originariamente da Dio ai primi uomini, e in seguito andata perduta.

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Tale sapienza originale conteneva, secondo lui, molte notizie intorno ai mezzi tecnici per migliorare la vita umana , e che la civiltà cristiana è chiamata a recuperare. Le sue idee si presentano in aperta polemica con alcuni maestri dell'università di Parigi, in particolare con un “maestro innominato” che possiamo identificare, quasi certamente, con Alberto Magno, accusato di incompetenza, perché, tra l'altro, non assegnerebbe la dovuta importanza alla conoscenza della matematica. Il presente studio analizza le idee di Bacone intorno alle due discipline che costituiscono i capisaldi del suo sistema delle scienze: la matematica , che egli considera “la porta e la chiave di tutte le scienze”, e la scienza sperimentale , chiamata “domina scientiarum”. Emergono, dalla lettura di questo pensatore medievale, interessanti analogie con quello che sarà il pensiero di alcuni protagonisti della rivoluzione scientifica, nel XVII secolo, in particolare per ciò che riguarda la concezione di un universo ordinato secondo le leggi della geometria euclidea , le quali forniscono anche il paradigma di ogni vera conoscenza. Il primo capitolo offre una buona panoramica sulle vicende biografiche e sul lavoro intellettuale di Bacone, rintracciando gli autori, le letture, le scuole filosofiche che maggiormente hanno influenzato il suo pensiero, e trattando in maniera sintetica i contenuti dell'Opus Maius. Nel secondo capitolo si entra nello specifico, trattando della matematica e dei motivi per cui essa viene assunta a cardine di tutto il sapere. Ben otto prerogative Bacone attribuisce a questa disciplina, le quali dimostrano perché essa debba considerarsi “porta e chiave di tutte le scienze”, dice infatti il filosofo: “solo la matematica si mantiene per noi certa e verificata, per cui è attraverso di essa che occorre conoscere e comprovare ogni altra scienza”. La matematica, secondo Bacone, deve trovare applicazione nei più svariati campi del sapere: nelle scienze della natura innanzitutto, dove la ricerca delle cause dei fenomeni deve portare ad individuarne la struttura geometrica, nell'ottica, che fornisce il modello di tutti i meccanismi di causa-effetto, persino nella linguistica, dove determina le leggi della metrica, nella logica, ove definisce la natura delle categorie, e, infine, nell'interpretazione della Bibbia, ove contribuisce a chiarire tanti particolari del testo sacro, e fornisce utili esempi che aiutano a comprendere, per analogia, le verità soprannaturali. Le leggi della geometria euclidea pervadono dunque il mondo sensibile, prendendo corpo nell' ottica , cui è dedicato il capitolo terzo: tale disciplina, nel pensiero di Bacone, acquista i caratteri di una vera e propria fisica matematizzata. Il capitolo si apre con una interessante excursus storico attraverso alcuni autori antichi e medievali, specie di orientamento platonico, i quali hanno visto, nei fenomeni luminosi descritti dall'ottica geometrica, una sorta di “matrice” comune di tutti i fenomeni naturali, spesso mettendo in relazione tali ipotesi con il significato mistico che molte tradizioni attribuiscono alla luce. Si descrivono quindi alcuni aspetti della scienza ottica, le leggi di riflessione e rifrazione, portando numerosi esempi tratti da pagine dell'Opus Maius. L'ultima parte è dedicata alla scienza sperimentale , aspetto a cui, nella storiografia, il nome di Ruggero Bacone è quasi sempre legato. Spesso la letteratura ricorda, ad esempio, l'utilità che Bacone assegnava alla scienza sperimentale, al fine di smascherare i trucchi di sedicenti maghi. Scopo di questo capitolo è chiarire che cosa Bacone intendesse davvero con la dizione “scientia experimentalis”, e quali applicazioni dei suoi principi egli sia riuscito in concreto a proporre. Anche qui l'analisi è arricchita da vari esempi, tratti dall'Opus Maius, che ci fanno conoscere anche alcune curiose credenze dell'epoca. Ampio spazio è dedicato alla sua celebre ricerca sulla natura dell'arcobaleno : essa, oltre a costituire un interessante esempio di applicazione del metodo induttivo, rappresenta anche, per la storia della scienza, un contributo originale del francescano alla conoscenza di questo spettacolare fenomeno ottico. Pagina 58 di 60

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Ruggero Bacone frate francescano fra i primi Alchimisti

Bacone fu probabilmente il primo a determinare, in un angolo di 42 gradi, la misura dell'altezza massima del sole oltre la quale l'arcobaleno non può apparire, e ad attribuire la formazione dell'iride alla rifrazione dei raggi solari. Dalle pagine di questo grande erudito emerge dunque una visione della scienza in cui «matematicismo ed empirismo non si trovano affatto in contraddizione. L'universo, secondo il nostro francescano, è una rete di forze, in ogni punto convergono e da ogni punto si diramano infiniti raggi che trasmettono gli influssi con cui ogni corpo è in collegamento con ogni altro, tali influssi si propagano seguendo le leggi della geometria ottica, quindi ogni fenomeno è descrivibile in termini matematici: tutto questo non è in contrasto con la necessità di ricorrere all'analisi empirica al fine di conoscere la natura, perché è proprio l'esperienza che ci permette di cogliere il reale nella sua matematicità» (p. 145). Si tratta dunque di un personaggio rappresentativo di una scuola di pensiero che ha aperto la strada ad una concezione, e ad una pratica della scienza, di tipo empirico-matematico, come quella che poi si è concretamente sviluppata in epoca moderna. Per questo il libro è uno strumento particolarmente utile a chi vuole farsi un'idea della distanza che, fin dal XIII secolo, era già rintracciabile tra la concezione parigina e quella oxfordiana del sapere: la prima Pagina 59 di 60

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Ruggero Bacone frate francescano fra i primi Alchimisti

platonizzante, univoca e matematizzata; la seconda aristotelizzante, analoga e organizzata secondo scienze gerarchizzate da una ben precisa teoria dei fondamenti. Se allora Ruggero Bacone e Alberto Magno non poterono comprendersi, forse lo potrebbero meglio se vivessero ai nostri giorni, nei quali la via matematizzata sembra richiedere sempre più insistentemente un'attenzione ai suoi presupposti logici e ontologici, e la via filosofica esige di farsi maggiormente scientifica e formale, per non perdersi in un relativismo senza via d'uscita. Dunque questo studio non ha solamente un interesse storico orientato al passato, ma aiuta a comprendere meglio, nelle loro radici remote, anche le problematiche della scienza recente.

Claudio Spero che questo documento vi piaccia Se volete continuare la consultazione di altri documenti che riguardano studiosi di Occulto del passato, consultate i miei siti web e troverete cose molto interessanti. http://www.bantan-sensitivo.com/ http://www.cartomante-bantan.com/ Buon lavoro a tutti

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