Roland Barthes - Miti d'Oggi

September 26, 2017 | Author: mtabacchini | Category: Evil, Truth, Nature, Homo Sapiens, Theatre
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Le fissazioni, gli idoli, i feticci della società contemporanea, dalla Renault alla boxe, dalla moda a Brigitte Bardot: ...

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GLI STRUZZI 50

Roland Barthes Miti d’oggi

EINAUDI

Titolo originale Mythologies Copyright © 19.57 Editions du Seuil, Paris La prima edizione di questo libro è stata pubblicata dall’editore Lerici nel 1962 Copyright © 1974 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino ISBN 88-06-38893-2

Roland Barthes Miti d’oggi Traduzione di Lidia Lonzi

Einaudi

(3d?r ,i).m ¿ti

Indice

p. vn IX

Nota alla seconda edizione francese Premessa

M iti d ’oggi 5

rj> 18

II mondo del catch L ’attore d’Harcourt I Romani al cinema Lo scrittore in vacanza

24

La crociera del Sangue Blu

26

Critica cieca e muta

28

Saponificanti e detersivi

,-31 _33

II Povero e il Proletario Marziani

_ 36

L ’operazione Astra

38

Coniugali

41

Dominici o il trionfo della letteratura

4.5 48

Iconografia dell’Abbé Pierre Romanzi e bambini

51

Giocattoli

34 37

Parigi none stata inondata Bichon fra i negri

— 60

Un operaio simpatico

63

II viso della Garbo

63

Potenza e disinvoltura

67

II vino e il latte

71

La bistecca e le patate fritte

INDICE

VI

P- 7 4 77

80 83

87 90 93 95 99

102 105 _ 108 — 118 -r 122

N autilus e Bateau ivre

Pubblicità del profondo Qualche frase di Poujade Adamov e il linguaggio Il cervello di Einstein L ’uomo-getto Racine è Racine Billy Graham al V el’ d’H iv’ Il processo Dupriez Fotografie-choc Due miti del giovane teatro Il Tour de France come epopea

127

La G uida blu La Consigliera Cucina ornamentale La crociera del Batory

130

L ’utente dello sciopero

125

150

Grammatica africana La critica né-né Strip-tease La nuova Citroen La letteratura secondo Minou Drouet

157

Fotogenia elettorale

160

C ontin ente perduto

163 166

Astrologia L ’arte vocale borghese

169 172

La plastica La grande famiglia degli uomini

175

Al music-hall

^-1 3 4

^ 140 143 147

178 181

La Signora dalle Cam elie

189

Il mito, oggi

239

Nota bio-bibliografica

Poujade e gli intellettuali

Nota alla seconda edizione francese

I testi di Miti d’oggi sono stati scritti fra il 1954 e il 1956: il libro è apparso nel 1957. Vi si vedranno due determinazioni: da un lato una cri­ tica ideologica applicata al linguaggio della cosiddetta cul­ tura di massa; dall’altro un primo smontaggio semiologico di questo linguaggio: avevo appena letto Saussure, e ne avevo ricavato la convinzione che, trattando le «rappre­ sentazioni collettive» come sistemi di segni, si poteva spe­ rate di uscire dalla generosa denuncia e rendere conto in dettaglio della mistificazione che trasforma la cultura pic­ colo-borghese in natura universa^. I due gesti che sono all’origine di questo libro - è evi­ dente - non potrebbero piu, oggi, essere tracciati nello stesso modo (per cui rinuncio a correggerlo); non che ne sia scomparsa la materia; ma la critica ideologica, nel mo­ mento stesso che ne risorgeva brutalmente l ’esigenza (mag­ gio 1968), si è raffinata o almeno chiede di esserlo; e l ’ana­ lisi semiologica, inaugurata, almeno per quanto mi riguar­ da, col testo finale di Miti d’oggi , si è sviluppata, preci­ sata, complicata, divisa; è diventata il luogo teorico in cui si può giocare, in questo secolo e nel nostro Occidente, una certa liberazione del significante. Non potrei quindi, nella loro forma passata (qui presente), scrivere delle nuove mi­ tologie. Pertanto, quello che resta, oltre al nemico capitale (la Norma borghese), è la necessaria congiunzione di quei due gesti: niente denunce senza il loro sottile strumento di analisi, niente semiologia se non finisce per assumersi co­ me una semìoclastia. R. B.

Febbraio 1970.

Premessa

I testi che seguono sono stati scritti mese per mese nel corso di due anni, dal 1954 al 19,56, dietro il richiamo dell’attualità. Tentavo allora di riflettere sistematicamente su alcuni miti della vita quotidiana francese. Il materiale di questa riflessione ha potuto essere molto vario (un arti­ colo di giornale, una fotografia di settimanale, un film, uno spettacolo, una mostra), e il soggetto molto arbitrario: si trattava evidentemente della mia attualità. II punto di partenza di questa riflessione era il piu delle volte un senso di insofferenza davanti alla «naturalità» di cui incessantemente la stampa, l ’arte, il senso comune, rivestono una realtà che per essere quella in cui viviamo non è meno perfettamente storica: in una parola soffrivo di vedere confuse ad ogni occasione, nel racconto della nostra attualità, Natura e Storia, e volevo ritrovare nel­ l’esposizione decorativa dell’«ovvio» l ’abuso ideologico che, a mio avviso, vi si nasconde. La nozione di mito mi è parsa sin dall’inizio render ra­ gione di queste false evidenze; intendevo allora il termine in senso tradizionale. Ma ero già persuaso di una cosa da cui in seguito ho cercato di trarre tutte le conseguenze: il mito è un linguaggio,. Cosi, occupandomi dei fatti in appa­ renza piu lontani da ogni forma di letteratura (un incontro di catch, un piatto cucinato, una mostra di oggetti in pla­ stica), non pensavo di allontanarmi da quella semiologia generale del nostro mondo borghese di cui avevo affron­ tato il versante letterario in saggi precedenti. E solo dopo aver osservato diversi fatti di attualità ho tentato di defi­ nire metodicamente il mito contemporaneo: testo che be­ ninteso ho lasciato alla fine di questo volume in quanto non fa altro che ordinare sistematicamente materiali pre­ cedenti.

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P R E M E SSA

Scritti di mese in mese, questi saggi non tendono a uno svolgimento organico: il loro legame è di insistenza, di ripetizione. Perché non so se, come dice il proverbio, le cose ripetute piacciono, ma credo che almeno significhino. E quanto ho cercato in tutto questo sono delle significa­ zioni. Saranno le mie significazioni? In altre parole, ci sarà una mitologia del mitologo? Indubbiamente, e il lettore vedrà da sé la mia scommessa. Ma veramente non penso che la questione si ponga proprio in questi termini. La «demistificazione», per usare ancora una parola che co­ mincia a logorarsi, non è un’operazione olimpica. Voglio dire che non posso consentire alla tradizionale opinione che postula un divorzio di natura tra l ’oggettività dello scienziato e la soggettività dello scrittore, come se uno fosse dotato di una «libertà» e l ’altro di una «vocazione», ambedue atte a schivare o a sublimare i limiti reali della loro situazione: pretendo di vivere pienamente la contrad­ dizione del mio tempo, che di un sarcasmo può fare la con­ dizione della verità. R. B.

Miti d’oggi

Il mondo del catch

... La verità emphatique dii geste dans les grandes circonstances de la vie. BAUDELAIRE

La virtù del catch è di essere uno spettacolo eccessivo. Vi troviamo un’enfasi che doveva essere quella dei teatri antichi. Del resto il catch è uno spettacolo all’aperto, per­ ché è il carattere gagliardo e verticale del campo luminoso, e non il cielo (valore romantico riservato alle feste mon­ dane), che costituisce l’essenziale del circo e dell’arena: an­ che dal fondo delle più luride sale parigine il catch parte­ cipa della natura dei grandi spettacoli solari, teatro greco e corride: in questo come in quelli una luce senza ombre elabora un’emozione senza segreti. Certe persone credono che il catch sia uno sport igno­ bile. Il catch non è uno sport, è uno spettacolo, e non è più ignobile assistere a una rappresentazione catchistica del Dolore che alle sofferenze di Arnolfo o di Andromaca. Certo, esiste un falso catch rappresentato con grandi spese e le apparenze inutili di uno sport regolare; questo non ha nessuna importanza. Il vero catch, detto impropriamente catch dilettantistico, si pratica nelle sale di periferia, dove il pubblico si accorda spontaneamente alla natura spetta­ colare del combattimento, come fa il pubblico di un cinema dei sobborghi. Quelle stesse persone si indignano poi del fatto che il catch sia uno sport truccato {il che, del resto, dovrebbe in parte liberarlo della sua ignominia). Il pubbli­ co sì disinteressa altamente di sapere se l’incontro è o non è truccato, e ha ragione; si abbandona alla prima virtù del­ lo spettacolo, che è quella di abolire ogni movente e con­ seguenza: non gli importa ciò che vede ma ciò che crede. Questo pubblico sa distinguere molto bene il catch dal pugilato; sa che il pugilato è uno sport giansenista, fondato sulla dimostrazione di una supremazia; si può scommet­ tere sul risultato di un incontro di pugilato: per il catch non avrebbe senso. L ’incontro di pugilato è una storia che

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si costruisce sotto gli occhi dello spettatore; nel catch, al contrario, intelligibile è ogni momento, non la durata. Lo spettatore non si interessa al consolidarsi di un successo, aspetta l’immagine momentanea di certe passioni. Il catch esige dunque una lettura immediata dei sensi giustapposti, senza che sia necessario connetterli. L ’avvenire razionale del combattimento non interessa l’appassionato di catch, dove invece un incontro di pugilato implica sempre una scienza del futuro. In altre parole il catch è una somma di spettacoli nessuno dei quali è una funzione: ogni momento impone la conoscenza totale di una passione che si eleva sola e diritta, senza mai distendersi verso il coronamento di un risultato. Cosi la funzione del lottatore non è di vincere, ma di compiere esattamente i gesti che ci si aspettano da lui. Si dice che il judo contenga una segreta parte di simbolicità; anche nell’azione si tratta di gesti contenuti, precisi ma brevi, disegnati con giustezza ma in una linea senza volu­ me. Al contrario il catch propone gesti eccessivi, sfruttati fino al parossismo della loro significazione. Nel judo, a ter­ ra un uomo ci sta a malapena, rotola su se stesso, si sottrae, schiva la sconfitta, o, se questa è evidente, esce immedia­ tamente dal gioco; nel catch, a tetra un uomo ci sta in mo­ do esagerato, riempiendo fino in fondo la vista degli spet­ tatori con l’intollerabile spettacolo della sua impotenza. Questa funzione di enfasi è ben la' stessa del teatro anti­ co, il cui meccanismo, la cui lingua e accessori (maschere e coturni) concorrevano alla spiegazione esageratamente vi­ sibile di una Necessità. Il gesto del lottatore vinto che ren­ de manifesta al mondo la sua sconfitta e lungi dal masche­ rarla l’accentua e tiene come una nota allungata, corrispon­ de alla maschera antica che deve rendere manifesto il tono tragico dello spettacolo. Al catch, come sugli antichi teatri, non si ha vergogna del proprio dolore, si è capaci di pian­ gere, si ha il gusto delle lacrime. Ogni segno del catch è dunque dotato di una chiarezza totale, perché bisogna sempre capire tutto, immediatamen­ te. Appena gli avversari sono sul quadrato, il pubblico è investito dall’evidenza dei ruoli. Come a teatro, ogni tipo fisico esprime all’eccesso la parte che è stata assegnata al lottatore. Thauvin, cinquantenne obeso e in disfacimento, la cui specie di bruttezza asessuata ispira sempre sopran­ nomi femminili, mette in mostra nella sua stessa carne i

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caratteri dell’ignobile, perché il suo ruolo è di raffigurare tutto ciò che, nel concetto classico di salaud (concetto chia­ ve di ogni incontro di catch), si presenta come organicamente ripugnante. La nausea volontariamente provocata da Thauvin va dunque molto lontano nell’ordine dei segni: non solo ci si serve della bruttezza per rappresentare la bassezza, ma in più questa bruttezza è interamente concen­ trata in una qualità particolarmente repellente della ma­ teria: il cedimento squallido di una carne morta (il pub­ blico chiama Thauvin «la carnaccia»), in modo che la con­ danna appassionata della folla non scaturisce piu dal suo giudizio ma si leva dalla più profonda regione del suo istin­ to. Ci si impegolerà dunque con frenesia in una ulteriore immagine di Thauvin in tutto conforme alla sua partenza fìsica: i suoi atti risponderanno perfettamente alla essen­ ziale vischiosità del personaggio. La prima chiave del combattimento è quindi il corpo del lottatore. Fin da principio so che tutti i gesti di Thauvin, i suoi tradimenti, le sue crudeltà e vigliaccherie, non delu­ deranno la prima immagine ch’egli mi ha dato dell’ignobi­ le, posso fargli fiducia ch’egli compierà intelligentemente e fino in fondo tutti i gesti di una determinata informe bas­ sezza e che colmerà fino all’orlo l’immagine del farabutto più ripugnante che ci sia: il farabutto-piovra. I lottatori hanno perciò un fisico altrettanto perentorio che i perso­ naggi della Commedia dell’arte, i quali scoprono in anti­ cipo, nei loro costumi e atteggiamenti, il contenuto futuro delle loro parti: allo stesso modo che Pantalone non potrà non essere un cornuto ridicolo, Arlecchino un servo astuto e il Dottore un pedante imbecille, cosi Thauvin non sarà altro che il traditore ignobile; Reinières (un gigante biondo dal corpo molliccio e la folle capigliatura) l’immagine com­ movente della passività, Mazaud (galletto arrogante) quel­ la della fatalità grottesca, e Orsano (gagà effeminato com­ parso fin dall’inizio in una vestaglia azzurra e rosa) quella, doppiamente piccante, di una salope vendicativa (perché non penso che il pubblico dell’Elysée-Montmartre segua Littré e prenda il termine salope per un maschile). Il fisico dei lottatori costituisce dunque un segno basi­ lare, che contiene in germe tutto il combattimento. Ma questo germe prolifera perché in ogni fase del combatti­ mento, in ogni nuova situazione, il corpo del lottatore offre al pubblico il divertimento unico di un carattere naturai-

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mente collegato a un gesto. Le diverse linee di significa­ zione si illuminano reciprocamente, e formano il più intel­ ligibile degli spettacoli. Il catch è come una scrittura dia­ critica: al di sopra della significazione fondamentale del suo corpo, il lottatore dispone di spiegazioni episodiche ma sempre opportune, aiutando incessantemente la lettura del combattimento mediante gesti, atteggiamenti e mimiche che portano l’intenzione alla sua massima evidenza. Ora il lottatore trionfa con un ghigno ignobile nell’atto di tenere il bravo sportivo sotto le ginocchia, poi rivolge alla folla un sorriso di sufficienza, annunciante la vendetta vicina; poi, ancora, immobilizzato al suolo, batte a grandi colpi le braccia per terra ad indicare a tutti la natura intollerabile della sua situazione; alla fine, mette su un insieme compli­ cato di segni intesi a mostrare come egli incarni a buon diritto l’immagine sempre divertente del caratteraccio, che fa della sua scontentezza una fonte inesauribile di chiac­ chiere. Si tratta dunque di una vera e propria Commedia Uma­ na, dove le piu sottili gradazioni sociali della passione (fa­ tuità, senso del proprio diritto e del « ripagamento », cru­ deltà raffinata) incontrano sempre, fortunatamente, il se­ gno più chiaro che le possa raccogliere, esprimere e por­ tare trionfalmente fino ai confini della sala. Su questo piano si capisce che non importi piti che la passione sia autentica. Il pubblico reclama solo l’immagine della passione, non la passione in sé. Nel catch non c’è problema di verità come non c’è a teatro. In questo come in quello, quanto ci si aspetta è la raffigurazione intelligibile di situazioni morali abitualmente nascoste. Questo svuotamento dell’interiorità a vantaggio dei suoi segni esteriori, questo esaurimento del contenuto nella forma, è il principio stesso dell’arte classi­ ca trionfante. Il catch è una pantomima immediata, infini­ tamente più efficace della pantomima teatrale, perché il gesto del lottatore non ha bisogno di nessun racconto, di nessuno scenario, in una parola di nessun rimando, per apparire vero, Ogni momento del catch è quindi come un’algebra che sveli istantaneamente la relazione di una causa e del suo effetto figurato. Certamente negli appassionati di catch c’è una sorta di piacere intellettuale nel veder funzionare cosi perfettamente i meccanismi della morale: certi lottatori, grandi attori, divertono allo stesso grado di un personag­

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gio di Molière, perché riescono a imporre una lettura im­ mediata della loro interiorità: un lottatore del carattere arrogante e ridicolo (come si dice che è un carattere Arpa­ gone), Armand Mazaud, riempie regolarmente la sala di soddisfazione con il rigore matematico delle sue trascri­ zioni, spingendo il disegno dei propri gesti fino al vertice estremo della loro significazione, e dando al proprio com­ battimento la stessa specie di slancio e di precisione di una grande disputa scolastica, la cui posta è, insieme, il trionfo dell’orgoglio e lo scrupolo formale della verità. In tal modo viene elargito al pubblico il grande spet­ tacolo del Dolore, della Disfatta e della Giustizia. Il catch espone il dolore umano con tutta l’amplificazione delle maschere tragiche: il lottatore che soffre sotto l’ef­ fetto di una presa ritenuta crudele (un braccio contorto, una gamba incastrata) presenta la figura eccessiva della Sofferenza; come una Pietà primitiva, lascia vedere il vol­ to esageratamente deformato da un’afflizione intollerabi­ le. Si capisce che nel catch il pudore sarebbe fuori posto, in contrasto con l’ostentazione programmatica dello spet­ tacolo, con quella Esposizione del Dolore che è la finalità stessa del combattimento. Cosi tutti gli atti generatori di sofferenza sono particolarmente spettacolari, come il gesto di un prestigiatore che faccia vedere ben alte le carte: non si capirebbe un dolore che risultasse senza causa intelligi­ bile; un gesto segreto effettivamente crudele trasgredireb­ be le leggi non scritte del catch e non sarebbe di alcuna efficacia sociologica, come un gesto folle o parassita. Al contrario la sofferenza appare inflitta con larghezza e con­ vinzione, perché bisogna che tutti non solo rilevino che l’uomo soffre, ma anche e soprattutto capiscano perché soffre. Quella che i lottatori chiamano «una presa», cioè una qualsiasi figura che permetta di immobilizzare indefi­ nitamente l’avversario e tenervelo a proprio piacimento, ha appunto la funzione di preparare in modo convenzio­ nale, quindi intelligibile, lo spettacolo della sofferenza, di porre metodicamente le condizioni della sofferenza: l’iner­ zia del vinto permette al vincitore (momentaneo) di con­ fermarsi nella sua crudeltà e di trasmettere al pubblico la terrificante ignavia dell’aguzzino sicuro del susseguirsi dei propri gesti: strofinare rudemente il muso dell’avversario impotente o raschiare la sua colonna vertebrale con pugno profondo e regolare, compiere almeno la superficie visiva

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di questi gesti: il catch è il solo sport che dia un’immagine tanto esteriore della tortura. Ma, ancora una volta, solo 1’ímmagine è nel campo del gioco, e lo spettatore non de­ sidera affatto la sofferenza reale del lottatore, gusta solo la perfezione di un’iconografia. Non è vero che il catch sia uno spettacolo sadico: è soltanto uno spettacolo intelligi­ bile. C ’è un’altra figura ancora piu spettacolare della presa, ed è la manchette, quella grande pacca degli avambracci, quel pugno larvato con cui si massacra il petto dell’avver­ sario, con un suono vuoto e con l’accasciamento esagerato del corpo vinto. Nella manchette la catastrofe è portata al massimo dell’evidenza, tanto che, al limite, il gesto finisce per ridursi a un simbolo; ma è andare troppo oltre, uscire dalle regole del catch, in cui ogni segno deve essere estre­ mamente chiaro senza però lasciar trasparire la sua inten­ zione di chiarezza; il pubblico allora grida «Simulatore», non perché lamenti l’assenza di una sofferenza effettiva, ma perché condanna l’artificio: come a teatro, si viene meno al gioco tanto per eccesso di sincerità quanto per eccesso di studio. Si è già detto come i lottatori sfruttino tutte le risorse di un certo stile fisico, costruito e utilizzato per sviluppare agli occhi del pubblico un’immagine totale della Sconfitta. La mollezza dei grandi corpi bianchi che crollano a terra tutti d’un pezzo o affondano nelle corde agitando le brac­ cia, l’inerzia dei massicci lottatori fatti miserevolmente rimbalzare da tutte le superfici elastiche del quadrato, nien­ te può significare più chiaramente e più appassionatamente l’esemplare abbassamento del vinto. Privata di ogni possi­ bilità di reazione la carne del lottatore è solo una massa ignobile sparsa a terra che invita a ogni sorta, di incnideli­ mento e di delirio. Si ha qui un parossismo di significazio­ ne all’antica, che non può non richiamare il lusso di inten­ zioni dei trionfi latini. In altri momenti è ancora una figura antica che nasce dall’accoppiamento dei lottatori, quella del supplice, dell’uomo arreso a discrezione, piegato in ginocchio, con le braccia alzate sopra la testa, e lentamente abbassato dalla tensione verticale del vincitore. Nel catch, contrariamente al judo, la Sconfitta non è un segno con­ venzionale abbandonato appena ottenuto; non è uno scio­ glimento, bensì, al contrario, una durata, una esibizione

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II

che riprende gli antichi miti della Sofferenza e dell’Umilia­ zione pubblica: la croce e la gogna. Il lottatore è come cro­ cifisso alla luce del giorno, agli occhi di tutti. Ho sentito dire di un lottatore steso a terra: «Ecco, il piccolo Gesù è morto in croce», e questa frase ironica scopriva le radici profonde di uno spettacolo in cui si compiono gli stessi gesti delle più antiche purificazioni. Ma il catch ha soprattutto il compito di mimare un con­ cetto puramente morale: la giustizia. L ’idea di ripagamen­ to è essenziale al catch e il « Fagli male » della folla significa prima di tutto un «Fagliela pagare». Si tratta dunque, sen­ za dubbio, di una giustizia immanente. Piu è vile l’azione del salaud, più il colpo che gli è giustamente reso riempie il pubblico di soddisfazione: se il traditore — che è natu­ ralmente un pavido — si rifugia dietro le corde facendo capire la realtà del suo torto con una mimica sfrontata, ne viene spietatamente riacciuffato, e la folla delira di fronte alla violazione della regola in nome di un meritato castigo. I lottatori sanno assecondare benissimo la capacità di indi­ gnazione del pubblico presentandogli il limite stesso del concetto di giustizia, quella zona estrema dello scontro in cui basta allontanarsi ancora un po’ dalla regola per aprire le porte di un mondo sfrenato. Per l’appassionato di catch niente è piu bello del furore vendicativo di un lottatore tradito che si scaglia con foga non su un avversario fortu­ nato ma sull’immagine sferzante della slealtà. Naturalmen­ te qui importa molto piu il processo della Giustizia che non il suo contenuto: il catch è prima di tutto una serie quantitativa di compensazioni (occhio per occhio, dente per dente). Questo spiega come i rovesciamenti di situazionS posseggano agli occhi degli appassionati del catch una sorta di bellezza morale: essi ne godono come di una vicenda romanzesca ben a proposito, e più è grande il con­ trasto tra la riuscita di un colpo e il mutare della sorte, piu è vicina al crollo la fortuna di un contendente e più il mi­ modramma è giudicato soddisfacente. La Giustizia è quin­ di il corpo di una trasgressione possibile; proprio in quanto c’è una Legge lo spettacolo delle passioni che la soverchia­ no ha tutto il suo valore. Si capirà quindi come su cinque incontri di catch uno solo all’incirca sia regolare. Una volta di piu bisogna ren­ dersi conto che qui la regolarità è un ruolo o un genere, come in teatro: la regola non costituisce affatto una vera

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costrizione, bensì la convenzionale apparenza della regola­ rità. Cosi, in effetti, un incontro regolare non è altro che un incontro esageratamente beneducato; gli avversari, più che rabbia mettono zelo nell’affrontarsi, sanno dominare le loro passioni, non si accaniscono sul vinto, cessano di combattere appena glielo si ingiunge, e si congratulano do­ po un episodio particolarmente arduo in cui tuttavia non hanno mancato una sola volta di essere leali l’uno con l’altro. S ’intenda naturalmente che tutte queste azioni be­ neducate sono segnalate al pubblico coi gesti più conven­ zionali della lealtà: stringersi la mano, alzare il braccio, allontanarsi ostentatamente da una presa sterile che po­ trebbe nuocere alla perfezione dell’incontro. Inversamente la slealtà qui non esiste se non coi suoi segni eccessivi: tirare un calcio al vinto, rifugiarsi dietro le corde invocando ostentatamente un diritto puramente formale, rifiutare di stringere la mano al proprio partner prima o dopo l’incontro, approfittare del « riposo » per tor­ nare a tradimento sulle spalle dell’avversario, tirargli un colpo proibito quando l’arbitro non può vedere (colpo che evidentemente non ha né valore né funzione se non per il fatto che metà della sala può vederlo e indignarsene). Dato che il Male costituisce il clima naturale del catch, il combattimento regolare assume soprattutto un valore d’ec­ cezione; l'utente se ne stupisce e lo saluta al passaggio co­ me un ritorno anacronistico e un po’ sentimentale alla tra­ dizione sportiva (« è buffo come sono regolari quelli»); davanti alla generale bontà del mondo si sente improvvisa­ mente commosso, ma morirebbe certamente di noia e d’in­ differenza se i lottatori non tornassero molto presto all’or­ gia dei cattivi sentimenti che soli fanno il buon catch. Estrapolato, il catch regolare non potrebbe portare che al pugilato, o al judo, mentre il catch vero e proprio deve la sua originalità a tutti gli eccessi che ne fanno uno spet­ tacolo e non uno sport. La fine di un incontro di pugilato o di judo è secca come il punto conclusivo di una dimostra­ zione. Il ritmo del catch è tutto diverso, giacché il suo senso naturale è quello dell’amplificazione retorica: l’en­ fasi delle passioni, il rinnovarsi dei parossismi, l’esaspera­ zione delle repliche, non possono naturalmente sfociare che nella effusione più barocca. Certi incontri, e tra i più riusciti, si coronano di una gazzarra finale, sorta di fantasia sfrenata in cui sono aboliti regolamenti, leggi specifiche,

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censura arbitrale e limiti del quadrato, travolti in un disor­ dine trionfante che straripa nella sala e trascina alla rinfusa i lottatori, i secondi, l’arbitro e gli spettatori. È già stato notato che in America il catch raffigura una sorta di mitologica lotta tra il Bene e il Male (di natura para-politica, il cattivo lottatole venendo sempre ritenuto un «R osso»). Il catch francese ricupera una eroicizzatone tutta diversa, di ordine etico e non più politico. Ciò che il pubblico cerca, qui, è la costruzione progressiva di un’im­ magine eminentemente morale: quella del perfetto fara­ butto. Si va al catch per assistere alle avventure rinnovate di un grande protagonista, personaggio unico, permanente e multiforme come Guignol o Scapin, inventivo di figure inattese e tuttavia sempre fedele alla sua parte. Il farabutto si rivela come un carattere di Molière o un ritratto di La Bruyère, cioè come un’entità classica, come un’essenza, i cui atti non sono che epifenomeni significativi distribuiti nel tempo. Questo carattere stilizzato non appartiene a nessuna nazione né ad alcun partito, e sia che il lottatore si chiami Kuzchenco (soprannominato «Baffone» a motivo di Stalin), Yerpazian, Gaspardi, Jo Vignola, o Nollières, l’utente non gli attribuisce altra patria che quella della « regolarità ». Che cos’è dunque un farabutto per questo pubblico in parte composto, sembra, di irregolari? Essenzialmente un instabile, che ammette le regole solo quando gli sono utili e trasgredisce la continuità formale degli atteggiamenti. È un uomo imprevedibile, quindi asociale. Si rifugia dietro la Legge quando giudica che gli sia propizia e la trasgre­ disce quando gli fa comodo tradirla; ora nega il limite for­ male del quadrato e continua a percuotere un avversario legalmente protetto dalle corde, ora ristabilisce tale limite e rivendica la protezione di ciò che un minuto prima non rispettava. Questa inconsequenzialita, molto più che il tra­ dimento o la slealtà, mette il pubblico fuori di sé, in quanto esso, urtato non nella propria morale ma nella propria lo­ gica, considera la contraddizione degli argomenti come il più ignobile degli sbagli. Il colpo proibito non diventa irre­ golare se non quando distrugge un equilibrio quantitativo e turba il rigoroso computo delle compensazioni: ciò che il pubblico condanna non è affatto la trasgressione delle pal­ lide regole ufficiali, è il difetto di vendetta, il difetto di

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penalità. Cosi, niente è più eccitante per la folla del calcio enfatico al farabutto vinto; la gioia eli punire arriva al col­ mo quando si appoggia a una giustificazione matematica, e il disprezzo, allora, si fa sfrenato: non si tratta più di un salatici ma di una s a l o p e gesto orale della degradazione ultima. Una finalità tanto precisa richiede che il catch sia esat­ tamente quello che il pubblico si aspetta. I lottatori, uo­ mini di grande esperienza, sanno perfettamente inflettere gli episodi spontanei del combattimento verso l’immagine che il pubblico si è fatto dei temi meravigliosi della sua mitologia. Un lottatore può irritare o disgustare, mai de­ ludere, perché compie sempre fino in fondo, per una pro­ gressiva solidificazione dei segni, quello che il pubblico si aspetta da lui. Nel catch niente esiste se non totalmente, non c’è nessun simbolo, nessuna allusione, tutto è dato esaurientemente; non lasciando niente in ombra, il gesto taglia via tutti i sensi parassiti e presenta cerimonialmente al pubblico una pura e completa significazione, tonda come una natura. Quest’enfasi non è altro che l’immagine popo­ lare e ancestrale della perfetta intelligibilità del reale. Ciò che dal catch viene mimato, quindi, è un’intelligenza ideale delle cose, è un’euforia degli uomini, sollevati per un mo­ mento al di sopra dell’ambiguità costitutiva delle situa­ zioni quotidiane e installati nella visione panoramica di una Natura univoca, in cui i segni corrispondano finalmen­ te alle cause, senza ostacoli, senza scappatoie e senza con­ traddizioni. Quando l’eroe o il farabutto del dramma, l’uomo che è stato visto qualche minuto prima invasato da un furore morale, ingrandito alla misura di una sorta di segno meta­ fisico, lascia la sala del catch, impassibile, anonimo, con una valigetta appesa a un braccio e all’altro braccio la mo­ glie, nessuno può dubitare che il catch possegga la capacità di trasmutazione propria dello Spettacolo e del Culto. Sul quadrato e nel fondo stesso della loro volontaria ignominia i lottatori rimangono degli dèi, perché, per pochi minuti, essi sono la chiave che apre la Natura, il gesto puro che separa il Bene dal Male e svela la figura di una Giustizia finalmente intelligibile.

L ’attore d’Harcourt

In Francia non si è.attori se non si è stati fotografati da­ gli Studios d ’Harcourt. L ’attore d ’Harcourt è un dio; non fa mai niente: è colto in riposo. Un eufemismo, di origine mondana, rende conto di que­ sta posizione: l’attore sarebbe «in città». Si tratta natu­ ralmente di una città ideale, quella città della gente di tea­ tro dove non ci sono che feste e amori mentre sulla scena invece tutto è lavoro, «don o» generoso e provante. E bi­ sogna che questo cambiamento sorprenda al più alto grado; bisogna che siamo presi da turbamento nello scorgere ap­ pesa sulle scale del teatro, come una sfinge sulla soglia del santuario, l’immagine olimpica di un attore che, deposta la pelle del mostro agitato, troppo umano, ritrova final­ mente la sua essenza atemporale. L ’attore prende la sua rivincita: obbligato dalla sua funzione sacerdotale a rap­ presentare ogni tanto la vecchiaia e la bruttezza, sempre la privazione di se stesso, gli si fa ritrovare un viso ideale, smacchiato dalle sconvenienze della professione. Passato dalla «scena» alla «città», l’attore d’Harcourt non abban­ dona affatto il «sogn o» per la «realtà». Al contrario: sulla scena, ben costruito, ossuto, carnale, la pelle spessa sotto al trucco; in città, spianato, liscio, il viso levigato dalla vir­ tù, reso aereo dalla luce diffusa dello studio d’Harcourt. Sulla scena, a volte vecchio, per lo meno con una età; in città, eternamente giovane, fissato per sempre al vertice della bellezza. Sulla scena, tradito dalla materialità di una voce troppo muscolosa come i polpacci di una ballerina; in città, idealmente silenzioso, cioè misterioso, pieno del segreto profondo attribuito a ogni bellezza che non parla. Sulla scena, infine, impegnato di necessità in gesti banali o eroici, comunque efficienti; in città ridotto a un viso de­ purato da ogni movimento.

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L ’ATTORE D ’HARCOURT

Inoltre questo puro viso viene reso totalmente inutile - cioè lussuoso - dall’angolazione aberrante, come se l’obbiettivo d ’Harcourt, autorizzato per suo privilegio a capta­ re questa bellezza non terrena, dovesse collocarsi nelle zone più improbabili di uno spazio rarefatto, e come se questo viso fluttuante fra il suolo grossolano del teatro e il cielo radioso della «città» potesse solo essere sorpreso, sottrat­ to per un breve istante alla sua atemporalità di natura, quindi abbandonato devotamente alla sua corsa solitaria e regale; ora calata maternamente verso la terra che si al­ lontana, ora levata, estatica, la faccia dell’attore sembra raggiungere la sua dimora celeste in un’ascensione senza premura e senza muscoli, contrariamente all’umanità spet­ tatrice che, appartenendo a una classe zoologica diversa e non essendo atta al movimento se non con le gambe {e non col viso), deve riguadagnare a piedi il proprio apparta­ mento. (Bisognerà pur un giorno tentare una psicoanalisi storica delle iconografie troncate. Camminare è forse - mi­ tologicamente - il gesto più banale, quindi il più umano. Ogni sogno, ogni immagine ideale, ogni promozione so­ ciale, cominciano col sopprimere le gambe, si tratti di un ritratto o dell’automobile). Ridotte a un viso, delle spalle, dei capelli, le attrici testi­ moniano cosi della virtuosa irrealtà del loro sesso — ri­ spetto al quale, in città, sono manifestamente degli angeli, dopo essere state sulla scena amanti, madri, sgualdrine, soubrettes. Gli uomini invece, ad eccezione degli attori giovani a cui è consentito appartenere piuttosto al genere angelico, poiché il loro viso, come quello delle donne, re­ sta in posizione di evanescenza, ostentano la loro virilità mediante un attributo cittadino, una pipa, un cane, degli occhiali, un camino-bracciolo, oggetti banali ma necessari all’espressione della mascolinità, audacia permessa solo ai maschi, e attraverso cui l’attore «in città», alia maniera degli dei e dei re brilli, dà a leggere che non teme di essere qualche volta un uomo come gli altri, munito di piaceri (la pipa), di affetti (il cane), di minorazioni (gli occhiali), e persino di domicilio terreno (il camino). L ’iconografia d’Harcourt sublima la materialità del­ l’attore e continua una «scen a» necessariamente banale perché funziona in una «città» inerte e di conseguenza ideale. Statuto paradossale, è la scena, qui, ad essere realtà; la città invece è mito, sogno, meraviglioso. L ’attore, libe-

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rato dell’involucro troppo incarnato del suo mestiere, ri­ trova un’essenza rituale di eroe, di archetipo umano, situa­ to al limite delle norme fisiche degli altri uomini. Il viso diventa un oggetto romanzesco; la sua impassibilità, il suo impasto divino, sospendono la verità quotidiana e danno il turbamento, la delizia e, in conclusione, la sicurezza, di una verità superiore. Per uno scrupolo d ’illusione proprio a un’epoca.e a una classe sociale troppo deboli per la ragion pura come per il mito potente, la folla dei ridotti che si annoia e si mostra dichiara che queste facce irreali sono proprio quelle della città, e in tal modo si procura la buona coscienza razionalista di supporre un uomo dietro all’at­ tore; ma al momento di spogliare il mimo, lo studio d ’Harcourt, arrivando a proposito, fa sorgere un dio, e tutto, in questo pubblico borghese disincantato e al tempo stesso nutrito di menzogna, è soddisfatto. Viene di conseguenza che la fotografia d ’Harcourt è per il giovane attore un rito d ’iniziazione, un diploma di ap­ partenenza a un’alta corporazione, la sua vera carta d’iden­ tità professionale. Si può dire che sia intronizzato finché non ha toccato la Santa Ampolla d ’Harcourt? Questo ret­ tangolo in cui per la prima volta si rivela la sua testa ideale, la sua aria intelligente, sensibile o maliziosa, secondo il ruolo che si propone per la vita, è l’atto solenne mediante il quale la società intera accetta di astrarlo dalle proprie leggi fisiche e gli assicura la rendita perpetua di un viso che, nel giorno di questo battesimo, riceve in dono tutti i poteri ordinariamente rifiutati, almeno simultaneamente, alla carne comune: uno splendore inalterabile, una sedu­ zione pura da ogni malvagità, una potenza intellettuale che non si accompagna necessariamente all’arte o alla bellezza dell’attore. Ecco perché le fotografie di Thérèse Le Prat o di Agnès Varda, per esempio, sono d’avanguardia: esse lasciano sem­ pre all’attore il suo viso d’incarnazione e lo rinchiudono francamente, con un’umiltà esemplare, nella sua funzione sociale: quella di «rappresentare» e non di mentire. Per un mito alienato come quello dei visi di attori questa scelta è molto rivoluzionaria: non appendere sulle scale i d’Har­ court classici, accomodati, languidi, angelicati o virilizzati (secondo il sesso), è un’audacia di cui ben pochi teatri si permettono il lusso.

I Romani al cinema

Nel Giulio Cesare di Mankiewicz tutti i personaggi han­ no la frangia sulla fronte. Chi arricciata, chi filiforme, o folta, o impomatata, tutti comunque ben pettinata, e non sono ammessi i calvi, per quanto la Storia romana ne ab­ bia fornito un buon numero. Chi aveva pochi capelli non si è sottratto tanto a buon mercato, e il parrucchiere, prin­ cipale autore del film, è sempre riuscito a tirargli fuori un ultimo ciuffo che ha raggiunto regolarmente l’orlo della fronte, di quelle fronti romane la cui esiguità è stata in ogni tempo a indicare un peculiare insieme di virtù, di diritto e di conquista. Che cosa è dunque legato a queste frange ostinate? Nient’altro che l ’insegna della Romanità. Vediamo cosi operare allo scoperto la molla principale dello spettacolo, che è il segno. Il ciuffo sulla fronte straripa di evidenza, nessuno può mettere in dubbio di essere a Roma, nei tempi antichi. E questa certezza è continua: gli attori parlano, agiscono, si torturano, dibattono questioni «universali», senza per­ dere niente, grazie a questa piccola bandiera distesa sulla fronte, della loro verosimiglianza storica: la loro generalità può anche gonfiarsi con la massima sicurezza, attraversare l’Oceano e i secoli, raggiungere la faccia yankee delle com­ parse di Hollywood, poco importa, tutti sono rassicurati, adagiati nella calma certezza di un universo senza dupli­ cità, in cui i Romani sono romani mediante il piti leggibile dei segni, il capello sulla fronte. Un francese, ai cui occhi i visi americani conservano an­ cora qualcosa di esotico, trova comico il connubio di que­ ste morfologie di gangsters-sceriffi e della frangetta roma­ na: sembra piuttosto un’eccellente trovata da music-hall. Il fatto è che per noi il segno funziona con eccesso, si scre­ dita lasciando trasparire la sua finalità. Ma questa stessa

I ROMANI AL CINEMA

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frangia, tirata sulla sola fronte latina del film, quella di Marion Brando, ci si impone senza farci ridere, e non è escluso che una parte del successo europeo di questo attore sia dovuto all’integrazione perfetta della capillarità roma­ na nella morfologia generale del personaggio. All’opposto, Giulio Cesare è incredibile, con la sua grinta di avvocato anglosassone consumata ormai da mille ruoli secondari comici o polizieschi, con quel cranio da bonaccione peno­ samente attraversato da un ciuffo di parrucchiere. Nell’ordine delle significazioni capillari, ecco un sotto­ segno, quello delle sorprese notturne: Porzia e Calpurnia, svegliate in piena notte, hanno i capelli ostentatamente in disordine; la prima, piu giovane, ha il disordine fluttuante, cioè in lei la mancanza di cura è in qualche modo al mas­ simo grado; la seconda, matura, presenta una debolezza più elaborata: una treccia gira intorno al collo e scende da­ vanti sulla spalla destra, in modo da imporre il segno tra­ dizionale del disordine, che è l’asimmetria. Ma questi segni sono insieme eccessivi e derisori: postulano una «natura­ lezza» che non hanno nemmeno il coraggio di rispettare fino in fondo: non sono «franchi». Altro segno di questo Giulio Cesare: tutti i visi sudano in continuazione: gente del popolo, soldati, cospiratori, tutti bagnano i loro lineamenti austeri e contratti in una trasudazione abbondante (di vaselina). E i primi piani so­ no cosi frequenti che, con ogni evidenza, il sudore qui è un attributo intenzionale. Come la frangia romana o la treccia notturna, il sudóre è ànch’esso un segno. Di che cosa? della moralità. Tutti sudano perché tutti dibattono qualcosa in se stessi; siamo chiamati a vivere nel luogo di una virtù in terribile travaglio, cioè nel luogo stesso della tragedia, e il sudore ha il compito di tenercene informati: il popolo, traumatizzato dalla morte di Cesare, poi dagli argomenti di Marcantonio, suda, combinando economica­ mente, in questo solo segno, l’intensità della sua emozione e il carattere frusto della sua condizione. E gli uomini virtuosi, Bruto, Cassio, Casca, anche loro non smettono un momento di traspirare, testimoniando in tal modo del­ l’enorme lavorio fisiologico che la virtù in procinto di par­ torire un crimine opera in essi. Sudare, è pensare, (il che poggia evidentemente sul postulato, cosi conveniente a un popolo di uomini di affari, che: pensare è un’operazione violenta, cataclismica, di cui il sudore è il segno minimo).

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I ROMANI AL CINEMA

In tutto il film, un uomo solo non suda, resta glabro, molle, impermeabile: Cesare. Evidentemente, Cesare, oggetto del crimine, resta asciutto, perché lui non sa, non pensa, deve salvaguardare la grana netta, solitaria e levigata di un do­ cumento di prova. Anche qui il segno è ambiguo: resta alla superficie, ma non rinuncia a farsi passare per qualcosa di profondo; vuol far capire (che è lodevole), ma nello stesso tempo si dà come spontaneo (che è falso), si dichiara in termo naie e irreprimibile insieme, artificiale e naturale, prodotto e tro­ vato. Questo può introdurci a una morale del segno. Il segno non dovrebbe darsi che in due forme estreme: o francamente intellettuale, ridotto dalla sua distanza ad un’algebra, come nel teatro cinese, in cui una bandiera in­ dica un reggimento; o profondamente radicato, in qualche modo reinventato ogni volta, aprentesi su un aspetto interno e segreto, segnale di un momento e non più di un concetto (è allora, per esempio, l’arte di Stanislavskij). Ma il segno intermedio (la frangia della romanità o la traspira­ zione del pensiero) denuncia uno spettacolo degradato, che teme la semplice verità quanto l’artificio totale. Perché se c’è da rallegrarsi che uno spettacolo sia fatto per rendere il mondo più chiaro, c’è una colpevole duplicità nel con­ fondere il segno col significato. Ed è una duplicità propria dello spettacolo borghese: tra il segno intellettuale e il segno viscerale, quest’arte colloca ipocritamente un segno bastardo, insieme ellittico e pretenzioso, che pomposamen­ te battezza col nome di «naturalezza».

Lo scrittore in vacanza

Gide leggeva Bossuet scendendo la corrente del Congo. Questo atteggiamento riassume abbastanza bene l’ideale dei nostri scrittori «in vacanza», fotografati dal «F igaro»: unire al piacere banale il prestigio di una vocazione che niente può frenare né degradare. Ecco dunque un buon reportage, molto efficace dal punto di vista sociologico, e che ci illumina senza inganni sull’idea che la nostra bor­ ghesia si fa dei suoi scrittori. Quanto sembra dapprima sorprenderla e rapirla, questa borghesia, è la propria larghezza di vedute nei riconoscere che gli scrittori, anche loro, si possono prendere delle co­ muni vacanze. Le «vacanze» sono un fatto sociale recente, eli cui d ’altra parte sarebbe interessante seguire lo svilup­ po mitologico. In un primo tempo fatto scolastico, con l’uso delle ferie pagate sono diventate un fatto proletario, o almeno lavorativo. Affermare che questo fatto può ormai concernere degli scrittori, che gli specialisti dell’animo umano sono anch’essi soggetti allo statuto generale del lavoro contemporaneo, è un modo per far si che i nostri lettori borghesi siano convinti di saper procedere coi tem­ pi: ci si compiace di riconoscere certe necessità prosaiche, ri si adegua alle realtà «m oderne» mediante le lezioni di Siegfried e di Fourastié. S’intende che questa proletarizzazione dello scrittore viene accordata solo con parsimonia, e per essere meglio distrutta in seguito. Appena provvisto di un attributo so­ ciale (le vacanze sono uno dei piu piacevoli), l’uomo di lettere torna ben presto nell’empireo condiviso con i pro­ fessionisti della vocazione. E la «naturalezza» nella quale si eternano i nostri romanzieri è istituita in realtà per tra­ durre una contraddizione sublime: quella tra una condi­ zione prosaica, prodotta, ahimè, da un’epoca assai materia­

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LO SCRITTO RE.IN VACANZA

lista, e il prestigioso statuto che la società borghese conce­ de liberalmente ai suoi uomini d’ingegno (a patto che le siano inoffensivi). A provare la meravigliosa singolarità dello scrittore è il fatto che egli, nel corso di queste famose vacanze che fraternamente divide con gli operai e i commessi, non smet­ te, se non di lavorare, almeno di produrre. Al suo falso la­ voro corrispondono false vacanze. Uno scrive i suoi ricordi, un altro corregge bozze,,il terzo prepara il suo prossimo libro. E quello che non fa niente lo confessa come una condotta veramente paradossale, una prodezza d’avanguar­ dia, che solo uno spirito forte può permettersi di osten­ tare. Da quest’ultima furfanteria si capisce quanto sia «naturale» che lo scrittore scriva sempre, in ogni situa­ zione. In primo luogo questo assimila la produzione let­ teraria a una sorta di secrezione involontaria, dunque tabu perché sfugge agli umani determinismi: per parlare più nobilmente, lo scrittore è preda di un dio interiore che parla in ogni momento, senza preoccuparsi, il tiranno, delle vacanze del suo tramite. Gli scrittori sono in vacanza, ma la loro Musa è desta, e partorisce senza tregua. Il secondo vantaggio di questa logorrea è che, grazie al suo carattere imperativo, essa passa con tutta naturalezza come l’essenza stessa dello scrittore. Questi ammetterà di essere provvisto di un’esistenza umana, di una vecchia casa di campagna, di una famiglia, di un paio di shorts, di una bambina, ecc., ma contrariamente agli altri lavoratori che cambiano essenza e che sulla spiaggia non sono piu che villeggianti, lo scrittore da parte sua conserva la propria natura di scrittore; dotato di vacanze, egli ostenta il segno della sua umanità; ma il dio rimane, si è scrittori come Luigi XIV era re, anche sulla seggetta. Cosi la funzione del­ l’uomo di lettere è un po’, rispetto ai lavori umani, quello che l’ambrosia è rispetto al pane: una sostanza miracolosa, eterna, che accondiscende alla forma sociaje per farsi me­ glio cogliere nella sua prestigiosa diversità. Tutto ciò conduce alla medesima idea di uno scrittore superuomo, di una sorta di essere differenziale che la società mette in vetrina per servirsi meglio della fittizia singolarità che gli concede. L ’immagine bonaria dello «scrittore in vacanza» non è altro che una di quelle abili mistificazioni messe in opera dalla buona società per meglio asservire i suoi scrittori:

t.O SCRITTORE IN VACANZA

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niente mette meglio in risalto la singolarità di una «voca­ zione» che il suo essere contraddetta - ma non negata, lutt’altro - dalla prosaicità della sua incarnazione: è una vecchia trappola di tutte le agiografie. Cosi questo mito delle «vacanze letterarie» lo vediamo andare molto al di là dell’estate: le tecniche del giornalismo contemporaneo si adoprano ogni giorno di più per dare dello scrittore un quadro prosaico. Ma si avrebbe torto a voler vedere in questo uno sforzo di demistificazione. È esattamente il contrario. Potrò sentirmi commosso e persino lusingato, io semplice lettore, di partecipare tramite la confidenza alla vita quotidiana di una razza selezionata dal genio: potrà sembrarmi deliziosamente fraterna un’unanimità in cui so dai giornali che questo grande scrittore porta i pigiama blu, e che a quel giovane romanziere piacciono le «ragazze carine, il reblochon e il miele di lavanda». Ciò non toglie che a saldo dell’operazione lo scrittore diventi ancora un po’ più divo, si allontani ancora un po’ da questa terra per una zona celeste dove i suoi pigiama e i suoi formaggi non gli impediscono affatto di riprendere l’uso della sua nobile parola demiurgica. Dotare pubblicamente lo scrittore di un corpo chiara­ mente carnale, svelare che gli piace il bianco secco e la bistecca al sangue, vuol dire rendermi ancora più miraco­ losi, di essenza ancora più divina, i prodotti della sua arte. I particolari della sua vita quotidiana sono lungi dal ren­ dermi più vicina e più chiara la natura, della sua ispira­ zione, mentre con tali confidenze lo scrittore accusa tutta la singolarità mitica della sua condizione. Posso infatti ad­ debitare soltanto a una sovrumanità l’esistenza di esseri tanto vasti da portare il pigiama blu e contemporaneamente manifestarsi come coscienza universale, oppure, ancora, professare il loto amore per il reblochon e con la stessa voce annunciare la loro prossima «Fenomenologia dell’Io ». Il connubio spettacolare di tanta nobiltà e di tanta futilità sta a significate che si crede ancora alla contraddi­ zione: totalmente miracolosa, altrettanto lo sono i suoi termini: evidentemente essa perderebbe di ogni interesse in un mondo in cui il lavoro dello scrittore fosse dissacrato al punto da apparire tanto naturale quanto le sue funzioni di palato o di abbigliamento.

La crociera del Sangue Blu

Dal tempo dell’Incoronazione i francesi languono nel desiderio di una rinnovata attualità monarchica di cui so­ no estremamente golosi; l’imbarco di un centinaio di prin­ cipi su uno yacht greco, VAgamennone, li ha molto sva­ gati. L ’incoronazione di Elisabetta era un tema patetico, sentimentale; la «crociera del sangue blu » è un episodio piccante: i re si sono atteggiati a uomini, come in una com­ media di Flers e Caillavet; ne sono nate mille situazioni ridicole per le loro contraddizioni, del tipo « Maria Anto­ nietta travestita da lattaia». La patologia di un tale diver­ timento è pesante: se ci si diverte di una contraddizione significa che si suppongono molto lontani i suoi termini; in altre parole i re sono di un’essenza sovrumana, e quando assumono momentaneamente certe forme di vita democra­ tica non può trattarsi che di un’incarnazione contro natura, possibile solo per condiscendenza. Mettere in luce che i re sono capaci di prosaicità equivale a riconoscere che questo statuto non è a loro piu naturale dell’angelismo al comune mortale, constatare che il re è ancora di diritto divino. Cosi i gesti neutri della vita quotidiana hanno assunto, sull ’Agamennone, un carattere esorbitante di audacia, co­ me quelle fantasie creative in cui la Natura oltrepassa i suoi regni: i re si radono da sé! questo particolare è stato riportato dalla nostra grande stampa come un atto di in­ credibile singolarità, quasi che in esso i re fossero disposti a rischiare tutta la loro regalità, con ciò stesso professando, d’altra parte, la loro fede nella sua natura indistruttibile. Il re Paolo indossava una camicia con le maniche corte, la regina Federica un abito stampato, cioè non piu unico, ma tale che se ne può ritrovare il disegno sul corpo di sem­ plici mortali: un tempo i re si travestivano da pastori; oggi portare per quindici giorni i vestiti di un grande magazzino

LA CROCIERA D EL SANGUE B L U

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è per loro il segno del travestimento. Altro statuto demo­ cratico: alzarsi alle sei del mattino. Tutto ciò informa per antifrasi su una certa idealità della vita quotidiana: portare i polsini, farsi radere da un domestico, alzarsi tardi. Ri­ nunciando a questi privilegi i re li rimandano nel cielo del sogno: il loro sacrificio —del tutto temporaneo —fissa nella loro eternità i segni della felicità quotidiana. È strano che tale carattere mitico dei nostri re sia oggi laicizzato ma per niente scongiurato dall’espediente di un vago scientismo; i re sono definiti dalla purezza della loro tazza (il «sangue blu»), come i cuccioli, e la nave, luogo privilegiato di ogni clausura, è una sorta di moderna arca, dove si conservano le principali varietà della specie monar­ chica. Al punto che vi si calcolano apertamente le possibi­ lità di certi accoppiamenti; chiusi nella loro navigante sta­ zione di monta i purosangue sono al riparo da ogni matri­ monio bastardo, trovano tutto (annualmente?) preparato affinché possano riprodursi tra loro; tanto scarsi sulla terra quanto i pug dogs, la nave li fissa e li raccoglie, costituisce una «riserva» temporanea dove si attende e accidental­ mente si giunge a perpetuare una curiosità etnografica ben protetta come un parco di Sioux. I due temi secolari si fondono, quello del Re-Dio e quel­ lo del Re-Oggetto. Ma questo cielo mitologico non è tut­ tavia cosi inoffensivo alla Terra. Le mistificazioni più eteree, i particolari divertenti della crociera del Sangue blu, tutto questo pettegolume aneddotico di cui la grande stampa ha saturato i suoi lettori, non è dato impunemente: forti della loro divinità restaurata i principi si occupano democraticamente di politica: il Conte di Parigi lascia l'Agamennone per venire a Parigi a « sorvegliare » la sorte della Ced, e si manda il giovane Juan di Spagna in soccorso al fascismo spagnolo.

Critica cieca e muta

I critici (letterari e teatrali) usano spesso due argomenti molto singolari. Il primo consiste nel decretare ineffabile, bruscamente, l’oggetto della critica e, di conseguenza, inu­ tile la critica. L ’altro argomento, che ricompare anch’esso periodicamente, consiste nel riconoscersi troppo sciocchi, troppo beoti, per capire un’opera reputata filosofica: un saggio di Henri Lefebvre su Kierkegaard ha provocato cosi, da parte dei nostri migliori critici {e non parlo di quelli che fanno apertamente professione d’idiozia), una simulazione panica d’imbecillità (il cui scopo era evidentemente quello di screditare Lefebvre relegandolo nel ridicolo della cere­ bralità pura). Perché dunque la critica proclama periodicamente la sua impotenza o la sua incomprensione? Non certamente per modestia: nessuno più a suo agio del tale che confessa di non capire niente dell’esistenzialismo, nessuno piu ironico e quindi più sicuro di sé dell’altro che ammette mogio mo­ gio di non aver la fortuna di essere iniziato alla filosofia del­ lo Straordinario; e nessuno più marziale del terzo pero­ rante a favore dell’ineffabile poetico. Tutto questo in realtà significa che ci si crede di un’in­ telligenza abbastanza indubbia perché l’ammissione di una incomprensione metta in causa la chiarezza dell’autore e non quella del proprio cervello: se si mima la balordaggi­ ne, è per meglio far risentire il pubblico, coinvolgendolo cosi, con vantaggio, da una complicità d’impotenza in una complicità d'intelligenza. È un’operazione ben nota ai salotti Verdurin: « I o che faccio il mestiere d ’intelligente, non ci capisco nulla; ora voi, non diversamente, non ci capirete nulla; questo vuol dire che siete intelligenti quan­ to me », II vero volto di queste professioni stagionali d ’incultura

CRITICA CIECA E M UTA

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c il vecchio mito oscurantista secondo il quale l’idea, se non è controllata dal «buon senso» e dal «sentimento», è nociva: la Scienza è il Male, tutti e due sono cresciuti sotto 10 stesso albero: la cultura è permessa a condizione che proclami periodicamente la vanità dei suoi fini e i limiti della sua potenza (vedi anche in proposito le idee di Gra­ ham Greene sugli psicologi e gli psichiatri); la cultura idea­ le non dovrebbe essere che una dolce effusione retorica, l’arte delle parole utile ad attestare un passeggero inu­ midimento dell’anima. Il vecchio binomio romantico del cuore e della testa non ha però realtà se non in un'icono­ grafia di origine vagamente gnostica, in quelle filosofie oppiacee che hanno sempre finito per formare il sostegno dei regimi forti, in cui ci si sbarazza degli, intellettuali man­ dandoli a occuparsi dell’emozione e dell’ineffabile. Di fal­ lo, ogni riserva sulla cultura è una posizione terroristica, bar mestiere di critico e proclamate che non si capisce niente dell 'esistenzialismo o del marxismo (giacché per combinazione sono soprattutto queste filosofie che si con­ lessa di non capire), equivale a erigere la propria cecità o 11 proprio mutismo a tegola universale di percezione, re­ spingere dal mondo il marxismo e l’esistenzialismo: «Non capisco, quindi siete stupidi». Ma se si temono tanto o si disprezzano in un’opera i suoi fondamenti filosofici, e se si reclama cosi forte il dirit­ to di non capirci niente e non parlarne, perché fare il criti­ co? Capire, illuminare, è pur il vostro mestiere. Eviden­ temente potete giudicare la filosofia in nome del buon senso; il guaio è che se il «buon senso» e il «sentimento» non capiscono niente della filosofia, la filosofia invece li capisce molto bene. Voi non spiegate i filosofi, ma loro vi spiegano. Voi non volete capire il saggio del marxista LeIcbvre, ma siate certi che il marxista Lefebvre capisce per­ fettamente la vostra incomprensione, e soprattutto (giac­ ché vi credo piu astuti che incolti) la confessione delizio­ samente «inoffensiva» che ne fate.

Saponificanti e detersivi

Il primo Congresso Mondiale della Detersione (Parigi, settembre 1954) ha autorizzato il mondo a lasciarsi andare all’euforia di Omo: non solo i detersivi non hanno alcuna azione nociva sulla pelle, ma addirittura possono forse sal­ vare i minatori dalla silicosi. Ora questi prodotti sono da qualche anno oggetto di una pubblicità cosi massiccia da far parte, oggi, di quella zona di vita quotidiana dei fran­ cesi su cui le psicanalisi, se si tenessero al corrente, dovreb­ bero pur rivolgere la loro attenzione. Si potrebbe allora contrapporre con profitto alla psicanalisi dei liquidi puri­ ficatori (Acqua di varechina) quella delle polveri saponi­ ficanti (Lux, Persil) o detersive (Rai, Paic, Crio, Omo). I rapporti tra il rimedio e il male, tra questi prodotti e Io sporco, sono molto diversi nei due casi. Per esempio, l’acqua di varechina è sempre stata sentita come una specie di fuoco liquido la cui azione va attenta­ mente controllata, altrimenti l’oggetto stesso resta colpito, «bruciato»; la leggenda implicita di questo genere di pro­ dotti poggia sull’idea di una modificazione violenta, abra­ siva, della materia: vi corrispondono effetti di ordine chi­ mico o mutilante: il prodotto «uccide» lo sporco. Al con­ trario le polveri sono elementi separatori; la loro funzione ideale è quella di liberare l’oggetto dalla sua imperfezione contingente: si «espelle» lo sporco, non lo si uccide piu; nell’iconografia Omo, lo sporco è un minuscolo nemico gra­ cile e nero che scappa a gambe levate dalla bella bianche­ ria pura alla sola minaccia del giudizio di Omo. I dori e le ammoniache sono senza dubbio i delegati di una specie di fuoco totale, salutare, ma cieco; le polveri al contrario sono selettive, spingono, guidano lo sporco attraverso la trama dell’oggetto, hanno una funzione di polizia, non di guerra. Questa distinzione ha il suo corrispondente etno-

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grafico: il liquido chimico prolunga il gesto della lavandaia die batte i lenzuoli, mentre le polveri sostituiscono piut­ tosto quello della donna di casa che preme e strofina il bucato lungo l’asse inclinata. Ma nell’ordine stesso delle polveri bisogna ancora con­ trapporre alla pubblicità psicologica la pubblicità psicana­ litica (intendendo questo termine senza alcun particolare riferimento di scuola). Per esempio, il «bianco» di Persil londa il suo prestigio sull’evidenza di un risultato; si sti­ mola la vanità delle apparenze sociali offrendo il confronto di due oggetti di cui uno è più bianco dell’altro. La pub­ blicità Omo indica si l’effetto del prodotto (sotto una for­ ma del resto superlativa), ma soprattutto scopre il processo della sua azione; essa impegna in tal modo il consumatore in una sorta di modo vissuto della sostanza, lo rende corn­ ili ice di una liberazione e non più soltanto beneficiario di un risultato; la materia viene dotata di stati-valore. Omo me utilizza due, molto nuovi nell’ordine dei deter­ sivi: il «profondo» e lo «schiumoso». Dire che Omo pu­ lisce in profondità (vedi la scenetta del Cinéma-Publicité), significa supporre che la biancheria è profonda, cosa finora impensata e che incontestabilmente equivale a magnificar­ la, a porla come oggetto lusingarono per quegli oscuri im­ pulsi di avviluppamento e di carezza propri di ogni corpo umano. Quanto alla schiuma, è nota la sua significazione di lusso; prima di tutto ha un’apparenza di inutilità; in secondo luogo la sua proliferazione abbondante, facile, quasi infinita, lascia supporre nella sostanza da cui esce un germe vigoroso, un’essenza sana e potente, una grande ric­ chezza di elementi attivi in un piccolo volume originario; infine seconda nel consumatore una immagine aerea della materia, un modo di contatto leggero e verticale insieme, perseguito come una felicità tanto nell’ordine gustativo (foies gras, entremets, vini) quanto in quello dell’abbiglia­ mento (mussole, tulli) e in quello dei saponi (la diva che fa il bagno). La schiuma può perfino essere segno di una certa spiritualità, nella misura in cui lo spirito è ritenuto capace di ricavare tutto da nulla, una grande superficie di effetti da un piccolo volume di cause (le creme hanno tutta un’altra psicanalisi di ordine sopitivo: eliminano le rughe, il dolore, il bruciore, ecc.). L ’importante è aver saputo mascherare la funzione abrasiva del detergente sotto l’im­ magine deliziosa di una sostanza profonda e aerea insieme,

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che può dominare l’ordine molecolare del tessuto senza intaccarlo. Euforia da cui non si deve del resto essere in­ dotti a dimenticare che esiste un piano in cui Persil e Omo sono la stessa cosa: il piano del trust anglo-olandese Unilever.

Il Povero e il Proletario

L ’ultima trovata di Charlot è stata quella di aver fatto passare metà del suo premio sovietico nelle casse delPAbbé Pierre. Ciò viene in fondo a stabilire un’uguaglianza di natura tra il proletario e il povero. Charlot ha sempre visto il proletario sotto le sembianze del povero: da cui la forza umana delle sue rappresentazioni, ma anche la loro ambi­ guità politica. Tutto ciò è assai evidente in quel mirabile iilrn che è Tempi moderni. Charlot vi sfiora continuamente il tema proletario ma non l’assume mai politicamente; ci la vedere un proletario ancora cieco e mistificato, definito dalla natura immediata dei suoi bisogni e dalla sua aliena­ zione totale nelle mani dei padroni (poliziotti e principali). Per Charlot il proletario è ancora un uomo che ha fame, e in lui la rappresentazione della fame è sempre epica: gran­ dezza smisurata dei panini imbottiti, fiumi di latte, frutti che si gettano via con indifferenza appena morsi; deriso­ riamente, la macchina per mangiare (di essenza padronale) fornisce solo alimenti spezzettati e visibilmente insipidi. Invischiato nella sua fame cronica l’uomo-Charlot si situa sempre un gradino al di sotto della presa di coscienza polilica: Io sciopero per lui è una catastrofe perché minaccia un uomo letteralmente accecato dalla fame; quest’uomo non raggiunge la condizione operaia se non nel momento in cui il povero e il proletario vengono a coincidere sotto lo sguardo (e i colpi) della polizia. Storicamente Charlot riprende a un dipresso l’operaio della Restaurazione, il manovale in rivolta contro la macchina, disorientato dallo sciopero, dominato dal problema del pane (nel vero senso della parola), ma ancora incapace di accedere alla cono­ scenza delle cause politiche e all’esigenza di una strategia collettiva. Ma appunto perché Charlot rappresenta una specie di

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IL POVERO E IL PROLETARIO

proletario bruto, ancora al di fuori della Rivoluzione, la sua forza rappresentativa è immensa. Nessuna opera socialista è ancora arrivata a esprimere la condizione umiliata del lavoratore con tanta violenza e generosità. Fotse solo Brecht ha intravisto la necessità per l’arte socialista di co­ gliere sempre l’uomo alla vigilia della Rivoluzione, cioè l’uomo solo, ancora cieco, sul punto di aprirsi alla luce rivoluzionaria per l’eccesso «naturale» dei suoi mali. Rap­ presentando l’operaio già impegnato in una lotta cosciente, inquadrato sotto la Causa e il Partito, le altre opere ci in­ formano di una realtà politica necessaria ma senza forza estetica. Ora Charlot, conforme all’idea di Brecht, mostra al pub­ blico la propria cecità in modo tale che il pubblico vede insieme il cieco e il suo spettacolo; vedere qualcuno non vedere è il modo migliore per vedere intensamente ciò che egli non vede: cosi al teatro di marionette sono i bambini die suggeriscono a Guignol quello che lui finge di non ve­ dere. Per esempio, Charlot nella sua cella, vezzeggiato dai guardiani, conduce la vita ideale del piccolo borghese ame­ ricano: le gambe incrociate, si legge il suo giornale sotto il ritratto di Lincoln, ma l’adorabile sufficienza dell’atteggia­ mento lo scredita completamente, fa si che non sia piu pos­ sibile rifugiarvisi senza notare la nuova alienazione che contiene. Anche i minimi adescamenti sono in tal modo vanificati, e il povero si trova continuamente tagliato fuori dalle sue tentazioni. È per questo in fondo che l’uomoCharlot trionfa di tutto: proprio perché sfugge a tutto, re­ spinge ogni accomandita, e nell’uomo non investe altro che l’uomo solo. La sua anarchia, discutibile politicamente, in arte rappresenta la forma forse piu efficace della rivolu­ zione.

Marziani

Il mistero dei Dischi Volanti in un primo tempo è stato prettamente terrestre: si supponeva che il disco venisse dall’ignoto sovietico, da quel mondo privo di chiare inten­ zioni quanto un altro pianeta. E già questa forma del mito conteneva in germe il suo sviluppo planetario; perché se il disco da ordigno sovietico è diventato con tanta facilità pare. Di fbland Barthes, Einaudi ha pubblicato: Elementi emiologia; Saggi critici; C. sica e verità; Sistema de- 3 ModaS/Z ; Il piacere del tee*!'- Sa ie, Fourier, Loyola; Frammenti di un

discorso amoroso; Ba, res di Roland Barthes; La camera chiara. Noia .ma fotografia; Lezione; Il grado zero delia scrittura; L in cero de segni; L ’ovvio e l ’ottuso; La p a ia delia voce; >1brusio della lingua.

ISBN 88-06-.5g3o?,_2

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