Rivista Internazionale numero 1082

May 29, 2016 | Author: vfabris | Category: Types, Instruction manuals
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Revista italiana de asuntos internacionales, traducciones de lo mejor de la prensa internacional al italiano...

Description

n. 1082 • anno 22 Pakistan La strage della scuola

internazionale.it Paul Krugman La rabbia dei greci è un segnale per tutti

3,00 € Editoriale Un nuovo inizio per Cuba e Stati Uniti

PI, SPED IN AP, DL ART DCB VR DE • BE • CH CHF • UK IL MONDO IN CIFRE EURO

19/23 dicembre 2014 Ogni settimana il meglio dei giornali di tutto il mondo

Vivere cent’anni La vita media si allunga e la società cambia in modo sorprendente

19/23 dicembre 2014 • Numero 1082 • Anno 22 “Nella vita ognuno recita molte parti, e i suoi atti sono sette età”

Sommario La settimana

williAm shAkespeAre, pAgiNA

19/23 dicembre 2014 Ogni settimana il meglio dei giornali di tutto il mondo

n. 1082 • anno 22 Pakistan La strage della scuola

internazionale.it Paul Krugman La rabbia dei greci è un segnale per tutti

3,00 € Editoriale Un nuovo inizio per Cuba e Stati Uniti

iN copertiNA

Vivere cent’anni

Libera

Vivere cent’anni La vita media si allunga e la società cambia in modo sorprendente

La vita media si allunga e la società cambia in modo sorprendente. L’articolo di The Atlantic (p. 38). Foto di Karsten Thormaehlen.

Giovanni De Mauro pAkistAN

14 Il terrore

a scuola Financial Times europA

18 Turchia 20

Al Monitor Russia Financial Times

giAmAicA

54 A ritmo costante El País Semanal birmANiA

The Sunday Times Magazine portfolio

72 Nadine Heredia El País Semanal viAggi

Le opinioni

innovativa Le Soir grAphic jourNAlism

79 Universo

visti dAgli Altri

Anders Nilsen

30 Il sindacato batte

88

29

podcAst

Paul Krugman

36

David Randall

90

Gofredo Foi

92

Giuliano Milani

94

Pier Andrea Canei

109 Tito Boeri

le rubriche

da ascoltare Financial Times

46 Il culto del jihad

POP

98 Ritorno a casa 102

Amira Hass

34

103 Tullio De Mauro

84 Un crimine

germANiA

tra i ragazzi europei Der Spiegel

cultura Cinema, libri, musica, video, arte

76 Nella Svezia

28 Sud Sudan

un colpo Le Temps

fanno tremare Berlino Die Zeit

ritrAtti

AfricA e medio orieNte

Gurtong

108 I piani di Draghi

di immagini Pierrot Men

Americhe

Le Monde

ecoNomiA e lAvoro

66 Il pescatore

AttuAlità

24 Haiti

non fermano le bugie The Conversation

60 Il popolo invisibile

22 Furto senza precedenti per la Sony Pictures Le Monde

scieNzA

104 Le punizioni

Niza Qazi La nuvola classica Alex Ross

12

Posta

13

Editoriali

112

Strisce

113

L’oroscopo

114

L’ultima

Articoli in formato mp3 per gli abbonati

le principali fonti di questo numero El País Semanal È il supplemento settimanale di uno dei più importanti quotidiani spagnoli. L’articolo a pagina 54 è uscito il 7 novembre 2014 con il titolo La melodía eterna de Jamaica. Der Spiegel È un settimanale tedesco di attualità. L’articolo a pagina 46 è uscito il 17 novembre 2014 con il titolo Bruder, Kämpfer, Dschihadist. The Sunday Times Magazine È il magazine del quotidiano britannico The Times. L’articolo a pagina 60 è uscito il 29 giugno 2014 con il titolo originale “When I die, someone will have to write a certiicate, they will have to say that I was here, that I lived”. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

Internazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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internazionale.it/sommario

“Sradicheremo Twitter. Non m’importa di quello che dirà la comunità internazionale. Ognuno sarà testimone della potenza della repubblica turca”. Sono parole di Recep Tayyip Erdoğan, pronunciate a marzo durante un comizio. Il rapporto annuale di Reporters sans frontières (Rsf ) sull’attacco alla stampa nel mondo arriva proprio nei giorni in cui il presidente turco ha deciso l’arresto di 23 persone, tra cui alcuni giornalisti e il direttore del più importante giornale del paese, Zaman. È dal 1995 che Rsf pubblica il suo rapporto. Nel 2014 sono stati uccisi 66 giornalisti, 720 dal 2005. Siria, Striscia di Gaza, Ucraina e Iraq i posti con più vittime. Sono 119 i giornalisti rapiti nell’ultimo anno, 178 quelli in carcere, 139 i reporter obbligati a lasciare il loro paese, 853 quelli arrestati o fermati, 1.846 minacciati o aggrediti. Ma sono numeri che non raccontano l’evoluzione degli ultimi anni: i giornalisti sono uccisi in modo sempre più violento, con decapitazioni, impiccagioni, torture. La loro uccisione è diventata uno strumento di propaganda, per spaventare e spingere al silenzio. L’attacco alla libertà di stampa, però, oggi passa anche attraverso una censura sempre più forte sul web. In Cina l’anno scorso il governo ha deciso che, quando un testo giudicato falso o difamatorio viene letto su internet da più di cinquemila persone, chi l’ha scritto rischia ino a tre anni di prigione. Un modo perverso per rendere più eicace la censura. Il rapporto annuale sulla libertà in rete di Freedom house mette Iran, Siria, Cina, Cuba ed Etiopia in cima alla lista dei paesi più autoritari. Ha scritto Vauhini Vara sul New Yorker commentando il rapporto di Freedom house: “Forse il fatto sorprendente non è che la rete stia diventando meno libera, ma che non sia successo prima”. u

Immagini Il dolore del padre Peshawar, Pakistan 16 dicembre 2014

I funerali di Mohammed Ali Khan, un ragazzo di quindici anni rimasto ucciso nell’attacco dei taliban pachistani all’Army public school di Peshawar, nel nordovest del Pakistan. Il 16 dicembre sette uomini armati sono entrati nella scuola e hanno sparato, uccidendo 141 persone, tra cui 132 studenti. L’attacco è stato rivendicato dai taliban pachistani del gruppo Tehrik-i-taliban. Il 17 dicembre il governo di Islamabad ha annunciato la fine della moratoria sulla pena di morte per i casi di terrorismo, in vigore dal 2008. I taliban afgani hanno condannato l’attacco. Foto di Zohra Bensembra (Reuters/Contrasto)

Immagini Momento storico L’Avana, Cuba 17 dicembre 2014

In una casa all’Avana mentre il presidente cubano Raúl Castro annuncia il disgelo dei rapporti tra Cuba e Stati Uniti. Dopo mesi di trattative, i governi dei due paesi hanno deciso di adottare una serie di misure per ristabilire normali relazioni diplomatiche. Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha tenuto un discorso in cui ha afermato che le politiche punitive nei confronti dell’isola hanno fallito. Washington si è impegnata a ridurre le restrizioni al commercio e agli spostamenti, ma l’embargo nei confronti dell’isola resta in vigore. Foto di Yamil Lage (Afp/Getty Images)

Immagini Un giovedì da leoni Praia do Norte, Portogallo 11 dicembre 2014

Un surista cavalca un’onda nel mare di Praia do Norte, una spiaggia sul promontorio di Nazaré, sulla costa portoghese. Grazie alla presenza del canyon di Nazaré, la più grande gola sottomarina d’Europa, larga più di duecento chilometri e profonda fino a cinquemila metri, la zona ofre onde tra le più spettacolari al mondo, che arrivano a siorare i trenta metri d’altezza. Foto di Rafael Marchante (Reuters/Contrasto)

[email protected] Speranza

arrivare un pensiero afettuoso e solidale. Anna Schiavoni

u Condivisibili i cinque punti esposti da Giovanni De Mauro (Internazionale 1081), ma sul quinto la domanda è: come possono i cittadini esprimere una classe politica adeguata se con il Porcellum prima e con le prossime riforme poi sarà loro tolta deinitivamente ogni possibilità di scegliere la persona da votare? Infatti le stesse province, teoricamente non più esistenti, hanno visto i consiglieri e il presidente scelti direttamente dai partiti e non dal cittadino. Domenico Giannantonio

u Le strisce di Makkox sono una prelibatezza. Non riuscire a leggerle, un venerdì su due, per la sua ignobile calligraia, è una soferenza. Invece di precisare che il lago uzbeco Sarygamysh andrebbe scritto minuscolo, perché non fornite una versione dattiloscritta della striscia della settimana? Almeno inché il nostro non avrà cominciato un bel corso di riabilitazione. Paolo

Il funerale di Noam

Azzeccagarbugli d’oggi

u Ho letto con commozione e tristezza l’articolo di Amira Hass sulla morte di Noam Kaminer (Internazionale 1081). Ho conosciuto suo iglio Matan una decina di anni fa, quando lo abbiamo invitato a Roma a portare la sua testimonianza nell’ambito di una campagna per la pace. Ricordo bene come parlava della sua famiglia e mi piacerebbe, se possibile, fargli

u L’Azzeccagarbugli parlava latino per marcare la distanza tra lui e il popolino. Oggi chi ti vuole vendere un’idea o un prodotto infarcisce il suo discorso con parole in inglese. Ho lavorato in varie multinazionali e lo so che molto è dovuto a pigrizia o ignoranza: al lavoro è un lorilegio di target, warning, gap, businnes development e instant win. Ma un’azienda in efetti vende

Strisce illeggibili

prodotti e marchi. Quello che non mi andrà mai giù è una politica che in Italia parla di Jobs act e spending review. Ci vendono le loro soluzioni? O cercano di tenere a distanza i cittadini? Non hanno responsabilità anche i giornalisti quando non traducono e non rintuzzano gli anglicismi dei politici? Si tratta in questo caso di vendita di notizie? Flavio Gioja

ine Tina, olandese, madre single di due bambine, risponde alla domanda “Ma tuo marito dov’è?” con la sua strategia del biscotto del ristorante cinese: “Ho in testa risposte standard preconfezionate, tipo: ‘Io divorziata mio marito abita altro paese’”. Tutte tecniche interessanti, ma per me la vera soluzione è diventare italiana: smettila di rispondere e comincia a fare domande anche tu. Claudio Rossi Marcelli è un giornalista di Internazionale. Risponde all’indirizzo [email protected]

Giulia Zoli è una giornalista di Internazionale. L’email di questa rubrica è [email protected]

u A pagina 31 di Internazionale 1081 c’era scritto “due dei tre aggressori sono stati arrestati, il quarto è riuscito a fuggire”. La frase corretta è: “gli aggressori erano quattro, uno dei quali è riuscito a fuggire”. PER CONTATTARE LA REDAZIONE

Telefono 06 441 7301 Fax 06 4425 2718 Posta via Volturno 58, 00185 Roma Email [email protected] Web internazionale.it INTERNAZIONALE È SU

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Domande indiscrete

Paese che vai, usanze che trovi: nel tuo fate i buchi alle orecchie alle bambine, nel nostro riempiamo i genitori di domande sui igli. Per non essere stritolati dall’invadente curiosità italiana gli stranieri devono elaborare una strategia. Christina, statunitense, ha adottato sua iglia e deve rispondere a domande tipo: “La vera mamma la conoscete?”.

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Il suo metodo è corretto ma faticoso: educare gli altri. “La vera mamma sono io, tu intendi la ‘madre biologica’”. Catherine, madre marsigliese di una bimba di tre anni, è bersagliata da: “A quando il secondo?”. Lei risolve con l’ironia: “Non appena mi libero di mio marito e me ne trovo un altro”. Noah, israeliana da poco sposata con un italiano, dal giorno dopo le nozze si sente ripetere: “E ora farete un iglio?”. Lei la trova una domanda maleducata e violenta, e così gela l’interlocutore dicendo: “Non posso averne. Mi hanno asportato l’utero”. E in-

Internazionale 1082 | 19 dicembre 2014

Piuttosto confuso

u “Ultimamente sento adoperare ‘piuttosto che’ al posto di ‘oppure’”, ci scrive Martina Melato. “Ma è corretto?”. Cara Martina, no! Questo uso scorretto ha cominciato a difondersi già dagli anni ottanta, di pari passo con gli anatemi di linguisti, scrittori e appassionati della lingua. È diventato perino il titolo di un libro, di Valeria Della Valle e Giuseppe Patota (Sterling & Kupfer 2014). A quanto pare viene dal Norditalia, si è propagato soprattutto con l’aiuto della tv e della pubblicità, e ormai lo usa un sacco di gente, giornalisti compresi, magari con l’idea che serva a darsi un tono. Altri motivi non se ne vedono, visto che crea solo confusione. “Tizio legge Internazionale sul tablet piuttosto che sulla carta”. Secondo la grammatica signiica che Tizio legge sul tablet anziché sulla carta, secondo la nuova moda invece signiica che lo legge un po’ qui e un po’ lì, indiferentemente. A chi dobbiamo dare retta? È diicile trovare una risposta deinitiva. Le lingue cambiano lentamente e spesso quello che un tempo era considerato un errore inisce per essere accettato. Staremo a vedere. Nel frattempo, iduciosi, facciamo la guerra al “piuttosto che” disgiuntivo.

Errata corrige

Dear Daddy

Nel mio paese facciamo i buchi alle orecchie alle neonate e qui devo spiegarlo a tutti: possibile che in Italia provochi tanta curiosità? –Dolores

Le correzioni

Editoriali

Cuba e Stati Uniti, nuovo inizio “Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella vostra ilosoia” William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De Mauro Vicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo Zanchini Editor Carlo Ciurlo (viaggi, visti dagli altri), Gabriele Crescente (opinioni), Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (Stati Uniti), Andrea Pipino (Europa), Francesca Sibani (Africa e Medio Oriente), Junko Terao (Asia e Paciico), Piero Zardo (cultura, caposervizio) Copy editor Giovanna Chioini (web, caposervizio), Anna Franchin, Pierfrancesco Romano (coordinamento, caposervizio), Giulia Zoli Photo editor Giovanna D’Ascenzi (web), Mélissa Jollivet, Maysa Moroni, Rosy Santella (web) Impaginazione Pasquale Cavorsi (caposervizio), Valeria Quadri, Marta Russo Web Giovanni Ansaldo, Annalisa Camilli, Donata Columbro, Francesca Gnetti, Francesco Longo, Stefania Mascetti (caposervizio), Martina Recchiuti (caposervizio), Giuseppe Rizzo Internazionale a Ferrara Luisa Cifolilli Segreteria Teresa Censini, Monica Paolucci, Angelo Sellitto Correzione di bozze Sara Esposito, Lulli Bertini Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Marina Astrologo, Alessia Cerantola, Matteo Colombo, Stefania De Franco, Andrea De Ritis, Andrea Ferrario, Giusy Muzzopappa, Francesca Rossetti, Fabrizio Saulini, Andrea Sparacino, Bruna Tortorella, Nicola Vincenzoni Disegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Luca Bacchini, Francesco Boille, Catherine Cornet, China Files, Sergio Fant, Andrea Ferrario, Anita Joshi, Andrea Pira, Fabio Pusterla, Marc Saghié, Andreana Saint Amour, Francesca Spinelli, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido Vitiello Editore Internazionale spa Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Emanuele Bevilacqua, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo Storto Sede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna Castelli, Alessia Salvitti Concessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editoriale Tel. 06 6953 9313, 06 6953 9312 [email protected] Subconcessionaria Download Pubblicità srl Concessionaria esclusiva per la pubblicità moda e lifestyle Milano Fashion Media srl Stampa Elcograf spa, via Mondadori 15, 37131 Verona Distribuzione Press Di, Segrate (Mi) Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commercialeCondividi allo stesso modo 3.0. Signiica che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per ini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: [email protected]

Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993 Direttore responsabile Giovanni De Mauro Chiuso in redazione alle 20 di mercoledì 17 dicembre 2014 PER ABBONARSI E PER INFORMAZIONI SUL PROPRIO ABBONAMENTO Numero verde 800 156 595 (lun-ven 9.00-19.00), dall’estero +39 041 509 9049 Fax 030 777 23 87 Email [email protected] Online internazionale.it/abbonati LO SHOP DI INTERNAZIONALE Numero verde 800 321 717 (lun-ven 9.00-18.00) Online shop.internazionale.it Fax 06 442 52718 Imbustato in Mater-Bi

The New York Times, Stati Uniti Dopo mesi di negoziati segreti con il governo cubano, il 17 dicembre il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato grandi cambiamenti per normalizzare i rapporti con l’Avana, una mossa coraggiosa che mette ine a uno dei capitoli più oscuri della politica estera statunitense. La decisione di ristabilire relazioni diplomatiche complete, cancellare Cuba dalla lista dei paesi che sostengono il terrorismo e rimuovere le restrizioni sugli spostamenti e il commercio è una svolta che è stata sostenuta con forza dal New York Times. La Casa Bianca sta inaugurando un’era di profondi cambiamenti per milioni di cubani che hanno soferto a causa di oltre cinquant’anni di ostilità tra i due paesi. Obama avrebbe potuto fare dei passi più modesti e graduali verso il disgelo. Invece si è spinto con coraggio ino a dove gli era consentito, nei limiti di un’anacronistica legge del 1996 che impone dure sanzioni contro Cuba per ottenere un cambio di regime. “Questi cinquant’anni hanno dimostrato che l’isolamento non funziona”, ha detto Obama. “È ora di cambiare atteggiamento”. Il presidente cubano Raúl Castro merita di essere lodato per il suo pragmatismo. Anche se Cuba rimane uno stato di polizia repressivo con

un’economia al collasso, da quando lui ha preso il potere nel 2008 il paese ha avviato un processo di riforme economiche che hanno migliorato le condizioni di vita dei cubani. Gli Stati Uniti hanno giustamente premuto per ottenere più libertà personali e una svolta democratica. Ma il loro atteggiamento punitivo è stato largamente controproducente. D’ora in poi il sostegno di Washington alla società civile cubana e ai dissidenti sarà più eicace, anche perché gli altri governi occidentali non potranno più trattare Cuba come una vittima dell’inutile crudeltà statunitense. Come previsto dai negoziati, il governo cubano ha rilasciato un agente dei servizi segreti statunitensi prigioniero da quasi vent’anni e Alan Gross, in carcere all’Avana dal 2009. In cambio gli Stati Uniti hanno liberato tre spie cubane che hanno passato più di tredici anni in prigione. Lo scambio ha spianato la strada per una svolta che potrebbe rivelarsi la più importante eredità lasciata da Obama in politica estera. Il governo ammette che difficilmente nel prossimo futuro il congresso adotterà le misure complementari necessarie a migliorare i rapporti con Cuba. Ma questa mossa inluirà sicuramente sul dibattito riguardo ai meriti del riavvicinamento. Con ogni probabilità la storia darà ragione a Obama. u gac

I rischi del crollo del rublo El País, Spagna L’economia russa va verso il collasso. Il primo sintomo è l’inarrestabile svalutazione del rublo, che la banca centrale ha cercato di frenare aumentando il tasso d’interesse al 17 per cento. Il crollo del rublo è indice di una grave siducia nel futuro dell’economia, e Mosca potrebbe presto afrontare un’inlazione devastante. Il problema non riguarda solo la Russia: le ragioni del crollo del rublo inluiscono sulle valute dei paesi emergenti e minacciano una nuova crisi generale. La causa principale è il petrolio. La costante diminuzione del suo prezzo mette in dubbio la capacità di alcuni paesi produttori come la Russia o il Venezuela di far fronte al loro debito e ai loro impegni commerciali. Con il greggio sotto i 60 dollari al barile e un’economia sotto assedio per le sanzioni dovute alla crisi in Ucraina, la Russia entrerà in una spirale che gli investitori considerano insostenibile. La diminuzione del prezzo del petrolio sta avendo le conseguenze previste: non

ha colpito i paesi che dominano il mercato, come l’Arabia Saudita, né gli Stati Uniti, a cui basterà ridurre il fracking, ma ha efetti devastanti sulle economie emergenti che dipendono dal greggio. La decisione dell’Opec (dominata dai sauditi) di non tagliare la produzione sembra calcolata per danneggiare concorrenti come la Russia, l’Iran o il Venezuela. E il danno è enorme. Il petrolio non è l’unico fattore di crisi. Bisogna anche considerare il probabile cambiamento della politica monetaria statunitense. Quando Washington aumenterà i tassi d’interesse, gli investimenti nelle valute emergenti cominceranno a calare. Non ci sono terapie per eliminare il rischio di una crisi locale. L’aumento dei tassi d’interesse in Russia è una mossa disperata. Finché il mercato non correggerà al rialzo il prezzo del greggio e inché l’impatto della nuova politica monetaria statunitense non sarà assorbito, la minaccia di una crisi inanziaria sarà reale. u fr Internazionale 1082 | 19 settembre 2014

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Pakistan

BILAWAL ArBAB(EPA/ANSA)

Peshawar, Pakistan, 17 dicembre 2014

Il terrore a scuola Ahmed Rashid, Financial Times, Regno Unito I taliban hanno attaccato una scuola uccidendo 141 persone, in gran parte bambini. È una vendetta contro l’ofensiva dell’esercito e un messaggio per chi difende l’istruzione a mattina del 16 dicembre sono cominciate ad arrivare le notizie di un’esplosione a Peshawar. Tutto sommato niente d’insolito: questa città è lo snodo amministrativo ed economico più vicino alle aree tribali dove è in corso la guerra dei taliban contro il governo pachistano, e spesso è stata presa di mira. Inoltre Peshawar ospita una grande base militare. Tuttavia, con il passare dei

L 14

Internazionale 1082 | 19 dicembre 2014

minuti ci si è resi conto della realtà: il bersaglio dell’attacco era una scuola gestita dall’esercito. Per più di un’ora, mentre nell’ediicio proseguiva la sparatoria, il numero delle vittime è rimasto fermo a tre. Ma poi è salito rapidamente e alla ine le persone uccise sono state 141 e i feriti più di duecento. Uno dei peggiori massacri di bambini nella storia del terrorismo islamico. I taliban pachistani hanno rivendicato l’attacco e lo hanno deinito una vendetta contro l’esercito, accusato di aver colpito le loro famiglie. A giugno, con anni di ritardo, l’esercito ha preso di mira le basi dei terroristi nel Waziristan del Nord, la regione montuosa al conine con l’Afghanistan dove si trovano le aree tribali. Ci sono stati pochi scontri sul terreno, ma i caccia F-16 e gli elicotteri hanno bombardato obiettivi consi-

derati dei taliban. L’esercito ha imposto il divieto di divulgare notizie, fornendo ai mezzi d’informazione solo il numero totale delle vittime. Sembra che i morti inora siano più di 1.200, ma non si sa se sono pachistani o stranieri appartenenti a gruppi tribali, e i dati sulle vittime civili, che devono essere molte, non vengono pubblicati.

“Chi ci ha colpito deve sofrire” L’operazione nel Waziristan del Nord ha inasprito le divisioni tra le opposte fazioni dei taliban pachistani, che hanno dato vita a gruppi autonomi. Inevitabilmente, però, ha contribuito ad alimentare risentimento e rabbia. “Abbiamo scelto di attaccare la scuola dell’esercito perché il governo sta prendendo di mira le nostre famiglie e le nostre donne”, ha dichiarato il portavoce dei taliban Muhammad Umar Khorasani. “Chi ci ha colpito deve sofrire”. Quale messaggio volevano mandare gli attentatori suicidi? In primo luogo, volevano vendicare le morti subite per mano dell’esercito e, attaccando i figli dei soldati, provocare un trauma profondo e duraturo. Prendendo di mira una scuola, forse hanno voluto mandare anche un altro messaggio cruento a

Malala Yousafzai e ai suoi sostenitori: la ra­ gazza pachistana che ha vinto il premio No­ bel per la pace per la sua lotta a favore dell’istruzione femminile è diventata il sim­ bolo di tutto ciò che i taliban odiano. Il terzo messaggio è per la comunità internaziona­ le: l’ofensiva dei taliban afgani in corso a Kabul e in altre regioni dell’Afghanistan og­ gi è accompagnata da operazioni simili in Pakistan. La tragedia del Pakistan è che non esiste una posizione condivisa da governo, oppo­ sizione ed esercito su come combattere l’estremismo. A febbraio Imran Khan, il lea­ der del partito Pakistan Tehreek­e­Insaf, all’opposizione, si è detto contrario all’ope­ razione nel Waziristan del Nord, sostenen­ do che “la cosa migliore sarebbe il dialogo”. Eppure l’ofensiva dell’esercito è arrivata con anni di ritardo in cui il primo ministro Nawaz Sharif ha cercato di negoziare con i taliban. Il Pakistan, uno dei cinque paesi più colpiti dal terrorismo, ha un bisogno dispe­ rato di trovare una voce unitaria nella sua lotta contro la militanza islamista. u gim

L’opinione

Il governo senza un piano Dawn, Pakistan Bisogna aggredire le radici ideologiche dell’integralismo islamico violento, scrive il quotidiano pachistano

L’

Ahmed Rashid è un giornalista pachistano. In Italia ha pubblicato Pericolo Pakistan (Feltrinelli 2013).

Da sapere

Una crociata lunga dieci anni 200 km

AFGHANISTAN Kabul

Waziristan del Nord

Khyber Pakhtunkhwa Peshawar

Islamabad Miranshah

INDIA

Lahore Quetta

PA K I S TA N u Il massacro di Peshawar è il culmine di una crociata decennale degli islamisti radicali contro le scuole nelle aree tribali pachistane. Secondo la Global coalition to protect education from attack, tra il 2009 e il 2012 nel paese ci sono stati circa 900 attentati contro le scuole. Secondo il rapporto del 2014 dell’International crisis group sull’istruzione in Pakistan, più di 9 milioni di bambini pachistani non ricevono né l’istruzione primaria né quella secondaria. Con il 22 per cento di bambini che non frequentano la scuola, il Pakistan è il paese con il più alto tasso di abbandono scolastico. Foreign Policy

attacco alla scuola di Pesha­ war è stato così spaventoso e sconvolgente che la mente fa­ tica a comprenderlo. Alunni indifesi uccisi in modo sistematico e implaca­ bile da militanti armati decisi a farne fuori il maggior numero nel minor tempo possibile. Sotto gli sguardi sconvolti dell’intero paese il conto del­ le vittime cresceva di minuto in minu­ to. Prima pochi cadaveri, bambini morti con indosso uniformi insangui­ nate, poi altri cadaveri e altri ancora, inché il numero non è diventato tal­ mente alto che perino tenere il conto sembrava un atto ofensivo. Alla ine 141 persone sono rimaste uccise. Non è la prima volta che Peshawar viene colpita, ma nulla è paragonabile all’orrore di quello che è successo nel­ la scuola dell’esercito a Warsak road. I taliban hanno centrato l’unico obietti­ vo in grado di catalizzare tutte le paure del Pakistan: bambini in una scuola, vulnerabili e indifesi. Il paese ci mette­ rà molto tempo per riprendersi da que­ sto lutto. Perino in una società in cui la violenza è endemica e gli attacchi dei terroristi in troppo comuni, la por­ tata dell’attacco di Peshawar richiede una risposta straordinaria da parte di tutti i settori dello stato e della società. Le scuole sono per deinizione vul­ nerabili, il compromesso tra sicurezza e accessibilità le rende obiettivi piutto­ sto facili da colpire. Ma questa vulne­ rabilità non dovrebbe permettere che avvengano disastri di queste propor­ zioni. Dov’erano i servizi segreti? L’esercito ha enfatizzato le cosiddette “operazioni basate sull’intelligence” condotte contro i taliban negli ultimi

Punjab

mesi, ma questo attacco rappresenta un enorme fallimento dei servizi se­ greti: la città e il quartiere dove è avve­ nuto l’attentato avrebbero dovuto es­ sere in cima alla lista dei luoghi da proteggere. Poi c’è la questione della reazione all’attacco. I suoi tempi fanno pensare che non ci fosse un piano di soccorso già pronto, anche se si trattava di una scuola dell’esercito, quindi esposta a rischi maggiori. Erano state fatte delle esercitazioni per insegnare ai bambini cosa fare in caso di un attentato? Chi era responsabile dell’elaborazione di questi piani? E soprattutto: si indivi­ dueranno gli errori, si attribuiranno le responsabilità e si modiicheranno di conseguenza i piani di difesa per il fu­ turo? Le domande sono sempre le stesse, ma diicilmente le risposte ar­ riveranno in tempi brevi. Inine, cosa dire della volontà e della capacità del­ lo stato di combattere gli islamisti? Le promesse fatte dalle autorità subito dopo un attacco sono inconsistenti. Da attentati così brutali può nascere la volontà di combattere, ma non una ve­ ra e propria strategia. Se il governo non agirà per aggredire le radici ideo­ logiche dell’integralismo islamico vio­ lento e limitare il suo raggio d’azione, le operazioni militari nella aree tribali e quelle contro il terrorismo nelle città non saranno altro che scontri a fuoco senza conseguenze durature. Inoltre l’integralismo islamico non può essere sconitto solo a livello na­ zionale. È un problema regionale, e inché non sarà afrontato in questi termini ci sarà solo un lusso e rilusso della militanza, in cicli destinati a ripe­ tersi. Forse sarebbe un buon punto di partenza se lo stato ammettesse di non avere ancora una strategia per combattere il terrorismo islamico nel suo complesso. Continuare a negarlo porterà solo ad altre atrocità. u gim Internazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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Pakistan La ferocia di un gruppo sotto pressione Jason Burke, The Guardian, Regno Unito I taliban pachistani forse stanno cercando di dimostrare la loro eicienza dopo le recenti defezioni e l’ofensiva lanciata dall’esercito a giugno, scrive Jason Burke nche se sono uno dei gruppi islamisti più provinciali, i taliban pachistani, o Tehrik-e-Taliban Pakistan (Ttp), spesso riescono a catturare l’attenzione di tutto il mondo. Il movimento è stato creato nel 2007 per uniicare una costellazione eterogenea di gruppi estremisti locali nelle aree impervie e irrequiete lungo il conine tra Pakistan e Afghanistan. Ha usato gran parte del suo tempo e delle sue energie per afrontare i suoi rivali interni e per mantenere un dominio spietato sulle enclave che è riuscito a ritagliarsi nel corso degli anni. Ha inoltre combattuto contro le forze di sicurezza pachistane e ha lanciato una serie di attacchi terroristici sempre più audaci e cruenti fuori dalle aree di conine. Solo una volta il movimento è stato collegato a un attacco globale: un piano per mettere una bomba a Times square a New York. L’attentato alla scuola di Peshawar, che ha ucciso almeno 141 persone, tra cui 132 bambini, rappresenta un colpo andato a segno su tutti i fronti locali, ed è inoltre servito a catturare l’attenzione mondiale, anche se questa non era probabilmente una priorità. Negli ultimi mesi il Ttp è stato sottoposto a forti pressioni. Una serie di divisioni interne ha causato l’allontanamento di fazioni importanti. La più importante, formata da esponenti della potente tribù Mehsud, è uscita dal gruppo. Altre hanno riiutato la violenza brutale che da tempo è il tratto distintivo del movimento. Mohammed Khurasani, il portavoce che ha rivendicato l’attentato di Peshawar, ricopre questo incarico solo da poche settimane. Il suo predecessore se n’è andato per unirsi a una fazione fe-

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dele al gruppo Stato islamico. Funzionari ed esperti di sicurezza sanno che quando i gruppi si frammentano e la leadership è contestata, gli attacchi diventano spesso più estremi perché i singoli comandanti e i loro seguaci vogliono dimostrare di essere i più eicaci e temerari. La violenza, perino quella diretta contro obiettivi come le scuole, serve anche a raforzare un’autorità sempre più debole nelle enclave dove i militanti islamisti hanno le loro basi. Lo stesso vale per il ricorso a più attentatori suicidi, sette in questo caso. La tattica, per quanto comune, resta comunque un modo efficace di incutere terrore.

Dimostrazione di forza A giugno l’esercito pachistano è inalmente passato all’azione nelle aree tribali nel Waziristan del Nord, roccaforte di decine di gruppi che minacciano obiettivi locali, regionali e internazionali. L’offensiva era considerata il culmine delle campagne condotte per anni nelle aree di conine contro i militanti islamisti. Si stima che più di mille taliban siano stati uccisi in questa nuova campagna, e con loro anche molti civili. Poco prima il Ttp, che è presente nella maggior parte delle città, aveva colpito l’aeroporto internazionale di Karachi, città portuale e capitale commerciale del paese, e più di recente ha compiuto un attentato durante una cerimonia istituzionale al conine con l’India, rivendicato da un’ala scissionista. L’attacco alla scuola è avvenuto a 30 chilometri dal conine occidentale. Il Ttp vuole forse dimostrare di poter colpire in tutto il Pakistan? Forse. Khurasani, il portavoce del gruppo, ha detto solo che l’operazione era una vendetta per i bambini uccisi nell’ofensiva dell’esercito. Le scuole, tuttavia, sono da tempo un obiettivo. I militanti islamisti di diverse fazioni ne hanno distrutte più di mille negli ultimi cinque anni nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa. Gli istituti simboleggiano l’autorità del governo e sono ritenute “non islamici”. Quello colpito si trova ai margini di un “quartiere” militare a Pesha-

war, la capitale della provincia, e inevitabilmente molti dei suoi studenti sono igli di militari. È un obiettivo facile con un impatto psicologico fortissimo. Sullo sfondo c’è la continua lotta per il potere che in Pakistan contrappone i generali dell’esercito al governo civile. Il primo ministro Nawaz Sharif e il comandante dell’esercito Raheel Sharif sono entrambi volati a Peshawar, ma separatamente. Entrambi hanno dichiarato di voler controllare le operazioni di persona.

Sospetto reciproco L’atteggiamento oscillante che il Pakistan mostra di avere verso i militanti islamisti è motivo di costante preoccupazione a Washington e altrove. Kabul e New Delhi hanno spesso accusato Islamabad di dare rifugio ai responsabili di attentati compiuti in Afghanistan e in India. All’inizio di dicembre il governo pachistano ha messo a disposizione dei treni speciali per i seguaci di Lashkar-e-Taiba, il gruppo responsabile dell’attentato del 2008 a Mumbai, diretti a un’assemblea. La decisione ha suscitato le ire di New Delhi. Il gruppo è anche accusato di un attacco sferrato all’inizio dell’anno a Herat, nell’Afghanistan occidentale. La leadership taliban afgana e altri gruppi ribelli hanno a lungo operato dal Pakistan. I funzionari di Islamabad respingono le accuse e spesso, lontano dai microfoni, denunciano i loro vicini per le violenze in territorio pachistano. Il leader del Ttp, Mullah Fazlullah, potrebbe trovarsi nell’Afghanistan nordorientale, e alcuni funzionari degli apparati di sicurezza pachistani sono convinti che l’India sostenga le sue attività. Sia il primo ministro indiano Narendra Modi sia il nuovo presidente afgano Ashraf Ghani hanno condannato l’attacco di Peshawar. Nonostante le dimostrazioni di solidarietà di circostanza, i livelli di sospetto reciproco in tutta la regione rendono difficile immaginare un miglioramento nei rapporti fra i tre paesi. Pochi credono che il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan sarà d’aiuto, mentre molti temono un ritorno dei miliziani prima impegnati nel conlitto, che presto saranno alla ricerca di nuovi obiettivi. Sotto il tiro incrociato in questo vortice di violenza e politica ci sono i bambini. u gim Jason Burke è il corrispondente del Guardian dall’Asia meridionale. Il suo ultimo libro è The 9/11 wars (Penguin 2011).

Asia e Paciico Giappone

New Delhi, 11 dicembre 2014

honG konG

sgombero inale

AhMAd MASood (ReuTeRS/CoNTRASTo)

Il vero obiettivo di Abe

Il 15 dicembre gli ultimi accampamenti del movimento occupy central sono stati sgomberati dalla polizia di hong Kong. La rimozione dei presidi a Causeway Bay segna la ine del movimento per il sufragio universale. Le proteste contro l’imposizione di candidati alla carica di governatore approvati da Pechino, alle quali si sono mescolate rivendicazioni sociali ed economiche, sono durate più di due mesi. “Gli ottanta giorni del movimento degli ombrelli hanno illuminato i cittadini, dobbiamo essere orgogliosi e pronti a lavorare per il futuro”, scrive Apple Daily, il quotidiano vicino al movimento. “Pechino non riuscirà a farci il lavaggio del cervello e farci digerire la riforma elettorale”.

Shinzō Abe, Tokyo, 15 dicembre 2014

L’11 dicembre a New delhi il premier indiano Narendra Modi e il presidente russo Vladimir Putin hanno irmato venti accordi sull’energia e la difesa. La Russia realizzerà in India dieci reattori nucleari, venderà a New delhi elicotteri e altri mezzi militari e, attraverso la compagnia petrolifera Rosneft, fornirà 200mila barili di greggio all’anno. I due paesi, inoltre, investiranno un miliardo di dollari nell’energia idroelettrica. Sempre più isolata dall’occidente, scrive The Hindu, Mosca cerca nuovi mercati in Asia, ma l’intesa con l’India “sarà messa alla prova” dal riavvicinamento di New delhi a Washington.

srI lAnkA

Un rivale per rajapaksa “Il piano del presidente Mahinda Rajapaksa di ottenere un terzo mandato nelle presidenziali dell’8 gennaio sta incontrando un ostacolo imprevisto”, scrive The Diplomat. Il 21 novembre il ministro della sanità Maithripala Sirisena ha lasciato il partito di Rajapaksa diventando il candidato dell’opposizione. “La candidatura di Sirisena è un capolavoro politico, perché è in grado di raccogliere consensi sia tra gli elettori delusi da Rajapaksa sia tra le minoranze etniche, che rappresentano il 30 per cento della popolazione”.

Alle elezioni anticipate del 14 dicembre il Partito liberaldemocratico del primo ministro Shinzō Abe ha vinto ottenendo, insieme al suo partner di coalizione, il New Komeitō, 326 seggi su 475 alla camera bassa. Il risultato è stato di poco inferiore alle aspettative (i sondaggi assegnavano alla coalizione 300 seggi), mentre l’aluenza alle urne ha toccato il minimo storico del dopoguerra superando di poco il 52 per cento. Il Partito democratico, che guida l’opposizione, è passato da 57 a 73 seggi. La coalizione di maggioranza mantiene così un’ampia libertà d’azione in parlamento. A novembre Abe ha indetto le elezioni con due anni di anticipo chiedendo ai cittadini di valutare l’Abenomics, la strategia per risollevare l’economia avviata dal governo un anno e mezzo fa. La decisione è arrivata poco dopo la notizia che il Giappone è tornato tecnicamente in recessione, anche a causa dell’aumento dell’imposta sui consumi dal 3 al 5 per cento decisa lo scorso aprile. Contemporaneamente il premier ha posticipato all’aprile del 2017 il secondo aumento dell’iva, previsto inizialmente per l’ottobre del 2015. L’economia, quindi, sembrava essere il tema centrale su cui i cittadini erano chiamati a esprimersi. A urne chiuse, però, “Abe ha svelato il suo vero obiettivo e ha parlato di revisione della costituzione paciista”, scrive sull’Asahi Shimbun Satoshi Kamata, giornalista famoso per aver denunciato negli anni settanta le condizioni di lavoro nelle fabbriche della Toyota. “Inoltre, anche se il 60 per cento dei giapponesi è contrario alla riattivazione dei reattori nucleari, il governo sembra non preoccuparsene. La vittoria ha generato la sensazione che chi vince ha carta bianca e questo indubbiamente si tradurrà in un atteggiamento autoritario da parte della maggioranza”, conclude Kamata. u

Sydney, 15 dicembre 2014

JASoN Reed (ReuTeRS/CoNTRASTo)

dieci reattori da Mosca

JASoN Reed (ReuTeRS/CoNTRASTo)

IndIA

In breve

Australia Il sequestro di decine di persone in un cafè di Sydney si è concluso nella notte tra il 15 e il 16 dicembre con la morte dell’autore dell’attacco e di due ostaggi in un’operazione della polizia. L’attentatore, Man haron Monis, 50 anni, era un militante islamico radicale di origine iraniana. Il primo ministro Tony Abbott ha annunciato l’apertura di un’inchiesta. Afghanistan Il 13 dicembre i ribelli taliban hanno lanciato una serie di attacchi a Kabul e nella provincia di helmand, nel sud del paese, che hanno causato la morte di 19 persone.

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Europa

KAyHAN OZER (AP/LAPRESSE)

Erdoğan (al centro) a Kocaeli, in Turchia, il 15 dicembre 2014

La Turchia di Erdoğan dà la caccia ai giornalisti Mustafa Akyol, Al Monitor, Stati Uniti Gli arresti del 14 dicembre si inseriscono in una complessa battaglia tra i seguaci del predicatore Fethullah Gülen e il presidente. Ma sono un grave passo indietro per il paese l 14 dicembre la Turchia si è svegliata con la notizia dell’arresto di 23 persone, tra cui alcuni importanti giornalisti e funzionari di polizia. Tra i fermati ci sono Ekrem Dumanlı, il direttore di Zaman, il più popolare quotidiano turco, e Hidayet Karaca, a capo dell’emittente tv Samanyolu (Stv). Tutti gli arrestati sono legati al movimento del predicatore islamico Fethullah Gülen, un tempo il miglior alleato del presidente Recep Tayyip Erdoğan e oggi il suo peggior nemico. Gli arresti hanno fatto particolarmente discutere perché erano stati annunciati da un tweet di Fuat Avni, un misterioso utente di Twitter che sostiene di essersi iniltrato nelle alte sfere del governo. L’11 dicembre, tre giorni prima del blitz, Fuat Avni, che ha 629mila follower, aveva scritto che “il tiranno” (cioè Erdoğan) aveva ordinato un nuo-

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vo giro di vite contro i mezzi d’informazione dell’opposizione e che presto sarebbero stati arrestati 150 giornalisti. All’alba del 14 dicembre le sue previsioni si sono avverate: la polizia ha arrestato Dumanlı mentre la folla che si era radunata davanti alla sede del giornale inneggiava alla libertà di stampa. Almeno inora, tuttavia, il giro di vite ha colpito meno giornalisti del previsto.

Vittime o carneici I fermati, tra cui anche alcuni produttori tv, sono accusati di aver partecipato a un’operazione contro il gruppo islamista Tahsiyeciler. Secondo alcuni, il movimento di Gülen considera questo gruppo un nemico o un rivale. I tahsiyeciler, letteralmente “gli annotatori”, sono una piccola comunità che dichiara di seguire gli insegnamenti dello studioso dell’islam Said Nursi (1878-1960). Tuttavia, mi ha spiegato un esperto della setta, “hanno posizioni più radicali di quelle del loro maestro: riiutano la democrazia e chiedono l’instaurazione dello stato islamico”. Secondo l’esperto non hanno mai usato la violenza, ma nel 2010 il loro leader, Mehmet Doğan, e altri dieci ailiati erano stati arrestati in un’operazione contro Al Qaeda in Turchia. Doğan ha passato 17 me-

si in prigione prima di essere rilasciato. Sulle bombe a mano trovate a casa sua c’erano le impronte digitali degli agenti. La polizia ha afermato che durante la perquisizione gli agenti non avevano indossato i guanti, ma i sospettati hanno sostenuto che le bombe erano state portate dai poliziotti per incastrarli. Ad agosto del 2014 alcuni membri del gruppo, convinti di essere vittime di un complotto, hanno sporto denuncia contro una “struttura parallela” composta da uomini vicini a Gülen e da una parte della magistratura. Contro la stessa struttura si è pronunciato anche Erdoğan. Il 14 dicembre, inine, sono arrivati gli arresti, basati proprio su queste denunce. I poliziotti fermati sono accusati di aver complottato contro i tahsiyeciler nascondendo armi nelle loro case. Ma cosa c’entrano i giornalisti? Qui la situazione si complica. Sono ritenuti responsabili di una campagna di difamazione contro Tahsiyeciler. Alcuni sono perino accusati di aver descritto il gruppo, in una serie tv trasmessa dalla Stv, come un’organizzazione terroristica controllata da una banda di criminali che vuole destabilizzare il paese. Secondo l’accusa, i seguaci di Gülen tra i giornalisti e le forze di polizia avrebbero collaborato al complotto. È la stessa logica usata dai mezzi d’informazione vicini a Gülen e al partito di Erdoğan, l’Akp, nella fase in cui erano alleati, per giustiicare l’arresto di giornalisti laici accusati di essere al soldo dei militari. Il movimento di Gülen, insomma, oggi protesta contro gli stessi abusi di cui è stato responsabile qualche anno fa. A questo punto resta da vedere se i giornalisti fermati rimarranno in carcere ino al processo, come nel caso degli arresti per il presunto golpe Balyoz (martello) tra il 2007 e il 2011. Il paese vivrebbe lo stesso incubo, a parti invertite: questa volta le vittime sarebbero i giornalisti vicini a Gülen che allora esultarono per l’arresto dei “collaboratori dei golpisti”. Il governo, intanto, ha ammesso che l’operazione del 14 dicembre fa parte di una “caccia alle streghe” che va considerata necessaria. Poi ha assicurato che questa sarà “l’ultima battaglia” per arrivare alla vera democrazia: sarà, insomma, la caccia alle streghe inale. Molti, tuttavia, temono che possa essere l’inizio di una deriva autoritaria basata su una battaglia ininita ai presunti traditori dello stato. u bt Mustafa Akyol è un giornalista turco. Scrive per Hürriyet Daily News e il New York Times.

Europa Il petrolio e i conlitti nella strategia di Putin Kirill Rogov, Financial Times, Regno Unito Il presidente russo ha costruito il suo successo sul patriottismo e sugli enormi proitti garantiti dalle risorse naturali. Un sistema che il crollo del prezzo del greggio sta mettendo in crisi urante la sua permanenza al Cremlino il presidente russo Vladimir Putin ha potuto contare su due punti di forza: l’alto prezzo del petrolio e il patriottismo che è riuscito ad alimentare scatenando conlitti regionali. Ma il prezzo del petrolio sta crollando. E non è detto che a Putin basterà aidarsi alla mobilitazione patriottica dei russi. Nell’ultimo decennio ci sono state due fasi in cui il prezzo del petrolio è stato particolarmente alto: la prima è inita nel 2008 con la crisi inanziaria e la seconda è cominciata tre anni dopo. Ma è già terminata: a metà dicembre il petrolio è sceso sotto i 60 dollari al barile contro i 105 dollari di giugno. L’ultimo calo dei prezzi è molto pericoloso per Putin. Da quando è diventato presidente, nel 2000, lo stato ha raforzato il controllo su gas e petrolio e ha aumentato la

I tre presupposti Ma il secondo boom petrolifero non si è tradotto con la stessa facilità in un vantaggio per l’economia. Nel 2012 e nel 2013, con i prezzi spesso oltre i cento dollari al barile, l’economia è stata vicina alla stagnazione. La scarsità di investimenti ha portato a un aumento dei costi, i consumi sono diminuiti ed è diventato necessario distribuire i proventi del petrolio attraverso elargizioni statali. All’inizio degli anni duemila la spesa pubblica era aumentata di oltre un quarto rispetto al decennio precedente ed era destinata per la maggior parte all’assistenza sociale, alle pensioni, agli stipendi pubblici e all’apparato militare. Un sistema simile è

ANDrEy rUDAkoV (BLooMBErg/gEtty IMAgES)

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sua presenza nel settore inanziario. Le nazionalizzazioni hanno provocato il blocco degli investimenti. Non è una novità. Nei paesi ricchi di risorse naturali i cittadini di solito sono favorevoli alle nazionalizzazioni. Ma si aspettano anche dei beneici diretti. Nei primi anni della presidenza di Putin in efetti i russi erano soddisfatti. Le abbondanti entrate petrolifere avevano fatto crescere i consumi, stimolando la crescita. La maggior parte del denaro era distribuita attraverso i canali del mercato.

Una raineria della Lukoil a Nižnij Novgorod, in Russia, il 4 dicembre 2014

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spesso deinito “nazionalismo delle risorse energetiche” ed è un fenomeno già visto altrove: nell’Iraq di Saddam Hussein o nel Venezuela di Hugo Chávez. I politici che seguono questa strategia di solito si proclamano leader regionali e alimentano tensioni con i paesi vicini per favorire una mobilitazione patriottica. Conlitti simili sono una fonte di legittimazione interna, ofrono alibi per la repressione e alimentano il nazionalismo. I loro obiettivi dichiarati sono irrilevanti, l’importante è che lo scontro duri a lungo. In questa prospettiva, anche le guerre più assurde appaiono razionali nonostante i costi che comportano. La transizione da un autoritarismo morbido a un regime totalitario dipende da tre presupposti: sostegno popolare, acquiescenza delle élite e un’economia che non si deteriora troppo in fretta. In questo momento il sostegno popolare è la carta più forte di cui dispone Putin. Dopo un periodo di diicoltà, a giugno la sua popolarità tra i russi ha raggiunto l’85 per cento. Ma si potrebbe trattare di un dato ingannevole: in un clima autoritario è lecito dubitare di queste cifre. Il dibattito pubblico avviene nell’ombra e i sondaggi ofrono solo un’immagine distorta. Anche se i sentimenti antioccidentali si stanno intensiicando, oggi lo stile di vita dei russi è occidentalizzato come mai in passato. Lo conferma il fatto che due anni fa decine di migliaia di persone sono scese in piazza a Mosca per chiedere la modernizzazione del paese. Per quanto riguarda le élite, anche loro sembrano indebolite di fronte alla popolarità di Putin. Ma è l’economia, colpita contemporaneamente dalle sanzioni occidentali e dal calo del prezzo del petrolio, la minaccia più seria per il presidente. La creazione di istituzioni repressive non è ancora stata completata e il paese non è suicientemente chiuso. Con l’economia che afonda, il Cremlino esita, incerto se spingere verso un’escalation dello scontro con l’occidente o se mostrarsi più arrendevole. Ma la logica del “nazionalismo delle risorse” non prevede passi indietro. E un regime che non abbandona il controllo delle sue ricchezze naturali non può creare prosperità. Perciò Putin oggi deve puntare sul patriottismo del suo popolo. Una mossa che aggraverà il conlitto con l’occidente. u af Kirill Rogov è un giornalista e analista politico russo. Lavora all’Istituto Gaidar per l’economia politica di Mosca.

Belgio

russia

il rublo in picchiata

Gennaio=100 120 foNTE: ThE wAShINGToN PoST

Rublo 80 60 40 Lug

Set

Dic 2014

“Sciopero generale, blocco totale”, titola Le Soir il 15 dicembre in occasione dell’agitazione che ha paralizzato il paese per ventiquattr’ore, la seconda da quando si è insediato il governo liberalconservatore di Charles Michel, a inizio ottobre. “Aeroporti chiusi, treni, tram e autobus fermi, le porte di scuole e asili nido sbarrate, ospedali che fanno il minimo indispensabile. Numerose imprese bloccate perché i dipendenti non sono potuti andare al lavoro o perché dei picchetti ne bloccano l’ingresso”: così il quotidiano di Bruxelles racconta lo sciopero. L’obiettivo della protesta dei sindacati è il piano di austerità da 11 miliardi di euro proposto del governo di Michel, che prevede tagli ai servizi pubblici, alla cultura e ai trasporti, l’innalzamento dell’età pensionabile da 65 a 67 anni e la ine dell’adeguamento automatico degli stipendi all’inlazione, quella che un tempo in Italia si chiamava scala mobile. Secondo Le Soir, in una situazione così complessa Michel “ha un’occasione unica per acquisire la statura di leader al di sopra delle parti. Per questo deve porre ine allo scambio di invettive” tra i suoi ministri e le parti sociali “e proporre un compromesso”. ◆

ucraina

in cerca di un accordo Il cessate il fuoco nell’est dell’Ucraina sembra tenere non solo sulla carta, ma anche sul campo. Per la prima volta dalla irma della tregua di Minsk a inizio settembre, per cinque giorni di ila non ci sono stati morti. Gli sforzi per trovare una soluzione proseguono anche a livello diplomatico, ma per il momento non sembrano esserci sbocchi concreti. Come scrive Kommersant, il 14 dicembre il segretario di stato americano John Kerry e il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov si sono incontrati a Roma (nella foto) “per discutere degli ostacoli che hanno impedito al gruppo di contat-

to per il Donbass di riprendere le trattative. Alla vigilia della riunione, tuttavia, il senato americano ha approvato una legge che autorizza la fornitura di aiuti militari ed economici a Kiev”. Ad aumentare le tensioni, scrive il sito ucraino Insider, nei giorni successivi è arrivata una dichiarazione di Lavrov secondo cui “Mosca potrebbe dislocare in Crimea testate nucleari”.

in Breve

EVAN VUCCI (REUTERS/CoNTRASTo)

Petrolio 100

Google News Spagna ha interrotto le attività il 16 dicembre: le pubblicazioni degli editori spagnoli non compaiono più sulla pagina delle notizie del motore di ricerca. La decisione è stata presa per protestare “contro la nuova legge sulla proprietà intellettuale, che impone agli aggregatori di notizie di pagare un compenso agli editori per i contenuti indicizzati”, spiega Público. La Spagna diventa così “il primo paese del mondo dove Google chiude i suoi servizi di notizie”. Intanto, l’associazione degli editori, che si era battuta per l’approvazione della legge, ha espresso le sue riserve sulla scelta di Google, destinata ad “avere un impatto negativo sugli spagnoli e sull’economia del paese”.

Le Soir, Belgio

hANNIBAL hANSChKE (REUTERS/CoNTRASTo)

Variazione del prezzo del petrolio e del tasso di cambio rublo/dollaro

Mag

Madrid sida google

contro l’austerità

“Per i mercati internazionali il rublo vale tanto quanto il regime di Vladimir Putin. Ingannare gli elettori è possibile, ma non è possibile ingannare il mercato”. Così Julija Latynina commenta su Novaja Gazeta il tracollo della moneta russa, che il 16 dicembre ha perso il 20 per cento del suo valore in poche ore, arrivando a toccare quota 100 sull’euro e 80 sul dollaro. Anche se il tasso di cambio è poi leggermente risalito, dall’inizio del 2014 il rublo ha perso in totale quasi il 50 per cento del valore. La decisione della banca centrale russa di alzare il tasso d’interesse dal 10,5 al 17 per cento per ora non sembra aver arginato il tracollo. Tra le sue cause ci sono le sanzioni occidentali, la fuga di capitali, ma soprattutto il basso prezzo del petrolio, sceso ormai sotto i sessanta dollari al barile contro i circa cento del 2013. Tuttavia, secondo il sito Slon, molto critico verso il Cremlino, le ragioni della debolezza dell’economia russa vanno cercate anche nelle scelte politiche del presidente Putin: “Non solo l’economia, ma anche la valuta del nostro paese sono un’emanazione di Putin. E in questo momento il sistema capitalista mondiale non ha nessuna iducia nel leader russo. È questo il problema di ogni regime autoritario: tutto dipende non tanto dal valore del paese o dal potenziale della sua economia, ma dalla reputazione dei suoi autocrati”.

Gen 2014

spagna

Germania Il 15 dicembre 15mila persone hanno partecipato a un corteo a Dresda (nella foto) per denunciare “l’islamizzazione dell’occidente”. Croazia Il 28 dicembre si svolgeranno le elezioni presidenziali. Kolinda Grabar-Kitarović, del partito hdz (destra), sarà la principale sidante del presidente uscente Ivo Josipović (centro). Grecia Il 17 dicembre il parlamento non è riuscito a eleggere il nuovo presidente del paese. Il candidato governativo Stavros Dimas non ha ottenuto la maggioranza dei due terzi. Il secondo turno si terrà il 23 dicembre.

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Attualità

AFP/GETTy ImAGES

Los Angeles, 11 dicembre 2014. Alla prima del ilm The interview, prodotto dalla Sony

Furto senza precedenti alla Sony Pictures Michaël Szadkowski, Le Monde, Francia Un gruppo di pirati informatici ha rubato migliaia di documenti riservati del gigante di Hollywood, tra cui le copie e le sceneggiature di alcuni ilm inediti mmaginate che tutti i dati – o quasi – archiviati sul vostro computer al la­ voro o nei dischi rigidi e nei server della vostra azienda siano presi e resi accessibili a chiunque. Questa è la situazio­ ne in cui si trovano oggi migliaia di dipen­ denti e i dirigenti della Sony Pictures Enter­ tainment, il gigante dell’industria hollywoodiana che ha prodotto successi come Spider man, Breaking bad o Godzilla.

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Cos’è successo? Il 24 novembre, appena ar­ rivati in uicio, i dipendenti della Sony Pic­ tures hanno scoperto di essere stati attac­ cati. Sullo schermo dei loro computer è comparso un messaggio accompagnato da uno scheletro che esibiva una smoria dia­ bolica: “Abbiamo preso tutti i vostri dati interni, comprese le informazioni riservate e le password. Questo è solo l’inizio. Se non obbedite, faremo vedere questi dati a tutto il mondo”. I dipendenti si sono resi subito conto che il sistema informatico della Sony Pic­ tures, sia nella sede centrale di Los Angeles sia nelle sedi internazionali, era stato ma­ nomesso, diventando parzialmente inuti­ lizzabile. “Non abbiamo più accesso alle email interne e all’intranet. Facciamo tutto a mano”, ha spiegato una settimana dopo

l’attacco Eric Brune, direttore generale del­ la Sony Pictures France. Nei giorni succes­ sivi i pirati hanno cominciato a difondere i “dati interni” della Sony Pictures. Prima sono apparse le copie pirata di quattro pel­ licole inedite, con una qualità paragonabile a quella di un dvd. Tra queste Annie, un ilm per famiglie con Cameron Diaz e Jamie Fo­ xx. L’uscita nei cinema è prevista per le va­ canze di Natale, ma il ilm è già stato scari­ cato decine di migliaia di volte. Ancora più grave è stata la pubblicazio­ ne su internet degli archivi contenenti mol­ tissimi documenti interni. La quantità di ile difusi (quasi 200 gigabyte, cioè centi­ naia di migliaia di documenti in formato word, excel, pdf, powerpoint, outlook) e il loro carattere strettamente riservato (docu­ menti legali, informazioni sul personale, piani di marketing, sceneggiature di ilm inediti, trattative in corso, email private) conferiscono a quest’atto di pirateria infor­ matica un carattere inedito: si tratta del più importante furto di dati nei confronti di un’azienda. E forse non è inita qui. I pirati, infatti, hanno detto di aver rubato quasi cento terabyte di documenti (l’equivalente di più di 21.780 dvd).

Quali sono i rischi per la Sony Pictures? La direzione ha cercato di rassicurare i dipendenti sulla divulgazione in rete di gran parte dei dati interni. “Abbiamo degli esperti che si stanno occupando del problema”, ha scritto l’amministratore delegato Michael Lynton in una circolare interna. “Tutti sono nel panico e non sanno cosa fare”, ha replicato anonimamente uno dei settemila lavoratori della sede di Culver City. Alcuni ex dipendenti stanno già pensando a una causa collettiva per l’evidente inadeguatezza dei sistemi di sicurezza. “Tutti siamo preoccupati per la nostra vita privata e per le nostre famiglie”, ha dichiarato uno di loro a Fox News dopo aver visto su internet il suo passaporto, il suo visto e i dati della previdenza sociale. In efetti le persone coinvolte direttamente in questa fuga di informazioni (con numeri di telefono e di carta di credito, password, buste paga, fatture mediche) sono tante. La Sony Pictures conservava sui computer molti documenti, talvolta riservati, legati alle riprese dei suoi ilm e delle iction, oltre che alla loro distribuzione e al loro sfruttamento commerciale. Tutti documenti che hanno un valore inestimabile per la concorrenza e sono una miniera d’oro per i mezzi d’informazione, che possono entrare così dietro le quinte dell’industria del cinema statunitense. Uno dei primi documenti ripresi dalla stampa fornisce in dettaglio le retribuzioni dei 17 dipendenti più pagati dall’azienda, a cominciare da Lynton (che guadagna tre milioni di dollari all’anno). Tra i ile ci sono anche diversi mesi di conversazioni via email tra i principali dirigenti e i commenti spesso molto critici sulle star (come Angelina Jolie e il suo “ego devastante”) o sul presidente statunitense Barack Obama, e numerose considerazioni strategiche.

Attacco soisticato Chi sono i responsabili? Per ora il mistero rimane. Sono pirati informatici professionisti che hanno saputo sfruttare al meglio i punti deboli del sistema informatico della Sony. L’agente dell’Fbi incaricato dell’inchiesta ha confermato il “livello tecnologico molto soisticato” dell’attacco. I messaggi che lo rivendicano e che accompagnano la pubblicazione dei dati su internet sono firmati da un gruppo che si fa chiamare #Gop, acronimo di Guardian of peace. Nessuna indicazione, però, è iltrata sul numero, sulla nazionalità o sull’età dei pirati in-

formatici riuniti sotto questa sigla. Quali sono i motivi dell’iniziativa? Si è parlato della Corea del Nord a causa di una ragione facilmente identiicabile: a giugno il paese asiatico aveva promesso delle “rappresaglie spietate” contro gli Stati Uniti dopo aver visto il trailer di The interview. Il ilm prodotto dalla Sony Pictures è una grande parodia del regime nordcoreano, con due agenti della Cia che hanno il compito di assassinare il leader Kim Jong-un. L’ipotesi di un attacco voluto da Pyongyang è stata alimentata dalle analogie osservate tra il codice informatico del software usato per violare il sistema della Sony

Pictures e quello usato durante un attacco condotto dai nordcoreani contro Seoul nel 2013. Ma questi indizi non rappresentano una prova suiciente. Uno dei responsabili dell’Fbi ha ammesso che non è ancora possibile stabilire con certezza la provenienza dei pirati. Del resto i pirati hanno dichiarato diverse volte che le loro motivazioni sono inanziarie. In un’email inviata ai dirigenti della Sony alcuni giorni prima dell’attacco, gli hacker avvertivano: “Vogliamo una ricompensa. Pagate o sarà colpita l’intera Sony Pictures”. A quanto pare non si trattava di un bluf. u adr

L’opinione

Nessuna azienda è al sicuro Sarah Belouezzane, Le Monde, Francia Il caso della Sony dovrebbe convincere tutte le imprese a valutare meglio i rischi che corrono su internet re anni dopo il furto dei dati degli utenti della Playstation, la Sony ha subìto un nuovo attacco e questa volta di una portata senza precedenti. Anche se la parte colpita (le produzioni cinematograiche e audiovisive) non pesa sulle inanze del gruppo quanto i videogiochi (nel secondo trimestre del 2o14 il fatturato della Sony Pictures è stato di 1,6 miliardi di dollari, meno del 10 per cento delle vendite totali), il cinema, come la musica, ha un ruolo centrale nella strategia del gruppo giapponese. La Sony Pictures, nata nel 2012 con l’arrivo del nuovo amministratore delegato Kazuo Hirai, dà grande importanza ai contenuti. Le produzioni saranno distribuite attraverso i negozi online del gruppo, il Sony Entertainment Network (Sne), e attraverso console di videogiochi, smartphone e tablet i prodotti dell’azienda. “Sony, come altri colossi della rete, vuole diventare un vero e proprio hub, una piattaforma dove trovare di tutto. E da questo punto di vista il colpo è molto duro”, spiega Cyrus Mewawalla, analista di Cm Research. Per non parlare dell’immagine del marchio,

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con un quarto degli utenti statunitensi della Playstation che aferma di comprare regolarmente contenuti (ilm o serie televisive) dal sito della Sony. Eppure la strategia cominciava a dare i suoi frutti: i conti della Sony sono ancora in rosso, ma le perdite si stanno riducendo e per un certo periodo nel 2013 l’azienda era anche tornata in attivo. Come fanno notare alcuni osservatori, il problema di questo attacco va al di là del caso particolare. “È un duro colpo per tutte le aziende e soprattutto per internet. Questi pirati potrebbero essere presto emulati da altri”, aferma un esperto. Anche perché si ha l’impressione che le aziende non siano protette contro attacchi di questo tipo. La digitalizzazione dei contenuti e la loro archiviazione online, la moltiplicazione delle possibilità di accesso remoto a una intranet hanno reso le aziende molto più fragili. “Da questo punto di vista le aziende sono sempre più vulnerabili. Un numero crescente di dipendenti può accedere ai dati dell’azienda attraverso uno smartphone o un tablet”, spiega Vincent Hinderer, specialista di sicurezza informatica. Probabilmente la Sony Pictures non si è protetta bene perché non ha valutato correttamente i rischi che correva. Un evento come questo dovrebbe far rilettere i grandi gruppi presenti online, se non l’intero mondo delle aziende. u adr Internazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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Americhe

DIEU NALIO CHEry (AP/LAPrESSE)

Port-au-Prince, 13 dicembre 2014. Una vittima degli scontri con la polizia

Ad Haiti si apre la crisi politica Jean-Michel Caroit, Le Monde, Francia Il 14 dicembre il primo ministro Laurent Lamothe, su pressione del presidente, ha presentato le dimissioni. Da settimane gli haitiani protestano per chiedere nuove elezioni i fronte al moltiplicarsi delle manifestazioni contro il governo e abbandonato dal presidente Michel Martelly, il 14 dicembre il primo ministro haitiano Laurent Lamothe si è dimesso. “Se questo può sbloccare la crisi politica, presento le mie dimissioni e quelle del governo”, ha dichiarato in un discorso in creolo trasmesso dalla televisione. Il primo ministro ha detto di essere soddisfatto dei risultati raggiunti dal suo governo. Ma il suo sacriicio rischia di essere insuiciente. Negli ultimi giorni violenti scontri hanno contrapposto i manifestanti alla polizia e ai caschi blu che proteggono il palazzo presidenziale. La missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti (Minustah) ha aperto un’inchiesta dopo la pubblicazione di un video che mostra alcuni caschi blu sparare sui manifestanti. I

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portavoce della mobilitazione, chiamata operazione Burkina Faso (con riferimento al movimento popolare che a ottobre ha spinto alle dimissioni il presidente burkinabé Blaise Compaoré), affermano che l’agitazione continuerà ino alle dimissioni del presidente. “Solo se Martelly si dimette, il governo di transizione potrà organizzare delle elezioni libere e oneste”, osserva Assad Volcy, uno dei leader dell’opposizione radicale. Il presidente e l’opposizione si accusano a vicenda del mancato svolgimento delle elezioni legislative e amministrative che avrebbero dovuto tenersi nel 2011.

stenuto Martelly ino a un punto che rischia di creare un vuoto istituzionale”. Intervistato dal Miami Herald l’ex presidente statunitense Bill Clinton, inviato speciale dell’Onu ad Haiti dopo il terremoto del gennaio 2010, ha criticato le dimissioni di Lamothe. “Ha fatto un buon lavoro, è stato il governo più coerente e più determinato con il quale abbia lavorato”, ha dichiarato. Una commissione convocata da Martelly per risolvere la crisi ha raccomandato le dimissioni del primo ministro, la formazione di un governo di larghe intese e di un nuovo consiglio elettorale, oltre alla liberazione dei prigionieri politici. In questi ultimi anni la nomina di un nuovo primo ministro ha sempre richiesto lunghe trattative. Ma cosa succederà se un nuovo capo di governo sarà scelto prima del rinnovo del parlamento? Chi gli accorderà la iducia prevista dalla costituzione? Nel frattempo l’opposizione denuncia l’assenza di controllo parlamentare sui fondi Petrocaribe come una delle principali fonti di corruzione. Grazie a questo accordo tra alcuni paesi dei Caraibi e Caracas per la fornitura di petrolio a condizioni privilegiate, il Venezuela è diventato il principale investitore di Haiti. Ma le diicoltà economiche del paese rendono sempre più precaria l’esistenza di Petrocaribe. Per il Fondo monetario internazionale la ine dei inanziamenti venezuelani metterebbe in pericolo la crescita economica e allungherebbe la durata delle interruzioni di elettricità. Un’eventualità che potrebbe aggravare la crisi politica. u adr

Da sapere Ultime notizie

Un vuoto istituzionale I paesi amici (Brasile, Canada, Spagna, Stati Uniti, Francia e Unione europea) e Sandra Honoré, capo della Minustah, sono preoccupati che la crisi si aggravi a partire dal 12 gennaio 2015, quando terminerà il mandato dei parlamentari. L’opposizione accusa Martelly di voler governare per decreto. E il presidente ribadisce che le elezioni previste in ottobre non avrebbero potuto svolgersi perché il senato non ha ancora votato la nuova legge elettorale. Il giornalista Marvel Dandin critica l’atteggiamento della comunità internazionale, colpevole “di aver so-

u Il 17 dicembre centinaia di persone hanno manifestato nella capitale Port-au-Prince per chiedere le dimissioni del presidente Michel Martelly. La polizia ha lanciato gas lacrimogeni contro la folla. Bbc

Americhe eDUARDO MUNOz (ReUTeRS/CONTRASTO)

Cuba-Stati Uniti

STATI UNITI

La marcia di Washington

Il disgelo è cominciato u Il 17 dicembre il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato un riavvicinamento storico con Cuba, la riapertura delle relazioni diplomatiche interrotte nel 1961 e l’alleggerimento delle sanzioni economiche, in vigore dagli anni sessanta. La distensione tra i due paesi è stata confermata dal presidente cubano Raúl Castro. Le dichiarazioni dei due capi di stato sono avvenute poche ore dopo la liberazione dell’operatore umanitario statunitense Alan Gross, arrestato nel 2009 e condannato a 15 anni di prigione per spionaggio. Gli Stati Uniti hanno liberato tre cubani condannati per spionaggio.

Dopo quasi tre anni di lavoro, il 10 dicembre è stato reso pubblico il rapporto inale redatto dalla Commissione nazionale per la verità. “Sono più di quattromila pagine”, scrive O Globo, “in cui si dà conto dei crimini avvenuti durante la dittatura militare in Brasile, dal 1964 al 1985. Il documento indica 377 responsabili diretti o indiretti di torture e omicidi”. Tra questi ci sono capi di stato, poliziotti, medici e militari. Secondo Carta Capital, “una delle conclusioni più importanti del documento è la conferma che le gravi violazioni dei diritti umani di quegli anni sono state praticate in maniera sistematica”.

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A due anni dalla strage nella scuola Sandy Hook di Newtown, in Connecticut, le famiglie di nove delle vittime hanno annunciato che faranno causa alle aziende che hanno fabbricato e venduto il fucile che Adam Lanza ha usato per uccidere la madre, venti bambini e sei insegnanti. Per gli avvocati delle famiglie il fucile d’assalto Ar-15, prodotto dalla Bushmaster, non doveva essere venduto a civili. Secondo un sondaggio del Pew Research Center, oggi negli Stati Uniti le persone che difendono il diritto al possesso di un’arma sono più di quelle che chiedono un maggiore controllo. Il New York Times spiega che il sostegno al possesso di armi non era così forte da circa vent’anni. Armi e diritti % 70

Messico

Un’inchiesta sugli studenti

Statunitensi favorevoli a un maggiore controllo sulle armi

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BRASILE

Abusi sistematici

Newtown due anni dopo

Proceso, Messico “Il 26 settembre la polizia di Iguala e Cocula, nello stato messicano di Guerrero, ha attaccato gli studenti della scuola normale rurale di Ayotzinapa. Tre ragazzi sono stati uccisi e 43 sono stati consegnati al gruppo criminale dei Guerreros unidos, che li ha ammazzati e poi bruciati. La polizia ha eseguito gli ordini del sindaco di Iguala, José Luis Abarca. Questa è la versione uiciale della sparizione degli studenti”, scrive il settimanale Proceso. Ma un’inchiesta condotta da Proceso e dall’Investigative reporting program dell’università della California a Berkeley racconta un’altra storia. I giornalisti Anabel Hernández e Steve Fisher hanno avuto accesso a una serie di documenti uiciali, video e testimonianze che rivelano un coinvolgimento diretto della polizia federale, con la complicità dell’esercito. u

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Favorevoli alla libertà di possesso 1993

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2011 2014

IN BREVE

Colombia Il 13 dicembre migliaia di persone hanno partecipato alle manifestazioni in varie città del paese per protestare contro una possibile amnistia per i ribelli delle Farc in discussione all’Avana, a Cuba. Stati Uniti Il 16 dicembre il presidente Barack Obama ha irmato la legge di bilancio per il 2015, approvata in via deinitiva dal congresso tre giorni prima. u Jeb Bush, fratello dell’ex presidente George W. Bush, ha annunciato il 16 dicembre che potrebbe candidarsi con il Partito repubblicano alle elezioni presidenziali del 2016. È considerato un conservatore moderato.

FONTe: PeW ReSeARCH CeNTeR

Il 14 dicembre 25mila persone sono scese in strada a Washington per protestare contro gli abusi della polizia e contro un sistema giudiziario che discrimina i neri. Secondo il Los Angeles Times, è stata la più importante manifestazione del movimento nato dopo la mancata incriminazione degli agenti che hanno ucciso Michael Brown, a Ferguson, ed eric Garner, a New York. erano presenti anche i familiari di Trayvon Martin, il nero di 17 anni ucciso da un vigilante di quartiere nel 2012 a Sanford, in Florida.

DOUG MILLS/POOL (ReUTeRS/CONTRASTO)

Washington, 17 dicembre. Il discorso di Barack Obama

STATI UNITI

Africa e Medio Oriente Ricordare le vittime

Soldati ribelli a Bentiu, 20 settembre 2014

a guerra in Sud Sudan sta peggiorando sullo sfondo di violenze e di una carestia sempre più gravi: è l’allarme lanciato da alcune organizzazioni per i diritti umani il 15 dicembre, a un anno dall’inizio di un conlitto che ha causato decine di migliaia di morti. La situazione è così grave, fanno notare alcuni diplomatici africani impegnati nella mediazione tra le parti in conlitto, che per la prima volta la Cina ha abbandonato la sua tradizionale politica di “non interferenza”. Il governo di Pechino non solo “ha parlato con gentilezza” a entrambe le parti per trovare una soluzione diplomatica, ma ha anche convinto Riek Machar, il leader di una delle due fazioni, a non chiudere l’oleodotto che passa nel nord del paese, un’area controllata dai suoi uomini.

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Stime incerte Il 15 dicembre si sono svolte commemorazioni a Juba e nei paesi coninanti con il Sud Sudan, dove hanno trovato rifugio centinaia di migliaia di profughi. Le organizzazioni della società civile sudsudanese, escluse dai colloqui di pace, sono impegnate a raccogliere i nomi delle vittime dei massacri, che in occasione delle commemorazioni sono stati letti alla radio. Secondo le stime dell’International crisis group, il conflitto ha causato almeno 50mila morti, ma secondo alcuni diplomatici potrebbero essere il doppio. L’Onu parla di decine di migliaia di morti. “Forse i nostri igli sopravviveranno agli scontri, ma non è detto che sopravviveranno alla fame”, osserva Both Reath Luang, un prete del Nuer peace council. u gim

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MAtthew ABBOtt (AP/LAPReSSe)

Mail & Guardian Africa, Kenya

Dolore, lacrime e sangue in Sud Sudan Jacob J. Akol, Gurtong, Sud Sudan l 15 dicembre 2014 è inito un anno triste nella breve storia del Sud Sudan indipendente, un anno di “dolore, lacrime e sangue”, come cantava Fela Kuti. Per molti sudsudanesi le violenze scoppiate a Juba un anno fa non sono state certo una sorpresa, ma hanno comunque creato una situazione tragica. Quando, nel 2013, il presidente Salva Kiir ha revocato alcuni poteri al suo vice Riek Machar è stato subito evidente che i due sarebbero arrivati in fretta alla resa dei conti. Machar ha accusato Kiir di essere un incompetente, facendosi in pratica licenziare dal presidente. In Sud Sudan, un paese uscito da una guerra ventennale con il Sudan, a governare sono state ancora le armi, non il dialogo. Machar sapeva di poter contare sulla forte presenza di nuer (il suo gruppo etnico) nell’esercito e su centinaia di migliaia di giovani della stessa etnia che avevano seguito un addestramento militare negli stati di Jonglei e dell’Alto Nilo, e a Bentiu. Kiir, invece, ha arruolato una guardia presidenziale formata in maggioranza da dinka (il gruppo etnico a cui appartiene). Il Sud Sudan quindi era pronto a esplodere già prima del 15 dicembre 2013. Gli scontri armati di quel giorno a Juba hanno subito assunto una connotazione etnica.

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Machar è riuscito a fuggire a Bor, ma migliaia di nuer innocenti sono initi nel mirino degli uomini armati di Kiir, come racconta chi si trovava a Juba in quei giorni. Non sono stati risparmiati neanche i dinka che vivevano tra i nuer. Centinaia di migliaia di persone si sono rifugiate nella base della missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan (Unmiss) a Juba. Oggi i nuer sono più tranquilli e possono andare in giro per la capitale “senza paura”, ma migliaia di persone vivono ancora sotto la protezione dell’Unmiss. È stato scritto molto su quello che è successo alla comunità nuer di Juba in quei due terribili giorni, ma non si è detto molto dei massacri compiuti per rappresaglia contro i dinka in città come Bor, Malakal e Bentiu. Non si è parlato molto neanche delle vittime della comunità nuer nell’Alto Nilo. Quando il bilancio delle vittime e dei profughi della guerra sarà deinitivo, entrambe le comunità si renderanno conto di aver sofferto in uguale misura. Oggi la pace è ancora un obiettivo lontano, perché tra Salva Kiir e Riek Machar è ancora in corso una lotta per il potere. Nessuno dei due vuole ammettere le sue responsabilità e fare i passi necessari per arrivare alla pace e alla riconciliazione. u gim

Palestina

Tunisi, 14 dicembre 2014

IN BREVE

ANIS MILI (ReUTeRS/CONTRASTO)

Verso il riconoscimento Strasburgo, 17 dicembre 2014

Aspettando il presidente Il 21 dicembre si svolgerà il bal­ lottaggio delle presidenziali. Il risultato è incerto: tra i due can­ didati usciti dal primo turno la diferenza è di soli sei punti per­ centuali. In testa c’è Béji Caïd essebsi, del partito laico Nidaa Tounes, vincitore delle legislati­ ve. Lo sidante è il presidente uscente Moncef Marzouki (nella foto, alcuni sostenitori), conside­ rato un alleato del partito isla­ mista ennahda. Secondo Jeune Afrique, se vincesse Marzouki, “la coabitazione con il governo laico sarebbe diicile”.

CHRISTIAN LUTz (AP/LAPReSSe)

TUNISIA

Il 17 dicembre il parlamento europeo ha votato a favore del riconoscimento “in linea di principio” dello stato di Palestina (nella foto) e il tribunale dell’Unione europea ha cancellato il gruppo palestinese Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche perché la sua iscrizione nel 2001 era stata irregolare. Nei giorni precedenti si sono svolti itti scambi diplomatici tra paesi europei, Stati Uniti, Israele e Autorità Nazionale Palestinese. L’obiettivo era mettere a punto una risoluzione da presentare al Consiglio di sicurezza dell’Onu per chiedere il ritiro di Israele dai Territori occupati entro il 2016. u

Kenya Il 16 dicembre il governo ha sciolto 510 ong e associazio­ ni: 15 sono state accusate di i­ nanziare il terrorismo, le altre di irregolarità amministrative. Mauritius La coalizione di op­ posizione guidata da Anerood Jugnauth (centrodestra) ha vin­ to le elezioni legislative del 10 dicembre. La sconitta del go­ verno compromette un progetto di riforma costituzionale che prevedeva il raforzamento dei poteri del presidente. Rdc L’11 dicembre 129 persone sono morte nel naufragio di un’imbarcazione sul lago Tan­ ganika. Siria Il Fronte al nusra (jihadi­ sta) ha conquistato il 15 dicem­ bre due basi militari nella pro­ vincia di Idlib, nel nordovest del paese. Circa 200 persone sono morte nei combattimenti. Sudan Il 13 dicembre la procu­ ratrice della Corte penale inter­ nazionale, Fatou Bensouda, ha annunciato la sospensione dell’inchiesta sui crimini di guerra commessi nel Darfur. Yemen Il 17 dicembre 26 perso­ ne, tra cui 15 bambini, sono morte in un attentato antisciita rivendicato da Al Qaeda a Rada.

MAROCCO

Wikileaks a Rabat Da alcuni mesi l’account Twitter @chris_coleman24 pubblica link a documenti riservati della di­ plomazia marocchina e del makhzen, la corte di re Moham­ med VI. Tuttavia la particolarità del “Wikileaks marocchino” è che non ne parla nessuno, scrive Tel Quel: nessun commento del governo o dei partiti d’oppo­ sizione, nemmeno per negare l’autenticità dei documenti. Il giornalista indipendente Ali Lmrabet è l’unico a ringraziare l’utente misterioso: “I docu­ menti svelano i tentativi di cor­ rompere giornalisti ed esperti marocchini e stranieri perché trattino la questione del Sahara occidentale come vogliono le autorità”.

Da Ramallah Amira Hass

Oltre l’ideologia Due storie di Gerusalemme: decidete voi se collegarle o no. La dottoressa più impegna­ ta del quartiere di Beit Hake­ rem, a Gerusalemme Ovest, è un’israeliana d’origine palesti­ nese. Ha moltissimi pazienti, tutti ebrei israeliani, vista la composizione sociale del quartiere. Il suo tirocinante è un ebreo osservante che in­ dossa la kippah. Com’è giusto che sia, tra loro ci sono ottimi rapporti professionali. I igli della dottoressa frequentano una scuola bilingue che di re­ cente è stata incendiata in un

attacco razzista. La popolarità della donna tra i pazienti ebrei dimostra che i rapporti quoti­ diani tra le persone sono più forti delle ideologie e dell’abi­ tudine all’esclusione sociale e alla discriminazione etnica. Tre amici di Ramallah han­ no inalmente trovato lavoro nell’azienda di un pezzo gros­ so della politica palestinese. L’azienda ha ottimi rapporti con aziende e imprenditori israeliani, e per operare ha bi­ sogno di prodotti e connessio­ ni in Israele. I genitori dei ra­ gazzi sono contenti perché i

loro igli non fanno più le ore piccole giocando a poker on­ line. I tre amici mi hanno im­ plorato di non svelare la loro identità né il nome dell’azien­ da perché sono sostenitori del­ la campagna di Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds) contro Israele. Anche qui la vita quotidiana è più forte delle ideologie: devono guada­ gnarsi da vivere, pagarsi gli studi, mettere da parte un po’ di soldi per un futuro matri­ monio o per andare all’estero. “Perché qui non c’è futuro”, mi ha detto uno di loro. u

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Visti dagli altri Società

Milano, 12 dicembre 2014. La manifestazione durante lo sciopero generale

Mobilitazione riuscita

a dimostrazione di forza dei sindacati italiani ha avuto successo. Anche se il 12 dicembre non sono riusciti a bloccare il paese, sono comunque riusciti a mobilitare centinaia di migliaia di persone per lanciare un messaggio al presidente del consiglio Matteo Renzi: “Così non va”. Lo sciopero generale di otto ore ha avuto un’alta adesione in alcuni settori, in particolare quello dei trasporti. Sono state organizzate delle manifestazioni in circa una cinquantina di città italiane e nei cortei le rivendicazioni erano più o meno sempre le stesse: contro i tagli di bilancio e contro il Jobs act, la riforma del mercato del lavoro. La riforma prevede la possibilità per le aziende di licenziare più facilmente. Un aspetto su cui si è concentrata tutta la rabbia dei manifestanti. “Speravamo che un governo di sinistra adottasse una politica di sinistra e non di destra”, sintetizza Brunella Di Castro, una giovane impiegata di banca a Roma, e aggiunge: “Renzi non ascolta nessuno. Non si può fare la riforma del lavoro senza i lavoratori”. “Il governo commette un errore eliminando la discussione e la partecipazione dei sindacati quando si discutono le leggi”, ha detto Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil, che ha minacciato: “Il governo deve scegliere tra il conlitto e il dialogo”. Il presidente della repubblica Giorgio Napolitano ha chiesto “il rispetto reciproco”, ma ai cortei di Milano e Torino ci sono stati degli scontri e aumenta la tensione sociale a causa della recessione. Renzi si è mostrato più conciliante del solito: “Lo sciopero è un momento di alta protesta”. Ma non sembra voler cambiare la rotta. “Ascoltiamo le piazze, ma andremo avanti”, ha dichiarato il ministro del lavoro Giuliano Poletti. “Non possiamo permetterci un colpo di freno. L’Unione europea ci chiede di essere coerenti rispetto agli impegni assunti”. E Renzi ha ribadito: “Dobbiamo avere il coraggio di cambiare”. u gim

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EMANUELE CREMASChI (LUzPhoTo)

Eric Jozsef, Libération, Francia

Il sindacato batte un colpo Antonio Galofaro, Le Temps, Svizzera Non ci sono politici carismatici in grado di opporsi a Matteo Renzi. Susanna Camusso, leader della Cgil, sembra essere l’unica in grado di farlo, scrive il quotidiano svizzero n milione e mezzo di persone (secondo i sindacati) hanno manifestato il 12 dicembre, in occasione dello sciopero generale, nelle principali città italiane. Durante i cortei a Milano e Torino ci sono stati degli scontri. Nel paese la metà dei treni e degli aerei – e quasi i tre quarti degli autobus – si sono fermati. Matteo Renzi afronta la sua prima contestazione su vasta scala dieci mesi dopo essere diventato presidente del consiglio. I due sindacati principali, la Cgil (5,6 milioni di iscritti) e la Uil (2,2 milioni di iscritti) hanno protestato contro la riforma del lavoro approvata dal parlamento all’inizio di dicembre senza discussioni preliminari con le parti sociali. Matteo Renzi è

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deciso a portare avanti il suo programma economico, ma per Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil, l’esecutivo si scontrerà contro un muro. Camusso, milanese, 59 anni, alla guida del più potente sindacato italiano dal 2010, è la più accanita avversaria di Matteo Renzi, l’unica in grado di imporre un freno al capo del governo. Senza leader a destra e a sinistra, “gli antagonisti” al potere renziano sono “all’esterno del sistema politico classico”, fa notare Vera Capperucci, storica dei movimenti politici italiani. Il conlitto è diventato personale, perché Susanna Camusso rappresenta anche quella generazione di over 50 che il giovane Renzi ha “rottamato” da un anno a questa parte. La segretaria generale, che ha quarant’anni di sindacalismo alle spalle, è sopravvissuta a quattro presidenti del consiglio, uno di questi è Silvio Berlusconi. Lo scontro con Renzi è molto più radicale rispetto a quelli con i suoi predecessori, prosegue Vera Capperucci: “Dal primo governo Berlusconi (1994), i sindacati sono sempre stati visti come un freno al progresso, all’azione riformista”.

Matteo Renzi ha messo ine al dialogo e ai negoziati, aggiunge: “Ha forzato la mano dei sindacati come non accadeva dagli anni settanta”. Camusso così non difende solo i lavoratori, ma anche il ruolo istituzionale e politico del sindacalismo italiano. Il successo di Renzi rischia di togliere credibilità alle formazioni sindacali che lottano contro le riforme del governo.

Proposte alternative Susanna Camusso è la prima donna a essere eletta alla guida di un sindacato. È impegnata a favore dell’uguaglianza tra i sessi e si colloca agli antipodi di una società italiana che le rimprovera, per esempio, di non truccarsi. Nel 2010 dichiarava di essere stata scelta come segretaria generale della Cgil nel “momento più devastante della storia recente” di un’Italia appesantita dalla “crisi economica, dal declino dell’occi-

dente e dal divario violento nei rapporti tra uomini e donne, tra giovani e anziani, tra migranti e autoctoni”, in cui “l’eterna presenza di Silvio Berlusconi ostacolava qualsiasi sbocco”. Camusso ha sostituito alla guida della Cgil Guglielmo Epifani, che in seguito è stato segretario del Partito democratico ino all’elezione di Matteo Renzi. Da quando è diventata leader della Cgil, Camusso è uno dei pochi personaggi politici femminili che contano in Italia. E vuole evitare che il 2014 diventi un anno nero per il sindacalismo. Da tempo i sindacati sono accusati di mancanza di proposte alternative alle riforme politiche. Camusso, come gli altri dirigenti sindacali, si è adagiata sui vantaggi acquisiti in precedenza. Una debolezza sfruttata da Renzi, e a cui lei ha cominciato a porre rimedio con lo sciopero del 12 dicembre. u gim

L’opinione

Matteo Renzi come Pinocchio Pierre de Gasquet, Les Echos, Francia Palloncini che lo raigurano con il naso del burattino. Per la piazza la riforma del lavoro aumenterà il precariato entinaia di palloncini con l’immagine di Matteo Renzi con un naso da Pinocchio hanno riempito il 12 dicembre le strade di Roma. Niente di paragonabile alle manifestazioni del 2011 contro l’austerità. Allo sciopero generale, a cui non ha aderito la Cisl, secondo gli organizzatori ha partecipato il 60 per cento dei lavoratori, il 10 per cento secondo Conindustria. La metà dei treni e dei voli sono stati cancellati. A dieci giorni dall’approvazione al senato del Jobs act, la legge delega per la riforma del lavoro, lo sciopero conferma la frustrazione delle organizzazioni sindacali per l’assenza di dialogo. I sindacati contestano il blocco (cominciato nel 2010) degli stipendi nella pubblica amministrazione e le norme che facilitano il licenziamento dei nuovi assunti per motivi

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economici, sostituendo l’obbligo del reintegro con un indennizzo in caso di “licenziamento illegittimo”. Senza rinunciare all’abolizione dell’articolo 18, il governo è disposto a introdurre un “indennizzo minimo” (da due a sei mesi di stipendio) per i nuovi contratti a tutela crescente in vigore dal 1 gennaio. Lo sciopero tuttavia rilette soprattutto il clima di angoscia della classe media di fronte all’aumento della disoccupazione. E conferma inoltre le divisioni nel Partito democratico, visto che diversi suoi dirigenti hanno partecipato alle manifestazioni. “I sindacati hanno reagito con ritardo alla riforma del lavoro a causa delle loro divisioni interne. La nuove norme faranno aumentare il lavoro precario”, dice Giulio, 53 anni, che si occupa di formazione presso l’Unione delle camere di commercio. “In un momento di crisi modiicare le regole sul licenziamento è pericoloso per i lavoratori”, aggiunge Vincenzo, impiegato, 37 anni, iscritto alla Uil. “Matteo Renzi è un into riformatore”, sospira Alessandra, 18 anni, studentessa romana di sinistra. u gim

L’opinione

Lavoro lessibile La Vanguardia, Spagna n Italia lo sciopero generale contro la riforma del lavoro arriva troppo tardi, perché il Jobs act è già stato approvato dal parlamento. Per i sindacati che hanno convocato lo sciopero sarà diicile attenuare la riforma, a meno che non riescano a trasformare la mobilitazione in una protesta permanente. Matteo Renzi è deciso a rendere più lessibile il mercato del lavoro, che con la sua rigidità penalizza la competitività delle imprese. Il presidente del consiglio deve vedersela con i sindacati e con l’ala sinistra del suo partito. Quaranta dei suoi parlamentari hanno votato contro la riforma del lavoro e minacciano una scissione che potrebbe mettere a rischio la maggioranza. Agli occhi dell’Unione europea, dei mercati inanziari e dei centri del potere economico italiano Renzi si presenta come l’unica speranza per far uscire l’Italia dalla recessione, e per cominciare a ridurre l’elevato debito pubblico. Ma il suo non sarà un compito facile. Renzi combatte una dura battaglia contro i sindacati e il loro potere eccessivo. Pochi giorni fa ha detto che è inita l’epoca in cui in Italia per prendere qualsiasi decisione importante bisognava trattare con i sindacati. Sì al dialogo, no alla trattativa. È questa la posizione del premier, che vuole un “cambiamento culturale” per adattarsi al fatto che il lavoro isso non esiste più. Lo sanno bene i giovani italiani. Più del 40 per cento di loro è disoccupato e il sistema attuale non gli ofre nessuna soluzione. In questo nuovo panorama il futuro dell’Italia è un’incognita da cui dipende in gran parte anche il futuro dell’eurozona. u fr

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Visti dagli altri

AHMAd MASSoud (XINHuA/CorBIS)

Kabul, 6 dicembre 2014

L’Italia proteggerà i suoi interpreti? Mathilde Auvillain, La Cité, Svizzera La missione italiana in Afghanistan sta per concludersi e gli interpreti afgani delle forze armate occidentali temono di essere abbandonati alla vendetta dei taliban gni mattina lo stesso rituale. Quando prima di uscire di casa Mohammed bacia la madre e la sorella il suo cuore batte all’impazzata in un misto di angoscia e adrenalina. Mohammed spinge lo sguardo oltre le loro spalle e scruta la strada. “Il mio lavoro per le forze occidentali ha gravi conseguenze per la mia famiglia”, ammette. La madre lo guarda preoccupata mentre si

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allontana e si chiede se lo rivedrà. Mohammed arriva all’appuntamento con i suoi colleghi e insieme si dirigono verso la base militare di Herat, dove li attende una nuova giornata di lavoro. Fanno tutti gli interpreti per le forze armate italiane in Afghanistan. Nel linguaggio della burocrazia si chiamano “personale locale”, ma questi civili afgani sono piuttosto degli alleati quasi indispensabili per i militari occidentali. Grazie alla loro padronanza del dari e dell’inglese, accompagnano i militari nelle perlustrazioni alla ricerca dei taliban, traducono documenti coperti dal segreto militare, assistono a riunioni di alto livello e fanno da intermediari tra gli uomini della Forza internazionale di assistenza alla sicurezza in Afghanistan (Isaf ) e i militari delle forze armate afgane.

Mohammed non pensava che sarebbe diventato un interprete: ha deciso di collaborare con l’Isaf perché non aveva alternative migliori: “Sapevo che era un lavoro pericoloso e che avrebbe rappresentato una minaccia per me e per la mia famiglia, ma non avevo scelta”. Gli interpreti delle forze della coalizione sono pagati tra gli ottocento e i mille dollari al mese, mentre il salario medio in Afghanistan è di 48 dollari al mese, secondo le stime della Banca mondiale.

Costretti a fuggire La “collaborazione” con le forze armate occidentali espone gli interpreti a molti rischi, dalle semplici intimidazioni alle ritorsioni. Nei casi più gravi si arriva al rapimento o all’uccisione. Nel 2011 Faizullah Muradi, interprete delle forze armate norvegesi, è stato costretto a fuggire dall’Afghanistan dopo che suo fratello minore era stato rapito da un gruppo criminale legato ai taliban. “Hanno chiesto un riscatto di 40mila dollari oppure la mia testa”. E così Faizullah è fuggito clandestinamente in Europa. Negli ultimi mesi i taliban hanno intensiicato gli attacchi contro le forze afgane, con l’obiet-

tivo di incoraggiare le defezioni e disincentivare le nuove collaborazioni. Sul loro sito gli insorti hanno rivolto ai militari afgani un appello a “non appoggiare i nemici dell’islam”. “Secondo i rapporti dei servizi segreti, nel quartiere dove abito i taliban hanno distribuito pistole con il silenziatore per uccidere chi collabora con il governo o con le forze della coalizione. Per ogni omicidio c’è una ricompensa di seicento dollari. Qualche mese fa ho assistito a una di queste esecuzioni. Sono rimasto profondamente scosso: nel mirino avrei potuto esserci io”, racconta angosciato uno degli interpreti. Lui e i suoi colleghi devono stare in guardia da tutti, compresi i vicini e gli amici. Sono costretti a nascondere la loro attività rispondendo evasivamente alle domande sulla loro occupazione e sui loro datori di lavoro. “A volte per la strada i miei amici o i miei cugini mi chiamano ‘l’italiano’ perché mi vedono in compagnia dei militari. Non si rendono conto, però, che così mi mettono in pericolo!”, protesta Mohammed, che sogna di diventare cittadino italiano.

Lettere di presentazione Siamo a dicembre e la missione dell’Isaf sta per inire: gli interpreti sono consumati dall’angoscia e dal terrore. Del resto – ironia della sorte – sono i primi a sapere che sulle loro teste pende una spada di Damocle. “Molti rapporti che ho tradotto parlavano delle taglie che gli insorti mettono sulla testa del personale locale dell’Isaf, soprattutto degli interpreti”, spiega Mohammed. Per lui l’imminente ritiro delle forze italiane equivale a una condanna a morte. “La situazione sta diventando terriicante. Lanciano anatemi contro di noi, ci bollano come apostati e incitano la gente a ucciderci. Chi vuole la nostra morte aspetta solo il ritiro delle forze Isaf ”. Sono considerati alla stregua dei “collaborazionisti” e dopo il ritiro delle forze italiane non avranno più nessuno su cui contare. “Qui in Afghanistan, dopo il 2014 nessuno sarà in grado di garantire la sicurezza delle persone che hanno lavorato con i militari occidentali”, dice allarmato uno degli interpreti. “In Afghanistan la corruzione dilaga e i taliban sono ovunque, anche nell’esercito”, spiega Faizullah Muradi. I superiori degli interpreti, militari di alto grado della coalizione, confermano che su questi uomini e sulle loro famiglie

incombono delle minacce. E condividono la loro preoccupazione. Prima di lasciare l’Afghanistan, al termine delle loro missioni di sei mesi, gli alti uiciali hanno scritto per i loro “alleati afgani” delle lettere di raccomandazione che ne attestano l’impegno e la lealtà. “Sono uomini coraggiosi e corrono rischi enormi”, ammette un alto uiciale italiano che è rimasto in contatto con i suoi amici interpreti. In un’altra lettera, scritta probabilmente in vista di una richiesta di protezione dell’interprete in Italia quando sarà conclusa la missione, si leggono, scritte di pugno dal colonnello, afermazioni come: “Mi faccio assolutamente garante per M.Y. e confermo che merita di vivere nei paesi occidentali”. O anche: “Non ho alcuna riserva sul conto di M.Z., lo inviterei volentieri a venire a vivere nel mio paese e ho totale iducia in lui”.

Da sapere Protezione degli interpreti u La Nato raccomanda la protezione degli interpreti e del personale locale impiegato nelle sue missioni, ma la concessione di visti rientra tra le decisioni sovrane di ogni stato. Nel 2009 Washington ha adottato un programma per il trasferimento degli interpreti afgani negli Stati Uniti. Dal 1 ottobre 2013 quasi cinquemila afgani, soprattutto interpreti e loro familiari, hanno ricevuto visti statunitensi. “Non è un regalo che facciamo agli afgani, è un’iniziativa che ricompensa il coinvolgimento di quanti hanno rischiato la vita al ianco degli americani in Afghanistan”, ha dichiarato il segretario di stato John Kerry. In Francia nel dicembre del 2012 il presidente della repubblica, François Hollande, ha disposto d’uicio, contro il parere del suo governo, il raddoppio del numero dei visti concessi agli interpreti afgani. Nei primi giorni del 2013 erano stati accolti in Francia 71 componenti del personale civile di reclutamento locale, quasi tutti interpreti con i loro familiari. Nel maggio del 2013 Londra, che in un primo tempo aveva promesso al suo personale locale solo aiuti inanziari, ha ceduto alle pressioni e ha accettato di accogliere nel Regno Unito circa seicento interpreti afgani delle forze britanniche insieme con i loro familiari. Una vittoria per tre di questi giovani traduttori afgani, che si erano appellati all’alta corte di giustizia di Londra raccogliendo oltre 78mila irme in una petizione inviata al ministero degli esteri. Inine, dopo qualche reticenza, anche la Spagna ha concesso asilo politico a 12 traduttori afgani che avevano lavorato con i suoi militari. La Cité

Tra i militari occidentali e i loro interpreti afgani sono nati rapporti di iducia, di profonda riconoscenza e talvolta di amicizia. Un uiciale italiano ha scritto a mano, a margine di una di queste lettere, una annotazione: “Grazie Mohammed e buona fortuna!”. A poche settimane dal ritiro uiciale delle truppe italiane dall’Afghanistan, gli interpreti continuano a ignorare la loro sorte. “Hanno paura di essere abbandonati”, dice un militare italiano, “ma da parte dell’Italia si tratta piuttosto di un silenzio procedurale”. I tre ministeri interessati – esteri, difesa e interno – tacciono, ignorando le tante richieste che ho fatto a luglio per sapere quale sarà il destino degli interpreti. Ma afermano che una task force sta lavorando al loro dossier e pochi giorni fa mi hanno assicurato che “gli interpreti non saranno lasciati soli”, ma questi si preparano a un’eventuale fuga “come i clandestini” attraverso l’Iran, la Turchia e la Grecia. Sono venuti a sapere per caso che il 1 ottobre il parlamento italiano ha convertito in legge un decreto sulle missioni internazionali che prevede, tra le altre cose, la loro protezione. Nessun’altra informazione se non un testo in cui genericamente si aferma che “i cittadini afgani che hanno svolto mansioni regolari per il contingente militare italiano nel quadro della missione Isaf (…) possono, dietro richiesta, essere trasferiti sul territorio nazionale”. Ma a pochi giorni dal ritiro delle truppe italiane, previsto per la ine del 2014, gli interpreti non hanno ancora ricevuto alcun chiarimento uiciale sull’adozione di questa disposizione e sulla procedura da seguire per presentare la loro richiesta. Secondo una fonte vicina al ministero della difesa italiano, i ministeri interessati stanno esaminando 117 dossier per concedere un visto umanitario. Ma quanti visti saranno concessi, e quando? E come e quando saranno trasferiti questi “alleati”? Dove saranno accolti? Tutte domande a cui le autorità italiane non hanno dato risposta. Gli interpreti non sanno se i loro nomi igurano nell’elenco dei 117 e cominciano a perdere la speranza. “Sono amareggiato: i miei amici che hanno lavorato con le forze statunitensi a Herat hanno potuto stabilirsi negli Stati Uniti dopo appena un anno di servizio”, si lamenta Mohammed. “Loro vivono in paradiso dopo un solo anno di lavoro, e noi, che abbiamo lavorato per gli italiani più di quattro anni, siamo abbandonati all’inferno”. u ma Internazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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Le opinioni

La rabbia dei greci è un segnale per tutti Paul Krugman a crisi iscale greca è scoppiata cinque un’idea della portata dell’austerità in Grecia, è come se anni fa, e i suoi efetti collaterali conti- gli Stati Uniti avessero imposto tagli alla spesa pubblica nuano a provocare enormi danni in Eu- e aumenti delle tasse per oltre mille miliardi di dollari ropa e nel mondo. Non mi riferisco agli all’anno. Nel frattempo i salari nel settore privato sono effetti collaterali a cui probabilmente crollati. E nonostante tutto, un quarto della forza lavoro state pensando, le ricadute di una crisi greca, e la metà dei giovani, sono disoccupati. La situazione del debito è peggiorata, con il rapporeconomica mai vista dai tempi della grande depressione o il contagio inanziario verso altri paesi debitori. No, to tra debito pubblico e pil ai massimi storici – soprattutl’efetto più disastroso della crisi greca è stato il modo in to a causa del crollo del secondo, non dell’aumento del primo – e con l’emergere di un grave procui ha distorto la politica economica, dato che le cosiddette “persone serie” di È quello che succede blema di indebitamento privato, frutto della delazione e della depressione. Ci tutto il mondo si sono afrettate a trarne quando un’élite gli insegnamenti più sbagliati. Oggi la rivendica il diritto a sono dei segnali positivi: l’economia iGrecia sembra di nuovo in crisi. Stavolta governare sulla base nalmente sta crescendo un po’, soprattutto grazie alla ripresa del turismo. Ma impareremo la lezione? della sua presunta nel complesso il paese sofre da anni senCome forse ricorderete, l’ultima volta competenza e poi za ricevere quasi niente in cambio. i problemi della Grecia sono stati usati dimostra non solo La cosa più sorprendente, in tutto come pretesto per spostare il discorso che non sa cosa fa, questo, è la capacità di sopportazione dieconomico. Tutto a un tratto dovevamo ma che è troppo mostrata dai cittadini greci, che si sono preoccuparci del deicit di bilancio, anrigida per imparare lasciati convincere che i sacriici erano che se il costo del denaro era ai minimi necessari e che alla ine avrebbero portastorici, e di tagliare la spesa pubblica nonostante la disoccupazione di massa. Perché in caso to alla ripresa. La notizia che negli ultimi giorni ha mancontrario, badate bene, da un momento all’altro avrem- dato in ibrillazione l’Europa è che i greci sono ormai mo fatto la ine della Grecia. “La Grecia è un esempio di arrivati al limite. Senza scendere nei dettagli, l’attuale quello che succede ai paesi che perdono la loro credibi- governo sta tentando una manovra disperata per evitalità”, ammoniva nel 2010 il primo ministro britannico re elezioni anticipate. Se la mossa non gli riuscisse, a David Cameron, annunciando le misure di austerità vincere quelle elezioni potrebbe essere Syriza, un pardel suo governo. “Siamo sulla stessa strada della Gre- tito di sinistra che vuole rinegoziare il piano di austerità, cia”, dichiarava il repubblicano statunitense Paul Ryan cosa che potrebbe portare a uno scontro con la Germasempre nel 2010, poco prima di essere nominato presi- nia e all’uscita dall’euro. Il dato più importante è che non sono solo i greci a dente della commissione bilancio della camera. In realtà il Regno Unito e gli Stati Uniti, che si inde- non poterne più. Prendiamo la Francia, dove Marine Le bitano nelle loro rispettive monete, non erano e non Pen, leader dello xenofobo Front national, supera nei sono afatto come la Grecia. Se nel 2010 non la pensa- sondaggi i candidati dei partiti tradizionali. O l’Italia, vate così, oggi, dopo anni di tassi di interesse e inlazio- dove quasi la metà degli elettori sostiene partiti radicane inverosimilmente bassi, ve ne sarete convinti anche li come la Lega nord e il Movimento 5 stelle. O il Regno voi. E l’esperienza della Grecia e di altri paesi europei Unito, dove il sistema politico è minacciato dai partiti costretti a durissime misure di austerità dovrebbe an- xenofobi e dai separatisti scozzesi. Sarebbe terribile se uno qualsiasi di questi moviche avervi convinto che tagliare la spesa pubblica quando l’economia è in depressione è davvero una cattiva menti – con la sorprendente eccezione di Syriza, che idea se è possibile seguire altre strade. Questo vale an- sembra relativamente benigno – dovesse arrivare al poche per i cosiddetti casi di successo: l’Irlanda, per esem- tere. Ma la loro ascesa non è casuale. È quello che sucpio, ha inalmente ricominciato a crescere, ma ha anco- cede quando un’élite rivendica il diritto a governare ra un tasso di disoccupazione dell’11 per cento (e del 22 sulla base della sua presunta competenza, cioè afermando di sapere cosa bisogna fare, e poi dimostra non per cento tra i giovani). La devastazione della Grecia è uno spettacolo terri- solo che non sa quello che fa, ma che è ideologicamente bile. Secondo alcuni articoli che ho letto, Atene stareb- troppo rigida per imparare dai suoi errori. Non ho idea di cosa succederà in Grecia. Ma il suo be “marcando visita” per non afrontare le misure drastiche che la situazione impone. In realtà il paese ha caos politico ofre una lezione molto più importante dei fatto sforzi colossali: ha tagliato il pubblico impiego, ha falsi insegnamenti che in troppi hanno tratto dai suoi ridotto i servizi sociali, ha aumentato le tasse. Per avere problemi iscali. u fas

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PAUL KRUGMAN

è un economista statunitense. Nel 2008 ha ricevuto il premio Nobel per l’economia. Scrive sul New York Times. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Fuori da questa crisi, adesso! (Garzanti 2012).

Le opinioni

La chiesetta delle isole Orcadi David Randall ato che in questo periodo di notti lun­ pilastri di cemento e un campanile ornato da pinnacoli. ghe e giorni freddi abbiamo bisogno Giovanni Pennisi modellò una testa di Cristo in argilla di qualcosa che ci riscaldi il cuore, rossa. I prigionieri usarono i pochi soldi della loro paga vorrei raccontarvi quello che fecero per comprare delle tendine di stofa dorata per il taber­ alcuni italiani nel Regno Unito du­ nacolo. Intanto Domenico continuava a dipingere. Il suo capolavoro fu un incredibile quadro della Madonna rante la seconda guerra mondiale. Come tutte le più belle storie a lieto ine, anche con il bambino da collocare sull’altare, ispirato a un questa comincia piuttosto male: nel 1942, in Libia, do­ santino che aveva portato con sé quando era partito per po che l’esercito canadese aveva catturato migliaia di la guerra. Dopo che furono liberati, i prigionieri rimase­ italiani. Li mandarono in un campo di prigionia nel ro sull’isola ancora diverse settimane per completare nord dell’Inghilterra, e probabilmente sarebbero ri­ l’acquasantiera. Alla ine Domenico tornò a Moena, conobbe e sposò masti lì, lontanissimi dalle loro famiglie di cui non ave­ vano notizie, se non fosse stato per un progetto specia­ Maria Felicetti, ebbe una iglia e riprese a restaurare e le avviato qualche mese dopo. Il governo britannico dipingere chiese. La piccola cappella italiana di Lamb­ holm, che nessuno si aspettava sopravvi­ aveva deciso di costruire delle strade vesse alla guerra, cominciò a essere ap­ sulle isole Orcadi, un piccolo arcipelago Domenico prezzata e usata dagli abitanti dell’isola. al largo della costa nordorientale della Ciocchetti, un Fecero tutto quello che potevano per te­ Scozia, e aveva pensato di far partecipa­ pittore di Moena, nerla in piedi, ma con gli anni alcune par­ re ai lavori alcuni dei prigionieri italiani lanciò un’idea ti cominciarono a cedere. più qualiicati. Così, all’inizio del 1943, apparentemente Nel 1958 nacque un comitato per la qualche centinaio di loro arrivò sulla mi­ assurda: perché non sua conservazione, e nel 1960 Domenico nuscola isola disabitata di Lambholm e costruire una si sistemò nelle baracche di latta che chiesetta italiana su tornò sull’isola a spese della Bbc per re­ staurare la cappella e i suoi dipinti. Arrivò avrebbero preso il nome di Campo 60. una desolata isola con la moglie, che aveva portato con sé le Gli italiani lavoravano e nel tempo li­ tovaglie da altare da lei ricamate. Quan­ bero cercavano di rendere quel posto un britannica? do se ne andò, Domenico lasciò questo po’ più accogliente. Ben presto comincia­ rono a raccogliere il materiale necessario per costruire messaggio agli abitanti delle Orcadi: “La cappella è vo­ un rudimentale teatro e una sala comune, e disegnaro­ stra, amatela e conservatela. Porto con me il ricordo no alcune aiuole per tentare di far crescere qualche della vostra gentilezza e della vostra meravigliosa ospi­ piantina nell’ingrato clima di Lambholm. Questo fu talità. Ringrazio tutti quelli che hanno collaborato di­ solo l’inizio. Il coordinatore dei lavori, Domenico Cioc­ rettamente o indirettamente al successo di quest’opera chetti, un pittore di Moena, vicino a Bolzano, costruì e mi hanno dato la gioia di rivedere la cappella di Lamb­ una statua di san Giorgio usando ilo spinato e cemento. holm, dove lascio un po’ del mio cuore”. Tornò di nuovo nel 1964, portando una Via crucis, Poi lanciò un’idea apparentemente assurda: perché non costruire una chiesetta italiana su quella desolata un crociisso e delle ampolle di vetro di Murano, tutti doni dei cittadini di Moena. Quella fu la sua ultima visi­ isola britannica? Il cappellano, padre Giacobazzi, appoggiò il proget­ ta. Nel 1992 altri otto ex prigionieri andarono a Lamb­ to, le autorità diedero il permesso, ma misero a disposi­ holm con le loro famiglie, ma Domenico era ormai zione solo due grandi baracche di lamiera ondulata troppo malato per viaggiare. Morì sette anni dopo, unite tra loro a formare una sorta di mezza botte. I pri­ all’età di 89 anni. Oggi a Lambholm non c’è più nessuna delle caser­ gionieri rivestirono l’interno di intonaco, ricoprirono l’esterno di cemento e usarono tutto quello che riusci­ me della seconda guerra mondiale. Ogni traccia della rono a trovare per trasformare quel guscio di metallo in presenza degli eserciti alleati è scomparsa. Ma la cap­ una cappella simile a quelle che si vedono nei paesini pella costruita dai prigionieri italiani è ancora lì. Nei italiani. Costruirono l’altare con il legno recuperato da mesi estivi vi si celebra la messa una volta al mese e un naufragio, ricavarono l’acquasantiera da un vecchio molte coppie decidono di sposarsi tra quelle mura, che tubo di scappamento, e i candelieri da qualche scatolet­ ogni anno accolgono più di centomila visitatori. Vicino ta di carne. Giuseppe Palumbi usò dei rottami per crea­ alla cappella sventola una bandiera italiana: questa pic­ re l’inferriata che avrebbe diviso la navata dall’abside. cola isola non fu conquistata da un esercito, ma dalla Gli ci vollero quattro mesi. Domenico Buttapasta deco­ devozione di un gruppo di prigionieri che trovò la libe­ rò la facciata costruendo un architrave sostenuto da razione nella fede e nell’arte. u bt

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DAVID RANDALL

è senior editor del settimanale Independent on Sunday di Londra. Ha scritto quest’articolo per Internazionale. Il suo ultimo libro è Tredici giornalisti quasi perfetti (Laterza 2007).

In copertina

Vivere ino a Gregg Easterbrook, The Atlantic, Stati Uniti Foto di Riitta Ikonen e Karoline Hjorth

Nei prossimi decenni le persone vivranno sempre più a lungo. E grazie ai progressi della ricerca medica potranno invecchiare restando in salute. Con conseguenze profonde sulla società er migliaia di anni la speranza di vita è stata breve. Nell’antichità si pensava che i pochi che arrivavano alla vecchiaia fossero favoriti dagli dèi. Tutti gli altri erano fortunati se arrivavano a quarant’anni. A partire dall’ottocento la situazione è lentamente cambiata. Dal 1840 a oggi la speranza di vita alla nascita è aumentata di circa tre mesi all’anno. In Svezia, un paese molto citato perché ha sempre prestato molta attenzione a questi dati, nel 1840 la speranza di vita delle donne era di 45 anni, oggi è di 83. Negli Stati Uniti la tendenza è più o meno la stessa: all’inizio del novecento la speranza alla nascita era di 47 anni, mentre i neonati di oggi possono vivere ino a 79. Con un andamento simile, a metà di questo secolo raggiungeremo gli 88 anni, e alla ine i cento. A livello globale, l’allungamento della vita sembra indipendente da qualsiasi evento speciico. Non ha subìto una grande accelerazione dopo la difusione degli antibiotici e dei vaccini né una grande riduzione durante le guerre e le epidemie. Il graico sulla speranza di vita mondiale nel corso del tempo somiglia a una scala mobile che sale regolarmente. La tendenza rimane invariata quasi tutti gli anni ed è comune ai paesi ricchi e a quelli poveri. Le previsioni di un ulteriore aumento della speranza di vita non nascono dal presupposto di nuove incredibili scoperte nel campo della medicina. Semplicemente, la scala continuerà a salire. Se saranno inventati nuovi farmaci o terapie genetiche in grado di frenare l’invecchiamento, l’ascesa potrebbe essere ancora più rapida. I cente-

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nari, che oggi sono così pochi da meritare le prime pagine dei giornali locali, potrebbero diventare la norma. È solo un’illusione? Su un verde pendio della contea di Marin, in California, c’è il Buck institute, il primo centro di ricerca indipendente dedicato all’allungamento della vita umana. Dal 1999 i ricercatori studiano come far vivere gli organismi molto di più e in condizioni di salute migliori. Hanno già prolungato di cinque volte la durata della vita dei vermi usati nei laboratori. La maggior parte degli statunitensi non ne ha mai sentito parlare, ma un giorno il Buck sarà molto famoso. E potrebbe non essere il solo. Altri istituti, tra cui l’università della California a San Francisco, quella del Michigan, quella del Texas e la Mayo clinic di Rochester, nel Minnesota, stanno cercando di capire come rallentare l’invecchiamento. Alla fine del 2013 Google ha fondato la California life company (Calico), un’azienda specializzata nella ricerca sulla longevità. Sei mesi dopo l’annuncio della nascita della Calico, Craig Venter – l’imprenditore del settore delle biotecnologie che negli anni novanta partecipò alla corsa per la mappatura del genoma umano – ha creato una società con lo stesso obiettivo. Se la scienza facesse qualche miracolosa scoperta, la percentuale di anziani negli Stati Uniti – destinata comunque ad aumentare a causa del calo delle nascite, del pensionamento di molti americani della generazione del baby boom e di quella scala mobile illustrata in precendenza – potrebbe salire ancora. Ovviamente tutti vorrebbero vivere più a lungo, ma esistono dei rischi per la società. La politica inirebbe per essere dominata

a cent’anni Agnes

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In copertina dai vecchi, che si assegnerebbero servizi e sussidi sempre più generosi pagati dai giovani. Le spese della previdenza sociale e delle società che ofrono piani pensionistici privati diventerebbero insostenibili. Se l’aumento della speranza di vita estenderà il periodo in cui gli anziani avranno bisogno di assistenza, i costi della sanità cresceranno a dismisura e non sarà possibile erogare altri servizi. Ma questa storia potrebbe anche avere un lieto ine. Se la ricerca medica per rallentare l’invecchiamento porterà anche un miglioramento delle condizioni di salute, l’allungamento della vita potrebbe essere un fatto positivo: la maggior parte degli uomini e delle donne continuerebbe a vivere in buone condizioni isiche, lavorerebbe più a lungo e i costi del welfare potrebbero essere contenuti. Gli studi più interessanti sono proprio quelli che mirano a migliorare la qualità degli ultimi anni della vita delle persone, invece che a ritardarne semplicemente la ine. Dal dopoguerra in poi la ricerca medica si è concentrata su problemi speciici, dedicati alle malattie cardiache, al cancro e così via. La ricerca tradizionale parte dal presupposto che le malattie croniche che si presentano in età avanzata e causano il maggior numero di morti – ostruzioni cardiovascolari, ictus e Alzheimer – sono di tipo individuale e vanno trattate individualmente. Ma se invece la causa di molte malattie croniche fosse l’invecchiamento? E se fosse possibile rallentarlo? A crescere non sarebbe solo la durata della vita ma anche quella della salute. Per i ricercatori, creare farmaci che prolungano la salute sta diventando quello che per la generazione precedente erano i vaccini e gli antibiotici: il sacro Graal. Se riusciranno nel loro intento, i loro medicinali potrebbero essere altrettanto eicaci. Nel frattempo, la società potrebbe trovare la soluzione a un antico mistero: dato che ogni cellula del corpo di un mammifero contiene l’impronta del dna della sua versione più giovane e sana, perché invecchiamo?

L’importanza del lievito “Nei nostri congelatori abbiamo un centinaio di composti che allungano la vita degli invertebrati”, dice Gordon Lithgow, uno dei genetisti del Buck institute. Mi accompagna nei laboratori del campus disseminato di ediici in stile modernista afacciato sul panorama da sogno della San Pablo bay. “Quello che non sappiamo è se funzionano sugli esseri umani”, aggiunge.

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L’istituto brulica di giovani ricercatori in jeans e berretti dei San Francisco 49ers. Se non fossimo circondati da microscopi, gabbie e camere di isolamento, potremmo anche essere nella sede di una startup della Silicon valley. Il centro porta il nome di Leonard e Beryl Buck, una coppia della contea di Marin che ha lasciato un pacchetto di azioni petrolifere a una fondazione incaricata di studiare, tra le altre cose, il motivo per cui le persone invecchiano. Quando l’istituto è stato inaugurato, le ricerche mediche inalizzate a rallentare l’invecchiamento sembravano utopistiche, il tipo di cose di cui parlano gli hippy depressi mentre sorseggiano vino e guardano il tramonto. A quindici anni dalla sua fondazione, il Buck è un centro all’avanguardia nel campo della biologia. In uno dei laboratori i ricercatori sono impegnati nell’analisi dei cromosomi dei lieviti. Il lievito è un ottimo oggetto di studio perché i suoi geni sono simili per un terzo a quelli umani. Eliminandone alcuni il lievito muore, eliminandone altri vive più a lungo. Al Buck stanno cercando di capire perché, nella speranza di poter riprodurre questi efetti nei mammiferi. È un lavoro snervante, con quattro microscopi in attività per almeno cinquanta ore a settimana. Gli scienziati che studiano l’invecchiamento lavorano soprattutto con i topi, i vermi, le mosche e i lieviti, perché sono piccoli e facili da tenere, e perché non vivono molto, quindi l’aumento della speranza di vita è facilmente osservabile. “Vent’anni fa allungare la vita dei vermi era un’impresa. Oggi qualunque ricercatore è in grado di farlo”, dice Simon Melov, un genetista del centro. Alcuni esperimenti inanziati dal National institute of aging statunitense hanno dimo-

strato che i farmaci possono allungare la vita di un topo di circa un quarto, e sempre nei topi i ricercatori del Buck sono riusciti a eliminare le disfunzioni cardiache collegate all’età. Immaginate come cambierebbe il mondo se la vita umana si allungasse del 25 per cento. L’ultima fase della ricerca consisterà nella sperimentazione sugli esseri umani. “Speriamo di trovare tra le cinque e le dieci piccole molecole in grado di allungare la vita e la salute nei topi, e poi proveremo con le persone”, dice Brian Kennedy, l’amministratore delegato del Buck. Un farmaco chiamato rapamicina, che questo e altri istituti stanno testando, è quasi pronto per la prova sugli esseri umani, e sembra che abbia potenzialità eccezionali. Ma oltre a essere una questione delicata dal punto di vista etico, sperimentare sulle persone una sostanza che allunga la vita sarà costoso e potrebbe richiedere decenni.

Cosa sanno le balene Nella ricerca sulla longevità non mancano i precedenti, alcuni dei quali invitano alla cautela. Una trentina d’anni fa il premio Nobel per la chimica Linus Pauling propose di usare grandi dosi di vitamina C per ritardare l’invecchiamento. Ma in seguito si è scoperto che in dosi molto elevate le vitamine possono diventare tossiche. Oggi gli esperimenti di laboratorio dimostrano che nei topi esiste un chiaro rapporto tra dieta ipocalorica e longevità. Il fatto che mangiare meno allunghi la vita dei piccoli mammiferi è una delle scoperte più importanti fatte finora dalla ricerca sull’invecchiamento. Con la dieta ipocalorica sembra che i topi cadano in uno stato vagamente simile all’ibernazione, ma ancora non sappiamo se un regime alimenta-

Da sapere Vecchi continenti Composizione della popolazione per fasce d’età in Europa e negli Stati Uniti, milioni di persone Over 60

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Under 20

Europa (Ue 15)*

Stati Uniti

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*I quindici paesi che formavano l’Unione europea nel 1995

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2050 Fonte: The Financial Times

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re simile funzionerebbe con le persone. Una campagna contro le calorie potrebbe avere grande successo, perché mangiare di meno non costa nulla. Ma prendendo per buoni gli esperimenti sui topi, le persone dovrebbero mangiare molto di meno, riducendo l’apporto calorico a un livello tale da sentire i crampi della fame tutto il giorno. “La dieta ipocalorica va molto di moda nel nord della California”, mi ha detto Melov. “Alcune persone che la praticano sono venute in visita all’istituto. Non avevano un bell’aspetto”. Di recente, équipe separate di ricercatori di Harvard, Stanford e dell’università della California a San Francisco hanno scoperto che i topi vecchi e malati sembrano ringiovanire quando ricevono una trasfusione di sangue da topi adolescenti. L’idea che un giorno anziani ricchi possano comprare da giovani poveri il sangue per vivere più a lungo è spaventosa, ma lo scopo della ricerca è stabilire quale componente chimica del sangue giovane eserciti un efetto beneico

sui tessuti maturi. Forse nel sangue giovane ci sono sostanze che risvegliano le cellule staminali dormienti, e si potrebbe concepire un farmaco che produca lo stesso efetto senza trasfusione. Il Buck e altri istituti stanno cercando il dna della salute in altri mammiferi. Tra le balene si veriicano molti meno casi di cancro. La dieta degli orsi polari è ricchissima di grassi, eppure questi animali non sofrono di aterosclerosi. Se si scoprissero i motivi biologici di queste diferenze, si potrebbe studiare un farmaco che ottenga lo stesso efetto nelle persone. Imitare quello che la natura ha già realizzato sembra un metodo più promettente che tentare di creare nuovi dna. Nei vermi è possibile modiicare i geni chiamati daf-2 e daf-16 per permettere agli invertebrati di vivere il doppio – e meglio – del normale. Cynthia Kenyon, una tra le prime biologhe molecolari assunte dalla Calico, ha fatto questa scoperta vent’anni fa, quando era ricercatrice all’università

della California a San Francisco. Manipolando gli stessi geni nei topi, Kenyon è riuscita a farli vivere più a lungo e con meno tumori rispetto al gruppo di controllo. Il gene daf-16 è simile al gene umano foxo3, di cui esiste una variante legata alla longevità. Si dice che uno dei primi progetti della Calico sia un farmaco capace di imitare questa variante. Dalla sua scoperta sui geni dei vermi sono passati molti anni, eppure Kenyon non è ancora riuscita a dimostrare che può essere applicata agli esseri umani. Ma il ritmo del suo lavoro sta accelerando. Venti anni fa le ricerche sul dna e sulle sequenze di geni duravano moltissimo. Oggi ci sono nuove tecniche e strumenti che permettono di ridurre i tempi. Da quando hanno dimostrato di poter allungare la vita dei lieviti, i ricercatori del Buck institute sono cautamente ottimisti sulla rapamicina. I topi a cui viene somministrata muoiono più tardi di quanto sarebbe naturale, e molti dei vecchi sembrano IInternazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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In copertina più giovanili ed energici. Concepita per impedire il rigetto degli organi trapiantati, la rapamicina sembra alterare la chimica associata alla senescenza cellulare. Se si scoprisse che riesce anche a ritardare l’invecchiamento delle persone, sarebbe il più importante uso of-label (cioè in situazioni diverse da quelle per cui una sostanza è stata approvata) nella storia della farmacologia. Ma una terapia per l’allungamento della vita basata sulla rapamicina è ancora lontana. E non si conoscono ancora i suoi efetti collaterali. Fatta eccezione per le malattie infettive, in medicina il rapporto causa-efetto è notoriamente diicile da accertare. Cafè, sale, burro: fanno bene, fanno male o non cambiano niente? Gli studi svolti inora non sono arrivati a nessuna conclusione. Perché alcune persone sviluppano malattie cardiovascolari e altre con le stesse abitudini no? Lo studio sulle patologie cardiovascolari condotto a Framingham, una cittadina del Massachusetts, va avanti da 66 anni e sta seguendo la terza generazione di volontari, ma non ha ancora risposto a queste domande. Dobbiamo tenere sotto controllo il nostro peso, mangiare più verdura e meno zuccheri, fare esercizio isico regolarmente e dormire a suicienza. Ma dobbiamo farlo perché è una questione di buon senso, non perché abbiamo la prova deinitiva che tutto questo ci aiuterà a vivere più a lungo. L’incertezza che caratterizza tutti i campi della medicina è più alta quando si parla di longevità, perché potrebbero volerci decenni per sapere se un particolare farmaco o un cambiamento nello stile di vita servano efettivamente a qualcosa. Gli studi sulle persone molto anziane non sono stati la miniera d’oro che i ricercatori si aspettavano. Una delle prime ricerche gerontologiche su vasta scala è lo studio longitudinale sull’invecchiamento di Baltimora, un progetto federale avviato nel 1958 e tuttora in corso. Il direttore, Luigi Ferrucci, dice: “Lo studio ha accertato che alcune patologie degli anziani spesso inviano segnali di avvertimento riconoscibili durante la giovinezza. Questo potrebbe consentire di intervenire tempestivamente per ridurre la probabilità di malattie croniche in età avanzata. Ma le grandi domande sono ancora senza risposta. Per esempio: la longevità è causata soprattutto dai geni o soprattutto dallo stile di vita e dall’ambiente?”. Gli studi sui gemelli fanno pensare che la longevità sia ereditaria almeno per il 30 per cento. Questo è uno degli elementi che rendono ottimisti i ricercatori, perché se fosse vero si potrebbe creare in laboratorio

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una sostanza che induca il sangue a riprodurre quello che succede nel corpo delle persone nate con il dna di lunga vita. “Ma quando ricostruiamo la sequenza del loro genoma, solo l’1 per cento sembra collegato alla longevità”, dice Ferrucci. “L’altro 99 per cento del presunto efetto genetico rimane inspiegabile”. Quando va ai convegni di medicina, Ferrucci mostra a medici e ricercatori l’elaborato proilo di una paziente, e poi chiede ai suoi colleghi di indovinare quanti anni ha. “Spesso le danno venti anni in più o in meno”, dice. “Questo succede perché dal punto di vista medico non sappiamo che cosa sia ‘l’età’. L’unico modo che abbiamo per stabilirla è chiedere a una persona la sua data di nascita. La scienza è ancora a questo punto”. L’invecchiamento, naturalmente, porta con sé la senescenza. La senescenza delle cellule, una sottocategoria del fenomeno complessivo, afascina moltissimo i ricercatori: i tessuti e gli organi del nostro corpo tendono a danneggiarsi, e il funzionamento delle cellule tende a peggiorare, spesso aprendo la strada ai tumori. Quando è necessario riparare una lesione o fermare un tessuto canceroso che si sta riproducendo, le cellule vicine trasmettono segnali chimici che innescano la riparazione di quelle danneggiate o la morte di quelle maligne. Nei giovani il sistema funziona abbastanza bene. Ma quando diventano senescenti, le cellule cominciano a inviare falsi positivi. La capacità del corpo di autoripararsi si riduce perché la produzione in eccesso dei segnali provoca un’iniammazione permanente che è la causa principale delle patologie cardiovascolari, dell’Alzheimer, dell’artrite e di altre malattie croniche associate all’invecchiamento. Se si riuscis-

Da sapere Dove la vita dura poco Paesi con la speranza di vita più breve, 2010-2015 1 Sierra Leone

45,3

2 Botswana

47,4

3 Swaziland

49,2

4 Lesotho

49,5

5 Repubblica Democratica del Congo

49,8

6 Repubblica Centrafricana

49,9

7 Mozambico

50,2

8 Costa d’Avorio

50,5

9 Ciad

51,0

10 Angola

51,7

Fonte: Il mondo in cifre 2015

se a rallentare questo processo, saremmo più sani nei nostri ultimi anni di vita. “Non è un caso se l’incidenza delle malattie croniche dovute all’invecchiamento è molto più alta dopo i cinquant’anni: è in quel periodo che le cellule senescenti aumentano”, aferma Judith Campisi, che dirige la ricerca del Buck in questo settore. “Se si ritiene, come fanno molti scienziati, che l’invecchiamento sia la causa principale delle malattie croniche, è essenziale capire come si accumulano le cellule senescenti”.

Teorie diverse Alcuni studiosi, come James Vaupel, fondatore dell’istituto Max Planck per la ricerca demograica di Rostock, in Germania, pensano che l’innalzamento della speranza di vita continuerà indipendentemente dalle scoperte della biotecnologia. Altri, come Jay Olshansky, che insegna salute pubblica all’università dell’Illinois a Chicago, la pensano diversamente. Nel 2002 Vaupel ha pubblicato sulla rivista Science un articolo sulla sorprendente linearità con cui è aumentata la speranza di vita a partire dal 1840. La sua controversa conclusione è stata che “non dovremmo vedere il calo della mortalità come una sequenza di rivoluzioni irripetibili e scollegate tra loro ma piuttosto come una tendenza regolare e progressiva”. Secondo Vaupel non è stato un evento speciico a determinare la crescita della speranza di vita: un’alimentazione migliore, una sanità pubblica, un’igiene e conoscenze mediche migliori hanno contribuito, ma la causa principale è stata “la continua tendenza a progredire”. Secondo lo studioso si poteva “ragionevolmente ipotizzare” che questo aumento sarebbe continuato almeno ino a quando la speranza di vita alla nascita non avesse superato i cento anni. E su questo non ha cambiato idea. “I dati confermano ancora le mie conclusioni del 2002. L’innalzamento della speranza di vita è rimasto lineare”, aferma. Secondo un recente rapporto dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie, negli Stati Uniti il tasso di mortalità corretto per età (uno strumento che permette di confrontare tra loro gruppi con caratteristiche diverse) ha raggiunto il minimo storico nel 2011. Oggi le prime quattro cause di morte sono le malattie dovute all’invecchiamento: infarto, cancro, insuficienza respiratoria cronica e ictus. Se gli standard di vita continueranno a migliorare, dice Vaupel, la speranza di vita continuerà a crescere.

Bengt

L’altra faccia della medaglia è rappresentata da Olshansky, secondo cui l’innalzamento della speranza di vita “presto si fermerà, se non è già successo”. A suo avviso, “la maggior parte delle conquiste del ventesimo secolo sono dovute al calo della mortalità infantile e sono irripetibili”. Negli Stati Uniti la mortalità infantile è leggermente superiore a quella di altri paesi, ma è scesa moltissimo (ino a un caso su 170), quindi resta poco spazio per ulteriori miglioramenti. “Quando i giovani non muoiono le statistiche cambiano completamente”, dice Olshansky. “I progressi della medicina e un cambiamento nello stile di vita non aggiungono molto”. Olshansky calcola che se la medicina riuscisse a sconiggere il cancro, la speranza di vita degli statunitensi aumenterebbe solo di tre anni, perché emergerebbero altre malattie croniche fatali. Secondo lo studioso nel corso di questo secolo la durata della vita aumenterà “di circa dieci anni” e sarà accompagnata da migliori condizioni di salute. Ma poi la ten-

denza rallenterà o si fermerà del tutto. L’idea che la vita umana possa avere un limite biologico non rientra in questo dibattito. Jeanne Calment, una francese vissuta dal 1875 al 1997, inora è la persona che ha vissuto più a lungo. Ovviamente è un’eccezione, ma anche se le eccezioni non ci dicono molto ci mostrano che la possibilità esiste. Calment è morta a un’età che supera di molto le proiezioni di Vaupel e Olshansky. In ogni caso, nel corso del novecento vari esperti hanno sostenuto che la durata della vita stava per raggiungere il limite massimo, ma sono stati sempre smentiti. Convincere le persone a fumare meno e a evitare di guidare in stato di ebbrezza ha ovviamente contribuito ad abbassare il tasso di mortalità. Il calo degli omicidi è stato così signiicativo – si continua a sparare, ma i progressi nella traumatologia hanno permesso di salvare molte più vite – che ormai negli Stati Uniti le morti violente non sono più tra le 15 principali cause di morte.

L’attenzione dell’opinione pubblica tende a concentrarsi sul peso che l’alimentazione ha sulla durata della vita: dovremmo tutti usare olio di pesce e comprare prodotti biologici? Forse sì, ma il modo in cui sono costruite le nostre case e in cui sono organizzate le nostre famiglie e le nostre amicizie è altrettanto importante. Thomas Perls, un professore della Boston university che studia il genoma dei centenari, ha notato che gli avventisti del settimo giorno hanno una speranza di vita superiore di una decina di anni rispetto ai loro coetanei. “Non bevono, non fumano, sono quasi tutti vegetariani, fanno regolarmente esercizio isico – anche da vecchi – e un giorno alla settimana si riposano sul serio”. Ma quello che lo ha colpito di più è stato il fatto che vivono in grandi gruppi sociali. “L’interazione continua con altre persone può essere fastidiosa, ma nel complesso sembra tenerci più legati alla vita”. Lo strumento migliore per misurare la probabile durata della vita di una persona è IInternazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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In copertina l’istruzione. “Se qualcuno entrasse nel mio studio e mi chiedesse di predire quanto vivrà, gli chiederei due cose: quanti anni hai e per quanti anni hai studiato”, dice John Rowe, professore di politiche sanitarie alla Columbia university ed ex amministratore delegato della compagnia di assicurazioni Aetna. Il punto non è che leggere Dostoevskij abbassi la pressione sanguigna. L’università è legata ad altri aspetti della vita personale: rispetto alle persone meno istruite, i laureati hanno un reddito più alto, fumano di meno, corrono meno il rischio di essere sovrappeso e rispettano di più i consigli del medico. Inoltre, è più probabile che un laureato si sposi e rimanga sposato, e il matrimonio fa bene alla salute: le persone sposate sofrono meno di infarto e di ictus dei single o dei divorziati.

delle invalidità legate all’invecchiamento sarà ancora gestibile. Ma se le condizioni di salute degli anziani non miglioreranno, l’aumento della longevità potrebbe innescare una crisi economica. Oggi negli Stati Uniti si spendono circa 150 miliardi di dollari all’anno per i malati di Alzheimer. Entro il 2050 il numero di persone afette da questa malattia potrebbe triplicare, e la spesa a carico della società sarebbe pari all’attuale bilancio della difesa. L’aumento della longevità fa crescere anche il numero di familiari da mantenere. Un tempo molte famiglie avevano un solo parente molto anziano, mentre oggi i nonni sono tre o quattro, e tutti hanno bisogno di cure e assistenza. Al tempo stesso, gli alberi genealogici tradizionali sono stati sostituiti da diagrammi che somigliano alla mappa della metropolitana di Londra.

Invecchiamento e politica La società è dominata dagli anziani. L’aumento della speranza di vita fa sì che ogni anno il rapporto tra le generazioni sia sempre più squilibrato. I vecchi pretendono servizi che i giovani devono pagare, i ventenni sono siduciati e hanno l’impressione che la società li penalizzi. Il debito pubblico cresce a una velocità allarmante. Le persone non producono nuove idee perché sono troppo impegnate a difendere la loro fetta di torta. Non è una previsione sul futuro degli Stati Uniti ma una descrizione del Giappone di oggi. Il paese asiatico è il più anziano del mondo. L’età mediana è di 45 anni (negli Stati Uniti è di 37), e arriverà a 55 entro il 2040. L’idea che nel prossimo futuro gli Stati Uniti somiglieranno al Giappone – sempre più vecchi, con un debito sempre più alto e una crescita economica in calo – è preoccupante. In uno studio del 2009, Olshansky ha fatto una previsione dell’andamento della popolazione statunitense nei prossimi decenni. Gli americani che oggi hanno 65 anni o più, cioè 43 milioni, nel 2040 potrebbero essere 108 milioni. La fascia dei “più vecchi”, quelli dagli 85 in su, potrebbe aumentare di cinque volte, e arrivare a costituire il 6 per cento dei cittadini. Secondo queste proiezioni, entro il 2050 la speranza di vita supererà di 3-8 anni l’età che la previdenza sociale usa per calcolare la sua solvibilità, e Olshansky ha previsto che entro quello stesso anno sia il Medicare (il programma di assicurazione sanitaria per persone con almeno 65 anni) sia la previdenza sociale avranno tra i tremila e gli ottomila miliardi di dollari di spese non coperte. Se si riuscirà ad aumentare anche la durata della vita in buona salute, forse il costo

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Molte persone dovranno rivedere la loro idea della pensione Nel 1940 l’americano medio che arrivava a 65 anni passava circa il 17 per cento della sua vita in pensione. Oggi siamo al 22 e la percentuale continua a salire. Ma i calcoli della previdenza sociale sono ancora fatti in base alle informazioni sulla longevità del secolo scorso. Secondo James Vaupel non tenere conto della continua marcia in avanti della speranza di vita “distorce le decisioni che le persone prendono su quanto risparmiare e quando andare in pensione” e “permette ai politici di rimandare la dolorosa riforma della previdenza sociale”. Si potrebbero raccogliere fondi alzando la base imponibile per i contributi alla previdenza sociale, che attualmente è di 117mila dollari. È l’unica opzione politicamente accettabile, perché colpirebbe solo i più ricchi. Ma di recente l’uicio bilancio del congresso è arrivato alla conclusione che anche questa misura non basterebbe a impedire che la previdenza sociale fallisca.

Da sapere Le fotograie

u Le foto di queste pagine fanno parte del progetto Eyes as big as plates, dell’artista inlandese Riitta Ikonen e della fotografa norvegese Karoline Hjorth. Le autrici ritraggono anziani scandinavi e li fondono con il paesaggio. Un riferimento al legame tra gli esseri umani e la natura, e al ritorno alla terra.

Sarà necessario fare altri aggiustamenti, come ritardare l’età della pensione o rivedere i calcoli sul costo della vita. Molti dovranno rivedere la loro idea della pensione: non sarà più un’interruzione improvvisa dopo anni di lavoro, ma un periodo in cui una persona passa gradualmente dal lavorare tutto il giorno a mezza giornata, e poi alla collaborazione occasionale. Molte persone forse preferirebbero continuare a lavorare part time in condizioni meno stressanti invece che ricevere un orologio d’oro in regalo e poi non fare più nulla. Questo percorso graduale potrebbe essere una scelta più attraente del pensionamento tradizionale, ma è possibile solo se gli anziani rimangono in buona salute.

Una seconda vita In natura gli animali giovani sono più numerosi dei vecchi; l’umanità, invece, sta andando verso una prevalenza degli anziani. Il mondo di domani sarà diverso da quello di oggi per molti aspetti. L’università, che è un pilastro importante dell’economia contemporanea, in futuro potrebbe essere frequentata da persone di tutte le età. La pubblicità dei prodotti indirizzati agli anziani è già molto presente in tv, e un giorno potrebbe arrivare a essere predominante. Ma il consumismo potrebbe diminuire. Gli studi neurologici condotti su persone anziane in buona salute hanno dimostrato che con il passare del tempo le zone del cervello associate alla ricerca di gratiicazioni si attivano meno spesso. Che si tratti di abbigliamento alla moda o di dolci, nel complesso le persone anziane desiderano comprare meno di quelle più giovani. Probabilmente ci saranno cambiamenti sociali ancora più profondi. È più probabile che qualcuno commetta un reato nel periodo che va dall’adolescenza ai trent’anni che non in altri periodi della vita. Con l’invecchiamento della società, il tasso di criminalità dovrebbe diminuire. Come ha scritto Steven Pinker del libro Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più paciica della storia (Mondadori 2013), le vittime delle guerre, comprese quelle indirette dovute ai danni economici provocati da un conlitto, stanno diminuendo nonostante l’aumento della popolazione mondiale. Nel 1950 nel mondo una persona su cinquemila moriva a causa di un combattimento; nel 2010 il rapporto è sceso a una su 300mila. Negli ultimi anni, sono morte molte più persone negli incidenti stradali che in un conlitto. Di conseguenza, anche la spesa militare pro capite è diminuita. Inoltre, gli studi psi-

Salme

cologici dimostrano che gli anziani sono generalmente più soddisfatti dei giovani. Nelle ultime fasi della vita, di solito le persone hanno raggiunto i loro obiettivi materiali o sentimentali, oppure ci hanno rinunciato; le passioni si sono rafreddate e, in molti casi, possono contare su un ricco bagaglio di ricordi. Una delle conclusioni fondamentali della ricerca sul benessere personale condotta da Daniel Kahneman, psicologo dell’università di Princeton, è questa: “Alla ine, si vogliono solo conservare i ricordi”. Quello che rimane nella memoria conta più di quello che si possiede. E, indipendentemente dalle condizioni economiche, in questo senso gli anziani sono più ricchi di tutti. Se un maggior numero di persone vivesse più a lungo in condizioni di salute decenti, il benessere complessivo della famiglia umana aumenterebbe notevolmente. Nella commedia di Shakespeare Come vi piace, il personaggio di Jacques dice: “Nella vita ognuno recita molte parti, e i

suoi atti sono sette età”. Le prime cinque rappresentano la speranza e il potere: il bambino, lo scolaro, l’amante, il soldato, l’uomo di successo. Le ultime sono completamente negative: c’è il vecchio in pantofole, preso in giro per il suo aspetto cadente e la sua impotenza; e alla ine arriva la seconda infanzia, la discesa nella dipendenza senile. Con l’aumento della speranza di vita in buona salute forse queste sette età dovranno essere riviste e le ultime fasi dovranno essere considerate un periodo di benessere e soddisfazione. Si potrebbe anche pensare di organizzare la vita intorno all’amicizia e non più intorno alla famiglia, che è stata l’unità di base della società umana in dalla preistoria. Nella breve vita dei secoli precedenti, tutto quello che un uomo e una donna potevano sperare di fare era procreare e allevare i igli, e alla ine non avevano più la forza per fare altro. Oggi la vita è più lunga e l’economia basata sull’istruzione richiede un maggior investimento nei igli, che

hanno bisogno di una mano anche dopo i trent’anni. Poi, una volta sistemati quelli, comincia il declino. Ma se le persone potessero rimanere in salute più a lungo, forse la famiglia nucleare diventerebbe meno importante. Per molte persone fare igli e crescerli non sarebbe più l’attività principale, e avrebbero ancora molti anni in cui godere dell’amicizia, anni potenzialmente più gratiicanti di quelli della giovinezza, carichi di emotività. Un cambiamento come questo avrebbe molte conseguenze per la società, più di quelle che avrebbe sul mondo del lavoro o sul welfare. Indipendentemente da dove ci porterà l’aumento della speranza di vita, stiamo comunque andando verso qualcosa di ignoto, sia per la società sia per la natura. Per usare le parole di Felipe Sierra, ricercatore del National institute on aging, “la convinzione umana che la morte debba essere rimandata il più a lungo possibile non esiste nel mondo naturale, da cui ormai ci stiamo comunque allontanando”. u bt IInternazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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Germania

BorIS roeSSler (PICtUre AllIAnCe/DPA)

Manifestazione islamista a Francoforte, 2011

Il culto del jihad tra i ragazzi europei Der Spiegel, Germania

Cinquecento tedeschi sono partiti per andare a combattere in Siria. In più di cento sono tornati. Ma cosa li ha spinti a unirsi ai jihadisti? Un’inchiesta dello Spiegel 46

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uando Ismail Cetinkaya incontra uno di quei ragazzi che vogliono partire da Amburgo per andare a combattere in Siria, gli chiede: “Ma tu hai mai dormito in una casa senza riscaldamento in pieno inverno? Sai fare a meno dell’elettricità e dell’acqua corrente? Pensi che usare un kalashnikov sia come manovrare il joystick della Playstation?”. Cetinkaya, 33 anni, ha la barba folta e prega Allah cinque volte al giorno. I suoi genitori sono emigrati turchi originari di Mardin, una città vicino al conine con la Siria. Parla bene l’arabo e non ha bisogno di predicatori tedeschi né di video su You-

Q

Tube per capire cosa vuole Dio da lui. Dio vuole che si dedichi al jihad. Ma jihad signiica semplicemente “sforzo”: lo sforzo di seguire la via dell’islam. Nel Corano il “grande jihad” non è la guerra contro gli infedeli ma la lotta di un individuo contro se stesso e i suoi errori. Cetinkaya ha trionfato in varie battaglie: quella contro se stesso e quella contro gli avversari che incontra nei tornei di arti marziali miste, una disciplina in cui si combatte all’interno di grandi gabbie. Cetinkaya è un istruttore molto apprezzato e ha aperto una scuola di arti marziali miste. Quando passa per le strade di Amburgo i ragazzi vanno a stringergli la mano. Lo rispettano: è un buon lottatore e un musulmano modello. Vuole che i giovani imparino a leggere il Corano e capiscano a fondo la religione. Non tollera che si limitino a scimmiottare quello che sentono nei video pubblicati su internet e soprattutto non approva che vadano a combattere a quattromila chilometri di distanza e a farsi ilmare mentre decapitano ostaggi declamando versetti del Corano. Deso Dogg faceva il rapper a Berlino. Oggi è il più noto tra i tedeschi che combattono con il gruppo Stato islamico in Siria. Cetinkaya conosce Deso Dogg perché l’ha afrontato in un combattimento. È stato nel marzo del 2010, in una palestra della capitale dove s’incontravano i migliori lottatori del paese. Nella sua disciplina Cetinkaya è stato vicecampione della Germania e vicecampione del mondo. Deso Dogg, invece, era lento, non era al suo livello. Così ha incassato un colpo dopo l’altro inché non è andato al tappeto. Per molto tempo Cetinkaya non ha avuto più notizie dell’avversario, finché un giorno alcuni amici gli hanno mostrato dei post su Facebook che annunciavano la morte di Deso Dogg in Siria. Cetinkaya è rimasto sorpreso: quel giorno a Berlino aveva guardato Deso Dogg dritto negli occhi e aveva capito che non era un vero combattente. La notizia della sua morte in seguito si è rivelata infondata. Oggi l’ex rapper è uno dei protagonisti della propaganda del gruppo Stato islamico. Il suo vero nome è Denis Cuspert, ma si fa chiamare Abu Talha al Almani e viaggia in jeep per le strade della Siria. Nei video lancia messaggi ad altri jihadisti o aspiranti tali. All’inizio di novembre Deso Dogg è apparso in un video che mostra per intero una decapitazione. Dice: “Combattevano contro il gruppo Stato islamico. Per questo li abbiamo condannati a morte”. L’ex rap-

per parla di jihad. Ma per Cetinkaya il suo è un delirio. La propaganda di gente come Deso Dogg, però, funziona. I ragazzi sono ricettivi. Kreshnik B., iglio di rifugiati kosovari in Germania, è andato a combattere in Siria. Tornato a casa, è stato incriminato per aver dato sostegno a un gruppo terroristico straniero. David G., originario del sud della Baviera, era un ragazzo gentile e tranquillo che faceva l’apprendista. A 18 anni è andato a combattere per il gruppo Stato islamico ed è rimasto ucciso in battaglia. Mustafa K., di Dinslaken, nel nordovest della Germania, nelle foto scattate in Siria sorride mentre tiene in mano delle teste mozzate. Da giovane era sovrappeso, andava male a scuola, era un disastro con le donne e spesso veniva picchiato. Beveva troppo e la mattina all’alba lo trovavano completamente ubriaco al chiosco del kebab sulla piazza del mercato. Secondo le autorità tedesche circa cinquecento uomini, tra cui molti giovani, sono partiti dalla Germania per andare in Siria o in Iraq. La maggior parte non parla l’arabo, ha letto poco il Corano e l’ha capito ancora meno. Si sono fatti inluenzare da amici, predicatori e reclutatori. Volevano fare gli eroi, proteggere i fratelli e le sorelle dai gas tossici di Assad (chiamati “il gas occidentale”). Ragazzi di Berlino, di Amburgo o di Dinslaken sono partiti in gruppo. Tra loro ci sono giovani emarginati delle periferie, ma anche laureati in ingegneria. I più svantaggiati, i “perdenti”, sono il bersaglio preferito delle organizzazioni terroristiche come lo Stato islamico. Arruolandosi nei gruppi jihadisti, questi ragazzi pensano di avere un’opportunità di riscatto. Non a Dinslaken o a Berlino, ma nel jihad, anche se dopo aver conquistato la fama prima o poi muoiono da “martiri”. Muoiono lasciandosi dietro dei video e dei connazionali spaventati, convinti che la situazione in Medio Oriente abbia qualcosa a che fare con l’islam. In questo modo si raforza l’idea di una religione bellicosa, che minaccia l’occidente con la sua barbarie e le esecuzioni in stile medievale. Oggi Denis Cuspert è tornato a essere una pop star, come quando si faceva chiamare Deso Dogg. Appare in molti video. Un tempo i suoi concorrenti nel mondo della musica lo superavano: Bushido, Sido o Kool Savas si facevano conoscere in Germania come gangsta-rapper, mentre la fama di Deso Dogg rimaneva circoscritta a Kreuzberg, il quartiere dove abitava. La Internazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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Germania blicato un nuovo video, in cui dice di chiamarsi Abu Malik. Il ilmato è un invito ai suoi fratelli nell’islam a partecipare a un seminario in moschea. “Ci sarò anch’io”, annuncia. “Una volta tanto, un ine settimana senza discoteca, senza divertimenti”. Esita un attimo, poi si corregge: “Anche qui potete divertirvi. E imparare qualcosa per voi, per la vostra anima”. Abu Malik ha deciso di andare di città in città, come un predicatore itinerante, per raccontare nelle moschee come ha trovato la fede. Il “iglio del diavolo” ha smesso di fare il rapper e ha cominciato a cantare nashid, canti religiosi, in cui invoca la guerra contro gli infedeli, l’unica musica permessa dai suoi nuovi amici. In un altro video canta: “Svegliatevi, svegliatevi / guerra ovunque nel mondo, i musulmani cadono per il petrolio e per il denaro, Allahu akbar / le madri gridano, i bimbi piangono, niente paura dei miscredenti / partite, partite / Uzbekistan, Afghanistan, combattiamo nel Khorasan / combattiamo, cadiamo, shuhada / nell’occhio del nemico, bismillah, Allahu akbar”.

cultura hip-hop è una cultura del successo, non esistono perdenti felici: chi perde è una vittima, uno sigato, uno zero. A un certo punto, raccontano amici ed ex collaboratori, Deso Dogg ha mollato il rap e si è dedicato allo sport allenandosi duramente per diventare un lottatore. Ha fatto dei combattimenti, ma quello con Ismail Cetinkaya è stato l’ultimo. A quel punto ha cominciato ad andare sempre più spesso in moschea. Era convinto che convertendosi all’islam e vivendo da musulmano devoto alla ine sarebbe stato perdonato. Aveva peccato molto e l’idea di ricominciare da zero lo allettava. In un video di quel periodo è insieme a Pierre Vogel, un predicatore islamico di Bergheim, nel nordovest della Germania. Sono seduti su un tappeto in una sala sul retro di una moschea di Berlino, e parlano di combattimenti, canzoni rap – “troppo volgari” – e di Bushido e altri vecchi rivali di Deso Dogg. Vogel vorrebbe usare i rapper per fare proselitismo. “Se li riunissimo tutti insieme, be’, ognuno ha i suoi fan, non c’è mica solo Berlino”, dice il predicatore. Parlano anche della concorrenza sulla scena rap. “Ci sono molte analogie, no?”, dice Vogel e ride. Sullo sfondo si sente il richiamo del muezzin: “Allahu akbar”. Deso Dogg dice di volersi trasferire a Düsseldorf, dove si sta tranquilli. “Io ti consiglierei di trovarti un altro campo di attività. Ma tanto, tu sei già in partenza”, ribatte Vogel. Nel maggio del 2010 Cuspert ha pub-

L’attentato Il 2 marzo 2011 Arid Uka, nato in Kosovo e residente a Francoforte, ha ucciso due militari statunitensi nell’aeroporto della città. È stato l’unico attentato terroristico di matrice islamica a causare vittime in Germania. Prima di colpire, Uka aveva scritto su Facebook: “Ti amo per Allah, Abu Malik”.

Da sapere I combattenti stranieri in Iraq e Siria Regno Norvegia Svezia Unito

Canada

Danimarca

Stati Uniti Irlanda

Australia

Finlandia

Germania

Belgio

Russia

Paesi Bassi Lussemburgo

Ucraina Austria Bosnia Erzegovina Serbia Italia Bulgaria Kosovo

Kazakistan

Svizzera Francia Spagna

Albania

Turchia Iraq

Tunisia Algeria

Libia

Egitto

Giordania

FoNTE: RFERL.oRG

Palestina

50 100 500

1.500

Kirghizistan Tagikistan

Siria

Libano Marocco

Uzbekistan

Macedonia

Afghanistan Kuwait Pakistan

Arabia Saudita

Emirati Arabi Uniti

Yemen

u I paesi di provenienza dei miliziani stranieri arruolati nei gruppi jihadisti in Iraq e in Siria. Si stima che dal Regno Unito siano partite tra le 500 e le 2.000 persone, dalla Francia 930.

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I nashid di Denis Cuspert sono stati i primi a cantare apertamente l’ideologia del terrorismo islamico in Germania. In seguito molti di questi brani sono stati proibiti. Ma Cuspert è stato un pioniere e in un certo senso era diventato un divo. La sua propaganda faceva proseliti. Lui ora si definisce “nemico pubblico numero uno”, aggiungendo: “Sono musulmano, sono contro la democrazia, contro l’integrazione, per la sharia”. Nel novembre del 2011 Cuspert ha fondato insieme ad altri compagni l’associazione islamica radicale Millatu Ibrahim (Religione di Abramo). Il capo del movimento era Mohamed Mahmoud, un islamista che era stato in carcere a Vienna e che dopo il rilascio aveva deciso di trasferirsi in Germania. L’associazione si appoggiava a una moschea di Solingen. A Bonn nel maggio del 2012 si è svolta una manifestazione a cui hanno partecipato molti dei suoi appartenenti, e il loro portavoce era Cuspert. Era in prima ila a pregare e a gridare in un megafono. Dopo un po’ hanno cominciato a volare pietre. Con in mano una sbarra divelta da una recinzione, ha cercato anche lui di impedire che i sostenitori di un piccolo partito della destra xenofoba sventolassero i loro cartelli con le caricature di Maometto. Uno dei suoi compagni ha aggredito due poliziotti con un coltello ferendoli alle cosce. In seguito Cuspert gli ha dedicato un nashid dal titolo “Il leone tedesco Murat K.”. Slogan, pietre, auto della polizia ribaltate. La moschea di Solingen è stata chiusa, l’associazione messa al bando, Cuspert indagato per sedizione. Alcuni suoi amici sostengono che i servizi segreti abbiano cercato di arruolarlo. Ma Cuspert ha lasciato il paese, è andato in Egitto e da lì in Siria. In un video di addio lo si vede sulla riva del Reno che dichiara guerra alla Germania e minaccia attentati. Cuspert è andato in Siria ed è stato assoldato dal gruppo Stato islamico. Mantenendo i contatti con la moglie in Germania, è riuscito a farsi mandare caricabatterie, telecamere e smartphone. Ha fatto servizio come sentinella e come autista nelle azioni del gruppo. Quando è stato ferito, gli hanno fatto delle feste come si addice a un martire, un eroe disposto a morire per Allah. Intanto, a Berlino, la partita con i suoi vecchi avversari si è chiusa. Alcuni dei suoi amici di un tempo hanno cancellato tutti i graiti che aveva fatto sui muri. In giro non doveva più esserci nulla che potesse ricordarlo. Neanche la sua musica è più in ven-

MILOS DjURIC

Ismail Cetinkaya (a sinistra) in un ristorante di Amburgo, 24 ottobre 2014

dita. Amazon e iTunes hanno tolto le sue canzoni dal mercato. Il governo tedesco vorrebbe che il nome di Cuspert fosse inserito nella lista delle persone sospettate di terrorismo colpite dalle sanzioni dell’Onu, in modo che nessuno possa più inviargli denaro. Oggi non resta molto di quel ragazzo seduto in una moschea di Berlino. Le immagini provenienti dalla Siria mostrano un Denis Cuspert, che stavolta si fa chiamare Abu Talha al Almani, pieno di rabbia. Non s’identiica più con i suoi fratelli lontani: con loro ha chiuso. A quelli rimasti a casa – chiamati le “lumache” perché molli e lenti – dice: “Grazie, da voi ho imparato, ma non mi servite più, oggi sto più avanti. Restate pure laggiù, a bere tè e a sgranocchiare semi di girasole, come le donne”. Per lui sono “finti musulmani”, “predicatori fifoni”, “eroi solo su internet”. “Io e quelli con cui sono partito abbiamo sacriicato molto sul cammino di Allah”, sottolinea. “Salute, famiglia, libertà”. Poi lancia un appello: al fronte servono più servitori, più soldati. Su internet è circolata una foto di David G., 19 anni, con il volto coperto di sangue. Sotto, una didascalia: “Un leone”. Il ragazzo è morto quest’anno mentre combatteva per il gruppo Stato islamico in Siria. David

aveva 16 anni quando si è convertito all’islam. Era alla ricerca di Dio, ricordano i familiari. Altri parlano piuttosto di una “ricerca di senso”. A quel tempo David andava spesso a Dinslaken per incontrare il suo nuovo amico Mustafa K. Poi ha mollato il corso per elettricisti e ha abbandonato anche la boxe. Quando Mustafa K. si è trasferito in Siria, David ha venduto i suoi libri al mercato delle pulci e ha scritto una lettera d’addio. Il suo primo tentativo di espatriare si è concluso all’aeroporto di Monaco. I genitori avevano sospettato qualcosa e hanno avvisato la polizia. La carta d’identità gli è stata ritirata e restituita con il timbro: “Non valida per l’espatrio”. I genitori hanno seguito i consigli contenuti in un opuscolo che spiegava come comportarsi con i igli che hanno sposato un’ideologia radicale. Ma non è servito a niente. Poco tempo dopo David è salito su un treno diretto in Ungheria e da lì è passato in Serbia. Sembra che abbia proseguito a piedi ino in Bulgaria e poi in Turchia. Destinazione inale: la Siria. David aveva la pelle chiara, era biondo e imberbe. Sembrava uno studente che partecipa a uno scambio culturale. Nessuno l’ha fermato mentre andava in guerra. Durante il viaggio ha inviato un’ultima im-

magine in cui posa accanto a Mustafa. I due indossano magliette nere simili a quelle dell’Adidas, solo che al posto del marchio sportivo c’è la scritta “alqaida” e la sagoma di un aeroplano che si dirige verso la più alta delle tre strisce. Sotto spicca la frase “Millatu Ibrahim”, il nome del gruppo di Cuspert. Gli inquirenti hanno ammesso che, se lo avessero sorvegliato meglio, forse oggi David sarebbe ancora vivo. Ma neanche i genitori più attenti possono fare molto.

Sul banco degli imputati La madre di Kreshnik B. è seduta in un’aula della corte d’appello regionale di Francoforte, si asciuga le lacrime e sembra felice. Suo iglio non è più lontano migliaia di chilometri, ma si trova dietro il vetro che divide gli spettatori dal banco degli imputati. Kreshnik ha vent’anni, è accusato di far parte di un’associazione terroristica straniera e di aver preparato un attentato contro lo stato. È il primo processo in Germania contro un appartenente al gruppo Stato islamico. Kreshnik, che in passato giocava in una squadra di calcio ebraica di Francoforte, ha cominciato la sua metamorfosi dopo aver cambiato scuola: ha trovato nuovi Internazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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Germania amici, e con loro l’islam, che rispondeva alla sua ricerca di senso. Gli amici gli parlavano spesso della guerra lontana. Lui era arrabbiato per quello che stava succedendo in Siria e per il fatto che nessuno intervenisse. Kreshnik voleva essere coraggioso come un leone, un uomo vero, un musulmano devoto, non un fifone. Nel luglio del 2013, a 19 anni, è partito. Lui e i suoi amici di Francoforte hanno preso un pullman per Istanbul e hanno proseguito ino in Siria. All’arrivo Kreshnik ha giurato fedeltà al gruppo Stato islamico e ha seguito un corso di addestramento all’uso delle armi. Le carte processuali contengono le trascrizioni delle chat con la sorella. “Io parto, vado a combattere, faccio il mio dovere per Allah”, scrive Kreshnik. “Sei giovane, sciocco e ingenuo, a 25 anni te ne pentirai”, risponde lei. “Catturano di continuo ragazzini che hanno ucciso un uomo per appena cinquanta euro”. “Ma io sono qui per la religione. Nel Corano c’è scritto: ‘Uccideteli dovunque li troviate’”. “Piantala con il Corano e torna a casa”. “Non me ne frega niente di vivere in Germania”, scrive Kreshnik, “Nik” per la sorella. All’inizio si sentiva ancora un eroe. Nella sua nuova patria era contento, pensava di poter fare strada. In Germania andava male a scuola, in Siria sognava di ricevere un addestramento serio e di diventare un tiratore scelto. Voleva essere importante, avere successo, lottare insieme ai fratelli per fondare uno stato solo per musulmani. Al primo scontro importante Kreshnik è rimasto nelle retrovie. Come ha raccontato alla sorella, gli arabi e i ceceni non si idano molto dei ragazzi venuti dall’Europa. Kreshnik non parla l’arabo. Quando al campo non c’era il traduttore, non capiva cosa succedeva, quali erano i piani, per cosa stava lottando. Vedeva musulmani uccidere altri musulmani. Una strana idea di fratellanza. Ma lui continuava a parlare di “fratelli”. I “fratelli” portavano le carte telefoniche, i “fratelli” portavano da mangiare. Lui doveva avvertire i “fratelli” quando vedeva auto sospette. Kreshnik era un ragazzo paciico e disponibile, che parlava sempre a bassa voce. Un gregario, anche in Siria tra i jihadisti. Tornato in Germania, ha dovuto spiegare la guerra ai giudici. Come si svolge il reclutamento? Qual è la strategia? I giudici hanno invitato un esperto di islam che ha

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diicoltà a spiegare cosa signiichi morire da martiri. Il tribunale ha ingaggiato un traduttore che non sa neanche chi è Abu Bakr al Baghdadi, il leader del gruppo Stato islamico. Durante il processo viene proiettato un video in cui si vede Kreshnik a un comizio ad Aleppo: il ragazzo tedesco non capiva una parola e si annoiava. All’improvviso il giudice interrompe il video: “Ho sentito tre volte la parola ‘jihad’”. Il traduttore spiega che signiica semplicemente “sforzo”. Alla ine Kreshnik è invitato a fare il nome degli intermediari, a ricostruire percorsi e strade. “Come ha fatto a varcare la frontiera con la Siria?”. “Mah, normalmente”. “Ah sì? Ma se io passassi la frontiera turcosiriana, avrei paura. Lei no?”. “Sì, un po’ ne ho avuta anch’io”. “Ma i giovani vanno in cerca di avventure, no?”. “La Siria non è un’avventura”. Che ne pensa della missione tedesca in Afghanistan? Delle decapitazioni degli ostaggi? Perché non ha fatto il servizio militare? “Non lo so”, dice Kreshnik. Lo ripete più volte, alzando le spalle. Poi il suo avvocato ricorda che quando il suo cliente è diventato maggiorenne il servizio di leva non esisteva più. Il discorso torna sulla Siria. Kreshnik dice: “Quando stavo lì volevo tornare a casa. Però non volevo essere un traditore”. Il tribunale non gli crede, vuole sapere se sono stati i genitori a costringerlo a tornare. Sembra che sia stato uno zio, che ha combattuto anche lui in Siria, a portarlo fuori e a farlo passare in Turchia. Lì lo attendeva la sorella, che l’ha riportato in Germania. È stato arrestato appena sbarcato dall’aereo. Il giudice vuole sapere come Kreshnik immagina il suo futuro. “Una formazione professionale, qualcosa di manuale”, ri-

Kreshnik B. non parla l’arabo. Quando al campo in Siria non c’era il traduttore non capiva cosa gli succedeva intorno né quali erano i piani

sponde. In realtà il giudice vuole solo capire se intende continuare a studiare o se pianiica un attentato suicida. Si parla per ore e ore, ma solo di stereotipi. C’è qualcosa di stonato.

Sorvegliati speciali Come Kreshnik, altri 150 giovani tedeschi sono tornati a casa. Molti hanno fatto la guerra, sono entrati in un’unità di combattimento ma poi sono rientrati in Germania. Nessuno sa con esattezza cos’abbiano fatto, cos’abbiano passato, quanto siano traumatizzati. Ci sono genitori che raccontano di igli jihadisti che telefonavano dicendo di voler rientrare a casa ma che non potevano farlo. La maggior parte di loro è stata in campi d’addestramento, poi ha avuto paura e ha sentito la mancanza degli amici e della madre. I servizi di sicurezza li tengono sott’occhio. Potrebbero essere diventati estremisti, bombe a orologeria. Come Walid D.: alla ine di settembre la polizia ha sequestrato nel suo appartamento nella regione dell’Assia un kalashnikov, un giubbotto antiproiettile e una bandiera del gruppo Stato islamico. Gli agenti si erano messi sulle sue tracce nel corso di un’indagine sul traico di droga. Per i ragazzi che tornano non esistono programmi di reinserimento. Niente psicologi, niente gruppi di sostegno. Si spera che, una volta tornati, spieghino come funziona la guerra in Siria. Ma, come dice Kreshnik, laggiù non si riesce a essere utili a niente, non ci si sente a casa propria. È una guerra dalla quale i ragazzi come Kreshnik non hanno niente da guadagnare. Ma allora perché scappano da casa lasciando gli amici e una vita relativamente agiata? Kreshnik e Cuspert provengono da un mondo dove guerra e religione sono bandite dalla politica. I settant’anni di pace di cui ha goduto l’Europa hanno reso la violenza bellica un tabù. Davanti all’orrore della guerra, la società contemporanea è disorientata. “Gli uomini non cercano solo la felicità, ma anche il senso. E a volte – tragicamente – la guerra è la forma più potente di ricerca di senso nella società umana”, scrive il giornalista statunitense Chris Hedges nel libro Il fascino oscuro della guerra (Laterza 2004). La guerra, dunque, potrebbe essere una forma suprema di afermazione del sé. Gli psicologi statunitensi che hanno avuto in cura i reduci raccontano dell’ebbrezza che i soldati provavano quando uccidevano.

PETEr MuELLEr (LAIF/CONTrASTO)

Denis Cuspert in una moschea di Berlino, 2011

Non sono solo i combattenti del gruppo Stato islamico a posare davanti alle telecamere reggendo delle teste mozzate: anche i soldati statunitensi in Vietnam si facevano fotografare con pezzi di cadaveri dei nemici. La religione non può essere all’origine di questi atti di barbarie. In tutte le religioni la pace è sempre l’obiettivo più alto. Il Corano contiene un messaggio di pace e riconciliazione. Per questo la studiosa di religioni britannica Karen Armstrong avanza una tesi: forse non è la religione che giustiica la guerra, ma la guerra stessa è un’esperienza di risveglio religioso. In deinitiva qual è il problema? Forse questi ragazzi fuggono dalla noia e dalla banalità della vita quotidiana. Oppure cercano una comunità e una fratellanza perché i dubbi su se stessi e le domande senza risposta sono troppi, e il nuovo contesto li fa sentire grandi e sicuri, come sostiene lo psicanalista tedesco Hans-Jürgen Wirth. O, come sostiene il ricercatore Norbert Leygraf sulla base dei suoi studi psichiatrici sugli attentatori islamici cresciuti in Germania, si tratta di giovani maschi che “usano il fondamentalismo islamico per presentare all’esterno la loro concezione esagerata del proprio valore” e per fare esperienza di aggressioni “apparentemente

legittimate sul piano morale”. Su un punto, però, gli esperti concordano: non esiste un unico proilo di “giovane attentatore” che parte per la guerra. E quello che è successo inora non è semplicemente la conseguenza di “disturbi psichiatrici”. La cosa che colpisce di più riguardo ai combattenti provenienti dalla Germania, è che molti, istruiti o meno, sono igli di immigrati. Noia, narcisismo, voglia di sperimentare la guerra: forse tutto questo ha un peso, ma forse c’entra anche una vita senza patria, senza la sensazione di appartenere al paese dove si è nati e cresciuti, ma dove non ci si è mai sentiti veramente a casa.

In cerca di una patria Cuspert, Kreshnik B., David G. e Mustafa K. hanno ancora un elemento in comune: appartengono alla cerchia dei “salafiti”, come li deiniscono i servizi di sicurezza. I salaiti interpretano l’islam come i salaf, i compagni del profeta Maometto, e non accettano altre letture meno rigide. Loro si deiniscono semplicemente musulmani. Secondo le stime dei servizi d’intelligence interni, in Germania il movimento salaita ha circa seimila aderenti, appartenenti a una generazione di igli di immigrati che cercano nella fede la loro patria. C’è chi

chiama questo fenomeno jihad-pop: una forma di subcultura, di ribellione giovanile, ideata, inventata e vissuta nelle grandi città dell’Europa occidentale. Come un tempo c’erano gli hippy, i punk, o forse – in Germania – i neonazisti: tutte forme di rivolta contro la generazione dei genitori e i suoi valori. Oggi in Europa ci sono giovani musulmani convinti che la vita sulla Terra sia una prova a cui Dio li sottopone in vista dell’aldilà. La maggior parte di loro sono igli di turchi e di arabi, di albanesi e di ceceni. Sono cresciuti in Germania, da genitori che gli hanno insegnato a non mangiare carne di maiale quando andavano in gita scolastica, ma non gli hanno spiegato il motivo del divieto religioso. Hanno dovuto imparare a memoria le preghiere in arabo, ma i genitori non gli hanno detto cosa devono aspettarsi da Allah. Oggi i igli considerano i genitori persone troppo docili e umili. Persone senza patria, che passano la vita tra sale da tè turche, squadre di calcio arabe e circoli femminili ceceni. I igli si sono fabbricati una nuova patria, l’islam, dove tutti sono uguali. Tra loro si chiamano akhi e ukhti, “fratello” e “sorella” in arabo. Invece di “figo” dicono mashallah (“Allah lo protegga”), al posto di “consentito” dicono halal, di “vietato” haInternazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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Germania

Veri combattenti Prima per molti l’argomento più interessante di cui discutere era chi fosse il migliore picchiatore del quartiere o chi non avesse paura di lanciare sedie dalla finestra della scuola. Oggi invece discutono di chi sia il musulmano migliore. Tra loro ci sono ragazzi delle superiori, ma anche studenti di economia aziendale. Giovani tedeschi che quando fanno un colloquio di lavoro sono scartati perché si chiamano Ali o Mehmet. Ragazzi con la licenza liceale provenienti da famiglie immigrate, che quindi hanno più probabilità di vivere da poveri rispetto ai loro coetanei con i genitori tedeschi. La loro ribellione non è un articolo d’importazione ma una risposta alla vita che fanno in Germania. Tuttavia, da quando alcuni di loro sono andati in guerra e si sono messi a lanciare messaggi video in cui minacciano attentati in Germania, molti hanno cominciato a vedersi come nemici della società e dei suoi valori. Un buon esempio di quanto tutto questo sia complicato è proprio Ismail Cetinkaya, il maestro di arti marziali di Amburgo. Ha dipinto di lilla le pareti dell’anticamera della palestra che gestisce perché è un colore tranquillizzante, spiega. Al muro

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RALPH ORLOWSKI (REUTERS/CONTRASTO)

Il processo ad Arid Uka a Francoforte, 2012

MARKUS KIRCHGESSNER (LAIF/CONTRASTO)

ram. Bevono Haji Cola e alle donne regalano veli traspiranti. In libreria comprano la Sunna in tedesco. Aggirandosi per la stazione centrale di Amburgo si fanno chiamare Movimento dawa (appello) e portano magliette con scritto: “La vita non è un gioco”. Spiegano ai passanti che è peccato festeggiare Halloween perché non bisogna adorare nessun dio all’infuori di Allah. E mentre fanno tutto questo non sono arrabbiati, ma impegnati e chiassosi. Se dawa è il richiamo all’islam, loro lo lanciano da un capo all’altro della Germania. A Wuppertal formano una “polizia della sharia” che fa irruzione nelle bische per impedire ai ragazzini di giocarsi ino all’ultimo soldo. Difendono il loro islam, se occorre anche con scontri con i curdi ad Amburgo o a Celle. Osservano regole di vita severe e ne discutono su Facebook. Sono nativi digitali. La moschea e la rete sono il loro spazio vitale. S’informano sull’economia islamica su siti come Generation islam, dove imparano a discutere con i “non musulmani”. Si danno consigli a vicenda negli scambi di commenti su Islam der wahre weg (Islam, la vera via) o Ummah radio, e all’ora della preghiera escono dalle chat room. E agli ignoranti dicono: “Tra te e la vera via c’è solo un clic”.

Il predicatore Pierre Vogel con due fedeli a Francoforte, 2011 ha appeso un ritratto di Mehmet II, il conquistatore di Costantinopoli, e accanto lo stemma dell’impero ottomano. Ha un suo canale su YouTube e tre pagine Facebook in cui spiega agli invalidi in sedia a rotelle come difendersi dalle aggressioni e alle ragazze come fare sport indossando il velo. Ismail è nato ad Amburgo da Gastarbeiter (lavoratori ospiti) turchi. A un certo punto suo padre ha sentito nostalgia di casa ed è tornato in Turchia con la famiglia. Ma lì non avevano più contatti e la vecchia patria era diventata politicamente pericolosa. A quattordici anni Ismail e i suoi familiari sono tornati in Germania come richiedenti asilo. All’inizio Ismail non parlava una parola di tedesco. Sul suo passaporto nella casella riservata allo status di residenza c’era scritto: “Tollerato”. Una brutta paro-

la, osserva Cetinkaya, scelta dai tedeschi per deinire le persone in cerca di aiuto. Ismail conosce tutti i vecchi picchiatori di quartiere e i giovani della moschea. I primi sono diventati dei magnaccia, i secondi guerrieri di dio autodesignati. Nella scuola di arti marziali di Ismail non possono allenarsi né magnaccia né spacciatori. Trasformare questi giovani in veri uomini è diicile, dice, perché oggi ogni forma di virilità è diventata tabù e le donne non hanno più bisogno di essere protette. A Ismail piace proteggere: è stato in Afghanistan, in Siria e in Cambogia, ha fondato l’associazione Schau nicht weg (non distogliere lo sguardo), che aiuta i bambini. Per lui essere uomini signiica aiutare. Anche Kreshnik voleva essere d’aiuto. Perino Deso Dogg vuol essere d’aiuto, an-

che se in un modo mostruoso. Per Ismail Cetinkaya quello che fa Deso Dogg è sbagliato. Mentre parla cerca l’app del Corano sul telefonino e cita un versetto: “O uomini, vi abbiamo creato da un maschio e una femmina e abbiamo fatto di voi popoli e tribù, affinché vi conosceste a vicenda”. Altro clic, altra citazione: “Se il tuo Signore avesse voluto, avrebbe fatto di tutti gli uomini una sola comunità. Invece non smettono di essere in conlitto tra loro”. Per Cetinkaya nella fede non c’è costrizione e il Corano non può essere il punto di riferimento della campagna di Deso Dogg e di quelli che combattono con lui. Alla sua scuola di lotta, vale la parola di Allah. Tra i suoi atleti ci sono francesi, svizzeri, ceceni, russi, giuristi tedeschi o studenti di medicina, perino poliziotti. Molti sono musulmani e si chiamano akhi l’uno con l’altro, anche se si allenano con armeni cristiani ortodossi ed ebrei. Per Cetinkaya non fa diferenza: importa solo che siano bravi a combattere. Sul ring, nella gabbia, per lui formano una squadra. Portano magliette gialle con scritto “Team Ismail”. Li vuole combattivi, vincenti. Il testosterone devono sfogarlo nella gabbia, in una lotta alla pari, rispettando le regole. Alla ine devono sempre abbracciare l’avversario. Cetinkaya e i suoi ragazzi criticano l’occidente, gli Stati Uniti, l’intervento in Afghanistan, e giudicano spaventoso quello che succede ai loro fratelli lontani. Ma non hanno intenzione di andare in Siria. Devono prendere la licenza liceale e poi andare a studiare ingegneria meccanica negli Stati Uniti. Non aspirano a entrare nel gruppo Stato islamico, ma a costruirsi un futuro ad Amburgo, che è casa loro. Cetinkaya ha chiuso i libri ed è tornato nella gabbia per allenare uno dei suoi in vista del prossimo campionato mondiale in Giappone. L’allenamento viene ilmato e pubblicato sul suo sito la sera. La stessa sera anche Deso Dogg mette in rete un video dalla Siria. Più tardi su Facebook una madre pubblica la storia di sua iglia, una ragazza tedesca d’origine turca che è scomparsa. La giovane è cresciuta a pochi chilometri dalla scuola di arti marziali di Cetinkaya, e avrebbe dovuto inire il liceo l’anno prossimo. Ma si è innamorata di un ragazzo che qualche mese fa è partito per la Siria. Lo ha sposato per telefono con un rito celebrato da un imam, così ha potuto raggiungerlo in Siria. La donna implora: riportatemi mia iglia. In Siria è proprio arrivato l’inverno, commenta Ismail Cetinkaya. u ma

L’analisi

Fermare la propaganda Philippe Bernard, Le Monde, Francia Bisogna impedire ai giovani di partire per la Siria, ma non di tornare, spiega l’esperto di jihad Peter Neumann l sesto piano di un ediicio del King’s college, a Londra, un gruppo di ricercatori tiene sotto controllo il materiale pubblicato online dai giovani europei che vogliono andare, o che sono già andati, a combattere con i jihadisti in Siria e in Iraq. Il Centro internazionale per lo studio della radicalizzazione e della violenza politica (Icsr), fondato nel 2008, studia la difusione dell’estremismo islamico in tutte le sue forme e, in particolare, i meccanismi di reclutamento tra i cittadini dei paesi occidentali. L’11 dicembre il direttore Peter Neumann ha pubblicato il primo studio sul costo umano del jihadismo. Il rapporto, realizzato in collaborazione con la Bbc, stabilisce che questo fenomeno ha causato 5.042 morti nel solo mese di novembre. Il gruppo Stato islamico è responsabile di più del 40 per cento delle uccisioni in Siria e in Iraq, ma lo studio tiene conto anche di altri quindici gruppi attivi in dodici paesi, dalla Nigeria all’Afghanistan, dallo Yemen alla Libia. Anche se sono soprattutto le morti degli ostaggi occidentali ad attirare l’attenzione dei mezzi d’informazione, le vittime della violenza jihadista sono in gran parte musulmane.

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Passaggio di testimone “Il gruppo Stato islamico è stato il primo a presentare un progetto che appare così entusiasmante da aver attirato 16mila giovani di tutto il mondo”, osserva Neumann. “Non abbiamo mai riscontrato tanta esaltazione. Perino ragazzi di 15-17 anni sono risucchiati nell’orbita jihadista. Il pericolo è che la vecchia generazione passi il testimone a una nuova”. Davanti alla difusione di questa “ideologia radicata a livello

mondiale”, i mezzi militari non bastano. Neumann teme che la Siria, come l’Afghanistan negli anni novanta, diventi un laboratorio del terrorismo. “Non so dire se ci saranno presto nuovi attentati. Ma di certo le persone che s’incontrano in Siria e in Iraq stanno intrecciando rapporti che saranno alla base di nuovi attacchi terroristici”. Neumann minimizza il ruolo dei social network nel reclutamento dei giovani: “L’idea che un ragazzo decida di partire per la Siria solo perché ha guardato dei video è irrealistica. Succede invece che gruppi di giovani abituati ad andare insieme in moschea o allo stesso chiosco di kebab iniscano per aderire insieme a ideologie radicali. Quando uno di loro parte, la pressione del gruppo si fa sentire e alcuni decidono di seguire l’esempio”. Alla base della scelta di andare in Siria ci sono sempre gli stessi elementi: i problemi identitari dei igli d’immigrati che si sentono emarginati e l’adesione a un’ideologia salaita che ofre risposte sommarie a un dilemma identitario. Nessun “modello” d’integrazione è bastato inora ad arginare il jihadismo. Neumann fa notare una specie di paradosso: i paesi europei considerati più tolleranti – Danimarca, Norvegia, Svezia, Paesi Bassi – sono, insieme al Belgio, quelli da cui provengono più combattenti estremisti islamici in rapporto alla popolazione. “È molto importante impedire a questi ragazzi di partire per la Siria”, dice Neumann. “Ma soprattutto non bisogna ostacolare il loro ritorno minacciando di ritirargli il passaporto o la nazionalità. Molti, circa il 20 per cento, sono rimasti molto delusi e le loro testimonianze potrebbero essere utili per dissuadere gli altri dal partire. Negli anni novanta i paesi arabi hanno impedito il ritorno dei jihadisti dall’Afghanistan. Di conseguenza si sono aperti altri fronti del terrorismo” in Bosnia, in Cecenia e, l’11 settembre 2001, negli Stati Uniti. u Internazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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Giamaica

A ritmo costante Quino Petit, El País Semanal, Spagna Foto di Caterina Barjau

Albert Minott, voce dei Jolly Boys, è diventato famoso a settant’anni. La sua storia dimostra che, oltre al turismo e allo zucchero, l’industria musicale è ancora il motore della Giamaica ainato ed elegante, in pantaloni neri, camicia rossa e mocassini rossi, e con la chitarra in spal­ la, Albert Minott, 76 an­ ni, è il Compay Segundo della Giamaica. Vive alla periferia di Port Antonio, in una casetta circondata da stra­ de in terra battuta e palme. Negli anni qua­ ranta e cinquanta questa piccola località nel nordest dell’isola ha ospitato star hol­ lywoodiane come Errol Flynn, che organiz­ zava delle feste leggendarie. Anche Minott si esibì in alcune delle serate giamaicane di Errol Flynn in compagnia della sua band, The Jolly Boys. Il gruppo è uno dei pochi che ancora suonano musica mento, un genere alle radi­ ci di altri stili musicali nati sull’isola come il rocksteady, lo ska e il reggae. Come i com­ ponenti del Buena Vista Social Club di Cu­ ba, Minott ha raggiunto il successo inter­ nazionale solo in vecchiaia: “Non ho mai pensato che un giorno sarei andato in Cina, in Australia, nel Regno Unito e in Spagna. Mi sento come un ragazzo di vent’anni”, dice con la voce ruvida, la stessa con cui a metà pomeriggio si mette a cantare. All’ombra di un enorme albero vicino al molo di Port Antonio, Minott suona ac­ compagnando con la chitarra acustica la canzone che lo ha fatto diventare famoso. Quando, negli anni settanta, il turismo nel­ la zona diminuì e si costruirono nuovi re­

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sort a Ocho Rios e a Negril, nella parte oc­ cidentale dell’isola, i Jolly Boys furono rele­ gati al circuito dei matrimoni, dei battesimi e delle comunioni. Ma nel 2008 una serie di fortunate coincidenze, e l’aiuto della ve­ dova di Errol Flynn, Patrice Wymore, han­ no portato Minott a incontrare Jon Baker, produttore e proprietario dei vicini studi di registrazione GeeJam. Davanti a lui Minott ha interpretato i ritmi semplici e romantici della ballata Evening dress. Baker si è entusiasmato per lo swing dell’allora sdentato Minott e gli ha chiesto di riunire i Jolly Boys e tornare in studio per registrare alcune cover di grandi successi, come Rehab di Amy Winehouse. Da quell’esperienza nel 2010 è nato il disco Great expectation, che ha permesso a questi signori di una certa età di conoscere il mon­ do e ha risvegliato un grande interesse per un genere che loro suonavano da più di ses­

sant’anni. “Il mento è l’anima della musica giamaicana”, spiega Minott. “Anche Bob Marley e Peter Tosh vengono da lì, dalla musica che suoniamo noi. Il reggae e tutto quello che si sono inventati dopo nascono dal mento”. Il successo dei Jolly Boys è solo un’altra dimostrazione del fatto che insieme al turi­ smo, allo zucchero, alla bauxite e ai veloci­ sti, la musica è uno dei principali motori di quest’isola che ospita circa tre milioni di abitanti, di cui l’80 per cento neri e mulatti. La Giamaica, un tempo zona di passaggio di pirati e avventurieri, vicina di Cuba, del­ la Repubblica Dominicana e di Haiti, è sta­ ta un dominio spagnolo ino al 1655, quan­ do passò in mano ai britannici. La corona inglese ne fece una colonia e stabilì la capi­ tale a Spanish Town. Nel 1872 la capitale fu spostata a Kingston, nel sud del paese. Dall’indipendenza, proclamata il 6 agosto 1962, la Giamaica fa parte del Common­ wealth britannico e la regina Elisabetta è il suo capo di stato. La capitale conserva in­ tatte le tracce che nel novecento l’hanno resa famosa in tutto il mondo. Anche se molti turisti preferiscono le coste del nord, Kingston esercita un irresi­ stibile fascino musicale. È diicile incon­ trare per strada qualcuno che non faccia afari con la musica o non abbia almeno un parente stretto che fa il produttore, il dj o il cantante. A contendersi i turisti, insieme alla Devon house e alle Blue mountains, dove si coltiva il cafè con lo stesso nome, ci sono altre mete di pellegrinaggio: lo Studio One, dove hanno registrato i migliori artisti dell’isola, la casa di Bob Marley, in Hope road, oggi trasformata in un museo, e alcu­ ne stradine del ghetto di Trenchtown, dov’è cresciuto il musicista. Secondo la ri­ vista Forbes, anche da morto Marley conti­ nua a generare una fortuna di quindici mi­ lioni di euro all’anno. Ma Kingston non vive solo del passato: la musica muove luci e ombre del suo milione di abitanti in ogni quartiere, dalle case sulle montagne vicino alla capitale, dove vive l’atleta Usain Bolt, ino agli angoli meno sicuri del centro.

Il giornale del ghetto Da più di quarant’anni ogni mercoledì sera lo Stone Love Movement organizza feste nel suo quartier generale sulla buia Bur­ lington avenue. Lo Stone Love Movement è uno dei sound system più antichi e famosi della Giamaica: assistere a un suo spetta­ colo dà un’idea dello spirito che animava quegli enormi impianti musicali cin­ quant’anni fa, quando il gruppo girava per i quartieri di Kingston. Era guidato da un dj

Albert Minott, leader dei Jolly Boys

L’artista Chronixx

EL PAíS (3)

Il musicista Wee Pow nel suo studio

che, come ha scritto il giornalista musicale Lloyd Bradley nel suo libro Bass culture, appena aferrava il microfono trasformava il concerto in una sorta di “giornale del ghetto”. Nel grande cortile del quartier generale dello Stone Love, l’atmosfera comincia a scaldarsi solo dopo mezzanotte. Una cortina di marijuana aleggia sulle teste di uomini e donne di ogni età che ballano con movimenti sensuali intorno alla postazione del dj. Tra il pubblico, a godersi lo spettacolo come semplici spettatori, c’è il cantante Jimmy Riley, padre di Tarrus Riley, uno dei musicisti reggae contemporanei di maggior talento. In mezzo a un altro gruppetto di persone il grande Burro Banton, con in testa un cappello dei New York Yankees, si prepara una canna mentre balla con le sue fan. Nel corso delle ore i componenti dello Stone Love Movement si avvi-

cendano ai piatti, gridando slogan al microfono tra una canzone e l’altra per animare il pubblico. Il leader è Winston Powell, più noto come Wee Pow, un ex poliziotto robusto in bermuda e camicia bianca. Pow agita il suo bicchiere pieno di rum giamaicano e ghiaccio, e si presenta stringendo forte la mano: “Sono il direttore generale, il grande capo di tutto questo”. Dà ordini a chiunque incroci nel cortile della villetta dove si terrà la festa di questa sera. “Qui di solito entra solo chi fa parte della compagnia”, mi spiega aprendo uno dopo l’altro i lucchetti delle porte di sicurezza. Ci afacciamo su un magazzino pieno di altoparlanti giganteschi, usati per le esibizioni all’aperto, e sullo studio di registrazione. “La polizia viene spesso a guastarci la festa. Ma siamo ancora qui: tutti i mercoledì e i sabati, da più di quarant’anni. Ti assicuro che manterremo lo spirito del

sound system ino all’ultimo respiro”. L’uso della musica come contrappunto al potere costituito fa ancora parte dell’identità giamaicana. La premier Portia Simpson-Miller guida un piccolo paese in cui la speranza di vita supera i settant’anni, la media dei igli è di 2,36 per donna e più dell’80 per cento della popolazione è alfabetizzato. Al tempo stesso l’indice di povertà è del 17 per cento e nell’isola la criminalità è difusa: nel 2012 sono stati commessi 1.087 omicidi, il dato più basso degli ultimi dieci anni. Le guerre urbane scoppiate a Kingston negli anni novanta con il boom del traico di cocaina hanno raggiunto il picco nel 2010, con l’estradizione negli Stati Uniti del narcotraicante Christopher “Dudus” Coke, leader della Shower Posse. Sempre in ambito musicale, il re della dancehall Vybz Kartel è stato arrestato nel 2011 per Internazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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Giamaica possesso illegale di marijuana e poi condannato per l’omicidio di un uomo d’afari giamaicano nell’aprile di quest’anno. L’altra faccia della medaglia sono gli artisti come Chronixx, che puntano sull’attivismo. Sono ragazzi pieni di talento e sostenitori del revival reggae: vogliono tornare alle radici del genere musicale e scrivono testi ispirati al paciismo e a suoni più classici. Molti giovani che hanno cercato fortuna nella capitale, sono poi tornati nei loro isolati luoghi d’origine per mettere su delle piccole attività turistiche legate alla natura. Susan, una giovane imprenditrice, ha aperto il bed and breakfast Raf Jam sulle colline di Irish Town, a più di mille metri d’altezza. Siamo vicino alla comunità di Middleton, dove Susan è cresciuta e dove ci fa da guida. Le strade sono sterrate e ripide, molti rastafariani salgono sulla montagna in cerca di spazi per meditare, fumare marijuana e sentirsi in armonia con la natura. Uno degli abitanti di Middleton riassume così il suo attaccamento a questa terra, lontana dalla confusione della capitale e con norme di convivenza particolari: “Sa perché non potrei vivere da un’altra parte? Per la purezza dell’acqua che scende da questi monti. La vegetazione, queste cascate, questi alberi sono nostri e nessuno potrà mai toglierceli. Nessuno ci dice come dobbiamo vivere”.

Fedeli alle radici All’estremo opposto del modello imprenditoriale di Susan, che vive isolata nelle Blue mountains, c’è il resort GoldenEye. Si trova sulla costa settentrionale dell’isola, vicino alle spiagge di Oracabessa. In questa zona ha vissuto anche lo scrittore britannico Ian Fleming, il creatore di James Bond, che qui ha scritto quattordici episodi della saga dell’agente segreto 007. Oggi il proprietario di quest’enclave è Chris Blackwell, il produttore discograico britannico che, come spiega il cantante reggae Jimmy Clif, “ha fatto esplodere le vendite di dischi in Giamaica”. Blackwell ha reso famoso Bob Marley in tutto il mondo e nel 1989 ha fatto scalpore vendendo la sua etichetta Island Records alla Polygram per più di 300 milioni di dollari. Secondo la leggenda, Blackwell s’interessò per la prima volta alla musica giamaicana dopo che alcuni pescatori lo salvarono da un naufragio con la sua barca. Il produttore ha creato un business esportando a Londra gli album degli artisti più noti della scena giamaica-

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na. A 77 anni, ormai lontano dall’industria musicale, Blackwell si mostra comunque interessato alla nuova generazione di artisti giamaicani: Chronixx, Jesse Royal, NoMaddz e Protoje. “Il segreto musicale della Giamaica”, sostiene, “sta nel fatto di essere benedetta dalla natura”. Dalla spiaggia del GoldenEye si può vedere, su una scogliera che dà sul mar dei Caraibi, la vecchia casa dove Ian Fleming abitò ino alla sua morte nel 1964. Oggi è una struttura del resort molto richiesta, con un prezzo che può arrivare ino a settemila euro a notte. Il resto della costa settentrionale della Giamaica è un susseguirsi di ville circondate da palme in riva a spiagge di sabbia inissima come Treasure beach. Ma ci sono anche comprensori più economici disseminati tra le cascate di Ocho Rios, Montego Bay o Negril. Lungo le strade tortuose si vedono i chioschi che vendono piatti tipici e le cascate del iume Dunn, che deliziano orde di turisti statunitensi. Lontana dal caos, nella parte occidentale dell’isola, Port Antonio lotta per riconquistare il fascino esercitato a metà del novecento sulle star di Hollywood. In questa battaglia sono impegnate personalità come Jon Baker. Il produttore musicale ha aperto lo studio di registrazione GeeJam in un piccolo albergo con dei ristoranti che danno sul mare: vuole portare qui musicisti importanti provenienti da ogni parte del mondo per impregnare i loro dischi di echi giamaicani. Parlando di Albert Minott e dei suoi Jolly Boys, uno dei giovani ingegneri del suono dello studio di registrazione GeeJam dice: “Per trovare le radici della musica giamaicana, bisogna conoscerli”. Arriviamo nel popoloso quartiere dove vive Minott, alla periferia di Port Antonio. Minott faceva musica prima che Bob Marley rivoluzionasse il reggae e che la dancehall diventasse un genere di moda con forti reminiscenze del gangsta rap statunitense. Nonostante alcune somiglianze, Minott e i Jolly Boys hanno avuto meno successo del Buena Vista Social Club, ma si sono comunque garantiti una pensione quasi tranquilla a settant’anni suonati. “Mi piacerebbe vivere in una casa più bella”, ammette Minott con la voce impastata di acquavite. Almeno ora ha i soldi per una dentiera nuova. Contro ogni pronostico, è riuscito a lasciare una traccia di sé fuori dall’isola grazie alla musica: “Quello che ci è successo dimostra che avevamo ragione. A volte per avere successo basta restare fedeli alle proprie radici”. u fr

L’opinione

Canzoni omofobe Keon West, The Guardian, Regno Unito a Giamaica è famosa non solo per le sue leggi omofobe e le violenze contro i gay, ma anche per certa musica apertamente ostile ai gay. Molti ricorderanno Buju Banton, che esordì a 15 anni con la canzone Boom bye bye. Nel ritornello il cantante dice che vorrebbe sparare in testa a un gay. Con Noel Cowell, dell’università delle Indie Occidentali, ho condotto una ricerca per spiegare le origini di questi pregiudizi. Abbiamo intervistato duemila persone in 40 diverse comunità dell’isola: i risultati hanno confermato che i giamaicani hanno dei forti pregiudizi contro gli omosessuali. Da un punto di vista statistico la ricchezza, l’istruzione e la giovane età riducono i pregiudizi nei confronti degli omosessuali. La religiosità è spesso un dato che accomuna gli attivisti contro i gay, ma non è l’elemento più importante. Anche la passione per la dancehall e il sesso hanno un ruolo fondamentale. Molti credono che cantanti come Banton, Vybz Kartel e Beenie Man incitino alla violenza contro gli omosessuali, mentre altri difendono questi “inviti all’azione” sostenendo che sono metaforici e indicano solo quello che è o non è accettabile nella società giamaicana. La nostra ricerca dimostra che alcune canzoni incoraggiano atteggiamenti discriminatori e comportamenti antisociali. La buona notizia è che inalmente i giamaicani si stanno impegnando per afrontare il problema dell’aggressività nei confronti degli omosessuali. E questo è fondamentale perché la situazione possa cambiare. u bt

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Keon West insegna psicologia all’università Goldsmiths di Londra.

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ILLUSTRAZIONE TERESA SDRALEVICH

Birmania

Il popolo invisibile AA Gill, The Sunday Times Magazine, Regno Unito. Foto di Will Baxter

Privati della cittadinanza birmana negli anni ottanta, i rohingya vivono da decenni dimenticati in alcuni campi profughi. Secondo le Nazioni Unite sono la popolazione più perseguitata del mondo abin Shona entra nella stanza con un’aria esausta e rassegnata. Mi tende la mano. È leggera e fragile come una foglia d’autunno. Aspetta da più di un’ora, ma in un campo profughi le lunghe attese sono la norma. Si siede davanti a me su una sedia di plastica e si aggiusta il velo. Ha un abito modesto ma decoroso, anche se consunto. Mi dice il suo nome e l’età: 42 anni. Sembra più vecchia, gli occhi sono cerchiati di nero, sul naso ha un minuscolo orecchino dorato. La stanza è uno squallido uicio di bambù intrecciato e lamiera ondulata. Aspettando l’arrivo del monsone, l’aria trattiene il respiro, sospesa come un asciugamano bollente. Quando il generatore entra in funzione, sul soitto cigola un ventilatore. Dico alla donna quello che oggi ho già ripetuto molte volte. “Voglio solo sapere le cose che si sente di raccontare, la sua storia, cosa le è successo”. Bisbiglia appena, l’interprete si piega in avanti: “Sono venuti di notte, i militari. Volevano rubare la mia capra. Mi hanno picchiata. Mi hanno portata al campo e mi hanno bloccato le gambe con dei pezzi di legno”. Li chiama kinda, una sorta di ceppi. “Ero incinta di sette mesi. Ho dovuto lasciare tre igli piccoli a casa da soli. Mio marito era già fuggito per non essere costretto ai lavori forzati”. Le gambe le fanno ancora male. Mi mostra le cicatrici. Per venire qui al campo profughi ha dovuto pagare una tangente. Aveva 18 anni. Nabin comincia a

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piangere, si asciuga le lacrime perché non vuole lasciarle cadere in questo posto. Aspetta qui da 24 anni. Hanno messo in prigione la iglia di 12 anni perché aveva riiutato il rimpatrio. Nel campo ha avuto quattro igli. Smette di parlare, umiliata dalla sua stessa emozione. Le chiedo se c’è qualcos’altro che vuole dire. Prende iato e alza lo sguardo, la sua voce diventa improvvisamente chiara e tesa: “Perché non ci avvelenano tutti? O non ci buttano in mare?”.

Una storia banale Questa non è una storia eccezionale. L’ho scelta perché è tipica, molto comune, perino banale. Kutupalong è un campo profughi in Bangladesh, sulla baia del Bengala, a un paio di chilometri dal conine poroso e turbolento con la Birmania. È qui da più di vent’anni, come i suoi abitanti. Si trova lontano dalla strada principale, nascosto tra i

quadrati perfetti delle risaie, i giacimenti di sale e le vasche per l’allevamento dei pesci. Uicialmente ospita dodicimila rifugiati, altri diciottomila vivono in un altro campo, Nayapara, a una trentina di chilometri di distanza. In realtà ci sono altre 200mila persone non registrate, e molte vivono nelle baracche di fortuna spuntate come funghi intorno ai due campi. Questi profughi sono i rohingya, una minoranza birmana povera e contadina, secondo le Nazioni Unite il popolo più perseguitato del mondo. Sono stati sistematicamente vessati dalla maggioranza birmana: picchiati, violentati, uccisi, schiavizzati, derubati dei loro beni, dei loro raccolti e delle loro terre, sono stati inseguiti da folle inferocite, esclusi dalla vita sociale e politica con una lunga, sistematica campagna d’intimidazione e denigrazione che il governo non solo ignora, ma incoraggia e alimenta. A commettere gli abusi più odiosi sono i militari e i giudici. Ma nel resto del mondo non se ne sa nulla. Non è solo il pogrom più grave in atto oggi nel mondo, ma anche quello di cui si parla meno. Rispetto a tutti gli altri, questo ha in più un elemento sorprendente: le vittime sono musulmane e i loro persecutori buddisti. I birmani considerano i rohingya cani, feccia, subumani, troppo brutti per essere birmani, una macchia, un insulto alla razza, e comunque bangladesi arrivati in Birmania illegalmente come schiavi, un residuo del colonialismo. In occasione dell’ultimo censimento non

Nel campo di Shamlapur. Bangladesh, giugno 2014 gli è stato permesso di deinirsi rohingya, potevano registrarsi solo se ammettevano di essere bangladesi. La Birmania riconosce più di cento minoranze culturali e religiose, ma non i rohingya. La verità è che i rohingya hanno vissuto paciicamente accanto ai contadini buddisti per secoli. Si dice che discendano dai primi mercanti arabi che convertirono la popolazione locale all’islam, prima dell’arrivo dei Moghul in India. Avevano la loro lingua, facevano parte dell’antico impero

Arakan ed erano molto simili ai bangladesi che vivevano lungo il conine perché, sotto il dominio britannico, la frontiera tra India e Birmania non esisteva. Nel 1982 la giunta militare negò la cittadinanza birmana ai rohingya, rendendoli apolidi. Questo signiica che non hanno diritti, nessun accesso alla giustizia, all’istruzione, alla sanità, nessuna protezione da parte della polizia, dell’esercito, nessun passaporto. Da un giorno all’altro non sono più stati considerati persone; sono indifesi, disprezzati e odiati, criminali nell’unica patria che abbiano mai avuto. I loro igli non sono mai al sicuro, le loro iglie minacciate dagli sguardi

degli uomini, i maschi sono considerati bestie da soma. Non possono rivolgersi ai tribunali internazionali. E il fatto che tecnicamente rendere un popolo apolide è illegale ha il sapore di una befa.

Quando c’erano gli inglesi Abu Kassim è stato picchiato dai militari che gli hanno tolto la carta d’identità e gli hanno coniscato i campi e la casa per darli a un buddista. Si è rivolto a un magistrato per chiedere giustizia. Il giudice lo ha preso per il collo e lo ha spinto a terra dicendo: “La tua casa è tra le nuvole”. Piange ancora quando ci ripensa. Amir Hamja ha 77 anni, Internazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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Birmania è un uomo anziano con la barba lunga, uno zucchetto bianco sulla testa e lo sguardo funereo. Ricorda quando la Birmania era una colonia. “Con gli inglesi le cose andavano meglio. C’era la legge. Quando i giapponesi hanno invaso la Birmania, noi rohingya abbiamo combattuto a ianco degli inglesi. I buddisti volevano l’indipendenza, pensavano che i giapponesi l’avrebbero conquistata per loro”. Amir è stato picchiato e umiliato. Anche lui comincia a piangere: “Hanno umiliato gli imam. Li hanno costretti a stendersi a terra e i soldati gli hanno camminato sopra. Li hanno spogliati e hanno fatto il bucato sulla loro schiena. Gli uomini sono stati denudati perché così dicevano che sarebbero stati più simili a degli esseri umani”. A vent’anni di distanza, ancora non riesce a sopportare questo furto di dignità. Il campo è un luogo avvilente, fetido e caotico. Sono stato in decine di campi profughi in tutto il mondo e, a parte quelli allestiti dopo una catastrofe naturale, questo è il peggiore che abbia mai visto. Le capanne sono piccole e sofocanti, fatte di fango e lamiera ondulata, con il tetto di plastica rotto e coperto di foglie. Lungo ciascuno degli stretti viottoli che separano le ile di baracche scorrono fogne a cielo aperto dove razzolano poche galline e qualche rognosa oca muschiata. Quando arriverà il monsone, questo mare di sporcizia invaderà ogni stanza e si incollerà sotto i piedi di tutti. L’acqua è un problema, non basta mai. La falda acquifera è salmastra. Le donne e i bambini passano ore intorno a una pompa ad aspettare di riempire le loro taniche di latta. M’intrufolo attraverso una porticina in una capanna buia, l’unica luce proviene da una piccola finestra e dalla legna che brucia in una stufa di argilla. Dentro non c’è praticamente nulla: un rotolo di coperte sul pavimento di terriccio, pochi stracci appesi a una corda tesa tra due chiodi. In queste due stanze, appena più grandi di due bagni chimici, vivono due famiglie da più di dieci anni. In un ambulatorio improvvisato mi mostrano la sala parto: due letti di ferro coperti da sottili materassi di gommapiuma sul punto di sbriciolarsi e un lettino ginecologico con le stafe che sembrano l’opera d’arte di una femminista arrabbiata. Qui nasce quasi un bambino al giorno. E per chi non ha nulla, i igli sono l’unica speranza, l’unica risorsa produttiva. I bambini che nascono qui non sono considerati rifugiati, non vengono registrati e quindi nessuno provvede a loro. L’infermiera mi dice che non

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Mi avevano avvisato: non dovevo scrivere che i rohingya erano bangladesi, dovevo visitare solo i due campi uiciali e non nominare gli altri

hanno anestetici né ossigeno né gas. “Cosa fate se una donna ha bisogno di un cesareo?”, chiedo. “Dobbiamo far venire un’ambulanza da Chittagong”, dice. “Sono due ore di strada, nelle giornate migliori”. Sorride e mi accompagna a conoscere il dottore, superando una ila di giovani mamme con i neonati. Il medico è un uomo esuberante ed espansivo in giacca e cravatta. Gli chiedo quali sono le malattie più comuni: un po’ di diarrea, c’è sempre il timore della polio, della meningite e del colera, ma il problema principale sono le malattie respiratorie, dice. “Le baracche si riempiono di fumo, quindi asma e bronchiti”. Emana

un forte odore di tabacco, anche se quando sono entrato ha nascosto di soppiatto il pacchetto di sigarette. “Lei fuma vicino alle mamme e ai bambini?”. Dal modo in cui lo dico sembra più un’accusa che una domanda. Sorride imbarazzato. “Bisogna pur concedersi qualche piccolo piacere”. Per i rifugiati i piaceri sono pochi. Non c’è nessun tipo di divertimento, fa troppo caldo per giocare a calcio o a cricket. Un gruppo di ragazzi piegati su una tavola di legno sta giocando a qualcosa che è un incrocio tra il backgammon e il biliardo. In una stanza buia le donne che sono state violentate, picchiate o ripudiate preparano saponette a base di acido fenico. Lavorano in silenzio. L’odore di disinfettante è insopportabile. In un’altra stanza, trovo delle bambine che cuciono assorbenti e slip. Qui l’infanzia non esiste. Passando davanti a una capanna sento una cantilena. La capanna è una madrasa di fango. Il giovane imam mi invita a entrare. File ordinate di bambini ripetono a memoria intere pagine del Corano. L’imam ordina a una bambina di alzarsi a recitare. I versetti in arabo le escono dalla bocca come l’eco di campane lontane, i suoi occhi fissano qualcosa di invisibile. Il lusso di parole s’interrompe, applaudiamo, lei guarda per terra e torna a sedersi con le amiche. Il mio interprete dice: “Era la storia di Noè, del diluvio che spazzò via il mondo dei malvagi”. Qui l’istruzione è tutto, l’unica moneta convertibile in un futuro.

Guardato a vista

Da sapere Senza stato u I rohingya sono una minoranza musulmana concentrata nel Rakhine, uno stato nella Birmania occidentale. Secondo il ministero dell’immigrazione birmano, nel paese vivono 1,33 milioni di rohingya (secondo le Nazioni Unite 800mila), di cui la maggior parte nel nord dello stato, al conine con il Bangladesh. Più di un milione vive tra il Bangladesh, la Thailandia, la Malesia, l’Arabia Saudita, il Pakistan. u La legge sulla cittadinanza del 1982 ha escluso i rohingya dalla lista delle minoranze etniche uicialmente riconosciute, rendendoli apolidi. Per viaggiare, sposarsi o farsi curare i rohingya hanno bisogno di permessi speciali costosi e diicili da ottenere. u Secondo l’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani, a causa delle violenze contro i musulmani scoppiate nel Rakhine nel 2012, in due anni 86mila persone, la maggior parte rohingya, sono scappate dallo stato via mare. Reuters, Unhcr

Prima di essere autorizzato a visitare questo campo, sono stato convocato dal ministero degli esteri del Bangladesh. Sono rimasto seduto per un quarto d’ora in un uicio a issare una funzionaria con un ricco sari e una pettinatura elaborata che parlava al telefono e scriveva al computer. “Mi scusi”, ha detto con una gentilezza esagerata, “ma lei è il primo giornalista che ha ottenuto il permesso di visitare il campo. Stiamo facendo una prova. Quello che succederà in futuro dipende da quello che scriverà. Ha capito le nostre condizioni?”. Mi avevano già avvisato: non dovevo scrivere che i rohingya erano bangladesi, dovevo visitare solo i due campi uiciali e non nominare mai quelli non uiciali, dovevo essere sempre accompagnato da due funzionari del governo che sarebbero stati presenti a tutte le interviste. Sei miei accompagnatori non si sono presentati probabilmente è dipeso più dall’ineicienza che da un ripensamento. Ma qualcuno in seguito mi ha informato che gli agenti dei servizi

Nel campo di Shamlapur. Bangladesh, giugno 2014 segreti dell’esercito seguono nell’ombra tutti i nostri movimenti e si nascondono tra la folla per sentire quello che diciamo. “Sono quelli che sorridono”, mi ha spiegato un rifugiato per aiutarmi a riconoscerli. La versione uiciale del Bangladesh è che i rohingya sono birmani, quindi sono un problema della Birmania e dovrebbero essere incoraggiati a tornare lì. A volte sono costretti a farlo, cosa che è vietata dal diritto internazionale. I campi sono così spartani per non attirare altri profughi e per non su-

scitare la rabbia e l’invidia dei contadini della zona, che non vivono certo in condizioni migliori. Provo una certa compassione per i bangladesi: il loro è uno dei paesi più poveri e afollati dell’Asia, non ha bisogno di nuove bocche da sfamare che facciano abbassare ulteriormente salari già insuficienti per vivere. “Oggi sono tutti innamorati della Birmania”, mi ha detto la funzionaria. “Tutti i paesi occidentali vogliono fare afari con la Birmania perché c’è molto da guadagnare. Perciò nessuno vuole metterli davanti al problema dei rohingya”. Abdulla ha 68 anni. È severo e pieno di rabbia. Mi racconta di suo iglio con il viso

rigato di lacrime. Nea aveva 18 anni, parlava inglese e faceva da interprete per gli operatori umanitari delle Nazioni Unite. La polizia era arrivata al campo per sedare una manifestazione di protesta contro il rimpatrio forzato, facendosi accompagnare dai contadini della zona. I contadini avevano saccheggiato il campo e picchiato i rifugiati. Nea era stato accusato di aver raccontato agli operatori dell’Onu quello che succedeva davvero nel campo. L’hanno trascinato in strada e pestato a morte. La zona non uiciale del campo di Kutupalong, quella che non mi è permesso di visitare, è separata da quella uiciale da una Internazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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Birmania Rifugiati nel campo di Kutupalong. Bangladesh, giugno 2014 za essere sposati è un reato punibile con il carcere. Esistono leggi su cose insigniicanti come il taglio della barba. E ai rohingya è proibito avere più di due igli, un divieto che non vale per i birmani. Ma il resto del mondo continua a girarsi dall’altra parte, a ignorare il problema perché non è abbastanza vistoso, non tocca i suoi interessi. È troppo piccolo, troppo lontano, troppo imbarazzante e diicile da risolvere. Le violenze sono diventate sistematiche dopo il colpo di stato militare del 1962: i prepotenti hanno cominciato a prendersela con i contadini spaventati, che a loro volta per rappresaglia se la sono presa con i vicini.

Il silenzio di Aung San Suu Kyi

frontiera invisibile. È uguale all’altra, ma un po’ peggio. Lì non ci sono nemmeno l’ambulatorio improvvisato, il cibo che non basta, il sapone all’acido fenico e gli assorbenti. Il fetore è insopportabile, c’è meno acqua, le baracche sono più squallide e più sporche, i viottoli che le separano più stretti. Solo le persone sono uguali: hanno volti di pietra, sono coperte di stracci, velate, con le costole sporgenti e le pance gonie, distrutte dalla noia e dalla disperazione, senza patria, senza documenti, senza speranza. Scappare dal campo non è diicile. Non ci sono muri e, in cambio di una percentuale sulla paga, ci sono bande criminali bangladesi disposte a portare chi ci vive ino a Chittagong, per lavorare guadagnando metà del già misero salario garantito ai locali. Se la polizia li scopre, li rimanda indietro. Altre bande promettono di portare i più giovani in Malesia, un paese musulmano dove possono trovare lavoro. Ci si arriva dopo un lungo viaggio attraverso la Thailandia. Un tempo, quando raggiungevano la costa, la marina tailandese fermava le barche, portava a terra i rifugiati, li faceva mangiare e bere, e poi li riportava in mare dicendo di aver assolto al suo dovere umanitario. Nessuno sa quanti rohingya siano annegati, probabilmente migliaia.

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Halle Mustafa ha 17 anni. “Mio fratello è stato arrestato nel bazar. Ci siamo fatti prestare dei soldi per corrompere i poliziotti e farlo uscire di prigione. È fuggito in Malesia. Non abbiamo sue notizie da due anni”. L’interprete mi sussurra all’orecchio che è quasi sicuramente morto, gettato in mare. Succede a molti ragazzi. Halle cuce complicate guarnizioni di perline. È l’unica di quattro sorelle e due fratelli che lavora e sta ancora pagando con interessi altissimi il debito per la liberazione del fratello. I rohingya vengono usati anche per trasportare attraverso il conine la yaba, una metanfetamina molto usata per lavorare o svagarsi. Quello che i rohingya non hanno ancora mai fatto è ribellarsi, diventare attentatori suicidi o invocare la guerra santa. Pregano e sperano, e nessuno di loro sa dirmi perché i birmani hanno cominciato a trattarli con tanta implacabile violenza e ostilità. Ai rohingya non è consentito uscire senza permesso dai loro villaggi, che sono diventati dei ghetti. Non possono andare all’università, hanno il coprifuoco e il divieto di riunirsi in più di quattro persone, e questo rende impossibile pregare in moschea. Esistono restrizioni anche sui matrimoni, per i quali serve un’autorizzazione che può richiedere anni di attesa. Vivere insieme sen-

Mustafa Shaial era una fotografa della Lega nazionale per la democrazia, il partito del padre di Aung San Suu Kyi sostenuto da molti rohingya. La polizia ha dato fuoco al suo studio. Per disperazione Shaial ha lasciato la sua casa a un vicino buddista, che ha promesso di restituirgliela quando le cose andranno meglio. Il silenzio di Aung San Suu Kyi sulla persecuzione subita dai sostenitori di suo padre è assordante, vergognoso e signiicativo. “Non ha fatto nulla per noi”, dice Shaial. “I rohingya sono morti per il suo partito e lei non riconosce neanche la nostra esistenza”. Narul Hakim ha 55 anni, tredici dei quali passati in una prigione del Bangladesh senza riuscire neanche a mettere insieme i soldi per pagare un posto in cui stendersi. “Ho dormito accovacciato in ila con altri detenuti”. In Birmania era un capovillaggio e quando viveva nel campo ha organizzato una manifestazione contro il rimpatrio forzato. La polizia lo ha accusato di aver ucciso i rohingya morti durante la sommossa. Deve ancora afrontare altri processi. “La nostra vita è finita. Non possiamo fare più niente. Lottiamo solo per i nostri nipoti, perché abbiano una casa”. Tira fuori dalla tasca un pacchetto e dice tra le lacrime: “Guardi qui”. Apre un fazzoletto pieno di documenti e permessi consumati, lettere uiciali con tanto di timbro. Sono i resti della sua identità. “Questo sono io”, dice porgendomi i pezzetti di carta e plastica che attestano la sua esistenza: un tempo aveva speranze, ambizioni, un futuro, una terra. “Quando morirò”, dice, “qualcuno dovrà scrivere un certiicato, dovrà dire che ero qui, che sono esistito”. u bt

Portfolio

Il pescatore di immagini Un libro pubblicato in Francia raccoglie gli scatti a colori del fotografo malgascio Pierrot Men. Un Madagascar diverso da quello delle cartoline, scrive Christian Caujolle

Portfolio

rovate a digitare su internet il nome di un paese e a osservare le immagini che vi vengono proposte. È solo un gioco, ma è sempre molto interessante. Prendiamo per esempio il Madagascar: si parte dalle carte geograiche (da cui però non emerge la vicinanza dell’isola al continente africano) e si arriva quasi subito alle immagini da sogno, dalle spiagge di sabbia ina alle lagune limpide e agli imponenti baobab. Queste fotograie si alternano ad alcuni disegni più o meno divertenti di animali. Si vedono leoni, girafe, zebre, ippopotami e scimmie che danzano febbrilmente, in particolare l’apalemure del lago Alotra (Hapalemur alaotrensis), l’unico primate al mondo capace di vivere nei roseti. Insomma, una scimmia che ispira simpatia a prima vista. Ma in questa oferta di immagini, a metà tra il dépliant turistico e la cartolina, non ci sono persone. Nessun riferimento agli esseri umani. Forse perché i 22 milioni di abitanti della quinta isola più grande del mondo, oltre a presentare un’alta varietà etnica, sono tra i più poveri del pianeta (l’isola è al quarantaseiesimo posto nella classiica mondiale sulla mortalità infantile). O perché la deforestazione, le minacce all’ambiente e lo sfruttamento delle risorse naturali stanno avendo conseguenze devastanti. Tutto questo deve rimanere in secondo piano per non rovinare l’immagine da cartolina del Madagascar. Così, se si vuole conoscere la realtà dell’isola, bisogna rivolgersi a Pierrot Men, l’unico fotografo malgascio conosciuto a livello internazionale. Di recente Men, noto

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per le eleganti foto in bianco e nero e per le inquadrature perfette, ha raccolto le sue immagini a colori in un libro straordinario che mescola documentario, poesia, forza plastica, emozione, lirismo e sorpresa. “Sono rimasto sorpreso che alcuni amici mi abbiano fatto questa proposta”, racconta il fotografo. “Non mi sentivo pronto e avevo dei dubbi sulla pubblicazione di un libro, ma avevano ragione loro”.

Battesimi e matrimoni Questo umanista nato nel 1954, che parla in modo dolce e pacato, che riesce a trasformare un incontro in un’esperienza speciale, sempre pronto a cogliere con lo sguardo nuove immagini, ha seguito un percorso professionale che lo ha elevato da semplice fotografo di mestiere al rango di artista. Men vive e lavora a Fianarantsoa, dove dirige il più grande laboratorio fotografico della città, il Labo Men. I suoi esordi con la fotograia risalgono al 1974, quando aprì il suo primo laboratorio. Ma a quei tempi e per molti anni la fotograia è rimasta per lui un semplice supporto (soprattutto economico) della sua vera passione, la pittura. Per diciassette anni, mentre per mantenersi scattava foto d’identità, di battesimi e di matrimoni, Men ha continuato a considerarsi un pittore. Poi una sua amica, con grande sincerità, gli ha spiegato che le fotograie su cui si basava per dipingere erano molto più belle dei suoi quadri. Da quel giorno Men ha modiicato le priorità della sua attività artistica, abbandonando il cavalletto per dedicarsi unicamente alla fotograia. Tuttavia la pittura, come mostrano le

Alle pagine 66-67: un ragazzo toglie i mattoni da un forno artigianale (Fianarantsoa, 2013). Qui sopra, foto grande: palloncini per la festa di pasquetta (Fianarantsoa, 2012). In alto a sinistra: alberi piantati su un terreno disboscato (strada di Majunga, 2009). In basso, da sinistra: in spiaggia per la festa della circoncisione (Mananjary, 2007); la costruzione di una casa in terra battuta (Sahambavy, 2011).

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Portfolio Qui accanto: tessuti esposti al mercato (Ambalavao, 2004). In basso: l’ingresso di un ristorante devastato da un ciclone (Manambato, 2013). Nella pagina accanto, in alto: l’interno di un bar (Fianarantsoa, 2009). In basso: mucchi di terra sollevati dai cercatori di zairi (Ilakaka, 2009). Nella foto piccola: un’anziana rimasta isolata durante una processione religiosa (Soatanana, 2002). sue ricerche sul colore (“tutto questo non ha niente a che vedere con le cartoline che facevo in passato per vivere”), resta un riferimento diretto o indiretto che permette all’artista di deinirsi. “Con il bianco e nero cerco i giochi di contrasto, i controluce, un segno grafico. Con il colore sono attratto soprattutto dalle luci più intime. So di dover considerare le sfumature. Ma con il colore so anche di non avere uno stile particolare o comunque ben deinito, ed è per questo che cerco e continuo a cercare”. La sua confessione più bella, però, quella alla base del suo desiderio di uscire ogni giorno con una Leica per osservare gli spazi familiari, è questa: “Sono stato pittore per diciassette anni. Ora con la fotograia cerco di dipingere quello che non ero mai riuscito a dipingere”. Ci troviamo quindi di fronte a un pittorialista? A volte sì, ma nel senso migliore del termine, come quando scopriamo il paesaggio attraverso una inestra che buca un muro scrostato o quando la figura di una persona quasi si fonde nelle vibrazioni musicali di una grande parete di mattoni bagnata dalla pioggia o, ancora, quando alcune persone passano davanti a dei tessuti che sembrano dialogare con i loro vestiti. E si potrebbero citare decine di altri esempi, ignorando magari i pochi scatti un po’ più convenzionali.

Straordinaria libertà Men possiede la rara capacità di mantenere la giusta distanza. Una capacità completata da una straordinaria libertà che lo porta a passare dalle inquadrature di paesaggi, in cui spiccano le piante e le persone, al mistero di due mucchi di terra ocra gettati nel blu del cielo o alle sfumature di colore all’interno di un bar. Il fotografo è talmente discreto che si ha quasi l’impressione che sia assente o sia solo un registratore di immagini. “In realtà trascorro le giornate fotografando con gli occhi. Sono sempre pronto a scattare. E quando trovo qualcosa che m’ispira sono felice. Forse non si tratta solo di casua-

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IL LIBRO

Pierrot Men – Le couleurs de Madagascar (Éditions Terrebleue 2014) contiene 90 scatti a colori del fotografo malgascio. Nel 2012 è uscito un altro libro con le immagini in bianco e nero, Pierrot Men – Chroniques malgaches (Éditions de l’oeil).

lità, ma di fortuna”. E Men deve averne parecchia di fortuna per riuscire a trasformare il dorso degli animali in un elemento del paesaggio, per animare gli spazi con le ombre, per trasformare semplici buchi in inquadrature, per ritrarre persone e oggetti proprio nel momento in cui sono colpiti da una lama di luce, per sfruttare la capacità della pioggia di stemperare le tinte. Men,

che sostiene di essere bravo a fotografare solo quello che conosce, riesce a trovarsi sempre al posto giusto nel momento giusto, come un pescatore di immagini pronto a documentare il miracolo della perfetta combinazione delle luci. Quello di Pierrot Men è un Madagascar diverso dal solito: generoso, mai pietista, forse non sempre obiettivo ma mai falso,

non adattato ai codici e alle convenzioni proposte dai motori di ricerca su internet. È una scoperta preziosa, e la spiegazione è semplice: “Non voglio cambiare. Probabilmente ho paura di cambiare, di fare qualcosa che non sono in grado di fare. Io sono bravo a fotografare quello che mi circonda. Colgo quello che mi sta vicino perché ne conosco già la luce”. u adr Internazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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Ritratti

Nadine Heredia La primadonna Gabriela Wiener, El País Semanal, Spagna La moglie del presidente peruviano Ollanta Humala è più popolare di lui e secondo molti potrebbe succedergli. In uno dei paesi più conservatori dell’America Latina, il suo è un esempio di emancipazione ome il giocattolo di un bambino gigante, gli uiciali hanno lasciato l’elicottero vicino alla ragazza che viene verso di loro allungando il passo sulla pista. Lei si ferma davanti agli uomini in uniforme, nervosi e rigidi. Batte i tacchi, gli dà la mano con falsa serietà e con un balzo sale a bordo. Come ogni persona all’apparenza piccola che esercita un’autorità, Nadine Heredia mette in dubbio l’estetica del potere. Incontro Heredia in un noto bar. Tutto in lei esprime dinamismo. Per questo è strano sentirla dire che ultimamente ha un “proilo basso”. “Mi sono ritirata nelle mie stanze”, dice seduta a un angolo del tavolino, issando il formaggio fritto. La gente si gira quando la vede arrivare senza scorta. Passano pochi minuti e già c’è un paparazzo che la fotografa dalla strada. “E quello?”, esclama con un sorriso. “Ci hanno scoperto”. Chi è Nadine Heredia? È la irst lady del Perù, una nazione chiave nella riconigurazione politica ed economica dell’America Latina, uno spazio politico che fa da cerniera tra l’economia liberista e il discorso “sociale”, tra il Cile e il Venezuela. Secondo gli ultimi sondaggi Nadine è anche la persona più potente del paese. Il suo indice di gradimento è di un punto superiore a quello di suo marito, il presidente Ollanta Humala,

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ex militare che si è ribellato alla dittatura di Alberto Fujimori e che per essere eletto ha dovuto giurare di rispettare la democrazia, un impegno che inora ha mantenuto. Humala è arrivato in pieno “miracolo economico”: nei primi due anni del suo governo l’economia è cresciuta del 6,3 e del 5,9 per cento, ma oggi deve afrontare un primo rallentamento. I maligni sostengono che Nadine è riuscita in poco tempo a trasformare Humala nel marito della presidente. Stamattina Samín, il iglio di tre anni, l’ha vista con indosso una camicia da uomo e le ha chiesto perché si mette i vestiti di papà. Lei è scoppiata a ridere. In quale specchio si guarda Nadine Heredia? Una delle leader dell’opposizione, la conservatrice Lourdes Flores Nano, aveva messo in guardia contro “una deriva kirchnerista”. I casi più noti di “coppie politiche” nelle Americhe sono quelli dei Clinton negli Stati Uniti e dei Kirchner in Argentina. La diferenza però è che Hillary e Cristina Fernández de Kirchner avevano avuto una loro carriera politica prima di conquistare il potere come irst ladies, mentre Nadine non ha avuto nessuna esperienza ino al 1996, quando ha conosciuto suo marito. Secondo Fernando Rospigliosi, ministro nel governo dell’ex presidente Alejandro Toledo, gli Humala hanno provato a seguire il modello di Chávez, ma dato che Ollanta non è un leader carismatico hanno ripiegato su quello

Biograia ◆ 1976 Nasce a Lima. ◆ 1996 Sposa Ollanta Humala. ◆ 2005 Fonda il Partito nazionalista peruviano (Pnp) insieme al marito. ◆ 2011 Humala vince le elezioni presidenziali. ◆ 2013 È nominata presidente del Pnp.

dei Kirchner. “Néstor era migliore di Cristina, ma nel nostro caso Nadine è più capace di Ollanta, anche se non è in gamba come crede di essere”. Nadine Heredia ha svolto un ruolo determinante nel passaggio dal socialismo ilochavista al pragmatismo liberale. “Quando Ollanta è arrivato alla presidenza”, spiega, “non ho pensato a come essere una brava irst lady, ma a come potevo aiutarlo a raggiungere i suoi obiettivi. Ho cercato di dare visibilità alle cose che stava facendo”.

Tra Michelle e Hillary Non tutti guardano Heredia con sospetto. Il giornalista Gustavo Gorriti crede che la sua inluenza sia positiva. “È sbagliato che la moglie di un presidente abbia un ascendente sul marito? Non necessariamente. Tutti i presidenti sono circondati da consiglieri, e alcuni possono avere una grande inluenza sulle sue decisioni. Ci sono casi in cui la moglie è il consigliere più idato”. Ma Heredia non sembra accontentarsi di un ruolo da comprimaria. La sua è una lenta battaglia contro il modello tradizionale di irst lady, una deinizione che non ha mai gradito e che vuole reinventare. Come si costruisce una irst lady del ventunesimo secolo? Una risposta la offre il giornalista e scrittore Gustavo Rodríguez: “Nei paesi tradizionalmente maschilisti in cui le donne hanno conquistato spazi impensabili quarant’anni fa, è importante cercare di somigliare più a Michelle Obama che a Hillary Clinton: una donna di potere che non rischia di mettere in ombra il marito. Il problema di Heredia nasce proprio dal fatto che il suo potere è maggiore di quello di Ollanta. Più si mostra forte e più attira i sospetti”. Si potrebbe riassumere che Heredia sogna di essere Michelle Bachelet, cerca di comportarsi come una Michelle andina

“È normale che voglia aiutare il presidente, ma bisogna distinguere il suo ruolo di irst lady da quello di presidente del Partito nazionalista. Altrimenti non si capisce dove inisce uno e dove comincia l’altro”. Di sicuro il progetto politico di Humala non è nato da un partito ma da una coppia. Heredia non lo nega. La sua alleanza coniugale è basata su un’idea del paese condivisa da entrambi, e il potere è solo una delle conseguenze di questo incontro: “Abbiamo lottato insieme, abbiamo costruito insieme il partito e abbiamo fatto campagna insieme”.

TuCAPrESS/LATINCONTENT/GETTY ImAGES

Braccio di ferro

ma agisce come Hillary Clinton. Humala ha voluto che nel Palazzo del governo di Lima fosse creato uno spazio riservato alla irst lady e al suo staf. Poco dopo le elezioni un giornalista ha chiesto a Humala se Heredia avrebbe avuto una carica e un bilancio. “Ha una carica, un uicio e un bilancio”, rispose il presidente. “È una madre di famiglia con un bilancio domestico e un uicio in via Fernando Castrat 195, cioè casa nostra. E nel tempo libero ci aiuterà con le questioni sociali”. Nessuno, nemmeno Humala, ha creduto a quelle parole. La irst lady del ventunesimo secolo è conidente, consigliera, collaboratrice e sostegno del presidente. È anche consulente, esperta di pubbliche relazioni, presidente del partito di governo e complice nell’idea

quasi romantica che questo esecutivo possa passare alla storia per le sue riforme. Le qualità di Heredia alimentano il vespaio della politica nazionale. L’ultimo anno è stato durissimo per lei. “Il mio problema è che sono schietta”, dice. Su YouTube si possono vedere le sue gafe che hanno fatto discutere: si mette sempre alla destra del presidente (il protocollo prevede che sia il capo di stato a occupare quel posto), parla dei “suoi” ministri, dà ordini e chiede silenzio. Il presidente viene percepito sempre di più come un uomo sminuito da una moglie carismatica. Alcuni mesi fa l’ex primo ministro César Villanueva ha dichiarato di essersi dimesso a causa delle intromissioni di Heredia. Oggi conferma la sua denuncia e rincara la dose:

Alcuni giorni dopo il primo incontro con Heredia andiamo con l’aereo presidenziale a Chazuta, nel nord del Perù, dove il governo ha avviato un programma per impiegare nella coltivazione del cacao un gruppo di donne che lavoravano nelle piantagioni di coca. La irst lady indossa jeans, camicia bianca e scarpe comode, la tenuta che usa per incontrare il popolo senza dare troppo nell’occhio. Quando era piccola, suo padre la chiamava negra del alma, come una delle sue canzoni preferite. Don Ángel era un uomo di provincia che si era pagato gli studi universitari lavorando come operaio. Alla sua unica iglia piaceva sidare a braccio di ferro i due fratelli e i cugini. In famiglia erano tutti uomini. Ángel ricorda che Nadine si allenava per batterli, e un giorno ci è riuscita: “Aveva molta forza per la sua età. Credo che fosse un modo per afermarsi in un mondo maschile”. Durante quegli allenamenti Nadine non poteva immaginare che un giorno avrebbe dovuto battersi con una vecchia volpe della politica peruviana. L’ex presidente Alan García è stato il primo a parlare di “presidente-candidata”: “La moglie del presidente ha diritto a esprimersi, ma non può sfruttare il suo ruolo pubblico per favorire una candidatura”. Lo scontro con García ha danneggiato l’immagine di Heredia. L’inesperienza nella polemica ha giocato a sfavore degli Humala. Per quanto continui a negare le sue aspirazioni, Heredia continua ad apparire nella classiica delle intenzioni di voto, anche se i favoriti sono Keiko Fujimori (iglia dell’ex presidente Alberto; se dovesse arrivare al potere potrebbe cancellare con l’indulto le gravi condanne per corruzione inlitte al padre) e lo stesso Alan García, indagato per corruzione. In un recente sondaggio molti peruviani hanno dichiarato di essere pronti a sostenere un candidato che “ruba ma alInternazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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Ritratti meno fa qualcosa”. Un panorama piuttosto sinistro. Naturalmente non tutti sono della stessa opinione. Mario Vargas Llosa è uno dei principali sostenitori della irst lady: “Mi piacerebbe che Nadine Heredia fosse candidata alle elezioni del 2021. Credo sia arrivato il momento che il Perù abbia una presidente, e sono convinto che lei abbia le carte in regola per diventarlo”. L’appoggio del premio Nobel è particolarmente signiicativo, dato che il programma di governo di Humala era agli antipodi delle posizioni liberali dello scrittore e che Vargas Llosa ha concesso al presidente il suo “appoggio vigile” solo a causa del pericolo imminente di un ritorno del fujimorismo rappresentato dalla iglia dell’ex dittatore. Heredia si agita quando si parla della sua presunta candidatura. “Sarebbe pronta a competere con suo marito nel 2021? Forse per farlo dovreste prima divorziare”. “No, sono fedele a Ollanta. Anche se avessi una possibilità continuerei ad appoggiare mio marito”. “E lui la appoggerebbe se le cose cambiassero per lei, per lui e per tutti?”. “Il leader è lui”. “Dunque tutti quelli che pensano che la leader sia lei sbagliano, compreso Vargas Llosa”. “La coppia funziona così. Lui è l’uomo delle piazze e dei discorsi. Io mi occupo di faccende amministrative”. Heredia, che ha 37 anni, parla come una trentenne qualsiasi. Usa Twitter con disinvoltura, sa scherzare e sa cos’è un meme. In altri momenti però si sente molto più vecchia della sua età. In equilibrio con se stessa e in uno stato permanente di autocontrollo che siancherebbe chiunque.

Madonna sulle Ande Quando arriviamo a Chazuta gli abitanti si accalcano per vederla. “Nadine! Nadine!”, gridano. Lei li saluta alzando la mano e sfoggiando il suo celebre sorriso. Certo, chiunque pensa di essere Madonna quando arriva nei paesini dimenticati del Perù. Heredia lo sa bene: durante la campagna elettorale ha viaggiato per il paese con suo marito per farsi conoscere. Il primo viaggio dopo l’elezione è stato in una piccola comunità andina a cinquemila metri d’altezza. Per lei non è stato faticoso, perché da giovane ha girato il paese come catechista. “Su, coraggio!”, mi dice quando mi stacco, senza iato. Lei prosegue con energia e agilità superando salite, scavalcando pozzanghere e immergendosi nel bagno di fol-

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la. L’evento segue un copione prestabilito, da cui però Nadine esce continuamente, perché una donna la invita a casa e un’altra la prega di portare la iglia malata in ospedale a Lima. La tv di stato cattura il momento in cui la irst lady incontra le donne e le aiuta a trasportare i sacchi di cacao. In cucina la ricevono cantando. Lei assaggia il cioccolato con un dito. Tra pochi minuti pronuncerà il suo discorso nella piazza del villaggio. Vestita come le contadine del posto, prende il microfono e si avvicina alla folla. Anche se durante il viaggio ha provato a convincermi che è Ollanta quello che parla meglio con le folle e lei è solo quella che sbroglia i problemi, oggi la piazza è tutta sua. Nadine Heredia è qui per celebrare chi ha abbandonato la coltivazione della coca, ma il suo discorso prende un’altra strada. “Non è l’unica cosa che è cambiata. Lo vedo nell’atteggiamento dei ragazzi. Poco fa le contadine cantavano ‘le donne si sono svegliate’ e io pensavo ‘sono le donne che si

“Molti uomini sono arrabbiati perché il loro piedistallo è crollato” sono svegliate o sono gli uomini che hanno aperto gli occhi e si sono accorti di quanto valgono le donne che hanno accanto?’”. Cosa sta cercando di fare Nadine? La sua stessa esistenza mette in discussione un modello femminile, e queste donne si specchiano nel suo esempio. Ma lei si rivolge anche agli uomini, come strumenti del cambiamento di cui il Perù ha bisogno di fronte ai paradossi dell’America Latina, il continente che ha il tasso di violenza sulle donne più alto del mondo ma anche presidenti come Michelle Bachelet, Dilma Roussef o Cristina Kirchner. Quando le chiedo se è una femminista mi risponde che non crede alle etichette. I progressisti rimproverano a Heredia di essersi schierata a “favore della vita” (contro l’aborto) e di aver dichiarato che “il matrimonio è un’altra cosa” (a proposito delle unioni omosessuali, che ha appoggiato). In Perù violare certi tabù può signiicare la rovina politica. Il paese è ancora uno dei più conservatori di tutta l’America Latina, e probabilmente Heredia pensa che il suo sacriicio non servirebbe a nulla. Forse il suo lavoro è più utile di quanto crede: aiutare il presidente dietro le quinte sulle questioni che riguardano la parità di genere. Nadine

non nasconde l’orgoglio per aver collaborato alla formazione di un governo con una forte presenza femminile e per aver migliorato la visibilità delle donne nel governo.

Pseudofemminismo Di ritorno sull’aereo presidenziale, Nadine ricarica le batterie. Ma quando arriviamo a Lima è di nuovo in pista, come se poche ore prima non avesse attraversato la foresta per pronunciare un discorso pseudo-femminista. In una delle satire più difuse Heredia chiama il marito con il nomignolo afettuoso cosito. In questo modo il iero militare diventa un orsetto di peluche. Ma lei giura che non scavalcherebbe mai il marito, perché rispetta il partito: “Lui è il mio leader”. Suona un po’ conservatore, ma i peruviani sono maschilisti e Humala non fa eccezione. “Oggi lo è molto meno, perché ha due iglie e una moglie che non è maschilista. In futuro lo sarà sempre meno. Giorno dopo giorno scopre che essere maschilista non ha senso. Molti uomini sono arrabbiati perché il loro piedistallo è crollato. All’inizio è uno shock, ma dopo imparano a riconoscere che noi donne possiamo fare quello che fanno loro, anche meglio”. Ammettere che Nadine inluisca sulla politica nazionale è stato molto diicile per il presidente di un paese macho come il Perù. “Mi hanno presa in giro. La faccenda del cosito, per esempio. A quale uomo in Perù non darebbe fastidio se lo chiamassero così? Ne parliamo molto. Sappiamo perfettamente perché lo fanno. Come mi diceva qualcuno l’altro giorno, ‘Nadine, tutti i ministri dovrebbero farsi vedere con una maglietta con la scritta ‘siamo tutti cosito’”. Scoppia a ridere. Di chi sta parlando Nadine? Degli uomini di Chazuta o di Ollanta Humala? Dei ministri, dei parlamentari, degli uomini del suo partito, dei maschilisti, dei misogini peruviani? Parla delle donne che coltivano il cacao o di se stessa? Delle ministre, delle donne leader o di cosa vorrebbe per il futuro delle sue iglie? “Le interessa l’eredità che lascerà?”, le chiedo prima di atterrare. “A me? No, perché non resterà nulla. Quello che ho fatto non avrà importanza. Però voglio che nessuno dimentichi cosa ha fatto questo governo”. Insieme, la chocolatera del governo e l’uomo che si sta svegliando. u as Gabriela Wiener è una giornalista e scrittrice peruviana. In Italia ha pubblicato Corpo a corpo (La Nuova Frontiera 2012).

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li l e d an i G a l l e i r Gab Allegato al numero 10 83 di Inter Direttore nazionale. responsa bile Giovan Stampa El ni De Mau cograf sp ro. Editore a, via Mon Internazio dadori 15 nale spa. , 37131 Ve rona

Un anno con Giandelli Il calendario del 2015 con le illustrazioni di Gabriella Giandelli In omaggio con il prossimo numero di Internazionale In edicola e agli abbonati da venerdì 24 dicembre

Viaggi

Nella Svezia innovativa A Umeå, città europea della cultura. L’antico villaggio di pescatori oggi è un importante centro per l’architettura, il design e l’arte on sappiamo bene cosa ci attenderà una volta sbarcati a Umeå. La cit­ tà si trova nel nord della Svezia, su un’ansa del golfo di Botnia. È rima­ sta a lungo all’ombra di Stoccolma, Göte­ borg o Malmö. Ma nonostante questo è una città molto creativa: gastronomia, arti visi­ ve e tecnologia. E con un paesaggio urbano fatto di strade sobrie e ricche di vegetazio­ ne, che s’incrociano ad angolo retto. La città è cambiata radicalmente per la seconda volta nella sua storia. La prima fu dopo l’incendio del 1888. All’epoca furono piantate delle betulle per impedire al fuoco di propagarsi da una casa all’altra e per que­ sto motivo fu soprannominata la “città del­ le betulle”. Fu ricostruita dalle fondamenta sotto la guida dell’architetto svedese Fre­ drik Olaus Lindström, che ha anche proget­ tato il municipio e la chiesa. Umeå si è modernizzata rapidamente a partire dalla ine degli anni cinquanta gra­ zie soprattutto all’università, fondata nel 1965. Ora il capoluogo dell’omonima pro­ vincia ha ottantamila abitanti, di cui 36mila studenti. Tra le celebrità della zona ci sono lo scrittore Stieg Larsson, autore della trilo­ gia Millennium (pubblicata postuma tra il 2005 e il 2008) e i Refused, un gruppo hard­ core punk. Anche le femministe hanno avuto un ruolo di primo piano nel dare alla città un’immagine innovativa. Sotto l’im­ pulso del Grupp 8, fondato a Stoccolma nel 1968 da otto donne, le attiviste continuano a esercitare la loro inluenza sulla politica locale e hanno sostenuto la candidatura di Umeå a capitale europea della cultura per il 2014 (l’altra è Riga, in Lettonia).

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Jessica Larsson Svanlund, giornalista, pubblicitaria e attuale responsabile per la comunicazione di Umeå 2014, spiega che con questa nomina la città è stata attraver­ sata da un nuovo dinamismo. Fino a oggi la maggior parte delle perso­ ne la considerava solo una tipica città del nord con una cultura ancorata alla tradizio­ ne. In realtà a partire dagli anni novanta qui sono nati molti gruppi musicali, anche se il settore dell’arte contemporanea era rima­ sto poco sviluppato. Con il tempo, tuttavia, Umeå ha fatto ulteriori progressi e oggi è conosciuta anche per il design e la gastro­ nomia. Inoltre, sono sempre di più gli arti­ sti che arrivano in città attirati dal magneti­ smo delle stagioni (otto secondo il calenda­ rio locale). Jessica Larsson Svanlund è stata con­ tattata dall’amministrazione della città per dare vita a un gruppo che promuovesse gli eventi della capitale europea della cultura. Finora, tra i rari mezzi d’informazione che si interessavano a Umeå c’erano soprattut­ to quelli giapponesi, in cerca di immagini della popolazione lappone in costume tra­ dizionale. Come tutto il resto, però, anche questa cultura si è evoluta.

Immagine contemporanea Umeå è in Lapponia, una regione compresa tra Russia, Finlandia, Norvegia e Svezia, dove vive una delle ultime popolazioni in­ digene d’Europa, i lapponi. La cultura di questo popolo ha avuto un ruolo centrale negli eventi di Umeå 2014, che è stata così anche un’opportunità per darle voce, sia sul piano nazionale sia su quello internaziona­ le (in questo momento in Svezia si sta di­ scutendo della sopravvivenza e dello svi­ luppo di questo patrimonio). Uno degli eventi principali è la mostra Otto artisti lapponi (uno per ogni stagione). Otto artisti provenienti da diverse discipli­ ne presentano il loro lavoro, accompagnato da conferenze, laboratori e seminari. Fino alla metà di gennaio del 2015 nell’atrio del Bildmuseet, il nuovo museo di arte con­

PIERRE GIORdANENGO

Catherine Callico, Le Soir, Belgio

Umeå, Svezia. Skin 4, una molletta alta nove metri opera dell’artista turco Mehmet Ali Uysal temporanea, l’artista e attivista Geir Tore Holm espone delle lampade da lavoro ine­ dite. Le sue opere fanno riferimento a due elementi molto importanti per la sopravvi­ venza della popolazione artica: la carne di renna e la luce. La nomina a capitale della cultura ha incoraggiato la realizzazione di molti pro­ getti che permettono a Umeå di offrire un’immagine più moderna di sé. Appena arrivati si può scoprire il nuovo sottopas­ saggio nei pressi della stazione ferroviaria irmato dal collettivo di artisti FA+. Si tratta di una parete di vetro lunga 170 metri con le citazioni dell’autrice locale Sara Lidman (1923­2004). In un modo simile, dall’ospe­ dale universitario emerge la stazione Östra Umeå, con i muri di vetro e una costruzione di legno laminato a forma di conchiglia. Anche l’aeroporto cittadino è stato intera­ mente ristrutturato. I cambiamenti urbani più signiicativi, tuttavia, sono quelli avvenuti sulle rive del

Informazioni pratiche

u Arrivare Il prezzo di un volo dall’Italia per Umeå (Sas, Norvegian, Lufthansa) parte da 287 euro a/r. u Clima e luce La temperatura varia dai –12° C nella stagione fredda (da novembre a marzo) ai 20° C in quella calda (da giugno a settembre). In inverno ci sono quattro ore di luce, in estate ventuno. u Dormire L’Hotell Pilen ofre una doppia per 795 corone (84 euro a notte). L’albergo è uno dei più antichi di Umeå e si trova a Öst på stan, una zona molto tranquilla (hotellpilen.se). u Leggere Britt Abonde, Come sopravvivere agli svedesi, Cooper 2006, 9 euro. u La prossima settimana Viaggio in Liguria, alle Cinque Terre. Ci siete stati? Avete suggerimenti su posti dove mangiare o dormire, libri? Scrivete a [email protected].

iume Umeälven, che sfocia nel mar Balti­ co. Vicino al municipio c’è il ristorante Got­ thards Krog, all’interno dell’ediicio dello Stura Hotellet, che nell’ottocento ospitava i marinai e nel 1895 fu trasformato in un ho­ tel di lusso. Il palazzo, appena ristrutturato, ha un’ampia vetrata che ospita, oltre al ri­ storante, un bar, una panetteria e una dro­ gheria molto rainata. La ristrutturazione dello Stura Hotellet s’inserisce nel Kulturväven (väven in svede­ se signiica intrecciare), un ampio progetto architettonico che si estende ino alle ban­ chine del porto. Si tratta di un importante catalizzatore di rinascita urbana a cui han­ no lavorato lo studio norvegese Snøhetta e quello svedese White Arkitekter. Il Kultur­ väven unisce le diverse attività ricreative in un unico complesso: teatri, laboratori, un centro culturale, la biblioteca della città, il cinema Folkets bio (Cinema del popolo) e il Kvinnohistoriskt musée (Museo storico delle donne), spiega Larsson Svanlund . A sudest della città, sulla riva del iume, dove prima c’erano delle fabbriche, nel 2012 è stato costruito un nuovo campus de­ dicato alle arti che ospita l’accademia delle

belle arti, l’istituto di design, la scuola di architettura e l’Humlab, un laboratorio di­ gitale e interdisciplinare. A tutto questo si aggiunge il Bildmuse­ et, un museo di sette piani dedicato alle arti visive progettato dallo studio danese Henning Larsen Architects. Ha ampi spazi espositivi, una rampa piena di sculture e un bar che guarda a sud. Le sue vetrate lascia­ no iltrare la luce e ofrono diversi punti di osservazione sul iume e sulla città. Il risto­ rante propone una cucina creativa, con prodotti biologici forniti dalla fattoria loca­ le Oxviken Gård.

Casse di bottiglie Poco distante dal centro della città c’è l’Umedalen skulptur, uno dei luoghi più visitati della Svezia. Il giardino, inaugurato nel 1994, ospita sculture di grandi artisti ed è stato progettato dal paesaggista Ulf Nord­ jell. L’ingresso è libero e il giardino è sem­ pre aperto. Custodisce i lavori di artisti svedesi e internazionali, tra cui Louise Bourgeois, Anish Kapoor e Clay Ketter. Le opere permanenti sono una quarantina e insieme a quelle temporanee sono gestite

dalla galleria Andersson/Sandström. L’ac­ quisizione più recente è Nosotros, dell’arti­ sta barcellonese Jaume Plensa: una scultu­ ra in metallo alta cinque metri, composta dalle lettere di otto diversi alfabeti che si mescolano sulla supericie di un corpo per formare un “contenitore umano”. Più in là, altrettanto interlocutoria, si erge l’installa­ zione Kastenhaus 1166.14 del duo tedesco Winter & Hörbelt, realizzata con casse di bottiglie d’acqua e la cui forma si ispira a un’anfora del ventesimo secolo. “Oggi si producono troppe cose in Pvc e gli artisti hanno voluto sottolineare la mul­ tifunzionalità di alcuni oggetti quotidiani, guardandoli con occhio diverso”, spiega Ottiliana Rolandsson, una guida di Umeå 2014. L’opera più inquietante è A Path II. 160 Men’s Jackets, dell’artista e attivista inlan­ dese Kaarina Kaikkonen: più di cento giac­ che maschili allineate su una corda sospesa in una foresta di betulle, che evocano la presenza umana di ieri e di oggi, la natura eimera della vita. Anche in questo caso l’impatto visivo è forte, ed è stato ottenuto con mezzi molto semplici. u gim Internazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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Anders Nilsen è un autore di fumetti statunitense. È cresciuto a Minneapolis e vive a Chicago. Il suo ultimo libro è Big questions published (Drawn & Quarterly 2011).

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Cultura

Podcast

ELISE BERgERSON

Sarah Koenig con la produttrice Dana Chivvis

Un crimine da ascoltare Sarah Gordon e Shannon Bond, Financial Times, Regno Unito Serial, il podcast su un vero caso di omicidio, ha avuto un successo senza precedenti. Sollevando questioni di etica enticinque anni fa, nella pausa cafè in uicio si parlava solo di chi aveva ucciso Laura Palmer. Oggi ci si chiede se Adnan Syed ha ammazzato Hae Min Lee. Basta questo a dimostrare quanto siano cambiati l’intrattenimento e il giornalismo nel quarto di secolo passato tra il culto della serie tv Twin Peaks e il fenomeno Serial, un podcast statunitense diventato virale negli ultimi due mesi. A diferenza dalla serie di David Lynch, Serial si basa su una storia vera. Nel corso di dodici episodi, uno a settimana a partire da

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ottobre (l’ultimo pubblicato online il 18 dicembre), la reporter Sarah Koenig ha raccontato gli sviluppi della sua indagine durata un anno sull’omicidio di Hae Min Lee, studentessa coreano-americana di un liceo di Baltimora, uccisa nel 1999. Koenig parla con Syed, l’ex idanzato di Lee in carcere da quindici anni perché giudicato colpevole dell’assassinio, ripercorre i movimenti della coppia, intervista i loro amici, esamina le prove e racconta tutto con un tono avvincente e informale. “Non mi viene in mente nessun’altra storia vera che abbia generato una simile ossessione”, dice David Haglund di Slate, il sito di cultura e informazione che ha cominciato a pubblicare i propri Serial spoiler specials, podcast sui podcast. Ormai ogni episodio ha in media 2,2 milioni di ascoltatori, un record per un podcast, ed è già stato scaricato più di venti

milioni di volte. “Il modo in cui è cresciuto ci ha sorpreso”, dice Emily Condon, una delle produttrici del format. Il pubblico si divide sia sulle ragioni di questo successo sia sul mistero intorno a cui ruota Serial: Syed è colpevole o innocente? Qualcuno suggerisce che il podcast risponde perfettamente alle esigenze d’intrattenimento di oggi, perché si può ascoltare in ogni momento (anche se molti lo scaricano appena disponibile, il giovedì mattina). Inoltre la serie ha dato vita a una serie di iliazioni: da un vivace sottogruppo su Reddit ai blog dei sostenitori di Syed, passando per le immancabili parodie su YouTube.

Nonostante il rigore Questa proliferazione di attività parallele, tuttavia, non è priva di complicazioni etiche. Serial dopo tutto parla di una vittima realmente esistita e indaga sui suoi amici, persone reali. Molti di loro si sono riiutati di essere intervistati, come ha fatto anche la famiglia di Lee. L’unica protesta da parte della famiglia è arrivata da un uomo che, in un post su Reddit, ha credibilmente lasciato intendere di essere suo fratello: “Per me è vita vera. Per voi ascoltatori è solo l’ennesimo episodio di Csi”, ha scritto. “Non avete idea di quello che abbiamo passato. Soprattutto quelli che chiedono una risposta dalla nostra famiglia, o di incontrarci: siete disgu-

Adnan Syed

DR

DR

Hae Min Lee

stosi. Prego perché non dobbiate mai pro­ vare quello che è toccato a noi e vedere la vostra storia data in pasto a cinque milioni di ascoltatori”. In un’intervista pubblicata su Slate a ot­ tobre, proprio quando il programma stava decollando, Koenig ha raccontato i tentati­ vi di entrare in contatto con la famiglia Lee e ha difeso la sua linea narrativa: “Credo che siamo stati sempre molto attenti e re­ sponsabili nel nostro reportage”. Serial è stato elogiato per il rigore del suo giornalismo d’inchiesta, e per il fatto di presentare diversi punti di vista sull’omici­ dio. Per Melanie Bunce, docente di giorna­ lismo alla City university di Londra, e fan di Serial, questo aspetto ridimensiona i dubbi etici. “Posso capire l’accusa di spettacola­ rizzazione”, ha detto. “Ma Serial è qualcosa di più che semplice intrattenimento”. È anche vero che Koenig racconta que­ sta storia con l’intenzione di appassionare gli ascoltatori. E non può fare a meno di evocare, in tutti i suoi macabri dettagli, l’omicidio di una persona realmente esisti­ ta. Alcuni ascoltatori si dicono moralmente nauseati, ma altri non sembrano avere pro­ blemi, tanto che alcuni speculano in rete su quanto sarebbe “più divertente” se Jay, un conoscente di Syed, principale testimone per l’accusa, si rivelasse un “afascinante sociopatico”. Proprio il trattamento di Jay mette in luce le questioni etiche sollevate da Serial. Per gli ascoltatori la domanda

fondamentale è: se Syed non è colpevole, chi ha ucciso Lee? I conini della corretta informazione, attentamente rispettati da Koenig, per quanto la sua inchiesta possa apparire a volte invadente, sono spesso ol­ trepassati sui social network. La conversa­ zione tra Koenig e Jay non è stata registrata e il suo cognome non è stato citato nel pod­ cast. Ma qualcuno è andato a scavare tra le carte processuali, le fotograie scolastiche e le dichiarazioni del giudice che si occupa del caso, pubblicando montagne di dettagli in rete. Online si fanno nomi e cognomi, cosa che Koenig non fa, ci si abbandona a speculazioni selvagge sui potenziali sospet­ ti, e si indicano con precisione i luoghi fon­ damentali per la ricostruzione dell’omici­ dio: non solo la scuola e i negozi, ma anche le case private delle persone. Per qualcuno, questa esplosione in rete di materiale rela­ tivo a Serial dimostra che i giornalisti stan­ no perdendo il controllo dei contenuti.

Grandi responsabilità Emily Bell, ex irma del Guardian che ora dirige il Tow center for digital journalism, ha puntato l’indice su questo problema in una conferenza tenuta a novembre al Reu­ ters memorial: “Con la pubblicazione libe­ ra il problema non è più dei giornalisti”, ha detto. “Incoraggiando chiunque a pubbli­ care, le piattaforme tecnologiche hanno ora uno scopo sociale e una responsabilità che vanno ben oltre le intenzioni origina­

rie”. È una responsabilità che, suggerisce Bell, né i giornalisti né i social network so­ no stati inora capaci di gestire. Se lo sconinamento di Serial comporta dei rischi, ofre anche delle opportunità. “I produttori devono tener conto delle rea­ zioni del pubblico nell’ideazione”, dice Bunce. “È un fenomeno in crescita già da un po’. I fan vogliono essere coinvolti nella realizzazione del programma”. E Koenig ha preparato le ultime puntate di Serial tenendo conto, almeno in parte, dei contributi degli ascoltatori. D’altro can­ to, si potrebbe anche sostenere che Serial, una via di mezzo tra il reportage e l’intrat­ tenimento, si limiti a tirare di nuovo in bal­ lo un vecchio paradosso del giornalismo. “L’arte non è il nemico”, dice Katy Wald­ man una delle voci di Slate serial spoiler. “Se sei capace di raccontare bene questa storia, non stai mancando di rispetto a Hae né a nessun altro”. Gli ascoltatori di Serial hanno opinioni diverse anche sulla novità del format. Bunce aferma che il programma è “nuovo e radicale” almeno quanto lo fu a suo tem­ po il libro di Truman Capote A sangue freddo, pubblicato nel 1966. Ma molti dei “pro­ dotti derivati” dal successo di Serial sono piuttosto vecchi e convenzionali. Oltre a discutere del podcast in rete, gli ascoltatori ne parlano di persona: sono nati dei gruppi di discussione all’hotel Algonquin di New York e gruppi d’ascolto. Il successo forse ha Internazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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Cultura

Podcast poco a che fare con i nuovi mezzi d’infor­ mazione, nasce più dalla capacità di espri­ mere alcune preoccupazioni tipiche del suo tempo. Secondo Michael Bromley, professore di giornalismo internazionale alla City uni­ versity, per molti ascoltatori il podcast fun­ ziona “perché ha riportato in auge un vec­ chio stile giornalistico”, con l’inchiesta che si dipana in modo meno rapido e diretto ri­ spetto alla gran parte della narrazione con­ temporanea. Lo stile narrativo imita il mo­ do in cui pensiamo.

Fare soldi con i reportage Se Serial non rappresenta forse una novità così radicale rispetto alla narrazione e al giornalismo del passato, potrebbe però avere un’altra funzione importante: fornire un convincente modello per fare soldi con i reportage. In base ai dati di Edison Re­ search, circa 39 milioni di statunitensi, il 15 per cento della popolazione sopra i dodici anni, a novembre hanno ascoltato un pod­ cast, mentre nel 2013 l’aveva fatto il 12 per cento della popolazione, e solo il 9 per cen­ to nel 2008. Ricavarne dei guadagni, tutta­ via, non è semplice. Il download a paga­ mento non è decollato, e la raccolta di pub­ blicità in base alle stime degli ascoltatori non ha mai funzionato. Ma il successo di Serial ha catturato l’at­ tenzione degli inserzionisti. Sponsorizzato fin dall’inizio dalla società di marketing MailChimp, ora è inanziato anche dal sito Squarespace, da Audible (le edizioni audio di Amazon) e da New York Times Now (la app per smartphone del quotidiano). Que­ ste compagnie, nate con la rivoluzione digi­ tale, vedono nuove opportunità nello stret­ to legame che s’instaura tra gli ascoltatori e la voce che arriva nelle loro orecchie. “Alcuni marchi sono molto interessati ai podcast perché li vedono come un modo per stabilire un legame forte con gli ascol­ tatori”, dice Matt Lieber, cofondatore di Gimlet Media, una nuova società di pod­ cast con sede a Brooklyn. Secondo Adam Sachs, capo di Midroll, una compagnia di pubblicità per podcast che vende annunci a più di 150 programmi, le tarife oscillano tra i 20 e i 30 dollari ogni mille riproduzioni (calcolate in base al nu­ mero stimato di download per episodio), cioè cinque volte il costo della tradizionale pubblicità radiofonica. MailChimp dice di

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aver pagato tra i 25 e i 40 dollari ogni mille riproduzioni di Serial. Con i download che hanno superato ampiamente le previsioni dei produttori, MailChimp ha fatto davvero un buon afare. Non ha beneiciato solo della pubblicità a pagamento ma anche del dibattito sui so­ cial. L’azienda dichiara di non contare le nuove iscrizioni generate dalla pubblicità nel podcast, e anche Audible si è riiutata di commentare gli efetti dei suoi annunci su Serial, ma Mark DiCristina, direttore mar­ keting di MailChimp, ha detto alla rivista Ad Week che i suoi clienti sono aumentati da quando è cominciata la pubblicazione dei podcast. Inizialmente Serial è stato inanziato in gran parte dal programma radiofonico This american life. Ma, visto il suo successo, per la seconda stagione non avrà probabilmen­ te bisogno di molti sponsor (come i produt­ tori di podcast chiamano i loro inserzioni­ sti). Nell’episodio nove, con una mossa fa­ miliare al pubblico televisivo e radiofonico statunitense, Koenig ha lanciato un appello chiedendo agli ascoltarori di fare una dona­ zione. La settimana successiva, i produtto­ ri di Serial hanno annunciato che “grazie ai soldi donati dagli ascoltatori e dagli spon­ sor, saremo in grado di realizzare una se­ conda stagione”, anche se si sono riiutati di rivelare la cifra raccolta. Il inanziamento degli ascoltatori è stato impiegato con successo da altri podcast. Ad esempio Radiotopia, un network di podcast sostenuto da Prx, una compagnia di teleco­ municazioni che aiuta a distribuire This american life, ha recentemente raccolto più di 620mila dollari su Kickstarter. Ovviamente non è detto che la forma di inanziamento di Serial si riveli un modello anche per altri podcast, così come non è scontato il successo di una seconda stagio­

Ormai ogni episodio conta in media più di due milioni di ascoltatori, un record per i podcast, ed è già stato scaricato più di venti milioni di volte

ne. Molto potrebbe dipendere da come ini­ rà quella in corso. Anche se Koenig ha la­ sciato capire che potrebbero essercene di più, il programma prevede dodici episodi in tutto. E, mentre appare già chiaro che la condanna di Syed ha degli elementi di in­ certezza (i suoi avvocati stanno portando avanti da qualche anno un processo d’ap­ pello e ci sarà un’udienza a gennaio), la vera domanda per molti ascoltatori è se, alla ine del programma, Koenig saprà dire se Syed è o no il colpevole dell’omicidio di Lee.

Come andrà a inire? “Pensi che a un certo punto arriverà la solu­ zione, altrimenti smetteresti di ascoltarlo”, aferma Melanie Bunce. Il format potrebbe non essere replicabile se il risultato inale deluderà le aspettative. Ma anche se sarà così, Koenig non ha intenzione di scusarsi. “Preferirei deludere molte, moltissime persone piuttosto che arrivare a una con­ clusione solo perché devo raccontare una bella storia”, ha detto al reporter di Slate, Mike Pesca. “Spero di non generare negli ascoltatori un’aspettativa del genere, ma non lo so”. Se non confezionerà una storia gradita al pubblico “in rete ci sarà una rivol­ ta collettiva”, ha osservato Pesca nella stes­ sa intervista. Poi ha supplicato Koenig di rassicurarlo sul fatto che Serial “non inirà per rivelarsi una meditazione sulla natura della verità”. Altri non disdegnano questa possibilità e pensano che aver gettato luce sul sistema della giustizia statunitense, sulla natura del giornalismo d’inchiesta, e perino, più ba­ nalmente, su come giudichiamo se le per­ sone che conosciamo dicono la verità o mentono siano tutti risultati soddisfacenti. L’assenza di una conclusione deinitiva po­ trebbe essere deludente ma, come dice un ascoltatore del Maryland, “così vanno le cose nella vita reale”. “Credo che la parola chiave di tutta la serie sia ‘ambiguità’”, dice Anna Maltby Patil, 28 anni, appassionata di Serial. “Il cri­ mine è stato ambiguo, la prova ambigua, i personaggi coinvolti sono ambigui, perino l’opinione degli ascoltatori sulla serie è piuttosto ambigua. Credo che avremo ab­ bastanza materiale per dare una nostra in­ terpretazione dei fatti, e non mi aspetto che Sarah ne formuli una per noi. Non mi senti­ rò tradita, perché la narrazione e l’esperien­ za sono state formidabili”. u nv

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Il mondo in cifre 2015 Tutti i dati per capire il mondo di oggi. Geograia, popolazioni, afari, economia, commercio, mercato immobiliare, trasporti, educazione, criminalità, turismo, internet, ambiente, società, cultura. In edicola, in libreria e online su shop.internazionale.it

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premi Nobel egitto

Cultura

Cinema Dalla Lettonia

In uscita

L’acuto di Ida

Lo Hobbit. La battaglia delle cinque armate Di Peter Jackson. Con Martin Freeman. Nuova Zelanda/Stati Uniti 2014, 144’ ●●●●● Verso la ine del ilm, Bilbo Baggins decide di uscire di scena senza salutare. Si può capire la sua riluttanza a congedarsi dai suoi compagni di avventura. Solo l’introduzione del primo ilm della trilogia durava una mezz’ora (ed è ancora diicile distinguere un nano barbuto dall’altro). Il commiato sarebbe durato sicuramente di più. Conoscendo Peter Jackson potremmo essere qui a parlare di un ilm a sé. Del resto il regista neozelandese è riuscito a tradurre le 350 pagine del romanzo di Tolkien in otto ore di cinema. Nei primi due ilm dello Hobbit era però riuscito a bilanciare con maestria momenti epici e momenti di intimità. Per questo ci dispiace un po’ che l’ultimo sia quello in cui abbiamo seriamente pensato che ci saremmo alzati per uscire, anche se fossimo stati in aereo. Abbiamo sempre difeso le intenzioni di Jackson di espandere la materia da cui sono tratti i tre ilm, ma quest’ultimo capitolo dimostra cosa succede quando un regista ha ancora molta pellicola da usare ma la storia è già inita. Ryan Gilbey, The New Statesman

Gli European ilm awards incoronano il ilm di Pawel Pawlikowski Alla ventisettesima edizione degli European ilm awards, consegnati il 13 dicembre a Riga, in Lettonia, i premi principali sono stati vinti da Ida, il ilm di Pawel Pawlikowski su una novizia polacca che scopre di essere iglia di una coppia di ebrei uccisi durante l’occupazione nazista. Eric Abraham, uno dei produttori di questa pellicola in bianco e nero ha voluto dedicare il premio alle persone che hanno avuto legami familiari con le vittime dell’Olo-

Ida causto. Pawlikowski ha vinto il premio per la miglior regia e quello per la miglior sceneggiatura, scritta insieme a Rebecca Lenkiewicz, mentre Lukasz Zal e Ryszard Lenczewski hanno avuto il premio per la fotograia. E inine è arrivato il premio del pubblico.

I premi per le interpretazioni sono andati a Timothy Spall, protagonista di Turner, e a Marion Cotillard per il ilm dei fratelli Dardenne, Due giorni e una notte. Come miglior commedia europea è stato premiato La maia uccide solo d’estate di Pierfrancesco Diliberto, che si è detto iero di essere siciliano ma ha dedicato il riconoscimento alle vittime della maia. A un altro italiano, Alessandro Rak, il premio per il miglior ilm d’animazione, L’arte della felicità. All’ucraino Plemja, di Miroslav Slabošpicki, l’European discovery award. Variety

Massa critica T Re H E gn D o AI U L n Y L E i to T EL Fr F EG an I G ci A R a R A O PH T H C E an G ad L a OB E T A H Re E N D gn G M o UA U A R ni D IL T t Re H E o I A N gn I N o U DE ni P L t EN Fr IBÉ o D an R EN ci AT a T IO LO N St S at A iU N n GE L E i ti L E Fr M S T an O IM ci N a D E S E T St H E at N iU E n W T i t i YO St H E R at W K T iU A IM ni S H E ti I S N G T O N PO ST

Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo

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Jimmy’s hall. Una storia d’amore e libertà Di Ken Loach. Con Jim Norton, Barry Ward. Regno Unito/Irlanda/Francia 2014, 96’ ●●●●● Jimmy’s hall è una delle opere più solari e ottimistiche della ilmograia di Ken Loach. Ci sono molti dei tipici elementi

I ilm dell’anno della redazione

deprimenti dei suoi ilm (famiglie messe in mezzo a una strada da persone senza scrupoli, lotta di classe, deportazioni e violenza domestica), eppure è una dimostrazione che il regista, a 77 anni, è ancora capace di credere che una generazione più giovane sarà capace di rimediare agli errori dei padri. Il ilm è ambientato principalmente tra il 1932 e il 1933, dieci anni dopo la guerra civile, quando l’attivista James Gralton torna in Irlanda dopo un lungo esilio a New York. Il ilm chiaramente parla di politica, ma anche di amore e non dimentichiamoci che Ken Loach ha sempre dimostrato una capacità di osservare le cose da un punto di vista comico. Alcuni aspetti del ilm non tornano. Jimmy’s hall inisce un po’ all’improvviso e alcune relazioni chiave non sono risolte. Ma anche così è evidente il rispetto e l’afetto dell’autore per i suoi personaggi, e il ilm risulta coinvolgente e allegro. Geofrey Macnab, The Independent St. Vincent Di Theodore Meli. Con Bill Murray, Melissa McCarthy. Stati Uniti 2014, 103’ ●●●●● Senza Bill Murray questo sarebbe un ilm inutile. E anche con lui ci sono molte cose che non vanno. Ma con il suo fascino naturale, la sua capacità di andare a ruota libera e la sua caratura di star, Murray riesce a caricarsi sulle spalle una pellicola che altrimenti afonderebbe nel fango dei luoghi comuni. Ed è bello ritrovare l’attore in un ruolo da protagonista e non da subalterno. Interpreta Vincent, un vecchio irascibile e squattrinato di Brooklyn, più o meno idanzato con una spogliarelli-

Boyhood Richard Linklater (Stati Uniti, 165’)

The wolf of Wall street Martin Scorsese (Stati Uniti, 180’)

Gone girl sta/escort incinta (Naomi Watts) che inisce per fare da baby sitter al iglio della sua nuova vicina di casa (Melissa McCarthy). Come in Lost in translation, Murray sa risplendere nel ruolo di un cinico e spiegazzato compare di una persona molto più giovane di lui, che diventerà sua allieva e complice e gli farà quindi ritrovare un po’ della sua innocenza. L’inizio è la parte migliore, poi il ilm diventa sempre più stucchevole. Sembra un po’ la copia in negativo dell’Allievo di Bryan Singer, un altro ilm con una premessa supericiale, ma con una direzione narrativa molto più profonda. Peter Bradshaw, The Guardian L’amore bugiardo. Gone girl Di David Fincher. Con Ben Aleck, Rosamund Pike, Tyler Perry. Stati Uniti 2014, 145’ ●●●●● Gone girl di David Fincher sembra fatto con una serie di strati sovrapposti, uno più seducente e opaco del precedente. Questo non è l’unico motivo per cui il ilm (che Gillian Flynn ha adattato dal suo stesso best seller) somiglia alla ragazza misteriosamente scomparsa del titolo, Amy Elliott Dunne (Rosamund Pike).

Amy è lucida, perfezionista, fredda e a volte addirittura crudele. E così è il ilm di Fincher, una pellicola misteriosa e manipolatrice che gioca con lo spettatore come una femme fatale gioca con la sua preda. Un ilm su una manipolatrice paragonato a una manipolatrice? Bufo accostamento per l’opera di un regista spesso accusato di ignorare o trasformare in oggetti i suoi personaggi femminili. In più sceneggiata da una donna. Diicile parlare della trama senza dare elementi che possono rovinare la sorpresa al pubblico. Diciamo solo che Gone girl dà il suo meglio quando esplora le scene del crimine che potenzialmente si nascondono in ogni matrimonio e quando misura la distanza tragicamente breve che separa una discussione familiare, schietta ma costruttiva, dall’esplosione della furia omicida. Dana Stevens, Slate

Un gatto a Parigi

Nebraska Alexander Payne (Stati Uniti, 115’)

Big hero 6 Di Chris Williams e Don Hall. Stati Uniti 2014, 108’ ●●●●● Walt Disney e la Pixar sono forse diventati Walt Pixar? È diicile distinguere questi fratelli che una volta erano molto diversi. Big hero 6 è un luminoso e sontuoso ilm d’animazione digitale in 3d capace di far lavorare anche il dipartimento emozioni. Non ha nessuno dei marchi di fabbrica Disney: niente canzoni da cantare tutti in coro, niente creaturine gorgheggianti. E non è una favola, principalmente perché il protagonista è un ragazzo. Big hero 6 è un ilm d’animazione Disney tratto da un fumetto Marvel e raccontato con l’arguzia e la struttura spesso associate alle pellicole Pixar. Ci troviamo di fronte a un ilm Walt Pixar Marvel. Peccato però che alla Disney non abbiano avuto il coraggio di fare davvero un salto nel futuro evitando alcuni cliché che rendono i ilm sui supereroi così simili l’uno all’altro. Manohla Dargis, The New York Times Un gatto a Parigi Di Alain Gagnol e Jean-Loup Felicioli. Francia/Belgio/Paesi Bassi/Svizzera 2010, 64’ ●●●●● Il primo originale lungometraggio di due autori provenienti dal fumetto e dalla pittura è un thriller con un gatto e una bambina sulle tracce di un assassino. Le scene d’azione sono intervallate da lunghe peregrinazioni in una Parigi eterna, vista dai tetti, i cui monumenti sono trasformati al bisogno in giostre giganti. La graica ricorda Loustal animato da una matita luminosa che fa vibrare i personaggi. Axelle Ropert, Les Inrockuptibles

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Cultura

Libri

Cento romanzi e saggi pubblicati negli Stati Uniti nel 2014, scelti dai critici del supplemento letterario del quotidiano newyorchese

Fiction e poesia Dinaw Mengestu All our names Il diicile rapporto tra un operatore sociale del Midwest e un immigrato africano. Evie Wyld All the birds, singing Un’allevatrice di pecore tenta di sfuggire al passato in una remota isola britannica. Anthony Doerr Tutta la luce che non vediamo Una ragazza francese cieca e un ragazzo orfano tedesco s’incontrano durante la seconda guerra mondiale. Rivka Galchen American innovations Racconti su variazioni di donne trentenni, urbanizzate ed emotivamente disorientate. Hilary Mantel The assassination of Margaret Thatcher Una serie di piacevoli iabe contemporanee. Lawrence Osborne The ballad of a small player Un tormentato malversatore in fuga tra i casinò di Macao. Lorrie Moore Bark La prima raccolta di racconti di Moore dopo sedici anni. Siri Hustvedt The blazing world La carriera di un grande artista è danneggiata dal sessismo del mondo dell’arte.

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David Mitchell The bone clocks Un nuovo volo da capogiro in altre dimensioni dell’autore di Cloud Atlas. Michel Faber The book of strange new things Da un maestro del bizzarro un romanzo che sida qualsiasi classiicazione sul misterioso desiderio di istruzione religiosa di un pianeta alieno. Cristina Henríquez The book of unknown americans Gli immigrati sudamericani e la sida dell’integrazione.

DavID SanDISOn (EyEvInE/COnTRaSTO)

I libri dell’anno del New York Times

Karl Ove Knausgård

Il libro Gofredo Foi

I tormenti del traditore Sorj Chalandon Chiederò perdono ai sogni Keller, 286 pagine, 16,50 euro Sorj Chalandon, francese nato a Tunisi, ha scritto in passato un romanzo sul tema del tradimento: un giovane francese scopriva che un eroe dell’Ira, che aveva conosciuto e ammirato, era in realtà un traditore. Torna ora sul tema mettendosi dalla parte del traditore, interrogandosi sulle ragioni per cui si tradisce. Dopo tante lotte, carcere, resistenza, vincono i ricatti del nemico ma anche la

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stanchezza nei confronti di chi non vuol correre “il rischio della verità”, i propri compagni e dirigenti. Sul tema del traditore, l’irlandese O’Flaherty ci aveva dato, nel lontano 1925, un forte romanzo, che serpeggia da sempre in tutta la realtà (e la letteratura) che riguarda le lotte, le guerre, i conlitti tra due parti che si credono nel giusto. Il tema è delicato, scabroso e ambiguo in dai tempi di Giuda Iscariota. “Tutta la vita ero andato a caccia di traditori”, dice il

protagonista, e “il peggiore di tutti era nascosto dentro di me”. Chalandon è stato buon giornalista e si sente: sa ricostruire con competenza e passione storie che conosce. Ma è anche un ottimo scrittore che, con questo trascinante e angosciante Retour à Killybegs tradotto benissimo da Silvia Turato, parla di cose che non ha vissuto per interrogarsi sugli efetti delle guerre, e sui tormenti interni di quelle che sono o si deiniscono “di liberazione”. u

Helen Oyeyemi Boy, snow, bird Un ammonimento sull’ideologia postrazziale. Marlon James A brief history of seven killings Politica, razzismo e violenza in Giamaica intorno al tentato omicidio di Bob Marley. Lydya Davis Can’t and won’t Nei racconti di Davis la catastrofe è sempre in agguato. Linn Ullmann La ragazza dallo scialle rosso L’omicidio di una tata innesca i sensi di colpa in una famiglia norvegese. Haruki Murakami L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio Il traumatico ingresso nell’età adulta di un uomo. Jenny Oill Dept. of speculation Osservazioni, meditazioni e punti di vista diversi sull’andamento di un matrimonio. Joseph O’Neill The dog Un avvocato di New York vede dentro di sé un’oscurità più itta di quella che avvolge Dubai, dove lavora. Lily King Euphoria La competizione tra ego e desideri in un episodio della vita di Margaret Mead. Celeste Ng Everything I never told you Una famiglia mista lacerata nell’Ohio degli anni settanta. Daniel Kehlmann F. Tre fratelli abbandonati dal padre lottano con la vita. Louise Glück Faithful and virtuous night L’ultima potente e immaginiica raccolta di poesie di Glück afronta concetti come mortalità e memoria.

Donna Tartt Il cardellino (Rizzoli)

Akhil Sharma Family life Le diicoltà di un giovane e della sua famiglia che si trasferisce dall’India a New York. Smith Henderson Fourth of July creek Un operatore sociale segue un ragazzo selvaggio cresciuto da un padre survivalista nel Montana del 1980. Eimear McBride A girl is a half-formed thing Esordio bizzarro e vivace. Zachary Lazar I pity the poor immigrant Una scoperta spirituale, Meyer Lansky, una giornalista e l’assassinio di un poeta. Denis Johnson The laughing monsters Romanzo nichilista su due imbroglioni e spie in Africa. Anya Ulinich Lena inkle’s magic barrel Le avventure amorose a fumetti di un’immigrata russa. Richard Ford Let me be frank with you Quattro racconti collegati sul New Jersey sconvolto dal passaggio dell’uragano Sandy. Marilynne Robinson Lila Una ragazza con un passato diicile ricomincia da zero. Francine Prose Lovers at the Chameleon club, Paris 1932 Lou Villars è un pilota di auto da corsa e travestito francese che collabora con i nazisti. Lev Grossman The magician’s land Nell’ultima parte di una trilogia, un mago in esilio tenta una rapina rischiosa. Laila Lalami The Moor’s account Il primo esploratore nero d’America è il protagonista di questa iction storica. Patricia Lockwood Motherland fatherland homelandsexuals Una raccolta di poesie arrab-

Philipp Meyer Il iglio (Einaudi)

biata e divertente, in linea con la nostra epoca. Karl Ove Knausgård My struggle. Book 3: Boyhood La terza di sei puntate di un romanzo autobiograico. Richard Flanagan The narrow road to the deep north Una fragile umanità sopravvive sulla ferrovia tra Birmania e Thailandia, costruita nella seconda guerra mondiale. Colm Tóibín Nora Webster Tra ine degli anni sessanta e primi anni settanta, una vedova irlandese lotta per la sua indipendenza. Yelena Akhtiorskaya Panic in a suitcase Una famiglia ucraina si adatta a una nuova vita a Brooklyn. Sarah Waters The paying guests Amori proibiti e omicidi nella Londra dopo la grande guerra. Glyn Maxwell The poetry of Derek Walcott 1948-2013 Ampia e indispensabile sele-

MIchAEL BIRT (cONTOUR BY GETTY IMAGES)

I libri dell’anno della redazione

David Van Reybrouck Congo (Feltrinelli)

zione di poesie di Walcott, che oggi ha 84 anni. Phil Klay Redeployment Dodici racconti sulla guerra in Iraq scritti da un ex marine. Bret Anthony Johnston Remember me like this Nel romanzo d’esordio di Johnston, una famiglia si riunisce dopo il ritorno a casa di un iglio rapito. Boris Fishman A replacement life Uno scrittore sovietico emigrato a New York si dedica con abnegazione alle domande di risarcimento per l’Olocausto. Jefery Renard Allen Song of the shank La storia di Thomas Wiggins, pianista autistico, ridotto in schiavitù durante la guerra di secessione. Ben Lerner 10:04 Un uomo di Brooklyn con problemi d’identità aiuta un’amica ad avere un iglio. Susan Minot Thirty girls Le atrocità di un esercito ribel-

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Cultura

le in Africa raccontate con candore. Elena Ferrante Storia di chi fugge e di chi resta Il terzo capitolo della serie dell’Amica geniale. Nell Zink The wallcreeper Sorprendente romanzo d’esordio ambientalista. Matthew Thomas We are not ourselves Epopea su tre generazioni di irlandesi americani. Kathleen Founds When mystical creatures attack! Breve romanzo, costruito su più storie, oscuro e ricchissimo quanto feroce.

Non iction Deborah Solomon American mirror Insicurezze, depressione e conlitti coniugali non hanno intaccato l’impegno artistico di Norman Rockwell. Atul Gawande Being mortal Come vivere meglio l’invecchiamento, la malattia e l’avvicinarsi della morte. Elizabeth Green Building a better teacher Il divario tra quello che fanno i migliori insegnanti e il modo in cui vengono giudicati. Roz Chast Can’t we talk about something more pleasant? Autobiograia a fumetti sincera e triste, sugli ultimi anni di vita dei genitori dell’autrice. Howard W. French China’s second continent Le vite reali dei cinesi che vivono e lavorano in Africa. Nikil Saval Cubed Storia della progettazione e della tecnologia degli uici negli Stati Uniti dalla guerra di secessione a oggi.

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Héctor Tobar Deep down dark Le storie dei 33 minatori cileni rimasti intrappolati nel 2010. Jennifer Percy Demon camp Un veterano dell’esercito cerca la salvezza in un campeggio cristiano per esorcismi. Robert M. Gates Duty L’unica a uscire bene dal libro di memorie dell’ex segretario della difesa statunitense è Hillary Clinton. James Romm Dying every day Seneca e i suoi rapporti con l’imperatore Nerone. Bettina Stangneth Eichmann before Jerusalem Un Eichmann diverso da quello descritto da Hannah Arendt. Vicki Constantine Croke Elephant company L’intenso ritratto di un eroe insolito. James M. McPherson Embattled rebel Il presidente sudista Jeferson

PATRICE NoRMAND (oPALE/LUzPHoTo)

Libri

Héctor Tobar Davis visto come “un prodotto della sua epoca e delle circostanze”. Leslie Jamison The empathy exams Rilessioni sul dolore, isico ed emotivo. Beth Macy Factory man Un piccolo mobiliicio resiste alla globalizzazione. Daphne Merkin The fame lunches Quarantasei saggi sugli efetti

collaterali positivi che possono scaturire dal dolore personale. Charles M. Blow Fire shut up in my bones Il columnist del New York Times supera la rabbia per gli abusi subiti da piccolo. Jo Becker Forcing the spring Candido resoconto del processo in cui la corte suprema statunitense ha ribaltato il divieto di matrimoni tra persone dello stesso sesso in California.

Non iction Giuliano Milani

Prepararsi al Big One Maria Grazia Ciaccio e Giovanna Cultrera Terremoto e rischio sismico Ediesse, 210 pagine, 12 euro Un vecchio, prezioso, libro di Marcel Roubault, il geologo che aveva fatto il perito giudiziario nel processo per il disastro del Vajont, s’intitolava programmaticamente Le catastroi naturali sono prevedibili (Einaudi 1973). Per prevederle bisogna però sapere come avvengono, quali sono le loro conseguenze e come si può intervenire per fare in modo che

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i loro efetti provochino meno danni possibili. Due sismologhe italiane rispondono in maniera chiara e appassionata a queste domande in altrettanti capitoli di questo libro, il sedicesimo della collana di divulgazione Fondamenti, che si sta facendo strada con originalità nel panorama italiano. Il miglior capitolo del volume è tuttavia un altro, quello dedicato a Roma e ai terremoti: che parte compiendo un itinerario tra i monumenti che hanno subìto sensibili trasformazioni per efetto degli

eventi sismici (il Colosseo, la Torre dei Conti, la Colonna traiana) e da lì comincia a spiegare perché certe zone di Roma sono state più colpite di altre, riuscendo a rendere facile una materia complessa. Con esempi concreti e ricchezza di dati, si spiega come ogni evento sia determinato da cause diverse e sovrapposte, si sfatano preconcetti e si fa così capire che dipende dalle nostre decisioni se il tremare della terra sarà un evento sgradevole ma passeggero oppure una catastrofe. u

Anand Gopal No good men among the living Sguardo devastante sugli errori statunitensi in Afghanistan. Joachim Fest Io no Il padre dell’autore osò opporsi a Hitler. Eula Biss On immunity La paura dei vaccini vista attraverso scienza e letteratura. Alice Gofman On the run In un quartiere povero e abitato da neri a Philadelphia. Sarah Ruhl 100 essays I don’t have time to write Come essere creativi quando la vita si mette di mezzo. Joan Breton Connelly The Parthenon enigma Un’archeologa reinterpreta il fregio del Partenone. James Risen Pay any price Il giornalista del New York Times, vincitore del Pulitzer nel 2005, racconta gli eccessi della guerra al terrorismo.

Hermione Lee Penelope Fitzgerald Ritratto di una scrittrice diventata famosa a ottant’anni. Katha Pollitt Pro Per le donne l’aborto dovrebbe essere un “bene sociale”. Jef Hobbs The short and tragic life of Robert Peace Viaggio straziante da un ghetto del New Jersey a Yale. Ben Macintyre A spy among friends La storia del capo di una squadra di spie britanniche che si rivelò essere una talpa russa. Mark Miodownik Stuf matters Le meraviglie nascoste in carta, cemento, vetro, plastica. Dana Goldstein The teacher wars L’istruzione pubblica negli Stati Uniti. Elizabeth Kolbert La sesta estinzione Rilessione sul ruolo dei cambiamenti climatici determinati dall’uomo nelle estinzioni di piante e animali.

Lawrence Wright Thirteen days in september Come è nato l’accordo tra Israele ed Egitto nel 1978. Naomi Klein This changes everything C’è ancora tempo per evitare la catastrofe, ma non continuando a seguire le regole del capitalismo. Kerry Howley Thrown La poesia nel mondo delle arti marziali miste. Olivia Laing The trip to Echo Spring La follia alcolista di sei scrittori: John Cheever, Tennessee Williams, John Berryman, Ernest Hemingway, F. Scott Fitzgerald e Raymond Carver. Anand Giridharadas The true american Cronaca di un crimine d’odio post-11 settembre e delle sue conseguenze imprevedibili. Henry Kissinger World order Grido di protesta di Kissinger: un monito di realpolitik per le generazioni future. u gim

CARLoS oSoRIo (ToRoNTo STAR/GETTY IMAGES)

Ramachandra Guha Gandhi before India Gandhi avvocato in Sudafrica. Vikram Chandra Geek sublime Le connessioni tra arte e tecnologia analizzate da uno scrittore programmatore. Amanda Vaill Hotel Florida Ritratto collettivo di Hemingway, Martha Gellhorn e altri. Diane Ackerman The human age Indagine ottimista sulla tecnologia e le innovazioni. Rick Perlstein The invisible bridge Gli anni tra il 1973 e il 1976 come una stele di Rosetta della politica statunitense di oggi. Yochi Dreazen The invisible front La tragedia di una famiglia di militari per spiegare l’aumento di suicidi postbellici. Christine Kenneally The invisible history of the human race Kenneally osserva con intelligenza e umorismo ciò che il dna può rivelare. Bryan Stevenson Just mercy Un avvocato attivista e un uomo condannato ingiustamente per omicidio. Emmanuel Carrère Limonov Biograia di uno scrittore russo impossibile da classiicare. Gary Shteyngart Mi chiamavano piccolo fallimento Racconto esilarante e commovente del trasferimento della famiglia di Shteyngart da Leningrado al Queens. Sandra Tsing Loh The madwoman in the Volvo Sulle montagne russe del cambiamento. Andrew Roberts Napoleon Un vortice militare.

Diane Ackerman Internazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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Cultura

Musica Dalla Spagna

Alan McGee Bologna, 9 gennaio, covoclub.it

La ricchezza del festival

Hugo Race Roma, 26 dicembre, initroma.com

Primavera Sound di Barcellona: le cifre del successo

Kristal & Johnny Boy Roma, 20 dicembre, circoloartisti.it Skin Catania, 10 gennaio, mercatigenerali.org Schwefelgelb Catania, 27 dicembre, barbaradiscolab.com; Messina, 20 dicembre, myspace.com /retronouveauclub; Avellino, 30 dicembre, 0825 461638; Napoli, 31 dicembre, 3478 612209; Brescia, 2 gennaio, myspace.com/liobar Andy White Osnago (Lc), 8 gennaio, arcilaloco.org; Lugagnano di Sona (Vr), 12 gennaio, clubilgiardino.org; Livigno (So), 13 gennaio; Pavia, 14 gennaio, spaziomusicapavia.it; Livorno, 15 gennaio, surferjoe.it; Tra Sardegna e Jazz Mohammad Reza Mortazavi, Quintorigo, Snake Platform, Hamid Drake, e altri Sant’Anna Arresi (Ci), 18 dicembre-3 gennaio, santannarresijazz.it

Andy White

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Il Primavera Sound, il festival di musica indipendente che si tiene a Barcellona ogni anno a maggio, nel 2014 ha fatto entrare in città 95 milioni di euro. Il dato emerge da uno studio della società di consulenza Dentsu Aegis. Se il Primavera era già da tempo considerato uno dei più importanti festival del mondo per la scena musicale indie, questi dati confermano che è una potenza economica di primo piano. Secondo lo studio, la spesa diretta del pubblico del festival è stata di 544 euro per ogni spettatore,

PyMCA/UIG/GETTy

Dal vivo

Primavera Sound, 2014 che diventano 780 euro per chi ha raggiunto la capitale catalana dall’estero. Le presenze ai 348 concerti del Primavera Sound 2014 sono state 191.800, con un aumento del 12 per cento rispetto al 2013. L’età media è stata tra i 25 e i 35 anni di età, e nel 46 per cento dei casi gli appassionati sono venuti dall’este-

ro. Un’indagine simile era stata fatta per il festival del 2011, che aveva prodotto un giro d’afari di poco superiore ai 65 milioni di euro. La crescita di questi anni è particolarmente signiicativa perché arriva in un periodo in cui la maggior parte degli eventi culturali spagnoli ha registrato un calo di presenze. Anche i barcellonesi sono contenti: l’80 per cento pensa che i piccoli inconvenienti generati dalla folla in città non siano importanti rispetto ai vantaggi economici e promozionali dell’evento, che raforza l’idea di Barcellona come riferimento nel panorama culturale europeo. Abc

Playlist Pier Andrea Canei

Breaking pappa Giovanni Succi Diavolo rosso Si può fare, un rataià corretto mezcal? Giovanni Succi (da Nizza Monferrato) prende la prosopopea slow di Paolo Conte, la essica, e la stravolge. Il suo album Lampi di macachi è come Breaking bad: il giovane alchimista ruba il ricettario del prof e prova a farci il miscuglione suo. Non che Succi manchi di rispetto: non cambia una sillaba dei testi, e fa bene. Ma poi Bartali pedala su un pianoforte monco, Gelato al limon sa di deserto dark, Questa sporca vita è da Tom Waits zombie. Formule chimiche instabili e corrosive, dal terroir della miglior barbera.

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New Basement Tapes When I get my hands on you Qui le ricette sono del vecchio stregone Bob Dylan (una risma di testi scritti a macchina e mai messi in musica, nel periodo di convalescenza dopo l’incidente in moto nel 1966) recapitate a un altro stregone, T Bone Burnett. Che le aida, per l’album Lost in the river, alla crema del più nobile rock e folk anglosassone: da Elvis Costello a Marcus Mumford, che qui ha il buon senso di lasciare banjo e violini nel granaio e far scherzare Dylan col fuoco di Can’t get my eyes of you di Gloria Gaynor. Ne esce un misterioso insolito blues.

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Rete co’mar Viva la pappa col pomodoro Qui invece la ricetta è tramandata da generazioni: la pietanza adulterata col bromuro di Gian Burrasca e col carisma di Rita Pavone, rielaborata (da un collettivo partenopeo nel nuovo album Tutti fuori) in chiave di salsa alla pummarola, per masticare revolución e colazión in un’unica poltiglia da cabaret. “La pancia che borbotta è causa del complotto”: essere a stomaco vuoto è la via maestra per rivoltarsi contro il magna magna altrui, e questo è quel che unisce giamburrasca e masanielli del mondo intero.

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I dischi dell’anno della redazione

Aphex Twin Syro (Warp)

Lucinda Williams Down where the spirit meets the bone (Highway 20 Records) intonare una delle sue più celebri canzoni di protesta, I’m going to say it now, Ochs scherza sul fatto che ormai attaccare l’establishment “è fuori moda e non serve a conoscere le ragazze”. Il musicista, tuttavia, non era semplicemente un “giornalista con la chitarra”: la sua Cruciixion, che può essere interpretata come un tributo a John F. Kennedy, è un vero poema allegorico che ricorda addirittura T.S. Eliot. E ha anche una melodia magica, a conferma che Ochs è stato uno dei maestri della sua epoca. Michael Simmons, Mojo

Arca Xen (Mute) ●●●●● Xen, il primo album di Arca, ha il pedigree migliore di qualsiasi altro disco del 2014. Il ventiquattrenne venezuelano ha prodotto due degli album più avveniristici che ci siano capitati di recente, Yeezus di Kanye West e Lp1 di

Röyksopp

FKA twigs. Fin dalla prima nota Xen sida chi pensa di ritrovare qualcosa di simile ai lavori prodotti da Arca, che si conferma invece un artista guidato dall’innovazione. Pezzi come Sisters e Wound viaggiano liberi mentre le idee e gli stili spuntano e spariscono senza perdere tempo in digressioni. Dalla gelida Now you know al funk di Slit thru o all’asciutto drill and bass di Fish, Arca non sembra cercare un lusso narrativo ma aferra ogni suono alieno e spiazzante, e lo segue nella tensione con gli altri suoni che arrivano prima e dopo. Per i fan dei suoi lavori hip-hop e rnb di Arca, la natura sperimentale e scarna di Xen sarà una sida. E questo lo rende uno degli album più belli dell’anno. Daniel Sylvester, Exclaim Phil Ochs Live again! (Rockbeat) ●●●●● Phil Ochs aveva una voce tenorile limpida come i testi e le posizioni politiche delle sue canzoni. Questo live inedito, registrato in un club nel Michigan nel 1973, ce lo restituisce nella sua forma migliore, un dato inquietante se si pensa che di lì a poco sarebbe sprofondato nella depressione per poi suicidarsi nel 1976. All’inizio degli anni settanta i tempi erano già cambiati, come aveva previsto Dylan, e prima di

The Belle Brigade Just because (Ato Records) ●●●●● Se non fosse per la genetica (il nonno dei fratelli Barbara e Ethan Gruska è il leggendario autore di colonne sonore John Williams), si potrebbe pensare che i Belle Brigade siano i Rilo Kiley in incognito, invece che una giovane band statunitense. Efettivamente un legame c’è (Barbara Gruska ha suonato la batteria con Jenny Lewis, ex cantante dei Rilo Kiley). Ma quel che conta è che i Belle Brigade propongono uno splendente pop della west coast. C’è anche coerenza nei testi, che parlano di insoddisfazione (When everything was what it was), depressione (Likely to use something) e sati-

DR

Röyksopp The inevitable end (Dog Triumph) ●●●●● La ine è inevitabile? Per il duo norvegese Röyksopp pare di sì, visto che hanno deciso di chiudere il sodalizio con il quinto album in studio, intitolato The inevitable end. Ma non c’è bisogno di essere un indù per pensare che ci sia la vita dopo la morte: i due potrebbero tornare a manifestarsi in un’altra forma. Comunque in questo testamento musicale è come se i Röyksopp passassero in rassegna la loro produzione, preparandosi alla dipartita. Qualche volta il risultato è emozionante, come in Running to the sea, un brano che ci fa ripiombare in una discoteca anni novanta con una techno trascinante. Quando si arriva a Compulsion ci si può un attimo rilassare tra beat minimali e la voce di Jamie McDermott. Con Coup de grâce, invece, l’atmosfera diventa più cupa, mentre Thank you ricorda i Daft Punk. La decisione dei Röyksopp, comunque, non sembra poi così deinitiva, almeno a sentire un brano che recita: “Do it again” e la seconda parte dell’album intitolata non a caso Prologue. Tamara Marszalkowski, Frankfurter Allgemeine Zeitung

DR

Album

The Belle Brigade

St. Vincent St. Vincent (Loma Vista)

ra (Be like him). Just because è un album breve ma pieno di energia pop. Tony Clayton-Lea, The Irish Times The Budos Band Burnt ofering (Daptone) ●●●●● A volte ci si imbatte in uno di quegli album semplicemente folgoranti: un insieme elettrizzante e viscerale di dinamiche e ritmi che arrivano dritti alla pancia. Come se fosse sempre esistito, solo che noi non l’avevamo ancora ascoltato. Be’, Burnt ofering della Budos Band rientra nella categoria. L’ultimo lavoro di questo gruppo di Staten Island, che ha già pubblicato altri tre dischi, rievoca l’andatura lenta e oscura di certi B-movie, con suoni funk più tetri, contrapponendo esplosioni stridule e insistenti di tromba e sax a mitragliate di chitarra, in un duello all’ultimo sangue. Si ritrova anche l’afrobeat di Fela Kuti e il jazz-funk degli etiopi Walias Band, i bassi tipici dei ilm del genere caper, perino il rock di certi oscuri gruppi protometal statunitensi come i Dust e i Power Of Zeus. E la cosa più sorprendente è che questi elementi si accordano in un’alchimia perfetta. Joe Banks, The Quietus Heinz Holliger Debussy: Prélude à l’aprèsmidi d’un faune, Images, rhapsodies Radio-Sinfonieorchester Stuttgart, direttore: Heinz Holliger ●●●●● Da un direttore atipico come Holliger, oboista e compositore d’avanguardia, ci si aspetta un Debussy molto personale. Non si resta delusi: bisogna osare e lasciarsi convincere. Gérard Condé, Diapason

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Cultura

Video In rete Refugee republic

La valigia messicana Venerdì 19 dicembre, ore 22.30 RaiStoria Nel 2007 tre scatole con oltre 4.500 negativi furono trovate in un armadio a Città del Messico: erano scatti realizzati durante la guerra civile spagnola dai grandi fotograi Robert Capa, David “Chim” Seymour e Gerda Taro. La particella di Dio Sabato 20 dicembre, ore 16.00 Laefe Sei brillanti scienziati del Cern di Ginevra danno il via all’esperimento più costoso nella storia della scienza: ricreare le condizioni esistenti pochi istanti dopo il big bang. Ultima chiamata Sabato 20 dicembre, ore 22.30 RaiStoria Il messaggio di The limits to growth, pionieristico studio ecologista, è rimasto inascoltato. Basato sulle ricerche di un gruppo di scienziati dell’Mit, lanciava l’allarme sul collasso ambientale. La segretaria dei Beatles Venerdì 26 dicembre, ore 21.10 Sky Arte Freda Kelly era una timida adolescente di Liverpool quando Brian Epstein le ofrì di lavorare per una band locale, occupandosi del fan club uficiale. La nascita, il successo e lo scioglimento dei Beatles da un punto di vista inedito. L’ultimo pastore Venerdì 26 dicembre, ore 21.15 Rai5 Marco Bonfanti traccia il ritratto di Renato Zucchelli, l’ultimo pastore rimasto nell’area milanese, seguendolo durante l’estate nelle valli bergamasche e poi nella discesa in città per coronare il sogno di portare il gregge al centro di Milano.

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Dvd Enea e l’amore Enea vorrebbe tanto fare l’amore ma c’è un problema: sofre di autismo. Spesso la gente tende a compatire quelli come lui, invece di pensare ai loro bisogni. Carlo Zoratti, che di Enea è amico e gli è stato a lungo vicino come volontario, è il regista di questo documentario. Ha scelto di raccontare una persona

speciale e la straordinaria avventura che hanno intrapreso insieme, riuscendo ad aggirare ogni pietismo con leggerezza e sensibilità sorprendenti. Il risultato è l’imperdibile The special need, titolo inglese per un ilm italiano tra i più applauditi ai recenti festival internazionali. thespecialneed.com

refugeerepublic .submarinechannel.com Domiz Camp è un campo per rifugiati siriani nel nord dell’Iraq, che questo documentario di produzione olandese, realizzato con il quotidiano De Volkskrant, invita a esplorare per scoprire come, oltre le solite immagini stereotipate, in comunità come questa la vita ostinatamente resiste e rinasce. I campi profughi nascono come strutture provvisorie, ma secondo un recente studio la permanenza media dei rifugiati e di ben 17 anni. Questo trasforma i campi, che sono centinaia e ospitano cinquanta milioni di persone in microsocietà autoorganizzate, con l’ong di turno nel ruolo di governo, e i rifugiati-cittadini alle prese con le faccende e gli afanni di tutti i giorni.

Fotograia Christian Caujolle

Afari di carta Anche volendo è diicile ignorare l’arrivo delle feste natalizie. Se non altro perché nella cassetta delle lettere arriva il corposo magazine (non si può più dire catalogo perché all’interno ci sono delle inserzioni pubblicitarie e perché non ci sono tutti i titoli) delle edizioni Taschen. Che bei libroni, seducenti come il peccato. Tra gli altri possiamo scegliere un volume di 416 pagine su Velázquez, l’integrale di Little Nemo (708 pagine), ragazze di

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Hollywood anni trenta o versione pin up. Ma il vero mostro non è né la più completa raccolta di Doisneau né il Jk di Norman Mailer. È l’edizione taglia “sumo” (50x50) di The Rolling Stones, 522 pagine irmate da Mick, Keith, Charlie e Ronnie. Purtroppo “l’edizione artistica” con stampe fotograiche originali, in vendita a 15mila euro, è esaurita. È disponibile la versione meno nobile (ottomila euro), mentre i 1.050 esemplari senza stampe

originali ma solo irmati costano quattromila euro. Visto che Babbo Natale non è un criminale esiste anche un formato più discreto a 50 euro. Altri titoli sfruttano il successo di Newton, Salgado e Annie Leibovitz. Ottime speculazioni: Newton, quando uscì nel 2003, costava 1.500 euro. Ora viaggia sui cinquemila. Per i non collezionisti c’è comunque un notevole Papiers découpes di Matisse a 49,99 euro. Buon Natale. u

Cultura

Arte Edouard Duval-Carrié, L’embarquement pour L’Isle-de-France ou le Renvoi D’Erzulie Freda Dahomey

RALPH TORRES (ADAGP)

Il ricco e il ilosofo Olafur Eliasson, Fondation Louis Vuitton, Parigi, ino al 16 febbraio 2015 Può un artista competere con le fantasie congiunte dell’uomo più ricco (Bernard Arnault) e dell’architetto più famoso (Frank Gehry) di Francia? Con l’incarico aidato al ilosofo della spettacolarità Olafur Eliasson per la mostra inaugurale della Fondation Louis Vuitton, Bernard Arnault sicuramente voleva magie visive ma anche accenti gravi, per riscattare l’immagine del museo legata ai capricci di un milionario. Con installazioni coinvolgenti di luci e specchi, corridoi foderati di carta vetrata annerita, e tetti coperti di dispositivi che catturano il sole e lo proiettano nell’ediicio di Gehry, Eliasson ha messo a punto una mostra ricca di astrazioni. Gli efetti sembrano così eimeri da implicare una replica al greve materialismo delle iniziali di Vuitton, incise sull’entrata dell’ediicio come su un gioiello. Secondo Eliasson la mostra sonda il conine tra il noto e l’ignoto, ma non è per forza esistenzialista. Ice watch, l’installazione di enormi blocchi di ghiaccio che si sono sciolti deinitivamente qualche giorno fa di fronte al municipio di Copenhagen, era un richiamo ai cambiamenti climatici. Non voleva cambiare il mondo, ma conquistare la iducia della società civile. Eliasson in efetti gode di una certa iducia. Alla Fondation il viaggio procede attraverso un teatro avvolgente di luci e ombre che porta il pubblico in un’apparente oscurità. I visitatori luttuano nello spazio. Ci troviamo di fronte al sublime romantico di matrice nordica informato da un altro ideale scandinavo: il contratto sociale. Financial Times

Parigi

Due secoli di arte haitiana Haïti, deux siècles de création artistique Grand Palais, Parigi, ino al 15 febbraio 2015 Sulla destra dell’ingresso principale, davanti alla porta H, come Haiti, si trova una scultura di alluminio decorata con motivi colorati. In piedi su quattro gambe, è pesante e pomposa come un baldacchino e potrebbe essere un trono o un sepolcro, ambigua come la storia del suo paese. Ma di notte la struttura cambia aspetto. Illuminata da lanterne di tutti i colori, si trasforma in un gigantesco faro, un rifu-

gio magico cesellato nel buio parigino. La Porte d’Haiti è la prima delle 167 opere in mostra, creata per l’occasione da Edouard Duval-Carrié. Passato l’ingresso le sorprese si moltiplicano. Un disabile ci aspetta sulle scale: la testa è un videotape, il collo una lamiera contorta, le spalle due pneumatici, il busto rattoppato è la scocca di un vecchio computer. È aiancato da uno spilungone malconcio come lui, un mucchio di ferraglie umanoidi su una sedia a rotelle. Guyodo, l’autore, spiega che i due umanoidi sono la

metafora della sua condizione di artista: un disabile senza intermediari o gallerie che lo sostengono, con più di ottocento opere invendute nel suo studio di Port-au-Prince. Per Guyodo è impossibile vivere del suo lavoro. La mostra è una carrellata sulla creazione artistica della repubblica nera. Il gioco delle corrispondenze tra passato è presente si articola intorno a quattro grandi temi: senza titolo, paesaggi, spiriti e capi. Il percorso è coronato da tre distici di Jean-Michel Basquiat e Hervé Télémaque. Libération

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Pop Ritorno a casa Nisa Qazi

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NISA QAZI

è una scrittrice e giornalista statunitense. Vive a Beirut. Questo racconto è uscito su Guernica con il titolo Fatherland.

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è un punto, lungo il percorso tra della strada con le loro ile di calze di nylon, magliette Islamabad e Abbottabad, in cui la per bambini e sandali di plastica. Quante ore, mi chiedo strada, più di polvere che di terric­ a volte, ho passato con gli occhi posati sul sedere ossuto cio e macchiata di olio di motore, dei bovini che procedevano placidamente davanti a noi cede il passo ai boschetti di aranci ondeggiando e scacazzando? Quanti escrementi erbo­ e ai campi di senape. Non si vedo­ si ho visto materializzarsi e cadere, penso, mentre im­ no quasi più i camion Bedford senza ruote con gli enor­ magino una vita in cui non sono la iglia più piccola di mi cofani aperti o con i muscolosi autisti che gli fanno il una famiglia molto numerosa? bagno come se fossero elefanti. Diminuiscono le buste Quando arrivavamo alla periferia della città, in di plastica che sventolano sui cespugli. Le colline di macchina nessuno parlava più e io me ne stavo con la Islamabad fittamente coperte di arbusti diventano faccia schiacciata contro il vetro del inestrino. Dopo montagne, poi cambiano anche le mon­ quel viaggio breve ma straziante erava­ tagne, da collinette color cemento ap­ Nel 1967, vent’anni mo sempre esausti. La ripida discesa ver­ piattite e denudate dalla dinamite delle dopo la partizione so la strada dove abitava mio zio per me miniere si trasformano nelle prime alture dell’India, i miei segnava la ine della tranquillità ino a genitori volarono da quando non risalivamo in macchina per marroni e kaki del Karakorum. Io e la mia famiglia facevamo quel New York a tornare a casa. viaggio diverse volte all’anno per andare Francoforte senza Abbottabad deve il suo fascino a qual­ a trovare i nostri parenti ad Abbottabad. nessun piano che bel panorama, al suono mattutino Ci stipavamo nella Suzuki Swift fornita preciso, e da lì fecero delle cornamuse dell’esercito e a certi dal governo e lasciavamo la città in dire­ l’autostop ino al pittoreschi ediici coloniali. Prende il no­ zione nord. Quella strada la facevamo me da sir James Abbott, un uiciale in­ Pakistan così spesso che conoscevo ogni spiazzo glese della metà dell’ottocento. Ai tempi dove si fermavano i camion e ogni alleva­ della dominazione britannica, era una mento di bufali: percorrevamo la millenaria Grand bucolica località di villeggiatura tra le colline coperte di trunk road e poi prendevamo l’autostrada del Karako­ pini, in cui i dignitari dell’impero e le loro svenevoli mo­ rum, la più alta del mondo, che inisce in Cina. gli andavano a cercare un po’ di sollievo dalle torride La Swift è una macchina piccola, anche per gli stan­ estati del sud. Nel 1967, vent’anni dopo l’indipendenza dard delle utilitarie. È il tipo di automobile nella quale e la partizione dell’India, i miei genitori volarono da bisogna distribuire bene il peso dei passeggeri. Essen­ New York a Francoforte senza nessun piano preciso, e do in cinque, e procedendo a zig zag lungo una serie di da lì fecero l’autostop ino al Pakistan, fermandosi a buche e curve improvvise, ci capitava spesso di dover Heidelberg, Vienna, Lubiana, Trieste, Istanbul, Esfa­ trattenere il respiro. Le strade erano sempre in costru­ han, Shiraz e nell’arida Nok Kundi, in Belucistan. Quan­ zione, venivano allargate e riasfaltate di continuo. Ogni do tre settimane dopo arrivarono ad Abbottabad mia tanto, un iume ingrossato dalle piogge invadeva un madre, che aveva 23 anni, apparteneva a una famiglia ponte, e tra noi cadeva il silenzio. Chiunque fosse alla cattolica di Filadelia ed era un’attivista per i diritti civi­ guida cercava di non pensare a quanto era bassa la Su­ li con la gonna a ruota, pensò che fosse il posto più bello zuki e a quanto erano lisce le sue gomme. Per molto che avesse mai visto. Mio padre, sempre premuroso nei tempo a guidare era stato il mio fratello maggiore, per­ confronti della sua dolce sposa e felice di essere tornato ché mio padre aveva imparato a guidare solo verso i a casa, aveva 24 anni. cinquant’anni. Poi, da quando il mio fratello minore ne Il mio fratello maggiore sarebbe nato un anno dopo aveva compiuti quattordici, il volante era passato a lui. a Rehmat Manzil, la casa in cui era cresciuto mio padre, Quel viaggio, soprattutto durante l’arrampicata i­ molto prima che arrivasse la stizzosa ostetrica dell’eser­ nale sulla montagna, ci dava sempre una sensazione cito nel suo sari inamidato color kaki. I missionari olan­ viscerale di inesorabilità, fatta in uguale misura di ras­ desi della Burn hall school concessero a mia madre due segnazione e irritazione, che aumentava con il rallenta­ settimane e mezzo di congedo per maternità. Poi do­ re del traico e a ogni punto di riferimento del paesag­ vette tornare a insegnare. Guadagnava 300 rupie al gio: i cartelloni pubblicitari fermi nel tempo, le rotatorie mese, meno di 65 dollari dell’epoca. Perino ad Ab­ in cui regnava l’anarchia, i venditori ambulanti al bordo bottabad, dove con cinque rupie si poteva comprare un

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gabrIella gIandellI

pollo intero, non era molto. Mio padre era stato meno fortunato, o forse meno interessato a trovare lavoro. aveva cercato di allevare pollame, ma il suo tentativo era stato bruscamente interrotto dalla morte di tutte le galline a causa di una misteriosa malattia aviaria. Poco dopo i miei tornarono a Filadelia, dove, dopo aver rimandato per diversi anni, alla ine ebbero me. all’epoca dei miei primi ricordi di abbottabad, buona pare del fascino della città era stato coperto e sofocato dall’aumento della popolazione. la sua aria un tempo incontaminata era stata inquinata da una ila ininterrotta di enormi camion che vomitavano fumo nero sulla strada principale che tagliava in due la città. a un certo punto rehmat Manzil si ritrovò immersa tra i riiuti e circondata da case dalla facciata fuligginosa che nessuno pensò mai di abbellire. alla ine fu rasa al suolo per fare spazio a qualcosa di più consono ai cambiamenti che si erano veriicati nel quartiere: un’oicina per la riparazione di motociclette. Perino il centro di abbottabad, dove lo squallore delle periferie lasciava il posto a un modesto assortimento di zone residenziali, ristoranti, negozi di tessuti e sale per matrimoni, aveva

poco da ofrire a una bambina, a parte l’occasionale gita sulla collina di Shimla e una Fanta, che però esercitava sempre meno fascino su di me. Qualche anno dopo, quando me n’ero già andata di casa, i miei fecero costruire un piccolo cottage sui quattro ettari di un terreno cinto da mura che era appartenuto a mio nonno ed era adiacente a quelli sui quali avevano costruito le loro case i suoi fratelli. Mio padre era solito dire che ci volevano cinque anni perché un giardino raggiungesse la maturità. Sceglieva in modo oculato i suoi hobby e non lasciava mai niente a metà: nel giro di tre anni, il suo giardino era diventato un delizioso assortimento di cascatelle, ruscelli serpeggianti attraversati da minuscoli ponti ad arco, salici, prugni, gazebo, vialetti coperti di ciottoli, e perino un mulino ad acqua in miniatura perfettamente funzionante. l’erba, che a quanto pare proveniva da un qualche incantato bosco coreano, era abbastanza grassa e itta da resistere a quel sole implacabile, molto diversa dai ciui di ieno bruciacchiato dei prati dei vicini. di tutti i miei 23 cugini ancora in vita, sono l’unica a non essersi mai sentita completamente a suo agio Internazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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Pop

Storie vere Oferta speciale della polizia di Beloit, nel Wisconsin: potete chiamare degli agenti a casa vostra e loro la perquisiranno meticolosamente per controllare che in giro non ci siano armi di cui voi non sapete nulla. “L’uso illegale di armi da fuoco è un virus pericoloso come l’ebola, ed è giusto combatterlo usando sistemi appresi da chi si occupa della salute pubblica”, ha dichiarato il capo della polizia Norm Jacobs. Evidentemente se durante la perquisizione dovessero emergere altre prove di qualche reato, il padrone di casa ne sarà giudicato responsabile.

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quando tutte le famiglie piombavano come uno stormo di piccioni viaggiatori a casa del più anziano dei miei zii, chacha ji, ad Abbottabad. Una volta arrivati lì, eravamo igli di tutti, e c’erano in giro molti papà e mamme. Quando la famiglia crebbe, chacha ji costruì una dependance per ospitarci. Tre dei cinque fratelli di mio padre non hanno mai vissuto in nessun altro posto. Gli altri, che in vari momenti avevano messo su casa con la loro famiglia a Peshawar, Karachi, Lahore o Islamabad, tornavano comunque spesso per la festa del sacriicio, i matrimoni, le nascite, i compleanni, le malattie, i funerali, la costruzione di una nuova casa o l’acquisto di un acquario. Mio padre era perino più ossequioso di quanto richiedessero i costumi pachistani. E lui, a sua volta, non faceva mistero del fatto che noi, sua moglie e i suoi tre igli, eravamo la sua seconda – e secondaria – famiglia, mentre quella vera era formata dalle persone alle quali lo legava la perdita dei genitori. Durante le nostre visite ad Abbottabad, passava ogni minuto con i suoi fratelli. Si riunivano tutti e cinque a porte chiuse nello studio di mio zio, che aveva le pareti così completamente ricoperte di pannelli di legno da dare la sensazione di essere in una scatola di sigari. Lì (immaginavo) si commiseravano a vicenda per la scarsa serietà ed eccezionalità dei loro igli. Spesso non li rivedevo ino al mattino, quando ci svegliavamo al canto del gallo e al rumore che produceva mio padre russando come può fare solo un uomo che fuma cinquanta sigarette al giorno. Dopo la colazione con un paratha e un uovo fritto cominciava il mio calvario. Di solito a dare il via era Z, il capo del nostro sottogruppo, quello dei bambini più piccoli della famiglia. Oggi Z è un uomo di successo che ha vinto un premio Peabody per la televisione ed è l’afettuoso padre di due igli. Ma allora era l’avatar delle mie ansie, e io ero la pietra con cui ailava il suo formidabile sadismo. Escogitava sempre qualche sistema per non farmi sentire al sicuro quando mia madre non era a portata di urlo. Una volta, lui e i suoi soliti complici, abbastanza furbi da non mostrare mai nessun segno di debolezza o di dissenso, mi portarono fuori dalle mura della casa di mio zio ino a un fossato lungo la strada. Feci quello che mi dissero e mi ci calai dentro. A quel punto Z e gli altri tornarono indietro e si chiusero il cancello alle spalle. Le loro risatine che sentivo in lontananza suonavano poco convinte, come se pensassero che avevo dato prova della mia abietta mancanza di spina dorsale tante di quelle volte da non essere più divertente. Non ricordo come ne uscii, né se andai a raccontarlo a mia madre. Probabilmente sì, perché la mia persecuzione era, comprensibilmente, dovuta proprio al fatto che ero una spiona che preferiva la compagnia della mamma a quella di tutti gli altri. Ho pagato caro questo peccatuccio infantile, perché ho dovuto superare i trent’anni prima che i miei parenti smettessero di usare la frase: “Non puoi dirlo ad Arlene chachi, ok?”, prima di farmi qualsiasi rivelazione importante. A essere sinceri, non erano le implacabili umiliazioni dei miei coetanei ma il contrasto con le verdeggianti radure del South Jersey a farmi odiare Abbottabad. Mia madre risparmiava con fanatica diligenza, registrando

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ogni spicciolo che spendeva in un minuscolo libro dei conti in similpelle, per permetterci di andare, ogni tre anni circa, alla periferia di Filadelia e passare dieci settimane a casa degli zii o dei nonni. Dieci settimane di solitudine senza amici, anche se non mi sentivo sola perché ero troppo occupata a ingrassare mangiando gelati. Mio padre non veniva mai negli Stati Uniti con noi. Ci accompagnava all’aeroporto e tra un abbraccio e l’altro mi lanciava qualche ammonimento del tipo: “Aiuta la mamma, non leggere romanzacci e non metterti nei guai”. Ma io ero già andata, sentivo già il profumo dei sobborghi americani, per due terzi erba tagliata e per un terzo bitume. A parte una o due gite gastronomiche a Filadelia e un lungo weekend nella casa gialla su palaitte che mio cugino aveva sulla spiaggia, passavo la maggior parte delle giornate a prendere a calci i sassi nel raggio delle poche strade residenziali che mi era stato imposto come limite per le mie passeggiate, ammirando le decorazioni alle inestre delle case – madonne di alabastro, candele elettriche, una gran quantità di ceramiche Wedgwood – e cercando di sembrare nativa del posto. Lanciavo occhiate interessate alle auto parcheggiate nei vialetti, come se stessi esaminando capi di bestiame da comprare. Bonneville, Caprice, Continental a gruppi di due e tre, che viste da vicino sembravano enormi. Quando guidavano, i proprietari sembravano rispettare il limite di velocità di 25 miglia all’ora più per inerzia che per senso civico, i sedili anteriori simili a divani erano inclinati di 45 gradi e sterzavano con un movimento del polso quasi impercettibile. Non vedevo traccia della frenesia degli automobilisti del Pakistan, dove le macchine, quasi tutte minuscole, si accartocciavano come isarmoniche al minimo contatto. Ogni tanto, qualche ragazzino del quartiere entrava involontariamente nel mio raggio di perlustrazione, e dopo una rapida valutazione (È più grasso/peloso/giovane di me? Controlla. Procedi!), attaccavo discorso. Nessuno sembrava mai meravigliarsi del fatto che avessi percorso diecimila chilometri per arrivare in quell’incontaminato fazzoletto di terra. Anzi, se posso idarmi della mia memoria, la maggior parte di loro mi guardava di traverso quando gli chiedevo di dov’era, una mossa calcolata per avere la possibilità di darmi delle arie. Forse, dato che gli avevano insegnato a diidare degli estranei (e cosa c’era di più palesemente estraneo di una ragazzina leggermente bafuta che in quell’afa andava in giro con un paio di pantaloni di velluto stirati in modo impeccabile?), rimanevano sbigottiti quando gli dicevo che non ero di quelle parti. O forse per loro sapere da dove veniva una persona era un’informazione noiosa e irrilevante, come per me non è mai stata. Ma dato che non avevo altro di cui vantarmi, essere pachistana era il mio biglietto da visita, e lo ofrivo spudoratamente a tutti. Quando tornavo a Islamabad, ridevo con i miei compagni di scuola americani di come la gente laggiù immaginava che fosse il Pakistan, sempre presumendo che all’epoca qualcuno ne avesse sentito parlare, prima che cominciasse a comparire nei titoli del giornali accompagnato dall’aggettivo “pericoloso”. Pensavano

gABRIELLA gIANDELLI

che ci fossero cammelli che vagavano per le strade come le mucche che bloccano il traico in India, che non avessimo la televisione e l’acqua corrente, che ci fossero solo eroina, kalashnikov e donne vestite di nero che ululavano. Ma il ruolo che svolgevo in quelle conversazioni era tutta una inzione, un fraudolento tentativo di condividere almeno in parte il fascino della vita di alcuni dei miei compagni. Arlington, Falls Church, Springield, questi erano i favolosi nomi delle città della Virginia dalle quali venivano tanti ragazzi americani, in genere igli di funzionari del dipartimento di stato. Molti di loro avevano passato poco più tempo di me negli Stati Uniti, ma quando tornavano dalle vacanze estive ci intrattenevano con il racconto di una giornata trascorsa insieme in un centro commerciale di Fairfax (altro nome incantevole), e io sofrivo terribilmente nel sentirlo. Era un dolore che conoscevo bene: loro erano bambini di mondo, igli di persone importanti, mentre io ero solo iglia di un’insegnante, e forse non avrei avuto neanche diritto a frequentare quella scuola. Le loro famiglie passavano le vacanze in posti come Phuket e Singapore, mentre noi Qazi andavamo sempre nella provincia della Frontiera del Nord Ovest. C’è un’altra Abbottabad che mi è familiare quanto quella in cui passavo ore e giorni interminabili. È il piccolo paradiso silvestre delle storie di mio padre, i acconti di quando si arrampicava sulla collina alle spalle di Rehmat Manzil, e della frutta che raccoglieva e mangiava sulla via del ritorno, tanto da arrivare a casa con la pancia gonfia. Del prete alcolizzato di Burn hall, di quando aveva giurato fedeltà a sua altezza reale, e di quando aveva imparato l’inglese dai romanzi di Thomas Hardy. Di lui e dei suoi amici che vedevano Dracula con Christopher Lee rannicchiati nelle poltrone del cinema in preda al terrore. Del rasta nudo che girava per le strade soiando in un ischietto, seguito da una banda indivisibile. Le storie dei mendicanti della zona che avevano imparato che sua madre aveva il cuore tenero. Dei suoi compagni indù che nel 1947 erano scomparsi quasi da un giorno all’altro. Del ddt che gli spruzzavano in testa per uccidere i pidocchi. Della Opel di famiglia, la prima automobile del quartiere. Delle visite alla madre nella casa di cura dove era stata ricoverata inché non era morta per tubercolosi quando lui aveva sei anni. Della perdita del padre quattro anni dopo. E di come i fratelli lo avevano cresciuto, un debito che non avrebbe mai potuto ripagare per quanto si sforzasse. Nel 2010 partii da Islamabad con i miei genitori e il mio fratello maggiore per gli Stati Uniti, dove mio padre, seppur riluttante, doveva andare per cercare di curarsi. Era la prima volta che io e lui eravamo su un aereo insieme dai tempi della mia infanzia, quando nel 1977 aveva deciso di riportare la famiglia in Pakistan. Aveva 67 anni, era debole, arrabbiato perché il dolore non gli dava mai tregua, e perché lui era più debole del dolore. Cinque anni prima aveva cambiato vita, rinunciando a fumare come faceva da quarant’anni (tutti sapevano che lasciava sempre una sigaretta accesa sul portasapone mentre si lavava i denti e ogni tanto si fermava per dare una tirata), poi all’alcol. Aveva comincia-

to a usare il tapis roulant e deciso di andare a trovare i igli che vivevano in America. Aveva anche cominciato a fare sempre lui la spesa. Il medico del New Jersey disse che forse sarebbe vissuto un altro anno. Sei settimane dopo celebrammo il primo di due funerali al Masjid bilal di Toms River, dove i fedeli, perlopiù provenienti dal sudest asiatico, pregarono per l’anima di mio padre e perché noi riuscissimo a sopportare la sua perdita. Il secondo lo celebrammo ad Abbottabad, dove mio padre fu sepolto accanto ai genitori e al fratello che lo aveva preceduto. Sul nostro volo di ritorno, ci disse la compagnia, c’erano altri tre pachistani che tornavano a casa per essere sepolti. Lo chiamarono rimpatrio. Le sei settimane che avevamo passato a casa di mio fratello erano state la prima occasione in cui ci eravamo ritrovati tutti insieme dopo il mio matrimonio ad Abbottabad nel 2002. In una lettera che mi aveva scritto quando ero al college, mio padre (che sembrava urlare attraverso il sottile foglio azzurro della posta aerea) mi aveva avvertito di non cedere alla “tendenza occidentale a polverizzare le famiglie”: voleva che dopo la laurea tornassi a casa, una guerra che non smise mai di combattere con tutti i suoi igli, anche dopo che avevamo cominciato a lavorare, messo su famiglia e comprato casa in America. Durante la settimana del funerale di mio padre, le piogge monsoniche caddero implacabili e catastroiche. L’intero paese ne fu inondato. Nel giro di pochi minuti le strade divennero impraticabili. Mia madre, che stava tornando a Islamabad, era appena uscita da Abbottabad quando il traico si fermò. Rimase lì per quindici ore. I ragazzi che abitavano nelle case vicine portavano acqua, dal e naan agli automobilisti bloccati sulla strada, centinaia di macchine piene di persone che aspettavano che le acque si ritirassero. u bt Internazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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GIaCoMo BaGNara

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La nuvola classica Alex Ross ualche tempo fa, mentre spostavo la mia collezione di cd sugli scafali nuovi, mi ha colto un senso di obsolescenza e di futilità. Perché perdere tempo con degli oggetti di plastica che divorano spazio e inquinano il pianeta, quando con un tocco di mouse Spotify, Pandora, Beats Music e altri servizi di streaming fanno piovere un’ininità di musica dall’entità virtuale nota come la nuvola? Che senso ha ammassare, per esempio, tutte le sinfonie del compositore estone Eduard Tubin (1905-1982) quando basta aprire Spotify per vedersele saltar fuori tutte e undici, anche se in ordine sparso? In efetti, questo è uno dei problemi: cercando “Tubin” su Spotify mi venivano oferti solo due movimenti della sua quarta sinfonia, mentre il resto appariva in fondo a una lunga, caotica lista. È cambiato il vento, per i collezionisti di dischi, per non parlare di quelli di libri: la passione che un tempo era “costruirsi una raccolta”, e aveva un valore culturale, oggi viene considerato come un accumulo patologi-

Q ALEX ROSS

è un critico musicale statunitense. Questo articolo è uscito sul New Yorker con il titolo The classical cloud.

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co d’oggetti. Siamo tutti tenuti a sbarazzarci di ciò che ingombra e a consumare cultura in una stanza splendente e vuota. Ma io a quella parete piena di plastica sono legato. Mi piace scorrere i dorsi – Schnabel, Schnebel, Schnittke – e tirare fuori cd a caso. Note di copertina e libretti d’opera possono risultare informativi anche nell’epoca di Wikipedia (anche perché online non c’è proprio tutto: per esempio ho tentato invano di reperire il libretto del Christophorus di Franz Schreker, che si apre con le parole “I suoi occhi – calda estate. / I suoi pensieri – freschezza”). Provo una itta di nostalgia quando vedo incisioni che ho comprato quasi trent’anni fa con i soldi guadagnati lavorando, male, come giardiniere: la copertina della nona sinfonia di Mahler diretta da Karajan porta i grai di una decina di traslochi di quando facevo l’università. Il mio metodo di lavoro, come critico, ruota intorno a un cumulo di dischi che io chiamo la “pila del riascolto”: uscite recenti che sono emerse dalla folla reclamando la mia attenzione. Con un computer non è la stessa cosa: non provo alcuna nostalgia per il primo disco che ho scaricato, che a quanto pare era di Justin Timberlake. Tralasciando le piccole manie dei critici non più giovanissimi, l’estetica e l’etica dello streaming pongono domande legittime. Spotify è ahimè noto per il modo caotico in cui presenta i dati delle tracce della musica classica. Ho trovato un’incisione della nona di Beethoven che era identiicata soprattutto dal nome del

soprano, L’uba Orgonášová. Per capire chi fosse il direttore d’orchestra, John Eliot Gardiner, ho dovuto cliccare di nuovo ed esaminare una riproduzione della copertina del cd, grande quanto un francobollo. Più profonda è la questione del trattamento economico. Spotify e Pandora hanno scatenato le proteste degli artisti, che giudicano i diritti che gli vengono versati di una miseria ofensiva. Nel 2012 il musicista indie rock Damon Krukowski ha spiegato che la sua band precedente, i Galaxie 500, riceveva da Spotify diritti d’autore pari a due centesimi di centesimo per ogni riproduzione del suo pezzo più popolare, più alcuni spiccioli in diritti d’esecuzione. Spotify ha garantito ai detrattori che i guadagni degli artisti cresceranno man mano che aumenteranno gli abbonamenti. In altre parole, se voi ci consegnate il dominio del mercato, noi diventeremo più generosi: una proposta un tantino gelida. Obiezioni come queste vengono meno nel caso di istituzioni e ensemble che offrono direttamente lo streaming audio o video delle proprie esecuzioni. Qui l’obiettivo è semplicemente quello di raggiungere un pubblico più vasto, guadagnando magari qualche soldino in più grazie agli abbonati. Il festival di Glyndebourne, l’Opera di stato della Baviera, la Detroit symphony orchestra e le ilarmoniche di Vienna e di Berlino, per citare alcuni esempi, offrono streaming di qualità piuttosto alta. La mia preferita è la Detroit symphony, perché incarna lo spirito di un’orchestra che tenta il tutto per tutto dopo aver siorato la catastrofe economica. Se io oggi fossi un adolescente con l’ossessione della musica, probabilmente sguazzerei in questo banchetto senza fondo, inischiandomene delle lamentele dei vecchi brontoloni. Non avrei più bisogno di piazzare un registratore a cassette accanto a una radio portatile per conservare la sesta sinfonia di Bruckner. Avrei la storia millenaria della musica classica a portata di mano. Ma questo eccesso di prodotti virtuali, e il con-

KOUAM TAWA

Poesia

è un poeta e drammaturgo nato in Camerun nel 1974. Questa poesia è uscita sul nuovo numero della rivista belga L’étrangère, dedicato alla poesia dell’Africa francofona. Traduzione di Francesca Spinelli.

Trittico 1 Quanti alberi morti Per tante e tante Bufale? 2 Un mammut nel mio sogno: Attento alle parole-iume! Troppa cosa uccide la cosa! 3 Piomba un falco sulla colomba. Il canto che covavo Muore nascendo. Kouam Tawa

seguente crollo dei prezzi, presentano un lato negativo. Come ha già osservato il compositore-arrangiatore Van Dyke Parks, il modello imprenditoriale dello streaming privilegia le superstar e le multinazionali rispetto ai musicisti comuni e alle realtà indipendenti. Nonostante l’ininita varietà di facciata, è un sistema che si sposa alla perfezione con l’economia dei vincitori. Quindi coraggio: se mai dovesse crollare – i servizi di streaming faticano a fare proitti – l’accumulo potrebbe tornare di moda. u mc

Scuole Tullio De Mauro

Tra Hollande e scarafaggi La manifestazione organizzata a Parigi l’11 dicembre dall’associazione di ricercatori e insegnanti Science en marche e da collettivi di studenti universitari è stata un successo a metà. In novembre il governo aveva tolto 138 milioni di euro ai già contratti bilanci dell’università. La mobilitazione in vista della marcia ha indotto il presidente François Hollande ad annunziare che 70 milioni saranno ripristinati. Questo ha contribuito a disinnescare la manifestazione. Al corteo hanno partecipa-

to circa tremila persone. Ma gli organizzatori hanno dubbi sull’attendibilità degli annunci governativi, restano in allerta e intanto offrono l’occasione di un tour de France inusuale, percorribile senza bicicletta: basta lo schermo di un pc. A rinforzo delle loro ragioni hanno creato universiteenruines .tumblr.com e lì fanno aluire fotograie con brevi didascalie per documentare meglio d’ogni discorso lo stato d’abbandono delle università. Contro la retorica del primato della ricerca scientiica,

le riduzioni di inanziamento stanno portando le università alla rovina inanziaria e una conseguenza immediata sono le rovine materiali di aule, laboratori, immobili. Per ora, con immagini di poco igienici servizi igienici, di aule chiuse “per ragioni climatiche” (meno di 13 gradi), di soitti cadenti e scarafaggi in libera circolazione, guida la classiica Aix Marseille con nove foto. Ma hanno buoni piazzamenti anche Bordeaux Montaigne, Paris 8, Reims. u Internazionale 1082 | 19 dicembre 2014

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Scienza gliori. Persistere nella menzogna, d’altra parte, è il sintomo di un minor sviluppo cognitivo e sociale. Chi mente molto tende a essere aggressivo o a manifestare altri comportamenti distruttivi. Le conseguenze negative della tendenza a mentire sono spesso legate al modo in cui gli altri (per esempio i genitori o gli insegnanti) giudicano la bugia. È diicile capire, attraverso gli studi, se i bambini che mentono molto senza essere scoperti subiscano queste conseguenze.

ANGELO MONNE

Resistere alle tentazioni

Le punizioni non fermano le bugie Lara Warmelink, The Conversation, Regno Unito Saper mentire è un’abilità sociale importante che i bambini cominciano a imparare a partire dai due anni d’età. Ma come convincerli a non abusarne e a dire la verità? a tendenza dei bambini a mentire è spesso considerata un comportamento negativo. Favole e leggende, dal pastore di Esopo che gridava al lupo ino al ciliegio tagliato da George Washington, insegnano a essere sinceri e a non mentire mai. I bambini imparano a dire le bugie più o meno a due anni. All’inizio le usano per negare di aver fatto qualcosa di male. Dai tre anni in poi imparano anche le cosiddette bugie “buone”: per esempio che quando si compra una sorpresa per il compleanno della mamma non bisogna dirglielo o che quando una zia fa un regalo va ringraziata anche se è orrendo. Saper dire bene queste bugie è un’abilità sociale importante. Via via che maturano dal punto di vista sia cognitivo sia sociale, i bambini imparano a mentire sempre meglio. Per farlo, de-

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vono essere in grado di capire che ognuno ha le sue convinzioni e i suoi pensieri e che gli altri possono credere in cose non vere. Questa abilità si chiama teoria della mente e si sviluppa progressivamente entro i quattro o cinque anni di età. Diventando più esperti nel capire cosa pensano e sentono gli altri, i bambini imparano a mentire meglio e nei momenti opportuni.

Domande incalzanti Raramente i più piccoli riescono a dire bugie in maniera convincente, soprattutto se vengono incalzati: in un esperimento su un gruppo di bambini indotti a mentire, il 74 per cento si è tradito dovendo rispondere a una domanda aggiuntiva. Crescendo si capisce che bisogna adeguare alla bugia anche le risposte a queste domande. Infatti, circa l’80 per cento dei bambini di tre o quattro anni si è fatto scoprire, invece solo il 70 per cento di quelli di cinque e la metà di quelli di sei e sette si è tradito. Non capire quando è il caso di mentire e come farlo in modo convincente può creare problemi ai più grandi. La ricerca dimostra che, quando mentono, gli adolescenti con scarse abilità sociali sono meno convincenti dei coetanei con abilità sociali mi-

Cosa possono fare gli adulti per incoraggiare i bambini a dire la verità? Per scoprirlo Victoria Talwar, Cindy Arruda e Sarah Yachison della McGill university hanno condotto una nuova ricerca su volontari di età compresa tra i quattro e gli otto anni. Hanno usato il “test di resistenza alle tentazioni”, che consiste nel lasciare un bambino da solo con un giocattolo rumoroso alle spalle, in modo che non possa vederlo, dicendogli di non sbirciare. Ovviamente l’80 per cento disobbedisce. Nell’esperimento, il 67,5 per cento ha poi negato, mentendo, di aver sbirciato. Per capire se le minacce di punizione (del tipo “se guardi sono guai”) e gli appelli all’onestà incidano sulla tendenza a mentire, le ricercatrici hanno usato due tattiche: hanno spiegato che sarebbero state felici se il bambino gli avesse detto la verità oppure che dire la verità era la cosa giusta da fare. Hanno così scoperto che, in assenza degli appelli all’onestà, più dell’80 per cento dei bambini mentiva, che fosse o meno minacciato di essere punito. Con la prima tattica, invece, le bugie si sono ridotte al 50 per cento, con o senza minacce di punizione, e con la seconda tattica al 40 per cento circa, ma solo in assenza di minacce. Invece ha mentito l’80 per cento dei bambini a cui era stata prospettata una punizione facendo presente che dire la verità era la cosa giusta da fare. Secondo lo studio, quindi, per far confessare una marachella, i genitori dovrebbero rassicurare i bambini che non passeranno guai e spiegargli che gli farebbe piacere se dicessero la verità. E poi sperare che non rientrino in quella percentuale che tende a mentire comunque. u sdf Lara Warmelink è assegnista di ricerca del Security Lancaster, presso la facoltà di psicologia della Lancaster university.

Idiozia maschile

Il grande albero degli uccelli

Perché gli uomini hanno più incidenti mortali delle donne? è perché sono più a rischio o perché sono più stupidi? A chiederselo è l’autorevole British Medical Journal nel suo speciale di Natale sulle ricerche più assurde. Uno studio ha esaminato le diferenze di genere del darwin award, un premio umoristico assegnato a chi ha aiutato a migliorare il pool genetico umano eliminandosi da solo “in modo spettacolarmente stupido”. Tra i vincitori c’è l’uomo che si è sparato in testa con una pistola-penna per dimostrare all’amico che era un’arma vera o il terrorista che ha aperto la busta bomba da lui spedita, ma tornata al mittente perché non afrancata. Su 318 darwin awards degli ultimi dieci anni, notano i ricercatori, 282 sono stati assegnati a maschi e solo 36 a femmine. Una diferenza di genere così marcata potrebbe convalidare la cosiddetta Mit (male idiot theory) secondo cui “i maschi sono idioti e gli idioti fanno cose stupide”. Un’altra ipotesi è che i maschi siano più a rischio di atti sconsiderati perché tendono di più a vantarsi e a cercare l’approvazione sociale di altri uomini.

Sono stati chiariti alcuni meccanismi che permettono la riprogrammazione delle cellule comuni in cellule pluripotenti, capaci di dare vita a tessuti diversi, scrive Nature. da tempo i ricercatori sanno riprogrammare le cellule, ma solo ora cominciano a capire i dettagli del processo, che sembra poter avvenire in più modi. Conoscerli potrebbe consentire di usare di più le cellule pluripotenti in medicina.

Science, Stati Uniti Un consorzio internazionale di ricercatori ha analizzato il genoma, cioè la sequenza completa del dna, di 48 specie di uccelli. è stato così possibile costruire il più dettagliato albero genealogico mai realizzato di questi animali, il gruppo di vertebrati terrestri con il maggior numero di specie. Si è scoperto che rispetto al genoma dei mammiferi, quello aviario è più compatto, perché contiene pochi tratti di dna ripetuti o di origine virale. Tutto sarebbe cominciato circa 66 milioni di anni fa, poco dopo l’estinzione dei dinosauri, con una sorta di big bang evolutivo in cui le specie di uccelli hanno cominciato a moltiplicarsi. Secondo Science, che ha pubblicato alcuni dei 28 articoli prodotti dal consorzio, l’antenato degli uccelli terrestri era un superpredatore, una caratteristica che è stata mantenuta in alcuni discendenti, come le aquile, e persa in molti altri, come i piccioni. Inoltre, si è visto che la capacità di apprendimento vocale negli uccelli si è sviluppata più volte separatamente. L’apprendimento dei suoni somiglia all’apprendimento del linguaggio negli umani, perché sfrutta meccanismi neurali e genetici simili. Secondo gli scienziati, questa ricerca dimostra che la “genomica comparativa su larga scala” può dare grandi risultati. u

Biologia jEFF oLLERToN

SALUTE

Come si fanno le staminali

ELIzA GRINNELL (HARvARd SEAS)

Genetica

SALUTE

Il calo delle api viene da lontano Il declino delle popolazioni di api e di altri insetti impollinatori (nella foto, un bombo) nel Regno Unito potrebbe essere dovuto alla modernizzazione delle tecniche agricole, cominciata alla ine dell’ottocento. Tra gli anni venti e cinquanta del novecento c’è stato il calo più forte. Tra le cause principali: la minore rotazione delle colture, la perdita di iori selvatici e le pratiche intensive. A partire dagli anni sessanta il declino degli impollinatori ha rallentato, scrive Science. u

RICERCA

Gli scienziati dell’anno Andrea Accomazzo è una delle dieci “persone che più hanno contato nel 2014”, secondo Nature. Accomazzo è il direttore di volo della missione Rosetta e ha dedicato “18 anni della sua vita alla sonda, per fare in modo che raggiungesse la cometa 67P e che il robot Philae atterrasse sulla sua supericie”. Radhika Nagpal (nella foto), con il suo sciame di robot che comunicano e lavorano insieme come insetti sociali, ha dato invece un importante contributo nella ricerca sull’intelligenza artiiciale e sulla robotica. Il biologo Sjors Scheres è stato scelto per i progressi nella criomicroscopia elettronica, uno strumento fondamentale nello studio delle strutture cellulari. Tra le personalità dell’anno scelte da Nature, in realtà, non ci sono solo scienziati, compare anche l’ex giocatore di baseball Pete Frates, che sofre di sclerosi amiotroica laterale. Frates ha incoraggiato la raccolta di fondi per la malattia lanciando la “sida del ghiaccio”, diventata virale sui social network. Nell’elenco di Nature ci sono anche: Humarr Khan, medico della Sierra Leone in prima linea contro l’ebola, morto a causa del virus a luglio; Masayo Takahashi, che lavora sulle cellule staminali; Kopillil Radhakrishnan, a capo della missione indiana su Marte; David Spergel, che si è occupato delle onde gravitazionali agli albori dell’universo; Maryam Mirzakhani, la prima matematica a ottenere la medaglia Fields e Suzanne Topalian per il suo contributo nell’immunoterapia dei tumori.

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Il diario della Terra Ambiente Accordo minimo alla conferenza sul clima u I delegati delle Nazioni Unite riuniti a Lima, in Perù, per la conferenza internazionale sul cambiamento climatico, hanno raggiunto a fatica un compromesso: le divergenze sui documenti da approvare hanno fatto slittare di due giorni la conclusione dei negoziati, cominciati il 1 dicembre. I paesi in via di sviluppo accusano quelli industrializzati di non assumersi la responsabilità, anche economica, della lotta al cambiamento climatico. La definizione con-

cordata è che i paesi hanno responsabilità “comuni, ma differenziate”. Gran parte delle decisioni sono state di fatto rimandate alla conferenza di Parigi del dicembre 2015, comprese quelle sulla riduzione delle emissioni di gas serra entro il 2020 (prima che un eventuale accordo del 2015 entri in vigore) per evitare un aumento del riscaldamento globale di più di 2° C. Nei planisferi, la variazione della temperatura globale tra il 1880 e il 2009.

1880-1889

1920-1929

1980-1989

2000-2009

NASA

Variazione di temperatura °C -2

-1

0

1

GHOLIB (ANADOLU AGeNCy/GeTTy)

pesta ha causato la morte di due persone in California, negli Stati Uniti. Circa 450mila case sono rimaste senza elettricità.

Jemblung, Indonesia Frane Almeno 51 persone sono morte travolte da una frana nel villaggio di Jemblung, nell’isola indonesiana di Java. Terremoti Un sisma di magnitudo 6,6 sulla scala Richter ha colpito Panamá e la Costa Rica, senza causare vittime. Altre scosse sono state registrate in Grecia, in Romania e in Papua Nuova Guinea. Tempeste Una forte tem-

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Siccità Due milioni e mezzo di persone sono a rischio a causa della siccità che ha colpito il Guatemala, l’Honduras e il Salvador. L’allarme è stato lanciato dalle Nazioni Unite. Vulcani A Capo Verde due villaggi sono stati distrutti dalla colata di lava proveniente dal vulcano Pico do Fogo, entrato in eruzione il 23 novembre. Delini Una perdita di petrolio da una nave minaccia una specie rara di delini che

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vive nel delta delle Sundarbans, in Bangladesh. Serpenti Trecentodieci serpenti giarrettiera, una specie innocua, sono stati rimossi durante una disinfestazione in una casa del Saskatchewan, in Canada. Oceani Si stima che negli oceani ci siano quasi 269mila tonnellate di plastica, proveniente dai riiuti di origine terrestre e dall’attività di pesca. Ma la quantità di microframmenti rilevabile in supericie è inferiore al previsto, scrive PlosOne. Questa plastica potrebbe essere ingerita dagli animali, degradata dalla luce solare o potrebbe precipitare sul fondo del mare.

Ethical living

Traico criminale Nel febbraio del 2014 in Francia sono state distrutte tre tonnellate di avorio illegale, cioè 698 zanne e 15.357 oggetti, statuette e gioielli. Gran parte della merce, l’80 per cento, è stata sequestrata all’aeroporto di Parigi Roissy da quando, nel 1989, è stato ufficialmente proibito il commercio internazionale di avorio. Attraverso la Francia transitano anche molti altri prodotti di specie minacciate, parti di animali o esemplari vivi. Si tratta di un traffico internazionale, scrive Le Monde, in cui sono coinvolti soprattutto Kenya, Uganda, Tanzania, Filippine, Malesia, Thailandia, Vietnam e Cina. Il valore di questo contrabbando è molto alto: è al quarto posto dopo il traffico di droga, la contraffazione e la tratta di esseri umani. Il corno di rinoceronte è venduto a 51mila euro al chilo, un prezzo superiore a quello dell’oro e del platino. In genere i bracconieri sono persone del posto, ma i trafficanti appartengono a organizzazioni criminali. Un altro canale usato è internet: secondo il rapporto Recherché, mort ou vif dell’Ifaw, il fondo internazionale per la protezione degli animali, nel 2014 in sei settimane di ricerca sono stati trovati quasi 9.500 annunci di vendita online di prodotti vietati. Il 32 per cento delle offerte era per l’avorio, autentico o presunto, e il 54 per cento per animali vivi. Oltre che per la fauna, le conseguenze di questo traffico sono molto pesanti anche per gli esseri umani: almeno mille guardiacaccia sono stati uccisi negli ultimi dieci anni in 35 paesi, ma le vittime sono probabilmente di più.

Il pianeta visto dallo spazio 02.12.2014

eArthObServAtOry/NASA

Nelle acque della Patagonia

Nord 200 km

u Quando l’estate si avvicina, le acque dell’oceano Atlantico al largo del Sudamerica cambiano colore. La piattaforma continentale della Patagonia è una zona biologicamente ricca in cui la polvere trasportata dal vento che viene da terra, le correnti ricche di ferro che arrivano da sud e quelle che salgono in supericie dagli abissi forniscono una grande quantità di sostanze nutritive al itoplancton. A loro volta, questi organismi galleggianti capaci di fotosintesi sostentano alcune tra le più loride zone di pesca al mondo.

Il satellite Suomi Npp ha scattato questa foto del itoplancton nelle acque al largo dell’Argentina il 2 dicembre 2014. Gli scienziati dell’Ocean color group della Nasa hanno usato tre lunghezze d’onda per individuare le diverse colonie di plancton. Le fasce di diversi colori rivelano non solo la posizione, ma anche i vortici e le correnti dinamiche che lo trasportano. Le bande e le volute acquamarina potrebbero essere coccolitofori, un tipo di itoplancton con microscopici gusci di calcite che conferiscono all’ac-

La ioritura del itoplacton nell’oceano Atlantico al largo della Patagonia argentina.

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qua un colore biancastro. Le varie tonalità di verde sono un misto di diatomee, dinolagellati e altri organismi. Precedenti studi nella regione compiuti da imbarcazioni hanno rivelato la prevalenza di coccolitofori della specie Emiliania huxleyi e di dinolagellati della specie Prorocentrum. Gli scienziati sono al lavoro per identiicare i diversi tipi di itoplancton a partire dalle foto satellitari: gli apparecchi per immagini iperspettrali concepiti per i satelliti futuri dovrebbero permettere di farlo. –Michael Carlowicz (Nasa)

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Economia e lavoro

MATTEo MInnELLA (onEShoT)

Roma, il presidente della Bce Mario Draghi

I piani di Draghi fanno tremare Berlino Mark Schieritz, Die Zeit, Germania La Banca centrale europea vuole comprare titoli di stato per sostenere l’euro. Ma potrebbe mancarle l’appoggio del governo tedesco, che teme di perdere consensi tra i suoi elettori ario Draghi ha deciso. Il presidente della Banca centrale europea (Bce) vuole comprare titoli di stato dei paesi dell’eurozona per sostenerne l’economia. I preparativi sono già in corso e, a quanto si sa, il consiglio direttivo della Bce potrebbe approvare il piano già nella prossima seduta, prevista per il 22 gennaio 2015. Quel giorno sorgerà un problema per Angela Merkel, perché in Germania non c’è tema economico più dibattuto. Tre anni fa, quando la Bce aveva fatto un’operazione simile, gli avversari della cancelliera si erano rivolti alla corte costituzionale, sostenendo che gli acquisti finanziavano i paesi in crisi, un fatto inammissibile. Con la decisione di comprare titoli di stato Draghi scatena un dibattito che Merkel vuole evitare a ogni costo, perché sa be-

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ne che politicamente non ha niente da guadagnarci. Eppure due anni fa la cancelliera e il presidente della Bce avevano difeso insieme l’unione monetaria contro le resistenze della Bundesbank a un’ipotesi simile, e Merkel lo aveva lasciato fare. La cosa aveva funzionato, perché era bastato l’annuncio di un possibile acquisto per tranquillizzare gli investitori e la Bce non aveva dovuto comprare neanche un titolo. Draghi vuole coinvolgere Berlino anche questa volta, ma la situazione è diversa per due motivi. Primo: la crisi attuale non comporta più nessun pericolo grave per la moneta unica e quindi per i risparmi dei tedeschi. Secondo: oggi in Germania c’è una forza euroscettica, l’Alternative für Deutschland (Afd), che ha cominciato a conquistare seggi nei parlamenti dei land. Ecco perché questa misura, che rischia di portare voti all’Afd, suscita più scetticismo a Berlino. Tra l’altro si tratta di somme enormi: secondo alcune stime, solo per ampliare il suo bilancio come ha già annunciato a novembre, la Bce dovrebbe comprare titoli per un valore compreso tra i 500 e i 750 miliardi di euro. E probabilmente per riportare il tasso d’inlazione all’obiettivo del 2 per cento servirebbero importi molto mag-

giori. Ma, soprattutto, questa volta i titoli di stato andrebbero comprati davvero. L’idea è far pagare meno il credito, e quindi sostenere gli investimenti, attraverso il denaro fresco immesso nell’economia comprando i titoli. Se qualcosa va storto, però, il rischio ricadrà sui contribuenti tedeschi, visto che la Germania, attraverso la Bundesbank, ha una quota nel capitale della Bce. Gli esperti del ministero delle inanze tedesco, inoltre, dubitano che questi acquisti siano eicaci e temono che nei paesi del sud dell’Unione europea l’azione della Bce soffochino lo zelo riformista. Il ministro delle inanze Wolfgang Schäuble ha detto che il basso costo del denaro “non è la soluzione, ma la causa” della crisi. Tuttavia, Schäuble sa anche che non può continuare ad attaccare Draghi, perché la Bce non è legata alle direttive politiche e gli acquisti limitati di titoli non costituirebbero una violazione del suo mandato. Inoltre, criticando Draghi il governo tedesco ammetterebbe di non avere più il controllo sullo sviluppo europeo e si presterebbe agli attacchi dei suoi avversari. Per questo negli ambienti governativi si prevede che Merkel continuerà ad astenersi dal lanciare critiche, mentre il governo e la Bundesbank potrebbero impiegare le settimane che mancano alla ine di gennaio per inluire sull’attuazione concreta del piano di acquisto di titoli, cercando di limitare i rischi a carico della Bce.

Quota di capitale I governi del sud dell’Unione chiedono che la Bce compri prima di tutto i titoli di stato dei paesi in crisi. In questo modo il piano sarebbe eicace, perché in quei paesi i tassi d’interesse sono ancora relativamente alti. Per tener conto delle riserve della Germania, Draghi potrebbe allineare i suoi acquisti alla quota del capitale della Bce detenuta da ogni paese: per esempio, spendendo per i titoli di stato italiani solo il 12 per cento dell’importo totale. Si parla anche di far comprare i titoli di ogni paese dalla rispettiva banca centrale, in modo che sia quest’ultima a sostenere eventuali perdite. Quanto al presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, è probabile che nel consiglio direttivo voti contro il piano di Draghi, ma anche che si astenga da un’aperta campagna contro la Bce. E il fatto che a votare sarà la Bundesbank e non il governo renderebbe più agevole per Merkel mantenere il suo atteggiamento cauto nei confronti di Draghi. u ma

La vittoria delle banche L’11 dicembre la camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato una legge di spesa da 1.100 miliardi di dollari che contiene un emendamento al Dodd-Frank act, la riforma inanziaria introdotta dopo la crisi del 2008 con norme severe per la inanza. Come spiega il Washington Post, di fatto l’emendamento permetterà a Wall street di “tornare a speculare con i derivati contando sull’intervento del contribuente se le cose vanno male”. Una vittoria per la inanza, commenta il quotidiano, “che però ha costi molto alti, vista la reazione dura dell’opinione pubblica”.

IN BREVE

Francia Dal 1 gennaio 2015 nel paese sarà illegale l’uso di UberPop, il servizio che mette in contatto potenziali clienti in cerca di un passaggio con autisti non professionisti, senza licenza né assicurazione.

Infrastrutture

Costruire strade conviene Brand Eins, Germania Nel 1956 il presidente statunitense Dwight D. Eisenhower irmò il Federal aid highway act, un programma che prevedeva la costruzione di 66mila chilometri di strade in dodici anni con una spesa di 25 miliardi di dollari. Nacque così una rete di autostrade con almeno quattro corsie che collegò le città più importanti del paese. Ma il progetto fu molto più costoso del previsto e la sua realizzazione molto più lunga, spiega Brand Eins: “L’ultimo pezzo di strada fu completato nel 1993, cioè 37 anni dopo, e in tutto furono spesi 425 miliardi di dollari”. Nonostante tutto si è trattato di un buon investimento. Nel 1994 gli economisti Ishaq Nadiri e Theofanis Mamuneas studiarono gli efetti del piano di Eisenhower, concludendo che aveva ridotto i costi di trasporto delle aziende statunitensi e ne aveva aumentato la produttività. E Eisenhower? “Il presidente ricevette un riconoscimento postumo nel 1990, quando il congresso cambiò il nome della rete autostradale, che oggi si chiama Dwight D. Eisenhower national system of interstate and defense highways”. u

Il numero Tito Boeri

10 Tra il 2008 e il 2013 in Lombardia il tasso d’occupazione degli immigrati regolari è passato dall’83 al 72,7 per cento. È andata peggio agli immigrati irregolari, il cui tasso di occupazione è sceso di quasi 28 punti percentuali. Questi dati, come spiegano su lavoce.info De Villanova, Fasani e Frattini, sono ricavati dall’incrocio di diverse fonti statistiche (l’Istat, la fondazione Ismu e l’associazione Naga). La maggior riduzione dell’occupazione tra gli immigrati irregolari ha almeno due possibili spiegazioni. La prima è che la

mancanza del permesso di soggiorno impedisce di svolgere attività lavorative con un contratto in regola, rendendo questi immigrati particolarmente esposti alle luttuazioni del ciclo economico. La seconda spiegazione è che per la legge italiana la concessione e il mantenimento del permesso di soggiorno per motivi di lavoro sono condizionati dal fatto di avere un impiego. In un periodo di crisi perdere il lavoro può portare a perdere il permesso di soggiorno e quindi riportare a una condizione d’irregolarità. Al tempo stesso

diventa più diicile regolarizzare la propria presenza attraverso l’accesso (improprio) ai decreti lussi o ai vari programmi di regolarizzazione. Questi dati smentiscono i politici italiani che sfruttano populisticamente l’idea degli immigrati che “rubano il lavoro” agli italiani. Al contrario, l’evidenza suggerisce che durante una crisi sono proprio gli stranieri i primi a perdere il lavoro e che gli immigrati irregolari, per loro natura coninati nel mercato del lavoro nero, pagano più duramente dei lavoratori italiani. u

DR

STATI UNITI

AZIENDE

La riforma del circo Allarmato dal calo costante degli spettatori, il Cirque du Soleil, uno dei più famosi circhi del mondo, ha deciso di innovare profondamente la sua oferta. “Per la prima volta nella sua storia recente”, spiega il Wall Street Journal, “nel 2012 il circo canadese non ha registrato proitti”. Nel 2013 le entrate sono passate a 850 milioni di dollari dal miliardo incassato nel 2012, ma l’azienda è tornata in attivo grazie a un piano di tagli alle spese pari a cento milioni di dollari. Sugli ultimi spettacoli, inoltre, ha pesato la morte nel 2013 dell’acrobata Sarah Guyard-Guillot mentre eseguiva un numero. Ora, continua il quotidiano, il Cirque du Soleil ha deciso di cambiare radicalmente, investendo in “attività che non sono legate direttamente al circo. Sono state avviate una casa per la produzione di musical con sede a New York e un’azienda per l’organizzazione di eventi speciali che si chiama 45Degrees Events”. Altre nuove aree di espansione sono la produzione di piccoli spettacoli di cabaret negli alberghi, programmi televisivi per bambini e parchi tematici. Un ulteriore obiettivo del Cirque du Soleil è “trovare investitori disposti a inanziare l’ingresso in mercati come la Cina e l’India, dove da anni il circo tenta di entrare”. I dirigenti far arrivare il valore dell’azienda ad almeno 1,5 miliardi di dollari. “Se non funziona, ricorreranno al collocamento in borsa”.

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Le renne

RYAN PAGELOW, STATI UNITI

Il regalo

L’albero

Le strisce di Natale di Buni

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L’oroscopo

Rob Brezsny “Avvampa dentro di me un desiderio selvaggio di senti­ menti forti, spettacolari, una rabbia contro questa vita piatta, sfumata, normale e sterilizzata”, dice Harry Hal­ ler, il protagonista del romanzo Il lupo della steppa, di Herman Hesse. Nei prossimi mesi, la sua dichiarazione potrebbe essere un interessante punto di riferimento per te, Sagittario, non come stato d’animo quotidiano ma come ispirazione poetica da evoca­ re di tanto in tanto per raforzare la tua voglia di goderti la vita. Ti consiglio, però, di ignorare la parte successiva del suo sproloquio, in cui dice di avere “un desiderio folle di fracassare qualche cosa, un magazzino o una cattedrale o me stesso”.

ARIETE

“Troppa felicità può render­ ci infelici”, ha scritto Marta Zaraska sul Washington Post. Sulla base delle ricerche di alcuni psico­ logi, la giornalista è giunta alla conclusione che quando siamo troppo contenti diventiamo egoi­ sti, ingenui e più inclini a pensare in modo stereotipato. Un modera­ to livello di felicità, invece, è estre­ mamente positivo sia per la nostra salute isica sia per quella mentale. E adesso veniamo a te, Ariete: i presagi astrali fanno pensare che è in arrivo un’ondata di gioia e di piacere. Stai solo attento che non si trasformi in un eccesso smodato e delirante. Goditi la felicità, ma re­ sta con i piedi ben piantati a terra.

ILLUSTRAZIONI DI FRANCESCA GHERMANDI

TORO

Nell’ottocento i fratelli Grimm attinsero a più di duecento iabe antiche per pubbli­ care la loro grande raccolta. Molte delle loro storie sono ancora popo­ lari, come Cenerentola e Biancaneve. Più o meno nello stesso perio­ do, lo scrittore Franz Xaver Schön­ werth pubblicò la sua raccolta di miti, favole e leggende. A diferen­ za del libro dei Grimm, con il pas­ sare del tempo la sua opera è stata dimenticata. Ma nel 2011 è stata ri­ scoperta e tra poco saranno pub­ blicate 500 nuove iabe. Prevedo che nel 2015 succederà qualcosa di simile nella tua vita, Toro. Storie dimenticate torneranno a galla. Notizie interessanti del passato af­ luiranno nel presente. GEMELLI

Il tuo primo compito è ac­ certare la mezza verità, tutta

la mezza verità e nient’altro che la mezza verità. Solo così potrai tro­ vare l’altra metà. Mi rendo conto che è frustrante procedere in que­ sto modo. Preferiresti evitare di avere a che fare con inganni e mi­ stiicazioni. Ma credo che sia l’unico modo per permettere alle informazioni nascoste o mancanti di emergere. Per ottenere il massi­ mo risultato, cerca di essere un detective astuto che non si lascia condizionare dai sentimenti.

depressi. Continua così nelle prossime settimane. E, per essere sicuro di farcela, tieni sotto con­ trollo il tuo ego. Non lasciare che pretenda di essere il padrone del­ la luce che emetti. Con un pizzico di introspezione, potrai continua­ re a illuminare senza accecare nessuno. VERGINE

Secondo alcuni studi, il 57 per cento delle persone che hanno accesso a internet prima o poi si dedica a un’attività chiama­ ta egosuring, che consiste nel cer­ care il proprio nome su Google. Mi sembra una percentuale trop­ po bassa, a meno che non si tenga conto dei dati emersi dalla mia ri­ cerca, secondo cui solo il 21 per cento delle Vergini ha fatto egosuring. Se fai parte del 79 per cento della tua tribù che non cede a que­ sta tentazione, ti invito a rimedia­ re immediatamente. È un ottimo momento per esplorare i poten­ ziali beneici di un maggiore inte­ resse e di una maggiore conside­ razione per te stessa.

CANCRO

Uno degli elementi che rendono i materassini da yoga così morbidi ed elastici è un composto chimico chiamato azo­ dicarbonammide. È lo stesso che si trova nelle suole delle scarpe. E anche nei panini di McDonald’s, di Burger King e di altre catene di fast food. Non sto dicendo che de­ vi ordinare un’enorme quantità di azodicarbonammide e ingerirla per acquisirne le proprietà. Ma spero che tu prenda in considera­ zione l’equivalente metaforico di questa operazione: cerca di fare tutto il possibile per essere legge­ ro, elastico e lessibile. LEONE

“Esistono due tipi di luce”, diceva lo scrittore James Thurber, “ lo splendore che illu­ mina e il bagliore che acceca”. Ul­ timamente sei stato una ricca fon­ te del primo tipo di luce, Leone. Il fuoco del tuo cuore e il luccichio dei tuoi occhi non hanno solo illu­ minato tutti quelli che ti circon­ dano ma hanno anche chiarito si­ tuazioni confuse, fatto sciogliere persone glaciali e guarito alleati

BILANCIA

Quando ho cominciato a scrivere oroscopi, tanti an­ ni fa, ero un bravo astrologo ma non un grande scrittore. Alla ine, a forza di comporre 12 concisi pac­ chetti di prosa ogni settimana, so­ no migliorato. Le cose che scrive­ vo nei primi anni non erano male, ma oggi non avrei il coraggio di farle leggere a nessuno. Devo sen­ tirmi in colpa perché sono stato pagato e apprezzato per quei miei primi tentativi anche se ero tutt’altro che perfetto? Non credo. All’epoca stavo facendo del mio meglio. E anche le mie rozze me­ ditazioni astrologiche sono state utili a parecchie persone. Ti invito ad applicare questa rilessione alla storia della tua vita. SCORPIONE

Probabilmente sai già quello che sto per dirti. È un principio basilare per tutti voi Scorpioni. Ma voglio ricordartelo, e nei prossimi mesi farai bene a tenerlo sempre presente. Uso le parole del ilosofo Friedrich Nietzsche: “Hai il potere di inve­

stire nel tuo obiettivo tutto il tuo vissuto – gli esperimenti, le false partenze, gli errori, le delusioni, le passioni, l’amore e la speranza – senza lasciare fuori nulla”. CAPRICORNO

Da cinque anni abito vicino a una riserva naturale. Fino a due mesi fa era un posto tran­ quillo e paciico. Ma poi sono arri­ vati i coyote. Tutte le sere, al cre­ puscolo, li sento ululare e guaire. All’inizio trovavo quel baccano si­ nistro e inquietante. Ma in realtà i coyote non sono mai stati un pro­ blema. Non si avvicinano alle ca­ se, non mordono le persone e non danno la caccia agli animali do­ mestici. Quindi ho imparato ad apprezzare la situazione: quelle creature selvatiche sono eccitanti e vicine, ma non pericolose. Ho idea che questo somigli metafori­ camente alla tua vita nei prossimi sei mesi, Capricorno. ACQUARIO

Stanstead nel Québec e Derby Line nel Vermont sono in realtà un’unica cittadina che si estende a cavallo del coni­ ne tra Stati Uniti e Canada. Molte delle persone che vivono lì hanno la doppia cittadinanza, ma devo­ no comunque portare sempre con loro il passaporto. Nei prossimi mesi vivrai una versione metafo­ rica di questa scissione, Acquario. Ti troverai in una situazione spac­ cata a metà in modo innaturale. Se alla ine questo si rivelerà un problema o un’opportunità di­ penderà dalla tua lessibilità e dalla tua capacità di adatta­ mento. PESCI

In un bosco, quando un al­ bero muore e cade a terra, a volte i suoi rami avvizziti si in­ trecciano con quelli di un albero vivo che è lì vicino. Con il passare degli anni, l’albero vivo deve cre­ scere meglio che può con il legno marcio intrappolato tra i suoi tronchi. Per caso ti è successo qualcosa di simile? Stai ancora portando il peso del marciume che ti ha lasciato qualcun altro? Se è così, i prossimi mesi saranno il momento ideale per districarti.

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internazionale.it/oroscopo

SAGITTARIO

COMPITI PER TUTTI

Qual è il sentimento che desideri provare più di qualsiasi altro nel 2015?

DELIGNE, FRANCIA

L’ultima

EL ROTO, EL PAÍS, SPAGNA

“Di’ grazie a Babbo Natale”. “Non parlo cinese!”.

SCHORR, CAGLE CARTOON, STATI UNITI

“Compra solidarietà e aiuti umanitari: a Natale salgono sempre”.

KATZ

SHOOTY, SME, SLOVACCHIA

“È l’ultima volta che passo le vacanze in Medio Oriente”.

“Non sono Babbo Natale, piccola. Sono solo un hipster sovrappeso con un sacco pieno di roba da buttare”.

Le regole Cioccolato 1 Perché vivere in attesa del prossimo ricevimento? Fatti installare una fontana di cioccolato in salotto. 2 La Nutella è buona ma non è cioccolato: è olio. 3 Se porti a qualcuno una scatola di cioccolatini non sbagli mai. 4 Che tu scelga quello svizzero o quello belga, viene comunque dalla Costa d’Avorio. 5 Il cioccolato è un antidepressivo ma non c’è bisogno di tenerlo nell’armadietto dei medicinali. [email protected]

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