Riassunto Diritto Commerciale i Marco Cian

April 12, 2019 | Author: italo cassano | Category: Corporate Law, Private Law, Competition Law, Market (Economics), Justice
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Diritto commerciale

Primo libro IL DIRITTO COMMERCIALE. NOZIONE, STORIA, FONTI Per diritto commerciale si intende l’insieme delle norme di diritto privato che disciplinano specificamente le attività produttive e il loro esercizio. Per attività produttiva si intende l’attività che genera nuovi beni (anticamente solo materiali, oggi anche immateriali e virtuali), che eroga servizi (es. trasporto), che degli uni e degli altri promuove la circolazione (mediando, interponendosi tra produttore e utilizzatore finale). L’attività produttiva è un fenomeno che si colloca in primo luogo e fondameentalemnte sul piano dei rapporti interprivatistici tra le persone: ma il diritto civile, ossia il diritto comune delle obbligazioni e dei contratti (libro IV del codice) c odice) e il dirittto degli enti associativi (libro I), non basta. L’esigenza di tutelare altri, specifici interessi anima l’intervento regolatore della legge in questa materia: l’interesse del mercato ad una contesa sana e benigna tra cooncorrenti, etc. D’altro canto, l’attività produttiva interseca fatalmente anche momenti della vita sociale a rilevanza collettiva: e cosi sotto il profilo tributario (con la tassazione dei redditi di impresa), della tutela dell’ambiente, e via dicendo. Anche il diritto pubblico, pubb lico, dunque, in molte delle sue branche, si interessa delle attivtià economiche. Nel diritto commerciale, tuttavia, confluiscono esclusivamente gli istituti e le disposizioni privatistiche: per questo lo si definisce come il diritto privato delle attività produttive, ossia il diritto che regola i rapporti privatistici inerenti all’esercizio di queste attività, distinguendolo i n questo modo sia dal diritto privato “comune”, sia dal diritto pubblico delle stesse attività produttive. La nascita e l’affermazione l’affermazione del diritto commerciale: cenni storici In Italia, nell’epoca dei Comuni una nuova classe sociale, quella dei mercanti, fa la sua comparsa nel gran teatro del mondo, acquisendo un’importanza sempre crescente. Siamo nei secoli XI-XIII: XI -XIII: i centri urbani si risvegliano e si sviluppano e al centor della scena economica sta l’attività di intermediazione nella circolazione delle merci. Sono i mercanti, ossia coloro che acquistano dagli artigiani per rivendere al minuto, i veri protagonisti della vita economica. A propria difesa, per la protezione e la promozione delle proprie iniziative, i mercanti si riuniscono nelle Corporaizoni di arti e mestieri, m estieri, associazioni di categoria per la verita sempre esistite, ma che in quest’epoca assumono un’importanza mai prima prim a di allora avuta, acquisendo anche un ruolo politico e non solo economico fondamentale. Si crea un complesso di regole di portata e numero sempre crescenti, consuetudini inizialmente non scritte, che poi venogno raccolte e codificate negi Statutti delle Corporazioni, i quali disc iplinano minuziosamente l’esercizio dell’attività. Il diritto commercialenasce dunque come diritto di classe, autonomo sia sul piano delle fotni, diritto creato dagi stessi mercantinel proprio interesse, sia sotto il profilo dei destinatari e della potestà giurisdizionale, in quanto destinato a regolare i rapporti tra i mercanti medesimi e ad essere appllicato ed imposto da giudici speciali, di loro emananzione. La sua autonomia rispetto allo ius civile risalta tutta nella novità delle soluzioni giuridiche e nella sua vocaizone ad essere un diritto di applicazione internazionale, espressione dell’universalità delle esigenze mercantili e dell’estensione territoriale dei traffici. E’ l’apogeo del commercio ed è per questo che il sist ema normativo nascente si chiama diritto c ommerciale (ius mercatorum). Le soluzioni consuetudinarie che in esso si formano venogno rapidamente esportate in tutta Europa. Ed è

un diritto che tende ad estendere il proprio raggio d’azione oltre la ristretta cerchia dei suoi originari destinatari: esso offre infatti soluzioni giuridiche efficienti e moderne. Progressivamente se ne afferma sul piano soggettivo l’applicabilità ad ongi mercante, indipententemente dall’appartenenza o meno alla Corporazione, e poi anche nei rapporti tra un mercante ed un terzo. Sul piano oggettivo, principi inizialmente operanti solo nelle relazioni commerciali, come quello dell’oneroosità dei prestiti di denaro, nel t empo si generalizzano e sovvertono, anche per i rapporti prettamente civili, gli antichi antichi dogmi. A partire dal XVI-XVII secolo lo scenario muta profondamente. Politicamente, il rafforzamento degli Stati nazionali fa emergere la tendenza all’accentramento del potere legislativo e all’attrazione delle iniziative iniziative mercantili sotto iil controllo statale. Questo secoonod periodo è pero per il diritto commerciale una fase di rottura rispetto all’epoca comunale sopratttutto sul paino delle fonti: lo Stato nazionale accentra in sé il potere legislativo e la produzione normativa diviene, anche nel nostro settore, una produzione statale; nel 1673 la Francia di Luigi XIV e di Colbert emana l’Ordonnance du commerce, cui segue, dopo pochi anni, quella della marina. Il diciottesimo secolo è il secolo della rivoluzione industriale e della rivoluzione francese. La prima muta per semre lo scenario economico: la produzione assume le forme di una produzione di massa e l’industria soppianta il commmercio c ome protagonista del marcato. La rivoluzione francese agisce invece sulla concezione del diritto commerciale come diritto di classe. Il sistema commercialistico da corpus normativo costruito su basi soggettive , cioè imperniato sulla figura e sulla disciplina di una determianta categoria di soggetti, diventa un sistema a base oggettiva, a cardine del quale è posto l’atto di commercio, fattispecie comportamentale, cui è riservata una disciplina speciale a prescindere dalla natura dei soggetti che la pongono in essere. L’800 è il secolo delle grandi codificazioni. Il primo Codice di commercio commercio dell’Italia unita risale al 1865, ma fu presto sostituito da un secondo Codice, del 1882. Anche quest’ultimo è imperniato sul concetto di atto di commercio e configura il diuritto commerciale come un sistema a matrice oggettiva. In quell’epoca, animava gli studi giuridici una riflessione profonda sul valore e sull’opportunità di una distinzione tra due codici e due diritti. Nel 1942 venne varato il nuovo codice civile, e la materia del commercio trovò posto al suo interno, occupandone il quinto libro dedicato dedicato al “Lavoro”. Scompare cosi la figura dell’atto di commercio e soprattutto ne scompare la disciplina. E tuttavia l’unificazione non è avvenuta attraverso la c ancellazione della disciplina speciale e l’attrazione dei negozi commerciali entro l’ambito di applicazione dello ius civile; è coincisa, all’opposto, con la generalizzazione proprio dei principi di diritto speciale e con il loro affermarsi quali nuovi principi comuni privatistici: come la naturale onerosità dei prestiti di denaro, la solidarietà passiva, ecc. E il fenomeno della commercializzazione del diritto privato. Permane tuttavia, all’interno del codice del 1 942, una disciplina dell’organizzazione d’impresa, cosi come permangono, al di fuori di esso, una disciplina delle crisi di impresa, una della concorrenza, e via discorrendo. Il contenuto del diritto commerciale e le traiettorie del suo sviluppo nell’era moderna Al centro del sistema di diritto commerciale sta il concetto di impresa. Questa è definita nell’art. 2082 cc: è l’attività economica economica organizzata svolta professionalmente, diretta alla produzione o allo scambio di beni o servizi. Le esigenza che muovono il legislatore ad apprestare una disicplina specifica dedicata a questo aspetto della vita sociale sono gia state evidenziate: la tutela del credito, la genuinità della competizione economica, ecc. Insomma, tutti obiettivi riassumibili, in definitiva, in uno: la tutela del mercato. L’attività di impresa è un complesso di atti, ciascuno dei quali conserva naturalmente la propria

individualità. Ma è proprio il coordinamento e la finalizzazione di ognino di essi entro la cornice dell’iniziativa economica globalmente considerata a far affiorare quegli interessi e a sollecitare la sensibilità ddel legislatore verso la loro tutela. Basti pensare alla protezione del creditore, a fronte del quale si impone l’obbligp per l’imprenditore di redigere una documentazione contabile cronologica della propria attività, la disciplina del fallimento, o la disicplina dell’amministraiozne straordinaria delle d elle grandi imprese in crisi, ecc. E ancora: i rapporti tra i soggetti in un contesto di competizione economica richiede la definizione di una disciplina tecnica: di qui la tutela dei marchi, l’istituzione dell’AGCM, ecc. Il diritto dell’impresa non costituisce però una disciplina organica e completa dell’attività. L’attività produttiva infatti si svolge per molti aspetti sotto l’egida del diritto privato e dei suoi principi comuni. Per meglio dire, i singoli atti in cui l’attività è scomponibile sono ten denzionalmente disciplinati dal diritto privato comune: il contratto di compravendita per mezzo del quale l’imprenditore acquista il furgone destinato al trasporto delle merci è soggetto alla disicplina generale dei contratti e alla disciplina generale della compravendita, contenute nel quarto libro del codice, ecc. Il diritto commerciale interviene per regolare quei profili dell’attività in relazioni ai quali si fanno pi u stringenti le esigenze e le logiche di protezione e di promozione del mercato. Si puo dire che il diritto civile guarda all’atto giuridico e al rapporto in quanto tali, il diritto commerciale guarda invece all’attività (introducendo ad es. doveri comportamentali relativi ad essa, come l’obbligo di infromazione al mercato o di tenuta delle scritture contabili). Si delinea cosi un diritto dell’impesa applicabile per chiunque intraprenda un’iniziativa economica avente le caratteristiche delineate nell’art. 2082. E si disciplinano essenzialmente: l’informazione al mercato dei dati salienti dell’attività, dell’attività, attraverso al pubblicazione nel registro delle imprese; l’organizzazione dell’apparato produttivo; l’azione dell’impresa nel mercato, sia nei rapporti con la clinetela, per i profili necessari alla protezione dei consumatori, sia nei rapporti tra imprenditori, per il rispetto di un ordinato e leale gioco concorrenziale; la crisi di impresa, ecc. Al diritto dedicato all’impresa si affianca l’altro grande corpus che forma il diritto commerciale: la disciplina delle società. L’attività produttiva produttiva sempre piu fa capo a strutture organizzative che assurgono al rango di organismi di diritto privato, dotati di una propria autonomia giuridica e patrimoniale: le società apputno. Qui il legislatore interviene in modo davvero organico, dedicando un corpo di disposizioni copioso volto a disciplinare, animato ancora una volta dalle istanze che il mercato avanza, la costituzione e le sorti di questi organismi. Va subito posto in evidenza che lo statuto testé illustrato inerente all’impresa è in realtà calib rato esclusivamente sull’impresa commerciale medio-grande. medio -grande. Il diritto dell’impresa (mentre le società sono in linea di principio aperte a tutte le attività produttive) è separato infatti da: a) le professioni intellettuali; b) le imprese agricole; c) le piccole imprese. Le ragioni di questa focalizzazione sono di carattere storico e affondano le loro radici nel contesto soocioeconomico nel quale il legislatore del 1942 era chiamato a calare la disciplina che andava coniando: le tra sottoclassi sottratte al a l diritto commerciale rappresentavano infatti, all’epoca, attività che non sollecitavano le istanze di protezione del mercato con la stessa intensità con cui queste venivano sollecitate dalle imprese commerciali medio-grandi; erano, in altre parole, iniziative economiche il cui svolgimento in linea di massima poteva restare adeguatamente soggetto, in linea di massima, alla disciplina civilistica comune. I tempi tuttavia mutano repentinamente e l’agricoltura si è in certi casi affrancata dalla proprietà ter riera e ha assunto dimensioni industriali, la professione intellettuale presenta talvolta una complessità notevole. Insomma, le attività un tempo “minori” vanno accostandosi potenzialmente sempre piu all’impresa commerciale, cosi da sollecitare le esigenze di tutela ddel mercato in misura equivalente ad essa. L’ordinamento non rimane insensibile al mutare del quadro socioeconomico. Si fa dunque strada sempre piu significativamente una tendenza all’allargamento dell’ambito di applicazione del diritto dell’impresa, dell’im presa,

alla progressiva attrazione delle imprese agricole e delle professioni intellettuali sotto la disciplina dell’impresa commerciale, a causa di quella che si potrebbe definire la commercializzazione, nei fatti, di queste attvità. Lo sguardo al passato mostra come il diritto commerciale non costituisca un sistema rigido e viene quindi in rilievo come una categoria storica, non ontologica. Una suddivisione classica della nostra materia ripartisce e riconduce i diversi istituti al diritto dell’impresa, al diritto delle società, al diritto industriale (con la disciplina della concorrenza e dei segni distintivi, vedremo), al diritto fallimentare. Il moderno diritto commerciale si articola peraltro anche in un complesso sempre più riccoo di discipline speciali, dedicate a singole attività, la cui rilevanza nel tessuto economico e sociale esige un intervento regolatore diretto e puntuale. Si pensi, ad esempio, all’attività assicurativa (con il Codice delle assicurazioni private) e bancaria (con il Testo unico bancario) e ai mercati finanziari (con il Testo unico della finanza), e cosi via. Sono queste discipline che creano un vero e proprio statuto speciale dell’attività a cui sono rivolte. Non è solo nella progressiva apertura verso fenomeni ad esso originariamente estranei che si misura la modernità del diritto commerciale e che se ne colgono le tendenze evolutive, ma anche nello spostamento dei baricentri interni al suo sistema. il diritto dell’impresa e la disciplina societaria rappresentano l’anima antica di questa materia e non si puo certo dire che il loro ruolo sia in quest’epoca storica ridimensionato. Ma la finanza acquisisce peso e funzioni sempre piu importanti; i beni immateriali – dai fattori della produzione come marchi e brevetti ai prodotti finanziari – crescono esponenzialmente. E’ l’era della società postindustriale. La materia è nel suo complesso una materia in continuo sviluppo. Le fonti Anche sul piano delle fonti, la storia del diritto commerciale è segnata da epoche separate da profondi cambiamenti. Lo ius mercatorum nasce fondamentalmente su basi c onsuetudinarie, come visto. In Italia, il vigente codice civile aveva, quando venne emanato, certamente un r uolo centrale nella disciplina delle attività produttive; un ruolo che tuttavia già allora era tutt’altro che esclusivo, se solo si pensa che, coeva ad esso e distinta, fu la legge fallimentare. Lo scenario attuale è ancora piu composito. Il Codice conserva buona parte dello statuto dell’imprenditore (artt. 2082 ss.) e la disciplina delle società (2 247 ss.). Ma leggi speciali sempre piu numerose e complesse vi si affiancano. La normativa anti trust sulle intese e le pratiche restrittive della concorrenza è contenuta in una legge speciale, e si pensi cosi anche al Codice del consumo, al Testo unico bancario, al Testo unico della finanza, alla stessa legge fallimntare. E si tratta soltanto delle leggi speciali principali. Il quadro è poi arricchito da una sempre piu intensa produzione normativa di rango normativo di rango secondario, sia governativa, sia da parte delle diverse Autorità indipendenti, dotate di un capillare potere legislativo. Non meno rilevante è oggi la dimensione internazionale del diritto commerciale. Ampi settori del diritto commerciale sono stati e sono tuttora terreno di elezione per la stipulaizone di accordi internazioanli, diretti a rendere omogenee le discipline statali. Cosi, svariate convenzioni, ratificate ddall’Italia, hanno segnato l’evoluzione del diritto industriale, sia nella disciplina della conco rrenza, sia nella tutela dei diritti di proprietà intellettuale e industriale. E’ tuttavia soprattutto il diritto comunitario (diritto dell’UE) che ha impresso un’accelerazione decisiva all’armonizzazione degli ordinamenti europei. La normativa dell’Ue agi sce secondo duendistinte linee d’azione. In alccuni casi, infatti, essa regola direttamente la materia e interviene con i propri organismi per garantire l’osservanza delle sue norme, a volte afiancandosi e coordinandosi con le omologhe discipline nazionali, a

volte avocando esclusivamente a sé il compito di legiferare sull’argomento. Il tr. UE si occupa cosi direttamente, coesistendo con le discipline antitrust nazionali, dei comportamenti restrittivi della concorrenza che abbiano rilevanza comunitaria. In altri casi, l?unione si limita a promuovere e favorire l’armonizzazione degli ordinamenti nazionali, attraversoo l’emanazione di direttive la cui attuazione è affidata ai legislatori dei singoli paesi. Di particolare rilievo, in questa direzione, è l’opera svolta sul piano del diritto societario. Non meno significativo, di conseguenza, è il ruolo giocato in moltissimi ambiti dalla giurisprudenza UE.

LA FATTISPECIE “IMPRESA” LA NOZIONE DI IMPRESA E’ necessario innanzitutto partire dall’individuazione della fattispecie, cioè del destinatario o referente dell’esperienza normativa (cioè, della disciplina) che ne rappresenta l’oggetto. La fattispecie deve essere ricercata guardando al corpo di norme che quell’esperienza compongono. E accingendoci alla loro identificazione, giova dubito constatare che nell’ordinamento giuridico italiano tali norme sono contenute nel codice civile e, esattamente, nel libro V (intitolato “Del lavoro”). Piu in particolare, la parte che interessa comincia dal titolo II (iintitolato “Del lavoro nell’impresa”), che si apre con l’art. 2082 (rubricato “Imprenditore”), che recita: “è imprenditore colui che esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi”. Stando al tenore letterale dell’art. 2082, la conclusione che se ne dovrebbe trarre è di riconoscere il presupupposto di vertice dell’esperienza normativa riguardata nella figura di un soggetto, ossia nell’imprenditore. Tuttavia, è stato dimostrato ormai da tempo che la suddetta conclusione è senz’alro inesatta, atteso che non è un soggetto, appunto l’imprenditore, il punto dal quale muove e si sviluppa il diritto commerciale. La norma di apertura dell’esperienza normativa riguardata definisce, piu che l’imprenditore, il  fenomeno che l’imprenditore pone in essere. Descrive in termini o ggettivi un suo comportamento, che si sostanzia in un’attività, qualificata come produttiva, a sua volta triplicemente qualificata dai requisiti di organizzazione, professionalità ed economicità, che prende il nome di impresa. Questo al fine di collocare l’impresa al vertice del sistema del diritto commerciale es assumere la stessa quale referente della disciplina corrispondente. La definizione di impresa costituisce il riferimento generale e astratto, capace di selezionare i diversi fenomeni produttivi che hanno riscontro nella realtà, individuando quali tra i diversi fenomeni produttivi hanno dignità giuridica di impresa e, di conseguenza, devono essere assoggettati alla disciplin pensata per l’impresa. La relatività della nozione di impresa La nozione di impresa oggetto di studio in questa sede non rappresenta l’unica nozione di impresa contemplata dall’ordinamento. Essa è soltanrto una delle no zioni, in particolare la nozione che serve a determinare in termini generali quali sono i fenomeni che devono essere assoggettati al cor po di norme che nel loro insieme costituiscono lo statuto delle attività produttive qualificabili come imprese. Pertanto, si tratta di una nozione relativa, cioè funzionale alla individuazione del fenomeno destinatario dello statuto testé menzionato. Una nozione diversa, o quanto meno parzilamente diversa, la si puo riscontrare al vertice di altre esperienze normative. A titolo di esempio, possiamo ricordare la nozione elaborata dalla giurisprudenza comunitaria (specialmente, dalla Corte di Giustizia), diretta ad individuare i fenomeni produtttivi soggetti alla disciplina

contenuta nei testi normativi comunitari. L’impresa quale attività produttiva triplicemente qualificata L’attività produttiva Passando all’esame della nozione di impresa che qui interessa, conviene muovere dal rilievo che l ’art. 2082 descrive l’impresa in termini di attività e la qualifica come produttiva. a) L’attività può essere immaginata come mo dello comportamentale costituito da tanti singoli comportamenti, che rilevano sul piano normativo nel loro insieme. Ciò in ragione del fatto che essi rappresentano una sequenza coordinata struttutturalmente e funzionalmente, ossia teleologicamente orientata rispetto al raggiungimento di un determinato scopo. b) L’attività si presta ad esse qualificata a seconda della natura del suo scopo. Sicché, atteso che qui interessa l’attività produttiva, la relativa sequenza comportamentale dev’essere orientata al per seguimento di un risultato produttivo. Ciò significa che tale sequenza dev’essere rivolta a produrre un’utilità che prima non c’era, quindi ad incrementare il livello di ricchezza complessiva rispetto allo status quo ante. E ciò attraverso la produzione e lo scambio di beni e servizi: dunque sia l’attività di chi crea nuovi beni per destinarli al mercato (il produttore)., o offre servizi (di trasporto, custodia, ecc.), sia quella di chi media nella circolaizione degli uni e degli altri (il rivenditore al dettaglio, l’agente di viaggi, ecc.). Allora, vengono subito in rilievo un gruppo di fenomeni estranei dai nostri interessi: i fenomeni che si presentano nella forma dell’attività non produttiva, ossia l’attività di godimento. Essa può essere immaginata come una seuqenza di comportamenti finalizzati a trarre le utilità d’uso o di scambio di qualcosa che già si ha, pertanto senza dar luogo ad alcun incremento di ricchezza preesistente. In altre parole, si tratta del modo attraverso il quale si concretizza essenzialmente l’esercizio del diritto soggettivo su un certo bene. Ad es., è indubitaile che si tratta di attività di godemento allorché il proprietario di un immobile lo abiti o lo dia in affitto a terzi (utilità d’uso) oppure lo ceda sul mercato (utilità di scambio). Ed è parimenti indubitabile che si tratta di attività produttiva allorché il medesimo proprietario utilizzi l’immobile per farci un albergo o un residence (produzione di servizi). Giova tuttavia precisare che non tutte le attività produttive sono delle imprese: tra le prime e le seconde intercorre un rapporto di genus a species. E’ un’impresa soolo l’attività produttiva che presenta i tre attributi prescritti dall’art. 2082, di professionalità, organizzaizione e economicità. La professionalità Anzitutto, l’attività produttiva, per poter essere qualificata come impresa, deve essere svolta professionalmente, cioè deve soddisfare il primo requisito stabilito dall’art. 2082, vale a dire il requisito della professionalità. Si tratta del requisito che richiede che l’attività abbia luogo in maniera abituale, tabile e reiterata, in definitiva non occasionale o sporadica. In primo luogo, si ritiene che professionalità non sia sinonimo di escludività, sicché il requisito in esame è integrato anche nel caso in cui un’attività produttiva non costituisca l’unica attività svolta da parte di chi la pone in essere. E’ dunque senz’altro possibile che un soggetto svolga un’attività produttiva qualific abile come impresa e un’attività produttiva di tipo differente; cosi come che un soggetto svolga due o piu attività produttive entrambe qualificate come imprese. In secondo luogo, si ritiene che professionalità non sia sinonimo di continuità, sicché il requisito in esame è integrato anche nel caso in cui l’attività produttiva sia svolta in modo non continuativo, cioè sia caratterizzata da interruzioni. Tuttavia, si precisa che le interruzioni debbano essere legate non già all’arbitrio di chi svolge l’iniziativa, bensì alle esigenze naturali del ciclo produttivo sottosta nte, sicché l’attività interrotta ricomincia dopo un certo periodo, per poi interrompersi nuovamente, secondo un

intervallo pressoché costante. A titolo di esempio, si pensi alle attività stagionali, come la gestione di un impianto sciistico. Infine, si ritiene che professionalità non sia sinonimo di pluralità di risultati prodotti, sicché il requisito in esame è integrato anche nel caso in cui l’attività produttiva sia finalizzata alla realizzazione di un unico affare. Infatti, non è detto che l’occasionalità dell’affare debba sottendere sempre l’occasionalità dell’attività. Ciò non accade quando l’affare si presenta complesso e si presta ad essere realizzato attraverso un’iniziativa che non puo essere improvvisata, poiché ri chiede un minimo di retroterra organizzativo, acquisito in ragione dell’esperienza maturata nel settore in cui l’affare si colloca. A titolo di esempio, si pensi al caso in cui il risultato della produzione sia un’opera complessa, quale puo essere considerata una grande struttura (un ponte, ecc.). Invece, l’occaisonalità dell’affare sottende l’occaisonalità dell’attività quando si tratta di un affare semplice, che si presta ad essere attuato attraverso un’iniziativa c he puo essere ache improvvisata e, di conseguenza, posta in essere da chiunque. Es. si pensi a un soggeto che compra una partita di merce all’ingrosso, con l’intenzione di rivenderla al dettaglio e guadagnare la differenza tra prezzo di acquisto e prezzo di vendita. Ne consegue che un’attività produttiva che dif etti del requisito della professionalità è estranea ai nostri interessi, trattandosi di un’iniziativa occasionale, ossia posta in essere in modo episodico e sporadico. L’organizzazione Un’attività produttiva, per essere qualificata come impresa, dev’essere poi or ganizzata, cioè deve soddisfare il secondo requisito stabilito dall’art. 2082, vale a dire il requisito dell’organizzazione. Si tratta del requisito che connota l’attività sul piano dei mezzi impiegati nel suo svolgimento. I fattori produttivi impiegabili nel processo produttivo sono stanzialmente riconducibili alle due catgorie fondamentali del lavoro e del capitale. Con il primo si allude alla forza lavoro acquisita sul mercato del lavoro, a prescindere dal titolo al quale l’acquisizione è avvenuta (rapporto di lavoro subordinato, coordinato e continuativo, ecc.). Con il secondo si allude a qualunque entità materiale o immateriale , a prescindere dal titolo che ne consente di avere la disponibilità (proprietà, usufrutto, ecc.). Peraltro, se è normale che le due categorie si combinino tra loro, non è da escludere che determinati processi produttivi possano richiedere esclusivamente il fattore lavoro ( processi produttivi cc.dd. labour intensive) o il fattore capitale (processi produttivi cc.dd. capitale intensive). Alla luce di quanto precede, dovrebbe allora essere evidente qual è il ruolo del titolare di un’attività produttiva organizzata. Il suo ruolo è quello di svolgere un’opera di organizzazione: un’opera , cioe, che consiste nello stabilire un ordine funzionale e strutturale dei fattori produttivi ai quali fa ricorso. Va detto che l’opera di organizzazione non deve necessariamente manifestarsi nella realizzazione di un apparato tangibile. Es. si pensi alle attività che si svolgono esclusivamente atttraverso la rete internet. D’altra parte, il ruolo del titolare nell’ambito della sua iniziativa dev’essere comunque almeno minimamente riconducibile ad un’attività di organizzazione. Se manca questo profilo (e, quindi, l’eterorganizzazione), se, cioe, il ruolo de l titolare si esaurisce in un’attività meramente esecutiva (e, quindi, nell’autorganizzazione), rappresentando il suo lavoro personale il fattore produttivo non solo necessario ma anche sufficiente, in quanto l’unico fattore impiegato nel processo produttivo, allora l’iniziativa non è qualificabile come impresa bensì coe lavoro autonomo. L’economicità Un’attività produttiva, per essere qualificata come impresa, dev’essere infine economica, c ioè deve soddisfare il terzo ed ultimo requisito stabilito dall’art.2082, vale a dire il requisito dell’economicità. Tale requisito è stato a lungo controverso. Secondo un primo orientamento, il metodo da impiegare nello svolgimento dell’attività è il metodo lucrativo, cioè un metodo che tende a far conseguire un margine di profitto. Pertanto, un’attività nella

quale i prezzi di cessione dell’oggetto della produzione 8cc.dd. prezzi -ricavo) debbono essere fissati ex ante in modo non solo da consentire di recuperare i costi sostenuti nel cosrso del processo produttivo (cc.dd. prezzi-costo), ma anche di conseguire un margine di profitto, a prescindere , poi, dalla destinazione impressa al profitto cosi ottenuto: se una destinazione interessata al titolare dell’iniziativa, ovvero una destinazione disinteressata a soggetti differenti (come avviene normalmente in un’associazione o fondazione). Secondo un diverso orientamento, che attualmente puo considerarsi prevalente, il metodo da impiegare nello svolgimento dell’attività è il metodo economico in senso stretto, cioè un metod o che tende ad assicurare il pareggio tra ricavi e costi. Pertanto, un’attività nella quale i prezzi di vendita devono essere fissati ex ante in modo da consentire di coprire i costi relativi all’acquisto dei fattori variamente impiegati nel processo produttivo, restando invece superflua un’eventuale differenziazione in senso positivo tra ricavi e costi. In altre parole, è sufficiente che il titolare sia in grado di riprendere dal mercato  – e sempre che il mercato risponda assorbendo la produzione offerta – l’investimento di capitali risultato necessario per lo svolgimento del processo produttivo e che, di conseguenza, sia nelel condizioni di disporre di quanto occorre per rinnovare gli investimenti che sono richiesti, nell’ottica di una prosecuzione regolare dell’iniziativa, senza ulteirori interventi da parte di terze economie (cioè di economie ulteriori rispetto all’intervento iniziale). Questa seconda interpretazione è preferibile per un concorso di ragioni. Al riguardo, accedendo all’interpretazione che intende l’ecoonomicità come sinonimo di lucratività, il fenomeno normativamente rilevante (cioè l’impresa) sarebbe piun circoscritto rispetto a quello che risulterebbe accedendo all’interpretazione piu letterale del criterio. Una simile restrizione non sembra tuttavia trovare giustificazione. Ciò in quanto essa avrebbe come conseguenza quella di rendere estranei alla fattispecie  – e, quindi, all’assoggettamento alla disciplina che a quella fattispecie si riferisce (ossia, la disciplina dell’impresa: vale a dire, il diritto comerciale) – una serie di fenomeni che sollecitano interessi quanto meno non molto diversi rispetto a quelli sollecitati dai fenomeni che si realizzano secondo il metodo lucrativo. Nel fenomeno produttivo, infatti, le pretese di tutti coloro che lo finanziano o lo hanno finanziato sono esposte al rischio che l’iniziativa non riesca ad ottenere dal mercato le suddette risosrse. Sono esposte al rischio che l’offerta della produzione non trovi riscontro nella domanda dei destinatari di quella produzione. In altre parole, tutti coloro che finanziano un’iniziativa produttiva autonoma da terze economie, che pretende di sopravvivere attraverso il collocamento della propria produzione sul mercato e di ottenere le risoorse necessarie a remunerare i fattori produttivi impiegati sono esposti al rischio di mercato. E’ allora evidente che in un fenomeno produttivo economico, a prescindere dal metodo che ne informa lo svolgimento, ricorre il presupposto che rende congruo l’assoggettameto al diritto dell’impresa: il fatto che tali fenomeni si interfaccino con il mercato, cioe che cerchino di acquisire dal mercato le risorse necessarie oer soddisfare le istanze di coloro che li finanziano e, quindi, sono esposti al richscio che il mercato non consenta la relativa acquisizione p, quanto meno, un’acquisizione sufficiente.Di conseguenza, devono essere governati dal diritto dell’impresa non solo i fenomeni che si svolgono col metodo lucrativo, ma anche quelli che si svolgono con metodo meramente economico., Alla luce di quanto precede, si puo dedurre che il fenomeno produttivo che difetti dell’economicità si configura come attività di erogazione: attività quest’ultima che si caratterizza per cedere beni o servizi prodotti a prezzi che non riescono a recuperare nemmeno i costi sostenuti per il loro ottenimento o, addirittura, gratuitamente. Pertanto, questi fenomeni, non riuscendo a recuperare attraverso i ricavi i costi sostenuti per la produzione, sono destinati ad arrestarsi, a meno che non ci siano nuove iniezioni di risorse da parte di terze econnomie. Tali fenomeni ricorrono essenzialmente nel mondo non profit. Si pensi alle associazioni di volontariato. D’altra parte, resta incerto se possa considerarsi economica o erogativa quell’attività che vien svolta stabilendo inizialmente un livello di prezzi-ricavo insufficiente a coprire i costi di produzione, di conseguenza sapendo di pervenire ad una perdita, ove tuttavia il differenziale negativo tra rcavi e costi non

è casuale, ma è fissato in funzione dell’impeg no assunto ex ante da qualcuno di coprire tale differenziale, In altre parole, resta incerto se possa considerarsi economica o erogativa quell’attività che vien svolta secondo una logica di perdita programmata. Nel senso che siffata logica possa ritenersi compatibile con un criterio di economicità depone la circostanza che l’impegno a coprire il differenziale negativo è un elemento di cui si tiene conto nella fissaazione del prezzo, trattandosi di un impegno vincolante da parte di chi ha assunto quest’ultimo. Siffatte situazioni ricorrono ancora una volta nel mondo non profit. La completezza della nozione di impresa Il modello comportamentale descritto dall’art. 2082 è esaustivo: contiene gli elementi non solo necessari, ma anche sufficienti che devono caratterizzare un certo fatto affinché possa considerarsi giuridicamente come impresa. In quest’ottica, ci si puo sbarazzare agevolmente di due questioni: se un f enomeno produttivo possa qualificarsi come impresa nel caso in cui la produzione non sia destinata ad essere collocata sul mercato (c.d. impresa per conto proprio) o nel caso in cui tale fenomeno si sia svolto senza osservare le conndizioni richieste dalla legge per la sua iniziazione (c.d. impresa illegale) o persegua direttamente o indirettamente una finalità illecita (c.d. impresa immorale o mafiosa). Ed è agevole a questo punto affermare che tanto nel primo quanto nel secondo caso la conclusione non puo che dipendere dal riscontro che il fenomeno posto in essere sia riconducibile a quello astrattamente descritto dall’art. 2082, ossia un fenomeno produttivo che presetna le tre caratteristiche oggettive di professionalità, economicità e organizzaizone: nel caso affermativo, si tratta di impresa; nel caso contrario, no. In ogni caso, a poco rileva la destinaizone impressa alla produzione ottenuta o l’osservanza delle reogle ulteriori o le finalità perseguite attraverso l’iniziativa, con la conseguenze che ai fenomeni produttivi apoena descritti sarà applicabile la dispclina dell’impresa. LE CATEGORIE DI IMPRESA L’impresa come fenomeno produttivo di portata generale e la sua rilevanza normativa La nozione di impresa appena esaminata ricomprende un qualsiasi fenomeno produttivo che presenti i t re requisti di professionalità, organizzazione ed economicità. Tale nozione introduce nel sistema una marcata discontinuità rispetto al sistema previgente del codice del commercio del 1882: non solo perché descrive un fenomeno produttivo in termini di attività e non invece di atto di commercio, con il che escludendo dalla fattiscpecie fenomeni che si sostanziano in signoli atti; quanto piuttosto perché colloca al vertice del diritto commerciale un fenomeno omnicomprensivo (art. 2082), laddove invece, come si è osservat, al vertice del diritto commerciale conteuto nel codice di commercio erano espressamente esclusi i fenomeni di natura agricola e artigiana. La ragione di questo ampliamento del fenomeno normativamente rilevante si coglie nel gia ricordato tentativo, perdeguito nel legislatore storico del 1942, di assoggettare ogni iniziativa produttiva ad un nucleo di regole comuni, vale a dire alle regole contenute negli artt. 2084-2093: a regole perlopiu di natura programmatica che si limitano a eunciare un princpio e a rinviarne la relativa attuazione ad altra legg e ordinaria e, soprattutto, alle norme corporative. La ragione che aveva indotto il legislatore storico a uniformare gran parte delle attività produttive nella nozione di impresa è venuta meno con la soppresisone dell’ordinamento corporativo (1943), circostanza, questa, che ha fatto perdere agli artt. 2084-2093 gran parte della loro importanza. In partiolcare, l’impresa in quanto tale non pare piu assoggettata ad un corpo orgnaico di regole che costituiscono uno statuto. In realtà, secondo l’opinione tradizionalmente consolidata, l’impresa in quanto tale risulterebbe ancora destinataria di uno statuto, il c.d. statuto generale dell’impresa, costituito da tutti quegli istituti che hanno

come ambito di applicazione l’impresa non altrimenti qualificata. In particolare, si tratta degli statuti dell’azienda (artt. 2555 e ss.), della concorrenza e dei consorzi, dei segni distintivi, ecc. Inoltre, all’impresa in quanto tale si applciano anche delle disposizioni sparse nel codice. Si intuisce dunque che l’impresa, quale fenomeno omnicomprensivo, è destinataria piu che altro di signole disposizioni, che nell’insieme costituiscono una disciplina poco organica e molto frammentaria. Ed invero, il legislatore storico, se, da un lato, tratteggiava per le ragioni appena chiarite una nozione unitaria di impresa, dall’altro lato, enucleava da tale nozione diue sottofattispecie alle quali voleva applicabili le sole norme appena passate in rassegna. E cio sul presupposto che non tutti i fenomeni rientranti nella nozione di impresa dovessero essere assoggettati alla stessa disciplina e, segnatamente, che ve ne fossero alcuni rispetto ai quali l’applicazione di tutto il corpo organico di norme che costituisce il diritto commerciale fosse eccessivo. In particolare, i fenomeni imprenditoriali cui si attribuisce questa piu ristretta rilevanza normativa sono due e sono individuati: - il primo, guardando alla natura della produzione e, in quest’ottica, enucleando dalla nozione generale di impresa l’impresa agricola; - il secondo, guardando alla dimensonne dell’organizzazione e, in quest’ottica, enucleando dalla nozione generale di impresa la piccola impresa. Peralto, è agevole notare che queste due categorie di impresa corrispondono grosso modo al le due tipologie di fenomeni che erano estranei al fenomeno normativamente rilevante collocato al vertice del codice del commercio e che continuano ad essere estranneee all’ambito di applicazione di un adisicplina che grosso modo ricalca quella contenuta nel codice di commercio. Passiamo allora ad individuare i tratti identificativi delle due catwegorie di impresa destinatarie solo i modo frammentario e parziale del diritto c ommerciale. L’impresa agricola La nozione di impresa agricola si desume dall’art. 2135, il quale lla descrive come attivi tà di coltivaizone del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse: tradizionalemnte, si suole qualificare le prime come attività agricole essenziali, mentre le seconde come attività agricole per connessione. Anzitutto, occorre soffermarsi sulla raigone della scelta di attribuire all’impresa agricola rilevanza normativa piu ristretta, cioe di escluderla dal novero dei fenomeni imprenditoriali destinatari della disci plina dell’impresa nella sua interezza e, soprattutto, della parte posta a tutela del credito alla produzione. La raigone puo cogliersi probabilmente considerando il fenomeno in questione nel momento in c ui detta scelta è avvenuta. Tale fenomeno si caratterizzava infatti per avere un processo produttivo incentrato essenzialmente sul fondo. In particolare, l’impresa agricola si sotanziava nello sfruttamento del fondo attraverso la sua messa a coltura e/o la sua utilizzazione come luogo di allevamento del bestiame, attività alla quale poteva aggiungersene una ulteriore di trasformazione e/o commercializzazione di prodotti provenienti dalla coltivazione o dall’allevamento del bestiame, sempre che quest’ultima costituisse il tipico prolungamento dello sfruttamento del fondo e/o risultasse economicamente subordinata alla prima. E allora l’impresa agricola non presentava particolari esigenze di investimento in fattori produttivi, poiché quei fattori coincidevano in larga parte con il fondo, ossia con un bene che gia si possedeva, in quanto bene di proprietà. Né investimenti significativi potevano essere richiesti dall’attività di trasformaizone e di commercializzaizone di prodotti, dato il suo carattere tipicamente accessorio e secondario rispetto all’attività pricnipale di coltivazione e/o allevamento. Pertanto, le esigenze finanziarie sollecitate dal processo produttivo sottostante erano minime, tanto da non giustificare l’assoggetamento dell’iniziativa ad una disciplina che impone regole comportamentali finalizzate a comporre adeguatamente i diversi interessi in gioco rispetto al rischio di impresa. D’altra parte, l’eventuale finanziamento alla produzione venica ac quisito attraverso operazioni che

consentivano al creditore di attivare forme di autotutela, cioe forme di tutela contemplate dal diritto privato classico per la salvaguardia del credito, rappresentate oerlopiù dall’otteniemnto di garanzie (r eali): ipoteche sul fondo, privilegio su bestiame, merci, ecc. Sta di fatto che, nell’ambito di una piu ampia riforma di modernizzazione del settore agricolo (d.lgs. 228/2001), la versione originaria dell’art. 2135 è stata integrata di due commi (il co. 2 e 3), che descrivono, rispettivamente, che cosa siano le attività agricole essenziali (co.2) e le attività agricole per connessione (co.3). a) Quanto alle attività agricole essenziali, se nella costanza della versione originaria della norma in esame poteva ritenersi che vi rientrassero soltanto quelle di coltivazione e di allevamento di bestiame che avevano luogo sul fondo, oggi questa conclusione non è piu sostenibile, perché il dato normativo stabilisce espressamente che un’attività di coltivazione o di allevamento utilizza o può utilizzare il fondo. Con la conseguenza che il fondo è passato dall’esseere fattore produttivo essenziale a fattore produttivo eventuale. Nella nuova nozione di impresa agricola l’elemento costitutivo o caratterizzante è rappresentato dalla cura e dallo sviluppo di un ciclo biologico (animale o vegetale), sicché puo essere qualificata come impresa agricola qualunque attviità che si sostanzia in tale cura o tale sviluppo. Ne consegue che iniziative, che in passato non potevano qualificarsi come impresa agricola (in quanto, apppunto, avvenivano fuori fondo), oggi debbono qualificarsi senz’altro come imprese agricole (anche se avvengono fuori dal fondo (es. attività ortoflorivivaiste, che si realizzano in strutture specializzate (le serre). b) L’ampliamento della nozione si co glie soprattutto sul versante delle attività connesse. Il dato normativo stabilisce che sono comunque connesse anche le attività che utilizzano come materia prima prevalente (e non esclusiva, una parte della quale potendo allora essere acquisita sul mercato) i prodotti derivanti dall’attività di coltivazione e/o di allevamento di animali esercitata dal medesimo soggetto, pertanto a prescindere dal fatto che le prime restino subordinate rispetto all’attività essenziale dallo stesso svolta o coostituiscano qualcosa di normale nell’agricoltura. Pertanto, oggi sono attività agricole per connessione tutte le attività di trasformazione e commercializzazione di prodotti che provengono prevalentemente dall’attività agricola essenziale, anche nel caso in cui per il tramite di queste attività si realizzi la parte principale se non proprio l’intero risultato economico dell’iniziativa. Es. esercita senz’altro attività agricola per connessione il produttore d’uva che anziché vendere la stessa sul mercato ortofrutticolo la utilizza per trasformarla in vino e vendere il vino cosi ottenuto. Inoltre, sono comunque connessele attività di produzione e di fornitura di beni e servizi ottenuti impiegando principalmente le attrezzature o le risorse che costituiscono l’azienda agricola dello stesso soggetto, a prescindere, ancora una volta, dalla circostanza che tale attviità resti subordinata all’attività essenziale o costituisca qualcosa di normale nell’agricoltura. Il riferimento è principalmente alle attività di agriturismo, le quali sono qualificate come imprese agriocle se le strutture di recezione degli ospiti per offrire loro servizi di ristorazione e finanche alberghieri sono le strutture che compongono l’azienda agricola. Ora, se l’impresa agricola non è piu connotata sul piano della fattispecie da un processo produttivo che si incentra sul fondo e dalla necessaria subordinazione economica delle eventuali attività diverse, non è raro che le iniziative corrispondenti, potendo sostanziarsi in attività produttive commerciali che richiedono non trascurabili investimenti, presentino significative esigenze finanziarie, le quali vengono coperte attraverso un sempre piu consistente ricorso al capitale di credito. Tuttavia, a fronte di tale ampliamento della nozione di impresa agricola non è corrisposto un adeguato ampliamento della disicplina. Il fatto che nell’impresa agricola siano stati ricompresi fenomeni produttivi cc.dd. “industrializzati” avrebbe dovuto indurre a considerare ormai superata la sua originaria rilevanza normativa e applicabile il diritto dell’impresa nella

sua interezza. Invece, gli interventi sul piano della disciplina sono stati parziali e senz’altro i nsufficienti, attenenedo soltanto a profili di pubblicità di impresa, come si vedrà. La piccola impresa La nozione di piccola impresa nel codice civile La nozione di piccola impresa si desume dall’art. 2083, il quale la descrive coem un’attività profess ionale organizzata prevalentemente con il lavoro del titolare e dei componenti della famiglia di quest’ultimo e la specifica poi nelle figure soggettive del coltivatore diretto del fondo, dell’artigiano e del piccolo commerciante. Queste tre figure nella tipologia della realtà del tempo del legislatore del ’42 potevano considerarsi espressione di fenomeni produttivi caratterizzati dalla prevalenza del l avoro del titolare sugli altri fattori produttivi. La scelta di attribuire alla piccola impresa rilevanza normativa piu ristretta puo cgliersi nelal circostanza che il processo produttivo debba incentrarsi essenzialmente sul fattore produttivo rappresentato dal proprio lavoro e dal lavoro dei propri familiari: quindi, su un fattore produttivo di cui  – non diversamente da quel che si verificava nell’impresa agricola con il fondo di proprietà – già si disponde, senza bisogno di doverlo acquisire da terzi. In quest’ottica, appare evidente che la picco la impresa risulta come un fneomeno produttivo nel quale le esigenze di investimento attengono essenzialemente a fattori produttivi secondari, cioè a fattori produttivi diversai dal lavoro del titolare e dei componenti della sua famiglia: perciò si dovrebbero manifestare esigenze finanziarie non siignificative e, quindi, non significativo dovrebbe essere l’eventuale ricorso al credito alla produzione. Di conseguenza, nella piccola impresa non è sembrato necessario l’assoggettamento delle corrispondenti iniziative al diritto dell’impresa nella sua interezza e, in parti colare, alla parte corrispondente alle regole finalizzate a comporre adeguatamente i diversi inrteressi in gioco rispetto al rischio di impresa. Si ritiene poi che la prevalenza del lavoro del titolare e dei componenti della sua famiglia rispetto agli altri fattori produttivi vada accertata non tanto in senso quantitativo, cioè verificando che il tale lavoro valga di piu in termini economici rispetto agli altri fattori (lavoro altrui e/o capitale) impiegati nel processo produttivo; quanto piuttosto in senso qualitativo, cioè verificando che il lavoro del titiolare e dei componenti della sua famiglia costituisca un fattore essenziale e imprescindibile nel processo pro duttivo sottostante. Cio vuol dire che tale lavoro non puo essere sostituito in tutto e per tutto dall’organizzazione e, quindi, rappresenta un fattore infungibile rispetto all’organizzazione e agli altri fattori produttivi impiegati. Dovrebbe allora essere evidente la distinzione tra pi ccola impresa e impresa. Si ha la prima tutte le volte che il titolare è chiamato a svolgere un ruolo esecutivo che caratterizza e connota il sottostante processo produttivo. Si ha la seconda tutte le volte che il titolare puo non aveer alcun ruolo esecutivo nell’iniziativa, in quanto pienamente surrogabile dall’organizzazione, e limitarsi a svolgere un ruolo di carattere organizzativo. Es. si prenda il caso del trasportatore. Il trasportatore è titolare di una piccola impresa se cura personalmente la produzione del servizio di trasporto. Il suo lavoro non è l’unico fattore produttivo, dovendosi affi ancare quanto meno all’automezzo strumentale alla realizzazione del servizio. E’ pero fattore prevalente, nel senso che senza il suo intervento i l servizio non si produce. Invece, il trasportatore non è piu titolare di una piccola impresa nel momento in cui decida di assumere stabilmente un’altra persona con masioni d’autista. In questo caso, il suo lavoro cessa di essere essenziale, atteso che puo essere senz’altro sostituito dal lovoro del dipendente. Accedendo a quest’ultima accezione del concetto di prevalenza, resta dubbio se si tratti di un criterio impiegabile soltanto quando l’impresa fa capo ad una persona fisica o anche quanto fa capo ad un soggetto di diversa natura, cioè un ente collettivo e, in particolare, una società. Il vero problema qui sarà semmai quello di applicare detto criterio concretamente e, anzitutto, individuare qual è il lavoro che deve prevalere sugli altri fattori produttivi (lavoro altrui e capitale).

Quanto meno nelle società a ristretta compagine sociale si potrebbe ritenere che il lavoro che debba prevalere è il lavoro dei soci, con la conseguenza che si potra parlare id piccola impresa (societaria) se il lavoro dei soci prevale sul lavoro altrui e sul capitale. Piu incerto è invece se nelle società ad ampia base sociale possa ancora farsi riferimento al lavoro dei soci, atteso che alla qualifica formale di piccola impresa che ne potrebbe derivare potrebbe non corrispondere una piccolezza oggettiva dell’attività esercitata, tale da giustif icare la non applicazione del diritto dell’impresa per mancanza di significative esigenza di tutela degli interessi coinvolti. La piccola impresa nella legge fallimentare E’ evidente che la valutazione del se la prevalenza ricorra in concreto non è semp re agevole e, quindi, non è sempre agevole tracciare una linea di confine tra piccole imprese e le imprese (non piccole o medio-grandi). Per questa ragione, al criterio di prevalenza ora esaminato si affianca un criterio quantitativo, quindi di piu immediata e oggettiva applicazione, ove ricorra individuare i fenomeni produttivi passibili di applicazione di un istituto particolare che compone lo statuto predisposto all’indirizzo dell’impresa, vale a dire le procedure concorsuali. Cio in quanto, allorché si tratti di decidere sull’apertura di una procedura concorsuale, non solo occorre ridurre il piu possibile le incertezze in merito alla sussistenza del presupposto, anche in conseguenza degli effetti che dalla procedura possono derivare, ma occorre anche essere abbastanza tempestivi, per evitare che la gestione concorsuale cominci troppo tardi. In particolare, la l. fall. esclude l’apertura delle procedure concorsuali nel confronti delle imprese che si attestino al di sotto di tre parametri: due di carattere patrimoniale (l’esposizione debitoria e l’attivo patrimoniale) e uno di carattere reddituale (i ricavi lordi). Piu in dettaglio i tre parametri sono i seguenti: 1. L’esposizione debitoria complessiva sussistente al momento di apertura della pr ocedura concorsuale non superiore a 500 mila euro; 2. L’arrivo patrimoniale nei tre esercizi precedenti non superiore per ogni esercizio a 300 mila euro; 3. I ricavi lordi nei tre esercizi precedenti non superiori per ogni esercizio a 200 mila euro. L’impresa commerciale La nozione generale di impresa depurata dell’impresa agric ola e della piccola impresa dovrebbe residuare nella specie di impresa destinataria del diritto commerciale nella sua interezza. Questa categoria di impresa è l’impresa commerciale. A differenza delle due categorie appena sudiate, con riferiemnto all’impresa commerciale non si rinviene una norma che contenga la relativa nozione. In fatti, la norma dalla quale si ritiene possa desumersi siffatta nozione, l’art. 2195, non è una norma definitoria, bensi una norma di dispclina, una norma, cioe, che contiene un primo precetto comportamentale (l’obbligo di pubblicità) all’indirizzo di chi pone in essere un comportamento che si sostanzia in una delle suguenti attività: 1. Un’attività industriale diretta alla produzione di beni e servizi; 2. Un’attività intermediaria nella circolazione di beni; 3. Un’attività di trasporto per terra, per acqua, per aria; 4. Un’attività bancaria o assicurativa; 5. Un’attività ausiliaria alle precedenti. Al riguardo, giova premettere che puo ritenersi ormai ampiamente acquisito che siano le attività di cui ai punti sub 1 e 2 che racchiudono la nozione di impresa commerciale, atteso che le altre attività enunciate nei successivi punti costituiscono delle specificazioni delle prime. Pertanto, l’impresa ocmmerciale è un’attività di produzione di beni e di servizi che si qualifica come industriale e/o un’attività di circolazione di beni che si qualifica come intermediaria. Se ne deduce che i tratti identificativi dell’impresa ocmmerciale sono racchiusi nei requisiti dell’industrialità e

dell’intermediarietà, sui quali allora conviene soffermarsi. L’interpretazione di questi due requisiti è stata a lungo controversa e, in particlare, sono state avanzate due differenti opzioni interpretative. a) Secondo una prima interpretazione, i requisiti di industrialità e intermediarietà sono da intendersi in un’accezione strettamente letterale o storica: l’industrialità alluderebbe al processo produttivo inaugurato con la rivoluzione industriale a cavallo tra il diciottesimo e diciannovesimo secolo; l’intermediarietà alluderebbe alle attività classicamente commerciali di acquisto (all’ingrosso) per la rivendita (al dettaglio). Sicché, l’attività sarebbe industriale solo se si tratti di attività automatizzata o che si sostanzia nella trasformazione fisico-tecnica della materia; l’attività sarebbe intermediaria solo se si tratti di attività originata da un acquisto di qualcosa per la rivendita di quel qualcosa. Ne consegue che chi propone l’in terpretazione appena illustrata circoscrive l’impresa commerciale ai fenomeni anzidetti, tuttavia senza escludere che vi possano essere ulteriori fenomeni produttivi che, pur non avendo natura agricola, non avrebbero nemmeno natura commerciale. In quest’ottica, la nozione generale di impresa si articolerebbe, in base alla natura, non solo nell’impresa agricola, da un lato, e nell’impresa commerciale, dall’altro lato, ma a questa coppia di categorie se ne aggiungerebbe una terza che è invalso qualificare ocme impresa civile. Sulla base di queste premesse sono stati considerati imprese civili determinati fenomeni imprenditoriali come le imprese artigiane ad esempio, sul presupposto che il sottostante processo produttivo non possa qualificarsi industriale, i n quanto mai interamente automatizzato. L’interpretazione appena riferita è stat oggetto di numerose critiche. La principale ragione di simili ciritche è senz’altro da ricondurre alle incertezze che caratterizzerebbero l’impresa civile con riferimento alla rilevanza normativa di quest’ultima nozione: il problema concerne l’individuazione della disciplina che ad essa sarebbe applicabile. Al riguardo, prevale, tra chi ammette la configuarabilità, l’idea che l’impresa civile abbia una rilevanza non diversa dalla rlevanza riconosciuta all’impresa agricola e alla piccola impresa. In quest’ottica, i fenomeni produttivi ricompresi nell’impresa civile sarebbero assoggettati al diritto commerciale in modo parziale e frammentario, pur mancando valide ragioni che giustifichino una simile rilevanza normativa. Infatti, è agevole constatare che in tutti gli esempi di impresa civile si riscontrano fenomeni produttivi nei quali gli investimenti richiesti dal processo produttivo sono assecondati non solo attraverso il capitale proprio, ma anche attraverso il cpaitale di credito. Sicché, appare poco congruo assoggettare fenomeni che rientrano nell’impresa civile ad un trattamento normativo deteriore rispetto a quello riservato alle imprese commerciali. b) Pertanto, proprio nella prospettiva di evitare il suddetto risultato, l’opinione prevalente è ormai orientata nel senso di interpretare in altro modo i due requisitii appena menzionati, in particolare attribuendo al primo (all’industrialità) il significato di non agricolo e al secondo (all’intermediarietà) il significato di scambio. In quest’ottica, si perviene ad una nozione di impresa commerciale residuale, diversa, percio, rispetto alle altre gia esaminate (artt. 2082, 2135, 2083), atteso che si configura una nozione in grado di assorbire tutti i fenomeni imprenditoriali che, in ragione della loro natura, non possono qualificarsi come agricoli (benché si debba poi riconoscere rilevanza normativa positiva solo a quelli che non siano piccole imprese). In altri termini, in base alla natura, un fenomeno imprenditoriale è o un’impresa agricola o un’impresa commerciale, non residuando invece alcuno spazio per l’ulteriore categoria dell’impresa civile. Le implicazioni della natura dell’organizzazione dell’impresa sulla disciplina applicabile Acquisito che la categoria d’impresa destinataria del diritto commerciale nella sua interezza è rappresentata dall’impresa commerciale (non piccola), resta adesso da vedere se la disciplina che ad essa si riferisce possa risentire di altri elementi e, in particolare, della forma giuridica rivestita dall’impresa.

In questa prospettiva, l’impresa ocmemrciale puo essere classificata nelle categorie dell’impresa pubblica e dell’impresa privata. L’impresa pubblica Cominciando dalla prima, conviene muovere dalla premessa che l’espressione impresa pubblica fa riferimento ad un fenomeno produttivo imprenditoriale di natura commerciale esercitato da o riconducibile ad un soggetto di diritto pubblico (ente pubblico). In particolare, un’attività commerciale puo costituire oggetto esclusivo o principale di un ente pubblico, che allora si è soliti qualificare come ente pubblico economico; ma puo essere anche un’iniziativa secondaria di un ente pubblico, che allora si è soliti qualiificare come ente pubblico non economico. a) L’ente pubblico economico è un ente che si prefigge di perseguire il suo fine istituzionale principalmente attraverso un’attività commerciale. Si tratta di una conformazione dell’impresa pubblica che in passato assumeva grande importanza, ma che ormai assume una dimensione senz’altro piu circoscritta. La ragione di questo mutamento sta nel fatto che gran parte degli enti pubblici economici sono sttai interessati da un processo di privatizzazione, che ne ha comportato la trasformazione in società (di capitali). Pertanto, all’esito di tale processo, la forma giuridica dell’impresa, ossia il suo soggetto giuridico, non è piu un soggetto di diritto pubblico, essendo diventato un soggetto privato. Solo il soggetto economico rimane di diritto pubblico, atteso che le società risultanti dalla trasformazione figurano come società in mano pubblica, in quanto le relative partecipazioni sociali sono attribuite ad un ente pubblico. Ragion per cui si suole qualificare il descritto processo con l’espressione di privatizzazione in senso formale. Sebbene diverse società risultanti dalla trasformazione degli enti pubblici economici siano ancora in mano pubblica, per molte di queste società vi è stata anche una successiva fase di privatizzazione in senso sostanziale, atteso che quanto meno la partecipazione di controllo è stata trasferita ai privati. b)L’ente pubblico non economico è invece un ente che realizza i molteplici fini istituzionali attraverso un’aizone dalla conformazione assai variegata, che si articola in numerose iniziative, le quali tipicamente non presentano i caratteri dell’impresa (soprattutto per difetto del requisito dell’economicità) ma che talvolta possono essere vere e proprie imprese (svolgendosi in regime di economicità. Anzitutto, possono assumere le fattezze dell’attività commerciale i servizi pubblici locali: senz’altro i servizi cc.dd. a rilevanza economica, cioè i servizi che possono essere erogati a condizioni che consentono di conseguire un margine di profitto (tipicamente i servizi pubblici nei settori energetici come il gaso, la luce, l’acqua); ma anche i servizi cc.dd. privi di rilevanza economica, cioè i servizi che non si prestano ad essere erogati a condizioni che consentono di conseguire un margine di profitto (tipicamente, i servizi sociali): infatti, questi ultimi possono essere erogati a condizioni meramente economiche, cioè a prezzi che consentono di recuperare i costi di produzione. In secondo luogo, possono assumere le fattezze dell’attività commerciale anche iniziative non qualificabili come servizi pubblici. b1) Ora, la gestione dei servizi a rilevanza economica non puo essere effettuata direttamente dall’ente pubblico locale ma dev’essere affidata necessariamente ad una società di capitali a partecipazione interamente pubblica con la quale intercorre una relazione talmente intensa da poter essere qualificata interorganica piu che intersoggettiva: società che è invalso qualificare con l’espressione “società in house providing”. b2) Invece, la gestione dei servizi privi di rilevanza economica è lasciata alla discrezionalità dell’ente pubblico e puo essere da quest’ultimo affidata ad una società in house o ad un’autonomia funzionale con soggettività giuridica (azioneda speciale, che so sostanzia in un vero e proprio ente pubblico economico) o priva di soggettività giuridica (l’istituzione) ovvero puo essere esercitata in economia. b3)Infine, la gestione delle altre iniziative imprenditoriali rimane sempre nella discrezionalità dell’ente pubblico, che puo orientarsi a favore o della società in mano pubblica p dell’autonomia funzionale con o

priva di soggettività giuridica. Pertanto, alla luce di quanto precede, l’impresa pubblica puo presentarsi nella forma della società pubblica (impresa società), dell’ente pubblico economico (impresa-ente) o all’interno del contesto organizzativo di un ente pubblico non economico (impresa-organo). Ciò acquisito, passiamo allora a vedere quali siano le implicazioni sul piano della disciplina applicabile. i) Nel caso in cui l’impresa assuma la forma giuridica di diritto privato, cioe la società, l’applicazione della disciplina dell’impresa dovrebbe avvenire in maniera non diversa da una qualsiasi altra società. ii) Nel caso in cui l’impresa assuma la forma giuridica di diritto pubblico, cioe l’ente pubblico, occorre muovere dall’art 2093, il quale dispone, nei riguardi degli enti pubblici economici, l’applicazione delle disposizini contenute nel libro V e, nei riguardi degli enti pubblici non economici, l’applicazione delle disposizioni del libro V limitatamente aalle imprese da essi esercitate. Pertanto, ai sensi della norma appena rchiamata, non sembra che la forma pubblica dell’impresa possa incidere significativamente sulla disciplina operante. Sennonché, questa conclusione dev’essere valutata alla luce degli artt. 2201 e 2221, dai quali emerge che solo gli enti pubblici economici e, quindi, non gli enti pubblici non economici, devono adempiere all’obbligo di pubblicità (2201): mentre qualunque ente pubblico, economico e non, è sottratto al fallimento e al concordato preventivo (2221). La ratio delle disposizioni appena citate puo cogliersi senz’altro nell’esigenza di adeguare le modalità di applicazione del diritto dell’impresa alla forma giuridica pubblica rivestita dalla stessa. In definiitiva, nei confronti dell’impresa pubblica trova applicazione tutta la parte della disciplina dell’impresa per la quale non è stabilito diversamente. L’impresa privata Passando all’impresa privata, conviene anzitutto precisare che con questa espressione si fa riferimento ad un fenomeno produttivo imprenditoriale, che assume la forma giuridica di diritto privato: vale a dire, la persona fisica (impresa individuale), la società (impresa societaria), o un altro ente privato non societario (impresa collettiva non societaria). a) Se l’impresa assume la forma individuale, sembra che non si verifichino particolari riperscussioni con riguardo alla disciplina applicabile, ulteriori rispetto a quelle gia viste studiando le categorie di impresa enucleate in ragione della natura e della dimensione. b) Se l’impresa assume la forma societaria, sembra potersi replicare la medesima conclusione. Con la precisazione tuttavia che se si tratta di società cc.dd. di forma commerciale (società in nome collettivo, società in accomandita semplice, società a resp. limitata e società azionarie) e cooperative la discilina della forma giuridica implementa sempre alcune regole mutuate dalla disciplina dell’impresa commerciale: in particolare, l’obbligo di tenuta delle scritture contabili e l’obbligo di pubblicità. Con la conseguenza che se una società di forma commerciale o cooperativa viene impiegata per un’attività agricola, troveranno comunque applicazione le suddette regole della disciplina dell’impresa commerciale, in quanto regole della forma giuridica. c) Se l’impresa assume la forma di un ente privato non societario (gruppo europeo di interesse economico, consorzio tra imprenditori con attività esterna, associazione o fondazione del libro I, ecc.), puo ritenersi acquisito che un ente non societario possa esercitare un’impresa per il perseguimento del suo fine istituzionale. In quest’ottica, è lasciato all’interprete il compito di risolvere la questione relativa all’applicazione del diritto di impresa nei contesti adesso in esame. Al riguardo, giova ricordare che il profilo maggiormente controverso attiene all’applicazione della disciplina dell’impresa alle assoociazioni e fondazioni del libro I. Puo in definitiva considerarsi ormai prevalente l’idea che la disciplina dell’impresa debba trovare applicazione nella sua interezza nelle associazioni e nelle fondazioni che esercitano un’attività commerciale,

quale che sia la posizione o il ruolo assunto da quest’ultima (cioe, se attività esclusiva oprincipale oppure solo secondaria). (E una conferma di questa conlusione sembra adesso emergere dalla r ecente disciplina dell’impresa sociale.) v io. L’IMPRESA E LE PROFESISONI INTELLETTUALI Occorre ora spostare l’attenzione sul rapporto che intercorre tra il fenomeno imprenditoriale e, in particolare, l’impresa commerciale (medio-grande) e un altro fenomeno produttivo: le professioni intellettuali. Al riguardo, sembra ragionevole ritenere che il egislatore del ’42 abbia considerato i due fenomeni cosi come si presentavano nella tipologia della realtà del tempo: in particolare, abbia rilevato una sostanziale diversità tra di essi e, di conseguenza, si sia orientato per un trattamento normativo profondamente diverso. Peraltro, è agevole constatare come i due fenomeni ad oggi non appaiano sempre diversi, e nondimeno il trattamento normativo delle professioni sembra restare insensibile alla circostanza che il relativo fenomeno possa manifestrsi in molteplici configurazioni. Il rapporto tra impresa e professioni intellettuali Le professioni intellettuali sono fenomeni produttivi che si sostanziano nella produzione di servizi profesisonali: la difesa in giudizio (servizio professionale prodotto dall’avvocato); ecc. Esse si distinguono in professioni protette e in professioni non protette: le prime, a differenza delle seconde, sono regolate da una propria specifica disciplina, la quale si aggiunge ad una disciplina piu generale contenuta nel libro V del cc; le seconde, olte a non avere una propria specifica disciplina, possono anche derogare alla disciplina generale contenuta nel libro V del cc. Ai nostri fini interessa comprendere se a questa disciplina possa aggiungersi la disciplina dell’impresa e in questa prospettiva appare senz’altro utile accertare il rapporto che intercorre tra profe ssioni intellettuali e impresa sul piano ontologico. a) Giova muovere dalla constatazione che le profesisoni intellettuali sono un f enomeno produttivo che puo dirsi integrato gia quando viene reso un singolo servizio professionale. Nondimeno, l’ipotesi piu frwquente è quella di un soggetto che svolge la professione intellettuale a tempo pieno. In tal caso è evidente che si realizza un fenomeno che è un’attività esercitata professionalmente ex art. 2082 e, quindi, sotto il profilo riguardato, assimilabiel all’impresa. b) Occorre ancora constatare che le professioni intellettuali possono essere un’attività produttiva che si sviluppa attraverso il solo lavoro del profesisonista. Al giorno d’oggi è senz’altro piu verosimile che il professionista si avvalga di veri e propri fattori produttivi: si pensi ad un avvocato che ha una segretaria e dei collaboratori. Pertanto, dall’attuale tipologia della realtà emerge chela professione (non deve mma) puo essere un’’attività organizzata nell’accezione di cui all’art 2082. Se cio accade, occorre ulteriormente accertare se il lavoro del professionista sia o meno prevalente rispetto agli altri fattori produttivi: in altri termini, se l’organizzazione resta al di sotto del livello di piccolezza segnato dall’art. 2083. In quest’ottica, èp agevole rendersi conto che le profesisoni intellettuali possono assumere fattezze diverse anche sotto questo profilo. Ed invero, se ci sono alcuni casi in cui il lavoro del professionista puo dirsi comunque preminente rispetto agli altri fattori, ci sono altri casi in cui il lavoro del professionista puo essere senz’altro sostituito dall’organizzazione, fino a rendere, cioe, l’intervento esecutivo del professionista pressoché irrilevante. Si pensi al g rande studio legale caratterizzato dalla p resenza di decine e decine di collaboratori, ecc. Ebbene, in queste ultime ipotesi, la dimensione dell’orgnizzazione impiegata nell’attività professionale è al di sopra del livello di piccolezza tracciato dall’art. 2083: l’attività professionale, in ragione della sua natura non agricola, è pertanto potenzialmente analoga all’impresa commerciale (medio-grande). c) Infine, occorre constatare che le professioni intellettuali sono senz’altro un’attività economica ex art

2082. Si tratta normalmente di un’attività lucrativa, in cui, cioe, il servizio è ceduto ad un prezo superiore rispetto al costo sostenuto. Pertanto, alla luce di quanto precede, la professione intellettuale è un’attività produttiva che o rmai puo presentare tutti e tre i requisiti dell’art. 2082 e, in particolare, puo trattarsi di un fenomeno analogo all’impresa non piccola e, in ragione della sua natura, all’impresa commerciale. Sicché, se puo esservi coincidenza di fatto tri i due fenomeno, bisogna allora vedere quali sono le implicazioni che conseguono sul piano della disciplina applicabile. L’art. 2238. Conclusioni L’art. 2238, co.1 subordina l’applicazione delle disposizioni contenute nel titolo II (comprendenti lo statuto dell’impresa commerciale) alla condizione che l’esercizio della professione costituisca elemento di un’attività organizzata in forma di impresa: condizione, quest’ultima, che viene intesa come a llusiva all’ipotesi in cui la professione rappresenti un fattore produttivo di una piu ampia attività organizzata in forma di impresa, in cui, cioè, il servizio professionale sia realizzato a favore o confluisca in un’attività imprenditoriale. A titolo di esempio, s’immagini il medico che presta assistenza all’interno della prorpia clinica (che è sempre un’attività che non si limita a produrre un servizio professionale ma qualcosa di piu complesso). Pertanto, alla luce di una siffatta interpretazione dell’art. 2238, co.1, se ne deve dedurre che non troverà applicazione il titolo II nei casi in cui l’attività produttiva si esaurisca nel la realizzazione di un servizio professionale, cioe nei casi in cui si tratti di prestazione intellettuale tuot court. Cio poteva avere senso al tempo in cui la norma è stata scritta, ma appare oggi averne molto meno, se si considera che le attuali professioni intellettuali possono essere fenomeni in tutto e per tutto coincidenti con l’impresa. Ne consegue che l’art. 2238 co 1, se interpretato nel modo che si è appena ricordato, è da intendersi come una norma che costituisce una sorta id privilegio favore di una figura soggettiva o di una categoria di soggetti, privilegio del quale puo beneficiare solo chi integra tale figura soggettiva o appartiene alla relativa categoria: vale a dire i professionisti intellettuali. Bisogna far ricorso ad un criterio soggettivo per individuare la figura soggettiva o la categoria dei profesisonisti intellettuali, criterio che viene ravvisato nella circostanza che nello svolgimento dell’attività che ne deriva venga utilizzata una particolare tipologia di contratti, ossia il contratto d’opera intellettuale. Un contratto, quest’ultimo, che sul piano della fattispecie è connotato dai requisiti di cui agli artt. 2230 e 2232: vale a dire, da un minimo di intellettualità nello sforzo profesisonale profuso nella produzione del servizio e da un minimo di personalità nella prestazione. Le tendenze a favore dell’assimilazione dei due fenomeni sul piano della fattispecie. La nozione di impresa comunitaria

La conclusione riferita poc’anzi in merito al privilegio che si configura in ca po ai professionisti intellettuali sembra presentare tuttavia qualche segno di cedimento. Infatti, l’esenzione delle prof esisoni intellettuali dalla disciplina dell’impresa non puo affermarsi piu con riferimento ad ogni istituto che costituisce quella disciplina e, in particolare, alla parte relativa all’antitrust. Come si vedra, la disciplina antitrust individua precetti comportamentali destinati agli operatori economici, diretti ad evitare che questi ultimi, attraverso accordi reciproci o abusando della posizione di potere acqusita, modifichino la struttura di mercato, determinando il passaggio da un modello concorrenziale ad un modello oligopolistico o monopolistico. Tale disciplina si riferisce ad operatori economici qualificato come imprese. Peraltro, l’interpretazione delle norme che costituiscono la disciplina in questione dev’essere effetuata in base ai principi dell’ordinamento

dell’Unione europea in materia di concorrenza. E un siffatto criterio interpretativo dev’essere utilizzato innanzitutto per l’identificazione dei referenti soggettivi destinatari dei precetti comportamentali, vale a dire le imprese, che allora devono individuarsi nei fenomeni qualificabili come imprese secondo l’ordinamento europeo, cioe i fenomeni che rientrano nella nozione di impresa comunitaria. Ebbene, nella nozione di impresa comunitaria rientrano sia il lavoro autonomo sia le professioni intellettuali. L’INIZIO E LA FINE DELL’IMPRESA Esauriti i problemi concernenti l’inquadramento della fatti specie, bisogna spostare adesso l’attenzione sul problema relativo all’individuazione del c.d. inizio e della c.d. fine dell’impresa: sulla questione relativa al momento a decorrere del quale comincia a trovare applicazione la disciplina dell’impresa e, specularmente, al momento che segna il termine dell’applicazione della medesima disciplina. L’inizio e la fine dell’impresa debbono valutarsi secondo un criterio di effettività rispetto alla sussistenza o meno del fenomeno (l’impresa) cui la disciplina si riferisce. L’inizio dell’impresa Il criterio di effettività. Le operazioni di organizzazione Con l’espressione inizio dell’impresa, come anticipato, si suole far riferimento al momenot dal quale comincia a trovare applicazione la disciplina dell’impresa. Tale momento, come visto, dev’essere accertato secondo un criterio di ef fettività, vale a a dire dev’essere identificato nel momento in cui nella realtà concreta si verifica un fenomeno produttivo qualificabile come impresa. Esso prescinde invece da qualunque tipo di adempimento formale si associ allo svolgimento dell’impresa, come, ad es., l’iscrizione nel registro delle imprese. Simili formalità, infatti, f inirebbero per inquinare con elementi soggettivi il presupposto di applicazione di una disciplina che deve riposare sempre su parametri oggettivi: in altre parole, finirebbero per far dipendere dalla volntà del soggetto che è tenuto ad assolvere a tali adempimenti l’applicaizone di una disciplina che tutela anche altri soggetti. D’altra parte, non sembra che il discorso possa differenziarsi a seconda che l’impresa sia esercitata da una persona fisica oppura da una società (o da altro ente che esercita l’imprese in via esclusiva). In particolare, non sembra che possa essere condivisa l’idea secondo cui l’inizio dell’impresa soc ietaria (o di altro ente) debba considerarsi anticipato al momento della costituzione della società (o dell’altro ente),. Basti considerare che la costituzione della società è in realtà una mera dichiarazione d intenti rispetto all’inizio dell’impresa, che, di per sé, non giustifica l’applicazione della disciplina dell’impresa in assenza del fenomeno che dovrebbe rivestire. Meno certo è invece se l’inizio dell’impresa debba aversi sin dalla fase di organizzazione, cioè sin dall’approntamento dei fattori produttivi alla successiva attività produttiva, ovvero debba posticiparsi alla fine di questa. Al riguardo, si deve segnalare che non è semplice fissare uno spartiacque tra la fase di preparazione del complesso produttivo e l’attività produttiva i n senso stretto. Senza considerare che, nel corso della prima, vengono in considerazione i tipici interessi coinvolti nella seconda e, soprattutto, i finanziatori a titolo di credito. Sicché, potrebbe sembrare non congruo escludere il credito che è stato concesso in questa fase dai sistemi di tutela predisposti dal diritto dell’impresa a favore del credito alla produzione (es. procedure concorsuali). Tutt’al piu, si potrà escludere che l’inizio dell’impresa possa aversi già a seguito del compimento di singoli atti di organizzazione e, di ocnseguenza, ritenere necessaria l’esecuzione di una serie di atti, coor dinati tra loro e volti ad organizzare un’attività produttiva. La fine dell’impresa

Il criterio di effettività. Le operazioni di liquidazione Con l’espressione fine dell’impresa si suole fare ri ferimento, come anticipato, al momento al cui verificarsi cessa di trovare applicazione la disciplina dell’impresa. Esattamente come l’inizio, anche la fine dell’impresa deve essere accertata secondo un criterio di effettività, ossia dev’essere identificata nel momento in cui nella realtà concreta viene meno il fenomeno produttivo qualificabile come impresa, senza che possano aver rilievo gli eventuali adempimenti formali. Se con riferimento all’impresa puo dubitarsi sul se possa sussistere l’impresa sin dalla fase dell’organizzazione, con riferimento alla f ine si deve invece sicuramente escludere che, per il venir meno dell’impresa, occorra attendere la fase di disdgregazione del complesso produttivo, cioè la liquidazion e: fase nella quale si monetizzano tutti i beni costituenti il complesso aziendale e si risolvono tutti i rapporti pendenti. Del resto, la liquidazione è una fase non essenziale nell’impresa, nel senso che l ’impresa potrebbe cessare anche a prescindere da una formale liquidaizone. La liquidazione, piu che altro, è una fase che attiene all’eliminazione dell’ente attraverso il quale si esercita l’impresa. Sicché, non puo escludersi che l’impresa di una società (o di altro ente) possa cessare anche prima della fine della società (o dell’altro ente), che invece sopravvive fintanto che non è liquidata(o) e, successivamente, estinta(o) attraverso la sua cancellazione dal registro delle imprese. La cancellazione dal registro delle imprese. La decorrenza degli effetti ex art. 10 l. fall. (rinvio) Tutto quanto precede presenta tuttavia una significativa eccezione con riferimento ad uno degli statuti nei quali si scompone la disciplina dell’impresa: le procedure concorsuali. Infatti, la fine dell’impresa non comporta di per sé il venir meno della possibilità di aprire una procedura concorsuale: possibilità che residua ancora per l’anno successivo alla cessazione, a condizione che lo stato di insolvenza sia antecedente alla cessazione dell’iniziativa o si sia verificato nell’anno successivo (art. 10 l. fall.). La ragione di questa prorogatio è che in tal modo si impredisce al titolare dell’impresa di sfuggire alla soluzione concorsuale dell’insolvenza attraverso una cessazione ex abrupto della sua iniziativa. Meno evidente è poi la ragione per cui il termine dell’anno debba decorrere dalla cancellazione dal registro delle imprese e non invece dalla effettiva cessazione dell’attività (art. 10 l. fall.). L’IMPUTAZIONE DELL’IMPRESA Rimane ancora da vedere a chi si imputa l’impresa, cioè chi è il referente soggettivo dell’impresa, vale a dire il soggetto tenuto ad adempiere ai diversi obblighi comportamentali in cui la disciplina dell’impresa si scompone. Altrimenti detto, si tratta di comprendere chi è l’imprenditore in s enso giuridico. COmpendere chi sia l’imprenditore in senso giuridico postula, preliminarmente, appurare quale sia il criterio di imputazione di un fenomeno descritto in termini di attività, cioè il criterio che consenta di attribuire ad una sfera giuridica soggettiva un’attività oggettivamente considerata, quale è l’impresa. Il criterio di imputazione La mancanza di un criterio esplicito di imputazione: la soluzione interpretativa L’individuazione del soggetto al quale si imputa l’impresa è tuttavia una questione affatto problematica. Al riguardo, giova ricordare che i principali orientamenti che si contendono il campo sono due: da un lato, c’è chi ritiene che l’impresa si imputi secondo un criterio formale o della spendita del nome nello svolgimento della stessa, concludendo che è imprenditore colui che svolge l’impresa a suo nome; dall’altro,

c’è chi ritiene che l’impresa si imputi secondo un criterio sostanziale o dell’interesse perseguito nello svolgimento della stessa, concludendo che è imprenditor e colui nel cui interesse l’impresa è svolta. IN quest’ottica, è evidente che la questione relativa all’imputazione appare risolta senza particolare contrasto di opinioni allorché l’impresa venga svolta in nome e per conto di uno stesso soggetto, cioè quando l’elemento formale della spendita del nome e l’emenento sostanziale dell’interesse perseguito convergono nella stessa sfera soggettiva, concludendo che l’impresa si imputa a tale soggetto che è, qindi, l’imprenditore. Es. se una persona fisica svolge l’impresa a suo nome e nel suo interesse non v’è dubbio che essa sia l’imprenditore, ecc. Peraltro, una siffatta conclusione prescinde dall circostanza che il soggetto con riferimento al quale si riscontra la ricorrenza dell’elemento formale e dell’elemento sostanziale eserciti materialmente l’impresa. Ed invero, l’imprenditore puo affidare l’sercizio dell’impresa ad uno o piu altri soggetti. Talvolta, l’imprenditore è addirittura obbligato ad affidare l’esercizio dell’impresa ad un altro o piu altri soggetti (i quali eseguono sempre tale incarico in nome e per conto del primo). Ipotesi, quest’ultima, che si concretizza allorché l’imprenditore non abbia capacità di agire. Pertanto, se un soggetto non ha la capacità di agire, vuoi perché non l’ha ancora acquisita (il minore), vuoi perché non la puo acquisire o l’ha persa in tutto (l’interdetto) o in parte (l’inabilitato), deve necessariamente affidare l’esercizio dell’impresa al suo sostituto legale: vale a dire al tutore o al curatore, per poi eventualmeente riassumere l’esercizio una volta che abbia (ri)conseguito tale capacità. I casi problematici di imputazione I casi di imputazione incerta La questione relativa ll’imputazione dell’impresa si profila invece in tutta la sua problematicità allorché l’elemento formale della spendita del nome e l’elemento sostanziale dell’interesse perseguito si riscontrano in capo a soggetti diversi, tipicamente nell’ipotesi in cui un soggetto esercita l’impresa a suo nome per perseguire l’interesse di un altro soggetto. Segue: il criterio della spendita del nome (o formalista) L’orientamento quanto meno sino a ieri e forse ancora oggi prevalente è dell’avviso c he l’elemento decisivo ai fini dell’imputazione dell’impresa debba individuarsi nella spendita del nome. Una tale conclusione riposa sull’assunto che, a fornte della mancanza nell’ordinamento di un criterio di imputazione dell’attività, si possa porre rimedio attraverso il ricorso al criterio previsto dall’ordinamento per ll’imputazione degli atti giuridici, posto che l’attività è in fin dei coni un insieme di atti giuridici, seppur teleologicamente orientati al raggiungimento di uno scopo. Quest’ultimo criterio è rappresentato apunto dalla spendita del nome. Una tale conclusione ha sicuramente il pregio della semplicità e dell’immediatezza nell’individuazione dell’imprenditore. Tuttavia, non puo essere trascurato che la conclusione piu sopra riferita rende agevoli alcune forme di abuso. Si supponga che il soggetot che svolge l’impresa a suo nome si un nullatenente, ch e non ha, cioè, niente o molto da perdere nel caso in cui l’iniziativa non vada a buon fine, e si presti allora a fungere da prestanome nello svolgimento di un’impresa per conto di un altro soggetto, il quale invece ha interesse a non esporre il suo patrimonio al rischio di impresa. In quest’eventualità, è evidente che, se l’iniziativa non va effettivamente a buon fine, il peso economico dell’insolvenza è destinato a gravare pressoché integralmente su coloro che hanno finanziato l’iniziativa a titolo di credito. A questo stato di cose la giurisprudenza cerca di porre rimedio attraverso al figura dell’impresa fiancheggiatrice. Infatti, è orientamento diffuso quello secondo cui il dominus dell’iniziativa in questione possa acquisire la qualifica di imprenditore e, quindi, essere assoggettato alla disciplina dell’impresa, se si

accerta che tale soggetto ha posto in essere un comportamento, nei rapporti intercorsi con il prestanome, che in sé considerato possa qualificarsi come impresa. Nei casi come quello poc ’anzi prefigurato, il dominus da dietro le quinte normalmente dirige e coordina e finanzia il prestanome. Ebbene, l’orientamento giurisprudenziale in esame ritiene che questa azione di direzione costituisca essa stessa, quando in concreto risulti qualificata dai requisiti della professionalità, organizzazione ed economicità, una impresa (impresa a sé stante, diversa da quelle fiancheggiate); anche a l domnus andrebbe allora riconociuta la qualifica di imprenditore, con il conseguente suo assoggettamento alla disciplina dell’impresa. Non è tuttavia sempre agevole dimmostrare che il comportamento posto in essere dal dominus possa essere qualificato alla stregua di un’impresa, tanto che frequentemente si perviene a risultati affatto contrastanti. Segue: il criterio dell’interesse perseguito (o sostanzialista). La teoria dell’imprenditore occulto Proprio in ragione delle accennate perplessità e del segnalato pericolo di inadeguata sistemazione degli interessi in gioco, non manca chi si affranca dalla ricostruzione esposta piu sopra. Nel solco di questa corrente di pensiero, sono state proposte diverse ricostruzioni, tutte volte a dimostrare che l’impresa si deve imputare a prescindere dal nome speso nello svolgimento della stessa. Tra queste, quella senz’altr piu importante è la teoria dell’imprenditore occulto. Essa muove da un presupposto di fondo: dall’assunto, cioè, che nell’ordinamento vi sia una inscindibile relazione biunivoca tra potere e rischio, tanto che chi ha la direzione di un’iniziativa economica e , nello specifico, imprenditoriale, non puo sottrarsi alle relative conseguenze sul piano patrimoniale e non essere quindi repsonsabile delle obbligazioni che sorgono durante il suo svolgimento. Pertanto, si deduce che il dominus di un’iniziativa imprenditoriale debba essere senz’altro responsabile per le obbligazioni sorte nel corso dello svolgimento di un’impresa per suo conto da parte di un prestanome. Sulla base di questa conclusione, la teoria dell’imprenditore occulto cerca di dimostrare che un domin us, non solo è responsabile per le obbligazioni predette, ma acquista anche la qualifica di imprenditore: di conseguenza, è assoggettato alla disciplina dell’impresa e, soprattuto, in caso di insolvenza, alle procedure concorsuali. Le conclusioni in ordine all’imputazione dell’impresa La conclusione cui perviene la t eoria dell’imprenditore occulto appare sorretta da un perco rso argomentativo che non resta immune da critiche e, non a caso, essa ha avito nel corso del tempo un’accoglienza tutt’altro che lusinghiera da parte della giurisprudenza. Nondimeno, t ale conclusione è stata parzialmente suggellata dal dato normativo e, in particolare, dagli artt. 24, co. 1, d.lgs. 270/1999 e, soprattutto, 147, co. 5, l. fall. Entrambe queste disposizioni si riferiscono all’impotesi di un’impresa individuale per la quale si sia accertato giudizialmente lo stato di insolvenza: nel primo caso, quale accertamento prodromico all’apertura dell’amministrazione straordinaria delle grnadi imprese in stato di insolvenza; nel se condo caso, quale condicio sine qua non per la dichiarazione di fallimento. In entrambe le norme si dispone che, se dopo la dichiarazione di insolvenza emerge, attraverso opportuni indizi, che l’imprenditore dichiarato insolvente sia in realtà legato ad un altro soggetto da un rapporto di società, in cui tanto il primo quanto il secondo sono soci illimitatamente responsabili, allora gli effetti della dichiarazione di insolvenza debbono estendersi anche nei confronti del soggetto successivamente scoperto. In altre parole, le disposizioni ric hiamate contemplano l’ipotesi in cui un’impresa all’apparenza individuale venga esercitata per conto di una società occulta. Non sembra dunque piu revocabile in dubbio che un’impresa esercitata per conto di una società occ ulta debba imputarsi proprio ad essa, restando irrilevante il fatto che l'att’vità fosse stata svolta senza spenderne il nome.

A questo punto, occorre verificare se tali dati normativi debbano considerarsi come norme eccezionali o possano invece essere intesi come norme che esprimono un princi pio piu generale. Sembra al riguardo opportuno condividere la preferenza per la seconda alternativa. Ed invero, sostenere il contrario, c ioè sostenere che l’imputazione delll’impresa prescinda dal nome speso e si leghi all’interesse perseguito solo quando tale interesse è di una società, equivarrebbe a sostenere che la sistemazione di interessi sollecitati dall’impresa debba essere diversa a seconda che il soggetto che ha speso il nome abbia perseguito anche un interesse altrui (quello del socio occulto) o solo un interesse altrui (quello del dominus); in altre parole, a seconda del tipo di rapporto che lega il primo al secondo soggetto: se un contratto di società o un contratto di interposizione; insomma, a seconda di quanto hanno convenuto tra di loro il primo e il secondo soggetto. Conclusione che sembra francamente inaccettabile nell’ambito di un sistema normativo nel quale il presupposto per la relativa applicazione è fondato rigorosamente su dati oggettivi necessariamente sottratti alla discrezionalità delle parti in causa. INTRODUZIONE ALLE SEZIONI II-VII Passando ad individuare e ad analizzare la disciplina del fenomeno produttivo normativamente rilevante descritto nelle pagine che precedono, va precisato che si tratta di una disciplina che si articola in una pluralità di istituti, che vanno guardati come connessi e complementari tra loro. Tali istituti costituiscono infatti i punti di forza di uno statuto unitario del fenomeno produttivo organizzato in forma di impresa. Le regole comportamentali che costituiscono lo statuto suddetto si appuntano sui seguenti principali profili del fenomeno produttivo. In primo luogo, ci sono le regole che dispongono la pubblicità dell’organizzazione di impresa. In secondo luogo, ci sono le regole che disciplinano l’organizzazione che costituisce l’apparato produttivo imprenditoriale. In quest’ottica, si prevedono tre gruppi di disposizioni: quelle relative all’aspetto documentale; quelle relative all’aspetto personale; quelle relative all’aspetto materiale. In terzo luogo, ci sono le regole che disciplinano l’attività imprenditoriale. Lo statuto si ocmpleta poi con la crisi di impresa. Gli istituti che ci accingiamo ad esaminare hanno ambiti di applicazione tra loro non sempre c oincidenti: tutti si applicano all’impresa commerciale non piccola; alcuni già oggi sono estesi a tutte le imprese; altri anche alle professioni intellettuali. LA PUBBLICITA’ COMMERCIALE LA PUBBLICITA’ DI IMPRESA La disciplina dell’impresa contempla un obblgio di pubblicità, finalizzato ad assicurare un minimo di trasparenza informativa su alcuni fatti o atti previsti espressamente dal dato normativo. Si tratta di un obbligo pubblicitario minimo, che mira a contemperare due diverse esigenze: da un lato, l’esigenza dell’imprenditore di poter contare sulla certezza legale che talune informazioni possano considerarsi conosciute da parte dei terzi con i quali entra in contatto; dall’altro lato, l’esigenza dei terzi e, piu in generale, del mercato di poter f ruire concretamente di talune informazioni inerenti l’impresa. In quest’ottica, al fine di fissare il punto di equilibrio tra tali esigenze, l’obbligo pubblicitario è informato al principio di tipicità, in forza del quale le informazioni da sottoporre a pubblicità sono tutte quelle ma soltanto quelle per le quali la legge impone siffatto obbligo pubblicitario. E ad un tale obbligo si adempie attraverso il registro delle imprese. Il registro delle imprese La pubblicità di impresa ruota dunque attorno all’istituto del registro delle imprese, un r egistro pubblico

previsto dal legislatore del ’42 che tuttavia è rimasto latente fino alla metà degli anni novanta del secolo appena trascorso. Il regstro delle imrpese è stato infatti istituito nel 1993 e successivamente attuato nel 1995 e piu volte modificato. In particolare, il registro delle imprese è affidato alla gestione delle camere di commercio di ogni provincia e, specificamente, alla persona del segretario generale o ad altro soggetto con funzioni dirigenziali, che funge da conservatore, sotto la vigilanza di un giudice delegato dal presidente del tribunale (c.d. giudice del registro), che funge da orgnao giudiziale competennte di prime cure per le controversie concernenti i procedimenti di iscrizione e di deposito. Il registro delle imprese è tenuto secondo tecniche informatiche e si articola in sezioni: una sezione ordinaria e diverse sezioni speciali. La sezione ordinaria e le relative iscrizioni La sezione ordinaria raccoglie l’eredità del registro delle imprese approntato dal legislatore del ’42. Infatti, tale sezione è destinata ad accogliere le imprese commerciali non piccole, le forme giuridiche commerciali (le società commerciali e le cooperative) e le altre forme giuridiche (gli enti pubblici economici, i consorzi) per le quali il codice civiel prevede un obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, con l’aggiunta di due forme giuridiche, una di fonte europea e l’altra di fonte interna, di recente istituzione (il gruppo europeo di interesse economico e la rete di impresa con fondo comune). In via generale, le informazioni sono quelle relative agli elementi dell’assetto organizzativo strutturale dell’impresa stabilite dall’art. 2196, co. 1 e cioè: le generalità dell’imprenditore; l’eventuale ditta; l’oggetto dell’impresa; la sede dell’impresa; gli eventuali institori e procuratori. Ad esse si è aggiunta di recente la posta elettronica certificata. Alle informazioni appena menzionate se ne aggiungono di ulteriori nel corso dello svolgimento dell’iniziativa (es. autorizzazione alla co ntinuazione dell’impresa di un incapace). Un’informazione specifica dev’essere poi data nel caso di istituzione di sedi secondarie. L’iscrizione deve essere richiesta entro il termine di trenta giorni dall’inizio dell’imp resa o dal verificarsi del fatto o dell’atto oggetto di pubblicità. Peraltro, una tempistica differente è stabilita con riferimento all’obbligo di pubblicità delle società di capitali. L’iscrizione è subordinata ad un controllo finalizzato ad accertare la sussistenza delle condizioni previste dalla legge per l’iscrizione. Si tratta del controllo volto a verificare, in primo luogo, il rispetto del gia ricordato principio di tipicità, cioe che l’iscrizione sia prevista dalla legge, in secodno luogo, la regol arità formale della domanda con cui si chiede l’iscrizione. Tale controllo èp esercitato normalmente dall’’ufficio del registro. Se l’iscrizione avviene senza che ricorrano le condizioni è possibile porre rimedio attraverso la cancellazione d’ufficio ordinata dal giudice del registro. Restano ancora da vedere gli effetti che si associano all’iscrizione. Anzitutto, l’iscrizione ha un’efficacia dichiarativa, in forza della quale, una volta che si perfeziona, essa determina una presunzione di conoscenza del f atto o dell’atto per il quale la legge prescrive l’obbligo di pubblicità, con il che la relativa informazione si considera conosciuta senza bisogno di accertare che lo sia in concreto. Inizialmente, una tale presunzione era assoluta sin da subito con riferimento a tutti gli atti o i fatti iscritti, senza possibilità alcuna per i terzi di eccepire la propria ignoranza ancorché incolpevole. Successivamente, il diritto europeo ha imposto di rendere siffatta presunzione relativa per i primi quindici giorni di iscrizione con riferimento ai soli fatti o atti delle società di capitali, in particolare consentendo ai twerzi in questo lasso di tempo di superare la presunzione di conoscenza dimostrando l’impossibilità ad ac quisire l’informazione oggetti di iscrizione. La presunzione diventa poi assoluta dal sedicesimo giorno. Per contro, nell’ipotesi in cui l’iscrizione obbligatoria sia stata omessa, si verifica una presunzione di ignoranza dei fatti o degli atti che avrebbero dovuto essere iscritti. La presunzione è sempre relativa e puo essere superata dall’imprenditore, se dimostra che, nonostante l’omissione della pubblicità, il f atto o l’atto da pubblicare era comunque conosciuto da parte del terzo: prova, in verità, il piu delle volte difficile da

rendere. All’efficacia dichiarativa si aggiunge talvolta un’efficacia normativa, nel senso che talvolta l’obbligo pubblicitario costituisce condizione per rendere applicabile una certa disciplina. Es. l’iscrizione di una società commerciale di persone (snc e sas) rappresenta una condizione per rendere applicabile alla società la discplina della (snc e sas) regolare. Invece, in difetto dell’iscrizione, la disciplina che si applica all a società (collettiva o in accomandita) è diffferente e, in particolare, è qiuella della soc ietà (collettiva o in acocmandita) irregolare. Dall’efficacia normativa si suole distinguere poi l’efficacia costitutitva, efficacia tradizionalmente riconosciuta all’iscrizione delle società di capitali nonché ad alcune decisioni sociali di queste ultime società. In altre parole, l’atto produce effetti solo con l’iscrizione. Le sezioni speciali e le relative iscrizioni Le sezioni speciali sono state previste con l’obiettivo di razionalizzare le diverse forme di pubblicità gestite dalla camera di commercio prima dell’istituzione del registro delle imprese. In particolare, tali sezioni nascono con l’obiettivo di farvi confluire le imprese e le forme giuridiche che non potevano transitare nella sezione ordinaria, in quanto imprese diverse dalle imprese commmerciali non piccole o fo rme giuridiche per le quali non è previsto un obbligo di pubblicità nelle norme del codice civile. Inizialmente, vengono istituite tante sezioni speciali ad hoc per ogni tipologia di impresa e forma giuridica obbligate ad iscriversi. Successivamente, queste sezioni vengono riunite in un’unica sezione. In particolare, in quest’ultima sezione devono prendere iscrizione: i titolari di imprese agricole; i titolari di piccole imprese; le società semplici; devono essere annotati: i titilari di imprese artigiane e i loro consorzi. Nel corso degli anni sono state istituite altre cinque sezioni speciali ( qualificate come sezioni apposite), quali quella riservata alle società tra avvocati e adesso generalizzata a tutte le società tra professionisti, quella riservata alle società e enti di gruppo, quella riservata alle imprese sociali, quella riservata alla replica da parte delle società di capitali dei fatti e degli atti gia iscritti nella sezione ordinaria con traduzione di un esperto in un’altra lingua ufficiale dell’UE, quella riservata alle imprese start-up innovative (cioè, imprese che sviluppano, producono e commercializzano prodotti o servizi innnovativi ad alto valore tecnologico). Nelle sezioni speciali le iscrizioni producono sempre effetti di pubblicità notizia, ossia di mera conoscibilità di fatto delle informaizoni rese disponibili (senza le presunzioni di conoscenza e di ignoranza collegate alla sezione ordinaria), salvo che non sia disposto diversamente dal dato normativo. In particolare, una diversa disposizione riguarda senz’altro le iscrizioni relative alle imprese agricole, alle quali viene associata efficacia dichiarativa. ORGANIZZAZIONE E CIRCOLAZIONE DELL’IMPRESA LA DOCUMENTAZIONE DI IMPRESA La disciplina dell’impresa si occupa sotto diversi profili dell’organizzazione dellimpresa medesima. Anzitutto, essa stabilisce un obbligo di documentazione di impresa. In particolare, si tratta dell’obbligo di dare rappresentazione scritta dei diversi accadimenti relativi al lo svolgimento dell’attività di impresa, che viene assolto attraverso l’obbligo di tenuta delle scritture contabili. Le scritture contabili obbligatorie sono uno strumento di controllo finalizzato a far sì che l’attività venga gestita consapevolmente e, quindi, sia in grado di far fronte ai diversi impegni assunti secondo la normale alea del rischio di impresa. Le scritture contabili obbligatorie Chi esercita un’impresa commerciale non piccola (o chi assume una forma commerciale: società di forma commerciale) ha dunque l’obbligo di dare rappresentazione scritta dei diversi accadimenti in cui si sostanzia l’iniziativa posta in essere, per il tramite della tenuta delle scritture contabili. Il dato normativo impone la tenuta delle scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalla dimensione dell’impresa

(es. le scritture contabili obbligatori e possono essere diverse in un’impresa di produzione di beni rispetto ad un’impresa bancaria; cosi come possono essere diverse e piu numerose con l’aumentare della dimensione e della complessità organnizzativa dell’impresa). Il dato normativo fissa comunque due scritture contabili obbligatorie minime, cioè c he vanno tenute quale che sia la natura e la dimensione dell’impresa, individuandole nel libro giornale e nel libro degl i inventari (cc.dd. scritture contabili nominate). Il libro giornale è la scrittura contabile nella quale vanno indicate giorno per giorno tutte le operazioni relative all’esercizio dell’impresa. Essa è una scrittura c he va tenuta perciò secondo un criterio cronologico. Nel libro giornale vanno rilevati i fatti di gestione nel loro profilo patrimoniale e reddituale, cioè accertandone l’impatto sulla consistenza del patrimonio ( d’impresa) e sulla formazione del risultato (d’esercizio). Es. la stipulazione di un contratto di vendita viene rilevata, nel profilo patrimoniale, come credito verso il cliente o (eventualmente dopo la riscossione del credito) come entrata di banca o di cassa, nel profilo reddituale, come ricavo di vendita. Il libro degli inventari è la scrittura contabile nella quale vanno indicate e valutate le attività e le passività relative all’impresa nonché le attività e le passività estranee alla medesima. E’, cioè, una scrittura contabile in cui devono essere riportati tutti gli elementi patrimoniali attivi e passivi dell’impresa e estranei all’impresa. Essa è perciò una scrittura che va tenuta secondo un ordine sistematico. Come anticipato, gli elementi da cui è costituito il libro degli inventari devono essere indicati e valutati. Vale a dire che tali elementi debbono essere riportati senz’altro in forma descrittiva e poi, nel caso in cu i si prestino ad essere valutati, anceh attraverso la loro valutazione. Cio avverrà con riferimento a quegli elementi la cui utilità puo essre misurata ed espressa attraversp un valore. L’inventario deve essere redatto all’inizio dell’impresa (c.d. inventario iniziale) e poi con cadenza annuale (c.d. inventario annuale). Questt’ultimo inventario si chiude con il bilancio e con il conto dei profitti e delle perdite (=bilancio d’esercizio). Il bilancio d’esercizio Nel lessico normativo e tecnico dell’epoca in cui il cc è stato scritto, l’espressione bilancio e conto dei profitti e delle perdite designava il bilancio d’esercizio. Ne consegue che oggi l’art. 2217, co. 2 dev’essere inteso nel senso che l’inventario si chiude con il bilancio di esercizio. Nel lessico normativo e tecnico attuale l’espresisone bilancio d’esercizio designa l’insieme di tre documenti: lo stato patrimoniale, il conto economico e la nota integrativa. Nell’ordinamento giuridico italiano manca una disciplina giuridica generale sul bilancio d’esercizio. Una disciplina sul bilancio è prevista soltanto nel diritto della società per azioni, dunque se ne parlerà. Peraltro, questa disciplina è richiamata nel diritto delle altri società di capitali e delle cooperative, e pertanto trova applicazione pressoché integrale in questi contesti. Invece, resta aperta la questione su quale disciplina debba applicarsi al bilancio d’esercizio delle imprese che assumono forma giuridica diversa dalla società per azioni e dalle altre società di capitali e cooperative, come ad es. una società di persone, un ente non societrio, una persona fisica. Una tale questione risulta solo parzialmente risolta dal dato normativo e, in particolare, dall’art. 2217, co. 2, il quale generalizza la disciplina del bilancio delle società per azioni nella parte relativa alle valutazioni, parte che pertanto troverà applicazione nei bilanci di tutte le imprese. La questione accennata or ora resta invece affidata integralmente all’interprete con riguardo alle strutture di bilancio, a proposito della quale ci si interroga sulla possibilità di mutuare dalla disciplina del bilancio della società per azioni ache le norme relative a questo profilo . L’orientamento del tutto prevalente risponde in senso affermativo. La conservazione delle scritture contabili. L’utilizzo come mezzi di prova

Le scritture contabili debbono essere conservate per dieci anni dall’ultima registrazione. Le scritture contabili assolvono ad un’importante funzione di prova relativamente all’esistenza di obbligazioni e/o diritti. In altri termini, le scritture contabili possono costituire mezzi di prova. I COLLABORATORI INTERNI DI IMPRESA La disciplina dell’impresa considera l’organizzazione non solo sotto il profilo documentale, cioè della rappresentazione dei fatti e degli accadimenti relativi all’attività nel suo complesso, ma anche da un altro punto di vista, cioè quello della struttura e dell sorti dell’apparato produttivo. Al riguardo, l’organizzazione dei fenomeni produttivi è tipicamente complessa, normalmente composta sia da un profilo personale sia da un profilo materiale: si fa riferimento, con la prima espressione, ai diversi soggetti impiegati nell’apparato produttivo nelle diverse mansioni (i collaboratori interni di impresa); con la seconda, ai diversi beni materiali ed immateriali che costituiscono l’apparato produttivo (l’azienda). La disciplina dell’impresa si occupa dell’organizzazione sotto entrambi i profili mezionati. Cominciamo con l’esame del primo profilo. I collaboratori interni di impresa. La disciplina generale Il dato normativo contempla tre tipologie di collaboratori interni di impresa. a) La prima è quella dell’institore, termine con il quale si identificano i collaboratori che occupano il livello piu elevato nell’organigramma di impresa. Essi sono preposti all’esercizio dell’impresa, ad una sede secondaria o ad un ramo particolare, vale a dire al vertice dell’intera iniziativa o di una sua parte, identificata da una delimitazione territoriale (la sede secondaria) o da una delimitazione funzionale (il ramo di impresa). Essi sono dei veri e propri alter ego dell’imprenditore o, quanto meno, dei soggetti con qualifiche dirigenziali, che nel linguaggio comune sono noti come direttori generali, ecc. b) La seconda figura è quella del procuratore, termine con il quale si identificano i collaboratori che occupano un livello intermedio nell’organigramma dell’impresa. Essi sono preposti al compimento di atti pertinenti all’esercizio dell’impresa, vale a dire di atti riconducibili ad uno specifico ambito funzionale, quale puo essere il personale, gli acquisti, le vendite, ecc. Essi sono soggetti co qualifiche dirigenziali rispetto ad uno degli ambiti funzionali testé menzionati, che nel linguaggio comune sono noti come direttori del personale, ecc. c) La terza è la figura dei commessi, termine con il quale si identifi cano i collaboratori che occupano il livello piu basso nell’organigramma di impresa. Essi sono preposti al compimento di operazioni che consentono all’impresa di interfacciarsi con i terzi e, piu in generale, con il mercato, attraverso la cessione dei beni e dei servizi prodotti o dei beni in precedenza acqustati. Essi sono soggetti con qualifiche essenzialmente esecutive. Ciascuna di queste figure è investita dei poteri necessari al compimento delle mansioni ad essa tipicamente sottostanti. Ed è investita di tutti i poteri: non solo dei poteri decisori, che consentono ai singoli collaboratori di assumere le decisioni rientranti nel proprio ambito operativo (se, come, quando fare qualcosa, ecc.); ma anche i poteri dichiaratori, che consentono ai medesimi collaboratori di dare esecuzione alle decisioni prese, attraverso la stipulazione di atti negoziali e, in particolare, di contratti con i terzi (spiccare un assegno, ecc.). Piu precisamente, il dato normativo fa sì che ciascuno di essi sia un vero e proprio centor decisionale e, di conseguenza, commisura al potere decisionale cosi decentrato il potere di rappresentanza. Nel senso che attribuisce ad ogni collaboratore poteri di gestione esternna (cioe, di rappresentanza) congrui rispetto ai poteri di gestione interna (cioe, decisori) che ad esso fanno capo tipicamente e, quindi, lo legittima al compimento di tutti quanti gli atti necessari per dare attuazione alle decisioni assunte nell’esercizio delel sue funzioni. Il che è evidentemente finalizzato ad agevolare lo svolgimento dei traffici commerciali all’insegna della massima sicurezza, atteso che i terzi con cui quel collaboratore entra in contatto sono

sgravati dall’onere di accertare l’esistenza dei poteri di spendita del nome dell’impresa, in quanto poteri connaturati a tale specifica figura. D’altra parte, nell’eventualità in cui si voglia circoscrivere il potere che appartiene normalmente ad un collaboratore, cioè apportare limitazioni ai suoi poteri naturali – che possono essere limitazioni qualitative (es. s’intende precludere la possibilità di contrattare con alcuni fornitori) e/o quantitative ( es. s’intende precludere la possivilità di assumere obbligazioni eccedenti un determinato ammontare) – occorre uno specifico atto che formalizzi tali limitazioni, soprattutto con riferimento a quelle relative al potere di rappresentanza. L’atto inn questione prende il nome di procura. La procura è assoggettata ad un regime di pubblicità: alla pubblicità di impresa mediante l’iscrizione della procura stessa nel registro delle imprese, nel caso in cui essa sia rilasciata all’indirizzo degli institori o dei procuratori; alla pubblicità di fatto rendendo conoscibile la procura con mezzi idonei, nel caso in cui essa sia rilasciata all’indirizzo dei commessi. In assenza di tale pubblicità, la procura e, quindi, i limiti che essa contiene, non puo essere opposta a terzi, a meno che non si provi che questi ultimi erano comunque a conoscenza dei relativi limiti. L’inopponibilità fa sì che la violazione di detti limiti da parte dei collaboratori non abbia alcuna conseguenza all’esterno e, in particolare, non pregiudichi l’efficacia, nei confronti dell’imprenditore rappresentato, degli atti posti in essere. Pertanto, la violazione avrà conseguenze solo all’interno dell’impresa e, in particolare, esporrà il collaboratore incorso in siffatta violazione a un’eventuale azione di responsabilità per i conseguenti danni arrecati all’imprenditore. L’institore L’institore è il collaboratore preposto all’esercizio dell’impresa o ad una parte di essa, che puo essere rappresentata da una sede secondaria o da un ramo particolare (2203 cc), come visto. Può esservi un unico institore preposto all’intera iniziativa o ad una sua articolazione organizzativa o funzionale, oppure possono esservi plurimi institori, o ancora due o piu institori ad ogni sua articolazione. Nel caso in cui vi siano piu institori, essi agiscono disgiuntamente, cioè ognuno agisce i ndipendentemente dall’altro o dagli altri. Ed agiscono disgiuntamente anche nel caso in cui vi siano piu institori per uno stesso ambito operativo (impresa, sede o unità). I nfatti, un’eventuale azione congiunta, cioe coordinata e concordata tra gli stessi, costituirebbe una limitazione dei poteri del’institore, che in quanto tale deve risultare da un’apposita procura. L’institore puo compiere tutti gli atti pertinenti all’impresa. In altri termini, l’institore ha poteri di fare tutto cio che sia astrattamente congruo rispetto all’iniziativa gestita, salva poi la necessità di verificare in concreto la sussistenza della congruità, a seconda della natura degli atti posti in essere e della circostanza in cui quegli atti sono stati posti in essere. (se voglio, es. pag 133/134). Ne consegue che l’institore non puo spingersi al di là della gestione dell’impresa, come ad es. alienare l’azienda oppure cambiare l’oggetto dell’impresa gestita; cosi c ome non puo ipotecare o alienare i beni immobili di cui si compone l’azienda. Peraltro, come anticipato, all’institore possono essere sempre apportate ulteriori limitazioni ai suoi poteri da parte dell’imprenditore attraverso il rilascio di una apposita procura. L’institore aggiunge ai suoi poteri sostanziali i poteri processuali, potendo stare in giudizio per l’imprenditore come attore o convenuto. L’institore è tenuto, assieme all’imprenditore, all’osservanza delle disposizioni riguardanti le scritture contabili e la pubblicità commerciale (iscrizione nel registro delle imprese), essendo il collaboratore preposto all’intera iniziativa o ad una sua articolazione organizzativa o funzionale. L’institore è poi tenuto a spendere il nome dell’imprenditore. In caso d i omissione, diventa titolare di tutti gli atti compiuti a proprio nome. Tuttavia, se si tratta di atti pertinenti all’impresa, si affianca anche la responsabilità dell’imprenditore. Il procuratore

Il procuratore è il collaboratore che compie atti pertinenti all’esercizio dell’impresa, pur senza esservi preposto. Per questa figura non è stabilita una vera e propria disciplina specifica. Ad essa è dedicata solo una norma, che si limita a rinviare agli artt. dettati per l’institore, con riguardo alla pubblic ità, alla modifica e alla revoca della procura. il procuratore ha poteri decisionali e dichiaratori circoscritti al proprio ambito operativo. Come visto, i primi come i secondi possono essere limitati dall’imprenditore attraverso il rilascio di apposita p rocura. Non essendo preposto all’impresa o ad una parte di essa, il procuratore non ha invece rappresentanza processuale. E per la stessa ragione, sul procuratore non incombono doveri che att engono all’impresa, come quelli che hanno ad oggetto la tenuta delle scritture contabili o la pubblicità. Sempre per la stessa ragione, non puo prospettarsi in nessun caso la responsabilità del preponente in caso di omessa spendita nel compimento di atti di impresa. I commessi I commessi sono collaboratori che compiono gli atti che comporta ordinariamente la specie di operazioni cui sono incaricati. I commessi, come le altre figure appena esaminate, hanno poteri decisori e dic hiaratori che attengono alla specie di operazioni che sono incaricati di porre in essere. Tuttavia, tali poteri sono perlopiù del secondo tipo, inerendo essenzialmente operazioni prive di autonomia funzionale e necessitando piu che altro di essere eseguite con i terzi con cui l’impresa entra in contatto. Proprio in quest’ottica, il dato normativo detta specifiche disposizioni riguardanti il momento della conclusione dei contratti. Norme, queste, che impongono ai commessi di attenersi agli eventuali contratti standard utilizzati per la contrattazione di impresa e di non derogare alle condizioni generali di contratto, accordano ai commessi di concedere sconti e/o dilazioni di pagamento che rientrano negli usi commerciali, ecc. L’AZIENDA Lo svolgimento dell’attività di impresa richede sempre l’allestimento di un apparato produttivo potenzialmente composto dai più eterogenei fattori (beni immobili, materie prime, ecc.), che vengono coordinati e asserviti al perseguimento dell’unitario obiettivo economico. Questo apparato è l’azienda, che infatti è definita dal codice come il complesso dei beni che l’imprenditore organizza per l’esercizio dell’impresa. (art. 2555). Essa appartine dunque al mondo degli oggetti di diritto. La discipllina che la riguarda è dedicata eminentemente a regolare taluni aspetti della sua circolazione. Dal punto di vista economico, infatti, essa ha una evidente rilevanza unitaria, proprio perché l’aggregazione dei diversi fattori consente di conseguire un risultato che gli stessi, presi singolarmente, non sono idonei a raggiungere. Ed è in occasione del loro trasferimento che questa valenza unitaria viene in rilievo. Di qui l’opportunità di integrare la disciplina comune dell’atto traslativo posto in essere (compravendita, affitto, ecc.) con una nnormativa di settore. La nozione di azienda Sotto il profilo economico, l’azienda rappresenta indubbiamnete un’entità unitaria che trascende le singole componenti, come visto. Il vincolo che si instaura tra le varie componenti è dato dall’organizzazione, cioè dal coordinamento dei diversi elementi da parte dell’imprenditore. L’attitudine alla produzione di nuova ricchezza e alla maturazione di un reddito rappresenta l’avviamento dell’azienda: è proprio questo a costituire il maggior valore del complesso rispetto alla somma di quelli dei singoli beni. L’avviamento rappresenta dunque una quali tà immanente ad ogni azienda, insuscettibile di essere ceduto separatamente dal complesso, ma normalmente computato nella determinazione del prezzo di quest’ultimo; almeno è definibile in questi tewrmini il c.d. avviamento oggettivo, c ioè quello che dipend e

da fattori intrinseci allo stesso complesso (la sua obiettiva efficienza e collocazione sul mercato), mentre vi rimane estraneo l’avviamento soggettivo, ossia la componente dipendente dall’abilità e dalla reputazione personale dell’imprenditore. Concettualmente distinta dalla nozione di avviamento è quella di clientela. Essa consiste non già in una platea nominativamente determinata di soggetti, ma nel fllusso di domanda stabilmente riferibile all’impresa in un dato momento storico, in ragione della sua presenza sul mercato. Anch’essa, cosi come l’organizzazione e l’avviamento, non è giuridicamente riconducibile alla categoria dei beni e non coincide con l’avviamento, ancorché la misura di questo dipenda evidentemente anche dalle dimensioni di quella. L’azienda puo essere composta da un insieme assai vario di beni. Giuridicamente, ciascuno di essi consserva la propria autonomia e rimane dunque oggetto di posizioni giuridiche indipendenti l’una dall’altra. D’altra parte, non è necessario che lìimprenditore sia proprietario di ciascuno di tali elementi, sifficiente essendo che egli abbia un titolo giuridico per poterne godere (es. macchinari goduti in leasing, ecc.). L’azienda è inoltre un complesso di beni mutevole, la cui composizione è evidentemente des tinata a variare quotidianamente (es. acquisto materie prime). Anche la sua genesi non è istantanea, ma richiede la progressiva attuazione del progetto organizzativo, attraveerso l’acquisizione dei beni e il loro coordinamento. Essa si costituisce d’altra parte, e permane nella sua identità, anche nel caso in cui debbano essere ancora inseriti o siano venuti meno taluni elementi, purché non si tratti di beni essenziali èper la funzoinalità del complesso. Non è facile in proposito individuare un criterio discretivo atto a valutare tale requisito: l’azienda esiste in quanto sia formato un insieme chiaramente identificabile in relazione all’ambito di attività entro cui essa è destinata ad operare; un suo elemento deve considerarsi essenziale quando identifica esso stesso primariamente tale ambito di attività (è spesso il caso del locali commerciali, nel commercio al dettaglio), o quando comuqnue costituisce il cuore nevralgico del complesso (l’apparato dei macchinari, nelle aziende di produzione). Nella medesima ottica, l’azienda può venire ad esistenza indipendentemente dall’avvio dell’attività e non viene meno nel caso in cui queata cessi, almeno sino a quando l’insieme non viene concretamente disgregato o non perde qualsivoglia radicamento rispetto all’originario ambito di attività servito: sicché, ad es., un’azienda di trasporti non perde la propria identità per effetto dell’interruzione dell’impresa, finché permangano le vetture, una clientela potenziale, rapporti di lavoro con gli autisti; non resterebbe tale, invece il semplice parco macchine, una volta venuto meno quel radicamento. Il ramo d’azienda L’emersione del profilo funzionale, come elemento connotante l’insieme degli elementi aziendali rispetto ad ogni altro aggregato di beni, consente di individuare, al l’interno del complesso, eventuali sottoinsiemi dotati di analoga, autonoma funzionalità sul piano produttivo. Tali sono i rami di azienda. Essi costituiscono per l’appunto parti del piu ampio agglomerato aziendale, isolabili dal medesimo e di per sé destinabili all’esercizio di un’impresa, sempre che sia individuabile, nei termini sopra descritti, l’ambito di attività entro cui essi sono impiegabili e che non difettino elementi essenziali allo stesso. non all’interno di ogni azienda sono isolabili singoli suoi rami. Accade specie nel caso in c ui essa sia costituita per operare in settori diversi, o quando comunque coesistano linee produttive distinte. Ai fini dell’individuazione di un ramo, ad o gni modo, non è necessario che sussista una completa separazione organizzativa rispetto alle restanti parti del complesso, né che sia tenuta una contabilità separata. La figura rileva poiché la circolazione autonoma del ramo è soggetta alle regole della cessione di azienda. La natura giuridica dell’azienda; la c.d. proprietà dell’azienda L’art. 2556 fa riferimento all’esistenza di una proprietà sull’azienda. L’espressione è tuttavia atecnica: la c.d. proprietà sul complesso, come visto, si risolve infatti nella titolarità delle diverse posizioni giuridiche (proprietà, usufrutto, ecc.) aventi ad oggetto i singoli beni aziendali.

Il trasferimento dell’azienda Natura e causa del negozio di trasferimento Si è osservato che la disciplina dedicata all’azienda è orientata pricnipalmente verso la regolamentazione del momento circolatorio. La fattispecie principale è quella del “trasferimento della proprietà” sul complesso, ossia della cessione del fascio di eterogenee posizioni giuridiche facenti capo all’alienante, su ciascuno degli elementi aziendali: trasferimento, dunque, rispettivamente della proprietà dei beni appartenentigli, dei diritti reali e personali di godimento sui beni su cui si vanti un diritto di usufrutto o di cui abbia la disponibilità in forza di un contratto di locazione e via dicendo. Il “trasferimento dell’azienda” non costituisce un t ipo negoziale autonomo, ma è una fatt ispecie trasversale ai diversi tipi contrattuali consueti, caratterizzata sul piano dell’oggetto. Cosi, a seconda dello schema prescelto dalle parti, puo aversi una compravendita, una donazione (e via elenecando), cui si applica integralmente la rispettiva disciplina negoziale. Tuttavia, la specificità dell’oggetto non resta senza significato sul piano della causa del negozio. Il trasferimento dell’azienda è valutato e regolato in quanto tipicamente finalizzato ad immettere l’acquisrente nel concreto contesto imprenditoriale servito dalla medesima: lo provano i particolare effetti che il legislatore ricollega a tale vicenda circolatoria. Pertanto, il trasferimento dell’azienda rappresenta un sottotipo contrattuale – trasversale ai diversi modelli negoziali per cui i contraenti possono optare -, il cui scopo non consiste esclusivamente nella cessione di uno o piu beni, ma si spinge fino a comprendere l’introduzione dell’acquirente, in virtù d tale cessione, nel predetto ambito di attività. L’oggetto del negozio E’ sifficiente che le parti convengano di trasferire l’azienda, identificandola in base ad elementi estrinseci (la localizzazione, il settore di attività, la ditta, ecc.), perché l’effetto negoziale traslativo coinvolga tutti i siungoli elementi che la compongono, a prescindere da una loro analitica elencazione. Peraltro, ciascuno dei beni aziendali, conservando la propria autonomia giuridica, puo costituire oggetto di atti dipositivi indipendenti, come visto. Allo stesso modo, non è impedito alle parti, che intendono trasferire l’azienda, di escludere dal trasferimento uno o piu dei suoi beni; per far cio, è però necessario che esse specifichino quali sono quelli destinati a restare in capo all’alienante. In ogni caso, l’esclusione è possibile solo nella misura in cui  non si tratti di elementi essenziali del complesso: tali sono, come si è detto, i beni che connotano l’ambito di attività dall’azienda servito o che rappresentano il cuore nevralgico dell’apparato organizzativo. E’ bene precisare che l’esclusione di un bene essenziale non comporta, evidentemente, l’invalidità del negozio, ma semplicemente la sua non qualificabilità come “trasferimento d’azienda”, e sarà dunque un atto negoziale che rimarrà estraneo all’ambito di applicazione degli artt. 2556 ss. La forma e la pubblicità del contratto In linea di principio, il contratto traslativo dell’azienda è a forma libera, a meno che una determinata forma non sia richiesta dalla natura del contratto stesso (es. in caso di conazione è necessaria la stipulazione per atto pubblico), e ferme le solennità necessarie per il trasferimento dei singoli beni aziendali: così è necessaria la forma scritta nel caso in cui il trasferimento comprenda la cessione della proprietà su un bene immobile, anche se, in tal caso, è sufficiente che sia redatta per iscritto la porzione del contratto riguardante tale bene. Ciò significa che l’azienda non ha una propria legge di circolazione ed è assoggettata allo statuto dei diversi tipi contrattuali attraverso cui può essere ceduta e dei diversi beni che la compongono. Devono essere altresì rispettare le prescrizioni pubblicitarie relative al trasferimento di ciascun bene: così la trascrizione

nei registri immobiliari, per gli immobili, ecc. L’art. 2556 cc impone tuttavia la forma scritta ad probationem, quando il contratto abbia ad oggetto aziende relative ad imprese soggette a registrazione. La norma condiziona dunque alla redazione per iscritto la possibilità per le parti contraenti di provare l’esistenza e il contenuto dell’atto, senza peraltr o pregiudicarne la validità. Lo stesso art. 2556 dispone poi che il contratto, redatto in forma di atto pubblico o per scrittura privata autenticata, deve essere depositato per l’iscrizione nel registro delle imprese. Il divieto di concorrenza L’art. 2557 vieta all’alientante dell’azienda di iniziare, dopo il trasferimento, qualsiasi attività iprenditoriale che, per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta. E’ questo il primo degli effetti particolare che la legge ricollega a tale negozio. La ragione che sta alla base dell’obbligo di astensione dipende dalla speciale pericolosità che l’eventuale concorrenza del cedente rivestirebbe nei confronti del destinatario, rispetto alla concorrenza di qualsiasi altro soggetto terzo; l’alienante infatti ha un’esperienza diretta e specifi ca delle abitudini dei propri clienti, puo agevolmente raggiungerli, ecc. La sua iniziativa concorrenziale finirebbe in definitiva per pregiudicare gli stessi obiettivi, casualmente rilevanti, del trasferimento posto in essere. Il divieto è limitato all’avvio di una nuova attività (è consentita dunque la continuazione di quella precedente) e ha una durata quinquennale. Non sono specificati in via generale ed astratta l’oggetto e i caratteri dell’attività preclusa, poiché l’estensione del divieto deve essere determinata in concreto, in ragione dell’idoneità alla distrazione della clientela ed esso abbraccia dunque ogni iniziativa che di fatto manifesti tale caratteristica. Dal punto di vista delle fattispecie dalla quali il divieto stesso scaturisce, si è già detto che sono innanzitutto costituite da tutte le ipotesi di cessione, a qualunque titolo, dell’azienda. Deve pero t rattarsi di una azienda commerciale, poiché, in caso di trasferimento di azienda agricola, esso riguarda esclusivamente le attività connesse, sempre che vi sia in concreto un rischio di sviamento della clientela. Anche nel caso in cui l’azienda venga concessa in usufrutto o in affitto, il divieto opera a carico del proprietario per tutta la durata del rapporto. Specularmente, esso si applica all’usufruttuario e al conduttore, al termine del rapporto. La successione nei contratti L’art. 2558 dispone l’automatico subingresso dell’acquirente nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda, che non abbiano carattere personale. Si tratta innanzitutto dei contratti in forza dei quali il titolare dell’azienda può godere dei beni aziendali di cui non è proprietario (es. il contratto di locazione o di leasing aventi ad oggetto i locali o i macchinari) o in virtù dei quali egli approvvigiona stabilmente l’azienda di taluni elementi (contratti con i fornitori), o consegue determinate posizioni collaborative (contratto di prestazione d’opera intellettuale con un professionista) ma anche di tutti i contratti nascenti nelll’esercizio dell’attività imprenditoriale, e specie dei contratti con la clientela. In tutti questi rapporti negoziali è naturale e logico che subentri l’acquirente dell’azienda: cio risponde non soltanto al suo interesse ad acquisire un complesso pienamente operativo, ma anche all’interesse dei terzi contraenti ad avere, quale controparte contrattuale, il soggetto che continuerà nell’esercizio dell’impresa. La successione in tali rapporti contrattuali rappresenta dunque un effetto naturale e automatico del trasferimento dell’azienda e si determina ex lege, al momento in cui diviene efficace il trasferimento stesso. Si tratta pertanto di una previsione normativa che dregoa significativamente alla disciplina generale in tema di cessione del contratto. In primo luogo infatti il subentro dell’acquirente prescinde dalla volontà sua e del cedente e si verifica alla sola condizione oggettiva che si tratti di un contratto inerente all’azienda e non avente carattere personale. In secondo luogo, non è richiesto il consenso del terzo contraente: a prescindere dalla volontà di costui, dunque, il rapporto prosegue con il solo acquirente, che acquista la titolarità dei crediti scaturenti dallo stesso e ne assume i debiti, con integrale e immediata liberazione dell’alienante.

La successione riguarda però solo i contratti a prestazioni corrispettive, non ancora eseguite da nessuno dei due contraenti nel momento in cui si verifica il trasferimento dell’azienda. Vi è tuttavia una categoria di rapporti contrattuali, rispetto ai quali la regola della successione non opera, sì che essi continuano a far capo all’alienante: si tratta dei contratti a carattere personale, come visto. Non è tuttavia specificato in cosa consista tale connotato e la dottrina si è mostrata divisa nell’individuazione della fattispecie. Prevale tuttavia la tesi, secondo cui tali sarebbero i contratti nella cui stipulazione il terzo contraente abbia attribuito specifica rilevanza alle qualità personali della controparte, e dunque delll’alienante dell’azienda. La categoria non coincide però con quella, piu ampia, dei c.d. contratti stipulati intuitu personae, cioè dei contratti (mandato, ecc.) in cui genericamente rileva la persona del contraente; quelli esclusi ex art. 2558 sono solo quelli in cui la prestazione promessa dall’alienante è oggettivamente infungibile (per cui sarebbe impossibile l’esecuzione da parte dell’acquirente di una prestazione identica: es. il contratto avente ad oggetto la fornitura di un mobile di serie, ma decorato a mano personalmente dall’alienante) o soggettivamente infungibile (cioè in c ui la prestazione è considerata in concreto tale dalle parti, che ad es. avevano pattuito l’incedibilità del rapporto). La previsione normativa sin qui esaminata risulta ad ogni modo ampiamente derogabile dalle parti. Nel contratto traslativo dell’azienda, alienante ed acquirente possono escludere dalla succ essione, come si è osservato, uno o piu rapporti contrattuali, senza limite alcuno, a meno che non si tratti dei rapporti in forza dei quali il cedente consegue la disponibilità di un bene essenziale dell’apparato produttivo, poiché in tal caso verrebbe meno la stessa qualificabilità dell’operazione come trasferimento d’azienda. L’esclusione dalla successione comporta che il rapporto prosegua tra l’alienante e il terzo contraente. L’accordo tra le parti puo provocare anche, viceversa, il subentro dell’acquirente in un rapporto pur avente carattere personale, ma è necessario il consenso del terzo. Lo stesso art. 2558 predispone una tutela a favore del terzo contraente, riconoscedogli il diritto di recesso dal contratto, qualora sussista una giusta causa. Il diritto di recesso va esercitato nei confronti dell’acquirente, entro tre mesi dalla notizia del trasferimento e determina l’estinzione del rapporto, con efficacia ex nunc (non dunque il suo ritrasferimento al cedente). Esso è pero possibile solo in presenza di una giusta causa, ossia quando il terzo contraente possa invocare l’esistenza di ragioni oggettive che o stano alla prosecuzione del rapporto stesso con l’acquirente e che, evidentemente, debbono riguardare la sua persona o precedenti rapporti con il terzo medesimo (es. precaria situazione patrimoniale dell’acquirente o quando vi siano o vi siano state con i terzo controversie relative ad altri rapporti gia intercorrenti con il cessionario). In caso di recesso, lo stesso art. 2558 fa salva la responsabilità dell’alienante. Si tratta di una respoinsabilità nei confronti del terzo, per i danni che questi abbia subito per essere stato costretto a risolvere anticipatamente il contratto, che non costituisce tuttavia un caso di resp. oggettiva, ma in cui l’alienante incorre quando gli sia imputabile una culpa in eligendo, cioè una negligenza nell’individuazione del cessionario e quindi una insufficiente attenzione alla posizione e alle legittime aspettative del terzo contraente. Crediti e debiti inerenti l’azienda Diversa è la disciplina contenuta negli artt. 2559 e 2560; questi regolano la sorte dei crediti e debiti c.d. puri, cioè dei rapporti obbligatori di fonte extracontrattuale (il credito dell’alienante al risarcimento del danno arrecato da un terzo ad un autoarticolato dell’azienda; il debito al versamento dell’IVA), e di quelli di fonte contrattuale, quando residui esclusivamente una prestazione isolata, a favore o a carico del cedente (ad es., si applica l’art. 2560 e non l’art. 2558 al debito dell’alienante al pagamento del prezzo relativo alla fornitura di merce già consegnatagli; si applica l’art. 2559 e non l’art 2558 al credito vantato dal medesimo nei confronti di un fideiussore). Naturalmente, deve trattarsi sempre di crediti e debiti inerenti all’esercizio dell’azienda. Per i crediti, l’art. 2559 si limita a stabilire che il loro trasferimento diviene efficace nei confornti dei terzi, anche in assenza della notifica o dell’accettazione del debitore ceduto, con l’iscrizione nel registro delle

imprese dell’atto traslativo dell’azienda. Il debitore è comunque liberato, se paga in buona  fede all’alienante, ancorché ad iscrizione avvenuta. Per i debiti, l’art. 2560 dispone innanzitutto che l’acquirente ne risponde verso i creditori, se (ma solo se) essi risultano dalle scritture contabili obbligatorie. I quanto stabilita a protezione del terzo, la norma è senz’altro inderogabile dalle parti. In ogni caso, l’alienante continua a rispondere di tali debiti in solido con l’acquirente, a meno che i creditori non acconsentano alla sua liberazione; tale disposizione applica il principio generale in base al quale un creditore non puo vedere sostituita la persona del proprio debitore senza il suo consenso. La responsabilità dell’acquirente configura un’ipotesi di ac collo ex lege e presuppone che il cedente fosse un imprenditore commerciale medio-grande (come tale obbligato alla tenuta delle scritture contabili). Come si vede, entrambi gli artt. in esame disciplinano in realtà esclusivamente la sorte dei rapoprti obbligatori nei confornnti dei terzi, ma non si occupano in alcun modo dei rapporti interni tra cedente e cessionario. L’applicazione dell’art. 2559 presuppone che sia stata pattuita fra costooro la cesisone dei crediti, o l’acquirente succede in essi automaticamente come accade per i contratti? Occorre riflettere sulla ratio che sta alla base delle tre disposizioni in esame, e in questa prospettiva persuade la tesi della automatica successione del co ntinuatore dell’impresa nel piu ampio spettro possibile dei rapporti pendenti e dunque anche nei crediti e nei debiti. Va pero segnalato che è sostenuta anche la tesi contraria, secondo la quale l’acquisto dei crediti richiederebbe un patto di cessione e il subentro nei debiti un patto di accollo, come clausole del contratto di trasferimento dell’azienda. In ogni caso, l’alienante e l’acquirente possono liberamente regolare questi profili e normalmente è proprio ciò che accadrà. Usufrutto e affitto dell’azienda Si è visto che l’azienda puo essere oggetto, oltre che di atti traslativi, anche di negozi costitutitvi di un diritto di godimento sui beni che la compongono: di un diritto reale, e in tal caso si avrà concessione in usufrutto dell’azienda, o di un diritto personale di godimento, e in tal caso si avrà affitto della medesima. Anche in questo caso, non si tratta di nuovi tipi negoziali dist inti da quelli consueti: l’usufrutto potrà essere costituito mediante compravendita o donazione e via dicendo; un diritto personale potrà essere accordato mediante affitto o conferimento in società. Tuttavia, anche queste sono vicende giuridiche casualmente destinate a produrrre, attraverso la costituizione di un diritto su un bene (piu esattamente: di un apluralità di diritti, uno per ciascuno degli elementi del complesso, la continuazione dell’attività, sia pure a titolo provvisorio, da parte del beneficiario. Per questa ragione, la disciplina appositamente dedicatavi (2561 ss.) regola i diritti e i doveri facenti capo a tale soggetto, tra cui assume particolare rilievo il dovere di gestire l’azienda; si tratta di norme che vanno integrate con la disciplina porpria del tipo negoziale in concreto prescelto dalle parti e, nel caso di usufrutto, con quella contenuta negli artt. 978 ss. Sul piano formale, si applica inoltre integralmente l’art. 2556. L’IMPRESA NEL MERCATO L’insieme delle offerte degli imprenditori e delle domande d’acquisto della clientela prende il nome di mercato. L’azione dell’impresa sul mercato giustifica l’intoduzione di una serei di norme speicali, cje costituiscono una delle ragioni d’essere del diri tto commerciale. In linea generale, t utte queste norme sono poste a presidio di un corretto funzionamento del mercato: cosi che ciascuna impresa eserciti e sia ad un tempo esposta ad efficaci pressioni concorrenziali, tali da incentivare il costante adeguamento dell’offerta ai bisogni della clientela. L’ATTIVITA’ CONTRATTUALE D’IMPRESA Le norme speciali sui contratti di impresa

Permangono nel codice alcuni articoli specificamente dettati a tutela dell’interesse alla continuità dell’attività economica e alla organizzazione “seriale” dei suoi rapporti. Questo interesse si esprime anzitutto attraverso le norme che garantiscono la sopravvivenza del contratto al mutamento delle vicende personali dell’imprenditore. Così, in particolare l’art. 1330 prevede la conservazione dell’efficacia della proposta o dell’accettazione contrattuale da parte di un imprenditore “quando è fatta nell’esercizio della sua impresa se l’imprenditore muore o diviene incapace prima della conclusione del contratto”. Non a caso, l’art 1330 non si applica ai piccoli imprenditor i, la cui attività economica dipende dal mantenimento delle qualità personali dell’imprenditore stesso. La continuazione dell’esercizio dell’impresa avviene necessariamente anche in caso di trasferimento dell’azienda inter v ivos, nel qual caso è stato ritenuto che l’acquirente dell’azienda succeda non solo nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda in base all’art. 2558, ma anche nella proposta e nell’accettazione in base all’art. 1330. La specificità dell’interesse imprenditoriale si esprime inoltre nelle norme che tutelano l’esigenza di velocizzare e semplificare le trattative rendendo possibili contrattazioni serializzate e standardizzate. Sortto questo profilo si spiega in particolare anzitutto l’art. 1368, co.2, secondo cui nei contratti stipu lati da un imprenditore “le clausole ambigue s’interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui è la sede dell’impresa”. LE IMPRESE NEI RAPPORTI CON LA CLIENTELA Già si è evidenziata l’esistenza di principi particolari applicabili alla contrattazione d’impresa nei rapporti con i consumatori. Questi principi riflettono in linea di massima l’esigenza di proteggere il consumatore in quanto contraente debole. La debolezza del co nsumatore deriva non solo da ragioni economiche, ma anche da insufficiente possibilità di ponderazione delle clausole contrattuali e carenze di informazione in merito alle caratteristiche del contratto, dell’offerta delle imprese, e delle alternative disponibili. I contratti con i consumatori Funzione e presupposti della disciplina La codificazione del 1942 prendeva in considerazione questo problema in via generale (e non solo nei rapporti tra imprese e consumatori) negli artt. 1341-1342, che impongono la specifica sottoscrizione delle clausole predisposte da un contraente, tali da imporre alla controparte condizioni contrattuali particolarmente gravose, tipizzate dalla norma. Nelle ipotesi di contratti fra imprese e consumatori, il legislatore europeo ha previsto tecniche di tutela del contraente debole ispirate non a un principio formalistico di sottoscrizione e conoscibilità della clausola vessatoria, ma ad un principio sostanzialistico di invalidità di clausole squilibrate (c.d. clausole vessatorie). Questa disciplina presuppone anzitutto un contratto fra un professionista ed un consumatore, cosi come indicato dall’art. 33 del codice del consumo, che ha recepito le direttive europee sul tema. La nozione di professionista è contenuta nel codice del consumo, e in tale nozione vi rientrano non solo gli imprenditori, ma anche i lavoratori autonomi e i professionisti intellettuali. La disciplina presuppone ad un tempo che il contratto sia specificamente funzionale allo svolgimento della attività imprenditoriale e professionale. Anche la nozione di consumatore si rinviene nel codice del consumo, e ricomprende “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”. Non possono quindi rivestire mai il ruolo do consumatore le persone giuridic he. Le persone fisiche che svolgano attività d’impresa o di lavoro autonomo possono assumere la qualità di consuatori wuando stipulano per finalità estranee alla loro attività imprenditoriale (si pensi all’imprenditore che acquisti un elettrodomestico per la propria abitazione). In linea di principio, la disciplina di protezione del consumatore riguarda solo le clausole che non siano state oggetto di trattativa individuale (c.cons.).

Sono considerate vessatorie (e perciò nulle) sempre, anche se in concreto sono state oggetto di una trattativa, le clausole che escludono la responsabilità del profesisonista per danni al consumatore o per inadempimento totale o parziale; o ancora che estendano gli impegni contrattuali attraverso il rincio a clausole ulteriori di fatto non conoscibili (c.cons.). All’opposto, il legislatore esclude in radice che possano avere carattere vessatorio le clausole attinenti all’oggetto del contratto e all’adeguatezza del corrispettivo, purché individuati in modo chiaro e comprensibile (c.cons.). Le clausole vessatorie La disciplina dei contratti con i consumatori si incentra sul principio di nullità delle clausole vessatorie, come visto. La nozione di vessatorietà è ben più ampia di quella dell’art. 1341 -1342 c.c., e si incentra anzitutto sulla norma generale dell’art. 33, co.1, c.cons., secondo cui si considerano vessatorie le clausole che “determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, come accennato. I rimedi: nullità di protezione e azione inibitoria Gia si è visto che le clausole vessatorie inserite nei contratti con i consumatori sono invalide. Il legislatore ha previsto qui piu precisamente una particolare nullità di protezione, che opera soltanot a vantaggio del consumatore e puo essere rilevata d’ufficio dal giudice, mentre non puo essere fatta valere dal professionista. I costi giudiziali per ottenere una dichiarazione di nullità delle clausole vessatorie rischiano tuttavia di essere notevoli, cosi che il consumatore spesso preferisce dare esecizione al contratto squilibrato. Per questa ragione, il legislatore ha previsto una tutela preventiva in forma co llettiva dei consumatori contro l’utilizzazione di clausole vessatorie. In particolare, le associazioni dei consumatori e le stesse associazioni rappresentative dei professionisti (queste ultime evidentemente nell’interesse di chhi correttamente adotti modelli contrattuali equilibrati) possono convenire con un’azione inibitoria il professionista o le as sociazioni di professionisti che utilizzino o raccomandino l’utilizzazione dei contratti contenenti clausole squilibrate. Attraverso l’inibitoria il giudice ordina quindi la cessazione dell’utilizzo della clausola squilibrata, sollevando i singoli consumatori dall’onere di agire successivamente in nullità. Il giudice puo ordinare anche la pubblicazione del provvedimento inibitorio. Le pratiche commerciali La disciplina dei rapporti tra produttori e consumatori non si esaurisce nellle norme relative alle reciproche relazioni contrattuali, ma si estende ai comportamenti tenuti fin dal momento delle trattative e delle iniziative di promozione commerciale. Il legislatore impone in particolare a chi offre beni o servizi di tenere un comportamento corretto in qualsiasi contatto instaurato con i consumatori prima durante e dopo un’operazione commerciale relativa ad un prodotto ( c.cons.). Naturalemente è possibile che scorrettezze in fase di trattativa favoriscano la conclusione di un contratto contenente pattuizioni vessatorie, nel qual caso la disciplina delle sanzioni dei comportamenti sarà cumulabile a quella di invalidità delle clausole contrattuali. La disciplina del comportamento delle imprese nei rapporti con i consumatori è ispirata a un generale divieto di pratiche commerciali scorrette (c.cons.). La nozione di pratica commerciale è intesa dal legislatore in senso ampio, per ricomprendere qualsiasi contatto c on il consumatore, compresa la pubblicità del prodotto. Il divieto si applica ancora una volta in via generale a tutti i professionisti, e cioè non soltanto agli imprenditori, compresi dunque i lavoratori autonomi e i professionisti intellettuali. Il c. cons., come visto, definisce inoltre il consumatore come qualsiasi persona fisica che agisce per fini che non rientrano nelk quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale. La struttura della disciplina è particolarmente complessa. Il legislatore introduce anzitutto una clausola

generale di divieto di pratiche commerciali scorrette, come visto. Tipizza poi due tipologie di pratiche scorrette (che dunque dovrebbero avere carattere esemplificativo e non esaustivo): e precisamente le pratiche ingannevoli e le pratiche aggressive. All’interno di queste tipologie di pratiche il legislatore tipizza ulteriormente alcune sottotipologie di comportamenti considerati in ogni caso ingannevoli e aggressivi. La clausola generale di divieto di pratiche commerciali scorrette L’art. 20 c.cons. definisce scorrette le pratiche commerciali contrarie alla diligenza professionale ed idonee a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore. Il criterio della diligenza professionale impone ai professionisti il dovere di prestare il normale grado della specifica competenza e attenzione che ragionevolemtne i consumatori attendono. Il comportamento economico del consumatore risulta falsato quando la pratica commerciale altera sensibilmente la c apacità del consumatore di prednere una decisione consapevole inducendolo pertanto ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso. Le pratiche ingannevoli Il codice del consume tipizza una prima categoria di pratiche sleali costituita dalle pratiche ingannevoli. Queste pratiche costituiscono probabilmente la piu importante tipologia di comportamenti sleali, e rivestono particolare rilievo quando vengono poste in essere attraverso comunicazioni pubblicitarie. L’art. 21 c.cons definisce innanzitutto in via geerale le azioni ingannevoli, ricomprendendovi la comunicazione di informazioni non rispondenti al vero, nonché qualsiasi pratica che, seppur di fatto corretta, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio (si pensi alla comunicazione di informazioni veritiere ma incomplete, e perciò fuorvianti). Il legislatore, come visto, detta un lungo elenco di fattispecie concrete di pratiche considerate in ogni caso ingannevoli (es. false affermaizoni relative al diritto di utilizzare marchi di qualità). Il riconoscimento del carattere in ogni caso ingannevole di queste prstiche sembrerebbe escludere la possibilità di prova contraria e quindi impedisce ogni valutazione in ordine alle circostanze concrete dell’offerta e agli effetti sul consumatore. L’elenco delle pratiche commerciali vietate di per sé è da considerare esaustivo. Le pratiche aggressive Il codice del consumo tipizza una seconda categoria di pratiche scorrette in quanto aggressive. Si tratta essenzialmente di pratiche attuate attraverso molestie (di carattere fisico o psicologico) idonee a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore. L’aggressività deve essere valutata in base alle ragioni elencate dal c.cons.: ad es. alla persistenza delle molestie (si pensi alle continue sollecitazioni telefoniche), alla presenza di minacce, ecc. Il c.cons., come accennato, tipizza alcune fattispecie concrete di comportamenti considerati in ogni caso aggressivi, quali il trattenimento del consumatore nei l ocali del professionista, i tentativi di accesso nell’abitazione del consumatore, ecc. Il sistema sanzionatorio Il codice del consumo qualifica l’adozione di pratiche commerciali scorrette come illecito amministrativo. L’accertamento dell’illecito e l’applicazione delle relative sanzioni rientrano pertanto nella competenza di un’autorità amministrativa, indipendente dal governo, e precisamente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. La scelta di amministrativizzare la disicplina delle pratiche sleali risponde all’esigenza di evitare al consumatore i rischi e gli oneri processuali che questi dovrebbe sopportare per agire in via giudiziaria. i poteri sanzionatori dell’AGCM si esprimono anzitutto attraverso l ’inibizione della continuazione delle pratiche scorrette. L’autorità puo applicare inoltre sanzioni pecuniarie. I RAPPORTI TRA IMPRENDITORI

La disciplina dell’attività economica deve garantire un corretto equilibrio nei reciproci rapporti tra imprenditori. Il problema sorge in particolare nei sistemi ispirati al principio di libertà di concorrenza. Già si è visto che l’insieme delle offerte degli imprednitori e delle domande d’acquisto della clientela prende il nome di mercato. Il mercato è perciò essenzialmente un sistema in cui le decisioni relative alla domanda e all’offerta di prodotti e servizi sono lasciate all’autonomia dei singoli consumatori e imprese, e non vengono pianficate dal potere politico. La volontà dell’ordinamento di riconoscere e proteggere un sistema di mercato emerge dal’art. 41 Cost., secondo cui “l’iniziativa economica privata è libera”. In un tale sistema, da un lato occorre che la domanda e l’offerta si svolgano su un mercato trasparente e leale. La disciplina della concorrenza sleale mira allor aessenzialmente a vietare tentativi di creare e approfittare di situazioni di mercato non trasparenti, o di scorrette imputazioni di vantaggi e costi dell’iniziativa imprednitoriale. D’altro canto, l’ordinamento deve evitare che le imprese approfittino di situazioni di potere di mercato: e cioè situazioni in cui è assente una concorrenza effettiva; e per conseguenza le controparti debbono sopportare l’imposizione di o fferte sgradite, in assenza di alternative migliori. Il problema del contenimento del potere di mercato è alla base della disciplina antitrust. In ultima analisi, un analogo problema ispira alcune norme relative ai rapporti contrattuali tra imprenditori: come le norme sugli abusi di dipendenza economica, sul franchising, ecc. La concorrenza sleale Fonti e sistema La protezione contro gli atti di concorrenza sleale è imposta a l ivello internazionale dall’art. 10-bis della Convenzione d’Unione di Parigi per la protezione della proprietà industriale (CUP, ratificata dall’Italia). La Convenzione introduce una clausola generale che qualifica come atti di concorrenza sleale ogni atto di concorrenza contrario agli usi onesti in materia industriale o commerciale, e tipizza poi alcuni di questi atti. La concorrenza sleale è ulteriormente disciplinata dall’or dinamento italiano all’interno del codice civile, negli artt. 2598 ss. L’art. 2598 tipizza alcuni atti di concorrenza sleale corrispondenti a quelli dell’art. 10 -bis CUP: ed in particolare gli atti confusori e quelli screditanti. L’art. 2598 individua pooi un’ulteriore fattispecie di slealtà costituita dagli atti di appropriazione di pregi, e si chiude con una clausola generale di divieto di atti contrari ai principi di correttezza professionale. La disciplina del cc e quella del CUP paiono dunque per larga parte sovrapponibili. D’altro canto è stato sostenuto che la CUP non preclude la  possibilità per gli stati memebri di reprimere la concorrenza sleale secondo norme e principi piu rigorosi di quelli convenzionali. Dottrina e giurispriudenza non dubitano della conformità dell’art. 2598 all’art. 10-bis CUP, e nella pratica tendono a ricostruire la disciplina della concorrenza sleale richiamando direttamente soltanto la norma naizonale del codice civile. Interessi imprenditoriali e interessi dei consumatori La disciplina della concorrenza sleale regola conflitti fra imprenditori, ma impone di risolvere questi conflitti in relazione all’interesse generale ad un corretto funzionamento dei meccanismi di economia di m ercato, ulteriormente ricostruiti in base ai principi della costituzione economica. In questa prospettiva i principi di correttezza professionale debbono essere ricostruiti in base ai modelli di comportamento imprenditoriale meglio in grado di favorire l’adeguamento dell’offerta alle esigenze dei consumatori. Gli atti di concorrenza sleale rientrano ragionevolmente nella categoria piu generale degli illeciti extracontrattuali. E’ bene tuttavia ricordare alcuni elementi caratterizzanti gli atti di concorrenza sleale che non trovano riscontro nella disciplina generale dell’illecito. In particolare, gli atti di concorrenza sleale non presuppongono il dolo o la colpa. Dolo e colpa sono in particolare richiesti per l’applicazione del risarcimento del danno, ma non per i provvedimenti inibitori (come si vedrà). I soggetti. Il rapporto di concorrenza

La disciplina della concorrenza sleale presuppone la qualità di imprenditore tanto del soggetto attivo (autore dell’atto di concorrenza) quanto di quello passivo (danneggiato). Nell’ipotesi di atti compiuti da non imprenditori, idonei a danneeggiare attività di impresa, resta naturalmente ferma la possibilità di ricorrere all’applicazione dell’art. 2043. La natura di atto di concorrrenza sleale non dovrebbe tuttavia automaticamente comportarne una valutazione di illiceità anche sotto il diverso profilo aquiliano. Cosi ad es. un giudiczio critico contenente affermazioni screditantii per un’impresa di ristorazione costituisce tendenzialmente un atto di concorrenza sleale se posto in essere dal titolare di un’impresa concorrente, mentre non è di per sé illecito quando proviene da un consumatore, o da un giornalista che effetivamente esprima una propria autonoma opinione. La disciplina della concorrenza sleale presuppoone inoltre l’esistenza di un rapporto di concorrenza, che in via generale sussiste quando le imprese si rivolgano ad una clientela comu ne. L’esistenza di un rapporto di concorrenza deve essere dunque verificata anzitutto sotto il profilo merceologico, e ricorre quando i prodotti o servizi offerti sono idonei a soddisfare analoghi bisogni (un produttore di software non è ad es. certo in concorrenza con un produttore di alimentari). Il rapporto di concorrenza va inoltre verificato dal punto di vista territoriale, e presuppone che le imprese si rivolgano alla clientela di un medesimo luogo. Un’attività di rivendita di alimentari a Milano non è ragionevolmente in concorrenza con una analoga attività svolta a Palermo. Il luogo di attività deve poi naturalmente essere individuato non in relazioone agli stabilimenti dell’imprenditore, ma in base alla cli entela che egli raggiunge. I presupposti soggettivi di applicazione della disciplina della conorrenza sleale limitano corrispondentemente la legittimazione ad agire in giudizio. Questa legittimazione spetta in linea di pricnipio all’imprenditore concorrente, ed è reciprocamente esclusa in capo a chi non rivesta la qualifica imprenditoriale, o non si trovi in rapporto di concorrenza con l’autore dell’atto. E’ qjuindi da escludere la legittimazione ad agire dei consumatori, f ermo restando che l’interesse del consumatore assume comunque rilievo come parametro di valutaizone della prevalenza di uno od altro interesse imprenditoriale in conflitto, come visto. Le fattispecie confusorie La prima fattispecie di concorrenza sleale disciplinata dall’art. 2598, n.1, è costituita dall’utilizzazione di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o piu in generale dal compimento di atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente. La fattispecie, come visto, trova riscontro nell’art. 10-bis CUP, ed è riconducibile all’interesse generale alla trasparenza del mercato. L’art. 2598, n.1, tutela perciò tutti i segni distintivi tipizzati dall’ordinamento: in partiocolare la ditta, la ragione , l’insegna, ecc. Puo tuttavia proteggere altre tipologie di segni, quali ad es. la ditta irregolare, nonché eventuali segni distintivi atipici. L a disciplina concorrenziale assume cosi importanza centrale per definire i presupposti e l’ambito di protezione dei segni distintivi non registrati. In materia di marchi registrati, l’applicazione dell’art. 2598, n.1, è invece sostanzialmente assorbita dalla protezione ben piu ampia prevista dal codice della proprietà industriale (v. infra). La denigrazione L’art. 2598, n.2, prevede due ulteriori fattispecie di concorrenza sleale, costituite rispettivamente dagli atti di denigrazione e di appropriazione di pregi. La fattispecie della denigrazione ricomprende in particolare il comportamento di chi diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, e trova riscontro, come visto, nell’art. 10 -bis CUP. Ancorché il termine diffusione lasci a prima vista pensare ad una comunicazione rivolta alla generalità del pubblico, non vi è in realtà ragione di tollerare notizie screditanti comunicate ad un solo destinatario, ad es. attraverso l’invio di una lettera. Nell’attuale contesto prevlae una interpretazione della norma che privi legia l’interesse alla trasparenza del mercato. In questo contesto, la norma viene tendenzialmente riferita alle affermazioni screditanti false. S i

tende invece ad ammettere con maggior larghezza la diffusione di notizie vere, oggetivamente verificabili (e dunque, ad es. riferite a caratteristiche specifiche del prodotto). Una spinta verso il riconoscimento della legittimità di affermazioni (pur screditanti) veritiere è venuta dalle riflessioni in materia di pubblicità commerciale, che costituisce la forma piu rilevante di diffusione di notizie suscettibili di ricadere nel divieto dell’art. 2598 n.2. Il problema riguarda in particolare la c.d. pubblicità comparativa, che esalta le caratteristiche del proprio prodotto ttraverso un confronto con il prodotto concorrente, evidenziando le inferiori qualità di quest’ultimo. La pubblicità comparativa è ora consentita, purché basata su un confronto veritiero di caratteristiche oggettivamente verificabili. L’appropriazione di pregi La seconda fattispecie di concorrenza sleale disciplinata dall’art. 2598, n.2, riguarda l ’appropriazione di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente. Si tratta di un comportamento ancora una volta in contrasto con ii pricnipi di trasparenza del mercato, e che ricorre ad es. quando un imprenditore dichiara di avere ricevuto premi o riconoscimenti attribuiti invece ad altri; o ancora afferma di intrattenere rapporti commerciali con un’impresa particolarmente nota al pubblico, quando invece questi rapporti sono intrattenuti da terzi. Anche la fattispecie in esame presuppone in linea di pricnipio che il pregio venga vantato falsamente, mentre non si applica ad affermazioni veritiere. I principi di correttezza professionale L’art. 2598 si chiude al n.3 con una clausola generale di divieto di avvalersi “direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi di correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”. Funzione della clausola generale è evidentemente quella di non cristallizzare le tipologie di comportamenti contrari a correttezza, e di lasciarne al giudice la valutazione caso per caso. Tuttavia, la giurisprudenza ha elaborato una casistica di generali tipologie di comportamenti scorretti. a)La casistica dimostra anzitutto che la clausola generale è valorizzata per vietare comportamenti antitetici ai principi di trasparenza del mercato. Sono dunque vietate in base all’art. 2598, n.3, tutte le affermazioni ingannevoli relative al proprio prodotto o attività. L’ipotesi è normalmente definitia in termini di concorrenza sleale per mendacio, e ad essa fa riferimento anche l’art. 10-bis CUP. La falsità o ingannevolezza delle affermazioni è alla base anche della concorrennza sleale per denigrazione ed appropriazione di pregi. Il mendacio ora considerato non fa tutta via riferimento ai prodotti di uno o piu concorrenti determinati, ma consiste in dichiarazioni relative esclusivamente all’attività o al prodotto proprio, presentato con false caratteristiche positive. La legittimazione a lamentare l’illecito è quindi riconosciuta in capo a tutti i concorrenti, non soltanto a quelli che offrono prodotti o servizi dotati delle caratteristiche falsamente vantate dall’autore dell’atto. Le ipotesi di concorrenza asleale per mendacio costituiscono ad un tempo pratiche commerciali ingannevoli discipkinate dagli artt. 21 ss. Del codice del consumo. La disciplina della concorrenza sleale e rispettivamente delle prartiche ingannevoli vengono cosi a sovrapporsi, e consentono l’esercizio di autonome azioni a tutela di interessi diversi (de concorrenti e rispettivamente dei consumatori), e sottoposte alla competenza di organi diversi (dell’autorità giudiziaria ordinaria in materia concorrenzaile e dell’AGCM in materia di pratiche ingannevoli, v. supra.). b) Nella casistica giurisprudenziale emeregono poi ulteriori ipotesi che in ultima analisi riflettono una scorretta imputazione dei costi e dei benefici dell’attività imprenditoriale. La scorrettezza puo anzitutto derivare dalla violazione di norme di diritto pubblico che introducono limiti e costi allo svolgimento dell’attività di impresa. La violazione di queste norme consente infatti di realizzare opportunità di guadagno (si pesni alla violazione della disciplina di apertura degli esercizi commerciali) o di sottrarsi a fattori di costo (si pesni alla violazione di norme tributarie) contrarie al modello di mercato che il legislatore riconosce e protegge.

c) Fuori dei casi di particolari interessi riconosciuti e protetti da norme di diritto pubblico, in via generale il corretto funzionamento del mercato presuppone che il soggetto responsabile di decisioni imprenditoriali ne sopporti i relativi costi e benefici. In questa prospettiva appaiono scorretti gli atti intesi a trarre profitto da altrui iniziative imprenditoriali, o a scaricare sui terzi i costi delle prorpie decisioni. Un primo esempio in tal senso è rappresentato dagli atti di spionaggio industriale, con cui un imprenditore cerca di venire a conoscenza dei segreti tecnici o commerciali di un concorrente, e cosi di risparmiare costi di investimento in ricerca, sviluppo o organizzazione. Piu in generale la sottrazione di segreti puo avvenire scorrettamente non soltanto attraverso atti di vero e proprio spionaggio, ma anche grazie alle rivelazione di dipendenti e collaboratori del concorrente, che pongono spesso termine al rapporto con il datore di lavoro per potere sfruttare a proprio vantaggio le informazioni ricevute. d)Puo in alcuni casi costituire illecito concorrenziale il c.d. storno di dipendenti, e cioe l’iniziativa diretta a sottrarre lavoratori al concorrente promettendo loro migliori condizioni di retribuzione e mansioni. Qiesto comportamento puo risultare illecito specialmnte quando l’offerta di migliroi condizioni contrattuali sia resa possibile dal risparmio di costi di formazione che abbiano fatto acquisire al personale particolari esperienze. Sanzioni e processo La violazione della disciplina della concorrenza sleale comporta l’applicazione delle sanzioni degli artt. 2599-2600. Riveste importanza centrale l’azione inibitoria, e cioe l’ordine del giudice di cessare dalla continuaizone dell’illecito (art. 2599). Lo stesso ordine puo disporre gli opportuni provvediemtni per eloiminare gli effetti dell’atto (si pensi ad es. alla cancellazione dei segni distintivi illegittimamente apposti). Il risarcimento del danno puo essere richiesto in caso di atti dolosi o colposi, conformemente al principio generale dell’art. 2043, ma la disciplina concorrenzaile prevede da questo punto di vista una agevolaizone dell’onere probatorio, in quanto accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume (art. 2600). Nelle ipotesi in cui puo essere pronunciato il risarcimento del danno puo inoltre essere ordinata la pubblicazione della sentenza (art 2600). La tutela della libertà di concorrenza: la disciplina antitrust I fondamenti economici della disciplina. Antitrust e regolamentazione La disciplin relativa alla libertà di concorrenza, frequentemente etichettata con il termien ango lsassone “antitrust”, si propone essenzialemnte di contrastare il potere di mercato delle imprese. L’espressione potere di mercato fa riferimento alle situazioni in cui una o piu imprese so sottraggono alla pressione concorrenziale, e sono quindi in grado di imporre livelli di prezzi piu elevati, o di peggiorare la qualità dei prodotti, senza subire contraccolpi derivanti dalla perdita di clientela. La disciplina antitrust cerca in partciolare di impedire alle imprese di creare artificiosamente un potere di mercato attraverso intese restrittive delal concorrenza o operazioni di concentrazione; cerca inoltre di impedire lo sfruttamento abusivo del potere di mercato da parte delle imprese che abbiano acquisito una posizione dominante. Il diritto antitrust concente invece l’acquisizione di posizioni dominanti, e del relativo potere di mercato, derivante dalla crescita interna delle imprese e dalla loro capacità di prevalere nella competizione. Antitrust europeo e antitrust nazionale: fonti e autorità La disciplina antitrust trova la propria fonte princiupale non nel diritto interno, ma nelle norme dell’Uni one europea: e precisamente nel Trattato su funzionalmento dell’Unione europea; e nel Regolamento CE 139/2004 sulle concentrazioni. I meccanismi di applicazione del diritto antitrust alle intese e agli abusi di posizione dominante sono poi dettagliatamente disciplinati dal Regolamento CE 1/2003. Il legislatore nazionale ha in gran parte ricalcato la normativa europea con la l . 287/1990 (legge antitrust). La legislazione nazionale si applica tuttavia soltanto alle fattispecie restrittive della concorrenza che non

pregiudicano il commercio fra stati membri dell’UE, nonché alle concentrazioni che non superano le soglie di fatturato previste a livello europeo. In presenza di pregiudizio al commercio tra stati membri dell’UE, o in caso di superamento delle soglie sogli e previste a livello europeo, l’applicaizone della disicplina europea esclude quella della normativa italiana. Il sistema si ispira ocsi al principio della barriera unica: per il quale gli atti restrittivi della concorrenza ricadono alternativamente nell’ambito nell’a mbito della disciplina europea o in quello nazionale, ma non possono essere assoggettati contemporaneamente ad entrambi ii sistemi. In questa prospettiva la legislazione nazionale finisce per avere un ambito di applicazione residuale. I meccanismi di applicaizone applicaizone del diritto antitrust (enforcement) vedono l’i ntervento di diverse autorità europee e nazionali. Sotto un primo profilo, l’accertamento degli illeciti antitrust puo avvenire in via amministrativa da parte di autorità dotate di incisivi poteri di iniziativa in iziativa (anche d’ufficio) e di acquisizione del materiale probatorio. Queste autorità possono applicare sanzioni pecuniarie ed ed ordinare la cessazione dell’infrazione (c.d. public enforcement). Competente all’applicazione i n via amministrativa del diritto antitrust europeo è anzitutto la Commissione. Il regl. 1(2003 ha tuttavia attribuito in via generale anche alle autorità nazionali di controllo della concorrenza il potere di accertare la violazione delle norme europee antitrust in materia di intese e di abusi di posizione dominante, e di sanzionarne la violaizone secondo la disicplina di diritto interno. In Italia la f unzione di autorità di controllo della concorrenza è svolta dall’autorità garante delal concorrenza e del mercato, istituita dalla l.at. L’Autorità L’ Autorità garante è dunque competente ad applicare in via amministrativa tanto il diritto europeo (competenza concorrente a quelal della Commissione) quanto il diritto nazionale (competenza esclusiva, salvi i poteri delle autorità giudiziarie in materia di private enforcement). enfo rcement). Sotto un secondo profilo, l’accertamento delle violazioni del diritto antitrust puo avenire in via privatistica da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria, secondo le regole del processo civile, su iniziativa della parte interessata ad accertare la nullità dei contratti conclusi in violaizone della disciplina della concorrenza, o ad ottenere il risarcimento del danno subito (c.d. private enforcement). In tali casi le autorità giudiziarie degli stati membri sono competenti a giudicare tanto le azioni fondate sul diritto antitrust UE, quanto le azioni fondate sulla violaizone delle norme nazionali. L’azione civile puo anche sovrapporsi al procedimento amministrativo, ma i giudici naizuonali devono evitare id prendere decisioni in contrasto con qelle adottate dalla Commissione. I soggetti La normativa sulla concorrenza si applica ai comportamenti delle imprese. Il diritto antitrust ricomprende tuttavia una nozione di impresa allargata, fino a ricomprendere fenomeni in passato sotricammente esclusi dalla definizione dell’art. 2082. La nozion di impresa ricomprende sostanzialmente qualisasi attività economica, ivi compresa quella dei lavoratori autonomi e dei liberi pr ofessionisti. Effetti restrittivi e mercato rilevante Gli effetti restrittivi della concorrenza concor renza non possono essere apprezzati in assoluto, ma devono essere valutati relativamente ad un mercato per il quale si ritiene opportuno preservare condizioni di competitività. Nella terminologia del diritto antitrust, al questione riguarda riguard a la determinazione del “mercato ril evante” per la valutazione di effetti restrittivi e di posizioni dominanti. Il mercato rilevante viene circosscritto in relazione a due fattori fondamentali: il fattore geografico ed il fattore merceologico. Il mercato geograficamente rilevante è delimitato dal territorio in cuo le condizioni di concorrenza sono omogenee e sensibilmente diverse da quelle dei territori contigui. La disomogeneità delle condizioni di concorrenza puo ad es. derivare dai costi di trasporto, che ostacolano la circolazione dei prodotti e rendono dunque possibili differenze di prezzo nella varie zone, da tradizioni linguistiche (si pensi al mercato dei servizi televisivi), ecc. Il mercat merceologico è invece limitato dalla tipologia dei prodotti o servizi reciprocamente sostituibili. Le autorità europee tendenzialmente verificano questa sostituibilità in relazione alla domanda die consumatori. Appartengono quindi allo stesso mercato rilevante i prodotti o servizi che i consumatori sono

disponibili ad acquistare per fare fronte ad un incremento del prezzo di alcuni di essi (es. le aranciate e le cole rientrerebbero in un unico mercato rilevante qualora risultasse che un inc remento del prezzo delle cole determina uno spostamento della domanda dei co nsumatori verso le aranciate). Le pratiche restrittive della concorrenza. Le intese: nozione Già si è visto che la disciplina antitrust europea e nazionale prevede tre foondamentali tipologie di pratiche restrittive delal concorrenza: le intese, gli abusi di posizione dominante e le operazioni di concentrazione. la disciplina in materia di intese è contenuta nell’art. 101 TFUE, e nei corrispeondenti artt. 2 e 4 l.at. Il divieto di intese vuole in via generale impedire pratiche di concertazione dei comportam enti. L’intesa rappresenta perciò un esercizio di potere di mercato in forma congiunta da parte dlele imprese aderenti all’accordo, nel loro interesse e in danno dei consumatori. Il divieto ricomprende percio tutte le fomre di concertazione, indipendentemente dal loro car attere giiuridicamente vincolante. Oltre ai veri e propri contratti, rientrano dunque nel divieto le decisioni di associazioni di imprese, quali consorzi e oorganizzazioni rappresentative di interessi di categoria (ivi compresi gli ordini professionali); nonché le pratiche concordate, costiuite da accordi privi di valore contrattuale, ma di fatto osservati spontanemente. La nozione di pratica concordata ricomprende altresì gli scambi di informazioni in ordine alle rispettive strategia imprenditoriali (es. politiche di prezzi e sconti), che presuppongono l’intenzione di evitare guerre commerciali per l’incremento di quote di fatturato. Non costituiscono oinvece intese i comportamenti paralleli riconducibili a valutazioni di covenienza operate autonomamente da ciascuna singola imprresa, indipendentemente da scambi di infor mazioni (c.d. parallelismo consapevole). Il fenomeno è frequente soprattutto sui mercati oligopolistici. In tali casi è al piu immaginabile che il parallelismo consapevole determini una posizio ne dominante collettiva (v.infra). L’intervento antitrust nei confrotni delle intese presuppone presuppone infine che il pregiiudizio alla concorrenza si manifesti in misura sensibile. La Commissione ha al riguardo emanato una comunicazione sugli accordi di importanza minore, secondo cui accordi relativi a quote di mercato inferiori al 10 % tendenzialmente non risultano pregiudizievoli per la concorrenza, a meno che non facciano parte di una rete paralela di accordi dotati cumulativamente di effetti restrittivi. Il divieto di intese restrittive della concorrenza si applica non solo agli accordi fra imprese operanti akllo stesso livello economico (cc.dd. intese orizzontali), ma anche a quelli fra imprese operanti a diversi livelli economici della catena di produzione e distrubizione (es. fra un venditore ed i suoi distributori, cc.dd. intese verticali). Le tipologie di intese vietate Gli artt. citati del TFUE e della l.at. contengono una elencazione delle tipologie di intese vietate, che ha tuttavia carattere esemplificativo e contiene le ipotesi statisticamente piu frequenti di violaizioni. Sono in particolare vietate: a) le intese consistenti nel fissare direttamente o indirettamente i prezzi di acquisto o di vendita ovvero altre condizioni di transazione; b) le intese dirette a limitare o controllare la produzione; l’ipotesi tipica è qui quella di un’intesa che vieta alle parti di vendere prodotti in quantità superiore ad un limite massimo; c) le intese dirette a ripartire i mercati; l’ipotesi puo riguardare ad es. un’intesa che imponga ai partecipanti la vendita sui rispettivi mercati nazionali impedendo le esportazioni verso l’estero; d) le intese dirette ad applicare, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni dissimili per prestazioni prestazioni equivalenti, cosi da determinare per questi ultimi uno svantaggio nella concorrenza; l’ipotesi puo ricorrere ad es. in un accordo fra un produttore e i suoi grossisti distributori che consenta di praticare sconti ai soli dettaglianti i quali ad un tempo si impegnino a non rivendere prodotti concorrenti a quello scontato; e) le intese dirette a subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro, natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano lacun nesso con

i contratti stessi; l’ipotesi puon ricorrere ad es. in un accordo fra un produttore di computer e i suoi distributori che impegni questi ultimi a rivendere i computer solo unitamente ad un pacchetto software di videoscrittura. Le esenzioni al divieto di intese Alcune intese, pur restrittive della concorrenza, possono essereesentate dai divieti antitrust qualor a risultino idonee a produrre effetti positivi di efficienza economica. Gli artt. citati del TFUE e della l.at. prevedono in particolare al possiblità di esentare dal divieto le intese che contribuiscono a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico. Le norme richiedono tuttavia che questi miglioramenti riservino agli utilizzatori (e perciò anzitutto ai consumatori) una congrua parte dell’utile che ne deriva. Cosi ad es. un accordo di ricerca e sviluppo in comune puo produrre effetti di efficienza in quanto idoneo a ripartire i relativi costi di investimento, ma puo beneficiare ddell’esenzione dal divieto antitrust solo se contemporaneamente comporta una diminuzione dei prezzi praticati ai consumatori (o un incremento della qualità dei prodotti). Il milglioramento della produzione e il beneficio per gli utilizzatori sono spesso definite come condizioni positive di esenzione. Ad esse si aggiungono a ggiungono due condizioni negative. L’intesa da un lato deve evitare restrizioni che non siano indispensabili al miglioramento della produzione. Cosi ad es. un accordo di ricerca e sviluppo in comune puo produrre effetti positivi evitando duplicazioni dei relativi costi, ma non legittima restrizioni alla libertà di determinare i prezzi di vendita dei prodotti derivanti dalle attività comuni. D’altro canto, l’intesa non deve dare deve dare alla imprese partecipanti la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti. Occorre quindi che le imprese partecipanti all’accordo non coprano quote di mercato talmente elevate da rendere inefficace la pressione concorrenziale esercitata da imprese terze. La posizione dominante La seconda fatttispecie anticoncorrenziale disciplinata dall’ordinamento antitrust europeo e nazionale è costituita dallo “sfruttamento abusivo da parte di una o piu imprese di una posizione dom inante sul mercato” (cosi i citati artt. TFUE e l.at.). Il divieto di abuso di posizione dominante presuppone dunque la legittimità del conseguimento di posizioni dominanti, che l’ordinamento accetta in quanto siano frutto di maggiore efficienza imprenditoriale. La posizione dominante consiste essenzialemnte in un potere di mercato che consente al suo titolare t itolare di tenere comportamenti indipendenti: e cioè cioè comportamenti (ad es. tipicamente aumenti di prezzi) che non espongono al rischio di perdita di fatturato a vantaggio dei concorrenti. Corrispondentemente, lo sfruttamento della posizione dominante si esprime attraverso comportamenti unilaterali delle imprese, indipendentemente da qualsisasi intesa. Il comportamento unilaterale puo essere imputabiule anche collettivamente a piu imprese, quando si esprime attraverso condizioni di offerta uniformi praticate non a seguito di una concertazione, ma in base ad autonome e parallele valutazioni di convenienza economica (c.d. parallelismo consapevole). Anche questa ipotesi è presa in considerazione dalle citate normea in materia di abuso di posizione dominante, che vietano lo sfriuttamento abusivao di posizione dominante “da parte di una o piu imprese” (c.d. posizione dominante collettiva). Gli abusi di posizione dominante I citati artt. del TFUE e della l.at. contengono una elencazione di ipotesi di sfruttamento abusivo di posizione dominante, in larga parte corr spondente a quella contenuta nella norma sulle intese. S i tratta ancora una volta di una elencazione di carattere c arattere esemplificativo. L’elencazione descrive le ipotesi di abuso piu frequenti. L’abuso puo in parti colare consistere: a) nell’imporre direttamente o indirettamernte prezzi d’acquisto, di vendita od altre condizioni di transazione non eque; si pensi al monopolista delle rete ferroviaria che pretende przzi eccessivi per consentire il transito di treni di altre imprese di trasporto;

b) nel limitare la produzione a danno dei consumatori; rientrano nelle ipotesi in esame anche i comportamenti diretti a provocare l’uscita id imprese dal mercato, ad es. attraverso atti di boicottaggio; c) nell’applicare nei rapporti commerciali con gli altri contraenti condizioni dissimili per prestaizoni equyivalenti, determinando cosi per questi ultimi uno svantaggio per la concorrenza; l’ipotesi puo ricorrere ad es. per gli sconti fedeltà, proporzionati al mancato acquisto di prodotti concorrenti; si pensi ad uno sconto applicato a chi acqusiti un quantitativo di 100 pezzi, e contemporaneamente non si rifornisca dai produttori concorrenti; e viceversa non applicato achi acquisti un quantitativo di 1000 pezzi, ma ad un tempo si rifornisca anche da produttori concorrenti; d) nel subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazi oni supplementari, che, per lorro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi; l’ipotesi puo ricorrere ad es. in caso di imposizione all’acquirente di un macchinario l’obbligo di avvalersi esclusivamente dei servizi di riparazione e assistenza prestati dal fornitore. Le concentrazioni La terza fattispecie disciplinata dall’ordinamento antitrust europeo e nazionale è costituita dalle operazioni di concentrazione restrittive della concorrenza. La disciplina europea delle concentrazioni si ritrova non nelle norme del Trattato, ma in un apposito regolamento 139/2004. La disciplina nazionale si ritrova ancora una volta nella l.at. Le concentrazioni rilevanti sul piano concorrenziale si realizzano attraverso qualsiasi operazione idonea a determinare una modifica duratura del controllo , per effetto della quale imprese precedentemente indipendenti vengono assoggettate ad un potere di direzione unitario. La nozione concorrenziale di controllo fa leva sulla possibilità di esercitare un’influenza determinante sull’attività di impresa. Sul piano concorrenziale non rileva invece al tecnica giuridica utilizzata per modificare il controllo delle organizzaizoni produttive. Le operazioni di concentrazione possono in particolare realizzarsi attraverso fusioni societarie, acqusiti di partecipazioni, trasferimenti di aziende o relativi rami, ecc. A differenza delle intese, le operazioni di concentrazione dovrebbero perseguire obiettivi di razionalizzazione produttiva e diminuziuone di costi. Gli obiettivi di efficienza sottostanti alle concentrazioni giustificano la scelta del legislatore antitrust di intervenire non a fronte di qualsiasi oiperaizone astrattamente idoena a restringere la concorrenza (come avviene per le intese), a solo quando il fatturato delle imprese coinvolte supera alcuni valori c ritici. Le soglie di fatturato che determinano l’intervento delle autrità antitrust sono fissate a diversi lievelli dal legislatore europeo e dal legislatore nazionale. Il superamento dei livelli fissati dal legislatore europeo determina l’appplicazione del reg. 139/2004, e reciprocamente esclude l’applicazione della normativa italiana (c.d. concentrazioni di dimensione europea). Il superamento delle soglie fissate dal legislatore nazionale determina l’appòlicazione della legge italiana, se ed in quanto i limiti di fatturato restino al di sotto di quelli fissati da reg. 139/2004 (c.d. concentrazioni di dimensione nazionale). Al di sotto delle soglie di rilevanza fissate dal legislator e nazionale, l’operazione sfugge al controllo delle autoorità antitrust. Le operazioni che rientrano nelle soglie di rilevanza del diritto europeo o naizonale debbono essere oggetto di una notificazione preventiva alla Commissione (per le operazioni di dimensione europea) o all’AGCM (per le operazioni di dimensione nazionale). L’obbligo di notifica consente di prevenire la realizzazione di operazioni restrittive della concorrenza, difficielmente eliminabili ex post. L’inosservanza di questo obbligo costituisce di per sé un illecito, sanzionnato indipendentemente dalla ulteriore valutazione degli eventuali effetti anticoncorrenziali. Il procedimnto avviato dalla notifica si conclude con una decisione della Commissione o dell’AGCM che verifica la compatibilità dell’operazione con la disciplina della concorrenza. I criteri di valutazione sono leggermente diversi nel sistema europeo ed in quello italiano. Il divieto europeo è piu ampio, in quanto potrebbe estendersi ad operazioni che, pur non raffrozando o costituendo una vera e propria posizione dominante, determinano una significativa contrazione del numero di imprese indipendenti.

Profili procedimentali e sanzionatori Già si è visto che l’accertamento delle violazioni del diritto antitrust e l’applicazione delle relative sanzioni puo avvenire parallelamente in via amministrativa (public enforcement) e giurisdizionale (private enforcement). La Commissione e l’AGCM esercitano i loro poteri sanzionatori attraverso l’applicazione di pene pecuniarie (ammende). Commissione e AGCM dispongono inoltre di poteri inibitori in ordine alla continuazione dell’illecito, nonché di ripristino della concorrenza. In alternativa, le autorità di controllo della concorrenza possono accettare gli impegni proposti dalle imprese ed idonei ad eliminare gli effetti restrittivi del comportamento. Il procedimento giurisdizionale di applicazione del diritto antitrust si svolge davanti ai giudici dei paesi memebri. L’azione giudiziaria mira ad ottenere l’accertamento della nullità delle intese restrittive della concorrenza (si pensi ad un distributore interesssato a fare valere la nullità di un accordo di acquisto esclusivo concluso con un produttore, per potere liberamente rifornirsi da produttori concorrenti). La l.at. menziona inoltre l’azione diretta ad ottenere il risarcimento del danno derivante da comportamenti anticoncorrenziali vietati dalla legge italiana: si pensi ad es. al danno subito dai consumatori che hanno pagato prezzi elevati per effetto dell’attuazione di un’impresa illecita, o di un’imposizione abusiva di prezzi non equi. una identica pretesa risarcitoria puo essere fatta valere anche a seguito della violazione della disciplina europea. Pur in assenza di previsione espressa, è da ritenere esercitabile in via giudiziale anche l’azione inibitoria. I contratti tra imprenditori e la tutela della parte debole L’abuso di dipendenza economica La disciplina dei rapporti fra imprenditori si caratterizza inoltre per la presenza di norme relative alle loro reciproche relazioni contrattuali. Si tratta in particolare di norme che si propongono di tutelare la parte debole del rapporto, presupponendo dunque ragionevolmente che situazioni di squilibrio contrattuale possano determinarsi non solo nelel relazioni fra imprese e consumatori, ma anche nelle relazioni imprenditoriali. Il principio di tutela della parte debole emerge cosi t rasversalmente come elemente unificatore della disciplina dei contratti di impresa: nei rapporti con i consumatori, e nei rapporti con gli altri imprenditori. Rilievo centrale assume la disciplina dell’abuso di dipendenza economica, contenuta nell’art. 9 della l. 192/1998. La norma si riferisce a qualsiasi situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La norma vieta in queste situazioni l’abuso da parte di una o piu imprese dello stato di dipendenza economica nel quale  si trovi un’impresa cliente o fornitrice. L’ipotesi puo ricorrere tipicamente quando un’impresa abbia dovuto sopportare investimenti specifici (es. per la realizzazione di impianti) in funzione dell’interesse a intraprednere relazioni contrattuali con un determinato partner. L’eccessivo squilibrio di diritti od obblighi ricorre dunque tendenzialemnte quando una parte miri ad imporre all’altra sacrifici tali da pregiudicare l’interesse alla remunerazione degli investimenti specifici. La disciplina degli abusi di dipendenza economica presenta profili di interferenza con quella degli abusi di posizione dominante. Essa tuttavia non presupponde una posizione dominante estesa all’intero mercato rilevante. L’art. 9 si preoccupa essenzialmente di impedire abusi su l micromercato delle relazioni contrattuali fra due imprenditori, all’interno del quale puo riscontrarsi una posizione di dominanza. La disciplina del franchising La l. 129/2004 contiene norme specificamente dedicate all’affiliazione commerciale nota col termine anglosassone franchising), che a loro volta si propongono di tutelare una parte imprenditoriale contrattualemtne debole, quale è considerato l’affiliato rispetto a ll’affiliante. La tutela della parte debole è

qui prevista con riferiemnto ad una relazione contrattuale specifica, costituita dal rapporto di affiliazione. Il contratto di affiliazione è definito dalla stessa l. 129/2004 , ed ha per oggetto il consenso dell’affiliante a che l’affiliato utilizzi, verso corrispettivo, un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale, in funzione dell’inserimento dell’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distruibuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni e servizi. Il contratto permete cosi di realizzare un sistema di distribuzione in cui i diversi distributori affiliati adottano uniformi metodi di promozione commerciale, e si identificano altrettanto uniformemente attraverso i segni distintivi dell’affiliante. L’adozione di questo sistema è frequente per le grandi catene di abbiagliamento, alberghiere e dei supermercati. La posizione di debolezza dell’affiliato deriva dalla necessità di quest’ultimo di sostenere investimenti specifici per organizzare la sua impresa di distribuzione, conformemente alle scelte di politica commerciale dettate dall’affiliante. L’affiliato in partioclare è esposto al rischio di cessazione del rapporto con l’affiliante. La cessazione del rapporti implica infatti per l’affiliato l’esigenza di ricostituire ex novo relaz ioni di vendita con diversi fornitori, ripensare la propria organizzazione produttiva, ristrutturare i propri locali per no incorrere in violazioni dei diritti sui segni distintivi dell’ex affiliante (si ooensi alal necessità di smantellare le insegne). Il legislatore introduce quindi a tutela dell’affiliato norme relative alla forma e contenuto del contratto, dirette a predefinire con certezza i rischi di investimeento e di cessazione del rapporto. La legge prevede inoltre obblighi di informazione e correttewzza diretti aprevenire la possiblità di esporre l’affiliato a rischi no previsti al momento dell’accordo. La l. 129/2004 impone che il contratto abbia forma scritta a pena di nullità. Impone inoltre che esso abbia una durata minima sifficiente all’ammortamento dell’investimento e comunque non inferiore a tre anni e la predeterminazione specifica di una serie di elementi che fortemente incidono sui rischi dell’affiliato: come l’esclusiva territoriale e si prevedono poi altri obblighi a carico dell’affiliante. I SEGNI DISTINTIVI: PROFILI GENERALI Interesse fondamentale sottostante all’attività imprenditoriale è quello di ciascun operatore economico a rendersi visibile presso il pubblico, distinguendosi rispetto ai concorrenti attraverso segni di identific azione. L’’ordinamento giuridico riconosce e tutela questo interesse attraverso una disciplina articolata, ora per larga parte ispirata a fonti internazionali e europee. Questa disciplina prende il nome di diritto dei segni distintivi. Il codice civile individua tre grandi tipologie di segni distintivi: e precisamente la ditta (artt. 2563 ss.), l’insegna (art. 2568) e il marchio (artt. 2568 ss.). La disciplina del cc relativa ai marchi si limita tuttavia a poche norme di principio. Essa è in realtà dettagliatamente contenuta nel codice delle proprietà industriale (c.p.i.). In Italia sono inoltre protetti marchi registrati con effetto nell’intera Unione europea (marchi comunitari), disciplinati dal regolamento sul marchio comunitario (RMC). Secondo la tradizionale classificazione la ditta è il segno di identificazione dell’imprenditore nella propria attività d’affari, e perciò sostanzialmente il suo nome commerciale; l’insegna è il segno distintivo del locali utilizzati dall’imprenditore per lo svolgimento della sua attività; il marchio è il segno distintivo del prodotto. La funzione distintiva I concetto di distinzione Dal punto di vista giuridico, la tutela dei segni distintivi presuppone l’interesse ad identificare alcuni elementi o risultati dell’attività di impresa, garantendo la presenza di caratteristiche comuni ad essi. Il problema della funzione distintiva giuridicamente protetta La disciplina dei segni distintivi ruota intorno ad un minimo comune denominatore costituito dal principio di esclusività di uso del segno in capo ad uno ed uno solo imprenditore. Il principio di esclusività esprime la volontà dell’ordinamento di riconoscere e proteggere l’interesse ad indentificare il soggetto che ha assunto

determinate scelte imprenditoriali. La riferibilità ad uno ed un solo soggetto costuituisce dunque la caratteristica comune ai momenti o risultati dell’attività imprenditoriale dell’attività imprenditoriale identificati dalla presenza di un medesimo segno distintivo. La funizone distintiva cosi ricostruita appare cosi trascversale alla ditta, all’insegna ed al marchio. La trasversalità di questa funzione è del resto coerente alla possibilità, pacificamente ammessa, che uno stesso segno venga utilizzato tanto come nome commerciale (ditta, ragione o denominazione sociale), quanto come insegna e marchio. Cosi ad es. il segno FIAT. D’altro canto, la trasversalità della funzione distintiva giustifica la ricostruzione di principi generali comuni a ditta, insegna e marchio. Presupposti e ambito di protezione dei segni distintivi Capacità distintiva Già si è visto che la funzione distintiva giuridicamente riconosciuta e protetta si esprime attraverso l’identificazione di scelte imprenditoriali riferibili ad un unico soggetto. Cio non esclude l’esistenza di segni utilizzati da una pluralità di imprenditori e che hanno una funzione distintiva ulteriore, esrtranea all’ambito di protezione dell’ordinamento, e perciò insuscettibile di formare oggetto di diritti esclusivi. Si pensi ad es. al termine “lavanderia”. Questo termine ha in senso ampio un significato distintivo di una attività dotata di particolari caratteristiche. L’ordinamento vule tuttavia che i n questo significato il termine sia liberamente utilizzaile dalla generalità degli imprenditori, in quanto strumento necessario per comunicare al pubblico lo svolgimento di una tipologia di attività. Nel linguaggio giuridico l’espressione “capacità distintiva” denota perciò la capacità del segno di identificare scelte riferibili ad uno ed un solo imprenditore, e vale a contrapporre questi segni a quelli privi di carattere distintivo liberamente utilizzabili dalla generalità degli imprenditori. La piu importante categoria di segni privi di carattere distintivo è costituita dai nomi generici e descrittivi (si pensi al precedente esempiuo del termine lavanderia) di prodotti e attività. La capacità distintiva costituisce dunque il primo requisito di tutela del segno. Il requisito della capacità distintiva non puo essere inteso in senso assoluto, ma va valutato relativamente alla tipologia di attività e prodotti per cui il segno viene utilizzato. Es. il segno “diesel” non puo costituire un valido marchio per automobili, rivestendo esso evidentemente carattere descrittivo di una tipologia di motore che puo essere prodotto da differenti imprenditori. Il medesimo segno puo i nvece costituire vaido marchio di prodotti di abbigliamento, che no possono avere alcuna c aratteristica merceologica appartenente al genere descritto dal termine “diesel”. Confondibilità La funzione distintiva assume ulteriore rilievo dal punto di vista della valutazione del conflitto tra segni. Il pubblico puo non memorizzare perfettamente gli elementi del segno distintivo, o comunque puo non prestare attenzione a differenze di dettaglio: il legislatore perciò tendenzialmente vieta l’utilizzazione di segni anche soltanto simili da parte di imprenditori diversi. In questa prospettiva il concetto di somiglianza, che puo risultare evanescente, viene generalmente concretizzato in relazione all’interesse alla distinzione nei confornti del pubblico: cosi che la somiglianza assume giuridico rilievo se ed in quanto idonea ad indurre il pubblico a credere erroneamente che segni simili siano utilizzati dal medeismo imprenditore. Nel linguaggio giuridico, il principio cosi ricostruito si esprime in termini di divieto di utilizzazione confusoria dei segni distintivi. il principio di non confondibilità rileva inoltre come requisito di tutela del segno. I segni che risultano confondibili con anteriori segni altrui non meritano infatti evidentemente alcuna protezione da parte dell’ordinamento. Sotto questo profilo la confondibilità è in particolare considerata dalla legge marchi come motivo di assenza di novità. Il principio di non confondibilità implica poi ulteriormente che segni simili o addirittura identici possono essere utilizzati da imprenditori diversi nell’ambito di attività a loro volta differenti, che i consumatori non riferiscono ad un unico imprenditore, come visto. In questa prospettiva la protezione del segno non è

assoluta ma relativa al settore merceologico di utilizzazione (c.d. principio di relatività della tutela). Il principio di relatività della tutela non si applica in realtà rigidamente. Questo principio è in particolare entrato in crisi nell’economica moderna, a seguito della tendenza imprenditoriale a cercare di sfruttare il valore pubblicitario di un segno distintivo anche in settori merceologicamente assai distanti (si pensi al marchio Armani, utilizzato non soltanto per abbigliamento, ma anche per orologi). Durante lo studio della disciplina dei marchi emergerà allora la tendenza ad estendere la tutela ben al di là dei tradizionali confini dell’affinità merceologica. Usi potenziali e registrazione del segno Il principio di confoondibilità precedentmeente ricostruito pone alcuni problemi di applicazione con riferimento agli usi meramente potenziali del segno. Cosi ad es. è possibile che un segno distintivo utilizzato da un determinato imprenditore sia conosciuto soltanto ad una parte del pubblico o del mercato, magari in circoscritte aree territoriali diverse; e che un segno distintivo uguale o confondibile venga utilizzato da un terzo presso un pubblico differente, tipicamente in areee territoriali diverse. In queste situazioni un rischio di co nfusione puo attualmente non determinarsi, ancorché il segno risulti utilizzato per prodotti o servizi identici o affini. Ad un tempo tutavia una disciplina orientata a valorizzare soltanto i rischi di confusione attuali presenta una serie di inconvenienti: perché l’utilizzazione dei segni è sempre potenzialmente estensibile e suscettbile di sovrapporsi presso le medesime aree territoriali e di pubblico, ecc. L’ordinamento ha scelto di tutelare gli interessi da ultimo delineati essenzualmente attraverso lo strumento della registraizone del segno distintivo. Di qui la grande distinzione fra segni distintivi registrati e non registrati. I marchi costituiscono l’unica tipologia di segni registrabili in funzione dell’interesse ad acquistare una tutela estesa a rischi d i confusione derivanti da usi potenziali. LA DITTA E L’INSEGNA La ditta e l’insegna sono segni distintivi espressamente disciplinati dagli artt. 2563-2568 come visto. La disciplina codicistica non contiene perlatro una definizione espressa né dell’uno né dell’altro segno, ed appare incompleta anche sotto ulteriori profili. Alla ditta e all’insegna si riferisce implicitamente inoltre l’art. 2 del codice della proprietà industriale, ma nemmeno tale codice l i disicplina compiutamente, prendendoli in considerazione soltanto per disciplinarne i possibili conflitti con marchi registrati da terzi. Il sistema generale di protezione della ditta e dell’insegna appare allora ricostruibile con maggiore compiutezza integrando la lettura degli artt. 2563-2568 con l’art. 2598, n.1, e cioe con la norma che qualifica coem atto di concorrenza sleale l’uso di nomi o segni distintivi idoeni a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri. Fra essi rientrano senz’altro la ditta e l’insegna , che risultano quindi tutelate secondo i principi e nei limiti del divieto di atti di concorrenza sleale confusoria. La ditta è infine presa in considerazione dalla disciplina internazionale e europea, che ad essa fa normalmente riferimento attraverso l’espressione “nome commerciale”. Da questo punto di vista notevole rilievo assume la Convenzione di Unione di P arigi per la protezione della proprietà industruale (CUP), che impone agli stati membri di proteggere il nome commercilae senza obbligo di deposito o di registrazione. La ditta: nozione e funzione Ditta e marchio d’impresa L’art. 2563 stabilisce che l’imprenditore ha diritto all’uso esclusivo della ditta da lui prescelta. Secondo l’opinione tradizionale la ditta contraddistingue l’imprenditore nella propria attività di affari, come accennato. L’esistenza di disciplina autonome in tema di ditta e di marchio sottintende probabilmente l’intenzione del legislatore di contrapporre la funzione distintiva (prorpia della ditta) dell’imputazione di scelte

organizzative aziendali rispetto alla funzione distintiva (propria del marchio) dell’imputabilità di strategie commerciali di offerta di un prodotto o servizio. Un segno è percio utilizzato in fuznione di ditta per distinguere la continuità di esercizio dell’organizzazione aziendale, nei rapporti istituiti direttamente dall’imprenditore con i terzi interessati alle caratteristiche e all’affidabilità di questa organizzazione (es. segni che compaiono negli elenchi telefonici). Un segno è invece utlizzato in funzione di marchio per distinguere la continuità delle politiche commerciali di offerta, nei rapporti spersonalizzati con un pubblico interessato non alle quualità dell’organizzazione imprenditoriale, ma alle caratteristiche del prodotto o servizio, e alla continuità delle strategie commerciali di offerta che hanno accreditato queste carattrsitiche dei risultati dell’attività di impresa (es. segno che compare in grande evidenza grafica sulla confezione del prodotto). Ditta, ragione e denominazione sociale La nozione di ditta appare concettualmente distinta da quelle di “ragione sociale” e “denominazione sociale”. Ragione e denominazione sociale costituiscono il nome delle società: e rispettivamente delel società di persone (ragione sociale) e delle società di capitali (denominazione sociale). In questa prospettiva è a prima vista ipotizzabile che la ditta in senso tecnico sia propriamente solanto distintiva degli imprenditori individuali; e che le società identifichino la propria attività attraverso òa ragione o la denominaizone sociale. A ben vedere, tuttavia, nessuna norma esclude l’applicabilità anche alle società delle norme in materia di ditta. E’ dunque preferibile ritenre che le società siano titolari di una ragione o denominaizone sociale, e contemporaneamente di una o piui ditte. La formazione della ditta L’art. 2563, co.2, stabilisce che la ditta, comunque sia formata, deve contenere almeno il cognome o la sigla dell’imprenditore. La norma costituisce l’unica eccezione all’ooposto principio generale di assoluta libertà di formazione di tutti gli altri segni distintivi. La necessità di inserire il congome o la sigla dell’imprenditore vuole apparentemente tutelare l’interesse a che attraverso la ditta o terzi identifichino il soggetto titolare dell’attività di impresa (c.d. teoria soggettiva della ditta).In realtà nella moderna economia il titolare dell’attività di impresa non è piu il solo fattore di accreditamento sul mercato. Questo accreditamento dipende sempre piu spesso dall’obiettiva eff icienza dell’organizzazione imprenditoriale. In questa prospettiva assume sempre maggiore importanza l’interesse a valorizzare la ditta per distinguere la continuità dell’organizzazione produttiva, di cui i terzi hanno precedentmente sperimentato l’affidabilità. L’interesse a proteggere la ditta in f unzione identificativa non di un soggetto, am di una organizzazione imprenditoriale (c.d. teoria oggettiva della ditta), è percio avvertito in misura sempre piu forte dall’ordinamenoto, e viene tutelato da nomre che f inisocno per svuotare completamente l segnificato dell’obbligo di inserire il nome dell’imprenditore all’interno della ditta. Al riguardo anzitutto l’art. 2563, co. 2, non impone che la ditta sia formata esclusivamente dal nome dell’imprenditore. Il nome puo essere infatti inserito nella ditta in posizione assolutamente marginale, e non colpire l’attenzione del pubblico, attratto piuttosto da ulteriori elementi di fantasia (c.d. ditta di fantasia), che in tal caso costituiscono il c.d. cuore della ditta. D’altra parte l’inserimento del nome o della sigla è previsto soltanot in funzione dell’iscrizione nel registro delle imprese; ma nulla vieta che l’imprenditore nella normale attività di affari di fatto utilizzi soltanot la componente di fantasia del proprio segno. La stessa ditta priva di nome o sigla (c.d. ditta irregolare), non isc rivibile nell registro delle imprese, è comunemente ritenuta tutelabile in base alla disciina della concorrenza sleale. Infine lo stesso art. 2563, co.2, dopo aver imposto l’inseriemnto del cognome o della sigla all’intenro della ditta, fa salvo qianto disposto dall’art. 2565, che consente il trasferimento della ditta, e ad un tempo non impone l’inserimento nella stessa del cognome o della sigla dell’acquirente (c.d. ditta derivata). Requisiti e tutela della ditta

Requisiti La legge non disciplina espressamente i requisiti di proteggibilità della ditta né agli artt. 2563 ss., né nel codice della proprietà industriale. Gia si è visto comunque che i requisiti della ditta sono ricavabili dalla ricostruzione del sistema generale di protezione dei segni distintivi e dalla disciplina della concorrenza sleale per confondibilità, che di questi principi costituisce espressione. i) La tutela della ditta, al pari di tutti gli altri segni, presuppone quindi innanzitutto l’esistenza di una capacità distintiva (v.supra). ii) La ditta deve inoltre rispondere al requisito della novità, e cioè diversificarsi rispetto ad altri segni distintivi anteriori di terzi. L’art 2564 disciplina in particolare l’ipotesi del conflitto fra ditte, stabilendo che quando la ditta è uguale o simile a quella usata da altro imprenditore e puo creare confusione per l’oggetto dell’impresa e per il lugoo in cui questa è esercitata, deve essere integrata o modificata con indicazioni idonee a differenzialrla. La norma costituisce piena espressione del principio di confondibilità e sottintende quindi che la novità della ditta non deve essere assoluta, ma deve essere valutat relativamente al luogo ed alla tipologia delle attività svolte. Imprese con oggetto diverso o esercitate in lioghi distanti possono essere identificate da ditte uguali o simili, se ed in quanto non ingannino il pubblico in ordine alla tiutolarità delle relative organizzazioni aziendali. Tutela L’applicazione dei principi della concorrenza sleale comporta come corollario che l’aizone a tutela della ditta puo essere fatta valere solo a fronte di rischi concreti di confusione. Il diritto sulla ditta presuppone quindi che il segno distintivo sia usato e conosciuto dal pubblico, e che i terzi utilizzino un segno ugulae o simile in modo da determinare un rischio di confusione presso questo stesso pubblico. Si tratta quindi di un diritto relativo al territorio e al settore merceologico di utilizzazione, come visto. Le sanzioni previste a fronte della violazione dei diritti sulla ditta paiono anzitutto quelle della disciplina della concorrenza sleale: e consistono percio principlamente in misure di tipo inibitorio e risarcitorio. La riconducibilità della ditta ai segni distintivi diversi dal marchio registrato protetti dal codice della proprietà industriale rende inoltre ragionevolmente applicabile la disciplina sanzionatoria e processuale del codice medesimo (v.infra). Vicende della ditta Trasferimento L’art 2565 prevede che la ditta non puo essere trasferita separatamente dall’azienda. La norma dunque da un lato consente il trasferimento della ditta, ma ad un tempo si preoccupa che questo trasferimento non constrasti con il corretto perseguimento della sua funzione distintiva. Nell’economia moderna infatti il pubblico non è necessariamente interessato ad avere informazioni in ordine al mantenimento della titolarità soggettiva dell’azienda, ma vuole piuttosto avere strumenti che gli consentano di confidare sul mantenimento di un’organizzazione produttiva di cui ha sperimentato l’affidabilità, come visto. Cessazione del diritto Già si è visto che il diritto sulla ditta ha titolo nell’uso conosciuto dal pubblico. Il diritto si perde quindi con la cessazione di questo uso, che ne abbia fatto venir meno il ricordo da parte del pubblico. Nemmeno da questo punto di vista rilevano quindi atti quali l’iscrizione o cancellazione del segno nel registro delle imprese. L’insegna

Il codice civile ddica all’insegna un’unica norma (art. 2568). Anche l’insegna rientra inoltre come visto  tra i segni distintivi diversi dal marchio registrato menzionati dall’art. 2 del c.p.i. Il c.p.i. non detta tuttavia alcuna specifica disciplina relativa all’insegna, e si limita a farvi riferimento per regolarne i possibili conflitti con il marchio registrato, come visto. La definizione dell’insegna è da ricercare dunque nel linguaggio comune, secondo cui l’insegna costuituisce segno distintivo dei l ocali dell’imprenditore. Essa quindi in ultima analisi distingue la titolarità dell’organizzazione aziendale fisicamente collocata in un certo luogo. L’insegna, a differenza della ditta, è un segno distintivo che puo essere liberamente formato. Puo quindi essere costituita non solo da espresisoni letterali, ma anche da disegni; né qui è necessaria l’indicazion e del cognome o della sigla dell’imprenditore. L’art. 2568 dichiara applicabili all’insegna le disposizioni del co. 1 dell’art. 2564 in materia di ditta. Il richiamo implica l’attrazione della protezione dell’insegna nel medesimo impianto sistematico ricostruito con riferimento alla ditta. Anche l’insegna è duqnue protetta in base alla disciplina della concorrenza sleale (art. 2598, n.1), in quanto segno distintivo utilizzato e conosciuto dal pubblico, a fronte di un rischio di confusione concreto, da accertare relativamente al territorio e al settore merceologico di attività dell’imprenditore. I MARCHI A DOMINIO; LE INDICAZIONI GEOGRAFICHE Il marchio è il segno distintivo normalmente utilizzato mediante apposizione materiale sul prodotto come visto. E’ emerso tuttavia che la tradizionale definizione di marchio in termini di segno distintivo del prodotto appare riduttiva, perché l’ordinamento conosce anche la categoria dei marchi di servizio, che non sono materialmente apposti sul bene contraddistinto, e ven gono utilizzati tipicamente nell’abbiagliamento del personale dell’impresa (si pensi alle uniformi di lavoro), all’ingresso dei locali, o alle comunicazione pubblicitarie. La materiale apposizione sul prodotto non è dunque elemento essenziale e qualificant e l’uso del segno in funzione di marchio. L’uso del marchio si caratterizza piuttosto in via generale per la spersonalizzazione delle relazioni in cui esplica la propria funzione distintiva, indipendentemente dall’instaurazione di contatti diretti con l’imprenditore e la sua organizzazione aziendale, come accennato in precedenza. La funzione giuridicamente protetta del marchio In passato, il marchio assumeva una funzione distintiva della provenienza del prodotto o del servizio da una organizzazione imprenditoriale unitaria e costante nel tempo. Conseguentemente la protezione del segno distintivo era ammessa nei limiti del rischio di confusione in ordine alla provenienza dei prodotti o servizi. Il marchio è tuttavia ora protetto anche contro i tentativi di approfittare o arrrecare pregiudizio al valore pubblicitario dei marchi noti al pubblico. La funzione distintiva del marchio sembra perciò ora da riferire non soltanto alla provenienza, ma piu in generale alle strategie commerciali di offerta dei prodotti e servizi marcati. La funzione cosi ricostruita spiega la tutela del marchio contro utilizzaizone non confusorie, che pur sempre approfittano delle strategie commerciali di ac creditamento pubblicitario del titolare. Il marchio non registrato Il marchio è l’unico segno distintivo per cui la legge prevede un apposito procedimento di registraizone davanti ai pubblici uffici, caratterizzato da efficacia costitutiva della protezione. Il sistema dei segni distintivi tuttavia riconosce e protegge anche i marchi che non siano stati oggetto di registrazione. L’art. 2571 prevede che chi ha fatto uso di un marchio non registrato ha la facoltà di continuare ad usarne, nonostante la registrazio da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è valso. Anche il marchio non registrato rientra poi tra i segni distintivi diversi dal marchio registrato che il codice della proprietà industriale dichiara protetti, ricorrendone i presupposti di legge (art. 2, co.4, c.p.i.) Né l’art. 2571, né il codice della proprietà industriale contengono tuttavia una disicplina espressa di questi preuspposti e dell’ambito di protezione del marchio non registrato. Il sistema di protezione dei marchi non registrati è in realtà ricostruibile sulla base di considerazioni analoghe a quelle svolte con rfierimento alla

ditta e all’insegna. Questa protezione sempra precisamente ancora una volta fondata sulla disciplina della concorrenza sleale. Si tratta quindi di una protezione contro rischi di confusione concepibile solo per marchi che siano st ati di fatto usati (di qui anche l’espressione marchio di fatto, frequentemente utilizzata come sinonimo di marchio non registrato) e conosciuti dal pubblico. Si tratta inoltre di una protezione limitata al t erritorio in cui il sengo è noto ai consumatori, e relativa ai settori merceologici per i quali l’uso di segni uguali o simili puo determinare rischi di confusione in ordine all’impresa cui è riferibile l’offerta del prodotto o servizio. La tutela del marchio di fatto è estremamente debole. Il titolare di un marchio non registrato deve infatti provare l’uso del segno e l’ambito territoriale in cui esso è conosciuto, mentre il marchio reegistrato è protetto anche anteirormente alla sua utilizzazione. Il marchio non registrato è protetto sull’intero territorio nazionale solo quanod è stato usato e conosciuto ovunque nello stato; mentre il marchio registrato è necessariamente protetto in tutto il terrutorio, indipendentemente dall’uso e dalla consocenza effettiva. Le fonti di disciplina del marchio registrato Il codice civile disciplina il marchio registrato in poche norme, che si chiudono con un rinvio alle leggi speciali. La disciplina organica in materia si ritrova perciò nel co dice della proprietà industriale. La disciplina italiana è tuttavia largamente ispirata da esigenze di adeguamento alle convenzioni internazionali e all’ordinamento della UE. Alcune norme in particolare derivano dalla Convenzione di Unione di Parigi (CUP). Il sisgtema di protezione del marchio è completato dal regolamento sul marchio comunitario (RMC), che ha istituito una protezione unitaria estesa all’intero territorio della UE, fondata su una registrazione avanti ad un apposito ufficio europeo. Mentre dunque il marchio nazionale è tutelato soltanto a fronte delle utilizzazioni che avvengono all’interno dei confini interni (c.d. principio di territoriorialità), il marchio comunitario è protetto uniformemente in tutto il territorio dell’Unione europea. E’ comunque possibile registrare uno stesso segno distintivo come marchio nazionale e contemporaneamente come marchio comunitario, per cumulare cosi la protezione prevista (in Italia) dal c.p.i., e rispettivamente la protezione (estesa all’intera UE) del RMC. Caratteristiche generali del marchio Tipologie di marchi Il marchio si presta a molteplici tipologie di utilizzazione e composizione. Con riferimento alle modalità di utilizzazione, già si è vista l’esistenza di marchi di prodotto e di servizio. Un marchio puo essere utilizzato per tipologie di prodotti estremamente diversificati (c.d. marchio generale, si pensi a marchio “Fiat”), o per una singola tipoloigia di prodotti caratterizzata da precise caratteristiche merceologiche (c.d. marchio speciale, si pensi al marchio “Punto” per automobili). Frequentemente l’uso del marchio generale è accompagnato a quello del marchio speciale (si pensi all’uso del marchio “Punto” insieme al marchio “Fiat”). Con riferimento alla composizione del marchio, si distingue tra maerchi denominativi (formati da parole), figurativi (formati da disegni) o misti (che contemporaneamente ricomprendono parole e disegni). E’ poi possibile che un marchio denominativo sia formato da un nome di persona (si pensi al settore della moda), e si parla in tali casi di marchio patronimico. Marchi individuali e marchi collettivi (rinvio) La disciplina del marchio nel seguito esposta fa riferimento essenzialmente al c.d. marchio individuale, che esplica la sua funzione distintiva rispetto ad uno ed un solo imprenditore repsonsabile delle strategie commerciali di offerta del prodotto o servizio. Al marchio individuale si contrappone il marchio collettivo, destinato all’utilizzaizione da parte di una pluralità di imprenditori (v. infra).

Requisiti del marchio: impedimenti assoluti La capacità distintiva La tutela del marchio richiede la rpesenza di vari requisiti, la cui mancanza puo essere fatta valere davanti al giudice quale causa di nullità dei marchi registrati, per l’ipotesi in cui non sia stata rilevata nell’ambito del procedimento di registrazione. Alcuni requisiti rif lettono ll’esistenza di interessi generali in conflitto con la tutela del marchio. La mancanza di questi requisiti puo essere fatta valere con un’azione di nullità esercitabile da chiunque vi abbia interesse: si tratta perciò di una nullità assoluta. In questo sistema un ruolo centrale svolge il requisito della capacità distintiva del marchio. L’interesse generale sottostante al requisito della capacità distintiva è quello a mantenere la libera disponibilità di strumenti di comunicazione utili a promuovere l’offerta del prodotto o servizio. Nell’ordinamento italiano questo interesse si esprime attraverso il rpicnipio tradizionale che considera privi di carattere distintivo le indicazioni generiche o descrittive, che ogni imprenditore deve poter utilizzare, per comunicare al pubblico le caratteristiche della propria offerta. Il carattere descrittivo deve essere valutato in relaizone ai prodotti o servizi per cui la tutela viene richiesta, e un medesimo segno puo dunque essere descrittivo per alcuni prodotti, e ad un tempo validamente tutelabile come marchio per altri prodotti (come nell’esempio del segno “diesel”, nullo come marchio di automobili, ma valido come marchio di abbigliamento). L’assenza del requisito della caoacità distintiva puo essere sanata se p rima della proposizione della domanda o dell’eccezione di nulità, il segno che ne forma oggetto, a seguito dell’uso che ne è stato fatto, ha acquistato carattyere distintivo. Si fa riferimento a questo fenomeno utilizzando l ’espressione anglosassone secondary meaning, che evidenzia l’acquisto da parte del segno di un significato secondario distintivo ulteriore rispetto al significato primario descrittivo. L’acquisto del secondary meaning riflette l’uso costante del segno nel primo contatto con il pubblico d a parte di uno ed un solo imprenditore. In questa situazione è possibile che il pubblico dimentichi il significato primario del termine, ed interpreti il segno inn funzione distintiva (es. il segno “La Scarpa” per scarpe, originariamente certo privo di cap acità distintiva, ma ora costituisce probabilmetne un valido marchio per effetto dell’acquisto di secondary meaning). Il problema dei marchi di forma Un ulteriore ordine di interessi generali in conflitto con la tutela del marchio riguarda specificamente i marchi di forma, che possonon essere registrati nei limiti previsti dal c.p.i. e dal RMC. Sono in particolare escluse dalla registrazione le forme imposte dalla natura stessa del prodotto; le forme necessarie per ottenere un risultato tecnico e le forme che danno un valore sostanziale al prodotto. In questi casi la forma costituisce infatti uan caratteristica intrinseca del prodotto, che puo essere protetta in base ad altre norme dell’ordinamento della proprietà industriale; e precisamente attraverso la brevettazione delle invenzioni e modelli di utilità, attraverso la tutela del diritto di autore, ecc. Diversamente dalla refgistrazione del marchio, tutte queste altre tipologie di protezione hanno durata temporanea . La disciplina dei marchi di forma riflette dunque l’interesse ad evitare che la t utela (perpetua) del segno distintivo eluda i limiti temporali previsti per gli altri diritti di prorpietà industriale. Il carattere non ingannevole Ulteriori requisiti di protezione derivano non da interessi generali alla libera utilizzabilità, ma da interessi altrettanto generali a vietare a chiunque l’uso di determinati segni, quanto meno nella funzione tipica del marchio. Alcuni di questi requisiti sono disicplinati dal c.p.i. sotto la rubrica liceità. L’ipotes i piu importante al riguardo è rappresentata dal divieto di registrare “i segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla

provenienza geografica, sulla natura o sulle qualità dei prodotti o servizi. Sono quindi nulli i marchi ingannevoli, detti anche marchi decettivi. Ordine pubblico, buon costume, convenzioni internazionali, buona fede Un ulteriorie possibile profilo di illiceità del marchio che ne determina la nullità assoluta è dato dalla contrarietà alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume. Si tratta di un impedimento che mira a disincentivare strategie di accreditamento commerciale basate su messaggi contrari ai valori fondamentali dell’ordinamento. Requisiti del marchio: impedimenti relativi Novità e conflitti con segni registrati La protezione del marchio presuppone inoltre la presenza di ulteriori requisiti previsti a tutela di interessi individuali: e precisamente di chi vanti diritti anteriori in conflitto co la registrazione. La mancanza di questi requisiti costituisce una causa di nullità della registrazione che puo essere fatta valere soltanto dai titolari dei diritti anteriori. Si tratta perciò di una nullità relativa, ricostruendo cosi una categoria di impedimenti relativi. La piu importante categoria di impedimenti relativi deriva dall’esistenza di diritti di terzi su segni distintivi anteriori in conflitto con il marchio registrato. La presenza di segni anteriori fa venire meno il requisito della novità. Le ipotesi di asssenza di novità possono essere classificate in relazione alle diverse tipologie di segni in coflitto. i) Una prima tipologia è costituita dai segni distintivi registrati con eff icacia anteriorie. Le registazioni anteriori fanno venir meno il requisito della novità nei limiti in cui attribuiscono al registrante la possibilità di vietare l’uso del marchio successivo: e perciò nei limiti in cui l’utilizzazione del marchio successivo determini rischi di confusione con quello anteriore, o un approfittamento o pregiudizio della sua notorietà, secondo i principi esposti infra. Novità e conflitti con segni non registrati Il requisito della novità del segno è inoltre pregiudicato dall’esistenza di diritti anteriori su segni distintivi non registrati. ii-a) La piu importante tipologia di questi segni è costituita dai marchi utilizzati anteriormente alla registrazione. Già si è visto che l’utilizzatore di marchi non registrati vanta un diritto esteso all’ambito territoriale in cui il segno ha acquisito notorietà presso il pubblico. In tale prospettiva il legislatore distingue due diverse situazioni, a seconda che il segno abbia acquisito notorietà locale, o invece sia conosciuto in ambito nazionale. Nel primo caso l’uso del precedente segno, quando non importi notorietà di esso, o importi notorietà puramente locale, non toglie novità, ma il terzo preutente ha diritto di continuare nell’uso del marchio nei limiti della diffusione locale, nonostante la registrazione del marchio stesso (c.p.i e RMC (e cc no?)). L’uso del segno che viceversa importi una vera e propria notori età nazionale attribuisce diritti estesi a tutto lo stato. Corrispondentemente esso fa perdere la novità dei marchi posteriori confondibili, e determina un vizio di nullità relativa. ii-b) Il legislatore italiano regola inoltre espresamente il conflitto fra marchio registrato e segni anteriori noti come “ditta, denominaizone o ragione sociale, insegna e nome a dominio usato nell’attività economica”. Anche questi segni fanno venire meno la novità di successive registrazioni, in situazioni corrispoendenti a quelle del conflitto con i marchi non registrati. La novità viene duqnue meno se il segno anteirorie vanta una notorietà a livello nazionale, e nei limiti di un rischio di confusione o associazione. Il procedimento di registrazione Il procedimento nazionale

La fattispecie costitutiva della tutela disciplinata dalle norme europee e nazionali si perfeziona attraverso la registrazione del marchio, a seguito di un apposito procedimento avviato su domanda (c.d. deposito) dell’aspirante titolare. In italia la registrazione avviene presso l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM). La domanda deve contenere le generalità del richiedente, la riproduzione del marchio, l’elenco dei prodotti e servizi che è destinato a contraddistinguere. L’UIBM concede la registraz ione dopo aver verificato la regolarità del deposito e la proteggibilità del marchio. La concessione della registrazione non garantisce la valida nascita di diritti sul segno. E’ infatti possibile lamentare davanti all’autorità giudiziaria ordinaria che il marchio registrato è privo di uno o piu requisiti di protezione. L’assenza di questi requisiti impone in particolare al giudice di dichiarare, come si è visto, la nullità della registrazione. In presenza dei requisiti di tutela, la registraizone ha efficacia costituitva di diritti che prescindono dall’uso e dalla conoscenza del segno presso il pubblico. Risulta cosi protetto l’interesse delle imprese a disporre di un certo periodo di tempo anteriore all’uso del marchio, per programmare il lancio e gli i nvestimenti pubblicitari dei relativi prodotti. Il titolare della registrazione ha ttuavia l’onere di utilizzare il porprio segno entro cinque anni, diversamente perdendo i propri diritti per decadenza. Il marchio registrato ha una protezione di durata potenzialmente perpetua, ma l a registrazione deve essere rinnovata a scadenza decennali, presentando apposita domanda all’UIBM. Diversamente, il marchio si considera scaduto decorsi dieci anni dalla registraizone o dal rinnovo. La registrazione del marchio comunitario Il reg. 207/2009 sul marchio comunitario (RMC) disciplina una registraizone con effetti sovranazionali necessariamente estesi all’intero territorio della UE. Il procediemnto si svolge davanti ad un apposito ufficio denominato Ufficio di armonizzazione a livello di mercato interno (UAMI). La registraizone europea determina quindi la nascita di diritti su un “marchio comunitario” che produce gli stessi effetti in tutta la Comunità: esso può essere registrato, trasferito, formare oggetto di una rinucnia, di nullità, ecc. soltanot per la totalità della Comunità. Uno stesso segno puo essere poi registrato contemporaneamente come marchio nazionale e comunitario, e beneficiare del cumulo di entrambe le protezioni come visto. L’estensione della tutela Il titolare vanata un diritto esclusivo sul marchio: ed in particolare il diritto di vietarne l’uso da parte di terzi. Le utilizzazioni del segno illecite in quanto non consentite dal titolare venogno definite contraffazioni. L’esistenza di atti di contraff azione deve essere accertata considerando: a) l’identità o il grado di somiglianza fra il marchio registrato ed il segno utilizzato dal terzo; b) l’identità o il grado di affinità fra i prodotti o i servizi per cui il marchio è stato registrato e i prodott i o servizi per cui esso è utilizzato dal terzo; c) la tipologia di atti di utilizzazione del marchio poste in essere dai terzi senza consenso del titolare. Sotto il profilo delle lett. a) e b), la contraffazione sussiste quando l’utilizzazione del marchio determina un rischio di confusione (v.infra) o un approfittamento o pregiudizio della notorietà/rinomanza del marchio (v.infra). Sotto il profilo della lett. c) la contraffazione sussite a fronte di qualsiasi modalità di utilizzazine del segno nel commercio (v.infra). Il divieto di utilizzazioni confusorie Nella ricostruzione del sistema dei marchi, rilievo centrale assume il problema delal determinazione delle tipologie di segni e di prodotti o servizi per i quali il titolare puo lamentare una violazione dei propri diritti. Già si è visto il principio generale di relatività della protezione: secondo cui la contraffazione presuppone un rischio di confusione in ordine all’impresa cui è imputabile l’offerta, e non ricorre quando invece gli utilizzatori del segno offrono prodotti o servizii merceologicamente diversificati. Questo principio ha ispirato la formulazione delle norme secondo cui il titolare del marchio ha il diritto di vietare l’uso di un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa della identità

o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che puo consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni (c.p.i. e RMC). La tutela allargata della rinomanza Il c.p.i. riconosce al titolare il diritto di vietare ai terzi l’uso di un segno identico o simile a marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda n ello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi. Una corrispondente previsione è contenuta nel regolamento sul marchio comunitario, che tuttavia utilizza il termine notorietà, in luogo di rinomanza. Rinomanza e notorietà sono da interpretarsi in senso analogo. Il marchio rinomato/notorio non è quello semplicemente conosciuto dal pubblico, ma è quello che ha acquisito un prestigio ed un accreditamento tsale da assumere un valore pubblicitario di tipoloige di prodotti anche merceologicamente distanti (si pensi al marchio Armani, il cui prestigio llo rende utilizzzabile per promuovere la vendita non solo di abbigliamento, ma anche di ulteriori prodotti quali orologi e profumi). La tutela del marchio rinomato/notorio quindi prexcinde dal rischio di confusione. La norma esprime la volontà del elgislatore di proteggere la funzione pubblicitaria acqusita dal marchio per effetto della sua notorietà e conseguente accreditamento sul mercato. La previsione di vantaggio e pregiudizio quali presupposti alternativi ed autonomi della contraffazione vale a chiarire che l’illecito puo ricorrere non solo in caso di agganciamento ala l notorietà idoneo ad incrementare le vendite dell’utilizzatore del segno posteriore; ma anche qualora, indipendentemente da queste vendite, risultino pregiudicati il posizionamento o l ’immagine del prodotto o del servizio del titolare del marchio. Gli atti di contraffazione; commercio del prodotto e principio di esaurimento Il legislatore disciplina ulteriormente le tipologie di atti che possono costituire contraffazione del marchio. In linea di principio il diritto di marchio si estende all’uso del segno  nelle attività economiche o, nella terminologia del legislatore europeo, nel commercio. Le norme paiono da interpretare in senso analogo, ed attrarre nell’ambito dell’esclusiva tutte le attività funzionali allo scambio di beni e servizi (es. immissione in commercio dei prodotti marcati, l’importazione o esportazione dei prodotti, ecc. l’estensioen del divieto agli atti di commercio, importazione ed esportazione consente al titolare di agire nei confronti dei distributori che non abbiano partecipato agli atti di apposizione del segno contraffatto e di fabbricazione del prodotto, ma si siano limitati ad acquistare ai fini di rivendita prodotti recanti marchi illecitamente apposti. L’eventuale buona fede degli acquirenti commercianti non rileva sul piano della loro qualità di contraffattori, ma soltanto dal punto di vista dell’applicaizone delal sanzione del risarcimento del danno. L’estensione del diritto di marchio agli atti di commercializzazione presenta tuttavia aspetti peculiari per l’ipotesi in cui i prodotti siano stati inizialmente fabbricati e distribuiti con il consenso del titolare del marchio (c.d. prodotti originali). Il diritto della UE ha elaborato in tali casi il principio del c.d. esaurimento. Questo principio è stato inizialmente elaborato in via giurisprudenziale dalla Corte di Giustizia, ed è ora codificato nel c.p.i. e nel RMC, secondo cui il diritto conferito dal marchio non permette al titolare di impedirne l’uso per prodotti messi in commercio nella Comunità con tale marchio dal titolare  stesso o con il suo ocnsenso. I prodotti messi lecitamente in circolazione nella UE con il consenso del titolare possono dunque essere in linea di pricnpio commercializzati liberamente: es. il diritto non puo essere azionato per impedire le importazioni da uno ad altro paese del marcato unico, o per vietre l’ingresso su circuiti coommerciali sgraditi (es. supermercati). Le c lausole contrattuali tendenti a impedire la rivendita dei distributori in alcuni paesi dell’UE, o in determinati circuti commerciali, sono in tali casi da ocnsiderare nulle. L’applicazione del principio dell’esaurimento è stata estesa allo Spazio Economico Europeo (SEE). Il diritto di marchio consente dunque al titolare di impedire le importazioni nella UE di prodotti messi in

commercio in paesi terzi. Il principio dell’esaurimento non è applicabile quando sussistono motivi legittimi perché il titolare si opponga alla successiva immissione in commercio dei prodotti, in particolare quando lo stato dei prodotti è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio. Limitazioni degli effetti del marchio Il diritto sul segno non vale ad impedire alcuni usi che perseguono particolari fini di comunicazione. In via generale tuttavia anche in questi casi l’uso deve essere conforme ai princi pi di correttezza professionale (c.p.i.) o, secondo le parole del legislatore europeo, alle consuetudini di lealtà in campo industriale o commerciale. Il diritto sul marchio trova in particolare un prima tipologia di limiti nei confronti dell’uso da parte  di terzi del loro nome o indirizzo (c.p.i. e RMC). I parametri di valutazione della lealtà sono, fra l’altro, la buona fede dell’utilizzatore, il livello di notorietà del marchio e la conseguente possiblità per i terzi di trarne indebiti vantaggi. Il diritto sul marchio trova un ulteriore limite nei confornti dell’uso da parte di terzi di indicazioni relative alla specie, alla qualità, alla quantità del prodotto o di prestazione deò servizio o ad altre caratteristiche del prodotto o del servizio. In questi casi gli usi di lealtà commerciale possono valere a rendere lecita l’utilizzazione di segni dotati di un significato descrittivo, ancorché confondibile con altrui marchi. Un’ultima limitazione al diritto di marchio ricorre quando l’uso del segno è necess ario per indicare la destinazione di un prodotto o servizio, in particolare come accessori o pezzi di ricambio. La norma esclude il carattere illecito di utilizzazioni del segno che non determinano rischi di confusione, e ad un tempo risultano necessarie per dare al pubblico un’informazione comprensibile sulla destinazione del prodotto o servizio. La liceità dell’uso del segno è comunque anche qui subordinata al rispetto di consuetudini di lealtà. Cessioni e licenze di marchio Il trasferimento del marchio L’attuale ordinamento si ispira al principio di libera disponibilità dei diritti sul marchio. Le piu importanti tipologie di atti di disposizione sono costituite dai trasferimenti e dalle licenze. Il trasferimento dei diritti sul marchio avviene normalmente per effetto di accordi di vendita, ma puo derivare anche da altri accordi e negozi idonei in via generale a produrre effetti reali traslativi (donazione, ecc.). Il trasferimento non è vincolato all’azienda o ad un suo ramo, diversamente da quanto previst o in materia di ditta. La licenza di marchio I diritti di marchio sono frequentemente oggetto di contratti di licenza (c.p.i. e RMC), stipulati dal titolare (licenziante) con uno o più terzi licenziatari. Attraverso questi contratti il licenziante mantiene la titolarità del segno, consentendone tuttavia l’utilizzazione ad un terzo licenziatario, nei limiti previsti dall’accordo. I limiti di utilizzaizone del marchio impsti al licenziatario possono essere i piu diversi: possono riguardare il territorio di produzione, commercializzazione o offerta dei prodotti, la tipologia e qualità dei prodotti o servizi, ecc. Fisiologica è poi la previsione di un limite di durata del contratto. L’inosservanza di queste limitazioni da parte del licenziatario costituisce un atto di contraffazione del marchio. La licenza è normalmente (anche se non necessariamente) onerosa. Il corrispettivo della licenza è anche definito “canone di licenza”, o con il termine anglosassone royalty. La royalty può essere stabilita in misura fissa, ma spesso è calcolata proporzionalmente al volume d’affari del licenziatario. Attraverso la stipulazione di licenze il titolare puo addirittura sfruttare il marchio per tipologie di prodotti che non sarebbe in grado di fabbricare direttamente. Il fenomeno è diffuso soprattutto per i marchi piu famosi. Si pensi al marchio automobilistico “Ferrari”, che l’impresa di automobili concede in licenza per prodotti fabbricati da terzi: e ad es. per abbiagliamento e accessori di moda. Il fenomeno della concessione di licenze per l’uso del marchio su prodotti completamente diversi da quelli fabbricati dal titolare è noto

con il termine anglosassone di merchandising. Le licenze si distinguono in esclusive e non esclusive. Le licenze esclusive si caratterizzano per l’i mpegno del licenziante a non utilizzare direttamente in proprio il marchio in concorrenza con il licenziatario, e a non concedere ulteriori licenze a terzi. La licenza non esclusiva consente invece al licenziante di accordarsi con altri licenziatari, nonché di sfruttare il segno direttamente in proprio. Nullità e decadenza del marchio Sistema e nozioni Già si è visto che l’accoglimento della domanda di registrazione del marchio non è di per sé sufficiente a far sorgere un diritto valido, incontestabile, ed efficacemente opponibile ai terzi. E’ infatti possibile che la fattispecie costitutiva della tutela non si sia perfezionata: per la presenza di impedimenti alla registrazione che l’Ufficio non poteva rilevare, o che di fatto non ha rilevato. Il mancato per fezionamento della fattispecie costituitva della tutela determina la nullità della registrazione. Esistono inoltre eventi successivi alla registrazione che privano ex nunc di efficacia la fattispecie costitutiva della protezione originarimanete valida: questi eventi costituiscono cause di decadenza del segno. Nullità e decadenza determinano analoghe conseguenze sul piano dell’azionabilità del diritto: che in entrambi i casi non puo essere fstto valere per lamentare atti di contraffazione. Esse sono d’altr o canto disciplinate da alcuni principi comuni. Entrambe possono essere parziali, e cioe colpire la registrazione del segno per una parte soltanto dei prodotti o servizi. Nel sistema del r egolamento sul marchio comunitario esse producono effetto sull’intero territorio UE, in virtù del principio di untarietà della registraizone. Nullità e decadenza sono normallmente azionabili davanti all’autorità giudiziaria ordinaria. Una particolare ipotesi di azione di nullità o decadenza esercitabile davanti alle autorità ammiistrative preposte alla registrazione è tutavia prevista in materia di marchi comunitari. Le cause di nullità Il c.p.i. elenca i casi di nullità all’art. 2 5, dalvo poi distinguere ad un successivo articolo le ipotesi in cui l’azione di nullità puo essere esercitata da chiunque vi abbia interesse, dalle ipotesi i n cui l’azione puo essere esercitata soltanto dal titolare dei diritti anteirori in conflitto con la registrazione. Il regolamento sul marchio comunitARIO disciplina in norme distinte le cause di nullità assoluta e relativa. Le cuse di nullità assoluta colpiscono le registrazioni avvenute in violazione degli impedimenti assoluti esaminati supra. Le cause di nullità relativa colpiscono le registraizoni avvenute in violazione di diritti anteriori di terzi esaminati supra. La convalida del marchio La nullità relativa della registraizone derivante dal conflitto con diritti anteriori puo essere sanata qualora il titolare di questi diritti tolleri consapevolemnte per un periodo di cinque anni l’ uso del marchio registrato. La disicplina della preclusione per tolleranza non si applica tutavia in caso di mala fede del secondo registrante. La mala fede deve essere verosimilmente intesa come intenzione del secondo registrante di approfittare dell’accreditamento conseguito dal primo marchio. Non potrà quindi ricorrere alcuna mala fede ad es. qualora il primo marchio risulti ancora inutilizzato al momento del secondo deposito. La decadenza per non uso Già si è visto che la registraizone del marchio fa s orgere una protezione indipendente dall’uso del segno, e perciò ecentualmente decorrente da un momento anteriore all’inizio di questo uso. L’utilizzaizone del marchio costituisce tutavia un onere del titolare, che rischia di decadere dai suoi diritti quando il marchio non sia stato oggetto di uso effettivo entro cinque anni dalla registrazione (come visto), o quando questo uso sia stato interrotto per cinque anni. L’uso del narchio idoneo a prevenire la decadenza puo avvenire non solo direttamente da parte del titolare,

ma anche da parte di terzi (tipicamente, licenziatari) che operino con il suon consenso. L’onere puo essere ottemperato anche dall’uso del marchio in forma modificata che non ne alteri il carattere distintivo, e dunque ad es. dall’uso di un marchio simile a quello registrato. La decadenza per non uso è comunque sanabile attraverso la ripresa della utilizzazione anteriormente alla proposizione della domanda o dell’eccezione di decadenza. La ripresa dell’utilizzazione non vale tuttavia quando avviene nella consapevolezza di un’imminente proposizione dell’azione o eccezione di decadenza. La decadenza per ingannevolezza Il titolare dle marchio deve evitarne utilizzaizoni idonee ad indurre in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, la qualità o provenienza dei prodotti o servizi. Queste utilizzazioni determinano a loro volta decadenza dai diritti sul segno per ingannevolezza (o decettività) sopravvenuta. L’ipotesi si contrappone a quella di un segno originariamente ingannevole (c.supra), in quanto l’inganno idoneo a determinare la decadenza non deriva dalle caratteristiche intrinseche del marchio, ma dalle concrete modalità di utilizzazione. Es. quando il marchio contenga elementi che facciano riferimento a qualità del prodotto o servizio, nonché ad una provenienza geografica rilevNTE per le caratteristiche dell’offerta; ed ad un tempo il marchio risulti concretamente utilizzato per prodotti o servizi che di queste caratteristiche siano privi. L’inganno piuo derivare anche da vic ende conseguenti al trasferimento o alla concessione di licenze sul marchio. Si pensi ad una specifica ipotesi di ingannevolezza nel caso di licenze non esclusive, per le quali è imposta l’eguaglianza dei prodotti commercializzati dal titolare e dai licenziatari paralleli. Piu in generale il legislatore prevede che dal trasferimento e dall licenza di marchio non deve derivare inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico. E’ ad es. immaginabile che l’ingannevolezza di un riferimento alla provenineza geografica possa derivare dal trasferimento del marchio ad un imprenditore collocato in un differente territorio. La decadenza per volgarizzazione I diritti decadono infine se il marchio per il fatto dell’attività o dell’inattività del suo titolare, sia divenuto nel commerciondenominaizone generica del prodotto o servizio o abbia perduto la sua capacità distintiva. L’ipotesi è definita con il termine volgarizzazione, ed è un fenomeno contrtario all’acquisto di sec ondary meaning, che riflette la relatività nel tempo della percezione di alcuni termini da parte del pubblico. Un esempuio è costituito dal termine nailon, che costituiva originariamente un marchio registrarto, ma che ha assunto successivamente nei consumatori un significato descrittivo della particolare tipologia di fibra sintetica. In questi casi la decadenza del segno riflette evidentemente il medeismo interesse sottostante al requisito del carattere distintivo: e cioe l’interesse a lasciare alla libera disponibilità l’uso di termini necessari a comunicare al pubblico le caratteriastiche del prodotto offerto. Dichiarazione ed effetti di nullità e decadenza La dichiarazione di nullità o decadenza del marchio produce effetti erga omnes, anche a vantaggio di chi non sia srtato parte del relativo giudizio. poiché la nullità deriva da un difetto originario dei requisiti, la relativa dichiarazione produce effetti ex tunc risalenti fin dal momento del deposito della domanda di registrazione. La decorrenza degli effetti delal decadenza dovrebbe invece in linea di principio risalire al momento in cui si sono verificati i fatti che hano determianto la perdita del diritto. La disciplina del maerchio comunitario prevede tuttavia la perdita del diritto dalla data della domanda giudiziale, salvo che la parte abbia chiesto l’anticipazione della decorrenza degli effetti dalla data anteriore in cui è sopravvenuta la causa di decadenza. I nomi a dominio

La diffusione di internet ha posto il problema relativo all’esistenza ed al riconoscimento di una funzione giuridica dei nomi a dominio (domain names): e cioe delle espressioni letterali che consentono ad un computer (client) di indirizzare il proprio collegamento verso un altro computer (server) per ricevere informazioni da quest’ultimo. I nomi a dominio vengono assegnati ai gestori delle info rmaizoni ospitate sui server dalle autorità preposte al funzionamento di internet, attravrso un procediemnto di c.d. registrazione del domain names. Qualora l’offerta di informazioni attraverso il client avvenga nell’esercizio di un’attività imprenditoriale, il domanin names svolge in effetti una funzione distintiva di questa attività. Tanto è espressamente riconosciuto dalle norme del c.p.i. che menzionano il nome a dominio utilizzato nell’attività economica. In partioclare l’art. 22 attrae espressamente il nome a dominio di un sito usato nell’attività economica nel princpio di unitarietà dei segni distintivi. Anche i nomi a dominio debbono quindi rispettare il divieto di utilizazioni confusiorie, o comunque dirette a sfruttare la fama di altrui marchi notori. In tale prospettiva l’utilizzaizone del domanin name “coca-cola.com” da parte di terzi estranei all’impresa produttrice di bevande costituisce una violazione dei diritti sul marchio “Coca-Cola”. Reciprocamente il domain name puo essere protetto secondo i princpi generali dei segni distintivi, e perciò contro ‘uso dei marchi con esso confondibili. Il c.p.i ricomprende i nomi a dominio aziendali gra i segni che costituiscono impedimento alla registraizone di marchi successivi uguaili o simili, in quanto idonei a produrre rischi di confusione. Analogamente senz’altro il titolare del domain name puo lamentare l’illecita utilizzazione sda parte di terzi di nomi a dominio uguali o simili al proprio, e perciò idonei a determinare confisione in ordine all’identità dell’impresa repsonsabile dele informazioni o spitate sul server. E’ infine certamente possibile registrare il domain name come marchio. In questi casi occorre verificare la presenza dei requisiti di protezione, ed in particolare della capacità distintiva. Di fatto nella pratica è frequente l’utilizzazione di nomi a dominio largamente descrittivi della tipologia di infromazioni ospitarte sul server. In tali casi il domain name non puo avere una protezione ulteriorie rispetto a quella garantitagli per mere esigenzw tecniche dal principio di unicità di assegnazione (che garantisce l’univocità dell’indirizzamento del client ad un unico server. Il sistema sanzionatorio La violazione dei diritti di marrchio espone l’autore dell’illecito alle sanziaoni previste nel c.p.i., dettati in via generale per la violazione di tutti i diritti di proprietà industriale disciplinati dal codice, e percio applicabili fra l’altro anche atutela dei marchi, nomi a dominio, ecc. Queste sanzioani si applicano in linea di principio anche alle violazioni del marchio comunitario avvenute all’interno del territorio italiano. Il sistema sanzioantorio si articola in provvedimenti diretti a prevenire la continuazi one dell’illecito, in provvedimenti diretti a rimuovere uno stato di fatto contrario a diritto, ad in provvedimenti intesi ad eliminare le conseguenze patrimoniali dell’illecito. Rientra fra gli strumenti di prevenzione l’inibitoria della fabbricazione, del commercio e dell’uso delle cose costituenti violazioni del diritto. Costituiscono invece strumenti di rimonzione degli effetti del comportamento illecito l’ordine di ritiro dal commercio o di distruzione dei beni realizzati in violazione del diritto, o la loro assegnazione in proprietà al titolare. Il legislatore si è inoltre fatto carico del rischio che l’ordine inibiotior non venga rispettato, ed ha previsto la possibilità per il giudice di fissare una somma dovuta per ogni violaizone successivamente constatata e per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Si ritiene infine che i provvedimenti inibitori e di rimozione non richiedano il dolo o la colpa del contraffattore. Il pricnipio generale dell’art. 2043 porta invece comunemente ad affermare che dolo o colpa costituiscono presupposti per la sanzione del risarcimento del danno. LA PUBBLICITA’ INGANNEVOLE E COMPARATIVA Il legislatore ha inoltre dettato una disciplina specifica contro gli atti di pubblicità ingannevole e contro la pubblicità comparativa scorretta, e cio anche per tutelare i professionisti.

La pubblicità ingannevole nei rapporti fra professionisti La discipllina della pubblicità ingannevole è uniformata oggi dalla dir. 2006/114/CE. La diettiva è stata attuata nell’ordinamento italiano dal d.lgs. 145/2007. Le norme in esso contenute hanno lo scopo di tutelare i professionisti dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali, nonché di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa. il legislatore qualifica ingannevole qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, è idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che possa pregiudicare il loro comportamento economico. in quanto principalmente rivolto a tutelare i professionisti, il d.lgs. 145/2007 si applica anzitutto e tipicamente alle pubblicità che promuovono la vendita di beni o servizi specificamente destinati ai professionisti medesimi (si pensi ad una pubblicità di tariffe telefoniche destinate soltanto ai titolari di partita IVA). Nulla esclude tuttavia l’applicabilità di questa disciplina alle pubblicità rivolte indifferentemente ad un publico che puo ricomprendere anche professionisti (si pensi ad una pubblicità di personal computer). Cosi pure in linea di principio non vi è ragione di escludere l’applicazione del d.lgs. 145/2007 alle pubblicità specificamente rivolte ai consumatori (si pensi alla pubblciità di un elettrodomestico da cucina). La pubblicità comparativa Il d.lgs. 145/2007 disciplina altresì il fenomeno della pubblicità comparativa come accennato, e cioè della pubblicità che identifica in modo esplicito o implicito un concorrente o beni o servizi offerti da un concorrente. Già si è visto che il problema della liceità della pubblicità comparativa si è storicamente posto con riferimento al dvieto di denigrazione e appropriazione di pregi contenuto nell’art. 2598 n.2. Nell’attuale sistema questo divieto deve essere necessariamente coordinato con la disciplina uniformata a livello europero dalla dir. 2006/114/CE ed attuata nel nostro ordinamento dall’art. 4, d.lgs. 145/2007 come visto. Questa disciplina in linea di pricnpio consente la comparazione pubblciitaria, purché nel rispetto di alcuni limiti. La comparazione ovviamwnte non deve essere ingannevole. La comparazione inoltre non deve determinare confusione con i segni distintivi del concorrente e deve riguardare beni o servizi che soddisfano gli stessi bisogni, per confrontare oggetivamente una o piu caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rapprsentative, compreso evenutalmente il prezzo. In questa prospettiva la liceità della comparazione presuppone una pubblciità informativa. E’ invece da ritenere vietata ls comparazione pubblicitaria merametne suggestiva, che ad es. presenti il prodotto del concorrente in un contesto svilente, senza prendere in c onsiderazione le sue oggettive e specifiche caratteristiche. E’ inoltre vietata la comparazione che causi discredito al concorrente, e tragga indebitamente vantaggio dalla notorietà connessa al marchio o ad altri segni distintivi. Il sistema sanzionatorio La disicplina della pubblicità ingannevole e comparativa istituisce un sistema procedimentale e sanzionatorio corrispondente a quello previsto in materia di pratiche commerciali scorrette. La violaizone di questa disciplina costiuisce quindi un illecito amministrativo accertabile dall’Autorità garantew della concorrenza e del mercato, e colpito da sanzioni pecuniarie e ordini di cessazione dell’illecito. Il mancato rispetto del d.lgs. 145/2007 costituisce inoltre un atto di concorrenza sleale riconducibile a seconda delle circostanze al mendacio, all’appropriazione di pregi, o alla violazione di norme di diritto pubblico. LA COOPERAZIONE TRA IMPRENDITORI Cooperazione ed integrazione tra imprese. Rinvio

L’esercizio di attività imprenditoriali competitive presuppone oggi notevole diversificazione di risorse economiche e finanziarie, aggiornate competenze tecnologiche, investimenti che un singo lo imprenditore è sovente impossiblitato a procurarsi, necessitanto quindi strumenti di cooperazione e di reciproca integrazione. Vi è un’articolata gamma di forme di cooperazione e di integrazione tra imprese. Sul piano giuridico, gli strumenti di cooperazione trovano la propria fonte in contratti mediante i quali gli imprenditori conservano, in via di principio, la propria sostanziale autonomia giuridica ed economica; le fomre di integrazione sono invece ca ratterizzate dall’esistenza di legami partecipativi nella proprietà dell’impresa e comportano la formazione di un’unica entità economica (gruppo di imprese) sino a g iungere, in taluni casi, alla creaizone di una nuova entità giuridica (fusione) nella quale co nfluiscono le imprese alleate. Tale distinzione assume particolare rilievo sul piano della disciplina antimonopolistica: le fomre di cooperazione tra imprese costituiscono imprese anticoncorrenziali mentre gli strument i di integraizone tra le stesse integrano fattispecie di concentrazioni. Rinviando l’analisi degli strumenti di integrazione tra imprese (gruppi, fusione tra società) al diritto delle società, è ora opportuno focalizzare l’attenzione sulle forme di cooperaizone tra imprese su base contrattuale; esse possono catalogarsi in forme inderogabilmente strutturate, quali i consorzi, le società consortili (e le imprese comuni (cooperative)), che presuppongono necessariamente l’erezione di un apparato organizzativo funzionale ad un rapporto di collaborazione potenzialmente stabile e duraturo tra gli imprenditori; ed in forme potenzialmente flessibili, quali i contratti di rete e le associazioni temporanee di impresa, tendenzialmente prive di una rigida organizzaizone interna e talora volte ad una cooperaizone occaisonale in vista del perseguimento di specifici obiettivi contingenti. Le forme di cooperaizone inderogabilmente strutturate. I consorzi Il consorzio è un contratto con il quale piu imprenditori istituiscono un’organizzaizone comune per la disciplina o per lo svolgimento di determiante fasi delle rispettive imprese (art. 2602). Tale nozione è stata modificata per effetto della l. 377/1976: per effetto di questa modifica, il consorzio da mero accordo volto a disciplinare e limitare la concorrenza tra imprenditori (come era in passato) è divenutostrumento di coordinamento interaziendale. Gli imprenditori consorziati mirano dunque al conseguimento di un vantaggio economico diretto nell’esercizio della propria attviità (c.d. mutualità consortile), di solito consistente in un risparmio di spesa o in un maggior ricavo risultante da una razionalizzaizone del cilo produttivo o distributivo: si pesni all’erogazione di servizi communi alle imprese aderenti quali campagne pubblicitarie. L’attuale definizione di consorzio non esclude poi che tale contratto possa ttutora assolvere alla fuznione di limitare la concorrenza fra imptrenditori, che in origine caratterizzava l’istituto nel codice civile del 1942: e si pensi ad un consorzio finalizzato ad una distribuzione selettiva dei prodotti di piu imprese. Va pero tenuto presente che il perseguimento di questa finalità è oggi consentito soltanto nei limiti tracciati dalla disciplina antimonopolistica, dato che questi contratti costituiscono tipici esempi di intese anticoncorrenziali, vietate qualora abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante (l. 287/1990). La disciplina del consorzio consta di una serie di disposizioni generali in tema di costituzione del sodalizio e rapporti tra quest’ultimo e gli imprenditori consorziati.; vi sono pooi talune regole specif iche applicabili ai soli consorzi con attività esterna, giustificate dalla loro destinazione ad operare anche con i terzi. Prorpio queste regole speciali fondano la tradizionale distinzione tra cnosrzi con attività interna e consorzi con attività esterna. Entrambi si caratterizzano per l’erezione di un’organizzaizone comune., c he pero nei primi è volta alla mera predisposizione di una regolamentazione convenzionale dei rapporti reciproci degli imprenditori consorziati; nei consorzi con attività esterna, invece, tale organizzazione è preordinata non solo a questi obiettivi, ma anche e soprattutto a disciplinare l’attività imprenditoriae svolta dal consorzio, quale soggetto giuridico autonomo, con i terzi.

Le disposizioni generali dei consorzi Il consorzio è costituito mediante contratto fra imprenditori. Parti del contratto non possono essere persone fisiche o giuridiche che, pur svolgendo attività economica, non sono qualificabili come imprenditori (agricoli o commerciali), quali i professionisti intellettuali o le società tra professionisti. Il contratto di consorzio deve essere stipulato per iscritto a pena di nullità e contenere una serie di indicazioni, delle quali possono pero considerarsi essenziali soltanto l’oggetto e gli obblighi assunti dai consorziati (es. non vendere o non comprare se non tramite il consorzio) ed i contributi da essi dovuti, di regola costituiti da versamenti iniziali (conferimenti) e periodici. All’assenza degli altri dati puo infatti rimediarsi attraverso il ricorso ai principi generali o, nel caso della durata, a specifiche norme supplettive. In particolare, in mancanza di una determinazione diversa circa la durata del contratto di consorzio, questo è valido per dieci anni (2604). Connotato essenziale del consorzio fra impre nditori è la presenza di un’organizzazione comune per il compimento degli atti encessari per l’esecuzione del programma consortile. La sua scarna disciplina fissa poche regole derogabili, lasciando libero campo all’autonomia privata. Anzitutto, nulla impedisce che il consorzio sia dotato di un unico organo con fuznioni deliberative ed esecutive. Il modello legale prevede tuttavia una truttura piu complessa, fondata sull’articolazione in un modello deliberativo ed in un or gano esecutivo. L’organo deliberativo è retto dal principio maggioritario: se il contratto di consorzio non dispone diversamente, le deliberaizoni attuative dell’oggetto del contratto sono adottate co l voto favorevole della maggioranza dei consorziati. Le modificazioni del contratto di consorzio debbono essere fatte per iscritto a pena di nullità e decise all’unanimità, se non è convenuto diversamente.Non rientrano, in via di principio, tra le modificazioni del contratto le variazioni dei consorziati; il contratto è tendenzialmente aperto all’adesione di tutti gli imprenditori in possesso dei requisiti di ammissione convenzionalmente stabiliti e in caso di trasferimento dell’azienda, salvo patto contrario, si prevede i l subingresso dell’acquisrente nel contratto di consorzi. Per converso, se non sono esplicitamente previste le condizioni di ammissione di nuvi conosrziati, la volontà delle parti deve intendersi nel senso che il sodalizio ha struttura chiusa, sicché l’ingresso di nuovi memebri soggiace alla regola del consenso unanime dei contraenti. L’organo esecutivo del consorzio è composto delle persone preposte dai consorziati alla direzione del sodalizio, per le quali è previsto un embrionale regime di responsabilità, che si esaurisce nel richiamo delle regole del mandato in caso di compimento di atti di gestione pregiudizievoli per i consorziati e (nei consorzi con attività esterna) dei terzi. Tale organo deve anche controllare l’esatto adempimento delle obbligazion assunte dai consorziati. Per quanto riguarda le cause di scioglimento del contratto, ilcontratto di consorzio si scioglie per il decorso del termine di durata, per il conseguimento dell’oggetto o la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo, o in seguito ad una decisione unanime dei consorziati o ad una loro delibera maggioritaria se sussiste una giusta causa. Resta salva la possibilità di prevedere nel contratto ulteriori cause di scioglimento. Lo scioglimento della singola partecipazione puo essere originato dalla volontà del consorziato (recesso) o dalla decisione degli altri consorziati (esclusione). Il recesso e l’esclusione sono possibili nei casi previsti dal contratto, ai quali deve aggiungersi almno la perdita della qualità di imprenditore che costituisce requisito essenziale di partecipazione al consorzio. L’esclusione del consorziato costituisce, di regola, la tipica sanzione prevista per l’inadempimento degli obblighi consortili. PPer quel che riguarda invece gli effetti del recesso e dell’esclusione, si prevede che la quota dle consorziato receduto o escluso si accresca proporzionalmente a quella degli altri. Le regole specifiche dei consorzi con attività esterna

I consorzi con attività esterna costituiscono autonomi centri di imputazione dotati di soggettività giuridica. Essi acquistano la qualità di imprenditori commerciali, esercitando un’attività ausiliaria consistente nella disciplina o nello svolgimento di fasi delle imprese consorziate. I consorzi con attività esterna sono dunque esposti al fallimento. La soggettività dei consorzi con attività esterna è consacrata dall’istitutzione di un ufficio destinato a svolgere attività con i terzi e dalla iscrizione nnella sezione ordinaria del registro delle imprese di un estratto del contratto. Ad analoga pubblicità legale è sottoposta ogni modifica dell’accordo. I consorzi con attività esterna possono essere convenuti in giudizio in persona di coloro ai quali l contratto attribuisce la presidenza o la direzione. i consorzi con attività esterna godono di un regime di autonomia patrimoniale. I contributi dei consorziati e i beni acquistati con questi confluiscono in un patrimonio autonomo denominato fondo consortile del quale, per l’intera durata del consorzio, non puo essere chiesta la divisione dai consorziati; né i loro creditori particolari possono far valere i loro dititti sul fondo medesimo. Del resto, gli obblighi assunti ed i contributi dovuti dai consorziati debbono risultare dal contratto di consorzio. Corollario dell’autonomia patrimoniale è poi un particolare regime di responsabilità verso i terzi delle obbligazioni consortili. Per le obbligazioni assunte in nome del consorzio da suoi rappresentanti, anzitutto, i terzi possono far valere i loro diritti esclusivamente sul fondo consortile (art. 2615). Dunque è prevista l’esclusiva responsabilità del consorzio per le obbligazioni attinenti alle operazioni strettamente funzionali alla promozione ed al coordinamento dell’attività svolta in comune: sonon qeuste le spese generali necessarie per l’esistenza del consorzio, quali gli oneri di funzionalmento degli organi consortili, le spese per i servizi, per il personale, ecc. Le obbligazioni assunte dagli organi del consorzio per conto di singoli consorziati (si pensi all’acquisto di amterie prime necessarie per l’esercizio dell’attività di una delle imprese consorziate) sono invece giuridicamente imputabili solo a costoro, con l’aggiunta di una responsabilità sussidiaria, a mero titolo di garanzia, del fondo consortile. Sicché, se il consorzio è costretto a pagare, gli organi consortili potranno esercitare azione di rivalsa per l’intera somma pafata nei confronti del consorziato interessato (c.d. solidarietà passiva diseguale). L’art. 2615, oltre a costituire il consorzio garante ex lege per le o bbligazioni assunte dai suoi organi per conto di singoli consorziati, prevede, per il caso di insolvenza, la ripartizione del debito dell’insolvente fra tutti gli associati in proporzione delle rispettive quote. Le persone che hanno la direzione del consorzio debbono redigere, entro due mesi dalla chiusura dell’esercizio, una situaizone patrimoniale in conformità delle regole relative al bilancio di società per azioni (art. 2615-bis) Le società consortili Gli scopi tipici del contratto di consorzio di coordinamento interaziendale possono costituire l’oggetto sociale di una società consortile. Del resto, la produzione di servizi ausiliari alle imprese dei soci  – e si pensi all’organizzazione di una struttura per l’acquisto in comune di materie prime – è certamente suscettibile di costituire oggetto di esercziio in comune di attività economica. L’art. 2615-ter consente la costituzione di società consortili in tutti i tipi di società lucrative, esclusa la società semplice. Sono ammesse poi società consortili cooperative, i cui soci realizzano lo scopo mutualistico attraverso l’integrazione delle rispettive imprese o di talune fasi di esse. Restano tuttavia irrisolti una serie di interrogativi sulla dsicplina applicabile alle società consortili e, a monte, sulla stessa identificazione dei conteuti dello scopo-fine consortile. Cominciando da quest’ultimo profilo, va sottolineato che i caratteri tipici dello scopo consortile possono ricavarsi dalla stessa nozione di consorzio declinata dall’art. 2602. In particolare, lo scopo consortile è qualificato: sul versante soggettivo, dalla necessaria qualità di imprenditori dei consorziati; sul piano oggettivo, dal carattere ausiliario dell’attività svolta dall’impresa consortile rispetto all’attività esercitata dai singoli consorziati che, con la stipulazione del contratto di consorzio, mirano appunto all’integrazione delle

rispettive imprese o di talune loro fasi. Controversa è soprattutto la disicplina delle società consortili. Mertia tuttavia adesione la tesi prevlaente per la quale le società consortili vanno regolate eslcusivamente sulla base delle norme stabilite per il tipo societario prescelto. Le forme di cooperazione potenzialmente flessibili Sono qui classificate come forme di cooperazione fra imprenditori potenzialmente flessibili i contratti associativi la cui disicplina non prevede inderogabilmente l’erezione di un’organizzazione commune e che, pertanto, possono utilizzarsi anche per il perseguimento di obiettivi contingenti o per una collaboraizone temporanea, ad es. idonea ad assicurare alle singole imprese maggior peso nella contrattazione con altri operatori. Queste forme di cooperazione, previste e disicplinate da leggi speciali, sono: a) il contratto di rete e b) le associazioni temporanee di impresa. Il contratto di rete Con il contratto di rete più imprenditori perseguono lo scopo dii accrescere la propria capacità innovativa e competitività sul mercato e a tal fine si obbligano, sulla base di un programma comune di rete, a collaboare in ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni, ovvero ancora ad esercitare in comune una o piu attività rientranti nell’oggetto della propria impresa. Al contratto di rete sono riservate alcune agevolazioni fiscali, la cui fruizione presuppone l’osservanza di regole di forma e di contenuto. Quanto alla forma, il contratto deve essre redatto per atto pubblico o per scrittura privata autenticata. Quanto al contenuto, il contrtto deve recare una serie di indicazioni, tra cui: nome, ditta, ragione o denominaizone dosciale di ogni partecipante, indicaizone degli obiettivi strategici di innovazione e di innalzamente della capacità competitiva dei partecipanti, definizione di un programma di rete, chje contenga l’eniunciaizone dei diritti e degli obblighi assunti da ciuscun partecipante, ecc. Il patrimonio della rete può consistere in un fondo comune alimentato dai contributi delle imprese partecipanti, al quale deve applicarsi la disicplina dei ocnsorzi con attività esterna in quanto compatibile. In ogni caso, per le obbligazioni contratte dall’organo comune in relaizone al programma di rete, i terzi possono far valere i loro diritti esclusivamente sul fondo comune. La previsione nel contratto di rete di un organo comune e di un fondo patrimoniale comune nonn necessariamente implica che la rete acquisti soggettività giuridica; ferma restando la possibilità che la rete la acquisti ove il contratto sia stipulato nelle forme previste ed iscritto nella sezione ordinaria del registro delle imprese. Il regime pubblicitario e gli occlighi contabili, in questo caso, corrispondono a qulli previsti per i consorzi con attività esterna. Quanto alle modifiche del contratto di rete, esse sonon redatte e depositate per l’iscrizione nel registro delle imprese. rimessa all’autonomia delle parrti è p oi la previsione di eventuali cause facoltative di recesso anticipato e di escusione di una impresa aderente. E’ poi prevista la facoltà di recesso per giusta causa, anche in assenza di una specifica calusola del contratto di rete che splicitamente lo consenta. Manca invece una specifica disicplina dell’insolvenza e della crisi delle reti di impresa, che garantisca un opportuno coordinamento fra le soluzioni giudiziali e concordate che interessano singole aderenti al contratto. Le associazioni temporanee di imprese La partecipazione a gare per l’assegnazione di appalti di opere pubbliche presuppone che imprenditori, dotati di distinte specializzazioni, uniscano temporaneamente le proprie forze per soddisfare i requisiti quaklitativi e quantitativi rrichiesti dai committenti: i quali, dal canto loro, intendono assicurarsi sifficiente affidabilità sulla reale capacità delle imprese assegnatarie delle commesse di eseguire opere dii particolare complessità (si pensi alla costruzione di un’autostrada) nei tempi staibliti.

A tale esigenza degli imprenditori non offrono risposta pienamente soddisfacente i tradizionale contratti associativi: i consorzi e le società sonon infatti indicati per una cooperazione tendenzialmente stabile, anche perché la loro costituzione nomralmente implica costi preventivi che potrebbero rivelarsi superflui ove l’appalto dovesse poi essere assegnato ad altri. D’altronde, gli imprenditori ambiscono non solo a conservare la propria autonomia ed individualità nell’esecuzione dell’opera, ma anche e soprattutto a rendere riconoscibile ai terzi il personale compimente della frazione della commessa di lroo specifica competenza: interessi questi evidentemente frustrati dalla costituzione di un co nsorzio o di una società, che implicano una disicplina delle imprese partecipanti come gruppo organizzato, ossia come centro di imputazione (soggetto di diritto) autonomo rispetto ai membri. Di qui l’emersione del fenomeno delle associazioni temporanee di imprese (secondo la terminologia anglosassone, joint venture). Si tratta di una specifica forma di cooperazione a carattere contingente e occasionale tra imprenditori, che non determina di per sé alcuna organizzazione, né la nascita di un soggetto di diritto diverso dalle imprese coinvolte nel sodalizio. Cio rende questo strumento assai flessibile. In particolare, le imprese aspiranti alla commessa si presentano distinte ed autonome al committente ed il loro collegamente consiste: da un lato, nel sottoporre al committente un’offerta co ngiunta assumendo il comune impegno di eseguire la complessiva opera; dall’altro lato, nell’assegnare ad una di esse – l’impresa capogruppo o capofila – l’incarico di gestire i rapporti con il committente e di assicurare il necessario coordinamento esecutivo dell’opera. La giurisprudenza ormai consolidata e la dottrina prevalente configurano le associazioni temporanee di impresa come contratti associativi innominati. GLI STRUMENTI DI MOBILIZZAZIONE DELLA RICCHEZZA. PRINCIPI FONDAMENTALI La ricchezza monetaria e finanziaria oggigiorno rappresenta il cuore pulsante dell’economia e viene tradizionalmente classificata, nel suo complesso, come ricchezza mo biliare, in contrapposizione a quella immobiliare. Ora, la ricchezza mobiliare è, per vocazione, una ricchezza essenzialmente circolante. In un’economia moderna e sviluppata, la sua movimentazione è una delle componenti centrali del traffico giuridico. E’ intuitivo dunque che, in un simile contesto, si profila come fondamentale fattore di crescita e di stabilità la realizzazione di alcuni obiettivi volti a promuovere e a proteggere la movimentazione di questa forma di ricchezza: ad assicurarne, in particolare, la celerità e la sicurezza. Il perseguimento di questi obiettivi è oggi alla base di numerosi e complessi istituti. I TITOLI DI CREDITO CARTACEI ED ELETTRONICI Il titolo di credito è il documento, cartaceo o elettronico, menzionante una situazione giuridica attiva che circola in modo autonomo mediante la movimentazione del documento, ed al cui esercizio è legittimato il soggetto nelal cui disponibilità si trova il documento stesso. I titoli di credito sono disciplinati, come categoria generale, negli artt. 1992 ss. Essi svolgono una funzione fondamentale nel r afforzamento delle garanzie che presidiano il mercato della ricchezza mobiliare. Il titolo di credito costituisce infatti lo strumento giuridico per una circolazione dei valori finanziari con protezione rafforzata degli acquisti. La disicplina ordinaria della circolaizone dei rapporti obbligatori non offre infatti adeguate forme di protezione e di tutela del mercato della ricchezza finanziaria. La circolaizone non cartolare è invero rischiosa e scarsamente agile. I rischi corsi dal cessionario di un diritto di credito o di un rapporto contrattuale concernono la titolarità stessa e il contenuto della posizione giuridica acquistata: il conseguimento della prima dipendendo dal fatto che il cedente sia a sua volta titolare del diritto ceduto, o legittimato a disporne; il secondo non potendo comunque essere diverso da quello che il medesimo diritto aveva in capo al cedente (il debitore o contraente ceduto puo infatti opporre al cessionario tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre al c edente). Anche le modalità di attuazione del trasferimento

risultano sofisticate e incompatibili con una circolazione frequente: la cessione è infatti efficace nei confronti del debitore solo a seguito della notificazione o della sua accettazione e richiede il consenso del contraente ceduto. D’altra parte, l’esercizio del diritto da parte del cessionario è subordinato alla prova non solo dell’esistenza del diritto, ma anche di un valido ed efficace atto di acquisto dello stesso. La circolazione cartolare (cioè dei titoli di credito) asseconda invece le esigenze di celerità e protezione degli acquisti, attraverso le opportunità offerte dal collegamento tra il documento, cartaceo od elettronico, e la posizione giuridica documentata. Storicamente l’istituto nasce nella sola forma cartacea (di qui l’espressione circolazione carrtolare). E’ solo negli ultimi decennni che la tecnica ha offerto soluzioni diverse, quale è oggi eminentemente la documentazione elettronica. Ora, i pricnipi cardine della disciplina relativa ai titoli cartacei sonon codificati negli artt. 1992, 1993, 1994. La funzione di strumenti di circolazione della ricchezza mobiliare è assolta mediante l’attribuzione di un particolare valore giuuridico al collegamento tra il documento (il titolo) e il diritto documentato, che si definisce incorporazione del diritto nel documento. Tale collegamento si esplica su un triplice livello: a) correla la circolazione della posizione giuridica documentata alla circolazione della chartula; l’acquirente acquista la prima in quanto acquista questa seconda. Le implicaizoni sono immediate: poiché il documento è una cosa mobile, ne è possibile l’acquisto della proprietà anche a non domino, purché se ne consegua il possesso in buona fede (art. 1153); per tal via, l’acquirente del titolo di credito acquista a non domino anche il diritto documentato (arrt. 1994); b) correla il contenuto di quest’ultimo alla lettera del documento: il contenuto della pretesa azionabile dall’acquirente è quello risultante dal titolo, poiché nessuna eccezione personale ai precedenti possessori e non menzionata nel documento gli è opponibile (art. 1993); c) correla l’esercizio del diritto al semplice possesso del documento: il possessore che esibisce la chartula non deve fornire altra prova della titolarità della sua pretesa e, specularmente, il debitore che paga a suo favore è sempre liberato, a meno che non disponga di prove certe della carenza di titolarità in capo a l ui (art. 1992). L’incorporaizone del diritto nel titolo rappresenta una soluzione tecnica che apre la strada all’operatività di principi altrimenti non applicabili. Proprio in quanto sempice tecnica, essa si presta ad essere surrogata da altre tecniche, che, in quanto presentino le medesime caratteristiche, consentano l’applicazione degli stessi principi normativi. Cosi sarebbe per la documentazione elettronica del diritto su un supporto magnetico circolante, a condizione che essa garantisca l’irriproducibilità e l’integrità dei dati memorizzati, ossia la loro inalterabilità senza il consenso dell’emittente. In tal caso si avrebbe un titolo di credito ancora materiale  (la tessera o card contenente la registrazione), sebbene non piu cartaceo, ed interamente soggetto alla disciplina suesposta. La piu importante forma che oggi rivestono i titoli di crredito elettronici è pero del tutto diversa: essi si presentano come titoli scritturali (titoli dematerializzati), la relativa disciplina è contenuta nel Testo Unico della Finanza e vi sono soggetti necessariamente i titoli negoziati nei merc ati regolamentati (azioni quotate, titoli di Stato, ecc.) e facoltativamente (cioe a scelta dell’emittente) i titoli di massa ( cioe emessi in serie) non quotati. Qui il rapporto giuridico è documentato in forma telematica in un conto acceso presso un intermediario abilitato (banche, imprese di investimento, ecc.) e intestato al possessore del titolo; l’insieme dei titoli di pertinenza dei clienti di uno stesso intermediario viene a sua volta registrato in un conto (c.d. conto terzi), intestato all’intermediario stesso e acceso presso una società di gesitone accentrata (Sga). Si delinea cosi una rete di conti piramidale, con al vertice la Sga e, alla base, gli intermediari e i loro rispettivi clienti. La circolazione dei titoli dematerializzati avviene attraverso movimentazioni contabili telematiche (operazioni di giro). la disicplina ricalca, nei principi, quella dei titoli cartacei. Infatti: a) l’acquirente che ha ottenuto l’accredito a proprio favore in buona fede non è soggetto alla rivendicazione di precedenti titolari, cioè acquista la titolarità del rapporto documentato anche a non domino; b) all’intestatario del conto in cui il titolo è registrato sono opponibili solo le eccezioni a lui personali e quelle comuni a tutti gli altri titolari di titoli della stessa serie, quindi non quelle personali ai precedenti

“possessori”; c) il titolare del conto ha la legittimazione piena ed eslcusiva all’esercizio dei diritti nascenti dal rapporto documentato e quindi, esibita all’emittente la certificazione rilasciatagli dall’intermediario ed attestante la registraizone dei titoli nel suo conto, non deve fornire altra prova della sua titolarità. La fattispecie titolo di credito A seconda della natura della posizione giuridica documentata possono distinguersi: a) titoli di finanziamento, che incorporano un diritto di credito avente ad oggetto una prestazione pecuniaria: cambiali, titoli di Stato, ecc.; b) titoli partecipativi, che incorporano una posizione giuridica complessa, rappresentativa della partecipazione economica ed organizzativa ad una iniziativa produttiva: azioni di società, strumenti finanziari partecipativi, ecc.; qui il rapporto documentato comprende diritti patrimoniali (agli utili, ecc.) e amministrativi (di voto, di controllo, ecc.); c) altri valori finanziari, che documentano posizioni giuridiche di vairo ti po, come diritti di opzione, ecc. d) titoli rappresentativi di merci, che incorporano il diritto alla consegna di merci (es. derrate alimentari) depositate presso un terzo o trasportate da un vettore, il possesso delle stesse e il potere di dosporne mediante trasferimento del titolo. Molte di queste figure sono direttamente menzionate e regolate dalla legge: es. cambiali e assegni, azioni di società, ecc. E’ tuttavia opinione comune che il sistema sia retto dal princpio di atipicità, che cioè, sia possibile la creazione di titoli diversi da quelli normativamente tipizzati. Tutto questo comporta la necessità di individuare gli elementi costitutivi della f attispecie cartolare, i requisiti e le condizioni in presenza dei quali, cioè, un documento in concreto menzioannte una posizione giuridica è qualificabile come titolo di credito. Non ogni supporto cartaceo su cui sia annotato un rapporto giuridico, infatti, è sussumibile in questa fattispecie: non lo è ad es. l’atto notarile di compravendita di un immobile, ma neppure il iglietto aereo o per l’accesso allo stadio di calcio. Va osservato che la nozione esposta in apertura non ha, sotto il profilo ora in esame, rilievo alcuno, poiché essa enuncia la disciplina, non la fattispecie: è perciò una definzione normativa, non tipologica. Ciononostante essa aiuta l’indagine. Infatti, quando non è lo stesso legislatore a definire la fattispecie, l’interprete puo ricostruirla risalendovi utilmente dalla disciplina. Puo dunque definirsi titolo di credito quel documento formato ed emesso per realizz are un’operazione di finanziamento tra colui che è interessato a conseguire l’inveestimento e colui che è interessato a concederlo assicurandosene pero una facile liquidabilità mediante la negoziazione del rapporto. Centrale è dunque la vlontà dell’emitte nte e del primo prenditore; ma poiché la manifestazione di volontà contenuta nel documento, se di titolo di credito si tratta, è destinata a rilevare non solo nei rapporti tra le parti originarie, ma anche nei confornti della comunità dei terzi che operano nel mercato, essa va interpretata secondo il significato che l’indeterminato, potenziale destinatario di media diligenza potrebbe attribuirle; perciò, perché il documento sia effettivamente qualificabile come titolo di credito, occorre che esso venga percepito come tale (cioe come destinato alal circolazione) dalla comunità dei consociati e, viceversa, il documento che riveste questo significato per i terzi va qualificato come titolo di credito a prescindere dall’effettivo intento dell’emittente. Cio consente di comprednere perché negli esempi fa tti (atto pubblico di compravendita, biglietto aereo, ecc.) non sano rilevabili gli elementi costitutivi della fattispecie cartolare. In particolare, consente di cogliere la distinzione fra titoli di credito e i c. d. documenti di legittimazione, che hanno la sola funzione di premettere una pronta identificazione del destinatario di una prestazione: cosi è per i biglietti della lotteria, per i contrassegni rilasciati al guardaroba, ecc., che non presentano, all’evidenza, alcuna destinaizone alla circolazione e la cui unica funzione è quella di facilitare l’esecuzione della prestazione conferendo al loro possessore una prova immediata del suo diritto. il titolo di credito nasce dunque con la sottoscrizine del documento (creazione) da parte dell’emittente/debitore e con la sua emissione, normalmente volontaria, ma che produce i suoi effetti

anche se involontaria, atteso che il terzo acquirente di buona fede acquista il rpaporto documentato ex art. 1994. Il problema dell’individuazione della fattispecie si fa assai meno complesso per i titoli scritturali, perché qui la documentazione (registrazione nel conto) co incide con l’immissione nel sistema di gestione accentrata, che di per sé vale come destinazione alla circolazione e viene percepita come tale dal mercato. I principi cartolari Il cuore dell’istituto cartolare è situato su un duplice livello: nella disciplina della circolazione, ove si delinea la pronunciata tutela dell’acquirente di cui si è detto, e nelle regole d i esercizio del diritto, imperniate sull’esibizione del titolo. I relativi pricnipi vengono tradizionalmente riassunti nelle formule dell’autonomia, della letteralità e dell’astrattezza, che traducono e spiegano la tutela degli acquisti, e della legittimaz ione attiva e passiva, che attengono alla fase esecutiva del rapporto documentato. L’intero sistesa di queste regole si basa sulla circostanza di fatto della documentazione e del concreto ed esclusivo controllo su quest’ultima da parte di chi ha in mano la chartula o (per i titoli scritturali) di chi dispone del conto in cui il titolo è registrato. Per questo motivo, prima di esaminare i pricnpi cartolari, debbono essere definiti i tratti di questa situazione di fatto. Le leggi di circolazione dei titoli Per i titoli cartacei, centrale nel sistema è il possesso della chartula. Tuttavia non sempre è sufficiente il semplice possesso. Eisstoo infatti tre distinte categoire di titoli di credito, ciascuna caratterizzata da una propria legge di circolazione: 1) titoli al portatore (es. libretto di risparmio al portatore emesso da una banca): circolano mediante semplice consegna materiale e l’applicaizone delle regole c artolari si ricollega al possesso del documento, senza ulteriori formalità; 2) titoli all’ordine (es. cambiali, assegni): contengono l’impegno ad eseguire la prestazione all’ordine di un soggetto menzionato nel documento e dunque circolano mediante c onsegna materiale accompagnata dalla girata, cioè dalla sottoscrizione apposta dall’alienante (girante) sul documento stesso, con l’indicazione del nuovo creditore (giratario); l’applicazione delle regole cartolari si ricollega percià al possesso del titolo, accompagnato da una serie continua di girate; 3) titoli nominativi (es. azioni): come nei titoli all’ordine, il nome del creditore è menzionato nel documento, ma, in piu, esso è riprodotto anche in un registro tenuto dall’emittente; la circolazione avviene mediante consegna della chartula e indicazione del nome dell’acquirente sul titolo e nel registro, a cura dell’emittente (c.d. transfert); perciò l’applicazione delle regole cartolari è collegata al possesso, accompagnato dalla duplice intestazione. Di parla, per i titoli all’ordine e nominativi, di possesso qualificato. Naturalmente, il trasferimento di un titolo di credito richiede sempre l’esistenza di un valido ed efficace negozio traslativo; la consegna, eventualmente qualificata, attiene al la fase esecutiva del negozio e non può, da sola, sopperire alla sua mancanza; tuttavia essa assume un ruolo fondamentale nella circolazione, perché è proprio grazie ad essa che si determina la protezione rafforzata dell’acquirente. Per i titoli scritturali la legge di circolazione risulta unica e si basa sulla consegna virtuale mediante operazione di giro. Per la verità permane, a livello normativo, la distinzione fra titoli non nominativi e titoli nominativi; a onor del vero all titolo scritturale è sempre abbianot il onme del “possessore”, in quanto la registrazione avvieen sempre in un conto intestato, ma la distinzione dovrebbe riguardare la necessità (per i titoli nominativi) o meno (per gli altri) di porcedere altresì all’annotazione dell’acquirente nel registro dell’emittente. La distinzione tr le due categorie rielva percioe solo sotto il profilo della le gittimazione all’esercizio die diritti da parte dell’intestatario del conto (che, se il titolo è nominativo, dovra preventivamente chiedere l’annotazione del suo nome nel predetto registro). L’autonomia reale

L’art. 1994 dispone, per i titoli cartacei, che chi ha acquistato in buona fede il possesso di un titolo di credito, in conformità delle norme che ne disciplinano la circolazione, non è soggetto a rivendicaizone; in altre parole, ne acquista la proprietà anche a non domino e il terzo proprietario non puo rivendicare il titolo nei suoi confronti come visto. Si parla perciò di autonomia reale nella circolazione. L’operatività di questo principio è resa possibile, come si è evidenziato, dall’incorporaizone dell primo nel secondo: il rapporto obbligatorio, per sua natura immateriale, viene materializzato, aggregato alla chartula, cosa mobile materiale a tutti gli effetti. Si tratta di uno speciale valore giuridico attribuito al dato di fatto della documentazione dalla volontà dell’emittente e del prenditore  del titolo, e riconosciuto dalla comunità dei consociati; valore che consente di trattare il rapporto documentato, sotto il profilo che veniamo esaminando, come una cosa mobile. La portata dell’art. 1994 coincide con quella dell’art. 1153. L’acquisto della proprietà del documento e della titolarità del rapporto incorporato presuppone percio l’esistenza di un negozio traslativo pienamente valido ed efficace come visto: il possesso (eventualmente qualficato) sana esclusivametne il difetto di proprietà dell’alienante, non altri vizi che inficino l’atto. La tutela giova all’acquirente a condizione che ne consegua in buona fede il possesso del titolo. La buona fede consiste nell’ignoranza dell’altruità del titolo. Per quanto riguarda l’apprensione della chartula, basta il possesso semplice, nei titoli al portatore, mentre occorre in piu la girata a proprio favore nei titoli all’ordine, e ancora la girata e il transfert per quelli nominativi come detto. Per i titoli scritturali, il TUF dispone che colui il quale ha ottenuto la registrazione in suo favore, in base a titolo idoneo e in buona fede, non è soggetto ad azioni da parte di precedetni titolari. Non si parla qui di rivendicazione, ma di azione del precedente titolare, semplicemente perché, non essendo in gioco la proprietà di una chartula, l’azione con cui il titolare fa valere la porpira titlarità nei confornti di chi “detenga” indebitamente il titolo (di chi, cioè, sia intestatario del conto in cui questo è registrato) non sarebbe, tecnicamente, una rivendica; ma il princpio è identico a quello dell’art. 1994. Né si puo paralre di incorporazione del diritto in un supporto documentale circolante e di materializzazione dell circolazione del primo attraverso la circolazione del secondo; ma l’immissione del diritto nell circuito elettronico dei conti gestiti aal vertice della Sga la sostituisce assolvendone le medesime fuznioni. L’autonomia obbligatoria. La letteralità. Astrattezza e causalità dei titoli Per i titoli cartacei, l’art. 1993 stabilisce che il debitore può opporre al possessore (eventualmente qualificato) del titolo soltanto le eccezioni a questo personali e una serie di altre eccezioni opponibili a chiunque, mentre le eccezioni fondate sui rapporti personali con i precedenti possessori sono opponibili a quello attuale soltanto se, nell’acquistare il titolo, questi ha agito intenzionalmente a danno del debitore medesimo. La circolazione cartolare è caratterizzata quindi dall’autonomia obbligatoria dell’acquisto e quindi dall’indipendenza della posizione dell’acquirente rispetto a quella dei precedenti creditor i. Tale indipendenza si esprime attracerso le formule della letteralità e dell’astrattezza. Letteralità significa che il possessore puo esercitare la pretesa nei termini che sono indicati nel titolo, senza subire le conseguenze di eventuali atti modificativi del contenuto (es. dilazioni) o estintivi della stessa (es. pagamento) riferibili a preecedenti possessori, ma non risultanti dal documento. Astrattezza significa che la creazione del titolo scinde giuridicamente (astrae) il diritto cartolare dal rapporto giuridico che vi ha dato causa (c.d. rapporto fondamentale), rendendo quest’ultimo irrilevante nei confrotni dei successivi possessori del titolo , che non sono parti di tale rapporto; cosi il rilascio di una cambiale per il pagamento del prezzo di un bene dà vita ad un credito astratto rispetto al rapporto di compravendita, la cui esistenza, i cui vizi, le eccezioni scaturenti dal quale sono inopponibili ai terzi che successivamente acquistino la cambiale dal prenditore della stessa (cioe dal primo possessore, il venditore del bene). A tal proposito le eccezioni opponibili dal debitore di un titolo di credito si distinguono in: a) eccezioni reali. Sono opponibili a qualunque possessore e comprendono: a1) quelle fondate sul contesto letterale del titolo (es. il fatto che la somma dovuta risulti inferiore a quella

pretesa) e quelle di forma (es. si richiede l’apposizione della denominaizone cambiale sul relativo titolo); anche modifiche al rapporto originario divengono eccezioni fondate sulla lettera del titolo, se vi sono documentate; a2) talune eccezioni di non riferibilità dell’obbligazione cartolare alla volontà di chi figura come debitore: falsità della firma, difetto di capacità d’agire, ecc.; b) eccezioni personali. Sono opponibili solo al singolo possessore e comprendono: b1) eccezioni personali in senso stretto: il difetto di proprietà del titolo (es. perché acquistato in base a negozio nullo, o a non domino in mala fede) e il difetto di legittimazione (cioe la carenza di possesso qualificato del titolo); b2) eccezioni fondate su rapporti personali con l’attuale possessore: si tratta di tutti i fatti che incidono sull’esistenza o sul contenuto della pretesa documentata, intercorsi con tale possessore; vi rientrano le vicende direttametne modificative del rapporto cartolare (la concessione di una dilazione nel pagamento, l’adempimento della prestazione, ecc.), nonché le vicende concernenti altri rappporti, che possano dar luogo ad un’eccezione di compensazione; b3) eccezioni fondate du rapporti personali con i precedenti possessori: si tratta di tutte quelle radicate in fatti e rapporti (ivi compreso il rapporto fondamentale), non riferibili al possessore attuale; esse rrestano a costui inopponibili, a meno che egli non abbia acquitato il titolo intenzionalemnte a danno del debitore, cioe al solo scopo di privarlo dell’eccezione. E’ in tale inopponibilità che si manifesta l’autonomia obbligatoria dell’acquisto cartolare, come visto. Identica è l’autonomia obbligatoria nella circolaizone dei titoli scritturali: il TUF dispone che, all’intestatario del conto, l’emittente puo opporre soltanto le eccezioni a lui personali e quelle comuni a tutti gli altri titolari deggli stessi diritti. La legittimazione cartolare attiva e passiva Il possesso, eventualmente qualificato, attribuisce la legittimazione. Questa attiene alla fase di esercizio del diritto e lo rende piu agevole. L’art. 1992, co.1, stabilisce infatti he il possessore ha diritto alla pre stazione in esso indicata verso presentazione del titolo, purché sia legittimato nelle forme prescritte dalla legge (cioe purche il suo possesso sia qualificato, nei titoli all’ordine a nominativi). E’ questa la c.d. legittimazione attiva. Il possesso determina una presunzione di titolarità, presunzione relativa, non già assoluta, essendo sempre possibile che il debitore fornisca la prova contraria (es. dimostri che l’attuale possessore ha acquistato il titolo in base ad un atto nullo). La funzione dell’istituto, da questo punto di vista, è dunque quella di facilitare l’esercizio del diritto, senza gravare il cessionario dell’onere della prova che altrimenti, nella circolaizone non cartolare, dovrebbe sostenere. Logico corollario della legittimazione attiva è la legittimazione passiva, consacrata nel co.2:”il debitore, che senza dopo o colpa grave adempie la prestazione nei confronti del possessore, è liberato anche se questi non è il titolare del diritto”. Non basta però, perché il pagamento sia liberatorio,  la conoscenza o cnonscibilità, da parte del debitorie, del difetto di titolarità in capo al possessore: infatti questi otterrebbe comunque, dietro semplice presentazione del titolo, la condanna al pagamento in suo favore, a meno che il debitore non possa provare tale difetto; perciò “dolo o colpa grave”, ai sensi della norma in esame, si hanno solo quando il debitore disponesse (dolo) o avrebbe potuto agevolemnte disporre (colpa grave) di prove certe che gli avrebbe consentito di respingere la pretesa del possessore. Nei titoli scritturali, la legittimazione attiva è collegata all’intestazione del conto in cui il ti tolo è registrato. L’intestazione del conto sostituisce dunque il possesso della chartula, e, per i titoli nominativi, deve essere accompagnata dall’annotazione dell’intestatario anche nel registro dell’emittente, come visto. Peraltro, non essendo l’hardware ove il t itolo è memorizzato un documento che il “possessore” del ttolo possa esibire all’emittente, le modalità di esercizio del diritto sono qui piu complesse. I diritti patrimoniali (riscossione di dividendi, ecc.) sononinfatti necessariamente esercitati attraverso gli intermediari e la Sga; solo i diritti amministrativi (es. per le azioni, il voto assembleare, ecc.) sono esercitati direttamente

dall’intestatario del conto, dietro presentazione di una certificazione, cioe di un documento rilasciato su richiesta dall’intermediario e attestante la registrazione dei t itoli nel conto intestato al richiedente. Anche nel sistema scritturale puo accadere che legittimato sia un soggetto diverso dal titolare (es. colui che ha acquistato in base ad atto nullo). Perciò l’emittente puo eccepire all’intestatario del conto il difetto di titolarità, se riesce a provarlo. E corollario di ciò, anche qui, è l a legittimazione passiva: il principio dell’art. 1992, co.2 è quindi senz’altro logicamnte applicabile, stante l’identità dei due sistemi, cosicché il debitore che senza dolo o colpa grave adempie nei confronti dell’intestatario del conto (i cui dati siano  pure anotati nel suo registro, se il titolo è nominativo) è liberato anche se questi non è il titolare del diritto. LA CIRCOLAZIONE DEL DENARO: GLI STRUMENTI DI PAGAMENTO Dalla circolazione di denaro contante all’utilizzo di strumenti di pagamento “sostitutivi” e “alternativi” Nel guardare al denaro quale mezzo di pagamento si è ben consapevoli che il medesimo è venuto negli anni progressivamente a perdere gran parte della sua consistenza f isica trasformandosi dapprima da pezzo monetario e documento cartaceo (banconota) per finire poi a mero “segno” o “scritturazione” di una più generale disponibilità monetaria. Le tesi “reali” del pagamento hanno poi, nel corso del tempo, dovuto fare i conti con l’inarrestabile sviluppo nella prassi di un sistema assai composito e variegato di strumenti di pagamento. Con tale espressione ci si riferisce ad un insieme di modalità di trasferimento di disponiblità monetarie attraverso procedimenti variamente articolati ma sempre con il necessario coinvolgimento di banche e/o di altri soggetti di natura finanziaria in funzione di intermediazione. Dopo alcuni primi interventi di portata limitata, nel 2007 la Payment Service Directive (PSD) – attuata nel nostro ordinamento nel 2010 – segna un intervento massiccio nel campo dei servizi di pagamento non in contante volto a dare vita ad un unitario quadro normativo di riferimento della materia. L’odierno sistema di pagamenti ruota intorno alla nozione di moneta scritturale, ovvero moneta che, in senso lato, costituisce il prodotto della prestazione di servizi di pagamento. Piu precisamente, con tale espressione ci si riferisce all’insieme dei saldi disponibili dei conti accesi presso banche o altri intermediari specializzati, la cui movimentazione è in grado di produrre il trasferimento di una certa disponibilità monetaria da un soggetto ad un altro. Il pagamento in moneta scritturale si esegue per lo più tramite il trasferimento della titolarità di fondi detenuti dal pagatore presso banche o intermediari abilitati; consiste, quindi, in un’attività di servizi a struttura quantomeno trilatera, esercitata su base imprenditoriale da intermediari specializzati. Storicamente, la maggior parte degli strumenti di pagamento diversi dal contante si è sviluppata in associazione con il conto corrente bancario , che è la principale figura contrattuale con cui le banche rendono possibile la circolaione della moneta scritturale. L’uso della moneta scritturale postula la costante fiducia del pubblico nella solvibilità degli intermediari coinvolti e nella capacità degli stessii di convertirla, in qualunque momento e a semplice richiesta, in moneta legale. Il che a sua volta presuppone l’esistenza in ogni contesto nazionale di un sistema dei pagamenti, vale a dire di un articolato assetto in grado di agevolare il regolare completamento del processo tramite cui si realizza il trasferimento monetario e di tutelare la fiducia riposta dal pubblico nell’accettazione e nell’efficacia liberatoria della moneta scritturale. E’ per questa ragione che negli Stati moderni la prestazione di servizi di pagamento e l’uso della moneta scritturale sono di norma circondati e presidiati da un adeguato regime di controlli pubblici. All’interno dei numerosi strumenti di pagamento utilizzati nella prassi, si distingue fra me zzi di pagamenti c.d. sostitutivi e mezzi di pagamento c.d. alternativi del denaro contante. Ai mezzi di pagamento c.d. sostitutivi sono ricondotti quegli strumenti che consentono di evitare un trasferimento diretto di denaro contante fra debitore e creditore sostituendolo con la consegna di documenti rappresentativi di esso, comunemente accettati come corrispettivo di uno scambio in sostituzione temporanea della moneta medesima. Nella “famiglia” il ruolo principale è senza dubbio svolto dagli assegni bancari e circolari, appartenenti (assieme alla cambiale) ad una particolare tipologia di titoli di

credito (c.d. cambiari). I c.d. mezzi di pagamento “alternativi” sono invece strumenti attraverso i quali viene totalmente evitato il trasferimento materiale del denaro, in luogo del quale vengono eseguite da banche o istituti di pagamento scritturazioni a debito e a credito su conti ddi titolarità dei soggetti coinvolti nell’operaizone. Anche in questa sede si è scelto di trattare separatamente le due categorie di strumenti, pur nella consapevolezza che alcune questioni giruidiche di fondo sono in realtà comuni ad entrambe e si gioverebbero, quindi, di un trattamento unitario. Gli strumenti di pagamento sostitutivi: l’assegno bancario e circolare I titoli cambiari: profili generali I titoli cambiari sono stati spesso impiegati nel pagamento di debiti pecuniari consentendo al debitore di evitare un trasferimento materiale di pezzi monetari. Sotto l’aspetto strutturale, cambiale e assegno mostrano caratteri di forte similitudine presentandosi come una promessa di pagamento del sottoscrittore a favore della persona indicata nel titolo (prenditore) (nell’ipotesi del pagherò cambiario – o vaglia cambiario o cambiale prorpia – e in quella dell’assegno circolare); ovvero come un ordine di pagamento impartito da un soggetto (traente) ad un altro soggetto (trattario) sempre a favore del portatore del titolo (nell’ipotesi delal cambiale tratta e in quelal dell’assegno bancario). Sotto l’aspetto funzionale, invece, i titoli cambiari vengono bipartiti in maniera differente: la cambiale tratta e il pagherò cambiario rispondono ad una funzione creditizia, ossia di differimento nel pagamento di una certa somma; l’assegno bancario e l’assegno circolare rispondono, invece, ad una f unzione di pagamento, consentendo a chi abbia somme disponibili presso una banca di utilizzarle per effettuare, suo tramite, pagamenti a terzi. Solo l’assegno, poi, si presenta inscindibilmente connesso con l’attività di intermediazione bancaria, dovendo di necessità sia il trattario di un assegno bancario che l’emittente di un assegno circolare essere banche. A differenza della moenta avente corso legale, la dazione di un assegno non comporta per sé l’immediata estinzione dell’obbligaizone pecuniaria. Il pagamento effettuato tramite assegno si intende, infatti, salvo buon fine: l’effetto estintivo si produce cioè solo nel momento in cui il prenditore dell’assegno lo incassi effettivamente ovvero nel momento in cui la somma di denaro indicata nel titolo entri nella sua disponibilità. Proprio la diversità di funzione tra cambiale e assegno conduce peraltro a dare maggiore spazio in questa sede, dedicata agli strumenti di circolazione della ricchezza mobiliare e in particolare del denaro, alle regole sull’assegno, limitando a brevi cenni l’analisi della disciplina della cambiale, nonostante qeust’ultima continui senza dubbio a rappresetnare un punto di riferimento sistematico per l’intera m ateria. La cambiale: cenni La cambiale è un documento che viene detto completo, nel senso che tutte le calusole che individuano e regolano il diritto cartolare di credito debbono essere contenute nello stesso documento cambiario. Solo ai fini fiscali è obbligatorio l’uso della apposita carta bollata e non per la validità della cambiale. Essendo un titolo normalmente all’ordine circola per mezzo della girata, che produce l’effetto di fare diventare il giratario portatore legittimo della cambiale. E’ un titolo astratto, perché il rapporto sottostante tra traente (o emittente) della cambiale e primo prenditore (detto rapporto di valuta) non risulta dal titolo e può essere il più vario (es. l’obbligo di pagare il corrispettivo di una compravendita). Nella cambiale tratta, oltre al rapporto di valuta intercorrente tra traente e primo prenditore, vi è il rapporto di provvista, intercorrente tra traente e trattario, che vede di solito quest’ultimo debitore della somma verso il primo per un debito non cambiario. In questa ipotesi, il trattario, pagando la cambiale, estingue contemporaneamente il rapporto di valuta del traente verso il prenditore e il rapporto di provvista di se stesso verso il traente.

La cambiale nasce con la dischiarazione cambairia del traente (o dell’emittente). Nella cambiale tratta puo accadere che il trattario accetti (scrivendo e sottoscrivendo sul documento una dichiarazione di accettaizone), diventanod obbligato cambiario. Oppure, nell’ipotesi di circolazione per mezzo della girata, è il girante a divenire obbligato cambiario nei confronti del proprio giratario e dei giratari successivi (funzione di garanzia). Vi possoon essere poi le dichiarazioni di avallo, con cui si garantisce il pagamento del debito cambiario assunto da un altro soggetto: anche gli avallanti diventano obbligati cambiari, assumendo la stessa posizione dell’obbligato cambiario per il quale hanno garantito, detto avallato. Gli obbligati cambiari si distinguono in obbligati diretti (emittente, accettante e loro avallanti) e obbligati di regresso (traente, giranti e loro avallanti). Alla scadenza, il pagamento della somma cambiaria deve essere chiesto al trattario nella cmabiale tratta, all’emittente nelal cambiale propria. Legittimato a chiedere il pagamento è il portatore legittimo della cambiale, cioè, trattnadosi di un titolo all’ordine, chi risulta ultimo giratario in base ad una serie continua di girate. Se l’obbligato principale rifiuta il pagamento della somma indicata, l’ultimo giratario puo rivolgersi per il pagamento ad uno qualunque, a sua scelta, tra gli altri obbligati cambiari. Solo se il pagamento è compiuto dall’emittente o, in caso di cambiale tratta accettata, dall’accettante (cioè, dall’obbligato principale) si estinguono tutti i rapporti cambiari; se, invece, il pagamento viene eseguito da un altro obbligato cambiario (ad es. un girante), questi puo pretendere a sua volta il rimborso di quanto ha pagato dai giranti che lo precedono, dal traente o dai loro avallanti. In questo consiste il c.d. ordine (o nesso) cambiario. La cambiale è infine un titolo esecutivo, i quanto il creditore cambiario ha il potere di dare avvio subito alal procedura esecutiva sui beni dei debitori c ambiari inadempienti. Proprio in ragione della spiccata vocazione creditizia della cambiale, va peraltro segnalato che sulla falsariga di tale titolo di credito è stata introdotta nel nostro ordinamento la figura della cambiale finanziaria, al preciso scopo di fornire alle imprese uno strumento di raccolta diverso dalle normali obbligazioni. Le cambiali finanziarie sono definite quali titoli di credito all’ordine, equiparate alle cambiali ordinarie, trasferibili per girata esclusivamente con la clausola “senza garanzia” o equivalenti. Le cambiali finanziarie sono titoli di serie, vale a dire emessi in numero plurimo a fronte di un unico finanziamento o di piu finanziamenti comuqnue riconducibili ad un unico programma di emissione. In sostanza, le cambiali finanziarie costituiscono un tipico strumento di finanziamento a breve termine che permette una diversificazione agli emittenti nella racoclta di risorse a agli investitori nell’impiego del risparmio. L’assegno bancario Uno dei piu comuni mezzi di pagamento è l’assegno bancario, del quale si serve chi stipula con una banca un contratto di conto corrente in virtù del quale, sulla base della c.d. convenzione di assegno, viene autorizzato dalla banca a trarre su di essa dei titoli di credito (detti, appunto, assegni bancari). Con l’assegno bancario il cliente (traente) ordina alla banca (trattaria) di pagare una determinata somma di denaro a favore del legittimo portatore del titolo (prenditore o beneficiario). L’assegno bancario non può essere accettato e, di conseguenza, la banca trattaria non diventa mai obbligato cartolare nei confronti del portatore legittimo dell’assegno, rimanendo solo obbligata extracartolarmente verso il traente, in forza e secondo il contenuto della convenzione di assegno. Gli assegni bancari sono di solito redatti su moduli stampati (che costituiscono il c.d. carnet degli assegni) che la stessa banca fornisce al cliente al momento della stipula della convenzione di assegno. In quanto titolo di credito e nel rispetto del pricnpio di letteralità, l’assegno bancario è soggetto ad alcuni requisiti formali: a) la denominaizone di assegno bancario; b) l’ordine incondizionato di pagare una som ma determinata; c) il nome del trattario; d) il luogo di pagamento; e) l’indicazione della data e del luogo di emissione dell’assegno; f) la sottoscrizione del traente. A differenza della cambiale, non è necessaria

l’indicaizone della scadenza perché la scadnza è sempre a vista. L’assegno può essere emesso con la specifica indicazione del nome del beneficiario ovvero –  con i limiti di recente introdotti dalla normativa antiriciclaggio su cui subit infra – al portatore e anche a favore dello stesso traente. Sempre nel rispetto degli appena richiamati limiti, l’assegno pagabile ad una persona determinata si trasferisce peer mezzo delal girata a meno che l’assegno sia emesso con la clausola non trasferibile; quello al portatore con la semplice consegna del documento. L’emissione dell’assegno bancario presuppone: a) l’esistenza della c.d. convenzione di assegno, ovvero dell’accordo in forza del quale la banca consegna al proprio cliente il libretto degli assegni, lo autorizza ad emetterli e, in presenza di fondi disponibili, si obbliga ad onorarli (di regola, tale convenzione è connessa al contratto di conto corrente bancario, come accennato); b) l’esistenza di fondi disponibili, ove per fondi disponibili non si intendono solo quelli risultanti da rapporti c.d. attivi (es. depositi in conto), ma anche quelli derivanti da operazione di concessione di credito da parte delal banca (es. aperture di credito). Tanto la mancanza della convezione di assegno quanto la carenza di fondi disponibili (c.d. assegno a vuoto) rendono l’ordine di pagamento non vincolante per la banca trattaria nei coonfornti del cliente. E’ previsto dalla legge che l’assegno bancario sia presentato per il pagamento entro un termine finalke che inizia a decorrere dalla data di emissione: vale a dire entro otto giorni se l’assegno è “su piazza”, ossia emesso nella medesima località (il comune) in cui opera lo sportello presso il quale è aperto il conto del traente; quindici giorni se l’assegno è “fuori piazza”. Trascorso questo tempo (termine utile) senza che vi sia stata richiesta di pagamento, si hanno varie conseguenze fra cui le piu importanti sono: a) si estingue l’obbligazione di regresso dei giranti; b) se il traente dà al trattario l’ordine dii non pagare l’assegno, il trattario lo deve eseguire (l’ordine!!). Dal canto suo il beneficiario perderà il diritto al “protesto”. Poiché l’assegno bancario è un titolo esecutivo, il beneficiario, dopo la formale constatazione del mancato pagamento mediante il protesto, puo esercitare l’azione di r egresso contro gli eventuali giranti. il protesto è un atto pubblico mediante il quale viene accertato, in modo formale, da parte di un notaio o di un ufficiale giudiziario il mancato pagamento di un assegno, consentendo a chi ha presentato l’assegno e non abbia ricevuto il pagamento di potere agire in via giudiziaria per ottenree la somma risportata nel titolo di credito. A frotne della depenalizzazione avvenuta nel 1990, coloro che emettono un assegno bancario senza autorizzazione (mancanza di “convenzioen di assegno) o a vuoto (mancanza di provvista) commettono un illecito amministrativo e sono soggetti a sanzioni pecuniarie e accessorie anche gravi che vengono graduate in relazione alla graivtà dell’illecito e all’importo dell’assegno (divieto di emettere assegni per un periodo, ecc.). Inoltre, in caso di mancato pagamento di un assegno per mancanza di autorizzaizone o di provvista, la banca trattaria iscrive il nominativo del traente nella Centrale di allrme interbancaria (CAI), un archivio informatizzato istituito presso la Banca d’Italia. Il beneficiario puo presentare l’assegno all’incasso presso la dipendenza della banca trattaria dove l’emittente ha il conto corrente: in tal caso la banca è tenuta a verificare, ol tre alla copertura dell’assegno (ovvero la sussitenza di fondi disponibili), l’autentiictà della firma del traente (confrontandola con lo specimen, raccolto al momento della stipula della convenzione di assegno), l’assenza di alterazione dell’assegno, al continuità delle girate. E puo incorrere in responsabilità di natura ocntrattuale verso il traente qualora l’assegno venga pagato in violazione dei suddetti doveri di controllo. E’ pero divenuto molto frequente che un assegno venga presentato all’incasso presso una banca diversa dalla trattaria, di solito quella dove il beneficiario è titolare di un co nto corrente. In tal caso la banca negoziatrice – girataria per l’incasso del titolo – accredita in c/c l’importo “salvo buon fine”, cioè a condizione che lo stesso venga regolarmente pagato dalla trattaria all’esito della negoziazione dell’assegno in Stanza di compensazione. L’assegno circolare

L’assegno circolare ha struttura di promessa di pagamento come il pagherò cambiario. Esso viene emesso direttamente – su richiesta del cliente – dalla banca emittente, la quale promette di pagare una somma determinata di denaro a favore del soggetto indicato nel titolo (a differenza di quello bancario l’assegno circolare non puo mai essere emesso al portatore) ed è, dunque, direttamente obbligata nri confronti di quest’ultimo. Possono emettere assegni circolari solo le banche a ciò strettamente autorizzate dalla Banca d’Italia e solo per somme che siano disponibili presso di esse al momento dell’emissione. Cio significa che la banca deve acquisire da chi richiede l’emissione del titolo la c.d. provvista, c he puo consistere nell’autorizzazione all’addebito sul conto corrente del richiedente ovvero nel versamento in contanti della somma corrispondente. Tale circostanza rende l’assegno circolare uno strumento di pagamento di assai elevata affidabilità. L’assegno circolare è invalido se non contiene gli elementi essenziali previsti dalla legge e cioè: a) la denominazione di assegno circolare; b) la promessa incondizionata; c) l’indicazione del prenditore; d) l’indicazione del luogo e della data di emissione; e) la sottoscrizione della banca emittente. All’assegno circolare si applicano in linea di principio le stesse norme previste per il pagamento dell’assegno bancario, con la peculiarità che il termine di presentazione è fissato in 30 giorni dalla data di emissione e la prescrizione dell’azione contro l’emittente nel termine di tre anni. Gli strumenti di pagamento “alternativi” al denaro contante Una ricognizione degli strumenti “alternativi” La seconda categoria di strumenti utilizzati nella prassi in luogo di trasferimenti materiali di denaro contante è quella dei c.d. strumenti “alternativi” di pagamento, i quali, come già accennato, risultano accomunati dalla caratteristica della totale assenza di traditio di pezzi monetari tra debitore e creditore, in luogo della quale vengono eseguite scritturazioni su conti da parte di soggetti all’uopo abilitati. L’operazione di maggiore diffusione è quelal denominata nella prassi “bonifico”. Con tal espressione ci si riferisce ad un procedimento di trasferimento di fondi che ha luogo su iniziativa di un soggetto  – titolare di un conto – il quale ordina il trasferimento della disponibilità di una detrminata somma dal suo conto ad un altro. Quando, invece, il trasferimento di fondi esordisce su iniziativa del so ggetto creditore anziché del debitore, viene in consideraizone un “addebito diretto”. In Italia, la forma più conosciuta di tale suddetto strumento di pagametno è il Rapporto Interbancario Diretto (c.d. RID), che permette l’incasso automatico dei crediti da parte di una azienda, previa sottoscrizione da parte del correntista di un’autorizzazione alla propria banca ad accettare gli ordini di addebito che l’azienda periodicamente invia (si pensi al periodico pagametno di utenze, affitti, rate di mutuo, ecc.). Per quanto concerne, invece, la tipologia di pagamenti mediante carta, va rilevato che ad essa vengno ricondotte sia le carte di debito (o di pagamento), che consentono transazioni e/o prelievi con contestuale movimentazione dei fondi disponibili sul conto corrente; sia le carte di credito, che consentono invece l’effettuazione di transazioni e/o prelievi con regolametno sul conto rinviato ad un momento successivo. Per quanto concerne le carte di debito, la piu importante e diffusa è il Bancomat, che consetne al titolare di un conto corrente bancario di prelevare presso gli spertelli automatici situati sull’intero territorio nazionale. Al servizio Bancomat si è poi affiancato il Pagobancomat, che permette al cliente di eseguire pagamenti senza utilizzare denato contante attraverso i c.d. terminali POS (point of sale) installati nei punti vendita. I prelievi sono consentiti soltanto nei limiti del saldo disponibile nel conto intestato al titolare della carta e nel limite di un massimale di utilizzo. Per quanto concerne, invece, le carte di credito, esse, come si è appena avvertito, consentono al titolare di acquistare beni o servizi non solo senza esborso di denaro contante, ma anche potendo differire nel tempo il pagamento: e cio in quanto l’addebito sul conto avviene decorso un certo lasso di tempo quando non addirittura ricorrendo a un meccanismo di restituzione rateale con contestuale corresponsione di interessi.

Le carte presuppongono un complesso accordo che vede la partecipazione di tre soggetti (emittente della carte, titolare della carta ed esercente convenzionato): tra emittente e titolare della c arta sussiste un rapporto c.d. di provvista, mentre tra emittente e fornitore dei beni o dei servizi una convenzione, in forza della quale il secondo si obbliga nei confronti del primo ad eseguire la prestaizone richiestagli dal titolare della carta ((di credito)), mentre il primo di obbliga nei confronti del secondo a pagare il corrispettivo del bene o del servizio. La disciplina dei servizi di pagamento: il d.lgs. 11/2010 (linee di fondo) Proprio della “famiglia” degli strumenti alternativi di pagamento è, come pure si è già accennato, venuto a occuparsi di recente il elgislatore comunitario attraverso l’emanazione della direttiva 2007/64/CE, sui servizi di pagamento nel marcato interno (Payment Service Directive), recepita nel nostro o rdinamento, con il d.lgs. 11/2010. Si tratta di un intervento con il preciso obiettivo di istituire un quadro giuridico moderno e coerente per i servizi di pagamento. La disciplina PSD si applica, infatti, a tutti i pagamenti in euro prestati nell’Unione Europea. In relazione all’ambito soggettivo, la nuova disciplina in materia di servizi di pagamento si applica alle banche, oltre che agli istituti di moneta elettronica, agli istituti di pagamento e a Poste Italiane s.p.a. La stessa disciplina si applica inoltre, sebbene in modo differenziato, ai rapporti intrattenuti con tutti i clienti, siano essi consumatori, micro-impresa o grandi imprese. Con la PSD si è scelto poi di dettare una disciplina a carattere trasversale delle operazioni di pagamento, non differenziata cioè secondo lo specifico “tipo” di operazione considerato (bonifico, addebito diretto, ecc.). Là dove, peraltro, il legislatore ha sentito la necessità di introdurre regole diversificate, l’ambito applicativo delle stesse è stato disegnato mediante il riferimento a due categorie di operazioni, distinte secondo il soggetto che dà avvio all’operazione: dunque operazioni su iniziativa del  pagatore e operazioni su iniziativa del beneficiario. Alla categoria delle operazioni dosposte dal pagatore sono attualmente ascrivibili: bonifici di varia tipologia, RiBa – ricevute bancarie, bllettini precompilati (quali MAV, ecc.). Alla categoria delle operazioni disposte su iniziativa o per il tramite del beneficiario sono invece ascrivibili gli addebiti diretti (RID – Rapporti Interbancari Diretti) e le operazioni realizzate principalmente mediante carte di pagamento (carte di debito e carte di credito). LA CRISI DELL’IMPRESA LA CRISI DI IMPRESA E LE RAGIONI DEL DIRITTO FALLIMENTARE Le ragioni e i presupposti di un diritto speciale Le vicende dell’impresa e la sua crisi Vi sono dei casi in cui l’attività di impresa è costretta, o rischia di ritrovarsi costretta, a cessare, in quanto venga meno quella sua capacità (c.d. equilibrio di impresa) di remunerare i costi di produzione con i ricavi che secondo l’art. 2082 c.c. – indicando l’economicità fra i requisiti costitutivi della fattispecie impresa – dovrebbe costituire il criterio utiliaristico che ne orienta e giustifica l’esercizio. A livello microeconomico, e comuqnue dei rapporti tra privati (che è poi il piano su cui prevalentemente verte il diritto commerciale) viene invece in questione la considerazione che una tale attività di impresa, solitamente finanziata mediante un ampio ricorso al credito, genera perdite che non riescono ad essere coperte con i ricavi ottenuti: ed allora debiti che non potranno essere pagati. Un tale squilibrio finanziario puo risalire – sempre che non dipenda da un incidente fortuito o da una dolosa preordinazione – a cause tipicamente industriali (eccessiva costosità della produzione, scarsa domand asul mercato, ecc.) o a loro volta piu strettamente finanziarie (ricorso ad un indebitamento eccessivo e/o a tassi insostenibili rispetto alle risorse proprie dell’imprenditore, ecc. In ogni caso, se questo accade, l’imprenditore che si è indebitato per l’esercizio della sua attività non è piu

in grado di far fronte regolarmente alle sue obbligazioni, situazione che l’art. 5 del r.d. 267/1942 (c.d. legge fallimentare) chiama di insolvenza; oppure, pur essendo ancora in grado, constata che è in corso una fase di declino, o di crisi, che lascia pronosticare come imminente uno stato di insolvenza. L’impresa dissestata, allora, o è costretta ad interrompersi, con il problema di come regolare, per quanot possibile, i debiti insoluti con un valore tendenzialmente insufficiente; oppure, proprio facendo leva su questo valore residuo, potrà tentare una soluzione  – industriale e/o finanziaria – per risanarsi e rilanciarsi. Una soluzione che potra anche consistere nella separazione dell’impresa stessa dall’imprenditore indebitato e nella sua prosecuzione da parte di un nuovo titolare che rilevi l’azienda. Le ragioni della disciplina fallimentare alle sue origini Quando coinvolge un’impresa commerciale, lo stato di insolvenza costituisce quella condizione di particolare tensione finanziaria alla cui regolazione il diritto commerciale si è sin dai suoi albori rivolto in quella sua parte tradizionalmente definita come “diritto fallimentare”. Si tratta evidentemente di regole diverse da quelle di diritto comune, da quelle cioè che dovrebbero normalmente applicarsi. Le ragioni di una tale specialità sono molteplici. In primo luogo, l’esigenza di una disciplina ad hoc per regolare l’insolvenza dell’imprenditore commerciale trae origine dalla particolare complessità di una tale insolvenza: ampio ed articolato risulta in effetti il ricorso al credito da parte di chi intraprenda un’attività commerciale; e conseguentemente molto piu frastagliato risulta il fronte dei creditori. Si rende cosi opportuna una procedura unitaria che consenta un’attuaizone coattiva e simultanea di tutti i debiti insoluti. Opportuna non soltano perché piu efficiente ed economica rispetto all’alternativa di una pluralità di azioni esecutive individuali su singoli beni del debitorie; ma anche piu equa rispetto ad una tale alternativa, poiché opererà a favore di tutti e sotto l’egi da di un’autorità che assicuri un trattamente paritario dei creditori, e non solo nell’interesse di coloro che, in caso di iniziative individuali, risultino piu vigili e lesti ad aggredire il patrimonio del debitore. In questa prospettiva la procedura ese cutiva diventa collettiva, perché nnon affidata all’iniziativa dei singoli ma operante a favore dela collettività dei creditori; ed universale, riguardando tutti i debiti dell’imprenditore e coinvlgendo l’intero suo patrimonio. Puo dirsi allora che per tal via si apre un concorso sul patrimonio del fallito da parte di tutti i creditori; d’onde anche il nome, per il fallimento, di procedura concosrsuale. Un concorso tale per cui tutti i creditori meriteranno di essere soddisfatti in eguale proporzione, secondo il principio della c.d. pa condicio creditorum (o proporzionalità), salvi i casi in cui questo o quel creditore riesca ad avvalersi, pur all’interno della procedura, di precostituite ragioni di preferenza (es. pegno o privilegio). Fermo restando coomunque che, se piu creditori si trovassero a vantare una pari preferenza, tornerà ad operare, all’interno della loro cerchia, il principio della par condicio. I creditori “normali” (quelli cioè che non goodono di cause di preferenza) sono detti chirografari. D’altra parte, fra le ragioni che hanno originato lo sviluppo del diritto fallimentare quale eccezione al diritto comune milita anche la considerazione che l’insolvenza che esso è chiamato a regolare desta anche maggiore allarme sociale, in quanto capace di provocare, in una sorta di eff etto domino, ulteriori dissesti imprenditoriali, trascinando nell’insolvenza anche quelle controparti ccommerciali (fornitori, finanziatori) che, avendo fatto credito all’imprenditore poi divenuto insolvente, non riescano a recuperare quanto prestato. Col rischio allora di destabilizzare parti significative del sistema economico oltre a danneggiare la reputazione e l’affidabilità dell’intero ceto imprenditoriale. Il preuspposto soggettivo delle procedure concorsuali (rinvio) Sono tutte ragioni, quelle appena individuate, che si affermano per iniziativa del ceto mercantile e che, in effetti, trovano senso proprio con riferimento alla attività di quello che oggi chimiamo imprenditore commercilae non piccolo, destinatario della attuale disciplina fallimentare. Eppure, se cio è vero in linea di massima, neppure puo escludersi c he quella particolare funzionalità della procedura fallimentare a regolare uno stato di insolvenza particolarmente complesso come quello del

marcante potrebbe apprezzarsi anche rispetto ad uno stato di insolvenza riferibile ad altre figure di debitore (c.d. debitori civili). Si pensi non soltano a colo che non svolgoono alcuna attività di impresa; ma anche agli imprenditori agricoli, ai piccoli imprenditori, ai lavoratori autonomi, ai professionisti intellettuali. Naturalmente cio non deve portare a mettere in dubbio che fra le condizioni di applicabilità della vigente disciplina fallimentare operi, quale necessario presupposto soggettivo, la qualifica di imprenditore commerciale non piccolo del debitore insolvente. Eppure, la consideraizone di un’appoosta disciplina dell’insolvenza del debitore civile non è rimasta sempre estranea al diritto. Esigenza, questa, tanto piu avvertita quando si debba constatare che anche il c.d. debitore civile ricorre al credito in proporzioni e secodno modalità tali da generare istanze di regolazione di una sua eventuale insolvenza, non cosi diverse da quelle a cui provvede il diritto fallimentare. E cosi anche nel nostro ordinamento, affianco al la legge fallimentare, è comparsa una particolare procedura vol ta alla “composizione del sovraindebitamento” oo alla “liquidazione del patrimonio” di coloro che non sono assoggettati alle procedure concorsuali previste dalla legge fallimentare. Su altro versante, puo poi registrarsi un’ulteriore apertura anche nei confronti dell’imprenditore agricolo, ammesso ad avvalersi, oltre che della disciplina appena ricordata, di una particolare procedura giudiziaria prevista dalla legge fallimentare, volta alla omologazione giudiziaria degli accordi di ristrutturazione dei debiti, al fine di favorire una soluzione della crisi concertata con i creditori piu importanti (v. infra). La legge fallimentare e il sistema concorsuale La c.d. legge fallimentare non prevede soltanto la disciplina del fallimento, ma anche altre due procedure concorsuali: il concordato preventivo e la liquidazione coatta amministrativa. Ma il nostro ordinamento concorsuale neppure puo dirsi esaurito dalla legge fallimentare, in quanto contempla un’altra importante procedura concorsuale denominata amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza. Si riscontra dunque una pluralità di procedire che, pur essendo al pari del fallimento volte a realizzare un concorso dei creditori sul patrimonio dell’imprenditore in crisi, risultano ad esso alternative. La spiegazione del perché siano previste piu procedure per regolare un fenomeno che puo considerarsi unico, vale a dire il dissesto delle imprese commerciali, puo approcciarsi attraverso tre generali chiavi di lettura del nostro sistema concorsuale. Le sooluzioni negoziate della crisi di impresa Una prima chiave di lettura va individuata nel parallelo attestarsi di percorsi di composizione della crisi di impresa frutto piuttosto di un accordo fra debitori e creditori anziché, come nel fallimento, di una procedura esecutiva condotta autoritativamente secondo un percorso liquidatorio predeterminato dalla legge. tali soluzioni negoziate della crisi di impresa – che possono essere intraprese prima ancora che l’impresa giunga in stato di “decozione” – possono offrire infatti il vantaggio di conseguire risultati piu proficui di un fallimento. Un accordo puo in effetti consentire al debitore di sfuggire agli effetti piu indesiderati del fallimento (sia in termini di sanzioni personali – cio che all’origine veniva detto salvaconodotto – che sdi spossessamento del suo patrimonio, nonché, di schiacciante e perpetua esposizione all’indebitamento accumulato). Ma puo consentire anche ai creditori di ottenere, grazie all’impegno dell’imprenditore, una soddisfazione che, seppur non integrale, risulti maggiore di quella che potrebbero ricavare all’esito di un fallimento. In tal modo si aiuterà l’imprenditore a risollevarsi dalla crisi, o comunque a disporre del necessario margine di manovra per poter adempiere alla propria promessa. Queste soluzioni, avendo natura consensuale, si lasciano di per sé ricondurre ad una prospettiva puramente privatistica, in cui ogni singolo creditore (ma non necessariamente tutti) decide liberamente per sé: non ravvisandosi percio alcun genere di concorsualità. E in effetti la prassi dei c.d. accordi stragiudiziali di soluzione (o prevenzione) della crisi di impresa è sempre stata presente nel mondo degli affare, senza che cio implicasse il ricorso ad alcuna procedira concorsuale. Dove pero il diritto concorsuale è venuto a formarsi è stato nel momento in cui tali accordi sono stati

assunti dalla lege quale possibile oggetto di una procedura giudiziaria capace di conferir loro, a certe condizioni, una portata e degli effetti che essi, da soli, (e cioe quale mera espressione dell’autonomia privata) non avrebbero mai potuto raggiungere (c.d. effetti legali). E cosi, innanzitutto, la possibilità che le condizioni previste nell’accordo raggiunto dal debitore con i titolari della maggioranza dei crediti si estendano de si impongano anche a quegli altri creditori che non vi abbiano aderito. In questo modo, grazie anche all’incentivo di ulteirori effetti legali di natura protettiva, le soluzioni della crisi di impresa, pur restando fondamentalmente il frutto di una libera negoziazione, possono arrivare là dove l’autonomia privata non potrebbe arrivare, e cois divenire effettivamente realizzabili anche a dispetto del dissenso di una minoranza di creditori. Fra gli effetti legali protettivi opereranno infatti (oltre alla sottrazione del fallito alle afflizioni personali, l’originario salvaconodtto o fida) anche la sottrazione del ad iniziative cautelari ed esecutive, e la conservazione della disponibilità del patrimonio e dell’amministrazione della prorpia impresa. Appartiene a questo novero di eprcorsi la procedura del concordato preventivo. Ma anche quelle ulteirore procedura (benché non propriamente concorsuale, dal momento che non opera secodno il principio di maggioranza, pur propagando i suoi effetti anche ai creditori non aderenti alla proposta) diretta alal omologazione degli accordi di ristrutturazione. E sono inoltre da ricondursi allo stesso ambito le soluzioni concordatarie praticabili all’interno delle procediure di liquidaizone coatta amministrativa e di amministrazione straordinaria; nonché all’interno della stessa procedura fallimentare (c.d. concordato fallimentare), che puo in tal modo vedere il suo consueto percorso liquidatorio, quale predefinito dalla legge, deviare verso un differente percorso tracciato dall’iniziativa privata. Deve cosi prendersi atto, in definitiva, che all’interno del nostro sistema concorsuale conv ieve, a finaco della vocazione tipicamente pubblicistica, un’anima privatistica che lascia ampio spazio all’autonomia privata. Il che, sempre di piu nei tempi recenti, ha portato a pralre di privatizzazione delle procedure concorsuali. La salvaguardia dei complessi produttivi V’è poi una seconda chiave di lettura che consente di comprendere l’articcolazione del vigente sistema concorsuale. Essa deriva dal fatto che sempre piu, nel diritto concorsuale moderno, alla tradizionale vocazione liquidatoria del complesso aziendale e afflittiva del debitore insolvente, tipica del fallimento, si è affiancata, sino fors e a divenire prevalente, una nuova sensibilità legislativa orientata a comporre l’insolvenza prodottasi, o addirittura a pr evenire un’insolvenza non ancora prodottasi, salvaguardando il complesso produttivo delle impresa in crisi. In tal modo puo consentirsi all’imprenditore di restare alla guida della sua impresa o comunque di cederla a terzi ma almeno, i tale ipotesi, con il vantaggio di uscirne in modo pi u utile ed onorevole. Il risanamento o comunque la cessione sul mercato dell’azienda perché altri possa proseguirne l ’esercizio, puo in effetti consentire un risultato ben piu soddisfacente dello smembramento del complesso aziendale e della successiva liquidazione dei signoli cespiti che lo compongono. Questa maggiore utilità sarà apprezzabile non soltanto dal punto di vista del debitore (per le ragioni poc’anzi ricordate); ma anche e soprattutto per i creditori, che con la prosecuzione dell’impresa risanata potranno beneficiare di nuovi flussi finanziari capaci di ripagarli al meglio di quanto si sarebbe potuto sperare per effetto di una liquidazione spiccia. Anche interessi piu diffusi, ulteriori rispetto a quelli del debitore e dei creditori, ma che comunque ruotano intorno all’impresa (dei lavoratori innanzitutto, ma poi anche del circostante tessuto economico) possono inoltre trarre giovamento dalla prosecuzione dell’attività di impresa. In questa prospettiva di salvataggio del complesso prosuttivo delle grandi imprese e di mantenimento dei relativi livelli occupazionali, trova giustificazione in primo luogo la procedura, già acc ennata, di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza. ma anche il concordato rpeventivo si presta in larga misura al risanamento di un’impresa insolvente o, giocando d’anticipo, alla prevenzione dell’insolvenza di un’impresa in crisi, grazie alla possibilità di un piano reso realizzabile, come sopra segnalato, grazie all’alleggerimento della complessiva esposizione devbitoria,

nei temrini consentiti dagli stessi creditori che l’abbiano approvato. E persino all’interno della stessa procedura fallimentare non mancano opzioni capaci di assecondare la salvaguardia del complesso produttivo e dei livelli occupazionali. Si tratta di opzioni che si possono ravvisare, all’intenro della disicplina del falliemnto, in quelle sue parti che ammettono l’affitto e poi la cessione in blocco, ovvero di suoi rami; o anche, medio tempore, una prosecuzione dell’at tività di impresa da parte degli stessi oorgani della procedura. Le c.d. procedure amministrate Secondo una terza chiave di lettura generale, la struttura del nostro ordinamento concorsuale si lascia spiegare considerando la pesante componente amministrativa che, per tal une procedure, si giustappone a quella giudiziaria, talora marginalizzandola. Il fallimento e il concordato preventivo – insomma le procedure concorsuali piu tradizionali – si sono sempre svolte, e tuttora si svolgono, sotto il presidio dell’autorità giudiziaria, che è l’unica autorità pubblica coinvolta. In questa prospettiva, e conformemente al suo ruolo tipicamente terzo, l’autorità giudiziaria si limita allo ius dicere. Al giudice, insomma, interessa soltanto che la procedura si svolga secondo il percorso e le finalità indicate dalla legge. E questa, per la verità, dovrebbe essere la regola. Nel nostro sistema operano invece, come sopra accennato, due altre procedure oltre al fallimenton e al concordato preventivo: la liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza. Procedure che, cime rileva il loro stesso nomen juris, sono accomunate dal fatto di risultare amministrate, gestite cioe da un apparato al cui interno il ruolo di primo piano risulta affidato alla autorità amministrativa, pur non restando del tutto escluso l’intervendo dell’autorità giudiziaria. Il fallimento e il concordato preventivo dovrebbero in principio risultare le procedure concorsuali (giudiziarie) centrali all’interno del nostro sistema. Cosi è a dirsi infatti nella prospettiva storica e anche dal punto di vista della loro rilevanza sistematica. Tuttavia, se volesse analizzarsi la realtà del diritto vivente dal punto di vista della rilevanza economica delle crisi di impresa regolate nel nostro ordinamento concorsuale, il giudizio ne risulterebbe capovolto. La maggior parte delle imprese piu importanti – per tipo di attività svolta (si pensi, con riferimento alla liquidazione coatta amministrativa, alle banche, alle assicurazioni, ecc.) e in termini di fatturato (come sono solitamente le altri grandi imprese in crisi cui è riservata l’amministrazione straordinaria) – risultano infatti, in caso di crisi, normalmente assoggettate alle procedure amministrate. Ne risulta cosi un sistema fortemente anomalo. IL FALLIMENTO I PRESUPPOSTI DEL FALLIMENTO E L’APERTURA DELLA PROCEDURA I presupposti Il c.d. presupposto soggettivo (rinvio) Le norme che regolano le procedure concorsuali, secondo quanto chiarito all’art.1 l.fall., si applicano all’imprenditore: i) che eserciti un’attività commerciale; ii) le dimensioni della cui azienda consentano di qualificarlo come “non piccolo”; iii) “privato”: esclusi cioè gli enti pubblici. Deve ora aggiungersi che se la sussistenza di quei requisiti, complessivamente assunti quali “presupposto soggettivo” del fallimento, è condizione necessaria perché possa aprirsi una procedura fallimentare, non è anche sufficiente. La legge richiede infatti la susstenza anche di un’altra condizione: lo stato di insolvenza, ritenuto perciò il presupposto oggettivo del fallimento. Secondo l’art. 5, infatti, l’imprenditore (avente i requisiti sopra elencati) che si trova in stato d’insolvenza è dichiarato fallito.

Il c.d. presupposto oggettivo: lo stato di insolvenza “Lo stato d’insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è piu in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni” (art. 5, co.2). Emergono due profili del presupposto oggettivo del fallimento: quello intrinseco, legato alla condizione di obiettiva impotenza finanziaria (l’incapacità di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni); e quello estrinseco, legato alla soggettiva percettibilità di tale condizione attraverso fatti esteriori che la manifestino. i) Cominciando dal primo profilo, l’incapacità ad adempiere alle proprie obbligazioni viene dalla legge riconosciuta dalla legge come rilevante nella sua obiettività, a prescindere cioè dalle eventuali responsabilità del debitore o, comunque, dalle cause, seppure f ortuite, che hanno determinato il dissesto. Neppure importa il numero dei creditori, foss’anche uno solo. Neppure importa, infine, il numero delle obbligazioni che gravano sull’imprenditore o, in principio, il loro ammontare o il fatto che siano già scadute oppure no. Si dice “in principio”, tuttavia, perché in realtà l’art. 15, co.9, stabilisce che “non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro trentamila”. Se l ’ammonstare ocmplessivo dell’indebitamento è ridotto, infatti, i costi della procedura (a cominciare dai compensi del curatore) potrebbero risultare sproporzionati rispetto al fine perseguito, meglio valendo, allora, lasciare l’iniziativa esecutiva ai singoli creditori. La condizione prevista dalla legge, facendo riferimento alla “incapacità ad adempiere regolarmente alle porprie obbligazioni” consente poi di chiarire meglio il rapporto, che non è di necessaria coincidenza, fra insolvenza e inadempimento. Al proposito, viene innanzitutto in questione il requisito della regolarità, dal quale deriva che potrebbe ben esservi un’incapacità ad adempiere “regolamrmente” anche quando non consti (ancora) alcun inadempimento. La regolarità dei pagamenti riguarda infatti non solo l’integralità e la puntualità dei singoli adempimenti, ma anche le modalità attraverso cui li si effettua o ci si procura il denaro necessario. Non risulterebbe cosi capace di adempiere regolarmente ad es. chi, pur adempiendo per l’intero e alla scadenza, adempisse con mezzi anomali (datio in solutum – ad es. di gioielli personali), ovvero procurandosi denaro in modo anomalo, ad es. alienando cespiti aziendali che potrebbero compromettere la continuità dell’impresa. Naturalmente, ognuno di questi elementi non co stituirà prova certa, ma solo un indizio, da valutarsi nel caso concreto, dell’incapacità di adempiere regolarmente. In altri termini, seppure è vero che la condizione di insolvenza rileva nella sua attualità (e quindi non se verificatasi nel passato ma oramai superata; ovvero non ancora prodottasi ma soltanto temuta come imminente), è pur vero che la irregolarità degli adempimenti già rileva come insolvenza proprio perché lascia pronosticare che il debitore, a breve, non potrà piu adempiere, neppure irregolarmente. Il che costituisce un pericolo attuale, e non solo temuto, per i creditori dell’impresa. Per altro verso, poi, il concetto di “capacità” esprime una mera potenzialità. E quindi la condizione di chi sia in grado di adempiere, avendo i mezzi per farlo, anche a prescindere dal fatto che poi, in concreto, si astenga dal farlo. Potrebbe cosi eddervi capacità ad adempiere regolarmewnte pur in presenza di uno o piu inadempimenti (es. quando il debitore nonn è che non possa, ma semplicemente di rifiuti di adempiere perché contesti la pretesa del creditore, ad es. disconoscendone il titolo, in ipotesi invalido). ii) Venendo ora al profilo estrinseco dell’insolvenza, prevede l’art. 5, l. fall. che l’incapacità ad adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni deve “manifestarsi, con i nadempimenti o altri fatti esteriori. Degli inadempimenti veri e propri, e dell loro rilevanza, anche indiziaria, se’è già detto poc’anzi: dovendosi peraltro aggiungere, nella prospettiva ora esaminata, che anch’essi, a loro volta, possono manifestarsi in diversi modi: ad es. mediante una sentenza di condanna a pagare, un sequstro conservativo, ecc. Sono comunque possibili molti altri “fatti esteriori” capaci di rivelare l’insolvenza del debitore. Alcuni di questi fatti sono presi in considerazione dalla stessa legge, fra cui l’irreperibilità, la fuga, il suicidio dell’imprenditore, o ancora le risultanze contabili, ecc.

in definitiva, nelal prospettiva processuale e quindi pratica, ciò che conterà in sede di istruttoria prefallimentare sarà l’accertamento di concreti fatti rivelatori di un’insolvenza: non bastando quindi isolati indizi, ma occorrendo un quadro probatorio, quantunque di natura indiziaria, complessivamente espressivo di tale stato. L’apertura della procedura Il fallimento è dichiarato da un tribunale civile, per iniziativa privata o pubblica. a1) E’ privata l’iniziativa di uno o piu creditori. A que sto fine il creditore (o i creditori) proporranno ricorso al tribunale dovendo anzitutto legittimarsi provando la propria qualità di creditori. Essi dovranno quindi provare l’esistenza di un credito, anche se non necessariamente liquido o scaduto e neppure  superiore all’ammontare minimo (trentamila euro) preteso dalla legge per aprire la procedura (potrebbero infatti esservi altri creditori). Il creditore procedente dovrà poi al legare la sussistenza dei presupposti del fallimento, eventualmente offrendo mezzi di prova a supporto; il che non è però indispendabile, considerati gli autonomi poteri di verifica del tribunale, una volta che il ricorso sia stato presentato. a2) D0altra parte è lo stesso debitore che, sempre con ricorso, potrebbe chiedere di essere dichiarato fallito (c.d. autofallimento). b) L’iniziativa pubblica è affidata alla ric hiesta, sempre rivolta al tribunale competente, di un pubblico ministero al quale risulti l’insolvenza di un’impresa fallibile. Ciò può accadere ad es. per effetto della  notizia di alcuno di quei fatti esteriori rivelatori, come la fuga, l’irreperibilità, ecc. Oppure può accadere durante un procedimento penale al quale partecipi lo stessoo P.M., compresi i procedimenti da lui intrapresi per far valere un reato fallimentare. D’altronde, la notizia dell’insolvenza potrebbe provenire al P.M. anche dalla segnalazione di un giudice civile che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento, ecc. Tribunale competente sarà quello del luogo dove si trova la sede principale dell’impresa. Quale debba intendersi “sede principale” non è adeguatamente descritto dal legi slatore, ma v’è sostanziale concorsi nel ritenere che essa, pur potendo coincidere con la sede legale, possa anche essere diversa designando il luogo dove effettivamente si concentra la direzione dell’impresa. Il procedimento si conclude con una sentenza dichiarativa di fallimento oppure con un decreto di rigetto. La sentenza dichiarativa di flalimento, necessariamente motivata, ha innanzitutto natura di accertamento costitutivo quanto allo stato di fallito, derivandone, appunto, tutti gli effetti connessi all’apertura della procedura fallimentare. Effetti che si produrranno nei confronti delle parti dopo che essa sia stata notificata o comunicata ad esse; e nei confornti dei terzi doopo la sua iscrizione nel registro delle imprese. La sentenza, inoltre, conterrà ulteriori provvedimenti di natura ordinatoria per la prosecuzione della procedura stessa: nominando alcuni organi della procedura (il giudice delegato e il curatore); or dinando al fallito il deposito della documentazione relativa alla sua situaizone economica e finanziaria, ove già non v’abbia provveduto; ecc. ((Contro la sentenza potrà eessere proposto reclamo dinanzi alla Corte di Appello dal debitore o da ogni altro interessato. Intereessato potrà essere ad es. un creditore che intenda proseguire un’azione esecutiva individuale. Il reclamo, comunque, non sospenderà gli effetti della sentenza impugnata. La Corte d’Appello, con sentenza, potrà rigettare il reclamo, ed allora la procediura fallimentare proseguirà; ovvero potrà accogliere il reclamo, revocando il fallimento. In quest’ultimo caso resteranno comunque fermi gli effetti degli atti legalmente compiuti dagli organi della procedura.)) Il procedimento per la dichiarazione di fallimento potrebbe concludersi anche con un motivato decreto di rigetto, fondato sull’accertata insussistenza dei presuposti, soggettivo o oggettivo, del fallimento; o della soglia minima dei trentamila euro di debiti scaduti facenti capo all’imprenditore; o della stessa qualità di creditore di chi avesse proporsto ricorso come tale. ((Il decreto, al pari della sentenza dichiaraticva di falimento, potra allora costituire oggetto di reclamo dinanzi alla Corte d’Appello. Se accoglierà il reclamo, però, la Corte d’Appello non provvederà direttamente alla dichiarazione di fallimento, ma rimetterà gli atti, a tal fine, al tribunale.))

GLI ORGANI DEL FALLIMENTO Il tribunale E’ il tribunale innanzitutto che apre la procedura dichiarando il fallimento, come detto. E dell’intera procedura fallimentare il medesimo tribunale resta poi investito. Il tribunale, in effetti, non soltanto nomina, già nella sentenza dichiarativa di fallimento, altri due importanti organi quali sono il giudice delegato e il curatore; ma puo anche, sorvegliando lo svolgersi della procedura, revocarli o sostituirli per giusitifcati motivi. Al fine di una tale sorveglianza il tribunale, oltre ad avere un rapporto diretto con il giudice delegato può in ogni tempo sentire gli altri organi fallimentari e lo stesso fallito. La sovraordinazione del tribunale si esprime del resto nel suo potere di decidere tutte le controversie relative alla procedura che non siano di competenza del giudice delegato: (i) quelle, per così dire, “interne” ad essa (come ad es. i reclami contro i provvedimenti del giudice delegato, o la revoca del curatore); (ii) ma anche, sul versante esterno, tutte le zioni c he ne derivano. Ma quali sono le cause che derivano dal fallimento? Bisogna innanzitutto dire che si tratta di cause che in assenza della procedura fallimentare potrebbero essere di competenza di altri giudici ma che, per il fatto di derivare dal fallimento, determinano una competenza inderogabile del tr ibunale fallimentare. La questione non si pone quindi per quelle controversie che è la stessa legge fallimentare a rimettere espressamente alla competenza del tribunale. Derivano invece dal fallimento quelle cause che non avrebbero avuto ragion d’essere in assenza del fallimento, che ne r appresenta cosi la premessa in diritto: cosi le controversi in cui si dibatta se la procedura fallimentare abbi prodotto lo scioglimento o non di un certo contratto. Non devono invece ritenersi, in princpio, derivate dal fallimento le cause che il fallito avrebbe potuto proporre per suo conto, anche a prescindere dal fallimento. Tale sarebbe l’azione per ottenere il pagamento di una fornitura effettuata. Il giudice delegato E’ con decreto che il giudice delegato assume le decisioni attraverso cui svolge il suo centrale r uolo per la procedura. Egli non la dirige ma, ben piu da vicino del tribunale, vigila e controlla la sua regolarità. Del resto, il rapporto del giudice delegato col tribunale è molto stretto, entrambi condividendo la natura di organo giurisdizionale e l’appartenenza al medesimo ufficio giudiziario. Il raccordo con il tribunale si instaura infatti quando questo nomina, scegliendolo al suo interno, il giudice delegato; e si sviluppa nel continuo rapporto fra questi e il collegio, al quale, anzi, il primo dovrà riferire su ogni affare per il quale è richiesto un provvedimento del medesimo collegio, e quindi anche in merito alle controversie sulle quali il collegio è chiamato a decidere. La vigilanza del giudice delegato presuppone innanzitutto un’adeguata informazione: quella che gli provenga appositamente dal curatore. Si estrinseca poi nel condizionare lo svolgimento della procedura, e l’operato del curatore in particolar modo: nominando, e potendo revocare, il comitato dei creditori; autorizzando egli stesso alcune importanti scelte gestorie del curatore; decidendo i reclami proposti contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori; ecc. Il curatore Il curatore – nominato dal tribunale fra soggetti muniti di particolari requisiti di prof essionalità, esperienza ed indipendenza – è l’organo, investito della qualità di pubblico ufficiale, che operativamente si fa carico di attuare le finalità della procedura. A questo fine egli ha “l’amministrazione del patrimonio fallimentare” e compie – sia pure sotto la vigilanza

degli altri organi – tutte le operazioni della procedura. Egli è pertanto legittimato a compiere atti negoziali con terzi (es. stipulando un contratto di affitto di azienda) e a stare in giudizio per conto della procedura (es. intentando un’azione revocatoria). Nell’esercitare questo potere il cur atore è sostanzialmente autonomo, tanto ciò è vero che i suoi atti possono costituire oggetto di reclamo solo dal punto di v ista dell’eventuale violaizone di legge, ma non sono sindacabili nella loro “discrezionalità tecnica”. l’autonomia e la discrezionalità delle iniziative del curatore non è del resto contraddetta dal fatto che la sua legittimazione risulti talora condizionata da autorizzazioni: tanto cio vero che queste non avrebbero comunque la possibilità di esimerlo da responsabilità. Si tratta (i) delle autorizzazioni del giudice delegato (come quella a continuare l’esercizio dell’impresa) o (ii) di quelle del comitato dei creditori per gli atti di straordinaria amministrazione: ad es. per le riduzioni di crediti, ecc. Se poi si tratti di atti che attuino l’azione liquidatoria pianificata in un “programma di liquidazione”, questo dovrà essere approvato da comitato dei creditori e comunicato al giudice delegato, che autorizzarà il compimento degli atti ad esso conformi. Poco dopo l’inizio della sua attività il curatore dovrà presentare al giudice delegato una relazione particolareggiata sulle cause e sulle c ircostanze del fallimento e sulle eventuali responsabilità, anche penali, del fallito; dopodiché, ogni sei mesi, un rapporto riepilogativo sulle attività svolte. All’esito del suo mandato, infine, renderà il conto della gestione, col che, salvo contestazioni, potrà dirsi liberato da responsabilità. Se invece, dopo il rendiconto ma anche durante la procedura, gli venisse contestato di non aver adempiuto ai suoi doveri con la diligenza professionale, potrà essere revocato e subire un’azione di responsabilità. Si tratta di responsabilità civile e di natura contrattuale. Neppure rimane esclusa, d’altronde, un’eventuale responsabilità penale (ad es. per essersi appropriato di somme della massa fallimentare). Il comitato dei creditori I poteri di gestione del curatore, come visto, vengono ad essere fortemente compartecipati, non tanto nella legittimità quanto nel merito, dal comitato dei creditori. Questo, infatti, è chiamato a condividere le iniziative del curatore, spesso autorizzandole (una fr a tutte: l’approvazione del piano di liquidazione), talvolta limitandosi ad esprimere un mero parere no n vincolante. Il comitato dei creditori è composto da creditori scelti dal giudice delegato in modo da rappresentare in misura equilibrata quantità e qualità dei crediti ed avuto riguardo alla possibilità di soddisfacimento dei crediti stessi. Il comitato ha ampi poteri ispettivi (si tutta la documentazione della procedura) ed informativi (chiedendo notizie al curatore e al fallito); decidendo poi a maggioranza dei votanti. Anche contro tali decisioni, come per i provveedimenti del curatore, è ammmesso reclamo al giudice delegato da parte del fallito o di ogni altro interessato, per violazione di legge. Il giudice deciderà poi con decreto motivato, a sua volta reclamabile da tribunale. GLI EFFETTI DEL FALLIMENTO Per il debitore Lo spossessamento Una prima serie di effetti della dichirazione di fallimento investe la legittimazione dell’imprenditore fallito a disporre del suo patrimonio. Si tratta del c.d. spossessamento: la sentenza che dichiara il fallimento priva il fallito dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento (art.42): per beni intendendosi ogni situazione giuridica attiva, anche processuale, di cui il fallito sia titolare. Da questo momento in poi e per tutta la durata della procedura, infatti, tali poteri spetteranno al curatore, al fine di destinare il patrimonio del fallito alla soddisfazione dei creditori, dando cosi attuazione al generale principio della responsabilità patrimoniale (art. 2740 c.c.). Il quale principio comporta che il debitore

risponda non solo con i suoi beni presenti, ma anche con quelli futuri. Sicché saranno tendenzialmente compresi nell’asse fallimentare anche i beni che pervengano al fallito durante la procedura (es. un’eredità o il denaro guadagnato per mezzo di attività lavorativa). Il c.d. spossessamento si caratterizza per la relatività della sua efficacia. Esso: (i) opera soltanto a beneficio dei creditori concorsuali e (ii) non riguarda necessariamente tutti i beni del fallito (vi sono beni infatti che per legge non sono compresi nel patrimonio fallimentare e in particolare quelli necessari per il mantenimento proprio e della famiglia, o i diritti di natura strettamente personale). Sopratturro, poi, per quanto riguarda i beni appresi alla massa, (iii) incide sulla sola legittimazione del fallito ad amministrare i beni o a disporne, ma non certo sulla titolarità dei relativi diritti, che permane immutata almeno sino a quando essi non escano dal patrimonio appresa alla curatela per essere stati ceduti a terzi nell’ambito della liquidazione concorsuale. Tanto ciò è vero, che se all’esito della procedura una tale cessione non avesse avuto luogo, il fallito non solo potrebbe dirsi ancora titolare dei diritti sui beni residui, ma recupererebbe anche la piena legittimazione a disporne, posta la temporaneità dell’effetto dello spossessamento. L’inefficacia degli atti del fallito e dei pagamenti eseguiti o ricevuti Perdere la legittimazione a disporre dei beni aprpesi alla procedura, dunque, significa soltanto che, finché essa dura, nessuna iniziativa del fallito (a meno che non sia “ratificata” dal curatore), potrà distogliere quei beni dalla finalità di soddisfare i creditori: rispetto ai quali, quindi, ogni iniziativa del fallito resterà del tutto inefficace. Ma si tratterà appunto di inefficacia relativa. Difatti, siccome il fallito, per effetto dello spossessamento, né perde la titolarità dei suoi beni, né d’altronde perde la generale capacità d’agir e, cio vuol dire che un atto da lui compiuto dirante la procedura sarebbe in principio valido e produrrebbe i suoi effetti nei confronti dei terzi; ad eccezione pero dei creditori concorsuali, rispetto ai quali quell’atto sarebbe incapace di modificare la consistenza del patrimonio fallimentare. Ad es. se il fallito, con regolare atto di vendita trascritto nei registri immobiliari, alienasse un bene immobile compreso enll’asse fallimentare, cio sarebbe del tutto inefficace per la procedura, e quindi il curatore ben potrebbe vendere quell’immobile e destinare il ricavato ai creditori concorsuali. Ma ciò non impedirebbe che, di conseguenza, il terzo che abbia acquistato dal fallito, proprio invocando la validità dell’atto compiuto, potrebbe dopo la chiusura della procedura, agire contro l’alienante per l’evizione  subita. Diversamente, se il bene non fosse stato ceduto a nessuno per effetto della procedura, una volta che questa fosse chiusa, l’atto di vendita, ad origine valido, potrebbe spiegare appieno i suoi effetti. Analogamente, se il fallito avesse assunto un obbligaazione verso un terzo, il r elativo credito non potreebbe essere fatto valere nei confronti della massa; ma nei cofnronti del fallito, dopo la chiusura della procedura, sì. E’ questa quindi il significato della regola secondo cui “tutti gli atti com piuti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori”, a prescindere dal loro effetto pregiudizievole o meno per i creditori. Regola che poi, per le stesse ragioni, si estende anche ai pagamenti eseguiti e ai pagamenti ricevuti dal fallito. Cosi, se il falllito utilizzasse attività occultate alla procedura per pagare preferenzialmente alcuni creditori concorsuali (cosi ledendo la par condicio), metterebbe colui che avesse ricevuto il pagamento nella condizione di dover riversare alla procedura quanto ottenuto. Se invece un debitore del fallito effettuasse un pagamento direttamente a quest’ultimo, cio non lo libererebbe dal debito, ma lo costringerebbe a pagare nuovamwente alla procedura, salvo che non sia lo stesso fallito a rimettere il pagamento ottenuto nelle mani del curatore. D iversamente, per il doppio pagamento eseguito, resterebbe un credito del terzo verso il fallito a titolo di indebito soggettivo). Gli effetti sul piano processuale e personale La limitazione della legittimazione del fallito opera anche sul piano processuale. In tutte le controversie relative a rapporti patrimoniali (sempre che relativi a rappporti compresi nel fallimento) che lo riguardano, egli non potrà più partecipare al processo, essendo sostituito dal curatore.

In ultimo, gli effetti della dichiarazione di fallimento per il fallito possono essere, oltre che patrimoniali come sinora visto, anche personali, benché oggi in misura molto minore di uqanto previsto nel passato. Al di là delle possibili conseguenze penali del fallimento (che però presuppongono una condotta connotata da elementi ulteriori rispetto a quelli che di per sé comportano il solo fallimento) e dei genrali obblighi di collaborazione che il fallito ha nei confronti della procedura (a cominciare dall’obbligo di portare i libri in tribunale), gli effetti di tipo personale previsti dalla legge f allimentarepossono oramai essere fondamentalemnte individuati nella compressione di due diritti personali costituzionalemnte garantiti: la segretezza epistolare e la libertà di circolazione. Il fallito persona fisica deve consegnare al curatore tutta la prorpia corrispondenza, ma solo se relativa a rapporti compresi nel fallimento (e, quindi, non quella personale). In secondo luogo, il falliuto dovrà personalmente presentarsi agli organi fallimentari ogni qual volta convocato; a questo fine rendendosi sempre reperibile e comunicando al curatore og ni cambiamento della residenza o del domicilio. Per i creditori Principi generali La finalità del fallimento è quella di soddisfare coloro verso i quali le obbligazioni dell’impresa dovrebbero essere adempiute. I titolari di crediti sorti prima del fallimento sono detti creditori concorsuali in quanto l’apertura della procedura farà sì che l’accertamento e la soddiisfazione delle rispettive pretese dovrà avvenire collettivamente, al fine di rispettare la regola della par condicio: e dunque “concorsualmente”. Dall’apertura del fallimento, pertanto, tali creditori nojn potranno piu, secondo i principi dii diritto comune, agire individualemente: né in via cautelare; né per il pieno accertamento, in sede di cognizione, né per la soddisfaizone coattiva, in sede esecutiva, dei crediti cosi accertati. Il diritto fallimentare afferma dunque il principio della proporzionalità, ovvero della “par condicio creditorum”. Assicurando cosi una regolazione concorsuale di tutti i crediti (universlaità soggettiva) su tutto il patrimonio del debitore (universalità oggettiva) all’interno della procedura. Pure si è già visto come, tuttavia, il principio della par condicio, nel fallimento, valga soltanto in via tendenziale, operando soltanto fra creditori di pari rango o dovendo convivere con il contrastante principio di preferenza. Le regole fallimentari non disconoscono, infatti, che fra i creditori concorsuali potrebbero ben esservene alcuni “muniti di legittime cause di prelazione” (privilegio, pegno, ipoteca). Costoro, perciò detti anche “privilegiati”, meriteranno di essere soddisfatti co n precedenza rispetto agli altri creditori, detti chirografari. Né si disconosce che anche fra i chirografari possano esservi creditori, detti subordinati o postergati che potranno essere soddisfatti solo dopo gli altri chirografari. Deve precisarsi che possono esservi delle pretese aventi ad oggetti diritti, reali o personali, su beni i quali  – ancorché, di fatto, in possesso della curatela – si assumono estranei alla massa attiva destinata alla regolazione concorsuale dei crediti. Chi vanti una tale pretesa, allora, chiederà che quei beni vengano separati dalla restante massa per essergli attribuiti in quanto unico avente diritto, c ois soddisfatto integralmente e non concorsualmente. Si pensi cosi alla posizione del proprietario di un bene individuato che giaccia, magari per una riparazione, nel magazzino dell’impresa fallita. Benché poi i crediti sorti dopo il fallimento restino in principio del tutto estranei alla procedura (nel senso che la procedura non deve normalmente farsene carico) possono esservene altri dei quali invece la massa dovrà farsi carico per legge o per scelta degli organi concorsuali. Si pesni cosi a quanto occorra per pagare il compenso del curatore, ovvero alle obbligazioni assunte dalla curatela per proseguire l’esercizio dell’impresa, ecc. In tali casi, non si tratta allora di debiti concorsuali, bensì di debiti della massa. Di debiti, cioè, che gli organi della procedura hanno voluto o dovuto assumere, e che allora non dovranno essere regolati concorsualmente, ma apagati per intero e prima degli altri crediti: come si dice, in prededuzione. Ebbene, anche per tali crediti verso la massa e oer le altre pretese su beni di cui sic hieda la separazione dalla massa è previsto che comunque il relativo accertamento e la loro regolazione debbano avvenire all’intenro della procedura secondo le regole da essa imposte.

Tutti i sopraddetti principi, condensati nella dichiarazione solenne dell’art. 52, co.1, per cui “il fallimento apre il conorso dei creditori sul patrimonio dell falllito”, trovano esresione nelle due fond amentali regole poste dagli artt. 51 e 52, co. 2 e 3. i) Il primo prevede il c.d. blocco della zioni esecutive e cautelari individuali. ii) Inoltre, come prevede l’art. 52, co. 2 e 3, “ogni cr edito, anche se munito di prelazione, ovvero prededucibile, nonché ogni altro diritto reale o personale, dovrà essere verificato secondo le norme tipiche della procedura fallimentare, quelle in tema di accertamento del passivo e dei diritti mobiliari dei terzi. La soddisfazione dei creditori concorsuali e la “cristallizzazione” del patrimonio fallimentare I creditori concorsuali sono quindi i creditori anteriori al fallimento. Solo in funzione delle domande dei creditori concorsuali si giustifica la procedura fallimentare. Domande che poi, una volta verificate, andranno a fromare la c.d. massa passiva (cioè il monte dei debiti fallimentari), facendo divenire i creditori concorsuali dei veri e propri debitori concorrenti sulla c.d. massa attiva, cioè nella ripartizione dell’attivo fallimentare. Per realizzare questa finalità occorrerà però che massa attiva e passiva siano omogenee e stabilmente definite. L’omogeneità sarà assicurata col rendere entrambe misurabili in denaro. La massa attiva sarà a tal fine liquidata (appunto, trasformata in denaro), mentre la massa passiva, cioè l’ammonstare dei crediti concorsuali, presupporrà che anc’essi, se già non lo siano, vengano convertiti in crediti pecuniari. L’esigenza di stabilizzazione verrà invece assicurata da un lato impedendo che dalla massa attiva possano essere distratti valori al di fuori delle regole della procedura e dell’iniziativa dei suoi organi (dunque, come visto, impedendo azioni esecutive individuali); e d’altro lato attribuendo un valore nominale fermo ai crediti concorsuali, senza cioè che il trascorrere del tempo, e quindi il decorso degli interessi, possa variarne la consistenza. Si parla al riguardo, anche, di cristallizzazione del patrimonio fallimentare. A tali esigenza provvedono gli artt. 59 e 55. Il primo si occupa dei crediti non pecuniari, aventi cioè ad oggetto una prestaizone diversa dal denaro (es. un terzo che attendeva una fornitura di merce dall’impresa fallita). Tali crediti se non ancora scaduti, concorreranno secondo il loro valore alla data della dichiaraizone di fallimento; mentre, se scaduti, secondo il valore che la prestazione avrebbe avuto alla data di scadenza, aumentato semmai dal valore del credito al risarcimento per il ritardo sino al giorno del fallimento. Quando invece si tratti di crediti pecuniari, le esigenze di stabilizzazione troveranno risposta innnanzitutto impedendo che su di essi possano essere conteggiati interessi ulteriori rispetto a quelli già maturati alla data del fallimento. Essi verrano cosi ammessi per il loro valore attuale ma da quel momento in poi il corso degli interessi sarà sospeso agli effetti del concorso. Il che vuol dire che tali ulteriori interessi non potranno essere fatti valere nella procedura, ma nei confronti sdel fallito dopo la chiusira della procedura stessa. Inoltre, ove si tratti di crediti pecuniari non ancora scaduti, essi si considereranno scaduti agli effetti del concorso. La compensazione Va ricordata in ultimo un’importante eccezione al principio della par condicio: quella che consente ai creditori di compensare i propri crediti con debiti eventualmente assunti verso il fallito, anche se non scaduti (quindi anche non esigibili). Tanto è appetibile un tale vantaggio che, per impedire che esso venga perseguito strumentalmente, la legge impedisce che la compensazione operi se il credito è stato acquistato per atto tra vivi (per atto di morte infatti non potrebbe immaginarsi una preordinazione dell’acquisto) dopo la dichiarazione di fallimento o nell’anno anteriore. Sugli atti pregiudizievoli ai creditori Profili generali

Fra le conseguenze che la legge ricollega all’apertura della procedura fallimentare si iscrive la possibilità di neutralizzare gli effetti di taluni fatti giuridici che, prima del fallimento, ma quando già l’insolvenza si era verificata, hanno inciso negativamente sulla garanzia patrimoniale che si offre ai creditori concorsuali nel momento in cui si apre la prcedura. Si tratta allora di reintegrare una tale garanzia, riportandola – entro certi limiti – alla maggiore consistenza che aveva nel periodo precedente al fallimento. In qualche modo come se, sia pure per i soli fatti previsti dalla legge, il regime di inefficac ia per i creditori che colpisce gli atti compiuti dal debitore dopo il fallimento, retroagisse ad un periodo precedente alla dischiarazione di fallimento, quando però i presupposti di una tale dichiarazione già sussistevano. Fermo restando che la disciplina dello spossessamento del flalito prevista dagli artt. 42 ss., riguarda i soli atti successivi alla dichiarazione di fallimento; mentre la disciplina ora in questione, artt. 64 ss., si applica ai soli atti precedenti; sicché, al di là di una certa comunanza di ratio, resta una netta distinzione operativa fra le due. Anche nel caso della disciplina in discorso, sia pure rispetto ad atti posti in essere prima del fallimento, si tratta di affermare la loro inefficacia rispetto ai creditori. Non quindi la loro invalidità inter partes, bensì la possiblità di recuperare all’asse fallimentare quanto fuoriuscito dal patrimonio del debitore per effetto di quegli atti, per poi sottoporlo all’esecuzione fallimentare; ovvero (c.d. revocatoria incidentale) di disconoscere, nell’ambito del fallimento, ogni eventuale pretesa sorta in capo a terzi per effetto di quegli atti (l’assuznione di un’obbligazione). E’ noto peraltro che un meccanismo di reintegrazione della garanzia patrimoniale del debitore è già contemplato in via generale dal nostro ordinamento agli artt. 2901 ss. c.c., sotto il nome di azione revocatoria (“ordinaria”). Si tratta di uno strumento che consente ad un creditore di far dichiarare inefficaci nei suoi confornti gli atti con i quali il debitore, “disponendo” del proprio patrimonio, abbia recato pregiudizio alle ragioni di quel creditore. Una tale zione, prevista in via generale, non è esclusa in ambito fallimentare: tanto cio è vero che il suo esercizio è previsto dalla stessa legge fallimentare (art. 66), salvo rimetterlo all’iniziativa del solo curatore e a beneficio, allora, di tutti i creditori concorsuali. Tuttavia, i presupposti di tale azione, il relativo onere probatorio, ecc. comportano dei significativi limiti alla possibilità di reintegrazione della garanzia patrimoniale del debitore. Limiti che invece la legge ha voluto attenuare quando il debitore sia un imprenditore fallito, prevedendo allora, per tale i potesi, un piu favorevole regime ad hoc. Gli atti inefficaci di diritto Vi sono innanzitutto degli atti compiuti dall’imprenditore prima del suo fallimento la cui inefficacia rispetto ai creditori opera di diritto. Vuol dire che il provvediemnto con il quale il tribunale fallimentare affermi una tale inefficacia avrà natura meramente dichiarativa: accertando un effetto già prodottosi, per legge appunto, con l’apertura del fallimento. Ne consegue che, stante l’automatica operatività di tale e ffett, il curatore ben potrebbe richidere direttamente al terzo la restituzione di quanto abbia costituito oggetto di disposizione da parte dell’imprenditore prima del fallimento. Non sarà allora necessaria, in principio, alcuna azione giudiziale. i) Inefficaci di diritto sono gli atti a titolo gratuito compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento (art. 64). Si tratta di atti che abbiano comportato un depauperamento della garanzia patrimoniale offerta ai creditori senza che vi abbia corrisposto l’acquisto di alcuna situazione giuridica attiva: e cosi non solo atti trslativi (come nel caso della donazione), ma anche atti di destinazione (come ad un fondo patrimoniale ex art. 170 cc) o atti di rinunzia ad un diritto o di remissione del debito. ii) Allo stesso regime sono poi assimilati i pagamenti anticipati, sempre se copiuti nei due anni anteriori al fallimento (art. 65). Si tratta, in particolare, di pagamenti non di qualunque credito non ancora scaduto, ma di crediti la cui scadenza sarebbe venuta a verificarsi nel giorno della dichiaraizone di fallimento o successivamente. E cio perche, come è ovvio, se per il pagamento si fosse attesa, come suole, la naturale scadenza, al momento della apertura del f allimento quei crediti sarebbero stati sottoposti a regolazione

concorsuale al pari di tutti gli altri computati nella massa passiva: attraverso la revoca, perciò, si provoca questa parificazione.

La revocatoria fallimentare L’art. 67 si occupa invece di regolare la vera e propria azione revocatoria fallimentare, che potrà essere promossa dal curatore, su autorizzazione del giudice delegato, dinanzia al tribunale fallimentare. Si tratta di uno strumento – ulteriore rispetto alla azione revocatoria ordinaria di cui all’art. 2901 c.c. – volto ad ottenere, a certe condizioni, la dichiarazione di inefficacia, rispetto ai creditori, degli atti a titolo oneroso, dei pagamenti e delle garanzie poste in essere in un momento in cui l’imprenditore, non ancora fallito, già si trovava in uno stato di insolvenza, noto )o presumibilmente tale) alla controparte. Si assiste cosi, almeno per gli atti e alle condizioni previste dalla legge, ad una sorta di retrodatazione dell’effetto prodotto dalla dichiarazione di insolvenza (cioe l’indisponibilità del patrimonio del fallito) ad un momoento precedente (sempre che collocabile entro un certo periodo: c.d. periodo sospetto) a quello in cui quell’insolvenza era già in essere. Tuttavia, anche a tutela delle generali esigenze di tutela di buona fede e di sicurezza nei traffici, un tale effetto non deriva dal mero accertamento, ex post, (i) della circostanza che un certo atto sia stato compiuto nel “periodo sospetto” in presenza di una condizione di insolvenza (presupposto oggettivo della revocatoria fallimentare); (ii) ma altresì dalla circostanza che il terzo conoscesse, o possa presumersi che conoscesse, un tale stato di insolvenza, c.d. scientia decotionis (presupposto soggettivo). gli atti revocabili sono distinti dalla legge in normali o anormali. Cosi che, mentre neel caso di atti compiuti a condizioni normali sarà il curatore a dover provare la scientia decotionis del terzo; nel caso di atti anormali la conoscenza dello stato di insolvenza sarà invece presunta in capo al terzo, e sarà questi a dover fornire l’eventuale prova contraria per sottrarsi agli effetti della revocatoria, dimostranto che ignorava un tale stato. a) Sono considerati anormali, e quindi revocabili salvo che l’altra parte provi che non conosceva lo stato di insolvenza del debitore, i seguenti atti: a1) gli atti a titolo oneroso compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, se le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano do oltre un quarto cio che a lui è stato dato o promesso. In altri termini, l’atto è anomalo, ed allora provoca una presunzione di conoscenza dello stato di insolvenza da parte del terzo, in quanto il sinallagma appare fortemente sproporzionato, nella misura di oltre un quarto; a2) gli atti estintivi (cioè i pagamenti) di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con denaro o con latri mezzi normali di pagamento, se compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento. Alla base di una tale previsione sta la consideraizone che se un devbito che avrebbe dovuto essere eseguito in danaro venga invece adempiuto ad es. attraverso una datio in solutum (gioielli, merci in magazzino, ecc.), ciò è sintomatico di una crisi di liquidità del debitore che fonda a sua volta una presunzione di insolvenza; a3) le garanzie (pegni, ipoteche volontarie, ecc.) e costituite nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento per propri debiti preesistenti e non scaduti. L’anomalia sintomatica dell’insolvenza, in questo caso, sta nel fatto che normalmente, se un debito ancora non è scaduto, il creditore dovrebbe aspettare; mentre se si fa rilasciare una garanzia non pattuita originariamente, è presumibile che lo faccia perché teme la sopravvenuta incapacità del debitore di pagare alla scadenza; a4) disciplina analoga – ma comprensiva anche delle ipoteche giudiziali (non pero di quele legali) – vale anche per le garanzie concesse per debiti scaduti. In tal caso però il peeriodo sospetto è abbreviato a sei mesi rispetto al caso rpecedente, perché il rilascio della garanzia pare meno anormale: un’anomalia potendosi comunque ravvisare in ciò, che normalmente, dopo la scadenza di un debito, il debitore

dovrebbe senz’altro pagare, mentre la concessione di una garanzia evidenzia il suo bisogno di ottenere una dilazione, quindi una difficoltà, o l’incapacità, di adempiere alla scadenza. b) Sono invece considerati normali – ed allora una revoca sarà possibile soltanto in quanto la curatela provi la scientia decotionis in capo all’altra parte nel momento in cui l’atto fu compiuto, in ogni caso non precedente di oltre sei mesi – i seguenti atti: b1) i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili (cioè scaduti); b2) gli atti a titolo oneroso (come soopra definiti), per i quali non ricorrano indici di anomalia; b3) quelli costitutivi di un diritto di prelazione (pegno, ipoteca) per debiti, anche di terzi contestualmente creati. L’art. 69-bis stabilisce che il computo a ritroso dei termini sin qui enunciati per l’individuazione del periodo sospetto si debbano computare, nel caso in cui il falliemnto faccia seguito ad una domanda di concordato preventivo, a partire dalla data, piu risalente, della pubblicazione della domanda di concordato (onde evitare che nelle more della valutazione della domanda, che potrebbe essere stata presentata anche strumentalmente, possano consolidarsi gli effetti degli atti revocabili); istituzionalizzando cosi il principio della “consecuzione di procedure”, e cioe la valutazione delle due procedure consecutiva quasi come se fossero, nella prospettiva del computo de i termini, due fasi di un’unica procedura. Le esenzioni dall’azione revocatoria Il sistema appena descritto conosce una serie di eccezioni che, dopo la riforma del 2006, sono divenute piuttosto rilevanti. E’ il portato, per lo più, di un’impostazione piu sensibile alle prospettive di salvataggio dell’impres in crisi. Attaverso l’articolata serie di esenzioni previste dall’art. 67, co. 3, si è infatti voluto evitare che la prospettiva di un’0aizone revocatoria falllimentare potesse scoraggiare il compimento  di taluni atti, potenzialmente utili a superare lo stato di crisi di un’impresa, che risulterebbero disincentivati se le controparti temessero di incorrere, in caso di successivo falliemnto dell’impresa, nella r evoca dell’atto compiuto. Si spiega in questa prospettiva l’esenzione dalla revocatoria fallimentare dei seguenti att i. a) Pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività di impresa nei termini d’uso. L’attività di impresa potrà cosi proseguire senza che le controparti cessino di effettuare le proprie controprestazioni (es. una fornitura di materie prima), potendo esse confidare nella salvezza dei pagamenti ricevuti. Purché pero tali pagamenti avvengano nei termini d’uso, vale a dire nei modi e nei tempi ordinariamente osserati tra le parti. b) Le rimesse effettuate su un conto corrente bancario che non abbiano ridotto ij misura consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito verso la banca. c) Pagamenti per prestazioni di lavoro effettuate da dipendenti ed altri collaboratori, anche non subordinati, del fallito (ad es. operai, dirigenti, ma anche consulenti esterni). d) Gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore in esecuzione di un piano di risanamento dell’impresa. Se ne parlerà meglio appresso; ma puo dirsi per ora che si tratta di un complesso programma predisposto dall’imprenditore che dovrebbe tracciare un realistico percorso attraverso il quale scongiurare l’insolvenza. In tale prospettiva, l’esecuzione del piano viene inc oraggiata garantendo l’esenzione da una possibile futura revocatoria degli atti attraverso i quali esso dovrebbe trovare esecuzione. e) Analoghe considerazioni valgono poi per gli atti, i pagametni e le garanzie concesse su beni del debitore in esecuzione di un concordato preventivo, ovvero di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato. Anche in tal caso, rinviandone l’esame, basti rilevare che si tratta di atti che realizzano una solzione della crisi di impresa secondo un piano il cui rispetto dovrebbe consentire di evitare il fallimento. Una tale soluzione viene allora incoraggiata promettendo che resteranno comuqnue sottratti a revocatoria fallimentare gli atti attraverso cui il piano dovrebbe realizzarsi. f) A cio strumentalmente, inoltre, vengono esentati anche i pagamenti eseguiti alla scadenza per ottenre la

presrtazione di servizi strumentali all’accesso al concordato preventivo (non pero quelli strumentali all’elaborazione di un piano di risanamento o do un accordo di ritrutturazione). Tipicamente, il pag amento di un professionista che predisponga la proposta concordataria. g) Costituisce un caso a sé l’esenzione dalla revocatoria delle vendite e dei preliminari di vendita aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo destinati a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o si duoi parenti od affini. Questo pero solo a condizione che sia stato pattuito un giusto prezzo: altrimenti l’atto sarà revocabile quale atto a titolo oneroso ex art. 67, ove il prezzo effettivo sia inferiore di oltre un quarto a quello “giusto”. Torna invece ad inserirsi in una logica protettiva dell’impresa, l’analoga esenzione che riguardi immobili ad uso non abitativo quando siano destinati a costituire la sede principale dell’attività di impresa dell’acquirente. h) Le operazioni di credito su pegno (es. un’anticipazione bancaria) e quelle di credito fondiario, nonché la formula di chiusura che fa salva l’applicazione delle disposizioni di leggi speciali che prevdedono casi singolari di esenzione dall’aizone revocatoria. Condizioni di esercizio ed effetti delle azioni revocatorie Secondo l’art. 69-bis, che pone un termine espressamente definito di decadenza, “le azioni revocatorie non possono essere promosse decorsi tre anni dalla dichirazione di fallimento e comunque decorsi c inque anni dal compimento dell’atto”. Per “azioni revocatorie” si intendono, oltre a quella fallimentare indicata dall’art. 67, anche le azioni ex artt. 64 e 65 (atti inefficaci di diritto) e 69 (atti fra coniugi), nonché la revocatoria ordinaria. Il curatore, nel rivolgersi al tribunale per far dichiarare l’inefficacia di un atto, preferirà tendenzialmente avvalersi dell’azione revocatoria fallimentare anziché di quella ordinaria prevista dall’art. 2901 c.c. Molto piu ampio risulta infatti l’ambito operativo della prima, per di piu agewvolata da un onere probatorio quantitativamente minore e qualitativamente assistito dall’operare di molteplici presunzioni. La revocatoria ordinaria potra peraltro risultare necessaria se l’atto da revocare sia stato posto in essere prima del periodo sospetto previsto per la revocatoria fall imentare. Quanto agli effetti dell’azione revocatoria, tanto ordinaria che fallimentare, il suo successo comporta, come detto, l’inefficacia dell’atto nei confronti dei creditori concorsuali: non quindi la sua invalidità, tanto che se il bene restituito residuasse all’esito dell procedura, esso andrebe consideratocome ancora appartenenete al terzo, quanto piuttosto la neutralizzazione degli effetti negativi che quell’atto avrebbe altrimenti prodotto sulla garanzia patrimoniale disponibile al momento dell’apertura del fallimento. Cio vuo dire che se l’imprenditore (poi fallito) avesse assunto, con atto revocabile, un’obbligazione nei confronti dei terzi ovvero concesso loro una garanzia, non si tratterà, in tal caso, di proporre un’azione revocatoria volta a recuperare un bene fuoriuscito dal patrimonio del fallito, bensì di disconoscere nei confronti del terzo il credito o il titolo di prelazione cosi ottenuto. Anzi, è questa la c.d. revocatoria incidentale. Se invece si tratti di un atto oneroso che ha comportato l’assuznione di un’obbligazione gia eseguita (una fornitura di merci) o un trasferimento immediato di un diritto (la vendita di un immobile), ovvero di un oagamento, allora quanto ricevuto dal terzo, o il relativo valore in denaro, dovra essere restituito alla curatela per essere sottoposto all’esecuzione collettiva di tutti i creditori concorsuali. il terzo che abbia subito la revoca avra pero diritto, insieme agli altri creditori concorsuali, ad inssinuarsi al passivo per il credito corrispondente alla controprestazione da lui effettuata a fronte dell’atto oneroso o del pagamento revocato. Conseguentemente, dopo la restituzione, si fara valere co ncorsualmente un credito pari al valore della propria prestazione. Sui rapporti giuridici preesistenti Prima del fallimento – e quindi prima che la curatela subentri in luogo del fallito nella disponibilità del suo patrimonio – il fallito stesso avrà normalmente posto in essere, nell’esercizio della sua ttività, una fitta attività contrattuale.

(A) Potrà trattarsi di contratti che hanno già trovato integrale esecuzione, ed a llora vi sarà la possiblità per il curatore di esercitare un’azione revocatoria che consenta di recuperare quanto fuoriuscito dal patrimonio del fallito in esecuzione di quei contratti. (B) Analogo discorso varrà quando una delle due parti abbia integralmente eseguito la propria prestazione (es. la vendita di un bene). In tal caso residuerà soltanto un credito (es. al prezzo) della controparte, che potrà allora insinuarlo al passivo, a meno che il curatore – sempre attraverso un0azione revocatoria (incidentale) – riesca a neutralizzare una tale pretesa. Ovvero residuerà soltanto un credito a favore del patrimonio fallimentare, che il curatore potra esigere; salvo che preferisca revocare l’atto, cosi dacendosi restituire quanto prestato in esecuzione del contratto e rinunciare ad esigere il corrispondente credito. (C) V’è anche la possiblità, però, che all’apertura del fallimento un certo contratto (compreso un prelominare) sia ancora del tutto ineseguito, o comunque non compiutamente eseguito da entrambe le parti. Gli artt. 72 ss. della legge fallimentare parlano a questo riguardo di “rapporti giuridici preesistenti”, disciplinando gli effetti che l’apertura del fallimento produce su tali rapporti, frequintemente indicati anche come contratti pendenti. Rispettto a tali ipotesi l’interesse della curatela sarebbe (se il c ontratto appare appaia sconveniente) quello di svincolarsi da un impegno contrattuale concora da adempiersi. L’interesse della curatela a potersi svincolare dagli impegni contrattuali gia assunti dal fallito è assicurato dalla regola generale prevista dall’art. 72 e scandita nei seguenti termini. (I) Innanzitutto, con la dichiarazione di fallimento l’esecuzione dei contratti pendenti resta sospesa. In questo frangente, quindi, il curatore potrà non adempiere agli obblighi previsti dal contratto, senza incorrere in alcun genere di sanzione. E lo stesso potrà fare il terzo. (II) Un tale stato di sospensione perdura fino a quando il curatore non scelga se subentrare nel contratto ovvero sciogliersi dal medesimo. (IIa) La prima ipotesi si avrà quando il curatore ritenga convenieente la proseuzione, chiedendo allora che la sua scelta venga autorizzata dal comitato dei creditori. Sarà comunque scelta discrezionale: nel senso che né il comitato dei creditori, né altro organo della procedura, potrebbe obbligare il curatore a subentrare nel contratto; né, una volta che l’autorizzazione fosse intervenuta, sarebbe impedito al curatore, cambiando avviso, di non subentrare piu. La prosecuzione avvien, in principio, per effetto di una dichiarazione negoziale rivolta al terzo che, nel frattempo, resterà in un’attesa quasi del t utto passiva, salva la facoltà di sollecitare una decisione del curatore, costituendolo in mora attraverso la richiesta al giudice delegato di assegnargli un termine, trascorso il quale, in mancanza di decisione postiva espressa, il contratto si intenderà sciolto. La scelta di far proseguire l’esecuzione del contratto comporterà anche, allora, l’assuznioen a carico della massa dei relativi obblighi. I crediti del terzo derivanti da quel contratto diverranno quindi “debiti della massa”, da pagarsi in prededuzione rispetto ai crediti concorsuali, e perciò tendenzialmente per intero, non in momneta fallimentare. Né il curatore potrà in alcun modo imporre la modifica dei termini del contratto. IIb) Quando invece il curatore valuti piu conveniente svincolarsi dagli impegni contrattuali a suo tempo assunti dal fallito, potrà senz’altro farlo sciogliendo il contratto (c.d. resiliazione). E cio senza neppure la necessità di un’autorizzazione del comitato dei cr editori. Una volta sciolto il contratto, se il terzo avrà gia adempiuto in parte alla sua prestazione avrà diritto di far valere nel passivo il relativo credito, da recuperarsi in moneta fallimentare. Non avrà pero diritto ad alcun risrcimento del danno per non aver ottenuto quanto promesso dal fallito. Deve precisarsi, infine, che il sistema appena descritto vale anche quando si tratti di un contratto preliminare: esso, in questa prospettiva, è infatti da considerarsi un contratto come qualsiasi altro, salva la particolarità che in tal caso la prestazione rispetto alla quale scegliere tra l’esecuzione o lo scioglimento consisterà nella prestazione del consenso alla stipulazione del c ontratto definitivo. La regola generale espressa dall’art. 72 sopra esaminata ammette, per espressa previsione di questo stesso articolo, delle eccezioni previste da “diverse disposizioni”. Si tratta di ipotesi particolari, rispetto alle quali la legge accorda specifica rilevanza ad alcuni degli specifici interessi in gioco, derogando alla regola generale e disponendo invece: talora la prosecuzione automatica; talaltra lo scioglimento altrettanto automatico (ex

lege); talaltra ancora l’una o l’altra conseguenza a seconda di alcune circostanze. Un’eccezione è costituita ad es. per il rapporto di lavoro subordinato, nei cofnronti del quale si prevede che il fallimento non puo di per sé costituire una giusta causa di risoluzione del contratto.

LO SVOLGIMENTO DELLA PROCEDURA Le attività preliminari della procedura Ci si deve ora collegare all’apertura del fallimento nella prospettiva procedimentale, esaminando le attività preliminari che debbono essere compiute per avviare operativamente la procedura. Fra tali attività preliminari viene innanzitutto in questione quelal diretta a concretizzare materialmente l’effetto giuridico dello spossessamento del fallito. A tal fine, la legge attribuisce al curatore il potere dovere di farsi consegnare il denaro contante, gli effetti cambiari e gli altri titoli del fallito, nonché le scritture contabili; nonché, per gli altri beni, di apporre su di essi dei sigilli secondo le norme previste dal c.p.c. La vera e propria presa in consegna dei beni che andranno a comporre la massa attiva avviene però con la redazione dell’inventario: nel quale conseguentemente, e all’inverso di quanto avviene con la sigillazione, non vanno compresi i beni apartenenti a terzi che fossero però nella mera disponibilità materiale del fallito, mentre saranno compresi anche i beni del fallito non sottoposti a sigllazione, come i beni detenuti dai terzi. Simmetrica alla inventariazione della massa attiva sarà anche l’attività preliminare con la quale il curatore comincia a tracciare il perimetro della massa passiva: egli, infatti, sulla base principalmente delle scritture contabili, ma poi anche di tutte le altre notizie che anche informalmente potrà assumere, compilerà un elenco dei creditori, con l’indicaizone dei rispettivi crediti e diritti di prelazione, nonché l’elenco di tutti colo che vantino diritti reali o personali su cose in possesso o nella disponibilità del fallito. L’accertamento del passivo La procedura fallimentare, essendo volta a regolare le pretese concorsuali, presuppone che di tali pretese si verifichi l’effettivo fondamneto giuridico: che si verifichi cioè se chi le vanti sia effettivamente titolare del corrispondente diritto. Inoltre, poiché è sempre dalla massa att iva che dovrà attingersi quanto necessario alla soddisfazione di quelle ulteriori pretese che non sono c oncorsuali, derivando piuttosto dalla procedur stessa (c .d. debiti della massa), anche di esse dovrà verificarsi il fondamento all’interno della procedura e secondo le sue regole, benché poi esse vadano regolate in prededuzione: vi sarà dunque per esse “concorso formale”, anche se non “concorso sostanziale”. E’ questa la regola del “concorso” posta dall’art. 52, co. 2, come visto. La fase necessaria: l’accertamento dello stato passivo Gli organi fallimentari dovranno dunque attivarsi per la definizione della massa passiva. Un primo iportante passo nel senso di questa ricognizione è rappresentato dagli “elenchi dei creditori e dei titolari dei diritti di terzi su cose in possesso del fallito” che il curatore deve redigere ai sensi dell’art. 89 già in fase di apertura della rpocedura, come visto. E sulla base di tali elenchi, oltre che delle scritture dell’imprenditore e di ogni altra infromazione, che il curatore comunicherà a tutti coloro che risultino vantare pretese concorsuali: (i) che possono partecipare al concorso depositando domanda presso il tribunale; (ii) le date (peraltro già indicate nella sentenza dichiarativa di fallimento) fissate per l’adunanza dei creditori in cui dovrà esaminarsi lo stato passivo e per presentare, anticipatamente, la relativa domanda; (iii) ogni altra utile informazione per agevolar la presentazione della domanda. La domanda - non riservata soltanto a chi abbia ricevuto lla comunicazione dal curatore, ma a chiunque,

essendo venuto a conoscenza dell’apertura della procedura, vanti una pretesa  contro il fallito – sarà propossta con ricorso che indicherà, a pena di inammissiblità: il suo oggetto (la somma per la quale ci si vuole insinuare, o il bene di cui si chiede la restituzione), l’eventuale titolo di prelazione e le ragioni in fatto e in diritto che supportano la pretesa; e cio anche producendo i documenti giustificativi della propria pretesa (es. un contratto). Alla luce delle domande proposte sarà ulteriormente definito il quadro a disposizionee del c uratore, che potrà cosi predisporre un vero e proprio progetto di stato oassivo, che conterrà le motivate conclusioni raggiunte in merito a ciascuna di esse. Conclusioni che potranno essere negative quando il curatore eccepisca l’esistenza di fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto fatto valere, ovvero eccepisca, pur quando il diritto si fondi su un titolo di per sé valido, la sua inefficacia nei confronti della procedura, secondo la disciplina prevista per gli atti pregiudizievoli ex art. 64 ss. (c.d. revocatoria incidentale, che in via di eccezione potrà farsi valere anche se la relativa azione si sia prescritta). L’udienza di verifica è fissata dalla sentenza dichiarativa di fallimento entro centoventi o al massimo centootanta giorni dal suo deposito; si svolge in un’unica sessione e vi possono intervenire tutti gli interessati: d’onde il nome di “adunanza dei creditori”. Alla non necessaria presenza di questi ultimi, il giudice delegato esamina tutte le domande alla luce delle conclusioni e delle eccezioni del curatore, delle osservazioni svolte e della documentazione prodotta dalle parti, nonché, secondo il principio dispositivo, degli ulteriori mezzi istruttori acquisiti su istanza delle parti stesse, purché nel rispetto delle esigenze di speditezza della procedura. All’esito della verifica, il giudice deciderà con decreto “succintamente motivato” su ciascuna domanda: - dichiarandola inammissibile (perché non proposta nei termini o perché priva dei suoi elementi necessari, ad es. la somma richiesta). Le domande dichiarate inammissibili – e solo esse, proprio perché non sottoèposte ad effettiva verifica – potranno pero peraltro essere risproposte come tardive; - respoingendola in toto, non ravvisandone il fondamento; - ammettendola in toto, vale a dire negli stessi termini in cui è stata proposta; - ammettendola solo in parte (ad es. per una sola parte della somma richiesta, ovvero come chirografaria, ma disconoscendo il titolo di prelazione invocato); - ammettendola “con riserva”. La “riserva” cnsiste in ciò, che la soddisfazione della pretesa risulterà condizionata al veriifcarsi di un certo evento, dal quale diepnderà la definitiva ammissione o la definitiva esclusione della domanda. Si tratta di domande che non possono ancora essere accotle in via definitiva poiché ad es. hanno ad oggetto crediti condizionali o che non possono farsi valere se non previa escussione di un obbligato pricnipale. Terminato l'esame di tutte le domande, il giudice delegato forma, nella stessa udienza, lo stato passivo dichiarandolo esecutivo con decreto depositato in cancelleria, che è provvedimento giurisdizionale avente natura decisoria su ciascuna domanda, e quindi, benché unico, impugnabile anche con riferimento alle singole decisioni. Esso peraltro, coerentemente alla efficacia endofallimentare del decreto, produce effetto soltanto ai fini del concorso, statuendo infatti il solo diritto a partecipare al riparto dell’attivo fallimentare: sennza però precludere – fuori e dopo il fallimento – un’eventuale contestazione del diritto su cui si è fondata la pretesa fatta valere nel falliemnto. Dell’esito della verifica e del relativo decreto depositato in cancelleria il curatore darà infine comunicazione a tutti colo che hanno proposto domanda e con ciò concludendo la fase necessaria dell’accertamento de l passivo (quella cioe che vi sarà in ogni caso, salvo il caso che manchino del tutto pretese concorsuali o un attivo che possa farvi fronte, almeno in parte). La fase eventuale: le impugnazioni e le domande tardive (A) Dopo tale fase potrebbe aprirsi una fase eventuale: quella delle eventuali contestazioni dello stato passivo. Queste si proporranno con un ricorso che introdurrà un procedimento giurisdizionale di natura impugnatoria, volto a pronunciarsi su tali impugnazioni. (B) Lo stesso accertamento del passivo potrebbe ancora proseguire quando già siano in corso i riparti

dell’attivo. E’ questa, anzi, l’ipotesi che si verifica nel caso delle domande tardive. Si tratta delle domande di ammissione al passivo proposte dopo il termine di trenta giorni prima dell’udienza di verifica del passivo, ma non oltre il termine di dodici mesi dopo il deposito del decreto che dichiara esecutivo lo stato passivo.

L’esercizio provvisorio dell’impresa e l’affitto d’azienda La procedura fallimentare opera come una procedura esecutiva collettiva sull’intero patrimonio del debitore: suo fine è pertanto la realizzazione dell’attivo e la destinazione del ricavato alla soddisfaizone dei creditori concorrenti, come visto piu volte. Per comprendere cos’abbia a che fare la previsione di una prosecuzione dell’attività con la sopra richiamata finalità liquidatoria del fallimento, deve prendersi atto che, se lo scopo della procedura è pur sempre la realizzazione dell’attivo, la migliore realizzazione dell’attivo puo spesso conseguirsi non tanto disgregando l’azienda dell’impresa fallita e svendendo le sue parti, quanto piuttosto monetizzando il residuo valore intrinseco alla sua organizzazione ed al suo avviamento. Un valore che potrà misurarsi in base al reddito che l’azienda è ancora in grado di produrre. Per far ciò, e nell’attesa di trovare un cessionario, può diventare opportuno mantenere l’azienda in esercizio, onde non disperderne il valor e di mercato. Ecco allora che la prosecuzione dell’attività dell’impresa fallita puo giustificarsi proprio perché strumentale ad una piu proficua liquidazione. La possibilità di esercitare provvisoriamente l’impresa, o dare in affitto l’azienda, sono infatti due delle pricnipali opzioni che il curatore deve considerare nel pianificare la realizzazione dell’attivo mediante il “programma di liquidazione”. L’esercizio provvosorio dell’impresa e l’affitto di azienda possono svolgere una funzione tutt’altro che incompatibile con la finalità della procedura fallimentare; al punto, anzi, che è la stessa legge a prevedere che a quelle opzioni si possa accedere, ove appaia opportuno, ancor prima che il “programma di lioquidazione” sia stato predisposto. L’esercizio provvisorio dell’impresa a) Cosi avviene, infatti, per l’esercizio provvisorio dell’impresa che, anche limitatamente a specifici rami dell’azienda, potrebbe essere disposto dallo stesso tribunale con la sentenza dichirativa di fallimento, qualora ritenga che dalla interruzione possa derivare un danno grave. Il danno è da intendersi riferito non tanto ai creditori in sé, quanto ad eventuali interessi concorrenti. b) Salva questa prima ipotesi, invero eccezionale, è però al curatore che spetta di valutare l’opportunità della prosecuzione, sottoponendola al parere del comitato dei creditori. Se tale parere, espresso nell’interesse esclusivo dei creditori, sarà favorevole, il giudice delegato, su proposta del curatore, potrà autorizzare la prosecuzione dell’impresa, anche limitatamente a singoli rami aziwendali. La prosecuzione sarà però in ogni caso temporanea. La prosecuzione dell’attività imprenditoriale comporta l’attribuzione al c uratore del potere di gestrine anche la parte strumentale a quell’attività, secondo criteri che comportano scelte imprenditoriali: e quindi anche di rischio, sia pure nella prospettiva prevalente della conservazione dell’avviamento aziendale, anziché della massimizzazione degli utili. Ogni nuova obbligazione che ne derivi costituirà un debito della massa, come tale da pagarsi in prededuzione, come visto. Il che peraltro, come già ricordato in via generale, varrà anche per i debiti derivanti dai contratti pendenti che proseguano. Funzionale alla prosecuzione dell’impresa è infatti la regola – alternativa a quella prevista in via generale dall’art. 72 – della prosecuzione automatica di tutti i contratti pendenti, salva sempre la possibilità per il curatore di valutare in un secondo momento se sciogliersene o comunque sospenderne l’esecuzione. Cessato l’eserciizio provvisorio dell’impresa, invece, ai contratti ancora in corso tornerà ad applicarsi la regola generale (sospensione, salva scelta del curatore di proseguirli o sciogliersene).

La cessazione prima della durata prevista potrà essere ordinata sia da giudice delegato, ogni qualvolta il comitato dei creditori ne ravvisi l’opportunità; sia poi dallo stesso tribunale, quando ne ravvisi l’opportunità, anche a prescindere dal parere favorevole del comitato dei creditori.

L’affitto di azienda Diversamente è a dirsi invece per l’affitto dell’azienda o di suoi rami. In qu esto caso (dunque la stipulazione del contratto di affitto dopo l’apertura del fallimento), non solo gli organi concorsuali sono sollevati dall’onere di gestire direttamente l’impresa, ma la legge stessa appronta regole volte a far sì che la massa passiva non si aggravi delle nuove obbligazioni sorte per la prosecuzione dell’attività. Anzi, al vantaggio della conservazione dell’avviamento per mezzo della gstione dell’affittuario si aggiunge quello di accrescere la massa, incassando, in attesa della cessione dell’azienda, i canoni del suo affitto. L’affitto dovrà essere autorizzato dal giudice delegato e sempre su proposta del curatore e previo parere favorevole del comitato dei creditori. Inoltre – come accennato sopra – nel momento della retrocessione dell’azienda (o del suo ramo) affittata, i debiti maturati durante l’affitto continueranno a gravare sul solo affittuario, senza cioe essere accollati alla procedura. Analogamente, per i contratti pendenti al momento della retrocessione, resta salva la facoltà del curatore di avvalersi del regime previsto dagli ertt. 72 ss. La liquidazione dell’attivo Il programma di liquidazione L’attivo alla cui liquidazione è rivolta la procedura fallimentare consiste, oltre che nei beni rinvenuti nel patrimonio del debitore all’apertura del fallimento, anche negli altri diritti derivanti da rapporti giuridici facenti capo al fallito, nonché nelle pretese estranee al patrimonio del debitore prima dell’apertura del fallimento, ma spettanti proprio per effetto di quest’ultimo, alla curatela; tipicamente, quelle conseguenti all’esercizio vittorioso dell’azione revocatoria o dell’azione di repsonsabilità nei confronti degli amministratori della società fallita. obbligo del curatore è quello di presidpsorre un articolato programma di liquidazione che funga da atto di pianificaiozne e di indirizzo intorno alle modalità e ai termini previsti per la realizzazione dell’attivo. innanzitutto, come ricordato nel precedente paragrafo, dovranno essere considerate le opzioni – non liquidatorie esse stesse, ma strumentali ad una migliroe liquidazione – dell’esrcizio provvisorio dell’impresa o dell’affitto dell’azienda o di suoio rami. Il programma volto alla realizzazione dell’attivo non potrà poi non tener conto, come si diceva poc’anzi, delle possibilità di incrementare la massa attiva mediante l’esercizio di pretese come le azioni revocatorie, ecc. Fermo restando che, ove opportuno, anche prima dell’approvazione del programma di liquidazione potrà disporsi, con l’autorizzazione del giudice delegato, l’esercizio provvisorio dell’impresa o l’affitto di azienda, il programma dovrà comuqne essere predisposto in temi che la legge prevede piuttosto rapidi: sessanta giorni dalla redazione dell’inventario. Non è inoltre escluso che il curatore stesso possa, in progresso di tempo, modificare il programma di liquidazione. L’approvazione del piano – e con ciò la sua valutazione nel merito – è riservata al comitato dei creditori, mentre al giudice delegato spetterà, oltre che un controlo di legittimità formale del programma, l’autorizzazione dell’esecuzione degli atti ad esso conformi. La cessione dei beni La legge è chiara nell’indicare come soluzione preferibile, perché verosimilmente più proficua, quella delle cessioni aggregate e la liquidazione dei singoli beni è consentita quando risulta prevedibile che la vendita dell’intero complesso aziendale o si duoi rami non consenta una maggiore soddisfazione dei creditori.

Il contratto di cessione d’azienda o di suoi rami è tendezialmente sottoposto alla disciplina generale dell’art. 2556. Cio anche con riferimento ai contratti dai quali il curatore non si sia sciolto (che quindi proseguiranno secondo la disciplina dell’art. 2558) e ai crediti inerenti (art. 2559). Diversa è però, in principio, la sorte dei debiti rispetto alla disciplina generale posta dall’art. 2560. Poiché, infatti, solitamente, i debiti inerenti all’azienda dell’impresa fallita eccedono il suo valore, nessuno si indurrebbe ad acquistarla se dovesse sottostare alla regola dell’accollo prevista dall’art. 2560. Sicché il meccanismo legale vuole che dei debiti inerenti all’azienda non dovrà farsi carico, salvo diverso accordo, il cessionario, ma sempre e soltanto la procedura. La procedura realizzerà il frutto di una tale liquidazione in blocco incamerando il prezzo della cessione, pur se verosimilmente inferiore ai debiti aziendali, per destinarlo infine alla soddisfazione (ancorché, come di consueto, parziale) dei creditori concorrenti. Cedibili sono poi anche singoli crediti. Importnate è poi la previsione della cedibilità delle azioni revocatorie concorsuali. Cio significa che se il curatore (che ne ha l’esclusiva legittimazione) avesse già intentato un ao piu aizoni revocatorie, potrebbe cedere la r elativa pretesa, oramai dedotta all’interno di un procedimento giudiziale già avviato, ad un terzo che gli subentri. In tal modo la curatela otterrà un pronto e certo realizzo della propria pretesa, senza dover condizionare i tempi della procedura a quelli del procedimento giudiziale nel quale quella pretesa è fatta valere. Mentre il terzo, pagando un prezzo verosimilmente scontato (in proporzione al rischio stimato di soccombenza) rispetto al valore di quanto si spera di ottenere dal successo dell’azione, potrà far proprio un risultato maggiore, che gli sarebbe stato altrimenti impossibile perseguire, per non averne la legittimazione originaria. in ultimo, la legge detta le modalità delle vendite e degli altri atti di liquidazione: si tratta delle procedure che regolano – a prescindere che l’oggetto sia l’azienda, o un complesso di beni o rapporti in blocco, ovvero un singolo cespite – l’individuazione dell’acquirente e la determinazione del prezzo. Al riguardo, la disciplina concede ampia llibertà al curatore, che potrà avvalersi, oltre che delle procedure del codice di rito per i beni immobili o mobili registrati, anche di procedure private, secondo forme libere (normalmente, un contratto di compravendita); il che peraltro non toglie che tali vendite debbano intendersi “forzate” trattandosi pur sempre di una liquidazione subita dal fallito nell ’interesse dei creditori, nell’ambito di una procedura esecutiva universale. Necessario sarà però che si rispettino talune condizioni che dovrebbero favorire il migliro risultato possibile: e cioè che le procedure siano competitive, e quindi aperte al massimo numero dei potenziali partecipanti. Sarebbe quindi da escludersi la legittimità di una vendiita effettuata a trattativa privata fra il curatore ed un terzo senza che vi sia stata la possibilità per altri soggetti di partecipare con le loro offerte alla liquidazione. Tali procedure dovranno inoltre muovere dalla consapevolezza del valore di mercato dell’oggetto dell’offerta, e quindi svolgersi sulla base di stime. La ripartizione dell’attivo: l’ordine di distribuzione La soddisfazione dei creditori concorsuali, sia pure non integrale, dviene effettiva con la ripartizione fra di essi del denaro ottenuto all’esito delle attività di liquidazione. Tal fase si complica in ragione di due diversi ordini di problemi. Il primo ha a che vedere con la molteplicità dei criteri legali in ragione dei quali i crediti possono presentarsi con diversa forza, dovendosi tenere conto del loro ordine o rango. Si tratta insomma, come già premesso in via generale, della tensione che si crea fra il (prevalente) principio di preferenza e quello (che in principio dovrebbe essere generale) di proporzionalità. L’alltro ordine di problemi deriva invece dalla considerazione che la ripartizione sarà tanto piu utile quanto piu tempestiva. Il che ha cnodtto il legislatore a prevedere che essa cominci, mediante riparti parziali, senza attendere il completmaneto delle attività di accertamento del passivo e di liquidazione dell’attivo. Questa scelta anticipatoria costringe però a muoversi in uno stato di relativa incertezza. Di una t ale incertezza, allora, occorrerà tenere conto nel dosare i riparti parziali. Il primo dei due ordini di problemi segnalati (il solo trattato in questo paragrafo) è quello a cui si riferisce

l’art. 111 nel regolare l’ordine di distribuzione delle somme. L’art. 111 prevede che le somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo vengano erogate nel seguente ordine: i) per il pagamento dei crediti prededucibili; ii) per il pagamento dei crediti ammessi con prelaizone sulle cose vendute secondo l’ordine assegnato dalla legge (ma si vedrà a breve come talora questi crediti, se fondati su pegno o ipoteca, possano essere preferiti anche a quelli prededucibili); iii) per il pagamento dei creditori chirografari, in proporzione dell’ammontare del credito per cui siano stati ammessi; iv) fra i chirografari dovranno ritenersi compresi anche i crediti postergati o subordinati, i quali però si situano, a ben vedere, ad un livello ancora inferiore a quello degli altri chirografari. i) Tra i crediti prededucibili rientrano quelli necessari affinché la stessa procedura possa svolgersi (spese per la procedura), ivi compresi i compensi spettanti a chi (come il curatore in primo luogo) abbia prestato la propria opera all’interno della procedura stessa, ovvero le spese sostenute dal creditore istante per ottenerne l’apertura; nonché quelli relativi ai c.d. debiti della massa: quelli cioè contratti dal curatore (es. per la continuazione dei contratti pendenti o per l’esercizio provvisorio dell’impresa). Vi rientrano inoltre, nel caso di consecuzione di procedure (quando cioè il fallimento sia stato preceduto da altra procedura, ad es. un concordato preventivo) quelli sorti in occasione o in funzione di altra procedura concorsuale (es. il compenso ai professionisti incaricati di redigere la domanda di ammissione al concordato). Nonostante si tratti tendenzialmente di crediti sorti durante la stessa procedura fallimentare, o altra procedura precedente, ciò non tooglie, come già affermato in via di principio dall’art. 52 nello stabilire la regola del c.d. concorso formale, che anche i crediti prededucibili debbano essere accertati secondo il normale procediemnto stabilito dagli artt. 92 ss. Una volt accertati, andranno soddisfatti per il capitale, le spese e gli interessi sino al giorno del pagamento. La possibilità di attingere dal ricavato della liquidazione quanto necessario al pagamento dei crediti prededucibili è limitata se nella massa attiva vi siano beni oggetto di pegno ed ipoteca. Il vincolo rappresentato da tali garanzie reali non puo infatti essere superato dai crediti prededucibili, sicché quanto ricavato dalla liquidazione di quei beni sovrà senz’altro essere destinato ai creditori garantiti. ii) Al secondo livello di preferenza vengono poi i crediti asistiti da legittime cause di prelazione (privilegio, pegno, ipoteca), detti anche “privilegiati”. Anche fra i crediti privilegiati – considerata la varietà e i diversi rapporti di prevalenza fra i diversi titoli di prelazione – potrà operare un concorso, regolato dall’ordine di graduazione indicato dalla legge. Puo ben capitare, dunque, che creditori muniti di cause di prelazione non trovino poi, in realtà, soddisfazione sull’oggetto della garanzia loro concessa. Es. chi gode di un’ipoteca di secondon grado su un immobile potrebbe vedere la propria garanzia svuotata dall’attribuzione dell’intero ricavato del bene ipotecato a favore del creditore ipotecario di primo grado. iii) Restano in ultimo i creditori cjhirografari. Solo fra questi opera appieno la par condicio, concorrendo essi in proporzione dell’ammontare del loro credito sul ricavato della liquidazione che non sia stato assorbito dal pagamento dei crediti prededucibili o privilegiati. Chirografari saranno del resto gli stessi creditori privilegiati che non abbiano trovato soddisfazione attraverso la propria garanzia. iv) “Chirografari”, come sopra accennato, sono altresì da ritenersi, almeno formalmente, coloro che vantino crediti postergati o subordinati. La subordinazione potrà essere imposta dalla legge o pattuita per contratto. E potrà essere assoluta (nei confronti cioè di tutti gli altri chirografari) detrminando l’assuznione di un vero e proprio rango inferiore; ovvero relativa, operante cioè soltanto rispetto ad alcuni chirografari, ma non ad altri. Risulterà ovvio, a questo punto, che se già i chirografari, nella maggior parte dei casi, subiscono una pesantissima falcidia fallimentare, le probabilità che ai postergati tocchi qualcosa rasenta lo zero. La ripartizione dell’attivo: il procedimento di distribuzione

Le regole che governano la distribuzione del ricavato della liquidazione tendono ad assecondare  – come evidenziato all’inizio del paragrafo precedente – l’interesse dei creditori alla maggiore tempestività, pur nell’incertezza di quanto sarà, alla fine, il totale del ricavato e dei crediti da soddisfarsi. Il procedimento della ripartizione comporta allora che il ricavato possa venire distribuito, mediante riparti parziali, man mano che si liquida l’attivo; salvo però trattenere, di volta in volta, una perce ntuale delle somme disponibili (c.d. accantonamenti) al fine di mantenersi in condizione di far fronte, in sede di ripartizione finale, anche ai crediti che siano maturati (come le spese di procedura o quelle per l’esercizio provvisorio dell’impresa) o che siano stati definitivamente accertati (come ad es. quelli oggetto di impugnazione) medio tempore. Le ripartizioni parziali dovranno aver luogo, nei tempo indicati dal giudice delegato, sulla base di un prospetto delle somme disponibili e di un progetto di ripartizione elaborati dal curatore. I progetti di ripartizione dovranno prevedere degli accantonamenti, trattenendo e depositando, in una misura che la legge vuole in ogni caso non inferiore al venti per cento delle somme disponibili, le somme occorrenti per la procedura e per far fronte ai cr editori incerti, appunto. Gli accantonamenti sono del resto inevitabili a nche perché è tendenzialmente esclusa la restituzione di somme riscosse (principio dell’irripetibilità). Procedendo ai riparti parziali si perverrà infine al completamento della liquidazione dell’attivo. A questo punto il curatore presenterà il rendiconto. Approvato il rendiconto e liquidato il compenso del curatore, il giudice delegato, sempre su proposta del curatore, o rdinerà la ripartizione finale delle somme, che avverrà pur sempre secondo i criteri che governano le ripartizioni parziali, salvo il fatto che, in questa fase conclusiva, oltre a distribuire le ultime utilità liquidate, dovranno essere distribuiti anche gli accantonamenti sino ad allora effettuati. LA CHIUSURA DEL FALLIMENTO La chiusura del fallimento e i suoi effetti La chiusura del fallimento è uno dei due modi di cessazione della procedura fallimentare (l’altro essendo il concordato fallimentare, di cui si dirà oltre però). Essa indica cosi il compimento del percorso fallimentare; la conclusione della procedura aperta con la sentenza dichiarativa di fallimento. Le cause di chiusura del fallimento diverse dal concordato fallimentare sono, a norma dell’art. 118: 1) la mancanza di domande di ammissione al passivo entro il termine previsto dalla sentenza di apertura. In tal caso la procedura resterebbe priva di scopo, quand’anche fosse stata aperta su istanza di un creditore, se neppure questo, poi, avesse proposto domanda di ammi ssione al passivo. Né la procedura si giustificherebbe se contassero solo domande di rivendicazione e restituzione: la soddisfazione delle quali, di per sé considerate, non necessiterebbe di alc una regolazione concorsuale. 2) Quando vi sia stata la soddisfazione di tutti i creditori. Anche prima che sia compiuta la ripartizione finale dell’attivo, se le ripartizioni già eseguite avranno raggiunto l’intero ammonstare dei crediti ammessi, ovvero se questi siano stati in altro modo estinti, non v’è ragione di  proseguire. 3) Quando è compiuta la ripartizione finale dell’attivo. E’ questa l’ipotesi piu frequente. Quando non resta piu nulla da liquidare e ripartirela procedura avrà esaurito la sua utilità, malgrado taluni crediti, e spesso anzi molta parte di essi, siano rimasti isoddisfatti. 4) Per mancanza di attivo. Se nel corso della procedura consti la mancanza di un attivo sufficiente a far fronte, seppur in parte, non solo ai crediti cocnorsuali, ma persino a quelli prededucibili e al le stesse spese di procedura, dovrà anche prendersi atto che la prosecuzione della procedura sarebbe non soltanto inutile, ma addirittura dannosa, generando ulteriori spese che non potrebbero essere pagate. Quando si verifichi una o altra di queste ipotesi, la chiusira del fallimento non avverrà automaticamtne. Sarà piuttosto il tribunale che – su istanza del curatore o del fallito o anche d’ufficio e dopo aver sentito il fallito e il comitato die creditori se la chiusura sia dovuta a mancanza di attivo  – emanerà un decreto di chiusura. Per quel che concerne gli effetti di tale decreto, quanto al fallito, cesseranno gli effetti dello

spossessamento nonché incapacità o limitazioni di carattere personale. Egli riacquisterà cosi la piena disponibilità e amministrazione del proprio patrimonio. Se dei beni tornati nella piena disponibilità del fallito costui avesse disposto durante la procedura, inoltre, i relativi atti spiegherebbero a questo punto piena efficacia. Parimenti, il fallito potrà proseguire nei rapporti giuridici preesistenti che non si siano sciolti (in tal caso irrevocabilmente) ex artt. 72 ss. Quanto agli organi fallimentari, essi decadranno, anche se per la verità si lascia individuare qualche residua competenza ultrafallimentare. Importanti sono poi gli effetti nei confronti dei creditori. Al di là dei possibili effetti esdebitatori che potrebbero conseguire ad un apposito decreto di esdebitazione o ad un concordato fallimentare (v piu avanti), con la chiusura del fallimento ogni creditore riacquista il libero esercizio delle azioni verso il debitore. Chiusa la procedura, si riaprirà anche, per i creditori concorrenti chirografari, la possibilità di esigere gli interessi: questi infatti, seppur esclusi dalla possiblità di esser conteggiati nella procedura, avranno nondimeno continuato a maturare durante essa. Quanto infine alle azioni già intraprese, occorrerà distinguere. Le cause intraprese, o riassunte dal curatore in sostituzione del fallito (es. per l’incasso di un suo credito) o dei creditori (es. una revocatori a ordinaria), se non ancora concluse alla chiusura del fallimento si interromperanno per essere eventualmente riassunte dai legittimmati naturali. Le azioni derivanti dal fallimento – tipicamente le revocatorie fallimentari – ove non cedute a terzi verranno dichiarate improcedibili e i relativi giudizi saranno interrotti. L’esdebitazione Con la chiusura del fallimento, o anche dopo di essa, è prevista la possibilità che si produca l’effetto dell’esdebitazione, consistente nella liberazione dai debiti resid ui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti (art. 142). Un tale effetto puo essere disposto ope judicis quando, nel decreto di chiusura del fallimento o in un successivo decreto ad hoc, vengano dichirati inesigibili nei confronti del debitore già dichirato fallito: - sia i debiti concorsuali non soddisfatti integralmente; - sia quelli verso creditori concorsuali non concorrenti (vale a dire quei creditori che all’apertura della procedura di liquidazione non abbiano presentato domanda di ammissione al passivo), nei limiti peraltro della sola eccedenza rispetto alla percentuale attribuita nel concorso ai creditori di pari grado. L’esdebitazione – che la legge stessa definisce “beneficio” – può peraltro operare soltanto a favore di persone fisiche che ne facciano apposita istanza con ricorso presentato in sede di chiusura del fallimento o entro un anno dopo il relativo decreto. Alla base di un tale beneficio si pone la considerazione che, sulla prospettiva sanzionatoria ed afflittiva della procedura concorsuale, convenga far prevalere, nell’interesse economico generale, quella recuperatoria, incentivando la persona fisica fallita a reimpiegare le proprie risorse lavorative nell’iniziativa economica, anziché restare per sempre paralizzata dal p eso dei debiti inevasi. L’art. 142 prescrive che l’ammissione al beneficio dell’esdebitazione possa essere concessa dal tribunale solamente a favore di chi abbia tenuto comportamenti collaborativi con gli organi della procedura e non risulti aver tenuto nel passato condotte che inducano ad escludere la sua onestà o comunque la sua meritevolezza. Inoltre, poiché quella sottesa all’istituto in discussione si rivela comunque una scelta normativa che finisce con il comportare un sacrificio dei creditori, la legge stessa, onde evitare che il sacrificio imposto risulti eccessivo, subordina la concessione del beenficio dell’esdebitazione alla condizione che, all’esito della procedura, i creditori concorsuali risultino soddisfatti almeno in parte. “In parte” stando a significare, secondo l’orientamento seguito dalla giurisprudenza di legittimità, non che tutti i creditori siano stati soddisfatti almeno in parte, ma che lameno parte dei creditori sia stata soddisfatta: spettando poi al giudice di valutare se quanto versato, rispetto a quanto complessivamente dovuto, si presti ad essere valutato come sufficiente a giustificare, secondo apprezzamento discrezionale, il beneficio dell’esdebitazione.

Se dunque tutti i suddetti requisiti di ammissibilità del ricorso sussistono, il tribunale potrà infine accoglierlo con decreto, eventualmente reclamabile dai creditori non soddisfatti.

IL FALLIMENTO DELLE SOCIETA’ Profili comuni Originariamente, la procedura fallimentare venne concepita ed attuata avendo riguardo al paradigma dell’impresa individuale. Ed anche quando l’impresa era col lettiva, questa veniva considerata come composta da una pluralità di mercanti. Ciò spiega perché la vigente disciplina fallimentare risulti tuttora scritta, tendenzialmente, con riferimento all’imprenditore tout court. Constano invece solo poche norme specificamente dettate per le società, essendsi ritenuto che tanto bastasse ad adattare la disciplina fallimentare rispetto all’ipotesi in cui l’impresa assuma la veste societaria. La strategia legislativa puo pero ritenersi infelice, in quanto già nel 1942, quando la legge fallimentare venne scritta, e poi soprattutto nel 2006, quando il legislatore ha riformato l’intera legge, si sarebbe potuto e dovuto constatare che la maggior parte dei fallimenti investe imprese aventi forma societaria. Con riferimento agli effetti della dichirazione di fallimento sulla società, deve oggi ritenersi che il fallimento, pur comportnado normalmente la liquidazione integrale del patrimonio sociale, non provoca, di per sé, lo scioglimento della società di capitali e cooperative. cooperative. Peraltro, se è cosi per le società di capitali, capitali, opposta è la regola tuttora risultante, invece, per le società di persone: infatti, la legge tuttora include il fallimento tra le cause che ne provocano lo sciogliemento. Le medsime considerazione inducono poi a concludere c he il fallimento non provoca la cessazione del funzionalmento degli organi sociali, né la decadenza dei loro componenti. Ovviamente, le competenze degli organi sociali, e degli amministratori in particolare, risulteranno fortemente ridimensionate in conseguenza del fallimento e, in particolare, di quella serie di suoi effetti per il fallito compendiati nella nozione di spossessamento. Difatti, ogni potere riguardante la gestione dell’impresa o l’amministrazione del patrimonio della società (ogni atto dispositivo, ogni assunzione di obbligazioni, ecc.) dovrà ritenersi sottratto agli organi sociali per effetto dell’intervenuto fallimento. In caso di fallimento di una società, società , soltanto se questo si sia chiuso con integrale ripartizione dell’attivo o mancanza di attivo sufficiente a soddisfare anche in parte i creditori o le spese di procedura, il curatore dovrà chiederne la cancellazione dal registro delle imprese. Con ciò volendosi sottintendere che quando il fallimento si chiuda invece con un residuo attivo per le società (e cioè nei casi previsti dai nn. 1 e 2 dell’art. 118 (gli altri erano i nn. 3 e 4): mancanza di domande di ammissione al passivo o integrale soddisfazione dei creditori prima che sia compiuta la ripartizione dell’attivo), la società, cessati gli effetti dello spossessmaneto ben potrebbe proseguire la propria esistenza. Il fallimento “in estensione” dei soci a responsabilità illimitata L’art. 147 stabilisce che che la sentenza che dichiara il fallimento di una società in nome collettivo, in accomandita semplice o in accomandita per azioni produce anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili. La regola non riguarda quindi tutte le società di persone, non applicandosi alla società semplice, né investendo la posizione dei soci accomandanti della s.a.s. Né riguarda le sole società di persone, operando il flaliemnto in estensione anche a carico dei soci accomandatari di s.a.p.a. il fallimento in estensione è soltanto quello che dalla società si propaga ai soci illimitatamente responsabili,

non viceversa. Infatti, l’eventuale fallimento di alcuno dei soci non comporta il fallimento della società (ma solo, al limite, l’esclusione del socio fallito ex art. 2288 228 8 c.c.). Quando ne ricorrano i presupposti, il fallimento in estensione dei soci si produrrà automaticamente: dovrà infatti essere dichiarato dal tribunale senza che occorra l’istanza di chicchessia e senza che occorra procedere al previo accertamento dell’esistenza dell ’esistenza in capo ai soci dei c.d. presupposti di fallibilità (artt. 1 e 5). Il fallimento del socio illimitatamente responsabile puo cosi ritenersi un’eccezione alla regol generale che collega il fallimento ai presupposti indicati dagli artt. 1 e 5 (benché sia chiaro che tali presupposti dovranno ben essere accertati in capo alla società fallita); pur trattandosi indubbiamente di eccezione che, oltre a manifestare un chiaro fondamento storico, continua tuttora a giustificarsi se non altro in punto di efficienza: efficienza: e cioè in ragione dell’utilità di sottoporre anche i patrimoni dei singoli soci ad altrettante procedure concorsuali, da coordinaris poi fra di loro e con quella della società, in modo da governare unitariamente, secondo le regole della par condicio, sia il concorso delle pretese dei creditori sociali fra di loro, sia il concorso fra di essi e i creditori personali dei soci. Il fallimento in estensione può verificarsi in altre due serie di ipotesi previste dall’art. 147. a) La prima riguarda i casi in cui un socio abbia cessato di esser tale  – per  – per morte o per recesso o per esclusione – esclusione – ovvero  ovvero di essere illimitatamente responsabile (essendo divenuto socio a responsabilità l imitata per effetto di, ad es., trasformazione, ovvero accomandante di s.a.s. dopo aver rivestito il ruolo di accomandatario). In tali casi – casi – poiché  poiché secondo le norme poste a tutela dei creditori dal c.c., il socio continua a rispondere illimitatamente per tutte le obbligazioni sociali sino al momento della suddetta cessazione – cessazione  – egli potrà essere dichiarato fallito in estensione se ricorrano anche queste due ulteriori condizioni: (i) se non sia decorso piu di un anno dallo scioglimento del rapporto sociale o dalla cessazione della responsabilità illimitata. Cio, peraltro, sempre che siano state osservate le formalità per rendere quei fat ti opponibili ai terzi (iscrizione nel registro delle imprese ecc.); (ii) sempre che l’insolvenza della società attenga, almeno in parte, a debiti esistenti alla data della cessazione della responsabilità illimitata. (b) La seconda serie di ipotesi riguarda invece l’eventuale scoperta, successiva alla dichiarazione di fallimento della società, di soci illimitatamente responsabili. In tal caso la dichirazione di fallimento sarà non solo in ripercussione, ripercussione, ma anche successiva, per effetto di un’ulteriore sentenza del tribunale, pronunziata stavolta non in via automatica per effetto del fallimento della società, bensì su istanza del curatore o di uno o piu creditori, o di uno o piu soci falliti. b1) Potrà trattarsi di soci illimitatamente responsabili ulteriori rispetto a quelli già noti al momento delal dichirazione di fallimento della società (c.d. soci occulti). b2) Ovvero si tratterà di soci illimitatamente responsabili scoperti dopo il fallimento dichirato nei confornti di un (soggetto ritenuto essere un) imprenditore individuale, quando, sempre successivamente a tale dichiarazione, si accerti che in realtà l’impresa dichiarata fallita non era individuale, bensì riferibile ad una società di cui il soggetto dichiarato fallito era socio (c.d. soci occulti di società occulta). In tal caso dice l’art 147 che si procederà nello stesso modo previsto per il caso precedente (b1), e cioe con sentenza successiva emanata su istanza del curatore, di un crditore o di altro socio. Tuttavia, in quest’ultimo caso la ulteriore sentenza dichiarativa di fallimento in estensione non sarà meramente integrativa di quella precedente avente ad oggetto il fallimento della società, bensì sostitutiva di quella avente ad oggetto il fallimento della impresa individuale, producendo pertanto nuovi effetti ex nunc. b3) Diverso, anche se da riportarsi alla fenomenologia dei fallimenti “in ripercussione”, è poi il caso in cui, sulla base di un vincolo sociale soltanto apparente, si arrrivi, arrri vi, a tutela dell’affidamento dei terzi, a pronunciare il fallimento di un socio apparente di società esistente, ovvero di una società appartente e, in estensione, dei suoi (apparenti) soci. Segue: il coordinamento fra la procedura di fallimento della società e quelle dei singoli soci

Con la dichiarazione di fallimento della società e dei suoi soci illimitatamente responsabili si apriranno altrettante procedure fra loro distinte e pur fortemente connesse, essendo lo scopo complessivamente perseguito dalla legge, come detto, quello di regolare il concorso delle pretese dei creditori sociali (su tutti i patrimoni sottoposti alle diverse procedure) con quelle dei creditori personali dei soci ( quelli di ciascun socio, nella sola procedura riguardante il proprio debitore). Al fine di consentire un tale coordinamento, l’art. 148 prevede innanzitutto la nomina di organi comuni alle diverse procedure. Sicché il tribunale procederà alla nomina di un solo giudice delegato e di un solo curatore, salva la possiblità di nominare idversi comitati dei creditori, onde tener conto della rappresentanza in ciascuna procedura aperta nei confornti dei singoli soci, dei creditori personali di ciascuno. Inoltre, l’insinuazione al passivo dei creditori sociali nelle dicverse procedure pro cedure sarà possibile uno actu: il credito dichiarato dai creditori sociali nel fallimento della società si intenderà dichiarato per l’intero nel fallimento dei singoli soci. D’altra parte, i creditori particolari di ciascun socio parteciperanno soltanto al fallimento di quest’ultimo, occorrendo allora una specifica domanda di ammissione al passivo per tale procedura. Ne risulta – risulta – come  come dispone lo stesso art. 147 nella parte in cui afferma che il patrimonio della società e quello dei soci sonon tenuti distinti – distinti  – che  che per ciascuna procedura occorrerà, sia pure in modo coordinato, effettuare un autonomo accertamento del passivo, pervenendosi alla fomrazione di distinte masse passive: distinguendo i debiti assunti in nome della società da quelli assunti a nome del socio. Sulla base del medesimo principio e in modo altr ettanto autonomo occorrerà procedere inoltre alla determinazione delle diverse masse attive: quella rappresentata dal patrimonio sociale; e quelle costituite dai patrimoni personali dei singoli soci, su cui concorreranno creditori sociali e personali. Sulla base delle distinte masse attive e passive, occorrerà assicurare: (i) il concorso fra i creditori personali e i creditori sociali; (ii) la par condicio fra i creditori sociali; (iii) la ripartizione del carico delle obbligazioni sociali fra i soci in misura proporzionale alla partecipazione di c iascuno. (i) Dal primo punto di vista, tutti i creditori, sociali e personali, concorreranno in esse secondo le consuete regole (e quindi inn proporzione all’ammontare del credito ammesso e avvalendosi delle eventuali cause di prelazione). (ii) La par condicio fra i creditori sociali sarà invece assicurata dalla loro partecipazione a tutte le ripartizioni effettuate in ciascuna procedura alla quale siano stati st ati ammessi, fino all’integrale pagamento. (iii) Infine, qualora risultasse che allcuno dei soci abbia dovuto farsi carico delle obbligazioni sociali in misura piu che proporzionale rispetto a quanto dovuto in rapporto alla sua partecipazione sociale, resterebbe la possibilità di un regresso fra in fallimenti dei soci per la parte eventualmente pagata in più. L’attuazione della responsabilità dei soci a responsabilità limitata Ben più semplici di quelle innanzi considerate sranno le conseguenze del fallimento di una società per i suoi soci limitatamente responsabili: rispetto a questi, infatti, si tratterà soltanto di attuare i loro obblighi per gli eventuali conferimenti ancora non eseguiti. Si tratterà dei soci accomandanti di s.a.s. e di s.a.p.a. nonché dei soci di s.p.a., di s.r.l., e di società cooperative. Fra i sooci a responsabilità limitata rientra anche ul socio uni di s.p.a. o di s.r.l. che sia limitatamente responsabile. I versamenti ancora dovuti dai soci costituiscono in principio uno dei possibli crediti della massa, il cui pagamento il curatore potrebbe esigere direttamente. Tale possiblità non par e quindi esclusa dalla previsione di un’ulteriorie via percorribile dal curatore, che potrebbe chiedere al giudice delegato l’emissione di un decreto decr eto ingiuntivo verso i soci per ottenere i versamenti ancora dovuti. E ciò anche se non fosse scaduto il termine eventualmente stabilito per il pagamento. Eguale richiesta di pagamento potrebbe inoltre essere avanzata anche nei confornti dei precedenti titolari delle partecipazioni, responsabili in via sussidiaria. Tema contiguo a quello qui esaminato è infine quello affrontato dall’art. 2467 c.c., che legittima il curatore,

ovviamente sempre ricorrendo le condizioni fissate dal predetto articolo, a chidere ai soci il rimborso di quanto da essi eventualmente ricevuto in restituzione dei fi nanziamenti concessi alla società. Le azioni di responsabilità La responsabilità dei soggetti incaricati di funzioni di amministrazione e controllo Si esamineranno nel secondo volume i profili di responsabilità risarcitoria derivante da non diligente esercizio delle funzioni amministrative e controllo svolte dall’interno di una società, nonché i diversi fronti sui quali essa si esplica: verso la società, verso i creditori sociali, e verso i singoli soci o terzi. Paradigmatica è a tale riguardo la disciplina prevista in tema di società per azioni che prevede agli artt. 2392 ss. c.c. la responsabilità verso la società, verso i creditori sociali, vero i singoli soci e terzi. A parte quest’ultimo ambito di responsabilità che, come si vedrà tra breve, non puo essere fatta valere dagli organi concorsuali, secondo l’art. 2394-bis c.c. gli altri due titoli di responsabilità – verso la società e verso i creditori sociali – in caso di fallimento potranno invece essere fatti valere dal curatore. Puo anzi osservarsi come, in pratica, nella maggior parte dei casi tali azioni vengano esercitate proprio dal curatore ai sensi dell’art. 2394-bis, e non invece, come potrebbe supporsi osservando l’ordine degli articoli 2392 ss. c.c., dai soci o dai creditori. Principi analoghi valgono ovviamente anche per la s.r.l. nonché per la s.a.p.a. e per le società cooperative; nonché, in principio, anche per le società di persone. Tutto ciò risulta ribadito, nella legge fallimentare, dall’art. 146, co. 2, secondo il quale – senza fare riferimento ad alcun particolare tipo di società – il curatore esercita le azioni di repsonsabilità contro: - gli amministratori: rientrandovi, secondo la giurisprudenza, anche i soggetti ai quali possa imputarsi la qualifica di amministratore di fatto; - i componenti degli organi di controllo, ed estendendosi tale responsabilità anche ai revisori legali e alle società di revisione legale; - i direttori generali e. se la società sia stata posta in liquidazione prima del fallimento, i liquidatori; - inoltre, nella s.r.l., competerà al curatore anche l’azione di responsabilità contro i soci che abbiano intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci e i terzi. Le azioni di responsabilità in discorso potranno essere esercitate dal curatore soltanto previa autorizzazione del giudice delegato e sentito il comitato dei creditori. A queste condizioni, comunque, la legittimazione del curatore sarà esclusiva, non potendo dette azioni essere intraprese dai soci o dai creditori ed interrompendosi eventualmente le zioni da questi ultimi già intentate. LE SOLUZIONI NEGOZIATE DELLA CRISI IL CONCORDATO PREVENTIVO Presupposti e funzione Lasciando da parte i pur possibili accordi stragiudiziali (di cui si dirà), i percorsi giudiziali alternativi a quello fallimentare che la legge prevede sono il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti. Rinviando ad un successivo capitolo l’esame di questi ultimi (che pur richiedendo un ontervento giudiziale, si puo dubitare che diano luogo ad una vera e propria procedura “concorsuale”), certamente il concordato preventivo costituisce, al pari del fallimento, una procedura concorsuale giudiziale. Attraverso di essa un imprenditore in crisi ha la possiblità, senza perdere il potere di gestire la sua impresa e godendo di una moratoria sui debiti esistenti, di formulare ai suoi creditori una proposta per il soddisfacimento, sia pur parziale o differito, dei loro diritti. La proposta, se regolarmente accettata dalla maggioranza dei creditori e conseguentemente omologata dal tribunale, limiterà i debiti dell’imprenditore a quanto in essa promesso, con conseguente liberazione anche verso i creditori che non abbiano assentito alla proposta stessa, da ogni altro debito precedente ad essa. Funzione del concordato preventivo è la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei creditori. La

previsione dell’essenzialità di tale funzione chiarisce che la procedura ha, al pari di quella fallimentare, una finalità eminentemente satisfattiva. Anche dal punto di vista dei presupposti delle due procedure si riscontra una rilevante sovrapposizione. Dal punto di vista soggettivo, v’è una coincidenza pressoché totale: l’art. 160 parla di “imprenditore” tout court, ma l’art. 1 della stessa legge – che, come si ricorderà, specifica anche di quale natura e di quali dimensioni debba essere l’impresa assoggettabile alla procedura fallimentare –  è esplicito nel prevedere che tali reuqisiti riguardino tanto l’imprenditore ammissibile a fallimento quanto quello ammissibile a concordato preventivo. Dal punto di vista oggettivo, presupposto del concordato preventivo è lo stato di crisi in cui si venga a trovare l’impresa. Un tale stato non è incompatibile ed alternativo rispetto allo stato di insolvenza (presupposto oggettivo del fallimento), ma solo piu ampio, essendo infatti previsto che “per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”. L’insolvenza, quidni, costituisce il piu grave stato di crisi; ma quest’ultimo potrebbe ricorrere anche in situazioni di difficoltà meno acuta. E’ anche importante pero precisare di quale intensità minima debbano essere tali difficoltà, per poter essere qualificate come “crisi”, onde evitare di dilatare eccessivamente tale nozione e, conseguentemente, le possibilità di accedere alla procedura di concordato preventivo. Puo dirsi che, in principio, lo stato di crisi comprende anche quelle situazioni in cui, pur non essendosi ancora verificato un vero e proprio stato di insolvenza, consti tuttavia una situaizone che realizzi il concreto rischio, o addiirittura la certezza, che un’insolvenza si verificherà; che essa, insomma sia imminente. Una tale prospettiva potrebbe per  esempio rendersi verosimile in presenza di alcuni indici sintomatici quali una ofrte crisi di liquidità, un eccessivo indebitamento, ecc. Ebbene, proprio questo parziale scarto fra la nozione di stato di crisi e stato di insolvenza consente di apprezzare la ragione della previsione di una procedura come quella concordataria affianco a quella fallimentare, pur essendo entrambe, in principio, rivolte a soddisfare i creditori. Innanzitutto, la possiblità di poter accedere ad una procedura concorsuale pur in presenza di una ocndizione di difficoltà che non sia ancora uno stato di insolvenza, denuncia una possibile funzione preventiva, anticipatoria, del co ncordato rispetto al fallimento. In tal modo il debitore, senza subire gli effetti del fallimento (e lo spossessamento in primo luogo), potrà pilotare la crisi della propria impresa e benficiare di una parziale esdebitazione. Ma anche i creditori potranno beneficiare di un valore che (almenon nelle loro stime, se approverano la prrroposta) potrà ritenersi maggiore di quello ricavabile da una procedura fallimentare: e cio soprattutto grazie ad un piano che, essendo congegnato da chi meglio di tutti conosce le potenzialità dell’impresa in difficoltà, potrebbe consentire di estrarre da quest’ultima un valore superiore a quello che risulterebbe all’esito di una liquidazione fallimentare. Per questa stessa ragione, d’altra parte, un risultato economico preferibile rispetto all’alternativa fallimentare potrà conseguirsi anche quando al concordato si acceda in una condizione che sia già di insolvenza: in questo caso il concordato si porrà non tanto in funzione anticipatoria di un fallimento, ma quale alternativa ad esso. Spetterà ai creditori, chiamati ad approvare a proposta concordataria, di valutare, in concreto, quali vantaggi possano essere realisticamente raggiunti attraverso il piano concordatario proposto. Il piano Il nucleo sostanziale della domanda di concordato preveentivo consiste in una proposta i creditori. Con questa si offre ai creditori una soddisfazione che, benché incompleta (e cioè in misura inferiore e/o in termini dilazionati rispetto a quanto dovuto, per il resto operando invece l’esdebitazione del proponente), si prospetta come preferibile rispetto a quella che potrebbe trarsi da una procedura fallimentare, come visto. Questa proposta viene solitamente articolata sulla base di un programma, detto “piano concordatario”. La sua formulazione spetta esclusivamente al debitore. Ciò potrà avvenire, come prevede l’art. 160, attraverso qualsiasi forma. Puo dirsi cosi che il piano concordatario risulta tipizzato nella sua funzione, ma

non nei sui contenuti. A cio non contraddice il fatto che è lo stesso art. 160 a prevedere alcune forme in cui il piano potrebbe congegnarsi. Si tratta infatti di un elenco puramente esemplificativo. a) Fra le forme piu semplici rientra cosi la possibilità di una mera promessa di pagamento parziale e/o dilazionato dei crediti esistenti (c.d. concordato remissorio o dilatorio). b) Oppure puo essere prevista una mera cessione dei beni ai creditori (concordato liquidatorio): in tal caso si tratterà di una forma di liquidazione del patrimonio dell’imprenitore che potrebbe anche non divergere nell’esito e nelle modalità (pur certo godendo della maggiore autonomia operativa e dell’effetto esdebitatorio tipici del concordato preventivo) da quella che si realizzerebbe nell’ambito di una procedura fallimentare. c) Forme piu complesse potrebbe invece assumere il piano quando intenda raggiungere la soddisfazione dei creditori attraverso il compimento di talune operazioni straoridnarie, quali ad es.: un conferimento d’azienda in una società nuova o preesistente; un’incorporazione della società in crisi da parte di un’altra in bonis; una trasformazione della società in crisi (magari in s.p.a., per consentire la cartolarizzazione delle partecipazioni): in ciascuno di questi casi attribuendosi poi ai creditori, o a società da loro gia partecipate, titoli emessi dalle società risultanti da queste operazioni (a seconda dei casi: azioni o quote, ovvero obbligazioni). d) La proposta concordataria potrà essere assistita da garanzie, reali o personali (es. pegno o ipoteca o nel secondo caso es. fideiussione), tipiche o atipiche, a favore di tutti o alcuni creditori (ad es. privilegiati), che potranno essere prestate dallo stesso imprenditore oppure da terzi. Del resto, deve evidenziarsi come la proposta, pur proveniente dall’imprenditore in crisi, non dovrà necessariamente prevedere che sia proprio quest’ultimo a farsi carico di realizzare quanto promesso ai creditori. E’ possibile infatti che la stessa proposta indichi un terzo, c.d. assuntore che, a fronte della cessione a suo favore delle attività dell’impresa in crisi, si accolli i debiti di cui il piano preveda il pagamento. L’accollo potrà essere cumulativoo (cioe in solido con l’imprenditore) o liberatorio, se espressamente previsto dal piano sottoposto all’approvazione dei creditori. e) Fra le modalità piu significative attraverso le quali il piano puo essere congegnato, v’è poi quella che consente la suddivisione dei creditori in c lassi “secondo posizione giuridica e i nteressi economici omogenei”, riservando poi trattamenti differenziati ai creditori appartenenti alle diverse classi. Per comprendere il senso di tale previsione, occorre muovere dalla considerazione che i creditori di un’impresa in crisi non costituiscono un gruppo del tutto omogeneo, venendo in realtà a scomporsi in gruppi aventi aspettative diverse, in ragione della diversità del titolo giuridico vantato e della loro condizione economica. Fra i crediti avetni particolare titolo giuridico, in particolare, una speciale menzione  – sia perché spesso di grande rilevanza quantitativa, sia perché destinatari di una disciplina ad hoc  – meritano i crediti tributari e contributivi. Alla luce dunque di un talemente variegato fronte dei creditori, si profila il rischio che un’offerta identica per tutti (o quanto meno per tutti i creditori di pari rango: tipicamente, i chirografari) raccolga un consenso quantitativamente inferiore di quello che potrebbe invece raggiungeersi se l’offerta po tesse essere differenziata rispetto ai diversi gruppi. Si immagini cosi che potrebbero ben esservi dei soggetti come i lavoratori, disposti a rinunciare a parte dei lroo crediti, se cio possa consenti re il risanamento dell’impresa e la conservazione del posto di lavoro, e cio con la prospettiva di un reddito futuro; mentre altri creditori potranno tranquillamente avere esigenze del tutto diverse. e-bis) L’art. 160 concede infine un’opzione senza la quale potrebbe spesso risultare velleitario qualunque piano concordatario: quella di prevedere un pagamento non integrale dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca. La necessità in passato prescritta di un pagamento integrale di tali creditori comportava spesso l’impraticavbilità di ogni soluzione conco rdataria, procurando il problema compendiabile nei seguenti termini. La posizione, pur formalmente avvantaggiata, dei creditori muniti da cause di prelazione, si rivela spesso, in conreto, incapace di assicurare loro un apiena soddisfazione: in particolare, cio accade quando

l’effettivo valore di realizzo dei beni su cui sussiste la causa di prelazione risulta infeirore all’ammonstare del credito, ovvero assorbito da una causa di prelazione poziore a facvore di altri. Ad es.: il creditore per 100 ha pegno su un bene che vale soltanto 80; ovvero, un creditore per 100 ha ipoteca di secondo grado su un immobile che vale 150, ma che è gia gravato da un’ipoteca di primo grad per 100. L’art. 160 concede dunque che il pioano possa prvedere un pagamento non integrale dei creditori muniti di cause di prelazione, purché la soddisfazione loro assicurata non risulti inferiorie a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione. Per la parte restante del credito (cioe quella che esorbita dal valore effettivamente realizzabile) i privilegiati saranno considerati come chirografari, di un’offerta di pagamento parziale, in base al patrimonio residuo. Unico limite resta quello per cui, pur potendosi degradare a chirografari i creditori privilegiati assistiti da garanzia non capiente, con la possiblità quindi di assegnarli ad alcuna delle classi previste dal piano e destinatarie di trattamtni differenziati, il trattamento stabilito per ciascuna classe non puo avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione. L’apertura della procedura La domanda di ammissione Se il piano concordatario, come sopra ricordato, costituisce il nucelo sostanziale della proprosta del debitore, questa, nel suo complesso, risulta processualmente rappresentata dalla domanda di ammissione alla procedura, che assume le forme del ricorso. Insieme al ricorso occorrerà depositare la documentazione idonea a rappresentare le componenti attive e passive di cui i creditori dovranno tener conto per valutare la convenienza della proposta, e in particolare: - un’aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanzairia dell’impresa; - uno stato analitico ed estimativo delle attività ( che consente di individuare la “massa attiva”); - l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei reispettivi crediti e delle cause di prelazione; - l’elenco dei titolari dei diritti reali o personali su beni di proprietà o in possesso del debitore; - il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili (posto che questi elementi contribuiscono a meglio valutare la convenienza della proposta concordataria, che potrebbe anche risultare liberatoria dei soci illimitatamente responsabili, riespetto all’alternativa fallimentare, in cui invece si produrrebbe il fallimento in estensione dei soci con la possiblità di concorrere anche sul loro patrimonio personale); - una descrizione analitica delle mo dalità e dei tempi di adempimento della proposta. La descrizione delle modalità e dei tempi dell’adempimento risulta di primaria im portanza quando il piano preveda che la soddisfaizone dei creditori dovrà realizzarsi impiegando flussi di cassa (redditi futuri) provenienti dalla prosecuzione dell’esercizio dell’attività di impresa: c.d. concordato con continuità aziendale. Esso riguarda le ipotesi in cui, nel descrivere le modalità e i tempi di adempimento della proposta, venga espressamente prevista la prosecuzione dell’attività di impresa direttamente da part del debitore; ovvero la cessione dell’azienda in esercizio o il suo conferimento in una o ppiu società. Si tratta di una particolare figura di concordato preventivo che oltre ad essere sottoposta alla disciplian generale, comporta l’applicazione di ulterioir norme ad essa specificamente rivolte, fra le quali la necessità che la d escrizione dellemodalità e dei tempi dell’adempimento sia integrata da un’analitica indicaizone dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato, ecc. La domanda e la documentazione sopra descritte dovranno essere accompagnati dalla relazione di un professionista che attesti la veridicità dei dati aziendali esibiti e la fattibilità del piano medesimo. Il preconcordato

Il legislatore si è fatto carico di favorire l’ammissione al concordato preventivo  anche nei casi in cui l’imprenditore ancora non sia riuscito, o non abbia avuto il tempo, di confezionare un piano concordatario da presentare ai creditori. Cio puo avvenire quando egli stia ancora esplorando le condizioni che potrebbero essere accettate dai creditori, pur rischiando, in tale fase di trattative, di generare allarmi che anziché favorire la composizione della c risi, potrebbero piuttosto provocare un’istanza di fal limento. L’art. 161 consente allora all’imprenditore in stato di crisi di depo sitare un ricorso contenente la domanda di concordato, riservandosi di presentare la proposta, il piano e la documentazione entro un successivo termine, assegnatogli dal giudice: si parla percio di concordato con riserva o anche di preconcordato. Il vantaggio sta in ciò, che nel periodo cosi concessogli con decreto, il debitore potrà definir la proposta concordataria senza temere di incorrere in una dichirazione di fallimento, dal momenot che medio tempore già cominceranno a prodursi alcuni degli effetti tipici della domanda di concordato “completa”, fra cui in primo luogo il divieto di aizoni esecutive individuali da parte dei creditori. Naturalmente, entro il termine assegnato, l’imprenditore dovrà integrare il ricorso con la proposta, il piano e la documentazione. In tal caso la procedura proseguirà normalmente. Oppure potrà, in alternativa, depositare un ricorso per l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 -bis, cosi sostanzialmente dirottando la procedura di concordato verso quella prevista da tale disposizione, ma beneficiando ugualmente, nel frattempo, degli effetti protettivi interinali connessi ad una normale domanda di concordato. Se invece entro il termine assegnato non venisse presentata la proposta con il piano e la documentazione richiesta, le conseguenze non potranno che essere quelle di una mancata ammissione alla procedura di concordato, con evenutale successivo fallimento. L’ammissione alla procedura Sull’ammissibilità del ricorso deve pronunciarsi il tribunale che, ravvisandone l’opportunità, potrebbe in vi a interlocutoria concedere al debitore un termine non superiore a quindici giorni per apportare integrazioni al piiano e produrre nuovi documenti. Il tribunale dovrà verificare innanzitutto la sussistenza dei presupposti della procedura (esaminati supra) e della doc umentazione sopra indicata. uni controllo, in qualche misura di merito, indubbiamente rimesso dalla legge al tribunale è quello sulla correttezza dei criteri della formazione delle diverse classi. Dovrebbe cioè verificarsi se alla suddivisione dei creditori in classi effettivamente corrisponda una omogeneità delle relative posizioni giuridiche ed i nteressi economici, ovvero se essa appaia irraizonale, se non addirittura strumentale a penalizzare alcuni a discapito di altri. Alla luce dei suddetti criteri di giudizio, il tribunale, a norma dell’art. 162, potrà innanzitutto dichiarare inammissibile la domanda di concordato con decreto non soggetto a reclamo. Tale decreto non esclude, almeno in teroia, che una nuova domanda di concordato venga proposta. I pratica, però, è probabile che tale possibilità venga meno per sempre, poiché il tribunale, contestualmente al rigetto della domanda, potrà anche, su istanza del creditore o su richiesta del pm, accertare la sussistenza dei presupposti di cui agli artt. 1 e 5, diciarando contestualmente, allora, il fallimento del debitore. Quando invece il procedimento di verifica sull’ammissiblità del ricorso si conclude positivamente, il tribunale, con decreto non soggetto a reclamo, dichiara aperta la procedura di concordato preventivo. E’ solo con il decreto di ammissione, dunque, che la procedura di concordato preventivo potrà dirsi aperta. Con lo stesso provveidmento il tribunale nominerà innanztitutto gli altri organi della procedura, e cioe un giudice delegato e il commissario giudiziale. Il commissario giudiziale, in particolare, pur munito di funzioni e poteri diversi da quelli del curatore fallimentare, è soggetto a molte delle norme previste per quest’ultimo (es. per quanot riguarda i requisiti di nomina, la reclamabilità dei suoi provvedimenti dinanzi al giudice delegato, ecc.). Lo stesso provvedimento di apertura della procedura, inoltre, dovrà essere comunicato ai creditori ed essere pubblicato nelle forme previste per la sentenza dichiarativa di fallimento.

Gli effetti dell’apertura Per il debitore La procedura concordataria, a differenza di quella fallimentare, tende a lasciare il debitore a capo della sua impresa, come visto. L’esercizio della quale, anz i, è spesso contemplato dallo stesso piano concordatario (allora “con continuità aziendale”) come il mezzo attraverso il quale realizzare i proventi promessi ai creditori. Durante la procedura di concordato il debitore conserva l’mministrazione dei suoi be ni e l’esercizio dell’impresa. Occorre però evitaare che, in questa fase già critica dell’impresa, di un tale potere di gestione il debitore possa abusare pregiudicando oltremodo gli interessi dei c reditori, compreso il loro interesse ad un trattamento tendenzialmente paritario all’intenro della procedura. Sicché ad un tale potere venogno posti due ordini di limiti. i) In primo luogo, viene previsto che il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione non possa produrre effetto nei cofnronti dei creditori anteriori al concordato senza l’autorizzazione del giudice delegato. E’ poi prevista l’inefficacia in pregiudizio dei creditori delle formalità, poste in essere dopo l’apertura della procedura, necessarie per rendere opponibili atti compiuti prima dell’apertura della procedura stessa ( es. la trascrizione di un’ipoteca concessa prima del concordato). Varrà cosi, con riferimento a tali atti, quel particolare regime già esaminato in ambito f allimentare e consistente nella inefficacia degli atti compiuti dal debitore rispetto ai creditori: nell’impossibilità cioe di sottrarre alla loro garanzia patrimoniale quanto abbia costituito oggetto di disposizione. Nel fallimento, come visto, tale effetto viene definitio “spossessamento”; nel concordato, attesa la limitata portata di tale effetto, si paral di spossessamento attenuato. ii) In secondo luogo, è posto un limite di ordine generale: il potere di gestione dell’impresa, pur lasciato all’imprenditore, sarà esercitato sotto la vigilanza del commissario giudiziale. Emerge in tal modo la rilevanza del ruolo del commissario g iudiziale che, pur non potenndo orentare le scelte gestorie dell’imprenditore, puo comunque controllarle e condizionarle grazie al potere di provocare l’interuzione della procedura. Difatti, se il debitore compisse atti eccedenti l’ordinaria amministrazione non autorizzati dal giducie delegato, o comunque diretti a frodre le ragion dei creditori, il commissario giudiziale potrà riferirne al tribunale affinché questo apra il procedimento per la revoca dell’ammissione al concordato. Per i creditori Con riferimento all’efficacia del concordato per i creditori, rispetto ad essi si produce il rilevante effetto del blocco delle iniziative cautelari ed esecutive. Dalla data della pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese (dunque, a ben vedere, dopo la presentazione della domanda, ma prima dell’effettiva apertura della procedura, che si ha solo con il decreto di ammissione) e fino all’omologazione del concordato, i creditori per titolo o causa anteriore non possono, a pena di nullità, iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore. Si realizza cosi una cristallizzazione della massa passiva analoga a quella che si produce per effetto del fallimento. Della procedura fallimentare sono infatti espressamente richiamate le norme relative agli “effetti per i creditori” che regolano – come già si è visto – la sospensione del corso degli interessi, il divieto di compensaizone, ecc. D’altra parte, durante questa fase, stante l’inibizione dal potere di agire a tutela delle proprie ragioni, non matureranno né i termini prescrizionali né quelli decadenziali. Il divieto di azioni esecutive, come visto, è previsto a pena di nullità, e senza eccezioni; ma vale ovviamente solo per i creditori anteriori alla (pubblicazione della) domanda di concordato, in nulla pregiudicando, pertanto, la posizione di coloro che vantino crediti sorti dopo la domanda. I c.d. creditori posteriori, pertanto, avranno tutto il diritto di essere soddisfatti alla scadenza e alle condizioni convenute contrattualmente, potendo altrimenti intraprendere individualmente ogni iniziativa cautelare od esecutiva nei confrotni dell’imprenditore. Inoltre, in caso di successivo fallimento, tali crediti andranno pagati in prededuzione.

Sui contratti pendenti e sugli atti pregiudizievoli Circa i contratti in corso di esecuzione alla data della presentazione del ricorso, con il ricorso introduttivo o anche dopo il decreto di ammissione, il debitore puo chiedere l’autorizzazione a sciogliersi da essi, ovvero la loro sospensione per non piu di sessanta giorni. Trattandosi di effetti “a domanda”, ne consegue che in assenza di questa i contratti continueranno ad avere normale esecuzione. Se invece richiesta vi sia e trovi accoglimento, al terzo dovrà riconoscersi un indennizzo da soddisfarsi come credito anteriore al concordato stesso. Nella stessa ottica si giustifica il silenzione della legge in merito alla sorte dei c.d. atti pregiudizievoli precedenti all’apertura della procedura. Nella logica del concordato, infatti, non occorre reintegrare il patrimonio del debitore mediante azioni, come ti picamente la revocatoria fallimentare, che presuppongono uno stato di insolvenza del debitore; tanto più che, come già rilevato, la stessa apertura del concordato preventivo non presuppone necessariamente uno stato di insolvenza. Cio non toglie che se la procedura concordataria dovesse concludersi con una dichiarazione di fallimento, il termine a ritroso per l’individuaizone degli atti assoggettabili a revocatoria fallimentare dovrebbe computarsi – secondo un principio di “consecuzione” delle procedure senza soluzione di continuità – dalla data di apertura del concordato preventivo (come visto), previio accertametno che lo stato di crisi che ha provocato quest’ultimo consistesse già in quel momento in un vero e proprio stato di insolvenza. La fase iniziale della procedura Se la fase cruciale del concordato preventivo puo indubbiamente ritenersi quella della votazione dei creditori, propedeutica ad essa è quella iniziale: quella cioè dei provvedimenti da compiersi immediatamente dopo l’apertura della procedura, prevalentemente per impulso del commissario giudiziale (provvedimenti immediati). Occorre innanzitutto effettuare una ricognizione dei creditori. Per adempiere a questo compito il commissario giudiziale si avvarrà innanzitutto delle scritture contabili che il debitore avrà depositato unitamente alla domanda di concordato. A tempo stesso, il commissario giudiziale provvederà anche ad una ricognizione della massa attiva: e così, sempre muovendo dalle scritture contabili, individuando i debitori dell’imprenditore in crisi e procedendo all’inventario del suo patrimonio. Tanto l’attivo quanto il passivo – tanto piu che, come visto, manca un procedimento formale di accertamento del passivo come nel fallimento – costituiscono elementi decisivi sui quali i creditori potranno fondare una consapevole scelta di adesione o di rigetto della proposta. Ed è sempre in questa prospettiva, d’altra parte, che il commissario giudiziale dovrà stilare una relazione particolareggiata sulle cause del dissesto, sulla condotta del debitore, sulle proposte di concordato e sulle garanzie offerte ai creditori. Un tale ruolo protettivo del commissario giudiziale si conferma anche sulla vigilanza che egli svolge al fine di tenere al riparo i creditori da tentativi di frode. Il commissario giudiziale, infatti, non soltanto vigila sull’attività del debitore durante la procedura, con riferimento agli atti compiuti senza la necessaria autorizzazione o diretti a frodare le ragioni dei creditori; ma indaga anche sugli eventuali profili di dolo insiti nella proposta di concordato, come quando ci si accorgsa che in essa risultino occultati o dissimulati elementi dell’attivo, ovvero esposte passività insusistenti ovvero che il debitore ha commesso altri atti di frode. Tale vigilanza investe anche la persistenza, durante la procedura, delle condizioni previste per l’ammissiblità del concordato. Col che deve però ritenersi che il legislatore abbia inteso riferirsi ai soli presupposti di ammissiblità della procedura e non alla fattibilità del piano, che già in sede di ammissione doveva rritenersi sottratta al potere di verifica del tribunale e rimessa alla sola valutazione del profesisonista. Riscontrata alcuna di queste ipotesi patologiche, il commissario giudiziale ne riferirà al Tribunale che,

verificatane la sussistenza, disporrà la revoca del decreto di ammissione; nonché (sempre che ne ricorrano gli estremi e ne abbiano fatto istanza i creditori o il PM) l’eventuale dichiarazione di fallimento. La votazione Nella data fissata dal decreto di ammissione alla procedura e comunicata dal commissario giudiziale, ha luogo l’adunanza dei creditori i quali soino chiamati ad approvare o respingere la proposta concordataria. L’adunanza si svolgerà sotto la presidenza del giudice delegato e con la partecipazione del commissario giudiziale e del debitore, che potranno in tale sede fornire chiarimenti o replicare alle osservazioni dei creditori. Esaurita la discussione, si procederà alla votazione del concordato. Legittimati al voto sono tendenzialmente tutti i creditori chirografari, anche se opinioni contrarie constano con riferimento ai creditori subordinati, almeno quando il piano non prometta loro alcunché. Ciò perché in tal caso mancherebbe un loro interesse al voto, che quindi sarebbe “scontato” in senso negativo, potendo cosi ostacolare l’approvazione della proposta e quindi la realizzazione del meritevole interesse  degli altri chirografari a beneficiarne. I dubbi sull’ammissiblità al voto dei creditori subordinati si fondano peraltro su un argomento ricavabile ma solo in parte ee sulla base di un’analogia imperfetta – dalla disciplina che invece la legge riserva espressamente ai creditori privilegiati. Per essi infatti è previsto che se la proposta di conocrdato contempli un pagamento integrale, non avranno diritto al voto. I creditori privilegiati potrebbero comunque essere ammessi al voto: (i) ove rinunciassero in tutto o in parte al diritto di prelazione per la parte del credito non coperta dalla garanzia; (ii) ovvero quando, constando ex ante l’incapienza della garanzia, sia la stessa proposta del debitore a riservare un soddisfacimento non integrale ai creditori privilegiati; e quindi, ancora una volta, per la sola parte del credito di cui non viene promesso il pagamento integrale. In entrambi i casi, infatti, per la parte di credito ammessa al voto i privilegiati saranno equiparati ai creditori chirografari ( la garanzia puo risultare incapiente per il risultato di una situazione di mercato per cui il valore del bene su cui c ade la garanzia non copre concretamente il valore del credito). Il voto viene dichiarato informalmente nella parte conclusiva dell’adunanza, della quale i nfartti dev’essere redatto processo verbale. Ai voti cosi espressi e conteggiati potranno però sommarsi anche quelli che i creditori che non abbiano votato in adunanza potranno far pervenire per co rrispondenza, purché pervengano entro venti giorni dalla sua chiusura. In mancanza, coloro che non abbiano votato, neppure per corrispondenza, si riterranno consenzienti e come tali saranno considerati ai fini del computo della maggioranza dei crediti. Si intende cosi propiziare l’approvazione del concordato preventivo. Il concordato potrà dirsi approvato se avranno vootato a favore i creditori che rapprsentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Si tratta di maggioranza non per teste ma per quote, che potrebbe quindi venire raggiunta anche da una minoranza di creditori. Se pero il piano abbia previsto diverse classi di creditori, il concordato potrà dirsi approvato se inoltre consti una maggioranza per quote alll’interno del maggior numero di classi. Insomma: maggioranza per quantità complessiva, sempre e comunque; e in piu, ove si sia votato per classi, la maggioranza delle classi previste dal piano. L’omologazione del concordato Il giudizio di omologazione Se all’esito della votazione le maggioranze prescritte non vengano raggiunte, il concordato dovrà dirsi respinto. Il giudice delegato riferirà di tale esito al tribunale che – verificata la regolarità della votazione e il mancato raggiungimento delle maggioranze prescritte dalla legge – provvederà ai sensi dell’art. 162 (cioè nello stesso modo prescritto in caso di inammissiblità della proposta); con la possiblità quindi che, oltre al decreto di improcedibilità della procedura, venga emanata anche – su istanza di un creditore o di un P.M.,

sempre che ne ricorrano i presupposti  – sentenza dichirativa di flaliemnto del debitore. Diversamente, quest’ultimo potrebbe proporre una nuova domanda di co ncordato preventivo. Al contrario, in caso di approvazione da parte dei creditori, la procedura proseguirà con il giudizio di omologazione. Constatato il consenso delle maggioranze prescritte, affinché la procedura si concluda positivamente occorrerà infatti l’omologazione del tribunale, cioè un decreto che, verificata la conformità alla legge della procedura, possa produrre, oltre a quelli interinali già venuti in essere, gli effetti tipici del concordato. Anche in tal caso il giudice delegato riferirà l’esito della votazione al tribunale, che fisserà un’udienza in camera id consiglio per la comparizione, oltre che del debitore, del commissario giudiziale e degli eventuali creditori dissenzienti. Dieci giorni prima dell’udienza cois fissata potranno quindi costituirsi – oltre al debitore e al commissario giudiziale – i creditori dissenzienti ed ogni altro interessato per proporre, eventualmente, opposizione. Naturalmente opposizioni potrebbero anche non essere sollevate da chicchessia, e in questo caso il tribunale, verificata la regolarità della procedura, potrà senz’altro omologare il concordato con decreto non soggetto a gravame. Potrebbero però essere sollevate opposizioni da parte di qualunque interessato. In tal caso si instaurerà un vero e proprio giudizio contenzioso. Di una possibile opposizione fondata sulla ritenuta (s)convenienza della proposta, la legge dà espressamente conto soltanto con riferimento alle ipotesi in cui essa venga sollevata: (i) da un creditore (ovviamente dissenziente) appartenente ad una classe dissenziente, se vi sia stata suddivisione dei creditori in classi; (ii) ovvero, in caso di mancata formazione delle classi, da tanti creditori siddenzienti che rapprsentino almeno il cventi per cento dei crediti ammessi al voto. Quando un’opposizione nei termini ed alle condizioni sopra riferite, sia ammissible in ragione di un trattamento non ritenuto accettabile, occorrerà allora pronunciarsi sul suo accoglimento o non, evidentemente valutandone la fondatezza sulla base della asserita “sconvenienza”. Ma quale puo essere, obiettivamente, il metro di una tale sconvenienza? La legge fissa al riguardo un parametro definito del “best interest test” e consistente in ciò: l’opposizione sarà respinta, e non impedirà quindi l’omologazione, qualora il tribunale ritenga che il credito possa risultare soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili. La formula delle “alternative concretamente praticabili” si tende correntemente ad interpretarla come riferita al la sola alternativa fallimentare. Le opposizioni potranno fondarsi poi su asserite patologie del procediemnto (erroneo conteggio del voto, ecc.) oltre che sull’asserita non fattibilità del piano, adducendo ad es. l’erroneità della relazione del profesisonista o la mancanza sopravenuta degli elementi di fatto su cui il giudizio di fattibilità si era inizialmente fondato, ecc. Nei limiti dei motivi fatti valere con le opposizioni, il tribunale, assunti i necessari mezzi istruttori, dovrà pronunciarsi con decreto motivato. Se l’opposizione viene accolta, il decreto sarà di rigetto della proposta, ed in tal caso potrà altresì farsi luogo – su istanza del creditore o su richiesta del pm, ed accertati i necessari presupposti – al fallimento del debitore. Altrimenti, sarà emanato il decreto di omologazione del concordato, con il quale la procedura potrà dirsi conclusa. Gli effetti dell’omologazione Con l’omologazione si produrranno immediatamente gli effetti del concordato: (i) il debitore sarà affrancato dalle limitazioni alla disponibilità del suo patrimonio previste dall’art 167 (atti di strordinaria amministrazione, ecc.), recuperando piena capacità d’agire e processuale, e sarà liberato dalle obbligazioni il cui adempimento non sia previsto dalla proposta approvata; (ii) se si tratti di società con soci a responsabilità illimitata, il concordato produrrà effetti liberatori anche a favore di questi ultimi, sempre che non consti patto contrario; cio, peraltro, nei confronti dei soli creditori sociali, mentre quelli particolari conserveranno impregiudicata ogni loro ragione; (iii) il debitore resterà ovviamente obbligato a dare esecuzione a quanto promesso nel piano concordatario, sia in termini di pagamenti veri e propri, sia in termini di atti a ciò funzionali (costituzione delle garanzie

promesse, ecc.); (iv) l’effetto esdebitarorio vincolerà tutti i creditori, compresi quelli dissenzienti, anteriori alla pubblicazione della domanda di concordato; (v) i creditori anteriori conserveranno però intatti i loro diritti nei confornti dei coo bbligati, fideiussori del debitore, e degli obbligati in via di regresso con quest’ultimo (fra i quali eventualmente, come appena ricordato, anche i soci illimitatametne responsabili della società che abbia proposto il concordato, ma soltanto se cio sia stato espressamente previsto); (vi) in caso di successivo fallimento (c.d. consecuzione delle procedure), poi: a) gli atti e i pagamenti compiuti in funzione della procedura o in esecuzione del piano omologato sranno esentati da azione revocatoria fallimentare; b) i crediti derivanti dalla “nuova finanza” concessa all’impresa in funzione della procedura o in esecuzione del piano omologato godranno della prededucibilità; c) inoltre, varrà l’esenzione dai reati di bancarotta in relazione al compimento di atti o pagamenti o al tre “operazioni” posti in essere in esecuzione dell’accordo omologato. L’esecuzione del concordato. Risoluzione e annullamento Il decreto di omologazione segna la conclusione della procedura concordataria e comporta la produzione dei suoi effetti tipici (poc’anzi ricordati), fra i quali innanzitutto l’obbligo del debitore di eseguir e il piano concordatario, adempiendo a tutte le obbligazioni in esso previste nei modi e nei termini indicati. Tanto che il concordato sia liquidatorio, quanto che sia finalizzato alla ristrutturazione dell’impresa, spetta comunque al commissario giudiziale, che cosi prosegue nell’esercizio della sua funzione anche oltre la chiusura della procedura, la sorveglianza sull’adempimento del concordato. Una sorveglianza che peraltro puo indirizzarsi non soolo nel rispetto puntuale dei singoli impegni dedotti nel piano, ma anche, prospetticamente, alla persistenza della sua fattibilità in ragi one dell’evolversi della situazione generale dell’impresa. Naturalmente, ove il piano concordatario trovi piena e puntuale esecuzione, non vi saranno ulteriori conseguenze giuridiche oltre a quelle gia prodottesi. Puo accadere invece che gli impegni assunti non vengano rispettati. Ipotesi, questa, che la legge considera in senso oggettivo, a prescindere cioe da profili di dolo o colpa di chi li abbia assunti, sia esso il debitore ovvero un terzo che, secondo il piano, risulti aver offerto ai crediotri garanzie. In tali casi competerà ai crediotri, secondo un’impostazione marcatamente privatistica, la risoluzione del co ncordato per inadempimento, possibile purché quest’ultimo non abbia scarsa importanza. Con la risoluzione del concordato verranno meno retroattivamente i suoi effetti, e in primo luogo quelli esdebitatori; ma resteranno comunque efficaci gli atti compiuti durante la procedura e in esecuzione del concordato (questi ultimi anzi sottratti alla possibilità di un’azione revocatoria ex art. 67, co. 3, lett. f). I creditori potranno cosi richiedere, eventualmente concorrendo nel fallimento aperto a seguito della risoluzione, il pagamento dell’intero credito originario, detratto quanto già ricevuto in esecuzione del concordato. In caso di annullamento del concordato, invece, si tratterà di sanzionare non tanto l’inadempimento del piano o la sua non fattibilità, quanto piuttosto la sua intrinseca inaffidabilità, rivelata dalla scoperta di un disegno fraudolento del debitore che abbia dolosamente esagerato il passivo o sottratto una parte dell’attivo. Una tale scoperta potrà allora provocare, su ricorso dei creditori o su iniziativa del commissario giudiziale, l’annullamento del concordato da parte del tribunale, e con esso la caducazione degli effetti riconnessi alla procedura concordataria (secondo quanto innanzi illustrato co riferimento alla risoluzione). Con la conseguente possiblità, sempre che se ne accertino i presupposti, di dichirare anche il fallimento del debitore. IL CONCORDATO FALLIMENTARE

Pur se nell’ambito di un fallimento già aperto – e quindi in un contesto ben diverso da quello nel quale puo prednere avvio la procedura di concordato preventivo (la cui fuznione, come visto, puo essere quella di prevenire un fallimento) – il concordato fallimentare rappresenta un percorso attraverso il quale, similmente al concordato preventivo e in un’analoga ottica privatistica, puo essere offeta ai creditore la possiblità di esprimersi su un piano di regolazione delle proprie pretese alternativo rispetto a llo sviluppo che la procedura fallimentare seguirebbe secondo le normali fasi previste dalla legge. Ciò spiega perché la discipina del concordato fallimentare coincida per larghi tratti con quella del concordato preventivo. Il concordato fallimentare, tuttavia, non costituisce un’autonoma procedura conco rsuale, ma solo una “subprocedura” che si inscrive all’interno di una procedura fallimentare già in corso, costituendone anzi uno dei modi di chiusura; e tuttavia, anch’esso consiste in un procedimento giudiziale nell’ambito del quale i creditori potranno pronunciarsi su una proposta (benché non proveniente dal debitore) che, nella sua essenza, è orientata ad una loro parziale soddisfazione, con esdebitazione del fallito per la parte residua. L’iniziativa Lo scenario nel quale puo realizzarsi il concordato fallimentare è quello di una procedura fal limentare già aperta, che già ha prodotto, fra gli altri effetti, lo spossessamento del fallito. Cio non toglie che anche in questo diverso contesto possa utilmente profilarsi un percorso alternativo che, in prospettiva, prometta ai creditori risultati migliori di quelli prevedibili in base alla procedura in corso: il che potrà avvenire con la formulazione di una proposta di concordato fallimentare, che interromperà l’ordinario corso della procedura fallimentare fino a decretarne, in caso di omologazione, la chiusura. Per quanto concerne il contenuto che una tale proposta potrà assumere, anche in questo caso si tratterà di un piano che prometta, sulla base di una ristrutturazione dei debiti, di realizzare la finalità principale di soddisfare i creditori, secondo le modalità che il proponente potrà liberamente congegnare e che, analogamente al conocrdato preventivo, potranno consistere: - in una soddisfazione parziale dei creditori privilegiati, nei limiti della capienza della loro garanzia (per la parte residua degradandoli a chirografari); - nella suddivisione dei creditori chirografari in classi destinatarie di trattamenti differenzaiti; - nella realizzazione di operazioni straordinarie, capaci anche, compatibilmente con la primaria finalità satisfattiva, di assicurare la conservazione dell’impresa. E cio anche ricorrendo a percorsi che possano portare alla sottrazione della titolarità dell’impresa al fallito e alla sua attribuzione ai creditori, eventualmente in forma “cartolarizzata”; - neppure è da escludersi che anche in seno al conocrdato fallimentare, possa comunque prevedersi che il pagamento dei creditori possa ottenersi almeno in parte attingendo da flussi finanziari pro venienti dalla prosecuzione, magari medio tempore e in attesa di una sua cessione, dell’impresa fallita. Significative differenze rispetto al concordato preventivo, però, si riscontrano sul piano dell’iniziativa. La proposta concordataria, infatti, potrà essere presentata, almeno inizialmente, soltanto da uno o piu creditori, ovvero da un terzo. Una tale iniziativa sarà possibile a partire dal momento in cui si disponga di una rappresentazione complessiva della massa dei creditori da soddisfare: e quindi soltanot dopo che si stato reso esecutivo lo stato passivo; ovvero anche prima, ma solo se consti, quantomeno, una contabilità ed altre notizie tali da consentire al curatore di predisporre un elenco provvisorio dei creditori. Il fallito non potrà invece presentare una proposta di concordato fallimentare, se non dopo il decorso di un anno dalla dichirazione di fallimento e purché non siano decorsi due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo. Una tale limitazione si giustifica sulla base della finalità di incentivare l’imprenditore in difficoltà, se davvero intenzionato a perseguire una soluzione negoziata della propria crisi, ad intraprendere piuttosto, e per tempo, il percorso di un concordato preventivo. L’esame della proposta e la votazione Essendo nel caso del concordato fallimentare già insediati ed operanti gli organi della procedura in corso, la proposta andrà presentata con ricorso al giudice delegato. Il quale, a sua volta, dovrà acquisire due pareri:

prima, del curatore, che dovrà esprimersi con specifico riferimento ai presumibili risultati della liquidazione (e quindi anche in una prospettiva comparativa con il risultato di una ordinaria liquidazione fallimentare); e poi il parere vincolante del comitato dei creditori. Inoltre, se il piano proposto preveda una suddivisione dei creditori per classi destinatarie di trattamenti differenziati, esso dovrà essere sottoposto al vaglio del tribunale. Il tribunale, in particolare, sarà chiamato a verificare il corretto utilizzo dei criteri in base ai quali è stata operata la suddivisione in classi e la previsione dei rispettivi trattamenti differenziati. Solo dopo che siano stati assunti i pareri del curatore e quello, necessariamente favorevole, del comitato dei c reditori, superato l’eventuale vaglio del tribunale, il giudice delegato procederà alla comunicazione ai creditori della proposta. In tale comunicazione i creditori dovranno inoltre essere avvisati della regola secondo la quale la mancata risposta sarà considerata come voto f avorevole, e del termine entro il quale le eventuali dichirazioni di dissenso potranno pervenire. Essendo la presentazione di ogni proposta condizionata, c ome detto, dall’esistenza dello stato passivo o quantomeno di un elenco provvisorio redatto dal curatore sulla base della contabilità e delle altre notizie disponibili, legittimati al voto saranno i creditoori chirografari che risulteranno tali secondo tali prospetti. Equiparati ai chirografari e quindi chiamati anch’essi al voto saranno anche – e analogamente al concordato preventivo – i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, ma solo se e nella misura in cui la proposta di concordato non ne preveda l’integrale pagamento, ovvero nella misura in cui rinunceranno, anche parzialmente, al diritto di prelazione. Sulla base di questi criteri, dunque, si procederà alla votaizone, conteggiando come consenzienti tutti colo che non avranno fatto pervenire il loro dissenso entro il termine fissato dal giudice delegato. L’omologazione del concordato fallimentare e i suoi effetti Completata la votazione, del suo esito il curatore riferirà al giudice deelgato, il quale a sua volta  – se le maggioranze previste dalla legge siano state conseguite – disporrà che il curatore ne dia comunicazione al proponente perché richieda l’omologazione del concordato. La comunicazione dovrà inoltre essere rivolta anche al fallito e ai creditori dissenzienti affinché essi, oltre che a qualunque altro interessato, possano proporre opposizione. il giudizio di omologazione, analogamente a quanto previsto per il concordato preventivo, si concluderà, in caso positivo, con l’omologazione del c oncordato fallimentare con decreto motivato del tribunale, emesso alla scadenza del termine per proporre opposizioni (se non ve ne siano state) ovvero quando esse risulteranno definitivamente respinte. Il decreto sarà reclamabile dinanzi alla Corte d’Appello ed eventualmente ricorribile in cassazione; e solo quando diverrà definitivo potrà dirsi efficace. Dopo di che, il tribunale dichiarerà la chiusura della procedura fallimentare: con il che il fallito recupererà la piena disponibilità del suo patrimonio e la liberazione da ogni impegno che non gli derivi dal concordato. in questi termini, dunque, il conocrdatto fallimentare omologato risulterà obbligatorio nei confronti di tutti i creditori anteriori all’apertura del fallimento, compresi quelli che non abbiano presentato domanda di ammissione al passivo. Come nel concordato preventivo, comuqnue, essi conserveranno la loro azione per l’intero credito co ntro i coobbligati, i fideiussori del fallito e gli obbligati in via di regresso. L’esecuzione del concordato fallimentare. Risoluzione ed annullamento L’esecuzione del concordato fallimentare sarà sorvegliata dal giudice delegato, dal curatore e dal comi tato dei creditori; sin quando, adempiuti integralmente gli obblighi concordatari, un provvedimento del giudice delegato accerterà l’avvenuta esecuzione del concordato, ordinando lo svincolo delle evenutali cauzione nonché ogni altra misura idonea per il conseguimento delle finalità del concordato. Qualora invece il piano concordatario non venisse eseguito ovvero risultasse viziato da fr ode, potrà richiedersi, rispettivamente, la risuluzione o l’annullamento del concordato, secondo i principi esaminati in materia di concordato preventivo. La risoluzione o l’annullamento saranno dichiarati con sentenza che provocherà la riapertura del fallimento,

con i consueti effetti già esaminati, fra i quali, innanzitutto, la riammissione dei creditori al passivo per l’importo dell’originario credito, detratta ovviamente la parte riscossa in parziale esecuzione del concordato, che non dovrà essere restituita. Inoltre, potranno essere riproposte le azioni revocatorie già iniziate e interrotte per effetto del concordato; ed inoltre i creditori anteriori conserveranno le garanzie per le somme tuttora ad essi dovute in base al concordato risolto o annullato. Neppure è escluso che possa essere riproposto un nuovo concordato fallimentare. In tal caso, però, la legge pretende garanzie adeguate ad evitare un nuovo insuccesso, condizionando l’omologaazione della proposta al deposito, da parte del precedente proponente (se si tratti di un terzo, invece, si ritiene che tali cautele, ispirate a diffidenza verso il precedente proponente, non siano richieste), delle somme occorrenti per l’integrale adempimento. GLI ACCORDI STRAGIUDIZIALI Si è sempre attestato nella prassi il tentativo, da parte degli imprenditori in difficoltà, di comporre la crisi ricorrendo a soluzioni negoziate stragiudizialmente con i creditori (o meglio con i piu importanti di essi: spesso le banche, anche se non solo e necessariamente). Le ragioni di una tale propensione alla composizione stragiudiziale possono solitamente individuarsi nella ritrosia degli imprenditori a “portare i libri in tribunale”; ciò che da un lato renderebbe notorio il loro stato di crisi, così peggiorando il credito dell’impresa sul mercato; e d’altro lato provocherebbe una forte restrizione alla libertà di manovra dell’imprenditore. Così, piu discretamente, l’imprenditore, grazie a strategie confezionate dai suoi consulenti, cerca una via d’uscita con i suoi creditori. L’imprenditore rende partecipi della propria situazione i suoi principali creditori, proponendo loro un accordo che consenta di prevenire l’apertura di una procedura concorsuale. Perché i creditori dovrebbero preferire una tale proposta all’apertura di una procedura concorsuale? Un creditore fortemente esposto può temere un esito fallimentare non molto meno di quanto lo tema il suo stesso debitore, dal momento che la falcidia fallimentare alla quale andrebbe incontro potrebbe risultare pesantissima. Meglio allora tentare di dare ossigeno all’impresa in difficoltà perché questa recuperi il porprio equilibrio. Inoltre, anche se ciò non fosse possibile, un manteniment artificiale in vita dell’impresa in difficoltà potrebbe servire a differire il momento della pur inevitabile apertura di un fallimento; cosi spostando in avanti il termine a partre dal quale si potrebbero poi, a ritroso, colpire con l’azione revocatoria taluni atti precedenti all’apertura del falimento, la cui efficacia potrebbe dunque, nel frattempo, consolidarsi e sfuggire alla revocatoria. Alcuni creditori potrebbero allora accettare la proposta del debitore di dar vita ad una ristrutturazione dei debiti, che potrà consistere: in una loro riduzione in conto capitale; e/o in una dilaizone del termine di adempimento; e/o in una rinuncia a tutti o a parte degli interessi dpovuti; ovvero, nei casi piu complessi, in una conversione del credito in partecipazione al capitale, o addirittura nella concesione di un credito supplementare al debitore, c.d. nuova finanza. Un accordo di ristrutturazione potrà consistere anche in una combinazione delle forme appena esaminate. E’ importante tenere presente che, situandosi questa fase al di fuori di ogni procedura concorsuale e valendo il generale principio della libera disponibilità del proprio credito, la proposta non dovrà essere necessariamente rivolta a tutti i creditori, né dovrà rispettare necessariamente il principio della par condicio. Quanto ai creditori estranei, v’è infine da dire che per essi, almeno in principio, non cambia nulla. Infatti essi 8che al limite neppure sono a conoscenza dell’accordo) in base al principio  di efficacia relativa del contratto non subiranno alcun effetto derivante dell’accordo concluso con gli altri creditori. Conserveranno pertanto integre le proprie pretese e la possibilità di farle valere ricorrendo a tutti gli strumenti normalmente disponibili: ivi compresa, al di là delle ordinarie azioni cautelari od esecutive individuali, la possibilità di richiedere il fallimento dell’impresa che ha conclluso l’accordo stragiudiziale. D’altro canto, deve pure rilevarsi come l’accordo presenti taluni significativi rischi:

 - non solo quello, appena ricordato, che i creditori estranei, pur in presenza di un accordo stragiudiziale, chiedano il fallimento dell’impresa che lo ha concluso; ma anche quello che essi possano intraprendere quellla stessa, o altre iniziative (cautelari o esecutive), già dirante la fase delle trattative: cosi rischiando di pregiudicare le condizioni minime alle quali i creditori destinatari della proposta sono disposti ad accettarla; - neppure è escluso, d’altronde, che queste st esse iniziative possano venire intraprese proprio da alcuno dei creditori destinatari della proposta, il quale, venendo a sapere delle reali condizioni dell’impresa in crisi, lungi dall’accettare la proposta, ne sia ulteriormente allarmato; - inoltre, tutti gli atti compiuti in esecuzione dell’accordo scontano il rischio di una certa precarietà: restano esposti, in caso di successivo fallimento, ad una possibile revocatoria fallimentare; - parallelamente, ogni nuovo credito che in funzione della conclusione, o in esecuzione dell’accordo, venisse erogato per aiutare l’impresa in difficoltà (c.d. nuova finanza), non godrebbe di alcuna prededuzione in caso di successivo fallimento, andando piuttosto incontro alla relativa falcidia: il che certo non ne incoraggia l’erogazione; per non parlare poi del rischio di un’eventuale responsabilità del finanziatore per abusiva concessione del credito; - a qeust’ultima ipotesi deve poi essere aggiunta, sempre sul piano della responsabilità penale, la possibilità che i creditori partecipanti all’accordo vengano ritenuti corr esponsabili della ritardata apertura del fallimento o dell’effettuaizone di pagamenti preferenziali in danno degli altri, e perciò incriminati per concorso in bancarotta. A tutti questi rischi il legislatore ha tentato di ovviarre, in una prospettiva evidentemente di favor per la conclusione di soluzioni negoziate della crisi, attraverso l’introduzione dell’art. 182-bis, che si va qui di seguito ad esaminare. GLI ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI OMOLOGATI EX ART. 182-BIS Accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis e accordi stragiudiziali L’art. 182-bis è dedicato agli “accordi di ristrutturazione dei debiti”. Tale articolo non chiarisce però quale sia il possibile contenuto di tali accordi, se non genericameente attraverso il riferimento alla “ristrutturazione dei debiti”. Ciò però proprio per rendere la disciplina in discorso applicabile a qualunque accordo che abbia per effetto di ristrutturare il debito di un imprenditore in crisi, rischiandosi altrimenti di limitare la libertà negoziale delle parti coinvolte. In altri termini, gli accordi contemplati dall’art. 182-bis debbono ritenersi, quanto al possibile contenuto della ristrutturazione, appartenenti allo stesso genus degli accordi stragiudiziali di composizione della crisi (appena esaminati), salvo che la relativa fattispecie può dirsi, in virtù delle specifiche caratteristiche previste dall’art. 182-bis (in particolare: l’essere l’accordo concluso con i titolari del 60% dei crediti; il garantire esso il pagamento integrale dei creditori che vi rimangono estranei: infra), più circoscritta rispetto a quella generale; ma, appunto, ritagliata all’intero di essa, riconducibile all’interno del suo perimetro. Quanto ai rapporti fra genus degli accordi stragiudiziali e species degli accordi di ristrutturazione qui in esame, va qui subito considerata la previsione apparentemente singolare, contenuta nello stesso art. 182bis, secondo cui gli accordi di ristrutturazione acquistano efficacia soltanto a partire dal giorno della loro pubblicazione nel registro delle imprese. In realtà, gli effetti di cui parla l’enunciato appena ricordato nonn sono gli effetti che potrebbero derivare, per volontà delle parti, da un qualsiasi accordo stragiudiziale, insomma i tipici effetti negoziali; bensì gli ulteriori effetti – che per contrapposizione possono definirsi effetti legali – che la stessa legge riconnette al procedimento previsto dall’art. 182-bis. Effetti, questi ultimi, anche ultra partes, che mai potrebbero derivare da una volontà negoziale espressa in un accordo stragiudiziale. Puo dirsi, in prima approssimazione, che tali effetti legali si producono proprio nelle aree in cui si potrebbero altrimenti registrare, nel caso di una successiva apertura di un fallimento, alcuni degli inconvenienti riconnessi ai meri accordi stragiudiziali di ristrutturazione (rischi ricordati appena supra);

consistendo proprio nella neutralizzazione di quegli inconvenienti: a d es., eliminando il rischio di una revocatoria fallimentare di un atto compiuto in esecuzione dell’accordo; ovvero la falcidia fallimentare cui andrebbe altrimenti soggetto un finanziamento ottenuto sempre in esecuzione dell’accordo, ecc . Tali effetti si producono in virtù di un procedimento giudiziale all’interno del quale viene dedotta la vicenda negoziale e che culminerà con l’omologazione dell’accordo da parte del tribunale. L’accordo omologato sarà allora all’origine dei c.d. effetti legali (erga omnes) ulteriori rispetto a quelli negoziali (inter partes). In definitiva puo dirsi che l’art. 182-bis contempla un negozio i cui contenuti sono lasciati all’autonomia privata, ma anche un procedimento giudiziale volto alla sua omologaizone, di cui vengono previsti specifici effetti, ulteriori rispeetto a quelli che potrebbero derivare dall’accordo in sé.

Condizioni di omologabilità dell’accordo L’accordo preso in considerazione dall’art. 182-bis dovrà possedere le seguenti caratteristiche. (A) Quanto alle parti, esso dovrà essere concluso fra: (A1) un imprenditore in crisi: vale a dire un imprenditore in possesso dei medesimi requisiti, già esaminati, che consentirebbero l’ammissione ad un concordato preventivo (nel 2011 si è esteso anche all’imprenditore agricolo la possibilità di avvalersi delal procedura prevista dall’art. 182-bis); (A2) uno o più dei suoi creditori che rappresentino almeno il sessanta per cento dei crediti. Quanto al contenuto, invece, l’accordo, pur ampiamente rimesso all’autonomia delle parti, dovrà complessivamente: (B1) consistere in una ristrutturazione dei debiti dell’impresa in crisi: ciò che potrà essere realizzato –  fra le altre pur immaginabili – secondo una o più delle svariate modalità che già si sono menzionate paraldno in generale degli accordi stragiudiziali (ad es. una riduzione del credito in conto capitale e/o una dilazione del termine di pagamento e/o una rinuncia a tutti o a parte degli interessi dovuti, e non si dovrà del resto rispettare alcuna par condicio, potendosi offrire ai destinatari della proposta un trattamento differenziato); (B2) rivelarsi idoneo ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei. Questo è il punto fondamentale, il profilo che cioè, secondo la ratio dell’art. 182-bis, rende l’accordo meritevole di significativa protezione accordatagli dalla legge, mediante il riconoscimento di effetti aggiuntivi rispetto a quelli puramente negoziali: effetti capaci di prtoiettarsi al di là delle parti dell’accordo, e dunque anche sui creditori estranei. Come già visto in tema di accordi stragiudiziali di ristrutturazione dei debiti in generale, una possibile e significativa conseguenza di tali accordi sta proprio in ciò, che la ristrutturazione di alcuni debiti può risultare tale da alleggerire la complessiva situazione debitoria dell’imprenditore sin o al punto di consentire, anche rispetto agli altri debiti, il pieo recupero della solvibilità. Potendone derivare, in altre parole, la ritrovata capacità di far fornte a tutti i debiti dell’impresa: non solo quelli ristrutturati, maa cnhe quelli, non rinegoziati, riferibili ai creditori estranei all’accordo. Ecco, è proprio questo risultato che l’art. 182-bis considera essenziale perché un accordo di ristrutturazione possa essere omologato: l’accordo dovrà cosi anche dar prova che, in virtù di una tale ristrutturazione, vi saranno, plausibilmente, mezzi e liquidità sufficiente per la soddisfazione integrale e puntuale della restante percentuale di debiti estranei all’accordo. La fase introduttiva del procedimento e gli effetti immediati Il procediemento previsto dall’art. 182-bis prevede innanzitutto che l’imprenditore proponente provveda al deposito, in forma di ricorso volto ad ottenerne l’omologazione, dell’accordo, unitamente alla documentazione accompagnatoria (consistente nella documentazione prevista in materia di concordato preventivo dall’art. 161 e in una relazione redatta da un professionista volta ad attestare l’attuabilità e la credibilità dell’accordo), presso il tribunale. Subito dopo, l’accordo dovrà anche essere pubblicato presso il registro delle imprese. Dal giorno di tale pubblicazione l’accordo acquista efficacia. L’efficacia dell’accordo condizionata alla

pubblicazione riguarda dunque, come detto, gli effetti ulteriori rispetto a quelli inter partes, appunto per cio definiti legali. i) Il primo di tali effetti consiste nel blocco temporaneo delle azioni esecutive e cautelari: dalla data della pubblicazione e per sessanta giorni i creditori per titolo e causa anteriore a tale data non potranno intraprendere tali iniziative (fra cui, deve ritenersi, la stessa istanza di fallimento) sul patrimonio del debitore. Per lo stesso periodo, i creditori non potranno acquisire titoli di prelaizone (se non concordati, e cioe senza il consenso del debitore), pur potendo contare sulla interruzione di ogni termine prescrizionale e decadenziale. L’imprenditore, che naturalmente conserverà l’amministrazione del suo patrimonio, viene cosi a poter disporre, nelle more del procedimento volto all’omologazione, di una sorta di ombrello protettivo anche nei cofnrotni dei creditori estranei all’accordo. ((ii) Inoltre, il debitore potrà, dopo la presentazione della domanda di omologazione dell’accordo o della mera proposta di accordo, chiedere al tribunale di essere autorizzato a contrarre finanziamenti che potranno godere, in caso di successivo fallimento, della prededucibilità ex art. 111; oppure autorizzato a pagare crediti anteriori alla presentazione della domanda.)) v. io perche potrebbe complicare L’omologazione dell’accordo e i suoi effetti Avviato il procedimento volto all’omologazione dell’accordo, vi sarà la possibilità, per i creditori (anche estranei) e per ogni altro interessato, di proporre opposizione entro trenta giorni dalla pubblicazione dell’accordo medesimo, cosi investendo il Tribunale del co mpito di vagliarne la fondatezza, onde decidere dell’omologazione o meno dell’accordo. Oltre che su questioni di rito, le opposizioni potranno fondarsi sull’insussistenza dei requisiti di omologabilità. Fra questi, soprattutto, il mancato raggiungimento della percentuale minima richiesta dalla legge, ovvero l’inattuabilità dell’accordo, con particolare riguardo alla sua inidoneità ad assicurare l’integrale soddisfacimento dei creditori estranei. Se invece non constino opposizioni, il tribunale, verificata la ritualità della proposta e la sussistenza della documentazione richiesta dalla legge – se insomma, almeno stando alle carte, risulti la fattispecie legale – procederà all’omologazione, disposta con decreto motivato, pubblicato nel registro delle imprese e reclamabile alla Corte d’Appello. Essa produrrà – a parte quello, già esaminato, del blocco temporaneo delle azioni esecutive e cautelari, e quello sostanziale della prevenzione o eliminazione di uno stato di insolvenza – ulteriori e rilevanti effetti, anche se per la verità soltanto eventuali: ciascuno di essi, infatti, potrà concretamente esplicarsi soltanto nell’ambito di un eventuale fallimento consecutivo; che però, com’è ovvio, non vi sarà mai se l’accordo omologato trovasse regolare esecuzione. Tali effetti, invero, consistono: i) nell’esenzione da un’eventuale revocatoria fallimentare degli atti, dei pagamenti e delle garanzie poste in essere in esecuzione dell’accordo; ii) nel beneficio della prededuzione concesso alla c.d. nuova finanza; iii) nell’esenzione dai reati di bancarotta in relazione al compimento di atti o pagamenti o altre operazioni posti in essere in esecuzione dell’accordo omologato. Si tratta, a ben vedere, di effetti comuni a quelli disposti in caso di concordato preventivo , per l ’ipotesi di un suo eventuale sbocco fallimentare. Quel che in definitiva può notarsi per comprendere la reale funzione dell’istituto in discorso e il suo valore aggiunto rispetto agli accordi stragiudiziali, è che la sua specificità parrebbe – a prima vista e paradossalmente – del tutto virtuale: tutto il procedimento, infatti, è volto alla realizzazione di effetti (i c.d. effetti legali) che, a parte il blocco temporaneo delle azioni esecutive, potrebbero non esplicarsi mai, ed anzi, fisiologicamente, mai lo dovrebbero; solo nel caso patologico di insuccesso di quanto pianificato nell’accordo, infatti, si aprirà un fallimento e quegli effetti potranno aver luogo. Nondimeno, la reale utilità dell’istituto in discorso emerge quando si consideri l’impatto che  esso produce immediatamente nei rapporti con il ceto creditorio: i creditori, infatti, troveranno incentivi ad accettare la proposta dell’imprenditore.

L’esecuzione dell’accordo Se l’accordo troverà integrale esecuzione, ogni creditore potrà dirsi soddisf atto ed ogni insolvenza potrà dirsi scongiurata. La legge, peraltro, non prevede chi dovrà vigilare sull’esecuzione dell’accordo; né contempla un formale provvedimento che accerti l’avvenuta esecuzione dell’accordo. La vera e propria vigilanza sulla regolare esecuzione dell’accordo risulterà allora, in definitiva, rimessa ai creditori stessi: - a quelli estranei, indirettmente, restando pur sempre legittimati a reagire con ogni mezzo a tutela delle proprie ragioni (ivi compresa la possibilità di richiedere il fallimento) non appena registrino la loro mancata integrale soddisfazione; - a quelli partecipanti all’accordo, invece, direttamente: questi ultimi, infatti, di fronte al mancato adempimento degli obblighi contratti dall’imprenditore seondo l’accordo omologato, potranno reagire chiedendo, ((ex artt. 1453 ss. c.c.,)) la risoluzione dell’accordo. Se invece i creditori lamentassero che il perfezionamento dell’accordo è stato frutto di una lesione della loro libertà negoziale (essendo stato il loro consenso viziato da dolo, errore o, meno verosimilmente, violenza o incapacità) potrebbero chiedere, ((ex artt. 1442 ss. c.c.)), l’annullamento dell’accordo stesso. I PIANI DI RISANAMENTO Esaminando la disciplina della revocatoria fallimentare, e in particolare delle esenzioni previste dall’art. 67, co. 3, lett. d), ci si è già imbattuti nei c.d. piani di risanamento attestati. In particolare, si è osservato come alla lett. d) della disposizione appena ricordata venga stabilito che “non sono soggetti ad azione revocatoria… gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore, purché posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria: piano la cui fattibilità sia attestata da un professionista. Appare evidente una qualche analogia funzionale con gli accordi di ristrutturazione poc’anzi esaminati: al fine di incentivare un percorso che consenta di prevenire il f allimento dell’imprenditore, la legge promette protezione, in caso di successivo fallimento, agli atti posti in essere in esecuzione di un piano che si fosse posto l’obiettivo di recuperare l’equilibrio d’impresa. Ma al di là di tale analogia, nette emegono le differenze fra i piani di risanamento e gli accordi di ristrutturazione. Innanzitutto, mentre questi sono, apppunto, accordi (bi- o plutilaterali), i piani di risanamento sono frutto, almeno in principio, di una predisposizione unilaterale da parte dell’imprenditore; in teoria, persino ad insaputa dei creditori. Nondimeno, al di là delle altre analogie sopra ricordate con gli accordi di ristrutturazione, deve anche rilevarsi come, nella realtà, è poco probabile che un piano di risanamento venga predisposto da un imprenditore senza averlo in qualche modo condiviso co n altri creditori ottenendo parallelamente una rinegoziazione di talune esposizioni debitorie. Ceerto, non dovrà tratt arsi né di tutti, né di una percentuale qualificata di creditori. Ma è pur chiaro che l’effetto raggiungibile attrvaerso il piano, cioè l’esenzione da revocatoria, è un effetto che interessa soprattutto i creditori. Anche nel contenuto, il piano di risanamento potrebbe coincidere con quanto previsto da un accordo di ristrutturazione dei debiti. Tuttavia, se la ristrutturazione dei debiti puo essere raggiunta anche attraverso un piano sostanzialmente liquidatorio, la necessità che il piano attestato ex art.67 assicuri il riequilibrio della situaizone finanziaria dell’impresa, pare richiedere che esso si renda capace  – attraverso processi di riorganizzazione aziendale o di rinegoziazione dei debiti – di recuperare l’equilibrio di impresa, e quindi di garantire la sua idoneità a permanere sul mercato. Inoltre, passando dalla fattispecie alla disicplina, per i piani di risanamento l’unico effetto previsto dalla legge è quello di assicurare l’esenzione dalla revocatoria degli atti, dei pagamenti e delle garanzie concesse su beni del debitore, purché posti i n essere in esecuzione del piano (il quale, in questa prospettiva, necessiterà di una data certa). IL “DEBITORE CIVILE” SOVRAINDEBITATO

Se storicamente il diritto fallimentare si è formato ed evoluto come disciplina volta alla regolazione concorsuale dell’insolvenza del debitore che rivesta la qualità di imprenditore commerciale (non piccolo), in tempi piu moderni si è vieppiù affermata ed affinata una particolare sensibilità alle situazioni di crisi patrimoniale riferibile a soggetti diversi (c.d. debitori civili). Un primo esemplare normativo che puo dirsi frutto di questo orientamento è già stato esaminato quando si è ricordato come la disicplina degli accordi di ristutturazione sia stata resa accessibile, dal 2011, anche a beneficio degli imprenditori agricoli che si trovano in stato di crisi.

La composizione delle crisi da sovraindebitamento I presupposti Le ragioni appena ricordate hanno indotto il legislatore, con la l. 3/2012, ad introdurre per la prima volta una disciplina ad hoc per la composizione delle crisi da sovraindebitamento, rivolta a tutti quei debitori che non sono assoggettabili alle procedure previste dall’art. 1 della legge fallimentare. Un tale presupposto soggettivo, formulato secondo un cr iterio negativo e quindi tendenzialmente aperto, è capace allora di comprendere: i) sia gli imprenditori diversi da quello commerciale non piccolo (compreso dunque l’imprenditore agricolo) o quelli che, pur potendo qualificarsi come imprenditore commerciale non piccolo, siano qualificabili come “start-up innovative”; ii) sia altri soggetti che, pur senza essere qualificabili come imprenditori, abbiano fatto ricorso all’indebitamento nell’esercizio della propria attività di produzione professionale, come professionisti intellettuali o lavoratori autonomi; iii) sia i meri consumatori, cioè le persone fisiche che abbiano assunto obbligazioni esclusivamente per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta. Il presupposto oggettivo della procedura viene invece individuato nel sovraindebitamento, inteso quale “situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, nonché la definitiva incapacità del debitore di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni. Un tale scostamento rispetto all’art. 5 l. fall. dipende dalla duplice prospettiva che anima la disciplina in discorso, rivotla sia ad imprese che a consumatori. Sicché, mentre per le prime (com’è nella logica dell’art. 5) la capacità di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni puo dipendere, oltre che dal patrimonio attuale, soprattutto dai redditi futuri (teoricamente illimitati); per il consumatore la proporzione dell’indebitamento va invece commisurata, soprattutto, al patrimonio personale (nei limiti di quanto pignorabile e comunque “prontamente liquidabile”) e sol o in parte ad un reddito che, essenso spesso da lavoro dipendente, risulta predefinito ed in par te già assorbito dalle primarie esigenze vital i del debitore e della propria famiglia. L’”accordo di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti” e il “piano del consumatore”: contenuto ed effetti (A) Se in possesso dei requisiti appena descritti, il “debitore civile” è ammesso a proporre ai creditori un accordo di risstrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti. L’unica condizione è che il piano assicuri il regolare pagamento dei crediti impignorabili. Ad es. crediti alimentari o somme dovute a titolo di stipendio o di salario nei limiti di quanto necessario per il mantenimento del creditore e della sua famiglia. Parziali vincoli sono poi previsti anche per quanto riguarda i crediti fiscali e quelli privilegiati. Emerge cosi una netta differenza rispetto agli accordi di ristrutturazione dei debiti previsti dall’art. 182 -bis: una differenza tale per cui la legge qualifica espressamente i percorsi di composizione della crisi da essa previsti come procedure concorsuali.

il piano qui in discorso, infatti, non ha la funzione di soddisfare (integralmente) i creditori estranei, cioè diversi da quelli che l’abbiano approvato (i quali dovranno comunque rappresentare almeno il 60% dei crediti, comee si vedrà). Esso comporta soltanto, per evidenti ragioni di tutela di soggetti particolarmente bisognosi, la necessità di pagare i “crediti impignorabili”. Non opera dunque una distinzione, quanto agli effetti dell’accordo omologato, fra creditori aderenti aderen ti e creditori estranei (cio che invece, come visto, induce tuttora a dubitare che gli accordi ex art. 182-bis costituiscano una vera e propria procedura concorsuale). L’accordo qui in discorso, se poi omologato, diverrà obbligatorio per tutti i creditori anteriori. Al contrario, i creditori per causa o titolo posteriore non potranno agire esecutivamente sui beni oggetto del piano. B) Analoga portata deve poi riconoscersi ad un ulteriore strumento di composizione della crisi previsto dalla l. 3/2012, anche se soltanto a beneficio del consumatore. Costui, infatti, oltre a poter proporre un accordo come quello poc’anzi indicato, potrà anche proporre un “piano del consumatore” avente il medesimo contenuto dell’accordo. Con la differenza però che tale tal e piano non costituirà oggetto di una vera e propria proposta ai creditori, ma si limiterà a progettare unilateralmente un percorso di ristrutturazione dei debiti, c he verrà direttamente sottoposto all’esame e all’approvazione del tribunale, producendo infine, se il vaglio giudiziale sarà superato, effetti analoghi a quelli dell’accordo omologato. In considerazione di tali effetti, anche la procedura che porta all’omologazione di un tale piano si presta ad essere definita dalla legge come concorsuale. Tanto che si tratti di accordo di ristrutturazione che di piano del consumatore, il debitore, nel definirne il contenuto, incontrerà il solo limite funzionale di dover realizzare una ristrutturazione dei debiti che consenta una soddisfazione dei creditori (integrale per quelli impignorabili e gli altri sopra indicati, e anche parziale per gli altri). Al di là di cio, però, egli godrà di ampia autonomia nel prevedere le forme di tale soddisfazione. Gli effetti (non negoziali) che potranno conseguirsi mediante e procedure in discorso consisteranno: i) nel divieto (contenuto già nel decreto giudiziale che recepisce e ppubblicizza la presentazione della proposta d’accordo, o in quello che omologa il piano del consumatore), a pena di nullità, di ogni esecuzione individuale oo altra iniziativa volta ad ottenere un sequestro conservativo (o altra iniziativa cautelare, se si tratti di piano del consumatore) o ad acquisire diritti di prelaizone contro il debitore. Al che corrisponderà anche, a favore dei creditori, una interruzione di ogni termine prescrizionale o decadenziale; ii) nell’obbligatorietà dell’accordo o del piano per tutti i creditori anteriori ai decreti giudiziali di cui s’è appena detto, e nel divieto per i creditori per causa o titolo posteriore, invece, di agire esecutivamente sui beni contemplati dal piano, come visto; iii) nella sospensione degli interessi gia a far data dalla presentazione della proposta o del piano, degli interessi; iv) se il proponente l’accordo di ristrutturazione venisse succesivamente assogettato assoget tato a fallimento ne conseguirà l’esenzione dalla revocatoria fallimentare degli atti, dei pagamenti e delle garanzie posti in essere in esecuzione dell’accordo omologato. Il procedimento per l’omologazione Il procedimento culmina con la (eventuale) omologazione omolog azione dell’accordo o del piano del consumatore, cui si ricollegano gli effetti appena ricordati. Un ruolo centrale, e per certi c erti aspetti poliedrico, all’interno del procedimento, è riservato all’Organismo di compoosizione della crisi, che potrà essere un ente pubblico o privato iscritto in un apposito registro tenuto presso il Ministero della Giustizia. Tale “organismo”, scelto dal debitore, è chiamato ad assumere ogni opportuna iniziativa, funzionale alla predisposizione del piano di ristrutturazine e all’esecuzione all ’esecuzione dello stesso. In questa prospetiva l’Organismo è chiamato a collaborare alla predisposizione del piano di ristrutturazione (espressione che sembra comprendere sia la proposta di accordo di ristrutturazione che il piano del consumatore); nonché a verificare, sotto responsabilità civile ed eventualmente penale, la

veridicità dei dati in esso contenuti e la sua fattibilità. L’Organismo dovrà inltre attivarsi per realizzare le forme di pubblicità disposte dal tribunale; trasmettere ai creditori le comunicazioni disposte dal giudice e a raccogliere i loro consensi; e poi, anche dopo l’omologazione, vigilare sull’esecuzione dell’accordo o del piano. L’esecuzione dell’accordo di ristrutturazione o del piano del consumatore Dopo l’omologazione si aprirà la fase dell’esecuzione dell’accordo o del piano, che potrà essere affidata, oltre che allo stesso debitore, anche – anche  – a  a garanzia dei creditori – creditori – ad  ad un fiduciario (eventualmente un trust) o ad un liquidatore (necessariamente, se occorre iimpegnare beni già sottoposti a pignoramento). Il debitore, pur mantenendo una piena capacità di agire, sarà vincolato ad eseguire quanto promesso nella proposta; essendo prevista, a presidio dell’effettività di un tale vincolo, l’inefficacia rispetto ai creditori dei pagamenti pagamenti e degli atti dispositivi di beni compiuti in violaizone dell’accordo e del piano. Inoltre, mentre i creditori per causa o titolo posteriore all’apertura della procedura procedura non potranno agire esecutivamente sui beni ricompresi nel piano (come visto), saranno invece da pagarsi, ed anzi con preferenza, i crediti sorti in occasione o in funzione della procedura di omologazione dell’accordo o del piano del consumatore. Per gli accordi di rristrutturazione del debitore civile (analogamente a quelli ex art. 182-bis, e per le medesime cause e considerazioni già espresse a proposito di questi ultimi) saranno infine possibili degli esiti patologici della fase esecutiva: e cosi sarà innanzitutto possibile un loro annullamento (quando la consistenza dell’attivo o del del passivo, su cui si basava la proposta, risulti artefatta con dolo o colpa grave) o una loro risoluzione (in caso di mancato adempimento degli impegni presi o di una loro sopravvenuta impossibilità). Regole e principi analoghi a quelli appena esaminati valgono anche per i possibili esiti patologici dell’esecuzione del piano del consumatore omologato. Salvo che per esso, che non ha struttura “contrattuale”, la legge non parla di “annullamento” o di “risoluzione”; bensì – seppure –  seppure per le stesse cause previste previste in relazione all’annullamento o alla risoluzione degli accordi di ristrutturazione – di “cessazione degli effetti”. La liquidazione del patrimonio del debitore civile Natura e presupposti Nella l. 3/2012 è stata introdotta una “sezione seconda” dedicata alla “liquidazione del patrimonio” del debitore civile. Anche tale procedura, al pari di quelle di composizione della crisi esaminate nella prima sezione della legge (supra), è definita dalla legge come procedura co ncorsuale: posto che anch’essa, come quelle, ha ad oggetto tutti i beni del debitore ed esplica i suoi effetti nei confronti della generalità dei creditori anteriori alla sua apertura. La procedura di liquidazione del patrimonio, pur non essendo volta ad una soluzione negoziata di una crisi è, al al parti di quelle di “composizione della crisi” appena esaminate, rivolta al debitore civile sovraindebitato. La liquidazione del patrimonio puo infatti essere iniziata su richiesta dello stesso debitore “in alternativa alla proposta per la composizione della crisi. Una tale richiesta potrebbe essere frutto di una scelta del tutto discrezionale oppure in qualche modo costretta quando l’accesso ad una composizione della crisi risulti precluso da alcune condizioni ostative: in particolare, quando il debitore già risulti soggetto a procedure concorsuali diverse da quelle rivolte al debitore civile (vale a dire quelle previste dalla legge fallimentare: si pensi ad un scio i llimitatamente responsabile dichiarato fallito in estensione), oppure quando, nei c inque anni precedenti, abbia già fatto ricorso ad una procedura di composizione della crisi del debitore civile. Ma la procedura puo essere aperta anche anc he in via di c onversione di una precedente procedura di composizione della crisi, quando le cause del suo insuccesso risultio imputabile al (dolo o alla colpa del)

debitore. In tali casi, la liquidazione del patrimoonio, oltre che, ancora, su richiesta dello stesso debitore, potrà essere subita dal debitore, su richiesta di uno o più creditori. Il procedimento e gli effetti Il procedimento di liquidazione del patrimonio del debitore civile non manca di significativi parallelismi con la procedura fallimentare. La liquidazione del patrimonio si svolgerà secondo i principi di universalità (oggettiva e soggettiva) e di concorsualità a favore dei creditori anteriori all’apertura della procedura. Al contrario, i creditori con causa o ti tolo posteriore all’apertura della procedura non potrannno procedere esecutivamente sui beni oggetto di liquidazione; mentre i crediti sorti in occasion o in funzione della della liquidazione dovranno venire soddisfatti con preferenza rispetto a qeulli concorsuali. L’effetto principale della procedura di liquidazione del patrimonio del debitore civile, se questo sia una persona fisica, è quello della esdebitazione, cioè della liberazione dai debiti non soddisfatti all’esito della procedura nei confronti dei creditori concorsuali: debiti che verranno dichiarati inesigibili con decreto del tribunale.Per poter conseguire l’esdebitazione dovranno però per ò sussistere particolari indici di meritevolezza del debitore, in buona parte analoghi a quelli già esaminati per l’esdebitazione fallimentare, ma comprensivi anche dalla accertata operosità lavorativa del debitore: occorrerà cioè che il debitore abbia cercato cercato un’occupazione e non abbia rifiutato, senza giustificato motivo, proposte di impiego. LE PROCEDURE AMMINISTRATE LA LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA (IN GENERALE) Natura e presupposti della procedura Analogamente al fallimento, la liquidazione coatta coat ta amministrativa (“l.c.a.”) è una procedura concorsuale con finalità liquidativa. Tuttavia, mentre dell’intera procedura fallimentare è investito il tri bunale, cioè l’autorità giudiziaria ordinaria, alla procedura di l.c.a. è sovraordinata un’autorità amministrativa, amm inistrativa, deputata ad indirizzare lo svolgimento della procedura avvalendosi talora della tipica discrezionalità del potere amministrativo. Ciò determina significative differenze rispetto alla procedura fallimentare, parlandosi dunque, per la l.c.a., di procedura amministrativa (o amministrata; e non giudiziale). Le ragioni dell’intervento dell’autorità amministrativa debbono rintraccciarsi nel patricolare interesse pubblico che rivestono gli enti che vanno soggetti alla l.c.a. E’ in considerazione di tale tale interesse che si giustifica, in aggiunta alla disciplina di diritto comune fallimentare, la previsione di una speciale disciplina per i casi espressamente indicati dalla legge:” la legge determina le imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa, amministrativa, i casi per i quali la liquidazione coatta amministrativa puo essere disposta e l’autorità competente a disporla” (art. 2, co.1). Certo è che, formalmente, una tale rilevanza pubblica puo riscontrarsi negli enti pubblici economici e nelle imprese sottoposte sottopo ste a vigilanza pubblica. Fra le imprese sottoposte a vigilanza pubblica vanno senz’altro ricordate quelle che operano nel settore del credito o delle assicurazioni o della finanza  – e  – e cosi le banche e le assicurazioni; le imprese abilitate alla prestazione di servizi di investimento come lesocietà di intermediazione mobiliare (SIM) – (SIM)  – nonché le società fiduciarie e di revisione, le “imprese sociali” e le cooperative che svolgono attività commerciale. E’ la legge, dunque, che individua i soggetti ai quali s i applica la l.c.a., nonché i casi in c ui questa puo essere disposta e l’autorità competente a disporla. Inutilmente, però, si rintraccerebbe una siffatta individuazione nella legge fallimentare. Gli artt. 194 ss. dedicati alla l.c.a., difatti, si limitano a dettare una serie di regole di natura per lo piu procedimentale da applicarsi nelle singole procedure di l.c.a. previste da leggi speciali, in via tendenzialmente integrativa. E’ a tali leggi speciali (ad es. il TUB, per quanto riguarda le banche) che occorre pertanto fare riferimento per quanto concerne, soprattutto, l’individuazione dell’Autorità di vigilanza (ad es. la Banca d’Italia per le banche) preposta alle singole procedure, nonché dei loro

presupposti soggettivi (cioe l’individuazione degli ent i sottoposti alla procedura, sopra ricordati) e oggettivi (che in parte possono variare da legge a legge, a seconda del tipo di ente a cui c i si riferisce). Quanto ai presupposti oggettivi, deve rilevarsi innanzitutto come essi non riguardano esclusivamente le condizioni economiche dell’ente, come accade per la procedura fallimentare; ma in alcune leggi anche la patologica situazione gestionale. fra i presupposti della l.c.a. troviamo quindi non soltanto quelli che, per l’appunto, esprimono una crisi economico-finanziaria, come l’insolvenza o, talora, le gravi perdite patrimoniali dell’ente (che pure, come visto, possono non coincidere con lo stato di insovlenza). Ma anche quelli che esprimono anomalie amministrative, come il caso in cui vengano riscontrate delle violazioni di norme legislative, amministrative o statutaria, ovvero l’incoerenza dell’attività svolta rispetto al fine che l’ente dovrebbe perseguire, ecc. L’inclusione fra tali presupposti dello stato di insolvenza, che è presuppoosto oggettivo a nche del fallimento, suscita evidentemente l’esigenza di un criterio che consenta di discernere quando, al manifestarsi di quel presupposto, debba applicarsi la procedura di l.c.a. in luogo di quella fallimentare. Un tale criterio viene cosi articolato dalla legge: i) taluni enti (la maggior parte di quelli sopra menzionati: ad es. gli enti pubblici economici, le banche, le assicuraizoni, le SIM, ecc.) sono sottoposti esclusivamente alla procedura di l.c.a. La constatazione di un loro stato di insolvenza, pertanto, non puo che condurre all’apertura di tale procedura.; ii) altri enti (ad es. le cooperative che svolgono attività commerciale) possono invece essere sottoposti sia a l.c.a. che a fallimento. In questi casi opererà il c.d. principio della prevenzione, secondo il quale si applicherà la procedura che venga aperta per prima: con preclusione, pertanto, dell’altra; iii) regola residuale, comunque, è da intendersi la prima: le imprese per le quali è prevista l’applicazione della l.c.a. sono sottoposte esclusivamente a quest’ultima, a meno che la possibilità di un fallimento (e quindi l’eventuale operatività del principio di prevenzione) non sia prevista espressamente dalla legge. Da quanto appenda detto, deriva che l’accertamento (sempre giudiziale) dello stato di insolvenza puo operare diversamente a seconda del tipo di ente, e a seconda che venga accertato prima dell’apertura di alcuna procedura ovvero dopo che la procedura di l.c.a. sia già stata aperta (evidentemtne sulla base di altro presupposto). Per quanto riguarda gli enti sottoposti anche a fallimento, l’accertamento dello stato di insolvenza prima che sia stata aperta alcuna procedura provocherà, secondo il principio di prevenzione testé ricordato, l’apertura del fallimento. Per quanto riguarda gli enti sottoposti esclusivamente alla disciplina della l.c.a., invece, l’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza non potrà che provocare l’apertura della l.c.a. Per gli uni e per gli altri, invece, l’accertamento giudiziario dello stato di inso lvenza dopo che la procedura di l.c.a. sia già stata aperta (evidentemente sulla base di altro presupposto) non impedirà la prosecuzione di tale procedura, ma inciderà su di essa provocando, oltre i normali effetti di quest’ultima, anche l’applicazione degli artt. 64 ss. in materia di revocatorie e delle disposizioni penali previste per il fallimento. L’apertura della procedura e i suoi effetti L’apertura della l.c.a. può innanzitutto verificarsi, come appena accennato, quando nei confrontin di un’impresa soggetta a l.c.a. con esclusione del fallimento venga accertato uno stato di insolvenza. In tal caso l’iteri si articola in due momenti. (i) L’accertamento dello stato di insolvenza, non potendo che essere giudiziale, sarà operato dal tribunale, a sua volta sollecitato dai creditori o dall’Autorità amministrativa che vigila sull’impresa. (ii) Accertata l’insolvenza, l’apertura della procedura non potrà però essere dichiarata dal medesimo tribunale, ma soltanto dalla stessa Autorità amministrativa. Quando invece il presupposto realizzatosi sia diverso dall’insolvenza, l’iter è più semplice: l’Autorità amministrativa, constatato essa stessa il verificarsi di tale presupposto, apre la procedura. Accertato dunque lo stato di incolvenza o altra delle cause previste dalle leggi speciali, l’Autorità amministrativa che vigila sull’ente emanerà il provvediemento di liquidazione. Con tale provvedimento l’Autorità nomina gli ulteriori organi della procedura: - il commissario liquidatore, il cui ruolo può, in larga approssimazione, paragonarsi a quello del cur atore

fallimentare; - il comitato di sorveglianza, composto da tre o cinque memcri scelti fra persone particolarmente esperte nel ramo di attività esercitato dall’impresa (possibilmente fra i creditori); ed il cui ruolo può rapportarsi, sempre in larga approssimazione, a quello del comitato dei creditori nel fallimento. Dalla data del provvedimento che ordina la liquidazione si producono i suoi effetti che, secondo l’art. 200, coincidono in gran parte con quelli riconnessi al fallimento. i) Innanzitutto, nei confronti del debitore si producono gli effetti dello spossessamento previsti dagli artt. 42 ss. Si prevede poi la legittimazione processuale del commissario liquidatore nelle controversie anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale dell’impresa. ii) Anche nei confronti dei creditori e per quanto riguarda i rapporti giuridici preesistenti, l’art. 201 prevede espressamente che dalla data del provvediemento che ordina la l iquidazione si applicano le disposizioni (artt. 51 ss.) sulla regolaizone concorsuale dei crediti; nonché (artt. 72 ss.) sulla sorte dei contratti pendenti. Pure applicabile pare del resto la norma sulla prosecuzione automatica dei contratti nel caso il commissario liquidatore decida di continuare l’esercizio dell’impresa. iii) Quanto poi agli atti pregiudizievoli compiuti prima dell’apertura della procedura, lo stesso art. 201 dichiara incondizionatamente applicabile l’art. 66, e quindi esercitabile dal commissario liquidatore l’azione revocatoria ordinaria. Quanto invece agli artt. 64 ss.: in primis dunque la revocatoria fallimentare, queste saranno applicabile soltanto se sia stato accertato giudizialmente lo stato di insolvenza. Le fasi della procedura La procedura della l.c.a. è scandita dalla legge secondo fasi corr ispondenti a quelle previste per il fallimento. Principio organizzativo generale è che il commissario liquidatore – che in ciò, similmente al curatore fallimentare, puo essere considerato l’organo d’impulso della pr ocedura – procede a tutte le operazioni della liquidazione secondo le direttive dell’autorità che vigila sulla liquidazione, e sotto il controllo del comitato di sorveglianza. In concreto, il commissario comincerà con il prendere in consegna i beni, le scritture contabili e gli altri documenti dell’impresa, formando conseguentemente l’inventario. Parallelamente, egli procederà all’accertamento del passivo, secondo un percorso, peraltro, più libero rispetto a quello imposto nella procedura fallimentare. Difatti, egli si limiterà a ocmunicare a ciascun creditore le somme risultanti a credito di ciascuno secondo le scritture contabili e i documenti dell’impresa, e a fare analoga comunicazione a coloro che possono fare valere domande di rivendicazione, restituzione su cose mobili possedute dall’impresa. Dopodiché, all’esito delle eventuali o sservazioni dei creditori e degli altri aventi diritto contattati, o delle domande di coloro ai quali non sia stata inviata regolarmente la comunicazione, il commissario liquidatore formerà – senza quindi alcuna mediazione dell’autorità giudiziaria o amministrativa – l’elenco dei crediti ammessi o respinti, depositandolo nella cancelleria del tribunale, e dandone notizia a coloro la cui pretesa non sia in tutto o in parte ammessa. Con tale deposito, l’elenco diventa esecutivo. Occorrerà allora, ove se ne vogliano contestare le risultanze, proporre impugnazione secondo le norme previste in tema di fallimento. Solo in fase di opposizione, pertanto (non invece, si è visto, nella fase di formazione dello stato passivo, tutta officiosa ed amministrativa), puo instaurarsi una vera e propria cognizione giudiziale sui diritti vantati dai creditori. Quanto all’amministraizone, conservazione e liquidazione del patrimonio del debiotre, vige la regola fondamentale per la quale il commissario liquidatore dispone di tutti i poteri necessari per la liquidazione dell’attivo, salve le limitazioni stabilite dall’autorità che vigila sulla liquidazione. Occorrerà l’autorizzazione dell’Autorità di vigilanza, fra l’altro, per la continuazione dell’esercizio dell’impresa, per procedere alal vendita degli immobili e dei mobili in blocco, ecc. La fase, logicamente successiva, ma che cornologicamente puo anche sovrapporsi, della ripartizione dell’attivo è regolata secpondo i medesimi principi che operano per la procedura fallimentare. Quanto alla chiusura della procedura, prima dell’ultimo riparto, il commmissario presenterà all’autorità che vigila sulla liquidazione il bilancio finale della liquidazione con il conto della gestione e il piano di riparto tra

i creditori, accompagnati da una relazione del comitato di sorveglianza e depositati (previa autorizzazione dell’autorità di viglanza) presso la cancelleria del tribunale, affinché i crreditori e ogni altro interessato possano proporre le proprie eventuali contestazioni su cui provvederà il tribunale. Ove invece non vengano presentate contestazioni, il bilancio, il conto della gestione e il piano di riparto si intenderanno approvati ed il commissario provvederà alle ripartizioni finali tra i creditori secondo le norme applicabili in tema di fallimento, provvedendo, ove occorra, alle formalità necessarie all’estinzione della società. L’AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA DELLE GRANDI IMPRESE IN STATO DI INSOLVENZA L’amministrazione straordinaria nel sistema concorsuale Se nella l.c.a. la specialità della procedura, caratterizzata dalla sovraordinazione di un’autorià amministrativa, viene giustificata in nome dell’interesse pubblico coinvolto dall’esercizio di certi tipi di attività, è invece in ragione della rilevanza economica di talune attività imprenditoriali che è emersa l’esigenza di un trattamento concorsuale speciale per le imprese di grandi dimensioni; e ciò in qualche modo finendo col sovrapporre all’interesse dei creditori quello della comunità alla conservazione dei posti di lavoro, sacrificando il primo e/o collettivizzando i costi del secondo. Questo percorso alternativo è oggi l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza (a.s.), disciplinata dal d.lgs. 270/1999. Presupposti, finalità e struttura dell’amministrazione straordinaria Secondo l’art. 1, d.lgs. 270/1999, l’a.s. è la procedura concorsuale della grande impresa insolvente. Dal punto di vista soggettivo, l’applicazione della procedura è condizionata innanzitutto al fatto che si tratti di impresa, anche individuale, soggetta alle disposizioni sul fallimento (avente quindi natura commerciale, fatta però eccezione per le imprese soggette esclusivamente a l.c.a.). Inoltre, quanto al profilo dimensionale, non basterà che si tratti di impresa al di sopra delle soglie dimensionali fissate dall’ex art. 1 l.fall., occorrendo piuttosto il possesso congiunto di due ulteriori requisiti che consentano di qualificarla, secondo quanto previsto dall’art. 2 della legge, come “grande”. Tali requisiti consistono: - nell’avere essa un numero di lavoratori subordinati, compresi quelli ammessi al trattamento di integrazione dei guadagni, non inferiore a duecento da almeno un anno; - nell’avere debiti per un ammontare complessivo non inferiore ai due terzi tanto del totale dell’attivo dello stato patrimoniale che dei ricavi provenienti dalle vendite e dalle prestazioni dell’ultimo esercizio ( cioè del fatturato). Dal punto di vista oggettivo, dovrà trattarsi – al pari di quanto previsto per il fallimento – di impresa che si trovi in stato di insolvenza. In concreto, però, non ogni insolvenza risulta compatibile, se non con l’avvio della procedura (c.d. fase intermedia, o di osservazione), almeno con l’ammissione dell’impresa alla fase di amministrazione straordinaria vera e propria (v. infra). A questo fine, infatti, occorrerà che l’impresa, pur insolvente, versi in condizioni economiche tali da far prevedere come possibile il raggiungimento della finalità che la legge stessa assegna alla procedura: la “conservazione del patrimonio produttivo, mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali”. Quando ricorrano i suddetti requisiti soggettivi ed oggettivi, l’impresa sarà, almeno inizialmente, sottratta a fallimento e necessariamente assoggettata alla procedura di a.s.; salva poi la possibilità, ma solo in un secondo momento, che si constati che tale procedura non possa addivenire agli obiettivi che la legge le assegna, dovendo allora essere convertita in fallimento. Strutturalmente, infatti, la proceudra di amministrazione straoridnaria si scompone in due fasi. In una prima fase (detta appunto di “osservazione”), la “grande impresa”, dopo essere stata dichiarata insolvente, verrà sottposta ad un esame volto ad accertare se constino concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali. Soltanto se le condizioni economiche dell’impresa siano tali da

rendere realistica una tale prospettiva, l’impresa potrà essere ammessa alla seconda fase, quella dell’amministrazione straordinaria vera e propria. Altrimenti verrà sottoposta a fallimento. Anche per la grande impresa insolvente, quindi, il fallimento resta sempre una prospettiva possibile. La procedura La dichiarazione dello stato di insolvenza La procedura di a.s. muove dalla dichiarazione dello stato di insolvenza ad opera del tribunale del luogo dove si trova la sede dell’impresa. Ciò potrà avvenire su ricorso dello stesso imprenditore, o di uno o piu creditori, o del pubblico ministero o anche (diversamente da quanto avviene per il fallimento) d’ufficio. Il procedimento attraverso il quale il tribunale perverrà alla dichiarazione di insolvenza si svolgerà secondo un rito camerale e sommario, durante il qual eil tribunale dovrà accertare, oltre all’insolvenza in sé, anche il possesso dei requisiti di ammissibilità alla procedura. Se all’esito del procedimento il riscontro sarà stato positivo, il tribunale emetterà senten za dichiarativa dello stato di insolvenza, con la quale: - verranno nominati gli altri organi della prima fase della procedura, e cioè un giudice delegato e un commissario giudiziale; - verrà ordinato all’imprenditore di depositare le scritture co ntabili e i bilanci, se non vi abbia già provveduto; - verrà assegnato ai creditori e agli aventi diritti reali mobiliari un termine per la presentazione delle domande, termine che dovrà poi costituirre oggetto di apposito avviso da parte del commissario giudiziale; - verrà fissata l’adunanza in cui verrà esaminato lo stato passivo davanti al giudice delegato; - verrà stabilito se la gestione dell’impresa, in questa prima fase, sarà lasciata all’imprenditore insolvente oppure affidata al commissario giudiziale. Il tribunale potrà inoltre adottare ogni provvedimento conservativo nell’interesse della procedura. La c.d. fase di osservazione e i suoi effetti Con la sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza della “grande” impresa si apre una fase (detta di “osservazione”) volta ad accertare la compatibilità delle condizioni economiche dell’impresa con le finalità che la legge assegna alla procedura, e cioè con la conservazione del patrimonio produttivo, mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali. In particolare, compito essenziale del commissario giudiziale sarà quello di accertare – con una particolareggiata relazione che il commissario dovrà depositare in cancelleria e comunicare al Ministro – se sussistano concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali, da realizzarsi attraverso un programma che il commissario stesso potrà già in questa fase abbozzare e che verrà poi predisposto, nella fase successiva, dal c ommissario straordinario (cosi si chiama l’organo che prenderà il posto del commissario giudiziale, una volta aperta la seconda fase) per delineare il percorso dell’amministrazione straordinaria vera e propria. Se invece si constati l’insussistenza di tali prospettive, la fase di osservazione si concluderà con la sottoposizione dell’impresa a fallimento. La fase di osservazione inaugura una nuova condizione giuridica dell’impresa, data dagli effetti che la legge riconnette alla dichiarazione dello stato di insolvenza. Tali effetti risultano peraltro di intensità diversa a seconda della scelta di lasciare la gestione dell’impresa all’imprenditore ovvero di affidarla al commissario giudiziale. Nel primo caso si produrranno effetti analoghi a quelli provocati dall’ammissione al concordato preventivo. L’imprenditre conserverà quindi la gestione della sua impresa e l’amministrazione del suo patrimonio, sia pure sotto la vigilanza del commissario giudiziale e necessitando dell’autorizzazione del giudice delegato per il compimento degl atti. Per quanot riguarda i creditori, interdetti dal’intraprendere o proseguire individualmente qualsiasi azione esecutiva o cautelare, varranno le norme previste dalla disciplina fallimentare per la loro regolazione concorsuale.

Quando invece la gestione dell’impresa venga affidata al commissario giudiziale, fermi gli altri effetti sopra ricordati, ne conseguirà anche il c.d. spossessamento del debitore, secondo i principi operanti in sede fallimentare e l’attribuzione al commissario giudiziale di tutti i poteri e doveri che, in punto di gestione dell’impresa del debitore, competono al curatore fallimentare; ivi compreso l’obbligo di presentare, al termine del proprio ufficio, il conto della getione svolta. In ogni caso, i crediti sorti per la continiiuazione dell’esercizio dell’impresa dovranno essere soddisfatti in prededuzione. Quanto invece ai debiti pregressi, il giudice delegato potrebbe autorizzarne il pagamento, anche se una tale previsione, per risultare ocmpatibile con la parità di trattamento dei creditori, è da interpretarsi nel senso che sia soltanto consentita l’anticipazione del pagamento, salva però la ripetibilità nei confornti di chi all’esito della procedura avrà ricevuto piu di quanto risulterà dovuto. Infine, dopo aver dichiarato l’insolvenza, il tribunale diviene competente a conoscere di tute le azioni che ne derivano, fatta eccezione però per le azioni reali immobiliari, per le quali restano ferme le norme ordinarie di competenza. L’apertura dell’amministrazione straordinaria e i suoi effetti Entro trenta giorni dalla ricezione della relazione del commissario giudiziale sulla sussistenza (o meno) di concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività i mprenditoriali, da realizzarsi attraverso un programma di cessione o di ristrutturazione; valutate le eventuali osservazioni che a questo riguardo ptranno presentare l’imprenditore o i creditori e qualunque altro interessato; considerato il parere del Ministro sull’ammissibilità dell’impresa alla procedura; il tribunale si pronuncherà su tale ammissiblità, disponendo l’apertura della procedura di amministrazione straordinaria. Se non nella fase iniziale, almeno in questa seconda, decisiva fase, puo dunque dirsi che il potere di decidere torni all’autorità giudiziaria. Sempre relegati sullo sfondo, invece, risultano i creditori. Lo svolgimento della procedura è tendenzialmente regolato, laddove il d.lgs. 270/1999 non disponga diversamente, dalla disciplina della liquidazione coatta amministrativa, sostituito al commissario liquidatore il commissario straordinario. Il commissario straordinario è l’organo ad opera del quale la procedura si svolge e che deve essere nominato entro cinque giorni dalla comunicaizone del decreto di apertura dal Ministro dello Sviluppo Economico. Questo, a sua volta (fatta eccezione per le competenza esclusive degli organi giudiziari, e cioè il tribunale e il giudice delegato già operanti nelal fase di osservazione) è l’organo che vigila sullo svoglimento dell’intera procedura, disponendo di un largo potere autorizzatorio. Il Ministro, inoltre, nominerà un comitato di sorveglianza (composto da tre o cinque membri, creditori chirografari e, in maggioranza, esperti del ramo di attività dell’impresa o nella materia concorsuale) dotato di una funzione prevalentemente consultiva, ma anche di ispezione e di controllo sugli atti del commissario. Gli effetti del decreto di apertura dell’a.s., tendenzialmente gli stessi conseguenti all’apertura della l.c.a., si pongono in continuità, ma intensificandoli, con quelli già proodottisi nella prima fase. (i) Così, quanto al debitore, se nella fase di osservazione l’affidamento della gestione dell’impresa al commissario giudiziale era solo una possibilità, che provocava lo spossessamento, con il decreto di apertura dell’a.s. vera e propria il tribunale ne affiderà senz’altro la gesitone al commissario giudiziale; e, subito dopo, appena nominato, al commissario straordinario. Con l’inevitabile spossessamento, quindi, del debitore. Varrà anche la norma dell’art. 200 l.f all. sulla cessazioen degli organi sociali. (ii) Quanto ai creditori, varranno ancora le norme –già applicabili nella prima fase – sulla loro regolazione concorsuale nel fallimento, salva però l’assolutezza del divieto (che invece secondo l’art. 51 l.fall . tollera eccezioni) di azioni esecutive individuali. Come nella prima fase, i crediti sorti per la prosecuzione dell’attività di impresa dovranno essere pagati in prededuzione. (iii) Circa invece i contratti pendenti (che nella prima fase avranno continuato a trovare normale esecuzione), la regola di fondo è quella della loro automatica prosecuzione (diversamente dalla tendenziale sospensione automatica che opera nel fallimento, posto che nell’a.s. si ha la prosecuzione dell’impresa),

sino a quando eventualmente il commissario straordinario non decida, a sua discrezione, di sciogliersene. Inoltre, tanto in caso di scioglimento che di subentro da parte del commissario, i diritti del terzo contraente saranno quelli previsti in ambito fallimentare (artt. 72 ss.). (iv) Particolare è invece la disicplina degli effetti del decreto di apertura sugli atti pregiudizievolin ai creditori compiuti prima della dichiarazione di insolvenza. Le azioni per la inefficacia e la revoca degli atti pregiudizievoli (ricomprendendo tutte le azioni previste dagli artt. 64 ss. l.fall.) potranno essere intraprese dal commissario straordinario solamente se la procedura abbia preso la via segnata dal programma di cessione dei complessi aziendali (v.infra). E ciò perché il programma ad esso alternativo, quello di ristrutturazione, pur riguardando un’impresa insolvente, è volto appunto al suo risanamento finanziario, e dunque a far sì che l’imprenditore recuperi la capacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni entro la scadenza del programma, pena altrimenti la conversione della procedura in fallimento; con la poossiblità allora, ma solo a questo punto, di intentare le azioni revocatorie con effetto a ritroso dalla dichiarazione di insolvenza. La definizione e l’esecuzione del programma Già in sede di ammissione alla procedura, come visto, il tribunale è chiamato alla verifica, sulla base di una analitica relazione del commissario giudiziale e del parere del Ministro, della concreta possibilità di realizzare il recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali dell’impresa mediante un percorso che puo essere, alternativamente, di cessione o di ristrutturaizone. Se la verifica sia stata positiva, ed avviata quindi la procedura di a.s., spetterà al commissario straordinario la decisione sul percorso da intraprendere. Egli dovrà cosi predisporre (considerate le linee programmatiche sottese alla relazione del commissario giudiziale e alla sua condivisione da parte del tribunale, ma da esse comunque non vincolato) il vero e proprio “programma” che, secondo quanto appunto indicato dall’art. 27, potrà essere: - di cessione dei complessi aziendali a terzi, sulla base di un programma di prosecuzione dell’esercizio dell’impresa di durata non superiore ad un anno; - di ristrutturazione economica e finanziaria dell’impresa (che dunque resterà nella titolarità della società debitrice), sulla base di un programma di risanamento, industriale e/o finanziario, di durata non superiore a due anni. In entrambi i casi ill programma prevederà una prosecuzione dell’attività di impresa, eventualmente parziale e limitata, tagliando gli eventuali rami improduttivi. A questo fine esso dovrà indicare le attività imprenditoriali destinate alla prosecuzione e quelle da dismettere (c ioè da abbandonare puramente e semplicemente), nonché il piano per la eventuale liquidazione dei beni non funzionali all ’esercizio dell’impresa; e poi farsi carico di prospettare le condizioni economiche-finanziarie della sua fattibilità. Inoltre: - Se sia stato adottato l’indirizzo della cessione dei complessi aziendali, il programma dovrà altresì indicare come, e con quali prospettive, essa possa realizzarsi: specificando le modalità della cessione, le eventuali offerte pervenute o acquisite, e le stime sulla soddisfazione dei creditori che potrà derivarne; - se invece sia stato adottato l’indirizzo della ristrutturazione, il programma dovrà indicare le eventuali previsioni di ricapitalizzazione dell’impresa e di mutamento degli assetti imprenditoriali, nonché l e stime di soddisfazione dei creditori, ecc. Il forte condizionamento derivante dall’autorità amministrativa risulta dalla necessità che il programma, per poter essere eseguito, riceva l’approvazione del Ministero. L’esecuzione del programma è affidata al commissario straordinario, che ha il potere-dovere di compiere tutte le attività a ciò funzionali, salva però, in alcuni casi, la necessità dell’autorizzazione del Ministero. L’autorizzazione del Ministero occorrerà in svariati casi, soprrattutto riguardanti la liquidazione dei beni dell’impresa (mentre maggiore sarà l’autonomia per quanot riguarda le scelte di ristrutturazione) e segnatamente per gli atti di alienazione e di affitto di aziende o di rami di aziende, ecc.

L’accertamento del passivo e la ripartizione dell’attivo Essendo la procedura di amministrazione straordinaria volta (anche, se non soprattutto) alla soddisfazione dei creditori, sue fasi necessarie sono: - l’accertamento del passivo, che avrà luogo negli stessi modi previsti per la rpo cedura fallimentare; - la ripartizione dell’attivo, che avrà luogo, anche in questo caso secondo le norme previste per il fallimento, mediante riparti parziali e una ripartizione finale. Sono inoltre ammessi, analogamente a quanto previsto per la l.c.a., anche acconti parziali, con preferenza peraltro – considerati gli interessi in funzione dei quali si giustifica la specialità della procedura – per i crediti dei lavoratori subordinati e delle controparti commerciali, indipendentemente dal tipo di programma a dottato fra quelli alternativamente previsti dall’art. 27. La cessazione della procedura L’amministrazione straordinaria puo cessare per tre diverse cause. (A) Innanzitutto potrà aversi una conversione in fallimento quando, già nel corso della procedura, si prenda atto che questa non potrà essere utilmente proseguita perché il programma autorizzato non risulti piu realizzabile; ovvero quando, alla scadenza del t ermine previsto per l’esecuzione del programma adottato, si constati che questo non è stato realizzato. In tal caso, il tribunale emanerà decreto (reclamabile dinanzi alla corte di appello) di conversione in fallimento, secondo un principio di continuita delle procedure (soprattutto: prosecuzione dell’accertamento del pasivo già i niziato, salvezza deglii atti legalmente compiuti dagli organi della procedura). (B) La chiusura della procedura, sempre per mezzo di decreto reclamabile emesso dal tribunale, si avrà invece quando (i) non siano state proposte domande di ammissione al passivo (ipotesi teorica); (ii) o quando, anche prima del termine di scadenza del programma (al limite, anche di cessione), l’imprenditore insolvente abbia recuperato la capacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni; (iii) ovvero in caso di concordato, di cui si dirà a breve. Inoltre (iv) – ma nella sola ipotesi in cui la procedura abbia preso l’indirizzo del programma di cessione – anche quando i crediti ammessi siano stati integralmente soddisfatti o siano stati in altro modo estinti, o quando sia stato integralmente ripartito l’attivo. In ogni c aso, sempre nell’ipotesi del programma di cessione, prima della ripartizione si avrà la cessazione dell’impresa. (C) Ultima ipotesi di cessazione della procedura, come si diceva, è quella che si realizza per effetto di un concordato, tendenzialmente regolato dalle norme sulla l.c.a., salvo per il fatto che nell’a.s. la proposta puo provenire solo dall’imprenditore o da un terzo (non dai creditori) e dopo che sia stato dichiarato esecutivo lo stato passivo. Occorrerà comunuqe la previa autorizzazione del Ministro dello Sviluppo, rilasciata sopo aver tenuto conto della convenienza del concordato e della sua compatibilità con il fine conservativo della procedura. L’amministrazione straordinaria nei gruppi di im prese Seppure nel diritto concorsuale parrebbe generale l’esigenza di una considerazione unitaria dell’attività di impresa svolta attraverso un gruppo di società, e della relativa insolvenza in particolare, la vigente legislazione concorsuale recepisce una tale esigenza soltanto con riferimento all’a.s. Rispetto a questa, in effetti, la dimensione delle imprese coinvolte rende piu f requente la necessità di confrontarsi con una struttura di gruppo, fermo restando, comunque, che la mancata regolazione del fenomeno al di fuori dell’a.s. deve ritenersi una grave lacuna del nostro ordinamento, alla quale talora si è proposto di porre rimedio proprio attraverso il ricorso all’applicazione analogica della disciplina dell’a.s. Quest’ultima, agli artt. 80 ss., prevede infatti la possiblità di estendere l’a.s. aperta rispetto ad un’impresa in possesso dei requisiti dimensionali previsti dall’art. 2 della legge – c.d. “procedura madre” – anche ad alte imprese insolventi appartenenti allo stesso gruppo, ma prive dei medesimi requisiti dimensionali. Unica condizione posta dalla legge è quella della complementarietà funzionale di una tale estensione alla

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