Raymond Klibansky, Erwin Panofsky - Da Saturno e La Melanconia

September 26, 2017 | Author: Idoi | Category: Albrecht Dürer, Saturn, Planets, Homo Sapiens, Middle Ages
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Saturno e la melanconia

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di Raymond Klibansky, Erwin Panofsky e Fritz Saxl

Storia dell’arte Einaudi

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Edizione di riferimento:

Raymond Klibansky, Erwin Panofsky e Fritz Saxl, Saturno e la melanconia. Studi di storia della filosofia naturale, religione e arte, trad. it. di Renzo Federici, Einaudi, Torino 1983 Titolo originale:

Saturn and Melancholy. Studies in the History of Natural Philosophy Religion and Art Thomas Nelson & Sons Ltd, London © Raymond Klibansky, Erwin Panofsky, Fritz Saxl

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Indice

parte seconda Saturno, astro della melanconia II. Saturno nella tradizione figurativa 1. saturno nell’arte antica e la sopravvivenza della rappresentazione tradizionale nell’arte del medioevo

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2. illustrazione del testo e influenza orientale

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3. l’immagine di saturno e dei suoi figli

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4. saturno nelle illustrazioni mitografiche del tardo medioevo

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5. saturno nell’umanesimo

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parte quarta Dürer i. La melanconia in Conrad Celtis La xilografia di Dürer sul frontespizio dei «Quattuor libri amorum» di Celtis. La dottrina dei temperamenti negli scritti di Dürer

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Indice

ii. L’incisione Melencolia I 1 . gli antefatti storici della «melencolia i» a) Motivi tradizionali i) La borsa e le chiavi ii) Il motivo della testa reclina iii)Il pugno chiuso e la faccia nera b) Immagini tradizionali nella composizione dell’incisione i) Illustrazioni della malattia ii) Cicli figurativi dei quattro temperamenti. I: figure singole a carattere descrittivo (i quattro temperamenti e le quattro età dell’uomo). II: gruppi drammatici: temperamenti e vizi iii)Rappresentazioni delle arti liberali 2. il nuovo significato della «melencolia i» a) La nuova forma d’espressione b) Il nuovo contenuto concettuale i) Simboli di Saturno e della Melanconia ii) Simboli geometrici iii)Simboli di Saturno o della Melanconia combinati con simboli geometrici: in rapporto alla mitologia e all’astrologia, in rapporto all’epistemologia e alla psicologia iv) Arte e pratica c) Il significato della Melencolia I d) I Quattro apostoli

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Indice

iii. Il retaggio artistico della Melencolia I

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1. rappresentazioni della melanconia in forma di figura femminile sola al modo di dürer 173 2. rappresentazioni tipiche della melanconia 189 negli almanacchi tardo medievali 3. la melanconia nelle rappresentazioni di 193 saturno o dei suoi figli

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parte seconda

Saturno, astro della melanconia

Capitolo secondo Saturno nella tradizione figurativa

L’evolversi della concezione di Saturno, come l’abbiamo ripercorso sopra, si riflette non solo nella letteratura, ma anche nelle arti figurative. La tradizione pittorica, per altro, come avviene in tutti i casi del genere, segue sue proprie regole. 1. saturno nell’arte antica e la sopravvivenza della rappresentazione tradizionale nell’arte del medioevo. Il tipo tardo dell’Aion-Crono mitraico, sviluppatosi per influenza orientale, che con le ali e altri attributi rispondeva a una generica significazione cosmica, in particolare come dio del Tempo, fu conosciuto dai secoli anteriori al Rinascimento solo attraverso la letteratura, non attraverso l’arte1. Il «Crono fenicio», dall’aspetto di un cherubino con due ali sulla testa e quattro sulle spalle, e due occhi aperti e due chiusi, sopravvisse su monete e in una descrizione di Eusebio2. A parte questo, le raffigurazioni antiche di Saturno, almeno quelle che ci riguardano, si dividono in due classi, che mostrano entrambe il dio con l’aspetto di un vecchio e gli assegnano come attributi una falce3 e un mantello sulla testa: elemento questo che Saturno ha in comune solo con Asclepio e che gli dà fin dall’inizio un aspetto strano e un po’ sinistro. Il primo tipo mostra il dio in un aspet-

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to in genere ieratico, sia che si tratti di un busto, di solito sovrastante i suoi simboli zodiacali (come si vede nelle monete antonine)4, sia che si tratti di immagini a figura intera, in piedi; però in entrambi i casi la concezione è molto simile. Il secondo tipo mostra il dio nell’atteggiamento di un pensatore, seduto, con la testa appoggiata alla mano. Il primo tipo si trova esemplificato in un suggestivo dipinto murale nella Casa dei Dioscuri a Pompei5. Gli occhi del dio sono minacciosi. La toga nasconde tutto tranne il viso, i piedi e una mano che tiene alquanto goffamente una falce ritta al fianco. Questa goffaggine è certamente voluta, dato che l’affresco è opera di un grande artista. L’arnese che egli tiene non è un arnese comune, è il simbolo della potenza di questo dio severo e sembra minacciare il fedele. L’insolita rigidità e il carattere un po’ spiritato della raffigurazione possono quindi considerarsi espressione della personale concezione di un pittore dell’epoca d’oro della pittura pompeiana. Per lui Saturno era il temibile dio della terra. Il secondo tipo, come si è detto, è caratterizzato dal fatto che il dio appare seduto, col braccio appoggiato a qualche oggetto, una caratteristica che è sembrata cosí tipica del dio che echi ne sopravvivono anche in figurazioni in cui è quasi del tutto fuori luogo. Ad esempio, la mano sinistra di Saturno è sollevata al capo in una rappresentazione della scena in cui gli viene data la pietra da divorare in luogo del bambino6. La tomba di Cornuto in Vaticano è l’esempio piú importante di questo tipo, insieme a un piccolo bronzo del Museo Gregoriano7 e a qualche frammento di statuaria monumentale. Saturno vi appare in atto di riflettere tristemente, come Attis su altre tombe. La mano destra non tiene ritta la falce, come nell’affresco di Pompei, ma è posata stancamente sul ginocchio. La testa è china e poggia sul

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braccio. Per Cornuto, che dispose che questa immagine fosse collocata sulla tomba sua e dei suoi figli, Saturno era simbolo della triste quiete della morte. L’arte antica quindi ha dato espressione ai due aspetti della natura di Saturno, da un lato sotto la forma dell’imponente e benefico dio della terra, dall’altro sotto quella del distruttivo, ma insieme pacificatore, sovrano degli inferi. Nell’arte del primo Medioevo, in Occidente, il secondo tipo scomparve; il tipo del pensatore fu in un primo tempo riservato, nell’arte cristiana, agli evangelisti, agli apostoli e ai profeti. Insieme ai busti tipici della serie consueta dei cinque pianeti, Saturno, Giove, Marte, Mercurio e Venere8, nei manoscritti degli Aratea sopravvisse lo schema solenne ma non specifico che abbiamo visto a Pompei. In una raffigurazione carolingia dei pianeti9 troviamo una riproduzione esatta di Saturno a figura intera, con la falce e la toga tirata sulla testa. Siamo in grado di dimostrare come questo tipo sia stato trasmesso, dato che manoscritti antichi avevano già adattato la forma monumentale all’illustrazione di libri. L’immagine di Saturno nel Calendario dell’anno 354 d. C. mostra il dio in atto di camminare, come a Pompei10; la toga lascia scoperta la parte superiore del corpo, la mano destra tiene l’arma. L’illustratore del manoscritto carolingio deve avere avuto sott’occhio un esempio della tarda antichità che per certi versi era piú somigliante all’affresco classico di quanto non lo sia l’immagine del Calendario. Il braccio allungato di Saturno con l’arma è una variante che l’immagine carolingia ha in comune con il Calendario, però, come nell’affresco antico, la figura volge la testa di lato come se guardasse l’avversario che minaccia con la sua arma11. Le illustrazioni dell’enciclopedia di Rabano Mauro si basano anch’esse, largamente, sulla tradizione pittorica antica12. In esse Saturno appare in una forma per nulla medievale, seminudo e in abito antico, e anche il suo

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atteggiamento in atto di incedere risale a un modello antico. Ciò che però è nuovo e sorprendente è il fatto che il dio tenga non una comune falce ma la piú moderna falce fienaia: fatto che si spiega solo con una particolare interpretazione del copista dell’xi secolo13. Se si escludono le immagini di pianeti del genere di quelle che abbiamo ricordato sopra14, immagini di Saturno nell’arte bizantina si hanno solo in illustrazioni delle Omelie di san Gregorio di Nazianzo. La piú antica raffigurazione di Saturno si trova in un manoscritto del ix secolo conservato a Milano15. Essa illustra la prima omelia Contra Julianum ed è concepita in cosí stretta aderenza al testo, il quale è un’accesa invettiva contro gli dèi pagani, che l’artista è caduto in un comico equivoco. San Gregorio dice ironicamente che certo è un modo ammirevole di indurre i figli ad amare i loro genitori il raccontare loro come Crono abbia castrato Urano e come poi suo figlio Zeus gli abbia teso un agguato rendendogli pan per focaccia16. Ma l’illustratore che ha creduto che la parola O‹ran’j indichi non il dio Urano ma il cielo stesso, e che ha interpretato il verbo tûmnein non come «castrare» ma come «tagliare» o «spaccare», ci mostra Saturno che castra Urano (” Kr’noj tÿn O‹(ra)nÿn tûmno(n)) con una poderosa ascia che spacca le volte del cielo, mentre Zeus, che si ribella contro Crono (” Dàaj kat™ to„ Kr’n(ou) ùpanistßmenoj) lo minaccia alle spalle con un’ascia analoga. Però un gruppo posteriore di manoscritti di san Gregorio, che risalgono all’xi e xii secolo (cioè al momento piú alto del movimento umanistico che inizia nel x secolo), ci mostra un’immagine sostanzialmente diversa. In questi manoscritti17 le illustrazioni degli dèi pagani sono state tolte dall’omelia Contra Julianum e aggiunte a quelle dell’omelia In sancta lumina. Però il ciclo è ora molto piú ricco e, cosa piú importante, le rappresentazioni

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fondate sulla tradizione letteraria (ad esempio, la «Nascita di Venere» dai genitali di Saturno gettati nel mare, che solo piú tardi si ritrova nell’arte occidentale) sono ora rafforzate da altre che invece erano estranee all’arte occidentale e presuppongono una tradizione pittorica derivata dall’antichità classica. Di questo genere è «L’astuzia di Rea» che ha dato da divorare al marito una pietra avvolta in fasce, e la scena dei cureti e dei coribanti che suonano intorno alla culla di Zeus infante, coprendone gli strilli e salvandolo cosí dall’essere scoperto. Nell’illustrazione in cui si vede Rea che mette in opera lo stratagemma per ingannare Saturno incontriamo ancora un tipo di Saturno seduto, simile al rilievo capitolino di cui si è parlato18. Si può quindi affermare che le illustrazioni di questi piú tardi manoscritti gregoriani solo in parte sono nate come traduzioni del testo in immagini, e che in altri casi hanno seguito una tradizione puramente pittorica, derivata da testi illustrati di carattere secolare che non hanno esercitato una loro influenza sul ciclo teologico fino alla rinascita del x secolo. Questo vale non solo per la scena di Saturno e Rea e per quella dei Coribanti, ma anche per quelle che illustrano la nascita di Atena, di Cibele e di Orfeo. Questo sospetto diviene quasi certezza quando si osserva che le miniature dei Coribanti, nei manoscritti tardogregoriani, chiaramente derivano dallo stesso modello che è stato trasmesso, per le rappresentazioni di questa scena, nei manoscritti oppiani19.

2. illustrazione del testo e influenza orientale. Le illustrazioni dell’opera di Rabano Mauro hanno costituito uno spartiacque tra le raffigurazioni basate sulla tradizione puramente pittorica, ad esempio quelle del manoscritto Vossiano, e un nuovo gruppo di opere

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medievali occidentali destinate ad avere un’importanza molto maggiore per l’evoluzione generale, in quanto non fondate su una tradizione maturata nell’arte classica. In queste opere compaiono nuovi tipi, in parte perché gli artisti partono da testi contenenti descrizioni degli dèi antichi, che gli illustratori medievali potevano arricchire seguendo la propria fantasia, in parte perché si attenevano a modelli provenienti da una cultura diversa, cioè da quella dell’Oriente. Per l’una ragione e per l’altra la fantasia dell’artista medievale era libera di creare tipi realmente nuovi, piú vicini allo spirito del tempo. Il migliore esempio di un Saturno altomedievale del genere si trova in un manoscritto miniato a Ratisbona20. La figura non ha nulla in comune coi modelli classici; è invece una di quelle illustrazioni autonome che si trovano nei testi dotti di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente (testi che il Medioevo derivò dalla tarda antichità), nei quali le descrizioni degli dèi antichi erano interpretate allegoricamente a scopi filosofici e moralistici. In questa illustrazione a Saturno viene assegnato un gran numero di attributi. Ha il capo coperto; nella mano sinistra tiene il falcetto e, come già abbiamo visto nell’enciclopedia di Rabano, la falce fienaia; nella destra tiene il «Drago del Tempo», che si morde la coda e indica che Kr’noj deve essere interpretato anche come Cr’noj. L’immaginazione dell’artista ha impresso alla vecchia descrizione una nuova, e tipicamente medievale, vitalità21. Una raffigurazione come quella del manoscritto di Ratisbona è però rimasta a lungo un unicum, in quanto il Saturno qui effigiato è anzitutto solo un inventario grafico delle caratteristiche attribuite nel testo, al quale viene assicurata una generica somiglianza con tipi contemporanei. Ancora non presenta alcun rapporto o possibilità di rapporto né con una persona reale né con ciò che realmente circondava l’uomo medievale, in

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quanto una tale immagine, fondata sulla pura «traslitterazione», manca sia del vigore figurativo di una tradizione pittorica, sia della vitalità di una rappresentazione realistica. Si comprende quindi come una vera rinascita pittorica degli dèi antichi potesse avvenire solo quando la tradizione obsoleta dell’antichità fosse stata sostituita da una tradizione viva, che permettesse di procedere a una interpretazione nuova, realistica, degli dèi, che qui erano ancora rappresentati in una forma puramente «letteraria». Questo si verificò quando l’Occidente venne in contatto con modelli orientali, che raffiguravano gli dei pagani certo in un costume alquanto esotico, però in una forma piú contemporanea, o almeno in una forma che meglio si prestava ad essere assimilata. In Oriente, forse grazie a una certa sopravvivenza latente della vecchia concezione orientale dei pianeti, si era sviluppata una serie di tipi pittorici le cui caratteristiche specifiche erano state finora estranee all’Occidente, ma che potevano facilmente essere tradotte in termini dell’epoca. Giove e Mercurio vi erano rappresentati con un libro, Venere con un liuto, Marte con una spada e una testa senza il corpo e infine Saturno con una vanga e una gravina. A partire almeno dal xiii secolo questi tipi22 cominciarono a influenzare le rappresentazioni occidentali, e in certi casi possiamo addirittura seguire il processo passo passo. Per questa ricerca i manoscritti piú importanti sono quelli con le illustrazioni a un testo di Abû Ma‘∫ar, che ci sono pervenuti in numero relativamente grande23. Il manoscritto piú antico di questo gruppo24 contiene rappresentazioni dei pianeti chiaramente derivate da fonti orientali. Come in Oriente, Mercurio è raffigurato con un libro, Venere con uno strumento musicale e Marte con un uomo decapitato, mentre i Gemelli sono uniti l’uno all’altro, come li troviamo anche in copie orientali. Anche qui troviamo le curiose raffigurazioni

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dei pianeti che cadono a capo in giú25; però è una caratteristica occidentale mostrare i pianeti come sovrani in trono (questo avviene in manoscritti derivati da quello parigino Ms lat. 7330) e integrare le due immagini dell’«esaltazione» e della «caduta», come ricorrono in Oriente, con una terza rappresentante il «declino». Questo significativo arricchimento mediante l’aggiunta di un momento intermedio tra i due estremi fa supporre che l’idea dell’ascesa e della «depressione» fosse collegata con l’idea occidentale della «ruota della Fortuna», un legame attestato in modo indubbio dal motivo, sicuramente derivato dalla ruota della Fortuna, delle corone che cadono. Non sorprende scoprire effettivamente, alla fine del codice parigino26 una rappresentazione della ruota della Fortuna che occupa quattro fogli, cioè divide la consueta sequenza Regnabo, Regno, Regnavi, Sum sine regno in rappresentazioni separate che corrispondono alle diverse fasi dei pianeti. In questi manoscritti troviamo una curiosa mescolanza di elementi orientali ed elementi occidentali che basta da sola a dimostrare che essi sono stati illustrati inizialmente nell’Italia meridionale; e questa indicazione è rafforzata, come dimostreremo altrove attraverso un’analisi piú particolareggiata, da considerazioni di stile27. Nel codice parigino 7330 Saturno appare in una forma del tutto occidentale, come un sovrano con uno scettro e senza altri attributi. Anche i suoi segni zodiacali, l’Acquario sotto forma di Ganimede e il Capricorno, sono concepiti in modo schiettamente occidentale. Se però osserviamo manoscritti piú tardi di questo gruppo28, scopriamo con sorpresa che l’influenza orientale è aumentata in misura tale che ora a Saturno è attribuita una vanga, come nei manoscritti orientali, e che il dio è raffigurato in una posa particolare, cioè ritto con un piede sul suo seggio29. Non conserva nulla dell’aspetto calmo, regale, dell’immagine precedente; la

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figura sembra piuttosto avvicinarsi a quelle di manoscritti occidentali in cui si trova un’analoga posa agitata. Dopo le loro peregrinazioni in Oriente, gli dèi antichi potevano ora diventare figure molto piú realistiche, somiglianti nell’aspetto esterno a dotti, contadini o nobili tardomedievali, in diretto rapporto visivo con i mortali nati sotto di loro, ritrovando cosí per la prima volta una intensa vitalità. Saturno, in particolare, divenne sempre piú nell’arte tardomedievale la guida e il campione dei poveri e degli oppressi, il che non solo corrispondeva in generale alle tendenze realistiche dell’arte tardomedievale, ma anche, piú specificamente, alla turbolenza sociale dell’epoca. Già negli affreschi attribuiti a Guariento nella chiesa degli Eremitani a Padova30, egli appare quale sarebbe poi rimasto fino all’epoca moderna, nonostante tutti gli affinamenti umanistici: un contadino cencioso, piegato sull’arnese del suo lavoro. Anche in un manoscritto dell’Italia settentrionale egli figura come un contadino con una falce fienaia e una borraccia alla cintura, mentre va nei campi31. Per influenza orientale il dio greco delle messi e il dio italico dell’agricoltura è divenuto lui stesso un contadino. E tale rimase anche in una scena mitologica dove compare in coppia con Filira, trasformata in giumenta, come si vede nei manoscritti di Andalò del Negro. Egli è l’esponente dello strato piú basso della società medievale, per il quale tutta l’attività intellettuale è un libro chiuso, e che passa la vita a trarre grami mezzi di sussistenza dalla terra. Gli ultimi giorni della vita, quando l’uomo diviene sterile e il suo calore vitale si riduce al punto che egli cerca solo di accoccolarsi accanto al fuoco, sono i giorni propri di Saturno.

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3. l’immagine di saturno e dei suoi figli. L’Oriente ha fornito all’Occidente concezioni del tutto nuove delle divinità planetarie, concezioni che non avevano piú nulla in comune con i tipi sviluppati dall’arte classica. Piú ancora, ha introdotto in Occidente un sistema, fino ad allora sconosciuto, di disegni complicati che rappresentano visivamente i rapporti dei pianeti con gli uomini che cadono sotto la loro influenza. Scrittori orientali ci dicono che nei templi pagani Saturno era raffigurato come un vecchio indiano, oppure come un uomo che cavalcava un elefante, o che meditava sull’antica sapienza, o che attingeva una brocca d’acqua da un pozzo, e cosí via. Con poche eccezioni32, queste immagini sono rappresentazioni delle occupazioni attribuite a Saturno nei testi astrologici di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, e ci sono quindi tutte le ragioni per supporre che i dipinti murali descritti da questi autori siano i precedenti dei disegni definiti da storici dell’arte posteriori come immagini dei «figli dei pianeti». Questa convinzione è rafforzata dal fatto che simili immagini dei «figli dei pianeti» si possono realmente trovare in manoscritti orientali piú tardi. In un manoscritto arabo33 e nei suoi derivati34 troviamo le «attività dei pianeti» rappresentate in sette serie di otto immagini ognuna. La prima immagine di ogni serie mostra il pianeta stesso, mentre le sette contigue mostrano ognuna uno dei suoi figli. Saturno figura come un uomo con una gravina, e accanto sono raffigurate attività come la lavorazione del cuoio, la coltura dei campi, e così via; Mercurio è un dotto con un libro, associato a occupazioni piú raffinate. L’Occidente deve avere conosciuto schemi di questo tipo nel Trecento, perché solo cosí si può spiegare come nel Salone di Padova35 si trovi, disposta in una forma tabulare molto simile, una serie di immagini dei «figli dei pianeti» che possiamo

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definire una versione occidentale, in scala monumentale, di queste «tavole» quali ricorrono, ad esempio, nel manoscritto Bodleiano orientale 133. Lo stesso Saturno vi appare in una forma molto lontana da quella classica, cioè come un uomo che si porta la mano alla bocca a significare o il silenzio o la sua natura sinistra e afflitta. Anche i «figli dei pianeti» subirono in Occidente un processo sempre piú deciso di «modernizzazione» realistica. Epoche successive trovarono le serie delle occupazioni disposte in forma tabulare (come quelle del Salone di Padova, riprese da manoscritti orientali, nello stile del manoscritto Bodleiano orientale 133) troppo monotone come forma e troppo eterogenee come contenuto. Cosí cercarono una soluzione che raggruppasse gli uomini governati dai pianeti in una sorta di vivace rappresentazione «di genere», tale da apparire socialmente e psicologicamente piú coerente. Questo implicò in primo luogo la riduzione della caotica varietà che si aveva nelle «tavole» originarie a un numero limitato di tipi intimamente connessi tra di loro; in secondo luogo, implicò la riunione di questi tipi in ambienti coerenti e in una stessa prospettiva. Cosí la raffigurazione di Giove deve illustrare la natura e il modo di vivere degli uomini che hanno la fortuna di essere colti e abbienti, quella di Mercurio la vita dei dotti e degli artisti, quella di Marte la vita dei guerrieri, e quella di Saturno la vita dei contadini poveri e oppressi, dei mendicanti, degli sciancati, dei prigionieri e dei criminali. Contemporaneamente si sentí il desiderio di rendere immediatamente visibile l’«influenza» fatale di ciascun pianeta sugli uomini ad esso soggetti, per cui è comprensibile che dopo molti incerti tentativi di modernizzare lo schema che abbiamo visto nel Salone di Padova, una soluzione sia stata alla fine trovata in uno schema iconografico che era stato usato in tutt’altro ambito e in tutt’altro senso per mostrare l’«influenza» di una forza celeste sull’esi-

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stenza terrena: lo schema dell’Ascensione di Cristo al cielo (o, piú esattamente, Cristo che, salito in cielo, si rivolge a coloro che sono rimasti sulla terra), del Giudizio finale e, soprattutto, della Pentecoste e di misteri analoghi36. Questo nuovo schema ebbe origine nell’arte nordica del xv secolo, come Kautzsch e Warburg hanno dimostrato37, e piú tardi raggiunse l’arte italiana; ad onta del mutamento di singoli elementi e di spostamenti d’accento, la sua composizione rimase immutata fino al xvii e al xviii secolo. Lo incontriamo per la prima volta, come serie completa, nelle illustrazioni dell’Epître d’Othéa di Christine de Pisan. Il dio planetario siede su una nuvola, con un’aureola di stelle intorno, come un vero sovrano celeste, e sotto di lui, sulla terra, vivono i suoi «figli»: nel caso di Venere amanti che innalzano i loro cuori come un sacrificio, nel caso di Saturno, uomini saggi riuniti a consesso. Il fenomeno di questo adattamento della scena della Pentecoste a fini secolari non è unico a quest’epoca. In una miniatura, della fine del xiv secolo, del Losbuch di Vienna troviamo un gruppo di saggi e patriarchi raccolti sotto una semisfera che contiene i sette pianeti38; e le illustrazioni realizzate intorno al 1400 per il De claris mulieribus del Boccaccio mostrano Giunone come un’apparizione celeste che si libra al di sopra dei suoi devoti, mentre Minerva forma, con gli artigiani suoi protetti, qualcosa come una mitologia delle «Arti liberali»39. Una fusione dello schema della Pentecoste secolarizzato con questa versione della rappresentazione delle «Arti liberali» conoscerà ulteriori sviluppi come è facilmente comprensibile. L’uso di uno schema religioso nelle illustrazioni dell’opera di Christine de Pisan fu reso piú facile dal fatto che i pianeti in questo caso hanno un significato esclusivamente positivo. Ognuno di essi rappresenta una particolare virtú, per cui l’assimilazione di queste immagi-

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ni a rappresentazioni come quella della Pentecoste appare abbastanza naturale. Inoltre, una volta che questo adattamento fu portato a compimento mediante la fusione col motivo delle «Arti liberali», lo schema poté accogliere il contenuto, assai diverso, dei soliti testi astrologici e dare cosí vita alla rappresentazione dei «figli dei pianeti» che è rimasta in uso per diversi secoli. Entro la linea generale di questa evoluzione ci sono state numerose rielaborazioni e modifiche. Cosí Saturno è stato rappresentato come un contabile e un aritmetico; come il dio degli scrigni, con in mano una chiave oltre che una falce; come un contadino che vanga; e anche come un cavaliere che reca nella sua insegna non solo la grande stella ma anche l’umile falce. La falce fienaia che impugna insieme alla falce comune, o al suo posto, può diventare una vanga o un piccone, e questi a loro volta possono diventare una stampella; e infine questo dio degli umili e degli oppressi viene ad avere una gamba di legno. Forse la curiosa posizione della gamba, che in qualche caso è stata copiata da certe fonti orientali, e perfino un ricordo inconscio del mito della castrazione di Crono, hanno avuto una loro parte in quest’ultima deformità. D’altra parte però gli artisti del xv secolo avevano già cominciato a dipingere Saturno a colori un po’ piú eroici, soprattutto in Italia, come era da aspettarsi. La serie fiorentina delle raffigurazioni dei «figli dei pianeti» è, per certi aspetti, analoga alle raffigurazioni dei «trionfi», cosí diffuse dopo Petrarca: Saturno appare come il re Tempo, con una falce fienaia, su un carro tirato dai «draghi del Tempo» che si mordono la coda. Nel Nord appare come un cavaliere, sul tipo di quelli che si vedono nelle scene di torneo. Infine nella Cronica figurata fiorentina appare in una forma umanistica vera e propria come il re latino che ha insegnato ai Romani l’agricoltura e ha fondato Sutri40.

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4. saturno nelle illustrazioni mitografiche del tardo medioevo. Nel frattempo però le illustrazioni mitografiche, di cui abbiamo visto un precoce ma isolato esempio nel manoscritto di Monaco41, tornarono in vita. Per quanto riguarda il contenuto, i testi mitografici di quest’epoca, cioè del xiv e xv secolo, sembra siano stati completamente «moralizzati»: le loro figurazioni allegoriche furono interpretate in senso cristiano. Invece le loro figurazioni pittoriche subirono l’influsso della nuova tendenza «realistica» che incoraggiava un’ambientazione contemporanea (le illustrazioni astrologiche, come si è visto, erano già state influenzate in questo senso rispetto ai loro modelli orientali). Cosí l’autore del Fulgentius metaforalis42 fa di Saturno il simbolo della sapienza. Però nelle illustrazioni di questo testo Saturno appare come un sovrano in trono, con la regina a fianco, in costume quattrocentesco, mentre intorno sono rappresentate le varie scene della sua vita (che uno spirito delicato in genere trova incresciose). L’autore medievale poteva prendere anche scene disgustose come argomento di esortazione morale, perché per lui il vero significato non stava nell’immagine in sé, ma nel suo senso allegorico43. La serie piú importante di illustrazioni di questo tipo è il ciclo di immagini trecentesche che ornano la traduzione francese del De civitate Dei di sant’Agostino, cui possiamo aggiungere le illustrazioni dell’Ovide moralisé, che risultano anche piú significative. In entrambe le serie Saturno è fornito di attributi e inserito in contesti che non avevano avuto, e non potevano avere, alcuna rilevanza astrologica. Nelle illustrazioni della Cité de Dieu Saturno, in ricordo del suo lungo e difficile viaggio verso il Lazio, appare come un solenne vecchio che tiene in mano una nave o un albero di nave44. Invece,

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nella prima versione dell’Ovide moralisé francese, nella quale le immagini dei grandi dèi pagani figurano come illustrazioni di contro al frontespizio di ogni libro, egli viene ancora una volta messo in relazione coi «draghi del Tempo»45; soprattutto la scena di Saturno che divora i suoi figli, mai rappresentata prima, nemmeno nell’antichità, è resa qui in tutta la sua crudezza, allo stesso modo che la nascita di Venere dal membro castrato compare nelle illustrazioni già ricordate del Fulgentius metaforalis. Vediamo il dio mentre porta alle labbra il bimbo, mentre affonda i denti nel suo braccio, o dopo che ne ha già divorato la testa. Si osserva qui l’implacabile malvagità del dio, Moloch che divora i suoi figli; e l’insostenibile crudezza della scena è mitigata solo dal testo che accompagna l’immagine, nel quale si cerca di interpretarla allegoricamente. Questi motivi sono elaborati nelle illustrazioni dell’introduzione di Bersuire all’Ovide moralisé latino, e anche in quelle del Libellus de imaginibus deorum46, che fu tratto dalla stessa introduzione. Le descrizioni che ricorrono in quest’opera piú tardi trovarono posto in innumerevoli raffigurazioni sia nel Nord che nel Sud47. Il tema del vecchio che divora il bambino passò dall’arte mitografica nelle raffigurazioni dei pianeti e dei loro «figli» (nella tav. 48 addirittura combinato col tema della castrazione!) e piú tardi divenne un elemento tipico di tali raffigurazioni48.

5. saturno nell’umanesimo. La grande varietà di tipi che si sviluppò dal xiv secolo in poi dimostra che, dopo la stasi quasi completa dell’epoca precedente, era iniziata ora una vera rinascita degli dèi antichi, e che una ri-creazione schiettamente umanistica (cioè una considerazione consapevolmente

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«classica» di essi) era non solo possibile ma in certa misura necessaria. Questo è stato particolarmente vero per Saturno. Vedremo piú avanti il significato che assunse questi, che certo era il piú sinistro degli dèi, nell’umanesimo italiano; ma fin da ora possiamo osservare come le precedenti raffigurazioni del povero contadino, del malvagio divoratore di bambini, dell’abile aritmetico, o perfino del trionfale dio del Tempo o del nobile fondatore di città, non potessero soddisfare le esigenze di una cultura in cui gli dèi antichi erano tornati ad essere vere e proprie divinità. Il Rinascimento italiano voleva un’immagine di Saturno che compendiasse in se non solo i due aspetti della natura saturnina, quello malvagio e cupo e quello sublime e profondamente contemplativo, ma anche rivelasse quella forma «ideale» che sembrava raggiungibile solo tornando ad esempi autenticamente classici. Questa riabilitazione umanistica di Saturno avvenne, intorno al 1500, in uno dei centri piú importanti della cultura italiana, la città che è stata la patria del vecchio Bellini, del giovane Giorgione e di Tiziano. L’umanesimo arrivò tardi all’arte veneziana, ma dopo gli ultimi anni di Jacopo Bellini si può parlare di una tendenza nettamente umanistica. Nei libri di schizzi che Jacopo lasciò alle generazioni successive troviamo una singolare raccolta di disegni archeologici. Egli non solo fece schizzi di opere dell’antichità, che potessero servire all’uno o all’altro artista come modelli o come ispirazione per il loro lavoro, ma ci ha anche conservato iscrizioni di nessun valore artistico e nemmeno storico, come quelle sulla tomba di una cucitrice49. C’era quindi un diffuso interesse archeologico e umanistico per l’antichità, che permise al genero di Jacopo, Mantegna, agli inizi della sua carriera, di servirsi di uno dei disegni di questo taccuino quando dipinse gli affreschi della Cappella degli Eremitani50; e che toccò il suo apice nel Trionfo di

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Cesare dello stesso Mantegna. D’altra parte lo stesso Jacopo, contemporaneo di Donatello, sembra che sia stato ben poco toccato dal classicismo nei suoi disegni e dipinti che non sono di soggetto classico. Egli resta un vero pittore tardo-gotico, con un interesse spiccato e niente affatto umanistico per i paesaggi, gli alberi, i fiumi, i ponti, gli uccelli e le montagne della sua terra. Cosí l’opera del piú anziano dei Bellini contiene in sé le due distinte tendenze che, combinandosi, assicureranno alle opere del Rinascimento veneziano il loro particolare carattere: opere come le ricostruzioni dei quadri descritti da Filostrato del giovane Tiziano, nelle quali si vedono figure bacchiche e figli di Venere composti in un ritmo antico ambientato nel paesaggio nativo e raffigurante statue di Venere in parchi patrizi, combinano l’umanesimo archeologico con i modi veneziani contemporanei. I quadri di Tiziano per Alfonso I d’Este rappresentano appunto il culmine di questo stile. L’incisione di Giulio Campagnola raffigurante Saturno e un’altra testimonianza, ancorché modesta, di questo movimento51. Si tratta di un’opera giovanile dell’artista, che firma col nome dotto di «Antenoreus», cioè come fosse discendente di quell’Antenore che era venuto da Troia nella provincia veneta e si diceva avesse fondato Padova. Forse perché opera di una personalità meno forte, le tendenze dell’epoca vi si vedono, per molti rispetti, in modo particolarmente chiaro. In primo piano, Saturno è sdraiato a terra, e accanto alla figura si vedono delle strane rocce e un tronco d’albero. In secondo piano, sulla destra, c’è un boschetto dalla fronda alta e cespugli al suolo. Lo sfondo è occupato da una città fortificata in riva al mare, sul quale veleggia una nave. È sorprendente quanto siano tenui i legami intrinseci tra la figura del dio in primo piano, la parte intermedia, «moderna», e lo sfondo. Né lo sfondo né il tronco d’albero sulla sinistra sono inven-

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zioni originali del Campagnola; sono infatti ripresi da due diverse incisioni di Dürer. Probabilmente l’artista sarebbe stato capace di trarre questi particolari da Dürer collegandoli però alla figura principale in modo da non lasciare scorgere alcuna disorganicità nell’immagine. Invece qui si ha l’impressione che si sia proposto proprio una sorta di dualismo. Era infatti corrente nella tradizione storica dell’arte veneziana dopo Jacopo Bellini considerare i monumenti antichi con distacco archeologico, collocandoli nel contempo in un ambiente «moderno» che ne accentuasse la lontananza. La figura del dio è strana, come lo è il suo nome e tutto quanto il contorno convenzionale; tuttavia essa compare nel presente, tra oggetti della vita di ogni giorno. Il corpo sulla nuda terra ha l’aspetto di una statua, però la mano sinistra si protende gentilmente verso la canna come la mano di una persona viva, lo sguardo è rivolto pensosamente di lato, le sopracciglia sono corrugate. Certamente non c’è nulla di statuario nel piede o nella canna, però come appaiono lontane dalla vita le pieghe a tutto tondo del panneggio rispetto alle pietre del suolo! Forse l’impressione che provoca questa figura si può definire nel modo migliore dicendo che sembra l’apparizione di un dio dell’antichità nella vita moderna. Sotto questo aspetto il Campagnola è un tipico veneziano del Quattrocento, che ha studiato l’antichità dal punto di vista archeologico e l’ha collegata al presente senza tuttavia mai riportarla veramente in vita, come invece farà Tiziano solo qualche anno dopo. Sembra che si possa perfino individuare il preciso modello del Campagnola, dato che la sua incisione chiaramente deriva dalla figura del dio fluviale o marino (l’interpretazione non è ancora sicura) dell’arco di trionfo di Benevento52. Il Saturno del Campagnola ha in comune con questa divinità lo sguardo di lato e la testa piegata, elementi che entrambi si possono veramente spiegare solo entro la composizione

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complessiva dell’arco. Anche il ceppo d’albero è un ricordo visivo dell’urna, che però è alquanto indistinta; l’attributo della canna si può probabilmente spiegare col fatto che, nel rilievo, le canne che crescono dietro la figura si confondono col simbolo, ora irriconoscibile, che il dio tiene nella mano destra e, cosa ancora piú importante, il panneggio fluente del dio di Benevento, insieme al singolare copricapo, da tuttora l’impressione che la sua toga fosse tirata sulla testa nel modo classico del caput velatum. Questa strana combinazione di caratteristiche apparenti e caratteristiche reali della natura melanconica e saturnina (mano che sorregge la testa, testa apparentemente coperta dalla toga) potrebbe benissimo aver fornito al Campagnola, che, come sappiamo, era animato da un vivo gusto archeologico, una ragione per interpretare la figura dell’arco di Benevento come Saturno, o almeno di utilizzare la figura come Saturno. Certamente egli riteneva Saturno una divinità che, a parte gli altri attributi, aveva un qualche particolare rapporto con l’acqua: lo dimostra il simbolo della canna e il paesaggio marino sullo sfondo. Questa concezione, inoltre, può basarsi su quei testi che definiscono Saturno accidentaliter humidus e dicono che ha viaggiato per molti mari, attribuendogli la protezione di coloro che vivono vicino al mare: per questi testi la maggiore autorità è il famoso astrologo dell’Italia settentrionale Guido Bonatti53. C’era anche il fatto che, dal Medioevo in poi, la gente si era abituata a immaginare Saturno così: nei Mirabilia romani una delle due antiche divinità fluviali che stavano davanti alla sede del Senato era scambiata per una statua di Saturno54. Il particolare significato dell’incisione, il cui paesaggio, come abbiamo visto, utilizza largamente motivi delle incisioni giovanili di Dürer, non sta tanto nella sua possibile influenza sulla düreriana Melencolia I55 (il cui paesaggio di fondo può benissimo essere stato ispirato dal Campagnola) quanto nel

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fatto che qui per la prima volta è stato creato un nuovo Saturno, umanistico e idealizzato. A tal punto che, in effetti, artisti immediatamente successivi al Campagnola sono tornati alla concezione piú usuale, o, come Girolamo da Santacroce, tralasciando i motivi antichi, ma conservando la concezione d’insieme e vestendo Saturno come un vecchio contadino56; o ancora, come Lorenzo Costa, trasformando il Saturno antico, raffigurato nell’atteggiamento mesto di un dio fluviale, in un san Girolamo cristiano immerso nella meditazione57. La forma del Crono classicamente idealizzato del Campagnola poteva essere trasportata in mondi anche piú lontani dalla realtà, nei quali il dio rivestito di panneggi classici era munito di ali; e cosí, come già sulle pietre tombali orfiche e mitraiche della fine dell’epoca classica, venne ad acquistare il particolare carattere di dio del tempo. Da Crono, che solo incidentalmente aveva il carattere di dio del tempo, rinacque Cr’noj, il cui compito essenziale era la fatale distruzione di tutte le cose terrene, insieme al ristabilimento della verità e alla conservazione della fama. In quest’ultima trasformazione divenne un elemento quasi essenziale per le allegorie marmoree nelle tombe e per i frontespizi didattici di molti libri che trattavano del passato caduto in rovina eppure ricordato58. Anche nell’aspetto esterno le immagini di questo risorto Saturno-Cr’noj spesso somigliano al Cr’noj, AáÎn o Kair’j della tarda antichità59; però non si sa con sicurezza se effettivamente derivi da essi. Sembra piuttosto che l’immagine di Saturno alato si sia formata là dove si poteva stabilire un rapporto spontaneo tra la divinità contadina e l’allegoria del Tempo: cioè nelle illustrazioni del Trionfo del Tempo di Petrarca60. Petrarca fa apparire il Tempo in congiunzione col sole, però non fornisce agli illustratori altre indicazioni. Questi ultimi quindi, nelle rappresentazioni del trionfo, sono ricorsi a Saturno (che non è menzionato

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nel testo) come personificazione del Tempo e hanno cercato di rendere esplicito questo significato assegnandogli l’attributo di una clessidra61, o, in certi casi, di uno zodiaco. Soprattutto, però, hanno idealizzato la forma tradizionale, prerinascimentale, del dio campestre aggiungendogli le ali. In questo modo lo hanno acconciato come una vera personificazione del tempo, completandone l’immagine con un elemento nuovo e, secondo la concezione medievale, assolutamente non saturnino, che appare derivato da una tradizione artistica puramente allegorica: lo si vede, ad esempio, in un’allegoria del Tempo del 1400 circa62. Questo processo trova conferma in alcune illustrazioni italiane a Petrarca del xv secolo, nelle quali Saturno, che personifica il Tempo, sta in piedi, come la figura della miniatura francese, con le braccia che pendono simmetricamente ed è dotato di quattro ali che rappresentano le quattro stagioni63. Questa combinazione umanistica di Saturno e Cr’noj, una volta giunta a compimento, diede l’avvio a un’evoluzione inversa, cioè a un ritorno alle antiche figure di Cr’noj, Kair’j e AáÎn. Ne venne la figura familiare del dio del Tempo nudo: una figura idealizzata di vecchio con le ali, che, per quanto sia abbastanza comune in epoche successive, di fatto deve la sua esistenza a una serie assai complicata e varia di avvenimenti64.

f. cumont, Textes et monuments figurés relatifs aux mistères de Mithra, Bruxelles 1896-99, vol. I, pp. 74 sgg.; vol. II, p. 53. Il Mythographus III (I, 6-8), cosa significativa, non parla di ali nella sua descrizione dell’Aion mitraico. 2 eusebio, Praeparatio Evangelica, I, 10, 39; cfr. p. 201. Per le monete fenicie da Biblo, cfr. f. imhoof-blumer, Monnaies grecques, in «Verhandelingen d. k. Akademie van Wetenschapen Amsterdam Afd. Letterkunde», xiv, 1883, p. 442. 3 Cfr. la voce «Kronos» in roscher, Ausführliches Lexicon der griechischen und römischen Mythologie cit., vol. II, coll. 1549 sgg., di Maxi1

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia milian Mayer; e la voce di M. Pohlenz, in paulywissowa, vol. XI, 1922, coll. 2014 sgg. La falce era interpretata variamente anche dagli antichi; secondo alcuni simboleggiava la funzione di Saturno come dio della Terra, secondo altri il mito della mutilazione di Urano da parte di Crono. 4 Per questo tipo e i suoi derivati orientali, cfr. f. saxl, in «Der Islam», in, 1912, p. 163. Esiste un’analoga raffigurazione di Venere sopra il suo segno zodiacale dell’Ariete su una tessera proveniente da Palmira, pubblicata da m. i. rostovtzeff, in «Journal of Roman Studies», vol. XXII, p. 113, tav. xxvi, 3 (senza spiegazione dell’immagine). 5 Ora a Napoli, Museo Nazionale. p. herrmann, Denkmäler der Malerei des Altertums, München 1904-31, tav. 122, testo p. 168. 6 Rilievo dell’Ara Capitolina. g. w. helbig, Führer, I. 3a ed., p. 485. Riprodotto in s. reinach, Répertoire des reliefs grecs et romains, vol. III, Paris 1912, 201. 7 Riprodotto in roscher, Ausführliches Lexicon der griechischen und römischen Mythologie cit., vol. II, col. 1562. 8 Il prototipo greco sopravvive in copie piú tarde nel Vat. graec. 1087, fol. 301v; per questa immagine in manoscritti latini, cfr. g. thiele, Antike Himmelsbilder, Berlin 1898, pp. 130 sgg. 9 Leida, Bibliotheek der Rijksuniversiteit, Cod. Voss. lat. q. 79. 10 j. strzygowski, Die Calenderbilder des Chronographen vom Jahre 354, in «Jahrbuch des kaiserlich deutschen archäologischen Instituts», supplemento I, Berlin 1888, tav. x. In epoca piú recente (benché non in modo convincente per quanto riguarda l’esclusione di una fase intermedia carolingia tra l’originale postclassico e le copie rinascimentali pervenuteci), cfr. c. nordenfalk, Der Kalender vom Jahre 354 und die lateinische Buchmalerei des 4. Jahrbunderts («Göteborgs kungl. Vetenskapsoch Vitterhets-Samhälles Handlingar, 5. Földjen», ser. A., vol. V, 2, 1936, p. 25). 11 Per il codice di Germanico, Leiden, Voss. lat. q. 79, e la copia di Boulogne, Bibl. Municip., Ms 188, cfr. thiele, Antike Himmelsbilder cit., pp. 138 sgg. Un modello simile fu utilizzato dal miniaturista del Vat. Reg. lat. 123, riprodotto in saxl, Verzeichnis, vol. I, tav. 5, fig. 11. La figura nel Reg. lat. 123 che mostra Saturno in abiti medievali, con il capo coperto e una lunga falce, probabilmente si fonda essenzialmente su descrizioni, non sulla tradizione pittorica. Però questo non sembra escludere la possibilità che vaghe reminiscenze di modelli antichi siano presenti anche in questa raffigurazione. 12 Miniature sacre e profane dell’anno 1023.... ed. A. M. Amelli, Montecassino 1896, tav. cviii; cfr. rabano mauro, De universo, libro XV: «Falcem tenet (inquiunt), propter agriculturam significandam» (migne, PL, CXI, 428).

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia Cfr. e. panofsky e f. saxl, in «Metropolitan Museum Studies», vol. IV, 2, 1933, p. 250, nota 3. 14 Cod. Vat. graec. 1087. 15 Milano, Biblioteca Ambrosiana, Cod. E. 49/50 inf., in a. martini e d. bassi, Cat. Cod. Gr. Bibl. Ambr., Milano 1906, vol. II, pp. 1084 sgg. Dobbiamo la conoscenza di questo manoscritto come pure del manoscritto di Gerusalemme citato sotto, al professor A. M. Friend. Le fotografie qui riprodotte ci sono state messe cortesemente a disposizione da Kurt Weitzmann. Cfr. a. grabar, Les miniatures du Grégoire de Nazianze de l’Ambrosienne, Paris 1943, tav. 71; k. weitzmann, Greek Mythology in Byzantine Art, Princeton 1951, p. 38. 16 migne, PG, XXW, 660. 17 Parigi, Bibl. Nat., Ms Coislin 239 (cfr. h. omont, Les miniatures des plus anciens manuscrits grecs de la Bibliothèque Nationale, Paris 19292, tav. cxviii, nn. 14 sgg.); Gerusalemme, Bibl. Patr. Grec., Cod. Taphou 14, Athos Panteleimon, Cod. 6. Di questi il manoscritto dei Monte Athos è il piú antico e il migliore, senza che per questo sia necessariamente il piú vicino al tipo originario. 18 Per la scena della pietra che viene offerta a Saturno, cfr. p. 185. Per la scena con i coribanti, cfr. reinach, Répertoire des reliefs cit., vol. II, p. 280; e vol. III, p. 201. Anche la miniatura riprodotta in omont, Les miniatures des plus anciens manuscrits grecs de la Bibliothèque Nationale cit., fig. 14, raffigura l’episodio della pietra data a Saturno, non quello di Giove affidato a un’ancella; la figura interpretata da Omont come una ragazza, in origine era barbuta. 19 Questi sono: Venezia, Biblioteca Marciana, Cod. gr. 479; Parigi, Bibl. Nat., Mss gr. 2736 e 2737 (cfr. a. w. byvanck, in «Mededeelingen van het Nederlandsche Histor. Instituut te Rome», v, 1925, pp. 34 sgg.). È interessante notare come il Ms gr. 2737, fol. 35, scritto da Ange Vergèce nel 1554, riempia il posto del Saturno che manca nella miniatura dei coribanti (Parigi, Bibl. Nat., Ms 2736, fol. 24) con una raffigurazione presa da un modello, occidentale. 20 Monaco, Staatsbibliothek Ms lat. 14 271. 21 Cfr. e. panofsky e f. saxl, in «Metropolitan Museum Studies», iv, 2, 1933, pp. 253 sgg. e fig. 39. 22 Cfr. f. saxl, in «Der Islam», iii, 1912, pp. 151 sgg. 23 Questo esempio dei manoscritti di Abû Ma‘∫ar non è un caso isolato. In una geomanzia scritta per il re Riccardo II, Oxford, Ms Bodley 581, troviamo anche il Saturno orientale con un piccone. 24 Parigi, Bibl. Nat., Ms lat. 7330 (metà del xiii secolo, però presuppone un precedente modello del xii secolo). 25 Cfr. bbg, Sternglaube, p. 148. La Pierpont Morgan Library possiede un manoscritto turco dello stesso gruppo, Ms 788. 26 Foll . 74v sgg . 13

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia In f. saxl, h. meier e h. bober, Catalogue of Astrological and Mythological Illuminated Manuscripts of the Latin Middle Ages, vol. III: Manuscripts in English Libraries, London 1953, pp. lxiii sgg. 28 Londra, Brit. Mus., Ms Sloane 3983 e New York, Pierpont Morgan Library, Ms 785 (miniato a Bruges poco prima del 1400). 29 Nelle raffigurazioni della Luna l’influenza orientale divenne talmente forte che mentre è ancora rappresentata come Diana nel manoscritto di Parigi, Bibl. Nat., Ms lat. 7330 (foll. 58v sgg.), figura come un uomo, come il Sin antico orientale, nel Brit. Mus., Ms Sloane 3983, e in quelli che ne derivano. 30 Per l’attribuzione dell’opera a un aiuto di Guariento, cfr. l. coletti, Studi sulla pittura del Trecento a Padova, in «Rivista d’Arte», xii, 1930, pp. 376 sgg. 31 l. dorez, La canzone delle virtú e delle scienze di Bartolomeo di Bartoli da Bologna, Bergamo 1904, p. 84. 32 La figura maschile col secchio d’acqua è evidentemente l’Acquario, una delle «case» di Saturno. Che fosse raffigurato cosí in Oriente si può vedere sullo strumento astronomico islamico di proprietà del principe Öttingen-Wallerstein riprodotto in «Der Islam», iii, 1912, tav. 7, fig. 13; ivi, pp. 156 sgg., i testi. 33 Oxford, Ms Bodl. or. 133. 34 Ad esempio, Parigi, Bibl. Nat., suppl. turc. 242, e New York, Pierpont Morgan Library, Ms 788. 35 a. barzon, I cieli e la loro influenza negli affreschi del Salone in Padova, Padova 1924. 36 e. panofsky e f. saxl, in «Metropolitan Muscum Studies», iv, 2, 1933, p. 245. 37 warburg, Gesammelte Schriften cit., vol. I, pp. 86 e 331. 38 Cfr. a. stange, Deutsche Malerei der Gotik, vol. II, Berlin 1936, fig. 33. La data supposta dallo Stange sembra un po’ troppo precoce. 39 Cfr. le raffigurazioni di Giunone nel manoscritto di Parigi, Bibl. Nat., Ms fr. 598, fol. 12; Ms fr. 12 420, fol. 11; Bruxelles, Bibl. Royale, Ms 9509, fol. 12v; di Minerva, Parigi, Bibl. Nat., Ms fr. 598, fol. 13; Ms fr. 12 420, fol. 13v; Bruxelles, Bibl. Royale, Ms. 9509, fol. 13. Per le raffigurazioni delle arti, cfr. pp. 287 sgg. 40 s. colvin, A Florentine Picture-Chronicle, London 1898, tav. 30. 41 Monaco, Staatsbibliothek, Ms lat. 14 271. 42 liebeschütz, Fulgentius metaforalis cit., pp. 71 sgg. 43 Cfr. warburg, Gesammelte Schriften cit., vol., II; pp. 627 sgg. 44 Cfr. a. de laborde, Les manuscrits à peintures de la Cité de Dieu, Paris 1909, vol. I, pp. 198-199; vol. II, pp. 322, 367, 385, e tav. xxivb. 45 Come nel codice di Monaco, Staatsbibliothek Ms lat. 14 271. 46 warburg, Gesammelte Schriften cit., vol. II, pp. 453 sgg., 462, 471, 485 sgg. 27

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia Le raffigurazioni fantastiche dei pianeti nei manoscritti di Scoto sono una sintesi di tradizione pittorica astrologica e mitologica (l’origine di questo tipo di Saturno, con scudo ed elmo, è trattata in e. panofsky e f. saxl, in «Metropolitan Museum Studies», iv, 2, 1933, pp. 242 sgg.). Il tipo di raffigurazione planetaria che si trova in Scoto diviene la forma d’illustrazione prevalente nei manoscritti astrologici dal xiv secolo in poi, salvo che nel xv secolo queste raffigurazioni divengono «umanistiche» in una forma curiosa mediante la reintroduzione dello stile del Calendario del 354, trasmesso da modelli carolingi (cfr. Darmstadt, Cod. 266, riprodotto in panofsky e saxl [loc. cit.], p. 266; Salisburgo, Cod. V 2 G 81/83; e Cod. Vat. Pal. lat. 1370). Analogamente, abbiamo le copie dei manoscritti carolingi di Rabano Mauro eseguite nel xv secolo, la ripresa di interesse per le illustrazioni carolingie di Terenzio (anch’essa descritta da panofsky e saxl, loc. cit.), le copie della Notitia dignitatum, ecc. Un parallelo in certo senso a questo proto-Rinascimento si può scorgere nel Nord nel fatto che le divinità planetarie nell’arte nordica del xv secolo sono raffigurate di regola come figure in piedi nude, memori in qualche modo del tipo classico dei rilievi romani rappresentanti le divinità della settimana, benché non si possa dimostrare alcuna influenza diretta. Nel Medioevo avanzato le divinità planetarie nude compaiono, per particolari ragioni, nel caso eccezionale delle illustrazioni provenzali ai Breviari d’Amor di Matfre Ermengaud (cfr., ad esempio, le immagini di Saturno a Parigi, Bibl. Nat., Ms fr. 9219, fol. 33, o a Londra, Brit. Mus., Ms Harley 4940, fol. 33). 48 Nel rilievo del campanile di Firenze Saturno, esattamente come nel manoscritto dell’Ovide moralisé (Parigi, Bibl. Nat., Ms fr. 19 121), tiene diritto il bambino che sta divorando, però invece del drago del Tempo tiene una ruota del Tempo, che è evidentemente un’innovazione umanistica. 49 c. ricci, Jacopo Bellini e i suoi disegni, vol. I, Firenze 1908, tav. 51; Corpus inscriptionum latinarum, vol. V, 2542. 50 Cfr. ricci, Jacopo Bellini cit., p. 70. 51 g. f. hartlaub, Giorgione und der Mythos der Akademien, in «Repertorium für Kunstwissenschaft», xlviii, 1927, pp. 253 sgg. 52 L’arco può averlo conosciuto attraverso una stampa (o un disegno) sul tipo di quello pubblicato da s. reinach, La plus ancienne image gravée de l’arc de Bénévent (Mélanges Bertaux, Paris 1924, pp. 232-35, tav. xiv); a. m. hind, Early Italian Engraving, vol. I, London 1938, p. 285. 53 Cfr. p. 177. 54 Mirabilia Romae, ed. G. Parthey, Berlin 1869, p. 24. 55 Cfr. pp. 271 sg., e p. 304, nota 10. 56 g. fiocco, I pittori da Santacroce, ne «L’Arte», xix, 1916, p. 190. 47

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia Già a Berlino, Collezione Kaufmann; riprodotto in a. venturi, Storia dell’arte italiana, vol. VII, 3, Milano 1914, p. 812, fig. 600. 58 Come si vede nella ristampa fatta ad Amsterdam, col titolo Eigentlyke Afbeeldinge van Hondert der Aldervermaerdste Statuen, of Antique-Beelden, Staande binnen Romen, di un’opera di François Perrier che era apparsa a Roma nel 1638 col titolo notevole di Segmenta nobilium signorum et statuarum quae temporis dentem inuidium [sic] euasere. 59 Per questo, cfr. a. greifenhagen, Die Antike, vol. XI, Berlin 1935, pp. 67 sgg. 60 Da f.-v. massena d’essling e e. müntz, Pétrarque..., Paris 1902, tav. di contro a p. 148. 61 Questo motivo si affermò piú tardi nelle raffigurazioni rinascimentali e barocche della Morte, e divenne un simbolo dell’instabilità e in genere del memento mori. 62 Cfr. panofsky, Hercules am Scheidewege cit., p. 4, tav 5. 63 Riprodotte in massena d’essling e müntz, Pétrarque cit., p. 167. Piú tardi il motivo del figlio divorato o minacciato penetrò nelle illustrazioni a Petrarca (cfr., ad esempio, un arazzo proveniente da Madrid, descritto ibid., p. 218, e una stampa di Jörg Pencz, riprodotta ibid., p. 262, nonché in una xilografia che figura ne Il Petrarca con l’Espositione d’Alessandro Vellutello, Venezia 1560, fol. 263v). Solo di rado, però, è stata utilizzata l’idea, suggerita dal testo, di identificare il Tempo col sole; cfr. massena d’essling e müntz, Pétrarque cit., p. 219, o la xilografia de Il Petrarcha con l’Espositione di M. G. Gesvaldo, Venezia 1581, fol. 407, nella quale però il dio alato del tempo segue dietro il carro del sole. 64 Talvolta anche riprendendo i piedi alati tipici del Kair’j classico (cfr., ad esempio, f. saxl, «Veritas filia Temporis», in Philosophy and History. Essays presented to E. Cassirer, ed. R. Klibansky e H. J. Paton, Oxford 1936, p. 197, fig. 4). greifenhagen, Die Antike cit., vol. XI, pp. 67 sgg., studia altre imitazioni rinascimentali degli antichi tipi di Kair’j e Cr’noj, in certi casi addirittura sviluppatisi dal tipo di Cupido legato e condannato a lavorare con una gravina, come nelle figg. 13 e 14, che, per inciso, sono derivate dal Cartari. Come era da aspettarsi questa raffigurazione medio- e tardo-rinascimentale si fonda interamente sul tipo a due ali. L’unica eccezione è la figura illustrata in v. cartari, Le Imagini de i dei degli antichi, Padova 1603, p. 32, e Venezia 1674, p. 19, che ha quattro ali sulle spalle e due sulla testa, e che, come il Cartari afferma esplicitamente, si è sviluppata da una descrizione del Saturno fenicio che si ha in Eusebio (cfr. p. 184). 57

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parte quarta

Dürer

Capitolo primo La melanconia in Conrad Celtis La xilografia di Dürer sul frontespizio dei Quattuor libri amorum di Celtis. La dottrina dei temperamenti negli scritti di Dürer

Le lettere del Ficino, da cui sono stati desunti i fatti esposti sopra, furono pubblicate in Germania nel 1497 dal padrino di Dürer, Koberger, solo tre anni dopo la pubblicazione, a Firenze, della loro prima edizione; anche il De vita triplici fu conosciuto in Germania sul finire del xv secolo1. Sarebbe però erroneo supporre che la nuova concezione della melanconia si sia imposta immediatamente. È ovvio che fino ad epoca moderna inoltrata, la concezione popolare dei temperamenti rimase condizionata molto piú dalla tradizione medica che dalle nuove, rivoluzionarie teorie metafisiche, che solo gradualmente influenzarono le idee popolari, quando ormai le concezioni dei neoplatonici fiorentini erano divenute parte integrante della cultura generale. Ma gli stessi umanisti erano troppo legati all’umoralismo e all’astrologia tradizionali perché la nuova dottrina potesse imporsi senza incontrare opposizione. Perfino in Italia, dove pure la riabilitazione di Saturno e della melanconia aveva avuto origine, e dove uomini come Gioviano Pontano, Celio Rodigino e Francesco Giorgio (usando per lo piú le parole del Ficino stesso) abbracciarono senza riserve il nuovo vangelo2, resistette ancora l’idea che Saturno fosse un pianeta esclusivamente infausto3 e che potesse generare grandi talenti solo se, come un veleno, temperato in giusta misura con altri pianeti. Nel

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Nord in particolare, dove il libro III del De vita triplici parve dapprima «incomprensibile»4, solo Agrippa di Nettesheim adottò integralmente le idee del Ficino. Gli altri umanisti tedeschi della prima generazione in qualche caso citavano il Problema XXX, i di «Aristotele»5, benché senza particolare rilievo, o anche facevano la solita concessione che Saturno, in combinazione con Giove, «accresce in sommo grado l’ingegno e fa diventare inventori di certe arti»6; ma perfino Conrad Celtis, che in genere mostra una mentalità cosí umanistica, sembra non essere stato affatto influenzato dalle concezioni fiorentine. Per quanto riguarda la melanconia, egli aderiva completamente alle idee consuete della medicina delle scuole7, e Saturno per lui non era che una fonte di sciagure, che produceva uomini tristi, sofferenti e «monacali», e che bisognava implorare perché lasciasse inoperose le sue «morbosas sagittas» nella faretra8. Se nel Nord perfino gli umanisti non riuscivano affatto a rompere con la tradizione medievale, oppure riuscivano a farlo solo gradualmente e a metà riluttanti, a priori dobbiamo aspettarci altrettanto da un artista tedesco come Dürer, tanto più che egli si trovò per la prima volta di fronte al problema delle quattro complessioni in una xilografia che serviva allo stesso Celtis come frontespizio dei suoi Libri amorum, pubblicati nel 1502; e in effetti il contenuto di questa xilografia non rivela alcuna influenza della nuova dottrina. Egli adotta uno schema compositivo che si può far risalire alle immagini classiche dei quattro venti, come si vedono ad esempio nella Tabula Bianchini, tramite le raffigurazioni medievali di Cristo circondato dai simboli dei quattro Evangelisti9, giú giú fino alle immagini didattiche dei tardi scolastici, uno schema che altri prima di lui avevano utilizzato per i quattro temperamenti10. Seduta in trono al centro, egli raffigura la Filosofia, col capo incoronato e (seguendo Boezio) munita di una scala artium11.

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La Filosofia è circondata di una ghirlanda composta di ramoscelli di quattro diversi tipi di piante, che sono legati da medaglioni contenenti busti di filosofi; gli angoli della pagina sono occupati dalle teste dei quattro venti. Ognuno di questi e attentamente differenziato sia come età che come carattere; e (come si può vedere da fonti piú antiche e dal testo di Celtis) ognuno simboleggia uno dei quattro elementi e uno dei quattro temperamenti, nonché una delle quattro stagioni. Zefiro, il vento dell’Ovest, la cui testa giovanile, idealizzata, emerge dalle nubi e dalla cui bocca spuntano fiori, significa l’aria, la primavera e l’uomo «sanguigno». Euro, il vento dell’Est, una testa virile circondata dalle fiamme, significa il fuoco, l’estate e l’uomo «collerico». Austro, il vento del Sud, rappresentato da un uomo in età piú avanzata e gonfio, che fluttua tra onde e scrosci di pioggia, significa l’acqua, l’autunno e l’uomo «flemmatico». Infine Borea, il vento del Nord, un vecchio magro e calvo, significa la terra, l’inverno (di qui i ghiaccioli) e l’uomo «melanconico». Lo schema cosmologico che sta alla base di questa xilografia è vecchio quanto lo schema della sua composizione, e un confronto con l’ordine adottato, per esempio, da Antioco di Atene12, rivela che è stato semplicemente adattato in modo da rispondere all’epoca e al luogo: cioè c’è stata un’inversione delle parti tra Borea e Austro. L’autunno, freddo e asciutto nel Sud è quindi assegnato, nelle fonti classiche, a Borea, alla terra e alla bile nera, sembrava nel Nord rispondere molto meglio alla natura fredda e umida di Austro, dell’acqua e del flegma; mentre l’inverno, nei paesi nordici caratterizzato molto piú dal gelo che dalla pioggia, come invece nel Sud (l’«hiems aquosa», cfr. Egloga X, i, 66), sembrava corrispondere a Borea, alla terra e al melanconico13. Cosí Borea, nella sua nuova posizione, è divenuto l’elemento senile del ciclo e per noi costituisce la prima prova della

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nozione che Dürer aveva dello stato melanconico. Questa nozione non è in nulla diversa da quella della tradizione medievale; negli occhi infossati e nei tratti grinzosi di questo vecchio calvo, dal naso affilato, magro, c’è piú stizza di misantropo e meschina astuzia che sublime tristezza e meditata riflessione. Caratteristiche che contrastano con il florido buon umore del flemmatico, il vigore ardente del collerico e la giovanile freschezza del sanguigno, in una forma che ci è familiare da centinaia di testi popolari sulle complessioni. Il melanconico ha viso triste, è avido e pieno di avarizia, non gli si deve chiedere grazia, non è incline mai a far bene, astuzia lo diede a balia a imbroglio e inganno; di parlar bene non è mai capace, ma cercate altrove qualcuno che lo faccia14.

Non sorprende che una dottrina dei quattro temperamenti divulgata in tanti testi, immagini e versi, debba essere sembrata altrettanto ovvia e vincolante a un uomo del xvi secolo che, per esempio, la nozione preeisteiniana dell’universo agli uomini di epoche piú recenti; e infatti Dürer non l’ha mai esplicitamente rinnegata. Anche nei Vier Bücher menschlicher Proportion (Quattro libri della proporzione umana), quando ormai da tempo aveva familiare la nozione della melanconia proposta dal neoplatonismo fiorentino, egli ha caratterizzato l’immagine di un saturnino come «infedele» (mentre il figlio di Venere «dovrebbe apparire dolce e grazioso»)15; e le sue successive osservazioni sulle complessioni si discostano di poco da ciò che si poteva dedurre da una qualunque concezione popolare dei temperamenti, in particolare l’idea che le differenze individuali tra gli uomini

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dipendessero, se non del tutto almeno per la maggior parte, dal fatto di appartenere a una delle quattro complessioni16, e che queste per parte loro erano equivalenti a una natura «infuocata, o aerea, o acquatica o terrestre», ed erano condizionate dall’influenza dei pianeti. Le annotazioni di Dürer superano il contenuto dei testi tradizionali solo in questo, che, pur non omettendo le caratteristiche descrittive ed espressive, tuttavia, in questa teoria della proporzione, egli le subordina alle caratteristiche della proporzione, e addirittura arriva ad affermare che tutto l’insieme delle differenze provocate dagli «elementi» e dai pianeti si può distinguere visivamente con le semplici misure: Cosí se uno viene da te e desidera una infida immagine saturnina o una marziale o una che indichi il figlio di Venere che deve essere dolce e grazioso, facilmente dovresti sapere, dagli insegnamenti sopra citati, se naturalmente li hai messi in pratica, quale misura e modo devi usare per essa. Infatti attraverso le proporzioni esterne si possono definire tutte le condizioni degli uomini, se di natura infuocata, aerea, acquatica o terrestre. Infatti la potenza dell’arte, come abbiamo detto, padroneggia tutte le cose17.

Dopo il suo secondo viaggio in Italia, Dürer stese il piano del suo ampio libro sulla pittura, che avrebbe dovuto comprendere ben piú che la prospettiva e la proporzione; ma anche qui non c’è bisogno di supporre una familiarità con il De vita triplici del Ficino, o col nuovo concetto di melanconia. In passato questa influenza è stata sospettata18, perché Dürer aveva affermato che nella scelta e nell’educazione degli apprendisti pittori si doveva prestare attenzione alla loro complessione19, e perché aveva specificato i requisiti necessari in questi termini: Anzitutto, si deve prestare attenzione alla nascita del giovane, scoprendo sotto qual segno è nato, con qualche

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spiegazione. Pregate Dio che si tratti di un’ora fortunata. Successivamente si devono osservare la sua figura e le sue membra... Quinto, nel giovane si deve mantenere vivo il desiderio di imparare e non si deve fare in modo che se ne stanchi. Sesto, si badi che il giovane non si applichi troppo, perché la melanconia potrebbe prendere il sopravvento in lui; si badi che egli impari a distrarsi con piacevoli arie di liuto, per deliziare il suo sangue20.

Ma ora sappiamo che la convinzione che l’esercizio mentale provocasse un eccesso di bile nera21, e quindi una riluttanza depressiva morbosa a ogni attività, era stata, da Rufo di Efeso in poi, un principio nella medicina medievale delle scuole, altrettanto universale della credenza nel potere salutifero delle «piacevoli arie di liuto», il cui effetto antimelanconico troviamo illustrato per la prima volta non nelle xilografie della traduzione del Ficino del Muelich, ma in certe miniature che risalgono almeno al xiii secolo22. Anche l’esigenza che l’educazione del giovane discepolo fosse regolata in base al suo oroscopo e al suo temperamento (condizionato, questo, dal suo oroscopo) non è moderna come sembra. Il De disciplina scholarium, attribuito a Boezio, in realtà scritto da un certo «Conradus», di cui oltre al nome non si sa altro, fu conosciuto dovunque dopo la prima metà del xiii secolo e fu tradotto in francese e tedesco. L’opera spiega lungamente come l’alloggio del giovane discepolo, il suo cibo e il suo modo di vivere in generale dovessero essere regolati sulla sua costituzione (sanguigna, flemmatica, collerica o melanconica) e la sua costituzione dovesse, se necessario, essere definita da esperti23. E Dürer non aveva che da trasferire questi principî dalla sfera della scuola e dell’università alla bottega del pittore (cosa che, è vero, non avrebbe mai fatto il suo maestro Wolgemut), e combinare le nozioni della dottrina delle complessioni con quelle dell’astrologia in

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una forma ben familiare al Quattro Cinquecento, per avere già pronto il suo programma «iatromatematico» di educazione.

Cfr. w. kahl, in «Neue Jahrbücher für das klassische Altertum, Geschichte und deutsche Literatur und für Pädagogie», vol. IX, 1906, p. 490; e giehlow 1903, p. 54 (che contiene la notizia secondo cui il giovane Willibald Pirckheimer dovette procurare a Padova una copia del De vita triplici per suo padre), e, piú di recente, h. rupprich, Willibald Pirckheimer und die erste Reise Dürers nach Italien, Wien 1930, pp. 15 sgg. La prima traduzione, molto scorretta (di Adelphus Muclich) apparve nell’opera di hieronymus braunschweig, Liber de arte distillandi simplicia et composita, Das Nüw Buch der rechten Kunst zu distillieren, foll. cxxxxi sgg., Strassburg 1505, e comprende solo i due primi libri, come avviene anche nelle ristampe successive. Quanto al terzo (fol. clxxivv): «Vnd das dritte buch sagt von dem leben von himel herab als von hymelischen Dingen zu vberkommen. Das gar hoch zu verston, ist hie vss gelon». 2 gioviano pontano, De rebus coelestibus, IV, 6, pp. 1261 sgg., in Opera, Basel 1556, vol. III; celio rodigino, in Sicuti antiquarum lectionum commentarios concinnarat olim vindex Ceselius, ita nunc eosdem... reparavit.... IX, 29, Venezia 1516, p. 455; francesco giorgio, Harmonia mundi totius, Venezia 1525, foll. xlviiv, xlixv e cxviv. 3 Anche nell’oroscopo di Dürer, redatto dal canonico di Bamberga Lorenz Beheim nel 1507, Saturno non era ricordato che brevemente, come un elemento che disturbava l’influenza di Venere (e . reicke, in Festschrift des Vereins für Geschichte der Stadt Nürnberg zur 400 jährigen Gedächtnisfeier Albrecht Dürers 1528-1928, Nürnberg 1928, p. 367). Lo stesso Gioviano Pontano fornisce altrove una descrizione di Saturno (Urania, libro I, p. 2907 nel vol. IV dell’edizione di Basilea cit. sopra) che differisce appena da quella, per esempio, di Chaucer (cfr. pp. 181 sgg.). 4 Cfr. nota 1. 5 Ad esempio, Konrad Peutinger, nel suo giudizio, scoperto dal giehlow 1903, pp. 29 sgg., su una moneta di Taso recante la figura di Ercole. Tuttavia Peutinger aveva familiare il testo originale dei De vita triplici del Ficino, come si può dimostrare, e ne fece perfino un uso pratico quando una caduta gli provocò un mal di capo. Cfr. Monaco, Staatsbibliothek, Ms lat. 4011, foll. 8r, 27v, 36r, 37v, 38r-v, 39v, 40r, 41r. 6 «Excellenter ingenium auget et quarundam artium inventorem facit»: cosí johannes ab indagine, Introd. apotelesmat. in Chyromant., VI, cit. in giehlow 1904, p. 10. Inoltre egli è convinto che Saturno è 1

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia il «pessimus planeta» e che la melanconia è la «pessima complexio», e che quando il melanconico, già dotato di tutte le cattive qualità, è per di piú soggetto a un’influenza particolarmente forte da parte di Saturno, questi «omnia hacc mala conduplicat»! Similmente si esprime johann taisnier, Opus mathematicum, Köln 1562, p. 532. Per la teoria delle congiunzioni di Melantone, cfr. p. 310, nota 10. 7 Cfr. i versi del suo discepolo Longino all’inizio dei Libri amorum (riprodotto in giehlow 1904, p. 7). 8 Passi in giehlow 1904, pp. 9 sgg. Il piú amaro è nei Libri amorum, I, 1: «Satumus, totiens qui mihi damna tulit». Il Giehlow ha cercato di interpretare il fatto che il Celtis collegasse la vecchiaia con il sapere, la saggezza e la filosofia come la prova di un atteggiamento abbastanza favorevole alla melanconia e a Saturno, in quanto Satumo era un senex e la melanconia era il temperamento appropriato alla vecchiaia. Però non ci sono molte giustificazioni per dedurre un fatto del genere dal naturale rispetto per la saggezza della vecchiaia, meno che mai qui, dove ciò contrasta con affermazioni cosí esplicite. 9 Cfr., da un lato, allegorie filosofiche come quella riprodotta in dorez, La canzone delle virtú e delle scienze... cit., fol. 6v (cfr. anche saxl, Verzeichnis, vol. II, p. 34); e, d’altro canto, rappresentazioni cosmologiche in cui le teste dei quattro venti (talvolta già fatte coincidere con le stagioni, gli elementi ecc.) occupano gli angoli della raffigurazione. Cfr. le numerose tavole in e. wickersheimer, in «Janus», vol. XIX, 1914, pp. 157 sgg.; e inoltre l’immagine dell’annus proveniente da Zwiefalten (k. löffler, Schwäbische Buchmalerei, Augsburg 1928, tav. 22), o Vienna, Nationalbibliothek, Cod. lat. 364, fol. 4v; cfr. anche c. singer, From Magic to Science, London 1928, pp. 141 sgg. 10 Per un ulteriore approfondimento, cfr. pp. 346 sgg. 11 Secondo buzio, De consolatione Philosophiae, I, 1, la scala dovrebbe ascendere da pi a theta (dalla pratica alla teoria); in Dürer si ha un phi invece del pi. Forse pensava a un’ascesa dalla filosofia alla teologia? 12 Cfr. p. 14 di questo libro, Einaudi, Torino 1983. 13 L’identificazione portata a termine nell’ultimo novenarium fornisce la spiegazione testuale di questa variante: melancholicus = terra = notte = tramontana = freddo = bianco azzurrino = Capricorno = inverno = vecchiaia (cfr. giehlow 1904, pp. 6 sgg.). Se si toglie quest’unica variante lo schema che si vede nella xilografia di Dürer è ancora identico al sistema antico, come è mantenuto, per esempio, nel manoscritto di Monaco, Ms graec. 287 (Cat. astr. Gr., VII, p. 104). 14 «Milencolique a triste face, | conuoiteux et plain d’avarice, | l’on ne luy doit demander grace, | a nul bien faire n’est propice, | barat le bailla a nourrisse | a tricherie et a fallace | de bien dire nul temps n’est chiche | mais querez ailleurs qui le face». Parigi, Bibl. Nat., Ms fr. 19 994, fol. 13r. Cfr. anche gli estratti riportati sopra, pp. 106 sgg.).

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia lf, Nachlass, p. 228, 28. Gli appunti del 1512-13 dicono effettivamente: «Wir haben mäncherlei Gestalt der Menschen, Ursach der vier Complexen» (ibid., pp. 299, 23; 303, 9; 306, 12). 17 Cosí la versione a stampa del 1528; ibid., pp. 228, 25 sgg. Per questo, cfr. gli appunti preliminari, che sicuramente datano anch’essi degli anni venti, ibid., p. 247, 7: «Item, se tu diligentemente usi ciò di cui ho scritto sopra, puoi molto facilmente ritrarre ogni tipo di uomo, qualunque sia la loro complessione, siano cioè melanconici o flemmatici, o collerici o sanguigni. Infatti si può benissimo realizzare una figura che sia la vera immagine di Saturno o di Venere, e soprattutto in pittura mediante i colori, ma anche con altre cose»; e ibid., p. 364, 21 (quasi identico al passo dell’edizione a stampa). 18 giehlow 1904, pp. 63 sgg. 19 lf, Nachlass, p. 282, 9-12: «Item, la prima parte sarà di come si debba scegliere il ragazzo e come si debba prestare attenzione alla sua complessione, se cioè sia idonea. Questo si può fare in sei modi». 20 Ibid., pp. 283, 14-284, 2. Questi sei punti non sono che un’elaborazione piú particolareggiata di ciò che era definito come il contenuto della «prima parte» dell’introduzione nella frase riportata nella nota precedente. La frase che compare ibid., p. 284, 3-19 sta nello stesso rapporto con p. 282, 13-17, e cosí si dica delle pp. 284, 20-285, 6 con p. 282, 18-20. 21 L’espressione überhandnehmen è una traduzione letterale del greco ¤perbßllein o del latino superexcedere; cosí come urdrützig corrisponde al latino taedium o pertaesus. 22 Norimberga, Stadtbibliothek, Cod. Cent. V. 59, fol. 231r; Londra, Brit. Mus., Ms Sloane 2435, fol. 10v; Parigi, Bibl. Nat., Ms lat. 11 226, fol. 107r. 23 migne, PL, LXIV, 1230: «Omnia siquidem superius expedita de scholarium informatione sunt infixa. Nunc de eorum sagaci provisione breviter est tractandum. Cumergo humani corporis complexio phlegmate, sanguine, cholera et melancholia consistat suffulta, ab aliquo praedictorum necesse est quemlibet elicere praceminentiam. «Melancholico vero pigritici timorique subiecto, locis secretis et angulosis strepituque carentibus, lucisque parum recipientibus, studere est opportunum saturitateraque declivem serasque coenas praecavere, potibusque mediocribus gaudere ad naturae studium, prout studii desiccatio exegerit; plenaria potus receptione ad mensuram confoveri, ne nimii studii protervitas phtisim generet, anhelam thoracisque strictitudinem. «Phlegmaticus vero licet strepitu vigentibus aedibus, lucisque capacissimis praeceptis studiis potest informari; poculis plenioribus potest sustentari, cibariis omnigenisque confoveri, venereoque accessu, si fas est dicere, mensurnus permolliri deberet. 15

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia «Sanguineus autem, cuius complexionis favorabilior est compago, omnibus aedibus vel locis potest adaptari, quem ludendo saepius novimus confoveri gravissima quaestione, quam si obliquantibus hirquis parietes solus occillaret. Tamen in hoc semper non est confidendum, hunc cibariis levioribus potibusque gratissimis decet hilarari. «Cholericus vero pallidac effigiei plerumque subiectus solitudini supponatur, ne nimii strepitus auditu bilem infundat in totam cohortem, sicque magistratus venerabilem laedat maiestatem. O quam magistratus laesio vitanda est! Hunc coena grandiori novimus sustentari, potuque fortiori deliniri. Cavendum est autem, ne litis horror potus administratione istius radibis mentibus extrahatur. «Si autem qualitates assignare ignorans sit societas, theoricos consulat seque sic cognoscat ...» Per quest’opera, che si trova menzionata già nel 1247, cfr. paul lehmam (al quale si deve la scoperta del nome dell’autore, Corrado), Pseudoantike Literatur des Mittelalters, Leipzig 1927, pp. 27 sgg. e 101.

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Capitolo secondo L’incisione Melencolia I

Se, nonostante queste conclusioni negative, possiamo continuare ad affermare che l’incisione di Dürer, preparata con tanta cura1 è debitrice verso la concezione della melanconia diffusa dal Ficino e di fatto sarebbe stata impossibile senza questa influenza, la prova di questa affermazione può fondarsi solo su prove interne all’incisione stessa.

i . gli antefatti storici della «melencolia i». a) Motivi tradizionali. i) La borsa e le chiavi. Tutto ciò che Dürer ci dice della sua incisione è una scritta su uno schizzo per il putto che fornisce il significato della borsa e del mazzo di chiavi appese alla cintura della Melanconia: «La chiave significa potere, la borsa ricchezza»2. Questa frase, per quanto breve, ha una certa importanza in quanto rende sicuro un punto di ciò che in ogni caso sarebbe stato un sospetto plausibile: cioè che l’incisione di Dürer era in qualche modo legata alla tradizione astrologica e umorale del Medioevo. Essa rivela immediatamente due tratti del carattere tradizionale che per Dürer, come per tutti i suoi con-

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temporanei, era tipico sia del melanconico che del saturnino3. Tra le descrizioni medievali del melanconico non ce n’era una in cui egli non apparisse avaro e sordido, e quindi, implicitamente, ricco. Secondo Niccolò da Cusa, l’abilità del melanconico nel conseguire «grandi ricchezze» anche con mezzi disonesti era effettivamente un sintomo di avaritiosa melancholia4. Se in queste descrizioni del melanconico il «potere» (naturalmente associato al possesso, e qui simboleggiato dalle chiavi che possiamo interpretare come quelle che aprono la cassa del tesoro) era una semplice appendice delle «ricchezze», entrambe le caratteristiche andavano esplicitamente unite nelle descrizioni tradizionali di Saturno e dei suoi figli. Infatti, come il mitologico Crono-Saturno, che insieme a tutte le altre caratteristiche aveva anche gli attributi di distributore e custode della ricchezza, era nell’antichità non solo il guardiano del tesoro e colui che per primo aveva coniato la moneta, ma anche il sovrano dell’età dell’oro, parimenti Saturno era venerato come governante e re; e di conseguenza non solo aveva, nella gerarchia planetaria, il ruolo di tesoriere e artefice della prosperità, ma anche, come a Babilonia, era temuto e onorato come il «piú potente»; e successivamente, come sempre avviene nell’astrologia, tutte queste proprietà furono trasmesse a coloro che cadevano sotto il suo dominio. Con un’antitesi degna dello stesso Saturno, le fonti astrologiche ci informano che, insieme al povero e all’umile, agli schiavi, ai saccheggiatori di tombe, Saturno governa non solo i ricchi e gli avari («Saturnus est significator divitum», afferma Abû Ma‘∫ar nei suoi Flores astrologiae) ma anche «coloro che governano e sottomettono gli altri al loro potere»; e leggiamo nel manoscritto di Cassel che il figlio di Saturno è un «proscritto e traditore», ma è anche «prediletto dalla gente nobile e conta piú di tutti fra i suoi amici»5.

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Non sorprende quindi che, passando dai testi alle immagini, la combinazione dei due simboli che Dürer interpreta come segni del «potere» e della «ricchezza» ricorra meno frequentemente in raffigurazioni di melanconici che in raffigurazioni di Saturno. In un manoscritto degli inizi del xv secolo Saturno non solo ha una borsa alla cintura, ma tiene in mano due enormi chiavi, che ovviamente sono quelle dei forzieri, alcuni aperti, altri ancora chiusi, che si vedono a terra accanto ai suoi piedi6. Però la borsa di Dürer appare di frequente in immagini di melanconici, perché, in quanto antico simbolo della ricchezza e dell’avarizia, era divenuta un tratto costante di queste figurazioni nel xv secolo. Una delle due figure d’angolo nell’immagine di Saturno che si vede nel manoscritto di Erfurt ricorda il Saturno dei manoscritti di Tubinga e del Vaticano, essendo collocata di fronte a un forziere pieno di grosse monete; e nel manoscritto di Tubinga la somiglianza del melanconico col suo protettore planetario arriva al punto che la figura è piegata sulla vanga, nella posizione tipica del dio dell’agricoltura, intenta a sotterrare il suo cofano del tesoro7. Nel secondo melanconico del manoscritto di Erfurt, però, ricchezza e avarizia non sono piú simboleggiate da un forziere, ma da una borsa, e d’ora in poi questo attributo diviene cosí tipico che se ne hanno innumerevoli esempi quattrocenteschi8, mentre l’Iconologia di Cesare Ripa, che ancora veniva utilizzata in epoca barocca, non avrebbe mai raffigurato il melanconico senza la sua borsa9. È questo il motivo che ha indotto l’illustre Appelius a ritenere l’apostolo Giuda un melanconico: «I melanconici, il cui tratto piú notevole è l’avarizia, sono assai portati all’amministrazione familiare e a maneggiare il denaro. Giuda teneva la borsa»10.

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ii) Il motivo della testa reclina. Una parte considerevole delle immagini di melanconici sopra ricordate11 hanno un altro motivo in comune con la Melencolia di Dürer, motivo che a un osservatore moderno sembra troppo ovvio per richiedere un particolare studio della sua derivazione storica. In realtà il disegno preliminare di Dürer per l’incisione, che si differenzia proprio in questo particolare12, mostra che tale motivo non trae origine semplicemente dall’osservazione dell’atteggiamento del melanconico, ma viene da una certa tradizione pittorica, che in questo caso risale indietro di millenni. Si tratta del motivo della guancia appoggiata a una mano. Il significato primario di questo antichissimo gesto, che si vede anche nei ploranti di certi rilievi su sarcofagi egizi, è il dolore, ma può anche significare la fatica o il pensiero creativo. Per limitarci a tipi medievali, esso rappresenta non solo il dolore di san Giovanni sotto la croce, e la sofferenza dell’anima tristis del salmista13, ma anche il pesante sonno degli apostoli sul Monte degli Olivi, o il monaco che sogna nelle illustrazioni al Pélerinage de la vie humaine; il pensiero concentrato di un uomo di Stato14, la contemplazione profetica di poeti, filosofi, evangelisti e padri della Chiesa15; o anche il meditabondo riposo di Dio Padre il settimo giorno16. Non sorprende quindi che un gesto del genere dovesse affacciarsi alla mente dell’artista quando si trattava di realizzare una configurazione che combinasse in un nesso quasi unico la triade dolore, fatica e meditazione; cioè quando doveva rappresentare Saturno e il melanconico soggetto al suo potere. In effetti la testa velata del Crono classico17 poggia sulla mano in atteggiamento altrettanto triste e pensoso che la testa del melanconico Ercole in qualche raffigurazione antica18. Nelle immagini medievali di Saturno e della melanconia, che avevano perduto quasi ogni legame diretto con la tradi-

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zione pittorica antica19, questo motivo spesso arretrava nel fondo, ma anche allora non fu mai completamente dimenticato20; si veda, ad esempio, la descrizione di Saturno nel Libro del Acedrex (Libro degli scacchi) di re Alfonso, dove il dio viene visto come un vecchio triste, «la mano ala mexiella como omne cuyerdadoso»21. Fu perciò tanto piú facile che questo motivo riprendesse il suo significato tipico nel Quattro e Cinquecento e conoscesse una rinascita22, che però trasse origine da moventi assai diversi nel Nord e nel Sud. Nel Nord un interesse sempre crescente per la rappresentazione verosimile di certi tipi umani psicologicamente rilevanti fece rivivere questo gesto della testa reclina in immagini di melanconici, anche se fu tralasciato per il momento nelle immagini di Saturno. Nell’Italia del Quattrocento, dove le rappresentazioni dei quattro temperamenti furono praticamente sconosciute (l’unico esempio che ci sia noto è una copia di un ciclo nordico, del tipo riprodotto alle tavv. 78 e 79, però leggermente modificato in base alla tradizione classica)23, fu il desiderio di caratterizzare certi individui rilevanti, anziché dei tipi, e, in particolare, il desiderio di far rivivere il mondo ideale della mitologia classica, che portò al ripristino di questo classico gesto di Saturno. Il melanconico che poggia la testa sulla mano, come si vede in manoscritti e stampe tedeschi, ha un parallelo in Italia da un lato nella figura di Eraclito nella Scuola d’Atene di Raffaello, e dall’altro nel Saturno che compare nell’incisione B4 del Campagnola: la maestosa incarnazione della contemplazione di un dio, che solo piú tardi influenzerà immagini della contemplazione umana in genere24. Sia egli stato influenzato dalle rappresentazioni nordiche della Melanconia oppure da modelli italiani come l’incisione del Campagnola25, in ogni caso Dürer ubbidí alla tradizione pittorica quando sostituí le mani torpidamente abbandonate che caratterizzano la donna sedu-

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ta dello studio preparatorio (un tipico sintomo di melanconia patologica, secondo le fonti mediche26) col gesto meditabondo della mano che regge la guancia nell’incisione finale. iii) Il pugno chiuso e la faccia nera. In un tratto la figura di Dürer si differenzia decisamente da quelle ricordate in precedenza. La mano, che in genere è appoggiata delicatamente e mollemente contro la guancia, qui è invece un pugno chiuso. Però anche questo motivo, che sembrerebbe del tutto originale, non tanto è stato inventato da Dürer, quanto ha trovato in lui un’espressione artistica: infatti il pugno stretto era sempre stato considerato un segno dell’avarizia tipica del temperamento melanconico27, come pure uno specifico sintomo medico di certe allucinazioni melanconiche28. In questo senso, in effetti, non era mai stato del tutto estraneo alle raffigurazioni medievali del melanconico29. Però il confronto con questo tipo di illustrazione medica non fa che sottolineare il fatto che analogia di motivo e analogia di significato sono due cose molto diverse; quel che Dürer voleva esprimere (e ha espresso) con questo pugno chiuso aveva ben poco in comune con ciò che esso significava negli schemi di cauterizzazione se non l’indicazione, alquanto elusiva, di una tensione spasmodica. Non è tuttavia questo il luogo per descrivere ciò che Dürer ha fatto della tradizione, ma semplicemente per elencare gli elementi che egli ha trovato in essa e che ha ritenuto adatti a essere incorporati nella sua opera30. Si deve ricordare un ultimo motivo, forse di importanza anche maggiore per il contenuto emozionale dell’incisione, non in considerazione del suo significato che supera del tutto la tradizione, ma della sua origine dalla tradizione. È il motivo del viso in ombra della Melenco-

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lia, il cui sguardo è fisso davanti a sé e quasi spettrale. Possiamo ricordare che questo «viso nero» era un tratto citato molto piú spesso nella tradizione che non il pugno chiuso. Sia il figlio di Saturno che il melanconico (si trattasse di melanconia patologica o di melanconia temperamentale) erano ritenuti dagli antichi scuri e neri d’aspetto31; e quest’idea era comune nella letteratura medica medievale, come pure negli scritti astrologici sui pianeti e nei trattati popolari sulle quattro complessioni. «Facies nigra propter melancholiam»32, «nigri»33, «color fango»34, «corpus niger sicut lutum»35, «luteique coloris»36, sono tutte espressioni che Dürer può aver letto nei testi tradizionali, come molti prima di lui potevano aver fatto; ma, come è avvenuto anche nel caso del pugno chiuso, egli è stato il primo a rendersi conto che quella che ivi era descritta come una caratteristica temperamentale, o addirittura come un sintomo patologico, poteva essere utilizzata da un artista per esprimere un’emozione o comunicare uno stato d’animo.

b) Immagini tradizionali nella composizione dell’incisione. Scritta di pugno dell’artista, la spiegazione che Dürer dà del significato simbolico della borsa e delle chiavi ha richiamato la nostra attenzione sui vari motivi singoli. Dovremmo ora chiederci se l’immagine nel suo insieme ha le sue radici nella tradizione dei tipi pittorici. i) Illustrazioni della malattia. Le illustrazioni propriamente mediche, cioè le rappresentazioni del melanconico come di un pazzo, non avevano, per quanto ne sappiamo, né sviluppato, né tentato di sviluppare un tipo melanconico caratteristico.

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Quando si era tentata in qualche modo una rappresentazione, si era trattato piú di illustrare certe misure terapeutiche, o addirittura chirurgiche, che di elaborare una concezione generale dello stato psicofisico. Le illustrazioni piú comuni di questo tipo erano i cosiddetti schemi di cauterizzazione, uno dei quali già si è menzionato. Loro scopo era di mostrare come e dove i diversi tipi di pazzi dovevano essere cauterizzati o trapanati. Nel caso del melanconico, l’orribile operazione doveva essere compiuta «in media vertice». Lo si vede quindi con un foro tondo in cima alla testa, spesso in piedi, solo, in qualche caso seduto su una sedia operatoria, talvolta addirittura steso su una sorta di tavolo di tortura37; ma solo assai di rado si incontra qualche illustratore superiore alla media abbastanza ambizioso da caratterizzare psicologicamente il paziente, cioè distinguerlo dagli altri con gesti specificamente melanconici. Oltre a questi schemi di cauterizzazione, ci sono anche raffigurazioni di cure mediante la fustigazione o la musica38: ma nemmeno queste (benché alcune di esse siano delle miniature assai belle) avrebbero potuto essere il punto di partenza per uno sviluppo piú generale, dato che non creavano nuovi tipi, ma cercavano di trattare il loro tema adottando forme compositive già pienamente sviluppate (Saul e David, la flagellazione di Cristo, la fustigazione dei martiri, e cosí via). ii) Cicli figurativi dei quattro temperamenti. I: figure singole a carattere descrittivo (i quattro temperamenti e le quattro età dell’uomo). II: gruppi drammatici: temperamenti e vizi. Per contro, sembra che un tentativo di esatta caratterizzazione sia stato compiuto, per quanto riguarda le rappresentazioni del melanconico, nell’ambito dei quattro temperamenti. È vero che nemmeno qui furono ela-

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borati tipi interamente nuovi; né del resto c’era da attenderselo, dato che il problema di illustrare le complessioni sorse relativamente tardi. Ma, attraverso l’uso deliberato di analogie in punti decisivi, queste immagini diedero luogo alla fine a raffigurazioni concrete e suggestive dei vari tipi di caratteri. Certe rappresentazioni tarde dei temperamenti si limitano ad adottare le caratteristiche del pianeta corrispondente o dei figli di un pianeta: un esempio significativo è, nel manoscritto di Tubinga, la figura di un avaro che sotterra il suo tesoro39. In certi casi isolati, al melanconico viene attribuito l’atteggiamento (abbastanza familiare in un contesto diverso) di un evangelista o di un dotto che sta scrivendo, con la semplice aggiunta di un forziere40. Caso tipico ne è una serie di miniature del 1480 circa. Tralasciando queste due eccezioni, le figurazioni che rappresentano i quattro temperamenti in un gruppo o sequenza si possono suddividere in due categorie principali: quelle che presentano ogni temperamento come una figura isolata, piú o meno statica, caratterizzata essenzialmente dall’età, il fisico, l’espressione, il costume e gli attributi; e quelle in cui diverse figure, di preferenza un uomo e una donna, sono poste a fronte a impersonare una scena tipica del loro particolare temperamento. Gruppi del primo tipo sono assai numerosi; quelli del secondo sono inferiori di numero, però sono piú rilevanti per l’evoluzione successiva. Il primo esempio di una serie di figure isolate (legate, per cosí dire, al vecchio schema dei quattro venti nella xilografia düreriana che illustra l’opera di Celtis) si ha in un rozzo disegno a semplice contorno inserito in un testo dell’xi o xii secolo, il Tractatus de quaternario, conservato a Cambridge41. I quadranti di un cerchio contengono quattro figure sedute che, come dice la scritta, rappresentano le «quattro età della vita umana»42, e

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sono quindi femminili. Oltre alla didascalia, però, ci sono note marginali che ci informano che queste figure rappresentano anche le quattro complessioni, o piú precisamente che personificano gli umori che prevalgono in esse. L’Infanzia rappresenta anche il flegma, che partecipa delle caratteristiche elementari del freddo e dell’umido; la calda e umida Gioventù rappresenta il sangue; la calda e asciutta Virilità rappresenta la bile gialla; infine la fredda e secca Decadenza rappresenta la bile nera43. Nei secoli successivi si avranno serie di immagini rappresentanti anzitutto i quattro temperamenti, e solo in secondo luogo le quattro stagioni, le quattro età dell’uomo e i quattro punti cardinali; però queste figure della miniatura di Cambridge vogliono essere in primo luogo raffigurazioni delle quattro età dell’uomo e la rappresentazione dei quattro umori e in esse solo di interesse secondario44. La cosa non sorprende in un’epoca in cui i termini «flemmatico», ecc. non erano ancora stati coniati per indicare l’idea di persone governate dal flegma e dagli altri vari umori45. Nondimeno, fatta questa riserva, il ciclo delle quattro figure di Cambridge si può considerare la rappresentazione piú antica che si conosca dei temperamenti. Sorge cosí l’interrogativo da quale fonte l’autore abbia tratto i tipi che raffigura nel suo disegno. La risposta è che queste immagini dei quattro temperamenti, caratterizzate dal riferimento agli umori, si sono sviluppate dalle rappresentazioni classiche delle stagioni e delle occupazioni46. Ma se fu adottata una connessione che era stata stabilita nell’antichità, nello stesso tempo essa fu rivista nel senso della sua forma originaria, cioè in questo caso astratta. Infatti dapprima le stagioni, nelle raffigurazioni classiche, erano distinte solo da attributi; nei mosaici di Lambesi e Chebba47 erano diventate delle fanciulle e delle donne differenziate in base all’età e quindi individualizzate. L’artista

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di Cambridge ritorna di nuovo, dalla differenziazione mediante i segni naturali, biologici, dell’età, a quella mediante attributi convenzionali. La Giovinezza (il sangue), che coerentemente con la sua età giovanile, è l’unica figura in piedi, e esattamente come la ben nota figura della Primavera inghirlandata; la quale a sua volta è identica alla figura di Maggio nei cicli dei mesi48. A differenza della spensierata Giovinezza, la Decadenza (la bile nera) deve lavorare, e (coerentemente con la sua età avanzata e la stagione fredda) tiene in mano una conocchia49; mentre la Vecchiaia (bile rossa) sta avvolgendo la lana filata. Solo la Fanciullezza (il flegma) deve fare a meno di attributi: è caratterizzata semplicemente dalle gambe incrociate in un tipico atteggiamento di riposo, che probabilmente vuole indicare l’indifferenza fisica e mentale sia del temperamento flemmatico che dell’infanzia: inservibile per la pittura del carattere (eÄj æqopoiàan ©crhstoj). Questo tentativo di illustrare la nozione delle complessioni, finora trasmessa solo dalla letteratura, interpretando certe forme delle rappresentazioni delle stagioni e dei lavori come rappresentazioni invece delle quattro età dell’uomo, e successivamente incorporando in queste l’idea dei quattro umori, venne a porre un precedente per il futuro. Intorno al xv secolo (purtroppo non abbiamo esempi del periodo intermedio), quando quelle che possiamo chiamare le raffigurazioni ortodosse delle complessioni già si erano sviluppate, la combinazione delle età dell’uomo con le sue varie occupazioni (combinazione goffamente abbozzata nella miniatura di Cambridge) doveva solo essere modernizzata perché ne sortisse, per cosí dire automaticamente, una serie di quelle rappresentazioni dei temperamenti «a figure singole» che costituiscono, come si è detto, il primo e maggior gruppo. Poiché questa ulteriore evoluzione tendeva a tra-

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sformare lo schema scientifico astratto nell’immagine di un personaggio concreto, le caratteristiche sia delle diverse età che dei temperamenti corrispondenti vennero ora rese con realismo moderno. Il fisico, l’abito e il lavoro furono raffigurati a colori piú vivaci, talvolta quasi nello stile della scena di genere. Il sanguigno di solito appare come un giovane elegantemente vestito che va a caccia col falcone; il collerico come un guerriero armato; il melanconico come un tranquillo signore di mezz’età; il flemmatico come un vecchio dalla lunga barba, talvolta curvo su una stampella. L’atteggiamento psicologico è indicato in parte con l’aggiunta di attributi caratterizzanti, ma per lo piú con mezzi mimici, ad esempio l’espressione cupa e la testa appoggiata alla mano del melanconico, o la smorfia di rabbia sul volto del collerico, che sguaina la spada o addirittura fa volare le sedie intorno50. Se il disegno di Cambridge già aveva rappresentato i quattro umori sotto forma delle quattro età dell’uomo, più facile ancora deve essere stato nel xv secolo associare in modo piú stretto le due serie di illustrazioni. Infatti a quell’epoca le rappresentazioni delle quattro età avevano preceduto quelle dei temperamenti nell’elaborazione realistica dei singoli tipi. Un ciclo francese del 1300 circa51 si limita a distinguere le varie età valendosi delle caratteristiche fisiologiche piú che psicologiche o di lavoro, però nella miniatura francese della Ruota della vita, un secolo dopo, la gioventú è raffigurata come un giovane falconiere, e la penultima età dell’uomo come una figura che riflette con la testa appoggiata alla mano52; e in due disegni tedeschi, assai vicini, dei quali il più antico è datato 1461, i rappresentanti delle quattro età intermedie fra le sette assegnate all’uomo sono uguali ai tipi correnti dei quattro temperamenti: un falconiere, un cavaliere in armi, un anziano che conta il denaro o tiene una borsa, e un debole vecchio. Gli unici punti nei quali le immagini

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quattrocentesche delle quattro complessioni (in quanto appartengono al tipo descrittivo, a figure singole) si discostano dalle serie coeve di immagini raffiguranti le quattro età, sono l’inclusione dei quattro elementi (il sanguigno sta sulle nubi, il collerico tra le fiamme, il melanconico sulla terra); e, in certe rappresentazioni, l’aggiunta di un animale simbolico: una scimmia per il sanguigno, un leone per il collerico, un verro per il melanconico e una pecora per il flemmatico53. Inoltre l’aspetto di queste immagini muta assai poco per tutto il Quattrocento; i diversi tipi avevano assunto una fisionomia cosí stabile che, una volta definiti, si imposero alle rappresentazioni dei «figli» dei pianeti nei manoscritti astrologici54; e arrivarono a essere inclusi nelle illustrazioni ai Problemi di Aristotele, il cui capitolo xiv non aveva nulla a che vedere con la dottrina tardomedievale dei temperamenti, ma è intitolato ‘/Osa perã krßseij, o, nella traduzione francese, Qui ont regart a la complexion55. Anche quando le personificazioni dei quattro temperamenti appaiono a cavallo, per analogia con un certo tipo planetario che si riscontra per la prima volta nei famosi manoscritti Kyeser, essi continuano a essere falconieri, uomini in armi e cosí via56; e perfino la serie delle figure isolate che rappresentano le complessioni nel medio e tardo Rinascimento, di cui ci occuperemo piú avanti, conserva sotto molti aspetti un ricordo dei tipi quattrocenteschi. Il secondo gruppo (quello in cui i diversi temperamenti sono raffigurati mediante una scena alla quale prendono parte diverse figure) ha un carattere assai diverso. Le serie di cui ci siamo occupati finora si svilupparono da, e in combinazione con illustrazioni delle quattro età dell’uomo, che a loro volta si potevano far risalire alle rappresentazioni classiche delle stagioni e dei lavori. È quindi comprensibile che esse dovessero insistere sulle differenze d’età e di lavoro, mentre i tratti

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psicologici, come l’avarizia e la depressione del melanconico, o la rabbia del collerico, emergono solo a poco a poco, e allora sembrano basarsi tanto sulle rispettive età cui sono attribuiti quanto sui rispettivi tipi di temperamento. Nelle rappresentazioni drammatiche dei temperamenti, invece, le differenze d’età passano in secondo piano, come le diversità di lavoro o di situazione. Qui fin dall’inizio l’interesse si accentra sugli aspetti del carattere determinati dagli umori in modo cosí esclusivo che la scena si limita ad azioni e situazioni che rivelano questi aspetti: tutto il resto è trascurato; e solo la presenza dei quattro elementi (che in certi casi possono pure mancare) distingue opere di questo tipo da figurazioni moralizzanti o da illustrazioni di romanzi. Questa differenza di intenti artistici corrisponde alla differenza di origini storiche. Lo studio storico dei tipi pittorici (che è necessario e possibile per le composizioni drammatiche non meno che per le figure singole a carattere statico e descrittivo) ci porta non nel mondo dello speculum naturale, ma in quello dello speculum morale, non nel campo delle figurazioni delle quattro età, ma in quello delle rappresentazioni delle virtú: o meglio dei vizi, dato che questo campo era quasi l’unico in cui (sia pure sotto l’aspetto minaccioso della teologia morale ecclesiastica) le caratteristiche indesiderabili, e perciò psicologicamente rilevanti, degli uomini venivano mostrate in scene rapide, acutamente definite. Un esempio assai precoce del tipo drammatico (che però sembra sia rimasto senza seguito) si può vedere in un famoso Codice Hamilton di Berlino, compilato prima del 1300 nell’Italia settentrionale, che include anche i Detti di Dionisio Catone, gli sfoghi misogini dei Proverbia quae dicuntur super naturam feminarum, un bestiario moralizzato, e altri scritti di orientamento simile, e cerca di ravvivare il tutto con innumerevoli piccole

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miniature ai margini, in parte di carattere morale, in parte di carattere didascalico. I versi salernitani sulle complessioni (con molti errori nel testo) sono illustrati nello stesso stile e con gli stessi intenti57. Il miniaturista introduce figure sussidiarie allo scopo di abbinarle alle personificazioni di ognuno dei temperamenti in un’azione combinata che mira a mostrare le caratteristiche essenziali elencate in ogni distico, e in genere assomiglia assai alle altre illustrazioni del manoscritto. Il sanguigno è, soprattutto, l’uomo generoso («largus»), e la sua generosità si vede dal fatto che consegna una borsa a una figura minore che sta in ginocchio davanti a lui58. Il collerico («irascens») sta dando con un bastone un colpo in testa al suo compagno, ed è esattamente ciò che l’uomo sposato sta facendo, in un’altra pagina, a sua moglie, esasperato dal suo continuo contraddirlo59. L’uomo assonnato («somnolentus») dei versi dedicati al flemmatico è illustrato da una figura addormentata svegliata bruscamente da un’altra. Infine il melanconico («invidus et tristis») con un gesto di disprezzo si volta dall’altra parte alla vista di una coppia di amanti; e anche questa figura ha il suo modello (e la sua spiegazione) in un’illustrazione che si vede proprio all’inizio del codice e che si intitola: Iste fugit meretricem60. Queste piccole miniature sono di un carattere troppo particolare e le circostanze da cui hanno avuto origine sono troppo eccezionali perché potessero avere una qualsiasi influenza. In Italia, come già si è accennato, non c’era nessun particolare interesse per le rappresentazioni dei temperamenti e, per quanto ne sappiamo, questa situazione mutò solo sotto l’influenza del manierismo, con le sue componenti settentrionali. A nord delle Alpi (a prescindere dal fatto che difficilmente il Codice Hamilton poté esservi conosciuto), le condizioni perché si sviluppassero e diffondessero immagini in forma di scena e a contenuto drammatico delle quattro

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complessioni non si verificarono fino a quando non nacque uno stile artistico che sarebbe stato realistico nell’espressione e psicologico nelle intenzioni. Quindi le miniature del manoscritto Hamilton restarono un’interessante eccezione. Il tipo usuale non si ebbe fino alla metà del xv secolo e, sembra, in Germania. La sequenza originaria che sarebbe divenuta quasi canonica si costituí in manoscritti illustrati61, si impose nella maggioranza delle illustrazioni degli almanacchi62 e conobbe la sua prima superficiale modernizzazione solo intorno al 150063. Essa si componeva delle seguenti. scene: sanguineus, una coppia di innamorati che si abbracciano; colericus, un uomo che picchia la moglie; melencolicus, una donna che si addormenta sulla sua conocchia64, e un uomo (nel fondo) anch’egli addormentato, in genere a un tavolo, ma talvolta a letto; e phlegmaticus, una coppia che sta facendo musica. La proverbiale indifferenza del flemmatico risultava piú difficile da rappresentare perché il motivo del sopore stanco doveva essere riservato ai melanconici, per cui gli illustratori erano obbligati ad accontentarsi di un innocuo gruppo di musicanti65. Cosí non appena nel xvi secolo il melanconico addormentato fu sostituito da un altro melanconico intento al lavoro intellettuale, il motivo del sonno, resosi in questo modo libero, tornò naturalmente al flemmatico66. Prescindendo dal flemmatico, però, si può dire che queste scene non sono che raffigurazioni di vizi le quali, strappate al loro contesto teologico, sono state utilizzate per l’illustrazione profana dei temperamenti; e alcune di queste immagini di vizi sono direttamente legate alla nobile tradizione della decorazione tipica della cattedrale gotica. Per scorgere questo rapporto, basta confrontare la scena degli innamorati sanguigni col rilievo della Luxuria sul portale occidentale della cattedrale di Amiens, o il litigio coniugale del collerico col rilievo della Discordia della stessa

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serie, o anche, per la posizione in ginocchio, col rilievo della Dureté sulla facciata occidentale di Nôtre-Dame67. Ma dove si trova il prototipo del melanconico, che piú di ogni altro ci interessa? Abbiamo piú volte osservato che il Medioevo faceva coincidere la melanconia col peccato dell’acedia68; però questo particolare peccato non era raffigurato nelle grandi cattedrali. Questo ci porta a un esame piú attento degli opuscoli illustrati che trattavano il tema delle virtú e dei vizi, dei quali l’esempio più conosciuto era la Somme le Roi del 1279, che fu tradotto in quasi tutte le lingue e raggiunse una diffusione straordinariamente vasta69. E infatti scopriamo l’«Accidia, cioè la pigrizia e la noia di ben fare» («Accide, cest a dire peresce et anui de bien faire») illustrata in una forma che attesta, quasi al di là di ogni dubbio, la derivazione della nostra immagine del melanconico da questa serie. Fra i molti peccati compresi nella nozione di «accidia» si trattava di scegliere il più adatto a essere illustrato, e questo fu l’inosservanza del dovere di lavorare e pregare. Le illustrazioni della Somme le Roi mostrano quindi un aratore addormentato con la testa sulla mano, che ha lasciato l’aratro in mezzo al campo, oppure lascia i buoi pascolare incustoditi nel campo; e, contrapposto a lui, c’è un solerte seminatore, cioè l’immagine del «lavoro»70. Questa figura umana, «che dorme il sonno dell’ingiusto» (modificata in molti modi a seconda della condizione e del lavoro che fa, o meglio, che non fa) divenne la tipica incarnazione della pigrizia peccaminosa. Una serie dipinta di virtú e vizi del museo di Anversa, del 1480 o 1490, erroneamente attribuita a Bosch, rappresenta la pigrizia mediante un cittadino addormentato che, anziché pregare davanti al suo crocifisso, si è addormentato sul suo morbido guanciale («Ledicheyt is des duivels oorkussen», cioè: «La pigrizia è il guanciale del diavolo» dice un proverbio olandese), e quindi

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finisce in balia del diavolo, molto simile come tipo a un arazzo che rappresenta l’acedia in persona71. La xilografia che illustra il capitolo sulla Pigrizia e indolenza nell’edizione del 1494 del Narrenschiff (Il vascello dei pazzi) di Brant mantiene il diligente seminatore della Somme le Roi come contraltare virtuoso, però sostituisce all’aratore addormentato la consueta filatrice72, una figura già usata in un foglio volante probabilmente proveniente da Norimberga, che grazie al suo testo completo si presenta, per cosí dire, come una Somme le Roi per l’uomo semplice73. La figura qui è indicata esplicitamente come Acedia e si può spiegare anzitutto col desiderio di una personificazione femminile. Nell’edizione latina del Narrenschiff del 1572 troviamo perfino la filatrice, ormai tradizionale, associata, in una illustrazione, all’aratore addormentato della Somme le Roi, come un doppio esempio del peccato della pigrizia, differendo dalle nostre rappresentazioni di melanconici semplicemente perché l’accento è posto sul significato morale piú che sulla caratterizzazione74. Si è detto altrove che l’incisione di Dürer B76, il cosiddetto Sogno del dottore, non è altro che un’allegoria della pigrizia, che, se è originale come concezione, come tipo deriva chiaramente da illustrazioni del genere della serie delle virtú e dei vizi di Anversa e della xilografia del Narrenschiff del 1494; ed è da interpretare, se si vuole, come un precedente moralizzante e satirico della Melencolia I75. Quindi se la coppia sanguigna nella serie drammatica delle complessioni appariva modellata sul typus Luxuriae e la coppia collerica sul typus Discordiae o Duritiae, i melanconici altro non erano che gli Acediosi, il cui aspetto esteriore, come era naturale, somigliava strettamente a quello di certi figli di Saturno. Può non essere una semplice coincidenza se le strofette aggiunte alle rappresentazioni dei melanconici negli almanacchi, nei quali il tipo in questione era per lo piú raffigurato, si

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richiamavano anche agli opuscoli morali e, soprattutto, alla versione basso-tedesca della Somme le Roi. La nostra complessione è ricca di terra, Perciò siamo d’animo pesante,

oppure: La quarta cosa [cioè il peccato della pigrizia] è pesantezza, che un uomo è d’animo cosí pesante che non ha voglia di niente, tranne che di sdraiarsi riposarsi o dormire... 76.

In questo modo quindi sono nati i due principali tipi di illustrazione dei quattro temperamenti. Sono state create delle rappresentazioni di personaggi in cui alle personificazioni di certe età dell’uomo o di certi peccati condannati dalla Chiesa veniva data forma concreta e fisionomia individuale, in tal misura che hanno finito con il rappresentare la «vita reale» e, benché ancora inquadrate in uno schema speculativo, tendevano a diventare autonome. Nel caso delle illustrazioni delle età dell’uomo, questo processo significò semplicemente un passaggio da un tipo d’immagine schematico a uno naturalistico, e un’accentuazione dell’aspetto umorale a scapito di quello puramente biologico. Nel caso delle illustrazioni dei vizi tuttavia (ed erano naturalmente quelle che davano vita ai tipi infinitamente piú interessanti) esso significò anche il passaggio da una sfera morale e teologica a una profana. Il sermone scolpito o dipinto contro il peccato divenne la descrizione di un carattere in cui non solo veniva cancellata la precedente valutazione morale, ma questa era in parte sostituita da un’altra valutazione, quasi amorale. Infatti la lussuria è almeno altrettanto immorale della pigrizia, però la figura «sanguigna» che rappresenta il tipo lussurioso ha «la piú

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nobile complessione». Dalla quantità di peccati umani descritti cosí particolareggiatamente solo come monito contro di essi, uscí una quantità di caratteristiche umane degne d’interesse semplicemente come tali. In questo senso l’evolversi della serie drammatica acquista un significato quasi sintomatico; molti altri esempi si potrebbero citare da cui risulterebbe chiaro come molti eccezionali risultati del realismo moderno si possono attribuire proprio al fatto che il moralismo medievale si secolarizzò. È stato suggerito, ad esempio, che la penetrante e sottile caratterizzazione di Chaucer, al pari delle modeste illustrazioncine delle complessioni, si sia sviluppata essenzialmente dalle descrizioni delle virtú e dei vizi contenute in sermoni del xii e xiii secolo77. Se da tutte queste immagini raffiguranti i temperamenti passiamo alla Melencolia I abbiamo vivissima l’impressione (un’impressione che è anche giustificata dal diverso modo di formulare le didascalie) che l’incisione di Dürer rappresenti un livello fondamentalmente diverso di allegoria, e per di piú un livello sostanzialmente nuovo per il Nord. La figura della Decadenza nella miniatura di Cambridge, caratterizzata essenzialmente da una conocchia, è una personificazione della «bile nera»; le figure del Tedio e della Pigrizia nelle immagini quattrocentesche sono esempi del «melanconico»; la donna di Dürer invece, che solo per le ali si distingue da tutte le altre rappresentazioni, è una realizzazione simbolica della Melancholia. Per essere piú precisi: la miniatura di Cambridge incarna una nozione astratta e impersonale in una figura umana78; le immagini delle serie delle complessioni esemplificano una nozione astratta e impersonale mediante figure umane; l’incisione di Dürer invece è l’immagine di una nozione astratta e impersonale simboleggiata in una figura umana. Nel primo caso la nozione di base conserva pienamente la sua validità univer-

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sale; non può però essere identificata con l’immagine effettiva, può solo esserle equiparata mediante un processo intellettuale, per cui solo la scritta o la nostra familiarità con la convenzione iconografica, ci informa che la figura in questione vuole rappresentare la «bile nera». Nel secondo caso, la rappresentazione è direttamente e visibilmente legata alla nozione di base (chiunque infatti può vedere che il collerico è arrabbiato, o il melanconico è pigro o triste), però con questo la nozione perde la sua universalità, in quanto è presentata in un esempio particolare che è solo uno tra molti, e può quindi essere riconosciuta immediatamente come l’immagine di un uomo arrabbiato o triste, ma non come la rappresentazione del temperamento collerico o melanconico. Anche in questo caso è necessaria una didascalia, però questa non ci dice piú: «Immagina che questa figura neutra sia la bile nera»; dice invece: «In questa coppia indolente hai un tipico esempio del temperamento melanconico». Nel terzo caso, invece, l’idea di base è trasferita nella sua interezza in termini pittorici, senza per questo perdere la sua universalità e senza lasciare alcun dubbio quanto al significato allegorico della figura, che nondimeno è del tutto concreta. Qui, e solo qui, la rappresentazione visibile può rispondere pienamente alla nozione invisibile; qui, e solo qui, la legenda (che a questo stadio dell’evoluzione comincia ad essere superflua) non ci dice né: «Questo vuol rappresentare la bile nera», né: «Questo è un tipico esempio del temperamento melanconico», ma: «La melanconia è cosí»79. Si sa che è stata l’arte francese del Quattrocento a creare le illustrazioni di libri nelle quali, anziché il melanconico puramente paradigmatico delle serie dei temperamenti, o la figura puramente personificata della «bile nera» del manoscritto di Cambridge, appare per la prima volta la figura di «Dame Mérencolye» in persona80. Queste illustrazioni francesi sembrano quindi aver

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anticipato la rappresentazione simbolica della Melanconia dell’incisione di Dürer. Esse certamente superano tutti i disegni anteriori a Dürer in quanto combinano, in certa misura, la personificazione con l’esemplificazione: infatti hanno in comune col manoscritto di Cambridge il desiderio di rappresentare la nozione di melanconia in tutta la sua universalità, ma nello stesso tempo hanno anche in comune con le serie dei temperamenti la capacità di rendere visibile una nozione invisibile. La differenza maggiore che corre tra esse e l’opera di Dürer sta nel fatto che questa combinazione non rappresenta ancora una sintesi, ma semplicemente un contatto delle altre due possibilità: in altre parole, il significato effettivamente visibile in queste figure francesi non coincide ancora con la nozione generale della melanconia. Ciò che qui vediamo, e che ci viene effettivamente mostrato con realismo piú o meno progredito, sono delle vecchie magre e mal vestite nel contesto di una scena piú o meno drammatica, da cui, nel migliore dei casi, possiamo ricevere l’impressione di una certa atmosfera triste; ma che queste figure vogliano rappresentare la melanconia, anzi qualsiasi cosa che non sia delle vecchie dolenti, è espresso tanto poco visibilmente, e tanto poco, quindi, si può sospettare senza la conoscenza dei testi letterari, quanto, per esempio, ci si può aspettare di riconoscere in un cavaliere il «Desiderio ardente» e nel paggio che cavalca verso di lui un messaggero dell’«Amore». Quindi le figure in tali illustrazioni di romanzi non sono affatto «rappresentazioni simboliche», ma piuttosto sono ancora, per usare il termine di cui già ci siamo serviti, semplici «personificazioni». Secondo lo stile quattrocentesco, queste personificazioni sono rappresentate con un cosí forte senso della realtà che valgono anche come paradigmata; ma finora la contraddizione tra paradigma e personificazione non è risolta in una

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qualche superiore forma di allegoria. Ciò che è realmente visibile è ancora un singolo evento: tutto ciò che è al di là rimane «nel testo». E, di fatto, sta nel testo, in senso assolutamente letterale, come risulta dal carattere assai indeterminato di queste illustrazioni. Ciò si deve, in realtà, al fatto che i testi illustrati avevano già anticipato l’arte pittorica nella sua funzione di traduzione allegorica. In questi romanzi, nozioni psicologiche generali come «sfiducia», «comprensione», «onore», «dolce ricompensa», «lunga speranza» e perfino «melanconia», erano divenute, nello spirito del poeta, cosí individualizzate e cosí concrete (tanto era stato il progresso compiuto sulla strada dall’astratto al visivo) che l’illustratore doveva solo tradurre la figura o il fatto particolare concreto, descritto nel testo, in termini pittorici; non solo, ma in questo modo non c’era, nelle sue immagini, la minima ragione perché l’osservatore a sua volta ritornasse dal particolare al concetto generale che stava al di sotto di esso. Situazioni che già nella forma letteraria sono delle allegorie ben congegnate, cioè forniscono relazioni drammatiche tra le personificazioni, sono destinate a divenire delle figurazioni di genere o di storia, se si tenta di illustrarle letteralmente in tutti i loro particolari. iii) Rappresentazioni delle arti liberali. È quindi un fatto che Dürer è stato il primo artista a nord delle Alpi a sollevare la rappresentazione della melanconia alla dignità di un simbolo, in cui si riscontra una concordanza vigorosa e stringente tra la nozione astratta e l’immagine concreta. Come si può facilmente comprendere da ciò che precede, forme realmente simboliche di rappresentazione furono sviluppate dagli artisti del Rinascimento italiano. È stata infatti la loro grande conquista aver saputo esprimere l’ideale in ter-

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mini di arte naturalistica e il trascendentale nei termini di un ordine razionale dell’universo; e (come ad esempio nelle allegorie di Giovanni Bellini) scoprire (o piuttosto riscoprire nell’arte dell’antichità classica) i mezzi per giungere alla sublimazione che anche Dürer impiegò: le ali per la figura principale, i «putti» e cosí via81. Se cercassimo un’opera d’arte anteriore in cui il principio della rappresentazione simbolica sia applicato al tema della melanconia, un’analogia si troverebbe non nelle illustrazioni dei romanzi francesi, ma in un dipinto perduto del Mantegna, che Dürer può avere conosciuto. Purtroppo non ne sappiamo praticamente nulla; sappiamo però che portava il titolo di Malancolia e che conteneva sedici putti che danzavano e facevano musica82. Tutto questo naturalmente non esclude la possibilità che la concezione d’insieme della Melencolia I (non appena la guardiamo alla luce della storia dei tipi pittorici, piuttosto che alla luce di una teoria delle forme allegoriche) possa anche essere collegata alla tradizione nordica dell’allegoria pittorica; anzi, possiamo perfino arrivare a pensare che un rapporto tra le due sia assolutamente essenziale per l’incisione di Dürer. Ma le prime fasi non si troveranno nelle immagini di «Dame Merencolye». Nonostante i loro legami con le nozioni scientifiche e mediche di melanconia, per quanto riguarda la forma artistica queste hanno avuto, come si è visto, una vita propria e si sono sviluppate secondo le loro proprie leggi. A parte questo, difficilmente Dürer può averle conosciute83. Le prime fasi sono piuttosto da cercare in un gruppo di figurazioni allegoriche rappresentanti le «Arti liberali». Queste immagini non hanno nulla in comune, per quanto riguarda il contenuto, con le figurazioni che rappresentano le malattie e i temperamenti; tuttavia come concezione si adattano agevolmente ai particolari intenti artistici di Dürer, di cui in effetti mettono in evidenza la novità. Di esse ci interessano

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particolarmente quelle che illustrano la quinta delle Arti liberali, cioè la Geometria. L’arte nella Grecia classica aveva quasi interamente ignorato il mondo del lavoro manuale; e l’arte ellenistica se ne era occupata solo in forma di sentimentale pittura di genere, in cui erano raffigurati il povero che desta compassione o i contadini intenti al duro lavoro, non per dare un quadro oggettivo e naturale della realtà84. Tuttavia l’antichità romana ne trasse una varietà quasi inesauribile di tipi figurativi85. Accanto alle figurazioni puramente descrittive dei mestieri, che rimangono solidamente ancorate alla realtà in un modo tipicamente romano e ci mostrano contadini e artigiani intenti al loro lavoro quotidiano, ci sono le rappresentazioni ellenistiche che mitologizzano giocosamente questa concreta realtà, facendo lavorare putti; e ci sono, infine, innumerevoli pietre tombali, sulle quali l’occupazione del defunto è indicata raffigurando non i gesti, ma, emblematicamente, gli arnesi del suo lavoro86. Talvolta questi emblemi del lavoro possono trasformarsi nelle operazioni del lavoro stesso, come si vede in un vetro dorato su cui la figura di un armatore navale è circondata da piccole scene della vita di cantiere87. Talvolta anche, se pure non di frequente, incontriamo rappresentazioni che realmente «personificano» un mestiere, come lo specchio etrusco (strettamente legato alle lastre tombali emblematiche) che presenta un Eros alato circondato dagli arnesi del falegname: per cosí dire, «lo spirito della falegnameria»88. Solo il primo di questi tipi, le immagini descrittive di scene reali quotidiane, fu trasmesso al Medioevo dalla diretta tradizione figurativa. Negli almanacchi e nelle enciclopedie possiamo vedere scene tratte da monumenti romani riprese quasi senza mutamenti89; solo in fasi successive dell’evoluzione furono modificate e aggiornate. La personificazione delle sette Arti liberali

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era però ancora da creare (o meglio da tradurre dalla vivace e animata descrizione di Marziano Capella in termini pittoricamente efficaci)90 prima che potesse assumere le forme in cui cosí spesso la vediamo nelle grandi cattedrali e in manoscritti illustrati. Qui le Arti sono spesso accompagnate da una figura storica particolare che le rappresenta: esattamente come, nei mosaici pavimentali della tarda antichità, le nove Muse sono talvolta accompagnate da esponenti significativi delle nove arti: Calliope da Omero, Urania da Arato91, e cosí via. Anche le raffigurazioni delle sette Arti meccaniche, rappresentate per lo piú con una figura paradigmatica anziché con una personificazione, ancora dovevano essere elaborate92. E senza attingere all’antichità, per un processo di ri-creazione spontanea, ecco sorgere un tipo di immagine in cui l’abilità di un uomo o di un essere allegorico era indicata semplicemente mediante l’inclusione di uno strumento tipico della sua attività. Secoli prima che si verificasse il consapevole ritorno al tipo romano di monumento per gli artigiani o gli architetti, il che avvenne nel corso del Rinascimento93, nel fondo dei rilievi degli archivolti in cui erano raffigurati gli esponenti storici delle sette Arti si vedevano un regolo appeso a un chiodo e una tavoletta con penna, spugna, ecc.; e nei monumenti tombali agli architetti la professione del maestro defunto è indicata mediante compasso e squadra94. Un tipico esempio ne è il monumento al grande Hugues de Libergier, che, tra l’altro, è una mirabile testimonianza della venerazione che in epoca tardo-gotica (per certi aspetti, almeno emotivamente, molto simile al Rinascimento) si poteva accordare a un brillante architetto. Però non c’e dubbio che gli arnesi per scrivere, sugli archivolti di Chartres, vogliono essere realistici, mentre gli arnesi sulla lastra tombale del Maestro di Saint-Nicaise hanno lo stesso valore, puramente emblematico, che avevano nei monumenti romani.

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Queste furono le due radici della nuova iconografia. Essa sorse quando l’arte del Trecento (come sempre, piena di contraddizioni) sviluppò un simbolismo profondamente astratto, che era ideografico piú che rappresentativo, mentre nello stesso tempo poneva le basi della prospettiva naturalistica. Si poterono cosí sviluppare da un lato quegli interni di bottega che si vedono nei rilievi del Campanile di Firenze, che sembrano quasi scene di vita quotidiana; dall’altro, rappresentazioni astratte come la miniatura del 1376 nella quale la tûcnh aristotelica appare circondata dagli strumenti delle varie arti meccaniche, con le piccole figure di un contadino e un pastore ai suoi piedi95, o le strane immagini dell’Osservanza del Sabato, nelle quali le arma Christi delle rappresentazioni contemporanee di Gesú Cristo sono sostituite dagli arnesi dei vari mestieri96. Grazie al progresso della prospettiva naturalistica che si ha nel corso del xv secolo le distinzioni osservate nelle rappresentazioni delle arti tra «personificazione», «paradigma» ed «emblema» si fanno sempre meno nette. Da un lato c’erano certe figure storiche, come Cicerone, Euclide o Pitagora, che in origine erano state aggiunte alle personificazioni delle varie arti come esponenti «paradigmatici» di esse. Queste figurazioni divennero ora cosí autonome, e nello stesso tempo vennero sviluppate in rappresentazioni delle attività professionali cosí pienamente realistiche all’apparenza che la figura personificata dell’arte poteva essere eliminata e il ritratto di un Pitagora, di un Euclide o di un Cicerone poteva illustrare contemporaneamente sia una effettiva attività che l’idea generale dell’arte in questione. D’altra parte, le personificazioni astratte (del tipo, ad esempio, della miniatura dell’Aia) potevano farsi ora cosí realistiche da sembrare anch’esse rappresentazioni di genere di una certa attività concreta. In entrambi i casi le figure secondarie e gli arnesi, che nelle raffigurazioni

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precedenti avevano avuto un valore puramente emblematico, poterono trasformarsi in elementi illustrativi e integrarsi nello spazio tridimensionale della figurazione: sia con Pitagora o Cicerone (ora innalzati al livello di significazione generale), sia con la Retorica o la Musica (ora arricchite di tanti particolari da somigliare a una concreta scena di genere). Cosí, per un esempio della prima possibilità, un manoscritto tedesco del terzo quarto del xv secolo97 illustra la nozione di «geometria» mediante una figura di Euclide seduto, in compagnia di un assistente, a un tavolo ingombro di strumenti di misurazione e con in mano un compasso e una squadra, mentre in una fascia apposita che corre alla base un altro assistente sta facendo scandagli nell’acqua. In questa scena accessoria abbiamo una sorta di stadio intermedio tra l’uso puramente emblematico delle figure secondarie, come nella miniatura dell’Aia, e la loro inclusione in uno spazio comune con la figura principale. D’altra parte in un gruppo di manoscritti francesi, un po’ piú tardi, appaiono personificazioni reali, che rappresentano nozioni come la Déduccion loable98. Queste personificazioni, per inciso, sono metaforiche non meno che allegoriche, dato che i reali strumenti di lavoro Potevano essere assegnati solo a questa sottoclasse della retorica poiché nel testo le si attribuiva la capacità di rafforzare l’edificio logico del pensiero in modo «che non vi resti buco ne fessura»99. Armata di una squadra, la Déduccion loable siede in una stanza, dalla quale si vedono due case non finite e che è piena di travicelli, travi e arnesi da carpentiere che sono del tutto realistici. In questo caso possiamo o interpretare i vari strumenti come emblemi intorno ai quali è stata costruita una stanza, oppure considerare l’insieme come una bottega e stanza d’abitazione in cui gli emblemi sono disseminati.

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In base a questi esempi siamo in grado di comprendere una certa figurazione della Geometria che è della massima importanza per il nostro argomento, cioè una xilografia della Margarita philosophica di Gregor Reisch, pubblicata a Strasburgo nel 1504100. Anche qui la Geometria è una personificazione reale, siede a un tavolo pieno di figure geometriche piane e solide; le sue mani sono occupate con un compasso e una sfera101. La figura è circondata da scene di lavoro, la cui scala minore contrasta vivacemente con la prospettiva generale dell’immagine e con le dimensioni della figura principale. Le scene sono subordinate ad essa come nozioni subalterne, anziché coordinate come oggetti in uno spazio coerente; cioè il rapporto degli arnesi con la figura principale è in qualche modo simile a quello delle piccole scene di lavoro della miniatura dell’Aia con la figura dell’Arte, o a quelle sul vetro dorato già ricordato con la figura dell’armatore defunto. Al pari di queste, si possono considerare emblemi di mestieri drammatizzati. Come organizzazione, il lavoro dei carpentieri che segano e piallano è «governato» dall’armatore; in termini intellettuali, le attività che si vedono qui sono «subordinate» alla Geometria. Infatti tutto il lavoro che si sta facendo e una semplice applicazione pratica delle sue scoperte teoriche. Al pianterreno della casa in costruzione (un grosso blocco di pietra è ancora sospeso a una gru) si stanno costruendo le volte del soffitto; martello, regolo e sagoma per le modanature sono posati per terra; un uomo in ginocchio sta disegnando una pianta con l’aiuto di una squadra; un altro sta dividendo una mappa molto naturalistica in iugera; e con l’aiuto di un sestante e un astrolabio due giovani astronomi stanno studiando il cielo notturno, nel quale, nonostante la pesante nube, la luna e le stelle brillano vivacemente102. Nessuno, il cui senso storico sia capace di superare l’abisso che corre tra un’immagine didattica e una gran-

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de opera d’arte, può negare che questo typus Geometriae103 è straordinariamente simile alla Melencolia I. Non dobbiamo dimenticare che, come spesso si è rilevato, arnesi e scene di lavoro sono di continuo scambiati e, in certi casi, addirittura combinati. È quindi lecito immaginare che l’illustratore del libro di Gregor Reisch possa avere rappresentato gli arnesi come emblemi anziché mostrarne l’applicazione in scene secondarie104, basta quindi che ad essi aggiungiamo gli utensili che si vedono in effetti disseminati sul tavolo e per terra nella xilografia per renderci conto di una sorprendente concordanza nel repertorio di entrambe le immagini. Anche Dürer, sempre seguendo Marziano Capella, ci mostra una figura con una sfera e un compasso intenta a costruire; come nella xilografia, anche qui abbiamo per terra martello, sagoma per le modanature e regolo. Nella xilografia la Geometria ha gli arnesi per scrivere accanto a sé sul tavolo; anche nell’incisione di Dürer ci sono gli arnesi per scrivere a terra accanto alla sfera105; mentre i solidi, relativamente semplici, con cui armeggia la Geometria trovano il loro corrispettivo, piú complicato, nel tanto discusso romboide di Dürer106. Se si aggiunge che le nuvole, la luna e le stelle che si vedono nella xilografia hanno il loro corrispettivo nell’incisione di Dürer, e che il putto che scribacchia sulla sua lavagnetta doveva originariamente, nel disegno preparatorio, maneggiare un sestante come il giovane alla sinistra della Geometria, si deve concludere che il rapporto tra le due opere è piú che probabile. Si può perfino considerare possibile che la scala fosse da interpretare come un arnese annesso a una casa in costruzione. La Margarita philosophica era una delle piú conosciute enciclopedie dell’epoca; ne fu pubblicata una traduzione italiana ancora nel 1600: e il rapporto con l’incisione di Dürer non è invalidato dal fatto che questa abbia ripreso anche tratti da rappresentazioni non allegoriche delle occupazioni: lo è tanto

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meno in quanto queste rientrano nell’iconografia di rappresentazioni di dotti, che erano nello stesso tempo delle personificazioni delle arti liberali. Cosí, se lo si considera storicamente, il cane addormentato è semplicemente un discendente del barboncino o del cane di Pomerania che si vede cosí spesso negli studi dei dotti107; la ghirlanda è un attributo costante dell’homo literatus, e lo stesso Dürer (dato che secondo noi proprio di lui si tratta) aveva incoronato di una ghirlanda il giovane Terenzio108, mentre essa contraddistingue sia Jacob Locher, il poeta109, che Marsilio Ficino, il filosofo110. Per quanto riguarda la composizione, un’immagine astronomica come la xilografia sul frontespizio dell’Astrolabium planum di Giovanni Angelo può aver avuto anch’essa una certa influenza. Essa fu pubblicata proprio all’epoca del primo soggiorno di Dürer a Venezia e in piú di una direzione sembra in generale preparare la base per la struttura spaziale dell’incisione111. Comunque stiano le cose, non può essere pura coincidenza che tanti dei simboli düreriani delle occupazioni corrispondano a quelli che si riscontrano nel typus Geometriae, e che, come brevemente dimostreremo, anche quei particolari che mancano nella xilografia, che è piú semplice, si possano far rientrare quasi del tutto nella nozione di geometria. Ma allora la Melanconia di Dürer è davvero una Geometria? Sí e no. Infatti se essa condivide i tratti tipici della sua occupazione con la figura femminile dalla penna di pavone nella xilografia, il modo in cui esplica la sua occupazione, o meglio la sua mancanza di occupazione, l’accomuna alle raffigurazioni dei melanconici dei calendari tedeschi. Mentre nell’illustrazione di Strasburgo tutto è energica e festosa attività (le figure piccole che disegnano e misurano, osservano e sperimentano, e la loro patrona che misura con grande attenzione la sua sfera) la caratteristica saliente della Melencolia di

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Dürer è che non sta facendo nulla con tutti questi strumenti intellettuali o manuali, e che le cose su cui il suo occhio potrebbe posarsi semplicemente non esistono per lei. La sega posa inutilizzata ai suoi piedi; la mola col bordo scheggiato112 sta appoggiata inutile al muro; il libro le sta in grembo con i fermagli chiusi; il romboide e i fenomeni astrali sono ignorati; la sfera è rotolata a terra e il compasso sta «rovinandosi perché inutilizzato»113. Non c’è dubbio che, nonostante tutto, questa mancata utilizzazione delle cose che sono lí per essere usate, questo non vedere ciò che è lí per essere veduto lega la Melencolia I alla indolente melanconia rappresentata dalla filatrice addormentata o perduta in una pigra depressione. L’Acedia nel foglio volante con la testa appoggiata alla mano sinistra e il fuso inoperoso in grembo è l’ottusa sorella della Melencolia di Dürer; e quanto Dürer avesse familiare questo tipo inferiore di melanconia ce lo dice il fatto che le abbia accordato un posto nel libro di preghiere di Massimiliano114. Dal punto di vista della sola storia dei tipi, l’incisione di Dürer è quindi costituita, nei suoi particolari, di certi motivi tradizionali della Melanconia o di Saturno (chiavi e borsa, testa appoggiata alla mano, viso scuro pugno chiuso): però, considerata nel suo insieme, si può comprendere solo se la si considera una sintesi simbolica del typus Acediae (l’esempio popolare dell’inattività melanconica) con il typus Geometriae (la personificazione scolastica di una delle «arti liberali»).

2. il nuovo significato della «melencolia i». a) La nuova forma d’espressione. L’idea che sta dietro l’incisione di Dürer, volendola definire in termini di storia dei tipi, potrebbe essere

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quella della Geometria che si abbandona alla melanconia, o quella della Melanconia con la passione della geometria. Però questa unione pittorica di due figure, l’una che incarna l’ideale allegorizzato di una facoltà mentale creativa, l’altra che è l’immagine terrificante di una condizione di spirito distruttiva, ha un significato che va ben oltre la semplice fusione di due tipi. In realtà stabilisce un significato del tutto nuovo, tale da costituire, per quanto riguarda i due punti di partenza, quasi una duplice inversione di significato. Quando Dürer ha combinato la raffigurazione di una ars geometrica con quella di un homo melancholicus, un atto che equivale alla fusione di due diversi modi di pensare e di sentire, ha attribuito all’una un’anima, all’altro una mente. Egli ha avuto l’audacia di calare il sapere e il metodo atemporale di un’arte liberale nella sfera delle aspirazioni e delle sconfitte umane, e l’audacia anche di sollevare la pesantezza animale di un temperamento «triste, terrestre» all’altezza di una lotta con problemi intellettuali. L’officina della Geometria si è trasformata da un cosmo di utensili chiaramente ordinati e utilizzati in vista di uno scopo in un caos di cose inutilizzate; la loro disposizione casuale riflette un’indifferenza psicologica115. Però l’inattività della Melanconia, da letargo dell’indolente e stato d’incoscienza di chi dorme, si è trasformata nell’assillo cogente dell’uomo ipersensibile. Entrambe sono indolenti, sia l’inghirlandata e nobilitata Melencolia di Dürer, col suo compasso impugnato meccanicamente, che la sciatta Melancholica delle illustrazioni dei calendari col suo inutile fuso; però quest’ultima non sta facendo nulla perché dall’indolenza è scivolata nel sonno, l’altra perché il suo spirito è preso da visioni interiori, per cui l’affaccendarsi con arnesi pratici le sembra senza senso. L’«indolenza» in un caso è al di sotto dell’attività esteriore; nell’altro al di sopra. Se Dürer è stato il primo a sollevare la figura allegorica della Melan-

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conia al livello di un simbolo116, questa trasformazione appare ora come il mezzo (o forse il risultato) per un mutamento nel significato: la nozione di una Melencolia nella cui natura l’eccellenza intellettuale di un’arte liberale si combinava con la capacità di sofferenza di un’anima umana, poteva prendere solo la forma di un genio alato. La forza creativa che ha generato questa nuova concezione permea di sé naturalmente anche i particolari tradizionali. Oggetti di repertorio che sembrano del tutto convenzionali hanno una notevole parte nel determinare quell’impressione di casualità che è cosí tipica dell’incisione; ad esempio, la borsa, anziché essere appesa alla cintura con nastri, è scivolata negligentemente al suolo, le chiavi pendono disordinatamente dal loro anello contorto, molto diverso dalla catenella tipica della padrona di casa della Madonna del muro. E quando anche questi particolari inanimati si fanno eloquenti, quando il cane addormentato (che nelle consuete immagini dei dotti si gode la quiete dello studio e il caldo della stufa) diventa una povera bestia mezzo morta di fame, arruffata, spossata, che trema sulla fredda terra, allora come appaiono intense e nuove quelle cose che hanno avuto sempre un significato specificamente umano. Ora sappiamo che il motivo del pugno chiuso era tradizionale, ed era già stato usato qua e là prima di Dürer. Per un illustratore medievale il pugno chiuso era il segno di certe ossessioni ed era da lui concepito come un tratto inevitabile della figura in questione, altrettanto inevitabile del coltello che san Bartolomeo porta sempre. Ma nella Melencolia I di Dürer la mano chiusa regge anche la testa, per cui visibilmente si avvicina alla sede del pensiero e, cessando di essere un attributo isolato, si unisce al volto meditabondo a formare una zona di energia compressa nella quale non solo si trovano i contrasti piú forti di luce e d’ombra, ma si concentra quanto c’è nella figura, per

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il resto immota, di vita fisica e mentale. Inoltre la mano sinistra chiusa è in stridente contrasto con la destra indolentemente abbandonata; è la mano non piú di uno sventurato pazzo che «pensa», come è detto in un testo, «di tenere un grande tesoro, o tutto il mondo, in mano»; ma quella di un essere del tutto ragionevole, intento al lavoro creativo, e che nondimeno condivide col povero pazzo lo stesso destino di non riuscire ad afferrare o ad abbandonare un qualcosa che è puramente immaginario. Il gesto del pugno chiuso, che finora era stato un semplice segno di malattia, ora simboleggia la concentrazione fanatica di una mente che ha realmente colto un problema, ma nello stesso momento si sente incapace sia di scioglierlo che di lasciarlo cadere. Una evoluzione analoga a quella del pugno chiuso ha subito anche lo sguardo rivolto verso uno spazio vuoto. Quanto è diverso dall’occhio abbassato che precedentemente era attribuito al melanconico o al figlio di Saturno117! Gli occhi della Melencolia sono fissi nel regno dell’invisibile con la stessa vana intensità con cui la sua mano stringe l’impalpabile. Il suo sguardo deve la sua misteriosa espressività non solo al fatto che è rivolto in alto e che gli occhi non fissano nulla di preciso com’è tipico di chi sta pensando intensamente, ma anche, e soprattutto, al fatto che il bianco degli occhi della figura, che in uno sguardo del genere è particolarmente spiccato, risalta vivamente su un viso scuro, quel «viso scuro» che, come sappiamo, era anch’esso un tratto costante dell’immagine tradizionale della Melanconia, ma che nella raffigurazione düreriana indica qualcosa di totalmente nuovo. Anche in questo caso, rappresentando la «faccia scura» non tanto come scura di pelle, quanto come oscurata dall’ombra118, egli ha trasformato il fatto fisiognomico o patologico in un’espressione, quasi un’atmosfera. Al pari del motivo del pugno chiuso, quello del viso scuro è stato ripreso dall’ambito della semeio-

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tica medica; ma l’alterazione del colorito diviene lo stendersi di una fitta ombra, che noi intendiamo non come il risultato di una condizione fisica, ma come l’espressione di uno stato dello spirito. In questa raffigurazione il crepuscolo (indicato da un pipistrello)119 è magicamente illuminato dal chiarore di fenomeni celesti, che fanno sí che il mare nel fondo brilli di una sua fosforescenza, mentre il primo piano sembra illuminato da una luna alta nel cielo che proietta ombre profonde120. Questa «doppia luce» (è il significato letterale di twilight, crepuscolo) altamente fantastica, che domina tutta l’immagine, non si basa tanto sulle condizioni naturali di una certa ora del giorno: indica invece il misterioso crepuscolo di uno spirito, che non riesce a cacciare i suoi pensieri nella tenebra, né a «portarli alla luce». Cosí la Melencolia di Dürer (non è necessario aggiungere che la figura eretta dello studio preliminare è stata di proposito cambiata in una china) siede di fronte al suo edificio non compiuto, circondata dagli strumenti del lavoro creativo, ma meditando tristemente con il senso di non stare realizzando nulla121. Con i capelli che le scendono spettinati e lo sguardo, pensieroso e triste, fisso in un punto lontano, essa veglia, isolata dal mondo, sotto un cielo che sta oscurandosi, mentre il pipistrello inizia il suo volo in cerchio. «Un genio con ali che non dispiegherà, con una chiave che non userà per aprire, con fronde d’alloro sulla fronte, ma senza sorriso di vittoria»122. Dürer ha precisato e accentuato questa impressione di una tragedia tipicamente umana in due modi, attraverso l’aggiunta di figure sussidiarie. Il sonnecchiare del cane stanco e affamato (il precedente possessore del disegno preliminare lo chiamava giustamente «canis dormitans», usando la forma intensiva, in luogo di «canis dormiens») significa la cupa tristezza di una creatura interamente abbandonata al suo inconsapevole agio o disagio123; mentre l’operosità del putto che scrive signi-

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fica la tranquilla serenità di un essere che solo ora ha appreso l’appagamento che dà l’attività, anche quando è improduttiva, e non conosce ancora il tormento che dà il pensiero anche quando è produttivo; non è ancora capace di tristezza, perché ancora non ha raggiunto la statura umana. Il dolore consapevole di un essere umano che lotta con problemi è accentuato dalla sofferenza inconsapevole del cane che dorme e dalla felice incoscienza del bambino affaccendato.

b) Il nuovo contenuto concettuale. Il nuovo significato espresso nell’incisione düreriana si comunica all’occhio e allo spirito in modo altrettanto diretto che l’aspetto esteriore di un uomo che si avvicina rivela il suo carattere e il suo stato d’animo; e in realtà la caratteristica di una grande opera d’arte, sia che rappresenti un mazzo d’asparagi o una sottile allegoria, è l’essere compresa, a un particolare livello, tanto dall’osservatore ingenuo che dall’analista scientifico. In effetti l’impressione che prima abbiamo cercato di descrivere probabilmente sarà condivisa, in certa misura, da quasi chiunque osservi l’incisione, anche se a parole i vari sentimenti potranno essere espressi in modo diverso. Ma come ci sono opere d’arte la cui interpretazione si esaurisce nel comunicare impressioni direttamente provate, poiché la loro intenzione è assolta con la semplice rappresentazione di un mondo di oggetti di «primo grado» (in questo caso puramente visuale)124, cosí ce ne sono altre la cui composizione comprende un complesso di elementi di «secondo grado», fondato su un’eredità culturale che pertanto esprime anche un contenuto concettuale. Che la Melencolia I rientri in questo secondo gruppo è dimostrato non solo dalla nota di Dürer, che

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attribuisce un preciso significato allegorico anche agli innocenti accessori dell’abbigliamento di una donna di casa125, ma, soprattutto, dal fatto, illustrato sopra, che l’incisione düreriana è il risultato di una sintesi di certe rappresentazioni allegoriche della melanconia e delle arti, il cui contenuto concettuale, non meno del loro significato espressivo, è certamente cambiato, però non è andato perduto del tutto. È quindi assai probabile che i motivi caratteristici dell’incisione si debbano spiegare o come simboli di Saturno (o della Melanconia), o come simboli della Geometria. i) Simboli di Saturno e della Melanconia. Abbiamo trattato per prima cosa dei motivi connessi con Saturno (o la Melanconia): la testa sostenuta dalla mano, la borsa e le chiavi, il pugno chiuso, il volto scuro126, poiché rientravano tra le caratteristiche personali del melanconico, e perché erano stati tutti elaborati, in modo piú o meno completo, nella tradizione predüreriana. Accanto a questi motivi ce ne sono altri che non sono tanto proprietà essenziali, quanto accessori estranei delle figure rappresentate, e alcuni di essi non compaiono nella tradizione figurativa precedente. Il primo di questi motivi sussidiari è il cane, che di per sé era un tema proprio delle rappresentazioni tipiche dei dotti. La sua inclusione qui e il rovesciamento del suo significato, per cui diviene un compagno di sofferenza della Melencolia, può tuttavia giustificarsi con diverse considerazioni. Non solo è ricordato in parecchie fonti astrologiche come un tipico animale di Saturno127, ma in Orapollo (l’introduzione ai Misteri dell’alfabeto egizio per la quale gli umanisti avevano un culto quasi idolatrico) esso è associato alla disposizione dei melanconici in genere e dei dotti e dei profeti in particolare. Nel 1512 Pirckheimer aveva finito una traduzione di Ora-

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pollo dal greco e Dürer stesso aveva fornito illustrazioni per l’opera; e, cosa curiosa, di questo codice realizzato insieme dai due sopravvive proprio la pagina (disegno di Dürer L83) in cui è scritto che il geroglifico di un cane significa, tra l’altro, la milza, i profeti e le «sacras literas» (tutte nozioni che dal tempo di Aristotele in poi, erano state strettamente connesse col melanconico), e che il cane, piú dotato e sensibile di altri animali, ha una natura molto seria e può cadere vittima della pazzia, e, come i profondi pensatori, è portato ad essere sempre in caccia, fiutando le cose e inseguendole senza lasciarle128. «Il miglior cane», afferma un cultore di geroglifici contemporaneo, è quindi quello «che ha l’aspetto, come si dice dal volgo, piú melanconico»129: cosa che si potrebbe dire, con tutte le ragioni, del cane che si vede nell’incisione di Dürer. Il motivo del pipistrello è del tutto indipendente dalla tradizione figurativa. In effetti la sua invenzione si deve esclusivamente a una tradizione di testi; e perfino nella Kurzgefasste Mythologie del Ramler è ancora citato come l’animale simbolico dei melanconici130. È menzionato anche in Orapollo come segno dell’«homo aegrotans et incontinens»131. Inoltre è servito agli umanisti del Rinascimento come esempio (in senso positivo o negativo) di veglia notturna o di lavoro notturno. Secondo Agrippa di Nettesheim la sua caratteristica essenziale è la vigilantia132; secondo il Ficino è un esempio su cui riflettere degli effetti rovinosi e distruttivi dello studio notturno133; e (cosa forse piú notevole di tutte) in epoche antiche le sue membrane erano usate realmente per scrivere, in particolare per stendere esorcismi contro l’insonnia134. Infine la veduta marina con le piccole navi si può far rientrare anch’essa nel contesto di Saturno e della Melanconia. Da astrologi classici e arabi il dio che fuggí per mare nel Lazio fu considerato «signore del mare e

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dei naviganti», per cui i suoi figli amavano vivere accanto all’acqua e guadagnarsi da vivere con le attività marinare135. E non è tutto. Saturno, e piú particolarmente ogni cometa a lui legata, era considerato responsabile delle inondazioni e delle alte maree; e si può affermare con sicurezza che ogni cometa che figura in una rappresentazione della Melanconia deve essere una di queste «comete saturnine», di cui è detto espressamente che minacciano il mondo con il «dominium melancholiae»136. È quindi difficile che per pura coincidenza un arcobaleno brilli sul mare di Dürer e che l’acqua abbia talmente allagato la piatta riva da lambire gli alberi tra le due luminose penisole. Infatti perfino in testi cuneiformi babilonesi era stato considerato un fatto certo che una cometa con la testa rivolta verso la terra preannunziasse alta marea, ed era il melanconico in particolare che sapeva prevedere simili catastrofi137. Tuttavia questi fenomeni, in parte tristi, in parte minacciosi, sono bilanciati da due altri motivi138 che stanno a rappresentare dei palliativi contro Saturno e contro la Melanconia. Una è la ghirlanda di cui la donna ha cinta la fronte. Benché, nella storia dei tipi, questa ghirlanda si possa far derivare da quella di cui si ornava l’homo literatus e quindi affermi capacità intellettuali della Melencolia139, tuttavia si deve anche considerare come un antidoto alla melanconia, poiché è composta con le foglie di due piante che sono entrambe di natura acquatica e quindi si contrappongono alla natura asciutta e terrestre del temperamento melanconico. Queste piante sono il ranuncolo acquatico (Ranunculus aquaticus), che Dürer già aveva associato alla combinazione di Auster, Phlegma e Aqua nella xilografia140 che aveva fatto per illustrare l’opera di Conrad Celtis, e il comune crescione (Nasturtium officinale)141. L’altro antidoto è il quadrato del numero quattro, a quanto sembra inciso su metallo: grazie alle ricerche da pioniere del Giehlow

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non ci può piú essere dubbio che questo è inteso non solo come un segno della disposizione alla matematica del genio melanconico ma, soprattutto, come un «quadrato magico» nel senso originario dell’espressione142. Si tratta di un talismano per attirare l’influenza salutifera di Giove; è il sostituto non pittorico, ma matematico di quelle immagini di divinità astrali che erano raccomandate dal Ficino, da Agrippa e da tutti gli altri maestri della magia bianca. Di questa mensula Jovis, che conteneva in sé tutte le forze benefiche del temperator Saturni, un autore trecentesco scriveva: «E se qualcuno la porterà, se sarà sfortunato diventerà fortunato, se già sarà fortunato lo diventerà ancora di piú»143; e in Paracelso leggiamo: «Questo simbolo se verrà portato... renderà chi lo porta fortunato in tutte le sue faccende, e allontanerà tutte le preoccupazioni e la paura»144. Dürer non era un aritmetico, però aveva pienamente familiare il significato del quadrato magico nella iatromatematica, e forse questo è l’unico aspetto di questa curiosa combinazione di numeri che può avere attirato la sua attenzione e fissato il suo interesse. Questo infatti è chiaro, non solo perché i quadrati erano stati riconosciuti come simboli dei vari pianeti in un’epoca in cui i problemi aritmetici in essi impliciti non erano ancora stati affatto investigati145, ma anche perché, come si è scoperto di recente, una persona con cui probabilmente Dürer venne personalmente in contatto aveva familiarità con i quadrati planetari: Luca Pacioli, che Dürer può facilmente aver incontrato a Bologna, anche se non si recò in questa città espressamente per conoscerlo. Nel 1500 il Pacioli aveva in effetti scritto un trattatello sui simboli dei pianeti. In esso egli cita fonti arabe; ed è fornita una versione del quadrato di Giove che presenta la stessa disposizione dei numeri (disposizione che non è affatto l’unica possibile146) che si vede nella Metencolia I di Dürer147.

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Ma tutti questi antidoti sono solo un debole espediente di fronte al vero destino del melanconico. Come il Ficino aveva già compreso che la resa totale e senza condizioni alla volontà di Saturno era dopo tutto non solo l’ultima ma anche l’optima ratio per l’intellettuale, cosí anche Dürer (come si può vedere dal volto scuro e dal pugno chiuso) crea una Melencolia il cui destino triste ma sublime non può, e forse non deve, essere allontanato da palliativi, sia naturali che magici. Se il conflitto cosmico tra Saturno e Giove148 fosse mai giunto a una soluzione finale, avrebbe potuto, per Dürer, non concludersi con una vittoria di Giove. ii) Simboli geometrici. I motivi che non abbiamo finora spiegato sono, come si è accennato, i simboli geometrici. Questo vale senza riserve per gli arnesi e gli oggetti che compaiono nella raffigurazione della Geometria nella Margarita philosophica: cioè, le stelle in cielo, l’edificio in costruzione, il blocco di pietra, la sfera, il compasso, la sagoma per le modanature e la squadra, il martello, gli arnesi per scrivere. Infatti la storia figurativa di tutte queste cose dimostra che esse sono simboli di un’occupazione che pratica «l’arte del misurare», sia come fine a se stessa che come mezzo per altri fini, tutti piú o meno pratici. Il compasso in mano alla Melencolia simboleggia, per cosí dire, il fine intellettuale unificante che sta alla base della grande varietà di arnesi e oggetti da cui è circondata; e se vogliamo fare delle suddivisioni, possiamo dire che, insieme alla sfera e agli arnesi per scrivere, il compasso significa la pura geometria; che l’edificio in costruzione, la sagoma per le modanature, la squadra e il martello significano la geometria applicata al lavoro manuale e all’attività costruttiva; che i fenomeni astrali alludono alla geometria utilizzata a

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scopi astronomici o meteorologici149; e infine che il poliedro rappresenta la geometria descrittiva: poiché qui, come in molte altre rappresentazioni contemporanee, esso è sia un problema che un simbolo di ottica definita geometricamente, più in particolare, di prospettiva150. Ma anche tutti gli altri oggetti si possono facilmente collegare col typus Geometriae, quale lo si vede nella xilografia di Strasburgo. La pialla e la sega, i chiodi e le tenaglie, e forse l’oggetto quasi nascosto, che generalmente è detto un clistere151, ma che è piú probabile sia un soffietto: tutti questi oggetti servono semplicemente ad ingrossare l’inventario di costruttori, falegnami e carpentieri, che usano anche la mola per affilare, arrotondata e levigata dallo scalpellino152. Alcuni hanno voluto perfino aggiungere ad essi il crogiolo con le piccole molle153, ma noi preferiamo attribuire questi oggetti all’arte piú delicata dell’oreficeria154, o all’alchimia, la nera arte legata non alla geometria, ma alla melanconia saturnina155. Il libro amplia il simbolismo del compasso, della sfera e degli arnesi per scrivere, nel senso che sottolinea la teoria, anziché l’applicazione della geometria; ed è ovvio che, come strumenti per misurare il tempo e il peso, le bilance e la clessidra (con il relativo campanello)156 rientrano anch’esse nell’immagine complessiva della Geometria. Macrobio aveva già definito il tempo «una certa dimensione che si coglie dal ruotare del cielo» (mostrando cosí il suo rapporto con l’astronomia)157; e quanto al pesare, in un periodo che non aveva ancora elaborato la nozione di fisica sperimentale, esso era cosí pacificamente ritenuto una delle funzioni della geometria che un famoso distico da mandare a memoria nelle scuole, dedicato alle sette arti liberali, citava il ponderare come il compito essenziale della Geometria: La Grammatica parla, la Dialettica insegna le cose vere, la Retorica colora le parole, | la Musica canta, l’Aritmetica

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conta, la Geometria pesa, l’Astronomia si occupa degli astri158.

Sappiamo anche, per sua stessa ammissione, che Dürer stesso riteneva che l’attività puramente manuale delle arti minori fosse geometria applicata, esattamente come faceva la tradizione rappresentata nelle xilografie ora studiate159. Nella premessa alle sue Unterweisung der Messung (Istruzioni sul misurare), a cui lavorava in quell’epoca160, egli scriveva: Di conseguenza spero che nessuna persona ragionevole vorrà biasimarmi per la mia impresa poiché è condotta con un’intenzione buona e per l’utile di tutti gli amanti dell’arte; ed essa può risultare utile non solo per i pittori ma anche per gli orafi, gli scultori, gli scalpellini e i falegnami e tutti coloro che hanno bisogno di misure161.

Inoltre non è forse per puro caso che in un abbozzo di questa stessa introduzione Dürer abbia abbinato «il piallare e il tornire» allo stesso modo che la pialla e la sfera tornita stanno insieme nell’incisione162.

iii) Simboli di Saturno o della Melanconia combinati con simboli geometrici: in rapporto alla mitologia e all’astrologia, in rapporto all’epistemologia e alla psicologia. Finora, in accordo con il corrispondente dualismo nell’evoluzione dei tipi, abbiamo cercato il contenuto concettuale della Melencolia I in due direzioni del tutto separate. Però sarebbe sorprendente, e l’operazione di Dürer si dimostrerebbe casuale, o almeno arbitraria, se un dualismo che sembra sia stato risolto in modo cosí completo sul piano della forma non risultasse possedere

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una sua unità anche sul piano del significato; o se l’ardita idea di caratterizzare la Melanconia come Geometria, o la Geometria come Melanconia, non avesse in ultima analisi rivelato un’intima affinità tra i due temi. E questa affinità sembra in realtà esistere. L’esempio occidentale piú antico (e, nello stesso tempo, piú completo) delle serie di immagini, già menzionate, raffiguranti i «figli dei pianeti»163 è, come si ricorderà, il ciclo di figurazioni del Salone di Padova. Ancora impostato secondo la forma tabulare di carattere scientifico dei manoscritti islamici, ma sostanzialmente occidentale come stile, esso illustra le occupazioni e le caratteristiche di tutti coloro la cui nascita e il cui destino sono governati da un dato pianeta. Tra coloro che sono sotto il dominio di Saturno (raffigurato lui stesso come un re «silenzioso»)164 vediamo un uomo ammalato e melanconico, zoppo da una gamba, con la testa appoggiata alla mano; poi un dotto, seduto, ma col braccio nella stessa tipica posizione, il cui doppio significato (dolore e riflessione) viene ad essere diviso tra le due figure; e poi un conciatore, un falegname, un avaro che seppellisce un tesoro, uno scalpellino, un contadino, un arrotino, un giardiniere e numerosi eremiti. È possibile cosí constatare che la maggior parte di quei simboli dei mestieri, la cui presenza nell’incisione della Melencolia di Dürer era apparsa spiegabile sono in termini di «arte della misurazione», trovano posto anche nel mondo di Saturno. Infatti, in quanto pratiche e manuali, le attività rappresentate nell’incisione di Dürer rientrano non solo nel gruppo che abbiamo visto illustrato nella xilografia della Geometria della Margarita philosophica, ma anche in quelli che gli scritti sui pianeti definiscono gli artificia Saturni: cioè i mestieri del carpentarius, del lapicida, del cementarius, dell’edificator edificiorum, tutti mestieri che sono citati da Abû Ma‘∫ar, Alcabizio, Ibn Esra e gli altri come tipicamente saturni-

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ni165, perché piú degli altri hanno a che vedere col legno e la pietra. Poiché è nella serie del Salone che si vedono non solo arnesi degli scalpellini e dei falegnami in azione, ma anche la mola dell’arrotino (altrove molto rara), si può supporre che questi affreschi abbiano esercitato un’influenza diretta sul programma dell’incisione, soprattutto sapendo che Willibald Pirckheimer studiò per piú di tre anni a Padova e che lo stesso Dürer sembra abbia visitato la città166. Tuttavia non è solo un rapporto concreto di materiali, fondato su un preminente impiego della pietra e del legno, a collegare le attività saturnine che figurano nel Salone con le corrispondenti attività che compaiono nelle raffigurazioni non astrologiche dei diversi tipi di lavoro. Lo stesso principio intellettuale, cioè il fondamento teorico che sottostà a questa attività pratica, in altre parole la stessa geometria, è stato riconosciuto come parte del protettorato di Saturno; e gli strumenti e gli oggetti di natura piú scientifica, non meno degli arnesi piú comuni nell’incisione di Dürer, assumono per questa via la strana ambivalenza che, per cosí dire, sanziona il legame tra la geometria e la melanconia. Quando le sette arti liberali, che Marziano Capella ancora aveva considerato ministrae di Mercurio, cominciarono ad essere distribuite tra i sette pianeti, a Saturno fu dapprima assegnata l’astronomia perché, come ebbe ad affermare Dante, questa era la «piú elevata» e la «piú sicura» delle arti liberali167. Questo sistema, quasi universalmente accettato nel Medioevo, piú tardi fu modificato, per cui a Saturno, invece dell’astronomia, toccò la geometria, che prima aveva avuto come suoi patroni altri pianeti: Marte, Giove e soprattutto Mercurio. Quando e dove questo sia avvenuto, e se certe speculazioni della psicologia scolastica168 vi abbiano avuto o meno una qualche influenza, sono interrogativi cui non si può dare una risposta definitiva; ma anche

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senza questa influenza il mutamento sarebbe comprensibile, poiché il vecchio dio della terra, a cui era stata originariamente associata la misurazione dei campi, il dio nel cui tempio a Roma erano appese le bilance169, il dio che, come auctor temporum, governava la misurazione del tempo170 nonché dello spazio: questo vecchio dio della terra poteva tanto piú facilmente essere riconosciuto come patrono della geometria nel suo senso piú largo, in quanto le traduzioni di Abû Ma‘∫ar accessibili in Occidente avevano attribuito all’affermazione abbastanza vaga dell’autore arabo, «egli significa la valutazione (o determinazione) delle cose», un significato molto piú preciso, traducendolo in un caso: «Significat... quantitates sive mensuras rerum», e un’altra volta addirittura: «Eius est... rerum dimensio et pondus». Per giungere al punto di far coincidere Saturno con la Geometria occorreva solo applicare consapevolmente tali attributi al sistema delle sette arti liberali; ed è curioso che non molto tempo prima di Dürer questa identificazione si era diffusa generalmente sia nei testi scritti che nelle immagini, soprattutto in Germania. Per cui la raffigurazione di Saturno nel manoscritto di Tubinga (un’immagine assolutamente normale dei «figli di Saturno», in cui i nati sotto Saturno sono raffigurati, come al solito, come poveri contadini, fornai, zoppi e criminali) attribuisce di fatto al dio, oltre e al di là della sua pala e del suo piccone, un compasso, sia pure mal disegnato171. Lo stesso manoscritto nelle figure che illustrano il rapporto delle sette arti liberali con i pianeti, attribuisce a Saturno il patrocinio della geometria172; un codice, alquanto piú tardo, di Wolfenbüttel, include di fatto fra i suoi seguaci un frate mendicante che inequivocabilmente è dotato di un gigantesco compasso173. Una spiegazione di questa figura è fornita nel titolo. Questo dice: Il pianeta Saturno ci invia lo spirito che ci insegna la geometria, l’umiltà e la costanza (il frate

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mendicante rappresenta queste tre qualità); e un calendario stampato a Norimberga esattamente un anno dopo l’incisione di Dürer dice di Saturno: «Delle arti egli significa la geometria»174. Cosí, anche da un punto di vista astrologico, Dürer (o il suo consulente) era giustificato nel considerare tutto ciò che era incluso nella nozione di geometria come di competenza di Saturno; e quando fuse il tradizionale typus Acediae con l’altrettanto tradizionale typus Geometriae in una nuova unità, tutti questi simboli del lavoro poterono, entro questa unità, essere considerati come simboli sia della geometria che della melanconia, dato che era Saturno che governava l’una e l’altra nella loro totalità. Naturalmente c’è una profonda differenza tra l’occasionale presenza di un melanconico o di un geometra tra contadini, zoppi e criminali in una delle rappresentazioni dei figli di Saturno, e la fusione compiuta da Dürer della triade Saturno, Melanconia e Geometria in un’immagine simbolica unificata. Ma, una volta realizzata, questa sintesi influenzò gli sviluppi successivi in misura eccezionalmente vasta, e mantenne la sua forza anche quando, in termini formali, si scisse di nuovo. A prescindere dalle imitazioni ed elaborazioni dirette, di cui parleremo piú avanti175, e a prescindere anche dall’azione che un’incisione, nata da una fusione tra rappresentazioni delle arti liberali e rappresentazioni dei quattro temperamenti, avrebbe a sua volta esercitato sulle personificazioni delle arti176, rimane il fatto che anche dove non possiamo dimostrare la diretta influenza di Dürer, possiamo però avvertire lo sviluppo del suo pensiero: ad esempio, nelle povere xilografie che illustrano un compendio delle regole igieniche salernitane (del tutto privo di originalità sia nella stesura che nelle illustrazioni), che mostrano il melanconico a un tavolo da disegno da geometra177. Però la fusione Düreriana

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delle nozioni di Melanconia, Saturno e Artes Geometricae178 si trova adottata e illustrata in modo notevole in una grande xilografia disegnata da un pittore dell’Assia, Hans Döring, e pubblicata nel 1535179. Questa xilografia costituiva il frontespizio di un libro sulle opere di fortificazione e mirava quindi a glorificare l’arte di castra moliri e loca tuta circumfodere. Per assolvere al suo compito, però, l’artista non ha saputo escogitare di meglio che ridurre il contenuto della Metencolia I di Dürer a una formula universalmente comprensibile, il che ha significato ridurre e nello stesso tempo ampliare. La sua immagine, che è esplicitamente definita come Melankolya a pagina 4 del testo, riunisce gli arnesi dell’incisione Düreriana (tralasciando la mola da arrotino, il blocco, la scala, il quadrato magico, la bilancia e la clessidra, ma aggiungendo un mazzuolo e una lampada per saldare)180 sopra un plinto sagomato, che probabilmente rappresenta i loca tuta; e su una sfera posta al centro siede una piccola figura alata che, osservata meglio, risulta una sintesi della Melencolia e del suo putto (la posizione e l’aria infantile vengono da quest’ultimo, l’atteggiamento pensoso, il libro e il compasso dalla figura femminile). La sfera però reca il segno di Saturno, e sopra tutto questo, copiato esattamente dalla serie di immagini planetarie di Jörg Pencz del 1531 (precedentemente attribuito a Hans Sebald Beham), il vecchio divoratore di bambini in persona trascorre di gran carriera per il cielo sul suo carro tirato da draghi. Sotto c’è una tabella con un’iscrizione che vuole ulteriormente accentuare il rapporto della raffigurazione con Saturno: Vecchissimo, sono lento siccome il piú alto dell’universo, tutto ciò che i fati già mi diedero abbatto con la mia falce; ora sí che il guerriero marziale a me fa guerra: questi luoghi, resi sicuri dalle mie arti, si stendono circondati da fossati; tu invece che mediti di costruire

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fortezze sotto una stretta valle, rifletti, ti prego, come ciò possa farsi. Quel fanciullo te lo insegnerà: a coloro che ho generato, faccio dono di questo talento, spiccheranno in questa capacità181.

Martin Lutero ebbe a dire una volta: «La medicina fa ammalare gli uomini, la matematica li rende tristi, la teologia cattivi»182. Almeno per quanto riguarda la matematica, quest’epigramma contiene un embrione di seria e provata psicologia, in quanto, mentre la battuta contro le altre due scienze si limita ad affermare che ottengono l’opposto di ciò che si propongono, della matematica non dice, come ci si potrebbe aspettare dallo schema del discorso, che rende gli uomini stupidi o li confonde, ma che li rende tristi. Questa sorprendente dichiarazione si può spiegare con l’esistenza di una teoria che collega la matematica alla melanconia: non un mito ammantato di astrologia, ma una teoria psicologica fondata sull’epistemologia. I maggiori sostenitori di questa tesi sono stati i due grandi scolastici Raimondo Lullo ed Enrico di Gand. Raimondo Lullo nel suo Tractatus novus de astronomia (1297)183, trasse le sue informazioni dai compendi arabi, per cui Saturno, sia terrestre che acquatico come natura, è essenzialmente malevolo e inculca nei suoi figli la melanconia attraverso le loro pesanti inclinazioni. D’altra parte li fornisce di una buona memoria, di solido attaccamento ai loro principî, profonda dottrina e disposizione a intraprendere grandi lavori di costruzione: insomma, tutto ciò che Abû Ma‘∫ar e gli altri astrologi a lui affini avevano attribuito a Saturno. Raimondo però conosceva molto bene Aristotele e non si accontentò di riportare queste caratteristiche astrologiche (della cui verità egli non dubitò nemmeno per un istante), ma si accinse a dimostrarle scientificamente fino all’ultimo particolare. Cosí egli attribuí l’inclinazione del

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saturnino alle «species fantasticas et matematicas», nonché la sua buona memoria, in parte al fatto che l’acqua era una sostanza impressionabile e la terra una sostanza solida che conservava a lungo tutte le impronte ricevute; e in parte alla particolarissima corrispondenza («concordia») che intercorreva tra la melanconia e l’immaginazione. Essi [i figli di Saturno] ricevono forti impressioni dalla loro immaginazione, che è legata alla complessione melanconica piú strettamente che a ogni altra. E la ragione per cui la melanconia ha, con l’immaginazione, una corrispondenza e un rapporto piú stretti che ogni altra complessione, è che l’immaginazione si fonda sulla misura, la linea, la forma e il colore184, che si conservano meglio nell’acqua e nella terra, poiché tali elementi hanno una sostanza piú densa del fuoco e dell’aria185.

Uno dei maggiori pensatori del xiii secolo, Enrico di Gand, è mosso da riflessioni assai diverse e molto piú profonde. Anch’egli parte dall’assunto (che risale originariamente all’Etica Nicomachea) che esiste un rapporto sostanziale tra melanconia ed immaginazione186. Ma mentre Lullo, pensando in termini astrologici e interpretando la melanconia secondo la dottrina delle complessioni, indaga intorno all’influenza di una certa disposizione umorale su una facoltà intellettuale, Enrico di Gand, argomentando in base a premesse puramente filosofiche e intendendo la melanconia come un oscuramento dell’intelletto, indaga intorno all’influenza di un certo stato delle facoltà intellettuali sulla vita emotiva. Il primo si chiede perché i melanconici (in senso umorale) sono particolarmente fantasiosi e quindi particolarmente portati alla matematica. Il secondo si chiede perché le persone particolarmente fantasiose, e quindi dotate per la matematica, sono melanconiche; e trova la

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risposta all’interrogativo nel fatto che una disposizione prevalentemente immaginativa porta a una spiccata capacità per la matematica, ma nello stesso tempo rende lo spirito incapace di speculazione metafisica. Questo limite intellettuale, e il sentimento che ne risulta di essere prigionieri entro muri che li chiudono, rende melanconici coloro che sono cosí impediti. Secondo Enrico di Gand ci sono due tipi di persone, diverse nella natura e nei limiti delle loro facoltà intellettuali. Ci sono quelle dotate di attitudini al ragionamento metafisico; i loro pensieri non sono dominati dall’immaginazione. E ci sono quelle che sono in grado di concepire una nozione solo quando questa è tale che l’immaginazione può convivere con essa, sicché può essere visualizzata in termini spaziali. Costoro sono incapaci di intendere che non c’è spazio né tempo al di la del mondo, né possono credere che ci siano esseri incorporei nel mondo, esseri che non sono né nello spazio né nel tempo: Il loro intelletto non riesce a liberarsi dalle imposizioni della loro immaginazione... tutto ciò che pensano deve avere estensione o, come il punto geometrico, occupare una posizione nello spazio. Per questa ragione queste persone sono melanconiche, e sono i migliori matematici, però i peggiori metafisici; infatti non riescono a sollevare il loro spirito al di sopra delle nozioni spaziali su cui si basa la matematica187.

iv) Arte e pratica. La geometria era la scienza per eccellenza per Dürer, come per la sua epoca188. Come uno dei suoi amici, probabilmente Pirckheimer, aveva affermato che Dio stesso aveva una cosí alta considerazione della misura che aveva creato tutte le cose secondo il numero, il peso e

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la misura189, cosí Dürer, riecheggiando consapevolmente le stesse parole (platonizzanti) della Scrittura (Sapienza, XI, 21)190 ebbe ad affermare orgogliosamente di sé: «E prenderò come mio fine la misura, il numero e il peso»191. Il «fine» cui si accenna qui era il libro di Dürer sulla pittura, e la somma di ciò che doveva basarsi sulla misura, il numero e il peso era ciò che Dürer chiamava «arte» nel suo senso piú pieno, la recta ratio faciendorum operum, come Filippo Melantone, parafrasando san Tommaso d’Aquino, aveva definito il concetto di arte192. Rientrato dal suo secondo viaggio in Italia, Dürer si dedicò ad insegnare agli artisti tedeschi questa ratio, cioè l’arte della misurazione, della prospettiva, e cosí via. Infatti egli la considerava ciò che finora agli artisti tedeschi era mancato193, e la sola cosa che poteva riuscire ad escludere la «falsità» da un’opera d’arte. Essa sola poteva assicurare agli artisti il dominio sulla natura e sulla loro stessa opera. Essa sola li poteva salvare dall’«approssimativo»; essa sola, accanto alla grazia divina, assicurava quel carattere intransigente alla facoltà artistica che Dürer chiamava «potenza». «Parimenti, l’altra parte mostra come il giovane debba essere educato nel timore di Dio e con cura, per cui conquistando grazia egli possa crescere forte e vigoroso nell’arte razionale»194. Cosí afferma Dürer nel primo progetto generale del suo libro sulla pittura, scritto in un momento in cui non poteva ancora avere alcuna idea di come nel corso degli anni questo libro si sarebbe ridotto a due trattati matematici nel senso piú stretto. Egli non si stancò mai di predicare che questa «potenza» creativa, da lui considerata l’essenza del genio artistico, era strettamente legata al possesso dell’«arte»: cioè a un insieme di conoscenze fondate in ultima analisi sulla matematica.

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Quando hai imparato a misurare correttamente... non è necessario misurare sempre ogni cosa, poiché l’arte da te acquisita avrà esercitato il tuo occhio a misurare accuratamente e la tua mano ormai impratichita ti ubbidirà. Cosí la potenza dell’arte eviterà l’errore nella tua opera e ti eviterà di fare sbagli... e quindi la tua opera apparirà artistica e gradevole, intensa, libera e buona, e sarà lodata da molti perché la correttezza è divenuta parte di essa195.

La «potenza», quindi, era ciò che Dürer considerava il fine e l’essenza della rapacità artistica; e quindi la frase apparentemente casuale «le chiavi significano potenza» acquista un nuovo e piú profondo significato. Se, come si è visto, la Melanconia della Melencolia I non è una comune Melanconia ma una Melanconia «geometrica», una Melancholia artificialis, può essere che la «potenza» ad essa attribuita non sia la comune facoltà del saturnino, ma la speciale capacità dell’artista fondata sulla recta ratio faciendorum operum? Non è la Melencolia stessa il genio che presiede all’arte? Ci piacerebbe pensarlo, dato che è sostanzialmente inverosimile che Dürer abbia voluto attribuire a un essere, chiaramente riconoscibile come una personificazione della geometria, una potenza nel senso di potere politico o di influenza personale. E nel pensare cosí siamo tanto piú giustificati in quanto Dürer era solito anche associare la ricchezza (simboleggiata dalla borsa, cioè l’attributo apparentemente ancor più «accidentale» del melanconico saturnino) alla nozione di risultato artistico. Come disporre della «potenza» è la meta ideale dell’artista eminente, cosí la «ricchezza» è la sua ricompensa legittima, accordata da Dio: una ricompensa prontamente concessa molti secoli fa ai grandi maestri del passato, e che gli artisti del suo tempo dovrebbero attendersi, e, in caso di necessità, richiedere:

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Poiché essi [i re potenti] fecero ricchi gli artisti migliori e li onorarono. Poiché essi pensavano che quelli molto sapienti somigliavano a Dio196... Parimenti, un tale eccellente artista dovrà essere pagato lautamente per la sua arte, e mai somma sarà troppo grande, ed è cosa santa e giusta197.

Dürer quindi intendeva sia la potenza che la ricchezza in un senso specificamente professionale, e in un senso che era legato inseparabilmente con la nozione di arte, e quindi con l’educazione matematica: per il vero artista (quello la cui opera si fonda sulla conoscenza consapevole dei principî teorici della produzione) la potenza è un fine e la ricchezza una legittima pretesa. Ma l’arte fondata sulla misura, il peso e il numero, come è incarnata nella figura della Melencolia düreriana, per Dürer era ancora solo un elemento necessario del risultato artistico, ancora solo una condizione della potenza artistica. Per quanto alto fosse il suo concetto della ratio, in modo veramente rinascimentale, egli era altrettanto un uomo del Rinascimento quando affermava che nessuna conoscenza teorica era utile senza la padronanza della tecnica, nessuna bona ratio senza «la libertà della mano», nessuna «arte razionale» senza la «pratica quotidiana». «Queste due devono andare insieme»198, afferma Dürer in un abbozzo preparatorio della sua dottrina delle proporzioni. Infatti, sebbene, come tutti i pensatori del Rinascimento (basti ricordare la frase di Leonardo da Vinci: «La scientia è il capitano e la pratica sono i soldati»)199, Dürer riconoscesse l’Arte come il piú alto e determinante principio della ricerca creativa (per cui la pratica senza l’arte gli appariva come corruzione e prigionia), tuttavia doveva ammettere che «senza la pratica»200 l’arte, come egli l’intendeva, «rimane nascosta», e che teoria e pratica devono procedere insieme, «per cui la mano possa fare ciò che vuole la volontà»201. Ora se la figura della Melencolia significa

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l’Arte che genera la potenza, si pone il problema se la sua controparte non intellettuale, cioè la Pratica che rivela la potenza, non abbia forse avuto ciò che le spettava nell’incisione di Dürer. E cosí infatti sembra, perché se, in base alla nostra impressione puramente visiva, abbiamo dovuto interpretare il putto che scrive come una figura contrapposta alla Melencolia, ora possiamo, per cosí dire, dare un nome preciso a questa contrapposizione e suggerire che il putto significa la «pratica». Questo bambino siede quasi nella stessa posizione della donna, eppure (quasi al limite della parodia) ne rovescia l’aspetto in ogni particolare: gli occhi non sono piú rivolti in alto, persi nel vuoto, ma fissi intensamente sulla lavagna, le mani non in ozio o serrate, ma attivamente affaccendate. Il putto (anch’egli alato, ma, nonostante questo, un semplice assistente, che offre un’attività puramente manuale in cambio della potenza dell’ingegno) può benissimo essere un esempio di attività senza pensiero, esattamente come la Melencolia stessa è un esempio di pensiero senza attività. Egli non prende parte alla creazione intellettuale, però non partecipa nemmeno dell’angoscia connessa a questa creazione. Se l’Arte sente di essere di fronte a limiti insormontabili, la cieca Pratica non avverte alcuna limitazione. Anche quando, nell’ora meno propizia di Saturno, l’Ars e l’Usus si sono separati (questa è l’ora che vediamo nell’incisione, dato che la figura principale è troppo presa dai suoi pensieri per badare all’attività del bambino)202 e anche quando la stessa Arte è sopraffatta dallo sconforto, la Pratica può ancora abbandonarsi ad una ottusa attività senza pensiero203. Quel mirabile acquafortista e incisore che è Alexander Friedrich ci ha dimostrato che non si tratta di un’interpretazione meramente arbitraria204; infatti egli fa osservare che lo strumento per scrivere che il putto di Dürer sta usando cosí vivacemente e spensieratamente

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è in realtà lo strumento specifico dell’artista, cioè un bulino, col suo tipico manico e la scanalatura per l’inserimento della sottile punta quadrata per incidere: qui usato nel modo meno adatto. Inoltre c’è il fatto che il rapporto che cogliamo nell’incisione di Dürer fra teoria e pratica da un lato e successo ideale e materiale dall’altro, si può ritrovare in altre rappresentazioni simboliche ideografiche del fare artistico, ad esempio nel frontespizio inciso di Hendrick Hondius premesso alla sua nota raccolta di ritratti di artisti olandesi, che quasi si potrebbe considerare una versione piú positiva del programma di Dürer205. Vi si vedono due figure allegoriche nude, una con la tavolozza, i pennelli e il caduceo di Mercurio, che rappresenta la Pictura, l’altra, con strumenti matematici, che rappresenta l’Optica; per quanto non sprofondate nella depressione come la Melencolia di Dürer, le due donne sembrano paghe di contemplare la loro eccellenza, mentre sopra di esse vediamo due putti attivamente impegnati nel lavoro pratico che rappresentano l’assiduus labor206. I due fattori del processo creativo che Dürer ha concepito in tutta la complicata tensione del loro rapporto appaiono qui in amichevole accordo; però sono ancora gli stessi due fattori, e ancora stanno nello stesso rapporto di superiore e inferiore: Arte teorica (qui divisa in due forme), e attiva, operosa Pratica. L’analogia va anche oltre. Infatti come Dürer ci ha raffigurato il fine e la ricompensa della ricerca artistica nelle chiavi e nella borsa (un’interpretazione che qui risulta rafforzata), Hondius ci mostra alla base della sua immagine il fructus laborum. Certamente ci sono due differenze significative. Quello che gli uomini ai tempi del primo barocco consideravano il piú alto scopo dell’artista, oltre alla ricchezza indicata dalle monete d’oro, non era piú la potenza elargita da Dio, ma la fama raggiunta nel mondo, cosí come è indicata dalla palma e dalle fronde d’alloro, ed esaltata dalla Fama con la sua

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tromba207. E mentre, nel suo ottimismo, Hondius riteneva che il fine fosse indiscutibilmente raggiungibile, Dürer, rappresentando l’infelice momento in cui la Pratica e l’Arte si sono separate, mette in dubbio (e momentaneamente addirittura nega) il valore che può avere il successo e l’essere ricompensati per esso. Questo è il vero significato di un tratto che a prima vista sembra introdotto semplicemente per comunicare un certo stato d’animo: cioè, il fatto che alla borsa e al mazzo di chiavi (la «ricchezza» e la «potenza», come Dürer stesso ebbe a dire) sia assegnato un aspetto di confusione e di trascuratezza, in altre parole come fossero inutilizzate o irraggiungibili.

c) Il significato della Melencolia I. È indubbio che l’idea espressa da Enrico di Gand ci porta molto vicino al nocciolo di quello che è il vero significato della Melencolia. Essa è soprattutto una Melanconia immaginativa, i cui pensieri e le cui azioni si collocano tutti nel regno dello spazio e del visibile, dalla pura riflessione sulla geometria all’attività nelle arti minori; e da questo, se mai, ci viene l’impressione di un essere a cui il campo assegnato sembra insopportabilmente ristretto, di un essere i cui pensieri «hanno raggiunto il limite». E arriviamo cosí a un’ultima questione essenziale, cioè l’atteggiamento verso la vita che è al fondo dell’incisione di Dürer, con le sue ascendenze infinitamente complicate, la sua fusione di tipi più antichi, la sua modificazione, anzi inversione, di piú antiche forme d’espressione, e il suo sviluppare uno schema allegorico: cioè la questione del significato fondamentale208 della Melencolia I. Le basi da cui si è sviluppata l’idea di Dürer sono naturalmente state poste dalla dottrina del Ficino. La

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rivoluzione che aveva riaffermato la pessima complexio e la corruptio animi come origine di ogni successo creativo, e trasformato il «pianeta piú funesto» nel iuvans pater degli intellettuali, era avvenuta, come abbiamo visto, nella Firenze dei Medici. Senza di essa, un artista del Nord, anche ammettendo tutta la somiglianza astrologica tra Saturno e la Geometria, non avrebbe tuttavia avuto la spinta necessaria a demolire le barriere di rifiuto e paura che per secoli avevano celato alla vista la Melancholia generosa, per sostituire all’immagine dell’indolente filatrice quella della saturnina arte della misurazione, e trasformare in espressioni di sentimento e in simboli di idee astratte tutti i segni tradizionali della melanconia patologica e gli attributi del temperamento melanconico. Ma oltre a questo rapporto generico (si potrebbe quasi dire un rapporto «di clima») il De vita triplici difficilmente può aver avuto una qualsiasi influenza sulla composizione dell’incisione, perché proprio l’idea che piú d’ogni altra è essenziale alla composizione di Dürer, cioè il totale compenetrarsi delle nozioni di melanconia e di geometria (nel senso piú vasto), non solo era estranea al sistema del Ficino, ma addirittura lo contraddice. Il Ficino aveva avuto un interesse entusiasta per molti aspetti sia del mondo umano che dell’universo e li aveva incorporati nell’edificio della sua dottrina; c’era però un campo in cui non si avventurò, anzi di fatto ignorò: il campo della «visibilità nello spazio», che era la base sia delle scoperte teoriche della matematica che dei risultati pratici delle arti manuali. Questo fiorentino vissuto a cosí stretto contatto con l’arte del Rinascimento e con la sua teoria dell’arte fondata sulla matematica, sembra non abbia partecipato né emotivamente né intellettualmente alla ricostruzione di questa sfera della cultura. La sua dottrina platonica della bellezza ignorava completamente le opere della mano dell’uo-

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mo, e solo dopo un secolo buono la dottrina si trasformò, da una filosofia della bellezza della natura, in una filosofia dell’arte209. La sua teoria della conoscenza sfiora appena il sapere matematico, e la dietetica e la morfologia che sono esposte nel suo De vita triplici sono la dietetica e la morfologia di un genio letterario. Per quanto riguarda il Ficino, gli intelletti creativi (coloro il cui lavoro all’inizio è protetto da Mercurio, poi, sviluppandosi, è guidato da Saturno) sono i literarum studiosi, cioè gli umanisti, i veggenti e i poeti, e, soprattutto, naturalmente, «coloro che sono dediti incessantemente allo studio della filosofia, allontanando la loro mente dal corpo e dalle cose corporee e legandola a quelle incorporee»210: in altre parole, non certo i matematici e meno ancora gli artisti praticanti211. Di conseguenza, nella sua gerarchia delle facoltà intellettuali egli non pone la vis imaginativa (la piú bassa delle facoltà, direttamente legata al corpo mediante lo spiritus)212 sotto Saturno. Come si legge nel libro III del De vita triplici, l’imaginatio tende verso Marte o il Sole, la ratio verso Giove, e solo la mens contemplatrix, che conosce per via intuitiva e trascende il ragionamento discorsivo, tende verso Saturno213. Il nimbo sublime e sinistro che il Ficino intreccia intorno alla testa del melanconico saturnino non ha quindi nulla a che vedere con gli uomini «immaginativi»; quest’ultimi, la cui facoltà predominante è semplicemente un vaso per accogliere influenze solari o marziali, non rientrano, a suo avviso, tra gli spiriti «melanconici», tra quelli capaci di ispirazione; nell’illustre compagnia dei saturnini egli non ammette un essere i cui pensieri si muovono semplicemente nella sfera delle forme visibili, misurabili e ponderabili; e avrebbe messo in dubbio il diritto di un tale essere a venire indicato col nome di Melencolia. Il contrario avviene in Enrico di Gand. Egli annovera fra i melanconici solo le nature immaginative, in parti-

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colare quelle dotate per la matematica: e in questo la sua concezione sostanzialmente viene ad essere piú vicina a quella di Dürer. Inoltre non è affatto impossibile che Dürer risentisse delle idee di Enrico in quanto nientemeno che Pico della Mirandola aveva ripreso queste opinioni nella sua Apologia214, e in questo modo le aveva richiamate a molti altri umanisti, tedeschi compresi215. Ma se la teoria del Ficino non si accorda con l’orientamento dell’incisione di Dürer perché la sua idea della melanconia non ha rapporto con la nozione di matematica, quella di Enrico di Gand non vi si accorda perché la sua idea della melanconia è troppo intimamente connessa con la nozione di matematica. Dal punto di vista del Ficino, la definizione di Melencolia non sarebbe giustificata perché egli riteneva che in linea di principio nessun matematico avesse accesso alla sfera della melanconia (ispirata). Dal punto di vista di Enrico, il numerale «I» risulterebbe senza senso perché egli riteneva che in linea di principio nessuno che non fosse matematico potesse discendere nella sfera della melanconia (non ispirata). Il Ficino, che vedeva nella melanconia il grado piú alto della vita intellettuale, pensava che essa cominciasse là dove la facoltà immaginativa cessava, per cui solo la contemplazione, non piú impedita dall’immaginazione, meritasse il titolo di melanconia. Enrico di Gand, che ancora concepiva la melanconia come un modus deficiens, riteneva che, non appena lo spirito si solleva sopra il livello dell’immaginazione, la melanconia cessa di agire su di esso, per cui la contemplazione non piú impedita dalla facoltà immaginativa può pretendere al titolo di philosophia o theologia. Se un artista realmente voleva dare espressione al senso di «aver raggiunto un limite», cosa che costituisce la base dello stretto rapporto tra la nozione di melanconia di Enrico di Gand e quella di Dürer, certamente avrebbe intitolato la sua figura Melencolia, ma non Melencolia I.

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Implicitamente si suppone che ciò che manca logicamente per completare la sequenza iniziata con Melencolia I216 non sia né una rappresentazione degli altri tre temperamenti, in modo da comporre una serie delle «quattro complessioni», né una rappresentazione della forma patologica della melanconia, per cui la melancholia adusta verrebbe a contrapporsi alla melancholia naturalis. Ciò che manca è piuttosto la rappresentazione di una condizione intellettuale che costituisca il successivo e piú alto grado di conoscenza nella scala della melanconia: una Melencolia II di contro a Melencolia I, che rivelerebbe non uno stato di completo disordine, ma, al contrario, uno stato di relativa liberazione. In questo sta la grandezza del risultato di Dürer: egli ha superato le distinzioni mediche mediante un’immagine che unisce in un tutto unico, pieno di vita emozionale, i fenomeni cui le nozioni tradizionali di temperamento e malattia avevano sottratto vitalità; ha inteso la melanconia degli intellettuali come un destino indivisibile in cui le differenze tra temperamento melanconico, malattia e stato d’animo svaniscono nel nulla, e il dolore chiuso come l’entusiasmo creativo non sono che gli estremi di un’unica e medesima disposizione. La depressione della Melencolia I, che rivela sia l’oscuro destino che l’oscura sorgente del genio creativo, sta al di là di ogni contrapposizione tra salute e malattia; e se volessimo scoprire il suo contrario, dovremmo cercarlo in una sfera in cui tale contrapposizione manca ugualmente: in una sfera quindi che ammette diverse forme e diversi gradi all’interno della melancholia generosa. Come immagineremo allora questa successione di gradi217? Il neoplatonico Ficino, come sappiamo, teneva la melanconia ispirata in tanto onore che nella gerarchia ascendente delle facoltà dell’anima, imaginatio, ratio e mens contemplatrix, egli l’associava solo con la piú elevata, la mente contemplativa. Invece Enrico di Gand

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considerava la melanconia non ispirata talmente inferiore da poter essere associata solo al grado piú basso, l’immaginazione. Il Ficino riteneva impossibile che la mente immaginativa si sollevasse alla melanconia, Enrico riteneva impossibile che lo spirito melanconico si sollevasse al di sopra dell’immaginazione. Ma che sarebbe accaduto se qualcuno fosse stato tanto audace da dilatare la nozione di melanconia ispirata fino a includervi una forma razionale e una immaginativa accanto a una contemplativa? Si sarebbe allora delineata una concezione che riconosceva uno stadio immaginativo, uno razionale e uno contemplativo all’interno della stessa melanconia, in tal modo interpretando, per cosí dire, la gerarchia delle tre facoltà dell’anima come tre forme, tutte e tre ispirate, di melanconia. Quindi la Melencolia I, raffigurando la melancholia imaginativa, rappresenterebbe in realtà il primo grado di un’ascesi che, passando per una Melencolia II (melancholia rationalis) arriverebbe a una Melencolia III (melancholia mentalis). Sappiamo che esisteva una simile teoria dei gradi218, e che l’inventore di essa altri non è stato che Agrippa di Nettesheim, il primo pensatore tedesco che abbia adottato integralmente gli insegnamenti dell’Accademia fiorentina e che li abbia resi familiari ai suoi amici umanisti. Egli fu, per cosí dire, il mediatore predestinato tra il Ficino e Dürer219. Karl Giehlow, benché conoscesse benissimo tutte le parti significative dell’Occulta philosophia pubblicata a stampa220, chissà come non riuscí a cogliere ciò che era essenzialmente nuovo nella teoria di Agrippa, o a intendere pienamente il suo particolare significato per chiarire il numerale del titolo Melencolia I; anche interpretazioni successive sono risultate altrettanto inadeguate per avere tralasciato di seguire la linea di ricerca suggerita dal Giehlow. Certamente, ed è lo stesso Agrippa a dichiararlo, l’edizione a stampa dell’Occulta philosophia,

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apparsa nel 1531, era sensibilmente piú vasta della versione originaria portata a termine nel 1510221, per cui sorse il dubbio che le parti importanti fossero delle aggiunte successive: nel qual caso sarebbe stato impossibile prenderle in considerazione come fonti per l’incisione di Dürer. Però la versione originaria dell’Occulta philosophia, ritenuta persa, è sopravvissuta, come Hans Meier ha dimostrato, proprio nel manoscritto che Agrippa aveva inviato all’amico Tritemio a Würzburg nella primavera del 1510222. Ci muoviamo cosí su un terreno solido; e in questa versione originaria i due capitoli dedicati al furor melancholicus sono vicini alla concezione della vita implicita nell’incisione di Dürer piú di ogni altro scritto a noi noto. L’opera aveva circolato piú o meno segretamente in molte copie manoscritte223; e certamente era accessibile alla cerchia di Pirckheimer attraverso Tritemio224, e può ora rivendicare il merito di essere stata la fonte principale della Melencolia I. L’Occulta philosophia di Agrippa è, nell’edizione a stampa, un’opera molto ricca, ma farraginosa, sovraccarica di innumerevoli formule, figure e tavole astrologiche, geomantiche e cabalistiche, un vero libro di negromanzia nello stile dello stregone medievale. Però nella sua forma originaria era molto diversa, presentandosi piuttosto come un preciso, omogeneo trattato, da cui erano completamente assenti gli elementi cabalistici, e nel quale le prescrizioni di magia pratica non erano tante da confondere il nitido sviluppo di un sistema logico, scientifico e filosofico225. Questo sistema era esposto secondo uno schema ternario226, si fondava apertamente sul misticismo neoplatonico, neopitagorico e orientale, e presupponeva una piena familiarità con gli scritti del Ficino, sia nel loro complesso che nei particolari227. Dalle cose terrene portava all’universo stellare, e dall’universo stellare alla sfera della verità religiosa e della contemplazione mistica. Ovunque esso mette in

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luce la «colligantia et continuitas naturae», secondo la quale ogni «potenza superiore, trasmettendo i suoi raggi alle cose minori in una lunga e ininterrotta catena, scende fino a quella piú bassa, mentre, viceversa, quella piú bassa sale, attraverso le cose via via superiori, fino alla potenza più alta»228; e fa sí che anche le piú barbare operazioni (con occhi di serpente, pozioni magiche e invocazioni alle stelle) appaiano, piú che incantesimi, la consapevole applicazione di forze naturali. Dopo due capitoli introduttivi in cui si cerca, alla maniera di Ficino, di distinguere questa magia bianca dalla negromanzia e dall’esorcismo229, e si avverte che come legame tra la fisica, la matematica e la teologia, c’è la «totius nobilissimae philosophiae absoluta consummatio», il primo libro enumera le forze occulte e manifeste delle cose terrene, e successivamente, mediante la dottrina «platonica» della preformazione degli oggetti singoli nel mondo delle idee230, le interpreta come emanazioni dell’unità divina trasmesse dalle stelle. Poiché gli effetti della «catena» qui rappresentata si esercitano verso l’alto come verso il basso, una giustificazione metafisica si può trovare non solo per tutta quanta la pratica della magia con le sue pozioni, le offerte bruciate in sacrificio231, gli amuleti simpatetici, gli unguenti salutari e i veleni, ma anche per tutto il complesso delle vecchie associazioni astrologiche232; e perfino gli enigmi psicologici dell’ipnotismo (fascinatio), della suggestione (ligatio) e autosuggestione si possono spiegare col fatto che la parte che esercita l’influenza può saturarsi delle forze di un certo pianeta e metterle in atto contro altri individui, o addirittura contro di sé233. Il secondo libro tratta dei coelestia, i principî generali dell’astrologia234, e della preparazione di particolari talismani astrologici235, nonché del significato occulto dei numeri (i quali però, e la cosa è significativa, sono considerati piú dal punto di vista della corrispondenza misti-

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ca che da quello della magia pratica, un po’ allo stesso modo dei noti trattati sul numero sette o sul numero quattro)236. Il libro tratta anche del carattere astrologico e magico delle stelle237, e dell’effetto della musica238. Successivamente passa a trattare con grande ricchezza di particolari degli incantesimi e delle invocazioni, tra le quali quelle che invocano l’aiuto di Saturno sono ancora una volta contraddistinte da serie di antitesi piú numerose che in tutti gli altri casi239; e infine passa alla definizione degli incantesimi mediante la luce e l’ombra240, e delle diverse forme di divinatio: dal volo degli uccelli, dai fenomeni astrali, o dai prodigi, oppure mediante sortilegio, geomanzia, idromanzia, piromanzia, aeromanzia, negromanzia (molto disprezzata) e l’interpretazione dei sogni241. L’opera tocca il suo apice nel terzo libro, il quale, come è detto nell’introduzione, ci porta «alle cose piú elevate», e ci insegna «come accuratamente conoscere le leggi della religione; come, grazie alla divina religione, dobbiamo partecipare alla verità; e come dobbiamo propriamente sviluppare la nostra mente e il nostro spirito, grazie a cui solamente possiamo cogliere la verità»242. Con questo terzo libro usciamo dal campo inferiore della magia pratica e della divinazione ottenuta mediante aiuti dall’esterno, e passiamo al campo del vaticinium, rivelazione diretta in cui l’anima, ispirata da potenze superiori, «riconosce gli ultimi fondamenti delle cose in questo mondo e nel successivo» e miracolosamente vede «tutto ciò che è, è stato, o sarà nel futuro piú remoto243». Dopo qualche osservazione introduttiva sulle virtú intellettuali e spirituali richieste per ottenere tale grazia, e una dimostrazione particolareggiata intesa a provare che questa forma di misticismo è compatibile col dogma cristiano, in particolare con la dottrina della Trinità244, questo libro indaga quali siano i tramiti dell’ispirazione superiore, e sono i «demoni», intelligenze incorporee,

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che «traggono la loro luce da Dio» e la trasmettono agli uomini a fini di rivelazione o seduzione. Essi sono divisi in tre ordini: quello superiore o «sovracelestiale», che ruota intorno alla divina unità al di sopra del cosmo; quello intermedio o «mondano», che risiede nelle sfere celesti; e gli spiriti inferiori o elementari, tra cui si annoverano anche gli dèi silvestri e domestici, i «demoni» delle quattro direzioni del mondo, gli spiriti custodi e cosí via245. Poiché questi «demoni» adempiono nell’anima universale alla stessa funzione cui adempiono le diverse facoltà dell’anima nell’individuo, è comprensibile che l’anima umana, «ardente d’amore divino, innalzata dalla speranza e guidata in alto dalla fede», sia in grado di unirsi direttamente ad essi e, come in uno specchio dell’eternità, sia capace di sperimentare e raggiungere tutto ciò che da sola non avrebbe mai sperimentato e raggiunto246. Questo rende possibile il vaticinium, la facoltà di «percepire i principî (causae) delle cose e di prevedere il futuro, in quanto l’ispirazione superiore discende su di noi dai demoni, e le influenze spirituali ci sono trasmesse»; questo però può avvenire solo quando l’anima non è presa da altre cose, ma è libera (vacat)247. Una tale vacatio animae può prendere tre forme, cioè i sogni veritieri (somnia)248, l’elevazione dell’anima mediante la contemplazione (raptus)249 e l’illuminazione dell’anima (furor) a opera dei demoni (che in questo caso agiscono senza intermediari)250; e ci viene detto, in termini che ricordano inequivocabilmente il Fedro di Platone, che questo furor può venire dalle Muse, o da Dioniso, o da Apollo, o da Venere251, o anche dalla melanconia252. Come causa fisica di questo furore [scrive in effetti Agrippa] i filosofi indicano l’humor melancholicus, non però quello che è chiamato bile nera, che è cosa cosí funesta e terribile che il suo scatenarsi, secondo gli scienziati e i

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medici, provoca non solo la pazzia, ma anche l’invasamento da parte di spiriti cattivi. Con humor melancholicus intendo piuttosto quello che è chiamato candida bilis et naturalis. Ora questo, quando prende fuoco e arde, genera il furore che ci porta alla sapienza e al vaticinio, soprattutto quando si combina con qualche influsso celeste, principalmente quello di Saturno. Infatti, poiché, al pari dell’humor melancholicus, anche Saturno è freddo e secco, lo influenza costantemente, lo accresce e lo conserva. E inoltre, come è il signore della contemplazione segreta, estraneo a tutti gli affari pubblici e il piú alto di tutti i pianeti, cosí di continuo richiama l’anima dalle cose esterne a quelle interiori, la rende capace di innalzarsi dalle cose inferiori alle piú elevate, e le concede sapere e previsione del futuro. Per cui dice Aristotele nei Problemata che certi attraverso la melanconia sono divenuti esseri divini, che predicevano il futuro come le Sibille e i profeti ispirati dell’antica Grecia, mentre altri sono divenuti poeti come Maraco di Siracusa; e dice inoltre che tutti gli uomini che si sono distinti in qualche branca dello scibile sono stati in genere dei melanconici: cosa testimoniata da Democrito e Platone, nonché Aristotele, poiché, stando a quello che essi dicono, certi melanconici furono tanto eccellenti per il loro genio da apparire dèi anziché uomini. Spesso vediamo melanconici incolti, sciocchi, irresponsabili (come leggiamo essere stati Esiodo, Ione, Timnico Calcidiense, Omero e Lucrezio) presi improvvisamente da questo furore, e divenire grandi poeti e trovare meravigliosi e divini carmi che essi stessi a stento comprendono... 253. Inoltre, questo humor melancholicus ha tale forza che affermano attragga certi demoni nei nostri corpi, per la cui presenza e attività gli uomini cadono in estasi e proferiscono molte cose mirabili. L’intera antichità testimonia che ciò avviene in tre forme diverse, corrispondenti alle tre facoltà della nostra anima, cioè l’immaginativa, la razionale e la mentale. Infatti quando è liberata dall’humor melan-

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cholicus, l’anima si concentra interamente nell’immaginazione e immediatamente diviene l’abitacolo degli spiriti inferiori, da cui riceve spesso mirabili istruzioni nelle arti manuali; cosí vediamo qualcuno del tutto sprovveduto diventare improvvisamente un pittore o un architetto o un maestro eccellentissimo in una qualche altra arte del genere; però se gli spiriti di questa specie ci rivelano il futuro, ci rivelano cose attinenti a catastrofi e disastri naturali, ad esempio, l’avvicinarsi di tempeste, terremoti, nubifragi, o la minaccia di epidemie, carestie, devastazioni, e cosí via... Ma quando l’anima è interamente concentrata nella ragione, essa diviene la residenza degli spiriti intermedi, per cui attinge la conoscenza e la cognizione delle cose naturali e umane; cosí vediamo un uomo diventare improvvisamente un eccellente filosofo [naturale], un medico o un oratore [politico]; e degli eventi futuri ci mostrano ciò che riguarda le cadute dei regni e il ritorno delle ere, profetizzando nello stesso modo in cui la Sibilla profetizzava ai Romani. Ma quando l’anima assurge intera alla mente (mens), essa diviene la sede degli spiriti piú elevati, dai quali apprende i segreti delle cose divine, come, ad esempio, la legge di Dio, la gerarchia angelica, e ciò che attiene alla conoscenza delle cose eterne e alla salvezza dell’anima; degli eventi futuri ci mostrano, ad esempio, i prodigi imminenti, i miracoli, il profeta che verrà, o l’avvento di una nuova religione, come le Sibille profetarono Gesú Cristo molto prima della sua venuta...254.

Questa teoria del furore melanconico occupava una posizione centrale nella versione originaria dell’Occulta philosophia, in quanto il furor melancholicus era la prima e piú importante forma della vacatio animae, e quindi una specifica fonte di risultati creativi ispirati. Perciò costituiva il punto esatto in cui il processo che aveva per fine il vaticinium toccava il suo apice255; e questa teoria dell’entusiasmo melanconico scopre tutta quanta la

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varietà delle fonti che si combinano nel sistema magico di Agrippa. La teoria «aristotelica» della melanconia, cui era già stato impresso un orientamento astrologico dal Ficino, venne ora associata anche a una teoria dei «demoni» che un mistico della tarda antichità come Giamblico aveva giudicato incompatibile con l’astrologia256; e quando Agrippa trasformò la gerarchia delle tre facoltà, imaginatio, ratio e mens, in una gerarchia dell’illuminazione melanconica e dei risultati che si ottengono grazie ad essa, anche in questo egli risaliva in parte al Ficino257, in parte a un’antichissima graduatoria delle carriere umane distinte in meccaniche, politiche e filosofiche258. E ancora, egli era in parte debitore anche verso quella teoria, largamente diffusa dopo Averroè, secondo la quale i diversi effetti dell’humor melancholicus erano distinti non solo per essere di tipo diverso ma anche in quanto interessavano caratteristiche diverse dell’anima. È vero, peraltro, che questa teoria puramente psichiatrica si era occupata solo dell’effetto distruttivo della melanconia e che, anziché adottare la scala ascendente imaginatio-ratio-mens, aveva posto imaginatio, ratio e memoria tutte su un piede di parità259. Fin qui la dottrina di Agrippa rappresenta una fusione della dottrina del Ficino con altri elementi. Però è stata proprio questa fusione l’aspetto piú fruttuoso e suggestivo dell’impresa di Agrippa; la nozione di melanconia e di genio saturnino non fu piú limitata agli homines literati, ma si ampliò fino a includere, in tre gradi ascendenti, i geni dell’azione e delle arti figurative, per cui, insieme al grande politico o al genio religioso, anche l’architetto «sottile» o il pittore furono accolti tra i «vati» e i «saturnini». Agrippa dilatò cosí l’autoglorificazione della cerchia esclusiva degli umanisti in una dottrina universale del genio molto prima che lo facessero i teorici dell’arte italiani; e modificò il motivo dei doni della melanconia distinguendo gli aspetti soggettivi dagli

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effetti oggettivi, cioè mettendo fianco a fianco il dono della profezia e la capacità creativa, la visione e il risultato artistico. I tre gradi e i due modi in cui, secondo Agrippa, l’ispirazione saturnina e melanconica si esplica sono compendiati nella tabella 3. Cerchiamo di immaginare quel che debba fare un artista che voglia intraprendere una raffigurazione della prima forma, o forma immaginativa, del talento o «furore» melanconico seguendo questa teoria di Agrippa di Nettesheim. Che cosa dovrebbe raffigurare? Un essere sotto una nube perché la sua mente è melanconica; un essere creativo e insieme profetico, perché la sua mente possiede una parte di furor ispirato; un essere le cui facoltà di invenzione sono limitate ai campi del visibile nello spazio, cioè al campo delle arti meccaniche, e il cui sguardo profetico riesce a scorgere solo catastrofi naturali incombenti, perché la sua mente è interamente condizionata dalla facoltà della imaginatio; un essere infine che è oscuramente consapevole dell’inadeguatezza delle sue capacità di conoscenza, poiché la sua mente non riesce a consentire alle facoltà superiori di esercitare il loro effetto o a ricevere altro che gli spiriti inferiori. In altre parole, ciò che l’artista dovrebbe rappresentare sarebbe ciò che Albrecht Dürer ha rappresentato nella Melencolia I.

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Non esiste opera d’arte che corrisponda alla nozione di melanconia di Agrippa piú dell’incisione di Dürer, né c’è testo con cui l’incisione di Dürer concordi piú strettamente dei capitoli di Agrippa sulla melanconia. Se ora supponiamo che l’Occulta philosophia sia la fonte essenziale dell’ispirazione di Dürer, e nulla si oppone a tale supposizione, possiamo comprendere perché l’immagine düreriana della Melanconia (la melanconia di un essere immaginativo, distinta da quella del razionale o da quella dello speculativo, la melanconia dell’artista o di chi mediti sull’arte, in quanto distinto da ciò che è politico e scientifico, o metafisico e religioso) si intitoli Melencolia I260; possiamo anche comprendere perché nel fondo non compaiano né il sole, né la luna, né le stelle, e invece il mare che allaga la spiaggia, una cometa e un arcobaleno (che cosa infatti potrebbe meglio indicare le «pluviae, fames et strages» che la melanconia immaginativa predice?); e perché la melanconia sia creativa e, nello stesso tempo, immersa nella depressione, sia profetica e, nello stesso tempo, confinata nei suoi propri limiti. Dürer, piú di ogni altro, poteva identificarsi con la concezione di Agrippa. Suo contemporaneo come pensiero, e agli antipodi dei teorici dell’arte italiani delle generazioni precedenti, come l’Alberti e Leonardo, piú di ogni altro era convinto che le realizzazioni immaginative dei pittori e degli architetti provenivano da una superiore ispirazione, in ultima analisi divina. Mentre gli Italiani del Quattrocento e del primo Cinquecento si erano battuti perché l’arte pittorica fosse riconosciuta come arte liberale solo in nome della ratio, la quale avrebbe consentito all’artista di dominare la realtà mediante la sua penetrazione razionale nelle leggi naturali, e quindi innalzare la sua attività al rango di una scienza esatta261, Dürer, nonostante la sua appassionata battaglia in favore proprio di questa ratio262, era consa-

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pevole del fatto che la sorgente piú profonda della forza creativa era da cercare altrove, in quel dono puramente irrazionale e individuale, o ispirazione263, che per gli Italiani spettava solo, se mai, ai literarum studiosi e ai Musarum sacerdotes. Le speculazioni sulla teoria dell’arte dell’Alberti e di Leonardo non presentavano traccia alcuna di influenza da parte dei neoplatonici fiorentini264 e vennero a porre le fondamenta di una scienza esatta, quale fu definita da Galileo. Essi assegnavano all’arte pittorica quel posto, nella cultura intesa in senso globale, che oggi siamo soliti assegnare alla «scienza positiva», e nessuno dei teorici dell’arte classici avrebbe mai pensato di considerare l’architetto, il pittore o lo scultore come ispirato divinamente. Ciò non accadde fino alla nascita di quella scuola manieristica che in tutto era portata verso concezioni nordiche; che saturò la teoria dell’arte (fino allora totalmente oggettiva e razionale) dello spirito dell’individualismo mistico265; che attribuí all’artista l’aggettivo «divino»; e ancora, cercò, cosa significativa, di imitare la Melencolia I, che fino allora era stata quasi ignorata in Italia266. Ma Dürer aveva conosciuto per istinto quello che gli Italiani appresero solo piú tardi, e anche allora come cosa di importanza secondaria: la tensione fra ratio e non ratio, tra regole generali e doni individuali. Già nel 1512 o 1513 aveva scritto le famose parole in cui innalzava la species fantastica dell’immaginazione al rango di quelle «immagini interiori» che sono connesse con le idee platoniche, e attribuiva le facoltà di immaginazione dell’artista a quelle «influenze dall’alto» che rendono un buon pittore capace di «sempre produrre qualcosa di nuovo nella sua opera»267 e «ogni giorno hanno nuove figure di uomini e altre creature da fare e da mostrare che nessuno prima ha mai visto o immaginato»268. Qui, in termini di misticismo tedesco, e con frasi che talvolta sono eco diretta del Ficino e di Seneca269, è

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espressa una concezione che rivendica per l’artista creativo ciò che i mistici tedeschi avevano rivendicato per l’uomo religiosamente illuminato, il Ficino per i filosofi, e Seneca per Dio. Per questa ragione questa concezione concorda con la nuova dottrina di Agrippa. Non è affatto impossibile che sia stata l’Occulta philosophia stessa a trasmettere la dottrina neoplatonica fiorentina del genio, in una versione tipicamente tedesca, a Dürer, il quale non 6 stato solo il creatore della Melencolia I, ma anche l’autore dei Vier Bücher menschlicher Proportion270, e con ciò si è assicurata la possibilità di formulare, in concetti e parole, gli elementi irrazionali e individualistici delle sue idee sull’arte. Sia nel suo spirito che nelle sue affermazioni (non c’è infatti alcun dubbio che le parole di Dürer ora citate rappresentino l’esperienza personale dell’artista creativo) Dürer stesso appare come un melanconico271. Non è mera coincidenza se, conoscendo chiaramente la sua natura (e anticipando una consuetudine settecentesca nel ritratto)272, nel suo autoritratto si è rappresentato, anche da giovane, nell’atteggiamento del pensatore e visionario melanconico273. Come aveva la sua parte dei doni ispirati della melanconia immaginativa, cosí aveva anche consuetudine coi terrori dei sogni che essa poteva portare; fu infatti la visione di un’inondazione che lo sconvolse talmente con la sua «velocità, il vento e il rombo» che, come egli disse, «tutto il mio corpo tremava e non tornai in me per lungo tempo»274. Poi, ancora, «troppo severo giudice di se stesso»275, riconosceva gli insuperabili limiti posti dal destino a chi soffriva della melanconia rappresentata nella Melencolia I, la melanconia di uno spirito condizionato esclusivamente dall’immaginazione. Dallo studio della matematica, soprattutto, al quale dedicò metà dei suoi anni di lavoro, Dürer dovette imparare che essa non avrebbe mai dato agli uomini la soddi-

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sfazione che potevano trovare nella rivelazione metafisica e religiosa276, e che nemmeno la matematica (o meglio, la matematica meno di tutto) poteva portare gli uomini alla scoperta dell’assoluto, con il che, naturalmente, egli intendeva in primo luogo la bellezza assoluta. A trent’anni, inebriato dalla visione del «nuovo regno» della teoria dell’arte rivelatogli da Jacopo de’ Barbari, egli pensava di poter definire l’unica bellezza universale col compasso e la squadra; a quaranta dovette ammettere che questa speranza l’aveva deluso277; e fu negli anni immediatamente precedenti l’incisione della Melencolia I che divenne pienamente consapevole di questa nuova posizione, perché intorno al 1512 scriveva: «Ma che cosa sia la bellezza, non lo so»278, e nello stesso appunto diceva: «Non c’è uomo vivente sulla terra capace di affermare o dimostrare quale possa essere la piú bella figura di uomo. Nessuno tranne Dio può giudicare della bellezza»279. Di fronte a una tale ammissione, perfino la fiducia nel potere della matematica era destinata a vacillare. «Per quanto riguarda la geometria, – scrisse Dürer una decina d’anni dopo, – si può dimostrare che certe cose sono vere. Ma certe cose si devono lasciare all’opinione e al giudizio degli uomini»280; e il suo scetticismo era arrivato a tal punto che nemmeno il semplice approssimarsi alla suprema bellezza gli sembrava piú possibile. Poiché io credo che non c’è uomo vivo che possa contemplare fino in fondo ciò che c’è di piú bello anche in una piccola creatura, meno che mai in un uomo... Ciò non entra nell’anima dell’uomo. Ma Dio conosce queste cose, e se vuole rivelarlo a qualcuno, anche questa persona viene a conoscerlo... Ma io non so come mostrare una qualsiasi misura singola che si avvicini alla massima bellezza281.

E cosí infine quando la sua venerazione piena d’amore per la matematica trova ancora una volta espres-

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sione intensa e toccante, egli rende omaggio alla matematica come chiusa entro i suoi limiti e rassegnata ad essi; e la frase: «Chiunque dimostra il suo caso e rivela la sottostante verità di esso mediante la geometria, quegli sarà creduto da tutto il mondo; qui infatti uno va sul sicuro», è preceduta da una frase che potrebbe quasi servire da didascalia per la Melencolia I «Poiché c’è falsità nel nostro sapere, e l’oscurità è cosí saldamente radicata in noi che perfino il nostro cercare a tentoni fallisce»282. Cosí, pur dopo avere stabilito i suoi rapporti con l’astrologia e la medicina, con le rappresentazioni pittoriche dei vizi o delle arti, nonché con Enrico di Gand e Agrippa di Nettesheim, continuiamo nondimeno a ritenere che siano giustificati nella loro opinione anche coloro che vogliono considerare la Melencolia I come qualcosa di diverso dalla raffigurazione di un temperamento o di una malattia, sia pure molto nobilitata. È una confessione e un’espressione dell’«insuperabile ignoranza» di Faust283. È il volto di Saturno che ci guarda; però in esso possiamo riconoscere anche i tratti di Dürer.

d) I Quattro apostoli284. «Inoltre, – dice Joachim Sandrart dei cosiddetti Quattro apostoli di Dürer, che aveva ammirato nella Galleria dell’Elettore a Monaco, – ci sono i quattro evangelisti sotto forma delle quattro complessioni, dipinti a olio nel migliore dei modi da vero maestro»285. Questa informazione, che precedenti studiosi di Dürer avevano considerato pienamente attendibile286, cadde in discredito, per altro senza troppe ragioni, presso storici successivi. Con l’unica eccezione di Karl Neumann (che però non ne trasse alcuna conclusione287), fu considerata semplicemente

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come una «vecchia tradizione», che in qualche caso fu negata del tutto, in quanto Dürer «prendeva troppo sul serio gli apostoli per servirsene semplicemente come di un’occasione per rappresentare i temperamenti»288. In qualche altro caso fu modificata in modo cosí arbitrario che andò perduto il concetto essenziale della teoria delle quattro complessioni289, e in qualche altro ancora fu ammessa solo in quanto Dürer «nel corso del lavoro si serví della sua concezione dei quattro temperamenti come anche di altre sue speciali esperienze artistiche, come di un aiuto nella rappresentazione»290. Questa «antica tradizione», però, risale di fatto a un testimone cosí attendibile che, se si fosse trattato della paternità dell’opera, anziché di un problema iconografico, mai sarebbe stata considerata con tanto disdegno. Questo testimone è Johann Neudörffer, che realizzò le lettere delle scritte alla base del quadro degli apostoli nello studio stesso di Dürer, e dichiarò, non senza orgoglio, che spesso ebbe l’onore di conversare confidenzialmente col maestro291. Ora Neudörffer afferma in modo inequivocabile che Dürer fece dono ai consiglieri di Norimberga di quattro «immagini» (cioè figure) in grandezza naturale, «a olio... nelle quali si può riconoscere un sanguigno, un collerico, un flemmatico, e un melanconico»292 e non si può ignorare una prova del genere. Naturalmente non si tratta del fatto che Dürer abbia usato «gli apostoli semplicemente come un’occasione per rappresentare i temperamenti»; ma questo non esclude la possibilità che egli abbia considerato i temperamenti come base per la caratterizzazione degli apostoli. Certo egli non ha ritenuto la natura degli apostoli esaurientemente espressa dal fatto che ognuno di essi rientrasse in uno dei quattro tipi umorali, ma egli potrebbe, per usare la mirabile espressione di Sandrart, averli rappresentati «sotto forma dei quattro temperamenti». Essi sono sanguigni o collerici esattamente nello

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stesso senso ed esattamente nella stessa misura in cui sono giovani o vecchi, gentili o violenti: in breve, in quanto sono delle personalità individue. Dürer ha differenziato le varianti piú significative del comportamento religioso sulla base delle varianti piú significative del carattere umano (o, per lui, temperamentale); e lungi dall’abbassare gli apostoli a semplici esempi di tipi costituzionali, ha attribuito alle complessioni un significato piú alto, che esse erano adattissime ad acquisire. Da sempre si era abituati ad abbinare i quattro temperamenti alle stagioni, i fiumi del Paradiso, i quattro venti, le quattro età dell’uomo, i punti cardinali, gli elementi e, in breve, a tutto ciò che fosse determinato dalla «tetrade sacra». Nel Quattrocento alcuni artisti si azzardarono a collocare il volto divino al centro tra le figure dei quattro temperamenti, per cui i quattro umori venivano ad apparire come il quadruplice riflesso di un unico raggio divino293. Fu il passaggio da questo modo schematico di rappresentare alla tendenza particolarizzante dell’epoca di Dürer che permise di fondere i vari caratteri religiosi con i quattro temperamenti nelle persone degli apostoli, combinando cosí la venerazione per i portatori della «parola divina»294 con la venerazione per la varietà delle creature di Dio295. Come distribuire allora i quattro temperamenti tra i quattro apostoli? L’ordine suggerito da autori precedenti (Giovanni melanconico, Pietro flemmatico, Marco sanguigno e Paolo collerico)296, deriva da una psicologia tipicamente moderna, non fondata su fonti storiche, e una copia cinquecentesca che assegna a ogni figura la sua complessione non ha alcun valore perché segue meccanicamente l’ordine dato nel racconto di Neudörffer297. Fortunatamente, però, abbiamo numerosi testi che descrivono le quattro complessioni in base alle loro caratteristiche fisiche e mentali, e che mettono positivamente in rapporto ognuna di esse con una delle quat-

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tro età dell’uomo; e questi testi ci consentono di impostare l’ordine su basi storiche. Chiunque osservi le figure di Monaco resterà colpito dal fatto che i quattro apostoli sono raffigurati come i tipi piú eterogenei possibili, se confrontati, ad esempio, coi quattro apostoli di Giovanni Bellini (della cui disposizione forse Dürer si è ricordato)298, o con la serie di incisioni degli apostoli dello stesso Dürer299. Ogni figura è quanto piú possibile diversa dalle altre, non solo come età e disposizione fisica e mentale300, ma piú particolarmente nel colorito, che aveva una parte talmente importante nella dottrina dei temperamenti che il termine «complessione» è preso solo in questo senso. Il riservato Giovanni, un bell’esempio di giovanile misura, è un giovane nobilmente costruito, sui venticinque anni, nella cui florida complessione il rosso e il bianco si mescolano. Marco, che mostra i denti e rotea gli occhi, è un uomo sulla quarantina, il cui colorito esangue presenta sfumature quasi verdastre. Paolo, col suo sguardo serio e minaccioso, eppure calmo, mostra cinquanta o sessant’anni, e il colorito dei suoi tratti nettamente delineati (è il piú magro dei quattro) nonostante qualche tocco rossiccio, si può definire solo come bruno scuro. Infine l’alquanto apatico Pietro è un vecchio di almeno settant’anni, il cui viso stanco e relativamente grasso è giallastro, e nell’insieme decisamente pallido301. Sia che si ricorra a testi postclassici o protoscolastici, o a trattati popolari sulle complessioni, o, soprattutto, ai versi salernitani302, sempre troviamo un sistema sostanzialmente uniforme di distribuzione delle varie caratteristiche e dei vari attributi, che si può compendiare nello schema seguente: 1) gioventú = Primavera; corpo ben proporzionato, natura armoniosamente equilibrata, carnagione rosata (rubeique coloris); sanguigno.

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2) maturità = Estate; corpo aggraziato, natura irascibile, carnagione gialla (croceique coloris, citrinitas coloris)303; collerico. 3) mezz’età = Autunno; corpo magro, natura triste; carnagione scura (luteique coloris, facies nigra); melanconico. 4) vecchiaia = Inverno; corpo grasso e flaccido, natura letargica, carnagione pallida (pinguis facies, color albus); flemmatico.

Da questo schema risulta chiaro che le complessioni si possono distribuire solo come segue: Giovanni è il sanguigno, Marco (il cui simbolo inoltre è il leone, l’animale che simboleggia la cholera rubra) è il collerico, Paolo il melanconico e Pietro il flemmatico304. Se si vuole un’altra prova basta ricordare la xilografia che illustra il libro di Conrad Celtis. Qui, è vero, dato che Celtis aveva invertito le caratteristiche di due stagioni305, il flemmatico, eccezionalmente, e diventato il simbolo dell’autunno, e quindi è piú giovane del melanconico; ma, a parte questa modifica, che è richiesta dal testo, la divisione delle disposizioni e delle età corrisponde appieno a quella del quadro di Dürer, salvo che in quest’ultimo le caratteristiche biologiche hanno assunto un significato umano o sovrumano. Anche nella xilografia il «sanguigno» è il bel giovane, il «collerico» è l’uomo irascibile nel fiore della vita; il «flemmatico» è l’uomo pasciuto con la pinguis facies; e il «melanconico» è l’uomo magro, calvo, con lunga barba. In realtà il «melanconico» del 1502 è certamente una caricatura che anticipa il san Paolo del 1526; o, viceversa, il san Paolo del 1526 è la nobilitazione successiva del «melanconico» del 1502306. E se analizziamo i mezzi artistici usati da Dürer per trasformare l’esponente della «meno nobile delle complessioni» (tale, infatti, era ancora il melanconico nella xilografia di Celtis) in una delle piú nobili

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figure dell’arte europea, scopriamo che sono i mezzi usati nella Melencolia I. Non solo le pure proporzioni dei tratti (che in un artista come Dürer sono anche espressione di intima grandezza) accomunano la testa di san Paolo e quella della Melencolia; ma i due elementi piú essenziali dell’espressione facciale sono gli stessi: la facies nigra e, in forte contrasto con essa, l’accesa brillantezza degli occhi. Si può dire che san Paolo in quanto tipo è il melanconico della xilografia di Celtis, però reso col colorito della Melencolia I. 1502, 1514 e 1526: sono tre tappe nello sviluppo della nozione di melanconia, tre tappe nello sviluppo di Dürer stesso. Un tentativo è stato fatto altrove di dimostrare che le sue figure dei quattro apostoli, di cui a lungo si è sospettato che fossero i laterali di una pala d’altare incompiuta307, sono state in realtà iniziate nel 1523 come laterali di un trittico; che ognuna di queste tavole originariamente doveva includere solo una figura; e che la coppia prevista in origine non era costituita da Paolo e Giovanni, ma Filippo e (probabilmente) Giacomo. Solo nel 1525, l’anno del suo disegno di Giovanni308, Dürer decise di rendere indipendenti i pannelli laterali ed elaborò il nuovo schema, che è poi quello finale, nel corso della cui esecuzione Filippo, già completo, dovette essere trasformato in Paolo. Il laterale sinistro sembra non fosse in uno stadio abbastanza avanzato perché ci rimanesse qualche traccia dell’idea originaria309. È stato quindi un unico e medesimo atto di trasformazione creativa che ha fatto nascere l’idea di questi quattro santi particolari e delle quattro complessioni nello spirito di Dürer. Le idee «Giovanni, Pietro, Marco e Paolo», e «sanguigno, flemmatico, collerico e melanconico» devono aver formato un tutto inseparabile nel suo spirito, che trovò espressione nel momento in cui sorse il proposito di cambiare le due figure originarie nelle quattro attuali; in particolare, nel momento in cui

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Filippo divenne Paolo, divenne anche un melanconico. In altre parole, solo quando quello che in un primo tempo era stato Filippo diventò un melanconico poté corrispondere a ciò che Dürer intendeva con Paolo. E da questo momento abbiamo una risposta al problema del successivo atteggiamento di Dürer verso il problema della melanconia. I quattro apostoli, come li vediamo ora, esprimono un credo e, come hanno accertato al di là di ogni dubbio le ricerche di Heidrich, il lato polemico di questo credo (che è pur sempre un credo anche se ispirato da una semplice coincidenza storica) è rivolto contro i fanatici e gli anabattisti, nel cui animo la «libertà cristiana» sembrava avere degenerato in sconfinato settarismo. Questo rifiuto del fanatismo, come Heidrich ha chiaramente dimostrato, si fonda però, come è naturale, su un’accettazione della Riforma. Dürer spiega che egli è contro Hans Denck e i «tre pittori senza Dio»; e proprio per questo non ha bisogno di spiegare che è per Lutero. Per questo era stato certo fin dal 1525 che dei quattro uomini che testimoniano in suo favore, due devono occupare una posizione dominante: Paolo, sulla cui dottrina della giustificazione attraverso la fede si fondava tutta quanta la struttura della dottrina protestante, e Giovanni, il discepolo prediletto di Cristo, che era anche l’«evangelista prediletto» di Lutero310. E come queste due figure, sviluppate a misura monumentale, occupano le posizioni dominanti nella composizione del dipinto (e che Pietro sia relegato nel fondo ha un po’ il significato di una protesta figurativa contro il primatus Petri difeso con tanto accanimento dai cattolici)311, cosí sono anche esponenti sia della piú profonda esperienza religiosa che dei temperamenti piú alti. Rispetto alla tranquilla ma incrollabile devozione di Giovanni, la stanca rassegnazione di Pietro rappresenta un «troppo poco», per usare un termine aristotelico; mentre, rispetto all’in-

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flessibile calma di Paolo, il fanatismo di Marco rappresenta un «troppo»; e parimenti, paragonate alle due altre complessioni, la flemmatica è inferiore nella forza, quella collerica nella nobiltà. Il temperamento sanguigno, che tutto il Medioevo aveva considerato come il piú nobile, anzi l’unico apprezzabile, e che naturalmente anche all’epoca di Dürer era ritenuto una disposizione invidiabilmente sana e armoniosa, era stato affiancato, dai tempi del Ficino e di Agrippa di Nettesheim, da una disposizione sicuramente meno felice, ma spiritualmente piú eletta, la complexio melancholica, la cui riabilitazione fu opera del nuovo umanesimo, cosí come la riscoperta del cristianesimo paolino fu opera della Riforma. È quindi comprensibile, da diversi punti di vista, che Dürer pensasse che il modo migliore di caratterizzare il genio tutelare del protestantesimo fosse rappresentarlo come un melanconico. Facendo dell’apostolo della nuova fede un esponente del nuovo ideale espresso dalla nozione di melancholia generosa, egli non solo accentuò l’ascetismo cosí tipico del Paolo storico, ma gli attribuí una nobile sublimità, negata agli altri temperamenti. Cosí facendo però Dürer affermò anche che, per parte sua, la melanconia restava ancora quella che gli si era rivelata attraverso i contatti con la dottrina neoplatonica del genio, il segno del vero eletto, il segno di coloro che sono illuminati dalle «influenze superiori». Ma il Dürer del 1526 non illustrò piú questa ispirazione con una figura allegorica dello Spirito dell’Arte, la cui forza viene dall’immaginazione, ma con la santa persona di un «uomo spirituale»; egli ora dipinse il furor non dell’artista e del pensatore, ma di un eroe della fede, e cosí dimostrò che la sua concezione della melanconia aveva subito, a quest’epoca, un profondo mutamento. Questo mutamento poteva definirsi, usando la classificazione di Agrippa di Nettesheim, come un progresso dall’immagine della Melencolia I a quella di una Melencolia III, e

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si trattava in ultima analisi di un mutamento nello stesso Dürer. Nella sua gioventú aveva aspirato all’entusiasmo eroico ed erotico dell’arte italiana classicistica; nel secondo decennio del Cinquecento aveva trovato la via per giungere alle grandi forme simboliche della Melencolia I e del Cavaliere, la morte e il diavolo; negli ultimi e piú grandi anni della sua vita dedicò le sue capacità quasi interamente a soggetti religiosi. Negli anni in cui Cranach, Altdorfer, Aldegrever, Vischer e Beham venivano traendo forza dal classicismo che Dürer aveva arrecato all’arte tedesca, e non si stancavano di dipingere «Giudizi di Paride», «Fatiche di Ercole» e scene di centauri e satiri, in questi stessi anni il vecchio Dürer dedicava tutte le forze che gli lasciavano il suo lavoro teorico e i suoi ritratti su commissione, a soggetti sacri, e prima di ogni altro, alla Passione. E possiamo comprendere come per il Dürer degli ultimi anni, che era stato profondamente scosso dalla missione di Lutero e che, sentendosi mortalmente malato, si era visto come il Cristo sofferente ed aveva perfino osato dipingersi cosí312, possiamo comprendere come per lui perfino la Melencolia I non sembrasse piú un’espressione adeguata della grandezza umana.

I disegni preparatori sono stati analizzati da tietze, vol. II, 1, nn. 582-87; cfr. anche panofsky, Albrecht Dürer cit., vol. II, p. 26. 2 lf, Nachlass, p. 394, 5; cfr. anche giehlow 190 4, p. 76. 3 Questo è ovvio anche senza le osservazioni citate a p. 264 (con le quali cfr. giehlow 1904, p. 67). 4 Cfr. p. 113 di questo libro, Einaudi, Torino 1983. 5 Cfr. p. 180, nota 48 di questo libro, Einaudi, Torino 1983. 6 Roma, Bibl. Vat., Cod. Urb. lat. 1398, fol. 11r. Il Saturno che valuta e conta il suo oro che si vede nel Cod. Pat. lat. 1369, fol. 144v rientra in questo ambito di idee (benché questa volta senza la chiave), come è il caso anche della notevole figura nell’angolo sinistro in alto della raffigurazione di Saturno che si vede nel manoscritto di Tubin1

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia ga Ms Md. 2, un re seduto che con la destra conta pezzi d’oro sopra un grande scrigno, mentre con la sinistra solleva una coppa (derivato da una combinazione del re Giano che fa baldoria col Saturno che conta le sue ricchezze: quest’ultimo regna su gennaio ma anche su dicembre). 7 La scritta spiega il senso di questa analogia: «Non mi fido di nessuno». Nel volume di k. w. ramler, Kurzgelasste Mythologie (p. 456 nell’ed. Berlin 19204) il melanconico presenta ancora un cofano del tesoro nonché un pugnale, una fune e un cappello (cfr. p. 303). 8 In un caso il motivo della borsa si combina perfino col motivo del cofano del tesoro. 9 cesare ripa, Iconologia, Roma 1593, s. v. «Complessioni». La xilografia è apparsa per la prima volta nell’edizione del 1603. 10 Cfr. pp. 113 sgg. di questo libro, Einaudi, Torino 1983. 11 L’Allegoria dell’Avarizia di J. Ligozzi (h. vos, Die Malerei der Spätrenaissance in Rom und Florenz, Berlin 1920, vol. II, tav. 165) con la sua borsa, il cofano del tesoro e la mano sul mento potrebbe valere altrettanto bene come Melanconia se non fosse per gli altri motivi. 12 f. haack (in «Zeitschrift für bildende Kunst», vol. LX, 1926-27, supplemento, p. 121) ha nuovamente dimostrato che si tratta realmente di uno studio preliminare. 13 Secondo e. t. de wald, The Stuttgart Psalter, Princeton 1930, fol. 55 (per il Salmo 42, 7: «Quare tristis es, anima mea»). Tipi simili si ritrovano nella stessa opera, fol. 58v (per il Salmo 45) e fol. 141 (per il Salmo 118). 14 Cfr. gli esempi ricordati p. 211, nota 8 di questo libro, Einaudi, Torino 1983. 15 Il prototipo di questo diffusissimo tipo del «contemplativo» è naturalmente la raffigurazione antica del filosofo o poeta, di cui l’adozione per le raffigurazioni medievali degli evangelisti è stata studiata dettagliatamente da a. m. friend, in «Art Studies», v, 1927, pp. 115 sgg.; la tav. xvi è particolarmente istruttiva. 16 Parigi, Bibl. Mazarine Ms 19, fol. 3r. 17 Cfr. pp. 185 sgg. di questo libro, Einaudi, Torino 1983. 18 Riprodotte in roscher, Ausführliches Lexicon der griechischen und römischen Mythologie cit., vol. I, col. 2160. 19 Per immagini di Saturno, cfr. pp. 188 sgg.; per immagini di melanconici, cfr. pp. 273 sgg. sempre di questo libro, Einaudi, Torino 1983. 20 Cfr., ad esempio, Modena, Biblioteca Estense Cod. 697; per questo manoscritto e gli affreschi del Guariento nella cappella degli Eremitani a Padova, cfr. a. venturi, in «Arte», xvii, 1914, pp. 49 sgg., benché il legame tra di essi non sia posto in modo del tutto corretto. 21 f. saxl, in «Repertorium für Kunstwissenschaft», vol. XLIII, 1922, p. 233.

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia In qual misura la testa appoggiata alla mano sia stata considerata piú tardi come un atteggiamento tipico del melanconico lo si può vedere, ad esempio, dal fatto che il disegno di Dürer L144 (in sé un innocuo studio per un ritratto) figurava in un antico inventario come il Prustpild di una vecchia melanconica (cfr. g. glück, in «Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen der allerhöchsten Kaiserhauses», xxviii, 1909-10, p. 4). Lo scritto di Ursula Hoff citato oltre (p. 366, nota 47 di questo libro, Einaudi, Torino 1983) contiene un’interessante raccolta di raffigurazioni di «melanconici» con questo atteggiamento della testa appoggiata alla mano. 23 Le miniature sono illustrazioni dei versi già citati (p. 109, nota 10 di questo libro, Einaudi, Torino 1983) di Leonardo Dati nel manoscritto di Roma, Bibl. Vat., Cod. Chig. M. VII, 148, foll. iiv sgg. (circa 1460-70). Solo il collerico appare molto mutato; è stato trasformato da guerriero medievale in guerriero romano. Il sanguigno porta una corona d’alloro anziché un cappuccio da falco. 24 Per l’incisione di Saturno del Campagnola, cfr. hartlaub, Geheimnis, soprattutto p. 53 e tav. 23; e id., in «Repertorium für Kunstwissenschaft», xlviii, 1927, pp. 233 sgg. Per il legame di questa con un dio fluviale sull’arco di trionfo di Benevento, nonché per le sue interessanti trasformazioni in 1) un Saturno contadino in un quadro di Girolamo da Santacroce, e 2) un san Girolamo in un ritratto di Lorenzo Costa (pubblicato in «Arte», vol. V, 1902, p. 296) cfr. pp. 199-200. Lo stesso Campagnola qualche anno dopo trasformò il tipo filosofico di Saturno in un tipo puramente umano e, per cosí dire, anonimo (incisione P12, riprodotta in hartlaub, Geheimnis, p. 24). Nel Nord, il tipo di Satumo risuscitato dal Campagnola non fu generalmente adottato se non nel tardo Cinquecento, e anche allora, cosa significativa, non sotto il suo nome mitologico ma come un melanconico (cfr. p. 355 di questo libro, Einaudi, Torino 1983). 25 Hartlaub può avere ragione nell’affermare che immagini come l’incisione B4 possono essere state direttamente familiari a Dürer (per un possibile rapporto tra Dürer e Campagnola, cfr. anche p. 304, nota 10 di questo libro, Einaudi, Torino 1983), però l’ipotizzata derivazione dell’incisione P12 del Campagnola da Giorgione ci sembra altrettanto poco dimostrabile dell’affermazione che l’incisione B19 del «maestro del 1515» rappresenti una figura della Melanconia. La figura che ispira l’astrologo è piú credibile che rappresenti la Musa Urania o, ancora piú probabilmente, una personificazione dell’Astrologia: della quale, ad esempio, il Ripa afferma esplicitamente che ha ali «per dimostrar che ella sta sempre con il pensiero levata in alto per sapere et intendere le cose celesti». 26 È difficile dimostrare che il disegno L79 sia uno studio della 22

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia moglie di Dürer; ma anche se cosí fosse, l’artista avrebbe potuto ritrarla in un vero e proprio stato di depressione. 27 Nell’Inferno dantesco, ad esempio (VII, vv. 56-57), si legge dell’avaro: «Questi resurgeranno del sepulcro | col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi»; secondo Celio Calcagnini («Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen der allerhöchsten Kaiserhauses», xxxii, 1915, p. 169), «manus dextra expansa [indica] liberalitatem, manus sinistra compressa tenacitatem». Chi ha dato origine a questo concetto, che ancora si ritrovava nell’Iconologia del Sandrart, sembra sia stato Diodoro Siculo: «‘H d’e‹Înumoj sunegmûnh tørhsin kaã fulak¬n crhmßtwn» (III, 4, 3, ed. F. Vogel, Leipzig 1888, p. 272). 28 Per citazioni, cfr. p. 51 di questo libro, Einaudi, Torino 1983. 29 Erfurt, Wissenschaftliche Bibliothek, Cod. Amplon. Q. 185, fol. 247r (cfr. k. sudhoff, in «Beiträge zur Geschichte der Chirurgie im. Mittelalter», vol. I, Leipzig 1914, tav. xxx). 30 Per le trasformazioni operate da Dürer nel valore espressivo di questi motivi tradizionali, cfr. pp. 297 sgg. di questo libro, Einaudi, Torino 1983. 31 Per citazioni, cfr. pp. 55 sgg. di questo libro, Einaudi, Torino 1983. 32 Cosí Ibn Esra. 33 Cosí Alberto Magno, cit. p. 68 e nota 12 di questo libro, Einaudi, Torino 1983. 34 Così, ad esempio, la traduzione dei versi salernitani nell’opera De conservanda bona valetudine, ed. Johannes Curio, Frankfurt 1559, fol. 237v: «Ir farb fast schwartz vnd erdfarb ist» («Il loro colore è quasi nero e terreo»). Dato il carattere contraddittorio di questo genere di letteratura, e dei contrasti interni alla nozione stessa di melanconia, non sorprende trovare in certi casi il melanconico descritto come «pallido» in altri scritti sulle complessioni. 35 Cosí Johann von Neuhaus, cit. pp. 108 sg. 36 Cosí i versi salernitani, cit. p. 108. 37 Cfr. k. sudhoff, in «Beiträge zur Geschichte der Chirurgie im Mittelalter», i, tav. xxxvi; in qualche caso è raffigurato anche il medico che sta operando; cfr. ad esempio, Roma, Cod. Casanat. 1382 (ibid., tav. xxv) e sopra pp. 51, 88-89. 38 Si confrontino le tavv. 67, 71, ad esempio, con le immagini di Saul e David; si confronti la tav. 72 con una miniatura come quella di Berlino, Staatsbibliothek, Cod. Hamilton 390, fol. 19r: «Iste verberat uxorem suam». 39 Anche i due uomini con gambe di legno, in una serie di xilografie raffiguranti i vizi dall’edizione del Curio, fol. 239v, e la tav. 75. Per il disegno svizzero alla tav. 144 e l’incisione De Gheyn alla tav. 148, nella quale l’assimilazione del tipo melanconico con quello satur-

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia nino avviene su una nuova base unianistica, cfr. pp. 368, 372-73. 40 Berlino, Cod. germ. fol. 1191, fol. 63v, ora a Marburgo; cfr. Beschreibendes Verzeichnis der Miniatur-Handschriften der Preussischen Staatsbibliothek, vol. V, ed. H. Wegener, Berlin 1928, pp. 72 sgg. Qui i sanguigni stanno suonando il liuto, i collerici stanno lottando tra di loro e il flemmatico è seduto in un atteggiamento depresso in genere tipico del melanconico; su questo, cfr. p. 299, nota 3. 41 Cambridge, Caius College, Ms 428, fol. 27v; cfr. m. r. james, Descriptive Catalogue of the Manuscripts in the Library of Gonville and Caius College, Cambridge 1908, p. 500. 42 Immagini come queste di cui stiamo trattando si possono considerare come una sintesi degli astratti sistemi tetradici che ricorrono dal ix secolo in poi, prima nei manoscritti di Isidoro e poi in illustrazioni di trattati cosmologici (cfr. e. wickersheimer, in «Janus», vol. XIX, 1914, pp. 157 sgg.; e singer, From Magic to Science cit., pp. 211 sgg. e tav. xiv) con rappresentazioni connesse di figure dei tempi greco-romani, come i mosaici di Chebba, ecc. «Quatuor aetates velut hic patet atque videtur | Humanae vitae spatium conplere iubentur». 43 La serie che abbiamo in questo elenco si fonda a) sulla regola che si applica quasi integralmente a tutti i sistemi, sia che inizino con sanguis, o, come qui, con phlegma, cioè che la cholera rubra preceda la cholera nigra; e b) sull’uso verbale per cui decrepitas indica un’età piú avanzata che senectus. Questo è però contraddetto dalla sequenza pittorica (mentre, ad esempio, il ciclo dei punti cardinali che si vede a fol. 21r dello stesso manoscritto si dovrebbe leggere in senso orario partendo dall’alto, la sequenza qui è irregolare), e dal fatto che la Decrepitas sta ancora filando mentre la Senectus sta già avvolgendo la lana in un gomitolo. La tradizione antica che seguiva il sistema meno corrente che iniziava col phlegma (cfr. p. 14) ovviamente era in gran parte scomparsa; il fol. 22v mostra uno schema circolare analogo ai due ora ricordati, nei quali la sequenza, benché normale, comincia dal fondo e procede in senso antiorario (in alto, cholera rubra = caldo e secco; a destra, sanguis = caldo e umido; sotto, aqua = freddo e umido; a sinistra, terra = freddo e secco). È anche molto inconsueto indicare l’età «collerica» calda e secca come senectus, e definire l’occidente «freddo e secco» rispetto al «caldo e umido» oriente. Negli esempi raccolti dal Wickersheirner il ciclo si sviluppa sempre secondo la sequenza consueta: sanguis, cholera rubra, cholera nigra, phlegma. 44 Soprattutto in questi cicli tetradici non è inconsueto trovare un doppio o anche un triplo significato per ciascuna figura. Cfr. gli esempi citati a p. 275, nota 4, e i Fiumi del Paradiso nel fonte battesimale di Rostock del 1291 (che, stando all’iscrizione, rappresentano anche i quattro elementi).

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia Cfr. pp. 97 sg. di questo libro, Einaudi, Torino 1983. Le rappresentazioni medievali delle quattro età dell’uomo sembrano di fatto essersi sviluppate indirettamente da raffigurazioni delle quattro stagioni, le quali erano legate all’antichità da una tradizione pittorica ininterrotta. 47 boll, Die Lebensalter cit., p. 103, tav. I, 2. 48 Per questo tipo di rappresentazione della Primavera basta riferirci al mosaico di Chebba ricordato sopra o al Chronicon di Zwiefalten, già ricordato (cfr. p. 263, nota 9). Le rappresentazioni corrispondenti di Maggio sono innumerevoli; l’esempio piú antico è il noto Calendario di Salisburgo dell’818. Che Maggio e Primavera potenero essere usati come sinonimi anche nella letteratura lo si può vedere dalla didascalia alla raffigurazione del sanguigno nella tav. 79: «Das wirket mey und Jupiter». 49 Nell’allegoria completa delle età dell’uomo la conocchia indica il quinto stadio nel ciclo di sette figurazioni, e il settimo decennio nel ciclo di cento anni (w. molsdorf, Christliche Symbolik der mittelalterlichen Kunst, Leipzig 1926, nn. 1142 e 1143). A prescindere da questo, il filare è la tipica forma dell’attività femminile, e la miniatura di Cambridge rappresenti solo occupazioni femminili. 50 Foglio volante, Zurigo, Zentralbibliothek (Schreiber 1922 m.); p. heitz, Einblattdrucke des 15. Jahrhunderts, vol. IV, n. 4. 51 Londra, Brit. Mus., Ms Sloane 2435, fol. 31r. 52 boll, Die Lebensalter cit., tav. 11, 3 e 4. Si tratta ovviamente di un errore quando, a p. 129, il Boll afferma che il falconiere tiene «una colomba, la creatura sacra a Venere». 53 Per il simbolismo degli animali in quanto applicato ai quattro temperamenti, cfr. pp. 97 sg. Le opere di cui si parla qui (The Shepherds’ Calendar in francese e inglese, quest’ultimo edito da O. H. Sommer, 1892, e i Libri d’Ore a stampa di Simon Vostre e Thomas Kberver) costituiscono uno speciale gruppo regionale derivato da un unico prototipo, e distinto dal fatto che il flemmatico, che occupa il terzo posto, è caratterizzato da una borsa, mentre il melanconico, relegato al quarto posto, tiene una stampella, forse per un errore che, una volta compiuto, è diventato tradizionale. Al melanconico è assegnato il quarto posto anche in qualche altro ciclo, benché i testi relativi colleghino esplicitamente l’autunno a lui (cfr. anche p. 263). 54 Cfr. le figure d’angolo nella raffigurazione di Saturno del manoscritto di Erfurt; nella rappresentazione del Sole nello stesso manoscritto (hauber, Planetenkinderbilder und Sternbilder cit., tav. xxiv) il falconiere «sanguigno» occupa la posizione corrispondente. 55 Parigi, Bibl. Nat., Ms nouv. acq. fr. 3371. Un esempio eccezionale, senza analogie, però di qualche interesse per la sua data precoce, compare in un manoscritto datato 1408 di Johannes de Foxton, Liber 45 46

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia cosmographiae (Cambridge, Trinity College, Ms 943, foll. 12v sgg.). Qui i quattro temperamenti sono raffigurati come uomini nudi, definiti «prima ymago», ecc., con i distici salernitani come scritte e si susseguono nella strana sequenza sanguigno, flemmatico, melanconico, collerico, benché il flemmatico sia chiaramente il piú vecchio. Anche la scelta degli attributi è alquanto singolare. Il collerico è, come al solito, cinto di spada, però questa spicca in curioso contrasto con la sua nudità; anche il sanguigno sta brandendo una spada con la destra mentre tiene una coppa nella sinistra. Il melanconico tiene un corvo con la destra (questo, secondo il Fiore di virtú, è compagno della «tristizia») mentre con la sinistra (come nelle raffigurazioni dell’Ira o della Desperatio) si configge un pugnale nel petto (probabilmente un riferimento alle sue inclinazioni suicide); e il flemmatico, raffigurato alquanto drasticamente come «sputamine plenus», sta in piedi con un libro, con la testa sulla mano. Inoltre il sanguigno è contraddistinto anche da una pianta sul petto e da una colomba che gli sta appollaiata sul braccio destro, mentre il collerico è contraddistinto anche da un fiore che gli esce di bocca. Non si è ancora arrivati a un’interpretazione esatta di questi particolari: alcuni di essi senza dubbio sono stati ripresi dai tipi pittorici dei peccati mortali; e d’altronde le descrizioni fisiognomiche, che compaiono in ciascun caso sul margine di sinistra, non sono comprensibili cosí come sono. 56 Monaco, Staatsbibliothek, Ms lat. 4394. Tav. 82, da un foglio volante del museo di Gotha (Schreiber 1922 o; heitz, Einblattdrucke des 15. Jahrhunderts cit., vol. LXIV, n. 8). Per rappresentazioni di pianeti a cavallo (probabilmente basate su una consuetudine nelle giostre e nei tornei), Cfr. saxl, Verzeichnis, vol. I, p. 114. Un curioso rapporto tra questi cavalieri e i Calendari dei Pastori e i Libri d’Ore si può vedere nelle Horae B. V. Mariae stampate da Marcus Reinhart a Kirchheim intorno al 1490 (Schreiber 4573, Proctor 3209), fol. iv. Qui il collerico figura come il «cacciatore feroce», i sanguigni come una coppia di amanti, anche a cavallo; il flemmatico invece come una figura singola in piedi con una pecora, e il melanconico (al quarto posto) come una figura in piedi con un porco. 57 Berlino, Staatsbibliothek, Cod. Hamilton 390, fol. 83v. 58 Per questo gruppo, cfr., ad esempio, l’illustrazione al fol. 20r che illustra l’epigramma di Catone «Dilige denarium sed parce». 59 Fol. 148v: «Hisque, repugnando maior et ira furit». 60 Fol. 4r. La composizione della coppia di amanti riappare in forma simile ai foll. 104v e 139v. L’oggetto rotondo che la coppia in amore sostiene è difficile da interpretare. Per analogia col fol. 113r, si potrebbe pensare a un qualche tipo di ornamento. 61 Zurigo, Zentralbibliothek, Cod. C 54/719, foll. 34v-36r. 62 Il primo Calendario tedesco, Augsburg, circa 1480. Le stesse xilo-

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia grafie ricompaiono nei calendari successivi, ad esempio Augsburg, Schönsperger 1490 (pubblicato in facsimile da K. Pfister, München 1922), 1495, ecc. 63 Calendario di Strasburgo del 1500 circa; Calendario di Rostock per il 1523. Come si può vedere, gli amanti «sanguigni» sono in genere a cavallo e vanno a caccia col falcone; la rappresentazione deriva da un modello come il disegno pseudo-düreriano dei Kupferstichkabinett di Berlino (Inv. 2595, riprodotto in h. tieze e e. tietze-conrat, Der junge Dürer, Augsburg 1928, p. 229, e altrove), mentre la raffigurazione dei flemmatici sembra basati su un’incisione di E. S. (Lehrs 203; questa osservazione si deve a M. I. Friedländer). La scena della bastonatura del collerico è ora arricchita da una figura femminile che osserva inorridita; e un monaco dalla lunga barba, una figura che secondo la mentalità corrente sarebbe probabilmente ancora associata alla vita contemplativa, entra nella stanza dei due melanconici. 64 Cosí il manoscritto di Zurigo, fol. 35r. Qui, come in qualche altro caso, un affievolirsi dell’idea originale ha portato alla filatrice che, lungi dal dormire, è effettivamente intenta al lavoro. 65 La scelta di questo motivo, che in sé sembrerebbe molto piú adatto al temperamento sanguigno (cfr. tavv. 124 e 129, come pure le caratteristiche consuete della Voluptas nelle raffigurazioni di Ercole al bivio), può darsi si fondino sull’opinione che l’atonia flemmatica potrebbe essere un po’ sollevata dal citharae sono (cfr. il passo di Melantone citato alle pp. 84-85). 66 Cioè nell’opera De conservanda bona valetudine disseminata in molte edizioni di Francoforte, a cura prima di Eobanus Hesse e poi di Curio e Crellius. la sequenza delle complessioni (1551: foll. 118 sgg.; 1553: foll. 116 sgg.; 1554: foll. 152 sgg.) è raffazzonata. Le raffigurazioni del sanguigno e del collerico sono riprese da cicli anteriori; il melanconico e il flemmatico, invece, sono nuovi e molto rozzi, il primo un geometra a uno scrittoio (cfr. fig. 2), il secondo un uomo panciuto addormentato in una poltrona. Un esempio simile si trova nel codice di Berlino, Cod. germ. fol. 1191, ora a Marburgo, dove il melanconico è raffigurato come un uomo di studio che legge (benché, anche, come un avaro) mentre il flemmatico figura come homo acediosus. Si può notare come l’immagine della pigrizia o dell’ottusità non siano mai usate per il melanconico; essa spetta al flemmatico, come nel Codice Hamilton, tav. 84, e, mutatis mutandis, nel manoscritto di Foxton a Cambridge. 67 Il ciclo delle virtú e dei vizi di Amiens e quelli analoghi di Chartres (transetto sud) e di Parigi (base della facciata occidentale e rosone) formano, naturalmente, un gruppo a sé. Inoltre le sequenze delle complessioni non sono affatto gli unici cicli profani derivati dai tipi dei vizi; il gruppo della Luxuria, ad esempio, divenne elemento costan-

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia te della rappresentazione astrologica di Venere, come, viceversa, la raffigurazione, in origine cortese-cavalleresca, della coppia che va a caccia a cavallo, che in certi casi sostituisce la coppia che si abbraccia, può trovarsi in un contesto moralizzante (ad esempio, in una rappresentazione dei devoti della Voluptas nella raffigurazione su un cassone di Berlino di Ercole al bivio, riprodotta in panofsky, Hercules am Scheidewege cit.). 68 Cfr. p. 74 e p. 211, nota 7. 69 Cfr. d. c. tinbergen, Des Coninx Summe, in Bibliotheek van Middelnederlandsche Litterkunde, Groningen 1900-903, con bibliografia; cfr. anche h. martin, in Les trésors des bibliothèques de France, vol. I, Paris 1926, pp. 43 sgg. 70 Cfr. martin, Les trésors des bibliothèques de France cit. p. 54 e tav. xi; manoscritti piú tardi, ad esempio, Bruxelles, Bibl. Royale, Ms 2291 (Van den Gheyn), fol. 88v (datato 1415), ripetono fedelmente questo tipo. La nostra riproduzione è tratta da Bruxelles, Bibl. Royale, Ms 9550 (Van den Gheyn), fol. 51r. 71 Cfr. p. 211, nota 7 di questo libro, Einaudi, Torino 1983. 72 Cap. 97, fol. T. 111. Il fuoco di legna, alquanto fuori posto nel paesaggio naturale, è giustificato dal testo: «Vnd ist so träg, das jm verbrennt | Syn schyenbeyn, ee er sich verwennt». 73 heitz, Einblattdrucke des 15. Jahrhunderts cit., vol. XI, tav. 17 (circa 1490). 74 Stultifera navis, Henricpetri, Basel 1572, p. 194. 75 Cfr. e. panofsky, in «Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst», nuova serie, vol. VIII, 1931, pp. i sgg. Cfr. anche a. chastel, La Tentation de St-Antoine, ou le songe du mélancholique, in «Gazette des Beaux-Arts», vol. LXXVII, 1936, pp. 218 sgg. Possiamo ricordare che nel frontespizio inciso del Bericht von der Melancholia Hypochondria di Jobannes Freytag (Frankfurt 1644), la «melanconia ipocondriaca» felicemente vinta dal medico valente è ancora rappresentata come una donna addormentata con la testa appoggiata alla mano, nel cui cervello un demonio con le ali di pipistrello sta insufflando allucinazioni mediante un mantice, e le allucinazioni sono simboleggiate da insetti brulicanti. 76 «Vnser complexion ist von erden reych, | Darumb seyn wir schwaermuetigkeyt gleich». «Dat vierde is swaerheit, dat een mensce also swaermoedich is, dat hem. gheens dinghes en lust, dan te legghen rusten of slapen ...» (tinbergen, Des Coninx Summe cit., p. 253). Questo passo conferma, se ce ne fosse bisogno, il fatto che nei versi dei calendari l’espressionoe Schwermütigkeit (che significa «pesantezza d’animo») non indica lo stato depressivo puramente mentale, come avviene nell’uso moderno, ma una pesantezza molto materiale della mente e del corpo che veramente si potrebbe meglio definire indolenza. La

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia scelta della parola conferma anch’essa, a livello linguistico, il rapporto profondo tra le rappresentazioni sceniche dei temperamenti e le raffigurazioni dei vizi (come avviene per il termine high-stomached riferito al sanguigno). 77 h. r. patch, in «Modern Language Notes», vol. XL, 1925, pp. 1 sgg. Le rappresentazioni medievali delle virtú e dei vizi servirono come base per rappresentazioni dei «cinque sensi», cosí diffuse nel tardo Cinquecento e, soprattutto, nel Seicento, come sottolinea Hans Kauffmann nella sua recensione informativa al libro di W. R. Valentiner su Pieter de Hoock («Deutsche Literaturzeitung», 1930, pp. 801 sgg.). La nascita di questo tipo dei «cinque sensi» indica, per cosí dire, una seconda fase nel processo di secolarizzazione: le rappresentazioni originariamente moralistiche, trasformate dapprima in rappresentazioni oggettive e cosmologiche dei temperamenti, sono ora trasferite nella sfera della percezione soggettiva, dei sensi. 78 La funzione di queste figure umane che «stanno per» una nozione può naturalmente essere assunta da animali, piante od oggetti inanimati senza che le condizioni che regolano il metodo di personificazione debbano essere mutate. In certe circostanze la melagrana che rappresenta la nozione di «concordia» adempie. alla stessa funzione di una Concordia umana, mentre in altre circostanze può figurare semplicemente come uno dei suoi attributi. 79 La classificazione delle forme allegoriche di rappresentazione che abbiamo tentato qui, e dalla quale rimangono fuori naturalmente molti casi misti o al limite, assume il termine «allegoria» nel suo senso letterale di ©lla ¶gore›ein come una nozione generica che include tanto la forma di rappresentazione «simbolica» che quella «sostitutiva» (soprattutto quella «personificante») e quella «paradigmatica». Quella che comunemente è chiamata allegoria (in senso stretto) è solo una forma piú complicata di sostituzione: piú complicata in quanto diverse personificazioni (cioè esseri viventi od oggetti che denotano idee) si incontrano in una scena o in un rapporto spaziale che illustra la connessione tra varie nozioni astratte. Un tipico esempio ne è il Trionfo di Massimiliano, di Dürer, o l’allegoria di Goltzius (cit. p. 321, nota 15) del rapporto fra Ars e Usus. 80 Per i particolari problemi connessi alla personificazione poetica della melanconia (e l’illustrazione pittorica di essa) cfr. pp. 209 sgg. 81 In una placchetta di Bertoldo, che finora non è stata decifrata integralmente, troviamo addirittura un putto che con infantile serietà partecipa all’occupazione degli adulti (w. bode, Bertoldo und Lorenzo dei Medici, Freiburg im Breisgau 1925, p. 82). Il putto sembra intento a modellare qualcosa, mentre il vecchio sulla sinistra non sta armeggiando, come afferma il Bode, con strumenti di misurazione, ma sta intagliando un mobile complicato; Mercurio sta lavorando con il filo a

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia piombo e il compasso, la figura femminile con un triangolo. Se le lettere parzialmente illeggibili si debbano realmente interpretare come abbreviazioni di Mathematica = Ars, Ludus e Usus è un problema tuttora aperto; un’interpretazione del genere sarebbe in accordo con le idee del tempo (cfr. anche pp. 318 sgg.). 82 «Un quadro su l’ascia di mano del Mantegna con 16 fanciulli, che suonano e ballano, sopra scrittovi Malancolia, con cornice dorata, alta on. 14, larga on. 20 1/2» (g. campori, Raccolta di Cataloghi ed Inventarii inediti, Modena 1870, p. 328; cfr. giehlow 1903, p. 40). Il Giehlow è indubbiamente nel giusto quando afferma che questi putti che suonano e danzano sono da interpretare come simboli umanistici degli svaghi musicali e teatrali raccomandati come antidoti alla melanconia. Ma naturalmente non è necessario che sia stato il Ficino a trasmettere al Mantegna la conoscenza di questi rimedi a quel tempo ovvi. Inoltre si può dire anche meno dei quadro del Mantegna, dato che dalla descrizione del Campori non è nemmeno sicuro che la Melanconia vi figurasse di persona. Per tutti gli elementi essenziali dobbiamo rifarci al quadro di Cranach, che sembra riflettere la composizione del Mantegna (cfr. p. 359); di recente è venuto alla luce il disegno di Dürer L623, che potrebbe confermare la conoscenza da parte di Dürer del quadro perduto (cfr. tietze, vol. I, p. 21). 83 L’unico elemento iconografico in cui la Melanconia della Melencolia I concorda con «Dame Mérencolye» (e del resto solo nel romanzo di re Renato) è la sua capigliatura scarmigliata (eschevelé), e anche questo segno di uno stato d’animo desolato è un motivo troppo comune perché si possa affermare l’esistenza di un rapporto tra le due figure. 84 Le rappresentazioni ellenistiche della vita delle plebi cittadine, dei contadini e anche degli animali sono diverse da quelle tipicamente romane per calore emotivo che nasce da un’acuta sensibilità verso ciò che non è familiare. Può riflettere l’orrore della degradazione, come nel caso della Vecchia ubriaca; o un interesse sentimentale per i nostri simili o la natura, come nel caso del Bambino negro che suona o della Madre che allatta il suo piccolo; o infine un’espirazione all’idillico, come nel caso del «tipo del contadino» vero e proprio. Esattamente allo stesso modo la ritrattistica ellenistica si contrappone a quella romana per la sua concitazione e il senso di trionfo o di sofferenza. La «veneranda sobrietà» dello spirito artistico latino, che, negli ambienti colti, era spesso nascosta sotto una maschera di ellenismo ma si rivelava tanto piú chiaramente nelle opere popolari, o in quella che chiamiamo «arte provinciale», risaliva, nonostante il classicismo e l’ellenismo, all’assoluta oggettività degli antichi ritratti di esponenti dei vari mestieri degli Egizi. 85 o. jahn, Darstellungen des Handwerks und Handeisverkehrs aul

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia Vasenbildern, in «Bericht über die Verhandlungen der sächsischen Gesellschaft der Wissenschaften» phil.-hist. Klasse, xix, 1867, pp. 75-113. Cfr. h. guammerus, Darstellungen aus dem Handwerk auf röm. Grab- und Votivsteinen in Italien, in «Jahrbuch des kaiserlich deutschen archäologischen Instituts», xxviii, 1913, pp. 63-126. Piú di recente p. brandt, Schafende Arbeit und Bildende Kunst, Leipzig 1927-28 (due volumi con numerose tavole). 86 Gli emblemi del mestiere potevano o essere aggiunti alla figura dell’estinto (era il costume pagano, come si vede nella tav. 51), oppure addirittura sostituirla (questa era naturalmente la forma particolarmente diffusa nelle catacombe cristiane). 87 r. garucci, Storia dell’arte cristiana, vol. III, 202, 3 = cabrol-leclercq, Dictionnaire d’archéologie chrétienne et liturgie, I, 2, col. 2918 (con maggiori particolari). 88 e. gerhard, Etruskische Spiegel, Berlin 1843-67, tav. 330, 1. 89 Per illustrare la continuità di questa tradizione mettiamo a fronte delle tavv. 102-4: a) tre immagini dei mesi tratte dal Calendario di Salishurgo dell’818 (g. swarzenski, Die Salzburger Malerei, Leipzig 1913, pp. 13 sgg. e tav. vii; h. j. hermann, Die illuminierten Handschriften der Nationalbibliothek in Wien, vol. I, Leipzig 1923, p. 148), in particolare Maggio che reca fiori, Giugno che ara e Agosto che miete; b) le tre immagini corrispondenti del codice di Rabano di Montecassino, copiato nel 1023 da un originale carolingio (a. m. amelli, Miniature... illustranti l’Enciclopedia medioevale di Rabano Mauro, Montecassino 1896, tav. liii); c) Una figura romana in rilievo del tipo su cui era poggiato Augusto (sarcofago del Laterano). Le immagini del codice di Rabano ancora conservano le indicazioni della formazione di fondo che sono già dileguate nei calendari carolingi, benché la disposizione delle figure le richiederebbe anche qui. Ne consegue che le immagini del codice di Rabano (per le quali cfr. a. goldschmidt, in «Vorträge der Bibliothek Warburg», vol. III, 1923-24, pp. 215 sgg.) sono indipendenti dal Calendario di Salisburgo e si basano direttamente su fonti pittoriche anteriori al ix secolo. 90 Nuptiae Philologiae et Mercurii, libri II sgg.; e. mâle, Les arts libéraux, in «Revue archéologique», 1891, pp. 343 sgg . 91 In questi esempi, quindi, le personificazioni e le figure esemplari concorrono in una duplice scena che qualche secolo dopo poteva perfino essere unificata in una scena unitaria (cfr., ad esempio, il typus Arithmeticae in gregor reisch, Margarita philosophica, Strassburg 1504, ben riprodotto in e. reicke, Der Gelebrte in der deutschen Vergangenheit, Leipzig 1900, tav. 45. 92 Cfr. mâle, Les arts libéraux cit., pp. 343 sgg.; e j. von schlosser, in «Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen des allerhöchsten Kaiserhauses», xvii, 1896. pp. 13 sgg.

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia Cfr., ad esempio, l’epitaffio di Andrea Bregno in Santa Maria sopra Minerva (h. egger, in Festschrift für Julius von Schlosser, Zürich 1927, tav. 57) e i corrispondenti esempi tedeschi, ovviamente di data posteriore, studiati in brandt, Schaffende Arbeit und Bildende Kunst cit., vol. II, pp. 137 sgg. Anche il tipo dell’«Eros carpentiere» conobbe una rinascita nell’epoca umanistica, sia pure con un significato piú raffinato in senso intellettuale e satirico; cfr. il putto circondato da simboli dei mestieri che si sforza di volare verso il cielo, impedito però da necessità terrestri, che spesso compare in edizioni del Rivius, ma è già sotto l’influenza della Melencolia I di Dürer. Che questa influenza ci sia stata lo mostra un confronto col suo modello negli Emblemata di Alciato, che ancora non presenta simboli dei mestieri (cfr. l. volkmann, Bilderschriften der Renaissance, Leipzig 1923, p. 44). Dell’uso di utensili per indicare un’occupazione si hanno, naturalmente, esempi innumerevoli nei libri degli emblemi; essi possono tenere luogo di lunghe narrazioni o biografie. Un buon esempio ne è il retro del medaglione per Tommaso Ruggieri, riprodotto in g. habich, Die Medallien der italienischen Renaissance, Stuttgart 1922, tav. lxx, 4. 94 Cfr. e. moreau-nélaton La Cathédrale de Reims, Paris s. d., p. 33. 95 L’Aia, Mus. Meermanno-Westreenianum, Ms 10 D 1 (il «piccolo» manoscritto di Aristotele-Oresme di Carlo V), fol. 110r (cfr. a. byvanck, Les principaux manuscrits à peintures de la Bibliothèque Royale et du Musée Meermanno-Westreenianum à La Haye, Paris 1924, p. 114; repliche in j. meurgey, Les principaux manuscrits à peintures du Musée Condé à Chantilly, Paris 1930, tav. lii e pp. 46 sgg., con bibliografia). A sinistra, accanto all’Arte, c’è la Scienza in atto di leggere; a destra c’è la Prudenza con tre teste (per il motivo delle tre teste, Cfr. panofsky, Hercules am Scheidewege cit., pp. 1 sgg.; è notevole tuttavia il fatto che qui le tre teste sono sostituite da teschi); sotto stanno l’Intelletto in un atteggiamento pensoso, e la Sapienza illuminata dalla diretta visione di Dio Padre e dei suoi angeli. Dobbiamo alla cortesia di B. Martens la conoscenza di questa miniatura. L’Arte in aspetto di fabbro compare nel manoscritto di Aristotele-Oresme di Bruxelles, 9505, fol. 115v, che è legato a questo sia per il tempo che per lo stile. 96 Cfr. e. breitenbach e t. hillmann, Anzeiger für schweizerische Altertumskunde, vol. XXXIX, 1937, pp. 23 sgg. 97 Londra, Brit. Mus., Ms Add. 15 692 (De septem artibus liberalibus), fol. 29V. 98 Monaco, Staatsbibliothek Cod. gall. 15. Su questo argomento cfr. comte de rosanbo, Notice sur Les Douze Dames de Rhétorique (dal Ms fr. 1174 della Bibliothèque Nationale), in «Bulletin de la Société française de reproductions de manuscrits à peintures», vol. XIII, 1929. Nella storia dei tipi queste dame (e anche, ad esempio, «Dame Eloquence») si avvicinano molto alla Melencolia di Dürer. 93

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia «Que rient n’y reste trou ne fente». Un’allegoria «metaforica» o «doppia» simile si ritrova anche nelle serie delle Artes e probabilmente proviene dall’Alsazia (Schreiber, n. 1874, riprodotto in heitz, Einblattdrucke des 15. Jahrhunderts cit., vol. LXIV, n. 6, e in reicke, Der Gelehrte in der deutschen Vergangenheit cit., figg. 27-29). Queste raffigurazioni, nonostante i loro titoli astratti, come Arismetica, ecc., sono, se si considerano come tipi, rappresentazioni pienamente realistiche di mestieri: a tal punto, infatti, che, ad eccezione di una, esse ci mostrano non gli esponenti paradigmatici delle varie scienze, ma dei semplici contadini e artigiani, la cui attività si riferisce alle arti liberali o per via di metafora (come nel caso della Déduccion loable), o anche alludendo alla loro applicazione pratica. La sola Aritmetica è rappresentata da un uomo che effettivamente fa di conto; la Grammatica, la Retorica e la Logica, per contro, sono rappresentate da un seminatore, un mugnaio e un fornaio (in quanto Aristotele fece il pane dal seme che Prisciano aveva seminato e Cicerone macinato) e l’Astronomia da un pittore, una figura nota dalle immagini dei figli di Mercurio o della Madonna di Luca, solo che qui egli sta dipingendo stelle nel cielo. La Geometria invece non è rappresentata da un geometra, ma da un appareilleur che sta misurando una pietra in un posto e il distico che l’accompagna suona: «Ich kan pawen vnd wol messen, | Darumb wili ich Eclides [sic] nit vergessen». La differenza, rispetto alla Déduccion loable, è, come in altri casi, che là una dama facilmente riconoscibile come personificazione siede in una bottega di carpentiere, mentre qui comuni contadini e lavoratori stanno realmente seminando, macinando e cuocendo il pane. 100 Riprodotto in o. lauffer, Deutsche Altertümer im Rahmen deutscher Sitte, Leipzig 1918, tav. 5. 101 Cfr. marziano capella, Nuptiae Philologiae et Mercurii, libro VI, 575 sgg., in particolare 580-81 (pp. 286 sgg. nell’ed. a cura di A. Dick, Leipzig 1925). Le ancelle della Geometria qui recano una «mensula» coperta di una polvere verdastra, «depingendis designandisque opportuna formis»; l’autore descrive la stessa signora come una «feminam luculentam, radium dextera, altera sphaeram solidam gestitantem». 102 Le premesse di tutto questo erano già state poste dalla descrizione di Marziano Capella. La Geometria indossa un «peplum», «in quo siderum magnitudines et meatus, circulorum mensurae conexionesque vel formae, umbra etiam telluris in caelum quoque perveniens vel lunae orbes ac solis auratos caliganti murice decolorans inter sidera videbatur»; e «in usum germanae ipsius Astronomiae crebrius commodatum, reliqua vero versis illitum diversitatibus numerorum, gnomonum stilis, interstitiorum, ponderum mensurarumque formis diversitate coloruni variegata renidebat» (ed. Dick, p. 289). Un tale indumento poteva naturalmente esserle evitato dal nostro artista, in quan99

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia to i fenomeni astrali potevano essere rappresentati direttamente, benché la penna di pavone sul copricapo della Geometria non manchi di un significato allegorico; il pavone secondo il Ripa, sotto il titolo Notte seconda parte (citazione da Pierio Valeriano), significa «la notte chiara, e stellata, vedendosi nella sua coda tanti occhi, come tante stelle nel Cielo». 103 Già nell’edizione del 1512 della Margarita philosophica di Gregor Reisch (fol. o 1r) la figura è semplificata in questo senso; la Geometria tiene essa stessa il sestante, e sta misurando una botte con un compasso (una notevole anticipazione della Stereometria doliorum di Keplero), mentre una riga sta a terra e una nave passa in lontananza. 104 Cosí nella miniatura della Déduccion loable. 105 Non c’è ragione di dubitare che questo oggetto sia in realtà nient’altro che un completo per scrivere portatile, composto di un calamaio con coperchio e con un astuccio per le penne attaccato ad esso mediante una striscia di cuoio, ma purtroppo tagliato dal margine sinistro della figura. Tuttavia dopo che i. a. endres («Die christliche Kunst», vol. IX, 1913, diverse puntate) l’aveva interpretato come una trottola e f. a. nagel, Der Kristall auf Dürer’s Melancholie, Nürnberg 1922, come un filo a piombo, w. bühler («Mitteilungen der Gesellschaft für vervielfältigende Kunst», 1925, pp. 44 sgg.) ha detto trattarsi di un barattolo di colore con una bacchetta e con un filo avvolto intorno a spirale, per rendere piú facile tracciare una linea retta (in realtà questi effetti di spirale altro non sono che cuoio intrecciato, come si vede non solo in altri astucci per penne ma anche in foderi di coltelli, si veda, ad esempio, il disegno di Bruegel, Tolnai n. 77); mentre secondo p. brandt (in «Die Umschau in Wissenschaft und Technik», vol. XXXII, 1928, pp. 276 sgg.) fu perfino supposto che si trattasse di un filo a piombo di forma conica, con un astuccio per il filo appoggiato a un piattino! Per porre fine a ogni dubbio possiamo ricordare i casi analoghi in opere dello stesso Dürer già indicati dal Giehlow e anche da f. honecker (in «Zeitschrift für christliche Kunst», vol. XXVI, 1913, col. 323) – la xilografia B60 e il libro di preghiere di Massimiliano I, tav. 14, entrambi raffiguranti san Giovanni a Patmos, e la xilografia B113 di san Girolamo – e aggiungere qualche altro esempio, che facilmente potrebbe moltiplicarsi: 1) la visione di san Giovanni dei fratelli Limbourg a Chantilly (Les très riches heures de Jean de France, ed. P. Durrieu, Paris 1904, fol. 17r, tav. 14); 2) la visione di san Giovanni nella Bibbia di Coburgo; 3) la xilografia B70 di Dürer; 4) la medaglia di Ruggieri già ricordata (cfr. p. 291, nota 13), una raffigurazione di sant’Agostino, del 1450 circa, in un manoscritto delle sue Confessioni conservato a Utrecht (riprodotta da a. w. byvanck e g. j. hoogewerff, La miniature hollandaise et les manuscrits illustrés du 14e, au 16e siècles aux PaysBas septentrionaux, vol. II, La Haye 1923, tav.

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia 187); 6) una xilografia satirica in geiler von keisersperg, Sünden des Munds, Strassburg 1518 (riprodotto in reicke, Der Gelehrte cit., fig. 99); 7) il san Girolamo del Ghirlandaio in Ognissanti; 8) la xilografia di Hans Döring (cfr. pp. 314 sg. e tav. 112) che è tanto piú importante in quanto riprende tutto l’insieme degli utensili direttamente dall’incisione di Dürer. L’interpretazione del giehlow 1904, p. 76 del calamaio come un geroglifico simboleggiante le sacre scritture degli Egizi non ci sembra sostenibile perché il geroglifico che indica le «sacrae litterae Aegyptiorum» (cfr. «Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen des allerhöchsten Kaiserhauses», vol. XXXII, 1915, p. 195) non si compone della sola penna o del solo calamaio, ma di calamaio, stilo e crivello, e il testo che l’accompagna attribuisce altrettanta importanza a quest’ultimo elemento che agli altri due: «Aegypciacas ostendentes litteras sacrasve aut finem, atramentum et cribrum calamum quoque effigiant. Litteras equidem, quoniam apud Aegypcios omnia scripta cum his perficiantur. Calamo etenim ac nulla alia re scribunt. Cribrum vero, quoniam cribrum principale vas conficiendi panis ex calamis fieri soleat. Ostendunt itaque, quemadmodum omnis, cui victus suppeditat, litteras discere potest, qui vero illo caret, alia arte utatur necesse est. Quam ob rem apud ipsos disciplina «sbo» vocatur, quod interpretari potest victus abundancia. Sacras vero litteras, quoniam cribrum vitam ac mortem discernit». È quanto mai improbabile che se avesse voluto fare una traduzione in geroglifici di certi concetti avrebbe modificato in modo cosí arbitrario i simboli tramandati da Orapollo. (Da Vienna, Nationalbibl., Ms 3255, fol. 47r). 106 Cfr. Appendice I, pp. 375 sgg. 107 Cfr. la miniatura di san Girolamo dello stesso Dürer, la miniatura di Darmstadt del Petrarca (riprodotta in j. schlosser, Oberitalienische Trecentisten, Leipzig 1921, tav. 11), la xilografia nella Chronica di Milano di B. Corio del 1503 (riprodotta in reicke, Der Gelehrte cit., fig. 55) o l’illustrazione di uno studio medico nel Liber de arte distillandi di H. Braunschweig, Strassburg 1512 (riprodotta ibid., fig. 46). 108 Cfr. e. römer, in «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», vol. xlvii, 1926, tav. 1, p. 136. 109 Xilografia in jacob locher, Panegyrici ad regem..., Strassburg 1497 (ripubblicata nel Medicinarius di h. braunschweig, 1505, fol. cxxxiv), riprodotta in reicke, Der Gelehrte cit., tav. 66. 110 braunschweig, Medicinarius cit., fol. cxxxiiv. 111 giovanni angelo, Astrolabium planum, Venezia 1494 (manca nella prima edizione del 1488). Cfr., in senso opposto, il rapporto della figura col piano dell’immagine e la composizione diagonale dell’insieme in quanto condizionata da questo; anche la posizione della testa con un occhio tagliato dalla linea di contorno del profilo sembra familiare. Lo stesso schema, sia pure con la figura dotata di attività intensa e di

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia espressione passionale, al modo tipico del Rinascimento, compare nella xilografia che illustra L’Acerba di Cecco d’Ascoli, Venezia 1524 (riprodotta in hartlaub, Geheimnis, p. 38). 112 Per il significato di questo particolare, cfr. p. 309. 113 h. wölfflin, Die Kunst Alhrecht Dürers, München 19265, p. 253. 114 Libro di preghiere, fol. 48v. Per la presenza della figura nel Narrenschiff tedesco alle cui illustrazioni Dürer ha probabilmente contribuito, cfr. p. 283. 115 wölfflin, Die Kunst Albrecht Dürers cit., p. 255. 116 Circa queste fasi dell’evoluzione, di cui si è trattato sopra da un punto di vista sistematico, si può dimostrare sull’esempio della Melencolia I che sono state fasi di un effettivo processo storico; infatti la forma «simbolica» dell’incisione non si è in effetti sviluppata dalla combinazione di una raffigurazione puramente «personificante» (cioè il typus Geometriae) con una puramente «paradigmatica» (cioè la raffigurazione di un melanconico come nei calendari). 117 Cfr. il kathfeéj di Rufo (cfr. p. 47 di questo libro, Einaudi, Torino 1983), probabilmente da intendersi come un termine psicologico, e numerosi testi posteriori nei quali certamente la posa vuole essere un mezzo espressivo: ad esempio, Raimondo Lullo: «Et naturaliter erga terram respiciunt»; Berlino, Cod. germ. fol. 1191, ora a Marburgo: «Sin Antlitz [ad esempio, del melanconico] czu der Erden gekart»; anche il testo su Saturno riprodotto in hauber, Planetenkinderbilder und Sternbilder cit., p. 23: «Sin [ad esempio, del figlio di Saturno] angesicht alles geneiget zu der erden». Può esame significativo della forza di suggestione di questa tradizione il fatto che in una descrizione dell’incisione Düreriana (Pictura Melancholiae) a opera di Melantone, sia pure nota solo di seconda mano, si affermi, in evidente contraddizione con ciò che si vede: «Vultu severo, qui in magna consideratione nusquam aspicit, sed palpebris deiectis humum intumur». Cosí il manoscritto di Berlino, theol. lat. qu. 97, ora a Tubinga, un manoscritto miscellaneo che un certo Sebastian Redlich ha copiato da note di Corirad Cordatus, fol. 290r (edito abbastanza modestamente da h. wrampelmeyer, Ungedruckte Schriften Philipp Melanchthons, in Beilage zum Jahresbericht des Kgl. Gymnasiums zu Clausthal, Pasqua 1911, p: 8, n. 62). Questa descrizione, illuminante per molti aspetti («Albertus Durerus, artificiosissimus pictor, melancholici picturam ita expressit...») è una mescolanza di osservazioni minute e di sottile interpretazione psicologica, nonché di pura fantasia. Alla fine, ad esempio, l’autore afferma «Cernere etiam est... ad fenestram arancarum tela», benché non ci sia né una ragnatela né una finestra. Qui probabilmente Melantone pensava a un’altra raffigurazione della melanconia (cfr. tav. 144 e pp. 368 sg. di questo libro, Einaudi, Torino 1983) o a un’incisione come il Tactus di J. Pencz: (B109).

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia Questo fatto è stato messo in dubbio da w. bühler, in «Mitteilungen der Gesellschaft für vervielfältigende Kunst», 1925, pp. 44 sgg., in quanto il globo, il pugno e la faccia del putto appaiono piú chiari, benché siano nella stessa luce, Ma questi termini di confronto sembrano piú chiari solo perché sono in ombra solo in parte, mentre il viso della Melanconia, girato molto piú verso sinistra di quello del putto, è interamente in ombra, e quindi dovrebbe essere confrontato solo con la parte in ombra degli oggetti indicati dal Bühler (o forse con la metà destra del collare che corre intorno alla spalla della figura). 119 Il Ripa lo definisce esplicitamente come un attributo del «Crepusculo della Sera». Inoltre sappiamo (cfr. p. 14, nota 21 e passim in questo libro, Einaudi, Torino 1983) che il terzo quarto del giorno, cioè le ore fra le tre e le nove del pomeriggio, è appropriato alla melanconia. 120 Sembra che finora si sia ignorato che forse il sole non poteva essere cosí alto nell’ora dei giorno indicata dal cielo e dal pipistrello, tanto da proiettare, ad esempio, l’ombra della clessidra. Quindi la scena, se è opportuna un’interpretazione realistica di questo genere, è stata immaginata alla luce della luna, ancora una volta in contrasto significativo con l’interno pieno di sole dell’incisione di san Girolamo. 121 Nell’analisi di Melantone ricordata sopra, il motivo della scala è interpretato in questo senso, cioè come simbolo di una ricerca mentale universale che però è spesso inefficace, se non assurda: «Ut autem indicaret nihil non talibus ab ingeniis comprebendi solere et quam eadem saepe in absurda deferrentur, ante illam scalas in nubes eduxit, per quarum gradus quadratum saxum veluti ascensionem moliri fecit». 122 l. bartning, Worte der Erinnerung an Adoll Bartning, edito privatamente, Hamburg 1929. 123 Cosí anche nella descrizione di Melantone: «Jacet autem prope hanc ad pedes ipsius, contracta corporis parte, parte etiam porrecta, canis, euiusmodi solet illa bestia in fastidio esse, languida et sominiculosa et perturbari in quiete». 124 Cfr. e. panofsky, in «Logos», xxi, 1932, pp. 103 sgg. 125 Cfr. pp. 267 sgg. Tra le opere non allegoriche di Dürer in cui compaiono figure con una borsa e delle chiavi, possiamo ricordare le incisioni B40, 84 e 90; le xilografle B3, 80, 84, 88, 92; e soprattutto la figura in costume con la didascalia «also gett man in Hewsern Nörmerck». Una borsa e delle chiavi caratterizzano anche la vecchia nutrice nelle rappresentazioni di Danae di Tiziano (Prado) e di Rembrandt (Hermitage). 126 Cfr. più avanti. 127 Ad esempio in Ibn Esra i canes nigri, e, in un manoscritto greco, i cani in genere (Cat. astr. Gr., V, 1, p. 182, 10; cit. da w. gundel, in 118

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia «Gnomon», ii, 1926, p. 299; e bbg, Sternglaube, p. 114 sempre in questo libro, Einaudi, Torino 1983.). 128 Per questo cfr. Giehlow, alle cui opere abbiamo spesso rinviato, e al quale spetta il merito di aver scoperto tutto quanto il sistema dei geroglifici rinascimentali e di aver raccolto tutto il materiale piú importante; cfr. anche volkmann, Bilderschriften der Renaissance cit., passim. g. leidinger (in «Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften», Philol.-hist. Klasse, 1929), ha dimostrato che Dürer conosceva, e addirittura possedeva, la Hypnerotomachia Poliphili. 129 «Qui faciem magis, ut vulgo aiunt, melancholicam prae se ferat»: cosí Pierio Valeriano, cit. in giehlow 1904, p. 72. 130 ramler, Kurzgefasste Mythologie cit., p. 456: «Alcuni sostengono che i pipistrelli gli svolazzano intorno». 131 k. giehlow, in «Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen des allerhöchsten Kaiserhauses», vol. XXXII, 1915, p. 167. 132 agrippa di nettesheim, De occulta philosophia, nell’autografo del 1510 scoperto da Hans Meier, Würzburg, Bibl. Univ., Cod. Q 50 (per questo, cfr. pp. 329 sgg.), fol. 9r. Di qui la credenza che un cuore di pipistrello fosse un talismano contro la sonnolenza. 133 ficino, De v. tripl., I, 7 (Opera, vol. I, p. 500): «Spiritus fatigatione diurna, praesertim subtilissimi quique denique resolvuntur. Nocte igitur pauci crassique supersunt…, ut non aliter mancis horum fretum alis ingenium volare possit, quam vespertiliones atque bubones». Inoltre Agrippa di Nettesheim ricorda il pipistrello come uno degli animali di Saturno: «Saturnalia sunt... animalia reptilia segregata, solitaria, nocturna, tristia, contemplativa vel penitus lenta, avara, timida, melancolica, multi laboris et tardi motus, ut bubo, talpa, basiliscus, vespertilio» (Ms di Würzburg, fol. 17v; dall’edizione a stampa cit. anche da w. gundel, in «Gnomon», ii, 1926, p. 290; e bbg, Sternglaube, p. 115). Secondo Agrippa, ogni incenso offerto a Saturno dovrebbe contenere sangue di pipistrello (Ms di Würzburg, fol. 25v; dall’edizione a stampa cit. da gundel, loc. cit.). Oltre a queste citazioni dirette ce ne sono di indirette, in cui si attribuiscono a Saturno gli uccelli notturni in genere («t™ t≈j nuktÿj peteinß», «omnia, quae noctu vagantur»): Cat. astr. Gr., IV, 122 (cit. da gundel loc. cit.) e ranzovius, Tractatus astrologicus, Frankfurt 1609, p. 47. Il sessantaduesimo emblema nella famosa collezione di emblemi dell’Alciato è di particolare interesse: «Vespertilio. | Vespere quae tantum volitat, quae lumine lusca est, | Quae cum alas gestet, caetera muris habet; | Ad res diversas trahitur: mala nomina primum | Signat, quae latitant, iudiciumque timent. | Inde et Philosophos, qui dum caelestia quacrunt, | Caligant oculis, falsaque sola vident...» Questi versi suonano come un elenco delle caratteristiche dello spirito saturnino e melanconico. Il riferimento a un certo tipo di filosofo è significativo.

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia t. birt, Die Buchrolle in der Kunst, Leipzig 1907, pp. 286 sgg. (con rimandi). 135 Cfr. pp. 122, 129, 133 sgg. Anche il Nativitet-Kalender del 1515 di Leonhard Reynmann afferma che i figli di Saturno «hanno a che fare con le cose acquatiche» (fol. D 11v). L’incisione del Campagnola raffigurante Saturno, già ricordata sopra (pp. 198 sgg.) può aver fornito a Dürer lo stimolo effettivo per adottare il motivo marino. Questa incisione, a sua volta ispirata da precedenti incisioni di Dürer, è ben difficile fosse sconosciuta all’artista maturo. 136 Cfr. bartolomeo da parma, ed. E. Narducci, in «Bulletino di bibliografia e di storia delle scienze matematiche e fisiche», xvii, 1884, p. 156. L’uso di mettere in rapporto singole comete con singoli pianeti risale a Nechepso-Petosiride; cfr. bbg, Sternglaube, pp. 51 e 129, e W. Gundel, in pauly-wissowa, s. v. «Kometen», e in «Hessische Blätter für Volkskunde», vii, 1908, pp. 109 sgg. (Il pianeta trasmette le sue proprietà alla cometa, «tamquam filio»; cfr. a. mizaldus, Cometographia, Paris 1549, p. 91, lo stesso autore afferma (pp. 177 e 180) che la cometa di Saturno provoca «melancholicos morbos» e alluvioni, ecc., ed è particolarmente pericolosa per i figli di Saturno). 137 Cfr. bbg, Sternglaube, p. 114; cfr. anche pp. 334 sgg. Cfr. bbg, Sternglaube, p. 114; cfr. anche pp. 334 sgg. 138 Per l’oggetto che precedentemente è stato interpretato come un clistere, cfr. p. 308, nota 3. 139 Cfr. p. 296. 140 B130. 141 Stando agli appunti inediti del Giehlow, nel xvi secolo al melanconico si consigliava esplicitamente di mettersi delle erbe umide (s’intende, naturalmente umide) sulla fronte, «come un empiastro». L’identificazione del vegetale che si vede nella ghirlanda della Melencolia e nella xilografia B130 col ranuncolo acquatico, spetta a w. bühler, in «Mitteilungen der Gesellschaft für vervielfältigende Kunst», 1925, pp. 44 sgg.; e a e. büch, in «Die medizinische Welt» vii, 1933, n. 2, p. 69. La signora Eleanor Marquand di Princeton, cui siamo grati della cortese collaborazione, ci fa tuttavia notare che la ghirlanda della Melencolia è composta non di un solo vegetale, ma di due, e il secondo è il crescione (cfr., ad esempio, g. bentham, Handbook of the British Flora, London 1865). A parte che viene cosí definito correttamente un particolare importante, la scoperta ha un suo significato metodologico: se Dürer ha composto la ghirlanda di due vegetali che non hanno nulla in comune tranne il fatto di essere entrambi «acquatici», non si è trattato di semplice coincidenza o di preferenza puramente estetica: la scelta di questi due vegetali deve essersi fondata su una consapevole intenzione simbolica, che giustifica il nostro proposito di interpretare ogni particolare dell’incisione nell’ottica di questa intenzione simbolica. 134

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia giehlow 1904, pp. 16 sgg. Gli argomenti contrari di w. ahrens, in «Zeitschrift für bildende Kunst», nuova serie, vol. XXVI, 1915, pp. 291 sgg., si basavano sull’assunto, che è stato poi definitivamente confutato, che il significato astro-magico dei quadrati planetari non si può trovare in fonti occidentali prima del 1531 (cfr. pp. 306 sg.). 143 Vienna, Nationalbibliothek, Cod. 5239, fol. 147v: «Et si quis portauerit eam, qui sit infortunatus fortunabitur, de bono in melius efficiet [sic]»: cit. in a. warburg, Heidnisck-antike Weissagung in Wort und Bild zu Luthers Zeiten, in Gesammelte Schriften cit., vol. II, p. 328 [trad. it. in La rinascita del paganesimo antico cit., pp. 309 sgg.]. 144 Aureoli Philippi Theophrasti Paracelsi Opera omnia, Genève 1658, vol. II, p. 716. «Sigillum hoc si gestetur, gratiam, amorem et favorem apud universos conciliat... gestoremque suum in omnibus negotiis felicem facit, et abigit curas omnes, metumque». Era questa costante depressione dovuta a inquietudine e a irrefrenabile ansietà (cfr. Costantino Africano: «Timor de re non timenda» e Ficino: «Quod circa mala nimis formidolosus sum») che costituiva uno dei sintomi peggiori e piú tipici della melanconia. 145 I quadrati planetari, come ha dimostrato warburg, Heidnisch-antike Weissagung cit., pp. 516 sgg., figurano esplicitamente già nel Cod. Reg. lat. 1283 (1300 circa; ne abbiamo tratto la fig. 1), e anche nel manoscritto di Vienna, Nationalbibliothek, Cod. 5239 (xiv secolo) e in quello di Wolfenbüttel, Cod. 17,8. Aug. 4°. In Oriente senza dubbio si potrebbero trovare in date sensibilmente anteriori. 146 Il quadrato con 16 caselle e il totale 34 può comparire in 1232 diverse varianti, cfr. k. h. de haas, Frénicle’s 880 basic Magic Squares of 4 x 4 cells..., Rotterdam 1935. 147 Le osservazioni di Luca Pacioli sui sette quadrati planetari, scritte intorno al 1500 (Bologna, Bibl. Univ. Cod. 250, foll. 118-22) furono scoperte da Amadeo Agostini («Bollettino dell’Unione matematica italiana», ii, 2, 1923, p. 2) che sottolinea il possibile rapporto con Dürer (cfr. w. wieleitner, in «Mitteilungen zur Geschichte der Medizin und der Naturwissenschaften», vol. XXII, 1923, p. 125, e vol. XXV, 1926, p. 8). È significativo che il Pacioli si occupi dei quadrati semplicemente come un jeu d’esprit matematico, e si limiti ad accennare al loro significato astrologico e magico senza addentrarvisi; ignora quindi completamente le virtú magiche dei vari quadrati: «Le quali figure cosí numerose non senza misteri gli l’ano acomodata... Le quali figure in questo nostro compendio ho uoluto inserere acio con epse ale uolte possi formar qualche ligiadro solazo...» Nelle opere di Agrippa di Nettesheim i quadrati planetari compaiono solo nell’edizione a stampa (II, 22); mancavano nella versione originaria. 148 Cfr. warburg, Heidnisch-antike Weissagung cit., p. 529. Tuttavia possiamo associarci alla sua descrizione solo con molte riserve, 142

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia dato che non possiamo immaginare che il «conflitto demoniaco» tra Saturno e Giove si concluda con la vittoria di quest’ultimo; né possiamo riconoscere ad esso quel significato primario per l’interpretazione dell’incisione di Dürer che il Warburg gli attribuisce. La mensula Jovis è dopo tutto solo uno dei molti motivi, e certamente non il piú importante. Nonostante le acute argomentazioni del Giehlow e del Warburg, non si può dimostrare che l’incisione fosse destinata a Massimiliano I; e anche se lo si potesse dimostrare, la Melencholia I sarebbe stata un monito piú che una consolazione per lui. 149 La ragione per cui Dürer ha dato una versione, per cosí dire, meteorologica della nozione di astrologia è spiegata piú avanti, pp. 330 sgg. (Per la combinazione dell’arcobaleno e delle stelle, cfr., ad esempio, Denkmäler mittelalterlicher Meteorologie, Berlin 1904, p. 267). Può essere in conseguenza di questa correlazione che il sestante originariamente assegnato al putto non sia stato mantenuto nella versione finale, in quanto si trattava di un simbolo specifico dell’astronomia: cfr. le tavv. 100 e 110, nonché la raffigurazione di Tolomeo nella Margarita philosophica, riprodotta in reicke, Der Gelehrte cit., tav. 44. 150 Cfr. anche la xilografia sul frontespizio dello Instrumentbuch di Pietro Apiano, Ingolstadt 1533, e le sue Inscriptiones sacrosanctae Vetustatis, Ingolstadt 1534, fol. iniziale A.1r. Alla tav. 99 è riprodotta la xilografia del frontespizio, intagliata dal Flötner, del Perã ”ptik≈j di Vitellione, Nürnberg 1535 (riutilizzata in rivius, Vitruvius Teutsch, Nürnberg 1548, fol. cxcviiiv). È risaputo che la costruzione di poliedri assolutamente regolari o semiregolari ha costituito quasi il problema essenziale della geometria pratica nel corso del Rinascimento. Il piú bell’esempio vicino alla Unterweisung der Messung dello stesso Dürer è probabilmente la Perspectiva corporum regularium di Wenzel Jamnitzer, Nürnberg 1548 e 1568, in cui i cinque corpi platonici sono messi in prospettiva in tutte le loro possibili mutazioni. Anche la Geometria di Jan Boeckhorst siede su un poliedro come quello di Dürer, e la cosa è tanto piú significativa in quanto per il resto la figura è ricalcata piuttosto sulla xilografia dei Marmi del Doni, Venezia 1552 o sulla replica incisa di essa (cfr. oltre); il quadro si trova nel Landesmuseum di Bonn, n. 14. La forma stereometrica del poliedro, che Niemann definí un romboide tronco (cfr. Appendice I, p. 375), e che certamente non è un cubo tronco (cosí invece nagel, Der Kristall auf Dürers Melancholie cit.) ha suscitato, qualche tempo fa, un’aspra polemica tra studiosi olandesi (h. a. nabar e k. h. de haas, in «Nieuwe Rotterdamsche Courant», Avondblad, 26 aprile, 29 aprile e 5 luglio 1932). Mentre il Nabar conferma la ricostruzione del Niemann e si limita ad aggiungere che i romboidi si distinguono per una notevole regolarità (angoli di 60° e 120°), il De Haas giudica le superfici dei poliedri leggermente irregolari. Que-

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia sto non lo crediamo, in quanto i fenomeni prospettici su cui il De Haas fonda le sue osservazioni si contraddicono a vicenda; però possiamo lasciare questo problema, che per noi è di secondaria importanza, ai matematici. Il tentativo di K. H. De Haas (Albrecht Dürer’s meetkundige bouw van Reuter en Melencolia I, Rotterdam 1932) di far risalire la composizione di entrambe queste incisioni a un sistema particolareggiato di divisione planimetrica delle superfici è completamente al di fuori della sfera dei nostri interessi. Tuttavia è in ogni caso erroneo affermare che il romboide è un «blocco che ancora dev’essere portato alla regolarità», e quindi, come il «blocco grezzo» dei frammassoni, rappresenta didatticamente «l’umano compito di migliorarsi moralmente» (cosí hartlaub, Geheimnis, p. 78). Il poliedro di Dürer, qualunque sia la sua natura stereometrica, è cesellato con la massima cura, e le sue superfici sono quanto mai esatte, mentre il «blocco grezzo», come la «pietra alpestra e viva» di Michelangelo, deve essere immaginato come una massa ancora amorfa che attende di essere conformata (cfr. anche panofsky, Idea cit., pp. 64 e 119). 151 Questa interpretazione, secondo la quale lo strumento in questione deve essere annoverato tra gli antidoti alla melanconia (la purgatio alvi era in certo senso l’alfa e l’omega della dieta antimelanconica) è stata di recente messa in dubbio dal Bühler, benché senza ragioni davvero solide, dato che la terminazione a disco o a bulbo si ritrova anche nella nota xilografia di H. S. Beham, la Fontana della Giovinezza (Pauli 1120; m. geisberg, Der deutsche Einblatt-Holzschnitt, vol. XXII, 14) dove è certamente raffigurato un clistere. Inoltre, benché tutti i tentativi di interpretazione finora compiuti debbano essere respinti, in quanto lo spruzzatore per colori che il nagel, Der Kristall auf Dürers Melancholie cit. vi vede non compare da nessuna altra parte e un cavachiodi come suggerisce il bühler, op. cit. non si trova che nell’Ottocento, anche noi riteniamo ora che l’oggetto misterioso è piú probabile che rientri tra gli arnesi propri dei mestieri che non tra gli antidoti alla melanconia. Può trattarsi del tubo di un soffiatore di vetro (come è illustrato nella famosa opera di g. agricola, De re metallica, Basel 1556, nuova ed. tedesca 1928, p. 507; è un suggerimento che ci viene da Schimangk di Amburgo), o, piú probabilmente, di un soffietto: quest’ultima interpretazione, infatti, potrebbe trovare una conferma in un’espressione figurativa coeva, cioè nella xilografia di Hans Döring: (di cui parleremo più diffusamente in seguito), che deriva tutto il suo instrumentarium dalla Melencolia I e mostra in effetti un soffietto (cfr. pp. 314 sgg.). 152 In precedenti occasioni abbiamo lasciata aperta la questione se si trattasse di una macina da mulino o di una mola da arrotino, pur propendendo, in considerazione degli affreschi del Salone (cfr. p. 192) per quest’ultima interpretazione. Siamo lieti di constatare che p. brandt,

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia in «Die Umschau in Wissenschaft und Technik», vol. XXXII, 1928, pp. 276 sgg., e, per vie proprie, indipendentemente dalla bibliografia tecnica, w. blumenfeld, in «Idealistische Philologie», vol. III, 19271928, pp. 154 sgg., ora l’accettano. 153 Secondo il Bühler serviva a fondere il piombo con cui si saldavano le giunture. 154 Cfr. l’incisione di Schongauer B91, oppure l’opera di jost amman, Eygentliche Besckreibung aller Stände auff Erden, Frankfurt 1568 (nuova ed. München 1896), fol. H2. 155 L’argomento principale (addotto per primo da Giehlow) per metterlo in rapporto con operazioni d’alchimia si basa ancora sul fatto che maestri successivi, ad esempio Beham, il Maestro F. B. e Marten de Vos hanno assegnato alla Melanconia attributi inconfondibilmente alchimistici, e che piú tardi ancora la personificazione dell’Alcymia in certi casi impugnava un paio di molle da camino (ad esempio la xilografia del frontespizio dell’opera di g. gesner, Newe Jewell ol Health, London 1576). Il fatto che Ermete Trismegisto nella serie degli alchimisti del De Vries (riprodotto in hartlaub, Geheimnis, p. 46) tenga un compasso non costituisce una prova né pro né contro, perché il compasso lo tiene non in quanto specificamente alchimista, ma in genere in quanto Ermete Trismegisto, che è anche cosmologo e astrologo, per cui il suo secondo attributo è un astrolabio. 156 Cosí il giehlow 1904, p. 65. Inoltre il campanello, considerato nel senso del campanello degli eremiti che sempre era attribuito a sant’Antonio, potrebbe alludere alla propensione del saturnino melanconico alla solitudine; nel Mundus symbolicus di f. picinelli, Köln 1687, XIV, 4, 23, un campanello ancora indica la solitudine, e quindi, in significativa concordanza con le caratteristiche usuali del melanconico, «anima a rebus materialibus, terrenis et diabolicis remota». D’altra parte la credenza che il suono delle campane possa allontanare le catastrofi naturali (cfr. w. gundel, in «Gnomon», ii, 1926, p. 292) presuppone le grandi campane delle chiese. 157 «Certa dimensio, quae ex caeli conversione colligitur» (macrobio, Saturnalia, I, 8, 7; per questo cfr. il passo di Marziano Capella cit. p. 294, nota 22). Anche in un disegno di Luca di Leida (Lilla, Musée Wicar) la geometria è caratterizzata da una clessidra. 158 «Gram loquitur, Dia vera docet, Rhe verba colorat, | Mus canit, Ar numerat, Geo ponderat, As colit astra», pubblicato, ad esempio, in f. overbeck, Vorgeschichte und Jugend der mittel alterlichen Scholastik, ed. C. A. Bernoulli, Basel 1917, p. 29. Di fronte a questa prova e al fatto che le bilance non sono in alcun modo differenziate pittoricamente dagli altri strumenti (dopo tutto, infatti, Dürer non era piú nella fase del manoscritto di Tubinga richiamato per confronto da sigrid strauss-kloebe, in «Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst», nuova

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia serie, ii, 1925, p. 58, in cui cose celesti e cose terrene erano mescolate con intenzione deliberatamente umoristica), è difficile interpretare le bilance in senso astronomico, cioè come il segno zodiacale dell’esaltazione di Saturno (cosí anche w. gundel, in «Gnomon», ii, 1925, p. 293). Se tuttavia si vuole insistere nell’interpretazione astrologica, si può citare non solo il passo del Semifora ricordato dal Gundel, ma anche la tesi di Melantone, illustrata da warburg, Heidnisch-antike Weissagung cit., p. 529, secondo la quale «multo generosior est inelancholia, si coniunetione Saturni et Iovis in libra temperetur» (cosí anche Strauss-Kloebe). 159 Dobbiamo anche ricordare una pagina quanto mai interessante di una «Danza della Morte» del 1430 circa, in cui i soliti gruppi sono disposti secondo le sette arti liberali (Monaco, Staatsbibliothek, Ms lat. 3941, fol. 17V). Il giudice è anche subordinato alla geometria, ed è accompagnato da figure con compasso, martello, cesoie, ecc. I testi che le accompagnano recitano: «Gewicht vn inass ler ich dich | des tzyrkels kunst die kenn ich», e «Rerum mensuras et earum signo figuras», e «Evclides der meyster an geometrey lert | Der handwerck kunst, zal, wag, hoh, tyeff, leng vn preyt». 160 Cfr. lo schizzo, datato 1514, per uno degli strumenti per disegnare in prospettiva nel libro IV, nel Libro di schizzi di Dresda, ed. R. Bruck, Strassburg 1905, tav. 135. 161 lf, Nachlass, pp. 181, 30 sgg. 162 Ibid., p. 268, 12: «Will dorneben anzeigen, waraus die Zierd des Hobels oder Drehwerks, das ist durch die gereden oder runden gemacht werd». All’opinione del Bühler che nega che si intenda una sfera di legno fatta al tornio, possiamo contrapporre la constatazione che Cranach, che guardava l’incisione con l’occhio di un contemporaneo, ha dipinto le sfere in modo che risultino chiaramente di legno scuro. Non vogliamo insistere su questo punto, però l’affermazione del Bühler che la sfera di Dürer, che in certo modo era stata il simbolo della geometria dai tempi di Marziano Capella, rappresenti la palla di un campanile o anche l’apice del Tempio del Santo Graal, la cui base sarebbe il romboide, è pura fantasia. Se si vuole insistere su questa interpretazione, si dovrebbe dimostrare come potesse reggersi un oggetto del genere. 163 Cfr. pp. 192 sgg. 164 Egli appare per la seconda volta in aspetto di vecchio con una gravina e uno specchio, però questa figura è opera di un restauratore. L’originale probabilmente occupava il riquadro che ora è occupato da un enorme angelo. 165 Riferimenti citati alle pp. 121 sgg., 177 sgg. e note relative. 166 Cfr. g. fiocco, in «L’Arte», xviii, 1915, pp. 147 sgg. (anche g. gronau, in «Pantheon», ii, 1928, p. 533), che individua un ritratto di Dürer negli affreschi del Campagnola dipinti fra il 1505 e il 1510 nella

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia Scuola del Carmine a Padova. Di recente, però, gli affreschi sono stati assegnati a una data posteriore, cfr. h. tietze, Tizian, Wien 1936, pp. 68 sgg. Naturalmente il Campagnola può anche avere disegnato Dürer a Venezia. Cfr. inoltre rupprich, Willibald Pirckheimer cit., passim, le cui conclusioni però sono troppo sbrigative in certi casi (cfr. la nota di a. wolf, in «Die graphischen Künste», nuova serie, I, 1936, p. 138). 167 dante, Convivio, II, 14, 230. Cfr. anche j. von schlosser, in «Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen der allerhöchsten Kaiserhauses», xvii, 1896, in particolare pp. 45 sgg. 168 Cfr. pp. 325 sgg. 169 varrone, De lingua latina, V, 183. 170 macrobio, Saturnalia, I, 22, 8. 171 hauber, Planetenkinderbilder und Sternbilder cit, tav. xiii. Il tentativo dello Hauber (p. 93) di interpretare il compasso come un serpente mal disegnato non ha bisogno di confutazione, in quanto le punte color azzurro acciaio sono in chiaro contrasto con il legno scuro. 172 Ibid, tav. vii. 173 Ibid., tav. xvi. 174 l. reynmann, Natiuitet-Kalender, Nürnberg 1515, fol. D 11v. «Saturnus der hüchst oberst planet ist mannisch, büs, kalt vnd trucken, ain veind des lebens vrind der natur. Ain bedeuter der münich, ainsiedel, claussner, der ser alten leut. Melancolici, hafner, ziegler, ledergerber, Schwartzferber, permenter, der ackerleut, blayber, badreyber, Schlot-vnd winckelfeger, vnd alles schnüden volcks, die mit stinnckenden wasserigen vnsaubern dingen vmbgeen. Er bezaichet aus den künsten die Geometrei; die alten köstlichen vesten ding vnd werck der State vesst vnd hewser...» Anche qui è da rilevare la sopravvivenza di nozioni postelassiche, che vanno dall’assegnargli i monaci – sc≈ma monacik’n – e dalla caratteristica dell’ostilità alla vita – Saturno, dio della Morte! – alla contraddizione per cui egli è asciutto per natura eppure simboleggia persone che hanno a che fare con cose acquatiche. Questo passo è segnato anche nelle note lasciate da Giehlow. 175 Cfr. anche pp. 350 sgg. 176 Cfr. le Sette Arti Liberali di Virgil Solis, B123-29, o quelle di H. S. Bebam, B121-27. Un’incisione di Christoff Murer (Cfr. panofsky, Hercules am Scheidewege cit., tav. 46, p. 101) dimostra come perfino la virtus di un Ercole al bivio potesse essere influenzata dalla Melanconia di Dürer. 177 De conservanda bona valetudine (cit. p. 281, nota 28), fol. 120v, nell’edizione del 1551; fol. 121r nell’edizione del 1553; fol. 137r nell’edizione del 1554. 178 Per le sequenze dei temperamenti di Jacob I de Gheyn e Marten van Heemskerck, nelle quali questa fusione è altrettanto evidente, cfr. pp. 371 su. e tavv. 147-48 e 53.

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia Cfr. e. ehlers, Hans Döring, ein hessischer Maler des 16. Jahrhunderts, Darmstadt 1919, pp. 14 sgg., con tavv. e un accenno al rapporto con la Melencolia I, nonché alla xilografia di Beham; per l’attribuzione di quest’opera (Pauli 904) a J. Pencz, cfr. h. röttinger, Die Holzschnitte des Georg Pencz, Leipzig 1914, pp. 14 sgg. 180 Non siamo riusciti a scoprire né l’ampolla di borace di cui parla lo Ehlers, né il simbolo del piombo nel fumo che esce dal crogiolo. 181 «Grandaeuus ego sum tardus ceu primus in Orbe | omnia constemens quae jam mihi fata dedere | falce mea, ne nunc in me Mavortius heros | bella ciet: loca tuta meis haec artibus usus | circumfossa iacent, sed tu qui castra moliris | valle sub angusta circundare. Respice, quaeso, | ordine quo posset fieri; puer ille docebit: | hoc beo quos genui ingenio, hac uirtute ualebunt». 182 Cit. in w. ahrens, Das magische Quadrat, in «Zeitschrift für bildende Kunst», nuova serie, xxvi, 1915, p. 301. Anche il Vasari (cfr. p. 361) afferma che gli strumenti che si vedono nell’incisione düreriana della Melanconia «riducono l’uomo e chiunque gli adopera, a essere malinconico». 183 Monaco, Staatsbibliothek, Ms lat. 10 544; il capitolo su Saturno, fOll. 2.9IV S99. Con questo cfr. Histoire littéraire de la France, vol. XXIX, Paris 1885, p. 309; thorndike, A History of Magic and Experimental Science cit., vol. II, p. 868; e Dictionnaire de théologie catholique, vol. IX, 1926-1927, col. 1107. Del passo di Lullo esiste una traduzione catalana in un frammento del British Museum Ms Add. 16434, foll. 8v sgg. 184 Cfr. le affermazioni di Abû Ma‘∫ar e Alcabizio, cit. pp. 122 sg. 185 «Et a longo accipiunt per ymaginacionem, que cum melancolia maiorem habet concordiam quam cum alia compleccione. Et ratio quare melancolia maiorem habet proporcionern et concordiam cum ymaginacione quam alia compleccio, est quia ymaginacio considerat mensuras, lineps et figuras et colores, que melius cum aqua et terra imprimi possunt, quoniam. habent materiam magis spissam quam ignis et aer». 186 Etica Nicomachea, 1150 b25; e soprattutto Problemi, XI, 38; entrambi cit. sopra, p. 32. 187 enrico di gand, Quodlibeta, Parigi 1518, fol. xxxivr (quodl. II, quaest. 9): «Qui ergo non possunt angelum intelligere secundum rationem substantiae suae,... sunt illi, de quibus dicit Conimentator super secundum Metaphysicae: in quibus virtus imaginativa dominatur super virtutem cognitivam. Et ideo, ut dicit, videmus istos non credere demonstrationibus, nisi imaginatio concomitet eas. Non enim possunt credere plenum non esse aut vacuum aut tempus extra mundum. Neque possunt credere hic esse entia non corporea, neque in loco neque in tempore. Primum non possunt credere, quod imaginatio eorum non stat 179

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia in quantitate finita; et ideo mathematicae imaginationes et quod est extra coelum videntur eis infinita. Secundum non possunt credere, quia intellectus eorum non potest transcendere imaginationem... et non stat nisi super magnitudinem aut habens situm et positionem in magnitudine. Propter quod, sicut non possunt credere nec concipere extra naturam universi, hoc est extra mundum, nihil esse (neque locuni neque tempus, neque plenum neque vacum)... sic non possunt credere neque concipere hic (hoc: est inter res et de numero rerum universi, quae sunt in universo) esse aliqua incorporea, quae in sua natura et essentia carerent onini ratione magnitudinis et situs sive positionis in magnitudine. Sed quicquid cogitant, quantum est aut situm habens in quanto (ut punctus). Unde tales melancholici sunt, et optimi fiunt mathematici, sed pessimi metaphysici, quia non possunt intelligentiam suam extendere ultra situm et magnitudinem, in quibus fundantur mathematicalia». Il «Commentator super secundum Metaphysicae» (vol. II, A ùlßttwn , cap. iii) è, naturalmente, Averroè, che in effetti parla letteralmente di coloro «in quibus virtus imaginativa dominatur super virtutem cogitativam, et ideo videmus istos non credere demonstrationibus, nisi imaginatio concomitet eas, non enim possunt credere», ecc., fino a «incorporea» (vol. VIII, fol. 17r dell’edizione commentata di Aristotele, Venezia 1552). Però in Averroé questa definizione non si riferisce ai matematici, ma alla variante piú poetica del tipo immaginativo, cioè coloro che «quaerunt testimonium Versificatoris» prima di credere a una qualsiasi cosa; e non vi si fa cenno della melanconia (tranne che nell’affermazione che alcuni diventano tristi di fronte a un «sermo prescrutatus» perché non riescono a ritenerlo e ad assimilarlo). Il concetto essenziale in questo passo deve quindi ritenersi proprio di Enrico di Gand. 188 È significativo che ora anche l’artista ami rappresentare se stesso col compasso in mano; cfr. a. altdorfer, in «Gazette des Beaux-Arts», liii, I, 1911, p. 113. 189 lf, Nachlass, p. 285, 9. 190 «Omnia in mensura, et numero, et pondere disposuisti». Paralleli platonici si ritrovano nella Repubblica, 602e, e soprattutto nel Filebo, 55e: «Oèon pasÒn pou tecnÒn ©n tij ¶riqmhtik¬n cwràzh kaãmetrik¬n kaã statik¬n, Èj †poj eápeén fa„lon t’ kataleip’menon úkßsthj ¨n gàgnoito». Nell’illustrazione del famoso passo della Bibbia, Dio Padre è spesso raffigurato nel Medioevo come l’architetto del mondo, che impugna un compasso. Questo tipo è prefigurato in forma simbolica e abbreviata nei Vangeli Eadwi (Hannover, KestnerMuseum, inizi dell’xi secolo; Cfr. h. gilaeven, in «Zeitschrift des historischen Vereins für Niedersachsen», 1901, p. 294, dove però il compasso non è identificato come tale); l’immagine ritorna un po’ piú tardi, ed in forma molto simile, nello stesso ambiente artistico, come

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia una figura cosmologica a piena altezza (Londra, Brit. Mus., Ms Cotton Tiberius C VI, fol. 7. Altre raffigurazioni di Dio Padre con compasso e bilance sono: 1) un salterio inglese del 1200 circa, Parigi, Bibl. Nat., Ms lat. 8846 (riprodotto come italiano da a.-n. didron, Iconographie chrétienne: histoire de Dieu, Paris 1843, p. 600); 2) Montpellier, Bibliothèque de l’Université, Ms 298, fol. 300 (inedita; Hanns Swarzenski mi ha cortesemente segnalato questa miniatura); 3) l’affresco di Piero di Puccio nel Camposanto di Pisa (riprodotto da l. baillet, in «Fondation Eugène Piot, Monuments et Mémoires», vol. XIX, 1911, p. 147, con un sonetto che cita parola per parola la Sapienza, XI, 21); 4) (qui Dio Padre è sostituito da una personificazione del cosmo!) la xilografia del frontespizio della Philosophia naturalis di Alberto Magno nelle edizioni di Brescia e Venezia rispettivamente del 1493 e 1496 (f.-v. massena d’essling, Les livres à figures vénitiens, vol. II, t. I, Firenze 1908, p. 291). Molto piú spesso incontriamo Dio Padre che disegna il mondo col compasso, però senza le bilance, e questo è tipico della Bible moralisée, e forse ha avuto origine nel suo ambito: a. de laborde, Etude sur la Bible moralisée illustrée, Paris 1911-27, tav. i (cfr. la nostra tav. 115); cfr. anche id., Les manuscrits à peintures de la Cité de Dieu cit., tav. vi; martin, La miniature française du 13e au 15e siècle cit., tavv. 34 e 74; g. richert, Mittelalterliche Malerei in Spanien, Berlin 1925, tav. 40; Londra, Ms Royal 19. D. III, fol. 3 (del 1411-12), riprodotto in e. g. millar, Souvenir de l’exposition de manuscrits français à peintures.... Paris 1933, tav. 43; l’Aia, Kgl. Bibl., Ms 78D. 43, fol. 3; Parigi, Bibl. Sainte-Geneviève, Ms 1028, fol. 14, riprodotto in «Bulletin de la Société française de reproductions de manuscrits à peintures», v, 1921, tav. xxxvii; Bruxelles, Ms 9004, fol. i; Parigi, Arsenal 647, fol. 77; Parigi, Bibl. Nat., Ms fr. 247, fol. i (p. durrieu, Les antiquités judaïques.... Paris 1907, tav. i); e anche in xilografie singole come quella in heitz, Einblattdrucke des 15. Jahrhunderts cit., vol. XL, n. 24. Dio o la Mano di Dio, con le bilance ma senza compasso, semplicemente come simbolo della giustizia, compare ad esempio nel Salterio di Stoccarda, ed. E. De Wald, Princeton 1930, foll. 9v, 17v, 166v, anche, con un significato cosmologico, su un fonte battesimale, che sembra inedito, del Musée Lapidaire di Bordeaux. 191 lf, Nachlass, p. 316, 24. 192 Per questa nozione di arte, Cfr. e. panofsky, Dürers Kunsttheorie, Berlin 1915, pp. 166 sgg.; e id., in «Jahrbuch für Kunstwissenschaft», 1926, pp. 190 sgg. 193 lf, Nachlass, p. 181, 1 e soprattutto pp. 207,35 sgg . 194 Ibid., p. 282,13. 195 Ibid., p. 230,17 (cfr. anche la frase, citata sopra, da p. 228, 25, e i disegni preliminari come quelli alle pp. 218, 22 e 356, 20). Da questi e altri passi risulta chiaro che le espressioni Gewalt, gewaltig e

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia gewaltsam (in genere tradotte con ingenium, potentia e peritus nella traduzione latina di J. Camerarius) non sono in opposizione alle nozioni di Verstand, rechter Grund, Kunst, ecc., che sottolineano gli aspetti razionali del risultato artistico, ma li includono. Nella traduzione ibid., p. 221, 8 l’espressione gewaltsame Künstler è resa con potentes intellectu et manu. Però la forma derivata gewaltiglich (ibid., p. 180, 16), proprio perché è una forma derivata, porta in sé qualcosa di seconda mano e viene a essere opposta alle nozioni di Besonnenheit e rechte Kunst: «Gewaltiglich aber unbedächtlich» è reso in latino con «prompte [non perite], sed inconsiderate». 196 Ibid., pp. 295, 9, e 297, 19. 197 Ibid., p. 283, 4; cfr. anche p. 285, 5. 198 Ibid., p. 230, 5; cfr. anche p. 231, 3. 199 c. ravaisson-mollien, Les manuscrits de Léonard de Vinci, Paris 1881, Ms J. fol. 130r. Cfr. anche j. p. richter, The Literary Works of Leonardo da Vinci, London 1883, § 19. 200 lf, Nachlass, p. 230, 33. 201 Ibid., i. 202 Per contra Hendrik Goltzius mostra una felice e attiva associazione di Ars e Usus nella sua incisione Biii riprodotta in e. panofsky (in «Jahrbuch für Kunstwissenschaft», 1926, tav. ii), in cui l’Ars figura come maestra e guida dell’Usus. 203 Ci siamo ora convertiti, sia pure per ragioni differenti, all’opinione di H. Wölfflin, secondo cui il putto non è «un pensatore in miniatura» ma «un bambino che scarabocchia» (Die Kunst Albrecht Dürers cit., p. 256). Per questo rispetto è anche importante che Dürer abbia dato un colorito piú specificamente infantile all’attività del putto sostituendo gli strumenti matematici con la lavagna. Il motivo, com’era inteso in origine, come lo si vede nell’incisione del Maestro A. C., avrebbe costituito un parallelo anziché un contrasto. In effetti ci sono esempi in cui si vede che un putto intento ad armeggiare con strumenti matematici può significare proprio l’opposto del semplice Usus; cfr. ad esempio la xilografia di Hans Döring (cfr. p. 314), nonché un’incisione nella Teutsche Akademie di Joachim Sandrart (nuova ed. a cura di A. R. Peltzer, München 1925, p. 307), in cui si vede un putto con riga e compasso, circondato da altri strumenti matematici, con la scritta «Ars», «Numerus», «Pondus», «Mensura». Il «puer docens» di Hans Döring costituisce una sorta di Gegenprobe in favore della nostra interpretazione del putto di Dürer, in quanto, benché derivato da quello di Dürer, non tiene una lavagna, ma il libro e il compasso della figura principale, e anziché essere tutto intento a scribacchiare, ha assunto la posa pensosa della figura adulta. Il putto di Dürer poteva trasformarsi da personificazione della mera Pratica in un essere che impersonava l’Arte solo assumendo gli attributi e gli atteggiamenti della Melanconia.

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia D’altra parte le interessanti variazioni sul numero quattro di Paul Flindt (Quatuor monarchiae, Partes mundi, ecc., ed. Paul Flindt, Niirnberg 1611, n. 12) mostrano il contrasto tra «Arte» e «Pratica» mediante due putti, uno dei quali, tutto intento ad armeggiare con un cesello, è definito come «phlegmaticus», l’altro, ancora memore di Dürer, come «melancholicus» (cfr. anche p. 10 e p. 355, nota 9). 204 Un’altra interpretazione del putto, cortesemente sottopostaci da G. F. Hartlaub, però a nostro avviso non del tutto convincente, verrà discussa piú avanti a proposito della raffigurazione della melanconia di Lucas Cranach (cfr. pp. 357 sgg.). 205 Pictorum aliquot celebrium... effigies, pubblicato per la prima volta all’Aia intorno al 1610. 206 La gru assegnata al putto di destra era simbolo della vigilanza già nella tarda antichità; il gallo sulla sinistra (vicino al putto) simboleggia la sollecitudine o l’assiduità strettamente connesse con la vigilanza (cfr. ad esempio cesare ripa, Iconologia cit., s. v. «Vigilanza» e «Sollecitudine»). 207 Un’allegoria di contenuto analogo si trova nel frontespizio inciso di Varie Figure Academiche... messe in luce da Pietro de Jode, Antwerpen 1639. A sinistra c’è il Disegno, un bel giovane con uno specchio e il compasso, a destra il Labore, un contadino che vanga; in alto, Honore cinto, della corona d’alloro della Fama e con la cornucopia dell’Abondança. La scritta dice: «Door den arbeyt en door de Teeken-const | Comt menich aen cer en S’princen ionst». Un altro esempio, altrettanto vivace, delle allegorie della Teoria e della Pratica è il frontespizio inciso dell’Universa astrosophia naturalis di A. F. de Bonnattis, Padova 1687: in alto regna la vittoriosa Maiestas Reipublicae Venetae, a sinistra c’è un’incamazione di Contemplatione et Iudicio costituita da una figura giovanile idealizzata con astrolabio e compasso, a destra una personificazione di Ratione et Experimento, rappresentata sotto forma di Mercurio. 208 Per questa nozione cfr. k. mannheim, Beiträge zur Theorie der Weltanschauungsinterpretation, in «Jahrbuch für Kunstgeschichte» (già «Jahrbuch der k. k. Zentralkommission»), i, 1921-1922, pp. 236 sgg.; ai nostri fini ci è sembrato necessario sostituire il termine «significato rappresentativo» che il Mannheim inseriva tra «significato espressivo» e «significato documentario» col termine «significato concettuale». 209 Cfr. pp. 337 sgg. 210 ficino, De v. tripl., I, 4 (Opera, p. 497): «Maxime vero literatorum omnium hi atra bile premuntur, qui sedulo philosophiae studio dediti, mentem a corpore rebusque corporeis sevocant, incorporeisque coniungunt». 211 Nel libro I, cap. 2, il Ficino insiste esplicitamente e con notevole orgoglio sul contrasto fondamentale tra quelli che egli chiama

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia «Musarum sacerdotes» e tutte le altre professioni, anche artistiche: «... sollers quilibet artifex instrumenta sua diligentissime curat, penicillos pictor, malleos incudesque faber aerarius, miles equos et arma, venator canes et aves, citharam citharoedus, et sua quisque similiter. Soli vero Musarum sacerdotes, soli summi boni veritatisque venatores, tam negligentes (proh nefas) tamque infortunati sunt, ut instrumentum illud, quo mundum universum metiri quodammodo et capere possunt, negligere penitus videantur. Instrumentum eiusmodi spiritus ipse est, qui apud medicos vapor quidam sanguinis purus, subtilis et lucidus definitur». 212 Cfr. pp. 249 sgg. 213 Per le citazioni cfr. pp. 255-56. 214 pico della mirandola, Apologia (Opera, Basel 1572, vol. I, p. 133): «Qui ergo non possunt angelum intelligere secundum rationem substantiae suae, ut unitatem absque ratione puncti, sunt illi de quibus dicit Commentator super secundo Metaphysicae, in quibus virtus imaginativa dominatur super virtutem cogitativam, et ideo, ut dicit, videmus istos non credere demonstrationibus, nisi imaginatio eos comitetur; et quicquid cogitant, quantum est aut situm habens, in quanto ut punctus; unde tales melancholici sunt, et optimi fiunt mathematici, sed sunt naturales inepti. Haec Henricus ad verbum; ex quibus sequitur, quod secundum Henricurn iste magister sit male dispositus ad studium philosophiae naturalis, peius ad studium Metaphysicae, pessime ad studium. Theologiae, quae etiam est de abstractioribus: relinquitur ergo ei solum. aptitudo ad Mathematica...» Cfr. anche m. palmieri, Città di vita, I, 12, 48 (ed. M. Rooke, Northampton [Mass.] 1926-27, p. 59), dove gli edifici che figurano nel mondo di Saturno e i loro architetti sono descritti come segue: «Tutto quello è nel mondo ymaginato | per numeri o linee o lor facture | convien che sia da questa impression dato. || Fanno architetti queste creature, | mathematici sono & fanno in terra | & altri in ciel lor forme & lor figure». Per inciso, l’equazione Saturnus = Imaginatio si trova anche in uno degli schemi del bovillus, Liber de sapiente, cap. ix (ed. R. Klibansky, in cassirer, Individuum und Kosmos cit., pp. 326 sgg.) però si tratta di una costruzione troppo particolare perché se ne discuta qui: consiste in una analogia tra i sette pianeti e le facoltà mentali per cui il Sole equivale alla Ratio mentre gli altri sei pianeti corrispondono ognuno a uno strumento della materialis cognitio. 215 Sappiamo, ad esempio, che sia Contad Peutinger di Augusta sia Hartmann Schedel di Norimberga avevano una copia dell’Apologia di Pico nella loro biblioteca (e. könig, Peutingerstudien, Freiburg im Breisgau 1914, p. 65). 216 Interpretazioni come Melencholia, i («Vattene, Melanconia») o Melancolia iacet («La Melanconia giace a terra», cosí in «Mitteilungen

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia des Reichsbundes deutscher Technik», 1919, n. 47, 6 dicembre) non meritano una confutazione. Piú recente ma altrettanto insostenibile è l’opinione di e. büch, in «Die medizinische Welt», vol. VII, 1933, n. 2, secondo cui l’incisione di Dürer sarebbe stata ispirata da una visione profetica di un’epidemia di peste (benché non si abbia notizia di un’epidernia nel 1514, o perlomeno non a Norimberga), e il numero I starebbe a indicare il primo stadio della malattia. 217 Al pari di Allihn, Thausing e Giehlow, anche noi in un primo tempo pensavamo che l’incisione di Dürer volesse essere la prima tavola di una serie dei temperamenti. Le difficoltà che tale ipotesi comportava non ci erano sconosciute, poiché ci rendevamo conto che sarebbe stato quanto mai insolito cominciare la serie con la Melanconia; e che non sarebbe stato possibile trovare nomi perfettamente corrispondenti per gli altri temperamenti (cfr. Dürer’s «Melencolia I», pp. 68 e 142; cfr. anche wölfflin, Die Kunst Albrecht Dürers cit., p. 253): notavamo inoltre che gli artisti sotto l’influenza di Dürer, che hanno realizzato una serie completa dei temperamenti, sono tornati, per essere precisi, alla descrizione del melancolicus e hanno assegnato a questo melancolicus la terza o quarta posizione nella serie. Gerard de Jode nella sua serie dei temperamenti derivata da Marten de Vos, che è indipendente da Dürer, opera in un altro modo per allineare il termine melancholia con quelli che indicano gli altri temperamenti, cioè lo tratta, per analogia con l’uso greco, come la descrizione di un vero e proprio umore, un equivalente di cholera nigra o atra bilis, e in questo modo lo mette insieme a sanguis, cholera, e phlegma; però anche in questo caso la melanconia occupa il terzo posto, non il primo. Stando cosí le cose, però, l’altra opinione, che postula il progetto di una Melencolia II come raffigurazione della malattia, o meglio della pazzia (wölfflin, Die Kunst Albrecht Dürers cit., p. 253; e in «Jahrbuch für Kunstwissenschaft», 1923, p. 175; cfr. anche borinski, Die Antike in Poetik und Kunsttheorie cit., vol. I, pp. 165 e 296 sgg.), ci sembra ancor meno accettabile e non riusciamo a immaginare una raffigurazione della melancholia adusta tale da costituire un pendant dell’incisione düreriana cosí come si vede. Per una simile rappresentazione, data la dottrina universalmente nota delle «quattro forme», resterebbero aperte due possibilità. O tutte e quattro le sottospecie della pazzia melanconica, cioè la melanconia ex sanguine, ex cholera, ex phlegmate ed ex melancholia naturali, avrebbero potuto essere combinate in un’unica immagine generale – che avrebbe finito con l’essere un’orribile raccolta di scene di manicomio senza alcun punto di contatto, né come contenuto né come forma, con la Melencolia I (dimostreremo nell’Appendice II, p. 378, che la tanto discussa incisione B70 può fornirci un’idea di come sarebbe riuscita una raccolta delle quattuor species melancholiae adustae) – oppure l’unica analogia reale, cioè la melancholia ex

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia melancholia naturali, avrebbe dovuto essere scelta tra le quattro forme patologiche, e in questo caso difficilmente si sarebbe potuto mettere in evidenza il contrasto psicologico voluto. Chiunque è d’accordo che la donna alata dell’incisione, benché esprima la melancholia naturalis dell’uomo mentalmente creativo, è in quel momento sopraffatta da un accesso di depressione in cui la bile nera ha preso talmente il sopravvento che, per usare le parole del Ficino, l’anima «troppo profondamente presa nella depressione saturnina e oppressa da cure» (ficino, De v. tripl., II, 16; Opera, p. 523), «evadit tristis, omnium, pertaesa» (A. P. T. Paracelsi Opera omnia, Genève 1658, vol. II, p. 173); la depressione differisce dallo stato patologico della melancholia ex melancolia naturali adusta solo per la sua natura passeggera (cosí anche wölfflin, Die Kunst Albrecht Dürers cit., pp. 252 sgg.). 218 Questa possibilità fu considerata dallo hartlaub, Geheimnis, pp. 79 sgg. Egli giustamente critica l’interpretazione secondo cui il numero I indicherebbe l’inizio di una serie dei temperamenti, però sfugge per la tangente introducendo l’idea massonica dei gradi di apprendista, operaio, maestro (i due ultimi espressi forse nelle incisioni düreriane del Cavaliere, la Morte e il Diavolo e del San Girolamo). Ma ciò che secondo Hartlaub (ibid., p. 42) manca, cioè «la prova letteraria di una corrente divisione tripartita dello sviluppo satumino», si ha abbondantemente nell’Occulta Philosophia, una fonte tedesca, va notato, mentre non c’è prova alcuna di rapporti con idee massoniche. 219 Su di lui, cfr. p. zambelli, A proposito del «De vanitate scientiarum et artium» di Cornelio Agrippa, in «Rivista critica di storia della filosofia», 1960, pp. 167-81. 220 giehlow 1904, pp. 12 sgg. 221 «Addidimus autem nonnulla capitula, inseruimus etiam pleraque, quae praetermittere incuriosum videbatur». 222 La dedica, in una forma leggermente diversa, fu utilizzata nell’introduzione all’edizione a stampa, come lo fu anche la risposta di Tritemio dell’8 aprile 1510. Il manoscritto dell’edizione originale (cit., p. 303, nota 7) presenta una scritta secentesca: «Mon. S. Jacobi» alla prima pagina (Tritemio, è noto, era l’abate di questo monastero), e Tritemio stesso scrisse sul margine di destra della copertina anteriore: «Heinricus Cornelius Coloniensis de magia». Cfr. j. bielmann, Zu einer Hds. der «Occulta philosophia» des Agrippa von Nettesheim, in «Archiv f. Kulturgesch.», vol. XXVII, 1937, pp. 318-24. 223 «Contigit autum postea, ut interceptum opus, priusquam illi summam manum imposuissem, corruptis exemplaribus truncum et impolitum circumferretur atque in Italia, in Gallia, in Germania per multorum manus volitaret». Il ritardo nel farne uscire un’edizione a stampa probabilmente fu dovuto soprattutto alla paura di persecuzioni clericali; lo stesso Tritemio in forma cortese ma ferma lo sconsigliò di pub-

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia blicarlo: «Unum hoc: tamen te monemus custodire praeceptum, ut vulgaria vulgaribus, altiora vero et arcana altioribus atque secretis tantum communices amicis». 224 Che fra Tritemio e Pirckheimer esistessero rapporti negli anni in questione (1510-15), rapporti nei quali anche le cose occulte avevano una loro parte, si può vedere da alcune lettere, la cui conoscenza dobbiamo all’archivista E. Reicke: P. a T., i luglio 1507, e T. a P., 18 luglio 1507 (giovanni tritemio, Epistolarum familiarum libri duo, probabilmente Hagenau 1536, pp. 279-81 e Monaco, Staatsbibliothek, Ms lat. 4008, fol. ii). P. a T., 13 giugno 1515 (relativa a un’opera di Tritemio contro la magia), segnalata da o. clemen, in «Zeitschrift für Bibliothekswesen», vol. XXXVIII, 1921, pp. 101 sgg. 225 Questa differenza tra le due edizioni dell’Occulta philosophia è ovviamente un sintomo vitale dello sviluppo che aveva conosciuto l’umanesimo nordico tra il 1510 e il 1530. H. Meier si proponeva di dare un’edizione del manoscritto di Würzburg, il che avrebbe facilitato un apprezzamento storico della sua scoperta. 226 L’edizione a stampa occupa uno spazio che è quasi tre volte quello della versione originale, anche tralasciando il libro IV che è apocrifo. 227 Cfr. p. 333, nota 46 e pp. 335 sgg. 228 I, 29, fol. 22V. 229 Cfr. p. 252. 230 I, 5. Una deliziosa illustrazione di questa dottrina della preformazione si ha in una miniatura a Vienna, Nationalbibliothek, Cod. Phil. gracc. 4 (h. j. hermann, in «Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen des allerhöchsten Kaiserhauses», vol. XIX, 1898, tav. vi, p. 166), in cui le «idee» di persone e animali sono vivacemente raffigurate come legate con raggi alle loro parti corrispondenti terrene. 231 Cosí il già ricordato sacrificio a Saturno (cfr. p. 303, nota 8). 232 Le correlazioni coi pianeti (per quanto riguarda quelle che si riferiscono a Saturno, cfr. lo stesso rimando) sono fornite ai capp. 16-23 (nel cap. A si aggiunga questa frase tratta dal Ms fol. 15v: «Conferunt Saturnalia ad tristitiam et melancoliam, jovialia ad leticiam et dignitatem»). Le zone governate dai diversi pianeti sono elencate al cap. 46, fol. 36v, in termini astrologici, però con un nuovo, ficiniano, significatò, mentre il cap. 45, fol. 35v, contiene le caratteristiche mimiche e facciali dei figli dei pianeti, il cui comportamento trae origine e nello stesso tempo ricorda l’influenza della stella di cui si tratta: «Sunt proeterca gestus Saturnum referentes, qui sunt tristes ac moesti, planctus, capitis ictus, item religiosi, ut genuflexio aspectu deorsum fixo, pectoris ictus vultusque consimiles et austeri, et ut scribit satyricus: «Obstipo capite et figentes lumina terra, | Murmura cum secum et rabiosa silentia rodunt | Atque exporrecto trutinantur verba palato»». 233 Così, ad esempio, una persona può calmare o rattristare altri per

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia suggestione, in quanto è piú forte «in ordine Saturnali» (I, 43, fol. 33v), o per autosuggestione evocare l’aiuto di Saturno contro l’amore, o quello di Giove contro la paura della morte (I, 43, fol. 44r). 234 II, 1-3. 235 II, 4-16. 236 II, 17-19. Il cap. 30 ricorda brevemente figure geometriche, attribuendo la loro efficacia a rapporti numerici; abbiamo già detto (p. 307, nota 22) che i quadrati planetari ancora mancano. 237 II, 31. 238 II, 32-33. 239 II, 34-38. La preghiera a Saturno (cap. 37, foll. 70V-71r) suona così: «Dominus altus magnus sapiens intelligens ingeniosus revolutor longi spatii, senex magne profunditatis, arcane contemplationis auctor, in cordibus hominum cogitationes magnas deprimens et vel imprimens, vim et potestatem subuertens, omnia destruens et conseruans, secretorum et absconditorum ostensor et inuentor, faciens arnittere et inuenire, auctor vite et mortis». Nell’edizione a stampa (11, 59, p. 205) questa polarità che abbiamo visto presente perfino in Alano di Lilla (cfr. pp. 173-74), si nota altrettanto chiaramente («Vim et potestatem subvertentem et constituentem, absconditorum custodem et ostensorem»). 240 II, 49. 241 II, 50-58. 242 III, i, fol. 84r. 243 III, 29, fol. 103r-v. 244 III, 1-6. 245 III, 7-10. I daemones medii che abitano nelle sfere corrispondono da un lato alle nove Muse (cfr. marziano capella, Nuptiae Philogiae et Mercurii, I, 27-28, ed. A. Dick, p. 19); dall’altro, a certi angeli; è tipico della sopravvivenza della mitologia antica che lo spirito di Mercurio venisse identificato con Michele, che aveva assunto tante delle funzioni di Ermete Psicopompo, mentre lo spirito della virginale dea della nascita, Luna-Artemide, fu identificato con Gabriele, l’angelo dell’Annunciazione. Non possiamo addentrarci qui nella dernonologia di Agrippa o analizzarne la cosmologia e l’interessantissima psicologia contenute nei capitoli III, 16-29. 246 III, 29, fol. 103r-v. 247 III, 30, fol. 104r. «Illapsiones vero eiusmodi... non transeunt in animam nostram, quando illa in aliud quiddam attentius inhians est occupata, sed transeunt, quando vacat». 248 III, 38. 249 III, 37. 250 III, 31-36. 251 III, 33-36.

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia Per la dottrina della vacatio animae e la possibilità che questa sia provocata dalla melanconia, cfr. ad esempio, ficino, Theologia Platonica de immortalitate animorum, libro XIII, 2 (Opera, vol. I, p. 292). 253 III, 31, foll. 104r sgg. (i nomi propri sono corretti nella traduzione): «Furor est illustratio anime a diis vel a demonibus proveniens. Unde Nasonis hoc carmen: «Est deus in nobis, sunt et commercia celi; | Sedibus ethereis spiritus ille venit». Huius itaque furoris causam, que intra humanum corpus est, dicunt philosophi esse humorem melancolicum, non quidem illum, qui atra bilis vocatur, qui adeo prava horribilisque res est, ut impetus eius a phisicis ac medicis ultra maniam quam inducit eciam malorum demonum obsessiones afferre confirmatur. Humorem igitur dico melancolicum, qui candida bilis vocatur et naturalis. Hic enim quando accenditur atque ardet, furorem. concitat ad sapientiam nobis vaticiniumque conducentem, maxime quatenus consentit cum influxu aliquo celesti, precipue Saturni. Hic enim cum ipse sit frigidus atque siccus, qualis est humor melancolicus, ipsum quotidie influit, auget et conservat; preterea cum sit arcane contemplationis auctor ab omni publico negocio alienus ac planetarum altissimus, animam ipsam tum ab externis officiis ad intima semper revocat, tum ab inferioribus ascendere facit, trahendo ad altissima scientiasque ac futurorum presagia largitur. Unde inquit Aristoteles in libro problematum ex melancolia quidam facti sunt sicut diuini predicentes futura ut Sibille et Bachides, quidam facti sunt poete ut Malanchius Siracusanus; ait preterea omnes viros in quauis scientia prestantes ut plurimurn extitisse melancolicos, quod etiam Democritus et Plato cum Aristotele testantur confirmantes nonnullos melancolicos in tantum prestare ingenio, ut diuini potius quam humani videantur. Plerunque etiam videmus homines melancolicos rudes, ineptos, insanos, quales legimus extitisse Hesiodum, Jonem, Tymnicum Calcidensem, Homerum et Lucretium, sepe furore subito corripi ac in poetas bonos euadere et miranda quedam diuinaque canere etiam que ipsimet vix intelligant. Unde diuus Plato in Jone, ubi de furore poetico tractat: «Plerique, inquit, vates, postquam furoris remissus est impetus, que scripserunt non satis intelligunt, cum tamen recte de singulis artibus in furore tractauerunt, quod singuli harum artifices legendo diiudicant»». È quanto mai evidente che Agrippa segue il Ficino. 254 III, 32, fol. 105r: «Tantum preterea est huius humoris imperium ut ferant suo impetu eciam demones quosdam in nostra corpora rapi quorum presentia et instinctu homines debachari et mirabilia multa effari. Omnis testatur antiquitas et hoc sub triplici differentia iuxta triplicem anime apprehensionem, scilicet imagiatiuam, rationalem et mentalem; quando enim anima melanconico humore vacans tota in imaginationem transfertur, subito efficitur inferiorum demonum habitaculum, a quibus manualium artium sepe miras accipit rationes; sic vide252

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia mus rudissimuni aliquem hominem sepe in pictorem vel architectorem vel alterius cuiusque artificii subtilissimum subito cuadere magistrum; quando vero eiusmodi demones futura nobis portendunt, ostendunt que ad elementorum turbationes temporumque vicissitudines attinent, ut videlicet futuram tempestatem, terremotum vel pluuiam, item futuram mortalitatem, famem, vel stragem et ciusmodi. Sic legimus apud Aulum Gellium Cornelium sacerdotem. castissimum eo tempore quo Cesar et Pompeius in Thessalia confligebant, Pataui furore correptum fuisse, ita quod et tempus et ordinem et exitum pugne viderat. Quando vero anima tota in rationem conuertitur, mediorum demonum efficitur domicilium. Hinc naturalium rerum humanarumque nanciscitur scientiam atque prudentiam. Sic videmus aliquando hominem aliquem subito in philosophum vel medicum vel oratorem egregium evadere; ex futuris autem ostendunt nobis que ad regnorum mutationes et seculorum restitutiones pertinent, quemadmodum Sibilla Romanis vaticinata fuit. Cum vero anima tota assurgit in mentem, sublimium demonum efficitur domicilium, a quibus arcana ediscit divinorum, ut videlicet Dei legem, ordines angelorum et ea que ad eternarum rerum cognitionern animarumque salutem pertinent; ex futuris vero ostendunt nobis, ut futura prodigia, miracula, futurum prophetam vel legis mutationem, quemadmodum Sibille de Jesu Christo longo tempore ante aduentum eius vaticinate sunt, quem quidem Vergilius spiritu consimili iam propinquum intelligendo Sibille Cumane reminiscens cecinit: «Ultima Cumei venit iam carminis etas; | Magnus ab integro seculorum nascitur ordo, | Iam redit et virgo, redeunt Saturnia regna; | Iam noua progenies celo dimittitur alto»». 255 I capitolo III, 39-56, che seguono la parte del somnium, espongono e spiegano ciò che si richiede dal mago quanto a purezza, operazioni rituali, nomina sacra, ecc., mentre l’ultimo capitolo (III, 57) tenta di definire la distinzione fra religio e illecita superstitio, quest’ultima limitandosi, logicamente, all’applicazione dei sacramenti a oggetti impropri, ad esempio, la scomunica di vermi dannosi o il battesimo di statue. I capitoli III, 30-38 costituiscono quindi veramente il cuore di tutto. Fino a che punto questa struttura complessiva sia stata smembrata nell’edizione a stampa lo si può vedere dal fatto che i due capitoli sulla melanconia sono stati contratti, con mutamenti di poco conto, in un’unica parte e collocati nel libro I (60), dopo il cap. 59, sul somnium, che a sua volta è preceduto da un capitolo sui casi di presunta resurrezione dalla morte e fenomeni di stimmate come pure da un capitolo sulla geomanzia che prima si trovava nel libro II. 256 Cfr. p. 142. 257 Cfr. il passo parallelo cit. pp. 255 sg. 258 Forse l’esempio piú interessante si ha nella Disciplina scholarium (cfr. p. 266), cap. v (migne, PL, LXIV, 1233): «Cum ad magistratus

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia excellentiam bonae indolis adolescens velit ascendere, necessarium est ut tria genera statuum, quae in assignatione probabilitatis innuit Aristoteles, diligenter intelligat. Sunt autem quidam vehementer obtusi, alii mediocres, tertii excellenter acuti. Nullum vero vehementer obtusorum vidimus unquam philosophico nectare veliementer inebriari. Istis autem mechanica gaudet maritari, mediocribus politica». 259 Cfr. pp. 86 sgg. di questo libro, Einaudi, Torino 1983. 260 In sé il numero I non significa necessariamente che Dürer si proponesse davvero di rappresentare le altre due forme della melanconia; è possibile che, incidendo questa, semplicemente immaginasse le altre due, e si attendesse che anche lo spettatore colto se le immaginasse. 261 Cfr. panofsky, Idea cit., pp. 25 sgg. 262 Cfr. più avanti. 263 Per l’individualismo di Dürer, cfr. panofsky, Hercules am Scheidewege cit., pp. 167 sgg. 264 Cfr. id., Idea cit., pp. 25 sgg. 265 Per il trasformarsi della dottrina ficiniana della bellezza in una metafisica dell’arte manieristica, cfr. ibid., pp. 52 sgg. Per le proteste contro le regole matematiche che erano state il vanto della teoria classica, cfr. ibid., pp. 42 sgg. 266 Cfr. pp. 361 sgg. Da questo punto di vista è comprensibile che, nonostante le osservazioni su Raffaello ricordate a p. 220, nota 13, una connessione di fondo tra melanconia e arte figurativa, quale Agrippa aveva affermato agli inizi del Cinquecento, non faccia la sua comparsa in Italia fino all’epoca manieristica, benché allora sia stata immediatamente usata come un argomento in favore della nobiltà dell’attività artistica. Il Trattato della nobiltà della pittura di Romano Alberti, Roma 1585, p. 17, afferma: «Et a confirmazione di ciò [cioè l’affermazione che la pittura meritava di essere inclusa tra le arti liberali] vediamo che li Pittori divengono malencolici, perché volendo loro imitare bisogna, che ritenghino li fantasmati fissi nell’Intelletto: a ciò dipoi li esprimeno in quel modo, che prima li havean visti in presentia; Et questo non solo una volta, ma continuamente, essendo questo il loro essercitio: per il che talmente tengono la mente astratta et separata dalla materia, che conseguentemente ne vien la Malencolia; la quale però dice Aristotile, che significa ingegno et prudentia, perché, come l’istesso dice, quasi tutti gl’ingegnosi et prudenti son stati malencolici». 267 lf, Nachlass, p. 295, 13 (cfr. p. 299, 1), e p. 297, 16. 268 Ibid., p. 218, 16. La teoria del genio sostenuta dal Ficino e dalla sua cerchia, nonostante tutta l’importanza attribuita all’aumentata consapevolezza di sé, non è realmente una teoria individualistica, in quanto i Musarum sacerdotes o i viri literati sono sempre intesi come una classe, e gli uomini di genio appaiono, per cosí dire, a frotte. Il riconoscimento di un individuo come originale e irripetibile («Desgleichen

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia ihm zu seinen Sciten Keiner Gleich erfunden wirdet und etwan lang Keiner vor ihm gwest und nach ihm nit bald Einer kummt», ibid., p. 221,16) o di un’opera come originale e irrepetibile («Das man vor nit geseben noch ein Ander gedacht hätt) si ha in Dürer prima che nel Sud. Questo vale anche a spiegare la profonda avversione di Dürer a ripetersi nel suo lavoro. L’uomo, che per le sue «abitudini economiche» (Wölfflin) sarebbe stato portato a riutilizzare schizzi o studi fatti molti anni prima, non si è ripetuto nemmeno una volta nelle opere che sono effettivamente uscite dal suo studio, cioè incisioni, dipinti o xilografie; la scimmia e l’uomo con il succhiello, ripresi dall’incisione B42 o dalla xilografia B117 e trasferiti nella serie dei Sette Dolori della Vergine di Dresda costituiscono semplicemente delle prove contro l’autenticità dei dipinti; per i rapporti tra il San Paolo di Monaco e l’incisione B46, cfr. p. 283, nota 37, il contributo pubblicato nel «Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst». 269 Citazioni in panofsky, Idea cit., p. 70. L’affermazione relativa agli oberen Eingiessungen è stata già ricordata a questo proposito dal giehlow 1904. 270 Già abbiamo ricordato (cfr. p. 330) che Agrippa si richiama anche alla dottrina platonica delle idee. Possiamo anche notare, in rapporto con la nozione tipicamente nordica dell’artista ispirato, che è stato nell’arte tardo-gotica dei Nord che «la Madre di Dio ritratta da san Luca» è stata per la prima volta rappresentata come la visione di un’immagine tra le nubi (cfr. d. klein, St Lukas als Maler der Maria. Ikonographie der Lukas-Madonna, tesi, Hamburg 1933, che però non ricorda parecchi esempi importanti). 271 Lo sappiamo grazie all’espressione di Melantone scoperta da warburg, Heidnisch-antike Weissagung cit., p. 529, che parla della «melancholia generosissima Dureri». Indipendentemente da questa scoperta, M. J. Friedländer, nell’ambito di un felice e misurato commento alla Melencolia I, già si era chiesto se Dürer stesso non fosse stato un melanconico (Albrecht Dürer, Leipzig 1921, pp. 146 sgg.) e all’interrogativo è tanto piú facile rispondere affermativamente in quanto Dürer soffriva di una malattia che i medici del suo tempo annoveravano espressamente tra i morbi melancholici: il famoso disegno di Brema L130 con in alto la scritta: «Do der gelb fleck ist vnd mit dem finger drawff dewt, do ist mir we» indica un’affezione alla milza. Questo disegno di solito è messo in relazione con l’ultima malattia di Dürer. Però a questo proposito possiamo affermare che tale opinione non trova fondamento. Lo stile del disegno, che è leggermente colorato, ricorda gli studi sulle proporzioni degli anni 1512-13 molto piú dei disegni successivi, mentre la scrittura, che nel caso di Dürer costituisce un importante sussidio per la cronologia, è molto lontana dalla superba regolarità, che si vede anche nelle piú rapide annotazioni,

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia degli anni venti, ed è solo un po’ piú sviluppata che nelle lettere a Pirckheimer, e le piú strette analogie si hanno ancora una volta con gli appunti teorici del 1512-13. Inoltre il corpo è quello di un uomo nel suo fiore, i capelli sono ancora biondi e tutto l’aspetto della testa è quanto mai vicino all’autoritratto che si vede nel quadro di Ognissanti. Ci sono tutti gli argomenti per assegnare il disegno di Brema al terzo lustro del Cinquecento, cioè agli anni immediatamente precedenti la composizione della Melencolia I, e per considerarlo come un’ulteriore prova dell’interesse profondamente personale di Dürer per l’argomento. Le ragioni per riferire il disegno di Brema alla sua ultima malattia appaiono ancora minori se si tiene conto che egli è stato spesso malato anche precedentemente; nel 1519 Pirckheimer scriveva: «Turer male stat» (e. reicke, in «Mitteilungen des Vereins für Geschichte der Stadt Nürnberg», xxviii, 1928, p. 373), e nel 1503 Dürer stesso scriveva sul disegno L231 di averlo fatto «nella sua malattia». Dopo avere scritto questo abbiamo scoperto che due altri studiosi sono propensi ad assegnare una nuova data al disegno di Brema: h. a. van bakel in un saggio intitolato Melancholia generosissima Dureri, in «Nieuw Theologisch Tijdschrift», xvii, 4, 1928, p. 332; e e. flechsig, in Albrecht Dürer, vol. II, Berlin 1931, pp. 296 sgg., che per qualche ragione vuole anticiparlo addirittura al 1509. 272 Per questo cfr. u. hoff, Rembrandt und England, tesi, Hamburg 1935. 273 L429. 274 lf, Nachlass, p.17,5. È tipico della natura di Dürer che anche nel turbamento che accompagna questo sogno visionario egli noti a quale distanza le acque incontrano la terra e perfino tenti di inferire dalla rapidità con cui la pioggia cade l’altezza da cui cade («Und sie kamen so hoch herab, dass sie im Gedunken gleich langsam fieln»). 275 Cfr. la descrizione di Kant del melanconico (p. 115), che è stata in buona parte anticipata dalla bella descrizione che il Camerarius fa di Albrecht Dürer: «Erat autem, si quid omnium in illo viro quod vitii simile videretur, unica infinita diligentia et in se quoque inquisitrix saepe paruni aequa» (introduzione alla traduzione latina dei Vier Bücher menschlicher Proportion, Nürnberg 1532). 276 Solo in questo senso la Melencolia I è di fatto il pendant dell’incisione del San Girolamo. a. weixlgärtner, in «Mitteilungen der Gesellschaft fùr vervielfiltigende Kunst», 1901, pp. 47 sgg., dimostra che l’idea di un pendant esterno, formale è in questo caso del tutto fuori luogo. Meno ancora si può affermare, come fa r. wustmann, in «Zeitschrift für bildende Kunst», nuova serie, xxii, 1911, p. 116, che la zucca che pende dal soffitto nell’incisione di San Girolamo fosse in origine destinata ad accogliere la scritta «Melencolia II». Tuttavia Dürer quasi sempre diede via queste due incisioni insieme (lf, Nach-

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia lass, pp. 120, 16; 121, 6; 125, 12; 127, 13, 17; 128, 17); e sono state frequentemente studiate ed analizzate insieme (cfr. la lettera a Giovanni Cocleo del 5 aprile 1520, pubblicata, con altre, da e. reicke, in «Mitteilungen des Vereins für Geschichte der Stadt Nümberg», vol. XXVIII, 1928, p. 375). 277 Per questo mutamento nella concezione düreriana dell’arte, cfr. soprattutto l. justi, Konstruierte Figuren und Köpfe unter den Werken Albrecht Dürers, Leipzig 1902, pp. 21 sgg.; e id., in «Repertorium», vol. XXVIII, 1905, pp. 368 sgg. Anche panofsky, Dürers Kunsttheorie cit., pp. 113, 127 sgg.; e id., in «Jahrbuch für Kunstwissenschdt», iii, Leipzig; 1926, pp. 136 sgg. 278 lf, Nachlass, p. 288, 27. Naturalmente l’ignoranza di Dürer riguarda non l’idea della bellezza, ma le condizioni visibili, in particolare la proporzione, che determina la bellezza (cosí anche wölfflin, Die Kunst Albrecht Dürers cit., p. 368). E questo è ben chiaro da ciò che segue: «Idoch will ich hie die Schonheit also für mich nehmen: Was zu den menschlichen Zeiten van dem meinsten Theil schön geachtt würd, des soll wir uns fleissen zu machen». L’affermazione «was aber die Schönheit sei, das weis ich nit» equivale quindi alle affermazioni riportate oltre, lf, Nachlass, p. 222, 7, o p. 359, 16. 279 lf, Nachlass, pp. 290, 23 sgg. Questo è uguale quasi parola per parola a un appunto datato 1512 (ibid., p. 300, 9). 280 Ibid., p. 363, 5. 281 Ibid., p. 359, 3. L’edizione a stampa dei Vier Bücher menschlicher Proportion continua: «Das gib ich nach, dass Einer ein hübschers Bild... mach... dann der Ander. Aber nit bis zu dem Ende, dass es nit noch hübscher möcht sein. Dann Solchs steigt nit in des Menschen Gernüt. Aber Gott weiss Solichs allein, wem ers offenbarte, der wesst es auch. Die Wahrheit hält allein innen, welch der Menschen schönste Gestalt und Mass kinnte sein und kein andre... In solichem Irrtum, den wir jetzt zumal bei uns haben, weis ich nit statthaft zu beschreiben endlich, was Mass sich zu der rechten Hübsche nachnen möcht» (ibid., p. 221, 30). 282 lf, Nachlass, p. 222, 25 (dai Vier Bücher menschlicher Proportion a stampa). 283 Sono stati naturalmente i romantici che hanno interpretato la «Melanconia» düreriana come una raffigurazione diretta del temperamento faustiano. Hermarm Blumenthal ci ha cortesemente segnalato la fonte prima di questa interpretazione nelle Briefe iber Goethes Faust di karl gustav carus, vol. I, Leipzig 1835, lettera II, pp. 40 sgg. Questa analisi notevolmente fine, che sottolinea anche decisamente il «contrasto tra il bambino tutto intento a scrivere e la pigra meditazione e lo sguardo tristemente fisso della figura maggiore», è tanto piú ammirevole in quanto l’immagine di un Dürer lacerato da emozioni faustia-

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia ne era, come lo stesso Carus sentiva e ha dichiarato piú volte, in completa contraddizione con la concezione, iniziata con Wackenroder e a quell’epoca generalmente accettata, del maestro «peraltro cosí tranquillo e pio». È particolarmente significativo che Carus, affascinato dall’analogia con Faust da lui scoperta, parli della figura principale dell’incisione come di una figura maschile. 284 In relazione con questa parte si veda il saggio già citato a p. 283, nota 37, nel «Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst». Poiché entrambi gli scritti trattano dello stesso argomento, benché da un diverso punto di vista, è stato difficile evitare sovrapposizioni; alcune frasi e perfino interi paragrafi hanno dovuto essere ripetuti quasi parola per parole a fini di chiarezza e coerenza. 285 j. sandrart, Teutsche Akademie, ed. A. R. Peltzer, München 1925, p. 67. 286 Cfr. ad esempio, j. heller, Das Leben und die Werke Albrecht Dürers, Leipzig 1827, vol. II, i, pp. 205 sgg.; f. kugler, Geschichte der Malerei, Leipzig 18673, libro IV, § 240 (vol. II, p. 498); a. von eye, Leben und Wirken Albrecht Dürers, Nördlingen 1860, p. 452; m. thausing, Dürer, Leipzig 1884, vol. II, pp. 278 sgg. 287 Die vier Apostel von Albrecht Dürer in ihrer ursprünglichen Gestalt, in «Zeitschrift für deutsche Bildung», ix, 1930, pp. 450 sgg., con riproduzione delle iscrizioni ora riunite con le immagini e resoconto particolareggiato dei rapporti tra Dürer e Neudörffer. van bakel (Melancholia generosissima Dureri cit.) è anche tornato alla vecchia, tradizionale interpretazione di queste immagini degli apostoli come raffigurazioni dei temperamenti, ma erroneamente considera san Giovanni come il melanconico, il che rende alquanto discutibili le sue conclusioni circa il significato spirituale della Melencolia I. 288 Cosí wölfflin, Die Kunst Albrecht Dürers cit., pp. 348 (e successivamente t. hampe, in Festschrift des Vereins fir die Geschichte der Stadt Nirnberg zur 400 jährigen Gedächtnisfeier Albrecht Dürers, 1528-1928, Nümberg: 1928, p. 58). Una nota simile risuona quando un uomo del Settecento respinge ogni tentativo di classificare le figure storiche degli apostoli secondo le complessioni con l’argomento che non gli piace che «uomini del Signore, che sono direttamente ispirati dallo Spirito Santo, siano giudicati cosí completamente con un metro filosofico come gente comune, e che non solo i loro temperamenti, ma anche il loro grado, la loro utilità e Dio sa che cosa ancora delle piú piccole parti di essi sono esaminate particolareggiatamente e determinate con precisione» (appelius, Historisch-moralischer Entwurff der Temperamenten cit., Prefazione alla 2a ed., 1737, fol. C 42V). 289 h. kaufmann, Albrecht Dürers rhythmische Kunst, Leipzig 1924, pp. 60 e 135 sgg. Secondo il Kaufmann le descrizioni dei quattro apostoli come i quattro tipi di complessione in origine si riferivano non alla

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia differenza nella loro costituzione umorale ma alla differenza nei loro atteggiamenti e gesti, e solo da questo «gradualmente si sviluppò l’opinione che queste quattro complessioni fossero i quattro temperamenti». A quanto sembra, il Kaufmann non notò che era in realtà la fonte piú antica che li definiva come «sanguinicus, cholericus, phlegmaticus et melancholicus». 290 e. heindrich, Dürer und die Reformation, Leipzig 1909, p. 57. 291 Egli dice di Daniel Engelhart, lo scultore di stemmi e intagliatore di sigilli, che era cosí eccellente «che Albrecht Dürer mi disse qui nella sua stanza, mentre stavo scrivendo alla base delle già menzionate quattro immagini e copiando varie frasi della Sacra Scrittura, che egli non aveva mai visto un piú potente e abile scultore di stemmi» (johann neudörffer, Nachrichten von Künstlern Werkleuten Nürnbergs, 1547, riedito da g. w. k. lochmr, in Quellenschriften für Kunstgeschichte, vol. X, Wien 1875, pp. 158 sgg.). 292 neudörffer, Nachrichten cit. (ed. Lochner), pp. 132 sgg. 293 Londra, Brit. Mus., Ms Egerton 2572, fol. 51v. 294 lf, Nachlass, p. 382, 2. 295 Ibid., p. 227, 4. 296 Cosí von eye, Leben und Wirken Albrecht Dürers cit.; thausing, Dürer cit.; kugler, Geschichte der Malerei cit. 297 Secondo questo san Giovanni era il sanguigno, san Pietro il collerico, san Marco il flemmatico (!) e san Paolo il melanconico. Mayer-Bamberg ci ha gentilmente informato dell’ubicazione del quadro ricordato da heller, Das Leben und die Werke Albrecht Dürers cit. (sagrestia di San Giacomo a Bamberga), e ce ne ha fatto avere una fotografia. 298 Trittico del 1488 nella chiesa dei Frari; cfr. k. voll, in «Süddeutsche Monatshefte», iii, 1906,pp. 74 sgg.; e g. pauli, in «Vorträge der Bibliothek Warburg», i, 1921-22,p. 67. 299 Gli apostoli nelle incisioni B48, 49 e 50 hanno approssimativamente la stessa età. 300 Cosí anche h. beeken, in «Logos», xix, 1930, p. 225, benché neghi ogni rapporto con la dottrina dei temperamenti. 301 I nostri rilievi circa il colorito delle figure sono stati messi a confronto con una descrizione fatta autonomamente da Erwin Rosenthal, al quale dobbiamo i nostri ringraziamenti. 302 Cfr. pp. 7, 14, 108 sgg. 303 Cosí costantino africano, Theorica Pantegni (Opera, vol. II, Basel 1539, p. 249). 304 Per inciso, Rubens, nella misura in cui è possibile un confronto con le figure di Dürer (infatti solo due di queste sono evangelisti), seguí la stessa successione di età o, se si vuole, di temperamenti nella sua rappresentazione dei quattro evangelisti a Sanssouci (Klassiker der Kunst,

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia ed. R. Oldenbourg, Stuttgart 1921, p. 68). San Giovanni è rappresentato come un giovane (sanguigno), san Marco come un uomo ancora abbastanza giovane (collerico), san Luca come un uomo piú anziano (melanconico) e san Matteo come un vecchio (flemmatico). A questo punto possiamo anche osservare che la proposta di Steininann di far coincidere le Ore del giorno di Michelangelo con i temperamenti può essere accettata, se mai, solo seguendo la correlazione letteraria tradizionale tra le ore del giorno e i quattro umori (cfr. p. 14, nota 21). Cosí non possiamo dire: Aurora = melanconia, Giorno = collera, Crepuscolo = flegma e Notte = sangue; invece dobbiamo dire: Aurora = sangue, Giorno = collera, Crepuscolo = melanconia (a E. Zola nell’Œuvre capita di scrivere «pénétré par la mélancolie du crépuscule») e Notte = flegma. Non è impossibile che queste nozioni abbiano avuto una parte anche nella concezione artistica di Michelangelo (in particolare per il fatto che non esisteva una tradizione iconografica per le ore del giorno); e l’ira del Giorno, che in se stessa è incomprensibile, potrebbe benissimo essere connessa con la nozione di collera. Si deve però tenere presente che il mondo di Michelangelo nel suo complesso era troppo condizionato dalla melanconia per ammettere una natura esclusivamente flemmatica, e meno che mai per una esclusivamente sanguigna. Volendo stabilire un parallelo tra i temperamenti e le Ore del giorno di Michelangelo bisognerebbe considerare quest’ultime come una serie di nature melanconiche sovrapposte a una base sanguigna, a una collerica, a una di melanconia naturale e a una flemmatica. 305 Cfr. p. 263. 306 La testa del melanconico del 1502 e quella del san Paolo del 1526 rappresentano, naturalmente, solo i due estremi di una serie, di cui i termini intermedi principali sono il quadro Barberini, l’altare Heller (in particolare L510), il disegno LA, la xilografia B38 e l’incisione B50. Però se si mettono a confronto tutte queste opere, che in linea di principio sono tutte collegate, il San Paolo di Monaco appare particolarmente vicino, almeno fisiognomicamente, alla testa del melanconico che si vede in B132, nonostante tutte le differenze di ethos: piú vicino, comunque, che alla testa del san Paolo inciso della tavola B50 a cui F. Haack vuole collegalo troppo strettamente («Mitteilungen des Vereins für Geschichte der Stadt Nürnberg», vol. XXVIII, 1928, p. 313). 307 thausing, Dürer cit., vol. II, p. 288, e (con l’illuminante proposta che la tavola centrale dovesse essere una Santa Conversazione nello stile del disegno L363) g. pauli, in «Vorträge der Bibliothek Warburg», i, 1921-22, p. 67. 308 L368. 309 Per particolari cfr. e. panofsky, in «Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst», nuova serie, vol. VIII, 1931, pp. i sgg. 310 thausing, Dürer cit., vol. II, p. 279.

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia Cfr. johann eck, De primatu Petri libri tres, Paris 1521 ed edizioni successive. La preminenza di san Paolo rispetto a san Pietro si può interpretare come conseguenza di un atteggiamento antipapale tanto piú agevolmente in quanto una tradizione iconografica, affermatasi in epoca paleocristiana e durata ininterrottamente fino alla Riforma, prescriveva che i due principi degli apostoli fossero collocati esattamente sullo stesso piano: una tradizione che il Dürer dei 1510 aveva seguito come cosa del tutto naturale nei due pannelli esterni dell’altare Heller e nella xilografia B38. 312 Cfr. il bel disegno di Brema, L131, raffigurante Cristo sofferente. 311

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Capitolo terzo Il retaggio artistico della Melencolia I

La Melencolia I di Dürer, come la sua Apocalisse, rientra tra quelle opere d’arte che sembrano aver esercitato un potere quasi coattivo sull’immaginazione della posterità. Le eccezioni a questa influenza sono relativamente poche. Da un lato ci sono illustrazioni di calendari e trattati popolari sulla salute, nei quali i vecchi tipi dei vari temperamenti sopravvivono, modificati solo esternamente in ossequio alle esigenze dell’epoca1; dall’altro ci sono illustrazioni subordinate alle esigenze del testo, come le incisioni dei frontespizi dei trattati scientifici (l’esempio piú ricco è nell’Anatomy of Melancholy di Burton2), il frontespizio a una serie di immagini dei pianeti su disegni di Marten de Vos3, le figure dell’Iconologia di Cesare Ripa4, o le illustrazioni a un poema come quello di Alain Chartier5. Se si tolgono queste, quasi tutte le rappresentazioni della melanconia in senso stretto, come pure molte immagini su temi simili, fino alla metà dell’Ottocento, devono qualcosa al modello fissato da Dürer, direttamente, attraverso l’imitazione consapevole, oppure attraverso quella pressione inconsapevole che si chiama «tradizione». Volendo classificare queste rappresentazioni della melanconia che in qualche modo derivano da Dürer, si potrebbero raccogliere in due gruppi: quelle che, come il loro grande modello, sono allegorie complete in sé e quelle che ancora vengono inserite nella consueta serie dei

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quattro temperamenti. I gruppi che risultano da questo metodo assolutamente meccanico di classificazione coincidono, inoltre, sia pure all’ingrosso, con quelli che risultano da una classificazione regionale o cronologica. Le rappresentazioni della melanconia in qualche modo legate all’incisione düreriana, in cui la figura compare come una delle quattro complessioni, non vanno oltre il xvi secolo, mentre le epoche successive hanno preferito l’allegoria singola e autonoma; inoltre si può constatare che anche nel corso del xvi secolo, quando le rappresentazioni della melanconia ispirate all’incisione düreriana erano assai spesso incluse nella serie delle complessioni, non tutti i paesi presentano questo fenomeno in ugual misura. In Italia, dove già durante il Quattrocento le normali serie dei temperamenti erano state poche, anche nel Cinquecento esse sono meno numerose delle allegorie isolate. L’opposto accade nei Paesi Bassi, mentre in Germania i due tipi piú o meno si equilibrano6. Ciò nonostante ci è parso meglio classificare le rappresentazioni della melanconia7 derivate dall’incisione düreriana non iconograficamente, ma a seconda della loro concezione interna, cioè dividerle cosí: 1) quelle che sostanzialmente mantengono la formula del loro modello, cioè rappresentano la melanconia (o come figura a sé stante o come elemento di una serie delle complessioni) come una figura femminile isolata, piú o meno idealizzata, talvolta (nei casi di aderenza particolarmente stretta a Dürer) accompagnata da un putto; 2) quelle che tornano al tipo drammatico a due figure delle illustrazioni dei calendari tardo-medievali e tradiscono la loro dipendenza da Dürer solo per certi particolari; 3) quelle la cui composizione deriva da rappresentazioni di Saturno o dei suoi «figli» anziché dalle serie delle complessioni, per cui il loro rapporto con Dürer è puramente concettuale.

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1. rappresentazioni della melanconia in forma di figura femminile sola al modo di dürer. Dobbiamo ricordare il fatto non trascurabile che, a quanto sembra, la piú antica rappresentazione della melanconia al modo di Dürer non è nata nella sua cerchia, ma si deve a un artista che in passato era considerato certamente olandese e che, anche se non fosse cosí, può essere fiorito solo nella Germania nordoccidentale, forse in Westfalia. È il maestro col monogramma «A. C.» (Passavant 112). Poiché un’incisione simile come stile, e probabilmente anch’essa ispirata all’incisione düreriana della Melanconia, la Geometria (Passavant 113) reca la data 1526, non dovremmo esitare a collocare anche la sua Melanconia non oltre il terzo decennio del Cinquecento, e addirittura, dato che la sua Geometria sembra un po’ piú avanzata come stile, prima anziché dopo il 1526. Lo stile di questa incisione della melanconia è spiccatamente italianizzante. Il movimento della figura principale, nuda e senza ali, ricorda gli schiavi di Michelangelo nella Cappella Sistina, in particolare quelli a sinistra sopra Gioele e a destra sopra la Sibilla libica, e anche i tondi donatelliani nel cortile di Palazzo Medici-Riccardi, che hanno influenzato Michelangelo e sono a loro volta copie di opere antiche. Il putto fa pensare non solo a Dürer ma anche a Raffaello: si veda, ad esempio, la posa michelangiolesca del genietto nell’affresco delle Sibille in Santa Maria della Pace. Il putto del Maestro A. C., però, tiene un sestante nella mano destra, e la cosa è significativa non solo perché gli attributi matematici sono per il resto largamente tralasciati, ma anche, soprattutto, perché il motivo di un putto che tiene un sestante in precedenza si è visto, in questo contesto, una volta sola, e cioè nel disegno originario di Dürer, a Londra. È difficile pensare che un incisore, per il resto cosí diverso dal grande mae-

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stro, sia potuto arrivare da solo a questo motivo tutt’altro che ovvio, e poiché ciò potrebbe spiegare anche la data relativamente precoce dell’incisione in questione, forse non sarebbe eccessivo cercare il Maestro A. C. (la cui firma compare su incisioni già nel 1520) fra i numerosi artisti che hanno avuto la fortuna di conoscere personalmente Dürer durante il suo soggiorno nei Paesi Bassi8. Tralasciando la xilografia che fa da frontespizio al New Formularbuch di Egenolff9, che è quasi una copia meccanica di Dürer e quindi senza interesse per noi, l’imitazione successiva, e inconfondibilmente tedesca, dell’incisione di Dürer è stata l’incisione di Beham B144, datata 1539. Anche qui la figura principale è diventata piú classica sia nelle vesti che nell’atteggiamento, mentre la composizione rivela la nuova tendenza manieristica del tempo10, in quanto è disegnata piú per riempire una superficie piatta che per raggiungere valori di volume e spazio. Mancano il putto e il cane, come del resto la maggior parte degli altri attributi, mentre sono aggiunte due bottiglie, probabilmente in rapporto col crogiolo, e ovviamente stanno a indicare studi alchimistici. La xilografia di Jost Amman nel trattato d’araldica del 1589 rientra anch’essa in questo gruppo. Anch’egli raffigura la Melanconia in abbigliamento classico, però senza ali, e riduce ulteriormente gli strumenti della sua professione, aggiungendo solo il soffietto, a noi familiare dalla xilografia di Hans Döring11. La colonna mozza sembra indicare che Amman si è servito di un’incisione di Virgil Solis, oltre che di quella di Dürer. Questa incisione di Virgil Solis (B181), a differenza delle immagini finora citate, fa parte di una serie dei quattro temperamenti, nella quale occupa il quarto posto, con la significativa trasformazione del titolo in Melancolicus. Lo stesso vale per un piccolo complesso di disegni, conservati a Wolfegg, attribuiti a Jost Amman,

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solo che in questo caso il melancolicus occupa il terzo posto. L’incisione di Solis è notevolmente piú vicina, negli elementi essenziali, a Dürer, in quanto lascia alla figura principale il compasso, che invece nel disegno di Wolfegg è sostituito da un rotolo di pergamena, con il che l’idea specificamente matematica dell’incisione di Dürer viene trasformata in senso piú generale secondo un concetto piú vasto della meditazione creativa. Entrambe le immagini, però, hanno questo in comune con quelle ricordate prima, cioè che, pur conservando diversi degli attributi di Dürer, sostituiscono l’abbigliamento borghese dell’epoca, che si vede nella Melencolia I, con un altro che è idealizzato e classico; nel disegno di Wolfegg l’atteggiamento della figura principale fa pensare anche alla tipica posa di una Musa classica. Per contro, entrambe le immagini cercano un compromesso con la tradizione medievale, non solo negando le ali alla figura principale, ma anche, in forma più o meno moderna e umanistica, ritornando all’impiego degli animali in funzione simbolica, come vediamo nel Calendario dei Pastori e nei Libri d’Ore. Nell’incisione di Solis il temperamento sanguigno è rappresentato dal cavallo e dal pavone, quello collerico dal leone e dall’aquila, quello flemmatico dalla civetta e dall’asino, e quello melanconico dall’alce triste (ripreso, sembra, dall’incisione Adamo ed Eva di Dürer), e dal cigno che, in quanto uccello sacro ad Apollo, può alludere al «praesagium atque divinum» che è proprio del melanconico12. Nei disegni di Wolfegg il sanguigno ha la scimmia, il collerico l’orso, il flemmatico il maiale e il melanconico l’agnello: il che corrisponde sostanzialmente alla distribuzione che si ha nel Calendario dei Pastori e nei Libri d’Ore13. Tralasciando tutto il resto, due caratteristiche di fondamentale importanza distinguono tutte queste immagini dall’originale da cui derivano. Anzitutto non rap-

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presentano alcun antidoto alla melanconia, e, in particolare, ignorano il profondo rapporto cosmologico tra la melanconia e Saturno; in secondo luogo, l’aspetto cupo, meditabondo della figura principale è reso con mezzi fisiognomici del tutto diversi e quindi e in certa misura interpretato diversamente. La posa pesante della figura seduta sul suo basso ripiano di pietra è diventata, in Beham, un atteggiamento di negligenza e apatia; nei disegni di Wolfegg, un atteggiamento di equilibrio classico; in Amman e nel Maestro A. C., una contorsione angosciata; e in Virgil Solis una posa di eleganza manierata. Il pugno chiuso e sostituito da una mano mollemente aperta. Cosí anche gli occhi non fissano piú in lontananza con misteriosa intensità, ma sono stancamente e torpidamente rivolti a terra. Non c’è dubbio che queste immagini susseguenti a Dürer cercano ancora di mostrare la nobile melanconia dell’uomo che pensa e lavora; questo si può vedere dal fatto che vengono conservati i simboli delle occupazioni, come pure dal distico che figura sotto l’incisione di Solis14 (che chiaramente si rifà al Problema XXX, 1 di Aristotele) e dai versi, alquanto domestici, che illustrano l’incisione di Amman. Tuttavia il tono interno che in esse si esprime somiglia piú all’indolenza inerte dell’acedia medievale che alla tensione intellettuale della melanconia, cosí come era stata nobilitata dagli umanisti: ancora tesa e vigile nonostante il suo animo turbato. Per quanto questi artisti adottino i tratti esterni dell’immagine di Dürer, e per quanto cerchino di superarlo in idealizzazione classica, pure, quanto al significato intimo delle loro opere, ricadono nella concezione delle rappresentazioni anteriori dei temperamenti15. Dietro il panneggio classico, la mente è in fondo più vicina allo spirito del xv secolo che a quello di Dürer16. Beham, Amman, Solis e altri maestri simili offrono ben poche difficoltà all’esegesi puramente fattuale del

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contenuto, altrettanto poche che il Maestro F. B. (ora in genere identificato con Franz Brun) nella sua incisione, che, per quanto ridotta a una scena di genere, ha una certa originalità, ed è assai suggestiva nella sua tenebra da prigione (B78)17. I dipinti sono una cosa assai diversa. Quanto a opere di maestri tedeschi, ne abbiamo finora scoperte solo cinque: il quadro datato 1558, un tempo nella Collezione Trau a Vienna, che M. J. Friedländer ha congetturalmente attribuito al pittore Matthias Gerung di Lauingen18, e quattro quadri che sono usciti in rapida successione (1528, 1532, 1533, 1534) dalla bottega di Lucas Cranach. Il quadro di Matthias Gerung del 1558 mostra al centro la Melanconia alata e seduta, in un tipico atteggiamento col gomito sul ginocchio, ma col viso eretto e di fronte, e senza alcun attributo. Il compasso non è impugnato da lei, ma da un uomo accoccolato alla base del quadro, e apparentemente occupato a misurare un globo, come Dio Padre nelle Bibles moralisées; in lui riconosciamo un cosmografo19, un perfetto esempio di persona dotata del tipo di mentalità simboleggiata dalla figura principale. Intorno a queste due figure ruota una vivace ghirlanda di scene miniaturistiche. In un paesaggio assai variato e ondulato vediamo ogni possibile attività della vita urbana, rurale e militare: ma, per quanto concepite realisticamente, queste scene non sembrano avere alcun legame né l’una con l’altra né con l’idea della melanconia. I fenomeni astrali, però, indicano la via di una possibile interpretazione. Oltre ai motivi dell’arcobaleno e della cometa, che sono ripresi da Dürer, vediamo il Sole e le due divinità planetarie Luna e Marte, e fra di esse un cherubino che sembra accennare a Marte. (Che angeli guidassero i pianeti nel loro corso era un’idea assai comune nell’astrologia cristiana, che è sopravvissuta perfino nel mosaico di Raffaello nella Cappella Chigi in Santa Maria del Popolo).

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Non si sa bene se i pianeti di questa triade siano da interpretare come i pianeti dominanti nell’anno20, come una congiunzione, o come un semplice segno della situazione generale; però è certo che la loro presenza non è accidentale. Si ha l’impressione che ci sia una componente di attualità dentro il quadro, e che si tratti di una raffigurazione della melanconia non solo dipinta nel 1558, ma in qualche modo condizionata dagli avvenimenti di questo anno (fu l’anno della morte di Carlo V). Di fatto i tre pianeti sono legati in modo cosí evidente con le scene della parte inferiore del quadro (fino intorno al cartiglio) che si potrebbero dividere le scene quasi immediatamente nelle tipiche occupazioni dei «figli» del Sole, della Luna e di Marte. Banchetti, giochi, bagni, giocolieri (si noti l’orso che balla) spettano alla Luna; la musica, la lotta, la scherma e il tiro con l’arco, al Sole; la guerra e la lavorazione dei metalli (si noti la miniera) spettano ovviamente a Marte. Le scene nella parte superiore del quadro, invece, sembrano rappresentare le stagioni, o i mesi, e probabilmente indicano il corso di quell’anno infausto: le coltivazioni, i raccolti, i pascoli, l’uccisione del maiale, la caccia e l’andare in slitta. L’andare in slitta, in realtà, poiché compare in un paesaggio che per il resto non ha l’aspetto invernale, si spiega male, tranne che con l’intenzione di caratterizzare le diverse parti dell’anno. Il quadro non manca affatto di fascino, però l’effetto artistico nel complesso è determinato dal fatto che né la Melanconia né l’esponente umano di questo temperamento, il cosmografo, sembrano prendere parte alcuna a tutto questo festoso o rischioso ciclo della vita quotidiana. Sono insensibili alla miseria della guerra, non traggono piacere alcuno dai giochi, dai banchetti o da altri divertimenti, e non partecipano alle gioie e ai dolori della campagna. I versi semplici del trattato di araldica di Amman riassumono questa qualità della disposizione melanconica:

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Né il cinguettio di bambini mi rallegra, Né galline che depongono uova, né capponi all’ingrasso. Lasciami solo, a pensare ai casi miei, Altrimenti poco profitto in me troverai.

Questa opposizione tra gaiezza mondana e serietà melanconica, in contrasto con la splendida unità che contraddistingue l’incisione di Dürer, si riscontra anche nei dipinti di Cranach. Il primo, datato 152821, ora in possesso del conte di Crawford, mostra la Melanconia in abbigliamento d’epoca (sebbene originariamente fosse alata), seduta su una vasta terrazza. A terra vi sono un compasso, una sfera, un cesello e un succhiello; sul tavolo un piatto di frutta e due bicchieri; sullo sfondo un paesaggio festoso. Quattro bambini nudi, probabilmente derivati da una modificazione del putto di Dürer22, giocano tra loro e con un cane, che ne è un po’ infastidito, mentre il vero «cane della Melanconia»23 è acciambellato su una panca dietro, a destra. Finora l’interpretazione del quadro presenta poche difficoltà. Due forti motivi però si possono spiegare solo con lo stesso accrescersi delle credenze superstiziose e magiche che ha determinato la differenza fondamentale tra le due versioni dell’Occulta philosophia di Agrippa di Nettesheim. Uno di questi è l’occupazione della figura principale, in quanto appare in atto di appuntire o togliere la corteccia a un rametto con un coltello. L’altro è l’affacciarsi di un’orda di streghe al comando di Satana, che, entro una nube scura, stanno attraversando il cielo chiaro. Ora il melanconico saturnino è messo in rapporto con tutti i generi di arti magiche o diaboliche e la sua cupa e sinistra mentalità, contraria ai pensieri della vita quotidiana, lo rende incline alla magia nera24, con la stessa facilità con cui lo innalza alla contemplazione religiosa o scientifica. Il motivo del tagliare o togliere la corteccia al bastoncino (sicuramente non si tratta di una vera

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bacchetta da rabdomante, perché non è biforcuto)25, considerato insieme al sabba delle streghe, potrebbe quindi essere interpretato come la preparazione di una bacchetta magica, cui, secondo l’antica credenza, si doveva togliere la corteccia in modo che «nessuno spirito s’annidi tra legno e corteccia»26. Il quadro successivo di Cranach, datato 1532 e ora a Copenaghen27, contiene pochi elementi nuovi. I simboli delle occupazioni mancano, tranne la sfera, con cui i fanciulli, ora in numero di tre, stanno giocando rumorosamente. L’unico elemento nuovo è una coppia di pernici, che però probabilmente è stata messa solo per arricchire la scena di festosa attività mondana. Anche qui vediamo il sabba delle streghe, e la figura principale è intenta a tagliare un bastoncino. Anche il terzo di questi quadri28, datato 1533 e ora nella collezione Volz all’Aia, conserva questi due motivi, che sembrano peculiari di Cranach. Per il resto, invece, si allontana sostanzialmente dalle due opere precedenti. La figura principale è compressa nell’angolo destro del primo piano, la veduta è ridotta al minimo, e tutti gli accessori, animati o inanimati, mancano, tranne la testa di un vecchio (Saturno stesso, o qualche altro spirito?) che appare nel cielo, e addirittura quindici putti, per lo più danzanti, alcuni addormentati e due musicanti con piffero e tamburo. Quindi una nuova influenza sembra intervenire in quest’ultimo quadro, e sarebbe strano se non venisse dal Mantegna. C’era il suo quadro di forma quasi esattamente analoga, in cui era rappresentata la Malancolia con sedici putti danzanti e musicanti, e che, come abbiamo visto, può avere avuto qualche importanza per l’incisione di Dürer29. Ma mentre in quest’ultimo caso la concordanza era solo vaga e generica, nel caso di Cranach, dove i putti sono quasi nello stesso numero e sono anch’essi intenti a danzare e fare musica, la concordanza sembra spingersi relativa-

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mente lontano; e poiché non conosciamo nessun altro quadro analogo, è difficile sbagliare mettendo l’opera di Cranach in relazione con quella ora perduta del Mantegna. Non è necessario che Cranach l’abbia vista, e nemmeno che ne abbia vista una copia o un disegno preparatorio, perché potrebbero essere bastate notizie del quadro, comunicate oralmente o per lettera, a orientare la sua interpretazione, pur restando lo stile e la composizione originali, nella direzione del Mantegna. Il fatto che Cranach abbia messo solo quindici putti anziché sedici non sembra avere alcun significato particolare, e si potrebbe assai facilmente spiegare con la circostanza che non aveva visto il suo modello30. Il numero esatto poco importava al maestro tedesco, mentre il Mantegna probabilmente l’aveva scelto per qualche buona ragione: infatti si può ritenere che questo maestro, che aveva tanto interesse per l’archeologia da arrivare talvolta a scrivere la sua firma in greco, fosse al corrente del fatto che una delle opere piú famose dell’antichità, la statua del Nilo, mostrava intorno alla figura allegorica di un uomo sedici bambini intenti a giocare31. Storicamente, se non artisticamente, l’imitazione piú importante dell’incisione di Dürer realizzata in Germania nel xvi secolo è stata quella scoperta da L. Volkmann32. L’altare nel coro orientale della cattedrale di Naumburg, datato 1567, è adorno, tra l’altro, di otto rilievi, sette dei quali rappresentano il consueto ciclo delle Arti liberali. Dai cicli enciclopedici dell’arte monumentale, o dalle illustrazioni a Boezio, ci si aspetterebbe che questo insieme di sette figure femminili fosse guidato da una personificazione della filosofia o della teologia. In questo caso invece la parte di guida è assegnata a una Melanconia ovviamente derivata dalla tradizione düreriana33. È effettivamente un caso storico rilevante che, in una chiesa, e nel quadro di una tradizione vecchia di un millennio, la figura che rappresenta il

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principio unificatore di tutte le attività intellettuali non sia piú quello della filosofia, la disciplina che dà il fondamento sistematico a tutte, ma quello di una forza psicologica soggettiva, cioè della disposizione che rende possibile l’attività intellettuale: una distinzione di cui il Nord aveva preso coscienza attraverso l’incisione di Dürer. Un’opera piú modesta, indicataci da Erdmann, si può forse citare come testimonianza di un’intenzione analoga. Si tratta di un orologio (opera di un Maestro F. F. L. di Norimberga, eseguita nel 1599), a forma di piccola torre, in cui si vedono l’Astronomia da un lato e la Melanconia dall’altro, e che è corredato di tutti gli elementi simbolici dell’incisione di Dürer, solo che il quadrato magico è stato ridotto a una tavola con numeri ordinari e il putto appare come un comune bambino dell’asilo. Anche in questo modesto oggetto, quindi, la Melanconia figura come un simbolo complessivo delle capacità intellettuali; ma poiché sugli orologi, in particolare, si trova spesso un ammonimento che richiama alla transitorietà di tutte le cose terrene (come il famoso «Una ex illis ultima»), non è impossibile che anche qui c’entri un pensiero circa la vanità di ogni ricerca intellettuale, per quanto nobile. L’eredità lasciata dall’incisione di Dürer è stata naturalmente meno estesa nell’Italia del xvi secolo che nel Nord, però in Italia ha avuto conseguenze piú vaste, in quanto subito è cominciato un processo di trasformazione che ha portato dalla contemplazione intellettuale al patetismo passionale. Sembra in effetti che ci siano state imitazioni fondate su un atteggiamento intellettuale non diverso sostanzialmente da quello che è prevalso nel Nord: possiamo ricordare la Melanconia del Vasari, circondata da un gran numero di strumenti matematici, in un affresco dipinto nel 1553 in Palazzo Vecchio a Firenze34, come

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pure l’allegoria della Scultura descritta nel Disegno di Antonio Francesco Doni, che sembra quasi un doppione della Melencolia I35. La Melanconia dipinta da Francesco Morandini detto il Poppi come uno dei quattro temperamenti sulle pareti dello Studiolo in Palazzo Vecchio, sempre a Firenze (che, tra l’altro, non è particolarmente attraente né originale) si distingue dalle sue sorelle nordiche per l’espressione spiccatamente patetica di dolore, talmente agitata da sfiorare il pianto36; e nei Marmi, un’altra opera dello stesso Doni, che apparve nel 1552, troviamo una xilografia, che, per quanto molto mediocre, ha esercitato una fortissima influenza, e ci presenta la sublime profondità della figura principale della Melencolia I (il Doni dice di possedere una copia dell’incisione düreriana) trasformata nella tristezza elegiaca di una «feminetta tutta malinconosa, sola, abandonata, mesta et aflitta» che piange su uno scoglio solitario37. Si può comprendere come l’arte italiana, dotata di una innata inclinazione al pathos e priva di una solida tradizione pittorica nel campo delle vere e proprie serie delle complessioni38, dovesse dare la preferenza alla concezione soggettiva e poetica della melanconia (quale troviamo illustrata una ventina d’anni dopo nell’Iconologia del Ripa39) piuttosto che a quella oggettiva e scientifica, anche quando, come nel caso del Poppi e del Doni, l’incisione di Dürer poteva essere conosciuta direttamente. Cosí, nel Cinquecento si sono poste le premesse di ciò che sarebbe accaduto nell’epoca barocca, cioè la fusione dell’immagine della Melanconia con quella rappresentante la Vanità. Una monografia sulle «Immagini della Vanità» è ancora da scrivere, anche se H. Janson ha dato un buon avvio col suo saggio The Putto with the Death’s Head («Art Bulletin», vol. XIX, 1937). Essa potrebbe cominciare con i monumenti funerari e le allegorie della Morte del tardo Medioevo, nelle quali tanto spesso si

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vede un osservatore di fronte a immagini di caducità o anche di sfacelo che lo esortano al pentimento con il monito «Tales vos eritis, fueram quandoque quod estis», o qualcosa del genere. Potrebbe quindi continuare con le opere del Quattro e Cinquecento, nelle quali la presenza della Morte in persona è sostituita da una meditazione sulla morte. Infine dovrebbe mostrare come l’idea di questa «Meditazione della Morte»40 si è gradualmente liberata dalla nozione di una personalità individuale significante, e si è sviluppata in una personificazione a se stante; e come, nel corso di questo processo, l’affascinante contrasto tra il contenuto lugubre della meditazione e la giovanile bellezza del soggetto meditante sia stato sempre piú accentuato, per cui il san Girolamo fu spesso sostituito da una Maria Maddalena. Questa immagine della Vanità, suggestiva sia per il suo fascino sensuale che per il brivido della morte che vi si cela, potrebbe chiaramente accordarsi per molti aspetti con altre idee pittoriche, con soggetti che ricorrono sia nella sfera degli idilli arcadici che in quella della filosofia morale ascetica41. È, quindi, comprensibile che anche l’immagine düreriana della melanconia contemplativa, la cui tetra natura era sempre stata associata al pensiero della notte e della Morte, e che specialmente dopo la Controriforma era stata interpretata in senso religioso42, potesse combinarsi col tipo dell’immagine della Vanità. L’esempio piú antico e rilevante di questo tipo, e forse l’opera d’arte piú importante derivata dall’influenza della Melencolia I di Dürer, è la composizione di Domenico Feti43, di cui ci sono pervenute diverse copie. Cosa significativa, esse sono note coi titoli sia di Melanconia che di Meditazione. A ridosso di un muro che, sulla sinistra, lascia scorgere un piacevole paesaggio, sta inginocchiata una donna di aspetto voluttuoso; tutte le rappresentazioni viste finora ci avevano mostrato la Melan-

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conia seduta o, raramente, in piedi. Il suo busto è appoggiato a un blocco di pietra su cui sono deposti un libro chiuso e (nella copia di Venezia) un compasso. I suoi capelli sono mollemente intrecciati, la testa posa sulla mano sinistra, mentre la destra, che indubbiamente si richiama al motivo delle immagini della Vanità, stringe un teschio su cui si fissa il suo sguardo celato44. Intorno le stanno i piú diversi simboli di attività, nel fondo un globo celeste, libri e una clessidra, in primo piano un volume aperto, una grossa sfera, una squadra, una pialla, tavolozza e pennelli e, infine, un modello da scultore che (non casualmente) rappresenta un satiro ed è osservato da un cane grosso e bello. Il significato di questa rappresentazione è evidente: ogni attività umana, pratica o teorica, teorica o artistica, è vana, data la vanità di tutte le cose terrene. Per quanto grandi siano le differenze tra la bella composizione di Domenico Feti e la modesta xilografia dei Marmi, le due opere hanno però una cosa in comune rispetto alle rappresentazioni nordiche: in esse la melanconia è intesa come un tipo di emozione e l’originaria disposizione melanconica è acuita fino alla grave disperazione che sgorga da una emozione del genere. Però l’opera del Feti è per molti aspetti piú profonda, e di fatto si potrebbe dire che, partendo dai concetti assai diversi della Controriforma, essa ha incontrato l’incisione di Dürer su un terreno comune. Il teschio col suo memento mori fornisce ora all’afflizione immotivata della Melanconia düreriana un oggetto definito, e quello che era stato un vago dubbio, difficile da esprimere, circa il problema se il pensiero e l’attività umana avessero un qualche significato di fronte all’eternità, si condensa ora in una semplice domanda a cui si deve rispondere con un deciso ed esplicito «No». La Melanconia ora assomiglia al tipo della Maddalena penitente45. Per «Aristotele» il valore della disposizione melan-

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conica consisteva nella sua capacità di ottenere grandi risultati creativi in tutti i campi possibili; il senso di favore divino che il Medioevo aveva visto nella «malattia melanconica» era stato di tipo morale anziché pratico, in quanto proteggeva dalla tentazione mondana. Nel Rinascimento, e in particolare con Dürer, la consapevolezza della capacità creativa umana venne per la prima volta a fondersi con un’aspirazione alla pienezza religiosa. Però ora l’epoca del barocco italiano tornò alla concezione medievale, solo che si orientò verso la dimensione emotiva anziché quella metafisica. Ciò che Domenico Feti aveva espresso solo con segni visibili, anche se assai poco ambigui, fu espresso a parole una generazione dopo, in un’incisione di Benedetto Castiglione, che deriva sia dal Feti che da Dürer. «Ubi inletabilitas – dice la scritta, – ibi virtus»: «Dove c’è la mestizia, là c’è la virtú»46. Nel quadro di Domenico Feti e, molto piú, nell’incisione del Castiglione, l’idea generica di instabilità assume un accento tutto particolare in seguito all’introduzione di muri in rovina e colonne spezzate; questo corrisponde a una tendenza che si era fatta sempre piú forte dal Quattrocento in poi e toccò uno dei suoi apici ricorrenti intorno o subito dopo il 1600: il culto romantico delle rovine47. La famosa Notte del Guercino ne è un altro esempio48, e storicamente deriva non dalle serie «Giorno e Notte», ma dalla formula delle immagini della Melanconia o della Vanità. Due disegni di Nicholas Chaperon rappresentano questa Vanità-Melanconia, triste e in un vero e proprio museo all’aperto: nell’uno è rappresentata senza ali, e ci si discosta dalla tradizione anche negli arnesi da lavoro inutilizzati (libri, rotoli di pergamena, lampade e un globo); nell’altro è raffigurata con le ali e cosí concentrata sulla caducità della bellezza antica che di tutto il repertorio tradizionale sopravvivono solo una piccola, indistinta pila di carte e una

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clessidra, quest’ultima simbolo della morte piú che segno di attività intellettuale49. Nel corso del Settecento il typus Melancholiae subí la sorte comune a tutte le forme tradizionali in quest’epoca, cioè fu convenzionalizzato a tal punto che la vera realtà dello stato melanconico poté trovare espressione solo in altre sfere50. In poesia il tipico atteggiamento della Melanconia era degenerato in una semplice posa con sguardo afflitto e guancia appoggiata alla mano: Di’ in quale valle profondamente remota, La testa reclina sulla mano, Siedi a spiare gli ultimi fievoli bagliori di luce51,

come John Whitehouse, ad esempio, dice in un’ode degli anni intorno al 1780, in cui le tradizionali rocce del Ripa sono avvolte nella grigia nebbia o illuminate dagli azzurri lampi della scuola gotica. Anche nella pittura il tipico atteggiamento della Melanconia era divenuto un fatto puramente esornativo e talmente poco impegnativo che, ad esempio, il francese Langrenée il Vecchio era capace di isolare in un tableau de grande histoire una qualunque figura femminile dolente e copiarla come personificazione della melanconia52. L’arte inglese o diede una versione sentimentalizzata della «pia monaca» di Milton: lo attesta un’incisione di J. Hopwood da J. Thurston con la Melanconia nelle vesti di una monaca con gli occhi rivolti al cielo, cipressi sullo sfondo e, sotto, i versi di Collins: Con gli occhi rivolti in alto, come persona ispirata, La pallida Melanconia sedeva appartata53;

o anche trasformò l’atteggiamento saturnino in una posa attraente per la signora alla moda, come, per fare un esempio eloquente, il ritratto di Lady Louisa Mac-

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donald di Angelica Kauffmann, il cui atteggiamento dolente perde ogni senso per l’aggiunta di un’àncora di speranza54. Il romanticismo ottocentesco, al contrario, cercò di ridare alla tradizionale espressione della melanconia il suo significato originario, e cosí facendo ritornò talvolta consapevolmente a Dürer. Ma in vari modi infranse la concisione tipicamente rinascimentale della creazione düreriana, che, nonostante tutte le armoniche personali, era stata oggettiva, e, nonostante tutta la sua profondità filosofica, facile da cogliere visivamente. Possiamo vedere come, mentre l’esegesi letteraria, in netto contrasto con l’idea che correntemente si aveva allora di Dürer, ha sollevato l’emozione espressa nella Melencolia I alle sfere della metafisica faustiana, le derivazioni pittoriche l’abbiano attenuata fino a farla diventare, per cosí dire, un senso «privato» di solitudine. In entrambi i casi, però, il dolore diventa desiderio, la sofferenza per l’umanità una fuga dalla realtà; e di conseguenza, indipendentemente dalla loro rilevanza oggettiva, le rappresentazioni romantiche della melanconia ci toccano in un modo del tutto nuovo. Grazie a questa nostalgia, il dolore s’impadronisce di una serie nuova di oggetti: anziché essere, come finora era stato, limitato all’esistenza presente, abbraccia tutto il tempo nell’arco dell’immaginazione. Per cui l’impressione che ci dànno le immagini romantiche, cioè il desiderio o di un passato irrecuperabile o di un futuro che non c’è speranza di raggiungere, ora per la prima volta fa sì che il tema del sentimento melanconico, cosí spesso e cosí strettamente legato alla musica, possa essere espresso anche «musicalmente». Cosí il modesto Steinle, aspirando a un effetto «antico tedesco» nell’ortografia, nei caratteri e negli ornamenti, combinandolo nello stesso tempo col tentativo, comune ai pittori nazareni, di emulare la dolcezza del-

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l’arte umbra, trasforma il sublime meditare della Melanconia nella Melencolia I nell’umile, quieta afflizione di una fanciulla abbandonata, in parole che suonano come un canto popolare: Quanto piú a lungo sto sola, tanto piú sono contenta, perché vengono meno fedeltà e verità55.

Caspar David Friedrich 56 amplia e, nello stesso tempo, diluisce il sentimento di una profonda aspirazione, senza scopo o direzione, a qualcosa di ignoto. La forma della sua immagine ha anticipato l’Iphigenia auf Tauris di Anselm Feuerbach, che, però, ha sostituito l’ignota lontananza, verso cui la «fanciulla solitaria» del pittore romantico sta guardando nostalgicamente, con l’idea troppo letteraria della «terra dei Greci».

2. rappresentazioni tipiche della melanconia negli almanacchi tardomedievali. Il carattere ambiguamente soggettivo di un’opera cosí spiccatamente romantica come quella di Caspar David Friedrich ha impedito un uso dei simboli preciso quanto quello che abbiamo finora visto nelle precedenti immagini che trattavano questo tema. Ciò non esclude però la possibilità che certi motivi singoli, considerati in origine simboli concettuali, possano essere sopravvissuti come simboli emozionali o, con altrettanta probabilità, siano stati ricreati indipendentemente dalla tradizione. Cosí la landa, da cui la Melanconia di Caspar David Friedrich ci sta desolatamente fissando, è caratterizzata non solo dall’assenza di fiori, da foglie intricate e aspri cardi, ma anche dall’«albero spoglio» che era stato uno dei suoi costanti attributi nell’illustrazione del Ripa e nella poesia barocca tedesca; mentre la sua

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solitaria prigionia è indicata da una tela di ragno, che, cosa curiosa, appariva anche in una raffigurazione tedesca della Melanconia del xvi secolo. Quest’ultima composizione, a noi nota in un disegno a penna della Germania meridionale, o forse della Svizzera, del 1530-40 circa57, sembra appartenere a una serie dei quattro temperamenti58. Ovviamente l’opera ha risentito, se pure solo indirettamente, dell’influenza di Dürer poiché senza di essa il contenuto speculativo della rappresentazione, già sottolineato dal possessore francese nella didascalia, sarebbe poco comprensibile cosí come lo sono i numerosi simboli della misurazione o il compasso col quale il melanconico meditativo sta vanamente cercando di misurare il suo globo (infatti è in questo modo che in certi casi viene interpretata la sfera di Dürer, come avviene, ad esempio, nell’orologio ricordato sopra). Però il fatto che questa incarnazione dell’intensa riflessione non appaia piú in forma di figura femminile idealizzata, ma nella forma quanto mai realistica di un uomo cencioso e a piedi nudi, accompagnato da una vecchia di aspetto simile, mostra chiaramente che l’illustrazione del significato intrinseco dell’incisione di Dürer è tornata al tipo tardo-medievale delle raffigurazioni degli almanacchi: alle coppie di figure rappresentate realisticamente in un rapporto drammatico. D’altra parte questa coppia realistica è circondata da numerosi simboli, il cui significato va molto oltre il campo degli almanacchi medievali cosí come si discosta da quello dell’incisione düreriana. L’albero spoglio già ricordato può ancora, naturalmente, essere considerato come una semplice indicazione dell’inverno, la stagione che corrisponde all’umore melanconico e alla terra; e anche i tre segni zodiacali sembrano riferirsi alla stagione dell’anno59; nel Ripa il motivo dell’albero spoglio era spiegato dicendo che la melanconia produce sugli uomini lo stesso effetto che l’inverno produce sulla vegetazione. Però il braciere a

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cui la vecchia si sta scaldando è uno strumento di magia60, oltre che di uso pratico, e la pergamena a terra accanto a lei, con la sua stella a sei raggi e altri elementi magici61, dimostra ovviamente che essa, come le Melanconie di Lucas Cranach, si occupa di opere diaboliche e di stregoneria. Anche la civetta indica non solo la notte, la sventura e la solitudine in genere, ma, in particolare, lo «studio d’una vana sapienza», che le polemiche dei Padri avevano rimproverato all’uccello della Minerva pagana62. Lo stesso si può dire anche della tela di ragno. Il Rinascimento la considerava un emblema dell’«opera vana»63, per cui sembra riferirsi all’infruttuoso disorientamento in cui è caduto l’altrettanto sventurato compagno della strega melanconica. Non ci azzardiamo a indicare la ragione per cui questa figura sta seduta su una botte; forse i suoi piedi nudi e il suo aspetto cencioso fanno pensare a Diogene64, o può trattarsi semplicemente della modifica di un modello anteriore in cui si vedeva un globo anziché una botte65. Però il riccio che ha fatto il nido in questa botte si spiega in un modo solo. Si tratta di un antico simbolo dell’esitazione, però, riferito al caso particolare del pensatore tutto preso dalla meditazione, indica il destino del melanconico di essere soggetto a inibizioni cosí forti da non poter concludere la sua fatica, se mai la conclude, se non a costo di grande pena: allo stesso modo che la femmina del riccio indugia nel dare alla luce il piccolo per paura dei suoi aculei, per cui la nascita risulta ancora piú dolorosa66. Influenzato indirettamente da Dürer, quindi, questo disegno della Germania meridionale si è proposto di intellettualizzare le illustrazioni degli almanacchi tardomedievali, come già si era tentato, in forma più rozza, nella xilografia che illustrava il De conservanda bona valetudine di Eobanus Hesse67. Abbiamo qui un maggior numero di elementi gero-

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glifici ed emblematici, cui si aggiunge un interesse, presente anche in Cranach, per il magico e il demoniaco. Lo stesso fenomeno si è avuto in quadri manieristi olandesi successivi, però per ragioni del tutto diverse, cioè per la tendenza, tipica di questo stile, di emulare, quanto alla forma, gli ideali artistici dei seguaci italiani di Michelangelo e Raffaello, pur presentando, nello stesso tempo, il repertorio delle figure alla luce degli usi contemporanei per quanto riguarda il racconto e lo scenario. Cosí, ad esempio, in una serie dei quattro temperamenti incisa da Pieter de Jode da opere di Marten de Vos troviamo le tradizionali coppie di figure idealizzate al modo italiano e contemporaneamente aggiornate nello stile olandese. Differenziate a seconda del tipo, del rango e dell’abito, esse rispondono a ogni requisito della «grazia» e «grandezza» manieristiche, però sono ambientate in luoghi che, pur contenendo gli elementi e le stagioni tradizionalmente associati alle complessioni e conservando il loro significato tipico68, dànno tuttavia l’impressione di puri e semplici paesaggi. Il comportamento delle stesse figure è rappresentato piú in termini sociologici che psicologici, per cui una illustrazione delle disposizioni umane si è trasformata in certa misura in una illustrazione dei diversi stili sociali di vita. La rappresentazione dei flemmatici potrebbe intitolarsi I pescivendoli, quella dei collerici Soldato e cantiniere, e quella dei sanguigni Duetto all’aperto. L’immagine dei melanconici rappresenta una donna con tutte le seduzioni della bellezza ricercata, ma cosí immersa in profonda, anche se un po’ apatica, meditazione sui suoi problemi alchimistici (un’eco dell’ispirazione düreriana) che non riescono a scuoterla nemmeno l’oro e i gioielli che un ricco mercante le sta offrendo. Anche questo gruppo corrisponde a un noto tipo della pittura olandese di moralità (indicato in genere come «La coppia mal assortita»), tranne che in questo caso la donna ha ere-

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ditato qualcosa della profondità meditativa della melancholia generosa69.

3. la melanconia nelle rappresentazioni di saturno o dei suoi figli. Il tipo di raffigurazione dei «figli» dei vari pianeti che si era formato nel Quattrocento rimase relativamente immutato fino in pieno Settecento. Ad esempio, in una sequenza dei pianeti incisa da Muller da disegni di Marten van Heemskerck i mortali governati da Saturno sono raggruppati e caratterizzati esattamente allo stesso modo che nelle immagini corrispondenti dello Hausbuch o del manoscritto di Tubinga, cioè come contadini, taglialegna, mendicanti, sciancati, prigionieri e delinquenti condannati70. Lo stesso maestro ha disegnato anche una serie dei quattro temperamenti caratteristica per il fatto che, come tipi, le figure rimangono interamente nello schema delle rappresentazioni dei «figli dei pianeti»71. Anche gli esponenti dei quattro umori sono raccolti in numerosi gruppi di piccole dimensioni nell’immagine di Heemskerck, disposti in un paesaggio unitario, e anche qui caratterizzati secondo gli elementi e le stagioni; essi appaiono anche come rappresentanti di certe attività e di certi strati sociologici. Inoltre, ogni gruppo è chiaramente sotto il dominio del proprio patrono planetario, che è sospeso nelle nubi ed è accompagnato da tre segni zodiacali72: il flemmatico è soggetto alla Luna, il collerico a Marte, il sanguigno a Giove e Venere, e il melanconico, naturalmente, a Saturno. Se non fosse per i titoli e i distici esplicativi, l’osservatore la crederebbe una semplice serie dei «figli dei pianeti». È quindi tanto piú significativo il fatto che il carattere conservatore di queste immagini, in ogni senso tradizionali, abbia ceduto in un solo punto. È il punto in

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cui la concezione tradizionale della natura di Saturno viene a essere in conflitto con la concezione düreriana della Melanconia. Mentre nelle altre tre rappresentazioni vediamo solo gli esponenti delle consuete attività collegate ai pianeti (la danza, la caccia, la scherma e gente di mondo che fa all’amore nella rappresentazione del temperamento sanguigno, e soldati, armaioli ecc. in quella del collerico), in quella del temperamento melanconico vediamo il tradizionale repertorio dei figli di Saturno ridotto a un impiccato (o un suicida) e a due eremiti che vagano nel fondo. Mendicanti, contadini, sciancati, boscaioli e prigionieri hanno ceduto il posto a costruttori, ottici e dotti presi da problemi di geometria e astrologia. Qui, in forma anche piú inequivocabile che in Dürer, nella cui Melencolia I la trama di rapporti puramente suggeriti rimane nascosta entro il corpo vivo dell’immagine visibile, il nesso Saturno-Melanconia-Geometria viene in luce73; e il fatto che ciò avvenga in una serie di incisioni che per il resto è cosí tradizionale, e che anche quando si discosta dalla tradizione cede all’influenza solo concettuale, non formale, di Dürer, costituisce una prova anche piú rilevante della forza di suggestione intellettuale di Dürer. Una serie delle complessioni di Jacob I de Gheyn («illustrata» con distici latini notevolmente spiritosi) sembra a prima vista un semplice parallelo delle incisioni già ricordate su disegni di Marten de Vos. Entrambe sono modernizzazioni di tipi tardomedievali, che approdano a scene di genere idealizzate al modo italiano e ambientate in paesaggi caratterizzati ognuno in accordo col temperamento cui si riferiscono. Però Jacob I de Gheyn segue il tipo in una sola figura delle illustrazioni degli almanacchi anziché quello delle coppie di figure abbinate drammaticamente74. Il collerico, ad esempio, è un soldato brutale, dalle lunghe basette, circondato da armi da guerra, con una torcia che cola al fianco, una

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città che brucia alle spalle, seduto su un tamburo, mentre brandisce la spada in una posa eroicamente distorta. Il flemmatico è un vecchio pescatore con occhi cisposi e capelli gocciolanti, che getta ogni sorta di animali marini in un mastello di legno sulla riva del mare, sotto la pioggia. Ma anche queste due immagini a un esame piú attento si rivelano qualcosa di piú che figure idealizzate tratte dalla vita quotidiana. L’ambizione accesa di De Gheyn sale un grado piú in alto di quella di Marten de Vos: raggiunge l’antichità e la mitologia. Ad esempio, nonostante gli abiti del tempo, il collerico non brandisce spade moderne o armi da fuoco (queste stanno ritte o giacciono inutilizzate intorno a lui), ma una spada antica a lama corta e uno scudo rotondo completamente inservibile nel Cinquecento; egli è stato concepito in modo da ricordare i guerrieri dell’antichità classica o addirittura lo stesso Marte. E il piscis homo75 nella rappresentazione del flemmatico, sia nel tipo che nella posa si rivela la reincarnazione di un antico dio marino o fluviale, la cui urna, pur conservando la sua forma e la sua funzione, è stata trasformata in una gigantesca cesta di vimini da pescatore. In queste due immagini, come in quella del sanguigno, si vogliono suggerire associazioni mitologiche piú che realizzare un’identificazione con personaggi della mitologia. Però nella rappresentazione del melanconico, che anche qui occupa un posto particolare, c’è una vera fusione della «bile nera» con la divinità classica che la guida e protegge. Questa eroica figura nuda di pensatore, con la testa coperta, altri non è che l’antico Saturno, come lo conosciamo dalla statuetta del Museo Gregoriano o dall’affresco nella Casa dei Dioscuri, solo che, con compasso in mano e sfera sul ginocchio, occhi chiusi, viso stanco e segnato da rughe, condivide tutti i problemi dello spirito umano che soffre di melanconia76. E mentre gli esponenti degli altri tre temperamenti erano

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posti in paesaggi che, per quanto di carattere allusivo e simbolico, pure apparivano reali e privi di mistero, questo melanconico Saturno sta seduto su un globo sospeso nell’universo sotto un cielo stellato. Nel melanconico di Heemskerck, come in quello di Jacob I de Gheyn, è interamente esplicitato ciò che nella Melencolia I di Dürer solamente si intuiva, cioè la sostanziale unità di Melanconia, Saturno e Matematica. Ma mentre Heemskerck per arrivare allo scopo deve presentare il suo melanconico in una scena di prosaica vita quotidiana, De Gheyn spinge l’allegoria addirittura più in là di quanto aveva fatto Dürer. Non solo rappresenta la natura del melanconico in modo simbolico, ma lo innalza alla statura di un essere semidivino, lontano da ogni contatto con il mondo degli uomini: pure si porta dietro il suo umano dolore negli spazi dei cieli.

Cfr. pp. 108 sgg. Ancora nel 1861, ad esempio, una Ecole de Salerne uscí a Parigi tradotta da C. Meaux Saint-Marc e corredata di una modesta litografia (p. 131) dei quattro temperamenti sotto forma di quattro signori vestiti alla moda intorno a una tavola. Karl Arnold pubblicò, addirittura nel 1928, sulla «Münchner Illustrierte Presse» (p. 133), una serie dei «Quattro temperamenti danzanti», ultima derivazione dal vecchio schema dei calendari delle coppie psicologicamente differenziate. 2 Per la prima volta nella 3a ed. del 1628. Questa incisione, opera di Le Blon, mostra le principali forme di melanconia: l’innamorato melanconico, l’ipocondriaco, il maniaco e (come rappresentazione del superstitiosus) il monaco che recita il rosario. L’incisione di Le Blon contiene anche un ritratto dell’autore in veste di Democrito junior e il suo antico predecessore, Democrito di Abdera, nonché, sul fondo, due figure allegoriche delle cause o peculiarità del temperamento melanconico (Zelotypia = invidia, e Solitudo = solitudine); e infine due rimedi, la borragine e l’elleboro, che sono raccomandati alla fine come antidoti alla melanconia nel codice di Peutinger (Monaco, Staatsbibliothek, Ms lat. 4011, fol. 23). Un altro esempio ne è il frontespizio, cit. sopra (p. 283, nota 37) del Bericht von der Melancholia Hypochondria di Johannes Freytag che, oltre al gruppo già 1

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia descritto della melanconia vinta da un dottore, mostra Asclepio con gallo e libro («Confortat») e una personificazione della Verità con lira e sole («Illustrat»). 3 Cfr. p. 327, nota 10 e pp. 370-71. 4 Il Malenconico della serie dei temperamenti nelle Complessioni di Cesare Ripa è un uomo ritto, vestito di scuro, con un libro in una mano per mostrare la sua inclinazione allo studio, una borsa da avaro nell’altra, una benda sulla bocca per indicare la sua taciturnità, e un passero sulla testa per mostrare la predilezione per la solitudine. Per la melanconia come personificazione singola, che si trova anch’essa nel Ripa, cfr. pp. 213 sgg. 5 Cfr. pp. 209 sgg. 6 La Francia, «encombrée par sa tradition», per usare le parole di Henri Focillon, sembra essere sfuggita quasi del tutto all’influenza dell’incisione di Dürer nel corso del Cinquecento, ed esserne stata toccata solo nel Seicento attraverso il barocco italiano (cfr. tav. 141, e anche pp. 365 sg.). 7 Richiederebbe uno studio a sé raccogliere tutte le rappresentazioni in cui la sterminata ricchezza di motivi dell’incisione düreiana è stata utilizzata per raffigurare altri temi, in particolare le personificazioni della Contemplatio, della Meditatio, della Penitentia, ecc., e delle Arti liberali e meccaniche; particolarmente caratteristica in questo senso è la serie delle Artes di Virgil Solis, B183-89, e quella di H. S. Beham, B121-27. Dato che i tipi sia dell’autore in meditazione, ecc. che delle Artes costituivano la base dell’incisione di Dürer, questa poteva ora influenzare lo sviluppo di entrambe. 8 Nulla di sicuro si sa finora sull’identità dell’artista A. C. La vecchia opinione, generalmente accettata, che le iniziali significassero Allart Claesz è stata duramente attaccata da M. J. Friedländer (u. thieme e f. becker, Allgemeines Lexicon der bildenden Künstler, VII, p. 36); il Friedländer conclude, in base alle differenze stilistiche tra i vari modi di disegnare, che la firma A. C. può indicare solo una bottega d’orafo in cui operavano diversi incisori, ed è propenso a identificare quest’orafo con un certo Aleart, di cui è sconosciuto il cognome, citato dallo Scorel. Di recente però, come cortesemente ci comunica Winkler, anche l’origine olandese delle incisioni è stata messa in dubbio (per i loro legami con Gossart, però, cfr. e. weiss, J. Gossart, Parchim 1913, p. 42). mentre l’opinione corrente prima dell’ipotesi Allart Claesz, cioè che il maestro A. C. fosse Adrian Collaert senior, un incisore e mercante d’arte di Anversa attivo «verso il 1540», sembra ora del tutto abbandonata; secondo b. linnig, La gravure en Belgique, Antwerpen 1911, p. 76, Collaert non è nato prima del 1520, il che escluderebbe questa identificazione; però, per quanto ne sappiamo, non c’è prova per questa data. Non ci arrischiamo in questa controversia, però possiamo

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia ricordare che nel settembre 1520 Dürer dava a un certo Master Adrian stampe per il valore di due fiorini (lf, Nachlass, p. 131, 8): questo Adrian quindi difficilmente può essere identificato con A. Herbouts o Horebouts, il magistrato di Anversa; a quest’ultimo infatti ci si rivolgeva sempre rispettosamente con qualche titolo (ibid., pp. 154, 4 e 151, 22), e inoltre, come si apprende dal passo ora citato, Dürer piú tardi gli farà dono di «tutta una tiratura». 9 Le varianti consistono semplicemente nella versione in greco della scritta e nella riduzione del quadrato magico. Dal punto di vista iconografico la composizione è un mosaico dei motivi piú vari. Nella parte alta la Melanconia è collegata con l’Amymone di B71, la parte bassa raffigura l’impresa di M. Curzio, sulla sinistra c’è una raffigurazione della Fortitudo, sulla destra una del Miles christianus, che le potenze delle tenebre tentano di arrestare nella sua ascesa a Dio. Per l’autore, cfr. h. röttinger, Der Franklurter Buchholzschnitt 1530-1550, Strassburg 1933, p. 62. 10 Cfr. s. strauss-klöbe, in «Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst», nuova serie, II, 1925, p. 58. 11 Una copia della xilografia di Amman si ha sulla facciata dell’albergo «Zum roten Ochsen» a Stein am Rhein. 12 Cosí il giehlow 1904, p. 66. cicerone, De divinatione, I, 81, costituisce il passo classico per questo rapporto. 13 Per questi, cfr. pp. 277 sg. Le differenze consistono semplicemente nel fatto che la serie di Wolfegg sostituisce l’agnello al maiale (sia che si tratti di un esempio della frequente confusione tra melanconia e flegma, o di una conseguenza della sublimazione umanistica della nozione di melanconia, per cui il maiale è escluso per ragioni di incongruenza) mentre il leone del collerico è sostituito da un orso, simbolo tradizionale dell’ira: anche in Cesare Ripa (Iconologia cit., s. v. «Ira»). Una vetrata olandese con una raffigurazione della melanconia, dei 1530 circa, che si trova al Victoria and Albert Museum (Murray Bequest, n. C. 1380-1924), presenta una grottesca mescolanza di animali simbolici, emblemi della morte, e un’immagine della regola monastica quale avrebbe potuto concepirsi solo durante le lotte della Riforma, con i loro «asini papali» e i loro «vitelli monacali»: Saturno in aspetto di guerriero con abiti mezzo orientali, con una gamba ancora sollevata, sta allontanando il melanconico dalle porte del suo palazzo verso un cortile rustico; quanto al melanconico, che si ritrae nervosamente, lo si vede vestito da monaco con un rosario gigantesco e un teschio sotto il braccio sinistro, però ha sulle spalle una testa di verro anziché di uomo. Il vetro sembra abbia fatto parte di una serie, però non si è finora stabilito se si trattasse di una serie rappresentante i temperamenti.

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia «Omne Melancholici studium sine fine pererrant, | Hac generis celebres parte fucre viri». 15 Cfr. più avanti. 16 Questo vale anche per la rappresentazione della melanconia nella serie dei temperamenti di Paul Flindt, 1611, ricordata sopra, che occupa un posto a parte in quanto le quattro complessioni sono tutte rappresentate da putti, stilizzati alla maniera di Spranger, il Sanguineus che suona il liuto, il Cholericus con l’armatura, il Phlegmaticus che scolpisce e il Melancholicus che se ne sta afflitto fra i soliti arnesi. 17 Datata 1560, mostra la melanconia in aspetto di monaca, con l’ambiente intorno che si allontana all’infinito, completamente vuoto, e i pochi attributi disposti con tale regolarità e ordine geometrico che sembra non possano mai piú lasciare il loro posto. L’ombreggiatura scura delle pareti e del soffitto e il forte contrasto tra luce e ombra sono particolarmente efficaci, mentre l’esecuzione minuziosa della prospettiva dell’ambiente chiuso assicura una grande forza di espressione psicologica. 18 Katalog der Erfurter Leihausstellung, 1893, n. 173, riprodotto in o. doering e g. voss, Meisterwerke der Kunst aus Sachsen und Thüringen, Magdeburg s. d., tav. 35; cfr. anche thieme e becker, Allgemeines Lexicon der bildenden Künstler cit., p. 488; catalogo d’asta del collezionista F. Trau, Gilhofer e Ranschburg, Wien, 26-30 aprile 1937, n. 551. 19 G. Hellmann ci ha gentilmente segnalato che una gemma riprodotta in c. daremberg e e. saglio, Dictionnaire des antiquités, I, i, Paris 1887, n. 587, Presenta una figura molto simile, benché mostrata di profilo. Se questo tipo di immagine è realmente classico, una questione su cui non osiamo pronunziarci, la figura di Dio Padre nelle Bibles moralisées potrebbe farsi risalire a questa origine; per cui un tipo classico di astronomo o cosmografo sarebbe stato deificato nel Medioevo per ritornare umano nel Rinascimento. Il modello del Cosmografo, che Matthias Gerung ha copiato quasi esattamente, è stato nel frattempo riconosciuto nell’Astrologo del Campagnola (hartlaub, Geheimnis, tavv. 25-27), tranne che quest’ultimo è intento a misurare i cieli anziché la terra. 20 L’elenco dei pianeti regnanti nell’anno sembra variare considerevolmente nella bibliografia relativa. G. Hellmann ci ha cortesemente informato di due elenchi per l’anno 1558, che portano rispettivamente Marte e Venere, e Marte, Saturno e Giove. Quindi Marte è ricordato in entrambi i casi, la Luna e il Sole in nessuno. Però secondo G. Hellmann una terza fonte potrebbe altrettanto bene portare questo trio. 21 christian schuchardt, Lucas Cranach d. Ä. Leben und Werke, vol. II, Leipzig 1851, p. 103 cita questa copia come appartenente alla Collezione Campe, Nürnberg; cfr. ora m. j. friedländer e j. rosen14

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia berg, Die Gemälde von Lucas Cranach, Berlin 1932, n. 228, che menziona anche una copia «in possesso del Dr. Paul Weber di Jena». Successivamente appartenuta al console Moslé di Lipsia, questa copia fu ceduta il 22 aprile 1948 all’asta Parke-Bernet a New York; la sua attuale collocazione ci è sconosciuta. Moslé ci ha fatto notare che nel dipinto del conte di Crawford la Melanconia non era senza ali, come è sostenuto nella Dürers Melencolia I, ma che è possibile vedere tracce di ali che sparirono quasi completamente quando parte del dipinto venne tagliata. Un dipinto successivo, dello stesso soggetto (probabilmente un prodotto di bottega), di cui dobbiamo conoscenza a M. J. Friedländer, è datato 1534, ma, nel complesso, è riferibile alla concezione del 1528. Gli elementi magici sono tuttavia ridotti all’indispensabile scortecciamento della bacchetta, mentre il collegamento con la geometria, messa in evidenza dalla squadra da disegno di Dürer, è piú forte che nella composizione di Copenaghen e in quella dell’Aia, dove manca anche la sfera. 22 G. E. Hartlaub ci informa gentilmente che egli ritiene di aver trovato la spiegazione per il gruppo di putti nei dipinti di Cranach, e forse anche per il bambino che scarabocchia nell’incisione di Dürer in un trattato sull’alchimia datato 1530 e splendidamente illustrato, dal titolo Splendor Solis (Norimberga, Germanisches Museum), dove un gruppo di bambini che giocano rappresenta un certo stadio nella trasformazione alchernica, ossia la coagulatio poiché questo «wirdet zugeleichet dem Spil der Kinder, die so spylen, das so oben gelegen, ligt yetzt unndten». I putti che accompagnano la Melanconia dovrebbero essere interpretati come simboli alchimistici. Dobbiamo confessare che questa interpretazione potrebbe convincerci solo se le posizioni alternate di sopra e sotto, su cui si basa l’intero paragone, si dimostrassero altrettanto inequivocabili di quelle della miniatura del Ms di Norimberga. Questo comunque non è proprio il caso dei dipinti di Cranach, e tanto meno dell’incisione di Dürer, dove il putto, solitario ed estremamente serio, è affaccendato alla lavagna. 23 Una copia piú fedele del cane che si vede nell’incisione di , però rovesciato e arricchito di una zampa anteriore comicamente stesa, si ha nel quadro dei Paradiso di Cranach, 1530: Vienna, Kunsthist. Mus. n. 1462 (cfr. friedlander e rosenberg, Die Gemalde von Lucas Cranach cit., tav. 167). 24 Cfr., ad esempio, Ibn Esra: «Et in eius parte [sc. Saturni] sunt diabolici»; e Abú Masar «Omneque magice omnisque malefici studium». Il rapporto appare in modo particolarmente chiaro in una serie incisa dei pianeti di Henry Leroy (1579 circa - 1651; g. k. nagler, Künstlerlexicon, vol. VIII, p. 399), in cui streghe e maghi sono quasi gli unici rappresentanti dei «figli di Saturno»; la scritta dice: «Saturnus... magis et sagis, fodinis et plumbo pracest».

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia Quella che sembra una biforcazione del rametto nel quadro di Copenaghen sono solo due frammenti della scorza staccata. 26 Cfr. c. borchling, in «Vorträge der Bibliothek Warburg», III, 1923-24, p. 229. Secondo g. c. horst, in «Zauberbibliothek», vol. VI, 1826, p. 210, la verga sulla quale la strega sta giurando obbedienza al diavolo è «un bastoncino bianco che sembra essere stato tagliato da un salice e poi privato della corteccia». 27 Cfr. ora friedländer e rosenberg, Die Gemälde von Lucas Cranach cit., fig. 227. 28 Cfr. ibid. fig. 228. 29 Cfr. p. 288. 30 Inoltre, come cortesemente ci ha segnalato il console Moslé, questo quadro, come quello di proprietà del conte di Crawford, sembra sia stato tagliato, e non e improbabile che anche qui la figura principale fosse in origine alata. 31 plinio, Nat. hist., XXXVI, 58: «Numquam hic: [sc. basanites] maior repertus est, quam in templo Pacis ab imperatore Vespasiano Augusto dicatus argumento Nili, sedecim liberis circa ludentibus...» Per repliche del gruppo (la copia del Vaticano ovviamente è stata scoperta solo ai tempi di Leone XIII), cfr. w. amelung, Die Skulpturen des Vatikanischen Museums, Berlin 1903, p. 130. 32 «Zeitschrift für bildende Kunst», vol. LIX, 1925-26, pp. 298 sgg. 33 Elsheimer invece, in un delicato quadretto del Fitzwilliarn Museum di Cambridge, ha raffigurato Minerva come patrona dell’arte e della scienza in un atteggiamento tipico della Melanconia (w. drost, in «Belvedere», voll. IX-X, 1926, pp. 96 sgg., tav. 2). 34 Cfr. l. volkmann, in Werden und Wirken, Festschrift für K. W. Hiersemann, Leipzig 1924, p. 417; e «Zeitschrift fiir bildende Kunst», vol. LXIII, 1929-30, pp. 119 sgg. L’affresco, che fu distrutto nel corso della trasformazione della «Sala di Saturno» nella «Loggia di Saturno» raffigurava la fondazione della città di Saturnia, che come dice il Vasari nei suoi Raggionamenti, fu costruita in un «luogo solitario e melanconico». La stessa Melanconia vi era rappresentata «con arnesi da artigiano, compasso, quadranti e canne per misurare». 35 Cfr. schlosser, La letteratura artistica cit., p. 213. La descrizione del Doni (fol. 8f. nell’edizione di Venezia del 1549) suona così: «Nell’aspetto la fecero grave, nel mirar severa, e d’habito intero vestita: puro et honorato, equale cosí alla testa come a tutto il corpo. Il quale habito mostrava non meno d’esser da temere, che da esser honorato. Et cosí ferma e stabile, solitaria e pensosa, si stava a sedere con le sue masseritie, e artifitiosi stromenti intorno; si come a tal arte si conviene». 36 Cfr. l. volkmann, in «Zeitschrift für bildende Kunst», vol. LXIII, 1929-30, pp. 119 sgg., con tavole. La Melanconia, come nel25

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia l’originale Düreriano, appare in forma di donna alata, mentre gli altri tre temperamenti, cosa abbastanza significativa, non hanno ali; tiene il mento sulla mano sinistra ed è appoggiata a una tavola, con un piede sollevato, mentre nella mano destra tiene una bilancia. Ai suoi piedi è accoccolato un bambino con un libro, e sulla sporgenza di uno dei muri si vedono un altro libro, una clessidra e un astrolabio. 37 a. f. doni, I Marmi, vol. II, Venezia 1552, p. 87. I versi posti in bocca a questa donna addolorata sono intonati al carattere elegiaco dell’immagine: «Che pena si può dire | Piú grande che morire? || Maggior è la mia pena | E passa ogn’aspra sorte, | Che mai punto raffrena | Ma cresce ogn’hor piú forte; | lo vivo, et ogni dí provo la morte, || Dunque è maggior martire | Chi vive in doglia, et mai non può morire». La xilografia del Doni, col titolo cambiato in tutti i modi (ad esempio, divenuto Sibylla Albunea) fu ripresa in tutta una serie di stampe veneziane, e quindi divenne molto nota ed esercitò una grandissima influenza in Italia (cfr. anche oltre, pp. 363 sgg.). Una serie di quarantadue Emblemata, tradizionalmente attribuita a Comelis Massys, comprendeva anch’essa una copia rovesciata della xilografia del Doni; il titolo è Melancholia, la didascalia: «Hanc: caveas, moneo, si alacrem vis ducere vitam». Gli altri pezzi della serie trattavano temi come Pertinacia, Punitio, Dolor, ecc. L’inclusione della figura del Doni nella serie spiega perché la xilografia italiana abbia esercitato un’influenza anche sull’arte olandese successiva. Ad esempio, una serie dei temperamenti incisa da Cornelis Bloemaert su disegno di Abraham Bloemaert, comprende una Melanconia che, benché per molti rispetti discenda direttamente dall’incizione di Dürer deve la sua posa, un gentile Kontrapost, e il suo carattere elegiaco senza possibilità di equivoci al Doni. Lo stesso si può dire della Dialettica nella famosa allegoria di Torino delle Arti liberali che sonnecchiano mentre c’è la guerra di Frans Floris. Per la Geometria di J. Boeckhorst, cfr. p. 308, nota 2. 38 Cfr. pp. 271 sgg., 280. 39 Non è un caso che la Malinconia del Ripa (fig. 5), di cui già si è parlato (pp. 214 sgg.), somigli al tipo generalmente accettato della Melanconia meno delle sue personificazioni dell’Accidia e della Meditazione, e si comprende assai bene che il testo non faccia riferimento all’incisione di Dürer. È quindi tanto piú significativo che l’edizione fiamminga corregga l’omissione (Amsterdarn 1644, p. 500). Per una rappresentazione di Abraham Janssens, che, seguendo il Ripa, contrapponeva la Malinconia all’Allegrezza, cfr. pp. 214-15 di questo libro, Einaudi, Torino 1983. 40 Il Ripa ne fece una personificazione particolare descrivendola come «donna scapigliata, con vesti lugubre, appoggiata col braccio à qualche sepoltura, tenendo ambi l’occhi fissi in una testa di morto ...» Come esempi anteriori di questo genere ci limitiamo a ricordare il gio-

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia vane che medita su un teschio del Campagnola (hartlaub, Geheimnis, tav. 24) e la bella acquaforte della Vanitas (B15) del Parmigianino. 41 Cfr. w. weisbach, in «Die Antike», vi, 1930, pp. 127 sgg. 42 Significativo per questo rispetto è il frontespizio della serie dei pianeti di Marten de Vos, 1581. Qui il Phlegma figura come Diana, il Sanguis come Venere, e la Cholera come Minerva armata; la Melancholia invece come una monaca con un cartiglio, in atto di ammonire. Il frontespizio inciso delle Tables anatomiques di J. Guillemeau, Paris 1586, è derivato da questo, però qui la Melancholia torna ad essere seduta, con la testa appoggiata alla mano. Anche nella serie vera e propria l’elemento religioso prende un posto preminente; i sette pianeti’e le sette età dell’uomo sono messi in rapporto con le sette opere di misericordia, e l’anziano saturnino viene spinto a pentirsi dalla Conscientia che gli indica il cielo. Milton e molti suoi successori si rivolgono alla Melanconia come a una «monaca pensosa, devota e pura». 43 Copie al Louvre, all’Accademia di Venezia e al Ferdinandeuin di Innsbruck. Non vediamo elementi per mettere in dubbio, come fa il Wölfflin, il rapporto tra Feti e Dürer, solo che si tenga conto della vasta circolazione dell’incisione düreriana e della presenza di tanti attributi simili (cane, compasso, sfera, squadra, clessidra, pialla); ma naturalmente anche il Feti deve avere avuto familiare il tipo piú sentimentale del Doni. Gli oggetti che mancano nell’incisione düreriana (modello da scultore ed astrolabio) si hanno, ad esempio, in un’acquaforte della Vanitas di Jacob Matham, la quale, come tante rappresentazioni olandesi di questo tipo (cfr. h. wichmann, Leonaert Bramer, Leipzig 1923, pp. 45 sgg.), rinunzia del tutto alle figure umane e si contenta di contrapporre i simboli delle arti e delle scienze secolari a una natura morta religiosa composta di teschio, bibbia, crocifisso e rosario. 44 Cfr. la Maddalena dello stesso Feti riprodotta in r. oldembourg, Domenico Feti, Roma 1921, tav. xii. Una rappresentazione simile della Vanitas, però questa volta di nuovo alata, si trova riprodotta in «Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen des allerhöchsten Kaiserhauses» vol. xxvi, 1906-907, tav. xii. Nel corso del Seicento questi due tipi si confusero talmente che in molti casi (ad esempio, nel disegno di Chaperon), sia il titolo di Melanconia che quello di Vanitas sarebbero parimenti giustificati. 45 E in effetti la copia di Parigi dell’opera del Feti fu catalogata come una Maddalena nel Seicento, e solo nel Settecento (quando forse fu riconosciuto il suo legame con Dürer) fu dato ad essa il nome di Melancholie. (Cfr. m. endres-soltmann, Domenico Fetti, tesi, München 1914, pp. 28 sgg.). 46 Vogliamo qui rinnovare i nostri sinceri ringraziamenti a Ludwig Münz, che ha attirato la nostra attenzione su questa acquaforte (B22) del Castiglione. Nell’occasione possiamo anche ricordare un’altra

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia acquaforte della Melanconia (B26, un rettangolo orizzontale) opera dello stesso artista. 47 Per l’interpretazione delle rovine si vedano, ad esempio, c. hussey, The Picturesque. Studies in a Point of View, London and New York 1927; k. clark, Landscape into Art, London 1949. 48 È stato j. hess (Agostino Tassi, München 1935, p. 22) a indicare il rapporto tra la Notte del Guercino e l’incisione di Dürer. Si deve però sottolineare che la composizione del Guercino presuppone non solo l’originale di Dürer ma anche le sue modificazioni in senso sentimentale alla maniera della xilografia del Doni, e in realtà, per quanto riguarda la concezione generale, soprattutto quest’ultima. 49 Louvre, Inv. nn. 25196 e 25198. Cfr. l’acquaforte della Vanitas di J. H. Schönfeldt, 1654 (riprodotta in w. drost, Barockmalerei in den germanischen Ländern, Wildpark-Potsdam 1926, tav. xv) che iconograficamente differisce dai disegni di Chaperon solo nel fatto che la figura principale è maschile e che c’è l’insistenza tipicamente tedesca sull’idea della morte. 50 Cfr. p. 224 di questo libro, Einaudi, Torino 1983. 51 «Say in what deep-sequester’d vale, | Thy head upon thy hand reclin’d | Sitt’st thou to watch the last faint gleams of light» (John Whitehouse, cit. in e. m. sickels, The Gloomy Egoist, New York 1932). 52 Louvre, Catal. n. 450. La figura è identica a una delle ploranti della Morte della moglie di Dario del museo di Nantes. Delle rappresentazioni della Melanconia create dal cosiddetto classicisme de milieu, che andò di moda intorno al 1760, possiamo ricordare la Douce Mélancholie di Joseph-Marie Vien (incisa da Beauvarlet), impersonata da una giovane donna pensierosa in una stanza riccamente decorata, e una Mélancholie del suo discepolo François-André Vincent, datata 1801, che, secondo il Nagler, rappresenta «una meravigliosa figura femminile sotto cipressi». 53 «With Eyes up-rais’d, as one inapir’d, | Pale Melancholy sat retird». Cfr. p. 223. 54 Cfr. i ritratti di Reynolds studiati e riprodotti da e. wind, Humanitätsidee und heroisiertes Porträt in der englischen Kultur des 18. Jahrhunderts, in «Vorträge der Bibliothek Warburg», ix, 1930-31, pp. 156 sgg. Il ritratto di Lady Macdonald, su cui Wind ha gentilmente attirato la nostra attenzione, si trova riprodotto in v. manners e g. g. williamson, Angelica Kauffmann, London I924, p. 97; cfr. anche ursula hoff, Rembrandt und England, tesi, Haniburg 1935. 55 «Jhe lenger jhe lieber ich bin allein, | denn treu und wahrheit ist worden klein». Acquarello nello Städelsches Kunstinstitut, Frankfurt; cfr. p. weber, Beiträge zu Dürers Weltanschauung; eine Studie über die drei Stiche, Ritter Tod und Teufel, Melancholie und Hieronymus im Gehäus, Strassburg 1900, p. 82. Questa immagine naturalmente non

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia si può utilizzare per l’interpretazione dell’incisione di Dürer, in quanto la ghirlanda sul capo della Melencolia I non è composta di caprifoglio (Teucrium). Cfr. pp. 304-5. 56 Disegno, Dresden 1801; xilografia tratta da esso dal fratello dell’artista, Christian, intorno al 1818; cfr. w. kurth, in «Amtliche Berichte aus den königlichen Kunstsammlungen», xxxvi, 1914-1915, pp. 229 sgg. La posa della figura somiglia moltissimo a quella della ben nota Sant’Elena di Londra di Paolo Veronese, il quale a sua volta ha largamente utilizzato l’incisione B460, in passato erroneamente attribuita a Marcantonio e forse derivata da una composizione del Parmigianino. Questa incisione, con qualche modifica nella parte superiore del corpo, è servita anche come modello per la Madonna di Barthel Beham, B8 (cfr. a. oberheide, Der Einfluss Marcantonio Raimondis auf die nordische Kunst des M. Jahrhunderts, tesi, Hamburg 1933, pp. 104, 113, tav. xli), che a sua volta è stata utilizzata nel disegno di Rembrandt H. d. G. 877. È quindi in errore j. l. a. a. m. van rijckevorsel, Rembrandt en de Traditie, Rotterdam, 1932, pp. 121 sgg., che, non avendo presente l’incisione falsamente attribuita a Marcantonio, ritiene che anche la Sant’Elena del Veronese derivi da Beham. Un disegno di Bartolomeo Passarotti della Collezione Mond, pubblicato da t. borenius e r. wittkower, Catalogue of the Collection of Drawings by the Old Masters, Formed by Sir Robert Mond, London 1937, p. 44, tav. 30, è anch’esso derivato da questa incisione. 57 Il disegno dell’Ecole des Beaux-Arts fu pubblicato come francese da p. lavallée in Les trésors des bibliothèques de France, vol. II, Paris 1929, p. 88, pur ammettendo che «sujet et style sont plutôt allemands que français». L’origine tedesca del disegno, però, è assicurata dalla scritta di mano dell’artista «Sametkäplin» che precisa ciò che ha in capo la figura maschile, mentre il titolo francese Un mélancolique spéculatif deve risalire a un possessore successivo del disegno. 58 Il segno V, che è il simbolo alchimistico della terra, chiaramente richiama i tre simboli corrispondenti (Z - fuoco, V - acqua, A - aria; cfr. g. carbonelli, Sulle fonti storiche della Chimica e dell’Alchimia in Italia, Roma 1925, p. 23). Un’ulteriore prova che fa parte di una sequenza di quattro si ha nella presenza dei tre segni zodiacali, per i quali, però, si veda la nota seguente. 59 Il terzo segno zodiacale per indicare l’inverno, il Capricorno, è stato sostituito dalla Vergine, ma questo può darsi sia dovuto semplicemente a un errore, a meno che, come nelle serie incise derivate da Heemskerck, di cui trattiamo alle pp. 371 sg., la combinazione dei segni zodiacali non sia intesa come comprensiva anche della patologia degli umori. 60 Cfr. pietro d’abano, Elementa magica, aggiunti all’Occulta philosophia di Agrippa (edizione di Lione, p. 561): «Habeat [sc. operans] vas fictile novum igne plenum».

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia pietro d’abano, Elementa magica, p. 560: «Deinde sumat hoc pentaculum [l’illustrazione è identica alla stella del disegno di Parigi] factum... in charta membrana hoedi». 62 Cfr. pierio valeriano, Ieroglifici, Venezia 1625, p. 256, con richiami a san Basilio ed Esichio di Gerusalemme. Il Ripa cita anche la civetta come simbolo di superstizione. 63 Cfr. ibid., pp. 342-43; la tela di ragno significa opera vana. 64 Cfr. panofsky, Hercules am Scheidewege cit., pp. 51 e 110. 65 L’incisione di Jacob I de Gheyn, riprodotta alla tav. 148, sembra suggerire questa possibilità. 66 Cfr. pierio valeriano, Ieroglifici cit., p. 104. Il porcospino significa i «Danni che si sentono per l’indugio», perché «questo animale quando la femina sente lo stimolo dei partorire, che il ventre le duole, differisce, et indugia à partorire quanto piú può; onde avviene, che il suo parto sempre piú crescendo, maggior dolore poi nel partorire le arreca». 67 Cfr. p. 309, fig. 2. 68 Cfr. ad esempio il mulino a vento nella raffigurazione del sanguigno «volubile», il castello in fiamme in quella del collerico «focoso», il paesaggio marino in quella del flemmatico «acquoso». 69 La quartina scritta sotto è una variante dei versi salernitani, però elimina tutte le buone qualità del melanconico. Lo stesso vale per un’altra sequenza dei temperamenti, incisa da J. Sadeler da disegni di Marten de Vos, in cui la Melanconia è rappresentata da una donna quasi nuda che si torce le mani, e da un uomo che si è addormentato in mezzo a una quantità di arnesi rotti. Anche in questo caso è chiara la relazione con le coppie di figure dei calendari. 70 Cfr. t. kerrich, A Catalogue of the Prints wich have been engraved alter M. Heemskerck, Cambridge 1829, p. 98. 71 Cfr. ibid., pp. 98 sgg. Bella Martens ci ha gentilmente segnalato questa serie. 72 I segni dello zodiaco sono quelli nei quali, secondo l’antica tradizione dei calendari, si deve trovare la luna se si vuole salassare con buon esito un melanconico, un sanguigno, ecc. «Quando Luna est in thauro, in virgine et in capricorno, tunc minutio valet melancholicis», leggiamo, ad esempio, in marcus reinhart, Horae B. V. Mariae, Kirchheim 1490 circa, cit. a p. 279, nota 18. 73 La stessa tendenza si può osservare nella xilografia di Hans Döring riprodotta alla tav. 112. 74 La metamorfosi rozzamente umoristica di una serie del genere, che a quanto sembra è avvenuta agli inizi del Seicento in Olanda, si può vedere in una litografia del 1845. Vi sono rappresentati gli effetti dell’ubriachezza sui quattro temperamenti. I vari caratteri sono accompagnati dai loro animali tradizionali, il sanguigno da un agnello, 61

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R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl - Saturno e la melanconia il collerico da un orso e il flemmatico da un maiale, tranne il melanconico cui è assegnata una scimmia perché quando è ubriaco gli si attribuisce la capacità di «inventare mille trucchi». 75 Cosí lo chiama la formula umoristica nel distico esplicativo. 76 «Atra, animaeque animique lues aterrima, bilis | Saepe premit vires ingenii et genii». Di fatto il Saturno di Jacob I de Gheyn è cosí strettamente legato come tema al Mélancolique spéculatif del disegno a penna di Parigi, che si potrebbe arrivare a immaginare che si fondino sullo stesso modello. Se mai un simile originale è esistito, la proposta avanzata che la botte del disegno a penna fosse una trasformazione di una sfera potrebbe avere qualche fondamento.

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