Rahner H Simboli Della Chiesa L Ecclesiologia Dei Padri

April 23, 2017 | Author: nis_octav7037 | Category: N/A
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Descripción: Simbolurile Bisericii în ecleziologia Părinţilor Bisericii...

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HUGO RAHNER è stato uno dei patrologi e degli storici della Chiesa più fecondi del secolo. Nato a Pfullendorf-Baden nel 1900 ed entrato nella Compagnia di Gesù nel 1919, compì gli studi filosofici e teologici a Valkenburg (Olanda) e a Innsbruck; nel 1931 si laureò in storia a Bonn e successivamente ottenne la libera docenza in patrologia, storia della Chiesa antica e storia dei dogmi. Dal 1937, tranne brevi intervalli, insegnò queste materie a Innsbruck. Al momento della morte, sopravvenuta nell'autunno del 1968, la sua bibliografia contava circa 750 titoli, in gran parte dedicati ai padri della Chiesa e a sant'Ignazio di Loyola.

H U G O RAHNER

SIMBOLI DELLA CHIESA L'ecclesiologia dei Padri

SAN PAOLO

Titolo originale dell'opera: Symbole der Kirche. Die Ekkksiologie der Väter Otto Müller Verlag, Salzburg 1964 Versione dal tedesco di Lucio Pusci e Alfonso Pompei

Prima edizione 1971 Seconda edizione reprint 1994

Imprimatur Sorae, die 3-X-1970 Blasius Musco, Ep.

EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 1995 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino

N O T A ALLA SECONDA EDIZIONE REPRINT

Nel procedere a questa nuova edizione abbiamo ben volentieri raccolto l'osservazione di un attento recensore della Civiltà Cattolica, il quale notava: «Il titolo originale del volume: Symbole der Kirche. Die Ekklesiologie der Väter, è stato inopportunamente rovesciato dai traduttori ο dagli editori, dandogli una portata diversa. Del resto biso­ gna dire che gli uni e gli altri hanno compiuto con molta coscienza la parte loro, così che il volume riuscirà una lettura gradevole e sommamente istruttiva per coloro che, volendo salire un poco più in alto nella conoscenza di certe verità della fede...» (A. Ferma, 1972, II, p. 291). Ora il titolo italiano traduce fedelmente il tedesco. Nessun'altra variazione è stata introdotta.

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Da quando S. Paolo (Ef 5,32) ha annunziato la rivelazione del mysterium magnum nei rapporti tra Cristo e la Chiesa, si può sempre rilevare nel corso della storia dei dogmi l'intonazione cristiana e la profondità di pensiero d'un qualsiasi sistema teologico dal modo in cui le singole tesi si connettono fra loro e con l'intero corpo dottrinale della Chiesa. C'è voluto molto tempo, dall' elaborazione teologica da parte dei Padri della Chiesa e dall'inizio dell'alta Scolastica fino allo schema ' De Ecclesia ' del Concilio Vaticano II, perché la teologia sistematica, rendendosi progressivamente più consapevole delle proprie funzioni, riconoscesse all' ecclesiologia il ruolo che le è congeniale tra la cristologia e la dottrina della grazia h Oggi dobbiamo prendere in esame la dommatica ecclesiale dei Padri, per confrontare con essa il nostro pensiero e i nostri discorsi sulla Chiesa. La teologia simbolica della Chiesa, proposta dai Padri, acquista ai nostri giorni un significato completamente nuovo, giacché, seguendo gli orientamenti del Concilio, i nostri sguardi sono oggi rivolti, pieni di speranza, alla Chiesa Orientale. La Chiesa esprime il suo pensiero 1 J. RANFT, Die Stellung der Lehre von der Kirche im dogmatischen System, Aschaffenburg 1927.

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teologico con parole nuove. Essa si palesa come ' sacramento originario 2. I rapporti della Chiesa con Cristo e la sua Croce 3, Chiesa e Parusìa 4, la riflessione sulla teologia del Simbolo5: tutto ciò va interpretato alla luce della teologia simbolica dei Padri, la cui ricchezza è stata finalmente riscoperta e apprezzata. J. Ranft ha così caratterizzato questa ecclesiologia patristica : « Il significato della dottrina sulla Chiesa in quanto sovrana unità della fede, attuata da una forza determinata, e in un certo senso stabile, particolarmente per quanto riguarda i rapporti fra la Chiesa e Cristo, illumina tutta la letteratura dei primi tempi»®. Per la teologia francese contemporanea, che segue il medesimo indirizzo, basti ricordare i nomi di Henri de Lubac, Yves Congar e Jean Daniélou. L'opera che presentiamo vuol essere un contributo alla riscoperta della dottrina patristica sulla Chiesa. Essa raccoglie i frutti d'una ricerca di quasi trent'anni ed è scritta secondo lo spirito del grande teologo della Chiesa Ireneo : « Si deve amare profondamente tutto ciò che appartiene alla Chiesa e bisogna comprendere bene la tradizione della verità » 7 . I singoli capitoli constano di proposizioni oggi difficilmente comprensibili, che, raccolte e presentate, inquadrate nel complesso della dottrina in base al tempo di 2

O. SEMMELROTH, Die Kirche als Ursakrament, Francoforte 1953. J. D A N I É L O U - H . VORGRIMLER, Sentire Ecdesiam, Friburgo i.B. 1963 (vers, ital., Ed. Paoline, R o m a 1964). 4 R. SCHNACKENBURG, Kirche und Parusie: Gott in Welt, Festgabe für Karl Rahner, vol. I, Friburgo i.B. 1964, pp. 551-578 (vers. ital. in Orizzonti attuali della teologia, Ed. Paoline, R o m a , I, 1966). 5 Κ. RAHNER, Zur Theologie des Symbols : Schriften zur Theologie, vol. IV, Einsiedeln 1962, 3 ed., pp. 275-311 (vers. ital. in Saggi sui sacramenti e sulla escatologia, Ed. Paoline, R o m a , 2 ed., 1969). 6 Op. cit., p. 29s. ' Adversus haereses 3,4,1. 8

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composizione e al contenuto, formano una completa teologia simbolica della Chiesa. Sulle orme del mio Maestro Franz Joseph Dölger, si parlerà dei rapporti fra i simboli paleocristiani della Chiesa e l'antichità ellenistica, sì da poter meglio comprendere la dommatica dei Padri nel suo significato genuinamente cristiano. Due vie conducono, com'è noto, a questo traguardo. Si può esporre in forma monografica l'ecclesiologia dei singoli Padri, come è stato fatto per Ippolito, Ireneo, Origene, Agostino, tanto per menzionarne alcuni. Ma per la storia dei dogmi è certamente più indicata l'altra via, benché molto più ardua : sviluppare, cioè, la dottrina sulla Chiesa percorrendo tutta intera la teologia dei Padri, a cominciare da Paolo e dal martire Ignazio fino all'evoluta ecclesiologia p. es. di Beda ο alla teologia simbolica del secolo XII. In questo libro abbiamo voluto percorrere anche noi questa via. In tal modo pos­ siamo più facilmente seguire l'evolversi della storia dei dogmi, il fiorire e lo spegnersi della comprensione del significato soteriologico della Chiesa. Non si deve tuttavia eludere con questo metodo l'incrociarsi qua e là di immagini e di parole, che, anzi, ci consente di toccare con mano, pur nel mondo dei simboli e delle immagini, la verità dommatica del ' grande mistero ' del rapporto fra Cristo e la Chiesa. Descrivendo questa teologia simbolica delle origini, portiamo un contributo anche a quella esegesi pneumatica che si cerca oggi di riscoprire, e quindi a quella interpretazione della Scrittura da parte dei Padri e del primo medioevo, che non aveva la pretesa di essere un'esegesi nel senso moderno della parola, ma solo una dommatica espressa attraverso le immagini bibliche. Noi tenteremo di presentare quest'antica teologia cristiana sul rapporto tra la Chiesa e Cristo e la sua Croce in quattro

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immagini fondamentali: la Chiesa come grembo materno per la vita terrena di Cristo ; la Chiesa come Vergine posta sopra la Luna in rapporto sponsale col Sole, Cristo; la Chiesa, sorgente dell'acqua viva, che sgorga dalla ferita del costato di Cristo; e infine la Chiesa come Nave della salvezza, che in virtù della Croce ha iniziato il suo viaggio verso l'estremo approdo. Laddove i Padri hanno sviluppato dietro il velo delle immagini la loro teologia, noi troviamo una tal ricchezza di simboli e di verità espresse attraverso i simboli, che potrebbero forse rendere ancor più vive le nostre odierne proposizioni dommatiche sull'apologetica e il diritto ecclesiastico. Il complesso dei simboli della Chiesa, che la teologia del primo millennio ci ha conservato, potrebbe rinnovare completamente il nostro pensiero teologico intorno alla Chiesa, che per lungo tempo è stato piuttosto sterile. Già nel secondo secolo Ireneo aveva paventato un tal pericolo d'essiccazione della nostra teologia sulla Chiesa ed aveva scritto al riguardo delle parole che noi assumiamo in questa prefazione come motto dell'intero libro : « Ov'è lo Spirito di Dio, là è anche la Chiesa ed ogni grazia. Ma chi non accoglie lo Spirito della verità, non riceve nemmeno l'acqua limpida che scaturisce dall'amore di Cristo » 8 . Il ' grande mistero ' esistente tra la Chiesa e Cristo è, infondo, il mistero trinitario, che cela nel suo seno ogni altro mistero della divina rivelazione. Anche la relazione che intercorre fra il Padre eterno e la Chiesa, tra il Verbo crocifisso e la Chiesa, tra lo Spirito della glorificazione, che promana dalla Croce, e la Chiesa, possiamo esprimerla felicemente con le parole di Ireneo, in cui si può ritrovare tutto ciò che noi intendiamo raccogliere in un complesso di simboli. Il testo di Ireneo e ancor • Adv. haer. 3,24,1.

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più apprezzabile, perché risale al periodo in cui sia nella teologia sia nella predicazione il mistero della Chiesa era inteso con la stessa sensibilità dei primissimi tempi della Chiesa : « Un solo Dio è il Padre, che è al di sopra di tutto, la ragione di tutto, e in tutto. Il Padre è al di sopra di tutto, ed è anche il capo di Cristo. La ragione di tutto è il Verbo, e questi è il capo della Chiesa. E in tutti noi è lo Spirito, quell'acqua viva che il Signore concede a quanti sinceramente credono in Lui e lo amano » 9. HUGO RAHNER, SJ.

* Adv. haer. 5,18,2.

LA NASCITA DI DIO LA DOTTRINA DEI PADRI DELLA CHIESA SULLA NASCITA DI CRISTO DAL CUORE DELLA CHIESA E DEI CREDENTI

INTRODUZIONE

Lo studio col quale iniziamo l'esposizione dell'ecclesiologia dei Padri è stato scritto da circa trent'anni (1935). da quando, cioè, cominciò l'edizione critica delle opere di Eckhart, nella cui mistica dottrina si attribuisce palesemente un ruolo importante alla nascita di Dio nel cuore dell'uomo in grazia. Pubblichiamo ora questa ricerca, anzitutto perché la figura teologica della nascita di Dio non solo reca un valido contributo all'esatta conoscenza della dottrina patristica sulla grazia, ma soprattutto perché appare decisamente fondamentale per tutta l'ecclesiologia dei Padri della Chiesa. Così noi veniamo a toccare una questione teologica che oggi si ripropone con tanta insistenza: in qual modo i ' molti ' - per usare le parole di Origene - costituiscono l'unico corpo della Chiesa? Quale rapporto sussiste fra l'anima singola - Origene la chiama volentieri anima ecclesiastica - e la Chiesa? Ci riferiamo a quel fatto meraviglioso che Metodio ha definito come « l'accedere alla Chiesa di ciò che nel battesimo è rinato ». Noi potremo dimostrare che si tratta d'una vecchia tesi della Chiesa primitiva sulla grazia. Fin dai primordi della teologia patristica ci si è orientati verso questa theologia coràis. Possiamo riassumere così la dot-

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trina della santificazione dell'uomo ad opera della grazia che porta il cuore fino a Cristo: la speciale inabitazione di Cristo, compiuta attraverso la grazia, nel cuore dei credenti, che dal battesimo sono stati uniti nella Chiesa come in un sol corpo, è una misteriosa riproduzione e continuazione della nascita eterna del Logos dal Padre e della nascita temporale dalla Vergine. Per la grazia battesimale Cristo vien generato nei nostri cuori dalla Chiesa e con lo sviluppo della vita nella grazia si compie sempre più pienamente questa nascita di Dio. Questa dottrina è in stretto rapporto con la concezione della Chiesa come Vergine-Madre e mediatrice di salvezza nella nuova creazione, che tramite la grazia battesimale assimila l'uomo a Cristo. La dottrina della nascita di Cristo dalla Chiesa e dal cuore dei credenti insegna, però, che il principio della meravigliosa unità in Cristo non è precisamente il fatto che i singoli uomini in grazia siano membra del Corpo di Cristo, ma bensì Cristo stesso, che è unico e identico in tutti e che tutti raccoglie nell'unità del suo Corpo, che è la Chiesa. Nella descrizione della Donna dell'Apocalisse, Metodio da Filippi scrive : « La partoriente, che genera il Logos virile nel cuore dei credenti, è la nostra Madre, la Chiesa » 1. La teologia della nascita di Cristo dalla Chiesa culmina nella dichiarazione quasi dialettica, secondo la quale la Chiesa, appunto perché genera il Corpo mistico di Cristo, genera se stessa. In questo senso già si esprimeva Ippolito Romano: «Il Verbo è generato dai Santi; generando incessantemente ι Santi, il Verbo viene a sua volta generato 1

Symp. 8, n (GCS Methodius, p. 93, 9s).

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dai Santi ». E, sul finire della teologia patristica, Beda scrive l'espressione più significativa circa l'ecclesioiogia dell'antichità cristiana, riunendo insieme, nel suo commento al dodicesimo capitolo dell'Apocalisse, gli elementi essenziali dell'evoluzione storica di questo concetto : « Benché il serpente le sia avverso, la Chiesa genera eternamente Cristo; infatti la Chiesa genera quotidianamente se stessa in quanto Chiesa, che in Cristo assoggetta a sé tutto il mondo » 2 . La descrizione dello sviluppo storico di questa theologia cordis dei Padri, che fa del cuore dei credenti e del grembo materno della Chiesa il teatro della nascita di Dio, esige ora alcune premesse. Erede dell'antica psicologia, la teologia dei Padri della Chiesa fa sua la convinzione che il cuore è donatore di vita; e s'accorda perfettamente con le credenze popolari, che il linguaggio della S. Scrittura porta a nostra conoscenza. Il cuore è il centro propulsore della vita dell'uomo. Perciò esso vien formato nell'atto stesso della concezione, essendo la fonte del calore, della vita, e dell'intelligenza : « Conceptum igitur - dice Lattanzio Varrò et Aristoteles sic fieri arbitrantur ... et primum quidem cor hominis efHngi quod in eo sit et vita o m nis et sapientia » 3. Il cuore è la ' sede della sapienza ', ' IPPOLITO, In Dan. 1,10, 8 (GCS Hippolyt I, i, p. 17, iós). Cfr.

A. HAMEL, Kirche bei Hippolyt von Rom, Gütersloh 1951, p. 56s. Il testo di BEDA in Explanatio Apocalypsis, 2,12: PL 93, 166 D: « Semper Ecclesia, dracone licet adversante, Christum parit. Nam et Ecclesia quotidie gignit Ecclesiam, mundum in Christo regentem ». 3 De opificio Dei 12, 6 (CSEL 27, p. 44, ioss). Cfr. op. cit. 10, 11 (p. 34, 17): «Cor quod sapientiae domicilium videtur»; 10, 26 (p. 38, 8): «Pectus plenum rationis a caelo datae». Cfr. anche GREGORIO NISSENO (PG 44, 828 A; 159 A): πηγήν τίνα τοϋ έν ήμίν θερμοϋ τήν καρδίαν φασίν.

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(ΙεΙΓήγεμονικόν, come già affermava Filone 4 , e dopo di lui Origene : « Cor in quo est mens et principale intellectus » 5 . Ambrogio, accettando fedelmente questa idea, considera il cuore ' recessus sapientiae ', l'oasi misteriosa in cui la sapienza si rifugia 6. La contrastata questione dell'antica psicologia sulla sede della sapienza - se sia il cervello ο il cuore - è dibattuta vivacemente anche dai Padri della Chiesa, che s'adattano al m o d o d'esprimersi della S. Scrittura. Così scrive Girolamo: « Sensus in corde est, habitaculum cordis in pectore, quaeritur ubi sit animae principale: Plato in cerebro, Christus monstrat esse in corde » 7 . Grazie a questo fondamento psicologico, il cuore diventa in genere il simbolo dell'intimità, del misterioso segreto nascosto nell'uomo, dell' 'uomo interiore', e prima di tutto della sua sapienza, dei suoi più segreti pensieri e desideri, della vita interiore 8 . Era tuttavia 4 De spec. leg. ι, 214 (Cohn V, p. 52, 6.13.23. Cfr. anche V, p. 51, 2 2 ) : ο ί κ ο ς τ ο έτερον τ ω ν λ ε χ θ έ ν τ ω ν ε σ τ ί ν ε γ κ έ φ α λ ο ς ή κ α ρ δ ί α . 5 Lommatzsch XII, ρ. 165. 6 De paradiso 15, 74 (CSEL 32, ι, p. 333. 3 θ ·

' Epist. 64,

ι

(CSEL 54, p.

587 8ss).

Cfr.

GREGORIO N I S S E N O ,

De hominis opificio e. 12 (PG 44, 156 C D ) ; LATTANZIO, De opificio Dei e. 16 (CSEL 27, p. 5iss). 8 Cfr. CLEMENTE AL., Strom. 5, I, 12 (GCS Clemens II, p . 334, 7s): καρδία γαρ ή ψυχή άλληγορεϊται ή την ζωήν χορηγήσασα. ORIGENES, Sel. in Psalm. (PG 12, 1216 A). Altri testi di Origene, in cui vien proposto lo stesso parallelismo tra ή γ ε μ ο ν ι κ ό ν e κ α ρ δ ί α , cfr. in K. RAHNER, Coeur de Jesus chez Origene ? in Revue d'Ascétique et de Mystique 15 (1934) 171SS. - GIROLAMO, In Ieremiam (PL 24, 709 C) : « Cor autem in Scripturis sanctis pro sensu et anima debemus accipere ». Cfr. anche CASSIODORO, In Ps. 103, 15 (PL 70, 733 C ) . Il cuore come sede degli intimi desideri: CIPRIANO, De lapsis e. 27 (CSEL 3, 1, p. 257, i6ss). Il cuore come simbolo dell'uomo interiore: G R E GORIO NISSENO (PG 46, 397 A) : ó ε σ ω ά ν θ ρ ω π ο ς κ α τ ά το κ ρ υ π τ ό μ ε ν ο ν τ η ς κ α ρ δ ί α ς νοούμενος. Il cuore come simbolo delT-rjγ ε μ ο ν ι κ ό ν : GREGORIO N I S S E N O

(PG 44,

937D;PG87/2,

1649 D ) .

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naturale - proprio per le suaccennate antiche credenze sull'origine del cuore - che anche il sorgere dei λόγοι, dei pensieri e dei desideri venisse descritto come una nascita dal cuore; un concetto, questo, il cui significato è fondamentale non solo per i primi tentativi di speculazione psicologica sulla Trinità 9 , ma anche per la dottrina sulla nascita del Logos dal cuore, che è l'oggetto di questo studio. Il cuore è quel luogo segretissimo, ove si genera in noi la sapienza, nasce in noi per spirituale generazione il λόγος, il conceptus, come plastica­ 10 mente lo esprime la lingua latina . La dottrina del verhum cordis, che già in Agostino occupa un posto di rilievo u e che nella versione di Agostino è giunta • Cfr. M. SCHMAUS, Die psychologische Trinitätslehre des hl. Augustinus, Münster 1927, p. 22ss. 10 FILONE, De fuga et inventione 52 (Cohn III, p. 121, 17): (σοφίαν) τ ο ϋ -9-εοΰ ... γ ε ν ν ώ ν τ α έν ψ υ χ α ΐ ς . - De congressu erud. grat. 4 (Cohn III, ρ. 73, 5). - PLINIO, nat. hist. 11, 138 (Mayhoff II, 328, ls): « In corde nascitur superbia ... ». - MACROBIO, Salumai. 1, 18: « Conceptu mentis Consilia nascuntur ». - GIUSTINO, Dial. e. Tryph. 61, 8 (Otto, p. 214, 3ss): λ ό γ ο ν γ ά ρ τ ί ν α π ρ ο β ά λ λ ο ν τ ε ς λ ό γ ο ν γ ε ν ν ώ μεν. - D I O N I G I ALESS. (Feltoe, The letters and other remains of Dionysius of Alexandria, Cambridge 1904, p. 190): α π ό ρ ρ ο ι α γ α ρ νοϋ λ ό γ ο ς κ α ι ... ά π ο κ α ρ δ ί α ς δ ι α σ τ ό μ α τ ο ς έ ξ ο χ ε τ ε ύ ε τ α ι . - GREGORIO Ν Α Ζ . , Or. theo). 4 (PG 36. 129 A). - BASILIO, Homil. 16, 3 (PG 31, 477 B C ) . - Ps. GREGORIO NISSENO, Orat. in Faciamus hominem (PG 44, 1333 D ) : γ ε ν ν ά τ α ι γ α ρ ό λ ό γ ο ς έν τη κ α ρ δ ί α γέννησίν τ ί ν α ά κ α τ ά λ η π τ ο ν . - CIRILLO ALESS., De Trinitate dial. 2 (PG 75, 772 A B ) ; Thesaurus, assertio 4 (PG 75, 56 AB). - M A R I O VITTORINO, Comm. in ep. ad Eph. (PL 8, 1236 C ) : « Quasi partu quodam mentis cogitatione prorumpit velie concept u m » ; De generatione Verbi 26 (PL 8, 1033 Β). - È importante citare qui un testo di AMBROGIO, poiché esso è in stretto rapporto con l'idea, più tardi sviluppata, della nascita di D i o : De Cain et Abel 1, i o , 47 (CSEL 32, 1, p. 377, 4ss): «Est quaedam virtus animae quae velut quodam vulvae gemtalis secreto cogitationum nostrarum suscipere semina conceptus fovere partusque solet edere ». 11 Cfr. M. SCHMAUS, op. cit., p. 33iss. - Se ne può avere un esempio in Serm. 119, 7 (PL 38, 675) od anche in Semi. 120, 3 (PL 38, 677).

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fino al periodo classico della Scolastica12, ha la sua fonte nella speculazione greca intorno al Logos, e questa a sua volta nell'antica dottrina di cui abbiamo parlato, secondo la quale il cuore è il luogo di nascita del Logos umano. Per questi motivi diviene già comprensibile l'interpretazione assai antica della rivelata 13 inabitazione di Cristo nel cuore del credente, in senso fortemente realistico, come il ' venir generato ' dell'eterno Logos. Più avanti vedremo che l'immagine tanto cara ai primi cristiani, il « portare Cristo nel cuore » u , ha condotto direttamente alla dottrina che stiamo esaminando. Ma a quest'ultima formulazione si giunse attraverso un 12 Cfr. TOMMASO, S. Theol. I, q. 27, a. 1 e; q. 34, a. 1 e. Intorno a questa dottrina sul verbum cordis in Tommaso cfr. DENIFLE, Archiv f. Lit. u. Kirchengesch. d. Mittelalters 2 (1886) 574 nota 1. 13 Cfr. Ef. 3,17: κατοικήσαι τον Χριστον δια της πίστεως έν ταΐς καρδίαις υμών. - Gal. 2,20; Giov 14, 23; Didachè 10,1 (Funk-Bihlm., p. 6, 12s): 0¾ κατεσκήνωσας έν ταΐς καρδίαις υμών. Lettera di Barnaba 16, 8 (Funk-Bihlm., p. 30, 23s): πάλιν έξ άσχής κτιζόμενοι. διό έν τω κατοικητηρίω ημών αληθώς ό θεός κατοικεί έν ήμϊν. IGNAZIO, Ad Magri. 12 (Funk-Bihlm., p. 92, 2): Ίησοϋν γαρ Χριστον έχετε έν έαυτοϊς. Atti di Apol­ lonio (Anakcta Boll. 14 (1895) 291): Βλεπούσης γαρ καρδίας εστίν ό Λόγος τοϋ Κυρίου. Odi di Salomone (Rendei Harris, Cambridge 1909, p. 129) : « Ai Beati la gioia viene dal loro cuore, e la luce da colui che vive in essi ». 14 Questo più significativo linguaggio si trova già in IGNAZIO, Ad Ephes. 9, 2 (Funk-Bihlm. p. 85, 15): Χριστοφόροι. Più tardi s'interpretò in questo senso anche il nome di Ignazio, θεοφόρος, come dice il Martyrium Colbertinum (Funk Π, 1901, p. 278, 12: θεο­ φόρος ... ό Χριστον έχων εν στέρνοις. Cfr. anche CLEMENTE ALESS., Strom. 7, 13, 82 (GCS Clemens 3, p. 58, 25s): θειος άρα ό γνωστικός και ήδη άγιος θεοφορών και θεοφορούμενος. Cfr. anche CLEMENTE, EXC. ex Theod. 27, 6 (GCS III, ρ. ιι6, isss): το θεοφόρον γίνεσθαι τον άνθρωπον προσεχώς ενεργουμενον ύπο τοϋ Κυρίου καΐ καθάπερ σώμα αύτοϋ γινόμενον. Simil­ mente Strom. 4, 12, 104 (GCS III, p. 484, 19). - Ciò è assai chiaro in IRENEO, come si dirà più oltre.

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particolare sviluppo d'idee, cui dobbiamo ora necessariamente accennare. Nell'incipiente speculazione sulla Trinità si considerò il concetto della nascita dei λόγοι dal cuore come uno psicologico vestigium Trinitatis, raffigurante l'origine eterna del Logos dal Padre. Si tratta d'un'idea primitiva, che fu poi seguita fino agli inizi della teologia speculativa: l'eterno Padre genera dal suo cuore il Logos. S'applicano a questa dottrina le parole del Salmo 44: έξηρεύξατο ή καρδία μου λόγοι αγαθόν. Ciò si può constatare già in Giustino e Teofilo d'Antiochia 15 . Anche Tertulliano afferma che il Logos vien generato dal cuore del Padre : « Quasi de vulva cordis ipsius, secundum quod et Pater ipse testatur : eructavit cor meum verbum bonum » 16. In questo senso si esprimono anche Ippolito, Dionigi Alessandrino, e Metodio 17. Quanto poi si fosse divulgata quest'idea, lo dimostra chiaramente la protesta di Origene contro i ' molti ' che, per la parentela con la dottrina gnostica dell'emanazione, sostenevano una tanto pericolosa interpretazione18. La tesi, però, in stretta connessione col testo classico addotto per la 15 GIUSTINO, Dial. e. Tryph. 38, 6, 7 (Otto II, p. 130). - TEOFILO ANTIOCHENO, ad Auto!. 2, 10, 6 (Otto Vili, p. 78s) : έν τοις 'ιδίοις σπλάγχνοις έγέννησεν αυτόν μετά της έαυτοϋ σοφίας έξερευξάμενος. Cfr. ibid. 2, 22, 8 (Otto VIII, p. 118): λόγον ένδιά•9-ετον έν καρδία θεοϋ. 16

TERTULLIANO, Adv. Praxeam c. 7 (PL 2,161 C); e. 11

(PL 2,

166 Β). Cfr. anche CIPRIANO, Test. 2, 3 (CSEL 3, p. 64, 17). 17 IPPOLITO, in Cani. Cantic. 17, 1: «Il Logos, che il Padre genera dal cuore» (GCS Hippolyt I, 1, p. 358, 18); Antichr. 26 (GCS Hippolyt I, 2, ρ. 18, 21): Λόγος έκ καρδίας πατρός προ πάντων γεγεννημένος. - DIONIGI ALESS. (in Atanasio, De sent. Dionysii 23: PG 25, 481 A), ed. Feltoe, p. 196s. - METODIO, De sanguisuga 1, 4 (GCS Methodius, p. 478, 8). 18 In Ioann. I, 24; 1, 38 (GCS Origenes IV, p. 29, 22ss; p. 49, 20ss). Cfr. anche Select, in Psalm. (PG 14, 1427 C).

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generazione del Verbo, si rifugiava nel Salmo 109,3 : εκ γαστρός προ εωσφόρου έγέννησά σε. Nel medesimo tempo in cui i due testi erano ritenuti convergenti nella direzione delle suaccennate teorie, si parlava con molta facilità anche dell' utérus cordis19. Nella speculazione antiariana sulla generazione del Logos, questa antica esegesi acquista un nuovo significato. Così Ambrogio lo riassume : « Ex utero generavit (Pater) ut filium, ex corde eructavit ut Verbum » 20 . Gregorio da Elvira: « Filium ... de utero cordis Dei credimus esse natum » 21 . E nell'Altercano Simonis et Theophili si legge: « Pater ex utero cordis sui genuit (Filium) » 22 . Ambrogio ha dato di questa nascita del Logos dal Padre una descrizione singolare, già preparata da Ippolito - ciò che avrà, come vedremo, un profondo influsso sulla storia della mistica. E la dottrina del ' Verbo saltante ' 23, che ' balza ' dal cuore del Padre e di qui nel cuore della Vergine e nel cuore del credente: 18 Cfr. ORIGENE, Comm. in Cant., prol. (Vili, p. 65, 24) : « Venter animae ». - LATTANZIO, De opificio hominis io, io (CSEL 27, p. 34, 17s) : « Cor duos intrinsecus sinus habet ». - AMBROGIO, De Noe 6, 14 (CSEL 32, 1, p. 423, lóss): «Duo uteri cordis». 20 De virginibus 3, 1, 3 (Florilegium patr. 31, p. 65, 5s: PL 16, 221 A). - Già ATANASIO rende così il testo: Ep. de decr. Nicaen. 21

(PG 25, 453 C). Prima di lui ALESSANDRO D'ALESSANDRIA in un de-

creto sinodale (PG 18, 576 A). E quest'uso rimase nella letteratura antiariana, insieme col parallelismo col Salmo 109,3, gii attuato da TEOFILO ALESS. - Cfr. 21

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GREGORIO NISSENO

(PG 45,

1281 A).

GREGORIO DA ELVIRA, De fide ortodoxa 2 (PL 20, 35 D).

Altercatio Simonis et Theophili (CSEL 45, p. 8, 14s). Cfr. ibid.,

p. io, n. 2. - Ps. - TEOPILO D'ANTIOCHIA, Comment, in Evangel. 4,

2 (Otto Vili, p. 318). 23 Cfr. IPPOLITO, in Cant. Cantic. (GCS Hippolyt 1, p. 347, I4ss). Cfr. N. BONWETSCH, Studien zu den Kommentaren Hippolyts zum Buch Daniel und Hohen Liede, Texte und Unters. N. F. I, 2, Lipsia 1897, p. 9s.

23

INTRODUZIONE

« Verbum de corde Patris saliens ... ergo et nunc salit et currit de corde Patris super sanctos suos » 2 4 . Da Ambrogio quest'antichissima tesi della teologia ippolitiana penetra, attraverso Gregorio Magno, nei commenti medievali al Cantico dei Cantici 25 . Dato che anche Agostino fa propria l'esegesi del Salmo 44,2 26 , e che il concetto della nascita del Logos dal cuore paterno ha influenzato lo stesso linguaggio degli inni antiariani 2 7 , il primo medioevo 28 ha ereditato facilmente anche questa mistica e tanto benefica idea - e noi sappiamo bene quale significato ha avuto ciò per la formazione del pensiero e del linguaggio della m i -

24 Expos, in Ps. 118, Serm. 6, 6 (CSEL 62, p. 112, iss). Cfr. anche De Isaac vel anima 4, 31 (CSEL 32, 1, p. 661, ioss). 25

GREGORIO M., Homil. in Evangelia 29, io (PL 76, 1219 AB).

Cfr.

PATERIO

100,

646 D ) ;

STADT (?)

(PL

79,

907 Β ) ; B E D A

WALAFRIED (PL

117,

(PL

304 D ) .

113,

(PL 91, 1138D);

ONORIO

1225 D ) ;

ALCUINO

AIMONE

D'AUTUN

(PL

DI

(PL

HALBER­

172,

389 D;

390 Β). - Sui testi mistici del medioevo, che hanno subito l'influsso di questi Autori, cfr. R . SEEBERG, Zeitschrift für kirchl. Wissensch. und kirchl. Leben 1888, p. 102s; N. BONWETSCH, op. cit., p. 10. 28 Cfr. Enarr. in Ps. 44, 4 (PL 36, 4 9 6 ) . - P s . - AGOSTINO, Sermo ai Catechumenos (PL 40, 698 A). 27 Un Inno di ILARIO è intitolato : « Tu Dei de corde Verbum » (Blume, Analecta hymnica 51, p. 264). L'inno è entrato anche nei libri liturgici irlandesi: cfr. The Irish Liber Hymnorum (ed. Bernard and Atkinson, Henry Bradshaw Society 13, London 1898) I, p. 36. A ciò si riferisce anche l'Inno « Ab ore Verbum prolatum » : cfr. B L U ME, Analecta hymnica 51, p. 82; M. FÉROTIN, Le Liber Ordinum, Parigi 1904, p. 195. - Cfr. anche l'inno di P R U D E N Z I O : « C o r d e natus ex parentis ante mundi originem » (Blume, Analecta hymnica 50, p. 25). 28 Così ARNOBIO il Giovane (PL 53, 587 C ) . FULGENZIO DA R U S P E : « V e r b u m eructatum de corde Patris» (PL 65, 727 C ) ; SCOTO ERIUGENA, Homil. in Prolog. Joannis (PL 122, 287 Β ) ; ALDHELM: « Corde Patris genitum » (PL 89, 239 C ) . Cfr. anche l'opposizione contro questa esegesi in PIETRO LOMBARDO, Comment, in Psalm. 44 (PL 191, 438 D ) .

ι (PG 36. 3Γ3 Α): γυναίκες παρθενεύετε, ίνα Χριστού γένησδε μητέρες. - La teologia dei Cappadoci intro­ duce questo concetto della nascita del Logos-bambino nella dottrina, ardita ma ben articolata, della divinizzazione, della ' deificazione ' dell'uomo. La deiformità, concessa all'uomo originariamente, vien restituita nella nuova inabitazione di Cristo nel cuore. Cfr. GREGORIO NAZ., Or. 2, 22 (PG 35, 432 Β): το κατ'ε'ικόνα τηρησαι ... είσοικίσαι τε τόν Χριστον έν ταϊς καρδίαις δια τοϋ Πνεύματος καί το κεφάλαιον, -9-εον ποιησαι. La nascita del Logos-bam­ bino è anche secondo ANFILOCHIO D'ICONIO (cfr. Or. in Nat. Dom. (PG 39, 40 A): ώ παιδίον ουρανού παλαιότερον) la causa della nostra trasformazione in Dio: -σύμμορφος τοις δούλοις ό Δε­ σπότης γέγονεν ίνα οι δούλοι γένωνται σύμμορφοι πάλιν θεού. Ivi (PG 39, 41 A).

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commento al breve accenno della predica di Natale di Gregorio : « O g n i anima. diventi dunque nel suo intimo madre dì Cristo. Ma come potrà diventare madre di Cristo? Ogni anima reca in sé Cristo come in un seno materno. Se essa non si trasforma attraverso una vita santa, non può esser chiamata madre di Cristo. Mentre ogni volta che tu accogli in te la parola di Cristo e le dai forma nel tuo intimo, come in un seno materno, la trasformi in te con la riflessione, puoi allora esser chiamato madre sua. Così tu comprendi che in ciascuno di noi vieti formato Cristo, che le nostre anime, come dice Paolo (Gal 4, 19), possono diventare madre di Cristo, ossia madre della parola di Cristo. ' Tu eserciti la giustizia? Vedi, hai formato in te Cristo. Hai fatto un'elemosina? Vedi, tu hai riprodotto in te l'immagine della verità '» 9 . E assai rilevante in questo testo l'influsso dell'antica psicologia sulle parole del predicatore. Un giuoco continuo con la parola λόγος, comprensibile solo se si tengono presenti i testi che parlano della formazione dei λόγοι nel cuore. Anche qui ' insegnare ' diventa ' generare ', e il predicatore della divina parola è il formatore di Cristo, del Verbo, negli uditori. BASILIO 9 PS.-CHISOSTOMO, De caeco et Zachaeo 4 (PG 59, 605) : γενέσθ-ω τοίνυν πάσα ψυχή μήτηρ Χρίστου κατά διάθεσιν. Π ώ ς μήτηρ Χρίστου; πάσα ψυχή ώδίνει έν αύτη τον Χριστον. έάν δε μή μεταμορφωθή τη εύσεβεία, μήτηρ Χρίστου καλεϊσθαι ού δύναται, όταν λάβης λόγον Χριστού και πλάσης αυτόν έν τή διάνοια σου. καί ώσπερ έν μήτρα τφ λογισμώ μετα­ μόρφωσης, καλή μήτηρ αύτοϋ. καί ίνα μά-9-ης δτι έν έκάστω Χριστός μορφοϋται καί μήτηρ Χριστού γίνεται, λέγω δή του λόγου τοϋ Χριστού, έκαστου ημών ή ψυχή, λέγει Παύλος (Gal 4,19)· είργάσω δικαιοσύνην; έμόρφωσας έν τή ψυχή Χριστον. έπέδωκας έλεημοσύνην; έμόρφωσας τον χαρακτήρα της αληθείας.

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L'ECCLÉSIOLOGIA DEI PADRI

ha espresso molto bene questo concetto 10. E sempre di più, come è stato già notato, il testo di Gal 4,19 diventa il testo probatorio della teoria della nascita di Dio. E poiché i maestri dello spirito, i Padri, sono soltanto gli araldi dell'unica Maestra, la Chiesa, anche questa più recente teologia ritorna al pensiero già elaborato da Ippolito, secondo il quale la Chiesa, col suo insegnamento, con la ' parola della grazia ', genera Cristo nei credenti e li associa in qualità di membra all'unico Cristo mistico, restituendo loro attraverso la grazia battesimale la perduta conformazione originaria al Logos. Questa ecclesiologia è raccolta in tutta la sua ricchezza in una frase delle Costituzioni apostoliche. Ci troviamo così nell'ambiente teologico di Antiochia, donde proviene anche CRISOSTOMO, che ha espressioni tanto profonde sulla nostra ' identità di nascita ' n con Cristo : « La Chiesa è la figlia dell'Altissimo ed è in doglie per voi, mentre con la parola della grazia forma in voi Cristo, del quale diventate, unendovi a lui, membra sante e predestinate. Così 10 BASILIO, Hom. in Ps. 33 (PG 29, 369 AB): και γάρ τέκνον έστΙ πνευματικόν τοϋ διδασκάλου ό μαθητής, ό γαρ παρά τίνος τήν μόρφωσιν της ευσέβειας δεχόμενος ούτος οιονεί διαπλάττεται παρ' αύτοϋ καί είς σύστασιν άγεται ώσπερ καί ύπό της κυοφορούσης τα εν αύτη διαμορφούμενα βρέφη, όθεν καί. Παύλος ολην τήν έκκλησίαν τών Γαλατών, ...πάλιν άναλαμβάνων καί μορφών άνωθεν έν αύτοϊς τον Χριστον τέκνα έλεγε. 11 CRISOSTOMO, In ep. ad Galatas comm. 3 (PG 61, 656): τον υίον ϊ χ ω ν έν έαυτώ καί προς αυτόν αφομοιωθείς είς μίαν συγγένειαν καί μίαν ίδέαν ήχ&ης. Riferendosi a Mat 12,50, anche Crisostomo riproduce l'antica dottrina della maternità spirituale dell'anima: cfr. Homil. 45 in Matth. (PG 57, 466). Questo luogo è importante per il successivo sviluppo della dottrina, giacché divenne familiare al medioevo grazie alla Catena di S. Tommaso. Cfr. appresso, p. 108, nota 3.

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voi diventate perfetti nella fede (in virtù del battesimo), a immagine di colui che v'ha creati » 12 . È indicativo per la formazione di questa tesi nella teologia di CIRILLO ALESSANDRINO, che ora anche la dottrina dello Spirito Santo e della sua azione santifìcativa dell'uomo viene inserita in quella della nascita di Dio. In tal modo il ruolo del Logos, ancora preminente nella teologia prenicena, viene circoscritto, mentre la teoria del LogosSpirito 13, caratteristica della prima speculazione cristiana, è portata da Cirillo ad una formulazione classica: è lo Spirito Santo che compie in noi l'opera divina della santificazione, come fu il medesimo Spirito a formare, mediante l'adombrazione della Vergine Santa, il corpo del Verbo incarnato. Lo Spirito Santo modella i nostri cuori a immagine del Logos, forma in noi Cristo, restituisce all'anima la conformità col Logos, una volta perduta. Questa, in poche parole, è per Cirillo la dottrina della grazia. Le espressioni di Cirillo sono anche un commento a Gal 4,19. Infatti proprio da Cirillo il significato di μορφοϋσθκι e μορφή è portato fino alle estreme conseguenze teologiche. E tutto ciò in una prudente e ponderata forma domma18 Const. Apost. 2, 61, 5 (Funk I, Paderborn 1906, p. 177, 20ss): αΰτη (ή εκκλησία) γαρ θυγατήρ εστίν τοϋ ύψιστου ή ώδινήσασα ύμας δια τοϋ λόγου της χάριτος και μορφώσασα έν ύμϊν τον Χριστόν, οΰ μέτοχοι γενόμενοι Ιερά μέλη έστε καΐ εκλεκτά... έν πίστει τετελειωμένοι έστε έν αΰτω κατ' εικόνα τοϋ κτίσαντος ύμας. - Cfr. anche le anafore delle Costituzioni apostoliche 8, 12, 31 (Funk I, p. 50(5, 26s), in cui si espone il rap­ porto fra la nascita dalla Vergine e la ' conformazione ' originaria : και γέγονεν έν μήτρα παρθένου ό διαπλάσσων πάντας τους γεννωμένους. 13 Cfr. F. J. DÖLGER, Ichthys I, 2, Münster 1928, p. 74SS. Così pure quanto ha scritto, contro la ' Spirito-cristologia ' di FR. LOOFS, I. ORTIZ DE URBINA, Die Gottheit Christi bei Afrahat, Roma 1933, p. 8oss.

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tica, che la dottrina di Cirillo sulla formazione del Logos senza dubbio può essere considerata come l'apice della speculazione greca intorno alla grazia u. Nel presentare questa dottrina ci piace richiamare subito l'attenzione su uno dei capitoli più belli del Commentario di Cirillo al Vangelo di S. Giovanni 15 . Poiché lo Spirito Santo - così vi si legge - è Γόμοίωσις φυσική del Figlio, e questi είκών ακραιφνής του Πατρός, lo Spirito che Cristo ha inviato nei nostri cuori com­ pone in noi la forma divina della somiglianza col Figlio, fa di noi tutti, nella mistica unità del Corpo di Cristo, l'unico uomo celeste Gesù Cristo, l'unico celeste Adamo. La dottrina dell' « unico uomo celeste Gesù Cristo », conosciuta già da Ippolito, viene ora nuovamente introdotta nella teologia 16. Ciò che particolarmente ci interessa è questo: lo Spirito Santo produce in noi il principio della nuova vita di identità con Cristo, una vera generazione di Cristo nel cuore 17. Cirillo ha spiegato chiaramente nel suo commentario a Isaia la frase di Is 44,21 : και έπλασα σε παΐδά μου 1 8 : 14 Sulla dottrina della grazia di Cirillo, cfr. E. MERSCH, Le corps mystique du Christ, ν. I, Lovanio 1933. Ρ· 4 I 5ss: Saint Cyrille d'Ale­ xandrie, l'incarnation et le corps mystique. - J. MAHÉ, La sanctification d'après S. Cyrille d'Alexandrie in Revue d'histoire ecclésiastique 10 (1909) 30.469. 15 In Ioan. comm. 11, 11 (Pusey II, p. 729SS. Cfr. specialmente p. 731, 8ss). Cfr. l'identica dommatica classica in CIRILLO, De Tri' nitate dialogus 7 (PG 75, 1089 AB). 18 Per la documentazione, cfr. MERSCH, op. cit., p. 438SS, 441SS. 17 In Ioan. comm. 4, 2 (Pusey I, p. 520, iss) : δέδωκε τοιγαροϋν υπέρ της απάντων ζωής το ϊδιον σώμα ό Χριστός, ένοικίζει δέ πάλιν ήμΐν δι' αύτοϋ την ζωήν ... έξελαύνει γαρ τον θάνατον, όταν έν τοις άποθνήσκουσιν γένηται, καΐ εξίστησιν τήν φθοράν αφανίζονται Λόγον τελείως ώδϊνον έν έαυτω. 18 In Is. comm. 4, or. 2 (PG 70, 936 BC): πλάττεται γαρ έκα­ στος έν γαστρί της έαυτοϋ μητρός ... πλάττεται δέ καί ε'ις

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« Ognuno di noi viene formato nel seno di sua madre. Allo stesso modo ciascuno è costituito figlio di Dio, mentre viene spiritualmente trasformato, e la bellezza della virtù, la bellezza dello Spirito Santo, riveste le anime dei singoli uomini. Essi vengono così trasformati in Cristo per la partecipazione nello Spirito Santo alla bellezza modellata per prima su Cristo (Gal 4,19). Cristo è dunque formato in noi, in quanto lo Spirito Santo ci inserisce in un processo di formazione divina attraverso la santificazione e una vita retta. Così, proprio così, viene impresso nelle nostre anime il carattere della natura di Dio Padre: lo Spirito Santo, come ho già detto, santificandoci ci conforma a Cristo ». Nelle due idee di αγιασμός e δικαιοσύνη è riassunto quel che già prima risultava specialmente dalla teologia di Metodio, per influsso di Origene; cioè che la nascita di Dio è fondata veramente sulla ' santificazione ' battesimale, ma deve ripetersi incessantemente in una vita di ' rettitudine '. Cirillo lo dice espressamente: se uno perde la grazia santificante, deve ripetersi in lui il processo di trasformazione in Dio, affinché Cristo possa nuovamente vivere in lui 1 9 : παϊδα θεοΰ διαμορφούμενος νοητώς ... το έκ της τών αρετών εύκοσμίας ταϊς τ ώ ν ανθρώπων έπισυμβαίνον ψυχαίς. τοϋτο κάλλος άν νοιοϊτο το πνευματικόν, πλάττονται δε και οίον έν Χριστώ δια μετοχής τοϋ αγίου Πνεύματος εις είδος το προς αυτόν (Gal. 4. 19)· μορφοϋταί γε μην έν ήμϊν ό Χριστός, ένιέντος ήμϊν τοϋ αγίου Πνεύματος θείαν τινά μορφωσιν, δι'άγιασμοΰ καί δικαιοσύνης, οϋτω γαρ, οϋτω ταϊς ήμετεραις έμπρέπει ψυχαΐς ό χαρακτήρ της ύποστάσεος τοϋ θεοϋ καί πατρός, άναμορφοϋντος ήμας, ως εφην, τοϋ αγίου Πνεύματος δι'άγιασμοΰ προς αυτόν. 19 Responsio ad Tiberium io (Pusey III, p. 593, 9-22): μεμορφώμεθα δε προς αυτόν ... κατ' άρετήν καί άγιασμόν. αγιον γαρ το θείον καί άπάσης αρετής αρχή καί π η γ ή γένεσις.

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« Noi siamo trasformati in lui mediante la santificazione e la virtù. Infatti l'essenza della natura divina è santa, e perciò principio, fonte e forza primigenia d'ogni virtù. Ed anche il saggio Paolo, scrivendo ai Galati (4^9), insegna che la configurazione divina dell'uomo dev'essere così intesa. Cristo vien dunque formato in noi mediante la santificazione operata dallo Spirito, attraverso la chiamata alla fede in lui. Ma in quanti non vivono secondo la fede, lo splendore di questa conformazione divina è andato perduto. Per questi si esige quindi un nuovo parto spirituale, una generazione interiore, affinché possano nuovamente portare le sembianze di Cristo ». Il modello di questa nascita di Dio che si ripete continuamente nel cuore del credente è anche per Cirillo l'incarnazione del Logos nella Vergine Santa. La santificazione dell'uomo è di conseguenza una continuata riproduzione nel Corpo mistico di Cristo della nascita del medesimo Cristo da Maria 20 : «Da quando δτι δε πρέποι αν οΰτω νοεΐσθαι μάλλον το κατ' εικόνα θεοϋ γενέσθαι τον ανθρωπον, διδάξει καΐ ό πάνσοφος Παϋλος τοις εν Γαλατία λέγων ... μορφοϋται μεν γαρ έν ήμϊν δι' άγιασμοΰ τοΰ δια Πνεύματος, δια κλήσεως της έν πίστει της εις αυτόν, έν δέ γε τοις παραβα'ινουσι την πίστιν ούκ έκλάμπουσιν ol χαρακτήρες ύ γ ι ώ ς . δια τοΰτο χρήζουσιν ετέρας ώδΐνος πνευματικής καί άναγεννήσεος νοητής, ίνα ... πάλιν άναμορφωθεϊεν εις Χριστόν. 20 De àogmatum solutione 3 (Pusey III, p. 556, 5-8; p. 557, 10-13): επειδή δέ γέγονεν άνθρωπος ό μονογενής τοϋ θεοϋ Λόγος, άγια πάλιν ή άνθρωπου γέγονεν φύσις άναμορφουμένη προς αυτόν δι'άγιασμοΰ καί δικαιοσύνης ... όταν γαρ εαυτούς πιστούς καί άγιους τηρήσωμεν, τότε (ό Χριστός) έν ήμϊν όραται μορφούμενος καί ταϊς ήμετέραις διανοίαις τους έαυτοϋ χαρακτήρας νοητώς έναστράπτων. Ι due testi (note 19 e 20) furono in seguito raccolti da un compilatore, sotto il nome di Ci­ rillo, nell'opuscolo Aàversus anthropomorphitas (PG 76, 1084 A; 1086

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l'unigenito Verbo di Dio s'è fatto uomo, anche la natura umana è diventata santa, poiché s'è conformata a lui in santità e rettitudine di vita. Se dunque noi conduciamo sempre una vita devota e santa, Cristo si forma in noi e in modo spirituale fa risplendere nel nostro intimo i tratti caratteristici della sua natura ». Se la dottrina della nascita di Dio ha ancora un significato nella teologia greca posteriore lo deve sostanzialmente alla dommatica di Cirillo, di cui ci stiamo occupando. Per la sopravvivenza della dottrina è particolarmente importante l'apporto di PROCOPIO DA GAZA a motivo della sua Catena Patrum. La trasformazione dell'anima a immagine del Logos per opera dello Spirito Santo è anche secondo lui una restituzione della perduta identità col Logos 21 . La Chiesa è la mediatrice di questa funzione materna: essa è colei che trova nelle acque il « neonato bambino Cristo », ossia lo dà ai credenti nel battesimo 22. Mediante la fede l'anima accoglie in sé il Logos per dargli forma 23. Questa generazione interiore è tratta testualC). - Anche in altro luogo Cirillo parla della santificazione e della conformazione dell'anima a Cristo, e sempre appellandosi a Gal 4,19. Cfr. In Ioann. comm. 2, 1 (Pusey I, p. 220, 144SS); ivi 5, 2 (Pusey I, p. 696, iss). 21

PBOCOPIO DA GAZA, In Gen. Comm. 2 (PG 87,1, 145 A) : per

opera dello Spirito Santo, infuso una volta negli uomini, si riceve nuovamente la λαμπρούς χαρακτήρας της -9-εΐας φύσεως, τοϋτο δέ έστι το δι'υίοϋ τ?) λογική κτίσει χορηγουμενον πνεύμα, και διαμορφοϋν αυτήν εις είδος το άνωτάτω, του­ τέστιν το S-εΐον. 22 In Ex. comm. 2 (PG 87,1, 517s). 23 Sul testo di Es 21,22 che abbiamo già incontrato nell'esegesi di Origene, PROCOPIO dice (cfr. GCS Origenes VI, Bährens, p. 248, nota al n. 9): έΌικε δέ σημαίνειν την συλλαβοϋσαν ψυχήν δια πίστεως τόν Χριστον καΐ τον θείον έν έαυτη διαπλάττουσαν Λόγον κατά το (segue Is 26,18).

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mente da Cirillo 24 . È interessante notare come, in conseguenza della riscoperta bizantina delle opere di Aristotele, per la prima volta nella storia di questa idea emerga ora anche l'uso della definizione aristotelica di generare. ANASTASIO SINAITA dice che la somiglianza con Dio, alla quale una volta fummo chiamati e che ci viene restituita nel battesimo, è un ulteriore atto della virtù generativa dell'inabitante Cristo, giacché la vita genera sempre una vita a sé simile 25. Si tenga presente, infine, un interessante opuscolo, in cui pure hanno avuto notevole risonanza i concetti fin qui accennati. Si tratta del De effectu baptismi del monaco 26 GIROLAMO DI GERUSALEMME . In forma quasi esageratamente soggettivistica vi si prova la virtù sacramentale del battesimo dagli effetti sensibili che produce nell'intimo dell'uomo in grazia. L'inabitazione di Cristo, ottenuta con la grazia battesimale e attuata come in Maria per opera dello Spirito Santo, si manifesta 24 In Gen. comm. 2 (PG 87/1, 148 A): έπεί καί νϋν ουκ έσμέν ϊ ξ ω τοϋ είναι κ α θ ' όμοίωσιν αϋτοϋ. είπερ εστίν άληθες ώς έν ήμϊν μορφοϋται (Χριστός) δια τοϋ άγιου Πνεύματος (segue Gal 4,19)- δταν γαρ εαυτούς άγιους τηρήσωμεν, τότε καί έν ήμΐν όραται μορφούμενος. 25

ANASTASIO SINAITA, In Hexaemeron, 1. VI (PG 89, 931 C D ) :

« Id quod est, ' ad similitudinem ' ii soli habent qui seipsos recrearunt ea vitae institutione quae est ex virtute, qui Deum habent in se inhabitantem et gratia quodammodo sunt veluti Christi, in divinitate simul et humanitate... (932 A) Vides quod post sanctum baptisma dicit Ioannes (1 Giov 3,2), vitam quae ex virtute agitur generare quod est ad similitudinem. Quod quidem si fuerit manifestatum in corde, illum videbitis in ipso ei conformato et assimilato, quantum capit et potest homo ». " GIROLAMO DA GERUSALEMME, De effectu baptismi (PG 40, 86oss).

La ricezione dello Spirito è qui, come in PROCOPIO, descritta ancora una volta col passo di Is 26,18; το θείον πνεϋμα έν γαστρί, nel profondo del cuore, indica la stessa inabitazione di Cristo nell'intimo, descritta da Paolo in 2Cor 13,5 (816 AD).

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nella gioia intima, in un mistico ' sussulto ', si agita come il bimbo nel seno materno. Da queste interne emozioni Girolamo dimostra che solamente il battesimo cristiano concede la vera inabitazione di Dio. In ogni caso questo opuscolo teologico, pur non eccessivamente profondo, ci fa sapere di qual gradimento godesse nell'ambiente monacale la dottrina della nascita di Dio. Si deve però ascrivere alla maggior presenza della dottrina propriamente mistica della nascita di Dio la teoria perfezionata da GREGORIO NISSENO, alla quale dobbiamo ora rivolgerci a conclusione della dottrina patristica greca. In Gregorio s'incontrano Origene e Metodio 27. Ma più chiaramente che nel passato il concetto della nascita di Dio nel cuore viene ora studiato in una precisa direzione. Non più la trasformazione battesimale sta in primo piano, e nemmeno la semplice trasformazione morale nella vita virtuosa. Con Gregorio la dottrina della nascita di Dio diventa ideale di perfezione, mistica. Questo tacito cambiamento lo si può già riscontrare là, dove Gregorio, in perfetta consonanza con la teologia dei Cappadoci, parla della trasformazione sa2 ? Non esige nuove prove la dipendenza, spesso testuale, di Gregorio da Origene. Cfr. O. BARDENHEWER, Gesch. d. altk. Lit. Ili, p. 192. - La dipendenza di Gregorio da Metodio è stata dimostrata da N. BONWETSCH nella sua edizione berlinese delle opere di Metodio, p. X. - Per la mistica di Gregorio Nisseno, cfr. W. VÖLKER, Gregor von Nyssa als Mystiker, Wiesbaden 1955, p. 220s (Mystik der Gottesgeburt). - Per una versione tedesca dei testi dal commentario di Gregorio al Cantico dei Cantici, cfr. H. U. VON BALTHASAR, Der versiegelte Quell, Salisburgo 1939. - Per la mistica di Gregorio in genere, cfr. E. VON IVÄNKA, Vom Piatonismus zur Theorie der Mystik (Zur Erkenntnislehre Gregors von Nyssa) in Scholastik 11 (1936) 163-195. A. LIBSKE, Die Theologie der Christusmystik Gregors von Nyssa in ZkTh 70 (1948) 49-93; 129-168; 315-340.

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cramentale del battesimo. Nelle sue parole ci sembra di sentire nuovamente Clemente ed Origene. Per Gregorio, della scuola platonica, questo modellarsi di Cristo nell'anima è una misteriosa comunicazione della bellezza spiritualizzata del Logos, l'anima è ' immagine dell'immagine ', esige la luminosa bellezza spirituale del vivente Logos, una volta perduta nel paradiso 28. Nel profondo del cuore viene restaurata tale bellezza, vien generato Cristo. E quest'ultima bellezza può essere acquisita solo mediante un totale distacco dalle cose materiali. La trasformazione attraverso la grazia battesimale è anche qui il fondamento della mistica 29. Ma, seguendo la mentalità platonica, la generazione interna è per Gregorio interamente realizzata, totalmente ' data ', solo se è perfetta : solamente allora Cristo è nato nel cuore. L'anima deve diventare ' portatrice ' del Logos, deve rendersi cosciente di questa vita divina nel suo intimo, poiché « vivo è il Verbo di Dio e viva è l'anima che lo ha ricevuto dentro di sé ». Le acque della divina processio devono gonfiarsi nell'anima dei28 Cfr. l'opera tanto caratteristica per la religiosità di Gregorio: Περί τελειότητος (PG 46, 269 D) : ϊνα σε ποιήση πάλιν εικόνα θεού καί αυτός ύπο φιλανθρωπίας εγένετο είκών τοϋ θεοϋ τοϋ αοράτου, ώστε τη Ιδία μορφή, ήν άνέλαβεν, έν σοΙ μορφωθήναι, καί σέ πάλιν δι' έαυτοϋ προς τον χαρα­ κτήρα τοϋ αρχετύπου συσχηματισθήναι κάλλους, ε'ις το γενέσθαι δπερ ής έξ αρχής. È caratteristico il parallelismo fra άμορφον e άκαλλές (265 B). L'immagine di Dio vien restaurata in noi nel ε'ικών τοϋ θεοϋ ή δια παρθένου έπιδημήσασα. In tal modo, secondo il pensiero alessandrino, noi diventiamo ' im­ magine dell'immagine ' (272 Β): ώστε γενέσθαι ή μας της εικόνος εικόνα. 29 Cfr. Comm. in Cant. 13 (PG 44, 1053 C), dove si dice che nel battesimo Cristo vien generato sempre nei suoi fratelli.

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forme 30. Qui per la prima volta possiamo percepire con tutta evidenza come la viva e personale esperienza mistica faccia propria la dottrina della nascita di Dio ereditata dalla tradizione, e quanto questo elemento dell'esperienza mistica incida sul nostro concetto. « Avere nell'intimo il Cristo vivente » è il tema mistico della spiritualità di Gregorio. Se l'anima porta in sé Cristo con rispetto, è già φορεΐον del Logos 3 1 . Cristo è la borsetta di mirra posata sul cuore; il Logos dimora nel cuore come in un palazzo 32 . L'anima deiforme porta in sé come in processione l'immagine divina: è 30 Comm. in Cant. 9 (PG 44, 977 C): ζών ό Λόγος τοϋ θεοϋ, ζή και ή τον Λόγον δεξαμενή ψυχή. Si deve chiaramente al­ l'influsso del pensiero platonico la predilezione di Gregorio per l'im­ magine dell'anima deiforme come effluvio dell'eterna sorgente, della fonte del Padre, donde scaturisce il Logos per trascinare anche l'anima, attraverso una misteriosa partecipazione, in questo flusso eterno. Ciò contribuisce anche alla successiva evoluzione dei concetti intorno alla nascita di Dio, come abbiamo già visto in MASSIMO CONFESSORE. Poiché il procedere del Logos è la sua nascita, la partecipazione dell'anima non è che un partecipare a questa eterna nascita, Veructare Verbum bonum nell'anima creata. Il Padre è (cosi diceva già Platone) ' Fonte della bontà ' : cfr. il terzo Sermone teologico di GREGORIO NAZIANZENO, che si riferisce espressamente a Platone (PG 36, 76 C). La stessa cosa dice anche GREGORIO NISSENO, Epist. 26 (PG 46, 1108 A): ό των α γ α θ ώ ν απάντων θεός και τοϋ σωτήρος πατήρ ή της άειζωΐας π η γ ή . Perciò ogni virtù è un prender parte alla virtù originaria del Logos, la purezza dell'anima ' è ' la purezza del Logos. Nel περί τελειότητος (PG 46, 248 D) egli scrive: άλλ' ό μεν πηγάζει, ό δέ μετέχων άρύεται. La dottrina platonico-cristiana dell'anima quai μοίρα τοϋ θεοϋ, θεία απόρροια, già apparsa in

CLEMENTE ALESSANDRINO, Strom. 5, 13, 89 (GCS II, p. 384, n. 3ss),

perviene così da Gregorio a Massimo e da questi in Occidente. 31 Comm. in cant. 7 (PG 44, 912 AB): ό ζώντα έχων έν έαυτω τον Χριστον ούτος κυρίως φορεΐον λέγεται και γίνεται τοϋ έν αύτω φερομένου καί ύπ' αύτοΰ βαστοζομένου. 32 Comm. in Cant. (PG 44, 828 A) : αυτός ό κύριος στακτή γενόμενος έγκειται i-t τω άποδέσμω της συνειδήσεως, αύτη μου τη καρδία έναυλιζόμενος.

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nuovamente pervenuta a quello stato di santità in cui si trovava ' in principio ', nel paradiso 33. La vita spiritualizzata, verginale e divina del primo uomo nel paradiso è per Gregorio il punto di partenza non solo della sua dommatica 34, ma anche e soprattutto della sua mistica. Per la grazia dell'inabitante e vivente Logos l'anima aspira ora alla vita santa; l'ascesa mistica ha come meta quella vita che una volta andò perduta, ma che è stata riportata sulla terra dal Logos nato dalla Vergine. Da ciò si può ben comprendere quale importanza rivesta la verginità nella mistica di Gregorio 35. Poiché il Verbo incarnato è il modello originale d'ogni virtù, la sua vita deve riprodursi nell'ascesa dell'anima: « Ciò che accadde una volta fisicamente nella Vergine Maria, quando la pienezza della divinità rifulse in Cristo attraverso la Vergine, si compie anche in tutte le anime che sull'esempio del Logos vivono una vita verginale » 36. 33 Tract, in Psalm. 2, il (PG 44, 544 Β): τότε δια τον της αρετής τύπον έμμορφοΐ ήμϊν τον Χριστον. οΰ κατ' εικόνα έξ αρχής τε ήμεν και πάλιν γινόμεθα. - Sermo in occursum Do­ mini (PG 46, 1153 Β): οΰτως ήμας άναγκαϊον μεταμορφουμένους ... τής θείας εικόνος τήν όμοίωσιν, κατά το έφικτον άνθρώποις, έν έαυτοϊς περιφέροντες. 34 Cfr. specialmente i due studi: A. KRAMPF, Der Urzustand des Menschen nach der Lehre des hl. Gregor von Nyssa, Würzburg 1889; FR. HILT, Des hl. Gregor von Nyssa Lehre vom Menschen, Colonia 1890. 35 Cfr. J. STIGLMAYR, Die Schrift des hl. Gregor von Nyssa ' Über die Jungfräulichkeit ' in Zeitschrift für Aszese und Mystik 2 (1927) 334359; cfr. specialmente p. 347: verginità e stato paradisiaco; p. 346: verginità e mistica. - W VÖLKER, op. cit., pp. 254-259 (Verginità). 36 De Virginitate 2 (PG 46, 324 B) : όπερ γαρ έν τή άμιάντψ Μαρία γέγονε σωματικώς, τοϋ πληρώματος τής θεότητος έν τφ Χριστώ δια τής παρθένου έκλάμψαντος, τοϋτο και επί πάσης ψυχής κατά Λόγον παρθενευούσης γίνεται.

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' Verginità ' è nella mistica di Gregorio l'efìetto più naturale della nuova vita paradisiaca, e si identifica con l'άφθαρσία donata dallo Spirito Santo, con la sapienza e la trasfigurazione che il Logos ci ha portato con la sua nascita dalla Vergine. Solo per la sua media­ zione noi « siamo nati da Dio ». Così Gregorio, proprio richiamandosi alle parole di Giovanni, può dire: « Solo da Dio viene questa nascita. Essa si compie quando uno riceve nell'intima vita del cuore, come in materno concepimento, l'incorruttibilità dello Spirito. Egli produce sapienza e giustizia, santità e purezza interiore. Ognuno può così diventare madre di colui che è tutto ciò per natura, come dice lo stesso Signore (Mat 12,50) » 37. La produzione delle virtù è dunque veramente una generazione di Cristo nella viva profondità del cuore, perché Cristo è il modello d'ogni virtù. Perciò ogni progresso verso il vertice della mistica è una sempre nuova nascita di Cristo, uno sviluppo del Logosbambino nell'intimo dell'uomo. Gregorio, in perfetto accordo con Origene 38 , l'ha ben descritto nel suo Commentario al Cantico dei Cantici 39 : « Il bimbo 37 ZW 13 (PG46, 380 D): έκ θεού μόνου ή γέννησις γίνεται, τοϋτο δε γίνεται, όταν συλλαμβάνη μέν τις εν τφ ζ ω τ ι κ φ της καρδίας τήν άφθαρσίαν τοϋ Πνεύματος, τίκτει δε σοφίαν και δικαιοσύνην, άγιασμον ωσαύτως και άπολύτρωσιν. παντί γαρ εξεστι μητέρα γενέσθαι τοϋ ταύτα βντος, καθώς φησί που ό Κύριος ότι... (Mat 12,50). - Si parla della Chiesa quai μήταρ della generazione battesimale anche in Or. de dettate filli (PG 46, 573 B). - Sulla funzione essenziale della Chiesa nella dottrina della perfezione di Gregorio, cfr. W. VÖLKER, Gregor von Nyssa als Mystiker, Wiesbaden 1955, pp. 100-103. 38 ORIGENE, Comm. in Cant. 2 (GCS Origenes VIII, Bährens,

p . 1 7 1 , 13SS). 39 Comm. in Cant. 4 (PG 44, 828 D): το γαρ γεννηθέν ήμϊν παιδίον 'Ιησούς, ό έν τοις δεξαμένοις αυτόν διαφόρως προ-

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che ci è nato è Gesù, il quale in quanti lo accolgono cresce in diversa misura in sapienza, in età e in grazia. Egli non è infatti eguale in tutti. In proporzione alla quantità di grazia di quanti ne possiedono la forma e alla capacità da parte di questi di accoglierlo, Cristo appare bambino, in fase di sviluppo, ο perfetto ». Questa teologia mistica ha esercitato un influsso determinante sulla dottrina d'un uomo che è tra i capisaldi sia della mistica bizantina sia di quella occidentale. Si tratta precisamente di MASSIMO CONFES40 SORE . La constatata dipendenza di Massimo da Gregorio ha una particolare incidenza sulla nostra questione, poiché ci mostra che in lui, classico interprete dello Pseudo-Dionigi Areopagita, i concetti relativi alla nascita di Dio non derivano dalla filosofia neoplatonica, ma da un influsso genuinamente cristiano dell'antica tradizione, pervenuta a lui tramite il Nisseno 41 . Ed κόπτων σοφία τε και ηλικία και χάριτι, ούκ έν πασιν ό αυτός έστιν, άλλα προς το μέτρον τοϋ έν ω γίνεται, καθώς ίίν ό χωρών αυτόν ίκανώς εχη, τοιούτος φαίνεται, ή νηπιάζων, ή προκόπτων, ή τελειούμενος. Così si comprende anche il concetto dell'aborto, da noi già riscontrato in ORIGENE, e che Gregorio, come Origene, presenta ancora in relazione ai due passi Is 26,18 e Gal 4,19. Cfr. Homil. 6 in Eccles. (PG 44, 701 D): έμοί δοκεΐ τόκος ώριμος και ούκ άμβλωθρίδης είναι, δταν, καθώς φήσιν Ή σ α ί α ς , έκ τοΰ θείου τις φόβου κυοφορήσας δια τών της ψυχής ώδίνων τήν ιδίαν σωτηρίαν γέννηση... (704 Α) και πάλιν εαυτούς άμβλίσκομεν ... δταν μη μορφωθή έν ήμϊν, καθώς φήσιν ό 'Απόστολος, ή τοΰ Χρίστου μορφή. 40 Cfr. Μ. ΤΗ. DISDIER, Les fondements äogmatiques de la spiritualité de St. Maxime in Echos d'Orient 29 (1930) 296. - È stato dimostrato da Μ. VILLER (AUX sources de la spiritualité de St. Maxime in Revue d'Ascétique et de Mystique 11 (1930) 156; 239) che per la dottrina spirituale di Massimo è da tenersi in considerazione, insieme con Gregorio Nisseno, anche EVAGRIO IL PONTICO. 41 Cfr. H. U. VON BALTHASAR, Kosmische Liturgie, Das Weltbild Maximus ' des Bekenners, Einsiedeln 1961.

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è strano che non troviamo una precisa testimonianza della teoria della nascita di Dio negli scritti dell'Areopagita. Anche nello Pseudo-Dionigi la rigenerazione battesimale è detta θεογενεσία. Ciò significa però sempre ' nascita da Dio ' 42 . Il ' vivificante processo di trasformazione ', per il quale nel battezzato si realizza l'immagine di Dio, richiama certamente a un'espressione simile della teologia dei Cappadoci e ricorda soprattutto Cirillo Alessandrino. Nel pensiero dell'Areopagita, ambientato prevalentemente nello spiritualismo di Plotino, il concetto della nascita di Dio dal cuore era tuttavia ancor lontana dall'affermata inabitazione 42 Cfr. specialmente il capitolo sul Battesimo: Eccl. Hier. 2, 2, 7 (PG 3, 396). Il fonte battesimale è qui il ' seno materno in cui vien concepito il figlio ', μήτρα της υιοθεσίας (396 C). L'interiore formarsi e il crescere del catecumeno è paragonato allo sviluppo del bambino nel seno materno, paragone proposto già da ORIGENE e GREGORIO NISSENO (PG 44, 596 A). La vita interiore del battezzando si forma attraverso il ' paterno insegnamento ' del sacerdote ; cfr. Eccl. Hier. 3, 6 (PG 3, 433 A): και ζωοποιοϊς μορφώμασιν διαπλαττόμενοι προς τήν έκ θεογενεσίας άρχιζώον καΐ άρχίφωτον και μακαρίαν προσαγωγήν. È qui che si sente chiaramente l'antica teologia del μορφοϋσθαι, sotto l'influsso di Gal 4,19. Qui ancora si trova il concetto della ' bellezza ' interiore, già presente in Origene e in Gregorio Nisseno, e tanto caro al platonismo. Cfr. Eccl. Hier. 3, 7 (PG 3, 436 C): καί άρχετύποις κάλλεσι το θεοειδες ημών μορφώσασα. Cfr. anche Eccl. Hier. 2, 3, 8 (PG 3, 404 C): το άνείδεον ειδοποιείται, το άκοσμον κο­ σμείται. E però significativo che la vera cristiformita può essere raggiunta solo nell'eternità (ληξις χριστοειδής, PG 3 592 Β, 553 D). Un maggiore influsso della tradizione propriamente cattolica si ha nelle Omelie pneumatiche dello PSEUDO-MACARIO. Cfr. Homil. 18, 7 (PG 34, 640 A), dove si dice che l'inabitazione personale di Cristo si ottiene precisamente con la rigenerazione battesimale: οι γαρ καταξιωθέντες τέκνα γενέσθαι θεοϋ καί έκ Πνεύ­ ματος άγιου άνωθεν γεννηθήναι καί τόν Χριστον έχοντες έν έαυτοϊς έλλάμποντα καί άναπαύοντα αυτούς.

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di Cristo nel cuore. E non ci si sbaglia se si scrive la stessa cosa anche riguardo alla religiosità monofisitica : questo non era l'ambiente adatto per la teologia interiore della nascita di Dio, sì intimamente legata all'umanità di Cristo. Massimo non ha solo il merito d'aver ' cattolicizzato ' l'Areopagita. Egli ha anche incorporato nel suo sistema mistico l'antica dottrina della nascita di Dio. La sua theologia cordis è il degno coronamento della teoria greca della nascita di Dio. La struttura più interna di questa teologia mistica è costituita dalla bipartizione dell'intera storia umana. La storia religiosa si svolge in due eoni: il primo eone è θεοϋ προς άνθρωπου κατάβασις, ossia preparazione e compi­ mento della prodigiosa incarnazione del Logos; il se­ condo eone: άνθ-ρώπου προς θεον άνάβασις, la divi­ nizzazione dell'umanità nel Logos 43 . L'entelechia di questo avvenimento è l'amore, la cui natura è il ' trasformare': per amore il Logos ha assunto la μορφή dell'uomo; e la partecipazione del medesimo amore fa sì che l'uomo venga elevato alla meravigliosa partecipazione della natura divina del Logos. Tale è la άντίδοσις σχετική prodotta dall'amore tra il Logos e l'uomo 4 4 . 43

Cfr. specialmente Quaest. ad Thalass. 22 (PG 90, 317SS). Epist. 2 ad Ioannem de cantate (PG 91, 401 AB): θεός εμφα­ νίζεται κατά την ιδιότητα της αρετής εκάστου δια φιλανθρωπίαν μορφούμενος ... έργον γαρ της αγάπης τελειοτατον και της κατ' αυτήν ενεργείας πέρας δι' άντιδόσεως σχετικής ... θ-εον μέν τον άνθρωπον ποιεΐν, άνθρωπον δε τον θεον χρηματίζειν καί φαίνεσθαι. - È assai interessante il fatto che Massimo abbia introdotto quest'antica teologia paolina del μορφοϋσθαι an­ che nella teologia mistica e proprio in contrasto con lo Pseudo­ Dionigi, che parla volentieri dell'έξις χριστοειδής nella sua spi44

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In questo fatto è essenziale la ripetizione mistica a mo' d'άνάβασις di ciò che avvenne una volta storicamente nella venuta del Logos. È qui, in questo sistema mistico, che la nascita di Dio trova il suo vero significato. L'idea della nascita di Dio nel cuore dell'uomo è stata inserita per la prima volta da Massimo in un sistema religioso unitario 45 . Massimo si è pronunziato su questo argomento là, dove spiega le parole di iCor 10,11 : «Sopra di noi è venuta la fine degli eoni » 46 . Egli dice 47 che, in quanto redenti, noi ci troviamo nel ' secondo eone ' : la realizzazione del primo eone, l'incarnazione del Logos, continua in noi r che, partecipando dell'amore trasformante del Logos, per l'amore che si produce nella virtù « subiamo la divinizzazione » e cooperiamo così continuamente all'incarnazione del Logos. Tale processo è iniziato in noi già qui sulla terra, ma avrà nell'eternità il suo compimento. Ed è in questo senso che la ' fine degli eoni ' ritualità marcatamente monofisitica. Massimo dà a questa teologia dionisiaca una forma più cattolica anche in questo punto. Nei suoi Scholia al Capitolo dello Pseudo-Dionigi sul battesimo egli propone espressamente il battesimo come ' conformazione ' (PG 4, 122 C): δθεν μορφοϋται ό εσω άνθρωπος προς κρείττονα εξιν. 45 J. BACH, Die Dogmengeschichte des Mittelalters, ν. Ι, Vienna 1874, p. 17, ha ottimamente raccolto questi pensieri di Massimo, distinguendo un duplice processo, il primo, « l'incarnazione, decisa in principio e realizzata storicamente nella pienezza dei tempi; l'altro,, la deificazione dell'uomo, fondata sull'incarnazione di Dio e in per­ fetta concomitanza con questa ... In tal senso Massimo non parla soltanto d'un'incarnazione storica di Cristo nel tempo, ma anche d'un'incarnazione permanente, sempre attuale. La redenzione è per lui l'incessante e sacramentale processo di divinizzazione ο processo di pneumatizzazione etica dell'anima nata dalla carne ». 46 έγράφη δε προς νουθεσίαν ημών, εις ους τα τέλη τ ώ ν αιώνων κατήντηκεν. 47 Quaest. ad Thalass. 22 (PG 90, 320 Β).

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è già sopra di noi 4 8 : « Attraverso le virtù Dio vuole sempre diventare uomo in quanti ne sono degni. È perciò beato chi con la sapienza può attuare nel suo intimo questa incarnazione di Dio. Egli realizza così la pienezza del mistero dell'incarnazione, ottiene la divinizzazione, e in tale incessante divinizzazione non verrà mai per lui una fine». Non v'è dubbio che Massimo veda l'inizio di questa mistica incarnazione nell'intimo dell'uomo soprattutto in un fatto mistico specifico, che può prendere il nome di amore, sapienza, virtù, ο processo di deificazione. È tipico il suo modo d'esprimersi assai frequente sulla venuta del Logos ' nel profondo del cuore ' 49 , nella ' segretezza del cuore ', dove la voce del Signore chiama 50 . Solo in questa interpretazione squisitamente mistica della nascita di Dio trovano una spiegazione le espressioni ardite, presentate con ' formule prudenti ' 51, sulla ταυτότης 48 Ivi (PG 90, 321 Β): δι' ών (αρετών) ό θεός άεί θέλων έν τοϊς άξίοις άνθρωπος γίνεται, μακάριος οδν ό μεταποιήσας δια σοφίας έν έαυτώ τον θεον άνθρωπον καί τοϋ τοιούτου μυστηρίου πληρώσας τήν γένεσιν πάσχων τώ γενέσθαι τη χάριτι θεός, ότι τοϋ άεί τοϋτο γίνεσθαι πέρας ού λήψεται. 49 Cfr. Quaest. ad Thalass. 56 (PG 90, 584 C) : ένοικοϋντα τον Λόγον τω βάθει της καρδίας. - Quaest. 18 (PG 90, 306 D ) : δικαιωθήσονται δια τήν εις το βάθος της ψυχής κατά τήν κάθαρσιν τοϋ Λόγου διάβασιν. - Quaest. (PG 90, 284D): τους ζώντας μεν ουδαμώς ιδίαν ζωήν ζώντα δέ τον Χριστον έν έαυτοϊς κατά μόνην έχοντας τήν ψυχήν. 50 Quaest. ad Thalass. 47 (PG 90, 424 C): κατά το κρυπτον της καρδίας ... Λόγος ένοικων δια της πίστεως. sl Per la successiva indagine sul linguaggio mistico del MAESTRO ECKEHART è molto importante considerare il linguaggio altrettanto ardito e solo in pochi casi temperato da formule prudenti, col quale si sono espressi i Padri greci sulla ' deificazione ' dell'uomo. Riportiamo qui alcune di queste formule - e se ne potrebbero addurre

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προς &εόν dell'anima, ο sulla misteriosa ' identità ' con Dio. Rientra così nella sua teologia il concetto della nascita di Dio nella rigenerazione battesimale. In lui appunto possiamo trovare per la prima volta una distinzione perfetta fra le due nascite, la nascita dalla grazia battesimale e la nascita che si attua nell'esperienza mistica 52 . Per Massimo, che era un mistico, la misteriosa continuazione dell'incarnazione si realizza anzitutto nella mistica elevazione dell'uomo. Proprio l'oscurità di questa mistica visione di Dio lo induce a produrre un concetto che per ' i più ' sarebbe rimasto incomprensibile, benché sia saturo di verità: il Logos è ancora in noi nella vita di quaggiù come nella segretezza del seno materno; per noi e in noi è diventato bambino, giacché noi siamo ancora allo stato infantile e perciò incapaci d'una piena visione di Dio 5 3 . tante - desunte in modo speciale dai tre classici mistici della ' deificazione ' : da GREGORIO NISSENO, la cui formula preferita è κατά το έφικτον άνθρώποις (PG φ, 1153Β); dall'AREOPAGITA ώς έφικτον άνδράσιν (PG 3> 4°4 C); da MASSIMO κατά χάριν (PG 90, 888 C; 91, 1084 C); ει θέμις ειπείν (PG 96, 889 Α); ώς έφικτόν έστι ά ν θ ρ ώ π ω (PG 90, 888 C). - Sulla mistica ' iden­ tità ' dell'anima con Dio, cfr. specialmente Ambiguorum liber (PG 91, 1253 D), dove MASSIMO dice che l'anima è diventata attraverso la grazia είκών τοϋ Λόγου « ο, se la parola non suonasse troppo difficile ' ai molti ' », καΐ ταυτον αύτω μάλλον κατά τήν χάριν ή άφομοίωμα, τυχόν δε και αυτός ό Κύριος. Altri passi sulla ταυτότης προς τον θεον κατά χάριν, cfr. in PG 90, 3 2 4 C ; 332s; PG 91, 704 D. 52 Quaest. ad Thalass. 6 (PG 90, 280 C): διττός έν ήμϊν της έκ θεοΰ γεννήσεως ό τρόπος· ό μέν πασαν δυνάμει παροϋσαν τοις γεννωμένοις διδούς τήν χάριν της υιοθεσίας· ό δε κατ'ένέργειαν δλην παροϋσαν και τήν τοϋ γεννωμένου πασαν προς τον γεννώντα θεον προαίρεσιν, γνωμικώς μεταπλάττουσαν εΐσάγων. 53 Ambiguorum liber (PG 91, 1068 AB): έν μήτρα γάρ καΐ ήμεϊς καί ό θεός Λόγος έσμέν .. έν τη παρούση της ζωής κατασ-

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Il concetto dell'inabitazione del Logos-bambino diviene qui un espressione dell'esperienza mistica. Il Logos è in noi figlio della fede ', generato solamente nella perfetta visione di Dio. Come una volta il Logos ha prodotto la fede in Maria, divenendo suo figlio in virtù di questa fede verginale, cosi la stessa cosa si ripete nell'anima in grazia: il Logos è la causa prima della visione mistica possibile nella fede. Ma in tal modo egli diviene ' figlio dell'anima ', s'incarna in modo mistico nelle ' virtù ' 5 4 . Il vecchio motivo del ' divenire madre di Cristo ' dell'anima viene trasferito nella mistica propriamente detta. Ancor più chiaramente Massimo espone questa teucra nel suo Commentario al Pater noster. L'anima che con pazienza e mitezza si prepara alla grande grazia, porta in sé, nella misura in cui l'uomo ne è capace, la perfetta immagine del grande Re Cristo, la trasformazione nello Spirito Santo 55 . Essa ascende così alla pura e immediata visione, s'avvicina al Logos soprannaturale 56. Staccata da tutto ciò che è terreno, dalla schiaτάσει è μεν άμυδρώς ώς εν μήτρα ... δι'ήμας τους νηπιάσαντας ταΐς φρεσΐ και ό θεός Λόγος ένηπίασεν. 54 Quaest. ad Thalass. 4° (PG 90, 400 C) : come il Logos abbia creato Maria e poi sia divenuto suo figlio, ούτως έν ημΐν πρότερον την πίστιν δημιουργήσας ό Λόγος ύστερον γίνεται της έν ήμΐν πίστεως υιός, έξ αύτης κατά την πράξιν ταΐς άρεταΐς σωματούμενος μήτηρ δε τοϋ Λόγου καθέστηκεν ή αληθής και αμόλυντος πίστις. 55 Expos, or. dorn. (PG 90, 888 BC) : 'ίνα γένηται της θείας χαρακτηρ βασιλείας, ώς έφικτόν έστιν άνθρώπω, φέρων έν έαυτω τοϋ φύσει κατ' ούσίαν ώς αληθώς μεγάλου βασιλέως Χρίστου κατά τήν χάριν άπαράλλακτον τήν έν πνεύματι μόρφωσιν. 68 Ivi, 888 D: συγγίνεσθαι τω ύπερουσίω Λ ό γ ω δι' απλής καί άμεροϋς θεωρίας.

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vitù di se stessa, l'anima splende come dimora luminosa dello Spirito Santo, poiché ha ricevuto in sé, secondo le sue possibilità, l'intera natura di Dio 57 : « Mediante questa grazia Cristo vien generato sempre in essa misticamente, prende corpo in quelli che vengono salvati. In tal modo egli fa dell'anima che lo genera una madre vergine ». Massimo ha riportato in tutti i particolari questa teologia mistica nei suoi Ambigua, commentario ai luoghi difficili di Gregorio Nazianzeno, che doveva poi assumere una notevole importanza, grazie alla versione di Scoto Eriugena, per la mistica occidentale. Massimo si riferisce alle parole di Gregorio, in cui l'anima in grazia è detta μοίρα θεοϋ 5 8 . Noi siam ' parte ' di Dio, spiega Massimo, perché la forma essenziale della nostra anima preesisteva dall'eternità nel Logos di Dio 5 9 . Perciò ogni uomo che viene all'esistenza, avendo in sé una virtù divina, partecipa della virtù increata, del Logos: il Logos medesimo è infatti il più profondo fondamento d'ogni virtù. La virtù è *' Ivi, 889 BC: ίνα μη δουλωθη ό λόγος (ανθρώπου) φ φυσικώς το της θείας εικόνος έγκέκραται σέβας, πεΐθον την φυχήν μεταπλασθήναι κατά τήν γνώμην προς τήν θείαν όμοίωσιν ... ώς Πνεύματος αγίου παμφαές οίκητήριον, δλην δεχόμενον, εί θέμις ειπείν, της θείας φύσεως, κατά το δυνατόν, τήν έξουσίαν της γνώσεως ... καθ'ήν (χάσιν) άεί θέλων Χριστός γεννάται μυστικώς, δια των σωζόμε­ νων σαρκούμενος· και μητέρα παρθένον άπεργαζόμενος τήν γεννώσαν ψυχήν. 58 Cfr. GREGOHIO ΝΑΖ., Or. de amore pauperum η (PG 35, 865 C): ή βούλεται μοΐραν ήμας οντάς θεοϋ καΐ άνωθεν 'ρεύσαντας ... προς αυτόν άεί βλέπειν; 69 Ambiguorum liber (PG 91. 1081C): μοίρα ουν έσμεν καΐ λεγόμεθα θεοϋ δια το τους τοϋ είναι ημών λόγους έν τω θ ε ω προϋφεστάναι. È sotto l'influsso dell'aristotelismo, del resto, che Massimo dà a questa speculazione quel sapore panteistico.

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quindi un entrare-nella-visione del Logos. Ma già dall'incarnazione la virtù è un perpetuarsi dell'incarnazione del Logos. Così si spiega la meravigliosa reciprocità d'effetto: nella deificazione dell'uomo il Logos s'incarna, e l'uomo diventa Dio nell'incarnazione del Logos. È qui il mistico segreto del perpetuo venire del Logos nel cuore dell'uomo : « Che il Logos di Dio vuol sempre e in tutti gli uomini attuare il mistero della sua incarnazione » 60. Questa realtà è perfetta nel mistico. Il processo di deificazione trova in lui la sua espressione terrena più sublime 61 . 60 Ivi, 1081 D: ουσία της έν έκάστω αρετής ό εις ύπάρχειν Λόγος τοϋ θεοΰ. (1084 C): και δι'αυτών (λόγων έν θεώ) εαυτόν μεν τω θ ε ώ μόνω δι'δλου ενθεμένος, τον δέ θεον μόνον έαυτώ δι'δλου έντυπώσας τε και μορφώσας, ώστε καΐ αυτόν είναι τε χάριτι καί καλεϊσθαι θεον, καΐ τον θεον εΐναί τε συνκαταβάσει καί καλεϊσθαι δι'αυτόν άνθρωπον καί της άντιδιδομένη έπί τούτω διαθέσεως δειχθήναι την δύναμιν, τήν καί τον άνθρωπον τω θ ε ώ θεοϋσαν διά το φίτλόθεον, καί θεον τω άνθρώπω δια το φιλάνθρωπον άνθρωπίζουσαν καί ποιούσαν κατά τήν καλήν άντιστροφήν τον μεν θεον άνθρωπον δια τήν τοϋ άνθρωπου θέωσιν, τον δέ άνθρωπον θεον δια τήν τοϋ θεοΰ άνθρώπησιν. βούλεται γαρ άεί καί έν πασιν ό τοϋ θεοΰ Λόγος καί θεός τής αύτοΰ ενσωματώσεως ένεργεΐσθαι το μυστήριον ... (1097 D) καί τοΰτό έστι τής προς ανθρώπους τοϋ θεοΰ μυστικωτάτης επιδημίας το μυστήριον. Massimo, inoltre, ha portato nella mi­ stica anche il concetto, a noi già noto da Gregorio Nazianzeno, del ' patire il santo ritorno ' (πάσχειν τήν καλήν άντιστροφήν) : è il medesimo processo del πάσχειν το γενέσθαι τη χάριτι θεός (PG 9°, 321 Β), tratto evidentemente dalla mistica dell'Areopagita ; cfr. De div. nom. 2, 9 (PG 3, 648 B) : παθών τα θεια. 61 Anche questo è stato riassunto in modo eccellente da J. BACH, op. cit., p. 33: « Il vigore della redenzione storica si realizza nell'uomo come perdurare della nascita di Cristo nell'anima verginale, nel mistico processo della θέωσις. Cristo è l'ύπόστασις d'ogni grazia e d'ogni virtù nella vita dell'anima umana. Secondo questa ύπόστασις Cristo deve venir continuamente generato nella mistica vita morale della santificazione d'ogni membro genuino della Chiesa. Lo scopo

LA DOTTRINA NELLA DOMMATICA E MISTICA GRECA CLASSICA

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Mistica e nascita di Dio sono d'ora in avanti inscindibilmente congiunte dovunque esercita un particolare influsso la teologia mistica di Massimo, il quale ha portato al pieno sviluppo i princìpi dottrinali già esistenti in germe in Origene e in Gregorio Nisseno. Ciò è avvenuto effettivamente in Scoto Eriugena e nel Maestro Eckehart. Se ciò si debba attribuire a una dipendenza letteraria ο (come ci sembra verosimile per il Maestro Eckehart) a quella parentela spirituale che in ogni tempo ha legato i mistici fra loro, potremo definirlo solo dopo aver descritto lo sviluppo di questa dottrina nella teologia patristica latina.

dell'opera di Cristo, la meta d'ogni mistica è questa: che Cristo divenga tutto in tutti ».



LA CONTINUAZIONE DELLA DOTTRINA NELLA TEOLOGIA LATINA

Il passaggio alla teologia dei Padri latini non significa l'inizio d'un nuovo corso storico dell'idea che andiamo studiando. Infatti Origene e Ippolito, ai quali in Oriente si sono ispirati Metodio e Gregorio, sono stati maestri anche per l'Occidente. Essi sono i magistri di AMBROGIO. La dipendenza del vescovo di Milano da Origene è troppo nota e non esige qui una dimostrazione diretta. Del resto si potrà subito dedurre dalla dottrina della nascita di Dio quanto sia reale tale dipendenza. Meno considerata, invece, ma pur tanto importante è la dipendenza di Ambrogio da Ippolito *. Ed anche ciò ha la sua conferma nella dottrina della nascita di Dio, ed è ancor più evidente alla luce dell'antichissima dottrina, notoriamente ippolitiana, del ' Verbo 1 N. BONWETSCH dà una prova esauriente di questa dipendenza da Ippolito nella sua edizione della piccola opera di Ippolito recentemente scoperta (Texte und Unters. 26, I, Lipsia 1904) e nell'edizione completa del commentario di Ippolito al Cantico dei Cantici (Texte und Unters. 23, 2, Lipsia 1903). Alcuni documenti sulla presente questione in ZkTh 59 (1935) 77-79·

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saltante ' che dal cuore del Padre viene nel cuore del credente 2. La predilezione di Ippolito per la dottrina della nascita del Logos dal cuore del Padre si riflette chiaramente nelle opere di Ambrogio 3. Con l'antica speculazione romana di Ippolito si raccoglie in Ambrogio anche l'eredità di Origene e poi quella di Filone, ossia la tesi dell'antica psicologia sulla virtù generativa del cuore 4. In Ambrogio si trovano tutti gli elementi della teoria che abbiamo fin qui esposta. E se nelle opere di Ambrogio essi non hanno avuto una precisa sistematizzazione, ciò si deve all'originalità della sua produzione letteraria: quando s'imbatte in concetti teologici particolarmente suggestivi, Ambrogio si limita a copiare quanto i dotti predecessori gli offrono. E siccome i suoi scritti hanno un notevole valore probativo per la vitalità della tradizione, da essi noi possiamo facilmente dedurre, a prescindere dall'eventuale testimonianza letteraria, di quale intensità sia stato l'influsso della tradizione per quanto riguarda la dottrina della nascita di Dio. Si deve certamente all'influsso dell'esegesi di Origene se anche Ambrogio ha considerato le parole di Is 26,18 e Gal 4,19 qual fondamento dei suoi concetti sulla virtù generativa del cuore. Quella forza generativa di pensieri che egli, d'accordo con l'antica a Cfr. sopra p. 22S. * Per le prove di IPPOLITO e AMBROGIO, date sopra a p. 2is, cfr. anche i passi del Commentario di Ippolito al Cantico dei Cantici (Texte und Unters. 23, 2), p. 26, 26; p. 31, uss: «Il Figlio è nato per generazione da David e dal cuore del Padre»; p. 31, 3iss: «Il mio cuore - dice il Padre - ha generato il Verbo, mentre da Davide è stato generato l'uomo ». - Ciò è descritto da Ambrogio. Sui suddetti testi cfr. anche De Virginitate 11 (PL 16, 282 B). 4 Cfr. sopra p. 20S.

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psicologia, attribuisce all'intimo dell'anima, cioè al cuore, si esprime ora anche in senso religioso. La mens, ossia l'anima in grazia, genera i buoni pensieri 5 : « Quid autem sanctius mente, quae dat bonarum semina cogitationum, quibus aperit vulvam animae conclusam pariendi sterilitate, ut possit illas invisibiles generationes edere, utero videlicet spiritali, de quo dicit Isaias (segue Is 26,18) ». L'intimo, il cor intelligibile6, è il luogo segretissimo in cui si compie il parto spirituale. In questo luogo segreto vive Cristo. Ivi è il suo soggiorno preferito: «In corde amat esse Christus» 7 . L'essenza della vita spirituale è dunque l'intima unione col Logos: il crescere e morire del Verbo eterno nel nostro cuore; la morte spirituale è un distacco dell'anima dalla sua vita interiore, dal Verbo divino : « Vivit igitur Dei Verbum et maxime in animis vivit piorum... Moritur nobis, si a nostra anima separetur ... mors enim vera est Verbi et animae separatio»8. È indicativo per l'origine di questi concetti il fatto che Ambrogio parli una volta 9 espressamente del Λόγος παρ&ενικός dimorante nel­ l'anima: questi è il Logos che per eterna generazione verginale procede dal cuore del Padre 10 ed ha ora trasformato con la sua inabitazione l'anima del cre5 De Abraham 2, 11, 78 (CSEL 32, 1, p. 630, I2ss). • Ivi (p. 630, 17). ' De virginitate 19 (PL 16, 298 D). - Cfr. anche Epist. 41, 12 (PL 16 1116C): « Ambulat Christus in pectoribus singulorum ». » De fuga saeculi 2, 13 (CSEL 32, 2, p. 173, uss). • Epist. 31, 2 (PL 16, 1066 B). 10 Sulla generazione eterna dalla natura verginale del Padre cfr. anche De fide ad Gratianum 4, 8 (PL itì, 63413), dove viene spiegato il testo del Sai 109, 3 : « Uterus paternae arcanum substantiae interiusque secretum ».

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DEI

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dente in teatro della sua vita mistica: « Nostris enim meritis Verbum Dei nobis aut vivit aut moritur, nam si bona studia atque opera nostra sint, vivit atque operatur in nobis Dei Verbum » n . È interessante vedere come questi concetti sulla mistica sopravvivenza del Logos nel cuore del credente abbiano nel pratico Ambrogio, non ostante l'identità delle fonti, uno sviluppo completamente diverso rispetto al contemporaneo Gregorio Nisseno. La nascita di Dio si realizza sempre, secondo Ambrogio, nell'ordinaria vita morale del credente; d'un sistema mistico, invece, nessuna traccia. Anche la rigenerazione battesimale non è posta in rapporto con la nascita del Logos dal cuore. C'è solo un pensiero predominante: con una vita buona e onesta il cristiano deve conservare in sé l'inabitante Cristo; chi accoglie nel seno materno del cuore i " buoni pensieri ', genera Cristo. Si deve ad Ambrogio se d'ora in poi, fino al medioevo, non emergerà più l'interpretazione dommatica e mistica della nascita di Dio, ma solo quella ascetica. Che il principio della vita dell'inabitante Logos sia una vera nascita, Ambrogio lo dice espressamente. Cristo è il bimbo generato dallo spirito che ha il timore di Dio : « Christus ipse est et puer quem parturit qui in utero suae mentis accepit spiritum salutis » 12 . Questa generazione è il principio animatore d'un'interiore crescita del Logos-bambino nel cuore (anche qui il maestro è Origene) 13 : « Quae tanti forma sit partus demonstrat 11

Epist. 32, 2 (PL ι ό , 1066 A). Enarr. in Ps. 47, io (PL 14, 1150 B ) . 13 Cfr. sopra p. 47S. N o n è da escludersi che qui abbia esercitato un certo influsso anche il Commentario al Cantico dei Cantici di 12

GREGORIO

NISSENO.

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Apostolus dicens (Gal 4,19). In liane formam (Christi) tota mentis nostrae coalescant viscera et in ilio genitali alvo animae nostrae Christus refulgeat. Partus noster fides sit... his quaedam cordis nostri imbuatur infantia, instituatur pueritia, iuvenculescat adulescentia, senecta canescat » 14 . Inspirandosi ancora chiaramente ad Origene, Ambrogio paragona la perdita della grazia a un aborto. Il testo del commentario a Luca, dove questo concetto è presentato nei dettagli, è sotto molti aspetti degno di nota. Esso riunisce insieme quel che Ambrogio ha scritto altrove, e contiene tutti gli elementi della storia della nostra idea, ma nel tipico stile di Ambrogio. Il concepimento del Logos-bambino mediante una vita di rettitudine e di virtù, il « divenire madre di Cristo » nel compimento della volontà di Dio, l'imitazione della Vergine Maria nel concepimento interiore per opera dello Spirito Santo: tutto ciò è stato sempre presente nella tradizione. In Ambrogio riaffiora ancora una volta, e il commentario a Luca ha contribuito moltissimo, per il suo rilevante influsso fino al medioevo, al perpetuarsi dell'idea. Ecco le parole di Ambrogio 15 : «Sunt enim et quae de Dei timore concipiunt quae dicunt : ' de timore tuo concepimus et parturivimus ' (Is 26,18}. Sed non omnes pariunt, non omnes perfecti, non omnes possunt dicere: ' peperimus spiritum salutis in terra ', non omnes Mariae, quae de Spiritu Sancto Christum concipiant, Verbum pariant. Sunt enim quae abortivum excludant Verbum antequam pariant, sunt quae in utero Christum habeant sed nondum formave14 15

De Cairi et Abete, 1, 2 (CSEL 32, 2, p. 378, uss). In Lue. comm. io, 14.25 (CSEL 32, 4, p. 464S).

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rint, quibus dicitur (segue Gal 4,19). Fac voluntatem Patris, ut Christi mater sis. Multae conceperunt Christum et non generaverunt. Ergo quae park iustitiam, Christum parit, quae parit sapientiam, Christum parit, quae parturit verbum, Christum parturit». Queste parole di Ambrogio non sono però caratteristiche soltanto per il nesso con la tradizione; esse sono indicative anche della direzione in cui si è evoluto il concetto della nascita di Dio nella teologia e nella spiritualità latina. La teologia della nascita di Dio non vien più presentata in una profonda speculazione mistica, come presso i greci, e nemmeno in così stretto rapporto con la processione eterna del Logos dal cuore del Padre; ma sempre più e con crescente insistenza nel contesto etico-morale delle ' buone opere ' e nella veste ' mariana ', già evidente nelle surriportate parole di Ambrogio. Maria, tipo della Vergine-Madre, della Chiesa; Maria, modello dell'anima vergine; il mistero del Natale, principio della vita spirituale: questi saranno d'ora in avanti i concetti fondamentali. Nell'anima, dice Ambrogio, si ripete il mistero di Betlemme: generando spiritualmente Cristo nel cuore, essa diventa la ' Casa del pane ' 1 β : « Omnis itaque anima quae recipit panem illum descendentem de caelo domus panis est... incipit ergo concipere anima et formari in ea Christus quae recipit adventum eius ». In questa interiore generazione di Cristo, l'anima del credente imita la Vergine Maria, vien chiamata ' Maria ', come una volta la Maddalena fu chiamata Maria dal Signore 17 solo quand'ella si rivolse a l u i : « Quando converti " Epist. 70, 13.16 (PL 16, 1237 B; 1238 A ) . 17 De virginitate 4, 20 (PL 16, 271 B ) .

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incipit, Maria vocatur, hoc est nomen eius accipit quae parturit Christum; est enim. anima quae spiritualiter parturit Christum». Ciò è di capitale importanza per la conoscenza del pensiero medievale sulla nascita di Dio, poiché è soprattutto Ambrogio (e dopo di lui Agostino) ad indicare la direzione del successivo sviluppo dell'idea, tanto che il modo in cui questi due parlano della nascita di Dio è lo stesso in cui ne parlerà poi il medioevo. Precisamente in questa svolta della storia della dottrina che stiamo ora studiando, nella restrizione (se così possiamo esprimerci) all'aspetto morale e devozionale, nel sorgere del culto mariano, nell'insistenza sull'avvenimento storico del Natale, possiamo osservare il lento costituirsi della spiritualità del primo medioevo. Ciò vale soprattutto e in primo luogo per il più grande discepolo di Ambrogio, AGOSTINO. È significativo il fatto che la teologia della nascita di Dio, tanto apprezzata dalla speculazione dei Padri greci, non abbia avuto invece in Agostino una eco adeguata. Questo complesso dottrinale svolge in ogni caso un ruolo di secondaria importanza nel pensiero agostiniano intorno al Corpo di Cristo, alla Chiesa, e alla grazia. Proprio là, dove ci si sarebbe aspettato un più facile consenso alla mistica continuazione della nascita eterna del Logos dal Padre, cioè nelle riflessioni di Agostino sull'eterna e incessante nascita del Logos - come avvenne in Origene, Gregorio Nisseno e soprattutto Massimo, - non se ne ha invece nessuna traccia18. Nella sua ecclesiologia Agostino s'avvicina 18 Cfr. Epist. 238, 4 (CSEL 57, p. 552, 16): « Semper gignit Pater et semper nascitur Filius ». - Cfr. anche Enarr. in Ps. 2, 6 (PL

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maggiormente alla dottrina della nascita di Dio nel cuore de credente. Questo è un tema tanto caro ad Agostino: la Chiesa, feconda e verginale madre del credente 19. Ma il suo pensiero è rivolto esplicitamente solo alle membra Christi, che dalla Madre Chiesa ricevono la vita divina nella rigenerazione battesimale. Tuttavia, riferendosi alla dottrina dell'unità del Corpo mistico di Cristo (sulla quale non possiamo ora indugiare), egli dice espressamente che la Chiesa è Madre di Cristo 20. Manca però, come abbiamo potuto costatare, l'altro antico concetto, tanto apprezzato dal tempo di Ippolito: la Chiesa che forma e genera il Cristo mistico nel cuore dei credenti 21. 36, 71 A). - Tract. in Ioann. 2 1 , 3.5 (PL 36, 1565SS). - Questi testi sono importanti perchè ad essi più tardi si riferisce espressamente ECKEHART. Per tutta la questione cfr. M. SCHMAUS, Die psychologische Trinitàtslehre des hi. Augusiinus. p. 130S. 11 Cfr. FH. HOFFMANN, Der Kirchenbegriff des hi. Augustinus, M o naco 1933, p. 264S; 494. 20 Enarr. in Ps. 127, 12 (PL 37, 1685): «Mater quomodo, nisi quia ipse Christus est in christianis quos christianos per baptismum quotidie parit Ecclesia ». - Il medesimo concetto in Serm. io, 2 (PL 38, 92). Agostino richiama due volte il passo di Mat 12, 50, del cui antichissimo uso siamo già a conoscenza. Il luogo classico di Agostino per questi concetti è contenuto nell'opera De virginitate, in cui questa ecclesiologia di Agostino ha trovato la sua espressione più bella. Cfr. De Virg. 5 (CSEL 41, p. 239, 14S): «Mater eius est tota Ecclesia, quia membra eius, id est fideles eius, per Dei gratiam ipsa utique parit ». Sermo 213, 7 in tradìtione Symboli 2 (PL 38, 1064): «Sic et Ecclesia et parit et virgo est. Et si consideres, Christum parit, quia membra eius sunt qui baptizantur ». 21 Al contrario si dice in De uiiginitaSe 5 (CSEL 4 1 , p. 239, 15SS) che l'anima, operando negli altri la salvezza mediante l'amore, diviene in questo m o d o ' madre di Cristo ' : « Item mater eius est omnis anima pia, faciens voluntatem Patris eius fecundissima cantate, in iis quos parturit, donec in eis ipse formetur ». - Qui si sente ancora una volta l'antica teologia, in consonanza con Gal 4,19. Altrove Agostino attenua questo farsi di Cristo nell'intimo del credente: cfr. Epist. 82, 4 (CSEL 34, p. 355, ios).

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Agostino parla molto di più - e ciò si deve certamente all'influsso di Ambrogio e alla tradizione oratoria latina - dell'aspetto etico-morale della nascita di Dio. Nell'inizio e nello sviluppo della vita intcriore, nel profondo del ' cuore ', dove dimora l'eterno Verbo di Dio, nella tipicamente agostiniana interiorità del cuore, si compie la nascita mistica di Cristo. Il cuore del credente, immagine del corpo verginale di Maria, è il luogo in cui anima e Verbo s'incontrano. Questo è il gran tema che ha tanto impegnato Agostino, come egli stesso ha riconosciuto nelle immortali parole delle Confessiones : « Ut redeamus hinc ad eam in illud secretimi, unde processit ad nos, in ipsum primum virginalem uterum, ubi ei nupsit humana creatura, ut redeamus ad cor et inveniamus eum » 22 . Anche in Agostino è soprattutto il mistero del N a tale che gli fa pronunziare sulla nascita di Dio nel cuore quelle parole che sono rimaste vive e operanti in tutti i tempi. Maria è il grande modello di tutte le anime credenti ; ciò che una volta si compì in lei storicamente, deve ripetersi spiritualmente nei cuori. Nella vita m o rale del credente deve essere riprodotta specialmente 22 Confessiones 4, 12, 19 (CSEL 33, p. 79, 6ss). - I testi agostiniani in favore dell'inabitazione del Verbo eterno nel cuore del credente sono innumerevoli. Cfr. Enarr. in Ps. 36, Sermo 3, 12 (PL 36, 390) : « Liberai a laqueo Verbum Dei in corde, liberat a via prava Verbum Dei in corde... tecum est cuius Verbum a te non recedit ». Così pure Sermo 117, 17 (PL 38, 671); Sermo 190, 3 in Natal. Dom. 7 (PL 38, 1008); Traci, in Ioann. 50, 2 (PL 35, 1759). Ha esercitato un profondo influsso sulla teologia del cuore della mistica tedesca specialmente un'espressione di Agostino del De vera religione 39 (PL 34, 154) : « Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat Veritas ». ECKEHAET cita questo testo con particolare piacere. Cfr. anche M. SCHMAUS, op. rif., p. 309 sulla mistica agostiniana sull'intimo dell'anima.

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la fede, per la quale Mafia divenne Madre del Verbo: « Fides in mente, Christus in ventre » 23. L'incarnazione mediante la fede della Vergine è il primo principio della vita divina in noi. « Verbum caro factum est prò nobis, ut a matre procedens habitaret in nobis » 24 : questo è il tema trattato sempre e con molta eloquenza nelle sue prediche di Natale. La nascita interiore di Cristo nel cuore dei credenti deve essere il principio dell'ascesa interiore : « Ecce habemus infantem Christum, crescamus cum eo » 25. Agostino si rivolge espressamente alla massa dei suoi uditori: questo fatto interiore è per lui solo un'espressione della crescita spirituale, indispensabile a tutti i cristiani. Siamo qui lontani da ogni mistica, ma proprio da ciò possiamo rilevare il realismo ed anche l'antichità della popolare dottrina agostiniana della grazia : « Quod miramini in carne Mariae, agite in penetralibus animae. Qui corde credit ad iustitiam, concipit Christum. Qui ore confitetur ad salutem, parit Christum. Sic in mentibus vestris et fecunditas exuberet et virginitas perseveret » 26. Affioa3 Sermo 196, 1 in Nat. Dom. 13 (PL 38, 1010); De virginitate 3 (CSEL 41, p. 237, I7ss): « Sic et materna propinquitas nibil Mariae profuisset, nisi felicius Christum corde quam carne gestasset ». - Enarr. in Ps. 67, 21 (PL 36, 826): «Illa virgo Christum... spiritualiter credendo concepii ». 24 Sermo 195 in Nat. Dom. 12 (PL 38, 1019). 25 Sermo 196, 3 in Nat. Dom. 13 (PL 38, 1020). - Anche in Agostino ricorre una volta, insieme con la citazione di Gal 4,19, l'interpretazione della figura dell' ' aborto ' trasmessa da Ambrogio e Origene. Cfr. Enarr. in Ps. 57, 5 (PL 36, 678) : « Nascuntur inter viscera Ecclesiae quidam parvuli et bonum est ut formati exeant ne abortu labantur ». Ma anche qui si tratta solamente della nascita delle membra di Cristo. Cfr. anche la bella esposizione del rapporto tra il Natale e la rigenerazione battesimale, in Tract. in Ioann. 2, 15 (PL 35, 1395). ·· Sermo 191, 4 in Nat. Dom. 8 (PL 38, i o l i ) .

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ratio chiaramente le parole del Commentario a Luca di Ambrogio. Quasi con le medesime parole anche lo Ps.-Crisostomo ha spiegato ai fedeli questa nascita morale di Dio 27. Tutto ciò risale infine alla teologia di Origene sulla nascita di Dio dalle ' buone opere '. In contrasto con la sublime speculazione di Gregorio Nisseno e di Massimo, qui s'avverte il senso popolare dell'antica teologia della nascita di Dio. Così predicano i sacerdoti. I mistici però han parlato in altro modo. L'idea della verginità spirituale, predicata da Agostino ai suoi fedeli, è di particolare importanza anche per la dottrina della perfezione. E sotto questo aspetto è significativo specialmente il concetto della maternità spirituale in ordine a Cristo, di cui conosciamo ormai la storia. Agostino ha presentato questo ideale di verginità nel suo opuscolo De virginitate: Maria, Chiesa, Vergine: nel medesimo ordine si perpetua nei tempi la maternità rispetto a Cristo 28 . Difficilmente si va errati se proprio qui si vede ancora una volta l'influsso del grande ammiratore della verginità, Ambrogio. Gli stessi concetti sono espressi anche da Agostino nelle sue prediche di Natale, come esortazione diretta alle vergini: « Exultate virgines Christi, consors vestra est mater Christi... verumtamen si verbi eius memineritis sicut meminisse debetis ( Mat 12,50): estis edam vos matres eius, quia voluntatem facitis Patris eius. Hunc (Christum) fide concipite, operibus edite. Ut quod egit uterus Mariae in carne Christi, agat cor vestrurn 27

Cfr. sopra, ρ. 6η. De virginitate 5 (CSEL 41, p. 239, 6s): «Et ipsae (virgines) cum Maria matres Christi sunt, si Patris eius faciunt voluntatem », Ivi, 6 (CSEL 4.1, p. 240, I7s): « Quia voluntatem Patris faciunt, Christi spiritaliter matres sunt ». 28

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in lege Christi » 29. Rimane ancora l'idea della nascita di Dio dalle ' buone opere ', pervenuta ad Agostino da Origene per il tramite di Ambrogio. L'anima diviene genitrice di Cristo nella fede, nel compimento del bene, nell'adempimento della volontà del Padre. Solo una volta Agostino si riferisce apertamente al fondamento della vita morale, alla grazia battesimale, mettendo il mistero della nascita di Cristo in rapporto con la rigenerazione battesimale. È la descrizione più bella e a un tempo più agostiniana della nascita di Dio nel cuore del credente 30 : « Nemo dubitet renasci, Christus natus est... fiat itaque in cordibus nostris misericordia eius. Portavit eum mater in utero; portemus (et nos) in corde. Gravidata est virgo incarnatione Christi; gravidentur pectora nostra fide Christi. Peperit (virgo) Salvatorem; pariat (anima nostra salutem, pariamus) et laudem. Non simus steriles, animae nostrae fecundae sint Deo ». Tali concetti e parole caratterizzano in questo momento la predicazione nell'Occidente cristiano. Agostino è il Maestro anche per quanto riguarda la dottrina della nascita di Dio. Ma nel medioevo molti testi presi da prediche post-agostiniane furono attribuiti direttamente al grande Maestro. Per questa ragione dobbiamo ora prendere in esame la continuazione del pensiero agostiniano, per poterne valutare l'influsso sul primo medioevo. 28

Sermo 192, 2 in Nat. Doni. 9 (PL 38, 1012). Sermo 180, 3 in Nat. Dom. 6 (PL 38, 1006). Pubblicato nuovamente secondo un'altra tradizione manoscritta da G. MOBIN, Sancti Augustini Sermones post Maurinos reperti (Miscellanea Agostiniana, i), Roma 1930, p. 211. Nel nostro testo sono poste tra parentesi le parole non contenute nei manoscritti di Morin. 30

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Più efficacemente forse di qualche predica può aver favorito il conservarsi dell'idea il fatto che essa venne accolta anche nei testi liturgici. Specialmente l'antica liturgia spagnola ha tratto dal pensiero di Agostino il concetto, sempre più ' medievale ', di Maria qual modello sublime della Chiesa e dell'anima credente. Ivi così si prega 31 : « Quod praestitum est carnaliter sed singulariter tunc Mariae, nunc spiritaliter praestetur Ecclesiae: ut te fides indubitata concipiat, te mens de corruptione liberata parturiat, et semper anima virtute Altissimi obumbrata contineat. Ne discedas a nobis sed procedas ex nobis ». Si ha la medesima cosa in due preghiere della vigilia pasquale 32 : anche qui Maria è il tipo della vergine e feconda Chiesa, come era stata descritta spesso e con espressioni profonde nella teologia agostiniana 33. Alla luce di queste fonti, della liturgia gallicana e degli scritti di Agostino, si devono chiarire anche quelle allusioni che troviamo di frequente negli scritti dei vescovi gallici. Così, ad esempio, quando CESARIO D'ARLES scrive : « Gaudeat Christi Ecclesia quae ad similitudinem beatae Mariae mater divinae prolis effi31

Le Liber Mozarabicus Sacramentorum (ed. M. Férotiti), Parigi

1 9 1 2 , c o l . 54, 32SS. aa

Ivi, p. 250, 7ss: «Filii lucis oriuntur quos maturino partu per gratiam spiritalem hac nocte progenerai Mater Ecclesia sine corruptione concipiens et cum gaudio pariens, exprimens in se utique formatti Virginis Genitricis absque ullo humanae contagionis fecunda conceptu ». - Cfr. il prefazio del Sabato Santo del GREGOHIANUM (Muratori II, col. 313): «Filii lucis oriuntur quos exemplo dominicae Matris sine corruptione sancta Mater Ecclesia concipit ». Sarebbe interessante studiare queste preghiere nel loro rapporto con la teologia agostiniana e con quella più antica. 33 Cfr. ancora Enchiridion 34, io (PL 40, 249) : « Ecclesia quae imitane eius Matrem quotidie parit membra eius et virgo est ».

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citur » 34 . Dal medesimo ambiente provengono le prediche conosciute come pseudo-agostiniane, sia che si debbano a MASSIMO DA TORINO Ο a CESARIO Ο a qualche altro vescovo. Forse non v'è nulla di più indicativo per il contenuto di tali prediche che una breve frase d'un sermone natalizio: « Hodie natus est non sibi Christus sed mihi »35. Qui s'avverte chiaramente il passaggio al medioevo: s'annunzia infatti quella virile e commovente interiorità, che sempre più accentua l'egocentrismo del mistero nel ricordo delle parole di Origene: « Che giova a me se Cristo è nato, ma non in me? ». Con sempre maggior frequenza si dice che il Figlio di Dio s'è fatto uomo per abitare nell'intimo del nostro cuore : « Hic prò nobis natus est, hic etiam, si digne agatis, habitat in vobis » 3e . Una vita cristiana senza peccato ne è la condizione. Ed anche ciò è caratteristico per la storia dell'idea. Così leggiamo in una di queste prediche popolari: «Portemus ergo et nos Deum in casto corpore, quem Virginis casta membra portaverunt... ut semper Christum in corde nostro portare possimus, castos ac puros nos exhibeamus ab omni peccato, ut Christus habitare possit in nobis. Qui enim Christum non habet in se, christianus non potest dici » 37. Il concetto della nascita di Cristo s'è ora tramutato in un ' avere ' ο ' portare ' internamente il Signore. In un'altra di queste prediche si può ancor meglio rilevare non soltanto lo stile agostiniano, ma anche l'antico 34 36 36 31

Homi!, de paschate 3 (PL 67, 1048 B ) . Serm. 124, 1 (PL 39, 1992). Serm. 371, 4 (PL 39, 1661). Serm. 125, 4 (PL 39, 1994).

LA CONTINUAZIONE DELLA DOTTRINA NELLA TEOLOGIA LATINA

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concetto della nascita di Dio, che comincia nel battesimo e dà forma nella vita spirituale allo sviluppo interiore del Verbo di Dio. Il testo è perciò degno d'attenzione, poiché secondò noi si riferiscono principalmente ad esso i richiami che nel medioevo cercano in Agostino una garanzia per la dottrina della nascita di Dio. Ancora una volta, come già in Origene e in Ambrogio, la giustificazione interiore e la crescita spirituale sono interpretate come nascita e crescita dello stesso Logos. E ciò, possiamo dire, per l'ultima volta. Infatti quanto verrà detto successivamente nella storia di questa idea (con la sola eccezione del Maestro ECKEHART, il cui ruolo specifico in tale storia è per altro comprensibile solo in questo quadro), non è che ripetizione ο allu­ sione all'antico parallelismo fra la crescita spirituale e la nascita e crescita del Verbo di Dio nel cuore. Ecco il testo di questa bellissima predica natalizia postagostiniana 38 : « Exultemus ergo, carissimi. Ab hodierno die crescunt dies. Crede in Christum et crescit in te dies. Credidisti? Inchoatus est dies. Baptizatus es? Natus est Christus in corde tuo. Sed numquid Christus natus sic remansit? Crevit, ad iuventutem pervenit; sed in senectutem non declinavit. Crescat ergo et fides tua, vetustatem nesciat. Sic pertinebis ad Christum Filium Dei, in principio Verbum apud Deum, Verbum Deum carnem factum, ut habitaret in nobis... ad illum pertinuit propter nos nasci, ad nos pertineat in ilio renasci ».

s

» Serm. 370, 4 (PL 39, 1659). - Esattamente in senso agostiniano, anche la verginità vien qui messa nuovamente in rapporto con la nascita di Dio. Cfr. Serm. 121, 2 (PL 39, 1988) : β Beata virginitas desinit esse iam mortis anelila, quia illum intra se gestat in mente, quem Maria portavit in ventre ».

5· LO SVILUPPO DELLA DOTTRINA FINO AL MEDIOEVO

Per una più esatta conoscenza delle fonti patristiche dalle quali dipende la mistica medievale e soprattutto il Maestro Eckehart, è importante indicare il cammino che conduce direttamente fino al tempo dei mistici. Le linee direttive possono essere tracciate in base alle opere dei Padri della Chiesa oppure mediante la concatenazione di singoli testi patristici. Molto più importante è ancor sempre il vivo contatto con l'ininterrotta tradizione, che solo faticosamente possiamo però ricostruire nella sua totalità, attingendo alla letteratura del periodo che intercorre fra l'epoca patristica e l'inizio della Scolastica. Dobbiamo ora indicare nei minimi particolari queste linee direttive fino alle fonti immediate del Maestro Eckehart. Il lento costituirsi della spiritualità del primo medioevo segue inizialmente il cammino segnato dalla dottrina agostiniana dell'interiorità del cuore. GREGORIO MAGNO ripete i concetti agostiniani del Verbo eterno 1, 1 Cfr. GREGORIO M., Moral. 5, 28 (PL 75, 706a): * Verbum absconditum in corde». Homìl. in Evang. 15 (PL 76, H32B); Moral. 19, 3 (PL 76, 99 B): Moral 16, 36 (PL 75, 1143 A).

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L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

dimorante nel profondo del nostro cuore. Egli s'impossessa soprattutto dell'esegesi di Mat 12,50, divenuta fondamentale per opera di Agostino. ' Madre di Cristo ', secondo lui, è in modo particolare l'anima che forma e genera Cristo nel cuore del prossimo 2 : « Sed sciendum nobis est quia qui Christi frater et soror est credendo, mater efficitur praedicando; quasi enim parit Dominum quem cordi audientis infuderit. Et mater eius efficitur si per eius vocem amor in proximi mente generatur '». Questo testo è importante specialmente perché è stato accolto, insieme con quello del Crisostomo 3 , nelle Catene di S. Tommaso d'Aquino ed è così divenuto familiare al medioevo, non escluso Eckehart, che s'è servito con piacere della Glossa di Tommaso. L'antichissimo concetto della nascita di Dio nel cuore dei credenti, presente già in Origene e Ippolito, è diventato per questa via patrimonio comune della spiritualità medievale. Ancor più ha contribuito BEDA alla diffusione di questa antica esegesi, ricevuta da Gregorio, di Mat 12,50 4 , soprattutto perché per suo tramite tale concetto è giunto a RABANO MAURO 5 , e da Rabano la 2

Homil. in Evang. 3 (PL 76, io8tì D). Cfr. sopra, p. 68, nota 11. 4 Expos. in Lue. 4 (PL 92, 480 BC) : « Omnes qui idem Verbum spiritaliter auditu fidei concipere et boni operis custodia vel in suo vel in proximorum corde parere et quasi alere studuerint, asseverans (Salvator) esse beatos ». 5 Comm. in Matlhaeum 4, 12 (PL 107, 937 D) : « Isti sunt mater mea qui me quotidie in credentium animis generant ». - Certamente anche il Commentario a Luca di Ambrogio, in cui viene spiegato il luogo parallelo a Mat 12,50, Lue 8,21, ha contribuito alla formazione di questa esegesi mistica, che ha esercitato un sì potente influsso sulla 3

LO SVILUPPO DELLA DOTTRINA FINO AL MEDIOEVO

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teologia della nascita di Dio nel cuore dei credenti è entrata nella Glossa ordinaria6, alla quale s'è potuta poi collegare la mistica del primo medioevo. Proprio su queste basi ha costruito la sua mistica RICCARDO DI S. VITTORE, aiutato anche dall'antica psicologia trasmessa da Agostino e di cui conosciamo ormai la storia. La nascita di Cristo nel proprio cuore e nel cuore altrui è il compimento della volontà del Padre celeste7 : « Verbum Patris, Filius Patris est voluntas Patris. Item voluntas hominum quid aliud est nisi quaedam proles mentis? Si igitur eadem est voluntas tua et voluntas Patris, veritas sapientia voluntas corde concipitur et corde generatur. Si igitur idem vis, idem sapis quod Pater, eundem Filium habes quem Pater... Potes Christum gignere in corde tuo et in corde alieno. Intellectu gignitur, consensu concipitur, affectu nascitur ». Quanto profonda sia stata l'impressione prodotta da questa teoria mistica lo si può desumere dal fatto che le parole che abbiamo riportate sono del trattato De interiori domo, compreso fra gli scritti di BERNARDO DI CHIARAVALLE, ma il cui autore è ignoto 8. Noi sappiamo che Eckehart conosceva bene le opere di Riccardo di S. Vittore. In queste si può già riconoscere una delle fonti immediate della sua dottrina della nascita di Dio 9 . storia dell'interiorità. Ambrogio dice: «Propeest enim Verbum in corde tuo, intus igitur Verbum, intus est lumen » (CSEL 32, 4, p. 247, I3s). 11 Glossa ordinaria su Mat 12,50 (PL 114, 129 D). - Cfr. anche GOTTFRIED BABION, Enarr. in Matth. 12 (PL 162, 1368 D). 7

Adnotationes mysticae in Ps 28 (PL 196, 297 CD). Tjactatus de interiori domo 39 (PL 184, 516 D). * È ugualmente importante per lo sviluppo di queste idee anche la storia dell'esegesi del testo di Is 26,17.18, citato in questo contesto 8

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L'ECCLESIOLOGIA

DEI

PADRI

È ancor più facile mostrare il cammino che l'interpretazione mariana della generazione spirituale di Dio ha percorso dal tempo di Agostino, in cui tale espressione è assai frequente, fino al medioevo. È sempre BEDA che più d'ogni altro favorisce il perpetuarsi anche di questa teologia agostiniana. Maria, la ' portatrice del Logos ', che va sui monti con l'eterno Logos nel cuore, è il modello dell'anima che genera Cristo nel proprio cuore 10 : « Typicum pariter exemplum tribuens, quod omnis anima quae Verbum Dei mente concipit statini excelsa cacumina gressu conscendat amoris ». Il tema della storia della spiritualità medievale è così presentato in perfetta consonanza con le agostiniane prediche di Natale. La generazione di Dio dalle ' buone opere ' si tramuta lentamente in generazione dalla ' interiorità ' n. Quanto fossero diffusi tali concetti lo si può rilevare da una lettera di papa GREGORIO II all'imperatore bizantino Leone. Vi si legge infatti 12 : fin da Origene e Ippolito. Abbiamo già visto che il testo si dimostra qual testo classico in favore della nascita di Dio solo sulla base dei L X X e in relazione a Gal 4,19. Questo significato si è conservato, Se EUSEBIO nel suo Commentario a Isaia (PG 24, 276 C) spiega così l'affermazione sul Logos generato nel cuore: τ ο ν γ α ρ μ ο ν ο γ ε ν ή σου Λ ό γ ο ν ένδον εν τή ε α υ τ ώ ν ψ υ χ ή , la spiegazione del testo con­ tenuto nei L X X è : ο ΰ τ ω ς ε γ ε ν η θ η μ ε ν τ φ Ά γ α π η τ ω σου. M a fu di rilevante importanza per la mistica occidentale la conservazione di questa esegesi ad opera di GIROLAMO, sotto l'evidente influsso di Origene; cfr. Comm. in Is. 8, 26 (PL 24, 302 B C ) . Si spiega quindi perfettamente perché questo testo, specialmente in rapporto con Gal 4,19, sia riemerso anche nella mistica della nascita di Dio del primo medioevo. Cfr. P S . - A I M O N E D I HALBERSTADT (PL 116, 841 D ) ; ISACCO DELLA STELLA RICCARDO 10

DI

(PL 194, S.

1712C);

VITTORE

(PL

GUERRICO 196,

(PL

185,

123 B;

38 A ) ;

1216 D ) .

Expos. in Lue. 1 (PL 92, 320 B). Alla diffusione di questa teologia patristica ha contribuito anche il cosiddetto CLAVIS MELITONIS, che delle parole praegnans e pariens 11

LO SVILUPPO DELLA DOTTRINA FINO AL MEDIOEVO

111

« At is qui caelo descendit Deus et in uterum sacrac Virginis... intravit, inhabitet in corde tuo ». UGO DI S. VITTORE propone in un suo sermone, sulla base dell'interiore concepimento e generazione di Cristo, il sistema ascetico dell'ascesa dalla fede alla visione di Dio nell'eternità 13. La mistica agostiniana della nascita ha avuto un grande sviluppo in BERNARDO DI CHIARAVAIXE. Questi per la prima volta ha svolto chiaramente e ampiamente il concetto, più tardi assai apprezzato, dell'avvento spirituale di Cristo nel profondo dell'anima 14 . Ogni giorno Cristo vien nuovamente generato nei cuori. « Quotidie videtur et nasci, duna fideliter repraesentamus eius nativitatem » 15 . Il discepolo di Bernardo, GUERRICO ha riprodotto questa dottrina in una omelia: De Verbi incarnatione in Maria et in anima fidelils. Vi troviamo l'espressione più alta della mistica mariana modellata da Agostino e Ambrogio. Maria è l'esempio morale dell'interno dell'anima: dà la seguente spiegazione : « Praegnantes, animae fidelium Verbum Domini nuper concipientes et necdum in opere parturientes » e « Pariens, aure cordis fìdei concipiens et in confessione vel opere generans » (Spicilegium Solesmense III, Parigi 1855, p. 125). 12 Epist. 12 (PL 89, 521A ). 13 Sermo in Antiurti. Dom. (PL 177, 933S). Cfr. anche Quaest. in Epist. Pauli 191 (PL 175, 478 CD). 14 Cfr. Sermones in Adventum Domini, specialmente Sermo 3, 4 (PL 183, 45 BC) e Sermo 5, 2 (PL 183, 51 C). 15 Serm. in Vigil Nat. 6 (PL 183, 112 D). - Cfr. R. LINHAHDT, Die Mystik des hi. Bernhard von Clairvaux, Monaco 1923, p. 192SS: la mistica della nascita di Cristo. 18 Serm. de Annuntiatione B. Virginis 2 (PL 185, 122 D). Anche Isacco della Stella, appartenente al medesimo ambiente di Bernardo, ha esercitato un notevole influsso, e le sue prediche ricordano i toni eckehartiani. Ritorna ancora l'antica questione mistica del « Che giova a me?»: cfr. Serm. in Pentecost. (PL 194, 184 C): « Parum erat, dilectissimi, ut Filius Dei nobis daretur sicut scriptum est: parvulus

112

L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

« Ut plenius noveris conceptum Virginis non solum esse mysticum sed moralem, quod sacramentum est ad redemptionem, exemplum quoque tibi est ad irnitationem ». Per avere una misura dell'influsso di questa teologia dell'interiorità sulla mistica classica della grande Scolastica è necessario leggere il trattato di S. BONAVENTURA, De quinque festivitatibus pueri Iesu, specialmente il capitolo: Quomodo Filius Dei in mente devota spiritualiter nascatur17. Con le parole e i concetti di Agostino e di Beda viene offerta al medioevo tutta la ricchezza dell'antica dottrina della nascita di Dio. Anche l'opuscolo De humilitate Iesu Christi18, attribuito a S. Tommaso, è una eco di tale mistica. Il suo autore richiama espressamente le surriportate parole di Beda: Maria è l'esempio d'ogni anima santa, che nel proprio cuore forma e genera il Verbo eterno : « Notandum quod beata Virgo post conceptionem tria legitur fedatus est nobis, - nisi etiam Spiritus Sanctus nobis donaretur ... et haec est Christi prò nobis, de nobis, in nobis natdvitas; quam accepit prò nobis, contulit etiam nobis, ille per Spiritum Sanctum hominis filius de Maria Virgine, nos per eumdem Spiritum Dei fìlii de Ecclesia virgine». - Cfr. anche Serm. io (PL 194, 1725 A): « Gratia est igitur mater quae parit intus in cordibus nostris Iesum ». - Serm. 7 (PL 194, 1715D): «O beata anima quae numquam obliviscitur nec dimittit puerum Iesum, ... crescat, frater, in te Dei Filius, qui iam formatus est in te ». 17 Opusculum 4 de quinque festivitatibus pueri Iesu (Quaracchi VIII, p. 88ss). Cfr. anche p. 88, nota 1 per un'ottima descrizione delle fonti e dei testi paralleli. 18 Opusculum 53 (ed. Romana p. 2, a. 2 (ed. Quar. II, p. 360 b) : « Unde quia Luna ex virtute sibi indita cum adiutorio luminis aspectum habeat super humorem, ideo per suam innuentiam humidum augmentat et ad eius praesentiam excrescunt maria ». 125

GREGORIO M., Moralin in Job 22, 7 (PL 76, 221 BC).

LA CHIESA PARTORIENTE

267

Nella Clavis Melitonis si ha pure qualche accenno, e nei supplementi di TOMMASO DI CHANTIMPRÉ la luna è detta humorum mater e si allude a Maria Mater gratiarum126. Qualcosa di analogo si potrebbe trovare anche in altri scritti teologici del medioevo 127. C'è infatti chi ha studiato nuovamente la simbologia della maternità della Chiesa, vera luna. Si tratta precisamente di ISIDORO DI SIVIGLIA, il grande intermediario fra il pensiero antico e dell'antichità cristiana e il medioevo: « Item sicut Luna larga est roris et dux humentium substantiarum, ita Ecclesia baptismi et praedicationum. Et quemadmodum Luna crescente crescunt omnes fructus atque ea minuente minuuntur, non aliter intelligimus Ecclesiam, in cuius incremento proficimus cum ipsa » 128. Sotto il vivo e continuato influsso di questa antica ed anche cristiana tradizione che abbiamo cercato di illustrare, nei rilievi del campanile del Duomo di Firenze è stata rappresentata la luna, verginale e materna dispensatrice dell'acqua viva che scaturisce da una fonte, e signora del mare del tempo, che ne segue le leggi: Domina aquae 129. E DANTE ha descritto l'ascesa dello spirito alla sfera della ' prima stella ', ossia della luna, sempre vicina alla terra ma anche celeste ed eterna, non solo in virtù dell'incomparabile potenza del suo genio poetico, ma anche in base all'antichissima tradizione. Entrando nella santa atmosfera della ' eterna 126

CLAVIS MELITONIS 3, 6 (ed. Pitra, Spicil. Solesm. II, p. 65). Cfr. VINCENZO DI BEAUVAIS, Speculum naturale 16, 10 (Strasburgo 1474); ALANUS AB INSULIS, Liber de distinctionibus (PL 210, 842 CD; 843 AB). I27

128

ISIDORO DI SIVIGLIA, De natura rerum 18, 6 (PL 83, 992 AB).

129

Cfr. KÜNSTLE, Ikonographie der christlichen Kunst, ν. Ι, Friburgo

1928, p p . 140s. 168ss.

268

L ' E C C L E S I O L O G I A D E I PADRI

margherita ', qualcosa di misterioso lo circonda come una nube interamente irrorata di luce, come acqua limpida attraversata dagli infuocati raggi del sole 130. È questo un simbolo mirabile della divina unione alla quale l'anima umana tende ardentemente nel suo cammino dall'oscurità della terra alla purissima luce del Padre Eterno: « Per entro sé l'eterna margherita Ne recepette com'acqua recepe Raggio di luce, permanendo unita ».

130

Paradiso II, 31-36.



LA CHIESA RAGGIANTE

Il materno generare della Chiesa, il suo crescere e diminuire, il ripetuto appressarsi allo splendore del plenilunio nell'orbita dell'annientamento mortale di Cristo, che continuamente si rinnova, ha un solo scopo : avvicinarsi al « sorgere della luce perfetta in quel grande giorno », come dice METODIO, il finale permanere cum Sole, che per Agostino è l'essenza della speranza cristiana. Il mistero della Chiesa visibile e terrena è di : ordine escatologico. La sua natura terrena può essere percepita solo mediante uno sguardo al suo fine ultimo, o, meglio, a partire dal fine ultimo. La meta del mistero della Chiesa è la risurrezione della carne, che prende l'avvio dalla rigenerazione battesimale operata dalla Chiesa e alla quale la Chiesa, attraverso tutti i simboli battesimali, orienta lo sguardo dei fedeli come alla ultima e prima verità '. La risurrezione della carne è dunque per l'antica ecclesiologia cristiana la spiegazione ultima, appassionatamente elaborata e difesa, del mistero in Cristo e nella Chiesa. Ma essa è anche la verità più discussa nel sublime ideale dell'antica spiritualità. Riferendosi direttamente alle idee sulla natura della Chiesa, AGOSTINO dice : « In nulla re sic contradicitur

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L'ECCLESIOLOGIA

DEI

PADRI

fidei christianae quam in resurrectione mortuorum » 1. Egli vede nella ripetizione continua delle fasi lunari un simbolo estremamente chiaro della risurrezione finale. È dunque per continuare e concludere l'esposizione dell'ecclesiologia patristica che noi ora presentiamo, qual breve compendio dell'antica simbologia lunare cristiana, il nesso tra Chiesa e risurrezione della carne, indicando insieme da quali immagini della luna anche quest'ultima tesi della dottrina ecclesiologica cristiana ha tratto il suo valore simbolico 1a. Gli antichi pagani e cristiani nutrivano una sacra simpatia per i fenomeni del cielo stellato. Sappiamo da Basilio e da Ambrogio che i fenomeni cosmici del mutamento e dell'ecclisse della luna portano tristezza 2. Non solo i pagani, ma anche i cristiani fino all'inizio del medioevo seguivano commossi il fenomeno dell'ecclisse lunare e lanciavano all'astro sofferente nella notte il grido pieno d'angoscia: Vince Luna 3. Si trat1

AGOSTINO, Enarr. in Ps. 88, $ (PL 37, 1 1 3 4 C ) . Riguardo alla suesposta (parte 2) simbologia della ' natura umida della luce lunare ' dobbiamo ora aggiungere che già ORIGENE, In Evang. Matth. 13, 6 (GCS Origenes X, p. 193, 18s) l'aveva presentata come opinione degli antichi medici. Cfr. A. HARNACK (TU 42, 4, p. 103) e soprattutto F. J. DÖLGER, Der Einfluss des Origenes auf die Beurteilung der Epilepsie und Mondsucht im christlichen Altertum in Antike und Christentum 4 (1934) 95-109. Dölger cita qui (ρ. ι ο ί , nota 43) u n passo da FILOSTORGIO, Hist. Eccl. 8, i o (GCS Philostorgius, p. i n , I2ss), in cui si dice la stessa cosa. 1

a

2 BASILIO, Hexaemeron, h o m . 6, io (PG 29, 141 D) : ει δέ λ υ π ε ί σε ή σ ε λ ή ν η . - AMBROGIO, Hexaemeron 4, 8, 31 (CSEL 32, ι, ρ .136, 22s) : « N a m si te Lunae contristat occasus quae se semper reparat ac reformat ». 3 Questo era anche il rimprovero dell'egiziano SCENUTE D'ATRIPA ai suoi concittadini pagani che adoravano il Sole e la Luna dicendo: « Salve, ο Sole! Vinci, ο Luna! » Cfr. F. J. DÖLGER, Sol salutis, 2 ed., Münster 1925, ρ. 51, nota 2. La stessa espressione è condannata pure

LA CHIESA RAGGIANTE

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tava evidentemente d'una superstizione profondamente radicata, contro la quale i Padri hanno condotto una lotta instancabile. Ma proprio la tenace resistenza con la quale alcune credenze s'erano conservate dimostra la presenza in esse di qualcosa di più profondo. Qui vivono ancora le antiche e mai del tutto scordate immaginazioni, alle quali solo il pensiero e la preghiera dei greci ha saputo imprimere una forma precisa: il destino della notturna Selene è un simbolo del destino dell'anima umana; al di là della luna e della sua mutevolezza votata al dolore v'è il regno tranquillo e immutabile dello spirito, donde derivano le anime e al quale queste desiderano ardentemente ritornare; quaggiù, al di sotto della luna, tutto è buio, infestato di demoni e succubo a un cieco destino. Se voghamo comprendere il simbolismo per il quale la teologia patristica ha considerato la luna come figura della futura risurrezione e santità, dobbiamo cercare di precisare le linee di questa tesi cosmica e mistica dell'antica religiosità lunare. E stato specialmente PoSEIDONIO a inserire la selenologia aristotelica in un sistema mistico-naturale di indole popolare 4. Selene in un Capitulare carolingio: Indiculus superstitionum et paganiarum 30: De Lunae defezione, quod dicunt: Vince, Luna! (MG Leg. II, 2, ρ. 83). Cfr. CESARIO D'ARLES, Serm. 52, 2, 3 (ed. Morin I, p. 221); Serm 13, 5

(Morin I, p. 65). 4 Cfr. quanto IPPOLITO, Elenchos 1, 4 (GCS Hippolyt III, p. 9, 22ss) presenta come opinione di ERACLITO : « Tutto lo spazio che ci circonda è pervaso dal male, che si estende dalla terra fino alla luna, ma non va oltre, perché lo spazio che sovrasta la luna è completamente puro ». - La tesi di ARISTOTELE è diventata fondamentale. Ecco come la presenta IPPOLITO, Elenchos 7, 19, 2 (GCS Hippolyt III, p. 194, 3ss): 6 κόσμος εστί κατά ' Αριστοτέλην διηρημένος εις μέρη πλείονα και διαφέροντα και ϊστι τοϋ κόσμου μέρος τοϋ-9·'

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L'ECCLÉSIOLOGIA DEI

PADRI

è considerata come la stella del cielo che nello spazio cosmico segna il confine tra le regioni della terra e del cielo. Tale escatologia lunare vien poi rifinita nel sistema filosofico-mistico della tarda Stoa e dei Neopitagorici e nella religiosità misterica. Nella regione sublunare c'è l'aria 'buia', tutto è mortale e debole 5 , con la sola eccezione dell'anima spirituale, che ha origine dallo spazio che sta al di là della luna, dall'etere, dal fuoco. CICERONE ha insegnato queste cose nel Somnium Scipionis : « In infimo orbe Luna radiis Solis accensa convertitur. Infra autem iam nihil est nisi mortale et caducum, praeter animos munere deorum hominum generi datos, supra Lunam sunt aeterna omnia » 6. 7 8 9 PLUTARCO e APULEIO , come pure FILONE , che tanto ha influito sul pensiero cristiano, contemplando il cielo illuminato dalla luna provano gli stessi sentimenti. Al di là della luna, ' dietro la luna ', dove comincia la όπερ εστίν άπο της γης μέχρι της σελήνης άπρονοητον, άκυβέρνητον, ... το δε μετά τί)ν σελήνην έν πάση τάξει repovoiqt καί κυβερνήσει τεταγμένον. - Cfr. Ρ. WENDLAND, Philos Schrift über die Vorsehung, Berlino 1892, ρ. 68, nota I. Ancora Ρ. WENDLAND nell'apparato critico al testo di Ippolito (GCS Hippolyt III, p. 194)· - E, PFEIFFER, Untersuchungen zum griechischen Stern­ glauben, Lipsia 1916, ρ. ii9ss. 5 Per tutta la questione cfr. F. J. DÖLGER, Die Sonne der Gerechtigkeit und der Schwarze, Münster 1918, p. 50s. 6 CICERONE, Rep. VI, 4, 17 (Müller, p. 374, 4-8). 7 PLUTARCO, Quaest. conv. IX, 14, 2 (IV, Bemardakis, p. 384, 15 p. 385, 1). 8 APULEIO, De mundo 2 (Hildebrand II, p. 344) : « Ultima omnium Luna, altitudinis aetherae principia disterminans, quae divinas et immortales vivacitates ignium pascens ordinatis ac semper aequalibus invectionibus solvitur atque reparatur ». 9 FILONE, De spec. leg. I, 85 (Cohn-Wendland V, p. 32); De vita Moys. 2, 121 (Cohn-Wendland IV, p. 228).

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' metafisica ' 10, tutto è pieno del sanctus aether 11, tutto è immortale e divino, santo e immutabile 12. MACROBIO, tanto apprezzato nel medioevo, afferma : « Omnia haec quae de summo ad Lunam usque perveniunt, sacra, incorrupta, divina sunt, quia in ipsis est aether semper idem nec umquam recipiens inaequalem varietatis aestum. Infra Lunam et aer et natura permutationis pariter incipiunt et sicut aetheris et aeris ita divinorum et caducorum Luna confinium est » 13. Solo l'anima è originaria di lassù, come scintilla che si stacca dall'etere, goccia d'acqua cristallina proveniente dal cratere del cielo 14. La regione al di là della luna, anzi 10 IPPOLITO, Elenchos 7, 19, 4 (GCS Hippolyt III, p. 194, 15-17). Cfr. W. JÄGER, Studien zur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Aristoteles, Berlino 1912, ρ. I77ss. 11 APULEIO, De mundo 3 (Hildebrand II, p. 344). 12 Cfr. ancora CICERONE, De nat. deor. II, 21 56 (Piasberg, p . 70, 28ss); IPPOLITO, Elenchos 1, 20, 6 (GCS Hippolyt III, p. 25, 2s). La gno­ si di Bardesane ha incorporato nel suo sistema la divisione aristotelica ; cfr. IPPOLITO, Elenchos 7, 24 (GCS Hippolyt III, p. 202, 2-5). EZNIK DI KOLB raccoglie queste idee in breve sintesi nel suo trattato contro le eresie, 3, 4 (BKV 2 57, p. 131): «I pitagorici e i peripatetici insegna­ no ... a considerare immortale tutto ciò che è nella luna e al di sopra della luna, mortale, invece, tutto ciò che si trova al di sotto di essa ». 13 M A C R O B I O , Somn. Scip. 1, 21, 33 (Eyssenhardt, p. 566, 15-21). Dipende in buona parte da Macrobio, nel nono secolo, lo P S . - B E D A , De mundi caelestis terrestrisque constitutione (PL 90, 88iss). 14 L'anima come ignis aetherius; cfr. M A C R O B I O , sopra nota 13. L'anima come gutta caelestis, λ ί β α ς ούρανία caduta sulla terra dalla ' fonte della luce ' ed ora nuovamente restituita alla fonte: SINESIO 01 CIRENE, Hymn. 3, v. 713SS (PG 66, 1603). - Sul platonico κ ρ α τ ή ρ {Timaios 41 D; Leg. VI, 773 D ) , dal quale defluiscono le anime, cfr. ARNOBIO, Adv. nat. 2, 25 (CSEL IV, Reifferscheid, p. 68, 14-17); 2, 52 (p. 89, 3-5). - Su questo celeste κ ρ α τ ή ρ e il ' celeste corno della luna ', cfr. IPPOLITO, Elenchos 5, 8, 4 (GCS Hippolyt III, p . 89, 25) e R. REITZENSTEIN-H. SCHAEDER, Studien zum antiken Synkretismus aus Iran und Griechenland, Lipsia 1916, ρ. I05ss; E. PFEIFFER, Unter­ suchungen z. griechischen Sternglauben, p. 126, nota 1; W . PASCHER,

Ο δ ό ς β α σ ι λ ι κ ή , Paderborn 1931, ρ. 108.

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L'ECCLESIOLOGIA D E I PADRI

la stessa luna, è dunque la patria alla quale l'anima desidera far ritorno. Selene è la ' terra olimpica ' 15, la terra aetheria 16, l'ultima divinorum 17, che, pur a noi vicina, appartiene tuttavia interamente al campo dell'immortalità, in quanto composta di ' fluida luce ' e di ' etereo fuoco ' 18. Lassù salgono le anime dei buoni e di quanti vengono purificati attraverso i misteri. Esse sostano nell'aria tranquilla che circonda la luna, finché non saranno degne d'ascendere ancor più in alto, nel cielo dell'etereo fuoco 19. Ben diversa è la situazione nell'oscuro spazio sottostante la luna. Qua dimorano i demoni 20. È particolarmente significativa la descrizione che ne fanno ARISTO15

PLUTARCO, Defacie in orbe Lunae 21 (V, Bernardakis, p. 443, 22). M A C R O B I O , Somn. Scip. 1, 19, 8 (Eyssenhardt, p. 549, 4). 17 Ivi, 1, 21, 28 (p. 565, 23). 18 Ivi, (p. 459, 14ss). 19 Sulle raffigurazioni orfico-pitagoriche di Selene come la patria delle anime e della beatitudine, cfr. PLUTARCO, Defacie in orbe Lunae 28 (V, Bernardakis, p. 466s) ; LUCANO, Bell. civ. IX, vv. 5-9 (Housman, p. 255). - Le fonti per la medesima dottrina nella Stoa sono raccolte in ARNIM, Stoic. vet. fragm., v. II, p. 8i2ss. - Cfr. TERTULLIANO, De anima 54 (ed. J. H. Waszink, Amsterdam 1933, p. 180, e il commentario corrispondente p. 280). - Anche in GIAMBLICO il beato regno degli spiriti è situato tra la luna e il sole. Cfr. G I O V A N N I L I D O , De mensibus 4, 149 (Wünsch, ρ. 167, 23-26). - Per l'intera questione cfr. E. R O H D E , Psyche (9 e i o ed., Tubinga 1925) ν . II, ρ ρ . 131. 1953Ι9· 32°; Ε. NORDEN, Ρ. Vergilius Maro, Aen. VI, 3 ed., Lipsia 1926, ρρ. 23-26; R . REINHARDT, Kosmos und Sympathie, Monaco 1926, p . 308SS. - Sul viaggio lunare delle anime cfr. E. R O H D E , Der griechisch? Roman und seine Vorläufer, 3 ed., Lipsia 1914, ρ. 288, nota 2; W. B o u s SET, Die Himmelsreise der Seele in Archiv f. Religionswiss. 4 (1901) 235. - Sul viaggio lunare secondo gli Ermetici cfr. RE Vili (1912) e. 812 (KROLL). 16

20 Sulla regione dei demoni al di sotto della luna cfr., oltre alle due opere di F. J. DÖLGER (sopra, note 3 e 5), anche R. HEINZE, Xenocrates, Lipsia 1892, p. 192; E. R O H D E , Psyche, ν. II, ρ. 319> nota 3; J. KROLL, Gott und Hölle, Lipsia 1932, ρ. 58ss.

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TELE e la STOA: tutto quanto si trova al di sotto della luna è soggetto al dominio del fato, dell'inesorabile destino 21. In questa convinzione è radicata l'angosciata brama degli antichi di conoscere, mediante la scienza occulta dell'astrologia, le leggi della rivoluzione degli astri, per svincolarsi così dall'ineluttabile dominio del fato 22. I culti misterici non potevano promettere ai loro fedeli niente di più gradito che la libertà dal destino. La luna, nella persona di Iside, è colei che « impedisce gli influssi nocivi delle stelle » ; il devoto di Iside vien liberato dalle spire del fato per la bontà della materna dèa 23. L'adepto della religione ermetica crede di potersi librare al di sopra della sfera del destino come uomo saggio e perfetto 24. In occasione dell'oscuramento di Selene nel novilunio si cerca di venirle in aiuto, scacciando col rumore lo stormo dei demoni sublunari e augurando la vittoria alla ' sofferente ' Selene, evidentemente nel timore che anche la stella che delimita la beata regione dell'eterea pace possa essere colpita da 21 Per la negazione aristotelica della preveggenza al di sotto della luna cfr. T A Z I A N O , Or. ad Graec. 2, 8 (Otto VI, p. 10); C L E MENTE ALESS., Protr. 5, 66, 4 (GCS Clemens Ι, ρ. 51, 2s); Strom. 5,

! 3 , 90 (GCS Clemens III, p. 385, IQSS); IPPOLITO, Elenchos 7, 19 (GCS

Hippolyt III, p. 194, 6) : TEODORETO, Therapeut. 6 (PG 83, 957 A) ; ivi 5 (PG 83, 941 A). Cfr. anche RE VII (1912) ce. 2622-2645 ('Heimermene ' di W . GUNDEL) ; W . GUNDEL, Beiträge zur Entwicklungsgeschichte der Begriffe Ananke und Heimarmene, Giessen 1914. 22 Sul rapportò tra astrologia e fede nel fato cfr. F. C U M O N T , Die orientalischen Religionen im römischen Heidentum, 3 ed., Lipsia 1931, ρ. IÓ2SS. - Ivi, p. 298, nota 61, si ha pure una sintesi della letteratura apologetica cristiana contro la fede nel fato. 23 APULEIO, Metamorph. 11, 25 (Hildebrand Ι, ρ. 1078, 13s); l i , 6 (Ι, ρ. 1005, 9)· Cfr. Ο . KERN, Die Religion der Griechen, v. III, Berlino 1938, ρ. 141. 24 Cfr. R E Vili (1912) e. 812 (KROLL).

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qualche sventura 25. Con la magìa si cerca di tirar giù la luna, per impossessarsene e partecipare così della sua forza ultramondana e della sua libertà dal dominio del destino 26. Si portano piccole lune d'oro come ornamento e difesa contro i demoni, e vengono date in dono per il compleanno, dato che la luna presiede al nostro destino e da essa dipende ogni generazione 27. Si spiega poi che la lunula d'avorio che i patrizi romani appendevano alla scarpa è « simbolo della vita futura sulla luna, e che dopo la morte le anime avranno di nuovo la luna ai loro piedi » 28, saranno quindi nello spazio tranquillo che sovrasta la luna. Le idee religiose 25 PLUTARCO, De facie in orbe Lunae 29 (V. Bernardakis, p. 468, i6ss). Il rumore che si fa durante l'ecclisse lunare è diretto contro i demoni della regione sublunare. - Per l'intera questione cfr. W. ROSCHER, Selene, p. 89SS; RE VI (1909) cc. 2331-2337 ('Finsternisse'

di B O L L ) . 26 La magia delle donne ' tessaliche ', l'attrarre in basso la luna, era una delle pratiche magiche più diffuse nell'antichità, fin nel cuore

del cristianesimo. Cfr. BASILIO (PG 29, 145 A) ; AMBROGIO (PL 16,

1027 C; CSEL 32, 1, p. 138, 22ss); EUSTAZIO (PG 18, 721 D ) ; A G O STINO, Civ. Dei i o , 16 (CSEL 40, p. 474, 26s): la luna viene invitata a scendere sulla terra per « effondere la sua forza sulle erbe », come si legge in una citazione da L U C A N O . - Sulle pratiche chimiche di questa magìa lunare ci informa IPPOLITO, Elenchos 4, 37 (GCS Hippolyt III, p. 62, I9ss). Per tutta la questione cfr. ancora W. ROSCHER, Selene, pp. 85-89. - Sul perpetuarsi di questa magìa lunare fino all'epoca carolingica, cfr. R A B A N O M A U R O , Homil. 42 (PL n o , 78-80). D A C L IX, 2 (Parigi 1930) ce. 2707-2715 ( ' L u n a ' di LECLERCQ). 27 PLAUTO, Epidicus 640 (Goetz-Schoell, I, 3, p. 124): « N o n meministi me auream ad te afferre natali die lunulam ? » 28 CASTORE DI R O D I , fragni. 25 (ed. C. Müller, Parigi 1845, p. 181), il quale, secondo Plutarco, « ha spiegato in senso pitagorico gli usi r o m a n i » : σ ύ μ β ο λ ο ν τ η ς λ ε γ ο υ μ έ ν η ς ο ί κ ή σ ε ω ς έ π ί τ η ς σελήνης καί δτι μ ε τ ά την τελευτήν α δ θ ι ς αί ψυχαί την σ ε λ ή ν η ν ύ π ο π ό δ α ς έ ξ ο υ σ ι ν . Cfr. anche C . Α. LOBECK, Aglaophamus (Königsberg 1829), v. I, p. 169; H. BLÜMNER, Die römischen Privataltertümer, Monaco 1911, p. 224s.

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della tarda antichità - con le quali anche la Chiesa ha dovuto esprimersi - in molti casi erano indubbiamente rozze superstizioni astrologiche, ma anche, sempre in un clima altamente spirituale, un vivo sentimento dell'unione con la divinità e dell'ardente desiderio dell'aldilà. Tale sentimento s'accende alla vista del cielo illuminato da Selene e dal suo coro di stelle. « Nella notte scintillante di stelle lo spirito si inebria della luce che il fuoco dell'etere gli irradia; sulle ali dell'entusiasmo esso s'innalza sul sacro coro degli astri e ne segue gli armoniosi movimenti; ' diviene partecipe della loro immortalità e ancor prima della morte si intrattiene con gli dèi ' » 29. A tale brama, che nella sua inquietante ed opprimente incertezza è tanto commovente, dà ora una risposta la chiara e ferma professione di fede della Chiesa nella risurrezione della carne. L'incontro dello spiritualismo greco della tarda antichità col dogma della risurrezione della carne, professato dalla Chiesa con tanta fermezza, è uno dei capitoli più avvincenti del confronto fra il cristianesimo e il mondo antico 30. Come abbiamo già visto, AGOSTINO ha fatto notare che i pagani han guardato con molto interesse alla sopravvivenza dell'anima separata dal corpo, mentre non hanno potuto credere alla sopravvivenza del corpo 31. 29

F. CUMONT, Die orientalischen Religionen im römischen Heiden-

tum, ρ. 163. L'ultimo testo citato è di VETTIO VALENTE 9, 8 (Kroll,

p. 242, 16). Cfr. anche F. CUMONT, Le mysticisme astrai in Bull. Acad. Belgique (1909) 279SS. 30 Cfr. K. PRÜMM, Der christliche Glaube und die altheidnische Welt, Lipsia 1935, ν. II, pp. 355s. 476s; K. PRÜMM, Christentum als Neuheitserlebnis, Friburgo 1939, pp. 449-465. 31 AGOSTINO, Enarr. in Ps. 88, 5 (PL 37, 1134D): « Nam de animi immortalitate multi etiam philosophi gentium multa disputa-

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A distanza di secoli la situazione era dunque ancora identica a quella di cui si lamentava Paolo nell'Areopago di Atene agli inizi della predicazione cristiana 32. Anche nel pensiero della tarda antichità, specialmente nell'ambito della religiosità misterica, si sono conservate però delle tracce d'una vaga idea della risurrezione dei corpi 33. Qui s'inserisce la predicazione della Chiesa. Ben presto nei tanti trattati degli antichi teologi cristiani intorno alla risurrezione della carne si volge lo sguardo al cielo stellato, luminoso simbolo dell'aldilà. Selene è il grande esempio della risurrezione che si compie nella Chiesa e in tutti quelli che vengono generati dal suo seno materno. Già il Veggente di Patmos aveva insegnato a considerare la Chiesa come la grande donna che sta sulla luna, al di sopra d'ogni mutevolezza, della corruttibilità terrena, della legge del fato, sopra il ' regno dello spirito di questo mondo ' 34. verunt, et immortalerà esse animum humanuni pluribus et multiplicibus libris conscriptum memoriae reliquerunt. Cum ventum fuerit ad resurrectionem carnis, non titubant, sed apertissime contradicunt, et contradictio eorum talis est, ut dicant fieri non posse ut caro ista terrena possit in caelum ascendere. Ideo Luna ista perfecta in aeternum, et adversus omnes contradictores testis in caelo fidelis ». 32 At 17, i8ss. Cfr. anche 1 Cor 15,12. 33 Cfr. K. PKÜMM, Der christl. Glaube, ν. II, ρ. 367s. 34 Apoc 12,1: γυνή περιβεβλημένη τον ήλιον και ή σελήνη ύποκάτω των ποδών αυτής. Non è qui il caso di recensire gli innumerevoli tentativi d'una spiegazione storico-religiosa della visione, né è possibile indicare quanto siano state diverse le spiegazioni date nel corso dell'antica esegesi cristiana. Cfr. l'esposizione sintetica di E. B. ALLO, Saint Jean. L'Apocalypse, 2 ed. Parigi 1921, pp. 167-179 (Exc. 26 : Les prétendues origines juives ou astronomiques ou mythologiques de la vision du ch. XII). - Benché anche nell'Antico Testamento si parli della luna come simbolo della mutevolezza e della stoltezza (mentre il sole viene indicato come simbolo dell'immutabile sapienza), cfr. Ecdi 27,11, tuttavia per la spiegazione della visione

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La prima cosa che la Chiesa, in un senso completamente diverso da quello delle religioni misteriche, prometteva ai suoi neofiti era la libertà dal destino delle stelle. « Noi siamo al di sopra del fato e conosciamo non i demoni dei pianeti, ma il solo infallibile Signore del mondo ! » 35. Tutti gli astri, infatti, come si legge nella lettera a Diognete, « serbano fedelmente i misteri del Logos e Selene obbedisce al comando del Logos » 36. Questa liberazione avviene nel battesimo. Nel capitolo sul battesimo, nella sua prima Apologia, GIUSTINO afferma che « i battezzati non son più figli della costrizione » 37. CLEMENTE ALESSANDRINO ci ha conservato negli Excerpta ex Theodoto delle frasi che dimostrano quanto fosse viva l'interpretazione del battesimo come liberazione dalle catene del destino. L'acqua pneumatizzata del battesimo estingue l'incendio della στοιχεία, la provvidenza di Cristo prende il posto del fato sublu­ nare, che non ha leggi: μέχρι τοΰ βαπτίσματος ή ειμαρμένη αληθής, μετά τοϋτο ούκέτι άλη-9-εύονσιν οι αστρολόγοι 3 8 . dell'Apocalisse ci si può pure riferire (ciò che finora non è stato fatto in misura sufficiente), a tutto il complesso di idee che abbiamo esposto sopra. Cfr. soprattutto la citazione da CASTORE DI RODI, sopra, nota 28. 35 TAZIANO, Or. adv. Graec. 9 (Otto VI, p. 42): ήμεις δε και ειμαρμένης έσμέν ανώτεροι, κα!. αντί πλανητών δαιμόνων ένα τον απλανή δεσπότην μεμα-9-ήκαμεν. 36 Ed. ad Diogn. 7 (Otto III, ρ. 184): οδ (τοΰ Λόγου) τά μυστήρια πιστώς πάντα φυλάσσει τα στοιχεία ... φ πει­ θαρχεί ή σελήνη νυκτί φαίνειν κελεύοντι. 37 GIUSTINO, Apol. Ι, 6ι (Otto Ι, ρ. ι66): δπως μη ανάγκης τέκνα μηδέ άγνοιας μένωμεν άλλα προαιρέσεως καί επισ­ τήμης. 38 Exc. ex Theodoto 78, ι (GCS Clemens ΠΙ, ρ. 131, 15s)- Cfr. anche ivi 74 (ρ. 130, 18-22): 81 (ρ. 131, 31 - ρ. 132, 9).

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DEI

PADRI

Quanto sia stretto il nesso tra la rappresentazione della Chiesa come vera Selene, liberatrice dal fato, e l'apologetica contro la fede nel fato, appare dal fatto che i Padri della Chiesa nella spiegazione dell'Exaemeron confutano tutti, senza eccezione, la teoria del fato degli astri. Suona come un canto di gioia il grido che METODIO ripete di continuo al termine del suesposto capitolo sulla luna: ούκ άρα γένεσις, ούκ άρα ειμαρ­ μένη 3 9 . Non Elio e Selene, che secondo le credenze dei pagani cambiano la nostra terra « in una vita divina­ mente beata, tranquilla, non offuscata dal dolore e dalla cattiveria » e che sono anche la ragione delle azioni caduche e peccaminose, ma il Signore del cielo, il Si­ gnore della nostra libera volontà stabilisce il nostro destino 40 . Il cristiano battezzato è πάσης ανάγκης έκτος 4 1 . ORIGENE 4 2 e, più tardi, CRISOSTOMO 43 dicono che la provvidenza di Dio riguardo ai suoi fedeli non si estende solo ' fino alla luna '. I Padri inveiscono contro la magìa lunare 44. Secondo AMBROGIO, i maghi che con le loro arti occulte tentano di tirar giù dal cielo la luna, sono simbolo della potenza demoniaca che vuol rimuovere la vera Luna, la Chiesa, 39 M E T O D I O , Symposion 8, 15. 16 (GCS Methodius, p. 103, 11s; p . 105, 15; p . 106, 9; p . 109, 3 . 7 ; p . 110, 15). 40 Ivi 8, 15 (p. 104, 1-5); 8, 16 (p. 105, 1-3). 41 Ivi 8, 13 (p. 98, 17-20): α υ τ ο κ ρ ά τ ο ρ α κ α ι α ΰ τ ε ξ ο ύ σ ι ο ν τον λ ο γ ι σ μ ο ν ε ί λ η φ ό τ α ς κ α ι π ά σ η ς α ν ά γ κ η ς έ κ τ ο ς εις τ ο α ύ τ ο δ ε σ π ό τ ω ς αίρεΐσ&αι τ α ά ρ έ σ κ ο ν τ α , ο ύ δ ο υ λ ε ύ ο ν τ α ς ε ι μ ­ αρμένη και τ ύ χ α ι ς . 4 2

ORIGENE, Comm. in ep. ad Rom. 3 (PG 14, 927 Β ) .

4 3

CRISOSTOMO, Expos, in Ps. 134, 3 (PG 55, 392 A).

4 4

Cfr. le d u e prediche di MASSIMO D I T O R I N O , De defectione

Lunae (PL 57, 483-490), nelle quali vien raccolto da Ambrogio e da Agostino quanto l'apologetica cristiana aveva prodotto contro la magia lunare.

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dalla sua statio, dalla stabilità del suo posto in cielo. Ma la Chiesa è esente da ogni potere demoniaco, perché prende parte al mistero dell'immutabilità di Cristo : « Nihil incantatores valent ubi Christi canticum cotidie decantatur » 45. Infatti, come dice Ambrogio con una espressione piuttosto ardita, la Chiesa, la spirituale Selene, ha il suo grande e unico ' mago ', Cristo, che è stato ' esaltato ' e ha così reso vano ogni ' egiziaco scongiuro ' 46. La Chiesa rimane eternamente al suo posto in cielo. Non saranno più le lune apotropeiche portate dalle donne a proteggere dai demoni quaggiù, sotto la luna; il cristiano anche nel portare questi ornamenti pensa alla Chiesa che è la vera luna : « Habent mulieres in Lunae similitudinem bullulas dependentes, quas nos ad Ecclesiae ornamenta transferimus quae illuminatur Sole iustitiae » 47. Se l'antica teologia cristiana vede nella luna e nei suoi mutamenti una figura della finale risurrezione della carne, ciò non è solo per una facilmente comprensibile similitudine suggerita dalla natura; qui si muove tutto quel mondo di idee, da cui erano eccitati gli antichi nella contemplazione della notturna luminosità di Selene. La miglior prova di ciò sta nel fatto che l'accostamento tra luna e risurrezione appare quasi sempre nell'immediato contesto del rifiuto del culto divino di Selene. L'intento specifico del sistema apologetico dei Padri è dunque quello di trasformare la 48

AMBROGIO, Hexaemeron 4, 8, 33 (CSEL 32, 1, p. 139, 4s). Ivi (p. 139, 5-9): «Habet (Ecclesia) incantatorem suum D o minum Iesum ... et Aegyptiorum ferale licet Carmen inmurmuret, in Christi nomine hebetatur ». - La stessa cosa si ha in MASSIMO DI 46

T O R I N O (PL 57, 4S8 BC). 47 GIROLAMO, In Is. commetti. 2 (PL 24, 70 D ) .

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venerazione di Selene, profondamente radicata nell'uomo antico, nella gioia per la verità che la rivelazione cristiana ha manifestato intorno al destino finale dell'uomo. La lotta contro l'adorazione della divina Selene comincia già con l'Apologia di ARISTIDE 48. Evidentemente è altrettanto antico anche il principio apologetico: Selene è l'immagine dell'uomo mortale e il simbolo della sua futura risurrezione. TEOFILO ANTIOCHENO parla chiaramente della ' risurrezione di Selene ' e ricorre al fenomeno delle fasi lunari per mostrare che Selene muore continuamente per poi risorgere: tutto questo è una figura della nostra risurrezione 49. In modo analogo ragiona anche TERTULLIANO : « Reornantur et specula Lunae quae menstruus numerus attriverat » 50. Nel profondo pensiero e negli scritti di Tertulliano il regolare alternarsi in cielo dell'oscura morte e della vita luminosa degli astri rappresenta in sintesi la legge dialettica dell'universo, in cui si riflette il mistero della risurrezione della carne: « Semel dixerim, universa condicio recidiva est. Quodcumque conveneris, fuit. Quodcumque amiseris, nihil non iterum est. Omnia in statum redeunt, cum abscesserint. Omnia incipiunt cum desierint. Ideo finiuntur, ut fiant. Nihil deperit, nisi in salutem. Totus igitur hic ordo revolubilis rerum, testa48 ARISTIDE, Apol. 3, 2; 6, 3 (GEFFCKEN, Zwei griech. Apol., p. 6, 3-9; p. 9, 25). Cfr. anche GIUSTINO, Apol. II, 5 (Otto I, p. 208s); EP. AD DIOGN. 7, 2 (Otto III, p. 144). 49 TEOFILO ANT., Ad Autol. 1, 13 (Otto Vili, p. 40): κατανόησαν την άνάστασιν της σελήνης, την κατά μήνα γενομένην, π ώ ς φθίνει, αποθνήσκει, άνίσταται πάλιν. - Ivi 2, 15 (Otto Vili, ρ. 102): έπειτα άναγενναται και αΰξει είς δείγμα της μελ­ λούσης έσεσθαι αναστάσεως. 50 TERTULLIANO, De resurr, carnis 12 (Oehler Π, ρ. 482, 9s; PL 2, 810 B).

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tio est resurrectionis mortuorum » 51. Per questa ragione i Padri, spiegando la risurrezione della carne, ricorrono spesso anche al simbolo della Selene che muore e sempre rinasce 52 . Questo concetto è stato sviluppato soprattutto da SEVERIANO DI GABALA. Rigenerazione e risurrezione della carne sono, come dice il Signore in Mat 19,28, un solo mistero. Selene è la figura della carne mortale; la nostra vita trascorre come le fasi astronomiche della luna. « Oggi nasce la luna », esclamiamo nel vedere il rinnovato splendore della luna. Così pure l'uomo: « Noi nasciamo, cresciamo, giungiamo alla piena maturità, superiamo l'apice della vita, a poco a poco svaniamo, invecchiamo, moriamo, scendiamo nella tomba». Ma in noi si compie il mistero di Selene: άλλα πάλιν γεννάται, επειδή καί ημείς μέλλομεν άνίστασ&αι, καί μένει ήμας γέννησις άλλη ... εγ­ γυάται ή σελήνη τήν άνάστασιν 5 3 . La luna è quindi « garanzia della nostra risurrezione ». In essa Iddio, come dice TERTULLIANO, ha voluto prefigurare il mi51

Ivi (Oehler II, p. 482, 20ss; PL 2, 810 BC).

52

Cfr. CIRILLO DI GERUS., Catech.

18,

io (PG 33,

1028 CD):

Tò γαρ της σελήνης σώμα παντελώς έκλείπον, ώς μη δ' ότιοϋν φαίνεσθαι λοιπόν, πάλιν άναπληροϋται καί εις δπερ ήν αποκαθίσταται ... σύ ό άνθρωπος ... τη τών νεκρών άναστάσει μη άπιστήσης· άλλ'δπερ έπι της σελήνης βλέπεις, τοϋτο καί περί σεαυτοϋ πιστεύσης. - GREGORIO NISS., De ani­ ma et resurrectione (PG 46, 32 CD): EZNIK DI KOLB, Wider die Häresien ι, 3 (BKV2 57, p. 30): «Perché (si deve adorare) la luna, che mese per mese decresce e muore e poi di nuovo comincia a vivere, per offrirvi un'immagine della risurrezione?». - PS.-CIPRIANO, Carmen de resurrectione mortuorum, vv. 126-132 (CSEL 3, 3, p. 313; cfr. ed. J. H. Waszink, Fior. Patr. Suppl. 1, Bonn, 1937, p. 67SS); Giov. DAMASCENO, De fide ortodoxa 2, 7 (PG 94, 897 A). 53

SEVERIANO GABAL., De mundi constitutione Or. 3,5 (PG 56,453 C).

284

L ' E C C L É S I O L O G I A D E I PADRI

stero della perfezione cristiana prima ancora di rivelarlo nella Sacra Scrittura 54. Anche AGOSTINO ha presente la luna quando spiega ai suoi fedeli i segreti del cielo stellato, e dirige il loro sguardo alla beata regione al di sotto della quale si trova « la dimora di quest'aria buia » e nella quale « brillano radiose le stelle ed abitano i santi Angeli » 55. L'estinguersi e il rinnovarsi della luna, come egli espressamente afferma, è « anche per gli uomini semplici una chiara figura della Chiesa, nella quale si crede nella risurrezione dei morti » 56. Il continuo mutare della luna raffigura assai bene la natura mortale del nostro corpo. Ma solo alla fine dei tempi, quando « il nostro trono sarà come il trono del Sole » (Sal 88,38), quando il corpo mistico di Cristo sederà sul trono di Dio, solo allora anche « la luna sarà perfetta, un fedele testimone in cielo » : « Similis est ergo caro ista Lunae, quae omni tempore et omni mense patitur augmenta et decrementa; sed erit caro ista nostra in resurrectione perfecta et testis in caelo fidelis » 57. All'invecchiamento di questo mondo succederà l'eterna giovinezza della rigenerazione e della risurrezione. Agostino esprime gli stessi concetti che riprenderà più tardi ANASTASIO SINAITA: la Chiesa è fin d'ora rivestita della giovinezza che non invecchia, la vera Selene non tramonta mai, non muore, ma è eternamente giovane : « Similiter etiam typica Luna peribit; vera autem Luna Ecclesia, quam prius praedi54 TERTULLIANO, De resurr. carnis 12 (Oehler II, p. 4S3; PL 2, 811 A). 55

AGOSTINO,

Semi.

122

(PL 38,

1091 Β ) . - Cfr.

F. J.

DÖLGER,

Die Sonne der Gerechtigkeit uni der Schwarze, Münster 1918, p. 50. 51 AGOSTINO, Enarr. in Ps. 10, 3 (PL 36, 133 A ) . 57 Ivi 88, 5 (PL 37, 1134B).

LA CHIESA RAGGIANTE

285

cavit et annuntiavit nocturna, non veterascet » 58 . Come l'aquila nel suo vigore giovanile continuamente si rinnova e vola sicura verso le luminose altezze dov'è il sole, così pure la Chiesa e i fedeli. Questo mistero è prefigurato nella luna, splendente nel cielo che copre la terra. Il significato simbolico della luna vien così trasferito dalla natura mortale del corpo all'immortale splendore della Chiesa, eternamente gloriosa con Cristo. Ciò ha inizio nel giorno in cui la Chiesa « viene esaltata, per regnare con Cristo nel fulgore della risurrezione della carne » 59 . La Chiesa ha potuto così dirigere lo sguardo dei suoi fedeli al beato regno del « mondo dell'aldilà », dove splende unicamente l'etereo fuoco di Cristo. E ciò in un senso più profondo e più vero rispetto a quello inteso dalla religiosità antica. CLEMENTE ALESSANDRINO, indotto dalle idee di Platone, così descrive la santa regione sovrastante il cielo delle stelle fisse: « Un luogo attraente e tranquillo, la pacifica dimora dei Santi» 6 0 . Questo luogo è la ' Casa del Padre ', nella quale entra il giusto dopo la morte, librandosi al di sopra delle sfere, completamente ricolmo della tranquilla e immutabile luce 61 , della luce originaria che Dio ha fatto risplendere all'inizio della creazione e con la quale nel

58

59

ANASTASIO SINAITA, Hexaemeron 4 (PG 89, 911 D ) .

AGOSTINO, Enarr. ira Ps. 102, 9 (PL 37, 1323s): « Erit post senectutem tamquam iuvenis aquila ... volat exceisa sicut antea, fit in ea quaedam resurrectio ... sicut et Luna ponitur, quia deminuta et quodam m o d o intercepta rursus nascitur et impietur, et significat nobis resurrectionem ». - Cfr. il canto primaverile sulla luna di Pasqua che si prepara per la risurrezione del Signore e si veste di luce radiosa : PS.-AGOSTINO, Semi. 164 App. (PL 39, 2067). Cosi pure GAUDENZIO DI BRESCIA, Sermo 3 in Pascha (PL 20, 861 B C ) . 60 CLEMENTE ALESS., Strom. 5,14,106 (GCS Clemens II, ρ. 397, 11ss). 61 Ivi 7, io, 57 (GCS Clemens HI, p. 42, 13-15).

286

L'ECCLESIOLOGIA DEI

PADRI

quarto giorno ha plasmato i due luminari del cielo 62. Questa è la luce dell'eterno ' Padre dei lumi ', dal quale procedono Cristo e la Chiesa, ' luminari di questo mondo ', e al quale ritornano ora definitivamente. La « città eterna non ha più bisogno del sole e della luna», dice l'Apocalisse; e i Padri applicano l'espressione al compimento della salvezza di Dio in Cristo e nella Chiesa 63. Il dramma della storia della salvezza ritorna così al principio, donde tutto procede, ossia al Padre eterno, alla fonte della luce. Questa purissima luce del Padre mediante il Sole Cristo illuminerà eternamente la Chiesa, immortale Selene, e i Santi, celeste coro di stelle, così come la luce del sole attraverso il dolce e materno splendore della luna terrena illumina le stelle. È ancora una volta il Poeta della Divina Commedia a descrivere, in una geniale sintesi del pensiero antico e della simbologia cristiana qui esposta, il trionfo di Cristo. Cristo gli appare come il Sole immortale che irradia la sua luce su « migliaia di lucerne », come la luna nello splendore della mezzanotte invia sorridendo la sua luce al « coro delle ninfe », ossia alle stelle 64 : « Quale nei plenilunii sereni Trivia ride tra le ninfe eterne, Che dipingono il ciel per tutti i seni, Vid'io sovra migliaia di lucerne, 62 Cfr. BASILIO, Hexaemeron, hom. 6, 2. 3 (PG 29, 121 A-D) ; AMBROGIO, Hexaemeron 4, 3, 8.9 (CSEL 32, i, p. 116, 3-26); S E VEEIANO GABAL., De mundi constitutione Or. 3, 2 (PG 56, 448 D; 449 A ) ; ANASTASIO SIN., Hexaemeron 4 (PG 89, 897 C D ) . 63 Apoc 21,23; 22,5- - Cfr. AMBROGIO, Expl. Ps. 38, 18 (CSEL 64, p. 198, 12s); 47. 15 (p. 536. 10-13). 64 Paradiso XXIII, 25-30.

LA CHIESA RAGGIANTE

287

Un Sol che tutte quante l'accendea, Come fa il nostro le viste superne ». Con uno sguardo retrospettivo al ricco mondo d'idee del simbolismo lunare del quale la teologia patristica ha rivestito la sua ecclesiologia, veniamo a conoscere una delle tesi più significative dell'antica dommatica cristiana. Abbiam potuto vedere inoltre un esempio concreto e ben determinato di come e con qual criterio si sia stabilito il contatto tra l'antichità e il cristianesimo: l'antica teologia cristiana, seguendo il suo specifico criterio di conoscenza fondato sulla divina rivelazione e sulla tradizione apostolica, si è servita liberamente, grazie alla potenza della speculazione greca, del pensiero antico, come per rivestire di questo i misteri cristiani. ORIGENE riunisce in una sintesi mirabile l'aspirazione dei greci all'ascesa ai beati spazi al di là della luna e la dottrina cristiana intorno al mistero della visione di Dio. Nell'Esortazione ai martiri egli invita gli ' amici dell'eterno Padre ' a prepararsi al celeste viaggio, nel quale passeranno attraverso tutte le sfere volando sui misteri della terra e del cielo stellato : « Io ho la ferma certezza che Dio custodisce e conserva presso di sé come in un tesoro cose molto più belle di quelle che Elio e Selene ed anche il coro degli angeli hanno vedute: le farà conoscere allorché ogni creatura sarà libera dalla schiavitù del nemico nella libertà della gloria dei figli di Dio » 65. 65 ORIGENE, Exh. mart. 13 (GCS Origenes I, p. 13, 23 - p. 14, 2): πέπεισμαι γαρ δτι ών εϊδεν ήλιος και σελήνη καί ό των αστέρων χορός άλλα καί αγγέλων άγιων ... πολλω μείζονα ταμιεύεται καί τηρεί παρ'έαυτω ό Φεος ίνα αυτά φανέρωση, δταν πάσα ή κτίσις έλευ&ερωθ-ή άπο της δουλείας τοϋ έχθροϋ εις την έλευθερίαν της δόξης των τέκνων τοϋ &εοϋ.

FLUMINA DE VENTRE CHRISTI L'ESEGESI PATRÌSTICA DI GIOV. 7, 37. 38

PREMESSA

Il presente studio, inserito ora nell'opera generale, è stato pubblicato per la prima volta nel 1941. SI tratta d'una ricerca storico-esegetica. Ma i risultati raggiunti, come anche i testi che adduciamo per la storia di queste idee sono così essenziali per la conoscenza della dommatica dei Padri sulla salvezza operata dall'acqua viva uscita dalla piaga del costato di Cristo, che si spiega da sé perché questo saggio sia stato inserito nel presente libro. È un impegno precipuo dell'ecclesiologia patristica quello di pone in risalto l'origine della Chiesa dal cuore del secondo Adamo addormentatosi nella morte e la mistica unità tra il corpo di Cristo e la Chiesa. Ne è una prova l'espressione di Ireneo : « Chiunque lo voglia, può ricevere dalla Chiesa l'acqua viva » 1. Nella teologìa di Ippolito, dì Cipriano e dì Ambrogio, il corpo di Cristo e la sorgente dalla quale sgorgano i sacramenti che formano la Chiesa. Proprio perché si tratta qui d'una parte della storia dell'esegesi, sarà possìbile vedere più chiaramente quali elementi dominatici siano effettivamente presenti anche dietro l'interpretazione della Scrittura, e in che modo si manifesta nell'ecclesiologia quella tendenza piuttosto psicologico-morale, ispirata ad Origene, in opposizione ad una dommatica 1

Adv. haer. 3, 4, 1 (Harvey II, 15).

292

PREMESSA

realistico-sacramentale che in questa indagine storico-esegetica indichiamo giustamente come teologia dell'Asia minore e che ha avuto la sua espressione più bella nella dottrina di Ireneo. Inoltre i risultati della nostra ricerca, per quanto concerne la formulazione del testo di Giov 7,37.38, hanno avuto una conferma nell'Enciclica ' Haurietis aquas ' di Pio XII, del 15 maggio 1956 2. E dalle più recenti indagini sulla questione appare ugualmente quanto sia importante questo studio per la dottrina della grazia e della Chiesa 3.

2

AAS 48 (1956) 310. Cfr. J. MÉNARD, VInterpretation patristique de Jean 7,38 in Revue de VUniversité d'Ottawa 25 (1955) 5-25; D. M. STANLEY, Front his heart will flow rivers of living waters: Cor Jesu, Commentationes in Litteras Encydicas Pii XII ' Haurietis Aquas ', voi. I, Roma 1959, pp. 509-542. 3

INTRODUZIONE

La promessa dell'acqua viva, annunziata dal Signore Gesù Cristo al popolo nel gran giorno della festa dei Tabernacoli in occasione della solenne libazione con l'acqua 1, ha avuto fin dai primissimi tempi dell'esegesi cristiana due interpretazioni opposte. Questa duplice spiegazione è motivata da una diversa trasmissione del testo di Giov 7,37.38. Infatti il senso delle parole dipende dall'interpunzione e dalla differente delimitazione colometrica delle proposizioni. Diremo meglio che le varianti nella trasmissione del testo han dato luogo fin dall'inizio ad una contrastante spiegazione del suddetto passo. M. J. LAGRANGE nel suo commento al Vangelo di S. Giovanni 2 ha raccolto tutta la materia finora elaborata intorno alla presente questione. Nella sua ricostruzione del testo egli decide per un'interpunzione che differisce da quella tradizionale: έάν τις δίψα έρχέσθω προς με κκί πινέτω ό πιστευων ε'ις έμέ. κα&ώς είπεν ή γραφή· ποταμοί έκ της κοιλίας αύτοϋ ρεύσουσιν ύδατος ζώντος. 1 Cfr. Η. STRACK-P. BIIXERBECK, Kommentar zum Neuen Testa­ ment aus Talmud und Midrasch, Monaco 1924, v. II, pp. 490-493 ; 799-805. 2 M.-J. LAGRANGE, Évangite sehn Saint Jean, Parigi 1936, 5 ed., pp. 214-217.

294

INTRODUZIONE

Già dal primo sguardo appare chiaro che la nuova interpunzione cambia sostanzialmente anche il senso delle parole. Non dall'intimo del credente sgorgano fiumi d'acqua viva, ma Cristo vuole invitare il popolo a non desiderare tanto l'acqua terrena, e ad attingere piuttosto da quella fonte che dona l'acqua promessa nella S. Scrittura; questa fonte è il Messia, che sta in mezzo al popolo. Il senso dell'espressione è dunque questo: dall'intimo del Messia, dal suo corpo umano, sgorgheranno fiumi d'acqua viva. Cristo si manifesta come datore dello Spirito, e lo Spirito è la sintesi di tutti i beni della redenzione messianica, che scaturiscono dal corpo di Cristo, ossia dalla sua ' glorificazione ', dalla morte in croce. La frase che ora inizia con καθώς deve essere quindi riferita al Messia. In tal modo viene a cadere il concetto significato dalla pre­ cedente interpunzione, che cioè l'acqua dello Spirito sgorghi anche dall'intimo del credente, che quindi il credente possa essere considerato come una sorgente dello Spirito messianico. Si scioglie così anche la difficoltà principale dell'esegesi tradizionale per quanto riguarda i passi dell'Antico Testamento, in cui la suddetta prerogativa sarebbe affermata del credente dell'era messianica. Viene infine rimossa la difficoltà dommatica dell'enunziato, secondo il quale il credente può diventare a sua volta una fonte dello Spirito Santo. Or si pone però in modo imperativo la domanda: siamo autorizzati a staccarci dalla lezione finora comune e molto meglio attestata dai manoscritti ed anche dai Padri, e ad introdurre un'interpunzione che muta così profondamente il senso del passo di Giov 7,37.38? Lagrange ammette, per sé, la possibilità e il profondo

INTRODUZIONE

295

significato dell'interpretazione tradizionale del testo. Per la sua ricostruzione del testo e quindi per la sua nuova interpretazione egli si richiama a GRILL 3, Loisy 4 , WETTER 5 - testi in verità non molto degni di fiducia; ma anche alle accurate ricerche di ROBINSON 6 e TURNER 7. Da questi autori raccoglie le testimonianze dei Padri che possono provare che l'interpretazione quella da lui preferita - del testo in ordine a Cristo invece che ai credenti è conosciuta fin dall'antichità. Egli distribuisce così le teorie esegetiche della patristica su questo testo: l'Oriente, sotto la guida di ORIGENE, si sarebbe pronunziato sempre per la spiegazione e l'interpunzione tradizionale, e questa tesi per il preminente influsso di Origene sarebbe poi passata a GIROLAMO ed AGOSTINO, divenendo così comune nel medioevo e nei tempi moderni. La primitiva esegesi latina avrebbe dato invece la preferenza, sia per il testo giovanneo sia per la sua interpretazione, all'altra tesi, ora riproposta anche dal Lagrange. Le testimonianze patristiche addotte da Lagrange sono quelle familiari da tanto tempo alla scienza esegetica : IRENEO 8, IPPO3 JULIUS GRILL, Untersuchungen über die Entstehung des vierten Evangeliums, ρ. I, Tubinga 1902, ρ. 16, n o t a 1 ; ρ. Π, Das mysterienevangelium des hellenistischen Christentums, Tubinga 1923, pp. 105-107. 4 A. LOISY, Le quatrième Evangile, Parigi 1921 (2 ed.), pp. 270-273. 5 G. Ρ. WETTER, Der Sohn Gottes, Eine Untersuchung über den Charakter und die Tendenz des Johannesevangeliums (Forschungen zur Religion und Literatur des Alten und Neuen Testaments. Neue Folge, Heft 9), Gottinga 1916, p. 55ss. 11 J. A. ROBINSON, The Passion of St. Perpetua. The Letter of the Churches of Vienne und Lyons (Texts and Studies I, 2), Cambridge 1891, p. 98. 7 C. H. TURNER, On the punctuation of St. John 7,37.38 in Journal of Theological Studies 24 (1923) 66-70. 8 Adv. haer. 5, 18, 2 (Harvey II, 374); 3, 24, 1 (Hervey II, 13LS).

296

INTRODUZIONE

LiTO 9 , la lettera sui martiri di Lione 10, CIPRIANO 11, PS.-CIPRIANO

12

e AMBROGIO

13

.

La nostra ricerca comincia qui. Innanzi tutto non è nostra intenzione dare una giustificazione esegetica dell'una ο dell'altra interpretazione del testo. Vogliamo solo presentare nel modo più completo possibile il materiale patristico che riguarda la storia dell'interpretazione di Giov 7,37.38. Dai testi patristici, trasmessi finora indiscriminatamente, non è possibile stabilire quale tesi sia stata quella originaria e perciò più esatta. È molto meglio cercare di ordinare i testi in un quadro storico e genetico. Un facile esempio ci mostra per quali vie sia stato trasmesso nei secoli il testo di Giov 7,37-38, fin dagliinizi dell'esegesi scritturistica cristiana. Nel nostro caso (tanto per accennarlo in anticipo) come si sia cercato di interpretare tale testo nella tradizione dell'Asia minore, che si ricollegava direttamente allo stesso Giovanni, e come mai la spiegazione contestata sia stata quasi dappertutto predominante grazie all'autorità di Origene. Ci si presenta anche l'occasione di accrescere in modo considerevole rispetto a quelli addotti da Lagrange e dai precedenti studi - il numero dei testi patristici coi quali s'avvalora la nuova interpretazione. Il presente saggio ha quindi 9

Comment. in Dan. 1, 17 (GCS Hippolyt I, 1, p. 29, n s ) . EUSEBIO, Hist. eccl. 5, 1, 22 (GCS Eusebius II, 1, p. 410, 10-13 ) . 11 Testini. 1, 22 (CSEL 3, 1, p. 58, 8-10); Epist. 63, 8 (CSEL 3. 2, p. 706, 16ss); Epist. 73, 11 (CSEL 3, 2, p. 786, 3). 12 De montihus Sina et Sion 9 (CSEL 3, 3, p. 115, 9-15); De rebaptismate 14 (CSEL 3, 3, p. 86, 14-19). 13 De Spiritu Sancto 3, 20, 154 (PL 16, 812 B C ) . Dell'insufficiente forza probativa del testo di A m b r o g i o , come anche della posizione storica e del valore degli altri testi patristici summenzionati, tratteremo espressamente nel secondo capitolo del presente studio. 10

INTRODUZIONE

297

il solo scopo di portare un contributo alla conoscenza del pensiero dei Padri per quanto riguarda l'esegesi, la storia e l'arte dell'interpretazione, e infine la pressante questione del senso più antico e profondo della mirabile autorivelazione di Cristo qual fonte dello Spirito, somma di tutti i doni messianici. Il nostro studio si articola in due capitoli. Nel primo si espone e si ricercano le origini di quella tradizione patristica che si è espressa a favore dell'interpretazione ed interpunzione del testo finora comune: il credente, dopo aver bevuto Cristo alla sorgente, diventa egli stesso la sorgente dell'acqua dello Spirito per gli altri; in ciò Cristo vede il compimento d'una profezia dell'Antico Testamento. Qui s'impone però la risposta a due questioni fondamentali: 1. Che cosa significa realmente, e senza ricorrere al linguaggio figurato, l'espressione : il credente diviene egli stesso fonte d'acqua viva? 2. Secondo il pensiero dei Padri, in qual punto dell'Antico Testamento questo concetto è espresso in termini espliciti, od anche solo accennato? Nel secondo capitolo si espone invece la tradizione patristica favorevole all'altra interpretazione ed interpunzione del testo, e se ne ricerca la provenienza. Anche qui dobbiamo rispondere a due domande: 1. Quali sono le origini della tesi secondo cui Cristo in questo luogo ha rivelato se stesso qual fonte dell'acqua viva che sgorga dal suo intimo? 2. Dov'è preannunziato questo fatto nelle profezie dell'Antico Testamento? Ne risulterà che di fatto l'interpunzione e l'interpretazione del testo proposta da Lagrange si dimostra più attendibile in ragione d'un aggancio immediato alla tradizione giovannea e quindi per il suo contenuto

298

INTRODUZIONE

teologicamente molto più apprezzabile. La prova patristica sarà presentata per la prima volta qui in modo esauriente. Per agevolarne l'analisi, tracceremo anzitutto le linee della storia dell'esegesi tradizionale di Giov 7,37.38.

Ι.

LΑ TRADIZIONE ALESSANDRINA

ORIGENE è il primo esegeta cristiano a interpretare Giov 7,38 nel senso d'un traboccamento, nell'intimo del credente, dell'acqua bevuta dalla fonte che è Cristo. Prima di lui non si trova nella Chiesa primitiva nessuna testimonianza scritta in favore di questo significato. Ma in Origene l'esegesi di Giov 7,37.38 è così precisa e in tale formulazione penetra tanto profondamente, per il potente influsso esercitato dall'autorità esegetica del maestro, nell'esegesi scritturistica della patristica greca e latina, che qui dobbiamo necessariamente estendere la nostra indagine, per individuare il posto esatto che questa interpretazione di Giov 7,37.38 occupa nel complesso dottrinale teologico-ascetico del grande Alessandrino. Dobbiamo dire anzitutto qual significato Origene attribuisca alle parole del Signore 1. Quindi, secondo lo schema annunziato, si dovranno indicare i passi scritturistici ai quali, secondo Origene, si allude in Giov 7,38 2. Sarà così possibile, sulla base dei risultati dei primi due punti, descrivere la storia successiva di questa interpretazione nella patristica greca e latina 3.

300

L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

1. - La parte centrale della teologia e dell'ascesi origeniana è costituita dalla dottrina della riproduzione nell'anima cristiana della vita trinitaria di Dio, donataci nel Verbo Incarnato 1. Questa vita si sviluppa dalla fede e diviene matura nella gnosi, nella visione del Padre ingenito, a noi possibile solo nel Logos. In ciò Origene segue fedelmente Clemente Alessandrino e trasferisce anche alcuni temi del pensiero di Filone nella genuina dottrina del cristianesimo. La sua gnosi è però più personale, più calda, quasi più ascetica: per un preponderante interesse pastorale e speculativo (e quindi anche esegetico), Origene affronta con particolare impegno le questioni della vita spirituale soggettiva e personale. Nel presentare la sua dottrina della partecipazione soggettiva alla vita divina nella fede e nella gnosi, egli mostra una chiara preferenza per quella tesi caratteristica che potremmo propriamente designare come ' teologia dell'acqua viva ' 2. Dalla fonte dell'unica sostanza divina - così insegna Origene 3 - nascono nella vita intima della Divinità tre fiumi, il Padre, il Logos, lo Spirito. La fonte del mistero trinitario, come sigillata da tutta l'eternità, mediante la comunicazione dello Spirito da parte di Cristo (Origene cita qui 1 Cor 2,10) è stata aperta e si è riversata sull'umanità redenta attraverso la rivelazione del mistero che era nascosto 1 Cfr. W. VÖLKER, Das Vollkommenheitsideal des Origenes (Beiträge zur historischen Theologie, 7), Tubinga 1931; A. LIESKE, Die Theologie der Logosmystik bei Origenes (Münsterische Beiträge zur Theologie, 22), Münster 1938. 2 Per la teologia filoniana dell'acqua viva cfr. H. LEWY, Sobria ebrietas. Untersuchungen zur Geschichte der antiken Mystik (suppl. 9 a Zeitschrift für die neutest. Wissenschaft), Giessen 1929, pp. 9. 3990ss. 3 Homil. in Num. 12, 1 (GCS Origenes VII, ρ. 95, 10 - ρ. 96, 6 ) ·

LA TRADIZIONE ALESSANDRINA

301

in Dio. Per l'uomo in grazia significa che nella sua anima si riproduce ora attraverso la grazia la vita trinitaria. E ciò se l'uomo risponde alla rivelazione con la fede, se con fede beve l'acqua dello Spirito sgorgante da Cristo, la comunicazione della conoscenza divina che si attua attraverso i quattro fiumi dei Vangeli 4. Per Origene, quindi, come anche per la genuina tradizione greca, aqua viva equivale ad aqua doctrinae 5. La fede non è che un'incipiente gnosi, l'acqua dello Spirito rifluisce verso la sorgente, nel Padre ingenito; qual fons vitae, Cristo ci dona ' acqua paterna ' 6. Qui si inserisce un concetto che completa esattamente la teologia dell'acqua viva, l'intellettuale gnosi cristiana. Se l'acqua viva è lo Spirito, e il possesso dello Spirito è la conoscenza dei misteri manifestatici in Cristo, con un continuo progresso nella conoscenza (quindi, in perfetta consonanza con la teologia di CLEMENTE ALESSANDRINO, lungo il cammino dalla fede alla gnosi), l'intimo gonfiarsi delle ' acque della gnosi ' diviene così imponente che le acque straripano e lo gnostico cristiano diventa mistagogo per gli altri e comunica le sue profonde cognizioni, ossia diviene fonte dello Spirito per gli altri. Origene ha letto queste cose in Giov 7,37.38. Questo concetto si inserisce senza difficoltà nel suo sistema ascetico-teologico della gnosi cristiana. Secondo la sua esegesi, quindi, il Signore (Giov 4,14 e 7,37) non solo ha invitato a bere dalla 4 Cfr. GCS Origenes VI, p. 75, 28; P- 106, 5; p. 116, 2; VII, p. 100, 19s; VIII, p. 450, 18. 5 Cfr. espressioni come : aqua doctrinae (VII, p. 90, 8) ; fons scientiae (VI, p. 119, 18); pocula caelestis doctrinae (VIII, p. i n , 4); ποταμοί των θεωρημάτων (Π, p. 91, 6s). 6 In Ieremiam homil. 18, 9 (ΠΙ, ρ. 163, 29s).

302

L'ECCLÉSIOLOGIA DEI PADRI

sorgente, che è egli stesso, ma ha espresso anche un altro concetto, che è uno sviluppo del primo: il 'credente ' che beve diventa a poco a poco un ' sapiente ', una ' fonte ', e a sua volta trabocca 7. Queste affermazioni devono essere documentate unicamente con i passi in cui Origene parla espressamente di Giov 7,38. Le fonti principali sono costituite dalle Omelie sull'Exateuco, nelle quali egli (nella scia di FILONE) spiega i ' misteri delle fonti '. Già la prima Omelia sulla Genesi invita i credenti a riprodurre misticamente nel loro intimo la ' divisione delle acque ' (Gen 1,6.7). Infatti con l'intensificarsi della partecipazione intellettuale alle ' acque superiori ', ossia alla vita divina, scaturiscono le acque interiori, che defluiscono dal corpo del credente: « Studeat unusquisque vestrum divisor effici aquae eius, quae est supra et quae est subtus, quo scilicet spiritalis aquae intellectum et participium eius quae est supra firmamentum, flumina de ventre suo educat aquae vivae salientis in vitam aeternam» 8 . Questo è il motivo dominante dello sviluppo sinfonico della teologia spirituale di Origene che è qui ancora agli inizi. Il primo gradino della scala che conduce al vertice della comunicazione gnostica dello Spirito è la purificazione ascetica: bisogna innanzi tutto eliminare il fango e le pietre dalla sorgente che è nascosta nell'intimo. Come Isacco fece scavare nuovamente i pozzi (Gen 26,18), così fa ora Cristo, il vero Isacco, venuto alle nostre sorgenti : « sed nunc, quoniam venit noster 7 Cfr. A. LIESKE, Theologie der Logosmystik, pp. 84-98: il mistico del Logos nella Chiesa visibile. Cfr. soprattutto p. 96. 8 In Gen. hotnil. 1, 2 (VI, p. 3, 24 - p. 4, 1).

LA TRADIZIONE ALESSANDRINA

303

Isaac, suscipiamus eius adventum et fodiamus puteos nostros, abiciamus ab eis terram, purgemus eos ab omnibus sordibus et a cunctis cogitationibus luteis et terrenis, et inveniemus in iis aquam vivam, illam quam dicit D o m i n u s : qui credit in me flumina de ventre 9 eius fluent aquae vivae » . Attuata questa purificazione, nei credenti cresce Γ ' intelligenza ' dei divini misteri racchiusi nella Scrittura, ed essi stessi diventano ' mae­ stri ' per gli altri : « Videntes tanta haec mysteria in scripturis divinis esse latentia proficitis in intellectu, proficitis in spiritalibus sensibus. Incipietis etiam ipsi esse doctores et procedent ex vobis flumina aquae vi­ 10 vae » . Ascoltando con fede la spiegazione della Scrit­ tura nella Chiesa, si alimenta ogni giorno di nuova forza l'acqua che zampilla nell'intimo. Origene: n o n si stanca mai di raccomandare la partecipazione alla litur­ gia della parola di D i o e di biasimare l'assenteismo 1 1 . C o m e Isacco, il cristiano deve abitare presso il puteus visionis (Gen 25,11; LXX), attingere da Cristo l'acqua viva, che diventa poi visione e come sorgente d'acqua viva sgorga dall'intimo 1 2 . Nella dodicesima omelia sul libro dei N u m e r i O r i ­ gene compendia la sua dottrina mistica intorno alla sorgente interiore, indagando sul contenuto pneuma* Ivi 13, 3 (VI, p. 118,21-26); 12, 5 (VI, p. 112,26 - p. 113,4). 10 Ivi 13, 4 (VI, p. 119, 3-5). 11 Ivi 11, 3 (VI, p. 105, 24 - p. 106, 7); io, 3 (VI, p. 96, 15-29). 12 Ivi 11, 3 (VI, p. 105, 3-24); Comment. in Cant. 3 (VIII, p. 206, 15-22): «Si qui sunt capaciores Verbi Dei, qui ab Iesu aquam sibi datam biberunt, et haec jarta est in iis fons aquae vivae salientis in vitam aeternam, in his scilieet, in quibus Verbum Dei crebris sensibus et copiosis velut perennibus ebullit fluentis... digrùssime salire Verbum Dei dicitur et exsilire factus in iis per affluentiam doctrinae fons aquae vivae salientis in vitam aeternam ».

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L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

tico di tutti i passi della Scrittura in cui si parla di pozzi, da Abramo fino a Cristo presso il pozzo di Giacobbe 13. Il credente, purificando la sua vita interiore e penetrando nella profondità dei misteri, vi trova la sorgente, cioè Gesù Cristo, che scaturisce dalla fonte della Divinità. Ma non basta: il credente trova in sé 'fiumi d'acqua', la cui pienezza trabocca nella gnosi: «In alio autem Evangelii loco iam non fons neque puteus, sed amplius aliquid dicitur. Qui credit, inquit (Christus), in eum, sicut Scriptura dicit, flumina de ventre eius procedent aquae vivae. Vides ergo quia qui credit in eum, non solum puteum, sed et puteos, et non solum fontes, sed et flumina habet intra se » 14. Perciò - continua ancora Origene - il Redentore ha promesso ai suoi discepoli ' fiumi d'acqua ', dei quali essi stessi saranno la sorgente. Ciò dovrebbe avvenire in ogni anima umana : « Ita et anima hominis quae ad imaginem est Dei, potest in se habere et producere ex se et puteos et fontes et flumina» 15. 13

In Num homil. 12,1: «De puteo et cantico eius» (VII, p. 93, 23-25) : « Et ideo conveniens puto de aliis Scripturae locis puteorum congregare mysteria ». Ivi (VII, p. 94, 10-17). 14 Ivi (VII, p. 94, 20-24). 15 Ivi (VII, p. 96, 10-12). - Questa capacità del pneumatico di dare a sua volta l'acqua dello Spirito è la perfetta identificazione col vivificante Logos, l'attuazione più perfetta quaggiù della configurazione dell'anima al Logos. Cfr. In Gen. homil. 13, 3 (VI, p. 118, 16s): «Vide ergo quia forte etiam in uniuscuiusque nostrum anima est puteus aquae vivae, est quidam caelestis sensus et imago Dei latens ». Per il potere di dispensare l'acqua dello Spirito lo gnostico diventa un uomo ' regale •', il solo in grado di donare, a imitazione dell'unto Logos, l'acqua viva, cioè di ' insegnare '. Cfr. In Num. homil. 12,2 (VII, p. 100, 21-28) : « Vere enim reges et vere principes habendi sunt, qui possunt... de interiori petra, ubi Christus est, spiritales sensus velut aquam vivam proferre. Hoc ergo facere decet eos solos,

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Origene descrive infine l'ascesa dell'anima verso la gnosi in una profonda esegesi dell'oracolo di Balaam (Num 24,6). I giardini del paradiso, piantati presso i corsi d'acqua, sono le conoscenze pneumatiche dei misteri nascosti sotto il velo della parola ; i fiumi sono invece gli scritti evangelici e apostolici, che traggono origine dalla fonte che è Cristo, dall'acqua dello Spirito; questi cresce poi nei credenti cui è stato concesso e li riconduce al Padre, donde tutto procede : « Quamvis et Salvator noster fluvius sit, qui laetificat civitatem Dei, et Spiritus Sanctus non solum ipse fluvius sit, sed et his, quibus datus fuerit, flumina de ventre eorum procedant, et Deus Pater dicat: me dereliquerunt fontem aquae vivae, ex quo scilicet fonte flumina ista procedunt » 16. In tal modo Origene inserisce il testo di Giov 7,38 nel sistema teologico accuratamente elaborato dell'ascesa gnostica. I fiumi d'acqua viva che scaturiscono dall'intimo del credente sono per lui simbolo dell'incessante ascesa verso le vette della conoscenza di Dio: l'anima, simile a Dio, non può mai rassegnarsi a un pigro riposo, « sed semper a bonis ad meliora et iterum ad superiora a melioribus provocatur » 17. Se poi l'interiore forza della gnosi trabocca, il credente diventa allora mistagogo, maestro dei segreti della Scrittura, comunicatore della gnosi. È questo, secondo Origene, il senso di Giov 7,38 18. qui vel reges sunt vel principes... decet enim eos docere ceteros, qui prius ipse fecerit ipsa quae docet ». - Cfr. anche LIESKE, op. cit., p. ioos: la teologia della configurazione al Logos. " In Num. homil. 17, 4 (VII, p. 161, 2-12). " Ivi (VII, p. 160, 25s). ls Ciò è comprovato dalle altre citazioni di Giov 7,37.38 nelle Opere complete di Origene. Noi ne diamo qui solo un breve rag-

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Solo per completare il quadro della teologia del1 acqua viva è necessario parlare brevemente anche d'un altro passo, in cui ritorna ancora Giov 7,38. Apparirà in seguito che Origene, in contrasto con la suesposta tesi da lui solo formulata in base a un allegorismo fìloniano-cristiano, si ricollega qui chiaramente a una tradizione di tutt'altra provenienza, cui si deve l'interpunzione della quale parleremo nella seconda parte. Da quanto abbiamo detto, risulta abbastanza chiaramente che, secondo Origene, la fonte dalla quale il credente deve attingere e dalla quale deve fluire in noi l'acqua paterna dello Spirito è il Verbo incarnato. Sia da PAOLO (I Cor 10,4) 19 che da FILONE 20 Origene

ha conosciuto la raffigurazione del Messia come roccia dalla quale scaturisce l'acqua. Questa roccia diede già una volta la sua acqua viva, quando fu percossa dalla verga di Mosè. Così pure Cristo : « Sed haec petra, guaglio. In Ioan. commetti., fragm. 36 (IV, p. 511, 22-25); fragm. 121 (IV, p. 568, n s ) : nel battesimo in Spirito ed acqua ha il suo fondamento la partecipazione, da parte dell'anima, dell'acqua dello Spirito che scaturisce dal Logos. - In Is. homil. 7, 3 (Vili, p. 283, 11-23): quest'acqua zampilla nell'intimo dal venter attimae, dal cuore, ricolmo di Spirito, del fedele che ha bevuto dal Pleroma Christi (Giov 1,16). Sull'esegesi origeniana di κοιλία = venter animae = cor = ήγεμονικόν, Cfr. Comment. in Cant., Prol. (Vili, p. 65, 24); In Lue. comment., fragm. 37 (IX, p. 251, 23s); Selecta in Psalm. 3, 5 (PG 12, 1124C); Selecta in Psalm. 97, 8 (PG 12, 1557 A); In Ezech. homil. 13, 4 (Vili, p. 450, 2-6); Schol. in Cani. 5, 14 (PG 17, 276 B); De oratione 30 (II, p. 395, 8s); C. Celsum 6, 20 (II, p. 91, 5-7). 19 Per l'esegesi origeniana di 1 Cor 10,4 cfr. In Gen. homil. io, 3 (VI, p. 96, 28); In Ex. homil. io, 2 (VI, p. 253, 3); In Num. homil. 12, 2 (VII, p. 100, 23); Injosue homil. 5, 5 (VII, p. 318, io); In Ezech. homil. 13, 4 (Vili, p. 450, 8ss); De princ. 4, 2 (V, p. 316, 8. 25); In Ioan. comment. 6, 46 (IV, p. 155, 24-26); Homil. 1 in Ps. 36, 3 (PG 12, 1326 A). 20

Cfr. H. LBWY, Sobria ebrietas, p. 84, nota 2; p. 30. - STRACK-

BIIXERBECK III (Monaco 1926), pp. 406-408.

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nisi fuerit percussa, aquas non dabit; percussa vero, fontes producit. Percussus enim Christus et in crucem actus Novi Testamenti fontes produxit... nisi enim ille fuisset percussus et exisset de latere eius aqua et sanguis, omnes nos sitim verbi Dei pateremur » 21 . Dal corpo di Cristo sgorgano quindi le acque del Nuovo Testamento. Queste immagini sono tanto familiari ad Origene, che gli si presentano anche in altri contesti esegetici. Così nella spiegazione del Cantico dei Cantici, dove si parla del ' petto del Signore ', alla cui fonte l'anima si ristora : « Ex fontibus scilicet sapientiae et scientiae quae de eius uberibus profluunt » 22 . Si ha lo stesso concetto nell'esegesi di Geremia 18,3 (LXX), dove Origene spiega la strana espressione ' mammelle della roccia '. Qui la roccia è Cristo, dal cui petto scaturisce l'acqua dello Spirito, Γ 'acqua del Padre ', l'acqua fresca che scende dal Libano dei divini misteri. Non possono bere quest'acqua dello Spirito coloro che non conoscono ο non riconoscono il Padre di Cristo, i giudei e gli eretici (Origene ha qui presente Marcione), perché non ascoltano colui che sta nel tempio e grida: chi ha sete, venga a me e beva! 23 . Con quest'ultimo concetto l'esegesi di Origene entra in un clima spirituale notevolmente diverso da quello che abbiamo presentato. Cristo è la roccia, il trafitto in croce, la fonte dell'acqua viva, colui che i giudei 21

In Ex. homil. 11, 2 (VI, p. 254, 4-9). Comment. in Cani. 1 (Vili, p. i n , 3s). Per questo l'Apostolo Giovanni, che ha bevuto i fluenta Evangelii dal petto del Signore, è, secondo Origene, il modello dell'uomo pneumatico che insegna. Cfr. H. RAHNER, De dominici pectoris fonte potavit in ZkTh 55 (1931) 103-108. 23 In leremiam homil. 18, 9 (III, p. 162, 22 - p. 163, 19). 22

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hanno disprezzato (Ger 2,13): tutte queste idee derivano, come vedremo appresso, da tutt'altra fonte e non hanno nulla in comune con la dottrina tipicamente origeniana ispirata a Filone. Ma nello stesso pensiero di Origene si possono distinguere bene le due linee. In un passo in cui egli parla solo di Cristo, Giov 7,38 gli si presenta in forza d'una differente tradizione proveniente dal di fuori. Nel Commentario al Cantico dei Cantici, spiegando Cant 1,12, afferma che Cristo per la Chiesa e per le singole anime è diventato ' nardo profumato '. Ciò significa l'unzione dello Spirito, nello stesso senso in cui Cristo è diventato per noi anche ' sorgente d'acqua ' : « Quemadmodum fons est et flumina aquae vivae de eo procedant » 24 .

Sebbene affascinato dalla teologia spiritualistica dell'ascesi gnostica, con la quale la sua esegesi di Giov 7,38 si armonizza assai bene, Origene ha intravisto dunque anche la possibilità d'un'altra spiegazione: che Giov 7,38 sia in stretto rapporto con Giov 19,34 25. 2. - Dobbiamo ora rispondere all'altra domanda: in qual punto dell'Antico Testamento Origene ha individuato la 'Scrittura' di cui parla Giov 7,38? Origene non s'è occupato espressamente di questo problema (se non, forse, nella parte che è andata perduta del suo Commentario a Giovanni, in cui spiega precisamente il settimo capitolo). Tuttavia dai suoi scritti si può percepire quasi con certezza quanto si sia inte24

Commetti, in Cant. 2 (Vili, p. 167, 20s). Oltre al testo classico (sopra, nota 21), cfr. anche In Ioan. comment. 2, 8 (IV, p. 62, 23s); C. Celsum 2, 69 (I, p. 191, 8ss); In Lev. homil. 8, io (VI, p. 411, 1-9). 25

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ressata la Scuola alessandrina a questa difficoltà, su cui ancor oggi si discute. Nella teologia origeniana dell'acqua viva incontriamo infatti frequentemente e con un significato ben determinato un passo dell'Antico Testamento, ricorrente insieme con Giov 7,38. E questa non è certo una coincidenza fortuita. Si tratta di Prov 5, 15.16 (LXX): πίνε ύδατα άπο σων α γ γ ε ί ω ν και άπα σών φρεάτων π η γ ή ς μη ύπερεκχείσθ-ω σοι τα ύδατα εκ της σης π η γ ή ς εις δε σας πλατείας διαπορευέσθω τα σα ύδατα. Origene sa benissimo, e l'ha notato espressamente 26 negli Esapli , che i LXX si allontanano qui dal testo ebraico per l'inserimento d'una negazione. In u n ' o m e ­ lia egli parla chiaramente di questa diversa lezione: «Et n o n supereffundantur tibi aquae extra tuum fontem, quamvis in aliis exemplaribus legerimus: et effundantur tibi aquae extra tuum fontem » 2 7 . Espone quin­ di la sua teologia della sorgente interiore, di cui ab­ biamo parlato, e nota: «Igitur secundum ea quae in Proverbiis scripta proposuimus, ubi putei simul cum fonte nominantur, accipiendum est verbum Dei puteus quidem, si profondi aliquid mysterii tegit, fons autem, si ad populos abundat et effluit » 2 8 . E questo è precisamente il senso di Giov 7,38. Origene conosce certamente anche il senso letterale del passo che si riferisce alla fedeltà coniugale 29 . Ma anche qui, nella disputa con Celso, richiama l'attenzione sul signifi26

PG 16, 2, 1311-1314. In Num. homii. 12, 1 (VII, p. 94, 2-4). " Ivi (VII, p. 94, 26-29). 87

!

* C. Celsum 4, 44 (I, p. 316s). Cfr. anche FILONE, De fuga et

invent. 36 (III, p. 153SS).

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cato mistico che ha in tutta la sua ' teologia della sorgente dell'acqua '. In questo senso aveva inteso il testo anche il suo maestro CLEMENTE 30. Sappiamo inoltre che anche nella prima esegesi post-cristiana dei giudei si dava a Prov 5, 15.16 un identico significato mistico che, prescindendo dal senso letterale, probabilmente sotto l'influsso di idee filoniane, si serve della distinzione tra cisterna e sorgente per descrivere il traboccare della conoscenza della Torà. RABBI AQIBA (morto e. 135 d. C.) dice: «Vedi, Prov. 5,15 così invita: bevi acqua dalla tua cisterna. All'inizio una cisterna non può dare da sé stessa neppure una goccia d'acqua, ma dà solo quel che vi si immette. Così pure lo studente non sa se non quel che ha imparato. ' E acqua corrente dalla tua fonte ' : paragona colui che studia a una fonte (si comporta infatti allo stesso modo): come la fonte fa scorrere da ogni parte l'acqua viva, così dallo studente derivano poi i discepoli e i discepoli di questi » 31 . Nel medesimo senso che abbiamo rilevato nella dottrina di Origene, anche RABBI MEIR (C. 150 d. C.) riunisce

insieme i due concetti: chi conosce profondamente la Torà è un uomo ' regale ' ed anche una fonte zampillante per gli altri 32 . E Midr., Sai 1,18, insegna che la conoscenza della Torà cresce nell'intimo del saggio fino al punto di traboccare : « Oggi una Halakha e domani ancora un'altra Halakha, finché non prorompe con impeto come una sorgente » 33. 30

Strom. I, 1, io, 1 (GCS Clemens II, ρ. 8, 4); II, 2, 8, ι (II, ρ. n ö ,

31s).

sl

Siphre su Deut. 11, 22, 28 (84a): STRACK-BILLERBECK II, p. 493·

82

Aboth 6, is: STRACK-BILLERBECK II, p. 493.

ss

Midrasch su Sai ι,ι8

(9a): STRACK-BILLERBECK II, p. 493.

LA TRADIZIONE ALESSANDRINA

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Rafforzata con idee filoniane, questa è anche l'esegesi di Origene su Prov. 5, 15 e Giov 7,38. « Temptemus facere etiam illud, quod Sapientia commonet dicens: bibe aquas de tuis fontibus et de tuis puteis, et sit tibi fons tuus proprius. Tempta ergo et tu, ο auditor, habere proprium fontem; ut et tu, cum apprehenderis librum scripturarum, incipias etiam ex proprio sensu proferre aliquem intellectum et secundum ea quae in ecclesia didicisti, tempta et tu bibere de fonte ingenii tui... si enim suscepisti in te verbum Dei, si accepisti ab Iesu aquam vivam et fideliter accepisti, fiet in te fons aquae salientis in vitam aeternam »34. Origene dice an­ cora espressamente che questo bere della conoscenza del­ la Scrittura cresce fino al punto di traboccare come una sorgente. Egli unisce insieme con Prov 5,15.16 i due testi, fusi in uno solo, della promessa dell'acqua da parte di Cristo (Giov 4,14 e 7,38): «Qui credit in me, fiet in eo fons aquae salientis in vitam aeternam » 3 5 : il bere con fede diventa fonte d'acqua per altri, il credente diviene maestro. Sarebbe questo il concetto espresso in Prov 5,16, e a ciò si sarebbe riferito Gesù in Giov 7,38: « Bibe aquam de tuis vasis et de tuis puteis, et in tantum fodiamus, ut superabundent aquae putei tui in plateis nostris, ut non solum nobis sufììciat scientia scripturarum, sed et alios doceamus et alios instruamus, ut bibant homines » 3e . Andiamo dunque errati se affermiamo che Origene ha visto in Prov 5,15.16 i luoghi della Scrittura cui si 34

In Gen. homil. 12, 5 (VI, p. 112, 15-21; p. 113, 1-3). In Gen. homil. 7, 5 (VI, p. 75, 20-23; P· 76, 7s). 38 In Gen. homil. 13, 4 (VI, p. 121, 6-10). - Fragm. ex comment. in Prov. 5,15 (PG, 17, 137 CD). 85

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allude in Giov 7,38? Una cosa è assolutamente certa: che lo hanno inteso così quelli che hanno derivato da Origene le proprie teorie esegetiche e per i quali l'interesse alle opere di Origene era molto maggiore di quanto non lo sia oggi per noi : AMBROGIO e GIROLAMO. Questi hanno dato all'accostamento di Prov 5,15.16 e Giov 7,38 la spiegazione classica dell'esegesi latina, e così hanno anche procurato alla loro interpretazione di Giov 7,37.38 un'autorità quasi esclusiva37. 3. - La storia successiva di questa interpretazione di

Giov 7,38 non è che il perpetuarsi d'un origenismo decadente. Il superbo edificio della speculazione teologica dell'Alessandrino va in rovina, ma qualche pietra della sua costruzione viene conservata 38. Così anche l'interpretazione di Giov 7,38. Da molte testimonianze 37 Dalle surrecensite citazioni di Giov 7,37.38 nelle opere di Origene appare già sufficientemente chiaro quale fosse la struttura del testo giovanneo, ο come lo stesso Origene dividesse il testo mano­ scritto. Non è perciò necessario portare ulteriori prove. Anche se per le Omelie ammettiamo la possibilità d'un ritocco da parte di Rufino e di Girolamo, è tuttavia certo che Origene ha sempre inteso ό πιστεύων εις έμέ come soggetto dell'espressione ποταμοί έκ της κοιλίας αύτοϋ ... 38 Portiamo solo alcuni esempi : la mistica della ' sobria ebrietas ' (cfr. H. LEWY, Sobria ebrietas, p. 119-128), trasmessa ai posteri sia da Gregorio Nisseno sia da Ambrogio; la dottrina della ' nascita di Dio ', che per la medesima via è giunta fino alla mistica medievale, sia bizantina che latina (cfr. sopra, pp. 44-54) ; la teologia lunare di Origene (cfr. sopra, pp. 169-186). Si potrebbero aggiungere ancora molti altri concetti della teologia mistica, di grande interesse anche dal punto di vista esegetico (come la sua interpretazione del Cantico dei Cantici) : tutti sono giunti fino al medioevo attraverso l'unico grande canale del pensiero origeniano: Ambrogio in Occidente, il Nisseno in Oriente. Cfr. anche M. VILIER e K. RAHNER, Aszese and Mystik in der Väterzeit, Friburgo 1939, 72-80.

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della letteratura patristica, in verità assai disperse e individuabili solo con difficoltà, si possono chiaramente rilevare le due direzioni in cui si è sviluppato il pensiero origeniano : nella Scuola alessandrina e nell'esegesi latina iniziata dai seguaci di Origene, Ambrogio e Girolamo, ci si attiene all'interpretazione originaria di Origene. Ma tra l'una e l'altra, evidentemente senza alcuna dipendenza dalla Scuola alessandrina, c'è l'esegesi della Scuola antiochena, che tuttavia non ne differisce eccessivamente. Or bisogna penetrare nell'intimo di questa complicata, ma, almeno nelle linee fondamentali, chiara storia della suddetta esegesi. Ci poniamo ancora due domande : come si sia evoluta l'interpretazione del testo e come sia stata risolta la questione delle fonti veterotestamentarie del passo. a) Anzitutto la tradizione alessandrina. Con straordinario piacere ATANASIO fa ricorso a Giov 7,37.38 nelle sue lettere di Pasqua 39 . Malgrado la cattiva trasmissione latino-siriaca di queste encicliche, si può costatare che Atanasio legge il testo proprio come lo leggeva Origene e come ancor oggi lo si legge nei manoscritti della Bibbia che si ricollegano direttamente ad Alessandria. Nella sua spiegazione del testo si riflette pure la chiarezza della cristologia elaborata da Origene. Non più ' Logos e gnosi ', ma ' DioCristo e fede '. Nell'esegesi di Giov 7,37.38 si potrebbe quindi rilevare propriamente un certo mutamento ed anche una stasi. Cristo-uomo è diventato datore dello 3 » Ep. in fest. Paschae 1, 3 (PG 26, 1362 B ) ; 3, 1 (PG 26, 1380 A ) ; 20, 1 (PG 26, 1 4 3 i B ) .

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Spirito perché è Dio 4 0 . Come Dio, egli è la roccia che dà l'acqua 41 . « Nunc autem Spiritum unicuique donat aitque: si quis sitit veniat ad me et bibat. Qui in me credit, ut inquit Scriptura, flumina viventium aquarum de ventre eius fluent. Haec de nomine dici nequeunt, sed de vivente Deo, qui vere vitam tribuit, qui Spiritum Sanctum donat » 42 . In questa esegesi tipicamente antiariana Cristo è il datore dello Spirito, dona la vita ai suoi discepoli mediante la virtù divina nascosta sotto i veli della natura umana, ma pur sempre presente, e dispensa l'acqua dello Spirito, la possibilità di credere : « Qui credit in me, sicut dicit Scriptura, flumina de ventre eius fluent aquae vivae. Quamobrem ipse discipulos semper alebat verbis suis, credentes scilicet, vitamque ipsis propinquitate divinitatis suae conferebat » 43 . Anche DIDIMO non fa che dare una nuova forma alle idee fondamentali di Origene, in una teologia dello Spirito ancor più ricca di quella elaborata da Atanasio. Da Cristo, ' santa fonte ' 44, sgorga l'acqua viva, lo Spirito Santo 45 . Questi però scaturisce anche dall'intimo, dal ' corpo pneumatico ' di chi ha conseguito una traboccante conoscenza di Dio: « Quam qui perceperit (scientiam Dei) habet in semetipso fontem aquae salientis in vitam aeternam, 40

Ep. ad Serapionem I, 23 (PG 26, 584 BC). Ep. in fest. Paschae 14, 3 (PG 26, 1421 A). 42 Fragm. ex Ep. in fest. Paschae 44 (PG 26, 1441s). 43 Ep. in fest. Paschae 7, 7 (PG 26, 1394 B). 44 De Trinitate 2, 27 (PG 39, 757 A), dove anche con una citazione dagli scritti ermetici si dice che lo Spirito proviene dalla fonte, che è Cristo: άπα της αγίας πηγής έξήρτηται. 45 Ivi 2, 2 (PG 39, 456 BC); 2, 6, 21 (PG 39, 553 BC). 41

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ita ut fluant de intelligibili eius ventre flumina aquae vivae » 46 . Dalle opere di CIRILLO ALESSANDRINO si può facilmente dedurre quanto sia reale la dipendenza dall'esegesi di Origene. Infatti, benché una cristologia pienamente evoluta ne segni una netta superiorità rispetto ad Origene, il suo Commentario a Giovanni subisce in molti punti l'influsso della tradizione della Scuola origeniana. Ciò è ancor più significativo per il fatto che noi possediamo tutta intera l'esegesi di Cirillo su Giov 7,37.38 47. Qui, come già in Origene, si dà a Giov 7,38 il significato d'una nuova e continua rivelazione di Cristo: non solo il Signore invita a bere dalla sua fonte, ma anche chi beve abbondantemente e con fede diventa a sua volta sorgente d'acqua per altri cuori. Il credente viene arricchito di tanta grazia, che non solo soddisfa pienamente la propria sete di Spirito, ma riceve pure la forza di comunicarsi con liberalità ad altri cuori: ταΐς έτέραις καρδίοας έπικλύζειν 48 δύνασθαι, . Questo traboccare è Γ ' insegnamento ' delle verità della fede cristiana. È quanto accadde negli Apostoli, negli Evangelisti e nei Dottori della Chiesa, che hanno spiegato la rivelazione del Nuovo Testamento. Di tutti coloro ai quali lo Spirito Santo ha dato la grazia si dice quindi che sono ' ammaestrati ' e ' in possesso del Logos '. I ' fiumi dal corpo ' significano 46 Enarr. in Ep. ludae (PG 39, 1817 AB). - Cfr. E. KLOSTERMANN, Über des Didymus von Alexandrien In epistolas canonkas enarratio (Texte und Untersuchungen 28, 2), Lipsia 1905; F. ZÖPFL, Didymi Alexandrini in Epistolas canonkas brevis enarratio (Neutest. Abh. IV, 1), Münster 1914, P- 95. 3-7· *' In Ioan. comment. 5 (PG 73, 745 C-749 D). 48 Ivi (PG 73, 748 D).

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perciò την δια Πνεύματος διδακτήν και ελλόγιμον χάριν 4 9 . Anche in altri punti della sua grande opera Cirillo offre la medesima esegesi. Questo ' traboccare ' è per lui sempre Γ ' insegnamento dei misteri ', la χωρηγία των θείων μαθημάτων 5 0 , la ' celeste e pura mistagogia , che ci viene concessa attraverso l'acqua viva dello Spirito, proveniente dal fiume che è Cristo S1. Il medesimo orientamento si è conservato in tutti i Padri greci appartenenti all'area dell'esegesi alessandrina. CIRILLO DI GERUSALEMME interpreta Giov 7,37 ai suoi catecumeni nel senso del bere l'insegnamento divino della Scrittura; e in Giov 7,38 vede la promessa del traboccare « non d'acque terrene, ma di quell'acqua viva che (con l'insegnamento) porta le anime alla luce: ού ποταμοί αισθητοί... άλλα ψυχάς φωταγωγουντες », della sorgente interiore che riversa le sue acque su quelli che «ne sono degni»: ύδωρ άλλόμενον επί τους άξιους 5 2 . Gli stessi concetti ricorrono in EUSEBIO, per il quale l'acqua che scaturisce dal corpo del credente è ancora Γ ' insegnamento ' : το ύδωρ της σωτηρίου και ευαγ­ γελικής διδασκαλίας 5 3 . Non altrimenti la teologia dei Cappadoci. Benché dell'omelia sul salmo 45, attribuita a BASILIO, non sia provata incontestabilmente l'autenticità (dipende certamente da Eusebio), possiamo tuttavia scorgere in essa " Ivi (PG 73. 749 A). Ivi 2 (PG 73, 300 C). In Is. comment. 5, 2 (PG 70, 1220 A). Cfr. anche ivi 5, 6 (PG 70, 1440 C ) ; 4, 2 (PG 70, 920 D ; 922 A ) . 52 Catech. 16, 11 (PG 33, 932 C ) . 53 Demonstr. evang. 6, i 8 , 48-50 (GCS Eusebius VI, p. 283, 11-29; PG 22, 465 C). 50 51

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una lontana eco dell'esegesi di Origene. L'acqua dello Spirito che ci viene donata in Cristo, il cui fiume ' allieta la città ', zampilla in noi come conoscenza dei misteri in immagini e similitudini ; la nostra sete verrà perciò placata del tutto nella visione di D i o 5 4 . Nel famoso terzo sermone teologico di GREGORIO N A ZIANZENO ritorna ancora la spiegazione data da Atanasio e D i d i m o : è una prova della divinità di Cristouomo il fatto che questi possa dire: chi ha sete, venga a me e beva. E ancora: Cristo ha pure promesso che gli stessi credenti diverranno fonte dello Spirito 5 5 . L'acqua della dottrina origeniana scorre purissima soprattutto nella sublime mistica di GREGORIO N I S SENO, per il cui tramite anche la teologia bizantina ha potuto conoscere l'interpretazione del testo di Giov 7,38 56 . Con vivo entusiasmo Gregorio parla di Cristo, fonte dell'acqua dello Spirito; il Verbo incarnato è per lui semplicemente ' la fonte '. Si avverte facilmente anche la presenza di idee platoniche, soprattutto quando parla della ' fonte d'ogni bene ', e dice: κ α θ ώ ς εν τ φ Ε ύ α γ γ ε λ ί ω φησίν ή Π η γ ή · εΐ τις δίψα έρχέσ&ω προς με και πινέτω 5 7 . Ι fiumi d'acqua che si riversano su di noi da questa fonte sono le parole vivificanti del­ la dottrina del N u o v o Testamento 5 8 . Ma l'organo che 54

Homil. in Ps. 45, 5 (PG 29, 421 C ) . Orai. 29 (theologica 3) 20 (PG 36, 100 C ) . 56 SIMEONE I L GIOVANE, Divin. amor, liber 17 (PG 120, 889 B ) ; NICETA STETATO, Gnosticorum capii, centuria 3, 55 (PG 120, 1 1 3 7 A B ) ; MATTEO CANTACUZENO, Comment. in Cani. 5, 12 (PG 152, 1056 A D ) ; GIOVANNI CALECA, In tertiam ieiuniorum Dominicam (PG 150, 266 B ) ; MARCO EREMITA, De baptismo (PG 65, 1 0 0 1 B ) ; N O N N O , Paraphr. in Ioannem (PG 43, 812). « In Cant. homil. 8 (PG 44, 914 D ) ; Homil. 11 (1004 C ) . 58 Homil. 1 (PG 44, 777 D; 780 A). 85

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trasmette a noi uomini tale dottrina è Γ ' intimo del­ l'anima ', il ' cuore puro ', il δι,ανοητικον της ψυχής 5 9 , la κοιλία di cui parla Giov 7,38. In un'esegesi perfet­ tamente modellata su quella di Origene, Gregorio presenta nelle sue omelie sul Cantico dei Cantici la mistica dell'acqua viva e la psicologia mistica del 'profondo dell'anima'. Il ' c o r p o ' di Giov 7,38 è, secondo lui, l'organo ricettivo dei divini insegnamenti: το διανοητικον της ψυχής, φ έναπέθετο ο Χριστός τα θεία μαθήματα 6 0 . Da questa fonte interiore scatu­ riscono anche i nostri concetti e si comunicano agli altri. Il mistico somiglia dunque perfettamente allo sposo, ivi presentato come ' fonte d'acqua viva '. Lo stesso mistico si identifica ora col Logos : « Fonte come la Fonte, vita come la Vita, acqua come l'Acqua»; egli diventa « serbatoio d'acqua viva » per gli altri. Questo è il senso di Giov 7,38 61 . b) Di fronte all'interpretazione origeniana di Giov 7,38, presenta ora un interesse notevole l'indagine sulla spiegazione che è stata data del medesimo testo dall'esegesi antiochena. Finora ci si è sempre riferiti al CRISOSTOMO, la cui esegesi di Giov 7,37.38, tanto diversa rispetto alla tradizione alessandrina, ha attratto l'attenzione degli studiosi fin dall'antichità. Ma un confronto col commentario a Giovanni (conservato solo in siriaco) di TEODORO DI MOPSUESTIA mostra chiaramente che in en58

Ivi 9 (PG 44, 964 D). «° Ivi 14 (PG 44, 1073 D; 1076 A). 61 Ivi 9 (PG 44, 977 B-D). Cfr. anche Oratio in baptismum (PG 46, 593 A-C). - Cfr. W. VÖLKER, Gregor von Nyssa als Mystiker, Wiesbaden 1955, pp. 269-274, 219-224.

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trambi si ha la medesima interpretazione del testo giovanneo, appresa quindi certamente dal loro maestro DIODORO. Con una sobrietà tipicamente antiochena, in contrasto con l'esuberante speculazione teologica degli alessandrini, Teodoro rileva anzitutto, a proposito dell'infusione dello Spirito Santo promessa in Giov 7,38, che non si tratta qui del bere e dello sgorgare dello Spirito di Dio personificato, ma degli effetti dello spirito, della grazia partecipata (oggi diremmo piuttosto creata). In cai senso egli adopera il testo di Giov 7,38 già nella disputa coi macedoniani62 e lo espone dettagliatamente nel suo commentario a Giovanni. Se ne deduce prima di tutto che il testo gli si presenta con la medesima interpunzione della tradizione alessandrina. Ciò è confermato anche dal confronto con la lezione del testo fornita dalla Pesitta e dal Diatessaron63. Teodoro conduce così la sua esegesi: « Qui egli (Cristo) intende dire: chi crede in me ... sarà ricolmo di grazia, come d'un fiume che non solo non si secca, ma diventa in lui una fonte che alimenta il credente ed è utile anche a molti altri. Così gli Apostoli, dopo aver ricevuto lo Spirito, sono stati di grande utilità per molti altri in ragione di quanto avevano ricevuto. Noi dobbiamo sapere anche questo: con l'espressione ' Spirito Santo ' egli (Cristo) indica spesso non la Persona dello Spirito Santo e la sua natura, 8S

Controverse avec les Macédoniens 26 (PO IX, p. 266, 12-14). The Syriac New Testament according to the Peshito Version, Londra 1875: Giov 7,37.38. Si può anche tradurre così: «In chiunque crede in me, come dice la Scrittura, usciranno dal suo corpo fiumi d'acqua viva ». - Tatiani Evangeliorum Harmoniae arabice, ed. A. Ciasca, Roma 1888. Anche qui si legge: «Come dice la Scrittura», e invece di « acqua viva » si ha « acqua dolce ». 63

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ma la sua azione e la sua grazia. E qui s'è inteso dire proprio questo: egli parla della grazia che gli Apostoli avrebbero successivamente ricevuta e che per loro tramite sarebbe stata trasmessa ad altri. Ciò non era quindi ancora avvenuto, poiché la grazia in colui che la riceve ha un principio e poi cresce; e quanto spesso diminuisce pure a causa della cattiveria di chi la riceve ! » 64 . Il medesimo concetto è espresso anche in un frammento, giunto fino a noi, dell'originale greco del Commentario a Giovanni 65 . L'interesse di questa esegesi deriva in egual misura dalla sobrietà scevra d'ogni misticismo e dall'identità con la tradizione di estrazione origeniana. Anche qui il ' traboccare ' è inteso come ' insegnare per giovare ad altri ' ; ma ciò limitatamente agli Apostoli, ai quali è diretta la promessa di Gesù, e solo in ordine all' 'azione di grazia ', contro ogni ' gnostica ' pienezza di Spirito. Identica è l'esegesi del CRISOSTOMO. Secondo lui, in Giov 7,38 si parla della « grazia traboccante e donata senza invidia »: το δα ψιλές και. άφθ-ονον της χάριτος 6 6 . Anche per lui questo traboccamento ha luogo princi­ palmente negli Apostoli, nella sapienza di Stefano, nell'autorità della parola di Pietro, nella forza di Paolo. Anch'egli rifugge da qualsiasi mistico riferimento ai credenti. Gli esegeti del periodo bizantino hanno rice" In Ioatmem comment. (ed. siriaca di A. B. Chabot, Parigi 1897, p. 179s). •5 Fragni, in Ioan. 7 ,38 (PG 66, 749 C D ) . - Si ha la stessa cosa anche nel suo commentario al Credo niceno (sir.): Woodbrooke Studies 5 (1932) 232. ·« Homil. 51, 1 (PG 59, 283s).

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vuto dal Crisostomo l'interpretazione di Giov 7,38 sotto questa forma 67 . e) È invece di gran lunga più significativa per l'evoluzione storica dell'esegesi a noi oggi familiare di Giov 7,38 la tradizione latina, soprattutto quella che ha avuto inizio con AMBROGIO. In realtà il Vescovo di Milano è l'Origene latino non per il livello speculativo del suo pensiero teologico, ma per la sua fedele adesione all'arte esegetica di Filone e per la straordinaria conoscenza delle opere dello stesso Origene. A questi egli deve il meglio della sua produzione letteraria; e in Ambrogio l'esegesi del primo medioevo apprende il metodo di Filone e di Origene. Ambrogio dà quindi all'interpretazione di Giov 7,37.38 una forma definitiva. Qual concetto fondamentale, appare in Ambrogio la dottrina di Cristo Uomo-Dio, fonte dello Spirito Santo; e ciò in uno sviluppo storico-dommatico identico a quello che abbiamo rilevato in Didimo d'Alessandria, dalla cui opera De Spiritu Sancto Ambrogio ha notoriamente copiato 68. Dalla fonte originaria della Trinità, dal Padre ingenito, scaturisce il Verbo. Da ·' Cfr. TEOFILATTO (PG 123, 1342) e gli Scholia vetera (PG 106, 1251). « Per la teologia dello Spirito in AMBROGIO, soprattutto sulla processione dello Spirito dal Figlio e sul dono dello Spirito da parte della gloriosa umanità di Cristo, cfr. De Spiritu Sancto 1, 16, 161 (PL 16, 741 Β) : « Quis autem dubitet flumen esse vitae Dei Filium, de quo aeternae vitae flumina profluebant? » - 1, 4, 66 (PL 16, 720 D; 721 A ) ; 1, io, 119 (PL 16, 732 C ) ; 1, 7, 92. 93 (PL 16, 726 C ; 727 AB). - La dottrina dipende da ATANASIO, Epist. ad Serapionem 1, 19 (PG 26, 573s) e 3, 3 (PG 26, 628s); e naturalmente anche da D I D I M O . Cfr. E. STOLZ, Didymus, Ambrosius, Hieronymus in Theol. Quartalschrift 8 7 (1935) 371-

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entrambi sgorga Γ ' acqua viva ', lo Spirito. Questo Spirito, poi, discende in tutta la sua pienezza nell'uomo Gesù, nel quale sosta tranquillamente. Dall'umanità gloriosa di Cristo lo Spirito vien quindi donato agli uomini credenti. A questo punto ha inizio l'esegesi di Giov 7,38 La regione spirituale donde scaturisce l'acqua dello Spirito donata da Cristo è, come in Origene, il profondo dell'anima, la νους (come Ambrogio dice testual­ mente, adoperando la parola greca) 6 9 , il principale70, l'ambiente interiore e spirituale che Cristo in Giov 7,38 ha indicato con κοιλία, venta. In un'esegesi genuina­ mente filoniana, presa quasi testualmente dall'Ales­ sandrino 7 1 , Ambrogio considera questo ' profondo del­ l'anima ' come il ' paradiso ' in cui scorre il quadruplice fiume del Logos : « Est et fluvius qui de Eden exit et circuit universam terram, Verbum Dei quo paradisus intelligibilis inrigatur et omnis anima vocatur ad gratiam Christi dicente ipso Dei Verbo: si quis sitit, veniat ad me et bibat. Cui ego dedero aquam, flumina de ventre eius fluent aquae vivae » 7 2 . Nelle sue lettere sempre dense di considerazioni esegetiche - ad amici desiderosi di imparare, Ambrogio sviluppa ancor più ampiamente la sua dottrina. Nel suo allegorismo è «9 De paradiso 3, 12 (CSEL 32, 1, p. 272, 5). '» Epist. 45, 3 (PL 16, 1 1 4 2 C ) ; Epist. 45, 7 (PL 16, 1143 A); Expl. Ps. 39, 22 (CSEL 64, p. 228, 8-12) : « Hic ergo credentium venter est in quo Spiritus Sanctus operatur et e u m semine spiritali implere consuevit, sicut testificatur in Evangelio Dominus Iesus, qui air. qui credit in me, sicut dicit Scriptura, flumina de ventre eius fluent aquae vivae ». - Per la storia del concetto di ' principale ' in Ambrogio, cfr. sopra, pp. 18. 91-96. 71 Cfr., p. es., Leg. alleg. 1, 14 (I, p. 72, 14SS; Cohn). 72 Expl. Ps. 45, 12 (CSEL 64, p. 337, 26 - p. 338, 2).

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caratteristico il fatto ch'egli trasferisca tutte le affermazioni e i fatti storici dell'Antico Testamento nell'ambito della spiritualità cristiana. Ecco perché il paradiso e i suoi fiumi non sono che il ' profondo dell'anima ' : « Ex quibus colligitur, paradisum ipsum non terrenum videri posse, non in solo aliquo, sed in nostro principali, quod animatur et vivificatur animae virtutibus et infusione Spiritus Sancti» 73 . Il ragionamento continua: l'acqua viva offerta da Cristo è ' Spirito ', cioè il complesso della rivelazione del Nuovo Testamento, i quattro fiumi dei Vangeli. Nel credente è invece l'acqua viva della dottrina, della conoscenza del Vangelo, della celeste istruzione : « Aqua caelestis doctrinae, humor verbi dominici, ubertas divinae cognitionis » 74. Al tempo di Gesù e (come Ambrogio spiega in un passo assai interessante per la storia dei tentativi compiuti nell'ambito dell'impero cristiano per una conversione degli ebrei) anche ai nostri giorni gli ebrei hanno disprezzato quest'acqua viva. Ma se un ebreo si converte, l'istruzione del battesimo lo sospinge verso l'acqua dello Spirito : « Fonte sapientiae certatim repleri desiderant, quem ante fugere gestiebant. Quem fontem? Audi dicentem: si quis sitit, veniat ad me et bibat. Qui credit in me, sicut dixit Scriptura flumina de ventre eius fluent aquae vivae » 75. Quanti bevono dalle fonti del Nuovo Testamento possono a loro volta diventare fonte per altri, maestri dei misteri cristiani - è ancora la teologia di Origene. 73

Epist. 45, 3 (PL 16, 1142 C). De Noe et arca 19, 70 (CSEL 32, 1, p. 464, 19s. 25-27); De Isaac et anima 1, 2 (CSEL 32, 1, p. 643, 2). 75 De Noe et arca 19, 70 (CSEL 32, 1, p. 465, 1-5). 74

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Essi sono i « fiumi che levano il loro frastuono » (Sai 92,3). Tali sono gli Apostoli, innanzi tutto, ma anche tutti coloro nei quali scorre l'acqua dello Spirito: « Sunt enim flumina, quae de ventre eius fluent, qui potum a Christo acceperit et de Spiritu Dei sumpserit ». Si diventa così ' apostoli ' : « Ita et iste incipit evangelizare Dominum lesum » 76. Nella lettera sull'interiorità Ambrogio ricorda in modo commovente al suo amico Ireneo che, bevendo con fede dalla sorgente che è Cristo, può anch'egli diventare come gli Apostoli e i Profeti, che hanno riversato quest'acqua sugli altri. Accade che « fluent ei aquae de suis vasis et puteorum suorum fontibus (Prov 5,15) vel de ventre eius aquae vivae, spiritales videlicet quas fidelibus suis Spiritus Sanctus ministrai, qui etiam animam tuam dignetur rigare, ut abundet in te fons aquae salientis in vitam aeternam »77. Questi sono i fiumi che scaturiscono dall'intimo di quanti bevono dal Nuovo Testamento: « Quoniam qui de Novo Testamento biberit non solum flumen est, sed etiam flumina de ventre eius fluent aquae vivae, flumina intellectus, flumina cogitationis, flumina sapientiae »78. Chi è così ricolmo di grazia comincia a parlare in virtù del ' Verbo ' per istruire gli altri : « Hi sunt fluvii qui aure percipiunt verbum Dei et locuntur, ut verbum infundant pectoribus singulorum »79. È evidente che dal pulpito del Vescovo di Milano come nella sua esegesi è Origene che parla. Il testo 76 Epist. 2, 2 (PL 16, 879 C; 880 A). Cfr. anche Hexameron 3, 2, 6 (CSEL 32, 1, p. 62, 14-17). " Epist. 29, 24 (PL 16, 1060 D ) . ' 8 Epist. 63, 78 (PL 16, 1210 C ) . '· Expl. Ps. 48, 4 (CSEL 64, p. 363, 15-23).

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di Giov 7,37.38 a lui presente è quello dei manoscritti greci, con questa sola variante: che Ambrogio (come, del resto, molti altri antichi codici latini giunti fino a noi) in Giov 7,38 legge « sicut dixit Scriptura », invece di dicit80. L'esegesi è modellata perfettamente su quella di Origene; solo la dottrina, tanto cara ad Origene, dell'ascesa del cristiano dalla fede alla gnosi vien portata su un piano propriamente dommatico. Tutto il medioevo ha poi compreso e letto il testo in questo modo. In un sol punto del suesposto sistema teologico, proprio come in Origene, sembra emergere anche in Ambrogio l'influsso d'un'altra interpretazione di Giov 7,38, e nella seconda parte di questo studio vedremo che in realtà Ambrogio conosceva bene anche questa esegesi. Parlando di Cristo qual fonte dell'acqua del paradiso, egli dice: «Erat fons qui inrigaret paradisum. Qui fons nisi Dominus Iesus Christus, fons vitae aeternae sicut Pater? Quia scriptum est: quoniam apud te est fons vitae; denique: flumina de ventre eius fluent aquae vivae» 81 . Giov 7,38 vien qui interpretato in ordine a Cristo medesimo. Ciò potrebbe anche intendersi come un libero adattamento delle parole della Scrittura. Ma, come si vedrà, si può qui percepire realmente un'eco dell'altra tradizione, completamente diversa, di cui parleremo appresso. Una cosa è certa: dovunque nella sua esegesi si abbia una dipendenza da Origene e da Didimo, Ambrogio ricorre per il testo e il suo significato alla tra80 Cfr., p. es., CSEL 32, 1, p. 62, 16; p. 465, 4; CSEL 64, p. 119. 23; p. 228, 11. Leggono ' dixit ', p. es., i codici a, b, e d. 81 De paradiso 3, 13 (CSEL 32, 1, p. 272, 9-12).

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dizione alessandrina. Ciò vale anche per il passo tratto dall' opera De Spirita Sancto, che si suole addurre come prova per l'interpunzione preferita da LAGRANGE. Per dimostrare che lo Spirito Santo possiede la natura divina, Ambrogio dice - nel suddetto luogo - che questi scaturisce da Dio come fiume d'acqua viva: « Hic est utique fluvius, de Dei sede procedens (Apoc 22,1), Spiritus Sanctus, quem bibit qui credit in Christum, sicut ipse ait: si quis sitit veniat ad me et bibat: qui credit in me, sicut dicit Scriptura, flumina de ventre eius fluent aquae vivae. Hoc autem dicebat de Spiritu. Ergo flumen est Spiritus » 82 . Testo e interpretazione rimangono dunque nell'ambito dell'esegesi fin qui esposta. Né è esatto quanto Lagrange 83 rimprovera ai Maurini, d'aver mutato cioè arbitrariamente l'interpunzione della citazione biblica: Ambrogio, infatti, cita sempre allo stesso modo in tutti i passi da noi presentati. Anche GIROLAMO interpreta Giov 7,38 nel senso di Origene. Lo dimostreremo in seguito, quando tratteremo espressamente delle sue ricerche, ormai classiche, per individuare le fonti veterotestamentarie della citazione. In più la sua esegesi ha questo : non manifesta nessuna tendenza a inserirsi nella speculazione pneumatica degli Alessandrini. Tuttavia nel suo commentario a Geremia egli cita due volte Giov 7,37.38 nel senso 82

De Spiritu Sancto 3,20, 154 (PL ιό, 812 BC). Evangile sehn St. Jean, 5 ed., p. 215, nota: «Le dernier cité est Ambroise, qui a pratiqué l'autre coupure, mais qui est clair dans De Spiritu Sancto III, 20, 154, malgré la fausse ponctuation dans Migne ». Migne però pubblica solo il testo maurino nella sua esatta divisione. 83

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suddetto 84 . Si può però facilmente provare che anche Girolamo conosce le altre interpretazioni. L'ulteriore storia della spiegazione di Giov 7,38 nella patristica latina non è che una debole eco, qualche volta quasi impercettibile, di Ambrogio e Origene. Quanto sia stato potente l'influsso di Origene, malgrado l'abisso spirituale e linguistico che divideva il genio alessandrino dai pur bravi Vescovi del tardo periodo latino, risulta direttamente dalla questione dell'esegesi di Giov 7,38. Origene rivive nella nuova elaborazione latina del testo, compiuta da Rufino e Girolamo. Un ignoto vescovo della cerchia di Agostino, copiando la decima omelia di Origene sulla Genesi, ne accoglie anche l'interpretazione di Giov 7,3885. CESARIO D'ARLES adopera parola per parola Γ undicesima omelia dell'Alessandrino sul libro del­ l'Esodo, e fa suo quanto vi si legge a proposito della roccia donatrice d'acqua, nonché l'esegesi di Giov 7,38 86. L'interpretazione origeniana di Giov 7,38 è rimasta ancor più viva per la mediazione di Ambrogio, pur tenendo conto della tipica trasformazione ambrosiana della gnosi nella fede e dell'ascesa pneumatica in una tendenza morale alla virtù. L'esegesi di Giov 7,38 può essere dunque riportata a due espressioni tipiche, raccolte dalla tarda latinità e trasmesse poi al medioevo: 1) i fiumi d'acqua (che scaturiscono) dall'intimo del credente ' sono le acque della conoscenza del Nuovo Testamento e il loro strari81

In Ieremiam comment. 3, 76 (CSEL 59, p. 214, 1-5); 6, 24 (p.

+00, 2 3 ) . 85 86

PS.-AGOSTINO, Semi. 9, 4 (De Rebecca) (PL 39, 1757 Β). Serm. 103, 3 (Morin I, 1, p. 409, 11-19).

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pamento è la dottrina e l'istruzione; 2) Γ ' acqua (che sgorga) dall'intimo ' sono le virtù, quelle soprattutto che, traboccando, possono recar beneficio al prossimo. Vediamo intanto la prima spiegazione: Giov 7,38 indica il traboccamento della conoscenza della S. Scrittura nella dottrina e nell'istruzione. Ciò ha luogo anzitutto negli Apostoli, ma anche negli uomini saggi dei nostri tempi, nei vescovi soprattutto, che sono incaricati dell' istruzione dei credenti. L' ' acqua viva ' è, secondo GIROLAMO, la doctrina Salvatoris : « Sicut enim qui biberit de doctrina eius, habebit in se fontem viventem, sic qui crediderit in eo, iuxta id quod Scripturarum vocibus continetur, flumina aquae viventis egredientur de ventre illius »87. In un'esegesi del versetto del salmo «levano i fiumi il lor frastuono» (Sai 92,3), tratta interamente da Ambrogio, anche AGOSTINO riporta il concetto secondo il quale gli Apostoli e i discepoli del Signore fanno scaturire dal proprio intimo il fiume della dottrina : « Ergo facta sunt flumina currenda de ventre discipulorum, cum acceperunt Spiritum Sanctum » 88. Oltre a ciò non si nota in Agostino un interesse specifico per il testo. Egli conosce indubbiamente anche le interpretazioni (sempre nella versione ambrosiana) di Giov 7,38: il fiume d'acqua che scaturisce dalla roccia 89 e i fiumi del paradiso 90 . Anche per la sua teologia Giov 7,38 dimostra che nella figura dell'acqua viva è stato promesso lo Spirito 91 . Non si 87 In Zach. comment. 3, 14, 8 (PL 25, 1528 C). Cfr. anche la Mantissa di Girolamo su Giov 7,38 (PL 30, 581 A). 88 Enarr. in Ps. 92, 7 (PL 37, 1187s). 89 Ivi 77, 13 (PL 36, 993 BC). 90 De Genesi contra Manichaeos 2, 24, 37 (PL 34, 216 A). 91 De doctrina Christiana 3, 25, 36 (PL 34, 79 Β).

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trova però in Agostino nessuna traccia d'una trattazione sistematica, come si ha invece in Origene e in Ambrogio. E questo è importante per la conoscenza dell'ultima fase dello sviluppo storico-patristico dell'esegesi di Giov 7,38: rimane ancora il significato della ' dottrina ' : gli Apostoli sono considerati il modello del dono dell'acqua viva e i vescovi ne sono gli imitatori. Soprattutto Giovanni, che dal petto del Signore ha bevuto « i fiumi d'acqua del Vangelo », è il modello ideale, come scrive PAOLINO DI NOLA: « Iohannes, qui solus in pectore recumbebat, unde geminos in alveum cordis sui traxerat fontes, quos in orbem idem postea revelationis et evangelii praeco diffudit » 92 . Ma si deve dire la stessa cosa anche dei vescovi, successori degli Apostoli. Ed è assai interessante osservare come Giov 7,37.38 sia assunto a frase ' convenzionale ' nelle espressioni di cortesia che i vescovi della tarda latinità reciprocamente si scambiavano. Il vescovo GAUDENZIO DI BRESCIA, dopo Γ ' umile rugiada ' della sua predica, invita il vescovo consacrante Ambrogio di Milano a prendere la parola, per far scorrere le acque della sua conoscenza della Scrittura: «Loquetur enim Spiritu Sancto, quo plenus est, et 93 flumina de ventre eius fluent aquae vivae » . E PAO­ LINO DI NOLA, in un'orazione in stile classico all'incom­ parabile Agostino, luce del suo tempo, scrive: « Os enim tuum fistulam aquae vivae et venam fontis aeterni merito dixerim, quia fons in te aquae salientis in vitam 98 Epist. 21, 2 (CSEL 29, p. 150, 9-12). Per le altre testimonianze cfr. H. RAHNER, De dominici pectoris fonte potavit in ZkTh 55 (1931) 107s. 93 Tractatus 16, 9 (CSEL 68, p. 139, 16-22).

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aeternam Christus effectus est. Cuius desiderio sitivit in te anima mea et ubertate tui fluminis inebriari terra mea concupivit » 94 . RURICIO imita quasi esageratamente tale espressione di cortesia tra vescovi in una lettera a un vescovo amico, riferendosi espressamente a Giov 7,38 95. Alla base di tutto c'è questo concetto comune: nel venter spiritualis, nel ' più intimo ricettacolo del cuore ' le acque della dottrina traboccano a beneficio del prossimo: « Qui cum sincerum vivo de fonte liquorem gustarint, ipsi profundent flumina ab alvo cordis et irriguas praebebunt fratribus urnas ». Così il Carmen de Providentia rende in forma poetica il contenuto di Giov 7,38 96 . Anche APONIO esprime gli stessi concetti nel suo Commentario al Cantico dei Cantici, che ha esercitato successivamente un notevole influsso. La rugiada (Cant 5,2) della grazia divina forma dei fiumi nell'intimo del cuore : « Ros iste descendat in te, per cuius roris venam fontes et flumina de tuo corde procedant » 97. Queste acque sono i « dieta Apostolorum, qui rivuli aut fontes intelliguntur »98. L'esegesi del ' seno del cuore ' dal quale scaturiscono le acque della ' santa predica ' è stata fissata definitivamente da GREGORIO MAGNO. « Quia enim de mente fidelium sanctae praedicationes defluunt, quasi de ven" Epist. 4, 2 (CSEL 29, p. 20, 4-8). 85 Epist. 2, 34, 1 (CSEL 21, p. 418, 5-14). 88 PS.-PROSPERO, Carmen de Providentia 971 (PL 51, 638 D ) . Cfr. anche PAOLINO DI N O L A , Carmen 33, 21, 22 (CSEL 30, p. 339). 87 Comment. in Cant. (ed. di H. Bottino e J. Martini, R o m a 1843) 8 (p. 143). 88 Ivi 8 (p. 156).

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tre credentium aquae vivae flumina decurrunt » ". I seguaci medievali di Gregorio hanno trascritto con vivo piacere la sua esegesi di Giov 7,38 10 °. In BRUNO DI SEGNI noi possiamo ancora sentire l'ultima debole eco del canto corale dell'esegesi origeniana 101. Ed ora l'altra spiegazione: Giov 7,38 si riferisce al traboccare delle opere dello Spirito, delle virtù, a beneficio del prossimo. Già ILARIO intende il testo in tal senso 102. Il maggior contributo vien però da AGOSTINO, che nei suoi trattati sul Vangelo di Giovanni applica il testo all'amore del prossimo. Egli ripete ancora una volta la dottrina, fondata nella psicologia di Origene e resa poi comune da Ambrogio, del venter come base del cuore : « Venter interioris hominis conscientia cordis est » : così suona il famoso detto, ripetuto con tanta frequenza nel corso della storia della spiritualità medievale. Ci si pone quindi la domanda: « Quid est fons et quid est fluvius qui manat de ventre interioris hominis?». E si ode l'altrettanto classica risposta: « Benevolenza, qua vult consulere proximo » 103 . Qui ci si ferma. EUCHERIO 104 e GREGORIO MAGNO 105 applicano Giov 7,38 alle virtù, fede, speranza e carità. Il medioevo non fa che ripetere le parole di Agostino 106. E TOM" In Ezech. homil. 10, 6 (PL 76, 888 Β ) ; Moral, in Job 18, 37 (PL 76, 7 0 Β ) ; Moral. 11, 10 (PL 75, 9 6 0 Β ) . 100 Così già PATERIO (PL 79, 1077 D ) , e più tardi ALULFO (PL 79, 1246 Β). 101 In Ioan. comment. 1, 7 (PL 165, 511 Β ) . 102 Tract. in Ps. 64, 14 (PL 9, 421 Β ) . 103 Tract. in Ioannem 32, 4 (PL 35, 1643 C D ) . 104 Formulae 3 (CSEL 31, p. 20, 19s). 105 Moral, in Job 15, 16 (PL 75, 1091 Β ) . I0 » Cfr. BEDA (PL 92, 732 C ) ; ALCUINO (PL 100, 850 C; 851 B ) : RUPERTO DI D E U T Z (PL 169, 521 BC).

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MAso D AQUINO raccoglie quest'ultima debole espressione dell'esegesi patristica di Giov 7,38 nelle seguenti parole: « Qui proximo festinat consulere et diversa dona gratiarum recepta a Deo aliis communicare, de ventre eius fluent aquae vivae » 107. d) Alla completezza della storia della tesi esegetica che abbiamo fin qui esposta manca ancora la risposta alla seconda domanda: qual è, nel tempo successivo ad Origene, la posizione dell'esegesi patristica riguardo al passo dell'Antico Testamento che ha il suo riscontro nella promessa dell'acqua sgorgante dall'intimo del credente ? Abbiam visto che Origene aveva pensato a Prov 5, 15.16, anche se non si può più dimostrare che egli abbia in qualche posto motivato sul piano teorico la sua opinione. Si può tuttavia desumere chiaramente da Girolamo e da Ambrogio che tale sia stata in realtà la tesi di Origene. Ma questi due esegeti, nei quali è tanto sensibile l'influsso origeniano, non sono stati i primi ad avvertire l'importanza del problema della citazione scritturistica di Giov 7,38. Già molto tempo prima troviamo altri tentativi di soluzione. Così in CIRILLO DI GERUSALEMME, che ha composto la sua

Catechesi durante la quaresima del 348. Finora si è creduto che questo modo di risolvere la difficoltà fosse una caratteristica del Crisostomo e lo si indicava come tipicamente antiocheno. Ma è della stessa opinione anche Cirillo di Gerusalemme: lo deduciamo dal fatto che questa è una dottrina insegnata a Cesarea. Cirillo Comment. in Ioannem, e. 7, lect. 5 (ed. Parma, X, p. 437/·

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sintetizza così il testo scritturistico : ό πιστεύων εις έμέ καθώς ειπεν ή γραφή, e lo spiega: chi crede in me, come la Scrittura invita a credere, chi dunque non crede in modo solo superficiale, ma riflette attentamente sulle profezie dell'Antico Testamento sul Messia, questi potrà sperimentare il fluire dei fiumi d'acqua viva dal proprio intimo: ό πιστεύων εις έμε ούχ απλώς άλ­ λα καθ-ώς εΐπεν ή γραφή - ανέπεμψε σε εις τήν πάλαιαν διαθ-ήκην - ποταμοί εκ της κοιλίας αύτοϋ ρεύσουσιν ύδατος ζώντος 1 0 8 . Questa tesi è stata accolta dai maestri della Scuola Antiochena. Anche su ciò il Commentario a Giovanni di TEODORO DI MOPSUESTIA offre un ampio ragguaglio. « Alcuni - vi si legge - hanno applicato il ' come dice la Scrittura ' al vero Verbo, ed han cominciato a cercare dove sia scritto : ' fiumi scaturiranno dal suo corpo .' Ma noi non dobbiamo metterlo in relazione col Verbo divino. Infatti, poiché nella divina Scrittura si leggono molte profezie sul Messia, esortanti alla fede in lui (come è detto anche in un altro passo: ' questa Scrittura mi rende testimonianza' (At 10,43?)), dobbiamo dire: chiunque segue la Scrittura e crede in me, sarà ricolmo di grazia come d'un fiume, che non solo non si secca, ma diventa una fonte che alimenta lui stesso ed è utile anche a molti altri » 109 . Della medesima opinione è il CRISOSTOMO, per il cui tramite l'esegesi bizantina ha dato questa spiegazione del testo: «E in qual punto la Scrittura dice: ' fiumi scaturiranno dal suo intimo'? In nessuna parte. Che significa dunque: chi crede in me, come dice la Scrittura ' ? - questa è 108 109

Catech. 16, 11 (PG 33, 932 G). In Ioan. comment. (Chabot, p. 180).

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infatti l'esatta interpunzione, perchè la frase: ' fiumi scaturiranno ... ' è da intendersi unicamente come una sentenza di Cristo » u o . CIRILLO ALESSANDRINO percorre un'altra via. Anch'egli aveva cercato invano un testo corrispondente nell'Antico Testamento. Per eludere la difficoltà aveva ideato una spiegazione, ancor oggi condivisa da molti esegeti, secondo la quale Cristo non ha inteso citare un passo scritturistico esattamente determinato, ma in genere tutte quelle profezie nelle quali la salvezza messianica è annunziata come il prorompere dell'acqua viva: έρμηνεύσας δε μάλλον το προς δ ι ά ν ο ι α ν m . Anch'egli si richiama a Is 58,11, ed è persuaso che questo testo significhi la stessa cosa che vien promessa in Giov 4,14. Solamente che la parola γραφή in Giovanni indica sempre un preciso testo della Scrittura (cfr. Giov 2,17; 6,31; 7,42; 10,35; 12,14; 13.18; 19,24; 19,36.37)· Ciò era noto anche agli antichi esegeti cristiani. La ricerca della γραφή cui si richiama Giov 7,38 non poteva per­ ciò avere una facile conclusione. Quanto più andava imponendosi l'interpretazione di Origene, tanto più si doveva appurare la validità del riferimento a Prov 5, 15.16. Non è affatto inutile richiamare l'attenzione sullo stesso CIRILLO di Gerusalemme, che, non ostante la suesposta lezione, accenna anche a Prov 5,15 n 2 . Ma quest'idea si afferma anche in AMBROGIO. Abbiamo 110 111 111

Homilia in loannem (PG 59, 283). In Ioan. comment. 5 (PG 73, 749 C). Catech. 16, 11 (PG 33, 932 C). - Cfr. anche l'esegesi di DIDIMO

su Prov 5,15 (PG 39, 1629 A) e quella di PSOCOPIO DI GAZA (PG 87,

I, 1264 D; 1265 A).

LA TRADIZIONE ALESSANDRINA

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già visto che in una sua lettera vengono fusi insieme Prov 5,15 e Giov 7,38: «Fluent ei aquae de suis vasis et de puteorum suorum fontibus, vel de ventre eius aquae vivae » 113 . Ambrogio sostiene tale tesi perché nella sua versione latina Prov 5,16 suona così (conforme al testo ebraico e a quello letto da Origene in alcuni manoscritti dei LXX) : « Et superfluant tibi aquae de tuo fonte » 114 . Sarebbe assai lungo enumerare ed esaminare le tante testimonianze che si possono cogliere dalle opere di Ambrogio 115. Dovunque egli nella sua teologia ispirata ad Origene e a Filone parla dell'acqua viva sgorgante dalla fonte dell'uomo interiore, ricorre immancabilmente il testo di Prov 5,15.16. In realtà si tratta d'uno dei testi preferiti dall'esegeta milanese, che lo cita per lo più in relazione, logica ο immediata, con Giov 7,38. Tuttavia nemmeno Ambrogio ci offre una trattazione teorica del problema: in ciò non era evidentemente un esegeta in senso propriamente filologico e critico. Dall'esattezza della sua straordinaria conoscenza della Scrittura e di Origene si può però desumere che anche Ambrogio, come il suo maestro alessandrino, ha risolto la questione del ' passo scritturistico ' di Giov 7,38 rimandando a Prov 5,15.16. Uno solo era in grado di offrire una descrizione teoretica e completa della questione: GIROLAMO. Sem113

Epist. 29, 24 (PL i 6 , 1060 D ) . De Isaac et anima 4, 24 (CSEL 32, I, p. 658, 5s). Cfr. Hexameron 3, 12, 49 (CSEL 32, 1, p. 91, 24s); De Jacob et beata vita 1, 7, 29 (CSEL 32, 2, p. 22, 24ss); ivi 2, 4, 17 (CSEL 32, 2, p. 42, i s ) ; De paradiso 3, 13 (CSEL 32, I, p. 272, iós); De Isaac et anima 4, 22 (CSEL 32, 1, p. 656, 18s) ; ivi 5, 40 (CSEL 32, 1, p. 666, is) ; Epist. 37, 18 (PL 16, 1088 C ) ; Expl. Ps. 45, 3, 4 (CSEL 64, p. 331, 14 - p . 332. Η ) · 114 115

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bra che anche a lui, che conosceva tanto bene la tradizione della Scuola di Cesarea, non fosse affatto sconosciuta la soluzione data dapprima da Cirillo di Gerusalemme. Infatti nel suo Commentario a Zaccaria egli scrive: « Sic qui crediderit in eo (Christo) iuxta id quod Scripturarum vocibus continetur, flumina aquae viventis egredientur de ventre illius » 116 . Egli rende dunque il testo proprio secondo l'insegnamento della Scuola antiochena. Si tratta però d'un fatto del tutto isolato, che ha luogo nella spiegazione del libro di Zaccaria scritta solo nel 406. Il problema ha per Girolamo un'importanza molto maggiore, tanto che ad esso egli ha dedicato tutta la vita. Secondo Girolamo, Giov 7,38 e la sua misteriosa citazione scritturistica è uno di quei richiami del Nuovo al Vecchio Testamento, che non si devono cercare nella versione dei LXX, ma per la cui verificazione si deve ricorrere al testo originale ebraico. Tali sono Mat 2,15; Mat 2,23; Giov 19,37; 1 Cor 2,9; Giov 7,38 117. È noto che si rimproverava a Girolamo d'aver scalzato con la sua nuova versione l'autorità dei LXX. Richiamandosi alle suddette citazioni bibliche che si possono riscontrare nel testo ebraico, non invece in quello dei LXX, lo studioso di Betlemme si difende con successo. Giov 7,38 ha qui un peso decisivo: « Christus Dominus noster, utriusque Testamenti conditor, in Evangelio secundum Ioannem qui credit, inquit, in me, sicut dicit Scriptura, flumina de ventre eius lle

In Zach. comment. 3, 14, 8 (PL 25, 1528 C). Epist. 57, 7. 8 (CSEL 54, pp. 512-518); Apologia adv. libros Rufini 2, 25 (PL 23, 449 A); Praefatio in Pentateuchum (PL 28, 149 A); Praefatio in librum Paralipomenon (PL 28, 1326 A). 115

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fluent aquae vivae. Utique scriptum est, quod Salvator scriptum esse testatur. Ubi scriptum est? Septuaginta non habent. Apocrypha nescit Ecclesia. Ad Hebraeos igitur revertendum est, unde et Dominus loquitur et discipuli exempla praesumunt » U 8 . Consapevole della vittoria conseguita, Girolamo pone ai suoi critici questa domanda : « Interrogemus ergo eos, ubi haec scripta sint; et cum dicere non potuerint, de libris hebraicis proferamus » 119. Al vivo interesse suscitato dal problema fa però seguito una soluzione deludente. Per Giov 7,38 si deve trovare in pratica un passo dell'Antico Testamento, il cui senso sia stato alterato dai LXX. Una volta Girolamo ha omesso del tutto (conscio della validità della sua esegesi contro le critiche degli ignoranti) di indicare i passi corrispondenti 120 . In un'altra parte, invece, si riferisce in genere ai Proverbi: in Proverbiis121. Ciò ha strappato all'esegeta MALDONADO l'esclamazione: « Utinam eadem indicasset opera, ubinam hoc testimonium in Hebraicis libris reperiretur ! » 122. Qui giova però ricordare quanto abbiamo sia visto in Origene, L'autore degli Esapli sapeva bene che Prov 5,16 nei LXX suona diversamente che non nel testo ebraico. 118 Praef. in Paralip. (PL 28, 1326 A). Già ai tempi di Girolamo si è pensato alla possibilità che la citazione di Giov 7,38 si riferisse a uno scritto apocrifo perduto: opinione, questa, che ha ancor oggi dei seguaci. 118 Praef. in Pent. (PL 28, 149 A). 120 PL 28, 1326 A. Nella lettera 57 a Pammachio egli evita di parlare del testo. Se ne parla invece dettagliatamente nelle altre quattro citazioni, esistenti solo in ebraico. Ciò dà l'impressione che Girolamo non fosse completamente sicuro della propria posizione circa Giov 7,38. 1,1 PL 28, 149 Β. 12a G. MALDONADO, Commentata in S. quattuor Evangelistas (ed. C. Martin, 3 ed., Paderborn 1863), ν. Π, ρ. 666.

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E Girolamo ha studiato profondamente gli Esapli. Nella sua traduzione dei Proverbi ha reso l'espressione in modo chiaramente diverso dai LXX: « Deriventur fontes tui foras ». Crediamo dunque (contro il riferimento, arbitrariamente stabilito da Vallarsi, a Prov 18,4) che Girolamo abbia pensato al testo di Prov 5,15.16, tanto familiare, grazie ad Origene, alla letteratura del tempo 123. Così pensa pure uno degli esegeti più versati nella patristica, il Cardinale FRANCESCO TOLEDO, che nel suo Commentario a Giovanni offre un'eccellente panoramica sui diversi tentativi di soluzione di questo problema nell'antica esegesi cristiana. Egli pensa che Girolamo abbia avuto in mente proprio l'idea di Origene, espressa soprattutto nella dodicesima omelia sui Numeri 124 . Girolamo aveva conosciuto queste omelie e ne aveva fatto tesoro: le aveva tradotte il suo amato e odiato amico Rufino 125. In tal senso hanno interpretato Girolamo i migliori esegeti dei tempi successivi. RUPEETO DI DEUTZ dice: « Scriptura Proverbiorum est, quae sic dicit sensu eodem, verbis paululum diversis... nam quod hic dixit: 'si quis sitit veniat ad me 123 Si deve però aggiungere che anche per Prov 18,4 esiste una piccola divergenza tra i LXX e la versione di Girolamo: nei LXX si legge ύδωρ βαθύ λόγος έν καρδία ανδρός, ποταμός δε άναπηδύει και π η γ ή ζωής. Girolamo, invece, traduce: «Aqua profunda verba ex ore viri et torrens redundans fons sapientiae ». Ma Prov 18,4 non ha, per le idee di cui abbiamo esposto la storia, la stessa importanza di Prov 5,15.16. Solo una volta in Ambrogio (CSEL 64, 332, 12) il testo ci è pervenuto nell'antica forma latina: «Aqua alta verbum in corde viri ». 124 FRANCESCO TOLEDO, Commentarti in S. Iohannis Evangelium, Colonia 1589, p. 706. 125 Cfr. GIROLAMO, Epist. 33, 6 (CSEL 54, p. 257, 9); RUFINO, Prologo alla versione delle omelie sui Numeri (GCS Origenes VII, p. is).

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et bibat ', hoc ibi dictum est: ' bibe aquam de cisterna tua et fluenta putei tui'. Et quod hic subiunxit: ' flumina de ventre eius fluent aquae vivae ', hoc ibidem sic subiunctum est: ' deriventur fontes tui foras '» 126. TOMMASO D'AQUINO è dello stesso parere : « Quod ut ipse (Hieronymus) dicit, de Proverbiis scriptum est ». E cita appresso Prov 5,15.16 127. Abbiamo così concluso la prima parte della nostra indagine. L'evoluzione storica della prima interpretazione di Giov 7,37.38 nell'esegesi patristica appare ai nostri sguardi chiara in ogni sua fase. Il risultato è però alquanto deludente. Ad entrambe le domande che abbiamo poste sull'esegesi patristica di Giov 7, 37.38 si dà una risposta tutt'altro che esauriente. Anzitutto per quanto concerne il significato: Giov 7,37.38 ha avuto solo in Origene un'interpretazione teologicamente rilevante; ma questa è fin dalle radici viziata dalle proprietà pneumatiche della gnosi origeniana. Le rettifiche portate da Ambrogio alla dottrina di Origene non riproducono quindi fedelmente il grande modello : attraverso Ambrogio l'esegesi di Giov 7,37.38 è scivolata sul piano della pura edificazione. D'ora in poi le misteriose parole del Signore non hanno più un 1!i Comment. in Ioannem 7 (PL 169, 521 Β). - Cfr. l'uso di Prov 5,15.16 nel medesimo contesto già in AGOSTINO, Epist. ad catholicos de seda Donatistarum 23, 65 (CSEL 52, p. 313, 4-8), dove il testo, insieme con Giov 7,38, svolge un ruolo di rilievo nelle argomentazioni dommatiche dei donatisti. Cfr. anche AGOSTINO, Contra Cresconium 2, 13, 16 (CSEL 52, p. 376, 19s). È di grande interesse infine il fatto che i donatisti abbiano cercato la citazione di Giov 7,38 anche nel profeta Isaia : cfr. AGOSTINO, Adv. Fulgentium Donatistam 2 (CSEL 53, p. 290, 3-18). Anche GREGORIO MAGNO nel medesimo contesto indica una volta Prov 5,15: Regula pastor. 3, 24 (PL 77, 95 C). 1,7 Comment. in Ioannem e. 7, lect. 5 (ed. Parma, X, p. 437).

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valore rilevante; vengono considerate semplicemente come una promessa delle grazie necessarie per poter comunicare al prossimo la dottrina cristiana e l'aiuto della carità. Non è più compito del presente studio indicare come mai tale incertezza nell'interpretazione sia giunta fino alla più recente esegesi cattolica. È però certo che tutte le volte che le parole del Signore sono state applicate ai credenti, lo si è fatto sempre all'insegna dell'esegesi patristica di Giov 7,37.38. Dobbiamo dire la stessa cosa a proposito della risposta alla nostra seconda domanda. Possiamo costatare che quasi tutti i tentativi dell'odierna esegesi di trovare nell'Antico Testamento il testo corrispondente hanno un riscontro nella patristica e la dichiarazione rassegnata del Cardinale TOLEDO vale anche per le antiche ricerche sulla Scrittura : « Laborant Doctores anxie hoc testimonium in Scriptura quaerentes; sunt autem variae eorum sententiae » 128 . Considerando la cosa solo oggettivamente, la tesi di Origene e la relativa indagine critica di Girolamo sulla Bibbia non hanno avuto successo. È degna di nota solo l'opinione di Cirillo Alessandrino. Questi è seguito oggi da molti esegeti. Giov 7,38 non allude, secondo tale opinione, ad un determinato passo della Scrittura, ma all'insieme delle profezie dell'Antico Testamento; e si dovrebbe qui pensare piuttosto a l s 5 8 , n e a tutti quei passi nei quali la salvezza messianica è annunziata nell'immagine dell'acqua zampillante. Si deve quindi consentire col LAGRANGE, che giudica forzato il riferimento a Prov 5,15, rinunziando a dare un'indicazione in qualche Commetti, in S. Johannis Evang., Colonia 1589, p. 706.

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modo soddisfacente del testo : « il demeure, que la doctrine du disciple devenue une source d'eau vive paraìt étrangère à l'Ancien Testament » 129. Con ciò non è forse dimostrato che l'esegesi patristica (e moderna) di Giov 7,37.38, condotta sotto l'influsso determinante di Origene, ha preso una strada sbagliata che l'ha allontanata notevolmente dal senso originario del testo? In altre parole: l'indagine finora compiuta costituisce lo sfondo ed anche il movente per lo studio della seconda interpretazione, tanto diversa dalla prima sia per la struttura del testo che per il suo significato.

ls

* Évangile sehn S. Jean, 5 ed., p. 2ÓI.

2.

LA TRADIZIONE DELL'ASIA MINORE

Due volte, in Origene e in Ambrogio, abbiamo incontrato un'interpretazione di Giov 7,38, tale da farci presumere che il testo possa essere stato applicato fin dall'antichità allo stesso Cristo. Infatti l'espressione « fiumi d'acqua viva scaturiscono dal suo corpo », applicata a Cristo, dice molto più che un semplice giuoco di parole della S. Scrittura. Ma è ciò sufficiente perchè si possa prudentemente affermare che tale interpretazione è quella originaria? In effetti si deve produrre anche per questa tesi un'organica descrizione della sua storia, andando oltre le citazioni patristiche finora presentate in modo incompleto e senza nesso. Cercheremo di seguire a ritroso questa storia dalla prima sicura testimonianza della nuova interpretazione fino a quei circoli teologici che erano ancora chiaramente a diretto contatto con la teologia giovannea dell'Asia Minore (1). Si dirà quindi che questa interpretazione ha tratto notevole vantaggio dalla struttura del testo dell'antica versione latina di Giovanni, onde ebbe nuova vita in tutti quei Padri che trassero la loro teologia da detta

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versione (2). Malgrado il potente influsso dell'interpunzione e dell'esegesi affermatasi nel frattempo per merito di Origene, il vigore dell'antica tesi latina è tanto, che si fa sentire, pur palesandovi una certa incongruenza, perfino in quei Padri della Chiesa che seguono generalmente l'esegesi di Origene, soprattutto in Ambrogio e Girolamo. D'ora in poi essa non vien più dimenticata del tutto (3). Ma solo di recente, grazie agli studi patristici e critico-testuali, essa ha goduto nuovamente di quella stima che le compete in ragione dell'antichità e della profondità del pensiero teologico, soprattutto per quanto riguarda la Chiesa. La storia di questa esegesi, cosi abbozzata, offrirà infine indicazioni molto importanti per la soluzione del problema circa il passo dell'Antico Testamento, al quale si richiama Giov 7,38. In futuro anche l'arte dell'interpretazione esegetica dovrà quindi necessariamente muoversi nella direzione indicata dalla storia di questa tesi. Ne risulterà infatti che in Giov 7,37.38, così inteso, noi abbiamo uno dei temi centrali, assai profondo e d'una singolare bellezza, della teologia giovannea. 1. - Il riferimento di Giov 7,38 alla fonte dello Spirito che scaturisce dall'intimo dello stesso Cristo lo troviamo per la prima volta nel più antico scritto propriamente esegetico della letteratura cristiana: nel Commentario a Daniele di IPPOLITO ROMANO. Esso è incorporato nel complesso della sua teologia spirituale, che possiamo giustamente stimare come prezioso retaggio della dottrina romana antica. Ippolito ha scritto infatti questo commentario e le altre opere, dalle quali noi ora attingiamo, nello spirito del suo

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tempo, proprio nel periodo in cui il giovane Origene si trovava a Roma 1 . Dobbiamo qui esporre brevemente questa teologia spirituale, per poter convenientemente valutare il significato e l'origine della citazione di Giov 7,38 nel commentario a Daniele. La Chiesa è, per Ippolito, il paradiso, il giardino chiuso in cui zampilla la ' fonte sigillata ', dalla quale nasce il quadruplice fiume dell'acqua viva, « la legge dei Profeti e degli Apostoli, i quali bevono eternamente l'acqua viva che procura la pace nella vita eterna: questa è la vera dottrina della linfa vitale promanante dallo Spirito Santo e con la quale vien saziata l'umanità. E accaduto che ' la terra fu ricolma d'ogni conoscenza' (Is 11,9) di Cristo, come i mari e la terra sono ricoperti dalle acque» (Cant 4,15) 2. I fiumi della rivelazione del Nuovo Testamento scaturiscono però dal Signore Gesù Cristo, dal suo ' petto '. « Le mammelle di Cristo non sono che i due Testamenti » 3 , dice Ippolito con un'altra immagine, diversa ma indicante sempre il medesimo concetto. Acqua, latte, vino, simboleggiano infatti sempre la stessa cosa: la bevanda spirituale offerta da Cristo e che scorre nella dottrina dei due Testamenti. È la ' bevanda dell'immortalità ', che dagli Apostoli si riversa nella Chiesa attraverso la dottrina e il battesimo ; è Γ acqua 4 della grazia ' che promana da Cristo . 1

Cfr. R. CADIOU, La jeunesse d'Origene, Parigi 1935, pp. 62-68. Comment. in Cant. (GCS Hippolyt I, 1, p. 374, 3-9); In Dan. comment. 1, 17 (GCS I, 1 p. 28, 16-17); De Antichristo 1 (GCS I, 2, P· 3, ?s)· - Per la dottrina di Ippolito sulla Chiesa cfr. A. HAMEL, Kirche bei Hippolyt von Rom, Gütersloh 1951. 3 Comment. in Cant. (I, 1, p. 344, 5s). 4 Fragm. in Ruth 2, 9. 14 (GCS I, 2, p. 120, 8-10). 2

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Ma in che modo l'acqua viva scaturisce da Cristo? Dal suo ' petto ', come abbiamo già visto. E ciò significa: dal suo ' corpo ', dalla sua umanità. Ippolito lo deduce da due simboli fondati nella Bibbia. La ' santa carne di Cristo ' è la roccia spirituale5 (iCor 10,4), dalla quale fluisce l'acqua viva; Cristo è la ' vera roccia ' 6 . Nel paragonare il corpo umano alla roccia gli si impone però l'altro concetto, fondamentale per la sua cristologia: dalla roccia spaccata dell'umanità del Signore, dal suo costato aperto, scaturisce la sorgente della vita 7 . Il Crocifisso è «fonte d'acqua per tutti gli assetati », sulla croce s'è « aperta per noi la fonte dell'acqua dolce dello Spirito » 8 . L'acqua e il sangue che escono dall'aperto costato di Cristo sono i simboli dello Spirito e del fuoco (Giov 19,34 e 1,33; Mat 3,11), sono i «due fiumi che promanano dal suo costato e purificano, lavandoli, i popoli »9. Ippolito vede qui dunque il mistero dell'avvenimento descritto così enfaticamente da Giovanni: il corpo senza vita 5 Fragni, in Prov. 24, tìi (GCS I, 2, p. 167, ios). « Commetti, in Cant. (GCS I, 1, p. 351, 5s). 7 PG 59, 744 A. - Nel 1941 pensavamo, in base alla documentazione allora accessibile, che la citazione non fosse che un passo d'una riscoperta omelia pasquale di Ippolito inserita tra le omelie erroneamente attribuite a Crisostomo. Nel frattempo è emersa la prova che questa omelia anonima non può essere attribuita a Ippolito, benché subisca l'influsso dell'opera di Ippolito sulla Pasqua, ricordata in Eusebio VI, 22. Cfr. l'edizione critica di P. NAUTIN, Une homélie inspira du traité sur la Pàqiie d'Hippolyte in Sources chrétiennes 27 (1950) 181. A p. 99, nota 2, Nautin esamina inoltre espressamente i testi autentici di Ippolito, che ci mostrano quanto sia stato facile per questo teologo il simbolismo del flusso d'acqua viva sgorgante dal costato di Cristo. Le conclusioni, per quanto riguarda l'ecclesiologia di Ippolito, restano pertanto invariate. 8 Ivi (PG 59, 743 B-D). 9 De Antichristo 11 (GCS I, 2, p. io, 18-20).

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del Redentore, malgrado e in virtù della morte, possiede una forza vivificatrice : νεκρόν τε ον το σώμα ... μεγάλην έχει ζωής έν αύτω δύναμιν ... ώς ήμΐν δε τα της ζωής αΐτια προχεΐν δύνασθ-αι10. La piaga del co­ stato di Cristo o, come Ippolito più semplicemente dice in un altro passo, il ' corpo del Signore ' u è la fonte della vita, della ' santa acqua '. « Nel sangue dell'Uomo noi abbiamo l'acqua dello Spirito » 12 : così può essere brevemente descritta la teologia di queste prediche pasquali. Ma l'unità di quanti sono stati riuniti insieme dall'acqua viva dello Spirito è rappresentata dalla Chiesa 13 - il processo ideale torna così alle origini -, dalla Chiesa qual paradiso in cui scorrono i fiumi che scaturiscono dal corpo del Redentore ed irrigano tutta la terra. E questo il contesto in cui ora per la prima volta appare Giov 7,38: «Scorre un fiume d'acqua perenne e da questo si dipartono quattro fiumi che scorrono per tutta la terra. La stessa cosa avviene nella Chiesa. Infatti Cristo, essendo egli il fiume, attraverso i quattro Vangeli viene annunziato in tutto il mondo e scorrendo per tutta la terra santifica tutti quelli che credono in lui, come dice anche il Profeta : ' fiumi scaturiscono dal suo corpo '» 14. 10

Frammento dell'omelia sui due ladroni ,2 (I, 2, p. 211, 7-12). lui, fragm. 1 (I, 2, p. 211, 3s): αμφότερα παρέσχε το του Κυρίου σώμα τω κόσμω, αίμα το ιερόν και ΰδωρ το άγιον. 12 Homil. in Pascha 2 (PG 59, 727 Α): έπείπερ εις εν ήλθε τό τε αίμα και το πνεϋμα, ίνα δια τοϋ ομογενούς ήμΐν αίμα­ τος το μή ομογενές ήμΐν Πνεϋμα το άγιον λαβείν δυνηθώμεν. Che non subisca l'influsso di Ippolito? 13 Cfr. De Antichristo 3 (I, 2, p. 6, 17-20); In Dan. Comment. 1, 17 (I, i, p. 28, 18s). - A. D'Aiis, La théologie de S. Hippolyte, Parigi 1936, pp- 38s. 192s. 14 In Dan. comment. 1, 17 (I, 1, p. 29, 11-16). 11

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Il Profeta è l'Apostolo Giovanni, così comunemente indicato all'epoca di Ippolito nella tradizione dell'Asia Minore 15 . E noi già sappiamo, dal contesto teologico di Ippolito nel quale bisogna inquadrare la citazione di Giov 7,38, che si tratta d'una teologia ispirata alla dottrina della prima lettera di Giovanni (5,6.8) : lo Spirito è venuto a noi con l'acqua e il sangue, non con l'acqua soltanto (quindi nessuna discesa dello Spirito), ma anche col sangue (quindi per la morte umana e reale) del Messia. È forse impossibile intravedere ancor qui in Ippolito le linee della teologia giovannea conservata in una viva tradizione? Ippolito è discepolo di IRENEO DI LIONE; questi a sua volta è discepolo di POLICARPO, dal quale ha udito le parole di colui che « ha toccato con mano » (iGiov 1,2) la Parola della vita 16 . Qui si deve dunque indagare. Dobbiamo anzitutto costatare che la teologia ippolitiana dell'acqua viva è modellata fin nei dettagli su quella di IRENEO. Questi però l'ha appresa a Smirne direttamente dalla bocca di Policarpo, e, com'egli stesso afferma, « l'ha impressa non sulla carta, ma nel suo cuore » 1 7 . Lo Spirito Santo, sintesi di tutti i doni salvifici del N u o v o Testamento, è l'acqua viva che, 15 Così già GIUSTINO, Dial. 81, 14; 82, 1 (Otto II, p. 296, is. 7s); PoLicsATE D'EFESO [in EUSEBIO, Hist. eccl. 3, 31, 3 (GCS II, i , p . 264 17)]. Cfr. T H . Z A H N , Apostel und Jünger Jesu in Asien (Forschungen zur Gesch. d. neutest. Kanons, VI) Lipsia 1900, ρ. 2 ΐ ο , nota 2. - Altre testimonianze di Ippolito sono raccolte dallo stesso T H . Z A H N , Ge­ schichte des neutest. Kanons, ν. Ι, Erlangen 1892, ρ. 203, nota ι; ρ. 2θ6 nota 2; Η . RAHNER, Zeit sdir. f. kath. Theol. 55 (1931) 103s. 18 IRENEO, Epist. ad Florin. [EUSEBIO, Hist. ecd. 5, 20, 6 (GCS II, 1, p. 484, 4-10)]. - Sull'influsso di Ireneo su Ippolito cfr. H. ACHELIS, Hippolytstudien (Texte und Untersuchungen 16, 4), Lipsia 1897, ρ. 27. " Ivi (GCS II, ι, ρ. 484, 12).

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secondo Is 43,19-21, scorre su tutta la terra dacché Cristo ha effuso su di noi lo Spirito e gli uomini hanno accolto con fede quest'acqua : « Fideffi quae est in Christo qua annuntiavit... et in terra inaquosa flumina Spiritus Sancti adaquare genus electum Dei quod acquisivit » 1 8 . Giov 7,38 fa già qui la sua comparsa: bere l'acqua viva equivale a ' credere '. Infatti i fiumi che scaturiscono da Cristo sono i due Testamenti, dei quali il primo preannunzia l'efflusso dello Spirito, mentre l'altro ne rivela la realtà: il medesimo Logos e lo stesso Spirito dominano entrambi i Testamenti 1 9 . Ora, da quando il Verbo si è fatto carne, noi possediamo lo Spirito in ' una nuova forma ' : « nove effusus est in nos ... ex quo qui credunt Deo et sequuntur Verbum eius, percipiunt eam quae est ab eo salutem » 20 . Chi ci dona quest'acqua è il Signore Gesù Cristo, esaltato nella passione : « Egli fa scorrere grossi fiumi, manda sulla terra lo Spirito Santo, secondo la promessa, fatta per bocca dei Profeti, di effondere alla fine dei tempi lo Spirito sulla faccia della terra » (Gioele 3,1; At 2,17; Is 43,20) 21 . L'acqua dello Spirito giunge al credente tramite la Chiesa, in cui è fedelmente custodita la rivelazione dei due testamenti. Essa ci offre la ' bevanda della vita ' 22 . La ragione della purezza della dottrina della 18 Adv. haer. 4, 33, 14 (Harvey II, p. 268, 29 - p. 269, 1); 4, 14, 2 (II, p. 185, 22): «Vere enim aquae multae Spiritus Dei». 19 Ivi 4, 33, 15 (II, p. 269, 3-27): l'apologia è condotta interamente contro Marcione. - Cfr. J. HÖH, Die Lehre des hl. Irenäus über das Neue Testament, Münster 1919, pp. 86-89. 20 Ivi (Π, ρ. 269, I0-I3). 21 Epideixis 2, 89 (BKV2 Irenäus II, p. 642, Weber). 28 Adv. haer. 3, 4, 1 (II, p. 15, 17s).

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Chiesa - e quindi della dottrina apostolica -, sulla quale ha tanto insistito Ireneo di fronte all'apparente prescrizione delle eresie gnostiche, è questa: che la Chiesa medesima viene continuamente plasmata e irrorata dall'acqua viva dello Spirito. Come l'acqua trasforma in pane la farina di frumento, così ' l'acqua che viene dal cielo ' plasma la Chiesa23. E poiché questa è il corpo di Cristo, l'espressione concreta di tutta l'opera redentiva di Cristo, « integrum corpus operis Filii Dei » 24, è chiaro che l'acqua dello Spirito viene a noi dal ' Corpo di Cristo '. La teologia di Ireneo si compendia a questo punto in una semplice riflessione: la Chiesa è il corpo di Cristo; si riproduce dunque in essa, come ricapitolazione della vita e del corpo fisico di Cristo, quanto una volta e nel modo più sublime si è compiuto nel Redentore medesimo 25. Ciò significa che l'acqua viva dello Spirito vien profusa in noi dal corpo umano del Signore, dal ' pieroma ' della sua pienezza di Spirito (Giov 1,16.33), e quindi dalla forza spiritualizzante della sua morte reale in quanto uomo. La natura umana del Signore possiede lo Spirito in tutta la sua pienezza; in lui lo Spirito ha posto definitivamente la sua ' dimora ', per così ' abituarsi ' a restare tra gli uomini 26. Il suo corpo umano è la 23

Ivi 3, 17, 2 (II, 92s). Ivi 4, 33, 15 (II, p. 269, 6s). 25 Cfr. G. BAEEILLE in Dict. de Théol. cath., v. VII, Parigi 1922, e. 2425SS; L. SPIKOWSKI, La doctrine de L'Eglise dans S. Ir ènee, Strasburgo 1926; A. BENGSCH, Heilsgeschichte und Heüswissen. Eine Untersuchung um Struktur und Entfaltung des theologischen Denkens im W e r k ' Adversus haereses ' des Irenäus von Lyon, Lipsia 1957. 26 Adv. haer. 3, 17, 1 (II, p. 92s); Epideixis 1, 41 (Weber p. tìios). 24

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' roccia pneumatica ' donde scaturisce l'acqua della sua pienezza di Spirito : « In pieno deserto egli fece scaturire dalla roccia un grosso fiume; e la roccia era egli stesso. Ed ha aperto dodici sorgenti, ossia la dottrina dei dodici Apostoli » 27 . La sua natura umana era pure assetata; ma giacché la sua pienezza di Spirito era fondata sulla divinità, l'assetato potè essere a un tempo anche sorgente : « Ut sitivit sic et bibere fecit olim Iudaeos, petra enim erat Christus, ita nunc credentibus Jesus dat ut bibant aquas spiritales quae scaturiunt in vitam aeternam » 28 . Ancora una volta possiamo riscontrare una perfetta consonanza fra Giov 7,38 e Giov 4,14. Ma in rapporto diretto con la raffigurazione di Cristo come sorgente spirituale che scaturisce dalla roccia è qui inteso anche il compimento simbolico della promessa dell'acqua: in virtù della morte in croce e dall'aperto costato di Cristo viene offerta a noi l'acqua viva. Contro ogni forma di docetismo, Ireneo afferma insistentemente la realtà della morte in croce 29 . Ma è altrettanto persuaso che il Morto sulla croce è « la vita che pende davanti ai nostri occhi » (Deut 28,66) 30. Perciò il flusso di sangue ed acqua che esce dal costato di Cristo, oltre ad essere segno della morte reale, è anche simbolo della potenza divina: nel sangue vien dato a noi lo Spirito; e come il sangue è segno dell'autenticità della natura umana 27

Epideixis 2, 46 ("Weber p. 161). Syr. fragni. 29 (Harvey II, p. 458; J. JORDAN, Texte und Untersuchungen 36, 3, ρ. 6os); Aàv. haer. 4, 14, 3 (II, ρ. ι86, gs); Gr.fiagm. 40 (Π, ρ. 5θ8. 2s). 29 Aàv. haer. 4, 33. 2 (II, ρ. 258, is). 30 Ivi 4, io, 2 (II, ρ. 174, 7-11); 5. I&> 3 (Π, Ρ· 375. 3s); Epideixis 2, 79 (Weber ρ. 637). 28

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in Adamo, così l'acqua è simbolo della divinità, per la quale Cristo, « ricapitolando in sé tutta la natura corporea, reca a noi la salvezza » 31. Cristo è dunque «sofferente e datore di vita», «inchiodato alla croce, ma anche fonte d'acqua viva » 32 . Quest'uomo è il Logos; perciò il suo corpo è datore dello Spirito : « Unum et idem cum semper sit Verbum Dei, credentibus ei fontem acquae in vitam aeternam dans » 33. Come la teologia di Ippolito, anche quella di Ireneo ritorna ora al punto di partenza, alla Chiesa. L'acqua dello Spirito, promessa da Cristo e poi data simbolicamente nel fiume sgorgato dalla ferita del costato, vien concessa al credente mediante l'infusione dello Spirito per opera della Chiesa, di cui lo Spirito è la forza coesiva 34 . Noi tutti - così egli afferma - siam diventati una cosa sola nello Spirito; ma l'acqua dello Spirito, che ci unisce, viene da Cristo : « In omnibus autem nobis Spiritus (est) et ipse est aqua viva quam praestat Dominus in se recte credentibus » 35 . Non v'è dubbio: Ireneo cita Giov 7,38, e l'espressione è applicata direttamente a Cristo. Nella Chiesa s'è compiuta questa effusione dello Spirito. Là dov'è lo Spirito v'è pure la Chiesa, e viceversa; e la Chiesa è il corpo pneumatico di Cristo, dal cui corpo umano scaturisce l'acqua limpida dello Spirito. Alla Chiesa è perciò affidata l'acqua dello Spirito : « Ubi enim Ecclesia, ibi et Spiritus Dei, et ubi Spiritus Dei, illic Ecclesia et 31 32 33 34 35

Adv. haer. 3, 22, 2 (II, p. 122, 13-16). Syr.jragm. 29 (II, p. 459, 20s; Jordan p. 59s). Adv. haer. 4, 36, 4 (II, p. 279, 22s). Epideixis 1, 41 (Weber p. 611). Adv. haer. 5, i 8 , 2 (II, p. 374, 5-7).

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omnis gratia. Spiritus autem veritas. Quapropter qui non participant eum, neque a mamillis matris nutriuntur in vitam, neque percipiunt de corpore Christi procedentem nitidissimum fontem » 3e . Questo è il senso di Giov 7,38. Anche Ippolito ha citato allo stesso modo : « Fiumi scaturiscono dal suo corpo ». È significativo per la teologia di Ireneo e ben si connette con la sua dottrina della ricapitolazione il fatto ch'egli consideri qui come una sola cosa il corpo mistico e il corpo umano di Cristo (proprio come la Vergine e la Vergine Chiesa sono per lui una cosa sola in ordine alla generazione del corpo di Cristo) 37. Precisamente da questo duplice senso della citazione di Giov 7,38 appare chiaro che Ireneo ha riferito il testo espressamente al corpo del Signore. Ciò si può dedurre ancora con certezza da un frammento etiopico delle omelie, in cui Cristo è paragonato semplicemente alla fonte che, secondo Giov 4,14, zampilla per la vita eterna; ma si parla anche dei 'credenti' di Giov 7,38.39: « Lo stesso Cristo nostro Signore ci ha offerto l'acqua dello Spirito Santo, a noi che abbiam creduto in colui che zampilla per la vita eterna » 38. Questo frammento d'una predica di Ireneo ci conduce ancora più indietro nello studio delle testimonianze storico-esegetiche, cioè fin nel cuore della Chiesa di Lione, che definiva il suo presbitero Ireneo: ζηλωτής 36 Ivi 3, 24, 1 (II, p. 132, 2-7). Solo con questo approfondimento della teologia dello Spirito in Ireneo si può costatare in qual misura si tratti qui d'una 'innegabile' (LAGRANGE, ρ. 214, nota) citazione di Giov 7,38. 37 Cfr. P. GALTIER, La vierge qui nous régénère in Recherches de science religieuse 5 (1914) 136. - Cfr. sopra, p. 31. 38 J. JORDAN, Texte und Untersuchungen 36, 3, ρ. 105.

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της διαθήκης Χρήστου 3 9 . Nella Chiesa di Lione Giov 7,38 doveva dunque avere questo significato. Così si doveva leggere nel Vangelo di Giovanni. Ed anche se la parentela del codice Beza (D), proveniente da Lione, col testo evangelico di Ireneo non è così stretta, come han creduto Nestle 40 e Sonter 41 , non si può però affatto negare che D dipenda in buona misura dal testo di Ireneo e che noi da entrambi possiamo ricostruire in modo abbastanza preciso il testo giovanneo in uso nella Chiesa di Lione 42 . D rende così il testo di Giov 7,37.38: εάν τις διψά έρχέσθω και πινετω ό πιστεύων εις έμέ καθώς εΐπεν ή γραφή ποταμοί έκ της κοιλίας αύτοΰ ρεύσουσιν ύδατος ξώντος 4 3 . È evidente che dopo έρχέσθω è stato omesso προς με, e non v'è dubbio che πινέτω va insieme con ó πιστεύων εις έμέ. Ma ciò significa che con καθώς comincia la nuova frase. Con altrettanta chiarezza si desume la stessa cosa dalla partizione colometrica del versetto fornita dall'amanuense del codice D, il quale 39 Lettera a papa Eleuterio (EUSEBIO, Hìst. eccl. 5, 4, 2: GCS Eusebius II, 1, p. 434, 4). 40 E. NESTLE, Einführung in das Neue Testament, Gottinga 1909, ρ. 72. 4 1

W. SANDAY-C. Η. TURNER, Novum Testamentum S. Irenaei

(Old Latin Biblical Texts 7), Oxford 1923, p. civ. 42 Cfr. B. KRAFT, Die Evangelienzitate des hl. Irenäus (Biblische Studien 21), Friburgo 1924, pp. 107-112. 43 Codex Bezae Cantabrigiensis phototypice, tom. I, fol. 132 b, Cambridge 1899. - Cfr. anche E. A. LOWE, Codex Beza and Lyons in Journal qf Theol. Studies 25 (1924) 270; O. HIRSCHFELD, Zur Geschichte des Christentums in Lugdunum, Sitzungsberichte der preuss. Akademie der Wiss. 1895, p. 381.

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intenzionalmente e conforme al senso della frase ter­ mina la prima riga (non ostante l'ampiezza dello spa­ zio ancora disponibile) dopo έρχέσθω ; e così anche dopo έμέ. È dunque patente l'intenzione di renderne chiaro il senso in vista della lettura pubblica. Con κ α θ ώ ς comincia l'altra frase. Dal racconto del martirio, inviato nell'Asia Minore dalla Chiesa di Lione e di Vienna, veniamo a sapere che in realtà Giov 7,38 era riferito a Cristo. E ciò in un contesto teologico strettamente connesso con la dottrina spirituale di Ireneo. L'acqua viva dello Spirito, che il credente beve da Cristo e che gli vien data nella fede e nel battesimo, ha, secondo Ireneo, il potere di « identificarci con Dio » 4 4 , ossia di conformare il credente a Cristo. Or come in Cristo questa « acqua porta allo spargimento del sangue » e « lo Spirito alla croce », cosi pure nella Chiesa e nei singoli credenti: la nuova infusione dello Spirito spinge al martirio e l'acqua viva che scaturisce da Cristo diventa ' acqua parlante ' nell'intimo del credente, allorché lo Spirito rende testimonianza dinanzi a « re e giudici » 4 5 . Lo stesso concetto viene espresso nella lettera della Chiesa di Lione. Il πνεϋμα το πατρικόν sollecita al 44

Adv. haer. 3, 17, 2 (II, p. 92, 26s): « Unde et Dominus pollicitus est mittere se Paracletum qui nos aptaret Deo ... assuescens habitare in genere humano et requiescere in hominibus et habitare in plasmate Dei, voluntatem Patris operans in ipsis et renovans eos a vetustate in novitatem Christi ». Cfr. P. GAECHTER, Unsere Einheit mit Christus nach dem hl. Irenäus, in Zeitschr. f. kath. Theol. 58 (1934) 503-532. 45 Adv. haer. 4, 33, 9 (II, p. 263, 19 - p. 264, 14). - Mat 10,18-20 è citato esplicitamente in Adv. haer. 3, 18, 5 (II, p. 98, 26s); 3, 17, 1 (II, p. 92, 11s).

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martirio 46 . Ma questo Spirito è « l'amore che promana da Cristo » e « che comincia a parlare nel cuore », è « l'amore del Padre e la gloria di Cristo », come si legge in una citazione esplicita da un inno 4 7 . Dal racconto del martirio del diacono Santo da Vienna risulta che l'azione dello Spirito Santo orienta l'animo coraggioso, «duro come roccia», alla confessione della fede; il martire è come una roccia dalla quale defluisce l'acqua viva. Dalla « celeste sorgente dell'acqua viva che scaturisce dal corpo di Cristo » l'acqua si riversa nel martire come «rugiada e forza»: αυτός δέ παρέμενεν άνεπίκαμπτος και ανένδοτος, στερρός προς τής όμολογίαν, ύπο της ουρανίου πηγής του ύδα­ τος της ζωής του έξιόντος εκ τής νηδύος τοϋ Χρίσ­ του δροσιζόμενος καί ένδυναμούμενος 4 8 . « Egli restò imperturbabile e irremovibile nella sua confessione, poiché era stato irrorato e rinvigorito dalla celeste fonte della vita che promana dal corpo di Cristo ». Si ha qui un evidente richiamo anche ad Apoc 22,1. Il fiume non vien fatto però scaturire dal trono di Dio e dell'Agnello, ma dal ' corpo di Cristo '. Si tratta evidentemente d'una libera citazione di Giov 7,38. Non è affatto necessario spiegare il νηδύς come una traduzione posteriore di ' venter ', come se allo autore della lettera fosse stata veramente presente una antica versione latina, quasi precorritrice del codice " Mart. Lugli. (GCS Euscbius II, 1, p. 414, 23-25). 47 Ivi (p. 410, i8s): μηδέν φοβερον δπου Πατρός α γ ά π η , μηδέ άλγεινον δπου ή Χρίστου δόξα-Cfr. anche ρ. 422> i6s. Questo Spirito che spinge al martirio, l'acqua viva della grazia bat­ tesimale, è qui detto anche ' bianco abito da sposa ' (p. 420, 24S), proprio come in IRENEO, Aàv. haer. 4, 36, 6 (II, p. 281, 30ss). 18 Mart. Lugd. (GCS Eusebius II, 1, p. 410, 10-13).

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d 49 . Deve trattarsi piuttosto d'un'allusione a Giov 7,38. Ma qui ha un'importanza decisiva il fatto che una tale raffigurazione del corpo di Cristo qual fonte dell'acqua viva non sarebbe stata possibile se Giov 7,38 non fosse stato inteso allo stesso modo nella predicazione e nel testo giovanneo. Ma han pensato così anche i cristiani di Filomelio e di Efeso, ai quali appunto la lettera è indirizzata? Questa esegesi non ci riporta forse in quell'ambiente donde, ottant'anni prima del martirio dei cristiani dell'Asia Minore a Lione, era uscito il Vangelo di Giovanni? Certo, per questi anni decisivi le rare fonti non ci possono fornire una prova decisiva, almeno che non si possa percepire con sufficiente evidenza l'immediatezza del passaggio della tradizione da Giovanni a Policarpo e da questi a Ireneo. Possiamo tuttavia avere un'ultima conferma dell'esattezza della nostra ipotesi dagli scritti d'un teologo che ha trovato la fede nella stessa Efeso e al quale Ireneo deve molto: GIUSTINO.

Nel dialogo di Giustino col giudeo Trifone ricorre di continuo l'antica esegesi romana e quella dell'Asia Minore. Il dialogo, infatti, ebbe luogo in Efeso verso la fine della guerra di Bar-Kochba, nell'almo 135, e circa vent'anni più tardi Giustino gli diede a Roma la sua odierna forma letteraria. Ciò risulta anche dalla struttura del testo del suo Nuovo Testamento, affine *" Cosi J. A. R O B I N S O N , Texts and Studks I, 2, Cambridge 1891, p. 98. Dobbiamo rilevare che anche R U F I N O nella sua versione di EUSEBIO riproduce il passo in questo m o d o : « Caelestibus aeternisque fontibus qui procedunt de ventre Iesu » (GCS Eusebius II, 1, p. 411, I3s).

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a quella del testo di Ireneo e chiaramente fedele al­ l'antico testo romano 5 0 . Nelle Apologie, come anche nel Dialogo, Giustino ha citato Giov 7,38 ο almeno vi ha alluso esplicitamente. Nella sua opera possiamo però trovare si numerosi elementi in favore della tesi qui esposta, da vedervi una sicura conferma dell'origine della nostra esegesi nell'Asia Minore. Cristo medesimo è la sorgente dell'acqua viva zampillante nel deserto della conoscenza di Dio: πηγή ύδατος ζώντος παρά θ-εου εν τη έρήμω ... άνέβλυσεν οδτος ό Χριστός 5 1 . Queste acque scaturiscono da lui, che è ' roccia spirituale ' 5 2 , la ' caverna ' dalla quale (Is 33,16) esce T'acqua fidata'53. Nella loro incredulità i giudei hanno disprezzato quest'acqua viva. In tale contesto Giustino inserisce anche Ger 2,13, in cui Dio si rivela come la messianica ' fonte d'acqua viva ' contrapposta alle ' cisterne ' dei giudei 54 . Solo i credenti, divenuti gli ' eredi ', possono bere di questa acqua. « Voi (giudei) non potete capire che noi siam figli eredi; voi non potete bere infatti dalla fonte viva della Divinità, ma solo dalle cisterne aperte, che non possono trattenere l'acqua » 55. 50 Cfr. E. LIPPELT, QtiaefuerintJustini Martyris ' Α π ο μ ν η μ ο ν ε ύ μ α ­ τ α , Halle J901, p. 95S; B. KHAFT, Die Evangelienzitate d. hi. Irenaus, p . 97S. - Sull'influsso di Giustino su Ireneo, Ippolito e Tertulliano, cfr. A. HARNACK, Gesch. à. altchrist. Lit., v. I, Lipsia 1893, p . iooss. 51 Dial. 69, 6 (Otto, Corpus Apologetarum I, 2, p. 250, 9s). 62 Ivi 34, 2 (p. 112, 19); 76, 1 (p. 270, 15-18); 90, 5 (p. 330, n s ) ; 113, 6 (P- 404, 11-13)53 Ivi 70, I (p. 252, 3-6) ; 78, 6 (p. 280, 5-13). " Ivi 14, 1 (p. 50, 28-34); !9> 2 (p. 66, 20-22); 114, 20 (p. 408, 14-16). 55 Ivi 140, 1 (p. 492, 10-13). Cfr. l'esatta corrispondenza in IRENEO con la citazione di Ger 2,13 e l'esplicita allusione a Giov 7,38: Adv. haer. 3, 24, 1 (II, p. 132, 7-9).

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A questo punto ci imbattiamo in un mondo di idee della massima importanza per l'ulteriore sviluppo dell'esegesi di Giov 7,38. La teologia dell'acqua viva, nella forma in cui è pervenuta a Giustino dalla tradizione dell'Asia Minore, non è che un'apologia contro il giudaismo; e senza dubbio fin dai primissimi tempi del cristianesimo della Diaspora, nella controversia con i giudei ellenisti (che è stata anche il movente per il Vangelo e per la prima lettera di Giovanni) si sono formati determinati gruppi di citazioni bibliche e di concetti, che da questo momento ricorrono di continuo. E dimostreremo appresso che qui va inserita anche l'interpretazione di Giov 7,38. Prima ancora di Giustino, la LETTERA DI BARNABA 56 ha citato nel medesimo contesto Is 33,16 e Ger 2,13: si dimostra contro i giudei che la promessa dell' ' acqua (che scaturisce) dalla roccia ' e della ' fonte dell'acqua viva ' si è compiuta in Cristo. Così pure in Giustino, che vede il compimento di questa promessa nel Crocifisso : in ' acqua e sangue ' i credenti vengono rigenerati alla nuova vita. I cristiani sono la ' seconda generazione ', in contrapposizione ai giudei considerati come il ' primo popolo '. I cristiani sono rinati da « acqua, fede e legno della croce », come già si leggeva anche nella Lettera di Barnaba 57 . Come una volta Mosè per mezzo del legno fece scaturire l'acqua dalla roccia, così « anche noi siamo ... purificati dal nostro Cristo mediante la morte in croce e il bagno nella acqua» 58 . La croce è l'albero piantato (Sai 1,3) presso *• Barnabae epist. 11, 2-7 (Funk I, p. 73, 3-13). *' Ivi 11, 1 (p. 72, 1). « Dia/. 86, 1 (p. 310,23 - p. 312,1); 86, 6 (p. 314, 7-9).

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le sorgenti - anche questo concetto fa parte dell'antico schema delle dispute coi giudei, come la stessa Lettera di Barnaba può dimostrare59. Giustino chiama Cristo semplicemente ή καλή πέτρα 6 0 , come ancor prima iCor 10,4 aveva supposto a tutti noto tale significato di Es 17,6. Giustino parla (proprio come farà più tardi anche la lettera della Chiesa di Lione) del martirio come d'un dissetarsi con l'acqua viva che sgorga dalla roccia che è Cristo. Il Crocifisso, infatti, in quanto ' trafitto ' (Zac 12,10; Giov 19,37), come Giustino preferisce chiamare Cristo 61 , è il grande modello del martire : « E per noi motivo di grande gioia correre incontro alla morte per il nome della gloriosa roccia, che fa scorrere l'acqua viva nei cuori di coloro che amano in essa il Padre universale e che disseta tutti quelli che bevono l'acqua della vita » 62 . Roccia e corpo di Cristo son dunque, secondo Giustino, il principio fontale della nuova vita, dal battesimo fino al martirio: dal corpo di Cristo sgorga l'acqua che ci rigenera. Or ci sembra di vedere una sicura conferma

" Ivi 86, 4 (p. 312, 22-25); Barnabite epist. 11, 6 (p. 72, 15-19). Cfr. J. D A N I Ì L O U , Théologie àu Judéo-Christianisme, Tournai 1958, pp. 294-303. «· Dial. 114, 2 (p. 408, 9). "• Nella genuina dottrina giovannea della glorificazione del Messia - e quindi dell' ' avvento ' messianico nelle due parusie, quella del sangue e quella della gloria - nella crocifissione e in conseguenza della crocifissione del suo corpo u m a n o : Zach 12,10; Giov 19,37; Apoc 1,7; Dial. 14, 8 (p. 54, i8s); 32, 2 (p. 106, 17S); 64, 7 (p. 230, 4s); 118, 1 (p. 422, 3s); Apol. I, 52 (Otto I, 1, p. 142, 2). 02 Dial. 114, 4 (p. 408, 8-11): ώς καΐ χαίρειν αποθνήσκοντας δια το όνομα το της καλής πέτρας καΐ ζών ΰδωρ ταΐς καρδίαις των δι'αύτοϋ άγαπησάντων τον πατέρα τ ω ν δλων βρυούσης, και ποτιζούσης τους βουλομένους το τής ζωής ύδωρ πιεΐν.

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dell'inserzione di Giov 7,38 nel suddetto contesto, perchè Giustino ha fatto una volta convergere in un medesimo concetto πέτρα e κοιλία: noi cristiani siamo il nuovo Israele che discende da Cristo; noi siamo infatti « usciti dalla caverna del suo corpo come da una roccia spaccata»: ημείς εκ της κοιλίας του Χρίστου λατομηθ-έντες ίσραηλιτικόν το άληθινόν έσμεν γένος β 3 . Fin qui ci è dunque possibile pervenire nell'indagine intorno a questa linea esegetica, donde proviene la prima chiara citazione di Giov 7,38 attestata da Ippolito. D'ora in avanti, come abbiamo già osservato, le rare fonti della prima metà del secondo secolo, se si eccettuano solo poche tracce, non ci forniscono elementi utili 64 . Dobbiamo citare ancora esplicitamente solo »s Ivi 135, 3 (p. 480, 4-6). 84 Nella letteratura del secondo secolo cfr. la presenza di idee cristiane nel TESTAMENTUM JUDAE 24, 4 (Charles II, p. 324), dove è detto che il Messia è fonte della vita: « αΰτη ή π η γ ή πάσιν παρεχούση ζωήν ». Cfr. FL. SCHLAGENHAUFEN in Zeitschr. f. kath. Theol. 51 (1927) 486, nota 4. - Vanno qui inseriti in qualche modo anche due concetti tratti dagli ORACOLI SIBILLINI, dove si dice che nell'era messia­ nica (senza dubbio in senso cristiano) « scaturiranno delle sorgenti », perché lo Spirito ha posto in Gesù, nel battesimo, la sua dimora : OR. SIBYLL. 6, 8 (GCS Geffcken, p. 130) ; nel battesimo il Glorificato laverà i credenti con le acque della fonte inestinguibile: OR. SIBYLL. 8, 315 (GCS Geffcken, p. 162). - Con prudenza si devono infine inserire nel nostro contesto le O D I DI SALOMONE. È interessante il modo in cui Od. l ì , 5. 6 collega il concetto della roccia con quello della sorgente: « Io stavo fermo sulla roccia della verità, dove egli stesso mi aveva posato. Acqua parlante giunse alle mie labbra dalla fonte del Signore » (E. HENNECKE, Neutestamentliche Apokryphen, 2 ed., Tubinga 1924, p. 447). Cfr. H. LEWY, Sobria ebrietas, p. 83S. - Od. 30 si richiama chiaramente a Giov 4,14; in 30, 5 si dice espressamente che quest'acqua sgorga dal Signore: «Essa (l'acqua) defluisce dalle labbra del Signore, dal cuore del Signore scaturisce la sua fonte » (Hennecke, p. 463S). Ma l'interpretazione del passo non è affatto concorde (' Signore ' = Uomo-

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un'altra testimonianza. Questa dimostra infatti che la tradizione dell'Asia Minore è in stretto rapporto con la dottrina della prima lettera di Giovanni. Un frammento di APOLLINARE DI GERAPOLI parla, nella polemica antigiudaica già accennata in Ireneo, dell'umano e del divino in Cristo, per dimostrare che il potere messianico di Cristo, quello di donare l'acqua viva, si manifesta nel sangue della sua morte reale in croce: dal corpo del ' trafitto ' sgorga Γ ' acqua dello Spirito ' : ó την άγίαν πλευράν έκκεντηίτείς, ό έκχέας εκ της πλευράς αύτοϋ τα δύο πάλιν καθ-άρσια, ύδωρ και αίμα, λόγον και πνεύμα 6 5 . Così, partendo da Ippolito qual primo teste, abbiam condotto questa esegesi di Giov 7,38 fin nell'ambiente che era a diretto contatto con la primitiva tradizione efesina. Non è compito del presente studio determinare fino a qual punto essa si inserisca nella teologia degli scritti giovannei. Ma le linee di questa tesi esegetica sono già tanto chiare, che ci consentono di affermare che essa s'accorda perfettamente con i principi basilari della cristologia della prima lettera giovannea e del quarto Vangelo. Vogliamo ora rilevare brevemente i punti in cui le conclusioni fin qui raggiunte sono in contrasto con la tradizione proveniente da Origene. Dio, ο Padre?); cfr. R . HARRIS, The Odes and Psalms of Salomon, Cambridge 1912, p . 128; W . FRANKENBERG, Das Verstàndnis der Oden Salomons (suppl. 21 a Zeitschr. f. alttest. Wissensch.), Giessen 1911. Per il carattere difficilmente definibile di questi inni, che han subito senza dubbio anche l'influsso gnostico, sarà meglio rinunziare ad essi nell'esposizione della storia esegetica di Giov 7,38. LAGRANGE è dello stesso avviso: p. 215, nota. " 5 Frammento 4 da Π ε ρ ί τ ο ϋ π ά σ χ α (Otto, Corpus Apologetar u m IX, p . 487).

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a) Cristo non è tanto il Logos (in senso filonianoorigeniano), quanto piuttosto il Messia, Γ Uomo-Dio. b) Perciò egli non viene considerato come il datore dell'acqua della dottrina e della gnosi, ma come colui che è stato esaltato nella sua reale natura umana, il datore dello Spirito, ossia dell'acqua, sintesi di tutti i doni messianici. e) Più chiaramente che non nella tradizione origeniana, ciò significa che quest'acqua è vivificante non solo perchè si riversa in noi dalla fonte principale del Padre e attraverso il Logos, ma perchè è divenuta vivificante nel sangue. Il senso di tutta questa esegesi non può essere meglio espresso che con le parole di iGiov 5,6: «Egli è Gesù il Messia, che è venuto in acqua e sangue » - un concetto, questo, che non appare mai in tutta la tradizione origeniana (eccettuati naturalmente i casi in cui - come vedremo - l'esegesi efesina esercita il suo influsso su quella origeniana). d) Da ciò risulta che κοιλία non significa più l'intimo dell'anima nel senso della psicologia filoniana, e nemmeno il mistico ' cuore ' di Origene, ma il ' corpo ' del vero uomo Cristo, in tutto il vigore del realismo della cristologia* dell'Asia Minore. Ne consegue che il risultato più importante di questa esegesi è l'aver stabilito uno stretto rapporto tra Giov 7,38 e Giov 19,34. Cristo è la ' roccia spirituale ' dalla cui trafitta κοιλία scaturisce l'acqua viva; è il Messia che porta a compimento ciò che Mosè aveva compiuto una volta in modo figurato: fa sgorgare l'acqua della vita dalla roccia del suo corpo umano ucciso.

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e) Infine, da quanto abbiamo detto appaiono già le linee, benché ancora non del tutto chiare, da cui deve risultare la risposta alla domanda: dove si è cercato di vedere la ' Scrittura' di cui parla Giov 7,38? Sono ora in causa tutte quelle profezie che presentano la salvezza messianica come acqua zampillante nel deserto e annunziano Dio stesso qual fonte della vita. Incontriamo qui Ger 2,13, Is 33,16 e Is 43,19, che fanno parte dello schema primitivo delle dispute coi giudei. Ai suddetti testi va aggiunto Zac 12,10, in cui è contenuta la promessa dell'acqua e la profezia del ' trafitto '. 2. - Abbiamo così delineato una teoria esegetica ricca di contenuto spirituale, teologicamente profonda e di antichissime origini. Come il codice D dimostra, assai presto essa ha trovato il suo fondamento nella struttura del testo anche dopo il tramonto della generazione della viva tradizione efesina. L'antica versione latina di Giov 7,37.38 trasmette questa esegesi dell'Asia Minore ai Dottori della Chiesa d'Africa proprio nel medesimo periodo in cui comincia ad affermarsi l'interpretazione del passo secondo il significato e la struttura del testo suggerita da Origene. Dalla teologia africana dobbiamo quindi iniziare lo studio della seconda fase della storia di questa esegesi. Già la versione di Ireneo, esistente in Africa verso il 250, si fonda su un testo latino della Bibbia del tutto ββ identico a quello del codice d . Cosi è reso nel codice d il passo di Giov 7,37.38: ·« Cfr. R. HARRIS, A Study of Coàex Bezae: Texts and Studia 3. (1891) i6óss; B. KRAFT, Die Evangelienzitate des hi. Irenaus, p. 105.

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« si quis sitit venia (n)t et bibat qui credit in me sicut dixit scriptura flumina de (ve)ntre eius fluent aquae vivae » 67. Anche qui si omette dunque ' ad me' dopo il verbo ' veniat ', e si legano insieme ' bibat ' e ' qui credit in me '. Che il testo debba esser letto così appare ancor più chiaramente dal Codice Palatino (e), contenente anch'esso un testo africano. Dopo ' me ' vien posta qui un'interpunzione: « Si quis sitit veniat et bibat qui credit in me. sicut scriptum est flumina de ventre eius fluent aquae vivae » Μ . Dai Testimonia di CIPRIANO veniamo a sapere che questi non leggeva diversamente Giov 7,37 - non ostante che Hartel voglia arbitrariamente introdurre, contro la lezione dei migliori manoscritti, la ' moder­ na ' (meglio, origeniana) interpunzione, ch'egli ha trovato in un manoscritto di dubbio valore. « Si quis sitit veniat et bibat qui credit in me ». Questa raccolta di passi scritturistici antigiudaici, che Cipriano ha ri­ cavato senza dubbio dalle fonti più antiche 69 (Giustino, " 68

M

CODEX BEZAE CANTABRIGIENSIS, Cambridge 1899, v. I, fol. 133. EVANGEMUM PALATINUM INEDITUM, e d . C. TlSCHENDORF 1 8 4 7 .

Cfr. R. HARRIS, Tesiimonies, v. I, Cambridge 1916. Harris vuol riportare questi Testimonia contro Judaeos fino ai mistici Logia del proto-Matteo. Per la critica cfr. A. D'ALÉS, La Théologie de Si. Cypritn, Parigi 1922, p. 50.

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Lettera di Barnaba), ci conduce, anche per quanto riguarda il pensiero teologico, nell'ambiente in cui s'è formata l'esegesi di Giov 7,38. Cristo è la ' fonte d'acqua viva ' perché in lui, nel quale si compiono tutte le profezie dell'Antico Testamento, lo Spirito Santo ha posto la sua dimora (Giustino, Ireneo) 70 , perché egli è la ' roccia spirituale ' che dona l'acqua nel deserto, e perché è il ' trafitto ' che dal proprio corpo fa scaturire i fiumi dell'acqua dello Spirito. Anche in TERTULLIANO tutti questi concetti formavano un complesso organico, benché non troviamo nemmeno in lui nessuna citazione esplicita di Giov 7.37-38. Giustino e Ireneo son le fonti della sua dottrina. Lo Spirito ha posto in Cristo la sua dimora (Is 11,1.2). Dacché lo Spirito vien dato ai credenti solo da Cristo, esso non è più con i giudei 71 . L'uomo Gesù è Γ ' ef­ fusore ' dello Spirito del Padre : « Hic interim acceptum 72 a Patre munus effudit Spiritimi Sanctum » . In lui si compie non solo Giov 3,1, ma anche e soprattutto Ger 2,13, la grande promessa della ' fonte d'acqua viva ' : « Indubitate nos recipiendo Christum fontem aquae vitae (habemus) » 73 . Cristo è la roccia dalla quale una volta, nel deserto, scaturì l'acqua; dalla croce sgorga ora l'acqua della nuova santificazione *· GIUSTINO, Dial. 87, 3 (I, 2, p. 31ÓS); IRENEO, Adv. haer. 3, 18,1 (II, p. 925). Cfr. anche A. VON UNGESN-STERNBEKG, Der traditionelle alttestamentliche Schrifìbeweis de Christo und De Evangelio in der alien Kirche bis zur Zeit Eusebius von Caesarea, Halle 1913. 71 Adv. Marcionem }, 8 (CSEL 47, p. S98s); 3, 17 (CSEL 4.7, p. 40+s). 78 Adv. Praexeam 30 (CSEL 47, p. 288, 7s). 73 PS.-TBRTULLIANO, Adv. Judaeos 13 (PL 2, 635 BC). Questo scritto è tertullianeo almeno nello spirito, giacché gli ultimi capitoli del libro non sono che una compilazione.

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nello Spirito, l'acqua battesimale74. Alludendo evidentemente a Giov 7,39, Tertulliano racconta in che modo lo Spirito fu donato per la prima volta dopo la ' glorificazione ' del Signore, dopo la santificazione dell'acqua in virtù del sangue75. L'acqua dello Spirito « scaturì allorché egli (Cristo) venne trafitto», quando fu colpita la roccia : « Haec est aqua quae de comite petra populo defluebat. Si enim petra Christus, sine dubio aqua in Christo baptismum videmus benedici »7e. Un documento classico, che conferma l'esattezza delle nostre conclusioni, ci viene da CIPRIANO. Si tratta senza dubbio d'un'esegesi di Giov 7,37.38 allora già tanto comune. Ciò permise pure che tutto il complesso di argomentazioni originariamente antigiudaiche venisse trasferito nel problema appassionatamente dibattuto della validità del battesimo degli eretici. Solo là dov'è la Chiesa si trova l'acqua viva dello Spirito: cosi Cipriano modifica l'antica teologia di Ireneo. C'è infatti una sola Chiesa e un solo Cristo. La Chiesa è il paradiso, nel quale solamente scorrono i quattro fiumi dei Vangeli: esattamente come in Ireneo e Ippolito 77 . Per la conoscenza dei temi tanto cari una volta ai circoli teologici che s'erano ispirati all'esegesi romana e all'antico testo latino della Bibbia assume un particolare significato il fatto che in Cipriano è citato nel medesimo contesto anche Giov 7,37.38. Come Ippolito 74 Aàv. Marcionem 3, 5 (p. 382, 20. 2 8 : su Is 41,19); 5, 5 (p· 587, i s : su 1 C o r 10,4); 5, 7 (p. 595, 25 - p. 5 9 6 , 1 ) ; Aàv. Jud. 13 (PL 2, 63 ss). ,s De baptismo 20 (CSEL 47, p. 210, 24S). ™ Ivi 9 (p. 202, 16-18). " Cfr. sopra, p. 347S.

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nel Commentario a Daniele, così ragiona anche Cipriano : « Ecclesia paradisi instar exprimens arbores frugiferas intra muros suos intus inclusit... has arbores rigat quattuor fluminibus id est evangeliis quattuor, quibus baptismi gratia salutari et cadesti inundatione largitur. Numquid de Ecclesiae fontibus rigare potest qui intus in Ecclesia non est? Numquid paradisi potus salubres et salutares impertire cuiquam potest qui perversus et a semetipso damnatur et extra paradisi fontes relegatus aruit et aeternae sitis siccitate defecit? Clamat Dominus ut qui sitit veniat et bibat de fluminibus aquae vivae quae de eius ventre fluxerunt » 78 . ; Qui ritorna apertamente il duplice significato, caratί teristico in Ireneo, di ' Corpo di Cristo ': l'acqua viva ' sgorga de ventre Christi, ossia tanto dal corpo fisico di Cristo quanto dalla Chiesa. Cipriano infatti sog­ giunge subito: « Quo venturus est qui sitit, utrumne ad haereticos ubi fons et fluvius aquae vitalis omnino non est, an ad Ecclesiam? ... aqua Ecclesiae ' fidelis ' (Is 33,16) et salutaris et sancta ... ». Le acque fidate ' della profezia di Isaia defluiscono quindi dalla Chiesa, fondata sulla roccia, e sono le acque del battesimo. Tuttavia la sorgente dell'acqua dello Spirito è sempre il corpo umano del Signore. Quanto Isaia ha preannunziato intorno all'acqua che scorre nel deserto e alla « roccia spaccata donde scaturiscono fiumi » (Is 43,18-21 ; 48,21), ha il suo compimento nel Cristo trafitto (Giov 19,34), come il Signore stesso aveva annunziato nel giorno solenne della festa (Giov 7,37.38): « Si sitierint, inquit (Isaias), per deserta, adducet illis aquam, de pe-

" Epist. 73, i o , 11 (CSEL 3, 2, p. 785, 16 - p. 786, 4).

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tra producet illis, findetur petra et fluet aqua et bibet plebs mea. Quod in Evangelio adimpletur, quando Christus qui est petra finditur ictu lanceae in passione. Qui et admonens quid per prophetam sit ante praedictum clamat et dicit: si quis sitit veniat et bibat qui credit in me. Sicut Scriptum dicit: flumina de ventre eius fluent aquae vivae » 79. Tutto ciò non è che un'eco di Ireneo e di Giustino. Senza dubbio Cipriano deve questi concetti, che del resto erano noti alla teologia della Chiesa africana già prima di Cipriano, al suo ' maestro ' Tertulliano. Ce lo dimostra un trattato dal titolo De montibus Sina et Sion, d'autore ignoto, risalente probabilmente al tempo stesso di Tertulliano. Anche questo trattato proviene dalla tradizione antigiudaica ed ha forse subito l'influsso di Ireneo 80. Il monte Sion, contrapposto al Sinai dei giudei, è il simbolo della novità cristiana che abbraccia tutte le cose; è soprattutto il simbolo della croce di Cristo qual sintesi di tutta la dottrina cristiana. Dalla croce issata sul monte Sion vien dunque la ' legge ' (Is 2,3), e questa legge la portava ' in seno al suo corpo ' colui che morì sul monte Sion (Sai 39,9: nell'antica versione latina: lex tua in medio ventris mei; Vulg.: in medio cordis mei). Dal venter Christi nasce la Chiesa, in cui si perpetua il mistero della Passione: infatti dal costato del Signore uscì acqua e sangue e di qui fu formata la Chiesa. L'intero testo, che 81 HARNACK dice « una sublime concezione teologica » , " Epist. 6}, 8 (CSEL 3, 2, p. 706, 16 - p. 707, 2). " Cfr. O. BARDENHEWER, Gesch. à. àltk. Lit., v. II, 2 ed., Friburgo 1914, p. 492S; C. H.' TURNER, in Journal of Theol. Studies 7 (1906) 597; P. CORSSEN in Zeitschr.f. d. neutest. Wiss. 12 (1911) 1-36. 81 Texte und Untersuchungen 20, 3, Lipsia 1900, p. 142.

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suona così (e possiamo ancora una volta percepire la consonanza con Giustino e Ireneo) : « Lex Christianorum crux est sancta Christi Filii Dei vivi, elicente aeque proprietà: lex tua in medio ventris mei. Percussus in lateris ventre, de latere sanguis et aqua mixtus profusus afHuebat, unde sibi Ecclesiam sanctam fabricavit, in quam legem passionis suae consecrabat, dicente ipso: qui sitit veniat et bibat qui credit in me. Sicut scriptum est, flumina de ventre eius fluebant aquae vivae » 82 . Queste parole sono state scritte dall'ignoto africano nel medesimo periodo in cui in Alessandria ο in Cesa­ rea Origene, noto ormai fin nella reggia di Siria, spie­ gava lo stesso testo di Giov 7,38. Ma qual differenza nell'interpretazione esegetica! Non si possono tuttavia indicare, con Lagrange, le due interpretazioni sempli­ cemente come ' orientale ' e ' occidentale ' 8 3 . Infatti l'esegesi ora comune nell'Occidente latino ha sì la sua origine a Roma, ma Ippolito l'apprende da Ireneo e questi, insieme con Giustino, dalla tradizione dell'Asia Minore, dove « sono sepolti i grandi luminari dell'Asia», come POLICRATE DI EFESO afferma con orgoglio 84 , i Presbiteri che hanno ascoltato direttamente le parole di Giovanni, discepolo del Signore. Ciò si può rilevare anche dalla vividezza che questo complesso 8a

De montibus Sina et Sion 9 (CSEL 3, 3, p. 115, 9-15). Cft. anche

- Cfr. E. J. MARRTIN, The biblical text ofFirmicus Matemus in Journal of Theol. Studies 24 (1922/23) 318-325. *6 K. WEYMANN in Archiv ftir lateinische Lexikographie und Grammatik 11 (1900) 545-578. ·* A. MERK in Zeitschr.f. kath, Theol. 35 (1911) 775-783 ; H. KOCH, Zu den Quellen Gregors von Elvira und der Tractatus Origenis in Zeitschr. f. Kirchengeschichte (1932) 238-272. ·' Tractatus 20 (ed. A. BATIFFOL, Parigi 1900, p. 210, 5 - p. 212, 6). " De Trinitate 29 (PL 3, 944 B).

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scaturisce dal legno della croce. Il legno gettato da Mosè nelle acque amare (Es 15,25) è simbolo della croce : « Lignum etenim illud dominicae passionis mysterium perspicue demonstrabat, qua indulcatas baptismatis aquas possent sitientes salubriter bibere; unde et ipse Dominus stans in tempio dicebat: qui sitit veniat et bibat aqua virtutem gratis » ". Son qui citati insieme Giov 7,38 e Apoc 21,6; 22,17. Ciò è altamente significativo per l'esattezza con cui era vista la linea unitaria della teologia giovannea dell'acqua viva nel Vangelo e nell'Apocalisse. Ma c'è di più. Cristo è la roccia spirituale che dal suo corpo trafitto ha effuso in noi l'acqua dello Spirito. « Sic populus in eremo cum sitis periculum pateretur, tunc Moyses virga, id est ligno, petram percussit et fluxerunt fontes aquarum, quo factum esse sacramentum baptismatis indicabat. Petram enim illam figuram Christi habuisse probat beatus Apostolus cum dicit; bibebant enim de spiritali sequenti petra, petra autem erat Christus. Petram ergo illam imaginem dominicae carnis habuisse nulla est dubitatio: quae caro, crucis ligno percussa, aquam vivam sitientibus tribuit, sicut scriptum est: flumina de ventre eius procedent. Dicebat hoc itaque de Spiritu Sancto, quem credentes accepturi erant. Et proinde aquae illae, de petra productae, flumina de ventre Christi in sacramento baptismatis manantia et ad salubre sitientium poculum de Christi latere cursura, iam tunc typica praefiguratione monstrabant » 10 °. Con ciò si connette immediatamente la nota teologia di Tertulliano: la Chiesa che nasce dal costato di Cristo, ·· Tractatus 15 (p. 164, 20-25). 100 Ivi (p. 165, 5-16).

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nell'acqua dello Spirito e nel sangue della redenzio­ ne " ι . Il Trattato è come un ultimo canto della primitiva teologia efesina, che ha trovato la sua espressione più bella nell'antica esegesi latina di Giov 7,38. D'ora in avanti va affermandosi irresistibilmente l'interpretazione origeniana. Si deve però osservare che anche nell'esegesi alessandrina di Giov 7,38 - sotto l'evidente influsso dell'Itala e della teologia di Ippolito - interferiscono di continuo gli elementi dell'esegesi dell'Asia Minore. 3. - L'ulteriore sviluppo storico di questa esegesi può essere definito propriamente come il periodo della fusione e della spiegazione delle due grandi linee interpretative, cioè di quella efesina e di quella alessandrina. Abbiamo già visto che Origene nel suo sistema, anche se solo come ipotesi, istituisce un rapporto tra il significato di Giov 7,38 e Giov 19,34102· Tenendo ora presente quanto abbiam detto dell'origine dell'esegesi dell'Asia Minore, appare chiaro che anche il passo classico dell'undicesima omelia di Origene sull'Esodo si inserisce perfettamente in questa tradizione. Nella traduzione di Rufino essa ha contribuito notevolmente affinché il rapporto fra Giov 7,38 e 19,34 non venisse più del tutto dimenticato. Ne è una prova il modo 101

Ivi (p. 165, 16 - p. 166, 2). Cfr. TERTULLIANO, De anima 43, io

(ed. J. H. WAZSINK, Amsterdam 1933, p. 152, 12-15: commento a p. 263S). - La dottrina della nascita della Chiesa dalla ferita del costato di Cristo ha una sua particolare storia esegetico-patristica delle fonti, che qui non prendiamo in esame. Essa trasse grande vantaggio dall'esegesi di Giov 7,38 e 19,34, e a sua volta influì su questa. 102 Cfr. sopra, cap. I, p. 308.

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in cui CESARIO D'ARLES, nel sec. VI, si serve di questa famosa omelia di Origene, copiandola (senza però nominare il teologo) e sviluppandola. Ma anche queste aggiunte sono importanti perché contengono, oltre al testo di Origene, una testimonianza esplicita dell'interpretazione di Giov 7,38: ORIGENE

103

CESARIO

104

« Sed haec petra nisi fuerit « Sed haec petra nisi percussa percussa aquas non dabit: perfuerit aquas omnino non habet; cussa vero fontes producit. Perpercussa vero fontes producit et cussus enim Christus et in crucem flumina, sicut in Evangelio legiactus Novi Testamenti fontes mus: qui credit in me, flumina produxit ». de ventre eius fluent aquae vivae. Percussus enim Christus in cruce Novi Testamenti fontes eduxit ».

A Cesario poco importa che il suo testo giovanneo non s'adatti a questa esegesi, laddove egli riferisce il qui credit in me Λ flumina de ventre eius fluent, applicando così tutta l'espressione al Crocifisso. Ma proprio questa incongruenza presenta l'aspetto più significativo del periodo che dobbiamo ora attentamente considerare. Le due diverse lezioni - quella latina antica e quella della Volgata - sono fra loro contrastanti, come lo sono le due diverse interpretazioni, oppure sono giustapposte, ma non connesse fra loro. Il primo teologo che dobbiamo qui prendere in considerazione per il quarto secolo è MARIO VITTO-

RINO, retore africano a Roma, la cui conversione fu « motivo di giubilo per la Chiesa » 105 . Vittorino, evi105

In Ex. homil. 11, 2 (GCS Origenes VI, p. 354, 4-9). Serm. 103, 3 (Morin I, 1, p. 409, 11-19). AGOSTINO, Confessiones 8, 2, 4 (CSEL 33, p. 173, 13). 1M Aàv. Arium 1, 8 (PL 8, 1044 B). L'interpunzione nel Migne è arbitraria. Io non ho potuto disporre dell'edizione critica delle opere antiariane di M. Vittorino, edite da J. Woehrer, Wilhering 1910-12. 101 105

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dentemente in ragione dei suoi rapporti con la Chiesa africana, viene a conoscere anzitutto l'antico testo latino di Giov 7,37.38. Così cita nella sua opera contro Ario : « Si quis est qui sitit veniat et bibat qui credit in me, quemadmodum dixit scriptura, flumina ex ventre ipsius manant aquae viventis » 106 . Ma conosce pure (se si può prestar fede alla tradizione manoscritta e alla fedeltà critico-testuale dell'edizione di Gallandi riprodotta dal Migne) la lezione ormai comune della tradizione alessandrina: « Qui sitit veniat ad me et bibat; qui credit in me, sicut dixit scriptura, flumina de ventre eius fluent aquae vivae » 107 . Il senso del testo era assai difficile per Vittorino, il quale conosceva molto meglio i teoremi dei neoplatonici 108 che non i problemi teologici. Tuttavia egli è il primo e l'unico fra tutti gli antichi scrittori cristiani che si sia posto coscientemente il problema della compossibilità delle due interpretazioni. Infatti Giov 7,37.38 è per lui di somma importanza nella speculazione trinitaria contro gli ariani. Nel suo pensiero d'ispirazione platonica, la Trinità è fons, flumen, irrigatici109, e Cristo è fons vitae, fiuvius, fontana vitae n o , ed in questo inscindibile rapporto del fiume con la sorgente egli vede l'immagine più appropriata dell'ομοούσιος del Concilio di Nim cea . Il Logos vien quindi ad essere datore di Spirito 107 Adv. Arium 4, 6 (PL 8, 1117 B). Ma Vittorino aggiunge qui espressamente: « I t e m ipse de se ita dicit ». 108 Cfr. P. HENRY, Marius Vktotinus a-t-il hi les Enneades de Piotini in Recherches de science relig. 24 (1934) 432-449. 109 Hymnus 3 àe Trinitate (PL 8, 1143 C ) ; Hymn. 1 (1141 D ) . 110 Adv. Arium 1,25 (PL 8,1058 D ) ; 1, 32 (1065 D ) ; 1,47 (1077 A ) ; 2, 12 (1097 D ) ; 4, 31 (1140C). 111 De όμοουσί> non recipiendo 4 (PL 8, 1 1 4 0 C ) .

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allo stesso modo in cui dal fiume si originano i ruscelli. Chi comunica lo Spirito è precisamente il Logos incarnato, il cui corpo è ricolmo di Spirito: «Ex ipso (Spiritu) concipitur Christus in carne, ex ipso sanctificatur in baptismo Christus in carne. Ipse est in Christo qui in carne, ipse datur Apostolis a Christo qui in carne est, ut baptizent in Deo et in Christo et in Spiritu Sancto » 112 . In quest'ultimo senso si deve ora intendere anche Giov 7,38. L'espressione significa che lo Spirito viene infuso da Cristo nei credenti in misura così abbondante che questi, a lor volta, diventano venter, ossia dispensatori dell'acqua per altri: «Est illud quidem dictum de ilio qui accipit Spiritum, qui accipiens Spiritum efficitur venter, effundens flumina aquae viventis » 113 . Vittorino inserisce però subito anche l'altra interpretazione a lui ben nota. Questa, anzi, si presta molto meglio per la prova - per la quale egli intendeva servirsene - dell'ομοούσιος delle tre Per­ sone divine : « Sed rursum iterum flumina Spiritus, venter autem ex quo flumina Iesus. Iesus enim est Spiritus (2Cor 3,17). Iam ergo Iesus venter de quo flumina Spiritus. Sicut enim a gremio Patris et in gremio Filius (Joh 1,18), sic a ventre Filii Spiritus. Όμοούσιον ergo tres, et idcirco in omnibus unus Deus » 1 1 4 . La fusione delle due interpretazioni si presenta in modo ancor più singolare in GIROLAMO che, tanto nel suo testo giovanneo quanto nell'indagine cri112 113 111

Adv. Arium 3, 18 (PL 8, 1113 C D ) . Ivi 1, 8 (PL 8, 1044 B ) . Ivi (1044 C).

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tica sulla questione della citazione veterotestamentaria di Giov 7,38, dà la preferenza all'interpretazione origeniana. Anche in lui si può però notare quanto profonda fosse l'impressione lasciata dall'antica immagine di Cristo-Roccia dal cui aperto costato sgorga l'acqua viva. Dal grande commentario a Isaia possiamo anzitutto dedurre che anche l'esegeta betlemita riconosceva uno stretto rapporto tra Is 48,21 e Giov IO »34 115· Anche in questa teologia, che non presenta per il resto nessuna originalità, Cristo è la roccia percossa col legno della croce e dalla quale scaturisce l'acqua viva 116 . La glorificazione, che in Giov 7,39 è il presupposto per l'effusione dello Spirito, consiste esclusivamente nella morte in croce : « Necdum enim erat Spiritus datus quia Iesus non fuerat glorifìcatus, hoc est non erat crucifixus »117. Entra nel medesimo contesto anche l'esegesi antigiudaica di Sai i,3 : la croce è l'albero della vita piantato presso i corsi d'acqua e dalla sola croce trae origine tutta l'acqua : « Ex ilio enim fonte procedunt omnia flumina » u 8 . Un prezioso contributo a questa interpretazione viene infine dal fatto che anche Girolamo cita in genere il testo secondo l'antica versione latina: « Qui sitit veniat et bibat », e quindi omettendo ad me dopo veniat. Si spiega così perché Girolamo, illustrando ai suoi monaci di Betlemme il passo di Sai 77,15.16, 115

In h. Comment. 13, +8 (PL 24, 4Ó3 BC). Ivi 14, 51 (PL 24, 483 AB). Cfr. anche la dottrina di Girolamo sullo ' Spirito riposante ' in Cristo : Tractatus de principio Marci (ed. G. MORIN, Anecdota Maredsolana III, 2, p. 326, 19 - p. 327, 15). 117 Tractatus in Psalm. 149 (Morin, p. 313, 9-12). 118 lui 1 (Morin, p. 5, os). 116

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abbia loro presentato l'antica e fidata esegesi: « Interrupit petram in deserto; interrupta nobis est petra in heremo. Percussa est petra et fluxerunt aquae; illa petra quae dicit: qui sitit veniat et bibat, de ciiius ventre fluxerunt flumina » 119 . È pure possibile che qui il Santo esegeta prescinda volutamente dalle sue conclusioni criticamente esegetiche intorno al significato di Giov 7,38. Nell'omelia su Sai 97,8 Girolamo spiega il testo in modo così vago, che non si può stabilire con certezza quale delle due interpretazioni egli intenda proporre 120. Una cosa è però certa: l'esegesi secondo la quale Giov 7,38 preannunzia in senso mistico lo sgorgare dell'acqua dalla ferita del costato del Signore era la ' più pia ', in ogni caso quella in cui i monaci dell'Occidente riponevano maggior fiducia. Ciò è attestato dallo stesso Girolamo. In una lettera al suo amico Rufino d'Aquileia egli dà notizia d'un comune amico di nome Bonoso, il quale s'era ritirato in una delle isole dalmate consacrandosi alla vita ascetica. Il monaco,, dice Girolamo, non gioisce più per il fascino naturale del rincorrersi delle onde del mare, ma beve l'acqua viva dalla ferita del costato del Signore : « Nulla euriporum amoenitate perfruitur, sed de latere Domini aquam vivam bibit » 121 . RUFINO ha ben compreso questo linguaggio. Noi già lo conosciamo: nella lettera sui Martiri di Lione, in Eusebio, Rufino traduce la frase έκ της νηδύος τοϋ Χρίστου con de ventre Iesu. Egli s'è servito con tanto zelo dei Tractatus Origenis, che lo si può ritenere co119

Ivi ηη (Moria, p. 65, 20-22). 120 /,,,- g7 (Morin, p. 148, 13-24). 1 2 1

Epist. 2, 4 (CSEL 54, p. 16, 7s).

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L ' E C C L E S I O L O G I A D E I PADRI

me l'autore stesso delle belle omelie 122 . Perciò non ci meravigliamo nel leggere queste parole nel suo commentario al Simbolo Apostolico: « Scribitur Iesus in latere percussus aquam simul et sanguinem profudisse. Hoc quippe mysticum est: ipse enim dixerat, quia flumina de ventre eius procedent aquae vivae » 123 . Ci veniamo così a trovare nell'Italia settentrionale, dove ci è stata appunto conservata la preziosa testimonianza del Codex Vercellensis124. Al contrario del Veronensis, esso contiene esplicitamente Υ ad me dopo veniat, et autorizza quindi a leggere insieme qui aedit in me e sicut dixit Scriptura, ad intendere perciò l'espressione nel senso indicato da Origene. Abbiamo già visto che sotto il potente influsso esercitato dal Metropolita AMBROGIO in questo ambiente, il testo veniva interpretato proprio così. Ma ora si deve osservare, per la storia dell'esegesi di Giov 7,38 che precisamente in Ambrogio, che pure ha incorporato coscientemente l'interpretazione origeniana nella sua teologia ascetica, emerge anche l'altra esegesi. Ambrogio dunque, che più d'ogni altro ha contribuito al perpetuarsi dell'interpretazione alessandrina fino ai nostri giorni, è l'ultimo grande testimone anche per l'esegesi efesina. Cominciamo con un passo, finora del tutto trascurato non solo perché presenta serie difficoltà di i« Così H. BREWER, Uber Zeit und Verfasser der sog. Tractatus Origenis (Forschungen zur christl. Literatur- utid Dogmengeschichte IX, 2), Paderborn 1909, p p . 155-165. 123 Commetti, in Symbolum Apost. 23 (PL 21, 361 C). JS4 Codex Vercellensis, ed. A. GASQUET (Collect. bibl. Latina 3), R o m a 1914, p. 174.

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interpretazione, ma anche perché è stato trasmesso in un testo criticamente erroneo nell'edizione maurina riprodotta dal Migne. Nell'opera De Spiritu Sancto Ambrogio intende dimostrare la divinità dello Spirito Santo. Dopo aver provato che nella S. Scrittura l'immagine del ' fiume ' rappresenta di solito lo Spirito, egli fa a sé stesso l'obiezione dei pneumatomachi, secondo la quale proprio dalla disparità tra fonte e ruscello si può desumere l'inferiore dignità dello Spirito Santo rispetto al Figlio e al Padre. Ambrogio si preoccupa di dimostrare che nella S. Scrittura anche lo Spirito è detto sovente ' fiume ' : « Sed ne quis forte tamquam pusillitatem Spiritus redarguat et hinc velit quamdam facere distantiam magnitudinis, quod aqua portio videatur esse fontis exigua... discant non solum aquam sed etiam flumen dictum Spiritum Sanctum, secundum quod lectum est: flumina de ventre eius fluent aquae vivae. Hoc autem dicebat de Spiritu ... »125. A questo punto si inserisce il testo, che vuol essere un'interpretazione esegetica di Giov 7,38.39. In base ai manoscritti, in contrasto col testo inaurino, il passo si deve leggere così: «Ergo flumen est Spiritus Sanctus et flumen maximum, quod secundum Hebraeos de Iesu fluxit internis, ut ore Esaiae accepimus prophetatum » 12e . Che cosa significa qui secundum Hebraeos? I Maurini ritengono che l'allusione a Isaia abbia per oggetto precisamente Is 66,12. Perciò Ambrogio avrebbe inteso il ' fiume della pace ' come simbolo dello Spirito Santo. Ma allora qual significato ha secundum Hebraeosì 125

De Spiritu Sancto i, 16, 156 (PL 16, 74.0 A ) . ! " Ivi 1, Itì, 157 (PL 16, 740 B).

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In parecchi luoghi delle sue opere Ambrogio accenna alle diverse lezioni nelle versioni dell'Antico Testamento; egli conosce Simmaco e Aquila, e le varianti dei LXX rispetto al testo ebraico sono giunte a sua conoscenza sicuramente, perché egli disponeva d'un esemplare degli Esapli 127 . Secundum Hebraeos potrebbe dunque indicare anche qui un riferimento di questo genere. Solo per Is 66,12 non si parla affatto d'una tale variante al testo, che avrebbe resa necessaria una precisa indicazione. Per la soluzione della difficoltà può ora venirci in aiuto solo la storia dell'esegesi di Giov 7,38 che abbiamo fin qui esposta. Già in Giustino, e poi in Ireneo, Tertulliano, Origene e Novaziano 128 , incontriamo l'antica dottrina secondo la quale lo Spirito Santo è disceso in tutta la sua pienezza in Cristo per rimanervi definitivamente, compiendo così tutte le profezie dell'Antico Testamento e costituendo a un tempo nel Nuovo Testamento il principio fontale dell'effusione dei doni dello Spirito sui credenti. È questo il πνεΰμκ μένον di Giov 1,32.33, preannunziato in Is 11,2. La storia patristica di questa esegesi è stata esaurientemente esposta da K. Schlutz 129 . NOVAZIANO, come abbiamo già visto, li7 Ciò è comprovato dalle innumerevoli citazioni da Aquila, Simmaco e Teodozione (cfr. l'indice analitico di CSEL 64, p. 42is; CSEL 62, p. 537), che Ambrogio certamente non ha tratto solo di volta in volta da Origene. Bxpos. in Ps. 118, 8, 2 (CSEL 62, p. 150, 2s): ' secundum hebraeos ' indica anche la differenza delle lezioni. - Per i manoscritti riguardanti il nostro testo mi ha dato cortesemente il suo consiglio il miglior conoscitore della tradizione ambrosiana,

O.

FALLER.

128 Cfr. sopra, pp. 359. 364S. - ORIGENE, In Num. homil. 6, 3 (GCS Origenes VII, p. 325). 1!> K. SCHLUTZ, Isaias 11, 2 in den ersten uier christlichen Jahrhundertcn (Alttestamentliche Abhandlungen XI, 4), Munster 1932.

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LA TRADIZIONE DELL* ASIA MINORE

ha espresso il concetto con le parole: «Totius Sancti Spiritus in Christo fonte remanente » 130 . Or sappiamo che Girolamo, il quale non l'ha dedotto solo dalle sue personali ricerche ma anche dal Commentario a Isaia (per noi perduto) di Origene, che il Vangelo dei Nazareni, il cosiddetto Vangelo degli Ebrei 131 , ha espresso quasi con le medesime parole la dottrina dello « Spirito riposante in Cristo » : « Descendit fons omms Spiritus Sanai et requievit super eum » 132 . Le citazioni di quest'opera apocrifa vengono introdotte da Girolamo con il lemma secundum Hebraeos133. Noi non intendiamo affatto affermare che Novaziano alluda precisamente a tale citazione, benché sia possibile ch'egli abbia conosciuto, probabilmente tramite Origene, il suddetto libro. Origene però l'ha conosciuto di certo 134. E si può ben presumere che nel suo Commentario a Isaia fosse inclusa anche questa citazione, dato che Girolamo s'è servito di essa ampiamente. Possiamo perciò asserire che verosimilmente anche Ambrogio dipende dall'origeniano Commentario a Isaia. Do130

De

Trinitate 29

(PL

3,

944 B).

Cfr.

K.

SCHLUTZ,

op.

cit.,

pp. 69-71· 131 Cfr. A. SCHMIDTKE, Nette Fragmente und Untersuchungen zu den Juden-christlkhen Evangelien (Texte und Untersuchungen 37, 1), Lipsia 1911; K. S C H I U T Z , op. cit., p p . 20-24; T H . Z A H N , Gesch. d.

neutest. Kanons II, 2, Erlangen 1892, p. 689S; J. SCHADE, Hieronymus und das hebràische Matthausoriginal in Bibl. Zeistchrifl 6 (1908) 36OS. 133

133

GIROLAMO, In Is. comment. 4 (su Is 11, 2) (PL 24, 145 B ) .

Comment. in Michaeam 2 (su Mich 5,7) (PL 25, 1221D); De viris illustribus 2 (PL 23, 611 B ) ; In Matth. comment. 4 (su Mae 26,16) (PL 26, 206 B ) ; In Is. comment. 11 (su Is 40,9) (PL 24, 405 A). Girol a m o s'è servito certamente, in Cesarea, dell'esemplare di Origene. Cfr. T H . Z A H N , Geschichte des neutestamentl. Kanons II, 2, pp. 656. 666. 134 In Ieremiam homil. 15, 4 (GCS Origenes III, p. 128, 2?s); In Ioannem comment. 2, 12 (IV, p. 67, I9s); In Matth. comment. 15, 14 (X, p . 389. I5s).

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L ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

po questa premessa (che è solo un'ipotesi, anche se confortata da molte buone ragioni), il passo enigmatico del De Spirita Sancto appare perfettamente chiaro. Ambrogio intende dire: «Lo Spirito Santo è dunque un fiume, e precisamente il grandissimo fiume che, secondo il Vangelo degli Ebrei, scaturisce dall'intimo di Gesù, come è stato preannunziato profeticamente per bocca di Isaia ». Il ' grandissimo fiume ' dovrebbe quindi equivalere al totus fons di Novaziano ed anche ufons omnis Spiritus Sancii della citazione dal Vangelo degli Ebrei. Possiamo ora dire con certezza che l'autenticità della lezione de Iesu internis, contro quella maurina de Iesu in tetris, conferma l'esattezza dell'interpretazione di Giov 7,38 nel senso indicato dalla tradizione efesina. E possiamo provarlo con una serie di testimonianze, finora trascurate, tratte dagli scritti di Ambrogio. Esse dimostrano chiaramente che al Vescovo di Milano, pur strettamente legato alla tradizione origeniana, era ben accetta anche l'altra esegesi. Ancora una volta Giov 7,38 viene messo in relazione con l'allegoria dei quattro fiumi del paradiso, e si spiega che tale rapporto si è dimostrato sulla croce, quando è stato promesso il paradiso al ladrone, quando dal costato di Cristo è scaturito il fiume che scorre per tutta la terra: «Post passionerà Domini quid aliud sequi debuit, nisi quia de corpore Domini flumen exivit, quando de latere eius aqua fluxit et sanguis, quo laetificavit (Sai 45,5) animas universorum, quia ilio flumine lavit peccatum totius mundi » 135. L'alle-•"· Expl. Ps. 45, ia (CSEL 64, p. 337, 23-26).

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goria ritorna poi, come abbiam già visto, sulla linea della tradizione origeniana. In una spiegazione quasi artificiosa del nome Betsabee, interpretato in senso filoniano come filia piena e puteus iuramenti, Io Ps.Ambrogio introduce i seguenti concetti. Betsabee, qual sposa di Salomone, è la figura della Chiesa sposa del vero Re della pace e perciò è in senso proprio figura della caro Christi, della natura umana con la quale il Logos s'è unito sponsalmente nell'incarnazione. La carne di Cristo è filia piena, ossia piena di Spirito Santo: « Eadem (caro) piena... quia piena Spiritu Sancto. Iesus enim plenus Spiritu Sancto regressus est a lordane (Lue 1,4; Giov 1,33). Eadem etiam ' puteus iuramenti ' ... et bene puteus, quia flumina de ventre eius fluent aquae vivae »13e. L'ignoto autore di questa seconda apologia di Davide ragiona qui proprio come Ambrogio, ed anche il parallelismo fra Lue 4,1 e Giov 7,38 circa la pienezza di Spirito ha un preciso riscontro in Ambrogio. Nella sua spiegazione dei Salmi egli applica a Cristo quanto vien detto dell'albero piantato presso i corsi d'acqua (Sai 1,3): la natura umana di Cristo, piantata come una pianticella nel seno della Vergine, non può mai inaridirsi perché ha in sé, in tutta la loro pienezza, i fiumi dello Spirito : « Non enim potuit arescere ista plantatio, quae habebat ubertatem in se manentem (Joh 1,33) gratiae spiritualis. Denique: ' plenus Spiritu Sancto Iesus regressus est a lordane ' (Lue 4,1). Hi sunt decursus aquarum de quibus 136 Apologia David altera io, 51 (CSEL 32, 2, ρ. 394, 23- 395, 4). L'ignoto compilatore dipende qui sicuramente da Ambrogio. Cfr. la nota seguente.

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L'ECCLÉSIOLOGIA DEI PADRI

dicit in Evangelio : ' flumina de ventre eius fluent aquae vivae ' » 137 . Nello spirito dell'antica tradizione anche Ambrogio vede nel racconto di Giov 19,34 l'effettuazione del dono dell'acqua dal corpo di Cristo. Cristo crocifisso, assetato, trafitto, roccia aperta dalla quale scaturisce l'acqua, realizza quanto ha promesso in Giov 7,38. « Tunc itaque sitiebat, quando de latere suo restinctura sitim omnium, vivae aquae flucnta fundebat. Denique scriptum est: 'flumina de ventre eius fluent aquae vivae '» 138 . In uno dei passi più belli della spiegazione dei salmi il pensiero dell'oratore milanese si eleva fino alle vette della mistica - « tempus est ut inseramus et mystica »139 - per invitare con un commovente appello i suoi fedeli a bere l'acqua viva, a bere dai fiumi dei due Testamenti, dal traboccante calice della sapienza. Ma - egli pensa - poiché in entrambi i Testamenti della divina rivelazione è uno solo in ultima analisi colui che parla, cioè Cristo, il Verbo incarnato, ne consegue che noi beviamo dalla fonte che è Cristo stesso : « Bibe Christum quia petra est quae vomuit aquam, bibe Christum quia fons vitae est, bibe Christum., quia flumen est, cuius impetus laetificat civitatem Dei, bibe Christum, quia pax est, bibe Christum quia flumina de ventre eius fluent aquae vivae » 140 . Questo inno ambrosiano è come il canto d'addio dell'esegesi patristica di Giov 7,37.38, che ebbe quali "' Expl. Ps. I, 35 (CSEL 64, p. 31, 19-25). "» Ivi 61, 14 (CSEL 64, p. 3S1, 19-22). "· Ivi i, 33 (CSEL 64, p. 28, i 2 ) . 110 Ivi 1, 33 (CSEL 64, p. 29, 18-22).

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primi promotori i ' grandi luminari dell'Asia ', gli stessi discepoli dell'Apostolo Giovanni. Certo non verrà più dimenticata la dommatica sublime intorno al corpo umano del Signore che ci ha donato Γ ' acqua nel sangue ' e dalla cui ferita del costato scaturisce la grazia battesimale per la quale vien plasmata la Chiesa 1 4 1 . Va però sempre più in oblio questo particolare significato di Giov 7,38. Ci si abitua invece, sotto l'influsso di Agostino, ad interpretare il testo nel senso dell'amore traboccante per il prossimo. Da Ambrogio, poi, si accoglie la spiegazione dei quattro fiumi delle virtù cardinali che nascono nell'intimo del credente 142 . Origene e la sua spiegazione spiritualistico-morale ha trionfato sulla più antica e dommaticamente più profonda esegesi, che ha avuto inizio 141

Qui indichiamo solo i luoghi in cui Giov 7,38 è citato ο almeno

inteso chiaramente. BASILIO, De Spiritu Sancto 14 (PG 32, 121 C) ; PS.-ATANASIO, De Trinitate et Spiritu Sancto 19 (PG 26, 1213 A-D).

Alla diffusione contribuirono sostanzialmente due libri popolari, il PHYSIOLOGUS e il CLAVIS MELITONIS. Physiologus 30 (LÀUCHBRT,

p. 2tìos; nuova edizione critica di F. SBORDONE, Milano 1936, p. 98, 3-6; p. 99, 4-7) racconta che il cervo uccide i serpenti dei crepacci con l'acqua che fa uscire dalla sua bocca. Ciò sarebbe un simbolo di Cristo, che ha dato a noi dal suo costato le acque celestiali, l'acqua della sapienza, « come si legge nel TEOLOGO », ossia in Giovanni. Clavis Melitonis 17 (ed. PITRA, Analecta Solestn. II, 1884, p. 11) : « Venter Christi lavacrum regenerationis ex quo electos suos per adoptionis gratiam in filios regenerat». AGOSTINO, Serm. 352, 3 (PL 39, 1951/53); AMBROGIO, In Lucam comment. io, 48 (CSEL 32,4, p. 473,24 - p. 474,3) ; PACIANO, Epist. 3, 3 (PL 13, 1065 A): « Apud nos aqua viva est ipsa quae salit a Christo ». MESSALE DI BOBBIO, Contestatio in Missa ieiunii (PL 72, 485 A) : « Lancea latus eius aperuit, aquas vivas evomuit, unde simul bibit omnis credulitas gentium, quae numquam sitiet in aeternum ». GELASIANUM, Preghiera della notte di Pasqua (WILSON, p. 89) ; PS.-COLOMBANO, Instr. 13, De fonte vitae (PL 80, 254 B). 14! Expl. Ps. 45, 12 (CSEL 64, p. 338, 2-4); De paradiso 3, 14 (CSEL 32, 1, p. 273, 13 - p. 274, 2).

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nello stesso ambiente di Giovanni e di cui abbiamo esposto la storia. Dopo queste considerazioni sull'esegesi efesina di Giov 7,37.38 possiamo finalmente rispondere alla seconda domanda: come è stato interpretato il riferimento all'Antico Testamento circa la profezia che annunzia lo sgorgare dell'acqua dal corpo di Cristo? Abbiam visto che non ci si è mai occupati espressamente di questo problema: solo Girolamo aveva dovuto affrontarlo per esigenze critiche. La risposta deve quindi emergere dall'evoluzione storica di questa tesi esegetica. Giov 7,38 è inserito fin dai primissimi tempi in uno schema ben definito di luoghi scritturistici facenti parte della forma primitiva di confronto fra la teologia cristiana e il giudaismo. Già nella lettera di Barnaba e in Giustino abbiamo potuto costatare la giustapposizione di Ger 2,13 e Is 33,16. A questi Ireneo aggiunge Is 43,19-21, e Cipriano Is 48,21. Il concetto fondamentale è sempre lo stesso: i giudei hanno disprezzato l'acqua viva che sgorga dalla ' fonte della vita ', come era stato loro predetto da Dio. Perciò essi non possono più bere l'acqua dello Spirito, la quale è in tutta la sua pienezza nel Messia (Is 11,2) e che dal Messia viene elargita nella stessa maniera in cui una volta Mosè nel deserto fece scaturire l'acqua dalla roccia (Is 48,21). Ciò si connette perfettamente con la dottrina cristologica degli Atti degli Apostoli, secondo la quale Cristo è Γ ' altro Mosè ' (At 3,22; 7,37; Deut 18,15.19). Ben s'inquadra pure con l'attesa del popolo ebraico, per cui il Messia avrebbe dovuto ripetere in forma più perfetta i due grandi doni di Mosè, ossia il pane celeste della manna e l'acqua viva

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dalla roccia 143 . Perciò è assai significativo che il popolo tutt'e due le volte, dopo la promessa della manna e quella dell'acqua viva, abbia esclamato: « Questi è veramente il Profeta» (Giov 6,14; 7,41). Si può da ciò concludere che fin dal giorno solenne della festa dei Tabernacoli, nel ricordo dell'acqua viva scaturita nel deserto, si sia pensato che fosse da riferirsi al Signore stesso la promessa del dono messianico dell'acqua, che avrebbe avuto il suo compimento dopo la glorificazione di Cristo? Si può vedere nel testo un riferimento generico a tutti quei passi dell'Antico Testamento in cui si parla dell'acqua sgorgata dalla roccia nel deserto? Certo, la tradizione antigiudaica più antica, che possiamo riportare fin quasi al tempo in cui visse l'Apostolo Giovanni, è stata di questo parere. Anche l'altro concetto è però ugualmente antico, e già in Giustino possiamo trovarlo in tutta la sua chiarezza: l'acqua messianica dello Spirito vien dispensata dal ' trafitto ' Crocifisso, in cui si compie quanto è detto in Zac 12,10. A ciò aveva accennato lo stesso Evangelista in tono solenne. L'acqua sgorgante dal corpo di Cristo crocifisso sarebbe a sua volta un ση μείον, un fatto indicativo e simbolico rispetto a quello promesso in Giov 7,38 e che ha il suo compi­ mento effettivo nell' ' effusione ' dello Spirito da parte del Messia definitivamente glorificato (At 2,33; Gioe 3,1). Le promesse dell'acqua dalla roccia, dell'acqua dal corpo di Cristo, e dell'effusione dello Spirito su tutta la natura umana sarebbero così dunque in imme145 Cfr. STRACK-BILLERBECK, Komm. ζ. Ν. Τ., v. I, p. 86s; ν. Π, p . 4 8 1 . - FL. SCHLAGBNHAUFEN i n Zeitschr.f. kath. Theo/. 51 (1927) 492s.

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diato reciproco rapporto, e in iCor 10,4 e 12,13 vi sarebbe solo un accenno, di immediata intelligibilità per i Corinzi, a tale rapporto. Questo è certo: Giov 7,38 è stato inteso in tal senso da tutta la tradizione che abbiamo passato in rassegna. I flumina de ventre Christi sono ' Spirito ', che vien donato nell'atto della glorificazione del corpo di Gesù, nel momento in cui dal suo costato scaturisce l'acqua, divenuta santificante nel sangue. Si compie così Γ ' avvento ' messianico: in sangue ed acqua, in Logos e Pneuma, come dice Apollinare, il quale ha appreso il concetto dalla lettera del ' Profeta ' che posò il capo sul petto del Signore. Quanto sia rimasta viva questa tradizione, almeno nella teologia antigiudaica che Giustino ha ereditato dalla Chiesa primitiva e che poi è passata da lui a Ireneo e Tertulliano e da questi ai Tractatus Origenis, alle Consultationes Zacchaei e a Rufino, possiamo desumerlo da un passo dell'opera Contro Iudaeos di ISIDORO DI SIVIGLIA. ESSO dipende dal Commentario di Rufino al Simbolo Apostolico, ed è perciò in immediato rapporto con la tradizione efesina che per il resto era stata già interamente dimenticata. Isidoro, nello stile dell'antichità classica, così scrive a proposito dell'acqua sgorgante dalla ferita del costato di Cristo: «Item de eadem aqua quae de latere eius profluit, Propheta alius sic dicit: ' Flumina aquae viventis egrediuntur de ventre illius ', aquae scilicet baptismatis quae credentes vivificant et quae sitientibus largiuntur » 144 . 144 Contra Judacos i, 48, 2 (PL 83, 490 C; 491 A). Cfr. anche le sue Quaestiones in Vet. Tesiam., Gen 3,2 (PL 83, 216 C): Cristo come fiume del Paradiso. Quaest. in Exod. 24, 1, 2 (PL 83, 299 AB): Cristo qual roccia dispensatrice d'acqua. Nella sua edizione dei Tractatus Origenis, Batiffol ha dimostrato che Isidoro s'è servito di essi.

LA TRADIZIONE DELL'ASIA MINORE

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Fin qui è giunta la nostra indagine sulla storia patristica dell'esegesi di Giov 7,37.38. Se si eccettuano solo poche tracce, il medioevo ha ignorato completamente l'interpretazione più antica, quella che abbiamo esposta in questa seconda parte 145. Solo oggi si torna a riconoscere il valore autentico dell'esegesi efesina. Fu soprattutto l'esegesi del pietismo tedesco dei secoli XVII e XVIII, in aperto contrasto col razionalismo luterano, a dare un'espressione di sublime bellezza all'immagine del Signore glorificato che fa scaturire dal proprio intimo i fiumi dell'acqua viva 146 . Nella 145 Cfr. inoltre RUPERTO DI DEUTZ, In Ioannem commetti. 7 (PL 169, 523 C), in cui Giov 7,38 è inteso espressamente anche in ordine alla gloriosa umanità di Gesù : « Eadem immortali carne resumpta eidem Patri suo prò nobis assistit. Abhinc de ventre ipsius qui hoc ipsum loquitur diceris: qui credit in me: fulmina de ventre eius fluent aquae vivae, de ventre inquam, id est de profonda divinitate eius, coeperunt duo vivae aquae flumina, id est huius Sancii Spiritus duo data ». GERHOH VON REICHERSBERG, De investigatione Antichristi (Clm 439, inedito ; cfr. J. BACH, Die Dogmengeschichte des Mittelalters, v. II, Vienna l87S, P- 50ós) trae da Giov 7,38 la prova della processione dello Spirito dal Figlio: la natura umana di Cristo è infatti fonte dell'acqua viva. 1M Cfr., p. es., T H . GOODWIN, Moses et Aron seu ciuiles et ecclesiastici ritus antiquorum Hebraeorum, 6 ed. con note di J. PvEiTZius, Brema 1722, p. 299S: « Locus Joh 7,38 multis tormento est. Sed duplex expositio difficultatem omnem solvit. (Segue la spiegazione consueta e quindi quella più antica): Si dicimus versum Joh 7,37 forsan male distinctum et separatum a versu 7,38 atque sic legi debere: si quis sitit veniat ad me et bibat qui credit in me. Quemadmodum dicit Scriptura, fluvii aquae viventis manabunt ex ventre ipsius (scilicet •&εαν·9ρώπ(ΰ Messiae, ex cuius adaperto latere aqua profluxit), hoc vero dixit de Spiritu... ». - L'esegesi pietistica ha poi accolto questo concetto. Cfr. H. A. FRANCKE, Das eigentliche Pfingstgeschafte des HI. Geistes, welches istjesum Christum bei den Menschen zu uerklàren, Halle 1724, p. 515; J. JAC. RAMBACH, Auserlesene una heihame Worte des Herrn Jesu, v. II, Jena 1731, p. 75: Gesù, fonte dell'acqua viva (con una documentazione scientifica sull'esegesi del sec. XVII) ; M. F. Roos, Die Lente una Lebensgeschichte Jesu Christi des Sohnes Gottes

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L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

più recente esegesi i fautori della seconda interpretazione vanno continuamente aumentando. Nell'ambito dell'esegesi cattolica un contributo essenziale in favore di questa tesi è rappresentato dall'opera di Lagrange. La storia delle due interpretazioni qui esposte, che ha chiarito le oscure e sublimi parole del Signore, può in ogni modo contribuire a rendere più oggettivo il giudizio sui due tipi d'esegesi. Essa è come un paradigma, che entro un campo ben delimitato traccia nella fitta selva dell'esegesi patristica i sentieri per i quali anche altri e ugualmente preziosi tesori della tradizione della Chiesa, a cominciare fin dalle origini, si sono conservati ο si sono perduti. Dalla travatura marmorea che sovrasta le otto co­ lonne classiche di porfido di cui papa Sisto III (432-440) ha abbellito il battistero della Basilica Lateranense, il sublime poema del battesimo, composto da Leone Magno, notifica ancor oggi che cosa si pensasse una volta dell'acqua della vita sgorgante dal corpo di Cristo " 7 : Fons hic est vitae qui totum diluii orbem sumens

de

Christi

vulnere

principium.

nach den vier Evangelien (prima edizione 1776), Tubinga 1847 (2 ed.), p. I2s. - A questa tradizione pietistica aderiscono anche esegeti del sec. XIX, soprattutto R. STIEE, Die Reden des Herm Jesu, insonderheit nach Johannes, v. IV, 3 ed., Barmen 1870, pp. 631-373. - Per una sin­ tesi cfr. B. WEISS, Das Johannes evangelium (commento al Nuovo Testamento di A. W. MEYER), V. II, 9 ed., Gottinga 1902, p. 255. "' Inscriptiones latinae christianae veteres, v. I, p. 289, n. 1516 (Diehl). Cfr. F. J. DOLGER, Die Inschrifi im Baptisterium S. Giovanni in Fonte an dei Lateranensischen Basilika aus der ZeitXystus III. (432-440) und die Symbolik des Taufbrunnens bei Leo dem Grossen in Antike uni Christentum 2 (1930) 252-257.



LA CONTINUAZIONE DELLA DOTTRINA NELLA TEOLOGIA LATINA

Il passaggio alla teologia dei Padri latini non significa l'inizio d'un nuovo corso storico dell'idea che andiamo studiando. Infatti Origene e Ippolito, ai quali in Oriente si sono ispirati Metodio e Gregorio, sono stati maestri anche per l'Occidente. Essi sono i magistri di AMBROGIO. La dipendenza del vescovo di Milano da Origene è troppo nota e non esige qui una dimostrazione diretta. Del resto si potrà subito dedurre dalla dottrina della nascita di Dio quanto sia reale tale dipendenza. Meno considerata, invece, ma pur tanto importante è la dipendenza di Ambrogio da Ippolito *. Ed anche ciò ha la sua conferma nella dottrina della nascita di Dio, ed è ancor più evidente alla luce dell'antichissima dottrina, notoriamente ippolitiana, del ' Verbo 1 N. BONWETSCH dà una prova esauriente di questa dipendenza da Ippolito nella sua edizione della piccola opera di Ippolito recentemente scoperta (Texte und Unters. 26, I, Lipsia 1904) e nell'edizione completa del commentario di Ippolito al Cantico dei Cantici (Texte und Unters. 23, 2, Lipsia 1903). Alcuni documenti sulla presente questione in ZkTh 59 (1935) 77-79·

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L'ECCLÉSIOLOGIA DEI PADRI

saltante ' che dal cuore del Padre viene nel cuore del credente 2. La predilezione di Ippolito per la dottrina della nascita del Logos dal cuore del Padre si riflette chiaramente nelle opere di Ambrogio 3. Con l'antica speculazione romana di Ippolito si raccoglie in Ambrogio anche l'eredità di Origene e poi quella di Filone, ossia la tesi dell'antica psicologia sulla virtù generativa del cuore 4. In Ambrogio si trovano tutti gli elementi della teoria che abbiamo fin qui esposta. E se nelle opere di Ambrogio essi non hanno avuto una precisa sistematizzazione, ciò si deve all'originalità della sua produzione letteraria: quando s'imbatte in concetti teologici particolarmente suggestivi, Ambrogio si limita a copiare quanto i dotti predecessori gli offrono. E siccome i suoi scritti hanno un notevole valore probativo per la vitalità della tradizione, da essi noi possiamo facilmente dedurre, a prescindere dall'eventuale testimonianza letteraria, di quale intensità sia stato l'influsso della tradizione per quanto riguarda la dottrina della nascita di Dio. Si deve certamente all'influsso dell'esegesi di Origene se anche Ambrogio ha considerato le parole di Is 26,18 e Gal 4,19 qual fondamento dei suoi concetti sulla virtù generativa del cuore. Quella forza generativa di pensieri che egli, d'accordo con l'antica a Cfr. sopra p. 22S. * Per le prove di IPPOLITO e AMBROGIO, date sopra a p. 2is, cfr. anche i passi del Commentario di Ippolito al Cantico dei Cantici (Texte und Unters. 23, 2), p. 26, 26; p. 31, uss: «Il Figlio è nato per generazione da David e dal cuore del Padre»; p. 31, 3iss: «Il mio cuore - dice il Padre - ha generato il Verbo, mentre da Davide è stato generato l'uomo ». - Ciò è descritto da Ambrogio. Sui suddetti testi cfr. anche De Virginitate 11 (PL 16, 282 B). 4 Cfr. sopra p. 20S.

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psicologia, attribuisce all'intimo dell'anima, cioè al cuore, si esprime ora anche in senso religioso. La mens, ossia l'anima in grazia, genera i buoni pensieri 5 : « Quid autem sanctius mente, quae dat bonarum semina cogitationum, quibus aperit vulvam animae conclusam pariendi sterilitate, ut possit illas invisibiles generationes edere, utero videlicet spiritali, de quo dicit Isaias (segue Is 26,18) ». L'intimo, il cor intelligibile6, è il luogo segretissimo in cui si compie il parto spirituale. In questo luogo segreto vive Cristo. Ivi è il suo soggiorno preferito: «In corde amat esse Christus» 7 . L'essenza della vita spirituale è dunque l'intima unione col Logos: il crescere e morire del Verbo eterno nel nostro cuore; la morte spirituale è un distacco dell'anima dalla sua vita interiore, dal Verbo divino : « Vivit igitur Dei Verbum et maxime in animis vivit piorum... Moritur nobis, si a nostra anima separetur ... mors enim vera est Verbi et animae separatio»8. È indicativo per l'origine di questi concetti il fatto che Ambrogio parli una volta 9 espressamente del Λόγος παρ&ενικός dimorante nel­ l'anima: questi è il Logos che per eterna generazione verginale procede dal cuore del Padre 10 ed ha ora trasformato con la sua inabitazione l'anima del cre5 De Abraham 2, 11, 78 (CSEL 32, 1, p. 630, I2ss). • Ivi (p. 630, 17). ' De virginitate 19 (PL 16, 298 D). - Cfr. anche Epist. 41, 12 (PL 16 1116C): « Ambulat Christus in pectoribus singulorum ». » De fuga saeculi 2, 13 (CSEL 32, 2, p. 173, uss). • Epist. 31, 2 (PL 16, 1066 B). 10 Sulla generazione eterna dalla natura verginale del Padre cfr. anche De fide ad Gratianum 4, 8 (PL itì, 63413), dove viene spiegato il testo del Sai 109, 3 : « Uterus paternae arcanum substantiae interiusque secretum ».

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DEI

PADRI

dente in teatro della sua vita mistica: « Nostris enim meritis Verbum Dei nobis aut vivit aut moritur, nam si bona studia atque opera nostra sint, vivit atque operatur in nobis Dei Verbum » n . È interessante vedere come questi concetti sulla mistica sopravvivenza del Logos nel cuore del credente abbiano nel pratico Ambrogio, non ostante l'identità delle fonti, uno sviluppo completamente diverso rispetto al contemporaneo Gregorio Nisseno. La nascita di Dio si realizza sempre, secondo Ambrogio, nell'ordinaria vita morale del credente; d'un sistema mistico, invece, nessuna traccia. Anche la rigenerazione battesimale non è posta in rapporto con la nascita del Logos dal cuore. C'è solo un pensiero predominante: con una vita buona e onesta il cristiano deve conservare in sé l'inabitante Cristo; chi accoglie nel seno materno del cuore i " buoni pensieri ', genera Cristo. Si deve ad Ambrogio se d'ora in poi, fino al medioevo, non emergerà più l'interpretazione dommatica e mistica della nascita di Dio, ma solo quella ascetica. Che il principio della vita dell'inabitante Logos sia una vera nascita, Ambrogio lo dice espressamente. Cristo è il bimbo generato dallo spirito che ha il timore di Dio : « Christus ipse est et puer quem parturit qui in utero suae mentis accepit spiritum salutis » 12 . Questa generazione è il principio animatore d'un'interiore crescita del Logos-bambino nel cuore (anche qui il maestro è Origene) 13 : « Quae tanti forma sit partus demonstrat 11

Epist. 32, 2 (PL ι ό , 1066 A). Enarr. in Ps. 47, io (PL 14, 1150 B ) . 13 Cfr. sopra p. 47S. N o n è da escludersi che qui abbia esercitato un certo influsso anche il Commentario al Cantico dei Cantici di 12

GREGORIO

NISSENO.

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Apostolus dicens (Gal 4,19). In liane formam (Christi) tota mentis nostrae coalescant viscera et in ilio genitali alvo animae nostrae Christus refulgeat. Partus noster fides sit... his quaedam cordis nostri imbuatur infantia, instituatur pueritia, iuvenculescat adulescentia, senecta canescat » 14 . Inspirandosi ancora chiaramente ad Origene, Ambrogio paragona la perdita della grazia a un aborto. Il testo del commentario a Luca, dove questo concetto è presentato nei dettagli, è sotto molti aspetti degno di nota. Esso riunisce insieme quel che Ambrogio ha scritto altrove, e contiene tutti gli elementi della storia della nostra idea, ma nel tipico stile di Ambrogio. Il concepimento del Logos-bambino mediante una vita di rettitudine e di virtù, il « divenire madre di Cristo » nel compimento della volontà di Dio, l'imitazione della Vergine Maria nel concepimento interiore per opera dello Spirito Santo: tutto ciò è stato sempre presente nella tradizione. In Ambrogio riaffiora ancora una volta, e il commentario a Luca ha contribuito moltissimo, per il suo rilevante influsso fino al medioevo, al perpetuarsi dell'idea. Ecco le parole di Ambrogio 15 : «Sunt enim et quae de Dei timore concipiunt quae dicunt : ' de timore tuo concepimus et parturivimus ' (Is 26,18}. Sed non omnes pariunt, non omnes perfecti, non omnes possunt dicere: ' peperimus spiritum salutis in terra ', non omnes Mariae, quae de Spiritu Sancto Christum concipiant, Verbum pariant. Sunt enim quae abortivum excludant Verbum antequam pariant, sunt quae in utero Christum habeant sed nondum formave14 15

De Cairi et Abete, 1, 2 (CSEL 32, 2, p. 378, uss). In Lue. comm. io, 14.25 (CSEL 32, 4, p. 464S).

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rint, quibus dicitur (segue Gal 4,19). Fac voluntatem Patris, ut Christi mater sis. Multae conceperunt Christum et non generaverunt. Ergo quae park iustitiam, Christum parit, quae parit sapientiam, Christum parit, quae parturit verbum, Christum parturit». Queste parole di Ambrogio non sono però caratteristiche soltanto per il nesso con la tradizione; esse sono indicative anche della direzione in cui si è evoluto il concetto della nascita di Dio nella teologia e nella spiritualità latina. La teologia della nascita di Dio non vien più presentata in una profonda speculazione mistica, come presso i greci, e nemmeno in così stretto rapporto con la processione eterna del Logos dal cuore del Padre; ma sempre più e con crescente insistenza nel contesto etico-morale delle ' buone opere ' e nella veste ' mariana ', già evidente nelle surriportate parole di Ambrogio. Maria, tipo della Vergine-Madre, della Chiesa; Maria, modello dell'anima vergine; il mistero del Natale, principio della vita spirituale: questi saranno d'ora in avanti i concetti fondamentali. Nell'anima, dice Ambrogio, si ripete il mistero di Betlemme: generando spiritualmente Cristo nel cuore, essa diventa la ' Casa del pane ' 1 β : « Omnis itaque anima quae recipit panem illum descendentem de caelo domus panis est... incipit ergo concipere anima et formari in ea Christus quae recipit adventum eius ». In questa interiore generazione di Cristo, l'anima del credente imita la Vergine Maria, vien chiamata ' Maria ', come una volta la Maddalena fu chiamata Maria dal Signore 17 solo quand'ella si rivolse a l u i : « Quando converti " Epist. 70, 13.16 (PL 16, 1237 B; 1238 A ) . 17 De virginitate 4, 20 (PL 16, 271 B ) .

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incipit, Maria vocatur, hoc est nomen eius accipit quae parturit Christum; est enim. anima quae spiritualiter parturit Christum». Ciò è di capitale importanza per la conoscenza del pensiero medievale sulla nascita di Dio, poiché è soprattutto Ambrogio (e dopo di lui Agostino) ad indicare la direzione del successivo sviluppo dell'idea, tanto che il modo in cui questi due parlano della nascita di Dio è lo stesso in cui ne parlerà poi il medioevo. Precisamente in questa svolta della storia della dottrina che stiamo ora studiando, nella restrizione (se così possiamo esprimerci) all'aspetto morale e devozionale, nel sorgere del culto mariano, nell'insistenza sull'avvenimento storico del Natale, possiamo osservare il lento costituirsi della spiritualità del primo medioevo. Ciò vale soprattutto e in primo luogo per il più grande discepolo di Ambrogio, AGOSTINO. È significativo il fatto che la teologia della nascita di Dio, tanto apprezzata dalla speculazione dei Padri greci, non abbia avuto invece in Agostino una eco adeguata. Questo complesso dottrinale svolge in ogni caso un ruolo di secondaria importanza nel pensiero agostiniano intorno al Corpo di Cristo, alla Chiesa, e alla grazia. Proprio là, dove ci si sarebbe aspettato un più facile consenso alla mistica continuazione della nascita eterna del Logos dal Padre, cioè nelle riflessioni di Agostino sull'eterna e incessante nascita del Logos - come avvenne in Origene, Gregorio Nisseno e soprattutto Massimo, - non se ne ha invece nessuna traccia18. Nella sua ecclesiologia Agostino s'avvicina 18 Cfr. Epist. 238, 4 (CSEL 57, p. 552, 16): « Semper gignit Pater et semper nascitur Filius ». - Cfr. anche Enarr. in Ps. 2, 6 (PL

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maggiormente alla dottrina della nascita di Dio nel cuore de credente. Questo è un tema tanto caro ad Agostino: la Chiesa, feconda e verginale madre del credente 19. Ma il suo pensiero è rivolto esplicitamente solo alle membra Christi, che dalla Madre Chiesa ricevono la vita divina nella rigenerazione battesimale. Tuttavia, riferendosi alla dottrina dell'unità del Corpo mistico di Cristo (sulla quale non possiamo ora indugiare), egli dice espressamente che la Chiesa è Madre di Cristo 20. Manca però, come abbiamo potuto costatare, l'altro antico concetto, tanto apprezzato dal tempo di Ippolito: la Chiesa che forma e genera il Cristo mistico nel cuore dei credenti 21. 36, 71 A). - Tract. in Ioann. 2 1 , 3.5 (PL 36, 1565SS). - Questi testi sono importanti perchè ad essi più tardi si riferisce espressamente ECKEHART. Per tutta la questione cfr. M. SCHMAUS, Die psychologische Trinitàtslehre des hi. Augusiinus. p. 130S. 11 Cfr. FH. HOFFMANN, Der Kirchenbegriff des hi. Augustinus, M o naco 1933, p. 264S; 494. 20 Enarr. in Ps. 127, 12 (PL 37, 1685): «Mater quomodo, nisi quia ipse Christus est in christianis quos christianos per baptismum quotidie parit Ecclesia ». - Il medesimo concetto in Serm. io, 2 (PL 38, 92). Agostino richiama due volte il passo di Mat 12, 50, del cui antichissimo uso siamo già a conoscenza. Il luogo classico di Agostino per questi concetti è contenuto nell'opera De virginitate, in cui questa ecclesiologia di Agostino ha trovato la sua espressione più bella. Cfr. De Virg. 5 (CSEL 41, p. 239, 14S): «Mater eius est tota Ecclesia, quia membra eius, id est fideles eius, per Dei gratiam ipsa utique parit ». Sermo 213, 7 in tradìtione Symboli 2 (PL 38, 1064): «Sic et Ecclesia et parit et virgo est. Et si consideres, Christum parit, quia membra eius sunt qui baptizantur ». 21 Al contrario si dice in De uiiginitaSe 5 (CSEL 4 1 , p. 239, 15SS) che l'anima, operando negli altri la salvezza mediante l'amore, diviene in questo m o d o ' madre di Cristo ' : « Item mater eius est omnis anima pia, faciens voluntatem Patris eius fecundissima cantate, in iis quos parturit, donec in eis ipse formetur ». - Qui si sente ancora una volta l'antica teologia, in consonanza con Gal 4,19. Altrove Agostino attenua questo farsi di Cristo nell'intimo del credente: cfr. Epist. 82, 4 (CSEL 34, p. 355, ios).

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Agostino parla molto di più - e ciò si deve certamente all'influsso di Ambrogio e alla tradizione oratoria latina - dell'aspetto etico-morale della nascita di Dio. Nell'inizio e nello sviluppo della vita intcriore, nel profondo del ' cuore ', dove dimora l'eterno Verbo di Dio, nella tipicamente agostiniana interiorità del cuore, si compie la nascita mistica di Cristo. Il cuore del credente, immagine del corpo verginale di Maria, è il luogo in cui anima e Verbo s'incontrano. Questo è il gran tema che ha tanto impegnato Agostino, come egli stesso ha riconosciuto nelle immortali parole delle Confessiones : « Ut redeamus hinc ad eam in illud secretimi, unde processit ad nos, in ipsum primum virginalem uterum, ubi ei nupsit humana creatura, ut redeamus ad cor et inveniamus eum » 22 . Anche in Agostino è soprattutto il mistero del N a tale che gli fa pronunziare sulla nascita di Dio nel cuore quelle parole che sono rimaste vive e operanti in tutti i tempi. Maria è il grande modello di tutte le anime credenti ; ciò che una volta si compì in lei storicamente, deve ripetersi spiritualmente nei cuori. Nella vita m o rale del credente deve essere riprodotta specialmente 22 Confessiones 4, 12, 19 (CSEL 33, p. 79, 6ss). - I testi agostiniani in favore dell'inabitazione del Verbo eterno nel cuore del credente sono innumerevoli. Cfr. Enarr. in Ps. 36, Sermo 3, 12 (PL 36, 390) : « Liberai a laqueo Verbum Dei in corde, liberat a via prava Verbum Dei in corde... tecum est cuius Verbum a te non recedit ». Così pure Sermo 117, 17 (PL 38, 671); Sermo 190, 3 in Natal. Dom. 7 (PL 38, 1008); Traci, in Ioann. 50, 2 (PL 35, 1759). Ha esercitato un profondo influsso sulla teologia del cuore della mistica tedesca specialmente un'espressione di Agostino del De vera religione 39 (PL 34, 154) : « Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat Veritas ». ECKEHAET cita questo testo con particolare piacere. Cfr. anche M. SCHMAUS, op. rif., p. 309 sulla mistica agostiniana sull'intimo dell'anima.

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la fede, per la quale Mafia divenne Madre del Verbo: « Fides in mente, Christus in ventre » 23. L'incarnazione mediante la fede della Vergine è il primo principio della vita divina in noi. « Verbum caro factum est prò nobis, ut a matre procedens habitaret in nobis » 24 : questo è il tema trattato sempre e con molta eloquenza nelle sue prediche di Natale. La nascita interiore di Cristo nel cuore dei credenti deve essere il principio dell'ascesa interiore : « Ecce habemus infantem Christum, crescamus cum eo » 25. Agostino si rivolge espressamente alla massa dei suoi uditori: questo fatto interiore è per lui solo un'espressione della crescita spirituale, indispensabile a tutti i cristiani. Siamo qui lontani da ogni mistica, ma proprio da ciò possiamo rilevare il realismo ed anche l'antichità della popolare dottrina agostiniana della grazia : « Quod miramini in carne Mariae, agite in penetralibus animae. Qui corde credit ad iustitiam, concipit Christum. Qui ore confitetur ad salutem, parit Christum. Sic in mentibus vestris et fecunditas exuberet et virginitas perseveret » 26. Affioa3 Sermo 196, 1 in Nat. Dom. 13 (PL 38, 1010); De virginitate 3 (CSEL 41, p. 237, I7ss): « Sic et materna propinquitas nibil Mariae profuisset, nisi felicius Christum corde quam carne gestasset ». - Enarr. in Ps. 67, 21 (PL 36, 826): «Illa virgo Christum... spiritualiter credendo concepii ». 24 Sermo 195 in Nat. Dom. 12 (PL 38, 1019). 25 Sermo 196, 3 in Nat. Dom. 13 (PL 38, 1020). - Anche in Agostino ricorre una volta, insieme con la citazione di Gal 4,19, l'interpretazione della figura dell' ' aborto ' trasmessa da Ambrogio e Origene. Cfr. Enarr. in Ps. 57, 5 (PL 36, 678) : « Nascuntur inter viscera Ecclesiae quidam parvuli et bonum est ut formati exeant ne abortu labantur ». Ma anche qui si tratta solamente della nascita delle membra di Cristo. Cfr. anche la bella esposizione del rapporto tra il Natale e la rigenerazione battesimale, in Tract. in Ioann. 2, 15 (PL 35, 1395). ·· Sermo 191, 4 in Nat. Dom. 8 (PL 38, i o l i ) .

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ratio chiaramente le parole del Commentario a Luca di Ambrogio. Quasi con le medesime parole anche lo Ps.-Crisostomo ha spiegato ai fedeli questa nascita morale di Dio 27. Tutto ciò risale infine alla teologia di Origene sulla nascita di Dio dalle ' buone opere '. In contrasto con la sublime speculazione di Gregorio Nisseno e di Massimo, qui s'avverte il senso popolare dell'antica teologia della nascita di Dio. Così predicano i sacerdoti. I mistici però han parlato in altro modo. L'idea della verginità spirituale, predicata da Agostino ai suoi fedeli, è di particolare importanza anche per la dottrina della perfezione. E sotto questo aspetto è significativo specialmente il concetto della maternità spirituale in ordine a Cristo, di cui conosciamo ormai la storia. Agostino ha presentato questo ideale di verginità nel suo opuscolo De virginitate: Maria, Chiesa, Vergine: nel medesimo ordine si perpetua nei tempi la maternità rispetto a Cristo 28 . Difficilmente si va errati se proprio qui si vede ancora una volta l'influsso del grande ammiratore della verginità, Ambrogio. Gli stessi concetti sono espressi anche da Agostino nelle sue prediche di Natale, come esortazione diretta alle vergini: « Exultate virgines Christi, consors vestra est mater Christi... verumtamen si verbi eius memineritis sicut meminisse debetis ( Mat 12,50): estis edam vos matres eius, quia voluntatem facitis Patris eius. Hunc (Christum) fide concipite, operibus edite. Ut quod egit uterus Mariae in carne Christi, agat cor vestrurn 27

Cfr. sopra, ρ. 6η. De virginitate 5 (CSEL 41, p. 239, 6s): «Et ipsae (virgines) cum Maria matres Christi sunt, si Patris eius faciunt voluntatem », Ivi, 6 (CSEL 4.1, p. 240, I7s): « Quia voluntatem Patris faciunt, Christi spiritaliter matres sunt ». 28

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L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

in lege Christi » 29. Rimane ancora l'idea della nascita di Dio dalle ' buone opere ', pervenuta ad Agostino da Origene per il tramite di Ambrogio. L'anima diviene genitrice di Cristo nella fede, nel compimento del bene, nell'adempimento della volontà del Padre. Solo una volta Agostino si riferisce apertamente al fondamento della vita morale, alla grazia battesimale, mettendo il mistero della nascita di Cristo in rapporto con la rigenerazione battesimale. È la descrizione più bella e a un tempo più agostiniana della nascita di Dio nel cuore del credente 30 : « Nemo dubitet renasci, Christus natus est... fiat itaque in cordibus nostris misericordia eius. Portavit eum mater in utero; portemus (et nos) in corde. Gravidata est virgo incarnatione Christi; gravidentur pectora nostra fide Christi. Peperit (virgo) Salvatorem; pariat (anima nostra salutem, pariamus) et laudem. Non simus steriles, animae nostrae fecundae sint Deo ». Tali concetti e parole caratterizzano in questo momento la predicazione nell'Occidente cristiano. Agostino è il Maestro anche per quanto riguarda la dottrina della nascita di Dio. Ma nel medioevo molti testi presi da prediche post-agostiniane furono attribuiti direttamente al grande Maestro. Per questa ragione dobbiamo ora prendere in esame la continuazione del pensiero agostiniano, per poterne valutare l'influsso sul primo medioevo. 28

Sermo 192, 2 in Nat. Doni. 9 (PL 38, 1012). Sermo 180, 3 in Nat. Dom. 6 (PL 38, 1006). Pubblicato nuovamente secondo un'altra tradizione manoscritta da G. MOBIN, Sancti Augustini Sermones post Maurinos reperti (Miscellanea Agostiniana, i), Roma 1930, p. 211. Nel nostro testo sono poste tra parentesi le parole non contenute nei manoscritti di Morin. 30

LA CONTINUAZIONE DELLA DOTTRINA NELLA TEOLOGIA LATINA

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Più efficacemente forse di qualche predica può aver favorito il conservarsi dell'idea il fatto che essa venne accolta anche nei testi liturgici. Specialmente l'antica liturgia spagnola ha tratto dal pensiero di Agostino il concetto, sempre più ' medievale ', di Maria qual modello sublime della Chiesa e dell'anima credente. Ivi così si prega 31 : « Quod praestitum est carnaliter sed singulariter tunc Mariae, nunc spiritaliter praestetur Ecclesiae: ut te fides indubitata concipiat, te mens de corruptione liberata parturiat, et semper anima virtute Altissimi obumbrata contineat. Ne discedas a nobis sed procedas ex nobis ». Si ha la medesima cosa in due preghiere della vigilia pasquale 32 : anche qui Maria è il tipo della vergine e feconda Chiesa, come era stata descritta spesso e con espressioni profonde nella teologia agostiniana 33. Alla luce di queste fonti, della liturgia gallicana e degli scritti di Agostino, si devono chiarire anche quelle allusioni che troviamo di frequente negli scritti dei vescovi gallici. Così, ad esempio, quando CESARIO D'ARLES scrive : « Gaudeat Christi Ecclesia quae ad similitudinem beatae Mariae mater divinae prolis effi31

Le Liber Mozarabicus Sacramentorum (ed. M. Férotiti), Parigi

1 9 1 2 , c o l . 54, 32SS. aa

Ivi, p. 250, 7ss: «Filii lucis oriuntur quos maturino partu per gratiam spiritalem hac nocte progenerai Mater Ecclesia sine corruptione concipiens et cum gaudio pariens, exprimens in se utique formatti Virginis Genitricis absque ullo humanae contagionis fecunda conceptu ». - Cfr. il prefazio del Sabato Santo del GREGOHIANUM (Muratori II, col. 313): «Filii lucis oriuntur quos exemplo dominicae Matris sine corruptione sancta Mater Ecclesia concipit ». Sarebbe interessante studiare queste preghiere nel loro rapporto con la teologia agostiniana e con quella più antica. 33 Cfr. ancora Enchiridion 34, io (PL 40, 249) : « Ecclesia quae imitane eius Matrem quotidie parit membra eius et virgo est ».

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L ' E C C L É S I O L O G I A D E I PADRI

citur » 34 . Dal medesimo ambiente provengono le prediche conosciute come pseudo-agostiniane, sia che si debbano a MASSIMO DA TORINO Ο a CESARIO Ο a qualche altro vescovo. Forse non v'è nulla di più indicativo per il contenuto di tali prediche che una breve frase d'un sermone natalizio: « Hodie natus est non sibi Christus sed mihi »35. Qui s'avverte chiaramente il passaggio al medioevo: s'annunzia infatti quella virile e commovente interiorità, che sempre più accentua l'egocentrismo del mistero nel ricordo delle parole di Origene: « Che giova a me se Cristo è nato, ma non in me? ». Con sempre maggior frequenza si dice che il Figlio di Dio s'è fatto uomo per abitare nell'intimo del nostro cuore : « Hic prò nobis natus est, hic etiam, si digne agatis, habitat in vobis » 3e . Una vita cristiana senza peccato ne è la condizione. Ed anche ciò è caratteristico per la storia dell'idea. Così leggiamo in una di queste prediche popolari: «Portemus ergo et nos Deum in casto corpore, quem Virginis casta membra portaverunt... ut semper Christum in corde nostro portare possimus, castos ac puros nos exhibeamus ab omni peccato, ut Christus habitare possit in nobis. Qui enim Christum non habet in se, christianus non potest dici » 37. Il concetto della nascita di Cristo s'è ora tramutato in un ' avere ' ο ' portare ' internamente il Signore. In un'altra di queste prediche si può ancor meglio rilevare non soltanto lo stile agostiniano, ma anche l'antico 34 36 36 31

Homi!, de paschate 3 (PL 67, 1048 B ) . Serm. 124, 1 (PL 39, 1992). Serm. 371, 4 (PL 39, 1661). Serm. 125, 4 (PL 39, 1994).

LA CONTINUAZIONE DELLA DOTTRINA NELLA TEOLOGIA LATINA

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concetto della nascita di Dio, che comincia nel battesimo e dà forma nella vita spirituale allo sviluppo interiore del Verbo di Dio. Il testo è perciò degno d'attenzione, poiché secondò noi si riferiscono principalmente ad esso i richiami che nel medioevo cercano in Agostino una garanzia per la dottrina della nascita di Dio. Ancora una volta, come già in Origene e in Ambrogio, la giustificazione interiore e la crescita spirituale sono interpretate come nascita e crescita dello stesso Logos. E ciò, possiamo dire, per l'ultima volta. Infatti quanto verrà detto successivamente nella storia di questa idea (con la sola eccezione del Maestro ECKEHART, il cui ruolo specifico in tale storia è per altro comprensibile solo in questo quadro), non è che ripetizione ο allu­ sione all'antico parallelismo fra la crescita spirituale e la nascita e crescita del Verbo di Dio nel cuore. Ecco il testo di questa bellissima predica natalizia postagostiniana 38 : « Exultemus ergo, carissimi. Ab hodierno die crescunt dies. Crede in Christum et crescit in te dies. Credidisti? Inchoatus est dies. Baptizatus es? Natus est Christus in corde tuo. Sed numquid Christus natus sic remansit? Crevit, ad iuventutem pervenit; sed in senectutem non declinavit. Crescat ergo et fides tua, vetustatem nesciat. Sic pertinebis ad Christum Filium Dei, in principio Verbum apud Deum, Verbum Deum carnem factum, ut habitaret in nobis... ad illum pertinuit propter nos nasci, ad nos pertineat in ilio renasci ».

s

» Serm. 370, 4 (PL 39, 1659). - Esattamente in senso agostiniano, anche la verginità vien qui messa nuovamente in rapporto con la nascita di Dio. Cfr. Serm. 121, 2 (PL 39, 1988) : β Beata virginitas desinit esse iam mortis anelila, quia illum intra se gestat in mente, quem Maria portavit in ventre ».

5· LO SVILUPPO DELLA DOTTRINA FINO AL MEDIOEVO

Per una più esatta conoscenza delle fonti patristiche dalle quali dipende la mistica medievale e soprattutto il Maestro Eckehart, è importante indicare il cammino che conduce direttamente fino al tempo dei mistici. Le linee direttive possono essere tracciate in base alle opere dei Padri della Chiesa oppure mediante la concatenazione di singoli testi patristici. Molto più importante è ancor sempre il vivo contatto con l'ininterrotta tradizione, che solo faticosamente possiamo però ricostruire nella sua totalità, attingendo alla letteratura del periodo che intercorre fra l'epoca patristica e l'inizio della Scolastica. Dobbiamo ora indicare nei minimi particolari queste linee direttive fino alle fonti immediate del Maestro Eckehart. Il lento costituirsi della spiritualità del primo medioevo segue inizialmente il cammino segnato dalla dottrina agostiniana dell'interiorità del cuore. GREGORIO MAGNO ripete i concetti agostiniani del Verbo eterno 1, 1 Cfr. GREGORIO M., Moral. 5, 28 (PL 75, 706a): * Verbum absconditum in corde». Homìl. in Evang. 15 (PL 76, H32B); Moral. 19, 3 (PL 76, 99 B): Moral 16, 36 (PL 75, 1143 A).

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L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

dimorante nel profondo del nostro cuore. Egli s'impossessa soprattutto dell'esegesi di Mat 12,50, divenuta fondamentale per opera di Agostino. ' Madre di Cristo ', secondo lui, è in modo particolare l'anima che forma e genera Cristo nel cuore del prossimo 2 : « Sed sciendum nobis est quia qui Christi frater et soror est credendo, mater efficitur praedicando; quasi enim parit Dominum quem cordi audientis infuderit. Et mater eius efficitur si per eius vocem amor in proximi mente generatur '». Questo testo è importante specialmente perché è stato accolto, insieme con quello del Crisostomo 3 , nelle Catene di S. Tommaso d'Aquino ed è così divenuto familiare al medioevo, non escluso Eckehart, che s'è servito con piacere della Glossa di Tommaso. L'antichissimo concetto della nascita di Dio nel cuore dei credenti, presente già in Origene e Ippolito, è diventato per questa via patrimonio comune della spiritualità medievale. Ancor più ha contribuito BEDA alla diffusione di questa antica esegesi, ricevuta da Gregorio, di Mat 12,50 4 , soprattutto perché per suo tramite tale concetto è giunto a RABANO MAURO 5 , e da Rabano la 2

Homil. in Evang. 3 (PL 76, io8tì D). Cfr. sopra, p. 68, nota 11. 4 Expos. in Lue. 4 (PL 92, 480 BC) : « Omnes qui idem Verbum spiritaliter auditu fidei concipere et boni operis custodia vel in suo vel in proximorum corde parere et quasi alere studuerint, asseverans (Salvator) esse beatos ». 5 Comm. in Matlhaeum 4, 12 (PL 107, 937 D) : « Isti sunt mater mea qui me quotidie in credentium animis generant ». - Certamente anche il Commentario a Luca di Ambrogio, in cui viene spiegato il luogo parallelo a Mat 12,50, Lue 8,21, ha contribuito alla formazione di questa esegesi mistica, che ha esercitato un sì potente influsso sulla 3

LO SVILUPPO DELLA DOTTRINA FINO AL MEDIOEVO

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teologia della nascita di Dio nel cuore dei credenti è entrata nella Glossa ordinaria6, alla quale s'è potuta poi collegare la mistica del primo medioevo. Proprio su queste basi ha costruito la sua mistica RICCARDO DI S. VITTORE, aiutato anche dall'antica psicologia trasmessa da Agostino e di cui conosciamo ormai la storia. La nascita di Cristo nel proprio cuore e nel cuore altrui è il compimento della volontà del Padre celeste7 : « Verbum Patris, Filius Patris est voluntas Patris. Item voluntas hominum quid aliud est nisi quaedam proles mentis? Si igitur eadem est voluntas tua et voluntas Patris, veritas sapientia voluntas corde concipitur et corde generatur. Si igitur idem vis, idem sapis quod Pater, eundem Filium habes quem Pater... Potes Christum gignere in corde tuo et in corde alieno. Intellectu gignitur, consensu concipitur, affectu nascitur ». Quanto profonda sia stata l'impressione prodotta da questa teoria mistica lo si può desumere dal fatto che le parole che abbiamo riportate sono del trattato De interiori domo, compreso fra gli scritti di BERNARDO DI CHIARAVALLE, ma il cui autore è ignoto 8. Noi sappiamo che Eckehart conosceva bene le opere di Riccardo di S. Vittore. In queste si può già riconoscere una delle fonti immediate della sua dottrina della nascita di Dio 9 . storia dell'interiorità. Ambrogio dice: «Propeest enim Verbum in corde tuo, intus igitur Verbum, intus est lumen » (CSEL 32, 4, p. 247, I3s). 11 Glossa ordinaria su Mat 12,50 (PL 114, 129 D). - Cfr. anche GOTTFRIED BABION, Enarr. in Matth. 12 (PL 162, 1368 D). 7

Adnotationes mysticae in Ps 28 (PL 196, 297 CD). Tjactatus de interiori domo 39 (PL 184, 516 D). * È ugualmente importante per lo sviluppo di queste idee anche la storia dell'esegesi del testo di Is 26,17.18, citato in questo contesto 8

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L'ECCLESIOLOGIA

DEI

PADRI

È ancor più facile mostrare il cammino che l'interpretazione mariana della generazione spirituale di Dio ha percorso dal tempo di Agostino, in cui tale espressione è assai frequente, fino al medioevo. È sempre BEDA che più d'ogni altro favorisce il perpetuarsi anche di questa teologia agostiniana. Maria, la ' portatrice del Logos ', che va sui monti con l'eterno Logos nel cuore, è il modello dell'anima che genera Cristo nel proprio cuore 10 : « Typicum pariter exemplum tribuens, quod omnis anima quae Verbum Dei mente concipit statini excelsa cacumina gressu conscendat amoris ». Il tema della storia della spiritualità medievale è così presentato in perfetta consonanza con le agostiniane prediche di Natale. La generazione di Dio dalle ' buone opere ' si tramuta lentamente in generazione dalla ' interiorità ' n. Quanto fossero diffusi tali concetti lo si può rilevare da una lettera di papa GREGORIO II all'imperatore bizantino Leone. Vi si legge infatti 12 : fin da Origene e Ippolito. Abbiamo già visto che il testo si dimostra qual testo classico in favore della nascita di Dio solo sulla base dei L X X e in relazione a Gal 4,19. Questo significato si è conservato, Se EUSEBIO nel suo Commentario a Isaia (PG 24, 276 C) spiega così l'affermazione sul Logos generato nel cuore: τ ο ν γ α ρ μ ο ν ο γ ε ν ή σου Λ ό γ ο ν ένδον εν τή ε α υ τ ώ ν ψ υ χ ή , la spiegazione del testo con­ tenuto nei L X X è : ο ΰ τ ω ς ε γ ε ν η θ η μ ε ν τ φ Ά γ α π η τ ω σου. M a fu di rilevante importanza per la mistica occidentale la conservazione di questa esegesi ad opera di GIROLAMO, sotto l'evidente influsso di Origene; cfr. Comm. in Is. 8, 26 (PL 24, 302 B C ) . Si spiega quindi perfettamente perché questo testo, specialmente in rapporto con Gal 4,19, sia riemerso anche nella mistica della nascita di Dio del primo medioevo. Cfr. P S . - A I M O N E D I HALBERSTADT (PL 116, 841 D ) ; ISACCO DELLA STELLA RICCARDO 10

DI

(PL 194, S.

1712C);

VITTORE

(PL

GUERRICO 196,

(PL

185,

123 B;

38 A ) ;

1216 D ) .

Expos. in Lue. 1 (PL 92, 320 B). Alla diffusione di questa teologia patristica ha contribuito anche il cosiddetto CLAVIS MELITONIS, che delle parole praegnans e pariens 11

LO SVILUPPO DELLA DOTTRINA FINO AL MEDIOEVO

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« At is qui caelo descendit Deus et in uterum sacrac Virginis... intravit, inhabitet in corde tuo ». UGO DI S. VITTORE propone in un suo sermone, sulla base dell'interiore concepimento e generazione di Cristo, il sistema ascetico dell'ascesa dalla fede alla visione di Dio nell'eternità 13. La mistica agostiniana della nascita ha avuto un grande sviluppo in BERNARDO DI CHIARAVAIXE. Questi per la prima volta ha svolto chiaramente e ampiamente il concetto, più tardi assai apprezzato, dell'avvento spirituale di Cristo nel profondo dell'anima 14 . Ogni giorno Cristo vien nuovamente generato nei cuori. « Quotidie videtur et nasci, duna fideliter repraesentamus eius nativitatem » 15 . Il discepolo di Bernardo, GUERRICO ha riprodotto questa dottrina in una omelia: De Verbi incarnatione in Maria et in anima fidelils. Vi troviamo l'espressione più alta della mistica mariana modellata da Agostino e Ambrogio. Maria è l'esempio morale dell'interno dell'anima: dà la seguente spiegazione : « Praegnantes, animae fidelium Verbum Domini nuper concipientes et necdum in opere parturientes » e « Pariens, aure cordis fìdei concipiens et in confessione vel opere generans » (Spicilegium Solesmense III, Parigi 1855, p. 125). 12 Epist. 12 (PL 89, 521A ). 13 Sermo in Antiurti. Dom. (PL 177, 933S). Cfr. anche Quaest. in Epist. Pauli 191 (PL 175, 478 CD). 14 Cfr. Sermones in Adventum Domini, specialmente Sermo 3, 4 (PL 183, 45 BC) e Sermo 5, 2 (PL 183, 51 C). 15 Serm. in Vigil Nat. 6 (PL 183, 112 D). - Cfr. R. LINHAHDT, Die Mystik des hi. Bernhard von Clairvaux, Monaco 1923, p. 192SS: la mistica della nascita di Cristo. 18 Serm. de Annuntiatione B. Virginis 2 (PL 185, 122 D). Anche Isacco della Stella, appartenente al medesimo ambiente di Bernardo, ha esercitato un notevole influsso, e le sue prediche ricordano i toni eckehartiani. Ritorna ancora l'antica questione mistica del « Che giova a me?»: cfr. Serm. in Pentecost. (PL 194, 184 C): « Parum erat, dilectissimi, ut Filius Dei nobis daretur sicut scriptum est: parvulus

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L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

« Ut plenius noveris conceptum Virginis non solum esse mysticum sed moralem, quod sacramentum est ad redemptionem, exemplum quoque tibi est ad irnitationem ». Per avere una misura dell'influsso di questa teologia dell'interiorità sulla mistica classica della grande Scolastica è necessario leggere il trattato di S. BONAVENTURA, De quinque festivitatibus pueri Iesu, specialmente il capitolo: Quomodo Filius Dei in mente devota spiritualiter nascatur17. Con le parole e i concetti di Agostino e di Beda viene offerta al medioevo tutta la ricchezza dell'antica dottrina della nascita di Dio. Anche l'opuscolo De humilitate Iesu Christi18, attribuito a S. Tommaso, è una eco di tale mistica. Il suo autore richiama espressamente le surriportate parole di Beda: Maria è l'esempio d'ogni anima santa, che nel proprio cuore forma e genera il Verbo eterno : « Notandum quod beata Virgo post conceptionem tria legitur fedatus est nobis, - nisi etiam Spiritus Sanctus nobis donaretur ... et haec est Christi prò nobis, de nobis, in nobis natdvitas; quam accepit prò nobis, contulit etiam nobis, ille per Spiritum Sanctum hominis filius de Maria Virgine, nos per eumdem Spiritum Dei fìlii de Ecclesia virgine». - Cfr. anche Serm. io (PL 194, 1725 A): « Gratia est igitur mater quae parit intus in cordibus nostris Iesum ». - Serm. 7 (PL 194, 1715D): «O beata anima quae numquam obliviscitur nec dimittit puerum Iesum, ... crescat, frater, in te Dei Filius, qui iam formatus est in te ». 17 Opusculum 4 de quinque festivitatibus pueri Iesu (Quaracchi VIII, p. 88ss). Cfr. anche p. 88, nota 1 per un'ottima descrizione delle fonti e dei testi paralleli. 18 Opusculum 53 (ed. Romana 2 (p. 66, 20-22); 114, 20 (p. 408, 14-16). 55 Ivi 140, 1 (p. 492, 10-13). Cfr. l'esatta corrispondenza in IRENEO con la citazione di Ger 2,13 e l'esplicita allusione a Giov 7,38: Adv. haer. 3, 24, 1 (II, p. 132, 7-9).

LA TRADIZIONE DELL ASIA MINORE

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A questo punto ci imbattiamo in un mondo di idee della massima importanza per l'ulteriore sviluppo dell'esegesi di Giov 7,38. La teologia dell'acqua viva, nella forma in cui è pervenuta a Giustino dalla tradizione dell'Asia Minore, non è che un'apologia contro il giudaismo; e senza dubbio fin dai primissimi tempi del cristianesimo della Diaspora, nella controversia con i giudei ellenisti (che è stata anche il movente per il Vangelo e per la prima lettera di Giovanni) si sono formati determinati gruppi di citazioni bibliche e di concetti, che da questo momento ricorrono di continuo. E dimostreremo appresso che qui va inserita anche l'interpretazione di Giov 7,38. Prima ancora di Giustino, la LETTERA DI BARNABA 56 ha citato nel medesimo contesto Is 33,16 e Ger 2,13: si dimostra contro i giudei che la promessa dell' ' acqua (che scaturisce) dalla roccia ' e della ' fonte dell'acqua viva ' si è compiuta in Cristo. Così pure in Giustino, che vede il compimento di questa promessa nel Crocifisso : in ' acqua e sangue ' i credenti vengono rigenerati alla nuova vita. I cristiani sono la ' seconda generazione ', in contrapposizione ai giudei considerati come il ' primo popolo '. I cristiani sono rinati da « acqua, fede e legno della croce », come già si leggeva anche nella Lettera di Barnaba 57 . Come una volta Mosè per mezzo del legno fece scaturire l'acqua dalla roccia, così « anche noi siamo ... purificati dal nostro Cristo mediante la morte in croce e il bagno nella acqua» 58 . La croce è l'albero piantato (Sai 1,3) presso *• Barnabae epist. 11, 2-7 (Funk I, p. 73, 3-13). *' Ivi 11, 1 (p. 72, 1). « Dia/. 86, 1 (p. 310,23 - p. 312,1); 86, 6 (p. 314, 7-9).

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le sorgenti - anche questo concetto fa parte dell'antico schema delle dispute coi giudei, come la stessa Lettera di Barnaba può dimostrare59. Giustino chiama Cristo semplicemente ή καλή πέτρα 6 0 , come ancor prima iCor 10,4 aveva supposto a tutti noto tale significato di Es 17,6. Giustino parla (proprio come farà più tardi anche la lettera della Chiesa di Lione) del martirio come d'un dissetarsi con l'acqua viva che sgorga dalla roccia che è Cristo. Il Crocifisso, infatti, in quanto ' trafitto ' (Zac 12,10; Giov 19,37), come Giustino preferisce chiamare Cristo 61 , è il grande modello del martire : « E per noi motivo di grande gioia correre incontro alla morte per il nome della gloriosa roccia, che fa scorrere l'acqua viva nei cuori di coloro che amano in essa il Padre universale e che disseta tutti quelli che bevono l'acqua della vita » 62 . Roccia e corpo di Cristo son dunque, secondo Giustino, il principio fontale della nuova vita, dal battesimo fino al martirio: dal corpo di Cristo sgorga l'acqua che ci rigenera. Or ci sembra di vedere una sicura conferma

" Ivi 86, 4 (p. 312, 22-25); Barnabite epist. 11, 6 (p. 72, 15-19). Cfr. J. D A N I Ì L O U , Théologie àu Judéo-Christianisme, Tournai 1958, pp. 294-303. «· Dial. 114, 2 (p. 408, 9). "• Nella genuina dottrina giovannea della glorificazione del Messia - e quindi dell' ' avvento ' messianico nelle due parusie, quella del sangue e quella della gloria - nella crocifissione e in conseguenza della crocifissione del suo corpo u m a n o : Zach 12,10; Giov 19,37; Apoc 1,7; Dial. 14, 8 (p. 54, i8s); 32, 2 (p. 106, 17S); 64, 7 (p. 230, 4s); 118, 1 (p. 422, 3s); Apol. I, 52 (Otto I, 1, p. 142, 2). 02 Dial. 114, 4 (p. 408, 8-11): ώς καΐ χαίρειν αποθνήσκοντας δια το όνομα το της καλής πέτρας καΐ ζών ΰδωρ ταΐς καρδίαις των δι'αύτοϋ άγαπησάντων τον πατέρα τ ω ν δλων βρυούσης, και ποτιζούσης τους βουλομένους το τής ζωής ύδωρ πιεΐν.

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dell'inserzione di Giov 7,38 nel suddetto contesto, perchè Giustino ha fatto una volta convergere in un medesimo concetto πέτρα e κοιλία: noi cristiani siamo il nuovo Israele che discende da Cristo; noi siamo infatti « usciti dalla caverna del suo corpo come da una roccia spaccata»: ημείς εκ της κοιλίας του Χρίστου λατομηθ-έντες ίσραηλιτικόν το άληθινόν έσμεν γένος β 3 . Fin qui ci è dunque possibile pervenire nell'indagine intorno a questa linea esegetica, donde proviene la prima chiara citazione di Giov 7,38 attestata da Ippolito. D'ora in avanti, come abbiamo già osservato, le rare fonti della prima metà del secondo secolo, se si eccettuano solo poche tracce, non ci forniscono elementi utili 64 . Dobbiamo citare ancora esplicitamente solo »s Ivi 135, 3 (p. 480, 4-6). 84 Nella letteratura del secondo secolo cfr. la presenza di idee cristiane nel TESTAMENTUM JUDAE 24, 4 (Charles II, p. 324), dove è detto che il Messia è fonte della vita: « αΰτη ή π η γ ή πάσιν παρεχούση ζωήν ». Cfr. FL. SCHLAGENHAUFEN in Zeitschr. f. kath. Theol. 51 (1927) 486, nota 4. - Vanno qui inseriti in qualche modo anche due concetti tratti dagli ORACOLI SIBILLINI, dove si dice che nell'era messia­ nica (senza dubbio in senso cristiano) « scaturiranno delle sorgenti », perché lo Spirito ha posto in Gesù, nel battesimo, la sua dimora : OR. SIBYLL. 6, 8 (GCS Geffcken, p. 130) ; nel battesimo il Glorificato laverà i credenti con le acque della fonte inestinguibile: OR. SIBYLL. 8, 315 (GCS Geffcken, p. 162). - Con prudenza si devono infine inserire nel nostro contesto le O D I DI SALOMONE. È interessante il modo in cui Od. l ì , 5. 6 collega il concetto della roccia con quello della sorgente: « Io stavo fermo sulla roccia della verità, dove egli stesso mi aveva posato. Acqua parlante giunse alle mie labbra dalla fonte del Signore » (E. HENNECKE, Neutestamentliche Apokryphen, 2 ed., Tubinga 1924, p. 447). Cfr. H. LEWY, Sobria ebrietas, p. 83S. - Od. 30 si richiama chiaramente a Giov 4,14; in 30, 5 si dice espressamente che quest'acqua sgorga dal Signore: «Essa (l'acqua) defluisce dalle labbra del Signore, dal cuore del Signore scaturisce la sua fonte » (Hennecke, p. 463S). Ma l'interpretazione del passo non è affatto concorde (' Signore ' = Uomo-

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un'altra testimonianza. Questa dimostra infatti che la tradizione dell'Asia Minore è in stretto rapporto con la dottrina della prima lettera di Giovanni. Un frammento di APOLLINARE DI GERAPOLI parla, nella polemica antigiudaica già accennata in Ireneo, dell'umano e del divino in Cristo, per dimostrare che il potere messianico di Cristo, quello di donare l'acqua viva, si manifesta nel sangue della sua morte reale in croce: dal corpo del ' trafitto ' sgorga Γ ' acqua dello Spirito ' : ó την άγίαν πλευράν έκκεντηίτείς, ό έκχέας εκ της πλευράς αύτοϋ τα δύο πάλιν καθ-άρσια, ύδωρ και αίμα, λόγον και πνεύμα 6 5 . Così, partendo da Ippolito qual primo teste, abbiam condotto questa esegesi di Giov 7,38 fin nell'ambiente che era a diretto contatto con la primitiva tradizione efesina. Non è compito del presente studio determinare fino a qual punto essa si inserisca nella teologia degli scritti giovannei. Ma le linee di questa tesi esegetica sono già tanto chiare, che ci consentono di affermare che essa s'accorda perfettamente con i principi basilari della cristologia della prima lettera giovannea e del quarto Vangelo. Vogliamo ora rilevare brevemente i punti in cui le conclusioni fin qui raggiunte sono in contrasto con la tradizione proveniente da Origene. Dio, ο Padre?); cfr. R . HARRIS, The Odes and Psalms of Salomon, Cambridge 1912, p . 128; W . FRANKENBERG, Das Verstàndnis der Oden Salomons (suppl. 21 a Zeitschr. f. alttest. Wissensch.), Giessen 1911. Per il carattere difficilmente definibile di questi inni, che han subito senza dubbio anche l'influsso gnostico, sarà meglio rinunziare ad essi nell'esposizione della storia esegetica di Giov 7,38. LAGRANGE è dello stesso avviso: p. 215, nota. " 5 Frammento 4 da Π ε ρ ί τ ο ϋ π ά σ χ α (Otto, Corpus Apologetar u m IX, p . 487).

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a) Cristo non è tanto il Logos (in senso filonianoorigeniano), quanto piuttosto il Messia, Γ Uomo-Dio. b) Perciò egli non viene considerato come il datore dell'acqua della dottrina e della gnosi, ma come colui che è stato esaltato nella sua reale natura umana, il datore dello Spirito, ossia dell'acqua, sintesi di tutti i doni messianici. e) Più chiaramente che non nella tradizione origeniana, ciò significa che quest'acqua è vivificante non solo perchè si riversa in noi dalla fonte principale del Padre e attraverso il Logos, ma perchè è divenuta vivificante nel sangue. Il senso di tutta questa esegesi non può essere meglio espresso che con le parole di iGiov 5,6: «Egli è Gesù il Messia, che è venuto in acqua e sangue » - un concetto, questo, che non appare mai in tutta la tradizione origeniana (eccettuati naturalmente i casi in cui - come vedremo - l'esegesi efesina esercita il suo influsso su quella origeniana). d) Da ciò risulta che κοιλία non significa più l'intimo dell'anima nel senso della psicologia filoniana, e nemmeno il mistico ' cuore ' di Origene, ma il ' corpo ' del vero uomo Cristo, in tutto il vigore del realismo della cristologia* dell'Asia Minore. Ne consegue che il risultato più importante di questa esegesi è l'aver stabilito uno stretto rapporto tra Giov 7,38 e Giov 19,34. Cristo è la ' roccia spirituale ' dalla cui trafitta κοιλία scaturisce l'acqua viva; è il Messia che porta a compimento ciò che Mosè aveva compiuto una volta in modo figurato: fa sgorgare l'acqua della vita dalla roccia del suo corpo umano ucciso.

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e) Infine, da quanto abbiamo detto appaiono già le linee, benché ancora non del tutto chiare, da cui deve risultare la risposta alla domanda: dove si è cercato di vedere la ' Scrittura' di cui parla Giov 7,38? Sono ora in causa tutte quelle profezie che presentano la salvezza messianica come acqua zampillante nel deserto e annunziano Dio stesso qual fonte della vita. Incontriamo qui Ger 2,13, Is 33,16 e Is 43,19, che fanno parte dello schema primitivo delle dispute coi giudei. Ai suddetti testi va aggiunto Zac 12,10, in cui è contenuta la promessa dell'acqua e la profezia del ' trafitto '. 2. - Abbiamo così delineato una teoria esegetica ricca di contenuto spirituale, teologicamente profonda e di antichissime origini. Come il codice D dimostra, assai presto essa ha trovato il suo fondamento nella struttura del testo anche dopo il tramonto della generazione della viva tradizione efesina. L'antica versione latina di Giov 7,37.38 trasmette questa esegesi dell'Asia Minore ai Dottori della Chiesa d'Africa proprio nel medesimo periodo in cui comincia ad affermarsi l'interpretazione del passo secondo il significato e la struttura del testo suggerita da Origene. Dalla teologia africana dobbiamo quindi iniziare lo studio della seconda fase della storia di questa esegesi. Già la versione di Ireneo, esistente in Africa verso il 250, si fonda su un testo latino della Bibbia del tutto ββ identico a quello del codice d . Cosi è reso nel codice d il passo di Giov 7,37.38: ·« Cfr. R. HARRIS, A Study of Coàex Bezae: Texts and Studia 3. (1891) i6óss; B. KRAFT, Die Evangelienzitate des hi. Irenaus, p. 105.

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« si quis sitit venia (n)t et bibat qui credit in me sicut dixit scriptura flumina de (ve)ntre eius fluent aquae vivae » 67. Anche qui si omette dunque ' ad me' dopo il verbo ' veniat ', e si legano insieme ' bibat ' e ' qui credit in me '. Che il testo debba esser letto così appare ancor più chiaramente dal Codice Palatino (e), contenente anch'esso un testo africano. Dopo ' me ' vien posta qui un'interpunzione: « Si quis sitit veniat et bibat qui credit in me. sicut scriptum est flumina de ventre eius fluent aquae vivae » Μ . Dai Testimonia di CIPRIANO veniamo a sapere che questi non leggeva diversamente Giov 7,37 - non ostante che Hartel voglia arbitrariamente introdurre, contro la lezione dei migliori manoscritti, la ' moder­ na ' (meglio, origeniana) interpunzione, ch'egli ha trovato in un manoscritto di dubbio valore. « Si quis sitit veniat et bibat qui credit in me ». Questa raccolta di passi scritturistici antigiudaici, che Cipriano ha ri­ cavato senza dubbio dalle fonti più antiche 69 (Giustino, " 68

M

CODEX BEZAE CANTABRIGIENSIS, Cambridge 1899, v. I, fol. 133. EVANGEMUM PALATINUM INEDITUM, e d . C. TlSCHENDORF 1 8 4 7 .

Cfr. R. HARRIS, Tesiimonies, v. I, Cambridge 1916. Harris vuol riportare questi Testimonia contro Judaeos fino ai mistici Logia del proto-Matteo. Per la critica cfr. A. D'ALÉS, La Théologie de Si. Cypritn, Parigi 1922, p. 50.

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Lettera di Barnaba), ci conduce, anche per quanto riguarda il pensiero teologico, nell'ambiente in cui s'è formata l'esegesi di Giov 7,38. Cristo è la ' fonte d'acqua viva ' perché in lui, nel quale si compiono tutte le profezie dell'Antico Testamento, lo Spirito Santo ha posto la sua dimora (Giustino, Ireneo) 70 , perché egli è la ' roccia spirituale ' che dona l'acqua nel deserto, e perché è il ' trafitto ' che dal proprio corpo fa scaturire i fiumi dell'acqua dello Spirito. Anche in TERTULLIANO tutti questi concetti formavano un complesso organico, benché non troviamo nemmeno in lui nessuna citazione esplicita di Giov 7.37-38. Giustino e Ireneo son le fonti della sua dottrina. Lo Spirito ha posto in Cristo la sua dimora (Is 11,1.2). Dacché lo Spirito vien dato ai credenti solo da Cristo, esso non è più con i giudei 71 . L'uomo Gesù è Γ ' ef­ fusore ' dello Spirito del Padre : « Hic interim acceptum 72 a Patre munus effudit Spiritimi Sanctum » . In lui si compie non solo Giov 3,1, ma anche e soprattutto Ger 2,13, la grande promessa della ' fonte d'acqua viva ' : « Indubitate nos recipiendo Christum fontem aquae vitae (habemus) » 73 . Cristo è la roccia dalla quale una volta, nel deserto, scaturì l'acqua; dalla croce sgorga ora l'acqua della nuova santificazione *· GIUSTINO, Dial. 87, 3 (I, 2, p. 31ÓS); IRENEO, Adv. haer. 3, 18,1 (II, p. 925). Cfr. anche A. VON UNGESN-STERNBEKG, Der traditionelle alttestamentliche Schrifìbeweis de Christo und De Evangelio in der alien Kirche bis zur Zeit Eusebius von Caesarea, Halle 1913. 71 Adv. Marcionem }, 8 (CSEL 47, p. S98s); 3, 17 (CSEL 4.7, p. 40+s). 78 Adv. Praexeam 30 (CSEL 47, p. 288, 7s). 73 PS.-TBRTULLIANO, Adv. Judaeos 13 (PL 2, 635 BC). Questo scritto è tertullianeo almeno nello spirito, giacché gli ultimi capitoli del libro non sono che una compilazione.

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nello Spirito, l'acqua battesimale74. Alludendo evidentemente a Giov 7,39, Tertulliano racconta in che modo lo Spirito fu donato per la prima volta dopo la ' glorificazione ' del Signore, dopo la santificazione dell'acqua in virtù del sangue75. L'acqua dello Spirito « scaturì allorché egli (Cristo) venne trafitto», quando fu colpita la roccia : « Haec est aqua quae de comite petra populo defluebat. Si enim petra Christus, sine dubio aqua in Christo baptismum videmus benedici »7e. Un documento classico, che conferma l'esattezza delle nostre conclusioni, ci viene da CIPRIANO. Si tratta senza dubbio d'un'esegesi di Giov 7,37.38 allora già tanto comune. Ciò permise pure che tutto il complesso di argomentazioni originariamente antigiudaiche venisse trasferito nel problema appassionatamente dibattuto della validità del battesimo degli eretici. Solo là dov'è la Chiesa si trova l'acqua viva dello Spirito: cosi Cipriano modifica l'antica teologia di Ireneo. C'è infatti una sola Chiesa e un solo Cristo. La Chiesa è il paradiso, nel quale solamente scorrono i quattro fiumi dei Vangeli: esattamente come in Ireneo e Ippolito 77 . Per la conoscenza dei temi tanto cari una volta ai circoli teologici che s'erano ispirati all'esegesi romana e all'antico testo latino della Bibbia assume un particolare significato il fatto che in Cipriano è citato nel medesimo contesto anche Giov 7,37.38. Come Ippolito 74 Aàv. Marcionem 3, 5 (p. 382, 20. 2 8 : su Is 41,19); 5, 5 (p· 587, i s : su 1 C o r 10,4); 5, 7 (p. 595, 25 - p. 5 9 6 , 1 ) ; Aàv. Jud. 13 (PL 2, 63 ss). ,s De baptismo 20 (CSEL 47, p. 210, 24S). ™ Ivi 9 (p. 202, 16-18). " Cfr. sopra, p. 347S.

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nel Commentario a Daniele, così ragiona anche Cipriano : « Ecclesia paradisi instar exprimens arbores frugiferas intra muros suos intus inclusit... has arbores rigat quattuor fluminibus id est evangeliis quattuor, quibus baptismi gratia salutari et cadesti inundatione largitur. Numquid de Ecclesiae fontibus rigare potest qui intus in Ecclesia non est? Numquid paradisi potus salubres et salutares impertire cuiquam potest qui perversus et a semetipso damnatur et extra paradisi fontes relegatus aruit et aeternae sitis siccitate defecit? Clamat Dominus ut qui sitit veniat et bibat de fluminibus aquae vivae quae de eius ventre fluxerunt » 78 . ; Qui ritorna apertamente il duplice significato, caratί teristico in Ireneo, di ' Corpo di Cristo ': l'acqua viva ' sgorga de ventre Christi, ossia tanto dal corpo fisico di Cristo quanto dalla Chiesa. Cipriano infatti sog­ giunge subito: « Quo venturus est qui sitit, utrumne ad haereticos ubi fons et fluvius aquae vitalis omnino non est, an ad Ecclesiam? ... aqua Ecclesiae ' fidelis ' (Is 33,16) et salutaris et sancta ... ». Le acque fidate ' della profezia di Isaia defluiscono quindi dalla Chiesa, fondata sulla roccia, e sono le acque del battesimo. Tuttavia la sorgente dell'acqua dello Spirito è sempre il corpo umano del Signore. Quanto Isaia ha preannunziato intorno all'acqua che scorre nel deserto e alla « roccia spaccata donde scaturiscono fiumi » (Is 43,18-21 ; 48,21), ha il suo compimento nel Cristo trafitto (Giov 19,34), come il Signore stesso aveva annunziato nel giorno solenne della festa (Giov 7,37.38): « Si sitierint, inquit (Isaias), per deserta, adducet illis aquam, de pe-

" Epist. 73, i o , 11 (CSEL 3, 2, p. 785, 16 - p. 786, 4).

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tra producet illis, findetur petra et fluet aqua et bibet plebs mea. Quod in Evangelio adimpletur, quando Christus qui est petra finditur ictu lanceae in passione. Qui et admonens quid per prophetam sit ante praedictum clamat et dicit: si quis sitit veniat et bibat qui credit in me. Sicut Scriptum dicit: flumina de ventre eius fluent aquae vivae » 79. Tutto ciò non è che un'eco di Ireneo e di Giustino. Senza dubbio Cipriano deve questi concetti, che del resto erano noti alla teologia della Chiesa africana già prima di Cipriano, al suo ' maestro ' Tertulliano. Ce lo dimostra un trattato dal titolo De montibus Sina et Sion, d'autore ignoto, risalente probabilmente al tempo stesso di Tertulliano. Anche questo trattato proviene dalla tradizione antigiudaica ed ha forse subito l'influsso di Ireneo 80. Il monte Sion, contrapposto al Sinai dei giudei, è il simbolo della novità cristiana che abbraccia tutte le cose; è soprattutto il simbolo della croce di Cristo qual sintesi di tutta la dottrina cristiana. Dalla croce issata sul monte Sion vien dunque la ' legge ' (Is 2,3), e questa legge la portava ' in seno al suo corpo ' colui che morì sul monte Sion (Sai 39,9: nell'antica versione latina: lex tua in medio ventris mei; Vulg.: in medio cordis mei). Dal venter Christi nasce la Chiesa, in cui si perpetua il mistero della Passione: infatti dal costato del Signore uscì acqua e sangue e di qui fu formata la Chiesa. L'intero testo, che 81 HARNACK dice « una sublime concezione teologica » , " Epist. 6}, 8 (CSEL 3, 2, p. 706, 16 - p. 707, 2). " Cfr. O. BARDENHEWER, Gesch. à. àltk. Lit., v. II, 2 ed., Friburgo 1914, p. 492S; C. H.' TURNER, in Journal of Theol. Studies 7 (1906) 597; P. CORSSEN in Zeitschr.f. d. neutest. Wiss. 12 (1911) 1-36. 81 Texte und Untersuchungen 20, 3, Lipsia 1900, p. 142.

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suona così (e possiamo ancora una volta percepire la consonanza con Giustino e Ireneo) : « Lex Christianorum crux est sancta Christi Filii Dei vivi, elicente aeque proprietà: lex tua in medio ventris mei. Percussus in lateris ventre, de latere sanguis et aqua mixtus profusus afHuebat, unde sibi Ecclesiam sanctam fabricavit, in quam legem passionis suae consecrabat, dicente ipso: qui sitit veniat et bibat qui credit in me. Sicut scriptum est, flumina de ventre eius fluebant aquae vivae » 82 . Queste parole sono state scritte dall'ignoto africano nel medesimo periodo in cui in Alessandria ο in Cesa­ rea Origene, noto ormai fin nella reggia di Siria, spie­ gava lo stesso testo di Giov 7,38. Ma qual differenza nell'interpretazione esegetica! Non si possono tuttavia indicare, con Lagrange, le due interpretazioni sempli­ cemente come ' orientale ' e ' occidentale ' 8 3 . Infatti l'esegesi ora comune nell'Occidente latino ha sì la sua origine a Roma, ma Ippolito l'apprende da Ireneo e questi, insieme con Giustino, dalla tradizione dell'Asia Minore, dove « sono sepolti i grandi luminari dell'Asia», come POLICRATE DI EFESO afferma con orgoglio 84 , i Presbiteri che hanno ascoltato direttamente le parole di Giovanni, discepolo del Signore. Ciò si può rilevare anche dalla vividezza che questo complesso 8a

De montibus Sina et Sion 9 (CSEL 3, 3, p. 115, 9-15). Cft. anche

- Cfr. E. J. MARRTIN, The biblical text ofFirmicus Matemus in Journal of Theol. Studies 24 (1922/23) 318-325. *6 K. WEYMANN in Archiv ftir lateinische Lexikographie und Grammatik 11 (1900) 545-578. ·* A. MERK in Zeitschr.f. kath, Theol. 35 (1911) 775-783 ; H. KOCH, Zu den Quellen Gregors von Elvira und der Tractatus Origenis in Zeitschr. f. Kirchengeschichte (1932) 238-272. ·' Tractatus 20 (ed. A. BATIFFOL, Parigi 1900, p. 210, 5 - p. 212, 6). " De Trinitate 29 (PL 3, 944 B).

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scaturisce dal legno della croce. Il legno gettato da Mosè nelle acque amare (Es 15,25) è simbolo della croce : « Lignum etenim illud dominicae passionis mysterium perspicue demonstrabat, qua indulcatas baptismatis aquas possent sitientes salubriter bibere; unde et ipse Dominus stans in tempio dicebat: qui sitit veniat et bibat aqua virtutem gratis » ". Son qui citati insieme Giov 7,38 e Apoc 21,6; 22,17. Ciò è altamente significativo per l'esattezza con cui era vista la linea unitaria della teologia giovannea dell'acqua viva nel Vangelo e nell'Apocalisse. Ma c'è di più. Cristo è la roccia spirituale che dal suo corpo trafitto ha effuso in noi l'acqua dello Spirito. « Sic populus in eremo cum sitis periculum pateretur, tunc Moyses virga, id est ligno, petram percussit et fluxerunt fontes aquarum, quo factum esse sacramentum baptismatis indicabat. Petram enim illam figuram Christi habuisse probat beatus Apostolus cum dicit; bibebant enim de spiritali sequenti petra, petra autem erat Christus. Petram ergo illam imaginem dominicae carnis habuisse nulla est dubitatio: quae caro, crucis ligno percussa, aquam vivam sitientibus tribuit, sicut scriptum est: flumina de ventre eius procedent. Dicebat hoc itaque de Spiritu Sancto, quem credentes accepturi erant. Et proinde aquae illae, de petra productae, flumina de ventre Christi in sacramento baptismatis manantia et ad salubre sitientium poculum de Christi latere cursura, iam tunc typica praefiguratione monstrabant » 10 °. Con ciò si connette immediatamente la nota teologia di Tertulliano: la Chiesa che nasce dal costato di Cristo, ·· Tractatus 15 (p. 164, 20-25). 100 Ivi (p. 165, 5-16).

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nell'acqua dello Spirito e nel sangue della redenzio­ ne " ι . Il Trattato è come un ultimo canto della primitiva teologia efesina, che ha trovato la sua espressione più bella nell'antica esegesi latina di Giov 7,38. D'ora in avanti va affermandosi irresistibilmente l'interpretazione origeniana. Si deve però osservare che anche nell'esegesi alessandrina di Giov 7,38 - sotto l'evidente influsso dell'Itala e della teologia di Ippolito - interferiscono di continuo gli elementi dell'esegesi dell'Asia Minore. 3. - L'ulteriore sviluppo storico di questa esegesi può essere definito propriamente come il periodo della fusione e della spiegazione delle due grandi linee interpretative, cioè di quella efesina e di quella alessandrina. Abbiamo già visto che Origene nel suo sistema, anche se solo come ipotesi, istituisce un rapporto tra il significato di Giov 7,38 e Giov 19,34102· Tenendo ora presente quanto abbiam detto dell'origine dell'esegesi dell'Asia Minore, appare chiaro che anche il passo classico dell'undicesima omelia di Origene sull'Esodo si inserisce perfettamente in questa tradizione. Nella traduzione di Rufino essa ha contribuito notevolmente affinché il rapporto fra Giov 7,38 e 19,34 non venisse più del tutto dimenticato. Ne è una prova il modo 101

Ivi (p. 165, 16 - p. 166, 2). Cfr. TERTULLIANO, De anima 43, io

(ed. J. H. WAZSINK, Amsterdam 1933, p. 152, 12-15: commento a p. 263S). - La dottrina della nascita della Chiesa dalla ferita del costato di Cristo ha una sua particolare storia esegetico-patristica delle fonti, che qui non prendiamo in esame. Essa trasse grande vantaggio dall'esegesi di Giov 7,38 e 19,34, e a sua volta influì su questa. 102 Cfr. sopra, cap. I, p. 308.

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in cui CESARIO D'ARLES, nel sec. VI, si serve di questa famosa omelia di Origene, copiandola (senza però nominare il teologo) e sviluppandola. Ma anche queste aggiunte sono importanti perché contengono, oltre al testo di Origene, una testimonianza esplicita dell'interpretazione di Giov 7,38: ORIGENE

103

CESARIO

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« Sed haec petra nisi fuerit « Sed haec petra nisi percussa percussa aquas non dabit: perfuerit aquas omnino non habet; cussa vero fontes producit. Perpercussa vero fontes producit et cussus enim Christus et in crucem flumina, sicut in Evangelio legiactus Novi Testamenti fontes mus: qui credit in me, flumina produxit ». de ventre eius fluent aquae vivae. Percussus enim Christus in cruce Novi Testamenti fontes eduxit ».

A Cesario poco importa che il suo testo giovanneo non s'adatti a questa esegesi, laddove egli riferisce il qui credit in me Λ flumina de ventre eius fluent, applicando così tutta l'espressione al Crocifisso. Ma proprio questa incongruenza presenta l'aspetto più significativo del periodo che dobbiamo ora attentamente considerare. Le due diverse lezioni - quella latina antica e quella della Volgata - sono fra loro contrastanti, come lo sono le due diverse interpretazioni, oppure sono giustapposte, ma non connesse fra loro. Il primo teologo che dobbiamo qui prendere in considerazione per il quarto secolo è MARIO VITTO-

RINO, retore africano a Roma, la cui conversione fu « motivo di giubilo per la Chiesa » 105 . Vittorino, evi105

In Ex. homil. 11, 2 (GCS Origenes VI, p. 354, 4-9). Serm. 103, 3 (Morin I, 1, p. 409, 11-19). AGOSTINO, Confessiones 8, 2, 4 (CSEL 33, p. 173, 13). 1M Aàv. Arium 1, 8 (PL 8, 1044 B). L'interpunzione nel Migne è arbitraria. Io non ho potuto disporre dell'edizione critica delle opere antiariane di M. Vittorino, edite da J. Woehrer, Wilhering 1910-12. 101 105

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dentemente in ragione dei suoi rapporti con la Chiesa africana, viene a conoscere anzitutto l'antico testo latino di Giov 7,37.38. Così cita nella sua opera contro Ario : « Si quis est qui sitit veniat et bibat qui credit in me, quemadmodum dixit scriptura, flumina ex ventre ipsius manant aquae viventis » 106 . Ma conosce pure (se si può prestar fede alla tradizione manoscritta e alla fedeltà critico-testuale dell'edizione di Gallandi riprodotta dal Migne) la lezione ormai comune della tradizione alessandrina: « Qui sitit veniat ad me et bibat; qui credit in me, sicut dixit scriptura, flumina de ventre eius fluent aquae vivae » 107 . Il senso del testo era assai difficile per Vittorino, il quale conosceva molto meglio i teoremi dei neoplatonici 108 che non i problemi teologici. Tuttavia egli è il primo e l'unico fra tutti gli antichi scrittori cristiani che si sia posto coscientemente il problema della compossibilità delle due interpretazioni. Infatti Giov 7,37.38 è per lui di somma importanza nella speculazione trinitaria contro gli ariani. Nel suo pensiero d'ispirazione platonica, la Trinità è fons, flumen, irrigatici109, e Cristo è fons vitae, fiuvius, fontana vitae n o , ed in questo inscindibile rapporto del fiume con la sorgente egli vede l'immagine più appropriata dell'ομοούσιος del Concilio di Nim cea . Il Logos vien quindi ad essere datore di Spirito 107 Adv. Arium 4, 6 (PL 8, 1117 B). Ma Vittorino aggiunge qui espressamente: « I t e m ipse de se ita dicit ». 108 Cfr. P. HENRY, Marius Vktotinus a-t-il hi les Enneades de Piotini in Recherches de science relig. 24 (1934) 432-449. 109 Hymnus 3 àe Trinitate (PL 8, 1143 C ) ; Hymn. 1 (1141 D ) . 110 Adv. Arium 1,25 (PL 8,1058 D ) ; 1, 32 (1065 D ) ; 1,47 (1077 A ) ; 2, 12 (1097 D ) ; 4, 31 (1140C). 111 De όμοουσί> non recipiendo 4 (PL 8, 1 1 4 0 C ) .

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allo stesso modo in cui dal fiume si originano i ruscelli. Chi comunica lo Spirito è precisamente il Logos incarnato, il cui corpo è ricolmo di Spirito: «Ex ipso (Spiritu) concipitur Christus in carne, ex ipso sanctificatur in baptismo Christus in carne. Ipse est in Christo qui in carne, ipse datur Apostolis a Christo qui in carne est, ut baptizent in Deo et in Christo et in Spiritu Sancto » 112 . In quest'ultimo senso si deve ora intendere anche Giov 7,38. L'espressione significa che lo Spirito viene infuso da Cristo nei credenti in misura così abbondante che questi, a lor volta, diventano venter, ossia dispensatori dell'acqua per altri: «Est illud quidem dictum de ilio qui accipit Spiritum, qui accipiens Spiritum efficitur venter, effundens flumina aquae viventis » 113 . Vittorino inserisce però subito anche l'altra interpretazione a lui ben nota. Questa, anzi, si presta molto meglio per la prova - per la quale egli intendeva servirsene - dell'ομοούσιος delle tre Per­ sone divine : « Sed rursum iterum flumina Spiritus, venter autem ex quo flumina Iesus. Iesus enim est Spiritus (2Cor 3,17). Iam ergo Iesus venter de quo flumina Spiritus. Sicut enim a gremio Patris et in gremio Filius (Joh 1,18), sic a ventre Filii Spiritus. Όμοούσιον ergo tres, et idcirco in omnibus unus Deus » 1 1 4 . La fusione delle due interpretazioni si presenta in modo ancor più singolare in GIROLAMO che, tanto nel suo testo giovanneo quanto nell'indagine cri112 113 111

Adv. Arium 3, 18 (PL 8, 1113 C D ) . Ivi 1, 8 (PL 8, 1044 B ) . Ivi (1044 C).

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tica sulla questione della citazione veterotestamentaria di Giov 7,38, dà la preferenza all'interpretazione origeniana. Anche in lui si può però notare quanto profonda fosse l'impressione lasciata dall'antica immagine di Cristo-Roccia dal cui aperto costato sgorga l'acqua viva. Dal grande commentario a Isaia possiamo anzitutto dedurre che anche l'esegeta betlemita riconosceva uno stretto rapporto tra Is 48,21 e Giov IO »34 115· Anche in questa teologia, che non presenta per il resto nessuna originalità, Cristo è la roccia percossa col legno della croce e dalla quale scaturisce l'acqua viva 116 . La glorificazione, che in Giov 7,39 è il presupposto per l'effusione dello Spirito, consiste esclusivamente nella morte in croce : « Necdum enim erat Spiritus datus quia Iesus non fuerat glorifìcatus, hoc est non erat crucifixus »117. Entra nel medesimo contesto anche l'esegesi antigiudaica di Sai i,3 : la croce è l'albero della vita piantato presso i corsi d'acqua e dalla sola croce trae origine tutta l'acqua : « Ex ilio enim fonte procedunt omnia flumina » u 8 . Un prezioso contributo a questa interpretazione viene infine dal fatto che anche Girolamo cita in genere il testo secondo l'antica versione latina: « Qui sitit veniat et bibat », e quindi omettendo ad me dopo veniat. Si spiega così perché Girolamo, illustrando ai suoi monaci di Betlemme il passo di Sai 77,15.16, 115

In h. Comment. 13, +8 (PL 24, 4Ó3 BC). Ivi 14, 51 (PL 24, 483 AB). Cfr. anche la dottrina di Girolamo sullo ' Spirito riposante ' in Cristo : Tractatus de principio Marci (ed. G. MORIN, Anecdota Maredsolana III, 2, p. 326, 19 - p. 327, 15). 117 Tractatus in Psalm. 149 (Morin, p. 313, 9-12). 118 lui 1 (Morin, p. 5, os). 116

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abbia loro presentato l'antica e fidata esegesi: « Interrupit petram in deserto; interrupta nobis est petra in heremo. Percussa est petra et fluxerunt aquae; illa petra quae dicit: qui sitit veniat et bibat, de ciiius ventre fluxerunt flumina » 119 . È pure possibile che qui il Santo esegeta prescinda volutamente dalle sue conclusioni criticamente esegetiche intorno al significato di Giov 7,38. Nell'omelia su Sai 97,8 Girolamo spiega il testo in modo così vago, che non si può stabilire con certezza quale delle due interpretazioni egli intenda proporre 120. Una cosa è però certa: l'esegesi secondo la quale Giov 7,38 preannunzia in senso mistico lo sgorgare dell'acqua dalla ferita del costato del Signore era la ' più pia ', in ogni caso quella in cui i monaci dell'Occidente riponevano maggior fiducia. Ciò è attestato dallo stesso Girolamo. In una lettera al suo amico Rufino d'Aquileia egli dà notizia d'un comune amico di nome Bonoso, il quale s'era ritirato in una delle isole dalmate consacrandosi alla vita ascetica. Il monaco,, dice Girolamo, non gioisce più per il fascino naturale del rincorrersi delle onde del mare, ma beve l'acqua viva dalla ferita del costato del Signore : « Nulla euriporum amoenitate perfruitur, sed de latere Domini aquam vivam bibit » 121 . RUFINO ha ben compreso questo linguaggio. Noi già lo conosciamo: nella lettera sui Martiri di Lione, in Eusebio, Rufino traduce la frase έκ της νηδύος τοϋ Χρίστου con de ventre Iesu. Egli s'è servito con tanto zelo dei Tractatus Origenis, che lo si può ritenere co119

Ivi ηη (Moria, p. 65, 20-22). 120 /,,,- g7 (Morin, p. 148, 13-24). 1 2 1

Epist. 2, 4 (CSEL 54, p. 16, 7s).

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me l'autore stesso delle belle omelie 122 . Perciò non ci meravigliamo nel leggere queste parole nel suo commentario al Simbolo Apostolico: « Scribitur Iesus in latere percussus aquam simul et sanguinem profudisse. Hoc quippe mysticum est: ipse enim dixerat, quia flumina de ventre eius procedent aquae vivae » 123 . Ci veniamo così a trovare nell'Italia settentrionale, dove ci è stata appunto conservata la preziosa testimonianza del Codex Vercellensis124. Al contrario del Veronensis, esso contiene esplicitamente Υ ad me dopo veniat, et autorizza quindi a leggere insieme qui aedit in me e sicut dixit Scriptura, ad intendere perciò l'espressione nel senso indicato da Origene. Abbiamo già visto che sotto il potente influsso esercitato dal Metropolita AMBROGIO in questo ambiente, il testo veniva interpretato proprio così. Ma ora si deve osservare, per la storia dell'esegesi di Giov 7,38 che precisamente in Ambrogio, che pure ha incorporato coscientemente l'interpretazione origeniana nella sua teologia ascetica, emerge anche l'altra esegesi. Ambrogio dunque, che più d'ogni altro ha contribuito al perpetuarsi dell'interpretazione alessandrina fino ai nostri giorni, è l'ultimo grande testimone anche per l'esegesi efesina. Cominciamo con un passo, finora del tutto trascurato non solo perché presenta serie difficoltà di i« Così H. BREWER, Uber Zeit und Verfasser der sog. Tractatus Origenis (Forschungen zur christl. Literatur- utid Dogmengeschichte IX, 2), Paderborn 1909, p p . 155-165. 123 Commetti, in Symbolum Apost. 23 (PL 21, 361 C). JS4 Codex Vercellensis, ed. A. GASQUET (Collect. bibl. Latina 3), R o m a 1914, p. 174.

LA TRADIZIONE DELL ASIA MINORE

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interpretazione, ma anche perché è stato trasmesso in un testo criticamente erroneo nell'edizione maurina riprodotta dal Migne. Nell'opera De Spiritu Sancto Ambrogio intende dimostrare la divinità dello Spirito Santo. Dopo aver provato che nella S. Scrittura l'immagine del ' fiume ' rappresenta di solito lo Spirito, egli fa a sé stesso l'obiezione dei pneumatomachi, secondo la quale proprio dalla disparità tra fonte e ruscello si può desumere l'inferiore dignità dello Spirito Santo rispetto al Figlio e al Padre. Ambrogio si preoccupa di dimostrare che nella S. Scrittura anche lo Spirito è detto sovente ' fiume ' : « Sed ne quis forte tamquam pusillitatem Spiritus redarguat et hinc velit quamdam facere distantiam magnitudinis, quod aqua portio videatur esse fontis exigua... discant non solum aquam sed etiam flumen dictum Spiritum Sanctum, secundum quod lectum est: flumina de ventre eius fluent aquae vivae. Hoc autem dicebat de Spiritu ... »125. A questo punto si inserisce il testo, che vuol essere un'interpretazione esegetica di Giov 7,38.39. In base ai manoscritti, in contrasto col testo inaurino, il passo si deve leggere così: «Ergo flumen est Spiritus Sanctus et flumen maximum, quod secundum Hebraeos de Iesu fluxit internis, ut ore Esaiae accepimus prophetatum » 12e . Che cosa significa qui secundum Hebraeos? I Maurini ritengono che l'allusione a Isaia abbia per oggetto precisamente Is 66,12. Perciò Ambrogio avrebbe inteso il ' fiume della pace ' come simbolo dello Spirito Santo. Ma allora qual significato ha secundum Hebraeosì 125

De Spiritu Sancto i, 16, 156 (PL 16, 74.0 A ) . ! " Ivi 1, Itì, 157 (PL 16, 740 B).

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L ' E C C L E S I O L O G I A D E I PADRI

In parecchi luoghi delle sue opere Ambrogio accenna alle diverse lezioni nelle versioni dell'Antico Testamento; egli conosce Simmaco e Aquila, e le varianti dei LXX rispetto al testo ebraico sono giunte a sua conoscenza sicuramente, perché egli disponeva d'un esemplare degli Esapli 127 . Secundum Hebraeos potrebbe dunque indicare anche qui un riferimento di questo genere. Solo per Is 66,12 non si parla affatto d'una tale variante al testo, che avrebbe resa necessaria una precisa indicazione. Per la soluzione della difficoltà può ora venirci in aiuto solo la storia dell'esegesi di Giov 7,38 che abbiamo fin qui esposta. Già in Giustino, e poi in Ireneo, Tertulliano, Origene e Novaziano 128 , incontriamo l'antica dottrina secondo la quale lo Spirito Santo è disceso in tutta la sua pienezza in Cristo per rimanervi definitivamente, compiendo così tutte le profezie dell'Antico Testamento e costituendo a un tempo nel Nuovo Testamento il principio fontale dell'effusione dei doni dello Spirito sui credenti. È questo il πνεΰμκ μένον di Giov 1,32.33, preannunziato in Is 11,2. La storia patristica di questa esegesi è stata esaurientemente esposta da K. Schlutz 129 . NOVAZIANO, come abbiamo già visto, li7 Ciò è comprovato dalle innumerevoli citazioni da Aquila, Simmaco e Teodozione (cfr. l'indice analitico di CSEL 64, p. 42is; CSEL 62, p. 537), che Ambrogio certamente non ha tratto solo di volta in volta da Origene. Bxpos. in Ps. 118, 8, 2 (CSEL 62, p. 150, 2s): ' secundum hebraeos ' indica anche la differenza delle lezioni. - Per i manoscritti riguardanti il nostro testo mi ha dato cortesemente il suo consiglio il miglior conoscitore della tradizione ambrosiana,

O.

FALLER.

128 Cfr. sopra, pp. 359. 364S. - ORIGENE, In Num. homil. 6, 3 (GCS Origenes VII, p. 325). 1!> K. SCHLUTZ, Isaias 11, 2 in den ersten uier christlichen Jahrhundertcn (Alttestamentliche Abhandlungen XI, 4), Munster 1932.

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LA TRADIZIONE DELL* ASIA MINORE

ha espresso il concetto con le parole: «Totius Sancti Spiritus in Christo fonte remanente » 130 . Or sappiamo che Girolamo, il quale non l'ha dedotto solo dalle sue personali ricerche ma anche dal Commentario a Isaia (per noi perduto) di Origene, che il Vangelo dei Nazareni, il cosiddetto Vangelo degli Ebrei 131 , ha espresso quasi con le medesime parole la dottrina dello « Spirito riposante in Cristo » : « Descendit fons omms Spiritus Sanai et requievit super eum » 132 . Le citazioni di quest'opera apocrifa vengono introdotte da Girolamo con il lemma secundum Hebraeos133. Noi non intendiamo affatto affermare che Novaziano alluda precisamente a tale citazione, benché sia possibile ch'egli abbia conosciuto, probabilmente tramite Origene, il suddetto libro. Origene però l'ha conosciuto di certo 134. E si può ben presumere che nel suo Commentario a Isaia fosse inclusa anche questa citazione, dato che Girolamo s'è servito di essa ampiamente. Possiamo perciò asserire che verosimilmente anche Ambrogio dipende dall'origeniano Commentario a Isaia. Do130

De

Trinitate 29

(PL

3,

944 B).

Cfr.

K.

SCHLUTZ,

op.

cit.,

pp. 69-71· 131 Cfr. A. SCHMIDTKE, Nette Fragmente und Untersuchungen zu den Juden-christlkhen Evangelien (Texte und Untersuchungen 37, 1), Lipsia 1911; K. S C H I U T Z , op. cit., p p . 20-24; T H . Z A H N , Gesch. d.

neutest. Kanons II, 2, Erlangen 1892, p. 689S; J. SCHADE, Hieronymus und das hebràische Matthausoriginal in Bibl. Zeistchrifl 6 (1908) 36OS. 133

133

GIROLAMO, In Is. comment. 4 (su Is 11, 2) (PL 24, 145 B ) .

Comment. in Michaeam 2 (su Mich 5,7) (PL 25, 1221D); De viris illustribus 2 (PL 23, 611 B ) ; In Matth. comment. 4 (su Mae 26,16) (PL 26, 206 B ) ; In Is. comment. 11 (su Is 40,9) (PL 24, 405 A). Girol a m o s'è servito certamente, in Cesarea, dell'esemplare di Origene. Cfr. T H . Z A H N , Geschichte des neutestamentl. Kanons II, 2, pp. 656. 666. 134 In Ieremiam homil. 15, 4 (GCS Origenes III, p. 128, 2?s); In Ioannem comment. 2, 12 (IV, p. 67, I9s); In Matth. comment. 15, 14 (X, p . 389. I5s).

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L ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

po questa premessa (che è solo un'ipotesi, anche se confortata da molte buone ragioni), il passo enigmatico del De Spirita Sancto appare perfettamente chiaro. Ambrogio intende dire: «Lo Spirito Santo è dunque un fiume, e precisamente il grandissimo fiume che, secondo il Vangelo degli Ebrei, scaturisce dall'intimo di Gesù, come è stato preannunziato profeticamente per bocca di Isaia ». Il ' grandissimo fiume ' dovrebbe quindi equivalere al totus fons di Novaziano ed anche ufons omnis Spiritus Sancii della citazione dal Vangelo degli Ebrei. Possiamo ora dire con certezza che l'autenticità della lezione de Iesu internis, contro quella maurina de Iesu in tetris, conferma l'esattezza dell'interpretazione di Giov 7,38 nel senso indicato dalla tradizione efesina. E possiamo provarlo con una serie di testimonianze, finora trascurate, tratte dagli scritti di Ambrogio. Esse dimostrano chiaramente che al Vescovo di Milano, pur strettamente legato alla tradizione origeniana, era ben accetta anche l'altra esegesi. Ancora una volta Giov 7,38 viene messo in relazione con l'allegoria dei quattro fiumi del paradiso, e si spiega che tale rapporto si è dimostrato sulla croce, quando è stato promesso il paradiso al ladrone, quando dal costato di Cristo è scaturito il fiume che scorre per tutta la terra: «Post passionerà Domini quid aliud sequi debuit, nisi quia de corpore Domini flumen exivit, quando de latere eius aqua fluxit et sanguis, quo laetificavit (Sai 45,5) animas universorum, quia ilio flumine lavit peccatum totius mundi » 135. L'alle-•"· Expl. Ps. 45, ia (CSEL 64, p. 337, 23-26).

LA TRADIZIONE DELL'ASIA MINORE

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goria ritorna poi, come abbiam già visto, sulla linea della tradizione origeniana. In una spiegazione quasi artificiosa del nome Betsabee, interpretato in senso filoniano come filia piena e puteus iuramenti, Io Ps.Ambrogio introduce i seguenti concetti. Betsabee, qual sposa di Salomone, è la figura della Chiesa sposa del vero Re della pace e perciò è in senso proprio figura della caro Christi, della natura umana con la quale il Logos s'è unito sponsalmente nell'incarnazione. La carne di Cristo è filia piena, ossia piena di Spirito Santo: « Eadem (caro) piena... quia piena Spiritu Sancto. Iesus enim plenus Spiritu Sancto regressus est a lordane (Lue 1,4; Giov 1,33). Eadem etiam ' puteus iuramenti ' ... et bene puteus, quia flumina de ventre eius fluent aquae vivae »13e. L'ignoto autore di questa seconda apologia di Davide ragiona qui proprio come Ambrogio, ed anche il parallelismo fra Lue 4,1 e Giov 7,38 circa la pienezza di Spirito ha un preciso riscontro in Ambrogio. Nella sua spiegazione dei Salmi egli applica a Cristo quanto vien detto dell'albero piantato presso i corsi d'acqua (Sai 1,3): la natura umana di Cristo, piantata come una pianticella nel seno della Vergine, non può mai inaridirsi perché ha in sé, in tutta la loro pienezza, i fiumi dello Spirito : « Non enim potuit arescere ista plantatio, quae habebat ubertatem in se manentem (Joh 1,33) gratiae spiritualis. Denique: ' plenus Spiritu Sancto Iesus regressus est a lordane ' (Lue 4,1). Hi sunt decursus aquarum de quibus 136 Apologia David altera io, 51 (CSEL 32, 2, ρ. 394, 23- 395, 4). L'ignoto compilatore dipende qui sicuramente da Ambrogio. Cfr. la nota seguente.

388

L'ECCLÉSIOLOGIA DEI PADRI

dicit in Evangelio : ' flumina de ventre eius fluent aquae vivae ' » 137 . Nello spirito dell'antica tradizione anche Ambrogio vede nel racconto di Giov 19,34 l'effettuazione del dono dell'acqua dal corpo di Cristo. Cristo crocifisso, assetato, trafitto, roccia aperta dalla quale scaturisce l'acqua, realizza quanto ha promesso in Giov 7,38. « Tunc itaque sitiebat, quando de latere suo restinctura sitim omnium, vivae aquae flucnta fundebat. Denique scriptum est: 'flumina de ventre eius fluent aquae vivae '» 138 . In uno dei passi più belli della spiegazione dei salmi il pensiero dell'oratore milanese si eleva fino alle vette della mistica - « tempus est ut inseramus et mystica »139 - per invitare con un commovente appello i suoi fedeli a bere l'acqua viva, a bere dai fiumi dei due Testamenti, dal traboccante calice della sapienza. Ma - egli pensa - poiché in entrambi i Testamenti della divina rivelazione è uno solo in ultima analisi colui che parla, cioè Cristo, il Verbo incarnato, ne consegue che noi beviamo dalla fonte che è Cristo stesso : « Bibe Christum quia petra est quae vomuit aquam, bibe Christum quia fons vitae est, bibe Christum., quia flumen est, cuius impetus laetificat civitatem Dei, bibe Christum, quia pax est, bibe Christum quia flumina de ventre eius fluent aquae vivae » 140 . Questo inno ambrosiano è come il canto d'addio dell'esegesi patristica di Giov 7,37.38, che ebbe quali "' Expl. Ps. I, 35 (CSEL 64, p. 31, 19-25). "» Ivi 61, 14 (CSEL 64, p. 3S1, 19-22). "· Ivi i, 33 (CSEL 64, p. 28, i 2 ) . 110 Ivi 1, 33 (CSEL 64, p. 29, 18-22).

LA TRADIZIONE DELL*ASIA MINORE

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primi promotori i ' grandi luminari dell'Asia ', gli stessi discepoli dell'Apostolo Giovanni. Certo non verrà più dimenticata la dommatica sublime intorno al corpo umano del Signore che ci ha donato Γ ' acqua nel sangue ' e dalla cui ferita del costato scaturisce la grazia battesimale per la quale vien plasmata la Chiesa 1 4 1 . Va però sempre più in oblio questo particolare significato di Giov 7,38. Ci si abitua invece, sotto l'influsso di Agostino, ad interpretare il testo nel senso dell'amore traboccante per il prossimo. Da Ambrogio, poi, si accoglie la spiegazione dei quattro fiumi delle virtù cardinali che nascono nell'intimo del credente 142 . Origene e la sua spiegazione spiritualistico-morale ha trionfato sulla più antica e dommaticamente più profonda esegesi, che ha avuto inizio 141

Qui indichiamo solo i luoghi in cui Giov 7,38 è citato ο almeno

inteso chiaramente. BASILIO, De Spiritu Sancto 14 (PG 32, 121 C) ; PS.-ATANASIO, De Trinitate et Spiritu Sancto 19 (PG 26, 1213 A-D).

Alla diffusione contribuirono sostanzialmente due libri popolari, il PHYSIOLOGUS e il CLAVIS MELITONIS. Physiologus 30 (LÀUCHBRT,

p. 2tìos; nuova edizione critica di F. SBORDONE, Milano 1936, p. 98, 3-6; p. 99, 4-7) racconta che il cervo uccide i serpenti dei crepacci con l'acqua che fa uscire dalla sua bocca. Ciò sarebbe un simbolo di Cristo, che ha dato a noi dal suo costato le acque celestiali, l'acqua della sapienza, « come si legge nel TEOLOGO », ossia in Giovanni. Clavis Melitonis 17 (ed. PITRA, Analecta Solestn. II, 1884, p. 11) : « Venter Christi lavacrum regenerationis ex quo electos suos per adoptionis gratiam in filios regenerat». AGOSTINO, Serm. 352, 3 (PL 39, 1951/53); AMBROGIO, In Lucam comment. io, 48 (CSEL 32,4, p. 473,24 - p. 474,3) ; PACIANO, Epist. 3, 3 (PL 13, 1065 A): « Apud nos aqua viva est ipsa quae salit a Christo ». MESSALE DI BOBBIO, Contestatio in Missa ieiunii (PL 72, 485 A) : « Lancea latus eius aperuit, aquas vivas evomuit, unde simul bibit omnis credulitas gentium, quae numquam sitiet in aeternum ». GELASIANUM, Preghiera della notte di Pasqua (WILSON, p. 89) ; PS.-COLOMBANO, Instr. 13, De fonte vitae (PL 80, 254 B). 14! Expl. Ps. 45, 12 (CSEL 64, p. 338, 2-4); De paradiso 3, 14 (CSEL 32, 1, p. 273, 13 - p. 274, 2).

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L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

nello stesso ambiente di Giovanni e di cui abbiamo esposto la storia. Dopo queste considerazioni sull'esegesi efesina di Giov 7,37.38 possiamo finalmente rispondere alla seconda domanda: come è stato interpretato il riferimento all'Antico Testamento circa la profezia che annunzia lo sgorgare dell'acqua dal corpo di Cristo? Abbiam visto che non ci si è mai occupati espressamente di questo problema: solo Girolamo aveva dovuto affrontarlo per esigenze critiche. La risposta deve quindi emergere dall'evoluzione storica di questa tesi esegetica. Giov 7,38 è inserito fin dai primissimi tempi in uno schema ben definito di luoghi scritturistici facenti parte della forma primitiva di confronto fra la teologia cristiana e il giudaismo. Già nella lettera di Barnaba e in Giustino abbiamo potuto costatare la giustapposizione di Ger 2,13 e Is 33,16. A questi Ireneo aggiunge Is 43,19-21, e Cipriano Is 48,21. Il concetto fondamentale è sempre lo stesso: i giudei hanno disprezzato l'acqua viva che sgorga dalla ' fonte della vita ', come era stato loro predetto da Dio. Perciò essi non possono più bere l'acqua dello Spirito, la quale è in tutta la sua pienezza nel Messia (Is 11,2) e che dal Messia viene elargita nella stessa maniera in cui una volta Mosè nel deserto fece scaturire l'acqua dalla roccia (Is 48,21). Ciò si connette perfettamente con la dottrina cristologica degli Atti degli Apostoli, secondo la quale Cristo è Γ ' altro Mosè ' (At 3,22; 7,37; Deut 18,15.19). Ben s'inquadra pure con l'attesa del popolo ebraico, per cui il Messia avrebbe dovuto ripetere in forma più perfetta i due grandi doni di Mosè, ossia il pane celeste della manna e l'acqua viva

LA TRADIZIONE DELL* ASIA MINORE

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dalla roccia 143 . Perciò è assai significativo che il popolo tutt'e due le volte, dopo la promessa della manna e quella dell'acqua viva, abbia esclamato: « Questi è veramente il Profeta» (Giov 6,14; 7,41). Si può da ciò concludere che fin dal giorno solenne della festa dei Tabernacoli, nel ricordo dell'acqua viva scaturita nel deserto, si sia pensato che fosse da riferirsi al Signore stesso la promessa del dono messianico dell'acqua, che avrebbe avuto il suo compimento dopo la glorificazione di Cristo? Si può vedere nel testo un riferimento generico a tutti quei passi dell'Antico Testamento in cui si parla dell'acqua sgorgata dalla roccia nel deserto? Certo, la tradizione antigiudaica più antica, che possiamo riportare fin quasi al tempo in cui visse l'Apostolo Giovanni, è stata di questo parere. Anche l'altro concetto è però ugualmente antico, e già in Giustino possiamo trovarlo in tutta la sua chiarezza: l'acqua messianica dello Spirito vien dispensata dal ' trafitto ' Crocifisso, in cui si compie quanto è detto in Zac 12,10. A ciò aveva accennato lo stesso Evangelista in tono solenne. L'acqua sgorgante dal corpo di Cristo crocifisso sarebbe a sua volta un ση μείον, un fatto indicativo e simbolico rispetto a quello promesso in Giov 7,38 e che ha il suo compi­ mento effettivo nell' ' effusione ' dello Spirito da parte del Messia definitivamente glorificato (At 2,33; Gioe 3,1). Le promesse dell'acqua dalla roccia, dell'acqua dal corpo di Cristo, e dell'effusione dello Spirito su tutta la natura umana sarebbero così dunque in imme145 Cfr. STRACK-BILLERBECK, Komm. ζ. Ν. Τ., v. I, p. 86s; ν. Π, p . 4 8 1 . - FL. SCHLAGBNHAUFEN i n Zeitschr.f. kath. Theo/. 51 (1927) 492s.

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L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

diato reciproco rapporto, e in iCor 10,4 e 12,13 vi sarebbe solo un accenno, di immediata intelligibilità per i Corinzi, a tale rapporto. Questo è certo: Giov 7,38 è stato inteso in tal senso da tutta la tradizione che abbiamo passato in rassegna. I flumina de ventre Christi sono ' Spirito ', che vien donato nell'atto della glorificazione del corpo di Gesù, nel momento in cui dal suo costato scaturisce l'acqua, divenuta santificante nel sangue. Si compie così Γ ' avvento ' messianico: in sangue ed acqua, in Logos e Pneuma, come dice Apollinare, il quale ha appreso il concetto dalla lettera del ' Profeta ' che posò il capo sul petto del Signore. Quanto sia rimasta viva questa tradizione, almeno nella teologia antigiudaica che Giustino ha ereditato dalla Chiesa primitiva e che poi è passata da lui a Ireneo e Tertulliano e da questi ai Tractatus Origenis, alle Consultationes Zacchaei e a Rufino, possiamo desumerlo da un passo dell'opera Contro Iudaeos di ISIDORO DI SIVIGLIA. ESSO dipende dal Commentario di Rufino al Simbolo Apostolico, ed è perciò in immediato rapporto con la tradizione efesina che per il resto era stata già interamente dimenticata. Isidoro, nello stile dell'antichità classica, così scrive a proposito dell'acqua sgorgante dalla ferita del costato di Cristo: «Item de eadem aqua quae de latere eius profluit, Propheta alius sic dicit: ' Flumina aquae viventis egrediuntur de ventre illius ', aquae scilicet baptismatis quae credentes vivificant et quae sitientibus largiuntur » 144 . 144 Contra Judacos i, 48, 2 (PL 83, 490 C; 491 A). Cfr. anche le sue Quaestiones in Vet. Tesiam., Gen 3,2 (PL 83, 216 C): Cristo come fiume del Paradiso. Quaest. in Exod. 24, 1, 2 (PL 83, 299 AB): Cristo qual roccia dispensatrice d'acqua. Nella sua edizione dei Tractatus Origenis, Batiffol ha dimostrato che Isidoro s'è servito di essi.

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Fin qui è giunta la nostra indagine sulla storia patristica dell'esegesi di Giov 7,37.38. Se si eccettuano solo poche tracce, il medioevo ha ignorato completamente l'interpretazione più antica, quella che abbiamo esposta in questa seconda parte 145. Solo oggi si torna a riconoscere il valore autentico dell'esegesi efesina. Fu soprattutto l'esegesi del pietismo tedesco dei secoli XVII e XVIII, in aperto contrasto col razionalismo luterano, a dare un'espressione di sublime bellezza all'immagine del Signore glorificato che fa scaturire dal proprio intimo i fiumi dell'acqua viva 146 . Nella 145 Cfr. inoltre RUPERTO DI DEUTZ, In Ioannem commetti. 7 (PL 169, 523 C), in cui Giov 7,38 è inteso espressamente anche in ordine alla gloriosa umanità di Gesù : « Eadem immortali carne resumpta eidem Patri suo prò nobis assistit. Abhinc de ventre ipsius qui hoc ipsum loquitur diceris: qui credit in me: fulmina de ventre eius fluent aquae vivae, de ventre inquam, id est de profonda divinitate eius, coeperunt duo vivae aquae flumina, id est huius Sancii Spiritus duo data ». GERHOH VON REICHERSBERG, De investigatione Antichristi (Clm 439, inedito ; cfr. J. BACH, Die Dogmengeschichte des Mittelalters, v. II, Vienna l87S, P- 50ós) trae da Giov 7,38 la prova della processione dello Spirito dal Figlio: la natura umana di Cristo è infatti fonte dell'acqua viva. 1M Cfr., p. es., T H . GOODWIN, Moses et Aron seu ciuiles et ecclesiastici ritus antiquorum Hebraeorum, 6 ed. con note di J. PvEiTZius, Brema 1722, p. 299S: « Locus Joh 7,38 multis tormento est. Sed duplex expositio difficultatem omnem solvit. (Segue la spiegazione consueta e quindi quella più antica): Si dicimus versum Joh 7,37 forsan male distinctum et separatum a versu 7,38 atque sic legi debere: si quis sitit veniat ad me et bibat qui credit in me. Quemadmodum dicit Scriptura, fluvii aquae viventis manabunt ex ventre ipsius (scilicet •&εαν·9ρώπ(ΰ Messiae, ex cuius adaperto latere aqua profluxit), hoc vero dixit de Spiritu... ». - L'esegesi pietistica ha poi accolto questo concetto. Cfr. H. A. FRANCKE, Das eigentliche Pfingstgeschafte des HI. Geistes, welches istjesum Christum bei den Menschen zu uerklàren, Halle 1724, p. 515; J. JAC. RAMBACH, Auserlesene una heihame Worte des Herrn Jesu, v. II, Jena 1731, p. 75: Gesù, fonte dell'acqua viva (con una documentazione scientifica sull'esegesi del sec. XVII) ; M. F. Roos, Die Lente una Lebensgeschichte Jesu Christi des Sohnes Gottes

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L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

più recente esegesi i fautori della seconda interpretazione vanno continuamente aumentando. Nell'ambito dell'esegesi cattolica un contributo essenziale in favore di questa tesi è rappresentato dall'opera di Lagrange. La storia delle due interpretazioni qui esposte, che ha chiarito le oscure e sublimi parole del Signore, può in ogni modo contribuire a rendere più oggettivo il giudizio sui due tipi d'esegesi. Essa è come un paradigma, che entro un campo ben delimitato traccia nella fitta selva dell'esegesi patristica i sentieri per i quali anche altri e ugualmente preziosi tesori della tradizione della Chiesa, a cominciare fin dalle origini, si sono conservati ο si sono perduti. Dalla travatura marmorea che sovrasta le otto co­ lonne classiche di porfido di cui papa Sisto III (432-440) ha abbellito il battistero della Basilica Lateranense, il sublime poema del battesimo, composto da Leone Magno, notifica ancor oggi che cosa si pensasse una volta dell'acqua della vita sgorgante dal corpo di Cristo " 7 : Fons hic est vitae qui totum diluii orbem sumens

de

Christi

vulnere

principium.

nach den vier Evangelien (prima edizione 1776), Tubinga 1847 (2 ed.), p. I2s. - A questa tradizione pietistica aderiscono anche esegeti del sec. XIX, soprattutto R. STIEE, Die Reden des Herm Jesu, insonderheit nach Johannes, v. IV, 3 ed., Barmen 1870, pp. 631-373. - Per una sin­ tesi cfr. B. WEISS, Das Johannes evangelium (commento al Nuovo Testamento di A. W. MEYER), V. II, 9 ed., Gottinga 1902, p. 255. "' Inscriptiones latinae christianae veteres, v. I, p. 289, n. 1516 (Diehl). Cfr. F. J. DOLGER, Die Inschrifi im Baptisterium S. Giovanni in Fonte an dei Lateranensischen Basilika aus der ZeitXystus III. (432-440) und die Symbolik des Taufbrunnens bei Leo dem Grossen in Antike uni Christentum 2 (1930) 252-257.

ANTENNA CRUCIS

i

Ι.

ULISSE ALL'ALBERO DELLA NAVE

A prima vista, il titolo Antenna Crucis potrebbe sembrare non troppo chiaro, ma, dopo tutto, si vedrà che esso è un'abbreviazione capace di esprimere il senso generale che domina da capo a fondo tutto ciò che segue. Sotto questo titolo, infatti, presentiamo una serie di studi utili all'ecclesiologia patristica. Ciascuno di essi è completo in sé, tutti però concorrono, in ultima analisi, ad una presentazione dell'antica simbolica cristiana della Chiesa come nave. Già F. J. DOLGEB definiva uno studio della simbolica antica e cristiana della nave come qualcosa di desiderabile : « La simbolica della nave nell'antichità e nel cristianesimo deve essere ancora scritta » 1 . Perciò, conformemente al suo 1 Sol Salutis, Miinster 1925, 2 ed., p. 286, nota 3. - Nella medesima opera (p. 272-286) egli ci fornisce il migliore schizzo elaborato sino ad oggi di una simbolica della nave, sotto il titolo : « La nave della Chiesa in viaggio verso l'oriente. Π viaggio dell'anima verso il porto della pace eterna ». - Ricordiamo qui anche gli altri tentativi di espo­ sizione della simbolica cristiana della nave da noi usati, anche se ab­ bastanza scarni. HIERONYMUS ALEANDER, Navis Ecclesiam referenti* symbolum in veteri gemma annulari insculptum, Roma 1626 - M. A. BOLDETTI, Osservazioni sopra i Cimiteri de' santi Martiri e antichi ai-

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ideale scientifico, saranno forniti qui alcuni lavori preliminari, con l'intenzione però, nello stesso tempo, di inoltrarci, al di là del ristretto lavoro filologicoarcheologico, nelle concatenazioni dommatiche, le sole che diano ai singoli studi parziali di « Antichità e cristianesimo » la loro piena giustificazione teologica. I risultati di questa simbolica nautica, che ora intendiamo esporre, rappresentano un ulteriore sviluppo della dommatica patristica della Chiesa, che noi abbiamo già incontrato nei precedenti capitoli di questa opera. Nello studio sulla Nascita di Dio riuscimmo a cogliere le relazioni tra Chiesa e grazia: la Chiesa genera e forma in noi il Cristo mistico 2. La serie di articoli Mysterium Lunae e il capitolo Flumina de ventre Christi andarono anche più a fondo: la fertilità soprannaturale della Chiesa si rivela come ripetizione della morte e della gloria di Cristo 3 . In Antenna Crucis stimi, Roma 1720, v. I, p. 360SS. - T H . MAMACHI, Origine; et antiquitates christianae (ed. Roma 1846), v. HI, p. 68ss. - FR. MUNTER, Sinnbilder uni Kunstvorstellungen der alien Christen, Altona 1825, p. 92S. FR. NORK, Der Mystagog oder Deutung der Geheimlehren unii .Feste der christlichen Kirche, Lipsia 1838, p. H2ss. - F. PIPER, Mythologie der christlichen Kunst von der dltesten Zeit bis in 16. Jahrhundert, Weimar 1847, v. I, parte I, p. 2i8ss. - J. KREUSER, Christliche Symbolik, Bressanone 1868, p. 253SS. - R. GARRUCCI, Storia dell'arte cristiana. Prato 1872, v. I, p. 202ss. - FR. X. KRAUS, Realenzyklopàdie der christi. Altertiimer, Friburgo 1886, v. II, p. 729SS (J. WILPERT). - C. M. KAUFMANN,

Die sepulkralen Jenseitsdenkmàler der Antike und des Urchristentums, Magonza 1900, p. 178SS. - J. SAUER, Symbolik des Kizchengebàudes, Friburgo 1902, p. ioos; edizione speciale dei supplementi alla seconda edizione, Friburgo 1924, p. 393. - H. LECLERCQ, Navire, in Dici. d'Archéol. chrét. et de Lit., v. XII, 1, Parigi 1935, col. 1008-1119. Per la più recente letteratura su « Nave (Arca) = Kirche » cfr. più sotto a p. 871, nota 1. 1 Cfr. sopra a p. 13-143. * Cfr. sopra a p. 145-287; 289-394.

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questa dommatica fa un passo ulteriore: vedremo che la croce di Cristo è il mistero, carico di significati, della Chiesa, della sua essenza, del suo destino, della sua meta eterna. La teologia dei Padri della Chiesa ha avviluppato tutto ciò nei concetti simbolici in voga sin dai primordi, concetti che vedevano nella Chiesa quella grande nave, a cui è affidata la nostra eterna salvezza: Chiesa è navigazione verso il portus salutis. Chiesa è viaggio pericoloso e, allo stesso tempo, meraviglioso: pericoloso, perché non è ancora giunto in porto; meraviglioso, perché è luogo unico di sicurezza in mezzo al mare procelloso. Questa nave della Chiesa è costruita con il legno della Croce, e il suo ritorno in patria è garantito dall'albero con il quale il pennone della vela, postogli di traverso, forma la la croce: antenna crucis. Come si vede dunque noi abbracciamo un vasto e confusamente complesso capitolo di antica simbolica cristiana e lo riconduciamo ai suoi concetti dominatici fondamentali, iniziando dalla teologia del secolo, quando il martire GIUSTINO scriveva: « Non si può veleggiare attraverso il mare, se sulla nave il tropaion della croce, l'albero, non è intatto » 4 , e risalendo sino al primo medioevo, quando, nel canto di Ezzo risuona ancora una volta tutta l'antica tradizione cristiana, riassunta in accenti tedeschi: Ο crux Salvatori? tu sei la nostra asta della vela 4 Apologia, I, 55, 3. 4 (ed. OTTO I, 1, p. 150, l.'ijs). Cfr. per que­ sto F. J. DÒLGER, Die Some der Gcrechtigkeit uni der Schwarze. Miinster 1918, p. 137, nota 4.

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questo mondo è il mare il regno dei cieli è la nostra patria.

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La simbolica patristica della Chiesa come nave è molto utile alla dommatica per esprimere l'incertezza e la certezza della salvezza, fondate sul legno della croce e che sussistono nella Chiesa finché questa sarà in pieno viaggio sul mare del mondo. Per comprender questa simbolica nel suo divenire storico, dobbiamo distinguere, come abbiamo fatto già negli studi del Mysterium lunae, tra ciò che proviene dalla Bibbia e lo sviluppo chiarificativo derivante semplicemente dalla cultura antica. Qui senza dubbio questa simbolica trae la sua forza principale dalle due immagini bibliche delia Chiesa: l'arca di Noè e la Jbarca di Pietro. La nostra esposizione doveva muovere, pertanto, dalla storia patristica di questi due simboli, il secondo dei quali oggi è ancora straordinariamente vivo nel pensiero ecclesiale. Questa esposizione sarebbe già di per sé estremamente ricca, sia quanto a contenuto, sia quanto ad influsso. « Dies me deficiet si omnia arcae sacramenta cum Ecclesia componens edisseram », dice persino un GEROLAMO non troppo abituato al pensiero allegorico e . Questo sviluppo sorprendentemente ricco della teologia biblica della nave già basta da solo a mostrarci l'influsso determinante che la cultura del mondo nautico ellenistico-romano del Mediterraneo ha esercitato sulla formazione e sulla popolarità della * Kkinere deutsche Gedichte des XI. una XII. Jahrhunderts, a cura di A. WAAG, Altdeutsche Textbibliothek voti H. Paul, v. io. Halle 1916 p. 15S. • Dial. aàv. Luciferianos, 22 (PL 23, 176 C).

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simbolica nautica. Si vedrà, in un prossimo studio, che ancor oggi negli scritti dei Padri della Chiesa si ode rumoreggiare quel mare intorno al quale era adagiato il mondo antico e sul quale i messaggieri di Cristo portavano ai popoli il carico di grazia del Vangelo, e « si vedono le magnifiche navi, che fanno spiccare sull'onda azzurra le loro bianche vele, quali colombe che volteggiano lontane sul mare » 7. In queste superbe triremi e nei mercantili alessandrini carichi di granaglie, l'occhio del cristiano, avido di simboli, vedeva l'immagine della sua Chiesa. Albero e pennone erano per lui il segno della croce salutato segretamente e con riverenza; tutta l'attrezzatura della vela e l'equipaggiamento, dai contenitori per acqua dolce ammassati nella stiva, sino alla più alta vela dell'albero, tutto era interpretato simbolicamente, andando al di là di qualsiasi immagine biblica. Già IPPOLITO è un validissimo testimone di ciò 8 . Ma anche l'orrore, caratteristico degli antichi, al cospetto del mare insidiosamente cattivo, di fronte al pericolo di un viaggio in mare, che provoca l'ira della divinità, dinanzi allo sfortunato naufragio, i cui effetti si sentono sino nell'ai di là: tutto ciò esercita un influsso, anche se non come convincimento, tuttavia come stato d'animo, sulla teologia patristica della Chiesa. Anche la Chiesa è 7 AMBROGIO, Exameron, 4, 6, 26 (CSEL 32, i, p. 133, 1. 14-17). Cfr. anche il passo proveniente da un ignoto apocrifo in IPPOLITO, De Antichristo, 15 (GCS Ippolito, 1, 2, p. 12, 1. 8s): λευκανεΐ τήν Φαλάσσαν άπο των ιστίων των πλοίων αύτοϋ. 8 De Antichristo, 59 (GCS Ippolito, 1, 2, ρ. 39. 1. 12 - ρ. 40, 1. 9)· Questa esposizione fondamentale verrà trattata più a fondo dopo, in parte per correggere ciò che viene detto, a sua spiegazione, da F. J. DÓLGER, Sol Salutis, Miinster 1925, 2 ed., p. 274SS.

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il grande rischio di un viaggio per mare, il cui esito è ancora angosciosamente incerto: la Chiesa è la nave perigliosa, senza la quale, però, non c'è salvezza, sulla quale soltanto scampiamo alle fragorose tempeste e alle seducenti tentazioni del viaggio della vita sino all'ingresso nel porto sicuro : sostenuti dal « legno », ossia dalla croce, guidati dal « legno », ossia dall'albero della croce. « Transivit navis et venit in patriam. Sed ad patriam non nisi per navem. Navigavimus enim, si attendamus fluctus tempestatesque huius saeculi. Nec dubito quod ideo non mergimur quia crucis ligno portamur », dice AGOSTINO 9. Perciò, il cristiano solca il mare cattivo di questo mondo con pericolosa sicurezza soltanto quando si stringe all'albero della sua nave: quando abbraccia la croce del Signore, che si erge in mezzo alla Chiesa. Garanzia di felice approdo non è la « mistica » infruttuosa contemplazione dell'altra riva dell'eternità, come sostenevano i platonici, ma l'umile abbraccio dell'albero da parte del cristiano che, pur vedendo confusamente con i deboli « occhi » della fede, proprio per questo è fermamente stretto ad esso, come dice ancora una volta con profondità un AGOSTINO: «Instituit lignum quo mare transeamus. Nemo enim potest transire mare huius saeculi nisi cruce Christi portatus. Hanc crucem aliquando amplectitur et infirmus oculis; et qui non videt longe quo eat, non ab illa recedat et ipsa illum perducet » 10 . Ora proprio questo è il punto ove subentra il nostro studio che, non soltanto è primo, ma nello stesso • Augustini tractatus seu sermones inediti, a cura di G. MOKIN, Kempten-Monaco 1917, p. 125. 10 Tractatus in Ioannem, 2, 2. 3 (PL 35, 1389S).

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tempo deve anche avere il carattere di un'intonazione. Di fronte al cristiano che naviga verso il porto dell'eternità, che, per sfuggire ai pericoli e approdare sicuro in patria, si tiene stretto all'albero della croce, la riflessione simbolica del cristiano educato ellenisticamente si sentiva trasportata con il ricordo verso il più celebre tra i navigatori, verso Ulisse, che, per sfuggire alle seduzioni delle sirene, si fece legare all'albero della nave. Questo mito omerico era familiare ai Padri sin dai tempi della loro formazione scolastica. Essi lo applicarono anche là, dove non si tratta più di una spiegazione allegorica cristiana. Gerolamo ci dipinge vivacemente il suo viaggio per mare da Porto Romano a Reggio, quando, con la mente piena di ricordi antichi, attraversa lo stretto di Sicilia, nel quale, sin dai tempi remoti, si pensava che fosse la sede delle sirene : « In Scyllaeo littore paululum steti, ubi veteres didici fabulas et praecipitem pellacis Ullyssis cursum et Sirenarum cantica et insatiabilem Charybdis voraginem» 11 . In un contesto spassoso, SINESIO DI C I RENE, vedendo sulla sua nave uno schiavo che avevano dovuto legare sul ponte di coperta per impedirgli di andarsi a scolare gli otri di vino nella stiva, si ricorda di Ulisse legato 12. Già ORIGENE, nella polemica con Celso, cita il mito omerico 13 ; e, nella polemica umanisticamente cortese del pagano LIBANIO con il vescovo Basilio, questo retore vi prende lo spunto per indirizzare un garbato complimento all'uomo di 11

Apologia adv. libros Rufini, 22 (PL23, 473 B). " Epistola 32 (PG 66, 1361 B). 13 Adv. Celsum, 2, 76 (GCS Origenes, I, p. 198, 1. 20); cfr. anche 5, 6^ (GCS Origenes, Π, ρ. 67, 1. 21-25).

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Cesarea14, mentre lo stesso BASILIO, nello scritto ai giovani e in una sua lettera, fa risuonare tali motivi in un senso più pregiudizievole15. Ancora Boezio presenta la sua matrona, la consolatrice Filosofia, nell'atto di allontanare dal giaciglio di Boezio le Sirene, con le famose parole, citate volentieri nel medioevo : « Sed abite potius sirenes usque in exitum dulces, meisque cum musis curandum sanandumque relinquite » 16 . Questo mito dell'antichità, così familiare a tutte le persone colte, apre alla simbolica patristica della Chiesa un ricco mondo di allegorie. Ne parleremo ora, per Cogliere, dietro il velo delle immagini, la profonda teologia della Chiesa e della croce, a partire dalla quale i Padri si impadroniscono della forza dell'immagine mitologica. Lo faremo seguendo tre direzioni di pensiero: i. Il cristiano come navigatore in viaggio verso la patria celeste; 2. La tentazione delle sirene e il suo significato allegorico nella tradizione cristiana; 3. Il cristiano, quale nuovo Ulisse, che, legato all'albero della croce, supera la tentazione.

1. IL CRISTIANO COME NAVIGATORE IN VIAGGIO VERSO LA PATRIA CELESTE

Il viaggio per mare è, per designare in breve lo statò d'animo dell'uomo antico dell'ambiente medi11 Lettera di Libanio a Basilio, presentata come lettera 345 della collezione di lettere di Basilio (PG 32, 1089 B). 15 Ad adolescente*, 2 (PG 31, 568 D; 569 A). - Epist. 147 (PG 32, S9óD). '· Philos. Consol., 1, i, il (CSEL 67, p. 3, 1. I3s).

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terraneo, «meraviglioso e pericoloso per la vita nello stesso tempo». Per ben comprendere la simbolica cristiana della nave, è importante far rivivere qui questo atteggiamento, servendoci di alcune testimonianze scelte tra tante: anche la Chiesa infatti è come una nave, che si trova in viaggio verso il cielo: un viaggio meravigliosamente audace e, allo stesso tempo, pieno di pericoli. In una quartina dell'Anthologia Graeca, il poeta si augura di condurre una vita calma, pacifica, sulla terraferma, contrariamente a quella del mercante spinto verso la morte dalla passione del guadagno : « Non l'ondeggiare del mare, né la spumeggiante tempesta portano la morte, ma la meschina e gretta ricerca di guadagni nei commerci. Mi sia concessa dunque una vita modesta a terra. Si godano pure gli altri il guadagno ricavato dalla navigazione che combatte contro la tempesta » : ούτε σε πόντος βλεσσε και ου πνείοντες αήτοα άλλ' άκόρητος έρως φοίταδος έμπορίης εϊη μοι γαίης ολίγος βίος, έκ δε θ-αλάσσης 17 άλλοισιν μελέτω κέρδος άελλομάχον . È da questo stato d'animo quasi romantico che prende le mosse un delizioso brano di una predica di AGOSTINO, che si potrebbe senz'altro designare co17 Anthologia Graeca, 7, 586 (ed. BECKBY, II, 345) : « Non il mare, né i venti minacciosi ti distrussero, bensì l'indomabile cupidigia del mercante, che lo attira al largo. Possa la terra concedermi di vivere modestamente, il cuore trascini gli altri verso il guadagno ottenuto combattendo il mare». - Cfr. SiNESio DI CIRENE, De providentia, s (PG 66, 1273 A) : descrizione dell'età aurea, quando non si viaggiava ancora con navi attraverso il mare infido. Con versi presi dai Feno-

meni di ARATO.

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me un antico canto di marinai. Il predicatore presenta le singole professioni civili nell'atto di esaltare i propri pregi, per poter poi esprimere più efficacemente la nullità di tutto ciò che è terreno. Il navigatore dice: « Navigare et negotiari magnum est! Scire multas provincias, lucra undique capere, non esse obnoxium in civitate alicui potenti, semper peregrinari, et diversitate nationum animum pascere, et augmentis lucrorum divitem remeare» 18 . Quale inganno, pensa Agostino a proposito di questa canzonetta di marinai: « Uno naufragio nudus exibis ! » Il suo più giovane contemporaneo, il poeta pagano AVIBNO, ha così espresso il ribrezzo antico per il fragoroso mare notturno e per i suoi insidiosi pericoli, e il vivo desiderio della costa sicura: «Tum quoque si piceam spectaris surgere noctem informem taetris tellurem ut vestiat alis litus ama, solers fuge caerulea tegmina noctis exitiurnque sali rabidique pericula ponti »19. Battere il « mare infido » servendosi di tutte le arti nautiche inventate dall'ingordigia dello spirito umano, è sempre parso agli antichi una temerità che provoca l'ira degli dei. « Provocazione della morte », così la chiama Plinio il Vecchio. Egli, trattando della coltura del lino, giunto al centro della sua dissertazione di botanica, introduce molto pateticamente urta considerazione sulla inaudita temerità di coloro che da queste piante ricavano tele da impiegare come vele di navi: « Audax vita, scelerum piena! Aliquid seri ut " Enarr. in Psalm. 136, 3 (PL 37, 1762 D). " ARATO, II, v. 673-676.

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ventos procellasque recipiat?» E non si è contenti di una sola vela: al di sopra delle antenne si deve porre ancora una vela di cima, a poppa si aggiunge una vela anteriore (Γanemone, di cui agli Atti 27,40), per invocare così, in tutti i modi possibili, la morte: « Ac tot modis provocari mortem » 20 . Lo stesso concetto risuona commovente nel coro del secondo atto della Medea di SENECA, che inizia con le frasi: « Audax nimium qui freta prius rate tam fragili perfida rupit » 21 . Questa impresa è temeraria soprattutto perchè il navigatore giuoca con la morte, la guarda direttamente negli occhi, non solo con l'arte di governare le vele, ma già conia fragilità del materiale'usato per costruire la nave, questo «pezzo di legno scavato»: «Et prope tam letum quam prope cernit aquam», dice OVIDIO negli Amores 22 . Di qui proviene l'espressione proverbiale, secondo cui il navigatore sarebbe separato dalla morte soltanto dallo spessore della nave, da quattro dita. Così GIOVENALE: « I nunc ait ventis animum committe, dolato confisus Ugno, digitis a morte remotus quattuor aut septem, si sit latissima taeda » 23 . Gregorio Nazianzeno, che ci ha dipinto in modo così incomparabile la grande esperienza avuta da gio" Nat. fluì., 19, I, § 1. al Medea, 30IS. - Cfr. anche ORAZIO, Carni., I, 3, 25S.: «Audax omni perpeti gens humana ruit per vetitum uefas ! ». Qui, come pure in PROPERZIO, III, 7, nel famoso canto di Peto si esprime il medesimo sentimento romantico-letterario del mare. Cfr. A. LESKY, Thalatta. Der Weg det Griechen zum Meer, Vienna 1947. " Amores, II, 11, 26. 23 Satire, 12, 57-S9.

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vane accademico, il suo naufragio tra Alessandria e Rodi 24 , in uno slancio poetico canta il « mare nudo » privo di misericordia, simbolo della vita umana, sul quale viaggia il navigatore, sempre sul punto di incontrare la «gelida morte»: ώς άεΐ κρυεροΐο παρεσταότος θ-ανάτοιο 25 . Eppure, fa parte di questo quadro dello antico sentimento del mare anche la gioia per la temeraria navigazione: questo sentimento eroico viene attribuito anche agli dei, i quali benedi­ cono questo coraggio con il successo. La solenne pre­ ghiera, in cui prorompe STAZIO nel suo Propempticon a Mezio Celere, inizia con le parole: «Di quibus audaces amor est servare carinas saevaque ventosi mulcere pericula ponti, sternite molle fretum, placidumque advertite votis condlium, et lenis non obstrepat unda precanti » 2 6 . Di qui nasceva la persuasione, che soltanto con l'aiuto degli dei sia possibile una felice navigazione. Lo si può avvertire nella teodicea stoica e persino in quella cristiana, là dove è affrontata la questione come mai i cattivi spesso siano così fortunati, come mai gli dei accordino ai tiranni e ai ricchi mercanti una fortunata navigazione. LATTANZIO narra che il beffardo Dionisio di Siracusa si sarebbe vantato dicendo : « Videtisne, quam prospera sacrilegis navigatio ab ipsis diis immortalibus tribuatur?» 27 . I nomi che si davano alle navi esprimono chiaramente questa fiducia nella 14 Oratio 18, 31 (PG 35, 1024S.) - Carmina, Π, 1. 1, vv. 307-319 (PG 37, 993s). - Carmina, Π, 1, 11, w. 124-174 (PG 37, 1037-41). *» Carmina, I, 2, 31, w. 1-4 (PG 37, 91OS.) si Silvae, 3, 2. w. 1-4. !7 Div. Instit., 2, 4, 25. 26 (CSEL 19, p. 112, 1. 2-tì). C&. CICERONE, De nat. deor., 2, 34, § 83.

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vittoria, questa fiducia di poter giungere, sostenuti dalla protezione divina, nel porto della patria: i nomi di navi che ricorrono più frequentemente nei testi (oltre ai nomi propri di dei, come ad es. anche in Atti 28,11), sono Νίκη, Σωτηρία, Τροπαία, Fides, Pietas, Salus, Triumphus 2 8 . Come dovette essere facile, sin dai tempi remoti, per i popoli navigatori della cultura mediterranea, assumere nella simbolica tutto questo mondo di arti e di esperienze nautiche. La traversata della vita: dai tempi di PLATONE se ne parla con nu­ merosissime variazioni 29 . Sarebbe impossibile schiz­ zarne qui un quadro anche soltanto approssimativo. Il viaggio verso il porto della morte fa parte della etica della stanchezza della vita di SENECA : « In hoc procelloso mari navigantibus nullus portus nisi mortis » 3 0 . In questo viaggio sul « mare infido » 3 1 , l'uomo è spinto da seduzioni di ogni specie verso la strada sbagliata: « Chiunque attraversi questa vita presente come su di una nave », dice l'Anonimo della Διήγησης, è circondato dalle sirene delle tentazioni 32 ; egli viene sbattuto qua e là dal mare purpureo dell'erotico, canta 33 FILODEMO in un epigramma . Morte e soddisfazione sono contenute nella navigazione. Ancora una volta è GREGORIO DI ΝΑΖΙΑΝΖΌ, che nelle sue poesie piene di finissima immaginosità, appartenenti alla tarda *» Cfr. E. CARTAULT, La trière Athénienne, Parigi 1881, p. io8ss. RE, Suppl. V, 1931, col. 946, 1. 55SS (F. MILTNER). M PLATONE, Leges, 803 B. Cfr. ad esempio ancora Anthologia Graeca, io, 65. 30 Dialogus ad Heìviam matrem de consolatione, 12, 9, 7. 31 PLINIO IL GIOV. ,Panegyricus Traiani, 66, 3. 33 'Επίτομος διήγησις εις τάς καθ·' "Ομηρον πλάνας τοϋ 'Οδυσσέως, § 12. 33 Anthologia Graeca, 10, 21 (BECKBY, III, 486).

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grecità, esprime questo sentimento : « Questo lo uccide il mare, l'altro dispiega la sua vela splendente e attraversa il mare, lieto ammirando questo grande sepolcro dei naufraghi » 3i. Ora, questa nave pericolosa, eppur navigante in fretta verso il porto della patria, per gli antichi cristiani è la Chiesa. Negli empori di Porto Romano, di Alessandria e di Efeso non si poteva trovare un simbolo più bello della situazione della Chiesa peregrinante nel suo « essere tra » la certezza della salvezza, che essa offre in mezzo al letale mare del mondo, e il pericolo derivante dal non essere ancora giunta nel porto celeste. Essa ha coraggiosamente e definitivamente tirato su la sua ancora e si è allontanata da terra: ma tutta la sua speranza si trova al di là delle onde, là dove l'eternità allarga le braccia come le mura maternamente protettrici di un porto. IPPOLITO ha esposto tutto ciò con una simbolica ricca di immagini. Come la nave non lascia orme dietro di sé nel suo incedere, così avviene anche alla Chiesa, che si muove attraverso questo mondo come attraverso un mare; essa lascia le sue speranze dietro di sé sulla terraferma, poiché essa ha già riposto tutta la sua vita in cielo 35. Per esprimerci con il linguaggio teologico di CLEMENTE ALESSANDRINO, dietro di essa c'è la συνήθεια, l'antica 34 Carmina, I, 2, 1, De virginitate, w. 684SS (PG 37, 574A). Carni., 2, 1, 23 (PG 37, 1282 A ) . 35 Frammento 3 sui Prov., 3019 (GCS Ippolito, I, 2, p. 165). 38 Sulle benedizioni di Giacobbe, 20, in Texte u n d Untersuchungen 38, Lipsia 1912, p. 35, 1. 11-18. - Cfr. AMBROGIO, De Patriarchis, 5, 27 (CSEL 32, 2, p. 140, 1. 5-7): «Praesto sit Ecclesia t a m q u a m portus salutis, quae expansis bracchiis in gremium tranquillitatis suae vocet periditantes l o c u m fidae stationis ostendens ».

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vita e costumanza pagana, e dinanzi ad essa c'è ancora soltanto il « porto del cielo, verso il quale lo Spirito Santo ci fa confluire » 37. Si tratta dunque di cosa genuinamente greca e allo stesso tempo profondamente cristiana, quando Clemente paragona la vita della fede all'antica impresa di un viaggio per mare : « Come nei viaggi per mare, l'allontanarsi dalla rotta normale, anche se può arrecare danno ed esporre al pericolo, è tuttavia una sorta di gioia seducente, allo stesso modo anche noi, nel viaggio della nostra vita, non dovremmo lasciare dietro di noi la cattiva costumanza, piena di passioni, irreligiosa, e rivolgerci alla Verità?» 38 . È per questo che spesso il cristiano porta sul sigillo del suo anello una immagine di nave con le vele spiegate, di una nave che viaggia verso il cielo 39 ; è per questo che Clemente, nella preghiera del Logos del Pedagogo, invoca « la bonaccia del santo Pneuma, in cui possiamo attraversare la risacca del peccato per giungere al sacro sbarco del regno di Dio » 40 . Il pericolo deve esserci; senza ondeggiamenti e tempeste la nave della Chiesa non può mai giungere alla patria riva dell'ai di là, dice ORIGENE: ού γαρ γυνατον μή πειρασμούς ύπομείναντας κυμάτων καΐ άνεμου εναντίου εις το πέ­ ραν φθ-άσαι 4 1 . Conseguentemente, i1 pensiero dei teo37

Protrepticon, 12, 118, 4 (GCS Clemente, I, p. 83, 1. 26s). Prctr., io, 89, 2: (I, p. 66, 1. 12-15). 38 Paidagog., 3, i l , 59, 2: (I, p. 270, 1. 7s). I modi di leggere qui variano, ναϋς ούριοδρομοΰσα oppure ούρανοδρομοϋσα, cioè una nave che viaggia « con vento favorevole nella vela » ο « verso il cielo ». 40 Paidagog., 3, 12, ιοί, ι (I, p. 291, 1. 4-6). 11 Commentarti in Evangelium secundum Matthaeum, il (GCS Origenes, X, p. 43, 1. 285). - Cfr. anche Homiliae in Josue, 19, 4 (GCS Origenes, VII, p. 413, 1). 7-9: la traversata del « mare salato » è « vitae huius undas et turbines superare et evadere omnia, quae in hoc mundo 88

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logi dei primi tempi della Chiesa va verso il mito di Ulisse che naviga alla volta della patria. La sua navigazione è un simbolo della vita cristiana, anche se si tratta di una «fabula fida non facta», come nota MASSIMO DI T O S I N O 4 2 . Inoltre, ONORIO DI AUTUN predica che gli insegnamenti del mito di Ulisse sono «mystica quamvis per inimicos Christi scripta» 43 . Dalla massa delle testimonianze patristiche, che potrebbero essere addotte per la rappresentazione del viaggio della vita del cristiano attraverso il mare del mondo, saranno menzionate qui soltanto quelle, che provengono immediatamente dal tema cristiano di Ulisse. È quasi naturale che la prima applicazione della leggenda di Ulisse si incontri in CLEMENTE ALESSANDRINO. Egli ha cornato per Ulisse la designazione, cne poi ritorna spesso, di « vecchio di Itaca ». Il navigatore che scruta l'orizzonte per scorgervi il fumo che si leva dalla patria terra, è per lui il simbolo di quell'uomo, che, nel viaggio della vita, non pensa al porto della pace eterna, ma soltanto al guadagno terreno. Non prò incerto sui et lubrico marinis fluctibus comparantur ». - Per la simbolica della « vita come traversata pericolosa » cfr. ancora C I PRIANO, Ad Donatum, 3 (CSEL 3, ι, ρ. 5,1. 1-4). - GREGORIO NAZIANZENO, Oratio 37, 1 (PG 36, 284 B). - AGOSTINO, Enarrationes in Ps. 103,

4. 5 (PL 37, 1380-81): sul mare «pauroso» e sulla nave della Chiesa che naviga su di esso e che tuttavia non affonda, ma veleggia verso la « terra della tranquillità ». - GREGORIO MAGNO, Homilia 24, 2 (PL 76 1184D, 1185A): «Quid enim mare nisi praesens saeculum sigimi, quod se causarum tumultibus et undis vitae corruptibilis illidit? Quid per soliditatem littoris nisi Illa perpetuitas quietis vitae aeternae figuratur? » - Cfr. anche Homilia 11, 4 (PL 76, 1116 BC). - Moralia, 17, 30 (PL 76, 31 D; 27, 18: 471 C ; 29, 12: 489 C). " Homilia 49 (PL 57, 340 B). ** Speculum Ecclesiae, Homilia in Septuagesimam (PL 172, 855 D).

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così i cristiani. « Noi abbiamo riposto la nostra speranza nel Dio vivente..., gli altri invece (così egli continua con un'immagine tolta in prestito a Platone44) si abbarbicano al mondo come certe specie di alghe alle rocce del mare, e non si preoccupano dell'immortalità, poiché, come il vecchio di Itaca, anch'essi non aspirano alla verità e alla patria celeste e alla luce veramente esistente, ma soltanto al fumo »45. Alla fine del Protreptico, ancora una volta la sua mente ritorna al mito del navigante Ulisse, che le maliarde sirene vogliono stornare dal viaggio verso la patria. Qui il vecchio di Itaca diventa il modello del cristiano, e le sirene l'incarnazione della dolce ma letale συνήθ-εια. Se il cristiano si comporta come Ulisse, egli entrerà nel porto del cielo; «vedrai allora il mio Dio e sarai consacrato a quei santi misteri e potrai gustare ciò che è nascosto in cielo, che né orecchio ha udito né è mai venuto nel cuore di un qualsiasi uomo »46. Il mito di Ulisse e delle sirene è ancor più vivo per romano, per il fatto che egli, come più tardi Gerolamo e anche Metodio, stando ali antica tradizione greca, vedeva nello stretto del mar di Sicilia il luogo ove le sirene cantarono al rimpatriante, che passava veleggiando, il loro canto dolce e letale. La Chiesa è per IPPOLITO il porto tranquillo; i flutti agitati el mare sono le dottrine degli eretici: « Questo mare è pieno di animali feroci ed è difficilmente transitabile, è qualcosa come il mar di Sicilia, di cui si tramanda il racconto secondo cui vi si trova il monte delle sirene. IPPOLITO

44

PLATONE, Polii, io, 6n D.

*» Protreptkon, 9, 86, 2 (I, p. 6+, L 26-31). " Protreplicon, 12, 118, 4 (I, p. 83, I. 27-30).

I

414

L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

Stando ai poeti greci, Ulisse veleggiò verso di esso» 47 . Il cristiano deve imitarlo in ciò e deve agire allo stesso modo: soltanto così raggiungerà «il porto tranquillo ». Da allora in poi, ogni volta che il mito omerico viene interpretato cristianamente, si parla del mare infido del mondo, su cui il cristiano e la Chiesa debbono viaggiare per poter raggiungere la patria. Si sente l'eco del pensiero antico, quando AMBROGIO dice: « Quod autem mare abruptius quam saeculum tam infidum, tam mobile, tam profundum, tam immundorum spirituum flatibus procellosum? » 48 . Oppure, quando GEROLAMO scrive : « Et nos patriam festinantes mortiferos sirenarum cantus surda debemus aure transire» 49 . MASSIMO DI TORINO predica a proposito del « cursus melioris vitae », il ritorno « ad patriam »50. Neppure il primo medioevo ha dimenticato il mito omerico rivestito cristianamente51. È come se si trattasse di un'ultima eco del mondo omerico del mediterraneo rumoreggiante, quando in una predica di papa Innocenzo III ascoltiamo un bel canto di dolore, tutto soffuso del tedio del mondo, rivolgersi 41 Elenchos, 7, 13, 1-3 (GCS Ippolito, III, p. 190,1. 21 sino a p. 191, e. n ) . Per la localizzazione del racconto delle sirene in Sicilia, in particolare nell'arcipelago delle Sirenuse ο sulla terraferma che sta di fronte ad esso con il Monte delle Sirene, cfr. le testimonianze anti­ che in G. WEICKER, Der Seelenvogel in der alien Literatur una Kunst, Lipsia 1902, p. óoss; p. 40; p. 73. - RE III A, 1, col. 308, 1. 17-45. Λί Expositio in evangelium secundum Lucam, 4, 2 (CSEL 32, 4, p. 141, 1. 1-3). 49 Capituìationes libri Josue, praef. (PL 28, 464 B). 50 Homilia 49 (PL 57, 339 CD). 51 Cfr. soprattutto DUNGAL SCOTO, Epist. 6 (MGH Epist. IV, p. 581, 1. 9-13): «Ut non in huius formidando saeculi pelago navigantes... Serenarum loetiferi cantus vos oblectent ».

ULISSE ALL ALBERO DELLA NAVE

415

al « mare amaro di questo mondo » con i suoi dolci incantesimi delle sirene 52 .

2. LA T E N T A Z I O N E DELLE S I R E N E

Grazie all'immortale canto di Omero, il mito della tentazione di Ulisse ad opera delle sirene è diventato bene comune di tutte le culture che, in qualche modo, sono formate dallo spirito greco, oppure continua a sopravvivere un pò miseramente oggi, come già nel periodo ellenistico, nella sbiadita immagine fantasiosa delle « sirene » come simbolo di bellezza incantatrice mortale. Non c'è da meravigliarsi dunque se i Padri, avidi di simboli, si servano anche del mito delle sirene nella sfera della loro rappresentazione della navigazione cristiana verso la patria celeste. L'incalcolabile massa di testimonianze letterarie e di rappresentazioni artistiche di ogni genere appartenenti al periodo ellenistico ci mostra tuttavia quanto sia stato popolare, e quanto abusato, il racconto delle sirene e il loro significato allegorico nell'ambiente in cui viveva il giovane cristianesimo. La scienza dell'antichità si è occupata alacremente e con buoni risultati dell'origine e del cambiamento di interpretazione della raffigurazione prettamente greca delle sirene 53 . Ma in questo lavoro, " Sermo 2 2 : PL 217, 555; Sermo 6 (PL 217, 617 C ) . 63 Cfr. G. W E I C K E H , De Sirenibus quaestiones selectae (Diss.), Lipsia 1895. - Opera principale: G. W E I C K E R , Der Seelenuogel in der alteri Literatur und Kunst, Lipsia 1902. - W . H. ROSCHER, Lex. d. griech. u. ròm. Mythologie, IV (1909-15) col. 601-639. - RE III A, 1 (Lipsia, 1927), col. 288-308 ( Z W I C K E R ) . - RE XVII, 2 (Lipsia 1937). col. 1972^1976 (E. WtìsT). - DAREMBERG-SAGLIO, V (Parigi 1911), p. 574-583·

416

LECCLESIOLOGIA. DEI PADRI

la sopravvivenza di questo motivo nella letteratura cristiana dall'antichità sino ad oggi, è stato trattato soltanto superficialmente. E ciò che è stato esposto nelle opere di archeologia cristiana attorno all'interpretazione cristiana del mito omerico in una lista, ormai da tempo stereotipa, di testi patristici continuamente ripetuti, sino alla recente opera di J. WILPERT sugli antichi sarcofaghi cristiani, non basta per comprendere l'interessantissimo itinerario percorso dall'interpretazione cristiana del mito 5 4 . Occorre pertanto leggere i testi patristici con la maggiore completezza possibile, per mostrare se e in qual modo i Padri si rifacciano ad un'allegoria precristiana delle sirene già esistente e in qual modo la simbolica cristiana si sviluppi indipendentemente da essa. Il carattere originario, derivante dall'antichissima religione greca, delle |Jgg9jvjg, che etimologicamente vuol dire « affascinanti », « incantatrici », era quello di spettri vampirei, che vivono di sangue 55 . Questa loro natura fu trasformata, ad opera della poesia omerica,

54 Per l'allegoria cristiana delle sirene cfr. J. KREUSER, Christliche Symbolik, Bressanone 1868, p. 271S. - R. GARRUCCI, Storia dell'arte cristiana, Prato 1872, v. 1, p. 258SS: Ulisse alle Sirene. - FR. X. KRAUS, Realenzyklopàdie der christl. Alteriiimer, Friburgo 1886, v. II, p. 520S (DE WAAL). - FR. X. KRAUS, Roma sotterranea. Die ròmischen Katakomben. Ene Darstellung der neuesten Forschungen, Friburgo 1873, p. 311. - La simbolica cristiana delle sirene è riassunta brevemente

in G. WBICKER, Der Seelenvogel, p. 83S. - ICE III A, 1, col. 300, 1. 34-

55. - RE XVII, 2, col. 1974, 1· 32-39· - G. KOHL, Das Melusinenmotiv, in Niederdeutsche Zeitschrift fiir Volkskunde, 1933, p. 185. J.WILPERT, I sarcofaghi cristiani antichi, Roma 1929-1935, testo p. 14-16, Immagini, v. I, tavole XXIV e XXV. 55 Cfr. G. WEICKER, Der Seelenvogel, p. 2ss. - Per l'etimologia cfr. RE III A, 1, col. 289, 1. 18 sino a col. 290, 1. 30.

OLISSE ALL ALBERO DELLA NAVE

417

e ancor più per merito di ESIODO ed ALCMANE, ma soprattutto mediante la commedia burlesca attica: TERTULLIANO però parla ancora delle « fauci sanguinose » delle sirene56. Sotto l'influsso di OMERO, ciò che affiora in primo giano non è più il cruento «incanto», in senso realmente feroce, come si vede ad esempio nel grande vaso greco orientale di Berlino 57 , bensì il fascino del loro canto e deljoro aspetto. Senza alcun dubbio qui subentrò un antichissimo elemento della erotica che è già caratteristico degli spettri e che contribuì alla vittoria di quella interpretazione, che vede nelle sirene delle donne incantevolmente belle, di cui soltanto gli artigli stanno ancora ad indicare la fatalità dei loro incantesimi58. Così sin dall'inizio nella rappresentazione delle sirene si riscontra questo duplice e in un certo senso piccante momento: quel che vi è di più incantevole in esse è, precisamente, anche ciò che vi è di più pericoloso. Esse sono dolci e fatali, celestiali e infernali. Ciò appare immediatamente chiaro in PLATONE: egli ha fatto delle sirene degli esseri che prorompono nel canto delle sfere del mondo celeste 59, che hanno « piedi leggiadri ed ah dorate », come dice un frammento genuinamente platonico di EURIPI-

56 Apologet., 7, 5 (CSEL 69, p. 19,1. is). - Anche IPPOLITO chiama le sirene «bestie orride, cattive»: Elenchos, VII, 13, 1 (GCS Ippolito, III, p. 190,1. 27). Cfr. WBICKEH, p. 6, nota 1. 57

R i p r o d u z i o n e in WBICKER, p . 6,

fig.

ι, e ROSCHER, Lex. d.

Myth., v. II, col. 1847. 58

W E I C H E R , p . 37SS.

59

Republ., 617 B. - Ciò esercitò un profondissimo influsso sull'immagine mistico-cosmica del m o n d o della tarda antichità. Cfr. PLUTARCO, Quaest. conv., 9, 14, 6. - M A C R O B I O , Somnium Scipionis, 2, 3, 1. - W E I C K E R , p. 56. - RE III A, 1, col. 289, 1. 14-30.

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L'ECCLESIOLOGIA

DEI

PADRI

che ci è stato trasmesso da CLEMENTE ALESSANDRINO 60 . Contemporaneamente, però, anche in Platone esse sono degli esseri ctonici appartenenti al mondo inferiore 6 1 : παρθένοι χ&ονος κόραι, le chiama ancora una volta EURIPIDE . COSÌ pure il loro canto è un «seducente canto » di sorprendente bellezza63, e tuttavia è anche un « canto dell'Ade », un canto fatale 64. Nel periodo ellenistico poi, la sapienza scolastica alessandrina, con una elaborazione euemeristica e nello stesso tempo morale simbolica, ha trasformato le sirene semplicemente in Etere, che irretiscono l'incauto con i loro canti eroticamente eccitanti65. Questa interpretazione viene espressa meravigliosamente in una figura di sirena raffinatamente ingenua, che adornava un sarcofago ellenistico egiziano66 : un pezzo questo, che riDE,

62

" Stremata, 4, 26, 172, 1 (II, p. 324, 1. 21-23). Clemente aggiunge qui una specie di applicazione cristiana di questa preghiera greca per ottenere l'ascesa verso Giove con le ali delle sirene: « Ma io prego che lo Spirito di Cristo mi fornisca di ali per volare verso la mia Gerusalemme ». - Per le sirene quali trasportatrici psicopompiche di anime cfr. lo PS.-CALLISTENE, Historia AUxandri Magni, 2, 40 (p. 90, M U L L E R ) , ove le sirene sono guide verso la μ α κ α ρ ί ω ν χ ώ ρ α . Sirene trasportatrici di anime: cfr. le riproduzioni in W E I C K E R , p. 7, fig. 4 e

5. - RE III A,

1,

col.

297,

1.

4-6;

ROSCHER, IV,

611.

" Cratilo, 403 D . - W E I C K E H , p . 58S.

"

Elena,

i68s.

* a PLATONE, Simposio, 216 Α . ; Fedro, 259 A. - SENOFONTE, M e ­

morai)., 2, 6, 11, 31. 64 SOFOCLE, fr. 777: Φ ό ρ κ ο υ κόρας &ροοϋντε τ ο υ ς " Α ι 8 ο υ ν ό μ ο υ ς . Q u i le sirene sono fighe di Forci, secondo il pensiero genuino di Esiodo ; cfr. WEICKEH, p . 49. Altrove esse sono le figlie di Acheloo : cfr. WEICKER, p . 4tìs; p . 66s. - LIBANIO le chiama cosi nella lettera a BASILIO citata sopra, alla nota 14 (PG 32, 1089 B ) . - Cfr. anche RE III A, 1, col. 295, 1. 19-35. 65

Così già nel frammento della commedia delle Sirene di E P I -

CARMO, che è conservato in ATENEO, VII, 277 F, cfr. W E I C K E R , p . 54.

Più tardi diviene comune; cfr. i testi in W E I C K E R , p. 71, nota 3. » 8 Rirpoduzioni in W E I C K E R , p. i8os, fig. 90 e 91.

ULISSE ALL'ALBERO DELLA NAVE

419

corda in qualche m o d o certa produzione del nostro roccocò. Per questo, nei suoi Incredibili, ERACLITO, seguendo la tradizione alessandrina, chiama le sirene semplicemente έταΐραι ευπρεπείς, ed è qui che ci si è fermati 6 7 . Ora cosa c'è di più facile del trasformare le sirene, mediante un'allegorismo rarefatto, in simboli del piacere sensuale? PROCLO lo ha fatto nei suoi c o m menti a Platone, conformandosi totalmente al m o d o di pensare platonico: per lui le sirene omeriche, gli esseri ctonici del platonico Cratilo, non sono altro che dei semplici simboli del piacere mondano e delle soddisfazioni sensuali, con le quali l'anima viene incatenata al m o n d o 6 8 . Parallela a questa linea di sviluppo ne corre anche un'altra, che ha avuto altrettanto peso nella formazione della susseguente nuova interpretazione cristiana. Già nell'antichissima credenza popolare, impiegata poi da O m e r o , le sirene sono « onniscienti », conoscono tutti i nomi dei passanti, la loro scienza è sovrumana, addirittura mostruosa 6 9 . Questa caratteristica del loro essere mitico, favoloso, è restata loro, e si ricollega, assieme con il loro canto seducente, ad un tipo di sirene, che mette in primo piano il loro aspetto positivo anche più di quanto non faccia quello a cui abbiamo accennato più sopra 7 0 . In base a ciò, ora si potranno chiamare « sirene » i grandi poeti e i dotti, per esaltare nello stesso tempo la loro sorprendente sapienza e la loro incantevole facondia. Così O m e r o ·' De inaedibilibus, 14. - RE III A, 1, col. 42-48. 68 Comment. in Platonis CtatyL, 157 e Commetti, in Rempubl., 34, io. - W E I C K E R , p. 59. ·· W E I C K E R , p. 38S. 70 W E I C K E R , p. 83.

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L'ECCLESIOLOGIA D E I PADRI

è una sirena, come pure Pindaro 71 . Lo stesso Aristotele riceve questa onorificenza, anche se soltanto da 72 GIULIANO l'apostata : ciò fa parte, in forma stereotipa, delle frasi di cortesia della tarda grecità, come sappiamo da SINESIO DI CIRENE 7 3 e dal bizantino MANUELE FI74 75 LES . Ma già OVIDIO parla delle « doctae sirenes » e 76 CICERONE ne dà una spiegazione allegorica .

Con ciò abbiamo tracciato le due linee fondamentali dell'allegoresi precristiana delle sirene. In esse si inserisce ora, senza soluzione di continuità, anche la spiegazione cara ai Padri della Chiesa, ed è solo a partire da esse che si deve valutare se e come l'allegoria cristiana abbia introdotto qualcosa di nuovo, e in qual modo il mito così espressivo si agganci al pensiero genuinamente cristiano. La ragione per cui i Padri hanno preferito trarre dalla ricchezza dell'avventura odissaica il mito delle sirene per servirsene nella simbolica della navigazione cristiana, non sta soltanto nella popolarità di questo motivo durante il periodo ellenistico. È piuttosto proprio lo strano duplice aspetto delle sirene, questi esseri belli e ad un tempo pericolosi, demoni dalla scienza profonda e allo stesso tempo stimolatori dei sensi, che si prestava ad esprimere i loro concetti genuina77 mente cristiani del καλός κίνδυνος , della naviga" Anthologia Graeca, IX, 184; XIV, 102 (BECKBY HI, 114; IV, 222). Altri documenti in W E I C K E R , p. 83, nota 5. »« In Herad., 237 B. ' a Epist. 138 (PG 66, 1529 A ) . '« Carni., 11,1 (MARTINI, p. 21). Cfr. R E III A, 1, cpl. 298,1. 10-14. '· Metamorph., 5, 535. 7 » De finibus, 5, 49" CLEMENTE ALESSANDRINO, Protreptuon, i o . 93, 2 (I, p. 68, 1. 17S). Clemente conia questa espressione cosi significativa per la sua

ULISSE ALL'ALBERO DELLA NAVE

421

zione « meravigliosa e nello stesso tempo pericolosa » della Chiesa. Qui la Chiesa inizia a profilarsi dinanzi a noi, da principio in modo poco chiaro, nelle sue grandi linee, come l'opposto pericolo del bello e dell'incantevole proprio della sapienza mondana e della gioia sensuale, come la comunità, radunata inseparabilmente su di una nave, costituita da coloro che debbono veleggiare al di là di ogni sapienza e bellezza, e che giungono in patria mediante il solo « legno » della nave : per mezzo della croce. Il mito delle sirene dei Padri della Chiesa è come una clamide, gettata addosso leggermente ed elegantemente, che avvolge e sottolinea ciò che è essenzialmente cristiano. Che sia così, è chiaro anche dal secondo motivo che spinge i Padri ad impiegare allegoricamente il racconto delle sirene: anche la SACRA SCRITTURA parla di sirene78. Da un osservazione accidentale, che AMBROGIO fa in una delle sue omelie su Luca, veniamo a sapere che qua e là si era scandalizzati per l'impiego indiscriminato di miti omerici nella predicazione cristiana. Ambrogio si giustifica citando Is 13,21, e nota: «Pertanto, anche se il Profeta non avesse parlato delle sirene, nessuno dovrebbe scandalizzarsi di ciò (dell'impiego del racconto delle sirene) : anche la Scrittura infatti è a coteologia in un altro contesto biblico, poiché qui dice : « È magnificamente pericoloso aggregarsi alle schiere del Signore» (cfr. in Zeitschrifi fiir kath. Theol. SS (1931) 252), ma il pensiero teologico è del tutto identico a quello espresso con l'immagine della bella e pericolosa traversata della fede. 78 Ma soltanto nella versione dei LXX (e in molti passi del Teodozione): Giob 30,29. - Is 13,21.22; 34,13; 43,20. - Ger 27 (50), 39. Mich 1,8. - Cfr. anche 4 Mac 15,21.

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noscenza di giganti e della valle dei titani »79. Ora, in tutti i luoghi citati, i LXX traducono l'ebraico tannìm oppure (Is 13,21) benòt γα anàh ( = « sciacalli » e «figli dello struzzo femmina ») con Σειρήνες. Sarebbe molto interessante studiare più a fondo in che modo i traduttori ellenistici siano giunti alla strana traduzione dei nomi ebraici di animali, che non erano scientificamente familiari per essi80. Ad ogni modo, i magnifici passi, soprattutto quelli di Is 13,21.22 sulla devastazione di Babilonia, di Giobbe 30,29 sulla solitudine della lontananza di Dio, di Is 34,13 sulla devastazione di Edom, esercitarono sui lettori greci dei LXX la più profonda impressione proprio a causa delle orribili e spettrali sirene. Gerolamo ha tradotto tutti questi passi non più con « sirenes », ma con « dracones » e « struthiones », ad eccezione di Is 13,22: «Et sirenae in delubris voluptatis » ; in tutta la Volgata questo è l'unico caso in cui viene impiegata questa parola. Egli giustifica esplicitamente questa sua divergenza dai LXX, e proprio da ciò si vede che egli con la sua traduzione (effettivamente anch'essa erronea) non sfugge però completamente all'immagine delle sirene regnante in tutte le menti: « Sirenae autem ' thennim » vocantur quae nos aut daemones aut monstra quaedam vel certe dracones magnos interpretabimur, qui cristati sunt et volantes » 81 . E al passo, ove anch'egli conserva la parola «sirene» (Is 13,22), fa notare: «Et sirenae requiescunt in delubris voluptatis, quae dulci et morti*· Exposilio in evangelium secundum Lucani, 4, 2 (CSEL 32, 4, p. 139,1. 12-16). Cfr. Gen 6,4. - Deut 2,20 (Volg.). - 2 Re 5,22 LXX. 80 Quel che WEICKER, p. 78S e RE III A, 1, col. 300, 1. 3ss dice a proposito di ciò, non è sufficiente. 81 Commentarti in Isaiam, 13, 21 (PL 34, 159 C).

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fero Carmine animas pertrahunt in profundum, ut saeviente naufragio a lupibus et canibus devorentur » 82 . Anche ORIGENE, del resto, si è occupato della natura delle sirene bibliche. Secondo lui, esse sono πονηρά πνεύματα,, di cui narra « il mito pagano »: esse tentano con piaceri sensuali i naviganti che passano 83 . Così pure EUSEBIO 84 , lo PS.-BASILIO 85 , e, dipendentemente da questi, ESICHIO 86 e SUIDA 8 7 . È da notare la sobria critica con cui CIRILLO DI ALESSANDRIA afferma che queste sirene bibliche sono, propriamente parlando, uccelli solitari, e tuttavia sono simboli adatti a significare i poeti e i logografi greci 88 . Dipendentemente da lui, 89 PROCOPIO ripete la medesima cosa . Sulla base di questo sfondo biblico, la sopravvivenza del mito delle sirene nella letteratura patristica era ormai assicurata. Se si da uno sguardo alla massa di interpretazioni patristiche del motivo delle sirene, si può affermare, senza esitazione alcuna, che nei più antichi scritti della letteratura cristiana troviamo in primo piano quel tipo di interpretazione che considera le sirene 8! Ivi (PL 24, 216 B ) . - Cfr. anche ivi su h 43,20 (PL 24, 432 C ) : « Pro draconibus quos Theodotio solus, ut in Hebraeo scriptum est, appellavit ' thannim ', reliqui Sirenas interpretati sunt, ammalia portentuosa, quae dulci Carmine atque mortifero navigantes Scyllaeis canibus lacerandos praecipitabant ». È migliore però la sua traduzione con dracones. 83 Frammento 96 su Lam 4,3 (GCS Origene, III, p. 270, 1. 9-14). 84 Commentarti in Isaiam, 13, 21 (PG 24, 189 D ) ; su Is 43,20 (PG 24, 400 D ) . 85 Comm. in Isaiam, 274 (PG 30, 6 0 : A) : Σ ε ι ρ ή ν ε ς ό μ ε ν εξω-9-εν λόγος παραδέδωκε γυναικάς τινας μελωδοϋσας. 86 Lexicon (ed. J. ALBERTI, Leida 1766), ν. II, ρ. 1165. 87 Lexicon (ed. G. BERNHARDY, Halle-Braunschweig 1853), v. II, p. 724S. 88 Comm. in Isaiam (PG 70, 908 d; 748 A; 364 D ) . »· P G 87, 2, 2090 A ; 2396 A. Cfr. anche TEOFILATTO (PG 126, 1064 C ) .

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come demoni « dalla scienza profonda », e quindi vede in esse un simbolo della scienza pagana, e più precisamente dei grandi rappresentanti di questa. Al vertice si trova CLEMENTE DI ALESSANDRIA. Abbiamo già veduto che egli, alla fine del Protrepticon, rileva che il cristiano, durante il viaggio di sua vita, deve veleggiare oltre i pericoli della συνήθεια pagana : « Fug­ giamo dunque Γ ' abitudine ', fuggiamola come si fuggono le sirene, di cui ci parla il mito » 90 . Certo anche qui la sirena è già un « animale grazioso », come pure è il simbolo del « piacere », che, con la sua « musica mondana », spinge lo spavaldo acheo verso la morte. Ma con il concetto dementino di συνήθεια (che meriterebbe uno studio più approfondito), questa allegoresi ci fa entrare soprattutto nella sfera dello intellettuale, nel grande problema dell'Alessandrino: Fede e scienza, abitudine, considerata come antico errore, e Chiesa, quale personificazione della visione nuova e gratuita di Dio, insomma ci fa penetrare nel cuore stesso della genuina teologia cristiana. Συνήθεια è l'insieme dell'antico, del pagano, dell'idolatrico e dell'immoralità connessa con esso (dunque, in un certo senso, l'immagine intellettuale della sirena pensata come persona). La verità cristiana è amara e acerba come un farmaco, la « costumanza » è dolce e titillante 91 . La fede ne rende Uberi, la costumanza « rende servi e incatena » 92 . Essa è (secondo una espressione di Euripide) « futile sogno ingannevo,0 Protrepticon, 12,118, ι (I, p. 83,1. IJS). La sirena è un πορνίδιον ώραΐον, ηδονή, πανδήμ" Elegia 3, 7, 18. 103 O V I D I O , Tristia, 1, n, 2 i s : « Ipse gubernator tollens ad sidera palmas exposcit votis i m m e m o r artis opem ». O R A Z I O , Ode 2, 16, 1-4. - PETRONIO, Satyricon, 99 : « Adoratis sideribus intro navigium ». Cfr. anche la gradevole preghiera per la protezione contro il « mare

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Etere e fondo marino, cielo e inferno, dio e demonio: il fondamento religioso del timore del mare presso gli antichi si può riassumere in queste opposizioni dualistiche. Ora sarebbe facile, ma anche erroneo, connettervi immediatamente l'esposizione della dottrina cristiana del mare come sede del diavolo. Ciò produrrebbe l'impressione così spesso provocata dalla scuola della storia delle religioni, secondo cui la demonologia cristiana sarebbe soltanto l'ultima, sebbene genuina eco della pietà ellenistica104. Qui, come in nessun altro posto, viene a proposito la chiara distinzione, che F. J. DÒLGER 105 già sottolinea in un altro contesto e che è stata dimostrata giusta da K. PRUMM nelle sue opere così ben documentate sulle fonti 106 : la netta distinzione tra il convincimento dogmatico assodato biblicamente e tradizionalmente, e il rivestimento, condizionato dalla storia del tempo (qui dunque della raccapricciante», personificazione del fato: Angiologia Latina (RJESE), 718, vv. 25-27: « Da Pater ut tute liceat transmittere cursum perfer ad optatos securo in littore portus me comitesque meos ». Anche GREGORIO DI NISSA ci ha dato un ragguaglio del come questa preghiera per il « buon viaggio » abbia preso l'aspetto cristiano : In Cantica Canticorum, Homilia 12 (PG 44, 1014). - Anche AGOSTINO, Sermo 75, 4 (PL 38, 476 A). 104 Sulla demonologia platonica e cristiana cfr. la confutazione di Apuleio fatta da AGOSTINO, De civitate Dei, 8, 15 (CSEL 40, 1, p. 369S); 9, 3 (p. 409S). Ulteriore bibliografia in A. A B T , Die Apologie des Apuleius, p. 178, nota 5. - J. TAMBURINO, De antiquorum daemonismo, Giessen 1909. 105 Sol Satutis, 1925, 2 ed., p. 354, nota 4. 10 · Cfr. la sintesi della demonologia antica e cristiana secondo le distinzioni essenziali: Religionsgeschichtliches Handbuch, R o m a 1954, p. 386-392.

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tarda antichità), che dai Padri viene posto attorno al nucleo cristiano con immagini e allegorie. Un esempio: nella dottrina dei demoni contenuta nella vita di Antonio scritta da ATANASIO, dottrina che poi è stata normativa durante vari secoli, incontriamo dei caratteri cosi tipicamente « egizi » nella linea delle mitologie suesposte, che sembrano senz'altro coprire il nucleo cristiano. Il diavolo vi appare nella forma del pauroso animale marino, descritto da Giob 40 e 41 107. Ma da quanto tempo e a quali condizioni la magnifica descrizione della natura che si trova in Giob viene applicata ai demoni? L'άρχων δαιμονίων di Antonio ha in ogni caso i tratti caratteristici di Tifone. E lo stesso Atanasio una volta presenta il suo monaco che parla esplicitamente di επίβουλου Τυφώνος 1 0 8 , come pure di Poseidone quale incarnazione simbolica del mare. Si tratta di antica sapienza proveniente da Ales­ sandria. Il mare è il περίπατος 1 0 9 del diabolico demone, egli sparge un terribile puzzo di pesci messi sotto 110 sale : insomma, come vero Tifone, come domina­ tore del mare salato avversario degli dei e degli empi pesci. Antonio possiede un potere mistico sui cocco­ l u drilli , come viene narrato spesso anche di altri monaci 1 1 2 . In tutto ciò abbiamo dei rivestimenti della consapevolezza, in sé genuinamente cristiana, del do107

Vita Anlonii, 24 (PG 26, 877 C ) . Ivi, 75 (948 B). ίυί, 24 (88o A) secondo Giob 41,24 LXX. 110 Ivi, 63 (933 A). 111 Ivi, 15 (865 C ) . 112 Cfr. la cavalcata del coccodrillo del monaco Eleno: R U F I N O , Hist. monachorum, 11 (PL 21, 430 B-D). - Vitae Patrum, 8, 59 (PL 73, 1 1 6 7 D ; 1168 A). - Potere sui coccodrilli: Vita Pachomii, 1, 19 (PL 73, 241 C D ) . - Vitae Patrum, 8, 150 (PL 73, 1215). 108

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minio su satana che noi comprendiamo soltanto in base alla demonologia marittima ellenistica suddescritta 113 . Ma il solo fatto che esse si formino e che poi abbiano potuto conservarsi così fortemente presuppone la presenza di un fondamento biblico-teologico della simbolica marittima, che risulta indipendentemente e con grande chiarezza dai racconti evangelici, dal linguaggio immaginoso aramaico del Signore stesso e che da Paolo e da Giovanni venne elaborata nella vera teologia dell'opposizione tra « mondo » e regno di Dio, tra Cristo e Belial, tra il duce della vita e il dominatore della morte. Cristo ha descritto la sua Chiesa come il regno della grazia restituita, come una realtà ancora minacciata in questo « mondo », in guerra con il diavolo. L'opposto della sua Chiesa fondata sulla roccia sono le «porte dell'inferno» (Mat 16,18). In un'altra serie di immagini egli stesso ha dato l'interpretazione autentica dell'allegoria: «Il campo è il mondo, il nemico che semina è il diavolo» (Mat 13,39.39). La stessa cosa vale per le sue parabole del mare. Se il regno di Dio è una « rete da pesca » (Mat 13,47), e gli apostoli sono «pescatori di uomini» (Mat 4,19: Mar 1,17), Cristo ha certamente pensato ο forse anche detto: « Il mare è il mondo ». Mondo inizialmente non ancora in senso di nemico di Dio, ma solo come incarnazione di tutti gli uomini, nei quali il Regno di Dio si deve attuare. Poi però con eguale certezza, già in Gesù, « mondo » nel senso del fatto che questa attuazione si verifica soltanto combattendo contro la potenza nemica di Dio, la quale è all'opera nel mondo. lla

Vitae Patrum (PL 73, 808 A; 1000 C; PL 74, 207 A).

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« Mondo » dunque, soprattutto nel senso classico del vangelo di Giovanni: come tenebre (Giov 1,5; 9,4.5; 12,46; iGiov 2,8 ecc.), come nullità (iGiov 2,17), come elemento che si trova ancora in possesso del demonio (Giov 12,31; iGiov 5,19), ma tuttavia già vinto (Giov 16,33; iGiov 5,4). Noi restiamo dunque nella concezione delle parabole del vangelo, se al posto del mondo mettiamo « mare » e vediamo il mare come elemento diabolico tenebroso, antidivino e pur sempre potente, come simbolo dei popoli che stanno ancora sotto il dominio della potenza cattiva. In tal senso l'Apocalisse ha inteso il mare, dai cui flutti emerge la grande prostituta (Apoc 17,1.15). Possiamo ancor più approfondire tutto ciò: La Sacra Scrittura stessa ce ne dà il diritto. Uabyssus, la misteriosa profondità del mare, è il luogo, in cui i demoni sono stati relegati, come immagine della massima lontananza da Dio. Abyssus dice il più delle volte la profondità abissale del mare, il « cuore del mare » (Sai 45,3), come risulta da una massa di testi (Giob 28,i4;38,i6; Sai 41,8; 77,15; 103,6; 105,9; Giov 2,6; Eccli 34,8;' Is 51,10): lo scrittore veterotestamentario pensa sempre all'abyssus del flutto originario (Gen 1,2). Ora i demoni pregano esplicitamente Cristo « di non ordinar loro di ritornare nell'abisso» (Le 8,31). Il grande « corruttore », il demone Apollion, viene su .dall'abisso (Apoc 9,11). Il diavolo stesso, la grande bestia, che conduce la guerra contro i santi, emerge dall'abisso (Apoc 11,7; 17,8). E a queste immagini bibliche che si collega dunque la simbolica marina dei Padri, quando parla del mare tenebroso, lontano da Dio, come sede del diavolo

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e dei demoni. E qui si inserisce allora una elaborazione della simbolica, che attinge anche dal tesoro ellenistico sopra esposto e fornisce il quadro d'insieme dell'allegoria patristica del cattivo diabolico mare, sul quale la nave della Chiesa veleggia verso il porto dell'eternità. Il mare è la sede dei demoni. L'abisso è il mare del mondo, l'oceano su cui la terra galleggia: « Abyssus circumdat universam terram quam dicunt Oceanum, » predica ai suoi monaci GEROLAMO 114. E già prima di lui ILARIO dice la stessa cosa: « Hanc (terram) enim infernae vastitudinis demersa et inmensa abyssus sustentat »115. Il mare è l'avanzo di quell'abyssus che una volta copriva la terra ; TERTULLIANO 116 lo chiama tristis abyssus, e « triste » è questo mare in opposizione allo Spirito che volteggia su di esso 117. Molto importante è ciò che AMBROGIO nota nella sua esegesi sulla opera dei sei giorni. Egli parla del vortice abissale 114 Tractatus in Psalmum 103 ( M O R I N , p. 163, 1. 30s). - Per queste rappresentazioni geografico-mitologiche di Oceano quale mare che bagna il m o n d o e quale portatore della terra cfr. RE XVII (1937) col. 2308-2389 (F. GISINGER). - CASSIODORO dice la stessa cosa nel suo Comm. in Ps. 134, 6 (PL 70, 963 B ) . - C h e questa opinione sia stata anche più tardi una questione disputata, lo dimostra A R N O B I O JUNIOR, Comment. in Ps. 103 (PL 53, 475 D ) . 115 Tractatus in Psalmum 2, 32 (CSEL 22, p. 61, I. 13S). lle De baptismo, 3 (CSEL 20, p. 203, 1. 2). 117 Adversus Hermogenem, 32 (PL 2, 227S). Nella sua opera De anima, SS (CSEL 20, p. 387,1. 22-27), Tertulliano comunque si difende dall'accusa di cercare il regno dei morti negli abissi sotterranei dell'acqua, e chiama questo abisso sotterraneo dell'acqua mundi sentina: la « feccia della nave del m o n d o », così si potrebbe tradurre meglio questa espressione. Tertulliano preferisce vedere il regno dei morti piuttosto nella fossa terrae quale « abisso profondamente nascosto nelle viscere della terra » ; certamente egli vi è spinto dal fatto che anche nel linguaggio della Scrittura spesso abyssus significa la stessa cosa di cor terrae (Sai 70,20; Mat 12,40; R o m 10,7; Ap. 9,2).

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che copriva tutta la terra, del « mare minaccioso », dell'abisso tenebroso. Quindi dice: «Non enim malas intelligendas arbitror potestates, quod Dominus earum malitiam creaverit, cum utique non substantialis, sed accidens sit malitia quae a naturae bonitate deflexerit» 118 . Qui è chiaro che nella rappresentazione del tenebroso mare primitivo egli e i suoi fedeli, senza volerlo, hanno in mente la simbolica delle forze antidivine dei demoni, una simbolica, che egli non respinge, ma che vuole soltanto proteggere contro il dualismo manicheo non cristiano119. Per AGOSTINO, l'abisso è di fatto l'incarnazione della sfera di potere lasciata al diavolo e ai demoni dopo la loro caduta, ossia la profondità del mare e le regioni delle tenebre aeree 120 . Per lui abisso è la « profunditas aquarum 118

Hexaemeron, i, 8, 28 (CSEL 32, 1, p. 27, 1. 4; 1. iós; 1. 27ss). Ambrogio attinge qui in primo luogo da Basilio, il quale si oppone direttamente al pericolo di un'antica concezione dualistica dell'abisso tenebroso: Hexaemeron, Homilia 2, 4 (PG 29, 36ss). L'abyssus non è qualcosa come la « personificazione di tutte le potenze avverse» (37 B), ma soltanto il semplice flutto tenebroso che ricopre tutta la terra (37 A). Ogni applicazione alle potenze demoniache sarebbe gnostica e manichea (36 D), perciò bisognerebbe abbandonare qualsiasi allegoria del mare tenebroso dell'abisso (40 C). - Di qui si vede quanto questa simbolica fosse viva in Occidente e in Oriente ancora alla fin del quarto secolo, non soltanto come eco della gnosi, ma in virtù delle concezioni~che sono state esposte più sopra. Cfr. per questo anche ARNOBIO JUNIOR, Comment. in Ps. 103 (PL 53, 477 D): « Notandum tamen quia Deo dicitur: illic draco quem formasti, quia Manichaei dicunt principem tenebrarum a se habere principium ». 120 Enarrationes in Psalmum 1481 9 (PL 37, 1943). - Nel loro insieme quale contrapposto della beata regione dello spirito, l'« oscuro regno dell'aria » e il « tenebroso flutto marino » appartengono allo stesso complesso e sono come un unico abisso. Cfr. per questo AGOSTINO, De Genesi ad Iitteram, 3, 10 ^CSEL 28, p. 73, 1. 12-19); 11, 26 (CSEL 28, p. 359,1. 11-14); Epist. 102, 20 (CSEL 34, p. 562,1. 14-16); Sermo 112 (PL 38, 1091): qui si dice esplicitamente che le nebbie si 119

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impenetrabilis » 1 2 1 (Isidoro ripete questa definiziona 1 2 2 ), è il simbolo più appropriato della potenza infernale, che fu scaraventata in queste profondità: ma con ciò è anche il simbolo degli uomini, che mediante i peccati si danno nelle mani del diavolo : « Abyssum dicit profunditatem peccatorum, per iudicium Dei fiunt in profundo, merguntur in ultima »123. La Città di Dio esprime profondamente questo pensiero, e nello stesso tempo anche l'ondeggiare, per così dire, della simbolica: l'abisso è sia il luogo fisico, in cui sono stati confinati i demoni, come pure il simbolo spirituale della profondità della lontananza da Dio, in cui si vede sprofondato il « mare abissale degli uomini cattivi » 124 . Il pensiero secondo cui il mare sarebbe il luogo della pena del diavolo, è tuttavia molto più antico. Già ORIGENE lo ha espresso chiaramente: « Il diavolo viene relegato nell'abisso, nel mare, come luogo di pena a lui appropriato » 12S . Egualmente TER126 TULLIANO . Ancora in Gregorio Magno il mare è la profondità della morte eterna, « aeternae mortis profunda » 127 , e nello stesso tempo simbolo delle profondità del cuore umano, che è inabissato nella lonformano in questo regno demoniaco dell'aria : « U b i nebula conglob a t a »; cfr. il demonio come nebulo (sotto, alla nota 173) e la β nebbia demoniaca» (nota 172). - Anche GKEGORIO M A G N O parla perciò di un «affondamento» del diavolo nell'aria: «In hoc caliginoso aere demersi»: Mot alia, 4, 6 (PL 75, 643 B). 121 Enarrationes in Psalmum 4 1 , 13 (PL 36, p. 473 B ) ; 4 1 , 14 (p. 478 B C ) ; 105, 9 (PL 37, 1410D). 122 Etymol., 13, 20, 1 (PL 82, p. 489 A B ) . 123 Enarrationes in Psalmum 35, io (PL 36, p. 384 D; 349 B). 124 De civitate Dei, 20, 7 (CSEL 40, 2, p. 442, 1. 3-8). 125 Comment. in Matthaeum, 16, 26 (GCS Origene, X, p. 563, 1. 24-26). 126 Adversus Marcionem, 4, 20 (CSEL 47, p. 485, 1. 27). 12 ' Homilia 11, 4 (PL 76, 1116B).

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tananza peccaminosa da Dio, la « profondità oscura dell'abisso, che è il genere umano » 128 . L'amarezza di questo oscuro fondo dell'acqua è il simbolo dei popoli lontani da Dio, dei cuori, che si sono votati al mondo diabolico 129 . In auesto abisso abita Satana, il Serpente 130. Ora diventa comprensibile in forza di quali concezioni fondamentali la simbolica del mare abbia potuto progredire e rafforzarsi con espressioni bibliche, nelle quali il sacro testo, preso in se stesso, non voleva in alcun modo enunciare simili pensieri. Qui bisogna ora appurare cosa ha letto l'allegoria patristica nelle due bestie acquatiche di Giob 40 e 41, poiché questo complesso di idee è divenuto importante per la nostra allegoria della nave della Chiesa. Behemoth e Leviathan sono, sin dagli inizi dell'esegesi, immagini del diavolo: è degna di nota, a questo proposito, la protesta che CMSOSTOMO presenta contro la spiegazione allegorica di questo capitolo di Giobbe m . AGOSTINO, al contrario, quale erede e ad un tempo quale trasmettitore dell'esegesi allegorica, che attraverso Ambrogio risale a Filone e a Origene, dice che il « santo Giobbe ha parlato con parole mistiche e profondamente misteriose» del diavolo, del « re di tutte le cose che si trovano nell'acqua » 132 , significato sotto le immagini di Behemoth e di Leviathan, a ciò si aggiungono le espressioni scritturistiche sul drago nei flutti del mare (Sai 73,13; 103,26; 148,7), la cui applicazione al diavolo 128

Moralia, 33, 9 (PL 76, 682 D). »» Moralia, 29, 15 (PL,76, 491D; 492 AB); 28, 19 (476S). »· Moralia, 18, 42 (PL 76, 77 AB). ,al Fragmentum in Job 41, io (PG 64, 653 B). 132 Enarrationes in Psalmum 103, sermo 4, 9 (PL 37, 1384 D): « Et ipse lex omnium quae in aquis sunt », una citazione da Giob 41,25 secondo i LXX e l'Itala.

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fu ad ogni modo facilitata per via del drago nominato nell'Apocalisse (Apoc 12, 3.4.7.9; 13,4), che viene espressamente identificato (Apoc 20,2) con l'antico serpente, il diavolo e Satana. Il diavolo è in un primo momento il mostro marino, che si chiama Leviathan e che nell'allegoria patristica viene indicato come cetus, come il mostruoso « cetaceo » così singolare anche per l'antichità 133 . La Volgata legge in Giob 3,8 Leviathan, mentre i LXX hanno μέγα χήτος 1 3 4 . Dunque, ciò che nel capitolo conclusivo di Giobbe viene detto del Leviathan, va inteso della balena come simbolo di Satana. Questa è già tradizione affermata presso ORIGENE 1 3 5 : anch'egli nelle sue omelie sulla Genesi affronta gli stessi problemi che si ritrovano più tardi in Basilio e Ambrogio. Che Dio abbia creato a fianco alle creature buone anche quelle « cattive », ossia la balena e i serpenti marini, 133 Cetus è espressione comune per indicare « pesce gigantesco » è può significare un grande delfino, pescecane ο balena. Cetus quale accompagnatore dei demoni marini: VIRGILIO, Eneide, 5, 822. DRACONZIO, Romulea, 7, 148. - Cfr. anche PLINIO, Nat. Hist., 36, 4, 13. - I Padri della Chiesa raccontano ciò che nelle antiche fonti c'era di meraviglioso sulla balena: Cfr. BASILIO, Hexaemeron, 7, 4 (PG 29, p. 156 B C ) ; AMBROGIO, Hexaemeron, 5, i o , 28 (CSEL 32, 1, p. 162, 1. 4-14); 5, 11, 32 (CSEL 32, 1, p. 166, 1. 15-19). - La balena, balaena britannica, è simbolo del gigantesco, in opposizione all'elegante delfino: cfr. GIOVENALE, Satir., i o , 14. È possibile però che il cetus sia stato sentito anche come simbolo dell'opposto del «nostro delfino», Cristo; cfr. CLAVIS MELITONIS, Spicilegimn Solesmense, Parigi 1855, v. 3, p. 519, 535, 558. - PAOLINO DA N O L A , Epistola 20, 6 (CSEL 29, p. 147, 1. 21); 20, 7 (p. 148, 1. 9). 134 Appoggiato da Is 27,1 L X X : δ ρ ά κ ω ν δ φ ι ς , che la Volgata traduce con Leviathan; cfr. GEROLAMO, Comm. in Isaiam, 8 sul 27,1 (PL 24, 306 A) e Comment. in Amos, 3, 9 (PL 25, 1088 A). 135 Homil. in Genesim, 1, i o (GCS ORIGENE, VI, p. 11, 1. 17 sino a p. 12, 1. i o ) .

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è per lui un misterioso indizio che proprio Dio abbia voluto permettere l'esistenza di Satana e dei demoni come prova per i cristiani : come « amarezza » da cui deriva, attraverso la vittoria ascetica, la dolcezza. È fuori questione che qui la « grande balena » è il simbolo del diavolo, ed è tipico per questa esegesi corrente ormai, che vengano citati anche Sai. 103,26 e i capitoli di Giobbe. ORIGENE dà lo stesso significato anche ad altri passi136. Quanto questo risultasse comprensibile ai cristiani egiziani, è chiaro dalle direttive per la preghiera, date da Origene 137 : bisogna pregare spesso per essere liberati dalle fauci della « balena » come Giona: una preghiera veramente primitiva del cristianesimo, come ci mostra la nota preghiera contenuta nelle Orationes pseudociprianiche ; una preghiera così comprensibile, quando è messa in rapporto con le care raffigurazioni popolari del mostro giovanneo: « Eicias me de morte ad vitam » 138 . DIDIMO ha dato questa interpretazione alessandrina a Giob 3,8: mediante la discesa del Dio fatto uomo è stato vinto il diavolo quale mostro di questo mare del mon131 Homil. in Levit., 8, 3 (VI, p. 397, 1. 23 sino a p. 398, 1. 2): « Dominus qui interfecturus erat cetum istum diabolum ». - Comment. in ep. ad Romano:, 5, io (FG 14, 1051 A): Cetus è qui il simbolo della morte e del diavolo, ma Cristo discese in lacum (Sai 27,1) e in cotruptionem (Sai 29,10), per sconfiggere il grande pesce diabolico. - A proposito di ciò è interessante quel che hanno riferito CELSO e ORIGENE a proposito del « serpente che circonda il mondo » secondo il diagramma degli gnostici Ofiti; questo simbolo di Oceano e di Caos da essi era chiamato « Leviathan » :cfr. Contra Cehum, 6, 25 (GCS ORIGENE, II, p. 95, 1. 3-17). - RE XVIII (1939) col. 657, 1- 42ss. - Cfr. anche quanto riferisce IPPOLITO, Elenchos, 5, 19 (GCS IPPOLITO, III, p. 120, 1. 14), ove questo serpente viene chiamato «primogenito dell'acqua». 137 De oratione, 13, 4 (GCS ORIGENE, II, p. 329, 1. 1-11). 138 PS.-CIPRIANO, Oratio 2 (CSEL 3, 3, p. 147, 1. ios).

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do 139. AMBROGIO gli fa eco: « Nam feralem illum cetum, diabolicum scilicet, ultimis temporibus venerabili corporis sui passione prostratum perculit et afflixit » 140. Neppure GEROLAMO fa eccezione. Proprio nella sua spiegazione allegorica i simboli animali del diavolo quale mostro marino sono adunati insieme: « Qui draco proprie in hebraico sermone appellatur Leviathan. Ipse est cetus magnus, de quo, quod a Christo capiendus sit, mystico in Job sermone narratur: qui magnum cetum capturus est». Questo è, così egli continua, Satana, l'« aspis », il « draco in mare : quem Dominus interficiet spiritu oris sui habitatorem quondam maris, falsorum et amarorum fluctuum » 141 . Tale esegesi doveva imporsi e GREGORIO MAGNO l'ha resa indimenticabile per tutto il medioevo con i suoi Moralia su Giobbe: «Diabolus est vitam votans cetus » 142 , Ciò viene espresso convenientemente anche nella Vita del monaco egiziano Ammuno, che sostiene una battaglia con il drago e scongiura la belva "· Fragm. in Job (PG 39, 1129D). 140 De fide ad Gratianum, 5, 2, 3 (PL i6, 655 C). - Cfr. anche Commetti, in evangelium Lucae, 4, 40 (CSEL 32, 4, p. 159, 1. 10-16): le parole di Giobbe sono una profezia « eo quod diabolum tamquam procellosi saeculi istius cetum Dominus Noster Iesus Christus oppressit... ergo in tentatione sanctus Job mysteria loquebatur, qui enim vincèbat saeculum, Christum videbat ». 141 Comment. in Isaiam, 8 sul 27,1 (PL 24, 306 AB; 307 B). 142 Moralia, 33, 9 (PL 70, 682 D). - Moralia, 8, 23 (PL 75, 824 BC, 825 B). - Moralia, 34, 18 (PL 76, 737 AB). - Cfr. per ciò PS.-GERO-

LAMO, Comment. in Job, 40 (PL 26, 786 D) : Leviathan est diabolus in aquis. - AGOSTINO, Enarrationes in Psatmum 68, sermo 6 (PL 36, 846 AB) ; Enarrationes in Psalmum 73, 14 (PL 36, 938s). - RABANO MAURO, AUegoriae (PL 112, 893 C; 895 A). - RUPERTO DI DEUTZ, Comment.

in Ioannem (PL 168, 1184S; 119»). - INNOCENZO ΙΠ, Sermo 29: PL 217, 588 A-C.

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con le parole: «Perimat te Christus filius Dei qui perempturus est cetum magnum» 1 4 3 ! Immediatamente congiunta a tutto ciò va vista inoltre la simbolica del diavolo come « drago del mare », che Dio fa abitare nell'abisso del mare (Sai 148,7), per «giocare» con esso (Sai 123,26; Giob 40,24), per ucciderlo nell'acqua (Sai 73,14). L'allegoria patristica ha continuamente letto in queste frasi profondi misteri della volontà salvifica di Dio e tutto diviene comprensibile solo se si accetta l'idea fondamentale del diavolo quale bestia nel mare del mondo. Nel pensiero antico, il « drago » è un mostro, che vive nell'acqua, un grande pesce velenoso, una specie di serpente marino 144. Mediante l'identificazione con il serpente del Paradiso terrestre e quindi con Satana (Apoc 20,1), queste rappresentazioni poterono essere applicate al diavolo. Lo fa già TERTULLIANO 145, come pure ORIGENE 146. Questo mostro marino è dunque il vero nemico della Chiesa, che come una buona nave veleggia sul mare di questo mondo. AGOSTINO predica perciò: «Magnum secretum et tamen quod nostis, dicturus sum: nostis inimicum Ecclesiae quendam draconem »147. E cioè, così egli continua, il diavolo, F« antico serpente », che giace insidioso ed astuto

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RUFINO, Hist. monadi., 8: (PL 21, 421 D). Cfr. PLINIO, Nat. hist., 9, 82; 26, 31. - Parimenti, riferisce le opinioni del suo tempo AGOSTINO, Enarrationes in Psflmum 148, 9 (PL 37, 1943 C). - PHIMASIO, Commetti, in ApocaL, 3 (PL 69, 862 C). ISIDORO, Etymol., 12, 6, 42 (PL 82, 455 B). - Cfr. anche Dictionnaire d'Archéol. chrét. et de Liturgie, Parigi 1921, v. 4, col. 1537-40. 145 Aiversus Marcionem, 4, 24 (CSEL 47, p. 502, 1. 20). 14i Homil. in Exodum, 4, 1 (GCS ORIGENE, VI, p. 171, 1. i8s). 14 ' Enarrationes in Psalmum 103, sermo 4, 6 (PL 37, 1381 B). 144

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in questo mare del mondo. Il mare è la sua sede: « Ao cepit locum quendam suum in hoc mari magno et spatioso ». « Calpestare la sua testa » è per Agostino lo stesso che « il viaggiare sicuro sul mare », in cui abita il decaduto principe dei demoni 148 . Anche a Gerusalemme i candidati al battesimo di CIRILLO lo sapevano : « Il drago però abitava, come sappiamo da Giobbe, nell'acqua »lia. La stessa cosa è confidata ai monaci di GEROLAMO, quando lo zelante predicatore penitenziale li apostrofa così: «Anche tu una volta eri un drago e tenebre erano sul tuo abisso, tu eri un drago, tu eri un figlio delle tenebre » 150 . È molto ricco di conseguenze ciò che Gerolamo nota circa l'esegesi dei Giudei ai «passi del drago» contenuti nei Salmi: anch'essi sostenevano che un drago abita nel mare, ossia nell'Oceano, e che esso si manifesta alla fine del giorno, quando il mare mugghia. Non così l'esposizione cristiana: per essa il drago nel mare è un simbolo del diavolo nel mondo 1B1 . Quando ora vien detto che il capo di questo drago è stato fracassato nel mare (Sai 73,14) e quando in Giobbe (40,20) sta scritto che solo Dio può estrarre con un amo il Leviathan dalla profondità, abbiamo qui le radici di due aspetti di questa esegesi del « diavolo nel mare», che dobbiamo ancora delineare breve148

Ivi, 4, 7-9: (1382S). "· Catech., 3, 11 (PG 33, 441 AB). lt0 Tractatus in Psalmum 148 (Morin, p. 310, 1. 7-11). - Ivi, 1. I2s: < Licet in hebraeo non habet dracones sed habeat Thanninim, quod interpretatur cete. Dicitur autem cetus infinitae esse magnitudini;. Denique ipse cetus in abyssis esse dicitur ». 151 Tractatus in Psalmum 103 (MORIN, p. 167, 1. 18-22). - A M BROGIO, Epistola 1, 30, 11 (PL 16, 1064 B). - CESARIO, Sermo 136, 5 (MORIN, I, p. 539, 1. 8s).

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mente. Abbiamo già visto come l'esegesi alessandrina veda la vittoria su Satana data con l'incarnazione e la passione. Ciò diventa ora plastico mediante una rappresentazione primitiva, che è restata viva sino nel cuore del medioevo: Cristo si calò nella profondità del mare diabolico come l'uncino di un amo, nella sua forma visibile di uomo, non riconoscibile quale Dio dal dominatore di questo mare, dal grande mostro marino. La sua natura umana era simile all'esca, che Satana cercava di afferrare ed alla quale egli stesso fu preso, per cui da quel tempo è impotente. Questa discesa di Cristo nella « amarezza » del terrestre 1S2 (un perfetto parallelo alle allegorie della discesa contenute nel canto della redenzione degli Atti di Tommaso, e alla discesa nell'« Egitto terreno, oscuro, occidentale ») 153 era così familiare agli antichi cristiani, che possiamo limitarci a poche prove. AMBROGIO la fa cantare ai suoi fedeli154, RUFINO l'aveva appresa dalle prediche di GREGORIO DI ΝΑΖΙΑΝΖΌ e cosìl a predicava ai catecumeni: « Sicut piscis... de profondo educitur, ita et qui habebat mortis imperium, rapuit quidem in morte corpus Iesu non sentiens in eo hamum divinitatis inclusum; sed ubi devoraverit, haesit ipse continuo et disruptis inferni claustris velut de profondo extractus trahitur, ut esca ceteris fiat » 15e . Attraverso 152

AMBROGIO, De instit. virginis, 5, 34 (PL 16, 314 A). Cfr. per ciò F. J. DOLGER, Sol Salutis, 1925, 2 ed., p. 22OSS. 154 Hymnus 12,7. Analecta hymnka 50 (1907) p. 16: « H a m u m sibi mors devoret ». 16S Oratio 39, 13 (PG 36, 349 AB). Traduzione di R O T I N O (CSEL 46, p. 124, 1· I4s). 15 · Explan. symboli, 16 (PL 21, 354 D ) . A ciò era favorevole la traduzione dell'Itala di Ez 32,3 : « Extraham te in h a m o meo » (Volg. : 153

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lo sviluppo che GREGORIO MAGNO diede all'immagine 157, designando la genealogia degli antenati di Gesù come « lenza dell'amo », anche il medioevo 158 ha compreso questa simbolica secondo il paragone « mare=mondo amaro-diabolico »: lo dimostra YHortus deliciamm di ERRATO. L'altra allegoria, che fu elaborata nel suddetto contesto, è la simbolica della vittoria sul drago nella traversata del Mar Rosso: In bel modo questa teologia marittima dei Padri abbraccia ora tutte le espressioni della Sacra Scrittura riguardanti l'evento storico salvifico del passaggio degli Israeliti attraverso il Mar Rosso, e le mette in rapporto con la simbolica del mare come elemento diabolico (Gios 24,7; Sai 77,13; 113,3; 105,7,9; 135,13; Sap 10,18.19; 19,7; Is 43,i6; iCor 10,1.2). Ciò fu basato sulle parole di Ez 29,3 e 32,2, in cui Dio ordina di parlare al Faraone d'Egitto come al « grande dragone, che giace tra le correnti », come al « drago nel mare ». Con ciò il re d'Egitto diventa l'immagine del diavolo, poiché egli è « tenebroso » e « abita nell'acqua ». Per ORIGENE ciò ha già un signi« In sagena mea »). - FIRMICO MATERNO, De err. prof, rei, 21, 2 (CSEL 2, p. n o , 1. i o s ) : « Nequissimus hostis generis humani est tortuosus draco qui h a m o ducitur ». - G A U D E N Z I O , Sermo 5 (PL 20, 875 C ) . 157 MoraUa, 33, η (PL 76, 680 B C ) . - Moralia, 33, 9 (682 D; 683 A). 153 ISIDORO, De ecdesiasticis officiti, 1, 30, 2 (PL 83, 765 A). Sentent., 1, 14 (PL 83, 567 C ) . - O N O R I O D I AUGUSTA, Speculimi Ecclesiae (PL 172, 906 AB) : « Per mare hoc saeculum insinuatur, quod voluminibus adversitatum iugiter elevatur. In hoc diabolus circumnatat ut Leviathan ». Cristo lo ha estratto con la lenza della sua genea­ logia umana. La stessa cosa in PL 172, 1002 D ; 937 B C . - ERRATO trasse da Onorio i suoi pensieri per i testi e le immagini deWHortus deliciarum. - HERMANN VON PVEICHENAU, Leviathan perforans maxillam hamo, in Analecta hymnica 50 (1907) p. 312.

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ficato del tutto ovvio 159. Il Faraone, che avversa il popolo di Dio e muore nell'acqua, è il diavolo affondato nel mare 160. E dal momento che già per FILONE 161 il transito del Mar Rosso significa un « passaggio dalla passione all'ascesi », si spiega come mai A M BROGIO, si faccia eco della figurazione del diavolo come signore del mare ivi contenuta, trasformandola cristianamente e applicandola a Satana, che regna sul mare di questo mondo e che tuttavia proprio in esso sarà anche distrutto 162. Anche questa allegoria è restata viva a lungo 163 . Con ciò abbiamo spiegato la simbolica cristiana e tuttavia adornata con tutti i colori del pensiero della tarda antichità, a partire dalla quale ILARIO potè scrivere : « In his enim quae in mari repunt ea quae in infernis degunt docentur, cum profundum maris sedem intelligamus inferni » 164. A questo punto siamo finalmente in grado di vagliare con mano sicura l'intrigata massa di testimonianze patristiche riguardanti l'applicazione teologica e ascetica dell'allegoria del mare. Essa verrà delineata "· Homiliae in Exodum, 4, 1 (GCS ORIGENE, VI, p. 171, 1. i8s); 5, 5 (p· 190, 1. 11-20). 180 Cfr. per questo F. J. DOLGER, Das Durchzug durai das Rote Meer als Sinnbild der chrisilichen Taufe, in Antike und Christentum 2 (1930) p. 63-69. IDEM, Die Sonne der Gerechtigkeit und der Schwarze, Miinster 1918, p. 53S. - J. D A N I É L O U , Saaamentum Futuri, Parigi 1950, p. 152-176. 181 De sacrificiis Abelis et Caini (I, p. 227, 1. 16 C O H N ) . - Altri testi probativi di Filone sono indicati da F. J. DOLGER, in Antike und Christentum 2 (1930) p. 67. 1,1 Hexameron, 1, 4, 14 (CSEL 32, 1, p. 12, 1. 15-21). 163 ILARIO, Tractatus in Psalmum 134, 19 (CSEL 22, ρ. 706, 1. 1215). - ZENONE, Tractatus 54 (PL 11, 510 A). - PS.-PROSPERO, De pro­ miss, et praed. Dei, 1, 38 (PL 51, 746S). - ISIDORO, Allegoriae (PL 83, 108 B ) . - RUPERTO D I D E U T Z , In Exodum, 2, 29 (PL 167, 637 B ) . lea Tractatus in Psalmum 68, 28 (CSEL 22, p. 337, 1. 3-6).

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almeno nelle linee maestre, poiché solo quando udiamo il « mare cattivo » dell'antichità cristiana rumoreggiare sino ai suoi ultimi e quasi impercettibili batter d'onda, possiamo comprendere quale profonda importanza abbia acquistato la simbolica della fortunata nave della Chiesa e del « piccolo legno » della croce. Poiché il mare è la sede della potenza diabolica, in senso fisico come in senso traslato simbolico, i vortici e le rumorose tempeste, che minacciano la nave, sono opera del diavolo e dei demoni. Questo duplice senso viene espresso già in una lettera di GEROLAMO. Egli aspira alla solitudine del deserto, vuole fuggire le tempeste del mare dell'esistenza, ma, tra lui e il beato « porto della solitudine », c'è la pericolosa traversata sul mare che obbedisce al diavolo : « Diabolus maria undique circumdat et undique pontum » 165 . I minacciosi vortici sono diabolici, poiché nell'acqua abita il demonio come «variopinto serpente», che spande lontano un puzzo insopportabile e minaccia le navi di naufragio. Lo stesso linguaggio ritroviamo in epoca avanzata del cristianesimo nella Vita Genovefae 166. E nei famosi racconti del miracolo marino di san Nicola il medioevo vede ancora il diavolo e come egli som con forza nella vela della nave minacciata dalle fauci del mare 167. Qui si era avuto dunque il "» Epistola 2, 4 (CSEL 54, p. 12, 1. 1-5). MGH Rer. Mer. ΠΙ, p. 230, 1. 5-8. - Cfr. anche il drago delle sorgenti, che deve viaggiare verso l'abisso: Convento Afrae, 7 (MGJH Rer. Mer. Ili, p. 60, 1. IJS). " ' Cfr. K. MEISEN, Nikolauskult uni Nikoìausbrauch im Abendland, Dusseldorf 1931, p. 245-249: la leggenda della tempesta di mare. Legenda aurea (GRABSSE, p. 23S.). - ONORIO DI AUGUSTA, Speculiti» Ecclesiae (PL 172, 1034 BC). - Su una vetrata del duomo di Friburgo 186

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punto di aggancio per una simbolica infinitamente ricca di sviluppi. In senso traslato, il mare diabolico è l'umanità abbandonata al diavolo, la massa dei popoli pagani, come abbiamo già mostrato sopra. Essi sono sferzati da Satana, il « Signore del mare », poiché sono acque « mondane », flutti non redenti, demoniaci. ILARIO così predica : « Recte significari aquas populos intelligimus ... aquae terrestres sunt trepidae, terrenae, tenebrosae, absorbere nos volentes, animis in ira concitatis et toto diabolici furoris impetu commotis »168. Questo produce ora i suoi effetti non solo nelle tempeste del « mare beluino ed amaro », che vengono mandate ai singoli cristiani dal «Principe di questo mondo »169, ma soprattutto alla nave della Chiesa, che deve navigare sopra questa potenza elementare demoniaca. « Navem adaeque Ecclesiam debemus accipere in salo mundi istius constitutam, quae crebris ventorum fluctibus, id est tentationum plagis et verberibus fatigatur, quam turbidi fluctus id est huius saeculi potestas conantur ad saxa perducere » 17 °. Qui è chiaro quanto perfettamente tutta questa simbolica sappia costruirsi all'interno dei grandi contesti della teologia biblico-paolina dell'opposizione tra regno di Cristo e mondo del diavolo. Il mare di questo mondo è « cattivo » proprio perché sta « sotto le potenze delle il diavolo viene raffigurato mentre soffia nella vela della nave di Nicola. - Cfr. anche gli inni a Nicola del secolo X, ove si parla della «diabolica tempesta marina», in Analecta hymnka 22 (1895) p. 206, 207. 209. 169

Tractatus in Psalmum 123, 5 (CSEL 22, p. 594, 1. 4-9).

1M

GREGORIO NAZIANZENO, Carmina, 2, 1, 1, vv. 21, 31 (PG 37,

p. 97is). 1,0

PS.-AMBSOGIO, Sermo 46, 4, io (PL 17, 697 A). - POMERIO,

De vita contemplativa, 1, 16 (PL 59, 431 CD; 432 A).

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tenebre », come dicono le Omelie di Macario m. Il diavolo come dominatore dell'aria tenebrosa e del mare tenebroso, di questo abisso antidivino, di cui parla Agostino, sparge sul mare di questo mondo la nebbia ottenebrante, « daemonum nebulae », come spiega CRISOLOGO 172, e « daemonum turbines ». Egli stesso è un nebulo 173, un ribaldo ventoso, che inganna il navigante. E poiché egli è « tenebroso » in quanto signore del flutto tenebroso (in senso assolutamente identico si potrebbe anche dire, nel linguaggio simbolico dei Padri : egli è « occidentale », « egiziano », « fatale ») 174, per questo è suo scopo spingere la nave della Chiesa nelle fauci della morte, « in aeternae mortis profonda », come dice GREGORIO MAGNO 17S e come scrive ancora, con vocabolario patristico, DUNGAL SCOTO parlando di coloro che non veleggiano nella nave fatta con il legno della Croce: « Quid ergo restat homini sine nave salutiferae crucis procellosum huius saeculi mare transeunti? Nihil, ut est arbitrandum, aliud nisi remaneat in mediis necatus fluctibus et cum terris Aegyptiis in profundum demergatur infer1,1

Homilia 44, 7 (PG 34, p. 748 B). "· Sermo 20 (PL 52, 254 B). 3 " AGOSTINO (?), Sermo 356, 5 (PL 39, 1649 A). 1,4

Cfr.

per ciò

ORIGENE

(GCS

VII,

ρ.

509, l.

13-17); LATTANZIO

(CSEL 19, p. 142S; p. 41, 1. i6ss). - F. J. DÒLGER, Sol Salutis, 1925 2 ed., p. 337SS; Die Sonne der Gerechtigkeit, p. 44SS. 175 Homilia 11, 4 (PL 76, ρ. 1116Β). - Perciò l'abisso del mare, in quanto sede del diavolo quale « dominatore della morte », è anche ad un tempo sede della morte stessa. Cfr. ILARIO, Tractatus in Psalmum 68, 5 (CSEL 22, p. 317, 1. 2s): « N a m cum profunda maris inferiora sint terrae, necesse est in profundo maris, id est in inferioribus, sedem mortis ostendi ». N o n si deve forse spiegare in questo senso, unitamente a Sai 27,1 (cfr. sopra, nota 136) l'espressione della liturgia funebre: « Libera eas... de profundo lacu »?

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ni » 176. Più in là bisognerà indicare con precisione la ragione per cui, secondo questa simbolica, la nave della Chiesa non può affondare : precisamente perché essa è costruita con il legno di quella croce, che ha vinto il « Principe di questo mondo » (noi possiamo dire ora : il « Principe di questo mare »). Tuttavia al mare diabolico è stato lasciato un potere sulla nave ecclesiale: il viaggio sicuro della Chiesa è pur sempre paurosamente pericoloso. Qui torna di nuovo a risuonare il tema fondamentale del « viaggio meraviglioso, perché pericoloso », ora però piuttosto dal punto di vista del mare diabolico. « Ecclesia multis tamquam. bona navis fluctibus saepe tunditur », dice AMBROGIO 177. Noi possiamo raccogliere in tre grossi gruppi il potere diabolico del mare, che urta contro la Chiesa in questo mondo: i pericoli del paganesimo, delle eresie e delle tentazioni; sempre però e in ultima analisi è il diavolo, che agita i flutti di queste tre minacce contro la nave della Chiesa. Già Tertulliano parlava dei banchi di sabbia e dei flutti, degli incagli nascosti e delle spiagge basse dell'idolatria e coniava qui la famosa espressione della fede, che, sotto l'inspirazione dello Spirito Santo, veleggia sicura ma cauta tra questi pericoli : « Fides navigai tuta si cauta » 178 . Nella sua spiegazione della nave della Chiesa quale veicolo entusiasticamente pericoloso, ORIGENE mostra come il diavolo, quale « padre delle tenebre », agiti i flutti, e, simile ad uno « pneuma del male », faccia spirare contro la nave il « vento l,

« Adversus Claudianum (PL 105, 489 A). De incarnationis dominiate sacramento, 5 (PL 16, 827 B). 178 De idololatria, 24 (CSEL 20, p. 57, 1. 15S). 1,7

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contrario » (Mat 14,24) e come questi flutti diabolici tendano continuamente ad un solo scopo: un naufragio nella fede ο almeno nei costumi. Quando esplode questa tempesta, il cristiano dovrebbe pregare contro la «trinità» diabolica di Satana, contro il padre delle tenebre, contro suo figlio, l'anticristo, contro il suo pneuma nemico di Cristo 17B . Inversamente, è altamente significativo per la forza espressiva dell'allegoria del mare, il modo in cui i Padri concepiscono la vittoria della fede in Cristo descrivendola come una bonaccia sopravvenuta improvvisamente dopo il muggire dei flutti diabolici. ILARIO ne dà una spiegazione eloquentissima : come il « drago nel mare » fu ucciso, gli animali inferiori del suo mare furono turbati e poi cessarono di emettere il loro fragoroso muggito; adesso non si ode più alcun mormorio dell'indovino, niente strillare di baccanti, nessun vibrare degli idoli bronzei, nessun canto sacrificale pagano; Cristo ha portato alla tranquillità questo mare 180 . Il corrispondente di questo canto trionfale della Chiesa. veleggiante sul mare lo troviamo in AGOSTINO, e noi lo comprendiamo soltanto se sentiamo risuonare tutto ciò che è stato detto sinora intorno al mare della potenza infernale: « Tutti quelli che piangono sul fatto che ora i templi degli idoli sono chiusi, gli altari rovesciati e le statue "· Comment. in evangelium s. Matthaei, 11 (GCS X, p. 44,1. 4ss). Per questo i pagani sono, simbolicamente, « amara acqua di mare » : AGOSTINO, Enarrationes in Psalmum 103, sermo 4, 4 (PL 37, 1380 C): 4 Video enim adhuc in mari isto formidoloso nondum credentes : ipsi enim versantur in amaris aquis et sterilibus ». - ILARIO, In Matthaeum, 8, 4 (PL 9, 960 AB). - GEROLAMO, Comment. in Habacuc, 1, 2, 12 (PL 25, 1299 B). 180 Tractatus in Psalmum 64, io (CSEL 22, p. 242, 1. 1-9).

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spezzate, sul fatto che si sono anche create leggi che perseguitano il culto degli idoli come crimine capitale, tutti quelli che vi piangono sopra: ecco, essi sono ancora nel mare » 181 . GREGORIO MAGNO combatte ancora gli ultimi avanzi del paganesimo, i mathematici e gli academici, e designa la loro dottrina con una espressione presa da Isaia (11,15): «Lingue del mare d'Egitto»: che significa «sapienza mondana, che è oscurata dalle tenebre del peccato ». Ora però, così continua il suo canto di giubilo, «tutte le dottrine dell'errore sono state ridotte al silenzio, poiché il Signore ha estratto dal mare il Leviathan mediante l'amo della sua incarnazione » 182. Ma il diavolo quale signore del mare suscitò nuove tempeste contro la nave della Chiesa, dopo che i flutti dell'idolatria si erano calmati: questo è un pensiero, con il quale i Padri spesso hanno iniziato la storia delle eresie cristiane. Fu TEODORETO a dare l'espressione classica a questa idea 183. Dopo la morte dei persecutori dei cristiani, «i quali avevano scatenato contro la Chiesa una tempesta simile ad un uragano che sorge improvviso », sopravvenne la pace. « Ma il demonio, sempre e poi sempre cattivo e invidioso, non poteva sopportare la vista della nave della Chiesa che continuava il suo viaggio sospinta dolcemente da un vento favorevole, e fece di tutto per spingerla al naufragio, essa che pure ha per pilota il Signore di tutte le cose ». Ora con questo pensiero tutto il vocabolario già ben coniato della simbolica del « mare diabolico » si tra181 188 188

Enarrationes in Psalmum 103, sermo 4, 4 (PL 37, 1380 D). Moralia, 33, io (PL 76, 684 AB). Hist. ecclesiast., 1, a, 5 (GCS TEODORETO, p. 5, 1. 17-20).

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sferisce dalla polemica contro il paganesimo all'apologia contro le eresie. Ciò è particolarmente chiaro in un esempio: IPPOLITO aveva spiegato nella sua esegesi di Gen 49,13 («Zàbulon abiterà sulle rive del mare »), che ciò si riferisce alla Chiesa che è giunta ormai al porto tranquillo della verità, mentre i pagani si agitano ancora « nel mondo come su un mare sconvolto dalla tempesta » 184 . Ora AMBROGIO trascrive tale pensiero, ma ne cambia lievemente il senso, sostituendo ai pagani gli eretici : « Hic ergo ' Zàbulon iuxta mare ' inquit, ut videat aliorum naufragia ipse immunis periculi, et spectet alios fluctuantes in freto istius mundi, qui circumferuntur omni vento doctrinae, ipse fidei radice immobilis perseverans, sicut est sacrosancta Ecclesia radicata atque fundata in fide, spectans haereticorum procellas »18S. In questo modo di dire d'origine paolina, in cui si parla del « naufragio della fede» (iTim 1,19) e delle «tempeste della dottrina » (Ef 4,14), s'inserisce ora, in forza dell'antico tesoro d'immagini, soprattutto la polemica contro gli ariani. Se METODIO aveva già detto precedentemente 186 che gli eretici si davano la falsa apparenza di saper maneggiare artisticamente la vela e il timone della nave della Chiesa, così continua EFREM nella sua seconda orazione sulla fede in polemica contro gli ariani: « Il mare è grande e se tu lo vuoi scandagliare, sarai agitato dalla rabbia delle sue onde. Una sola ondata può trascinarti via... e gettarti su un incaglio ... la 184 Le benedizioni di Giacobbe, 20 ( T U 38, Lipsia 1912, p. 35, 1. 11-18). 185 De patriarchis, 5, 26 (CSEL 32, 2, p. 139, 1. 18-23). IÌ« £) e resurrectione, 28, 2 (GCS M E T O D I O , p. 257, 1. 6s).

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nave è diretta dai timoni e tuttavia può affondare nei flutti, ma la tua fede non affonda ... solo il nostro Signore può rimproverare le onde. Se dunque nel tuo spirito infuria la fantasticheria, rimproveralo e spiana le onde, poiché come la tempesta agita il mare, così la fantasticheria scuote lo spirito ... Il Signore rimproverò le onde, il vento allora cessò e la nave scivolò via calma » 187 . Nelle lettere di BASILIO si parla spesso di ciò. Egli scrive alla Chiesa di Nicea restata immune dall'arianismo : « L'incendio delle tempeste ereticali non vi ha scosso, incendio che causa affondamento e naufragio alle anime deboli » 188 . Ed egli stesso si presenta come una roccia contro la quale si spezzano le ondate dell'eresia : « Voi sapete bene tuttavia, che noi, simili alle rocce contrapposte in mezzo al mare, dobbiamo intercettare la tempesta scatenata delle onde ereticali, cosi che queste si spezzino contro di noi e non inondino la terra che è dietro di noi » 189 . Si legga inoltre la descrizione delle condizioni della Chiesa, paragonabili ad un naufragio, nella lettera di BASILIO ad Atanasio 190 , l'altro pilota nella tempesta dell'arianesimo, oppure in quella ai vescovi dell'Occidente: «La situazione qui è scossa, reverendi fratelli, e nelle tempeste che sono sorte l'avversario vuole prostrare la Chiesa come una nave, che deve combattere in aperto mare contro gli assalti sempre rinnovati delle onde » 1β1 . Proprio in queste lettere di un uomo così 187 Sermo 2, 2, De fide {Opera omnia syriace et latine, R o m a 1743, v. 3, p- isas). 188 Epistola 28, 1 (PG 32, 305 C ) . "· Epistola 203, 1 (PG 32, 737 B C ) . 1M Epistola 82 (PG 32, 460 AB). 1,1 Epistola 90, 1 (PG 32, 473 A).

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educato classicamente e cristianamente si vede come il linguaggio retorico e ad un tempo teologico della simbolica del mare sia stato portato sino all'estremo. Ora comprendiamo perchè BASILIO poteva parlare delle « onde salate ed amare dell'errore » 192 , nelle quali quasi affonda la nave della Chiesa. Dietro a ciò vi è certamente la convinzione che il « mare amaro » significa anche il « mare diabolico ». Nello stesso tempo GEROLAMO 193 ha attestato espressamente che questa era una simbolica comunemente nota: « Quod autem ipse (diabolus) tenebrarum et amaritudinis significetur nominibus crebrius legimus ». Per questo anche per lui l'eresia è un'amarezza diabolica: « Sed et hoc possumus dicere, quod omnia contraria dogmata veritati amarae sint et sola dulcis veritas ». E tuttavia: la buona nave della Chiesa non può andare a fondo, essa veleggia, come spiega già AGOSTINO, tra le eresie di Ario e di Sabellio come tra Scilla e Cariddi : « Ex una parte saxa navifraga, ex alia parte vorago navivora »194. Questa immagine presa dalla mitologia classica195, che Agostino trasferisce esplicitamente nello stretto tra la Sicilia e l'Italia, risveglia nello spirito dei Padri le latranti foche di Scilla, che dalle amare profondità del mare minacciano le 182

Epistola 161, a (PG 32, 629 C). Comment. in Isaiam proph., 2 a proposito di 5,20 (PL 24, 86 D ) . Ora comprendiamo meglio cosa volesse dire V I N C E N Z O DI LÉRINS con le sue parole sugli « amaros turbulentosque errorum fluctus » (sopra, alla nota 27). 184 Sermones inediti Gueìf., sermo 11, 4 ( M O R I N , p. 476S.) 185 Sui canes marini cu. LUCREZIO, 5, 892. - VIHGILIO, Eclogae 6, 77 : « Timidos nautas canibus lacerasse marinis ». - VIRGILIO, Eneide, 3, 432. - SALVIANO, De gubernatione Dei, 11, 58 (CSEL 8, p. 121, 1. 5s). - ISIDORO, Etymoi, 12, 6, 5 (PL 82, ρ. 451Α). 183

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navi: e anche ciò diventa per essi il simbolo degli « Oppositori », che non possono tuttavia aver presa alcuna sulla nave della Chiesa, poiché essa è costruita con il legno della croce: « Obtrectatores omnino contemnendi sunt, quia canes marini sunt. De profundo amaritudinis latrare possunt, mordere non possunt. Sed quamdiu mordere non possunt? Quamdiu in navi sedes. Quid est: quamdiu in navi sedes? Quamdiu crucem Christi tenes, ab eius navicula non recedis » 196 . Noi possiamo seguire quella magnifica e semplice simbolica fondamentale sino a queste estreme ramificazioni del linguaggio figurato dei Padri: il mare è il mondo sottoposto a Satana, la nave è la Chiesa costruita con il legno della croce, che quindi attraversa tranquilla tutte le tempeste del diavolo. Questa simbolica, per quanto sembri attingere alla cultura e all'educazione antica, è sempre e soltanto un leggiero velo, che i Padri mettono attorno alle verità fondamentali del cristianesimo; fissare questi due interessi e distinguerli con cautela: proprio questo è il compito di ogni ricerca intorno ai rapporti tra antichità e cristianesimo. Ciò può essere reso ancor più chiaramente con un'ultima immagine, che allo stesso tempo porta di nuovo in se stessa una sublime idea teologica. Proprio perché l'eresia non vuol essere più soltanto « mare » ma anche « nave », l'allegoria patristica del mare raffigura la lotta diabolica dell'eresia contro la nave della Chiesa anche come una battaglia navale del grande pirata, il Diavolo. Si legga in proposito la descrizione piena di spirito antico e cristiano, 1β · PS.-AGOSTINO, Sermo 72, 3 (PL 39, 1885 C D ) . - GEROLAMO, Comment. in Ezech. 6, praef. (PL 25, 165 D ) .

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della battaglia navale tra la Chiesa e la flotta degli ariani, che ci ha regalato BASILIO 197. È il « cattivo demonio », che, come scaltro pirata, insidia la nave della Chiesa, dice CRISOSTOMO 198 ; e la retorica bizantina ne ripete le parole 199. Anche in Occidente si predica così; un imitatore di Agostino dice: « In hoc sane procelloso et turbulenti mari etiam diabolus aspirane bacchatur armata classe terribilis, et circumquaque commeatus obsidet innocentium »200. Ma anche qui fiducia: egli è soltanto un « nebulo et pirata» 201 . Una terza minaccia infine sorge contro la nave della Chiesa dal diabolico mare della « cattiveria », dei peccati, delle tentazioni. Qui soprattutto il naufragio e l'affondamento nei flutti tenebrosi e amari di Satana minacciano il cristiano, se egli non resta sul legno della croce. Ciò si trovava già nella simbolica tradizionale della scuola alessandrina. Nell'inno ai pedagoghi, Clemente canta « il mare del male » 202 e parla della nave dell'anima, che deve aver come pilota il Logos, se non vuole affondare nel naufragio dei vizi 203 . Nella sua elevata preghiera al Logos, egli chiede di poter giungere sicuro attraverso la « risacca 187 Se Spiritu Sancto, 30, 76. 77 (PG 32, 2i2s). - Cfr. per questo l'allegoria della nave che da parte ariana viene opposta ai cattolici: Opus imperfectum in Matthaeum, Homilia 23 (PG 56, 755 BC). m Homilia in illud Vidi Dominum, 3 (PG 59, 1 1 4 D ) . 1,9 GERMANO, Sermo in crucem vivificam, 3 (PG 98, 240 D ) . 200 PS.-AGOSTINO, Sermo 72, 2 (PL 39, 1885 A-D). 201 AGOSTINO (?), Sermo 356, 5 (PL 39, 1649 A). 202 Inno sui pedagoghi, v. 25 (GCS CLEMENTE I, p. 292). 203 Paidagogos, 1, 7, 54 (GCS I, p. 122, 1. 12-14). - Per l'idea ascetica del « naufragio » dell'anima cfr. Paidagogos, 2, 2, 22 (GCS I, p. 169, 1. 21) e 3, 7, 37 (p. 258,1. 4s). - il « demone marino Proteo » è il simbolo della passione: Paidagogos 3, 1, 2 (GCS I, p. 236, 1. 8-10).

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dei peccati » 204 al mare calmo del santo Pneuma. Proprio così anche ORIGENE: per lui il mare è simbolo del piacere sensuale : « Profundum et liquidum elementum est amara et fluxa praesentium. rerum, voluptas » 205 . E se pertanto, secondo l'antica tradizione, il mare è « amaro e incostante », METODIO ci dà l'altro lato del timone greco-cristianizzato dinanzi al « terribile » mare : « Quella temibile e insopportabile acqua del mare spirituale non affonda i corpi, ma le anime di coloro, che non hanno il Logos per pilota » 206. Le prove potrebbero moltiplicarsi, ma esse direbbero sempre la stessa cosa: l'amaro e tenebroso mare è simbolo delle tentazioni diaboliche, il peccato è naufragio 207 dell'anima, è amaritudo aeterna come conseguenza dell'aver gioito della dulcedo temporalis208. La « vita mondana », nel senso profondamente teologico che gli ha dato soprattutto AGOSTINO, è paragonabile all'abisso amaro e tenebroso del mare : « Vita saecularis *>* Paidagogos, 3, 12, 101 (GCS I, p. 291, 1. 5). 205 Homiliae in Exodum, 6, 3 (GCS ORIGENE VI, p. 195,1. 12-14). TERTULLIANO, De baptismo, 12 (CSEL 20/ p. 212, 1. 3s). - CIPRIANO,

De patientia, 16 (CSEL 3, 1, p. 409, 1. 9-11). "' De sanguisuga, 4 (GCS METODIO, p. 481, 1. 18-21). !07 Qui ancora alcune testimonianze per questa immagine del « naufragio », che, come dimostreremo più tardi, divenne poi importante per la dottrina dommatica della penitenza come « secunda tabula in naufragio»: AMBROGIO, Explan. in Psalmum 36, 28 (CSEL 64, p. 94,1. 6s) : « Virtutis naufragium ». - PAOLINO, Epistola 16,7 (CSEL 29, p. 122, 1. 2) : « Naufragium salutis ». - Epistola 1,9: CSEL 29, p. 7, 1. 25, e Carmen 24, 82 (CSEL 30, p. 209): « Naufragium in fide». CESARIO, Sermo 66, 1 (MORIN I, p. 270, 1. 17) : « Naufragium castitatis ». - GREGORIO MAGNO. - Regula pastoralis, 4 (PL 77, 128 A) : « Naufragium vitae ». aos Enarrai, in Psalmum 101, sermo 2, 2 (PL 37, 1306 A). - GREGORIO MAGNO, Regula pastoralis, 1, 2 (PL 77, 16 B): «Per profundum maris extrema damnatio designatur ».

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quaecumque est in profundo malorum, secretimi unde erumpit omnis haec amarissima impietas » 209 . A modo di conclusione presentiamo la traduzione di un canto cristiano greco della fine dell'era patristica, che è conservato nelTAnthologia graeca 2 1 °: Il cattivo nemico eccita in noi il flutto minaccioso del piacere sensuale, il mare ne flagella nel fragore della tempesta, e la navicella del nostro spirito si capovolgerà per il peso dell'acqua, affonderà nel vortice delle onde. Ο Cristo, tu mio riposo, comanda al vento e alle onde, conducimi tu al porto sicuro e fa affondare il mio nemico! Ora noi conosciamo bene il mare amaro e demo­ niaco, dalle cui profondità la Chiesa pesca i suoi molteplici e bei pesci, essendo essa la barca di Pietro m. Ora conosciamo il mare, sui cui flutti la buona barca della Chiesa veleggia verso il porto del riposo e corre 208

Annot. in Job (PL 34, 874 AB). Anthologia Graeca, 1, 118 (BECKBY I, p. 158). 211 ORIGENE, Homiliae in Ieremiam prophetam, 18, 5 (GCS ORIGENE III, p. 156,1. 21-23): σαγήνην άεΐ βάλλεσ&οα επί την θάλασσαν τοϋ βίου τούτου και συνάγονται 1χ·9·ύες παντόδαποι. - GERO­ LAMO, Epistola 71, ι (CSEL 55» Ρ· 2 · ί· 2-6): «Te quoque quasi pulcherrimam auratam traxit ad litus. reliquisti amaros fluctus, salsos gurgites, et Leviathan regnantem in aquis ... contempsisti ». - M E 210

TODIO, De sanguisuga, 5 (GCS METODIO, p. 483, 1. 5s): i discepoli

di Cristo pescano gli uomini dalla profondità dell'errore. - PAOLINO, Epistola 20, 6: (CSEL 29, p. 147, 1. 23-25): « Quia tu misisti hamum ad me profundis et amaris huius saeculi fluctibus extrahendum ». GREGORIO MAGNO, Homilia 11, 4 (PL 76, ρ. 1116Β): «Per Ecclesiam quisque ad aeternum regnum a praesentis saeculi fluctibus trahitur, ne aeternae mortis profunda mergatur ».

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vittoriosa, poiché è costruita con il legno della croce, poiché porta con sé eretta, come albero, la croce, su cui si è compiuta la vittoria sul « dio di questo mondo », il Signore del mare. In ulteriore studio ci resta da mostrare pertanto in che senso la Chiesa sia « nave di legno », l'arca in mezzo al diluvio universale, la barchetta di Pietro. AMBROGIO, l'erede dell'allegorismo alessandrino e il trasmettitore di queste ricchezze al medioevo, conclude così questa esposizione della simbolica del mare : « Nec enim vilis est navis, quae ducitur in altum, hoc est ab incredulis separatur. Cur enim navis eligitur in qua Christus sedeat, turba doceatur, nisi quia navis Ecclesia est, quae pieno dominicae crucis velo Sancii Spiritus flatu in hoc bene navigat mundo» 2 1 2 ?

212

De virgimiate, 18, 188 (PL i6, 297 B).



LA NAVE DI LEGNO

In hoc bene navigai mundo. In queste parole AMBROGIO * riassumeva l'essenza e il destino della Chiesa, e in esse parla tutta la fierezza di un cristiano romano, che paragona la sua Chiesa alle buone navi del periodo imperiale di pace, le quali da Alessandria, Costantinopoli e Cartagine andavano verso il Portus Romanus: « No, non è spregevole la nave della Chiesa, che naviga in alto mare, con le vele all'albero della croce, che si gonfiano al vento dello Spirito Santo » ! Un mezzo secolo dopo, in piena migrazione di popoli, « quando popoli rudi e feroci si misero in marcia e tutta la terra era un relitto » 2, il medesimo amore per la Chiesa trovò tuttavia identiche parole di speranza invitta. In una predica, PIETRO CRISOLOGO volge uno sguardo retrospettivo ai primi quattro secoli della storia della Chiesa : « Non appena Cristo era salito sulla nave della sua Chiesa, per poter da allora in poi attraversare il mare del mondo, le tempeste dei po1

De virginitate, 18, 118 (PL 16, 297 B).

1

PIETRO CRISOLOGO, Sermo 20 (PL 52, 256 A).

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poli pagani si scatenarono, il turbine dei giudei, gli uragani dei persecutori, le nuvole tempestose della plebe, la nebbia dei demoni, si levarono, e tutto ciò con tale violenza, che tutto il mondo fu un solo temporale. Le onde dei re spumeggiarono, sibilarono i flutti dei poteri, risuonò il grido rabbioso degli schiavi, il vortice dei popoli fece mulinello, gli scogli dell'incredulità emersero dalla profondità, mugghiarono le rive della cristianità, i rottami della nave dei ' traditori ' vagarono confusamente d'ogni intorno. Tutto il mondo era un solo pericolo e un solo naufragio ... la navicella di Cristo ora è lanciata alta verso il cielo, ora è gettata nel terribile abisso; ora si fa guidare dalla forza di Cristo, ora si fa spingere dall'angoscia e dalla paura; ora è coperta dai flutti del dolore, ora si libra alta come sulle ali della conoscenza della fede. Noi però, ο fratelli, gridiamo continuamente: Signore, aiutaci, affondiamo » 3 ! 4 Tunditur, non mergitur . « Essa è sconvolta, ma non affonda » : qui è contenuta la legge fondamentale della Chiesa, rivestita della simbolica navale. Cercheremo di renderci conto di questa teologia riandando lo sviluppo della simbolica patristica della Nave della Chiesa. La Chiesa è continuamente in pericolo, eppure è l'unico luogo della sicurezza. Essa si trova continuamente nella tempesta e, come una nave provata in mille modi, viene sollevata in alto, spinta verso il 3

Senno 20 (PL 52, 2 5 4 B - 2 5 6 A ) . PIETRO CKISOLOGO, Sermo 21 (PL 52, 258 A). - Lo stesso pensiero è espresso da IPPOLITO, De antichristo, 59 (GCS IPPOLITO I, 2, p. 39, 1. I3s): χ ε ι μ ά ζ ε τ ο α μ ε ν ά λ λ ' ο ύ κ ά π ό λ λ υ τ α ι . - AGOSTINO, Ser­ mo 13, 2 Wilmart ( M O R I N , Sermones post Maurinos reperti, p . 713, 1. 6) : « P r e m i potest, mergi non potest ». 4

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precipizio, spesso mezza distrutta, e ciò che vi è di marcio in essa (per parlare con Gregorio Magno) 5, viene espulso accuratamente; eppure essa continua il viaggio nel fiero sentimento del sicuro approdo nel porto della pace. L'ecclesiologia simbolica dei Padri ripone continuamente il fondamento ultimo di questa dottrina nei due pensieri attinti dal semplice paragone con il mondo nautico: sulla prua della nave della Chiesa siede Cristo come pilota, mentre la nave è costruita con il legno della croce, ossia con l'esiguo elemento, che solo può sfidare tutte le tempeste. L'autore delle Omelie di Macario lo ha espresso così: «Già nel mondo delle cose visibili nessuno può con la propria forza solcare e scavalcare il mare. Per questo egli deve avere il leggiero, lo snello veicolo, che è costruito con legno, e proprio per questo soltanto può stare sull'acqua. Così è impossibile ad un'anima galleggiare sul mare amaro del peccato e sul pericoloso abisso delle cattive potenze delle passioni tenebrose ... E come una nave ha bisogno, inoltre, di un buon pilota per poter fare un viaggio felice, ... così non è possibile attraversare felicemente il mare cattivo delle potenze tenebrose senza il pilota celeste Cristo » 6 . Dietro la sorprendente ricca simbolica dei Padri della Chiesa c'è dunque sempre l'atteggiamento teologico fondamentale: la Chiesa è la «nave buona» proprio perché è guidata da Dio e perché rappresenta la continuazione della vittoria ottenuta da Cristo sul legno della Croce 6 Epistola i, 4 (PL 77, 447): « Vetustam navim vehementerque confractam indignus ergo infirmusque suscepi - undique enim fluctus mtrant et quotidiana ac valida tempestate quassatae putridae naufragium tabulae sonant ». « Homilia 44, 6 (PG 34, 781 D); 44, 7 (784 B).

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contro ogni forza nemica di Dio. Lo Ps.-Ambrogio ha annunciato questo mistero trinitario della Chiesa in una predica ai suoi fedeli, e con queste sue parole noi saliamo ora sulla « nave della Chiesa », che è sul punto di intraprendere il viaggio meravigliosamente pericoloso sul « mare del mondo » : « Navem adaeque Ecclesiam debemus accipere in salo mundi istius constitutam... quae etsi undarum fluctibus aut procellis saepe vexatur, tamen nunquam potest sustinere naufragium, quia in arbore, id est in cruce, Christus erigitur, in puppi Pater residet gubernator, proram Paracletus servat Spiritus » 7. Qui sorge subito il problema dell'origine e del costituirsi della simbolica antica cristiana della « nave della Chiesa ». Mentre rimandiamo il fondamento biblico, che certamente fu il determinante e il primo ad esser preso in considerazione, ai capitoli sulla Chiesa come arca di Noe 8 e come barca di Pietro 9, spostiamo qui la questione in primo piano sulla parte dell'allegoria antica, che deve essere spiegata con la cultura della nautica. Cercheremo di articolare il ricco materiale in tre punti sempre attenti a che la chiarezza della linea non scompaia dietro la massa di documenti: I. La simbolica della « nave della Chiesa », come si presenta nei grandi cataloghi navali della teologia patristica. II. L'antica simbologia navale e il suo influsso nell'allegoria cristiana. III. Il mistero teologico fondamentale della simbolica cristiana della nave della Chiesa: la sua incertezza della salvezza e la sua sicurezza della ' Sermo 46, 4 (PL 17, 697 AB). 8 Cfr. più avanti, a p. 865-938. a Cfr. più sotto, a p. 809-863.

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salvezza consiste nel fatto che essa è una nave di legno, costruita con il legno della croce. i . I L C A T A L O G O N A V A L E DELLA T E O L O G I A P A T R I S T I C A

È importante per la comprensione di tutto ciò che segue occuparci in primo luogo un pò di nautica antica e paleocristiana 10. Dobbiamo familiarizzarci con la conoscenza che l'uomo antico aveva della costruzione navale, della denominazione delle parti di una nave, delle cose necessarie per un felice viaggio u . 10 Per la bibliografìa riguardante la simbolica cristiana della nave cfr. sopra, a p. 397, nota 1; e più sotto, a p. 865, nota 1. 11 Per l'archeologia navale dell'ANTiCHiTÀ abbiamo impiegato le seguenti opere: A. B O E C K H , Urkunden iiber das Seewesen dei attischen Staates, Berlino 1840 (ν. 3 0 della Athenischen Staatshaushaitung). -

A. KOSTER, Das antike Seewesen, Berlino 1923. - IDEM, Studien zur

Geschichte des antiken Seewesen, in Kìio, Beitrage zur alten Geschichte, fascicolo 32, quaderno 19, Lipsia 1934. - J. KROMEYER e G. V E I T H , Heerwesen una Kriegsfuhrung der Griechen uni Rómer (Handbuch der Altertumswissenschaft, v. 4, 3, 2), Monaco 1928. - F. R U H L M A N N , Beitrage zur Geschichte, Kultur, Technik und Schiffahrt, Lipsia 1891. A. NEUBURGER, Die Technik des Altertums, Lipsia 1919. - FR. M O L L , Der Schiffbauer in der bildenden Kunst, Berlino 1930 (= Deutsches Museum, Abhandlungen und Berichte, v. 2, p. 153-177). - H. BALMER, Die Romfahrt des Apostels Paulus und die Seejahrtskunde in romischen Kaiserzeitalter, Berna-Miinchenbuchsee 1905. - P. GAUCKLER, Un catalogue figure de la batellerie grécoromaine. La mosaìque d'Althiburus, in Monumenti et Mémoires Piot 12 (1905) p. 113-54. - C H . D A R E M BERG e E. SAGLIO, Dictionnaire des Antiquités, Parigi 1904, v. 4, parte 1 col. 24-40. - A. BAUMEISTER, Denkmàler des klassischen Altertums, Monaco-Lipsia 1888, v. 3, p. 1593-1639. - FR. M I L T N E R , Seewesen, in R E , Suppl. V (1931), col. 906-962. Anche qui ampia bibliografia per l'archeologia generale della nautica. - FR. MILTNER, Nautai, in RE XVI, 2 (1935) col. 2029-2033. - E. ASSMANN, Segei, in RE II A, 1 (1921) p. 1049-1054. - U n o sguardo vivente nella tecnica dell'antica marineria era offerto dai due modelli di una nave da guerra e di una nave mercantile romane ricostruite sulla base di studi archeologici,

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L'uomo dell'antichità marinara considerava le sue navi non soltanto con gli occhi del mercante calcolatore, ma con quelli dell'artista, per così dire dell'innamorato. Cicerone ne ha parlato quando, affermando che ciò che è veramente utile è sempre anche bello e viceversa, non sa addurre miglior esempio al riguardo, che quello di una buona nave, di cui egli enumera le singole parti con una certa abbondanza : « Quid tam in navigio necessarium quam latera, quam cavernae, quam prora, quam puppis, quam antennae, quam vela, quam mali? Quae tamen hanc habent in specie venustatem, ut non solum salutis sed etiam voluptatis causa inventa esse videantur » 12. Nello stesso spirito, i Padri della Chiesa hanno contemplato le navi sul mare che essi chiamavano « mare nostro » in un senso molto più profondo che non l'impero romano. Perciò noi presentiamo subito qui, separati dal circostante contesto del brano dottrinale ο oratorio, i cataloghi con cui essi spiegano la simbolica delle singole parti della nave. Apparirà più in là che essi lo fanno astraendo completamente dai pensieri teologici che debbono essere chiariti con tale simbolica, spinti solo da un'antica tradizione retorica. Ma il semplice fatto che essi lo facciano, mostra già quanto sia stata viva la rappresentazione della Chiesa come nave sin dai primissimi tempi. IPPOLITO DI ROMA è il primo che ci scompone la simbolica, in se stessa molto più antica, della nave e che erano visibili alla MOSTRA AUGUSTE* in Roma: riproduzioni nel Catalogo, Mostra Augustea della Romanità, Roma 1937, 4 ed., tav. 51, 52, 53. 12

CICERONI, De oratore, 3, 46, § 180.

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della Chiesa in singole immagini nautiche chiaramente distinte tra di l o r o 1 3 . 1 3

IPPOLITO, De Anticristo, 59 (GCS IPPOLITO, I , 2, ρ. 39, l. 12 -

p. 40, 1. 9). - La prima e migliore esposizione di questo testo in FR. J. DÓLGER, Sol Saluiis, Miinster 1925, 2 ed., p. 277S, che tuttavia in seguito dovrà essere completata e in parte corretta. - Cfr. A. H A M E L , Kirche bei Hippolyt vonRom, Giitersloh 1951, p. 57s; p. 199S. - Per una provvisoria comprensione dei principali concetti della nautica simbolica diamo qui le designazioni greche del catalogo di Ippolito: κ υ β ε ρ ν ή τ η ς = timoniere. Sul suo posto cfr. PLATONE, Rep. 6, (488 E ) ; PLUTARCO, Praec. ger. reipub., 13 (807 B ) ; R E XVI, 2, col. 2 0 3 1 , 1. 29SS.

π ρ φ ρ α e π ρ ύ μ ν α = prua (parte anteriore) e poppa (parte poste­ riore) della nave, in latino prora e puppis. A poppa era il posto del timoniere, dove egli accudiva al suo servizio e dava i suoi ordini con la m a n o levata. Cfr. per questo la rappresentazione di Cristo come timoniere sul n o t o frammento di sarcofago di Spoleto in Firenze (Sol Salutis, p. 282S). ο ϊ α ξ , in latino clavus — sbarra del timone, con cui il timoniere manovra i timoni per lo più accoppiati = π η δ ά λ ι α , gubernacula. Cfr. RE Suppl. V, col. 941, 1. 63SS. Di qui spesso anche = semplice­ mente timoni. ν α ϋ τ α ι , nautae = marinai. Sotto questo n o m e debbono compren­ dersi, in opposizione agli έρέτοα, remiges, gli uomini di equipaggio, a cui è affidata la cura delle vele. σ χ ο ι ν ί α , funes = qui certamente le cosiddette ύ π ό ζ ω μ α , la legatura della nave con forti cinghie. Cfr. RE Suppl. IV (1924) col. 776-782 ( R . HARTMANN). C o n σ χ ο ϊ ν ο ς ο κ ά λ ο ς , funis viene designato anche, come mostre­ remo più tardi nella simbolica, le gomene che tengono fermo l'albero ο l'antenna, in particolare il cavo dell'ancora, oppure il cavo di guida della nave di salvataggio (cfr. At 27,32). Per la legatura del corpo della nave cfr. At 27,17. α ν τ λ ί α = sentina, l'acqua che si raccoglie nel locale più basso della nave. - Q u i però può essere significato soltanto il contenitore di acqua dolce portato nel ventre della nave, Γύδροθ-ήκη che si t r o ­ vava nelT ί ί ν τ λ ο ς ; ciò contro RE Suppl. V, col. 920, 1. 24ss. Altrimenti la simbolica dell'acqua battesimale non avrebbe alcun senso. ο θ ό ν η = vela, oppure anche Ιστίον ο ι σ τ ί α , in latino oltre che velum anche carbasus ο Unum. Nell'antichità la vela era generalmente bianca, per questo da Ippolito viene detta « biancolucente »: cfr. RE II A 1, col. 1054, 1. 27SS.

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Mondo Chiesa Cristo Trofeo della croce Oriente e Occidente della direzione del viaggio celeste I due timoni I due Testamenti La gomena L'amore di Cristo II contenitore d'acqua dolce •• II Battesimo La bianca vela Lo Spirito Santo La legge di Cristo L'ancora di ferro Gli angeli custodi I rematori Gli Ordini dei Profeti, La vela superiore deldei martiri e degli apol'albero maestro stoli, che riposano in cielo La scala che porta La croce come segno della forza della passioall'antenna ne di Cristo

Mare Nave L'esperto pilota Albero Prua e poppa

Sappiamo che Ippolito, nella sua esegesi e nella sua retorica, amava una siffatta minuziosa spiegazione di un'immagine presentata dalla Bibbia e dalla Tradizione (una contrimmagine di tale simbolica navale, spinta sino ai dettagli particolari è, per portare soltanto χ λίμα ξ = scaletta della nave per salire a bordo, poi rimpiazzata dalla αποβάθρα = passerella; climax tuttavia è certamente anche la scala di corde che porta in cima all'albero e all'antenna. Ciò che dice a questo proposito FR. J. DOLGER, Sol Salutis, 1925, 2 ed., p. 277, nota 3; p. 278, nota 1, viene confermato figuratamente con le immagini di navi del mosaico di Altiburo. ψίφαρος = in latino siparum ο suparum = la vela di cima, che viene appesa tra l'antenna e la punta superiore dell'albero.

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un esempio, la sua allegoria della vigna nello scritto Sulle benedizioni di Giacobbe) 14. Nella Roma dell'inizio del terzo secolo, a cui appartengono certamente i costruttori navali delle catacombe, sembra che l'allegoria della nave della Chiesa sia stata particolarmente popolare. Ce lo mostra il secondo catalogo, che presentiamo qui: è contenuto nella Lettera di papa Clemente all'apostolo Giacomo, premessa come introduzione alle Omelie pseudoclementine, e che tuttavia fu scritta certamente a Roma dopo il 200. Proprio questo catalogo, con il suo influsso sulle Costituzioni Apostoliche e mediante la sua posteriore assunzione tra i falsi pseudoisidoriani, esercitò un certo influsso sul pensiero simbolico dei tempi posteriori. « Le cose della Chiesa in genere », così comincia il 14° capitolo della lettera, « sono paragonabili ad una grande nave che trasporta sul mare agitato dalla tempesta uomini di diversi luoghi, che vogliono tutti abitare l'unica città del Regno buono » 15. Quindi segue il catalogo delle somiglianze: Proprietario della nave Timoniere a poppa

= Dio = Cristo

14

Benedizioni di Giacobbe, 25 (TU 38, p. 38, 1. 25 - p. 39, 1. 3). Epistola Clementis ad lacobum, 14, 15 (PG 2, 49 AC; 52 A). Cfr. più avanti, p. 817 ss. - Questo catalogo contiene ancora qualche altro termine nautico, che per la simbolica è indispensabile: πρ

Epistola 9, 16, v. 5s ( M G H Auct. Antiq. 8, p. 171). De reditu, 511S (Poetae latini minores, V, BAHRENS, p. 22). Odissea, 5, 317. Agamennone, 635-660 ( W I L A M O W I T Z , p. 206). Agamennone, 505S (RICHTER, p. 260). Trinummus, 835-837 (GOETZ-SCHOELL II, p. 44) Toxaris, 19 (SOMMERBRODT II, 2, p. 6 3 , 1 . 23S: ά π ο φ ι λ ή ς τ η ς

κεραίας π λέοντας).

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L'ECCLÉSIOLOGIA DEI PADRI

la navigazione attraverso la tempesta notturna, quando il lampo guizza attorno all'antenna50. Orazio canta le « scricchiolanti antenne » 51 , e, dopo di lui, CLAUDIO CLAUDIANO, con imitazione alquanto scolastica: «La nave con l'antenna rotta è colpita al ventre, è un giocattolo in balia del vento e dei cavalloni » 52 . Dopo la morte di Pompeo la flotta romana cade in un gravissimo pericolo, durante il quale a nulla più serve neppure l'alzare la vela al punto più alto delle antenne 53. L'imperatore Caracalla durante il viaggio verso l'Asia deve salire su di una nave di salvataggio, poiché il vento tempestoso ha distrutto le antenne della sua nave 54 . In quei tempi si leggevano tutte queste cose con il più vivo interesse; i racconti di tempeste marine erano sempre ricercati; e quando SINESIO DI CIRENE nella sua lettera sulla tempesta marina racconta della « cigolante antenna » 55 , ο quando GREGORIO DI Ν Α ­ ΖΙΑΝΖΌ canta il suo « spaventoso pericolo e la tempe­ sta urlante », che « fischia acuta nei cavi dell'antenna » *6, si tratta ormai di uno stile divenuto in qualche modo manierato. 50 Satur., 12, 19 (HOUSMAN, p. n o ) : « Subitusque antemnas impulit ignis ». - Cfr. per questo anche il caso giuridico, di cui i Digesti, 14, 2, 6 (MOMMSEN, p . 188), ove si narra di una nave il cui albero e antenna furono bruciati dalla folgore: « Ictu fulminis deustis armamentis et arbore et anteluna ». 51 Carni., 1, 14, 5 (KLINGNBR, p . 17): «Et malus celeri saucius Africo antemnaeque gemant... ». 52 Panegyrkus de sexto consulatu Honorii, Carmen 24, 138S (MG Auct. Antiqu., i o , ρ 240). 53 LUCANO, De bello civili, 9, 328 (Hosicus, p. 273). 64 ELIO SPARZIANO (Script. Hist. August.), Caracalla, 5, 8 ( H O H L I, p. 187, 1. 20-22). 55 Epistola 4 (PG 66, 133.7 A). 56 Carmina, 2, 1, 1, v. 316S (PG 37, 994).

LA CROCE COME ALBERO E ANTENNA

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C'è di più: albero e antenna delle navi da guerra esercitano un ruolo importante anche nella stesura della storia; noi ci accontentiamo qui di alcuni accenni, che servono a comprendere il particolare stato d'animo, che provava l'uomo antico alla vista degli ampi pennoni delle sue navi da battaglia. Nell'assedio di Tiro fu determinante per Alessandro Magno l'aver costruito una specie di rocca servendosi di alberi e antenne della flotta riuniti per comporre delle passerelle 57. Nella tattica di Cesare contro le navi dei Galli, fu una buona idea mozzare i cavi delle antenne del nemico 58 . Un rapido innalzamento e abbassamento dei pennoni era indispensabile per qualsiasi vittoria 59 . Noi udiamo addirittura lo schiantarsi delle antenne e « l'implacabile sibilare della tempesta nella velatura », quando Sino ITALICO canta il pericolo di Annibale così decisivo per le sorti di Roma 6 0 . Ed è come un idillio, quando LIVIO può informarci, come Annibale, fuggendo verso Oriente, appresta un pasto ai suoi ospiti all'ombra dei pennoni calati e delle tele delle 57 C U R Z I O R U F O , Hist. Alexandre, 4, 3, 14 (HEDICKE, p. 51,1. 24). U n a cosa simile racconta anche L I V I O , 30, i o , 5 (MULLER III, p. 362S) a proposito di Scipione. Cfr. anche la tattica con le antenne armate di delfini nella guerra navale tra Siracusa e Atene, in T U C I D I D E , Bell. Petop., 7, 41, 2 ( W E I L , p. 167). ss De bello gallico, 3, 14; 15 ( Κ ι ο τ ζ Ι, ρ. 74, l. I4ss): «Funes qui antemnas ad malos destinabant... quibus abscissis antemnae neces­ sario concidebant ». 59 CESARE, De bello Alexandrino Commetti., 45, 2, 3 (KLOTZ III, p. 34, 1. 13-16) : « Antemnis ad m e d i u m m a l u m demissis... demittique antemnas iubet (Octavius) et milites armari; et vexillo sublato q u o pugnandi dabat signum ... ». 80 Punica, 17, 225S (BAUER II, p . 171): « Ecce intorta noto veniensque a rupe procella antemnae immugit stridorque immitte ruoent u m sibilat... ».

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loro vele : « Et vela cum antemnis ex navibus corrogari, ut umbra coenantibus in littore fieret » 6 1 . Albero e antenna sono per l'appunto semplicemente morte e vita, sofferenza e piacere, naufragio ο salvezza; essi sono uno di quegli inesplicabili simboli, in cui si raf­ figura l'ultima dialettica dell'essere umano. Di qui viene che ora anche nella mitologia antica l'albero e la sua antenna vengono per così dire consacrati. Il viaggio originario degli Argonauti è stato sempre inteso nella letteratura antica come prototipo del destino umano. VALERIO FLACCO così dipinge, come su di un affresco pompeiano, la nave sacra degli uomini primitivi presa nella furiosa tempesta : « Nel nero cielo lampeggia, le folgori precipitano dinanzi alla tremante nave, l'antenna vacillante già lambisce con il corno sinistro l'acqua furiosa » 62 . Egual sorte tocca, a tutte le navi mitologiche. Paride viaggia per mare con la rapita Elena, e la sua nave viene sbattuta sul lato dalle onde, « così che si direbbe che i cavi dell'antenna tocchino le stelle » e3 . Presso l'albero e il banco del timone Agamennone amoreggia con Cassandra, così suppone la gelosa Clitemnestra in ESCHILO 64 . Con festosa sontuosità i Greci celebrano la fèsta delle Panatenee, in cui si espone sull'albero e sull'antenna il sacro peplo di Atena 65 . E tutti conoscevano il mito della santa nave di Teseo, che venendo da Creta annuncia salvezza ο perdizione con vela 61 33» 48, 5 (MuiLES, p. 136, 1. 27s). ·* Argonauticon, 1, 622-624 (KRAMER, p . 23). 63 DRACONZIO, Romulea, 8, 389S (MG Auct. Antiqu., p . 166): » D u m s u m m a ceruchis sidera putatit et nihil superesse fatetitur ». " Agamennone, 1442S (WILAMOWITZ, p . 234). 65 Cfr. W . DITTENBERGER, Silloge, 3 ed., p . 374, 1. 14-16.

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bianca ο nera sull'antenna. CATULLO lo ha cantato con i bei versi: « Funestam antennae deponant undique vestem, candidaque intorti sustollant vela rudentes » 66 . Nella metamorfosi del re Ceico in alcione, i versi di OVIDIO dipingono la tempesta marina e si ode per l'appunto il grido del timoniere, che ordina di abbassare le antenne: « Ardua iamdudum. demittite cornua, rector clamat, et antennis totum subnectite velum» 6 7 ! Ed è come un bel commiato da questo mondo del mito nautico, quando CLAUDIO CLAUDIANO, con barocca sontuosità di parole, termina il canto di festa per il consolato di Stilicone con la descrizione della nave dionisiaca : « Edera cinge le tavole, vite si arrampica su per l'albero, e i divini serpenti inebriati si attorcigliano attorno alle antenne » 68. Mentre l'uomo antico in base al mito vede nell'antenna uno strumento e simbolo della sua sorte, questa 86 Carmina, 64, 234S (KROLL, 2 ed., p. 174). Quando KROLL nel suo commento dice che β antennae sono i pennoni, che la nave aveva in grande numero, cosicché da undique non bisogna concludere che c'erano molte navi », si inganna. Va infatti corretto così: « Certamente Catullo parla soltanto di una vela, ossia, secondo il modo dei poeti dell'ultimo periodo, non si è fatto un'immagine completamente chiara ». In verità è Kroll, e non Catullo, che non si è fatta un'immagine chiara: il plurale antennae significa le due metà del pennone, ai cui lati (undique) viene appesa l'unica vela (vestem). - Vestis quale vela è importante per noi più sotto; Kroll rinvia qui anche a LUCREZIO, 6, 114S (BAILEY, p. 518) : « Ubi suspensam vestem verberibus venti versant ». 67 Metamorpk., 11, 482S (EHWALD, p. 342). 88 De consolato Stilichonis III (= Carmen 24, 366S) (MG Auct. Ant. X, p. 233). Cfr. l'immagine della nave di Dionisio avviluppata dai pampini di un pergolato, sul piatto di Exechia (riproduzione in A. KOSTEK, Das antike Seewesen, Berlino 1923, p. 125), con la sua antenna bellamente messa a forma di croce. Del resto la poesia di Claudio rispecchia lo spirito mitologico del settimo inno omerico, di cui ci dà una traduzione A. LESKY, Thalatta, p. 102-104.

630

L'ECCLÉSIOLOGIA DEI PADRI

immagine nautica e la sua tecnica entrano anche nel mondo sentimentale e perciò concettualmente profondo dei paragoni etici. Con ciò nel nostro viaggio attraverso la letteratura greca e latina giungiamo al punto, ove la simbolica cristiana vi si inserisce senza soluzione di continuità. Il coro dell'Eumenide di ESCHILO usa per la prima volta l'immagine dell'antenna affondata, immagine divenuta poi indimenticabile per tutti i Greci: « Colui che volontariamente, senza costrizione, non resta infelice, [si mostra retto, egli non affonderà completamente nella miseria. Eppure io dico ad alca voce: Trasgressore, [sfacciato, ostinato, così ricca la tua nave avanza contro il giusto, di beni - si abbasseranno presto [piena le tue vele, quando il duro pericolo s'impadronisce delle antenne sfracellate»69. Forse Aristofane ha pensato a questi versi, la aove nelle Rane fa cantare dal coro l'ammonizione a parlare con cautela, e ciò nell'immagine della vela ammainata alle antenne: « Guardati, ο cuore superbo, di parlare contro di lui con ira. No, vanne alla deriva con le vele < " Eumenidi, 550-557 (WILAMOWITZ, p. 312). Gli ultimi due versi: δταν λάβη πόνος θραυομένας κεραίας non sono resi

esattamente da J. G. DHOYSEN (ed. W. NESTLE, Stoccarda 1939, p.

321): «Quando dura sventura colpisce gli alberi fracassati». Per questo abbiamo tradotto « alberi » con « antenne », poiché la nave ha soltanto un albero, mentre le due parti del pennone che sporgono dall'albero giustificano anche qui il plurale, come già in Catullo.

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631

ammainate, vanne alla deriva completamente ad aspettare, [rassegnato, quando puoi captare buon vento e prendere una buona direzione»70. Lo stesso pensiero troviamo in PLUTARCO, quando narra del saggio timoniere, che, al levarsi del vento di tempesta, « prega per la salvezza e ricorre agli dei salvifici; ma dopo la preghiera afferra il legno del timone e abbassa le antenne. Poiché dio è certamente una speranza per i valorosi, ma non un pretesto per i timidi » 71. Gli dei salvifici sono i Dioscuri (Castores), ai quali era consacrata anche quella nave, su cui viaggiava Paolo (Atti 28,11). Già Luciano ci fa sapere che essi si posarono sulla cima dell'albero della nave come fuoco lucente. Essi sono la personificazione della salvezza, che ci si attende dall'albero e dall'antenna. Perciò STAZIO nel suo Propempticon a Mezio Celere li implora, affinché si posino con buona stella sull'antenna della nave: «... proferte benigna sidera, et antennae gemino considite cornu, Oebalii fratres » 72 . !0 Rane, 997-1003 (COULON, IV, p. 133). - Versione di J. G. DROYSEN, Lipsia 1891, 3 ed., v. 2, p. 298. 71

De superstitione, 169 Β (BERNARDAKIS I, p. 414, 1. 21-23 ; P·

415, 1. I2s). Cfr. anche Praec. rei pubi, gerendae, 807 C (BERNARDAKIS V, p. 83, 1. 21). '3 Silvae, 3, 2, v. 9s (VOLLMER, p. 123). Cfr. perciò anche il Frammento 78 di ALCEO, di cui viene data una trascrizione da A. LESEY Thalatta, p. 146 - PLUTARCO, De defectu oracuhrum, 426 BC. - "· J. DOLGBR, Dioskuroi, in Antike una Christentum 6 (1950) p. 27^ss· K. JAISLE, Die Dioskuren als Retter zur See bei Griechen una Rómem una ihr Fortleben in christlichen Legenden, Tubinga 1907.

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PADRI

Pure a questa santa antenna pensa OVIDIO nella tristezza del suo esilio di Tomi, quando scongiura l'amico in Roma di condurre una vita dignitosa e di evitare le tempeste invernali della superbia cortigiana: « Effugit hibernas demissa antenna procellas, lataque plus parvis vela timoris habent »73. E qui si ricorda con nostalgia del suo periodo romano di splendore, quando la nave della sua vita avanzava ancora con le vele spiegate all'antenna : « Dum tulit antennas aura secunda meas» 74 . Questa stoica calma dell'arte di vivere, questa « ascesi dell'antenna calata », ha trovato forse la sua più bella espressione nei cori di SENECA. L'arte di manovrare l'antenna può essere segno della superbia indomita, con cui gli uomini osano viaggiare per il mare infido, come dice nel lamento del coro della Medea: « Nunc antennas medio tutas ponere malo: nunc in summo religare loco, cum iam totos avidus nimium navita flatus optat et alto rubicunda tremunt suppara velo » 75. Ma anche viceversa: l'abbassare la vela significa modestia e umile saggezza. Proprio in opposizione all'atroce esplosione di dolore di Edipo, Seneca fa cantare dal coro il canto della vita tranquilla : « se il fato mi permettesse di forgiarmi la vita a mio piacere, allora io riceverei soltanto un lieve zeffiro nella vela, 73

Tristia, 3, 4, v. 95 (EHWALD-LEVY, p. 62). Tristia, 5, 12, v. 40 (EHWALD-LEVY, p. 139). " Medea, 323-328 (RICHTEK, p. 130).

74

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così che le mie antenne non tremerebbero nella dura tempesta »: « Fata si liceat mini fingere arbitrio meo, temperem Zephyro levi vela, ne pressae gravi spiritu antennae tremant » 76. Si potrebbero addurre ancora molte testimonianze, che parlano della vitalità con cui l'immagine dell'albero e dell'antenna si manifesta in sempre nuove forme nel pensiero mitico ed etico dell'antichitàηη. Ciò che è stato citato è comunque sufficiente per percepire lo stato d'animo in cui affonda le radici anche la simbolica cristiana dell'antenna della croce. Qui bisogna tracciare con più esattezza ancora un ultimo sviluppo: esso ci condurrà sino alla porta del mondo simbolico cristiano e ci è comprensibile soltanto a partire da ciò che abbiala sin qui esposto circa la tecnica e la letteratura della nautica dell'antenna. Dobbiamo cioè mostrare più da vicino che già per l'uomo antico del periodo precristiano la vista dell'albero della nave attraversato dall'antenna era un '· Edipo Re, 882-886 (RICHTER, p. 234). " Cfr. ad es. SOLINO, Collectanea,

52, 42

(MOMMSEN, p . 191

1· 3-7), ove, a proposito della balena, si riferisce che il suo corpo gigantesco « si erge al di sopra delle antenne delle navi ». - A V I E N O , Carmina, 2, 669-678 (HOLDER, p. 32), tempesta marina ed esortazione all'amore della terra: « Iam solve vaga carbassa malo, iam prolixarum iaceat rigor antemnarum ». - In Lucrezio, « l'infido mare » ricoperto da fracassate assi di nave e da antenne sfracellate, è l'immagine stessa del caos degli atomi: De rerum natura, 2, 553-560 (BAILEY I, p. 264). L'immagine dell'alta antenna s'incontra anche nella retorica. F R O N TONE D I C I R T A , Epistola 1, 2 (NABER, p . 98) loda l'oratoria dell'im-

peratore Antonino e dice che egli parla non soltanto dai rostra, ma anche dall'alto dell'antenna.

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DEI

PADRI

richiamo al legno patibolare della croce, anzi, che egli poteva rappresentarsi quasi naturalmente nelle aste estese dell'antenna una vita crocifissa78. La nave ben costruita è per il Greco e per il Romano come una persona amata (ne abbiamo già parlato esaurientemente) 79 ; senza volerlo, si paragonano le singole parti della nave alle membra dell'uomo. Così le antenne diventano naturalmente le braccia, che possono essere estese in forma di croce all'albero del corpo. Così parlano persino i giuristi, come ad esempio che, in una perizia giuridica delle «membra» di una nave, dice : « Omnia autem quae coniuncta navi essent veluti gubernacula, malus, antemnae, velum, quasi membra navis esse »80. Così parlano soprattutto i poeti. In VIRGILIO le antenne sono semplicemente brachia%1. Nei vecchi amanti di MELEAGRO, le nodose spalle sono simili alle antenne 82 ; e in OVIDIO, Cibele trasforma le navi di Enea in Naiadi e le antenne diventano braccia83. Solo così comprendiamo come ARTEMIDORO possa dire nel libro dei sogni: Quando i naviganti sognano di avere il capo reciso, ciò significa la perdita dell'antenna: άπολεΐσ&αι τοϋ πλοίαν την 84 ίστοκεραίαν σημαίνει . Qui, l'interprete dei sogni veramente non resta nell'immagine: egli avrebbe ALFENO,

™ Cfr. sopra, a p. 436. Cfr. sopra, a p. 545-553-

79 M

A L I E N O , Digest., a i , 2, fragni. 44 (MOMMSEN, p . 281).

81

Eneide, 5, S29 (JANELI, p . 207).' Anthologia Gratta, 5, 204, v. 3 (BECKBY I, p . 346). 83 Metamorph., 14, 554 (EHWALD, p . 442): «Lina comae molles, antennae brachia fiunt». , a

8 4

Oneirokritika, 1, 3S

(HERCHER, p . 37, 1.

5).

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635

dovuto esprimere con «capo» tutta la struttura della cima dell'albero assieme alla coffa. Che di fatto si pensasse così, ce lo mostra un'altra spiegazione, che, assieme a questa, esercitò anche un grande influsso, poiché in essa risuona l'origine primitiva della parola κέρας e κεραία, che portò a parlare di « corna » dell'antenna : « Un toro in sogno significa per i naviganti tempesta e minaccia di naufragio, poiché l'antenna subirà una sfortuna. Il toro infatti rassomiglia con il suo capo e le sue corna alla vela e alla coffa dell'albero » 85 . Certamente questo è un modo di parlare manierato dei maghi, ma così pensava anche l'uomo della strada e il commerciante marittimo. Essi vedono nell'albero e nell'antenna un essere vivente, una forma di croce, che ha significato magico, e in sogno si vedono precisamente inchiodati a questa croce. « Essere crocifisso significa, nell'insieme, bene per il navigante. Poiché la croce, proprio come la nave, è composta di legno e di chiodi. E la struttura intorno all'albero è simile ad una croce », dice ancora ARTEMIDORO 86. Solo a partire da ciò comprendiamo il giuoco di parole tra il tiranno Megapente e lo schiavo Cinisco, che viaggiano verso l'ai di là sulla barca dei morti di Caronte, ove scompaiono tutte le differenze terrestri di classe: « Non sai quanto poco mancò che ti facessi inchiodare alla croce a causa delle tue insolenze contro di me»? E lo schiavo rispose, come se ciò fosse cosa evidente: «Per questo adesso sei tu che vieni 85

Oneirokritika, 2, 12 (HERCHER, p. 102, 1. 5-8). Oneirokritika, 2, 53 (HERCHER, p. 152, 1. 4-6): και γ α ρ έκ ξ ύ λ ω ν κ α ΐ ή λ ω ν γ έ γ ο ν ε ν ό σ τ α υ ρ ό ς ώ ς κ α ΐ τ ο π λ ο ΐ ο ν καΐ η κατάρτιος αυτοΰ όμοία εστί τ ω σ τ α υ ρ ω . sa

636

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inchiodato all'albero » 87 . Dunque albero e antenna sono precisamente « croce ». Per questo FESTO può dire semplicemente, quando parla della contrammezzana (supparum) : « Et in nautis nunc supparos appellarmi vela linea in crucem expansa » 88 . Antenna e croce appartengono allo stesso genere. E qui comincia la simbolica cristiana. 2. ALBERO E ANTENNA COME SIMBOLO DELLA CROCE CRISTIANA

È GBEGOMO DI NISSA a darci la migliore spiegazione dell'espressione di MINUCIO FELICE a proposito della forma di croce riconoscibile naturalità; ossia con naturalezza, conforme ai sensi, nelle navi. Egli parla del mistero della croce, che domina nascostamente tutta la natura e dice: «Possiamo imparare ciò dai marinai; il legno che si pone di traverso all'albero della nave e da cui si svolge la vela, è chiamato antenna (κεραία), ed essi derivano questa designazione ver­ bale da ciò che appare sensibilmente all'occhio 89 (σχήμα) » . Prima di esporre questa parte dottrinale della teo­ logia dei Padri, ci sia permesso inserire qui una parola di giustificazione del metodo con cui sin qui abbiamo presentato ciò che « abbiamo imparato dai marinai ». 87 LUCIANO, Cataplus sive Tyrannus, 13 (SOMMERBRODT I, 2, p. 70, ]. 16-21). Cfr. perciò lo schiavo legato all'albero della nave, che fa pensare ad Ulisse: SINESIO, Epistola 32 (PG 46, 624S). 88 FESTO, De verbomm significatu (LINDSAY, p. 406, 1. 15-18). U testo n o n è riferito del tutto chiaramente, ma il significato è inequivocabile. 89 Oratio ι (PG 46, 624S).

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Se si vogliono comprendere veramente sino alle loro ultime radici le profonde relazioni della simbolica patristica con l'ambiente antico, non ci si può mai accontentare di lavorare soltanto con alcune allusioni a raffronti letterari, ma bisogna piuttosto cercare di cogliere quello che abbiamo chiamato « lo stato d'animo nautico », il senso della vita, comune ai cristiani e ai pagani dell'antichità, che viene fornito loro dall'ambiente nautico. Qui dominano dei rapporti reconditi, per lo più non enunciati, e soltanto se siamo in grado di accordarli tra loro, Γ « illogicità » dei simboli, spesso incomprensibile quando ci arrestiamo alla superficie della pura citazione letteraria, diventa in qualche modo comprensibile. Solo per questo è stato necessario accumulare le pezze d'appoggio e di scodellare la cornucopia dei frutti della lettura, e non perché ci aspettassimo ora che ogni elemento dell'antica simbolica nautica trovasse la sua corrispondenza cristiana. Contro questo nostro metodo si potrebbe citare l'ironia di ARISTOFANE a proposito del poeta Agatone: « Costruire un pezzo nei cantieri dell'arte : egli forma già l'ossatura dello scafo, egli già pialla qui, già congiunge là, incolla detto su detto, vi spalma sopra la vernice»90. Ciò sarebbe tuttavia ingiusto. Solo il « concordanza », che costruisce su una noscenza faticosamente acquisita delle antiche e cristiane, favorirà la nostra

metodo della profonda cotestimonianze comprensione

"> Thesmophoriazusen, 53-56 (COUION IV, p. 19S; dalla traduzione tedesca di J. G. DROYSEN, Lipsia 1881, 3 ed., v. 3. P· lf! ' 5 ''

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delle relazioni tra « antichità e cristianità ». Per citare già qui soltanto due esempi, che dobbiamo presentare per l'appunto documentati: quando i Padri della Chiesa primitiva leggono in Abacuch 3,4 la frase: « E le corna sono nelle sue mani », quasi naturalmente (cosa oggi incomprensibile e artificiosa per noi) viene alla loro mente il ricordo nautico, che le estremità dell'antenna erano chiamate cornua, e dinanzi agli occhi del loro spirito già l'immagine del Crocifisso, che estende le sue braccia sulle antenne, come il Salvatore inchiodato all'albero della nave della Chiesa. Oppure, quanto nella benedizione di Giacobbe (Gen 49,6) essi leggono a proposito del « toro », li porta spontaneamente, proprio come il sognatore di Artemidoro, a pensare alle « corna » del toro, che sono come le antenne dell'albero della nave, e il corso dei loro pensieri si indirizza subito verso i simboli nautici dell'antenna della croce. Oggi cosideriamo tutto ciò come un giuoco sublime, come un'allegoresi intrecciata di misteriose associazioni di parole. Dovremmo al contrario pensare che una faticosa ricostruzione e rintracciamento di queste strane relazioni, ci condurrebbero diritto in quel mezzo della teologia patristica, che resterà sempre inaccessibile a chi l'abborda soltanto letterariamente dal di fuori: ci condurrebbero cioè là dove una dommatica simbolica già completamente costituita, anche se non ancora maturata in idee astratte (e perciò divenuta forse arida), si cela dietro il mondo delle immagini e si sviluppa con sempre nuova freschezza. A partire da questo possesso interiore, i Padri ο impiegano i simboli of­ ferti dalla « natura » per spiegare ο accennare con « di­ mostrazione piena di logos e con un'immagine che

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dà all'occhio » (come dice GIUSTINO) 91, le verità della rivelazione (la quale per lo più parla proprio con «immagini»). La stessa cosa avviene anche nel mondo delle immagini nautiche, in mezzo al quale ora ci troviamo. Albero e antenna compendiano la nave, la sua salvezza ο la sua perdita. L'antenna portatrice della vela è garanzia di buon viaggio come pure d'altissimo pericolo, luogo di riposo della divinità salvifica e, ad un tempo, esposto a tutti i fulmini. La « nuda antenna » con le sue vele lacerate dalla tempesta ο bruciate dai fulmini è inizio di naufragio, il legno intatto dell'albero della nave è certezza della vittoria sul mare infido e sulle sue potenze demoniache: Tropaia è il nome che i Greci danno volentieri alla loro buona nave 92 . Ma albero e antenna sono come una croce. Per questo il cristiano trasferisce ora al legno della croce del Salvatore questa dialettica simbolica, che anch'egli, da genuino navigatore, percepisce alla vista delle navi. Egli, infatti, già sa dalla dottrina salvifica della Bibbia, che incarnazione ο morte di croce del Signore sono sempre due cose : « Caduta e resurrezione » (Lue 2 >34·)> « pazzia per coloro che si perdono, e forza per i salvati» (iCor 1,18). Con lo sguardo fisso alla teo­ logia della croce, della grazia e della Chiesa, attiva dietro i simboli, presentiamo ora il dimenticato in­ segnamento dei Padri circa ΓAntenna Crucis. n

Apologia, i, 55, 13 (OTTO I, 1, p. 152): δια λόγου καΐ σχή­

ματος φοανουμένου.

" Cfr. A. BOECKH, Urkunden iiber das Seewesen des attischen Staates, Berlino 1840, ρ. 92.

640

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Albero e antenna come tropaion. Nella letteratura cristiana, incontriamo il primo accenno di una dottrina della antenna della croce proprio in quel capitolo di Giustino, che abbiamo citato più sopra. E proprio dalla forma vagamente allusiva con cui l'apologeta ne parla, possiamo desumere che si tratta di un topos già noto e che apparteneva agli elementi fondamentali della dottrina del « mistero della croce » 93 . Si tratta di dimostrare che la figura della croce si manifesta misteriosamente già nelle « cose sensibili » e che « non c'è nulla al mondo che possa essere fatto funzionare ο possa avere coesione senza questa figura » 94 . L'ele­ mento dell'opposizione dialettica, necessario per il mi­ stero, consiste nel fatto che la croce spregevole eppure impressa su tutte le cose ordinarie, è il « più grande simbolo della forza e del dominio ». Giustino si richiama qui a ciò che ne ha detto precedentemente, quando, nel dimostrare la croce in base ai profeti, spiega le parole di Isaia (9,6) riguardanti il « dominio regale, che riposa sulle sue spalle », come predette della croce, « sulla quale egli, inchiodato, adagiò le sue spalle » 95 . Potere regale e legno del disonore costituiscono un tutto, allo stesso modo in cui ora, nel 83 Cfr. perciò H. R A H N E R , Griechische Mythen in christlkher Deutung, Zurigo 1957, 2 ed., p. 73-100: il mistero della croce. - Per una origine accettabile precristiano-giudaica del simbolo della nave della Chiesa, cfr. E. PETERSON, Das Schiff als Symbol der Kirche. Die Tat des Messias im eschatologischen Meeressturm in der jiidischen und altchristlichen Uberlieferung, in Theologische Zeitschrift (Basilea) 6 (1950) p. 77-79- - Sviluppo e critica parziale di testi in K. GOLDAMMER, Das Schiff der Kirche. Ein antiker Symbolbegriff aus der politischen Metaphorik in eschatologischer und ekklesiologischer Umdeutung, in Theol. Zeitschrift (Basilea) 6 (1950) p. 232-237. ·* Apologia, 1, ss, 2 ( O T T O I, 1, p. i s o ) . 85 Apologia, 1, 35, 2 ( O T T O I, 1, p. 104).

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54^

simbolo desunto dalla nautica, salvezza e albero sono intimamente connessi: 8-άλασσα μεν γαρ ού τέμνε­ ται, ην μη τοϋτο το τρόπαιον, δ καλείται ίστίον, 96 εν τη νηι σώον μ ε ί ν η . «Il mare non può essere solcato, quando questo segno di vittoria, che è chiamato vela, non resta illeso ». Ora, non è semplice interpretare questo testo, utilizzato più tardi da Tertulliano e da Minucio Felice. Innanzitutto, esso suppone che la croce sia chiamata semplicemente tropaion, τρόπαιον, segno di vittoria. Su ciò siamo stati ben documentati da FR. J. DÒLGER, il quale ha ricondotto sino a Paolo (Col 2,5) le radici di questa teologia della croce vittoriosa, che in seguito venne sviluppata con tanta ricchezza 97 . Tropaion è il palo di legno a cui si appendono, su di una stanga trasversale, le armi del nemico, nel luogo ove questi si è dato alla fuga. Già questo arnese di legno forma dunque la figura della croce e sembra perciò un albero con la sua antenna. Si pensi soltanto al peplo di Atena che viene svolto dalla mistica antenna della nave per essere esposto. Se dunque Giustino poteva già supporre che la croce era chiamata semplicemente tropaion, l'ampliamento al paragone nautico con l'albero diveniva spontaneo. La meraviglia è tanto maggiore, in quanto poi non segue la parola ιστός, ma ίστίον: il tropaion è la vela, che pende dall'antenna. N o n è lecito dire con DÒLGER 98 che al posto di « vela » qui sarebbe meglio porre «albero». Al contrario: la soluzione del significato del testo sta proprio nel fatto ·· Apologia, i, 55, 3 (OTTO I, 1, p. 150).

»' FR. J. DÒLGER, Die Sonne der Gerechtigkeit una der Schwarze,

Munster 1918, p. 133-138. 98 Ivi, p. 137, nota 4.

i

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che parla di « vela », e Giustino evidentemente ha voluto dire di più di quanto racchiudeva in una sola parola: tutta la storia ulteriore del significato, da noi qui presentata, ci darà ragione. La « santa » tela della vela, che pende giù dall'antenna dell'albero, è in se stessa il tropaion; viceversa: la perdizione comincia per il fatto che la tela della nave si strappa ο viene bru­ ciata. Ma che la vela stessa possa essere chiamata tro­ paion, diventa comprensibile soltanto quando Giu­ stino, alla fine di questo capitolo, presenta il secondo simbolo della forza della croce che si riflette in umili segni sensibili : « Anche i simboli, a voi familiari, an­ nunciano la forza di questa figura della croce, voglio dire i vexilla e tropaia, con cui ovunque si svolgono i vostri cortei e con cui voi mettete in mostra le im­ magini visibili della potenza e del dominio, anche se lo fate senza essere consapevoli del loro significato » ". In questi stendardi infatti, il cui drappo pende dal legno trasversale della stanga della bandiera, si perce­ pisce chiaramente la forma di croce che si trova sotto il rivestimento, questo tropaion dei soldati è un simbolo sensibile della croce dei cristiani, e tale è ora pure il caso di una nave (anche se inizialmente ciò viene detto solo mentalmente) : la « santa tela della vela » per questo è intatta e intanto è vittoriosa nel solcare il mare, in quanto pende da questa intatta impalcatura di legno risultante dall'albero e dall'antenna. ·" Apologia, i, 55, i o . il ( O T T O Ι, i, p. 152). - Del resto già C I CERONE (Orator, 45, § 153) accosta con una strana etimologia velum e vexillum. Lo fa notate K. GOLDAMMER, op. cit., p. 235 e rinvia ad un testo di AMBROGIO, che noi discuteremo più a fondo in seguito (De virginitate, 18, 118: PL 16, 297).

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Giustino non espone ancora, il significato di questa nave che ha riportato vittoria grazie alla virtù del segno della croce. Importante, tuttavia, indicare i m m e diatamente la stretta parentela dei simboli dei vexilla e dei tropaia con il simbolo nautico dell'albero: è qui, in effetti, che affonda le sue radici la teologia della nave vittoriosa della chiesa, che stiamo per esporre. Prima però TERTULLIANO ci spiegherà questa connessione logica di tropaion e antenna, che in Giustino è semplicemente presupposta. La pungente ironia con cui l'Africano difende i cristiani dall'accusa di essere, crucis religiosos, adoratori della croce, ci ha regalato il capitolo 16 dell'Apologetkum e i passi paralleli nel primo libro Ad nationes. Anche voi pagani romani, così si svolge il filo del ragionamento della risposta, pregate, senza saperlo, delle croci, ο per lo meno dei tronchi di legno, che per così dire costituiscono una parte (la più importante) della croce, quando li piantate al suolo : « Pars crucis est omne robur quod erecta statione defìgitur » 1 0 °. Se pertanto le cose stanno così, continua ironicamente Tertulliano, noi cristiani preghiamo almeno tutta una croce, ossia, « nella peggiore delle ipotesi, pur sempre un dio completo e integro ». Questa allusione un pò oscura deWApologeticum diventa comprensibile per noi grazie ai passi paralleli del libro Ad nationes e proprio qui si illumina il mondo di immagini dell'oratoria nautica : « Pars crucis et quidem maior est omne robur quod erecta statione defìgitur. Sed nobis tota crux imputatur, cum antemna scilicet sua et cum sedilis excessu » : « Ci si rimprovera una croce intera, significa: con l'antenna e con il legno ">" Apologeticum, 16, 7 (CSEL 69, p. 43, 1. 315).

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d'appoggio che gli sta dinanzi » 101 . L'artista si procura un tale sostegno di legno quando impasta l'argilla attorno a questa croce per fare un primo abbozzo della futura statua, e il medesimo sostegno di legno in forma di croce porta gli stendardi e i tropaia dei soldati romani; una forma di croce è all'interno dello « scheletro » degli dei e delle bandiere di vittoria : «Diximus originem deorum vestrorum a plastis de cruce induci. Sed et victorias adoratìs in tropaeis, cum cruces intestina sunt » 102 . Che in tutte queste rappresentazioni del tropaion e del suo sostegno ligneo si tratti in ultima analisi di immagini nautiche, è dimostrato non soltanto da tutto il paragone con Yantemna del tronco della croce che si presenta quasi spontaneamente nel capitolo Ad nationes, ma ora anche dall'uso che fa, nelTApologeticum, della parolai iphara, di cui in seguito parleremo più ampiamente : « Siphara illa vexillorum et cantabrorum stolae crucum sunt » 103. Questa parola rara spesso è stata compresa male ed è stata tradotta erroneamente. Si dimostrerà in seguito che qui possiamo senz'altro dire: «Le contrommezzane delle bandiere e degli stendardi non sono altro che rivestimenti di croci ». Tertulliano pertanto si rappresenta l'impalcatura dei tropaia semplicemente come albero e antenna trasversale, alla cui cima sventolano le contrommezzane, proprio come su di una nave. Possiamo inserire ancora una linea amplificatrice in questa nota fondamentale nautica presente in tutta 101 loa 103

Ad nationes, ι, 12 (CSEL 20, p. 81, 1. 27 - p. 82, 1. 5). Apologeticum, 16, 7 (CSEL 69, p. S3, 1. 34s). Apologeticum, 16, 8 (CSEL 69, p. 43, 1. 38s).

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la serie di immagini. Anche Tertulliano, come già prima di lui Giustino, parla qui delle forme della figura della croce inscritte nella natura visibile, e le trova ora, oltre che nel sostegno ligneo costituito da albero e antenna, anche nelle forme del corpo u m a n o : la tacita et secreta linea crucis è visibile nel corpo, poiché la testa è eretta, la rotondità delle spalle sporge, e l'uomo, quando allarga le braccia, imita la forma della croce 1 0 4 . È naturale pertanto, che, dinanzi alla figura dell'albero incrociato dall'antenna, si pensi ad una figura di uomo legato alla croce: abbiamo visto più sopra quanto fosse familiare questa rappresentazione per l'uomo pagano dell'antichità navigante. « I vostri tropaia non hanno soltanto la forma di una semplice croce, ma riproducono l'aspetto di un uomo crocifisso {adfixi hominis faciem imitantur), dice MiNUCIO FELICE

105

, e proprio qui egli continua con le

parole che già conosciamo: « N o i vediamo quasi naturalmente (naturaliter) il segno della croce sulla nave, quando questa avanza a gonfie vele ». N o n c'è alcun dubbio, e ciò risulterà ancor più chiaro in seguito, che l'antico cristiano, dinanzi alla forma di croce dell'albero e dell'antenna, si rappresentava il Salvatore crocifisso, che (così possiamo finahnente prolungare la linea che inizia sin da Giustino) porta sulle antenne delle sue spalle la vittoriosa regalità e così assicura ai naviganti la salvezza raffigurata nella tela intatta della vela. Siamo così giunti a quel testo di IPPOLITO, di cui abbiamo già parlato nell'elenco del catalogo nautico 104 105

Ad nationes, I, 12 (CSEL 20, p. 82, 1. 13-16). Ottavio, 29, 7 (CSEL 2, p. 43, 1. 9s).

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della teologia patristica106. In esso la teologia della croce come tropaion della vittoria viene esposta con una precisione nautica sino ad ora ignorata. Prendiamo dalla massa delle immagini simboliche di questa teologia della nave soltanto ciò che sta in diretta relazione con la nostra questione (ma apparirà chiaro che solo adesso, dopo aver fatto conoscenza con la tecnica e la simbolica delle immagini nautiche dell'antichità, possiamo dare una esatta spiegazione del testo, ossia, che siamo in grado di correggere la trasmissione letteraria del testo alla luce della nostra conoscenza nautica). Nel suo libro sull'Anticristo, Ippolito tratta delle persecuzioni a cui verrà sottoposta la Chiesa degli ultimi tempi. Collegandosi alle parole di Isaia (18,1 LXX) a proposito delle « ali delle navi », egli parla dei cristiani come della « generazione perseguitata e calpestata dall'Anticristo e dagli infedeli » degli ultimi giorni. « Le ali delle navi : cioè le Chiese. Il mare è il mondo, sul quale la Chiesa, come una nave sul mare, viene sbattuta qua e là nella tempesta e tuttavia non affonda. Poiché essa ha con sé Cristo, l'esperto timoniere». Qui inizia il testo, che dobbiamo studiare più da vicino per la nostra teologia dell'antenna della croce. Estraiamo perciò i passi che vi appartengono dal contesto (ambiente) dei rimanenti simboli nautici, che saranno presentati in seguito: φέρει δε έν μέσω και. το τρόπαιον το κατά τοϋ θανάτου, ώς τον σταυρόν τοϋ κυρίου μεθ'έαυτής βαστάζουσα ... οθόνη δέ ταύτη λαμπρά πάρεστιν ώς το πνεϋμα το άπ'ούρανών, δι,'οδ σφραγίζονται ol πιστεύοντες τω θ ε φ ... κλΐμαξ δε έν αύτη εις 106

Cfc.

sopra,

a p.

}IJS·

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υψος επί το κέρας άνάγουσα ώς είκών σημείου πάθους Χρίστου, έλκουσα τους πιστούς εις άνάβασιν ουρανών, ψίφοφοι δε έπί το κέρας εφ' ύψηλοϋ ένούμενοι ώς τάξεις προφητών μαρτύρων τε καί 107 αποστόλων εις βασιλείαν Χρίστου άναπαυόμεναι . « Essa porta nel suo mezzo anche il segno della vittoria, che è contro la morte, poiché essa porta ritta con sé la croce del Signore ... Gli è stata data anche una vela lucente di bianco, ciò significa lo Spirito, che è dal cielo, nel quale vengono segnati i credenti in Dio ... In essa c'è una scala di corda, che conduce su in cima all'antenna, come segno sensibile della passione di Cristo, ed essa conduce i credenti all'ascesa verso il cielo. Le vele di cima però, che si riuniscono al vertice sopra l'antenna, sono come gli ordini dei profeti, dei martiri e degli apostoli, che qui si riposano sino all'ingresso nel regno di Cristo ». La traduzione che diamo fondandoci sul testo critico di ACHELIS e che si differenzia in diversi punti non trascurabili da quella di V. GRÒNE 1 0 8 e di FR. J. DOLGER 109 , è già giustificata mediante il materiale che abbiamo presentato nella prima parte del nostro studio. L'albero è tropaion e croce ad un tempo : segno di vittoria contro la morte per acqua, come fu già compreso in Giustino; croce, perché attraversato dall'antenna, come era ovvio per l'uomo antico. L'albero sta « ritto », ciò risuona nell'enfatico βαστάζουσα, con cui viene rafforzata l'espressione φέρει. ο·9·όνη signi­ fica « stoffa della vela », ma allo stesso tempo anche 107 De Antichristo, 59 (GCS IPPOLITO I, 2, p . 39, 1. I5s; p . 40, 1. 1-7). «a BKV, 1 ed., Ippolito, Kempten 1873, p. 54S. 109 Sol Salutis, Miinster 1925, 2 ed., p. 277S.

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« stoffa di bandiera », come mostreremo più chiaramente in seguito: qui risuonano dunque gli stessi pensieri, che, in direzione inversa, in Tertulliano e Minucio nella descrizione dei vexilla e tropaia fecero filtrare il vocabolario nautico. Che κλΐμαξ qui sia la scala di corda che conduce in cima all'albero, lo ha già osservato DÒLGER 110, e noi più su ci siamo richiamati, inoltre, appositamente anche ai mosaici navali di Altiburo. Il significato profondo della simbolica teologica, che si cela nell'immagine della scala di corda, deve essere visto nel fatto che questa conduce « in alto, sopra l'antenna ». Essa può dunque essere simbolo della passione di Cristo, che egualmente conduce i credenti « sopra l'antenna della croce », in cielo. Tutti questi paragoni nautici possono essere compresi nella loro precisa esemplarità, e quindi nella loro portata dommatica, solo se non li condanniamo soltanto come idee strane non obbliganti ο come contorte allegorie, ma le spieghiamo in base alla conoscenza tecnica nau­ tica, che era ancora ovvia per gli antichi. L'antenna, cioè la croce, è per così dire il punto di separazione nel destino terrestre e definitivo della Chiesa: tutto ciò che sta « al di là dell'antenna » è sin da ora « cielo », riposo e viaggio felice, luce e salvezza definitiva. Qui è riposta la dialettica dommatica dell'essenza della Chiesa: essa è agitata dalla tempesta, ma non va mai a fondo. Essa è una nave che porta una croce, ma questa croce è tropaion della vittoria sicura sul mare del mondo e contro la morte spirituale. « La sua prua 110

Ivi, p. 277, nota 3.

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è l'Oriente » u l , essa viaggia verso il Sole nascente, il Cristo glorificato degli ultimi tempi. Qui comincia la nostra spiegazione testuale e simbolica dell'ultima frase dell'allegoria nautica della Chiesa di Ippolito e qui diventa forse comprensibile come soltanto una certa amorosa immedesimazione col mondo meraviglioso dell'antica nautica rende intelligibile un'espressione cristiana. È con la simbolica delle vele di cima, che Ippolito conclude la sua teologia dell'immagine della Chiesa. Testo e significato erano sin qui in pessime condizioni. Già COMBEFIS si è trovato nell'incertezza circa il senso del paragone con gli ψίφαροι, e ciò nonostante tutto l'apparato scientifico, che egli ha esibito all'uopo 1 1 2 . GRÒNE, e KAUFMANN che lo s e g u e m traducono dunque la frase: «I segni distintivi posti sull'albero sono la serie dei profeti, dei martiri e degli apostoli, che si riposano nel regno di Cristo». DÒLGER trascrive così: « gli ψ ί φ α ρ ο ι 1 1 4 (pali ο cavi), che partendo dalla stanga trasversale sono riuniti in alto, sono gli ordini dei profeti, dei martiri e degli apostoli, che sono giunti al riposo nel regno di Cristo » 1 1 5 . Egli si è lasciato certamente guidare in questa traduzione dalla tradi111 De Antichristo, 59 (GCS I, 2, p. 39, 1. 17): ή μεν π ρ φ ρ α α ν α τ ο λ ή . Cfr. anche IPPOLITO, Frammento 4 su Gen 8,1 (GCS I, 2, p. 9is). - DÒLGER, Sol Salutis, 2 ed., p. 278. 112 PG io, p. 780, nota 22. 113 BKV, 1 ed., IPPOLITO, Kempten 1873, p. 55. - C. M. H A U F MANN, Die sepulkralen Jenseitsdenkmàler der Antike und des Christentums, Magonza 1900, p. 183. 114 Lo iota qui aggiunto nel testo pubblicato da DOLGEK (p278, 1. 1) è evidentemente uno sbaglio di stampa. 115 Sol Salutis, 2 ed., p. 278, 1. 1-4.

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zione errata dell'antica traduzione slava di Ippolito, che rendeva ψίφοφοι con « pali » 1 1 6 . Per la precisa traduzione, che sola ci manifesta la finezza del simbolo nella sua profondità teologica, dobbiamo occuparci ancora una volta e un pò più da vicino dell'antica tecnica navale e del mondo poetico che vi è collegato. La parola ψίφαροι, del testo d'Ippolito non è riscontrabile in nessun altro luogo in tale forma ed è palesemente una forma verbale corrotta della tradizione manoscritta 117 . Bisogna senza alcun dubbio dire σίφοφοι,: ossia, qui si parla delle contrommezzane, che erano usate al di là dell'antenna in cima all'albero, soprattutto nei velieri veloci, il sipharum ο supparum dei Romani (Tertulliano già ne parlava e con questa parola designava la « stoffa della vela » appesa all'impalcatura lignea in forma di croce dei tropaia e degli stendardi festivi). « Quando il tempo è buono e il vento è debole, tra la cima dell'albero del mercantile, prolungata oltre il pennone, e le due metà del pennone si dispiegano due (sul rilievo Torlonia 118 anche tre) vele di cima a forma di triangolo (siparum, sipharum, supparum, probabilmente una parola orientale, derivante forse dall'ebraico siphrah, detto di cielo sereno, dunque vela per tempo belXle

GCS IPPOLITO I, 2, p. 40, nota alla 1. 7. Cfr. E. A. SOPHOKLES, Greek Lexikon of the Roman ani Bizantine periods, Cambridge 1914, p. 1181: «Ippolito PG io, 780 A ha erroneamente ψήφαροι per σίφοφοι ». - G. ANAGNOSTOPULOS, Λέξικον της ελληνικής γλώσσης, Atene, 1933. alla voce σίφάρος descrive la contrommezzana secondo la mentalità antica, quale τρίγωvov έκπεταννύμενον υπέρ την άνωτάτην κεραίαν. 1X8 Riproduzione in A. BAUMEISTER, Denkmàler des klassischen Altertums, Monaco-Lipsia 1888, v. 3, fig. 1688. 117

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lo) » 119 . Ciò era noto ancora ad ISIDORO DI SIVIGLIA : « Siparum, genus veli unum pedem habens, quo iuvari navigia solent in navigatione, quoties vis venti languescit» 120 . E cita un verso di Lucano: «Navita... summaque tendens sipara, velorum perituras colligit auras » : « Il marinaio ... dispiega la vela di cima portata nel punto più alto e raccoglie i venti che fanno afflosciare le vele » m. Gli Scholia di Lucano ci hanno conservato una preziosa allusione a questo verso : « Sipara velorum: velum dicit quale habent navigia tentum super antemnam, quod formatum est quasi delta graeca » 122 . Questa vela di cima è dunque anche qui « al di là dell'antenna » ed ha la forma triangolare della lettera delta. Anche queste contrommezzane per lo più doppie sono stese su un sostegno ligneo, e noi già sappiamo che questo arnese di legno era spesso denominato semplicemente « croce » : « Supparos appellamus vela linea in crucem expansa » 123 , e qui ancora una volta diventa chiara la ragione per cui un Tertulliano poteva chiamare le armature lignee degli stendardi « croce », e le stoffe delle bandiere siphara. Questa vela, posta al di sopra della grande antenna, sulla punta suprema dell'albero, è la prima a brillare al sorgere del sole, e per questo Seneca poetava : « Et alto rubicunda tre-

lls R E II, A, ι (1921) col. 1051, 1. 58ss (ASSMANN). - Cfr. anche R e III, A, 1 (1927) a suparium ( H U G ) . - Per σ ί φ α ρ ο ς cfr. L. MEYER, Handbuch der griechischen Etymologie, Lipsia 1902, v. 4, p. 26s. - Per supparum cfr. A. WALDE, Lateinisches etymotogisches Wórterbuch, Heidelberg 1910, 2 ed., p. 756. - FORCELLINI, Prato 1771, v. 5, ρ. 77 1 · 1M Orig., 19, 3, 4 (PL 82, 668 A). 121 Bellum civile, 5, 427-429 (Hosius, p. 140). 122 Scholia in Lucani bellum civile (USENER, p. 171, 1. 3-7)· 123 FESTO, De verborum significatu (LINDSAY, p . 406, 1. 15-18).

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munt sipara velo » m, « brilla infuocata », come diceva L U C I A N O 1 2 5 ; promette viaggio rapido, come ci narra SENECA a proposito dei postali alessandrini a Pozzuoli 126 . Per questo, nell'antica simbolica, essa significa anche viaggio felice. STAZIO COSÌ prega le divinità salvifiche del viaggio marino : « Vos summis adnectite sipara velis, vos Zephyris aperite sinus » 127 . In EPITTETO esse sono simbolo della riuscita fuga a gonfie vele dinanzi al pericolo 128 ; in FRONTONE, il simbolo di un retore che sovrasta tutti gli a l t r i m . Insomma, i sipara sono la personificazione della salvezza per mare irradiata dalla luce del sole e le sue linee triangolari convergono verso la punta più alta dell'albero e sembrano non saper più nulla del pericolo di tempesta dell'antenna in forma di croce che si trova al di sotto di esse. Sono insomma il segno della fortuna; per questo Properzio canta: «Iungite extremo felicia lintea malo » 130 . Dobbiamo immedesimarci in tutto ciò e tenerlo presente allo spirito, quando leggiamo, ora, l'ultima frase della simbolica ecclesiale di Ippolito: Un punto dopo l'altro diventa chiaro nella sua profondità allegorica, e tutta una teologia escatologica si nasconde dietro la semplice immagine della vela di cima. Gli ψίφαροι si trovano « al di là dell'antenna », essi sono 124

Medea, 327S (BJCHTER, p. 131). 1» Nauigium, s ( R E I T Z III, p. 252). 1M Epist. ad Lucilium, 77, I, 2 (HBNSE, p. 269, 1. 235). 127 Silvae, 3, 2, 27S (VOLLMER, p. 125). lss Epicteti dissertationes ab Amano digestae, 3, 2, 18 ( S C H E N K I , p . 216). 1M Epistola i, 2 (NABER, p. 97, 1. 9-13). 130 Elegie, 3, 21, v. 13 (ROTHSTEIN II, p. 143).

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dunque in primo luogo simbolo del mistero dell'ai di là, che già ricolma la Chiesa veleggiante sul mare del m o n d o . Essi « si incontrano in cima » : questo ένούμενοι (che dunque si rivela come l'unica lettura possibile del testo trasmesso in m o d o non chiaro), corrisponde precisamente al iungite di PROPERZIO ed all'affermazione degli Scholia di Lucano circa la forma di delta della vela di cima. Ma in Ippolito, questa forma triangolare riceve una spiegazione simbolica che solo ora diventa comprensibile: il Tre della vela di cima significa il numero trinano degli « ordini » dei profeti, dei martiri e degli apostoli. Nella menta­ lità della teologia primitiva cristiana ciò significa: sono gli ordini di quei membri della Chiesa, che già sono entrati nella regione tranquilla « al di là dell'antenna a forma di croce », anche se (e questa è l'esigenza di tutto lo scritto di Ippolito sull'Anticristo) la venuta trasfigurata finale del Signore, il definitivo levarsi del sole che viene dall'Oriente (e la nave della Chiesa viaggia verso di esso), non è ancor giunto. Per questo, con il semplice, ma significativo impiego dell'accusativo greco, egli dice che questo triplice ordine dei membri glorificati della Chiesa « si riposano nel regno di Cristo », e cioè, finché tutta la nave della Chiesa non sarà entrata nel porto del riposo, essi sono ancora « in attesa del regno di Cristo ». C o n ciò, la teologia del mistico albero quale tropaion della vittoria della croce ha trovato la sua più profonda spiegazione. Antenna è la croce, ma il medesimo albero, che porta il pennone della croce posto ancora in pericolo, termina nei /elida lintea della contrommezzana, che già brilla infocata per il sole che sorge. Poiché

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la Chiesa è sempre ambedue le cose: persecuzione e vittoria, viaggio tempestoso e approdo anticipato, che si spera vittorioso 131 . Se dovesse essere accettata la frase della tradizione testuale, che dopo άναπαυόμενοι aggiunge ancora: τοϋ διωγμού καΐ της θ-λίφεως 1 3 2 , allora essa conterrebbe un rafforzamento dell'immagine ricapitolativa dell'antenna della croce: «al di là dell'antenna » non c'è più persecuzione e dolore, ma soltanto quiete e regno. In poche parole: la croce sulla nave della Chiesa è tropaion, segnale che indica la direzione verso la vittoria. In base a ciò è sintomatico che il raddoppiamento, in certo qual modo l'essere veduta Funa nell'altra, di queste due serie di immagini desunte dal mondo militare e dal mondo navale, seguiti ancora a vivere: albero e antenna raffigurano sia la croce sulla nave, sia anche il sostegno ligneo degli stendardi militari; l'elemento comune è la simbolica della vittoria sia contro il mare nemico, « cattivo » e « demoniaco », sia contro il nemico dell'esercito assalitore. In una predica greca, che a torto è stata attribuita a METODIO DI FILIPPI, l'autore enumera i simboli della croce sparsi nel mondo visibile (ciò fa parte ora del topos letterario e lo incontreremo spesso) e dice : « Così noi pensiamo che anche gli imperatori terreni si sono appropriati di quel segno a forma di croce per disperdere le potenze cattive e fecero erigere in tale forma quel segno, che nella lingua romana si chiama vexillum. Obbedendo volentieri a questo segno, il mare si lascia at131 l3i

Cfr. sopra, a p. 512S. GCS IPPOLITO I, 2, p. 40, nota alla 1. 9.

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traversare dagli uomini con navi » 133 . Il testo ci mostra che qui ci troviamo già nell'ambiente dell'imperialità cristianizzata: chi non penserebbe qui immediatamente al labaro di Costantino? In effetti, ascoltando Eusebio circa l'origine di questo segno di vittoria cristiano, ci colpisce immediatamente il vocabolario nautico in esso usato: l'asta di legno dorata è come l'albero, e gli viene aggiunta, come stanga trasversale, un'antenna, così che il tutto assomigli ad una croce: ύψηλον δόρυ χρυσω κατημφιεσμένον κέρας εΐχεν έγκάρσιον, σταυρού σχήματι πεποιημένον 1 3 4 . Che questa spiegazione nautica del labaro sia giusta è confermato dalla ulteriore affermazione riguardante lo stendardo, che fluttua appeso all'antenna: «All'antenna trasversale (του πλαγίου κέρως), che è apposta alla lancia lignea (δόρυ), è appesa, fluttuante, una specie di stoffa di vela (οθόνη τις) dall'alto in basso » 1 3 5 . Già abbiamo ricordato più sopra, come gli imperatori cristiani, soprattutto Costantino e Costanzo, si facessero rappresentare sulle immagini delle monete come i detentori della vittoriosa nave dello Stato, sulla quale essi si ergono con il segno vittorioso della croce concepito come albero e antenna 136. Da ora in poi i retori cristiani avranno pensato a questo segno, quando, in un linguaggio immaginoso che risuona quasi manierato, esaltano la croce come tropaion contro le potenze demoniache, come segno della vittoria contro 133

Homitia de Cruce Christi (PG 18, 400 C). Vita Constantini, I, 31 (GCS EUSEBIO Ι, ρ. 2i, 1. 31-33). Qui bisogna fare attenzione al fatto che la parola δόρυ ha un significato concomitante nautico come « legname da costruzione per nave ». 135 Vita Constantini, 1, 31 (GCS, p. 22, 1. 5-7). 13e Cfr. sopra, a p. 543S. 134

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gli spiriti del terrestre, come difesa contro la morte 137. Il senso nautico non sempre è restato vivo in essi. Leggiamo tuttavia in AMBROGIO, e precisamente in uno scritto dedicato all'imperatore, del tropaion della croce in una connessione immediata con la simbolica della buona nave della Chiesa: « Ο divinum crucis illius sacramentum, in qua haeret infirmitas, virtus libera est, affìguntur vitia, eriguntur tropaea ! » Quindi segue il testo che già abbiamo citato una volta : « Lignum igitur illud crucis velut quaedam nostrae navis salutis vettura est, non poena; alia enim salus non est nisi vettura salutis aeternae » 138. Anche qui dunque il tropaion della croce è pensato come albero e antenna della nave, e c'è « salvezza » solo quando questo tropaion sta intatto sulla nave. Ciò diventa comprensibile per l'occhio anche al di là della parola scritta, nella poesia che il tornitore di parole PUBLILIO O P TAZIANO PORFIRIO ha dedicato all'imperatore Costan137 Così ad esempio in PROCLO (PG 50, p. 849 A ) ; P S . - M E T O D I O (PG 18, 400 B). 13S De Spiritu Semcto, 1, 9, 108-110 (PL 16, 730 B C ) . - Q u i si tratti certamente di una eco del tema fondamentale che fu toccato già da Giustino : l'albero « intatto » della croce è l'unica garanzia per la « salvezza » del viaggio in mare. Imitando Ambrogio, MASSIMO DI T O R I N O COSÌ dice nella sua Homilia 50 (PL 57, 342 B ) : « Sicut autem Ecclesia sine cruce stare non potest, ita et sine arbore navis infirma est ». E poco prima (p. 341 C) quasi con le identiche parole di Giustino : « Grande ergo crucis est sacramentum, et si intellìgamus, per hoc signum etiam mundus ipse salvatur: n a m c u m a nautis scinditur mare, prius ab ipsis arbor erigitur, velum distenditur, ut, cruce Domini facta, aquarum fluenta rumpantur, et hoc dominico secuti signo p o r t u m salutis petunt ». In un'altra omilia, che già conosciamo come la Predica di Ulisse di MASSIMO (cfr. sopra, a p. 446s), egli dice quindi precisamente : « Arbor enim in navi crux est in Ecclesia, quae inter totius saeculi blanda et perniciosa naufragia incolumis, sola servatur»: Homilia 49 (PL 57, 339 D ) .

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tino 139 . In sé questo poema è già da un punto di vista letterario insopportabilmente artificioso. Ma ciò non basta: il poeta ha scelto in tal modo le sue parole e i suoi versi, che certe lettere dei suoi esametri, se vengono dipinte di rosso, attraversando verticalmente le righe, possono essere lette come un nuovo verso, e questo verso inoltre, con le sue lettere così dipinte, rende l'immagine di una nave. Siamo tuttavia debitori al poeta aulico, il quale per questo artifizio quasi incredibile ricevette una graziosa lettera di ringraziamento dall'imperatore: vediamo così quanto sia stata viva nell'epoca costantiniana la rappresentazione nautica del tropaion dell'antenna a croce. La poesia comincia con questi versi: « Constantine decus mundi lux aurea saecli quis tua mixta canat mira pietate tropaea ? » Questo segno celeste è precisamente l'antenna a croce della nave, che si può contemplare nei nuovi versi (e questi in lingua greca) risultanti dalle lettere dipinte in rosso e scritte per dritto e per traverso lungo il corso degli esametri. Il verso greco così suona, in un linguaggio volutamente omerico : « Ora il marinaio può disprezzare con sicurezza le tempeste marine, ora anche R o m a rassicurata in buona speranza può disprezzare tutte le tempeste » 1 4 0 . Questa poesia in immagine è l'ultimo sviluppo di quelle parole del tropaion della croce che Giustino aveva scritto quasi "· Ptmegyiricus Constantio Augusto dictus IV (PL ly, 397S). - Cfr. M. SCHANZ, Geschichte der romischen Literatur, Monaco, 1904 v. 4, p. 10-13. 140 τ ή ν ναϋν άεί κέ 8έ ίίρμενον είνοικίζεηι οΰροις τεινόμενον σής αρετής άνέμοις.

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due secoli prima. Albero e antenna sono divenuti i tropaea della pace costantiniana: da ora in poi si spera per la nave della Chiesa un viaggio vittorioso attraverso il mare del mondo, che per un momento è calmo 141. Quale opposizione con le speranze escatologiche della ecclesiologia di Ippolito! Ma anche questo grande gesto, con cui il celeste e il terrestre, dogmatica e storia vengono riuniti in un unico simbolo, ci dimostra l'inesauribile vitalità, con cui gli antichi cristiani sapevano trasformare i simboli nautici del loro ambiente nell'immagine amata dell'antenna della croce.

L'antenna delia croce sulla nave dell'anima. Nell'esposizione della allegoria del tropaion considerato come antenna a croce abbiamo dunque scoperto l'elemento fondamentale, in ogni caso più antico ed essenziale, della simbolica nautica della croce. Vedemmo come la teologia patristica giri attorno a questo simbolo, dalla prima delineazione del paragone in Ippolito, concepita con occhi acuti e con un ancor fresco amore teologico per l'immagine, sino al linguaggio figurato dei tardi retori divenuto un logoro topos. Andando oltre mostreremo ora in qual modo questa dommatica della croce e la pia devozione (adorazione) del santo segno della redenzione, nella forza ancor sempre viva del pensiero nautico, si sia inserita nella dottrina del destino soprannaturale della Chiesa e dei suoi membri, o, parlando per immagini, in qual modo la nave della Chiesa possa attendersi un « buon viaggio » 141

Cfr. sopra, a p. 500S.

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e un felice approdo per sé e per i suoi « passeggeri » 142, soltanto se l'albero e l'antenna della croce restano intatti. La sua sussistenza e l'arrivo in cielo, infatti dipendono soltanto dalla croce. Il cristiano può sollevare lo sguardo verso questa antenna a croce solo se si trova sull'unica nave della salvezza; soltanto le vele issate su questa antenna ricevono il Pneuma che riconduce in patria; solo dalla cima di quest'albero egli può già sin da ora, come un marinaio di vedetta, scorgere il porto e la « città del grande Regno » 143 . Così per la dommatica e per l'ascesi del fortunato viaggio cristiano della vita sulla nave della Chiesa, la rappresentazione dell'antenna della croce costituisce la simbolica fondamentale che abbraccia tutte le immagini. In primo luogo si tratta di captare anche per l'ambiente cristiano quello stato d'animo dell'antico navigante, che pervade i racconti marinareschi greci e le loro imitazioni romane: abbiamo cercato di delinearlo nella prima parte di questa ricerca ed A. LESKY 142

Cfr. sopra, a p. 520S, 567, nota 179. Cfr. PS.-CLEMENTE, Epist. ad Jacobum, 13 (PG 2, 49 A). La trasformazione - a cui abbiamo accennato sopra - dalla pace della bonaccia pensata escatologicamente alla pace terrena di Costantino, corrisponde qui al cambiamento di significato della « città del buon regno » nello PS.-CLEMENTE, nella esaltazione della Città di Bisanzio quale «città del buon R e » nello P S . - M E T O D I O : PG 18, 380 A. - Per il motivo nautico del marinaio che è in osservazione sulla punta più alta dell'antenna, cfr. anche AMBROGIO, Hexaemeron, 6, 9, 59 (CSEL 32, 1, p. 250, 1. 5-9): «In mari quoque positus si quis terrae adpropinquare se conicit, in ipsa mali fastigia et celsa antemnarum cornua voti explorator ascendit et adhuc invisibilem reliquis navigantibus eminus terram salutat ». - Egualmente in GEROLAMO, Epistola 125, 3 (CSEL 56, p. 121, 1. I2s): « Ductor in summa mah arbore». 143

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ce ne ha informato ottimamente nel suo libro 144 . Noi lo facciamo per dimostrare che dinanzi allo spettacolo sempre nuovo delle navi, il simbolo dell'antenna della croce mai impallidì neppure per i cristiani della tarda antichità, e solo lentamente si atrofizzò in un topos trasmesso tradizionalmente. Nel poema del Legno della vita, che è stato falsamente attribuito a Cipriano, ma che tuttavia risale al terzo secolo, la croce viene così cantata: « Arboris haec species uno de stipite surgit et mox in geminos extendit brachia ramos, sicut piena graves antemnae carbasa tendunt » 145. Albero e albero della nave, come già nell'antichità, vengono nuovamente veduti come una sola cosa; le braccia della croce ricordano al poeta quasi naturalmente le brachia delle antenne che si estendono e su cui si sciorinano le stoffe tirate delle vele (carbasa). Per il cristiano che leggeva la poesia, questo era un paragone corrente: ogni nave sul mare gli ricordava la croce del Signore. Ciò diventa palpitante in una poesia di PAOLINO DA NOLA, ripiena di gioia marina ellenistica. Egli descrive il viaggio per mare, che il suo amico, il vescovo Niceta, intraprese nell'Oriente greco: «Tu penetrerai nel mare pacificamente esteso, e la tua nave è equipaggiata con il segno della salvezza, l'antenna della croce ti rende vittorioso e avanzi sicuro attraverso onde e tempeste » : « Ibis inlabens pelago iacenti et rate armata titulo salutis 144 A. LESKY, Thalatta, Vienna 1947, p. 251-303: la nuova vita di mate dell'ellenismo. 115 De Pascha, v. 7-10 (CSEL 3, p. 305).

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Victor antemna crucis ibis undis tutus et austris » 146. Augura all'amico un teìice approdo: poi i marinai cantano la loro canzoncina del timone (celeuma) e il vescovo grida così forte l'Amen sul mare, che i cetacei (cete) spaventati si dileguano e i gentili delfini si accostano giocherellando: una poesia piena di quello spirito marinaro ellenistico, che LESKY ci ha dipinto 147, ma trasferito qui nel mondo cristiano dei simboli. PAOLINO ci ha regalato anche altri di questi quadri di genere nautico, come nella lettera sul pericolo corso in mare da un vecchio divenutogli amico, il quale si trova solo sulla nave che fa acqua e tuttavia riesce a manovrare da esperto la vela anteriore (artemon) : è importante notare, per la comprensione dello stato d'animo cristiano verso il mare, che Paolino racconta tutto ciò perché come dice esplicitamente, vuol dare un equivalente cristiano dei racconti pagani di viaggi marini, specialmente del viaggio degli Argonauti 148 . Oppure l'altro racconto del naufrago Marziano, che nel suo viaggio da Narbona a Centumcellae (Civitavecchia), salvò soltanto la vita e il suo caro codice con le lettere di Paolo. La nave era marcia e faceva acqua, ma nel naufragio i cristiani furono tutti salvati, poiché essi portavano in se stessi il vexillum crucis 149. La simbolica nautica, che riempiva il pio navigante 148

Carme 17, ios-108 (CSEL 30, p. 86). - Ivi, 117-124 (p. 87). A. LESKY, Thalatta, p. 139-141; p. 267: lo stato d'animo marino a cui partecipano il mostro favoloso κήτος, cete, e i delfini. Per l'applicazione di questo motivo nella mistica marina cristiana, cfr. sopra, p. 488-494. 148 Epistola 49 (CSEL 29, 39OSS). 14 ' Carmen 24, 141 (CSEL 30, p. 211). 147

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cristiano alla vista dell'antenna della nave, ci diventa ancor più comprensibile, quando leggiamo in GREGORIO DI TOURS la narrazione del diacono, che salpa

da Roma con tutto un sacro carico di Reliquie; egli sale ad Ostia sulla nave, che parte per Marsiglia e controlla le apparecchiature per la partenza : « Et ingressus navem erectis velis ac per illuni antemnae, quae modulum crucis gestat, apparatum extensis, flante vento, pelagum altum arripiunt » 150 . Si sentono ancora risuonare i versi del poeta romano, quando Venanzio Fortunato nella vita di san Martino dipinge una tempesta marina nel mar Tirreno: « Nutat pinus iners, rapiuntur signa ceruchis levis et antemnae coeuntia cornua frendunt »151. Qui si pensa all'antenna della croce, come dimostrano anche le frasi piene di ricordi nautici della letteratura antica, con le quali GREGORIO DI TOURS descrive la tempesta marina del vescovo Baldovino di Tours: neppure la sacra antenna, questo simbolo della croce, sembrava reggere, solo la presenza taumaturgica di san Martino, che si annunciava con il profumo d'incenso, portò la salvezza : « Sed nec antenna residet quae beatae crucis signaculum praeferebat » 152 . Questo è lo spirito simbolico, con cui ora l'antico cristiano riempie il ricco mondo d'immagini della sua dottrina del viaggio della vita sulla nave della Chiesa, della fede, della grazia e degli sforzi ascetici. 150 De gloria martyntm, 82 (PL 71, 779 C; MG Scriptor. Merov. I, p. 544, 1- 4)· 151 Vita Martini, IV, 408S (PL 88, 418). 152 De miracuHs Martini, 1, 9 (PL 71, 922 BC; MG Script. Merov. I, p. 594, 1. 8s).

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Noi oggi siamo colpiti dalla naturalezza con cui in quei tempi si parlava dell'antenna della croce: non era neppure necessario spiegare a lungo l'immagine, quasi allo stesso modo in cui i moderni usano al figurato, senza ulteriore spiegazione, la parola « antenna » quando parlano ad esempio di un uomo poco dotato di sensibilità, dicono che egli per certe cose non ha « antenna ». Ciò è chiaro in GEROLAMO, in un pomposo brano letterario sull'ascesi descritta con terminologia nautica. Egli scrive al suo amico Eliodoro sul punto di rinunciare agli ideali monastici per una più comoda vita nel mondo e lo inette in guardia contro l'apparente calma dei venti della buona sistemazione terrena: in realtà la tempesta già lo minaccia ed egli dovrebbe armare la nave della sua vita : « Anche se il liquido mare ti sorride come un liscio stagno, anche se soltanto la pelle del calmo elemento è increspata da un alito; questo specchio liscio ha i suoi monti nascosti, nascosto nel suo interno il pericolo incombe minaccioso, nel suo interno risiede il nemico. Sciogli la velatura, appendi la vela! La croce dell'antenna sia impressa sulla fronte: poiché la calma del mare è in verità tempesta!» 153 . E poi canta all'amico il gioioso canto del timone (celeuma) sulla beata pace della solitudine monastica. Da quanto detto sino ad ora, siamo in grado 153 Epistola 14, 6 (CSEL 54, p. 525): «Expedite rudentes, vela suspendite. Crux antemnae figatur in frontibus: tranquillitas ista tempestai est ». - Che l'antenna della croce venga « fissata » sulle «fronti» degli uomini, è cosa che resta inclusa nel paragone nautico tra la figura umana e una nave: il corpo eretto è come l'albero della nave, gli occhi sono per così dire « la coffa di guardia » al di sopra dell'antenna: ad ogni modo, così ha spiegato la cosa AMBROGIO nel testo riferito più sopra, alla nota 143, e che egli predicò esplicitamente nella descrizione della figura umana. Cfr. Sopra, a p. 54$ss-

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di comprendere la fine eloquenza con cui Gerolamo si esprime qui : « Crux antemnae figatur in frontibus », egli dice, e non come dovremmo veramente attenderci, « crucis antemna ». Egli può per l'appunto supporre che anche per il suo amico è cosa naturale, il vedere l'antenna di una nave come se fosse una « croce » ; e pertanto dire semplicemente: La tua nave, pronta ad affrontare la tormenta, ha anche bisogno di una buona antenna, e questa è il segno della croce impresso sulla fronte. Questo segno infatti è vittoria contro il nemico nascosto nel mare del mondo, che suscita le tempeste spirituali 1 5 4 . Le immagini dell'ascetica navale si congiungono naturalmente con il simbolo dell'antenna come tropaion. Ciò diventa ancor più chiaro in una predica sull'Epifania, che un tempo è stata attribuita a ORIGENE 155 e che vaga ancora attraverso i codici latini, come un bene privo di padrone 1 5 6 ; M O R I N 157 potrebbe aver ragione, quando la rivendica a MASSIMO DI T O R I N O . Il suo contenuto è un canto di

lode alla croce, che fu data all'uomo deificato nella Epifania come segno della vittoria e che (qui risuonano Giustino e Tertulliano) si può ritrovare misteriosamente nascosta in tutte le cose della natura: « Illius 154

Cfr. sopra, p. 483SS. : il mare come sede del nemico maligno. 155 Pubblicato per la prima volta nell'edizione di Origene curata da JAKOB MERLINUS, Parigi 1512, v. 2, senza numerazione delle pagine. Su questa raccolta di Omelie cfr. D. HUETIUS, Origenianorum liber III, Appendix 5 (PG 17, 12775). 156 Così tra le prediche di GEROLAMO (PL 30, 200s) e tra le omelie di MASSIMO DI T O R I N O (PL 57, p. 545s). 157 S. Augustim sermones post Maurino* reperti, R o m a 1930, p. 744. M O S I N lascia aperte qui anche altre possibilità. L'assegnazione non è ancora completamente sicura. N o i citiamo il testo della predica secondo l'edizione di Massimo.

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crux nostra Victoria est, illius patibulum noster triumphus. Gaudentes levemus hoc signum: in humeris nostris victoriarum vexilla portemus ». Dei segni della croce della natura fa parte ora anche l'antenna della nave con le sue « corna » : « Antennae navium, velorum cornua sub figura nostrae crucis volitant ». Anche qui la concatenazione delle immagini giunge sino al mondo militare, per poi finire, come in Gerolamo, nell'ascesi del segno della croce fatto piamente: « Sed et tropaea ipsa et victoriae triumphorum ornatae cruces sunt. Quas non solum in frontibus sed et in animabus quoque nostris habere debemus » 1 5 8 . La nave dell'anima è soltanto una copia della nave della Chiesa, che in virtù dell'antenna della croce va incontro alla vittoria. Per questo AMBROGIO dice concisamente : « Quia navis est, quae pieno dominicae crucis velo Sancii Spiritus flatu in hoc bene navigat m u n d o » 1 5 9 . Si legga inoltre il capitolo nautico della spiegazione dei salmi di A m brogio : anche qui il « buon viaggio » del cristiano è assicurato dall'albero della croce : « Bene autem navigane qui in navibus Christi crucem sicut arborem praeferunt atque inde explorant flabra ventorum » 1 6 0 . La sorte ascetica della nave dell'anima è soltanto un caso particolare della nave della Chiesa, su cui sta la 159

PL 57, ρ. 540 Β. in» De virginitate, 18, 118 (PL 16, 297 B). - Crucis velum nella sua abbreviazione sineddocale ci è già noto dal testo di GIUSTINO (cfr. sopra alla nota 99) e doveva essere tradotto semplicemente con « vela all'antenna della croce ». 160 Explan. Psalm. 47, 13 (CSEL 64, p. 355, 1. 8-10). L'espressione « inde explorant flabra ventorum » è, dal punto di vista nautico, tecnica e richiama alla funzione del ceruchus, di cui gli Scholia di Lucano ci hanno detto : « inde venti probantur ».

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croce; lo abbiamo già indicato più sopra 1 6 1 . «Sotto l'immagine della nave dobbiamo intendere la Chiesa, che naviga sul mare di questo mondo », dice lo Ps.AMBROGIO, e il vento della tempesta è «l'essere frustato dalle tentazioni ». Il naufragio non deve essere temuto, sino a che l'albero della croce resta in piedi: « Quia in arbore, id est in cruce, Christus erigitur » 162 . Cristo stesso è l'Ulisse legato all'albero della nave, come abbiamo già visto 163 , e il cristiano sulla nave della Chiesa lo imita, come continua volentieri P A O LINO DA N O L A , nel solco delle immagini del mito omerico : « Essi legano la vela del loro cuore con i legami dell'amore, come con l'attrezzatura delle vele, all'antenna della Croce » : « Cordis sui velum vinculis caritatis ut funibus ad antemnam crucis stringunt » 1 6 4 . E ancor più energicamente quando parla dell' « antenna dell'amore » : « C o n il cordame della nostra fede viene eretta, come albero della nave, l'antenna dell'amore, su cui possiamo stendere le vele della nostra vita », « rudente fidei nostrae arbor erigatur caritatis antenna, et vitae nostrae vela sinuentur » 1 6 3 . Nei racconti ascetici dei Padri del deserto incontriamo un brano, che risuona come un'ultima eco di quelle rassegnate massime stoiche, che ricordavano di abbassare l'antenna e di parare i colpi dei venti : « Quando gli uomini vanno in mare », dice l'asceta Sindetica, dilal

Cfr. sopra, pag. 554. Sermo 46, 4, io (PL 17, 697 B). Qui precisamente la figura del crocifisso all'albero della nave. 163 Sopra, a p. 446S. - H. R A H N E R , Griechische Mythen in christlicher Deutung, Zurigo 1957, 2 ed., p. 482S. 181 Epistola 23, 30 (CSEL 29, p. 186, 1. i8s). 1M Epistola 23, 30 (CSEL 29, p. 187, 1. 35). Ii2

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spiegano le vele e cercano il vento favorevole al viaggio. Ma poi il vento contrario irrompe su di essi. Ora i marinai immediatamente non offrono più alcuna superficie a questo vento contrario insorgente, oppure contro il vento, e così ritrovano nuovamente il corso giusto. Così anche noi andiamo contro il cattivo spirito del vento, mentre erigiamo la croce per nostra vela: e così evitando il pericolo che viene da questo m o n d o , portiamo la nostra navicella in porto »166. « Crucem prò velo erigamus»: questa breve frase racchiude tutta la storia della simbolica dell'antenna della croce. Le testimonianze bastano per ora: anche in questo capitolo rileviamo un certo sdrucciolamento verso la maniera retorica, come ad esempio nelle limate e ampollose frasi di Proclo : « Alte s'innalzan le onde : ma il pilota è dal cielo. Duramente infuria il turbine: ma la nave porta una croce (άλλα σταυροφόρον το πλοΐον). Strepitano le raffiche l'una contro l'altra: ma la chiglia della nave è rafforzata per l'eternità » 1 6 7 . FR. J. DOLGER, in un suo studio postumo 168 , ha espresso l'opinione che la designazione della nave come « portatrice di croce », che incontriamo nella predica bizantina dello P S . - M E T O D I O 1 6 9 (nel contesto di un florilegio retorico, che dipinge la conclusione della predica come un approdo della « nave portatrice di croce »), dimostra che le navi dei Greci divenuti cristiani portavano semplicemente al posto delle « divinità salvili» De vitis Patrum, 5, 7, 18 (PL 73, p. 896 D). »' Oratio 17, 5 (PG 65, p. 813 B). 168

FR. J. DOLGER, Dioskuroi, in Antike una Christentum 6 (1950) p. 284. - Cfr. sotto, alla nota 205. 9 " De Simeone et Anna, 13 (PG 18, 377 D ) .

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fiche » una volta venerate, una croce come segno della nave. Potrebbe trattarsi di una forma oratoria divenuta comune e, come vedemmo, già usata da Proclo, la cui origine va spiegata in base alla teologia dell'antenna della croce, proprio come in CRISOSTOMO, il quale parla della croce, che ora si può vedere su mare e su navi 17 °. Il fidato simbolo dell'albero della nave, che è la santa croce, risuona ancora, senza bisogno di lunghe spiegazioni, in Agostino, nei suoi pensieri sull'umiltà del cristiano, che non scruta verso l'ai di là, come fanno i Platonici con la teoria della loro mistica visione, ma aspira sicuro all'approdo, poiché sulla nave della vita egli tiene strettamente abbracciata la c r o c e m . Un predicatore sconosciuto lo ha imitato : « Qui hoc mare magnum et spatiosum, in quo sunt reptilia, quorum non est numerus, absque naufragio transire desiderai, crucem sequatur, crucem teneat, et eam non deserai, donec ad optatum salutis portum perveniat » 172 . Concludiamo il capitolo dell'ascesi della nave dell'anima e della sua antenna della croce, con i pii versi tratti dal poema di VENANZIO FORTUNATO sulla verginità: « Opto per hos fluctus animas tu Christe guarbore et antenna velificante Crucis, [bernes ut post emensos mundani gurgitis aestus in portum vitae nos tua dextra locet » 173 . "' Centra Judaeos, 9 (PG 48, 826 B). 1,1 Tractatus in Ioannem, 2, 2, 3 (PL 35, 1389S). - De Trinitale, 4, 15, 20 (PL 42, gois). - Enanationes in Psalmum 31, 4 (PL 36, 259S), ove si parla del giusto maneggio della vela di prua (artemon). "* PS.-AGOSTINO, Sermo 247, 7 (PL 39, 2204 A). "3 Miscellanea, 8, 6 (PL 88, 267 C).

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« Guida, ο Cristo, ti prego, le anime attraverso [queste onde con l'albero e l'antenna ornata di vele della croce, sino a che la tua mano destra dopo la risacca [del terreno vortice ci accordi il riposo nel porto della vita eterna ».

L'influsso dell'antenna della croce sul vocabolario sim­ bolico e sull'arte. E naturale che un simbolo così popolare e così saldamente affermato produca i suoi effetti su altre immagini simboliche, che nella loro origine immediata non hanno nulla a che fare con il m o n d o nautico: ciò avviene secondo le leggi psicologiche del pensiero allegorico, di cui abbiamo già parlato. Solo in base alla storia letteraria del simbolo dell'antenna della croce sin qui esposta possiamo ora affrontare il problema archeologico di sapere se e in qual misura anche l'arte cristiana abbia dato una forma visiva a questo simbolo. Parliamo perciò in primo luogo di una serie di rappresentazioni simboliche della teologia della croce e della Chiesa, su cui solo più tardi ha esercitato il suo influsso l'elemento nautico dell'antenna del mistico albero della nave: e proprio con ciò, partendo da un lato completamente inatteso, dimostreremo quanto sìa stato grande l'influsso esercitato dall'immagine dell'antenna della croce. C'è innanzitutto l'immagine della Chiesa coniata da Paolo, quale sposa di Cristo « senza macchia né ruga» (Ef 5,27). E. VON DOBSCHUTZ ha dimostrato, con grande erudizione, che durante il periodo patristico questa espressione scritturistica è stata intesa dalla

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Chiesa e, più tardi, particolarmente dalla Chiesa di R o m a m . Ma egli non ha preso in considerazione una linea per cosi dire laterale di questa storia, la quale scorre, nascosta, in alcuni dimenticati rivoli del mare dell'allegoria patristica; e proprio di questa particolare tradizione ci dobbiamo occupare ora, poiché essa diventa comprensibile soltanto in base al nostro simbolo nautico dell'antenna della croce. L'uomo antico, soprattutto il latino, nella parola ρυτίς, ruga, udiva non soltanto il significato proprio di « ruga », ossia piega della pelle, ma anche « piega della tela ». Così Petronio, a proposito della biancheria di tela, portata troppo a lungo, dice : « Vestes quoque diutis vinctas ruga consumit » 175 . E questa è ia ragione per cui un cristiano latino, leggendo le parole di Paolo, pensa naturalmente anche alla « tela della vela », che si gonfia fresca e bianca sull'antenna a forma di croce delle sue navi. Noi pensiamo ancor una volta alle vela in crucem expansa di FESTO. E così la ruga paolina riceve un significato nautico. AGOSTINO predica in un modo che a prima vista sembra completamente incomprensibile e sorprendente : « Non vis habere rugam ? Extendere in crucem. Non enim tantum opus est ut laveris [ciò in relazione alla precedente macula] sed etiam ut extendaris, ut sis sine macula aut ruga. Per lavacrum enim auferuntur peccata: per extensionem fit desiderium futuri saeculi, propter quod Christus crucifìxus est » 176. Agostino non ci dice due cose, ma, se il testo deve 174 E. v. DOBSCHUTZ, Das Decretum Gelasianum in kritischem Text hercmsgegeben una tmtersucht, iti TU 38, + (1912) p. 236S. "* Saturai, 102, 12 (BUECHELER, p. 73, 1. 14). "* Sermo 341, 11 (PL 39, 1501 A).

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avere un senso, dobbiamo chiederci quali siano queste due riserve inespresse: come può mai il credente, che non vuol aver alcuna ruga, essere « steso sulla croce » ? E perché mai questa « estensione » significa Γ « aspira­ zione verso la futura epoca del m o n d o , per cui Cristo è stato crocifisso »? Per la seconda domanda potremmo rimandare a Fil 3,13 (ad ea véro quae sunt priora extendens meipsutn), e queste parole certamente risuonano qui in qualche m o d o . Ma Vextendere in crucem, detto senza ulteriori spiegazioni, resta incomprensibile, se non lo spieghiamo nel significato simbolico nautico, come «venir steso sull'antenna della croce». C'incoraggia a ciò un Anonimo latino, che spesso ha imitato Agostino. In una predica, che viene ottimamente intitolata Discorso sulla nave della Chiesa, egli parla delle tempeste delle onde della persecuzione, che vengono scatenate contro la navicella della Chiesa dai potenti di questo m o n d o : « Super naviculam Christi grandis unda consurgit. Sed in his tentationibus erigatur antenna, ut suspensa arbori crucem Christi figuret, hanc christianus respiciat et non deficiat ». Conformemente alla tecnica navale, ciò è detto in m o d o del tutto plastico e giusto : « Sia innalzata l'antenna, affinché, appesa all'albero della nave, rappresenti figuratamente la croce di Cristo ». A questa antenna si appende ora la vela da tendere, la tela lucente di bianco, che non ha alcuna ruga : « Huic ergo antennae, id est, cruci Christi, simplex conversatio et pura confessio tamquam candentia vela religentur. Et haec vela nostra fluctibus abluantur, vestique tendatur, ut sine macula et ruga inveniatur » 1 7 7 . "' P S - A G O S T I N O , Sermo 72, 2 (PL 39, 1884S). Per vesf i.s = vela cfr. sopra, a p. 62S, nota 65.

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Così dunque va interpretato il rinvio agostiniano. Nel medioevo ci si è ancora serviti dell'immagine della tela stesa sulla croce, senza pensare tuttavia alla sua precisa origine dal simbolo dell'antenna a forma di croce a cui è sospesa la vela. Così CASSIODORO si ricorda solo vagamente delle parole di Agostino : « Sed ut quidam ait: maculas nostras lavit in sanguine, rugas etiam tetendit in cruce » 1 7 8 . Anche l'introduzione alla Storia dei Franchi, con la sua teologia patristica della Chiesa promanante dal lato trafitto del Crocifisso, dice: « Lymphis ablutam propter maculam, in cruce extensam propter rugam » 179 . Ancora BEDA 18 ° (se sua è questa spiegazione dei salmi) ed un'opera attribuita a torto ad U G O DI SAN VITTORE 181 riprendono la similitudine di Agostino : « veste » significa la Chiesa, che è stesa sulla croce: «Ecclesia tensa in cruce, ut non habeat peccati maculam et duplicitatis rugam ». Una seconda serie di immagini proviene parimenti da un gruppo di espressioni bibliche, che, per via della psicologia associativa dell'allegoresi, può essere abbracciato con lo sguardo in un solo simbolo: nel simbolo dei « corni » del Redentore apparso sotto forma umana. Quando i Padri leggono nelle « Benedizioni di Giacobbe » (Gen 49,6 LXX), tanto care a tutti gli allegoristi, che Simeone e Levi avrebbero « snervato il toro con la loro arroganza », essi interpretano ciò della morte del Crocifisso : « Avete ucciso l'autore 1,8 179 180 181

Commenta Psalterii, praefatio 13 (PL 70, 18 D ) . GREGORIO DI TOURS, Historia Francorum, 1, 1 (PL 71, 163 D). In psalmum 44 (PL 93, 721 B). Miscellanea, 3, 16 (PL 177, 694 A).

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della vita, come se si fosse trattato di un toro », dice IPPOLITO 182 . Allo stesso m o d o egli spiega le parole della benedizione di Mosé alla discendenza di Giuseppe : « La sua bellezza è come un toro primogenito » (Deut 33,17). In questa rappresentazione del «cornuto» si inserisce quella immagine tipologica prefigurativa del Salvatore, che è l'ariete, il quale « pende con le corna dal groviglio di spine» (Gen 22,13) e v i risuonano le parole di Abacuc : « Corna sono nelle sue mani » (Ab 3.4)· Ci si ricordi ora, che nella lingua nautica le estremità esterne dell'antenna vengono chiamate κέρατα e cornua, in totale conformità con il significato, desunto dal regno animale, della parola κεραία, che designa le corna distese per sentire. Già ARTEMIDORO ha pa-

ragonato la struttura dell'antenna alle corna di un toro. Cornu per i latini è semplicemente « antenna », come afferma il Glossario: antenna, κέρας, ìà est c o r n u 1 8 3 ; si pensi per esempio a quella descrizione della nave da guerra con le sue superbe vele, che ci viene fornita da Sino ITALICO: veìoque superbo capaci quum rapidum hauriret Borean, et cornibus omnis confligeret flatus 1 8 4 . La facilità con cui si poteva passare, con il pensiero, dalle cornua dell'antenna alle corna del toro, può essere rafforzata inoltre da rappresen-

"• Sulle benedizioni di Giacobbe, 14 (TU, 38, 1 (1912), p. 30, 1. 9). - Cfr. per ciò anche TU 26, 1 (1904) p. 22. - Frammento 13 su Gen (GCS Ippolito I, 2, p. 57). - AMBROGIO, De patriarchis, 13 (CSEL 32, 2, p. 131). 183 Thesaurus ghss. emend., alla voce antenna (G. G O E T Z ) . - D A REMBERG-SAGLIO, Dictionnaire des Antiquités, Parigi 1887, v. 1, 2, col. 1511 A. 184 Punica, 14, 388-390 (BAUER II, p. 96).

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tazioni mitiche : « Taurus » era, in ricordo del ratto di Europa da parte del Toro, un'insegna navale molto 185 popolare (ποφάσημον, insigne) ; e Gerolamo ancora si sentiva spinto a registrare questo avvenimento « eu­ ropeo » nella sua cronaca mondiale : Europa a Cre188 tensibus rapta est navi cuius fuit insigne Taurus . In ogni caso, dobbiamo immergerci con il pensiero in questo m o n d o ronzante di relazioni e sensazioni, se vogliamo comprendere come mai un TERTULLIANO, nella sua polemica contro Marcione e i Giudei, possa applicare a Cristo le parole di Deut 33,17, e ciò con similitudini spiccatamente nautiche. In Giuseppe, al quale toccava questa benedizione, è prefigurato il R e dentore: Sed Christus in ilio significabatur, taurus oh utramque dispositionem, aliis ferus ut iudex, aìiis mansuetus ut salvator, cuius cornua essent crucis extima. Nani et in antemna, quae crucis pars est, extremitates cornua vocantur187. La stessa cosa si ritrova, sinanche un pò spiegata, nell'estratto, pure presentato dallo stesso Tertulliano nello scritto contro i Giudei: cuius cornua essent crucis extrema. Nani et in antemna navis, quae crucis pars est, hoc extremitates vocantur 188 . E se nella benedizione di Mosé, Giuseppe viene chiamato unicornis, anche ciò si adempie nell'immagine della croce: unicornis autem mediae stipitis palus; con ciò si esprime l'albero della nave, come già sappiamo dalle riflessioni di Tertulliano attorno ai supporti lignei degli stendardi. Il Cristo crocifisso pende dunque dalle 186 Cfr. per ciò FR. J. DOLGER, Dioskuroi, in Antike imd Chrìstentum 6 (1950) p. 277. 186

Testo in G C S

187

Adversus Marcionem, 3, 18 (CSEL 47, p. 406, 1. 21-26). Adversus Judaeos, io (CSEL 70, p. 303, 1. 47-49).

188

EUSEBIO VII,

1,

p.

53.

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« corna » dell'antenna della sua croce. Questa immagine resta profondamente impressa in seguito, anche se spesso la nota nautica non vi risuona affatto. Il C r o cifisso è Γ « ariete bicornuto nel roveto », quando ad 189 crucis cornua clavomm confixione pendebat . E questo segno dell'Affisso alle corna della croce è, come il tropaion sulla nave della salvezza, il segno onorevole della vittoria, che contrassegna misteriosamente tutto il mondo nelle quattro direzioni: Cristo il Crocifisso è il grande « cornuto », che rende vano l'appello mistico al bicornuto Pan, come dice FIRMICO MATERNO in una preghiera innica al Crocifisso: Tu, Christe, mundum ac terram extensis manibus, tu caeleste sustentas irnperium, tuis immortalibus adhaeret humeris salus nostra 190 . Tutto il mondo appunto è modellato dalla croce come tropaion, onde AGOSTINO può semplicemente dire, richiamandosi ad Ab 3,4: Cornua in manibus eius sunt, quid est nisi tropaeum crucis m . Ι suoi discepoli ne hanno ripetuto le parole sino al Medioevo 1 9 2 . A proposito di questa allegoria, ISIDORO DI SIVIGLIA fa notare che si tratta ancora come di un ricordo dell'antica imma­ gine fondamentale dell'antenna: crux cornua habet: sic enim duo Ugna compinguntur in se, cum speciem crucis reddunt193. N o i pensiamo anche, che la reminiscenza 189 PS.-AGOSTINO, Sermo 6, 5 (PL 39, 1750). Anche qui il rinvio ad Is 9,6, ossia il trofeo che riposa sulle sue spalle come dominio. 180 De errore prof, rei., 21, 3-6 (CSEL 2, p . n o s ) . - Cfr. anche E. STOMMEL, Σ η μ ε ί ο ν έ κ π ε κ τ ά σ ε ω ς , in Rómische Quartalschrift 48 (1953) P· 21-42. 191 De civitate Dei, 18, 32 (CSEL 40, 2, p. 313, 1. 22s). 182 Cfr. ad esempio FAUSTO DI R I E Z (CSEL 21, p. 297, 1. 19-21); MASSIMO DI T O S I N O (PL 57, 3 5 6 B ) ; R A B A N O (PL 112, 903 B ) ; R u PERTO DI DEUTZ (PL 167, 1618 B). 193 Quaestio in Vetus Testamenti)!», 18, io (PL 83, 251 B).

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dei suoni nautici della parola κέρας è ancora vivente, quando i Padri greci parlano della croce quale « corno della Chiesa ». A ogni modo, ciò vale di una lode innica alla croce che lo PS.-CRISOSTOMO prende a cantare, servendosi completamente del vocabolario del tropaion : « La croce del Signore si è trasformata in un'arma della vittoria, che sostiene un tropaion, in un'arma dell'Imperatore, contro cui non ci si solleva più, in un'antenna della Chiesa ('Εκκλησίας κέρας), salvezza dei credenti » 1 9 4 . Accenniamo ancora, almeno nelle linee esterne, ad un'ultima serie di immagini, che si forma a partire dalla rappresentazione fondamentale del tropaion del­ l'antenna a forma di croce (per una più precisa esposizione rimandiamo al prossimo capitolo, dato che il tema è troppo ricco e troppo importante per la comprensione delle immagini patristiche, sino all'arte medievale). Si tratta della strana dottrina del mistico segno della lettera Tau, che Dio, secondo Ezechiele (9,4), ordinò di disegnare sulla fronte dei salvati. Questo segno alfabetico risulta però in greco come se fosse formato da due stanghe : Γ « asta », che nello stesso tempo rap­ presenta un iota, ed una piccola asta trasversale, che gli viene scritta sopra: ancora una volta, l'almanaccare 164 Oratio in crucis adorationem (PG 52, 836). - Cfr. già T E O D O RETO, Interpr. Psalmi 91, 11 (PG 8 0 , 1 6 2 0 B ) : το κ έ ρ α ς τ ο ϋ σ τ α υ ρ ο ύ δ π λ ο ν κ α τ ά π α θ ώ ν καΐ δ α ι μ ό ν ω ν . - Traducendo « antenne della Chiesa » siamo certamente consapevoli che κ έ ρ α ς in senso biblico p u ò significare anche « corno », dunque « forza ». Ma noi pensiamo che proprio la vicinanza di pensiero e di immagine del simbolo del trofeo della croce condiziona l'antica rappresentazione nautica dell' « antenna intatta » della Chiesa.

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nautico dei Padri della Chiesa è già nella sfera dell'albero della nave con la sua antenna. Ancor più: proprio questa lìnea trasversale, che trasforma lo iota in tau, è chiamata dai Greci κεραία, e ciò, già in base al suono della parola, ricorda l'antenna che è posta di traverso all'albero e con esso forma il segno della croce. Per i Greci il segno tau significa il numero trecento. E qui converge tutto un complesso di ricordi scritturistici: trecento era la sacra cifra della misura dell'arca, la nave della salvezza (Gen 6,15); trecento erano gli uomini con cui Gedeone strappò la vittoria (Giud 7,6.7). In Ezechiele pertanto il tau sulla fronte dei salvati significa trecento. Questo segno però risulta da iota e dalla keraia, e il Signore stesso ha detto che nessuno iota e nessuna cheraia della legge passerà (Mat 5,18); tutto ciò dunque è un richiamo al mistero del segno salvifico della vittoria, che è la croce in forma di albero e antenna. E finalmente: questa semplice forma fondamentale di croce che colpisce gli occhi nella sua figura a quattro pezzi in linea orizzontale e in linea verticale, ricorda all'allegorista le parole di Paolo circa l'altezza, la profondità, la larghezza e la lunghezza (Ef 3,18) dell'amore di Dio che diviene visibile sulla croce. Questo tropaion che sovrasta tutto il cosmos, che raduna i quattro elementi, che tiene insieme i quattro confini della terra, è la croce. A nostro parere non sussiste alcun dubbio che il pensiero fondamentale, che raduna questi simboli, lontani l'uno dall'altro, nell'unità di una teologia della croce, è la rappresentazione verbale di κεραία come segno al­ fabetico e come antenna, sia anche dalle allegorie, già immerse nel nautico, della nave della salvezza dell'arca

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di Noe costruita con legno di croce (anche su di ciò un capitolo proprio apporterà in seguito le prove opportune) . In uno dei più antichi trattati, che si occupano esplicitamente dell'allegoria dell'Arca, GREGORIO DI ELVIRA dice: «Mensura vero arcae trecentorum cubitorum longitudo figuram dominicae crucis evidenter ostendit: trecenti etenim apud Graecos tau littera signantur, quae littera cum unum apicem quasi arborem erectam facit, alterum vero ut antemnam in capite extensam, crucis utique habitum demonstrabat » 195 . Dall'accenno di Gregorio ai Greci, già si vede che questa allegoria si è formata in primo luogo nella Chiesa orientale, poiché soltanto per il Greco è cosa comprensibile passare dal numero trecento alla simbolica della forma della lettera tau; inoltre per i Greci, alla vista della lettera alfabetica tau, è più facile concepire, in base alla somiglianza della parola κεραία, la linea trasversale come un'antenna. Gregorio di Nissa lo ha esposto esplicitamente in connessione con la allegoria nautica (conosciamo già parzialmente il passo) 19e : « La linea della lettera tirata dall'alto in basso rappresenta un iota. Il trattino, che vi si scrive sopra di traverso, è chiamato κεραία: e ciò può essere appreso già dai marinai, poiché il legno, che viene posto di traverso all'albero della nave e da cui si fa pendere la tela della vela, è detto κεραία. Ciò indica, come un'immagine enigmatica e una somiglianza, la figura della croce » 197 ; oppure come egli continua in un altro 1,5

De arca Noe ( W I L M A R T , p. io, 1. 188-192). "· Cfr. sopra, a p. 636. 1,7 Oratio 1 (PG 46, 624 D; 625 A). Cfr. il medesimo concetto anche in C R O M A Z I O , In Matthaeum, 5, 18 (PL 20, 344 A ) ; così pure in PS.-GEROLAMO, In Marctim, 15 (PL 30, 638 A ) : « Navis per maria

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passo: in ciò vediamo l'altezza, la profondità (l'iota) la larghezza e la lunghezza (antenna) del mistero della croce 1 9 8 . La sapienza latina dei retori imita i Greci in questa arte delle parole. Così nei suoi Idilli, A U SONIO presenta la lettera tau, che parla così: « Malus ut antemnam fert vertice sic ego sum Tau » 1 9 9 . Ciò appartiene esattamente anche al patrimonio della teologia latina della croce. È nuovamente GREGORIO DI ELVIRA, che ne parla nella spiegazione allegorica dei trecento eroi di Gedeone : « Trecenti enim apud Graecos tau littera signantur. Quae littera cura unum habeat apicem quasi arborem passionis erectam, aiterum in capite quasi antemnam extensam, crucis utique manifestum signum ostendit » 200 . Come si vede bene, Gregorio ripete se stesso con questa piccola trovata tanto cara all'allegoresi. PAOLINO DI N O L A potrebbe averlo appreso da lui. Egli esalta il mistero della figura della croce con questi versi: « Forma crucis gemina specie componitur : et antemnae speciem navalis imagine mali [nunc sive notam Graecis solitam signare trecentos explicat existens, cura stipite figitur uno, quaque cacumen habet, transverso vecte iuga[tur » 201 . Basti quanto abbiamo detto. A partire di qui la dottrina del mistico Tau come segno della croce vitantenna cruci similata suffiatur. Tau littera signum salutis et crucis describitur ». 198 Centra Eunomìum, 5 (PG 45, 696 B C ) . Cfr. anche Catech. magna, 32, 2 (PG 45, 81 B). 188 Idyllia, 12 (PL 19, 901 D ) . M0 Tractatus Origenis, 14 (BATIFFOL, p. 153, 1. 6-10). 201 Carmen 19, 6i2-6itì (CSEL 30, p. 139).

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toridsa ha conosciuto un ricco impiego sino al medioevo. Un fastoso discorso bizantino sul tropaion della santissima croce parla ancora dell'antenna posta di traverso, che trasforma l'incorruttibile iota della Legge nel Tau del segno salvifico della croce 202 . Prima di chiudere questo studio, ancora un breve cenno ad alcuni vantaggi che esso può offrire all'archeologia dell'antica simbolica cristiana della nave, anche se, come è stato detto più sopra, non osiamo emettere un giudizio definitivo sulle molteplici questioni dell'interpretazione archeologica, neppure in rapporto alla scultura nautica: il nostro compito consiste nel presentare modestamente sì, ma, ove possibile, anche esaurientemente, il materiale letterario agli archeologi. Bisogna ammettere che la materia sin qui presentata si distingue ad esempio, dalla povertà patristica con cui Wilpert ha dimostrato la sua spiegazione dell'immagine della nave raffigurata nella cappella del sacramento del cimitero di Callisto 203 . Per quanto ci è dato sapere, anche negli ultimi tempi non si è scritto nulla di definitivo sull'archeologia dell'immagine della nave; un grande contributo fu portato da G. STUHLFAUTH e Fu. J. DOLGER, che danno un catalogo delle rappresentazioni navali su sepolcri 204 ; nei suoi studi postumi, Dolger fornisce delle integrazio202 TEOFANE CERAMEO, Homilia 4 in exaltationem Crucis (PG 132, 201 B C ) . 203 J. W I L P E R T , Die Malereien der Katakomben Roms, Friburgo 1903, testo p. 419-421: parte illustrata, tav. 39, 2. 204 G. STUHLFAUTH, Das Schiff ah Symbol der altchristlichen Kunst, in Rivista di Archeologia Cristiana 19 (1942) pp. m - 1 4 1 . - FR. J. DOLGER, Sol Salutis, Mìinster 1925, 2 ed., p. 282-286.

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ni 205 . L'archeologia odierna dovrebbe farsi istruire ancor più dalla patrologia 206 . Nel campo dei simboli nautici dell'arte cristiana antica, gli studiosi dei secoli XVI e XVII ne sapevano molto di più, anche quanto a documentazione patristica, benché soltanto oggi sia possibile utilizzarla criticamente. Si pensi soltanto ad un BOLDETTI ο all'inesauribile MAMACHI 2 0 7 .

Abbiamo così indicato in quale direzione sembra andare, a nostro parere, il risultato dei due capitoli sull'antenna della croce. In primo luogo abbiamo indicato come vadano interpretate le immagini dei sarcofaghi con Ulisse all'albero della nave 208 . In seguito presenteremo il materiale riguardante la simbolica della navicella di Pietro; la storia dei testi accompagnerà le rappresentazioni in immagini, dal rilievo del sarcofago di Spoleto sino alla Navicella di Giotto 209 . Nello studio sulla nave della Chiesa costruita col legno della croce, abbiamo esaminato la questione archeologica discussa da GARRUCCI sino a DÒLGER, e cioè se la nave rappresenti Cristo. La simbolica dell'antenna della croce, qui documentata, dovrebbe aver risolto MS Diosfewroi. Das Rziseschiff des Apostels Paulus una seine Schiitzgótter, in Antike und Christentum 6 (1950) p. 276-285. - Cfr. la nota posta all'inizio di questo lavoro, ove vengono citati gli studi di Dolger sulla storia del segno della croce. 20 « C o m e caso esemplare citiamo qui J. FINK, Nòe der gereckte, Miinster 1955. Cfr. la recensione di questo lavoro fatta da H. R A H N E R , in Zeitschrift /tir katholische Theologie 80 (1958) p. 446-451. 207 M. A. BOLDETTI, Osservazioni sopra i Cimiteri de' santi Martiri e antichi cristiani, R o m a 1720, v. 1, p. 36OSS. - T H . M A M A C H I , Origines et antiquitates christianae, R o m a 1846, v. 3, p. 68ss. Per altri studi più antichi sull'archeologia della nave della Chiesa, cfr. sopra, a p. 397, nota, 1. 208 Cfr. sopra, p. 45OSS.

209 V e d i p i ù a v a n t i ,

p.

817S;

863.

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la questione. Ciò che l'antichità e il cristianesimo dicono sulla « forma umana » dell'albero e dell'antenna e suìYadfixi hominis facies (per parlare con M I N U C I O FELICE) 2 1 °, che l'antico cristiano naturalmente collega alla croce dell'antenna della sua nave, appartiene alla preistoria dell'archeologia, in molti punti ancora così oscura, della rappresentazione plastica del crocifisso. In m o d o simile abbiamo esposto almeno gli inizi e il compendio di quella rappresentazione, così importante anche archeologicamente, del segno della croce come mistica lettera alfabetica Tau (l'esposizione completa nel capitolo seguente). A partire di qui (dunque, dalla forma della croce come antenna e anche come Tau), sarà abbordata la questione della forma della crux commissa ο itnmissa, di cui si è già occupato nel secolo XVII il lettissimo H. KIPPING, che, a proposito della croce, dice: «Patibulum hoc antenna est alio nomine, quia expanditur transversa, uti in malo navis » 2 n . La lista patristica dei segni della croce presenti nella « natura » (essa inizia con Giustino, e giunge, attraverso Tertulliano e Minucio Felice, sino a Gregorio di Elvira, per fare soltanto alcuni nomi) : ali di uccello, figura umana nuotante, stendardo, timone del carro, e altri, soprattutto però la forma dell'albero della nave con la sua antenna: è una lista nota all'archeologia antica ed ha trovato una rappresentazione in una bella incisione in rame in JUSTUS LIPSIUS 212 . 110 Cfr. A. GHILLMEIEE, Der Logos am Kreuz, Monaco 1956, p. 68, nota. z. 211 H. KIPPING, Liber singularis de Cruce et Cruciami, Brema 1671, P- 124· 212 JUSTUS LIPSIUS, De Cruce libri tres ad sacram profanamqm historiam uliles, Anversa 1629, p. 27.

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Nel suo studio sulla simbolica della croce nell'antichità, CLAUDIUS SALMASIUS ha scritto brevemente e con esattezza : « Lignum est in summo mali transversarium, e quo dependent vela vel quibus vela involuta sunt. Extremas partes antennae cornua vocari notant Grammatici. Propter illa duo cornua, quae sunt extremitates vel extremae partes, κεραία Graecis dicitur anten­ na » 2 1 3 . Si pensi, per limitarci ad un esempio, alla corniola nel Museo Kircheriano, della quale hanno scritto GARRUCCI 2 1 4 e ZÒCKLER 215. La forma arcaica semplice, in cui è rappresentata l'antenna della croce su questa immagine di nave, non lascia alcun dubbio, che abbiamo a che fare con quella simbolica, che cercammo di dimostrare letterariamente. Persino l'ucello che sta sull'antenna è spiegabile in senso escatologico sepolcrale: si pensi agli uccelli che in PETRONIO si posano sull'antenna della nave che entra pacificamente in porto (l'uccello dell'anima sull'antenna della navicella della vita significa pace e arrivo nell'approdo dell'ai di là. La stessa cosa vale certamente di una pietra tagliata del Britisch Museum, che riproduce una croce sulla prua della nave (galère, trirème, une croix à la proue, les voiles carguées) 216 ; è il nostro artemon, la vela anteriore e a forma di croce, per significare 213

C L . SALMASIUS, Epistola de Cruce (allegata a THOMAS B A R -

THOLINUS, De latere Christi aperto dissertatio, Lugduni Batavorum 1646, p . 233). 214 R. GARRUCCI, Appendice di notizie archeologiche, in La Civiltà Cattolica 28 (1857) p. 731-739. 215 O. ZÒCKLER, Das Kreuz Christi. Religiongeschichtliche uni kirchlicharchdoiogische Untersuchungen, Giitersloh 1875, p. 143. Cfr. ora G. STUHLFAUTH, op. cit., p. 124 e 134S, sulla genuinità dubbia di questa gemma. »· D A C L VI, 1 (1924) col. 836, fig. n. 5045.

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il « rapido » viaggio della nave della vita. Pensiamo ad AGOSTINO, che rimprovera l'uomo, che tiene abilmente in mano ì'artetnon, e che tuttavia non giunge all'approdo. FR. FICORONIUS ha descritto e spiegato un'altra gemma con rappresentazione cristiana della nave; qui albero e antenna sono rappresentati senza accessori nautici come croce, per così dire il simbolo nella forma più pura, e la spiegazione dice appropriatamente: « Crux illa navi superposita nihil aliud est quam ipsius navis malus cum antenna transversa, unde carbasa suspenduntur » 217 . Dai risultati del nostro studio possiamo ora anche correggere la descrizione che viene data dagli archeologi, quando parlano della famosa lanterna navale di Valerio Severo Eutropio negli Uffizi di Firenze. WILPERT nella Kraus'schen Realenzyklopàdie ha detto : « La chiara forma di croce dell'albero qui è riconoscibile soprattutto per il fatto che la scritta: Dominus legem dat... proprio come il titolo della croce, è fissato sull'asse trasversale del pennone della vela » 218 . Ciò corrisponde esattamente alla descrizione data più tardi nell'opera sui mosaici romani: « L'albero porta una vela con la scritta: Dominus legem dat»219. In realtà, la scritta non è sulla vela, ma là dove gli antichi immaginavano che si trovasse il carchesium ο anche la vela di cima; e questa è, come vediamo, una simbolica evidentemente voluta: la scritta con la benedizione che il Signore dà dall'altezza dell'ai di là, si 117 FRANCISCUS FICOHONIUS, Gemmile antiquae litteratae aliaeque rariores, Roma 1757, p. 105, alla tavola XI, fig. 8. !l8 FR. X. KRAUS, Real-Enzyklopàdie der christlichen AHertùmer, Friburgo i88 e Patriarchis, 5, 27 ( C S E L 3 2 , 2, p. 139, 1. 1 9 - p . 140, 1. 2 ) . 123

Epistola 59, tì (CSEL 3, p. 674, 1. is). De Abraham, 2, 3, 11 (CSEL 32, 1, p. 573, i. -js). Ciò vale anche della singola anima, in quanto resta tempio di Dio e così può essere paragonata alla Chiesa (ivi, p. 573, 1. 3s). Perciò il cristiano deve pregare per evitare il naufragio, fidei ignorare naufragia: Hexaemeron, 3, 5, 24 (CSEL 32, 1, p. 75, 1. 13S). - Il cristiano battezzato in questa sicurezza è paragonabile anche ad un'isola, su di cui è salvo da ogni naufragio: De interpell. Job et David, 4, 9, 34 (CSEL 32, 2, p. 294). 184

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Essa è nave, che viaggia sicura, e porto; e il cristiano sa bene che tra questa buona nave del legno della croce e il porto della salvezza definitivamente assicurata per il singolo, per quanto spesso e per quali peccati che siano, egli abbia perduto la salvezza del battesimo, ha sempre la mediazione della tavola di salvezza della Penitenza. AGOSTINO ha fatto sperare ancora questa possibilità finale persino per il naufrago Pelagio : « A fide catholica naufragavo:, nisi paenitendo refecit, quod fregit » 125 . Il singolo cristiano dunque, che deve pilotare la nave della propria anima, ossia la sua decisione salvifica personale, anche se sostenuta dalla grazia, sta quaggiù sempre in pericolo di naufragio e deve stare all'erta ; così afferma Agostino « Navis tua cor tuum. Jesus in navi, fides in corde. Si meministi fidei tuae, non fluctuat cor tuum: si oblitus es fidem tuam, dormit Christus - observa naufragium » m . Ora, come sappiamo dall'antica storia cristiana della penitenza, non è soltanto la caduta nella fede che viene paragonata ad un naufragio. La medesima disgrazia salvifica si verifica in quello che viene chiamato peccato mortale. Ci sia permesso parlare brevemente anche di ciò, (così, fin da ora proponiamo ciò che è espiabile con la penitenza e che deve essere espiato aggrappandosi alla tavola della salute che salva dal naufragio). Già iTim 1,19 lascia intendere che la causa più profonda del naufragio nella fede è stata la deviazione volontaria della «buona coscienza» (άγαθ-ή συνείδησις). «Cupi­ digia » nel senso più ampio della parola è, anche per TERTULLIANO, il motivo morale per ogni caduta nella l

" De natura et origine animae, 2, 13 (CSEL 60, p. 353, 1. 23$). Enarr. in Psalmum 34, 3 (PL 36, 324 C D ) .

m

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fede: « Inprimis cupiditatem radicem omnium malorum, qua quidem inretiti circa fidem naufragium sunt passi » 127 . Anche nel catalogo nautico col quale lo Ps. CLEMENTE descrive la nave della Chiesa, naufragio viene identificato semplicemente con peccato 128. Si tratta della tradizione della filosofia morale alessandrina, che abbiamo costatata in Filone, quando anche CLEMENTE ALESSANDRINO parla preferibilmente di questo aspetto morale del naufragio. Alcoolismo e « voluttuosità » nel senso ampio della parola, preparano il cristiano al « cattivo naufragio » dell'anima 129, proprio come Tertulliano (forse influenzato da Clemente), nella sua rigorosa invettiva contro le arti muliebri, predica sulla forma naufraga delle frivole dame cartaginesi130. È di nuovo la sottile psicologia morale di AMBROGIO che parla, quando egli definisce la gioventù dell'uomo come l'età del naufragio morale 131 e, nell'interpretazione allegorica del diluvio universale, paragona l'inabissamento del mondo nei flutti alle tempeste, che sorgono in noi dall'opposizione tra spirito e carne : « Magna igitur naufragia quando mentis pariter et corporis sensuumque omnium turbo et procella miscentur » 132 . 127

De idoiolatria, n, ι (Corp. Christ II, p. i n o , 1. IOS). PS.-CLEMENTE, Epistola ad Jacobum, 15 (PG 2, 52 A). Cfr. sopra, p. 519S. 123 Paidagogos, 2, 2, 28 (GCS CLEMENTE I, p . 173, 1. 14); - 2, 2, 22 (p. 169, 1. 21); - 3, 7, 37 (p. 258, 1. 4). 130 De cultu feminarum, 2, 9, 2 (Corp. Christ. I, p. 258, 1. 4). 131 De ìnterpell. Job et David, 1, 7, 21 (CSEL 32, 2, p. 225,1. 1-5); 1, 7, 23 (CSEL 32, 2, p. 226,1. 10-12). - Viceversa, il vecchio sapiente è giunto nel porto della tranquillità e là n o n può subire più naufragio : De Jacob, 2, i o , 44 (CSEL 32, 2, p. 60, 1. I4s). Leggerezza e loquacità come naufragio della pudicizia: Expl. in Psalmum 36, 28 (CSEL 64, p. 94, 1. 6s). 132 £)e Noe et arca, 14, 49 (CSEL 32, ι, ρ. 447, l. 12-14). 128

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Ne abbiamo già parlato più sopra nel capitolo sulla ' Nave dell'anima ' 133. Così in una lettera pasquale (che ci è stata conservata nella corrispondenza di Gerolamo), il patriarca TEOHLO DI ALESSANDRIA ammonisce

i suoi fedeli, buoni conoscitori del mare : « Ne diffèramus tumentibus carnis fluctibus liberati inter diversa voluptatum bine inde naufragia clavum tenere virtutum et post grandia maris pericula tutissimum caelorum intrare portum » 134 . Detto con immagine antica (anche di ciò parlammo all'inizio del nostro studio) 135 : il cristiano è come un Ulisse preso tra i pericoli delle Sirene, e perciò dobbiamo essere sempre in attesa del pericolo del naufragio morale : « Ne sollicitati delectatione mortifera in criminum saxa rapiamur et scopulo mortis adfixi naufragium salutis obeamus » 136 . Questa teologia del naufragio morale trovò un'ultima forma nel linguaggio ascetico della letteratura monastica. Il cristiano, che ha rinunciato al « mondo perverso », è in modo del tutto speciale lo « sbarcato » ; la pace del convento e del deserto è il suo beato porto di pace. Se egli, come dice lo Ps. MACARIO, è caduto in acqua nudo come un naufrago, lo ha fatto per salvare la sua vita eterna 137. Ma, così pensa lo sperimentato GEROLAMO, egli può incontrare ancora il naufragio 133

Cfr. sopra, p. 545-552. « Epistola 98, 1 (CSEL 55, P· 185, 1. 15-17). 135 Cfr. sopra, p. 404SS. ia « PAOLINO DA N O L A , Epistola 16, 7 (CSEL 29, p. 122, 1. is). Cfr. PIETRO CRISOLOGO, Sermo 8 (PL 52, p. 208 C ) : «Delictorum naufragium ». Per l'impiego medievale di naufragium e naufragus quale concetto di « fallito », affondato, arenato, cfr. D U C A N G E , Giossarium, Niort, 1885, v. 5, p. 578. 137 P S . - M A C A R I O , Omelia 5, 6 (PG 34, 508 A). - Cfr. sotto, a p. 955-959ia

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persino sulle strade della grande città 138 . E ci sembra sentire il detto di Agostino sulla navicella dell'anima, che citammo più sopra, allorché lo Ps. - MACARIO ammonisce : « Guai alla nave che non ha più nocchiero ! Essa verrà sbattuta qua e là dalle onde del mare e andrà a fondo. Guai ad un'anima che non ha in sé Cristo il vero nocchiero! Essa verrà trascinata alla deriva dalle onde delle passioni sul mare amaro delle tenebre, la sua sorte finale è la rovina » 139 . Anche l'uomo pneumatico non è sicuro della sua salvezza, ossia, nell'antica simbolica, anch'egli può ancor subire naufragio pur essendo in porto. « Egli credeva di essere già approdato in porto tranquillo. Ed ecco che le onde si levano contro di lui, così che egli si ritrova di nuovo in mezzo al mare e viene trasportato là dove si ha dinanzi agli occhi ancora soltanto mare, cielo e morte » 1 4 0 . Soltanto l'obbedienza sottrae a questo pericolo, senza la υπακοή, insegna CLIMACO, il naufragio minaccia continuamen­ te il m o n a c o 1 4 1 . Ancora nel medioevo, O N O R I O DI

AUTUN, nel suo piccolo trattato sulla vita monastica, presenta al monaco il pericolo di subire naufragio nel porto 1 4 2 . Abbiamo così indicato i caratteri fondamentali della simbolica antica e patristica del naufragio. Vi si può già riconoscere in qualche m o d o il posto, ove va situata l'immagine della tavola della salvezza. Esporremo ora dettagliatamente la storia e il senso di questo sim13* Epistola 125, 9 (CSEL 56, p. 128, 1. I I ) . Cfr. anche Tractatus in Psalmum 103 ( M O R I N , p. 167, 1. 15-17). 13» Homilia 28, 2 (PG 34, 712 B). i« Homilia 38, 4 (PG 34, 760 D ) . i" Scala, 4. (PG 88, 680 D ) . i" De vita claustrali (PL 172, 1247 A B ) .

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bolo. Ci ripromettiamo di dare in tal m o d o un contributo alla dottrina dogmatica della penitenza, che si cela dietro queste immagini. La nota espressione della tabula post naufragium, dopo una lunga preistoria antica, entra nella dottrina patristica della penitenza, viene scoperta in Gerolamo e ha fortuna nei manoscritti della scolastica primitiva, viene trasmessa dal Lombardo ai principi della Scuola e sarà infine dommaticamente consacrata nei Canoni tridentini. Nella conchiglia pietrificata di questo simbolo patristico udiamo ancora il mormorio del mare greco.

2. LA T A V O L A DELLA SALVEZZA

Anche la tabula post naufragium ha la sua preistoria, la cui conoscenza ci dà la possibilità di comprendere più profondamente il valore dogmatico dell'immagine patristica. N o n c'è alcun simbolo più appropriato per l'esistenza dell'uomo ondeggiante tra vita e morte, che questo misero pezzo di legno, che sta tra il mare cattivo e il navigante. « Soltanto una tavola ci separa dalla morte », si diceva 143 . « Essa è larga soltanto quattro dita e di tanto noi siamo separati dal naufragio » 144 . « N o n una tavola di pino spessa tre dita salva l'uomo, ma soltanto Tyche » 145 . Lo abbiamo esposto sopra 146 . « Tabula distinguitur unda », diceva Giovenale 147 . 143

ALCIFRONE, Epistolae ptscatoriae, 3

(SCHEPERS, p . 4s). LESKY

p . 274. 1,4 ARCHITA in Diogene Laerzio, 1, 103 (HICKS I, p. 108, 1. 1-3). 145

14i 147

D I O N E CRISOSTOMO, Oratio 64 ( B U D E II, p .

Cfr. sopra, a p. 40US.; 573. Sat., 14, 289 (Friedlander, p. 570).

190, 1. 23-25).

IL NAUFRAGIO E LE TAVOLE DELLA SALVEZZA

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La storia letteraria della nostra tabula inizia con le storie classiche di "viaggi marini, l'Odissea e la saga degli Argonauti. Nei canti dei naufraghi di questa storia si tratta sempre della salvezza degli eroi su una tavola di legno della nave lamentevolmente spezzata. Questo legno salvatore in Omero è un pezzo degli assiti con cui Ulisse costruisce la sua zattera (σχεδία) (V.323), oppure un pezzo della carena (XIX,278), oppure un tavolone (δόρυ), su cui il naufrago si getta come su di un cavallo (V,37o), ο infine un pezzo dell'albero spaccato, che Zeus Kronios offre benigno (XIV,3ii). Il legno della salvezza è un pezzo delle pareti della nave, di cui parla il canto: « Acqua scatenata strappava gli assiti (σανίδες) dalla chiglia» (XII,420ss). Queste sono le parole della storia primitiva della tabula naufraga. Ritorno e felicità di Ulisse sono decise su queste tavole del supremo pericolo di vita. Ciò ci ricorda (in una digressione, che mostra quanto fosse cara e vicina all'uomo navigatore questa immagine) l'altra classica storia di avventura e di naufragio, Sindbad il Navigatore, il quale racconta : « Io combattevo per la dolce vita, fino a che Allah l'Onnipotente mi gettò sul cammino una tavola della nave, a cui mi afferrai e su cui mi issai » 148 . La letteratura ellenistica degli Argonauti ha imitato il canto omerico. APOLLONIO RODIO fa salvare i quattro figli di Phrisso da rabbiosa tempesta marina su un vigoroso pezzo di trave (κρατερω δούρατι) 1 4 9 . Ai tempi dei Romani si venerava ancora una tavola dell'antica nave leggen148 Die Erzàhlungen aus den tausend una ein Ndchten (ed. FELIX P. GKEVE), Lipsia 1908, v. 7, p. 158S. 14s Argonautka, 2, 1120S (MEECKEL, p. 259).

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darla degli Argonauti come vera tabula salutis. l'ha così cantata:

MAR-

ZIALE

« Fragmentum quod vile putas et inutile lignum haec fuit ignoti prima carina maris. Saecula vicerunt. Sed quamvis cesserit annis sanctior est salva parva tabella rate » 150 . I rottami di nave erano quindi per gli antichi non soltanto un passato mitico, ma un presente quotidiano, spesso temibile. Il mare sputa tutto sulla terra, dice STRABONE: sugaro, cadaveri umani e tavole di nave 151. Si credeva che simili rottami di antichi naufragi si trovassero pietrificati nel tempio di Ammone in Egitto 152 . I Tessali, come narra ERODOTO 153, si costruivano una parete con i tavoloni di navi naufragate. E, con una forza immaginifica intramontabile, ESCHILO canta nei Persiani la memorabile battaglia navale di Salamina: « ... non si poteva più vedere il mare, pieno di rottami e di morti » 154 . Cosa farai in un naufragio, chiede EPITTETO, quando l'albero si sfascia e tu levi grida verso gli dei? « Non afferrerai un pezzo di legno e non ti porrai su di esso » 155 ? SENECA nelle Troadi conta con stoica saggezza di un naufrago che fu rigettato nudo sulla terra, ma si consola al pensiero, che è una disgrazia accaduta 150

Epigr., 7, 19 (FRIEDLANDEK I, p. 482S). Geogr,, 1 (MULLER-DUBNER, p. 44, 1. 43). Ivi (p. 41, 1. 5). 153 Hist., 7, 191, 1 (KAIXENBERG II, p. 230, 1. 7s). i54 persimit 4195 (MURRAY, p. 69). 155 Dissert., 2, 19, 16 (SCHENKL, p. 192, 1. 9). 151

152

IL NAUFRAGIO E LE TAVOLE DELLA SALVEZZA

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a moltissimi, come attestano le tabulae gettate qua e là a riva sulle coste: « Qui secans fluctum rate singulari nudus in portus cecidit petitos aequior casum tulit et procellas mille qui ponto pariter carinas obrui vidit tabulasque latus naufraga » 156 . Ciò che il romano chiama tabula, presso i greci era denominato σανίς (anche gli Atti degli Apostoli, nel descrivere il naufragio, si servono di questa espres­ sione (27,44), che la Volgata traduce con tabulae). In LUCIANO le σανίδες sono i tavoloni bagnati che con­ ducono giù verso la αντλία, la sentina, verso l'ambien­ te inferiore della nave 1 5 7 . Su una simile σανίς si è salvato una volta un naufrago sulle coste tessaliche, ma era appena giunto a terra nella notte della tempesta marina, che un leone lo dilaniò : « Ο flutto marino, come sei più fidato che la terra ferma » ! esclama l'epigrammista 158. In TERTULLIANO, come mostreremo più sotto, incontriamo anche la parola planca, ed anche questa significa rozzo tavolone 159. Ora colui che veniva salvato da un naufragio su di una simile tabula, era sempre uno reso insperatamente alla vita ed era pieno di ΐ5β i^ Ttoadi, 1030-35 (HERMANN, p . 99). - Cfr. anche Ercole Oet., n j s : « N o n puppis lacerae fragmina conligit, ut litus medio speret in aequore ». " ' Jupiter trag., 48 (JACOBITZ II, p . 374, 1. 3is). 158 Anthologia graeca, 7, 289 (BECKBY II, p . 172). 159 U n termine altrimenti raro. In PALLADIO, De re rustica, 1, 21 (SCHMITT, p. 24) significa i tavoloni con cui si ricoprivano le scu­ derie : « Plancae roboreae supponantur stationibus equorum ».

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L ' E C C L E S I O L O G I A D E I PADRI

riconoscenza verso i Celesti. Sappiamo da GIOVENALE che i naufraghi salvati votavano a Iside delle raffigurazioni della disgrazia 160. Il povero diavolo, che veniva sputato nudo sulla terra ferma, elemosinava qualche moneta, mostrando una raffigurazione del naufragio 161. Egli cerca consolazione presso i compagni della medesima sventura, come dimostra un frammento di PETRONIO:

« Naufragus eiecta nudas rate quaerit eodem percussum telo qui sua fata legat » 162 . Perciò MARZIALE mette in guardia contro quei mendicanti, che mostrano un pezzo di rottame di un naufragio avvolto nella lana e con molte parole chiedono la elemosina : « Nec fasciato naufragus loquax trunco » 163. Ciò era talmente risaputo, che Orazio poteva servirsene immaginosamente, là ove descrive come se si fosse salvato a stento dal naufragio dell'amore: prova di ciò sarebbe la tabula votiva, che egli ha offerto al potente dio del mare appendendola alla parete del santo tempio assieme alle vesti bagnate: «... me tabula sacer votiva paries indicat uvida suspendisse potenti vestimenta maris deo » 164. 160 Sat., 12, 22-28 (FRIEDLANDER, p. 513). G. LAFAYE, Histoire du eulte des divinités d'Alexandrie hors de l'Egypte, Parigi 1884, p. 20OS, narra delle piccole navi votive consacrate a Iside, che furono trovate presso S. Maria in Navicella a R o m a . 181 Giovenale, Sat., 14, 301S (FRIEDLANDER, p. 571). 162 Frammento 32 (BUCHELER, p. 121). 103 Epigr., 12, 57, 12 (FRIEDLANDER II, p. 249). 184

Ode I,

5,

13-16

(KIESSLING-HEINZE, I, p.

33).

IL NAUFRAGIO E LE TAVOLE DELLA SALVEZZA

775

La tabula post naufragium era l'ultima cosa che restituiva tuttavia la vita al naufrago. E così ora possiamo comprendere meglio, quando, nelle Saturae di PETRONIO, Eumalpo si rivolge al cadavere di Lichas, il padrone della nave rigettato sulla spiaggia, con le parole : « De tam magna nave ne tabulam quidem naufragus habes » 165 . Da quanto detto si comprende che dalla forza della viva esperienza navale poteva sorgere anche un'immagine oratoria popolare e espressiva. Gli antichi parlano continuamente della tavola della salvezza. La σχεδία, il pezzo di legno salutifero della zattera di Ulisse, ha ricevuto nel Fedone di PLATONE una nuova indimenticabile forza simbolica. Adesso è la filosofia, che diventa l'audace ma pericoloso viaggio marino dell'uomo che pensa: anche in essa si danno dei naufragi, dai quali ci riconduce a terra, non più una buona nave, ma una semplice tavola di legno. Il saggio « deve lasciarsi dire come vanno le cose, anche se ciò nella vita attuale è molto diffìcile ο impossibile, oppure lo deve trovare egli stesso, oppure ancora se ciò fosse impossibile, deve assicurarsi almeno la migliore e irrefutabile dimostrazione umana e su di essa, come su di una zattera (ώσπερ επί σχεδίας κινδινεύοντα διαπλεϋσαι τον βίον), pilotare fiducioso attraverso la vita, nel caso che qualcuno non abbia la ventura di veleggiare, sicuro e senza pericoli, su una forte nave, ossia una parola quasi divina » 166 . Un frammento di EURIPIDE, conservatoci da PLUTARCO, dice soltanto con

una debole applicazione dell'immagine : « Persino su 166 1 8 i

Sat., 115, 13 (BUCHELEH, Fedone, 85 D.

p.

8 j , 1.

17S).

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di un giunco tu puoi viaggiare per mare, se dio lo vuole » 167 . LUCIANO lo ha imitato 168. Tale salvezza è propriamente un dono divino. Tahulam naufrago dare è anche per il Romano il concetto figurato di un beneficio che salva la vita, la cui incomparabilità consiste in un sorprendente contrasto con la pochezza del piccolo pezzo di legno. La tavola ha più valore di un patrimonio. Lo ha detto SENECA: « Dedi ubi patrimonium-sed ego naufrago tahulam » 169 ! In un esercizio retorico di declamazione dello Ps. QUINTILIANO si narra che ad una città affamata, dopo lunga esitazione, viene mandato un mercantile carico d'ogni bene, che però trova soltanto dei morti. Questo è un naufragio nel porto; invece del piccolo aiuto, che avrebbe salvato la vita, giunge ora un tesoro divenuto inutile : « In portu naufragami fecimus et frumentum ad ancora perdidimus... naufrago tabulani abstulisti, mortuo applicas navem » 17 °. L'immagine fa dunque parte dell'arsenale dei retori. VALERIO MASSIMO narra che a Bologna un galante signore fu colto in flagrante e fu denunciato per adulterio, ma potè salvarsi con una fuga difficile: egli ha trovato una tavola giuridica di salvezza nel minaccioso naufragio : « Inter maximos et gravissimos infamiae fluctus emersit, tamquam fragmentum naufragii leve admodum genus defensionis amplexus » m . Questo è l'ambiente spirituale e letterario, in cui ora comprendiamo, come la nostra tabula 1,7 De Pythiae oraculis, 22 (POHLENZ-SIEVEKING IH, p. 49,1. 11) = EURIPIDE, frammento 397. 1S3 Hermot., 28 (JACOBITZ I, p. 352, 1. 23s). 168 De beneficiis III, 9 (Hosius, p. 57, 1. 26). 170 Dedam. 12, 23: Pasti cadaveris (ed. Bipontina III, p. 273). 171 Facta et dieta memorabilia, 8, 1, 12 (KEMPF, p. 371, 1. iós).

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naufragii potesse penetrare anche nella retorica filosofica, morale e giuridica di CICERONE e non c'è alcun dubbio che proprio da questo ambiente anche TERTULLIANO e LATTANZIO, i retori e moralisti cristiani, abbiano desunto l'immagine della tavola della salvezza. Nel libro Sui doveri Cicerone, seguendo il modello di Ecatone, propone il seguente caso: cosa succede, quando un naufrago saggio e uno stolto si disputano l'unica tavola della salvezza? « Si tabulam de naufragio stultus arripuerit, extorquebitne eam sapiens, si potuerit ? » Ecatone ha definito la cosa immorale e ne ha trattato a fondo nel sesto libro della sua opera : « Quid, si una tabula sit, duo naufragi eique sapientes, sibi uterque rapiat an alter cedat alteri»? 172 . Il caso morale viene quindi discusso ulteriormente e ci mostra che per questi uomini antichi era naturale fissare l'attenzione su questi eventi quotidiani (non altrimenti avverrà in Tertulliano e Gerolamo). LATTANZIO a sua volta ha ripreso direttamente da Cicerone il medesimo problema : « Sed concedamus posse fieri quod proponit philosophus: quid ergo iustus faciet, si nactus fuerit aut in equo saucium aut in tabula naufragum ? Non invitus confiteor : morietur potius quam occidat » 173. Questa è la soluzione cristiana del caso della tabula naufragii. Concludiamo questo viaggio attraverso la preistoria della tabula con una frase della storia tempestosa della politica romana al tempo di Cesare. CICERONE va in giro gloriandosi dell'amicizia con il temuto potente, che gli è restata come unico bene nel naufragio della politica e se ne ricorda con amara commozione: «Et " a De offiàL·, 3, 29, 30 (OHELL IV, p. 73IS). "» Div. Inst., 5, 17, 20 (CSEL 19, p. 455, 1. 14-16).

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mehercule cum Caesare suavissimam coniunctionem haec enim me una ex hoc naufragio tabula delectat » 174. Passando ora a descrivere la storia cristiana della tabula naufragii, dobbiamo affermare sin dall'inizio: non la teologia greca, ma soltanto quella latina si è servita di questa immagine in un contesto dogmaticamente importante sotto l'influsso determinante di TERTULLIANO, che ha reso popolare tale simbolo nautico nella dottrina penitenziale. Ciò conferma il nostro assunto, che qui, da un punto di vista della storia letteraria, si tratta di un tema ereditato dalla retorica romana, che abbiamo incontrato in Cicerone e Quintiliano. È perciò tanto più importante stabilire che cosa abbia inteso dire effettivamente la teologia penitenziale latina, quando parlava della tabula naufragii. Si tratta, come si sa dagli studi sulla storia antica della penitenza cristiana17S, della difficile questione, che in tutti i tempi ha occupato le menti dei teologi: può un cristiano riacquistare la salvezza perduta dopo il battesimo a causa del peccato? Detto ora in termini nautici: c'è ancora per lui una salvezza, quando per sua colpa è « caduto in mare » dalla nave della Chiesa oppure quando la nave dell'anima della sua fede e della sua moralità è andata perduta nel naufragio del pec" 4 Epistola ad Attìcum, 4, 18, 3 (OKELL HI, p. 464, 1. 2$s). 1,5 Per la teologia penitenziale di Tertulliano ricordiamo il recente studio in J. QUASTEN, Patrology, Utrecht-Antwerpen 1953, v. 2, p. 301S; 314S; 335. - Cfr. B. POSCHMANN, Paenitentia Secunda. Die kirchliche Busse im altesten Christentum bis Cyprian una Origenes, Bonn 1940, p. 283-34S. - K. R A H N E R , Zur Theologie der Busse bei Tertullian (Festschrìft fur Karl Adam), Dusseldorf, 1952, p. 139-167 (vers. ital. in La penitenza della Chiesa, R o m a , 2 ed., 1969). - J. GROTZ, Die Entwicklung des Bussstufenwesens in der vomizànischen Kirche, Friburgo 1955, p. 343-370.

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cato? C'è anche in questa sfera della salvezza eterna un qualcosa di simile ad una tavola, che faccia da mediatrice tra morte e vita? Gerolamo ha formulato acutamente la risposta in una lettera che parla della tabula naufragii : « Non c'è cosa intermedia tra morte e vita. Le due cose stanno tra di loro in netta opposizione; e tuttavia vengono connesse insieme mediante la penitenza » 176 . Iniziamo dunque con l'esposizione della simbolica nautica nella teologia penitenziale di TERTULLIANO. LO sappiamo già: è il Tertulliano ancora cattolico, che parla e può parlare della tabula della penitenza. Cosa abbia pensato di questa questione da montanista, ce lo ha indicato la sua esegesi di iTim 1,19: dopo il naufragio nella fede, per il peccatore non c'è più speranza di ottenere la salvezza che viene data attraverso la Chiesa 177. Ben altrimenti parla nel suo periodo cattolico; l'opuscolo della penitenza ne è il classico testimone. Nel quarto libro incontriamo per la prima volta nella letteratura cristiana l'immagine della tavola della salvezza. In questa prima parte dell'opera si tratta, com'è risaputo, dei sentimenti penitenziali prebattismali del catecumeno, i quali preparano a ricevere effettivamente la remissione dei peccati nel battesimo. A tale scopo Tertulliano predica (e non si può perdere di vista questo carattere omiletico del libro, ragion per cui, anche l'immagine della tabula appartiene agli elementi fondadamentali della catechesi battesimale latina) : « Ergo paenitentia vita est, quae proponitur morti. Eam tu, peccator...ita invade, ita amplexare, ut naufragus alicuius "· Epistola 122, 3 (CSEL 56, p. 66, 1. 2s). i" De pudicitia, 13 (Corp. Christ. II, p. 13055).

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tabulae fidem. Haec te peccatorum fluctibus mersum prolevabit et in portum divinae clementiae protelabit » 178. « Così, come un naufrago si affida ad un qualsiasi pezzo di legno »: ricordiamo l'esperienza che l'uomo antico aveva del naufragio e del salvataggio, per sentire quanto fosse eloquente questa immagine per i catecumeni dell'Africa. Il naufragio, che qui viene supposto, è in ultima analisi il peccato originale di Adamo, da cui derivano tutti i peccati degli uomini non redenti. Adamo infatti viene chiamato poi espressamente « stirpis humanae et offensae in Dominum princeps » 179 . La tempesta marina, che provoca continuamente il naufragio, è lo stato di peccaminosità dopo il peccato originale : « Tot et tanta delieta humanae temeritatis a principe Adam auspicata » 18 °. Il porto della misericordia divina è la salvezza mediante il battesimo e in questo porto si giunge dopo il naufragio sulla tavola dei sentimenti della penitenza. Questa « prima » tabula post naufragium è dunque la penitenza prebattismale. Lo vediamo: le immagini provenienti dal campo nautico si compenetrano l'un l'altra. Questa prima tavola della salvezza porta come immediatamente al porto salvifico, in una sicurezza apparentemente definitiva. In questa abbreviazione retorica dell'immagine, non si parla della nave della Chiesa sulla quale (secondo la dottrina di Tertulliano riferita altrove) 181 si viene 178

De paenitentia, 4, 2, 3 (Corp. Christ. I, p. 326, 1. 6-12). "· De paenitentia, 12, 9 (Corp. Christ., I, p. 340, 1. 395). 180 De paenitentia, 2, 3 (Corp. Christ. I, p. 322, 1. 8s). 181 Per il simbolismo della nave di TERTULLIANO, cfr. De baptismo, 12 (Corp. Christ. I, p. 288, 1. 38-43): « Navicula illa figuram Ecclesiae praeferebat ». - De pudicitia, 13, 20 (Corp. Christ. II, p. 1306, 1. 1): « Solarium navis Ecclesiae». - L'uomo come nave: De

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presi mediante il battesimo. Ma così il problema della teologia penitenziale diviene tanto più acuto: anche questo salvato nel porto del battesimo può come dimostra l'esperienza, subire ancora naufragio. Come può allora conciliarsi la possibilità di una rinnovata salvezza con l'unicità definitiva dell'arrivo in porto? Può uno « sbarcato » subire ancora naufragio nel porto ? D'altra parte è cosa certa per Tertulliano che mediante il battesimo « la chiave del perdono » 182 fu chiusa una volta per sempre. Qui s'inserisce la sua dottrina della paenitentia secunda. Solo una volta ancora Dio porge al peccatore battezzato il rimedio della penitenza presente nella Chiesa. In linguaggio nautico: al cristiano divenuto nuovamente naufrago nel porto del battesimo, Dio ancora una volta invia una tavola salvifica quale secunda, immo iatn ultima spes183. È l'exomologesi, la penitenza sacramentale che riconcilia alla Chiesa e riconduce nuovamente al porto. Tertulliano ne parla a partire dal settimo libro. Egli lo fa però con esitazione, per evitare che i cristiani si lascino andare facilmente all'immoralità a causa di questa possibilità di remissione rinnovata ο rinnovabile a piacere. Proprio questa strana esitazione diviene più comprensibile mediante la immagine della tabula post naufragium offerta ancora una volta da Dio. Il cristiano dovrebbe essere veramente come un navigatore, che non sfida il cielo con naufragi provocati più volte (da quanto detto sopra conosciamo quest'atteggiamento dell'uomo antico). Siamo sfugresurr. carnis, 60, 6 (Corp. Christ. II, p. 1009, 1. 30-35). De anima, 52,

Ivi (1056 A).

190

Ivi (p. 1056 A). Cfr. per ciò B. POSCHMANN, Die abendlin-

dische Kirchenbusse im Ausgang der christlichen Altertums, Monaco 1928, p. 144-147. - E. GOILER, Analekten zur Bussgeschichte des vierten Jahrhunderts, in Rom. Quartalschrifi 36 (1928) p. 245-261. - Che PACIANO sia stato influenzato da TERTULLIANO, lo dimostra per un altro passo B. POSCHMANN, Paenitentia Secunda, p. 323, nota 2.

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gliosa struttura di questa « nave del mondo » (mirabilem illam navis iactatae salutem) 191. Il cristiano invece la sa scorgere, ma soltanto quando sfugge ai flutti del mare del mondo ed evita le tentazioni dei lotofagi e delle sirene, come un Ulisse spirituale sulla tavola della salvezza. Infatti ovunque ci minaccia il naufragium salutis. Qui si inserisce il ricordo del pezzo di legno, su cui si salvò Ulisse: è la tabula della salvezza, che il cristiano deve afferrare. Questo legno salva soltanto nella forza della croce di Cristo: così Paolino trasfigura la immagine antica in una profondamente cristiana. Egli scrive all'amico: « Atque utinam vel nudis nobis ex istius mundi salo liceat evadere, si in tempore isto quo in fragilitate corporea et possessionum lubrico tamquam in, navigli fatiscentis infida compage fluitamus... fidem salutarem qua in virtute Christi Dei vexillo crucis nitimur, quasi tabulam perfugii meminerimus invadere » 192. Già Tertulliano aveva parlato del invadere tabulam; forse Paolino se ne ricorda. In ogni caso egli parla chiaramente di penitenza che salva dal naufragio utilizzando l'immagine del legno della croce, con il quale la nave della Chiesa è costruita. Della salvezza penitenziale su questa tavola parla anche l'autore, ancora sconosciuto (forse si tratta di 193 NICETA DI R_EMESIANA) , di una ammonizione ad una vergine caduta, che per i suoi peccati si era assoggettata alla penitenza a vita. Essa viene cosi esortata dal vescovo : « Sed tu quae iam ingressa es agonem pae191 1M 193

n. 651.

Epistola 16, 6 (CSEL 29, p. 120, 1. 3s). Epistola 16, 8 (p. 122, 1. 3-9). Cfr. Clavis Patrum Latinorum, Steenbrugge,

1951,

ρ.

ιό,

IL NAUFRAGIO E LE TAVOLE DELLA SALVEZZA

787

nitentiae, insiste misera. Fortiter inhaere tamquam in naufragiis tabulae, sperans per ipsam te de profundo criminum liberari. Inhaere paenitentiae usque ad extremum vitae, nec tibi praesumas ab humana die veniam dari » 1 9 4 . Proprio da questa testimonianza vediamo che l'immagine della tavola della salvezza si regge in piedi ο cade in dipendenza dalla prassi penitenziale antica di un perdono dato soltanto una volta. La distinzione dei peccati capitali dalle altre trasgressioni cristiane si de­ linea anche nella simbolica nautica penitenziale: quel­ li sono un naufragio, questi sono soltanto la nave del­ l'anima che si è messa a far acqua. Così, comprendiamo le prediche penitenziali di CESARIO DI ARLES e i suoi paragoni marittimi. Egli ammonisce i cristiani a rattoppare continuamente la nave dell'anima, quando si è rotta a causa della superbia ο si è messa a imbarcare acqua a causa della sensualità 195. Altrimenti vi penetrano « le onde del peccato » 196 . Ma c'è anche un vero naufragio, soprattutto nel peccato capitale della lussuria, e da questa disgrazia ci salva ancora una volta soltanto la tavola proveniente dalla nave che, essendo stata costruita da Dio stesso, ha una vivificante partecipazione alla fecondità salvifica della Chiesa: essa porta il peccatore al portus paenitentiae, ove gli viene restituita vita e salvezza. « Qui se cognoscit de litore continentiae tempestate libidinis in pelago luxuriae fuisse iactatum et castitatis incurrisse naufragium, peccatorum con-

1.4

De lapsu virginis consecratae, 8 (PL 16, 397 A).

1.5

Sermo 56, 2 (MORIN I, p. 239).

194

Sermo 196, 4 (MORIN I, p. 751). Sermo 136 (p. 576).

788

L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

fessionem velut tabulam fractae navis velociter adprehendat » 197 . Abbiamo già accennato, che in GEROLAMO, sotto lo influsso della retorica romana, soprattutto di Quintiliano e di Cicerone 198, l'immagine della tabula torna in tutta la sua freschezza non solo in connessione con la dottrina penitenziale, ma, ampliando molto di più il suo significato, anche come trito proverbio popolare. Gerolamo, che nei suoi viaggi marittimi si ricorda volentieri delle avventure di Ulisse e di Enea, ama le immagini e i paragoni nautici 199 . Il mugghio del mare e lo squallore del naufragio corrispondono al suo temperamento passionale. Mentre le onde della polemica origenista erano ancora alte, egli si ricorda della propria educazione: in gioventù ha amato caldamente Origene, mentre poi lo ha avversato con uguale calore come doromaticamente sospetto. In una lettera agli amici romani Pammachio e Oceano dipinge questo periodo giovanile e il pericolo del naufragio nella fede, in cui venne a trovarsi a causa di Origene. Egli ne ha fatto in certo qual modo penitenza, avendo riconosciuto questi peccati scientifici di gioventù; nessuno dovrebbe seguirlo nei peccati, bensì imitare la 19 ' Sermo 66, ι (p. 270). Per la dottrina penitenziale di Cesario cfr. C . VOGEL, La discipline pénitentielle en Gante des origmes a la fin du Vile siede, Parigi 1952, p. 79-148. 1,8 Cfr. in QUINTILIANO, 8, 6, 44-50 (RADERMACHER, ρ. 124-126) la raccolta di paragoni nautici di Cicerone, ove tra l'altro afferma che il linguaggio poetico a volte dice anche abietes invece di tabellae: 8, 6, 20 (p. 117, 1. 25). La nostra tabula dunque va identificata con quel legno di abete, con cui si costruivano le pareti della nave e la croce. 198 Apologia adversus Rufinum, 22 (PL 23, 473 B ) . Altre immagini nautiche nelle lettere di GEROLAMO: EJJ. 123, 14. 15 (CSEL 56, p. 89, 1. 7; p . 91, 1. 17). _ Ep. 125, 9 (p. 128, 1. 11).

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sua conversione: e proprio qui gli sovviene la sapienza sentenziosa della tavola nel naufragio. « Secunda post naufragium tabula est, culpam simpliciter confìteri. Imitati estis errantem, imitamini et correctum » 20 °. Teniamolo bene a mente: questo è il linguaggio di Gerolamo nel suo contesto vivo, che poi, come un fossile pietrificato, mediante il Decretum Gratiani doveva sopravvivere nella dottrina penitenziale della scolastica primitiva sotto forma di glossa di una auctoritas. Nella sua origine immediata esso non ha nulla a che vedere con la teologia della penitenza: un classico esempio, questo, dell'avventura verbale di un cosiddetto « luogo patristico ». Tuttavia, dal modo in cui Gerolamo usa qui l'espressione, possiamo dedurre che essa gli è pervenuta dall'ambito della teologia penitenziale cristiana. Egli infatti parla della « seconda » tavola dopo il naufragio: cosa che, in verità, si comprende soltanto nel contesto della dottrina penitenziale, che conosciamo da Tertulliano e che certamente continuava ancora a vivere nella catechesi battesimale. Che sia così, ce lo dimostrano chiaramente altre lettere di Gerolamo. Nella sua poderosa missiva alla vergine Demetria, anch'egli parla della possibilità che ha il battezzato di compiere la penitenza. Ammette anche lui che per il cristiano battezzato non ci dovrebbe essere più alcuna penitenza, e in particolar modo quando si tratta di una vergine consacrata. Ma ora sentiamo quella che è forse l'eco più pura della catechesi battesimale : « Veruna nos ignoremus paenitentiam, ne facile peccemus. Illa quasi secunda post naufragium miseris tabula sit: in virgine »° Epistola 84, 6 (CSEL 55, p. 12S, 1. Ss).

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L ' E C C L E S I O L O G I A D E I PADRI

integra servetur navis» 201 . Cosi la sua parola ammonitrice si rivolge (con la stessa problematica dell'opuscolo dello Ps. - AMBROGIO ad una vergine caduta), ad una fanciulla in Gallia, che viveva in circostanze moralmente dubbiose con un chierico sotto uno stesso tetto e di cui si parlava molto. Il predicatore della penitenza l'ammonisce di ristabilire la sua fama almeno mediante un matrimonio pubblico, poiché questa è l'ultima e migliore maniera di far penitenza: « Si corrupta es, cur non palam nubis? Secunda post naufragium tabula est, quod male coeperis saltem hoc remedio temperare » 202 . Un brano ancor più oscuro della storia della teologia del peccato nel cristianesimo antico è la lettera, che Gerolamo scrive allo scellerato diacono Sabiniano. Anche qui la possibilità di penitenza appare come grazia concessa ancora una volta, però Dìo parla così al peccatore utilizzando Amos 1,3: «Io porgo al caduto la mia mano e lo supplico, lui che si è imbrattato con il suo proprio sangue, di purificarsi con le lagrime della penitenza. Se egli non compie la penitenza e dopo il naufragio non vuole afferrare la tavola salvifica (quodsi nec paenitentiam vult agere etfracto navigio tabularti, per quam salvati poterai, non retentai), allora io sono costretto a dirgli: ' Non debbo io, dopo tre ο quattro sue defezioni, volgere il mio sguardo lontano 203 da lui?' » . Ricordiamo un ultimo testo di Gerolamo, che fu conosciuto più tardi mediante la Glossa interlinearis e che, a causa della sua oscurità procurò molti rompicapo ai teologi dell'alta scolastica. Essa proviene *01 Epistola 130, 9 (CSEL 56, p. 189, 1. 3-6). Epistola 117, 3 (CSEL 55, p. 425, 1. 13-15). 203 Epistola 147, 3 (CSEL 56, p. 317, 1. n s ) . Ma

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dal commento a Isaia. Is 3,9 paragona i peccati di Gerusalemme a quelli dei sodomiti, che si macchiavano senza vergogna: « Et peccatum suum quasi Sodoma praedicaverunt nec absconderunt ». Gerolamo nota : « Secunda enim post naufragium tabula est et consolatio miseriarum impietatem suam abscondere » 204. Il testo, con un ragionamento un pò tortuoso, vuol dire: l'inizio di un ritorno penitente comporterebbe almeno di non commettere più pubblicamente i peccati come facevano i sodomiti. E poiché parla di penitenza, Gerolamo pensa all'espressione a lui familiare, della tavola della penitenza; il che prova, una volta ancora, che si tratta di un luogo comune della catechesi, di cui più tardi non ci si ricorda più, dato che la connessione originaria delle sue piaticele salutis, il battesimo e la penitenza, non viene più vista cosi chiaramente nella dottrina dommatica. Non si ha più alcuna sensibilità per la espressività dell'immagine, che vede nelle due tavole un pezzo della nave della Chiesa, che, essendo costruita con il legno della croce, conferisce una forza salvifica alla tabula della penitenza. Sembra di udire come un'ultima eco dell'antica dottrina cristiana della tabula post naufragium, allorché GREGORIO MAGNO, alla fine della sua Regala pastoralis, invoca la « tavola della preghiera » e dice umilmente : « Alios ad perfectionis litus dirigo qui adhuc in delictorum fluctibus versor. Sed in huius, quaeso, vitae naufragio orationis tuae me tabula sustine, ut quia pondus proprium deprimit, tui meriti manus me levet » 205. Commetti, in Isaiam, 2, 3 (PL 24, 65 D). Regala pastoralis, 4 (PL 77, 128 A).

792

L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

La teologia, un tempo così avida di simboli, da Isidoro di Siviglia sino alla scolastica primitiva non sa nulla del nostro simbolo, almeno per quel che ne sappiamo. In tutte la sue esposizioni di teologia penitenziale, che esercitarono tanto influsso, Isidoro non lo ha mai registrato, anche se sarebbe stato naturale farlo precisamente là, dove egli parla della relazione tra battesimo e penitenza (lacrimae poenitentium apud Deum prò baptismate reputantur 206, come aveva già detto Gregorio Magno) 207. Anche nell'elogio della penitenza, che non appartiene certamente ad Isidoro, non si riscontra alcuna espressione presa dal mondo simbolico nautico 208. Solo nel quarto libro pseudoisidoriano delle Sententiae si dice con un concetto a noi ben noto sin dall'antichità : « Peccata experti saltem post naufragium mare metuant » 209 . E nel cosiddetto Lamentum paenitentiae, anch'esso non attribuibile a Isidoro, l'uomo peccatore cosi prega : « Placeat, Christe, damnatum reparare naufragum de interitus errore » 210 . Ma anche su queste onde sommesse del grande mare dell'antichità e dei ?adri non galleggia alcuna tabula. Nei commenti appartenenti ai cinque secoli che vanno sino all'inizio della scolastica primitiva, quando si giunge al passo del naufragio in iTim 1,19 sarebbe naturale incontrarvi il concetto della tavola della penitenza. ATTONE 2 n cita semplicemente (senza far nomi) "· De eccl. officiis, 2, 17 (PL 83, 805 A). - Sententiae, 2, 12. 13 (PL 83, 613-617). - Etymol., 6, 71-79 (PL 82, 258S). «" Homilia, io (PL 76, 1114B). 208 De numeris, 14 (PL 83, 1300 BD). MS Sent. IV, 55 (PL 83, U87 CD). al ° Lamentum, vv. 293-295 (PL 83, 1261). Anche la lunga Oratio prò correptione vitae (PL 83, 1261-1274) non contiene l'immagine. al1 Expositio in epistolam I ad Timotheum (PL 134, 667 C).

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l'Ambrosiaste; lo Ps.-Aimone 212 dà una libera parafrasi dello stesso autore. Ma neppure una parola della tabula naufragii. Così, nella storia del nostro simbolo assistiamo ad una vera rigenerazione, quando verso il 1140 GRAZIANO scrive il suo Decretimi e nel capitolo De paenitentia, attingendo alla sua imponente conoscenza delle opere patristiche (bisognerebbe studiare più a fondo quali sono le sue fonti) 213, vi cita un'espressione, proveniente proprio da una lettera di Gerolamo, che a dir la verità non ha nulla a che fare con la teologia della penitenza : « Secunda post naufragium tabula est culpam simpliciter confkeri» 214. Con ciò veniva spalancata una porta, che non si doveva più chiudere. Tanto più che Graziano, nell'ulteriore esposizione del suo diritto penitenziale, cita ancora una volta Gerolamo (anche con la falsa indicazione « in Malachia ») 215 e con ciò stesso indica la sfera nella quale resterà l'espressione della tabula naufragii, cioè la questione teologica del rapporto tra battesimo e penitenza : « Ut quod facit baptisma hoc faciat poenitentia » 216. 2 " PL 117, 787 D. C£r. anche ERVEO DI B O U H G - D I E U (PL 181,

RABANO 1412 B).

(PL

112,

587 C D ) .

-

213 Cfr. P. A N C I A U X , La théologie du sacrement de Pénitence au Xlle siede, Lovanio 1949, p. n o s . 214 De paenitentia, dist. 1, e. 72 (FRIEDBESG I, p. 1179). 215 In realtà l'espressione si trova in GEROLAMO, Comment. in Os., 3, 12 (PL 25, 928 C ) . Alla stessa dottrina aderisce anche Comment. in Sophon., 1, io (PL 25, 1349 A ) : «Per has enim duas portas, baptisnii et paenitentiae, in Ierusalem, id est in Ecclesiam Dei, vel introitus vel retroitus est ». 218 De paenitentia, dist. 1, e. 74 (FRIEDBERG I, p. 1179). Per la teologia del naufragium della penitenza citiamo anche « Augustinus ad Felicianum»: De paenitentia, dist. i, e. 81 (FRIEDBERG I, p. 1181):

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PADRI

Una « accensione iniziale » qviasi contemporanea a Graziano e forse già da lui conosciuta, si ebbe quando dalla scuola di ANSELMO DI LAON uscì la Glossa che ebbe tanta importanza per la teologia posteriore 217 . Riferendosi ad Isaia 3,9, la Glossa interlinearis cita, senza farne il nome, l'espressione a noi già nota del commento a Isaia di Gerolamo : « Secunda post naufragium tabula est impietatem abscondere » 218 . E nella glossa marginale ad Ezechiele 16,52 [porta confusionem tuam) viene detto : « Porta confusionem : secunda post naufragium tabula est, cum peccaveris erubescere » 219 . Le parole vengono citate ancora una volta anonimamente, ma, immediatamente dopo, in una seconda glossa viene nominato Gerolamo in una frase presa dal' suo commento ad Ezechiele 220 . Questo bastò a rendere indimenticabile la nostra tabula nel contesto della teologia della penitenza. Nel breve lasso di tempo che va sino all'apparizione delle Sentenze di Pietro Lombardo, possiamo elencare almeno cinque citazioni dell'espressione tabula naufragii, ora nuovamente conosciuta, le quali si trovano nella teologia dei maestri prelombardiani, che sono così importanti per comprendere bene il Maestro delle Sentenze. « Quid enim interest ad naufragium utrum non grandi fiuctu navis opperiatur an paularim subrepans aqua in sentinam submergat ». È una frase di AGOSTINO, Epistola 265, 8 (PL 33, 1089 A; CSEL 57, p. 646, 1. 10-13). 217 Per le recenti questioni sull'origine della Glossa (Anselmo di Laon e sua scuola) cfr. P. ANCIAUX, op. cit., p. 105, nota 3. - B. SMALLEY, The Study of the Bible in the Middle Ages, Oxford 1952. 218 L'edizione secondo cui citiamo il testo della Glossa è: Biblia sacra cum Glossa interlineari, ordinaria et Nycolai Lyrani Postilla, Venezia 1588. Il nostro passo: v. IV, fol. n v . al » Voi. 4, fol. 233V. SM Comment. in Ezechielem, 16, 52 (PL 25, 155 D ) .

IL NAUFRAGIO E LE TAVOLE DELLA SALVEZZA

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Il testo più antico si trova nella Summa Sententiarum, la cui paternità è discussa : « Est enim poenitentia secunda tabula post naufragium, quia post baptismum, si quis vestem innocentiae peccando amittit, per poenitentiam recuperare poterit » 221. Si osservi la connessione della nostra immagine con quella della « veste dell'innocenza»: vi si coglie la mutua dipendenza dei singoli autori. Nella cosiddetta Ysagoge in theologiam si legge: « Redeuntibus enim ad Deum semper necessarium est penitencie sacramentum. Et hec est post naufragium tabula secunda. Si quis enim post baptisma innocentiae vestem culpa aliqua amisit, non nisi penitencia recuperabit » m . UGO DI SAN VITTORE 223 e R O 224 BERTO PULLUS trattano in modo autonomo di questa immagine. Nelle Sententiae divinitatis si dice : « Postquam. tractavimus de sacramento altaris et baptismi, sequi tur consequenter de paenitentia. Est enim secunda tabula post naufragium, parasceve ante pascila. Si contingit aliquem peccatis inquinari post baptismum amissa veste innocentiae, adhaereat huic tabulae et ducet eum per mare istud undosum ad litus aeternae patriae » 225. 221

Summa Sententiarum, 6, io (PL 176, 146 C). Ysagoge in theologiam, II (ed. A. LANDGRAF, Ecrits théohgiques de fecole d'Abélard, in Spicilegium Sacrum Lovaniense, fase. 14, Lovanio 1934, p. 209, 1. 8-12). 223 Miscellanea, 5, 62 (PL 177. 789 CD). 224 Sententiarum, 5, 30 (PL 186, 851 D): « Secundum post naufragium nobis refugium eonstituitur confessici ». 225 Sententiae divinitatis, 5, 4 (ed. B. GEYER, in Beitràge zur Ceschichte der Philosophie des Mittelalters, VII, 2/3, Miinster 1909, p. 142*). Geyer indica come fonte YEpistola 130, 9 di GEROLAMO. Ma questo passo (di fatto non fuori posto qui) per quanto io sappia non è mai citato in tutta la letteratura delle Sentenze; bisogna riconoscere alle parole della Glossa ο del Decreto di Graziano. 222

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L'ECCLÉSIOLOGIA DEI

PADRI

Il Lombardo è pertanto già preparato, quando nelle Sentenze, base della teologia della grande scolastica, parla della tabula naufragii. Nel Collectanea alle lettere di Paolo si ricorda a proposito di iTim 1,19 dell'espressione di AGOSTINO, già citata in Graziano, riguardante la nave della fede, che, a causa della tempesta oppure a causa di lenta infiltrazione delle acque nella sentina, può affondare 226. Il testo più importante per il futuro si trova però nel libro delle Sentenze. Gerolamo vi viene citato rettamente : « Est enim, ut ait Hieronymus, secunda tabula post naufragium (poenitentia), quia si quis vestem innocentiae in baptismo perceptam peccando corruperit, poenitentiae remedio reparare potest. Prima tabula est baptismus, ubi deponitur vetus homo et induitur novus. Secunda poenitentia, qua post lapsum resurgimus, dum vetustas reversa repellitur et novitas perdita resumitur » 227. Da questo testo si vede che l'espressione della tabula viene trasmessa (senza altra citazione più precisa) semplicemente come auctoritas di Gerolamo e che così viene fissato il posto preciso del suo valore teologico: il fatto che questa sia la « seconda » tabula della salvezza, indica appunto il rapporto sacramentale tra battesimo e penitenza, visto nello sfondo dell'unico naufragio che deriva dal peccato originale di Adamo. È precisamente ciò che abbiamo visto già in Tertulliano e che ora viene inserito in tutta la problematica della speculazione della scolastica primitiva sull'essenza della remissione sacramentale dei peccati. 226

Collectanea in epistolas Pauli (PL 192, 90 A; 334 D ) . Liber Sententiarum, IV, 14 (QUARACCHI, 1916, v. 2, p. 819; PL 192, 868s). 227

IL NAUFRAGIO

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Si andrebbe troppo lontano, se volessimo far parlare tutti i teologi della teologia penitenziale postlombardiana della scolastica primitiva. Essi riferiscono quasi tutto il testo delle Sentenze, spesso anche con un interessante commento 228. Potrebbe essere utile citare alcune testimonianze sin qui inedite 229 . La Summa del PBEPOSITINO dice : « Diximus de baptismo et confirmatione. Sed quia penitentia est secunda tabula post naufragium, de ea subiciendum est, primo quid sit sacramentum in penitentia et quid res sacramenti » 230 . Come si vede, la designazione tertullianea della tavola come « secunda », ora serve soltanto a giustificare il posto che la penitenza ha nella serie dei sette sacramenti. Citiamo la Somma del Maestro U D O soltanto per mostrare che per lo più ci si atteneva letteralmente al lombardo : « Post hec de penitentia est agendum, que dicitur secunda tabula post naufragium. Prima tabula est baptismus, ubi vetus homo deponitur, et novus induitur. Secunda est penitentia, id est qua post lapsum resurgimus, dum vetustas depellitur et novitas perdita resumitur». ROBERTO COURSON insegna nella sua Summa : « Unde Ieronimus : penitentia est secunda ta228 Cfr. ANCIAUX, op. cii., p. 98, nota 6; p. 141, note 1-4.; p. 356, note 1-3; p. 386; p. 497. Indichiamo le testimonianze più i m -

portanti:

MAGISTER

BANDINUS

(PL

192,

1097 C).

-

GANDOLFO

DI

BOLOGNA, (J. DE WALTER, Magistri Gandulphi Bononiensis sententiarttm libri quattuor, Vienna-Breslavia 1924, p. 458S). - PIETRO COMESTOR (R. M. M A R T I N , Pierre le Mangeur De Sacramentis, in Spicilegium Sacrimi Lovaniense, 17, Lovanio 1937, p. ( A N C I A U X , op. cit., p. 95, nota 1).

59*)- - R A D U L F O ARDENTE

229 Ne siamo venuti a conoscenza grazie zione del vescovo ausiliare Dr. A. Landgraf 230 Somma (Cod. lat. 353 della Biblioteca gen, fol. 5ov). Cfr. anche due altri manoscritti p. 98, nota 6.

alla gentile comunica(Bamberga). Universitaria di Erlanin ANCIAUX, op. cit.,

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buia post naufragium, cura baptismus sit prima tabula, qua pervenitur ad portum salutis » 231 . GOFFREDO DI POIITERS solleva il problema tipico per la scolastica primitiva, se cioè si possa ο si debba far penitenza sa­ cramentale anche dei peccati veniali, e la dottrina che insegna non essere obbligatoria la loro confessione vie­ ne corroborata con l'espressione : « Secundum hanc assignationem penitentia secunda tabula est post naufra­ gium. Sed cum non fiat naufragium per veniale, non est necesse ut per venialia homo ascendat secundam tabulam. Et ita non est necessarium peniteri de venialibus » 2 3 2 . La summa Ne ad mensam, dipendente da Gandolfo di Bologna, aggiunge al testo del Lombardo una propria spiegazione alquanto contorta, applicando la parola « tabula » anche nel senso di « immagine ». L'immagine di Dio, che era data nel battesimo e che a causa del peccato era stata deturpata, viene restau­ rata nella penitenza : « Penitentia dicitur secunda tabula, quia imago, quam aliquis post baptismum per peccatum deformavit, per penitentiam reformabitur et reparabitur » 2 3 3 . Per lo sviluppo storico sono di gran lun­ ga più interessanti le spiegazioni di ALANO DI LILLA, che evidentemente disponeva di conoscenze, che non erano a portata di mano degli altri scolastici primitivi. In una rimarchevole esposizione della dottrina penitenziale di Origene e di Ambrogio, egli si ricorda, prendendole dal Lombardo, anche delle parole del monaco 231 Somma (Cod. patr. 127 della Biblioteca Statale di Bamberga, fol. tìp). 232 Somma (Cod. lat. 220 della Bibliothèque de la Ville, Bruges, fol. u s v ) . 233 Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Laur. Plut. 20,

Cod. 38, fol. 77. Cfr. anche ANCIAUX, p. 364.

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di Betlemme: «Poenitentia vero est quasi secunda post naufragium tabula. Primum enim naufragium est in originali peccato, contra quod valet baptismus; secundum, naufragium est in actuali peccato, contra quod est secunda tabula, scilicet poenitentia » 2 3 4 . Nelle Theologicae Regulae egli è in grado di riferire quell'antica usanza dei naufraghi, che abbiamo appreso da Giovenale e Marziale, di dipingere cioè il disastro sulla tavola che aveva salvato il superstite e di rendere così più redditizio l'accattonaggio: « Quandoque qui nauf r a g a n t e in mari confugientes ad aliquem navis tabulatum ipso perducuntur ad portum. Primo naufragus in originali (peccato) confugit ad baptismum. Si iterum naufragatur actuali peccato, tabulam poenitentiae ». E qui aggiunge : « Naufragi enim solent tabulam secum ferre in qua naufragii describitur totus eventus, quo viso homines ad misericordiam moti consueverunt sic naufragis subvenire. Similiter per baptismum Deus omnibus subvenit primo, secundo per poenitentiam » 2 3 5 . Giungiamo nel settore dell'alta scolastica. Quanto alla dottrina della tabula naufragii, la dottrina penitenziale dei grandi Maestri non aggiunge nulla al Lombardo, soprattutto perché lo fanno per lo più nell'ambito dei commenti al Maestro delle Sentenze, che da ora in poi si moltiplicheranno 236 . Tuttavia in essi incontriamo una migliore critica dell'origine letteraria dell'immagine e TOMMASO ne tratta in un articolo specifico : « U t r u m paenitentia sit secunda tabula post naufragium ». I grandi scolastici inoltre parlano della taa31

Contra haereticos, i, 48 (PL 210, 353 D). Theologicae regulae, 112 (PL 210, 680 B). Cfr. FR. STEGMULLER, Repertorium Commetitanomm in Sententias Petri Lombardi, Wiirzburg 1947, v. 1. a3s

238

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vola della salvezza anche nelle loro opere esegetiche. Come esempio di questa sopravvivenza del nostro simbolo nell'alta scolastica, citiamo ALBERTO MAGNO. Nella sua Postilla ad Isaia così spiega Is 3,9: « Hic dicit Glossa interlinearis : secunda post naufragium tabula est impietatem abscondere. Contra hoc est, quod dicit alia Glossa Matth. 3,2 super illud: ' poenitentiam agite ' : prima tabula post naufragium est innocentia, secunda paenitentia237. Adhuc Ezech. 16,52 super illud : ' porta confusionem tuam ' Glossa : secunda tabula post naufragium est, cum peccaveris, erubescere... Ad hoc dicendum, quod Glossa quae hic ponitur male posita est. In originali enim dicit Hieronymus sic: ' Secunda post naufragium tabula est paenitentia a38 et consolatio miseriarum est impietatem suam abscondere '. Tamen si quis eam sustinere vult, sicut iacet, quod prò certo dicitur est, quod prima tabula post naufragium primi peccati, cuius naufragii causa in nobis est originale, est innocentia. Quae tabula si frangitur per actuale, secunda tabula, per quam evadimus, est paenitentia » 239. Tommaso d'Aquino spiega la dottrina del Maestro delle Sentenze con il pensiero, felicissimo dal punto di vista nautico-simbolico, della navìs integra della grazia battesimale. Se la penitenza, cioè, è una tavola per i a " Nella nostra edizione citata sopra, la Glossa marginale a Mat 3,2 non contiene nulla delle parole riguardanti la tabula naufragii, ma soltanto la dottrina (citata senza fare il nome) presa da Agostino, riguardante la triplice penitenza: Sermo 351, 2 (PL 39, 1537). 238 Si faccia attenzione: proprio le parole che per Alberto qui sono determinanti «paenitentia et» non si trovano in Gerolamo. Se Alberto se le sia create da solo, ο se le abbia trovate nella sua Glossa, è cosa che non possiamo appurare. 235 Opera omnia, Miinster 1952, v. 19, p. 53, 1. 66-84.

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naufraghi, così egli conclude, allora essa evidentemente non è necessaria per la salvezza a coloro che non hanno subito alcun naufragio nella grazia : « Illi qui prospero itinere mare navigant prima tabula sustentantur, scilicet ipsa navi integra ». La ' prima tavola e la nave ' sono la stessa cosa: questo era stato invero anche il pensiero della simbolica patristica. Pertanto bisogna dire: «Ergo baptismus est prima tabula, et paenitentia secunda. Baptismus liberat a peccato originali, quod est primum naufragium ». Ciò viene espresso con maggior esattezza in un'immagine nautica così descritta: « Gratia baptismalis per quam in Ecclesia collocamur, cuius figura fuit arca Noe, dicitur prima tabula ante naufragium. Sed quia per peccatum mortale naufragium passis... non restat aliquod remedium nisi paenitentia, ideo paenitentia tabula secunda dicitur » 240. Anche Tommaso aveva letto nel passo del Lombardo l'espressione di Gerolamo e allora si ricorda della seconda citazione del medesimo simbolo nella Glossa. Non c'è dubbio che proprio questa citazione della Glossa, presa dal commento di Gerolamo al libro di Isaia, presentava nella disputa scolastica alcune difficoltà, poiché si trattava sempre di una auctoritas, che non poteva essere trascurata. La cosa si fece acuta nell'Aquinate, poiché nella sua edizione della Glossa egli leggeva che il peccata abscondere è la seconda tavola della salvezza, e non (come stava nel testo di Gerolamo) Yimpietatem abscondere. D'altra parte già nella scolastica primitiva c'era stato 240 In IV Sent., dist. 14, q. 1, a. 2, 4. - Cfr. anche dist. 2, q. 1, a. 3, ad 5. - Dist. 15, q. 4, a. 1, 1: sulla Glossa di Gerolamo ad Is 3, ove Tommaso legge: peccata abscondere, invece di impietatem abscondere. - Per il significato cfr. L. BILLOT, De Ecclesiae Sacramenti;, II, 7, Roma 1929, p. 35.

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il tentativo di mettere il sacramento della penitenza, nella serie dei sette sacramenti, immediatamente dopo il battesimo, servendosi dell'espressione ' secunda ' tabula. Queste obiezioni spinsero Tommaso a scrivere un articolo proprio nella Terza Parte della Summa, di cui abbiamo dato il titolo 241 . Cosa vuol dire dunque, che il ' peccata abscondere ' è la tabula secunda post naufraghimi

I maestri della Scuola, nella loro riverenza verso Yauctoritas, non si peritavano di pensare che questa espressione sia venuta in bocca a Gerolamo, che dettava speditamente, come un modo di dire proverbiale non propriamente adatto. La risposta un pò tortuosa, con cui Tommaso cerca di spiegare la citazione patristica, mostra che egli era in difficoltà: si limita a dire che il peccato, che avviene occultamente e non sfacciatamente in pubblico, è già una specie di primo inizio di penitenza. La seconda obiezione era anche più pesante: Perché la penitenza è la ' secunda ' tabula, se il suo posto reale viene dopo i tre sacramenti dello stato di grazia integro, il battesimo, la confermazione e l'Eucaristia? A questa domanda risponde nella Summa con la teologia simbolica della navis integra. I primi tre sacramenti « pertinent ad navem integram, id est ad statum integritatis, respectu cuius paenitentia dicitur secunda tabula ». E così suona poi la soluzione generale nel corpo dell'articolo, la cui forza è tutta simbolica nautica dell'epoca patristica e che, nello stesso tempo, è come la chiusura classica della nostra storia, in seguito non più dimenticata, : « Nani sicut primum remedium mare transeuntibus est, ut conserventur in navi integra, secundum autem remedium est post navem fractam, ut !41

Summa theolo%ka, III, q. 84, a. 6.

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quis tabulae adhaereat. Ita etiam primum remedium in mari huius vitae est quod homo integritatem servet; secundum autem remedium est, si per peccatum integritatem perdiderit, quod per paenitentiam redeat ». Andremmo nuovamente lontano, se volessimo seguire la storia della nostra tabula anche attraverso i commenti alle Sentenze dell'alta e tarda scolastica.' Ci limitiamo a richiamare l'attenzione su di un capitolo nautico-simbolico di BONAVENTUHA, che ancora una volta è pieno della luce patristica, che abbiamo cercato di far rivivere in questo capitolo. Anche Bonaventura è alle prese con la spiegazione del testo della Glossa preso da Gerolamo e lo fa anch'egli in un articolo speciale, il cui titolo suona così: « Utrum paenitentia habeat rationem tabulae » 242. In esso applica mare, nave, naufragio e tavola al mistero teologico della unitas ecclesiastica, in cui soltanto c'è salvezza. Ancor più chiaramente si esprime nell'esposizione del testo principale del Lombardo, per cui non possiamo tralasciare di riportare questa ricca eco della simbolica patristica: «Mare est mundus iste secundum illud Psalmi: hoc mare magnum. Navis per quam homo transit super undas huius maris, est gratia Spiritus Sancti, vel navis est Ecclesia quae iuncta est glutino caritatis secundum illud Proverbiorum ultimo: facta est quasi navis institoris. Naufragium vero fuit corruptio et fractio in Adam, in qui fractione omnes filii eius iactati sunt super undas huius maris per concupiscentiam et per poenam. Ab hoc naufragio primo liberatur homo per baptismum. qui restituit innocentiam et gratiam perditam, 142 In IV Sent., dist. 22, a. 3, q. 2 (Opera omnia, Quaracchi, 1889, t. 4, p. 584S).

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et ideo est prima tabula. Et quia frequenter relinquunt plures gratiam baptismalem et illam tabulam, per quam liberantur in undis maris et per illam amplius non possunt se defendere: ideo indigent secunda, et haec est paenitentia. Utraque tamen dicitur tabula, quia sustinet ne quis periclitetur per culpam, non tamen ita ponit in tuto, sicut erat homo in statu innocentiae » 243 . Ciò che qui trovò la sua espressione nella classica chiarezza di una teologia ancora riscaldata dai Padri, risuona anche nei pii canti dell'alto medioevo: « Ο crux, inter pericula tu naufraganti tabula 2 4 4 . Tu scala, tu ratis, tu, crux, desperatis tabula suprema » 2 4 5 . Come epilogo della storia della tabula naufragii indi­ chiamo brevemente la ragione per cui il Concilio di Trento si servì in forma solenne dell'antica immagine della tavola della salvezza per parlare del sacramento della penitenza. L'espressione, consacrata dal Lombardo e dalla Glossa, svolse in tutta la tarda scolastica il ruolo che aveva avuto in Tommaso e in Bonaventura: era zia jn ly Sent. dist. 14, p. 1, dub. 1 (Opera, t. 4, p. 328S). - In DUNS SCOTO (In IV Sent., dist. 14, q. 4, n. 6-7) il termine tabula viene impiegato per spiegare la causalità strumentale del sacramento della penitenza. Poiché altrimenti non si vedrebbe « quomodo sacramentum paenitentiae posset esse secunda tabula, quia numquam liberaret naufragum a periculo submersionis ». Cfr. per ciò J. GALTIEB, De paenitentia, Parigi 1931, p. 128. 214 Analecta Hymnica, 43, p. 22 (da un prosarlo parigino del secolo XIII). 245 F. J. MONE, Lateinische Hymnen des Mittelalters, Friburgo 1853, ν. ι, ρ. 142 (Inno alla s. croce, manoscritto di San Gallo, sec. XV).

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un'espressione tecnica corrente, di cui ci si serviva quasi senza accorgersene allorché si parlava del rapporto tra battesimo e penitenza. Non fa meraviglia che questa dottrina, rinvigorita dalla pietà penitenziale a volte un pò esuberante del tardo medioevo, potesse provocare l'opposizione dei riformatori: LUTERO si considerò sempre come un acerrimo avversario dell'ascetico Gerolamo e dell'importanza che egli dava alle opere 24e . Lutero, vedeva nella designazione della penitenza sacramentale come tavola della salvezza, una minaccia all'initerabilità del battesimo. E così già nel De captivitate babylonica Ecclesiae esprime tutto il suo sdegno contro la citatissima espressione di Gerolamo e, per conseguenza, contro la dottrina sacramentale degli scolastici ivi contenuta: « Simul vides quam periculosum, immo falsum sit opinari, poenitentiam esse secundam tabulam post naufragium, et quam perniciosus sit error putare per peccatum exidisse vim baptismi et navem hanc esse illisam. Manet illa solida et invicta navis, nec umquam dissolvitur in ullas tabulas, in qua omnes vehuntur qui ad portum salutis vehuntur quae est veritas Dei in sacramentis promittens... verum navis ipsa permanet et transit integra cursu suo; quod si qua gratia ad navem reverti potest, nulla tabula, sed solida ipsa nave feretur ad vitam » 247. Questo teologumeno, il quale male interpreta il pensiero di Agostino sulla grazia che elegge e che assicura la salvezza, dimostra quanto sia radicata nella dottrina di Lutero sulla grazia anche la negazione della penitenza come sacramento e quindi delle parole ·*· Cfr. H. GRISAH, Luther, Friburgo 1911, v. 1, 427. 247

D. M A R T I N I LUTHERI, Opera Latina, ed. H. S C H M I D T , Franco-

forte, 1868, v. 5, p. 59.

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di Gerolamo. Con linguaggio ancor più chiaro e vigoroso egli lo afferma nel Grande Catechismo Tedesco: «Per questo San Gerolamo ha scritto che la penitenza è la seconda tavola, con cui dobbiamo galleggiare e arrivare, dopo che la nave, su cui salimmo e viaggiavamo, quando venimmo al cristianesimo, si è sfasciata... Ma tale affermazione è sbagliata: la nave, infatti, non si sfascia, poiché essa è ordinazione divina e non cosa nostra » 248. Anche CALVINO era della stessa opinione e afferma facendo esplicito riferimento alla formulazione della teologia penitenziale del Lombardo: « Questo sacramento mendace fu poi anche descritto da essi col debito elogio e definito la seconda tavola dopo il naufragio. Infatti quando uno ha macchiato coi peccati la veste dell'innocenza, ricevuta nel battesimo, la può restaurare nuovamente mediante la penitenza. E questo è, essi dicono, una sentenza di Gerolamo ! Tale sentenza può provenire da chi vuoi, ma non potrai mai, assolvere il suo autore dall'accusa di essere ateo, quando viene interpretato secondo la concezione dei romani » 249. Anche MARTIN KJEMNITZ 250 si richiama a Lutero. Per questo il Concilio di Trento fu costretto a riformulare con chiarezza la dottrina cattolica della giustificazione del peccatore battezzato e della necessità del sacramento della penitenza distinto dal battesimo: tale dottrina fu proposta per mezzo dell'interpretazione della tabula post naufragium. La salvezza che il cristiano peccatore riacquista viene esaminata 248 Martin Luthers katechetische deutsche Schriften (ed. J. K. IHMISCHÉR, Erlangen 1832, v. 1, p. 141. 21!> Institutiones christianae, 4, 19, 7 (Edizione tedesca di O. W E B E R , Neukirchen 1938, v. 3, p. 599). 250 Examinis Concila Tridentini, Francoforte 1585, v. 2, p. 44S.

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nella sesta sessione : « Hic enim iustificationis modus est lapsi reparatio, quam ' secundam post naufragium deperditae gratiae tabulam ' sancii Patres apte nuncuparunt » 251. Chi siano stati questi santi Padri, la nostra ricerca ora ce l'ha mostrato in una misura sconosciuta al Concilio (che pure in prima linea pensava a Gerolamo) Tuttavia il nostro inventario patristico certifica che i periti del Concilio hanno descritto l'essenza della giustificazione, che viene restituita nella penitenza, proprio secondo il sentimento della Chiesa antica. Ciò vale in egual misura della dottrina, circa il rapporto tra battesimo e penitenza, definita nella quattordicesima sessione, che ancora una volta sottolinea col linlinguaggio dei Padri l'intrinseco rapporto esistente tra penitenza e battesimo, poiché chiama la penitenza ìaboriosus quidam baptismus252 : ma proprio questo è, con un'altra immagine, ciò che si voleva esprimere con il simbolo delle due tavole della salvezza. Il canone infatti lo riconosce: « Si quis sacramenta confundens, ipsum baptismum poenitentiae sacramentum esse dixerit, quasi haec duo sacramenta distincta non sint, atque ideo poenitentiam non recte secundam post naufragium tabulam appellari: Anathema sit» 253 . SUAREZ ha difeso la dottrina del Concilio con la ricchezza della sua cultura patristica254, e BELLARMINO ha mostrato contro Lutero, che la « pericolosa espressione di Gerolamo » viene male interpretata, quando vi si vede l'espressione di una decadente teologia penitenziale : « Et inde gra«" Sessio VI, e. 14 (Denz. 807). Sessio XIV, e. 1 e 2 (Denz. 894. 895). Sessio XIV, canone 2 (Denz. 912). 264 De paenitentia, disp. I, 4 (Opera omnia, Parigi 1861, v. 22, P· 3)MZ 253

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vissime invehuntur in eos qui dicunt poenitentiam esse tabulam naufragii, quasi non liceat ad ipsam navim baptismi amplius redire » 255. Con ciò abbiamo terminato questo capitolo della teologia della « nave della Chiesa ». Molto più penetrante si farà questa teologia espressa con termini simbolici, quando tratteremo i due grandi modelli biblici della nave della Chiesa: la barca di Pietro e l'Arca di Noè. Ambedue sono « navi della salvezza » e ambedue sono ancor oggi vive nella nostra mentalità simbolica, per altri versi talmente impoveritasi.

*** Controvers., De Sacramento paenitentiae, I, 12 (Napoli 1857, v. 3, p. 6oos).



LA NAVICELLA DI PIETRO PER LA STORIA DEL SIMBOLO DEL PRIMATO ROMANO

Il simbolo della nave di Pietro, ancor oggi vividamente eloquente, ha una storia lunga e ricca. Ha inizio coi primordi della teologia, nelle Ps. - Clementine, e va sino alla dottrina di Innocenzo III. Lungo questo tortuoso cammino diventa una vera storia del simbolo del primato romano. Che la Chiesa nella sua totalità venga identificata con la navicella di Pietro e che questo simbolo ecclesiale, inizialmente universale, si concretizzi poi nell'identificazione della Chiesa romana con la nave di Pietro, fa di questo simbolo, preso dalla dommatica nautica dell'antichità, un caso particolarmente istruttivo dello sviluppo dell'ecclesiologia patristica e medievale. Il pensiero e, se così si può dire, lo stato d'animo fondamentale della dottrina della Chiesa come nave di Pietro esprime nuovamente la dialettica - quasi dimenticata nel pensiero teologico odierno e che più sopra abbiamo riconosciuto * come la convinzione pro1

Cfr. sopra, a p. 5Hss.

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fonda che sta dietro il mondo dei simboli - secondo cui la nave della Chiesa è continuamente sbattuta dalle tempeste, ma non va mai a fondo. Il pericolo del mare è la sua storia: il viaggio fortunato è la promessa che le viene dalla fede. La Chiesa è sempre e soltanto navìcuìa ο navicella del Pietro peccatore. Noi dovremo scrivere precisamente la storia dommatica di questo diminu­ tivo quando afFermiamo che anche la nave della Chiesa romana è soltanto una barca di legno, simile al « piccolo legno » a cui è affidata la nostra salvezza. Il timoniere della navicella è Cristo, che grida al pilota Pietro la parola salvifica dottrinale e pastorale. Anche le tavole della salvezza della navicella romana sono costruite con il legno della croce. Già IPPOLITO, il teologo dell'antica Roma cristiana, ha visto questa antinomia di minaccia e sicurezza, radicata nell'essenza più profonda della Chiesa : « La Chiesa è come una nave in alto mare: essa è certamente scossa da tempeste, ma non va a fondo», χειμάζεται 2 μεν, άλλ'ούκ άπόλλυται . Ciò era vero per i giorni della persecuzione statale; ma anche AGOSTINO poteva affermare ai tempi della malsicura calma, quando il grande numero di cattivi pesci appesantiva la nave della Chiesa : « Premi potest, mergi non potest » 3. In seguito non si dimenticherà più la densità di significato della bella espressione «tunditur, non mergitur», che PIETRO CRISOLOGO aveva coniato a proposito della navicella di Pietro 4. E BEDA, nello spiegare il pericolo ma* De antichristo, 59 (GCS IPPOLITO I, 2, p. 39, 1. I3s).

' Sermo 13, 2 Wilmart (G. MORIN, Augustini Sermones post Maurìnos reperti, Roma, 1930, p. 713, 1. 6). 4 Sermo 21 (PL 52, 258 A).

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rino, in cui si troveranno gli Apostoli dirà : « Così anche la Chiesa naviga attraverso le tempeste verso la sua meta; poiché essa attende Cristo, per giungere con il suo aiuto al porto della quiete: laborat, sed non mergitur » 5. Nelle pagine che seguono portiamo avanti lo studio della simbolica della nave della Chiesa6, cercando di far vedere lo sviluppo storico di un simbolo parziale, che è sopravvissuto sino ad oggi a partire dal mondo, per altro così dimenticato, della nautica sacra dei Padri della Chiesa: la Chiesa come navicella di Pietro. Non si tratta della storia di un'allegoria di secondaria importanza, che i Padri hanno elaborato sull'espressione biblica di Luca 5,3. Il frutto di questo studio è dommaticamente importante. Da esso apparirà come nella spiegazione esegetica e nell'applicazione politica dell'immagine biblica della navicella di Pietro si manifesta lo sviluppo della coscienza del primato romano, che costatiamo nella storia dell'interpretazione, certo più interessante teologicamente, di Matteo 16,18 7, ο che si manifesta nella storia del nome designante l'ufficio: 8 papa , come pure nel cambiamento di significato della Mater Ecclesia da Paolo (Gal 4,26) sino alla Chiesa romana come « Madre di tutte le Chiese » nello Ps. s

Expositio in Ioannem, 6 (PL 92, 709 D). * La nave di legno; cit. sopra, p. 511-609. ' Cfr. E. CASPAR, Primatus Vetri, Eine philologisch-historische Untersuchung iiber Urspriinge àer Primatslehre, Weimar 1927. - P. BÀTIPFOL, Cathedra Petri. Etudes d'histoire ancienne de l'Eglise, Parigi 1938. 8 P. BATTITOI., Papa, Sedes Apostolica, Apostolatus, in Rivista di Archeologia cristiana 1 (1925) p. 99-103. - H. LECLERCQ, Papa, in Dictionnaire d'Archeologie chrétienne et de Liturgie 13 (Parigi 1937)

col. 1097-im.

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Isidoro e in Gregorio VII 9 . Per comprendere l'importanza teologica della storia di questo simbolo è quindi necessario premettere un'avvertenza. Lo sviluppo dell'immagine e della verità in essa racchiusa va dalla Chiesa universale alla Chiesa Romana particolare. Non nel senso che Roma, lentamente e a ragion veduta, avrebbe usurpato ciò che prima era detto invece della Chiesa cattolica. Il processo si è sviluppato piuttosto nel senso che nella Ecclesia Romana, come in una personificazione e come nella parte centrale e nel capo, si è manifestata nel modo più chiaro l'essenza della Chiesa universale. Cattolico e romano vengono riconosciuti come sinonimi con una chiarezza che aumenta lentamente, pur essendo già presente sin dall'inizio. Anche se tale convinzione non viene espressa sin dall'inizio in un linguaggio teologico riflesso, tuttavia anche qui si applica la norma fondamentale di ogni studio della storia del domma: Il fatto che una cosa non sia stata annunziata espressamente prima, non significa che sia contraddittoria e ciò che si forma lentamente può imporsi a lungo andare, purché non manifesti alcuna contraddizione, purché nel vivo svolgimento dei fatti diventino chiare quelle certezze che erano 8 J. LEBBETON, Mater Ecclesìa, in Recherches àe scìence reììgieuse 2 (1911) p. 572S. - H. KOCH, Cathedra Petri. Neue Untersuchungen iiber die Anfànge der Primatslehre, Giessen 1930, p. 78-89. La storia dello sviluppo del simbolo della mater ecclesia delineata dal Koch viene però pesantemente deformata a causa dell'impiego di una lettera falsificata a papa Ilario. Cfr. per ciò H. RAHNER, Die gefdlschten Papstbriefe aus dem Nachlass uon Jerome Vignier, Friburgo 1935, p. 132. - J. C. PLUMPE, Mater Ecclesia. An Inquiry into the Concepì of the Church as Mother in early Christianity, Washington 1943. - H. RAHNER, Mater Ecclesia. Lobpreis der Kirche aus dem ersten Jahrtausend, Einsiedeln 1944.

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presenti già prima in nuce. In questo modo, ciò che viene detto durante il corso dello sviluppo della riflessione circa la posizione di primato del vescovo romano, non è stato mai enunciato in opposizione ο in sfavore della Chiesa universale. E ciò neppure in Cipriano, nonostante tutte le arti interpretative messe in opera da UGO KOCH 10 : a questi manca anche quel fine senso della storia del dogma, con il quale si può percepire ciò che cresce vitalmente come qualcosa che c'è sempre stato ; egli, infatti trascura il fondamento dommatico. Applicando questi principi alla storia del simbolo, che qui studiamo, diciamo: se la Chiesa universale è la navicella di Pietro, dalla quale il Signore istruisce gli uomini, ciò va detto in particolare della Chiesa romana ove siede, come pilota, il successore di Pietro, Delineeremo dunque la storia di questo simbolo della Chiesa nel suo lento restringersi a Roma e al suo primato. Percorreremo un lasso di tempo di mille anni, tra papa Callisto e papa Innocenzo III, dalla navicella Petri di Agostino alla navicella di Giotto nell'atrio di San Pietro, dall'antico onice cristiano di Pietro di Alessandro n sino ai giorni, in cui i papi sigillano le loro lettere con l'anello del pescatore. In questa storia spiccano due linee, che sono intimamente intrecciate e si rafforzano vicendevolmente e che tuttavia sono distinguibili l'una dall'altra: la spiegazione esegetica della navicella di Pietro in Luca, e l'impiego, nel campo della politica ecclesiastica, di questa immagine per dimostrare il primato romano. 10 Cyprian und der romische frimai. Bine kirchen- und dogmengeschichtliche Studie (Texte und Untersuchungen, 35, 1), Lipsia

1910.

11

Cfr. per ciò F. J. DOLGER, Ichthys, Miinster 1943, v. 5, p. 285-291.

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I. LA STORIA DELLA SPIEGAZIONE ESEGETICA DEL SIMBOLO

Il testo da cui prese il via la simbolica della Chiesa come navicella di Pietro, si trova in Luca 5,3: έμβάς δέ εις εν τ ω ν πλοίων, δήν Σίμωνος, ήρώτησεν αυτόν άπα της γης έπανκγαγεΐν ο λ ί γ ο ν καθίσας δέ έκ του πλοίου έδίδασκεν τους όχλους. La Vol­ gata traduce la parola πλοίο ν con navis e poi con navicula, ma già l'antica traduzione latina non fa alcuna distinzione tra questi due termini e così nella lingua dei Padri ha preso cittadinanza l'espressione navicula Petri. In un solo passo, per- quanto io veda, un imitatore di Agostino 12 in una predica su Matteo 14,22 parla della Chiesa come navicella, un diminuitivo corrisponde più esattamente al biblico πλοιάριον di Mar 3,9 3 Giov 6,23, e che poi, molto più tardi, risuona nella lingua e nell'arte italiana come designazione della piccola nave ecclesiale di Pietro. I Padri della Chiesa sogliono vedere volentieri assieme questa nave di Pietro di cui Lue 5,3 e l'altra nave guidata da Pietro, che venne messa a dura prova nella tempesta marina (Mat 8,23-27; 14,27-33; Mar 4,36-39; 6,45-52; Lue 8,22-25; Giov 6,16^21). Ma che queste narrazioni dei pericoli e dei successi della navicella dell'Apostolo siano state applicate alla Chiesa sin dagli esordi dell'Esegesi, non ha certamente alcun fondamento in Lue 5,3. In verità, come abbiamo già accennato nei precedenti studi qui interviene la simbolica della cultura nautica che era tanto familiare all'antico cristiano, e che lo circondava da ogni parte: la Chiesa è per l'appunto la «buona " Sermo 72, 2 (PL 39, 1884).

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nave », così il cosmo, lo Stato e l'anima possono essere paragonati ad una nave. Una cosa feconda l'altra: interpretazione biblica e simbolica profana, nota a tutti, si uniscono, per esprimere la storia e il destino della Chiesa nell'immagine della nave. Abbiamo già visto più sopra, in Giustino e in Minucio Felice, che si tratta di un antico tema della simbolica teologica. Qui rileviamo pertanto solo ciò che sembra provenire immediatamente dai riferimenti biblici. Nell'opuscolo di TERTULLIANO sul battesimo, la barca degli apostoli viene per la prima volta paragonata alla Chiesa, in connessione con la questione dogmatica, se anche gli apostoli siano stati battezzati. Tale applicazione simbolica viene chiaramente presentata come una cosa normale : « Ceterum navicula illa figuram Ecclesiae praeferebat, quod in mari, id est in saeculo, fluctibus, id est persecutionibus et temptationibus, inquietatur, Domino per patientiam velut dormiente, donec orationibus sanctorum inquietatur, Domino per patientiam velut dormiente, donec orationibus sanctorum in ultimis suscitatus compescat saeculum et tranquillitatem suis reddat » 13. C'erano a quel tempo i cristiani, che pensavano seriamente che gli apostoli fossero stati battezzati durante la tempesta marina. Tertulliano polemizza contro di essi; questo brano dottrinale biblico (egli pensa evidentemente soprattutto a Mar 4,37-39) ha già la sua inequivocabile interpretazione: la navicella è la Chiesa, la tempesta marina la persecuzione e la tentazione, il Signore che dorme è l'Addormentato sulla croce 14, gli apo13

De baptismo, 12 (CSEL 20, p. 212, 1. 2-7). L'espressione « Domino per patientiam velut dormiente » si riferisce al sonno della morte sulla croce e non può quindi essere tradotta con KEIXNER (BKV, 2 ed., v. 7, p. 290) : « Mentre il Signore, 14

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D E I PADKI

stoli supplicanti sono i santi che impetrano sulla nave della Chiesa, la calma del mare raffigura l'eternità. Si tratta di un'interpretazione, che, nella sua ricchezza, suona come un capitolo dell'antica catechesi battesimale e ricorda il grande tema dottrinale della nave della Chiesa, che poco dopo sarà ripreso in Roma da IPPOLITO 15 e che, più tardi, risuona nell'anonimo spirituale di Roma del quinto secolo 16. Che la navicella degli Apostoli raffigurasse la Chiesa, era cosa naturale per l'esegesi dei Padri e sarebbe semplicemente una pedanteria presentarne tutte e singole le testimonianze. Ecclesiae est instar navis, dice ILARIO nella spiegazione della tempesta marina, « e quando noi saliamo sulla navicella di Cristo, ossia sulla Chiesa, siamo minacciati dalla tempesta di ogni sorta di pericoli; infatti sappiamo che ora nella sua pazienza, dorme ». - Cfr. anche GEROLAMO, Comment. in Matthaeum, i, 9 (su Mat 8,24): «Imperio ac sacramento passionis suae liberat suscitantes ». Ciò proviene certamente dalla parte perduta del commento di Origene al vangelo di Matteo. - L'interpretazione che vede nel sonno di Cristo sulla nave il sonno della morte sulla croce ci sembra assicurata dalla serie di testimonianze patristiche, che abbiamo già presentato sopra a p. 596S. e a p. 607S., ed in cui l'« ascendere navem » fu sempre interpretato come riferimento alla m o r t e sulla croce. Cfr. ORIGENE, Omelie sul Cantico dei Cantici, 2, I2(GCS Vili, p. 58, 1. 17-23). Cfr. per ciò H. R A H N E R , Euploia, in Perennità*. Festschrift fiir Thomas Michels, Munster 1963, p. 3, nota 21. - Ps.GEROLAMO, Comm. in Marcum 4 (PL 30, 605 A). - BEDA (PL 92, 174 C ) . - O N O R I O D I A U T U N (PL 172, 912 B C ) . - Per Tertulliano qui

si tratta della sorte escatologica della nave della Chiesa, come d i m o stra l'espressione « in ultimis ». E. PETERSON, Friihkirche, Judentum, und Gnosis, Friburgo 1959, p. 92, e REEOULÉ, in Sources Chrétiennes 35 (1952) p. 84, respingono l'interpretazione del « per patientiam » tertullianeo come riferentesi alla morte del Signore. 15 De antichristo, 59 (GCS IPPOLITO, I, 2, p. 39S). - Cfr. sopra, p . 516S. 18 PS.-GEROLAMO, Commentarium in Marcum, 4 (PL 30, 605S). Cfr. sopra, p. 597S-

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noi siamo una preda ricercata da onde e da vento » 17 . Nello stesso contesto GEROLAMO fa suo, trascrivendolo alla lettera, un dubbio di ORIGENE 18, che è tipico delle difficoltà allegoriche, in cui si dibatteva l'esegesi della navicella della Chiesa : « S i , se noi sapessimo che cosa significa nella nostra lingua la parola ' Genesareth ', allora comprenderemmo anche meglio che Gesù, sotto il ' tipo ' degli apostoli e della navicella, libera la Chiesa dal naufragio della persecuzione, la fa navigare presso le coste e la conduce alla quiete del porto » 1 9 . Tutto ciò si riferisce tuttavia alla Chiesa in generale, e cioè alla navicella, il cui pilota è Cristo, e che viene guidata dagli apostoli : si pensi a quella rappresentazione della nave della Chiesa sul rilievo del sarcofago di Spoleto, sulla quale Gesù come pilota impartisce con la mano levata gli ordini ai quattro evangelisti che remano 20 . Noi compiamo un passo ulteriore nella storia della spiegazione, quando la nostra attenzione viene concentrata su quelle testimonianze, che si occupano di Pietro come proprietario della navicella: qui infatti ha la sua radice lo sviluppo da cui risulterà l'applicazione, strettamente limitata, alla Chiesa di R o m a . Iniziamo con un testo, la cui origine e la cui interpretazione fu molto discussa sino ai nostri giorni, e che noi abbiamo già ricordato una volta più sopra 2 1 . È la lettera dello Ps.-Clemente all'apostolo Giacomo, che come introduzione all'Omelie Clementine, va sicuramen" Commentarium in Matthaeum, 7, 9 (PL 9, 957 B). 18 Commetti, in Matthaeum, 11,6 (GCS OHIGENE X, p. 43, 1. 6s). 19 Commetti, in Matthaeum, 2, 14, 34 (PL 26, 104 B). M Puproduzione in R. GARRUCCI, Storia dell'arte cristiana, Prato 1879, v. 5, tav. 395, 6. - Cfr. F. J. DOLGER, Sol Salutis, Miinster 1925, 1925, 2 ed., p. 278S. 21 Sopra, a p. 519S.

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PADRI

te datata al terzo secolo. HARNACK aveva spiegato con buone ragioni che deve essere stata composta a Roma 22 . Ciò è stato poi combattuto aspramente, soprattutto da C. SCHMIDT 23 e da H. KOCH 24. Ma H. WAITZ ne ha difeso l'origine romana 25 e ci sono buone ragioni per attenerci a questa spiegazione: non è la regione ad oriente del Giordano che ci ha regalato questo rimarchevole brano dottrinale, ma Roma stessa. E ciò soprattutto se, come C. CASPAR ha giustamente sostenuto, la datazione della lettera, proposta anche da Harnack, va posta dopo il 260 : « Questa lettera, in cui Pietro parla della sua cathedra romana, non può essere stata composta prima della coniazione della Cathedra Petri ad opera di Cipriano, ossia prima del cinquantesimo anno del terzo secolo. Essa ne rappresenta facilmente la più antica testimonianza letteraria su territorio romano » ae . Tuttavia ciò non è veramente pro22 Die Chronologie der altchristlkhen Literatur bis Eusebius, Lipsia 1904, v. 2, p. 53OS. 23 Studiai zu den Pseudo-Clementinen (Texte und Untersuchungen, 46, i ) , Lipsia 1929, p. 91-124. - Cfr. i due precedenti studi: H. W A I T Z , Die Pseudoklementinen (Texte und Untersuchungen, 25, 4), Lipsia 1904, p. 2ss. - H. HEINTZE, Der Klemensroman und seine griechischen Quellen (Texte und Untersuchungen, 40, 2), Lipsia 1914, p. 36ss. 24 Cathedra Petri, Giessen 1930, p. 29, nota 1; p. I73s; p. 184. ** Die Pseudoklementinen und ihre Quellenschriften, in Zeitschrift fiir die neuetst. Wiss. 28 (1929) p. 27ISS. - Per le fonti e la dottrina delle Pseudoclementine cfr. J. DANIÉLOU, Théologie du Judéo-Christianisme, Parigi 1958, p. 71-76. - H. J. SCHOEPS, Théologie und Geschichte des Judenchristentums der Pseudoklementinen, in Neutest. Studien f. R. Bultmann, Berlino 1954, p. 35-51. - Per l'origine e la datazione della lettera, cfr. ora la introduzione all'edizione delle Omelie, di J. IHMSCHER: GCS Ps.-Clementine I (Berlino, 1953), p. 7. Irmscher sostiene che lo scritto fondamentale, e dunque anche la lettera di Clemente a Giacomo, sono originarie della Siria intorno al 200-230. 28 Primatus Petri, W e i m a r 1927, p. 74, nota 2. - Geschichte des Papstums, Tubinga 1930, v. 1, p. 75.

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babile, poiché l'espressione cathedra del vescovo romano si trova già nel Frammento Muratoriano; e se hanno ragione coloro che attribuiscono il Muratorianum a Ippolito romano 27 , possiamo tranquillamente situare anche l'origine della lettera di Giacomo nei primi decenni del terzo secolo, vicino alla teologia di Ippolito, con la cui simbolica della nave della Chiesa mostra una così stretta parentela. La lettera presenta l'apostolo Pietro che così parla nel consacrare Clemente : « Io consacro vescovo anche questo Clemente, a cui affido la mia cathedra della dottrina» (φ την έμήν των λόγων πιστεύω κα&έδραν) 2 8 . Più tardi Rufino ha sottolineato ciò in modo anche più marcato nella sua traduzione: « Cui soli meae praedicationis et doctrinae cathedram credo » 29. Clemente rifiuta di accettare questa dignità e Pietro continua: « Se temi il pericolo del peccato e non prendi su di te il governo (τήν διοίκησι-ί] della Chiesa, guarda hene che pecchi Tnaggiormente, nel caso che, sebbene in grado di farlo, non voglia venire in aiuto agli uomini timorati di Dio, ovunque essi si trovino in viaggio di mare e in pericolo » 3 0 . La cattedra del vescovo ro­ mano diventa qui, nel pensiero simbolico, il seggio del pilota, che guida il minacciato battello della Chiesa. Ciò viene sviluppato quindi nel discorso di Pietro con un'immagine altamente espressiva e non c'è alcun »' A. VON HARNACK, Uber dm Verfasser und dm Uterarischtn Charakler des Muratorischen Fragments, in Zeitschrift f. d. neutest. Wiss. 24 (1925) p. 1-16. - M. J. LAGRANGE, L'auteur du Canon de Muratori, in Revue Biblique 35 (1926) p. 83-88. »

e.

2

(PG 2,

36 A;

GCS PS.-CLEMENTINE I, p. 6, 1.

20

ios).

Riprodotta in Migne PG 2, 35 D. - G C S PS.CLEMENTINE I, p . 6, 1. 26s. 30

e.

3,

5

(PG 2,

37 Β ; GCS PS.-CLEMENTINE I, p.

75).

820

L'ECCLÉSIOLOGIA DEI PADRI

dubbio, che qui abbiamo a che fare con un tema dottrinale, che applica alla Chiesa romana l'antico topos della Chiesa come navicella di Pietro: « Se voi conservate l'unità di pensiero, allora potrete dirigervi verso il porto della calma, là dove si trova la pacifica città del grande regno. Tutta l'essenza della Chiesa somiglia ad una grande nave, che in tutte le tempeste alberga in sé quegli uomini di diversa origine, che soltanto ad una cosa aspirano, abitare nella città del buon regno. Perciò, Dio sia per voi come il proprietario della nave. E il pilota sia l'immagine di Cristo. Il pilota di prua rappresenti il vescovo, i marinai di ciurma i preti, i sorveglianti dei rematori i diaconi, gli arrolatori i catechisti, i viaggiatori poi la massa dei fratelli ... Perciò i compagni di viaggio debbono sedere ordinatamente e calmi ai posti loro assegnati, affinché la nave non venga scossa dal disordine e si pieghi sul lato. Gli arrolatori debbono esigere il salario. I diaconi non debbono trascurare ciò che fa parte del loro ufficio. I preti, come buoni marinari pieni di zelo, debbono fornire a ciascuno il necessario. Il vescovo, come pilota di prua (πρφρεύς), sia vigilante e gridi unicamente al timo­ niere la risposta dell'ordine ripetuto (άντιβαλλέτω). Cristo, poi, come salvatore, sia amato come il timo­ niere e venga spiegato fedelmente soltanto ciò che egli dice. Tutti poi debbono pregare Dio per un viaggio felice... Voi tutti lo sapete: il vescovo porta il più grande peso tra di voi. Poiché ciascuno di voi deve portare soltanto il proprio affanno: egli invece porta e il suo e l'affanno di tutti gli altri. Tieni dunque la presidenza (προκαθ-έσθ-ητι), ο Clemente, pronto a soccorrere ognuno, per quanto tu possa, poiché tu porti le cure di

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tutti. Sii coraggioso e porta tutto con animo: tu sai, infatti, che quando approderai al porto della tranquillità, Dio ti donerà la pienezza del bene e la ricompensa incorruttibile. Poiché per la salute spirituale di tutti gli uomini ti sei sobbarcato alla grande fatica... E voi, miei cari fratelli e conservi, obbedite al presidente della verità ( τ φ προκαθ-εζωμένω αληθείας) in ogni cosa. Lo sapete infatti: chi lo contrista, non riceve Cristo, la cui cattedra gli è stata affidata. E chi non riceve Cristo, sia per voi come uno che ha rinnegato il Padre: egli sarà gettato fuori dal buon regno » 31 . Sotto l'involucro dell'immagine di questo testo c'è una dottrina chiara, si potrebbe quasi dire, un brano di diritto canonico: poiché soltanto così si spiega la appropriatezza di questa simbolica divenuta già quasi di maniera. Quando HARNACK 32 sosteneva che proprio questa ricca elaborazione della comunità ecclesistica, presupposta da tale simbolica, sarebbe una prova in favore della datazione a dopo il 260 (e proprio questa fissazione tardiva servì tanto a HUGO KOCH nella sua artificiosa storia dell'espressione cathedra Petri) e aggiungeva che essa si distinguerebbe considerevolmente dal capitolo più arcaico sulla nave in Ippolito, si vede bene che egli è già prigioniero della sua ipotesi dello sviluppo del Primato. Basti soltanto confrontare l'ordinamento ecclesiastico di Ippolito con la costituzione della comunità del nostro brano; qui ci troviamo nell'ambito, così vivamente operoso e ben strutturato dal punto di 31 e. 13, 3; 14, 1-3; 15, 1-3; 16, 1-5; 17,1-2 (PG 2, 4 9 A - 5 3 A; G C S , p. 16-19). 32 Die Chronologie d. altchristl. Literatur, v. 2, p. 530, nota 1 (di P- 529).

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vista del diritto ecclesiastico, della Chiesa romana del periodo di pace sotto gli imperatori siri. Anche Harnack, nonostante tutto, deve affermare che « le attribuzioni del vescovo, secondo il nostro scritto, sono quelle che si sono sviluppate al tempo di Callisto. Il vescovo ha oltre al potere magisteriale, il pieno potere delle chiavi (secondo Mat 16,19). Egli detiene nella comunità il posto del massimo dottore della verità e del medico ». Pertanto il nostro testo è la prima testimonianza, in cui la Chiesa di Roma è considerata come la buona nave di Pietro. Clemente siede sulla cattedra di Pietro e questa è la cattedra di Cristo. Espresso in simboli nautici, ciò rappresenta con molta proprietà il posto del « Vicario di Cristo » : il vescovo romano è il proreta della nave della Chiesa, il pilota in seconda ο il pilota di prua, che deve soltanto ripetere gli ordini gridati dal pilota che siede sulla sua Cattedra a poppa. Egli è per così dire l'eco di Cristo; e ciò è anche ben pensato all'antica, poiché, come vedemmo più sopra, già in Senofonte e Aristotele il profeta è concepito come il « diacono e lo strumento animato del pilota » 33 . Con ciò però viene assegnato al vescovo romano un potere ministeriale, che si estende in qualche modo su la Chiesa universale. « Per la salvezza di tutti gli uomini » egli si è sobbarcato a questa fatica e in rapporto a lui si decide la salvezza di tutti: chi lo ripudia, viene « gettato fuori dal buon regno ». Egli è il « presidente della verità », cosi come cento anni prima Ignazio aveva salutato la Chiesa romana come « colei che presiede alla carità», una prova, questa, del valore dommatico di questo προκαθίζεσθ-οα, per la cui interpretazione " Cfr. sopra, a p. 519, nota 15.

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si è disputato tanto. Cristo a poppa, Pietro e il suo successore a prua: questa è, i simboli nautici, la dottrina della Chiesa antica sul primato. Qui echeggia sommessamente Mar 4,38: Cristo siedeva a poppa. La navicala è divenuta una nave di mare, dalla cui cathedra Cristo istruisce i popoli: καθίσας δε έκ τοϋ πλοίου έδίδασκεν τους όχλους (Lue 5,3)· Questa cathedra doctrinae è affidata a Pietro e a Clemente. Il simbolo della nave della lettera di Clemente ha conosciuto una strana storia. In Oriente, le Costituzioni Apostoliche l'hanno ulteriormente sviluppato'34. In Occidente, attraverso la traduzione di RUFINO, è restato indimenticabile sino al momento in cui lo PSEUDO-ISIDORO se ne impossessò come di un testo adatto alla dimostrazione di una dottrina del Primato romano, che si era sviluppata lentamente sino alla piena maturità. Isidoro fa ripetere tutto il capitolo dalla fittizia lettera di papa Anacleto 35. E in un'altra lettera presenta lo stesso papa che dice: « Ecclesiae in qua Apostolus residens docuit, quodammodo nos gubernacula tenemus » 36 . Ora il papa siede a poppa, mentre in Clemente vi siedeva Cristo, il pilota; ma ciò non significa che nel frattempo si era radicata la pretesa romana; si tratta di uno sviluppo di quella identificazione giusta, che era già alla base della identificazione di gubemator e proreta. Il papa governa il timone della Chiesa: questa è un'immagine che fu continuamente impiegata molto tempo prima dei Deaetali di Isidoro, 34

Constitutiones Apostolkae, 2, 57, 2-4.; 9-11 (FUNK I, p. 159-163). Epistola Anadeti, e. 2 (PL 130, 6os). P. HINSCHIUS, Deaetales Pseudo-Isidorianae, Lipsia, 1863, p. 67. 311 PL 130, 67 D; Hinschius, p. 75,-Cfr. anche l'Epistola Alexandre, I (PL 130, 98 D ; Hinscius, p. 103). 35

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nello sviluppo organico dell'antica dottrina romana, come, mostreremo meglio nella seconda parte di questo lavoro. Il Sacramentario Leoniano così prega per il vescovo di Roma morto : « Quem in corpore constitutum Sedis Apostolicae gubernacula tenere voluisti, in electorum numero constitue sacerdotum » 37 . La collezione di canoni del cardinal Deusdedit è ancora sotto l'influsso dell'immagine della Lettera di Clemente conosciuta mediante Isidoro. Nel Prologo a papa Vittore III (1087) egli difende appunto la genuinità delle lettere in cui si trovano questi testi nautici, e li applica alla nave della Chiesa come navicula Petti provata dalle tempeste : « Haec Ecclesia, etsi interdirmi adversis mundi flatibus opprimitur, meritis tamen principum apostolorum, qui in ea vivunt et praesident, non obruitur » 38. Ciò che abbiamo presentato sino ad ora circa la storia del simbolo della nave di Pietro, era appena accennato dall'espressione biblica e deve la sua ricca elaborazione piuttosto alla forza dell'immagine della nautica profana, che era così adatta ad esprimere la dottrina del primato. Ora torniamo alla storia della spiegazione vera e propria del paragone evangelico. Se fin dai primordi dell'esegesi allegorista l'equiparazione della navicella di Pietro in Lue 5,3 con la Chiesa è stata tanto popolare, allo stesso modo gli espositori, così amanti dei simboli, preferirono applicare al destinò della Chiesa la pesca miracolosa di Pietro e dei compagni accorsi in suo aiuto. La Chiesa non 37 38

MURATORI, Ι, ρ. 453.

V. W. GIAITWEIX, Die Kanonensammlung des Kardinah Deusdedit, Piderbom 1905, p. 2s. - Anche nel Decretum di GRAZIANO la Lettera di Clemente viene citata molto spesso.

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è soltanto a prova di tempesta, non è soltanto cattedra di Cristo insegnante, ma è il veicolo carico di pesci viventi del pescatore di Galilea, Pietro. È chiaro che vi contribuì anche il fatto che il cristiano veniva paragonato ad un pesce, proveniente da altri settori dell'antica simbolica cristiana. Si aggiunga a ciò la straordinaria incisività delle parole del Signore, che parlano di «pescatori di uomini» (Mat 4,19; Mar 1,17; Lue 5,10). La ricca simbolica di questa pesca apostolica si trova già pienamente elaborata in ORIGENE 39. Dipendentemente da quest'ultimo, METODIO DI FILIPPI 40 e 41 GEROLAMO spiegano la pesca come l'opera degli apostoli che, dalla nave della Chiesa, attirano gli uomini dai cattivi flutti del mare alla rete della nuova vita. « Anche oggi viene ancor gettata la rete della pesca », dice CIRILLO DI ALESSANDRIA, « ed è Cristo che la riempie. Poiché egli chiama alla conversione gli uomini che nuotano nella profondità del mare, ossia nell'amarezza e nelle onde del mondo » 42 . Ma anche qui la spiegazione va dal generale al particolare: ciò che gli apostoli eseguono, è l'opera eseguita da Pietro, e ciò che vale della nave della Chiesa, si rende manifesto in Roma. EUSEBIO, con la particolare sensibilità che aveva per la storia, ci ha lasciato una spiegazione, che neppure nell'Oriente greco è stata 3 » Homiliae in Jeremiam, 16, 1 (GCS ORIGENE III, p. 131-133; 18, 5: p. 156S). C o n speciale considerazione per Pietro quale pescatore evangelico: Comment. iti evemgelium Matthaei, 13, io (GCS ORIGENE X, p. 207, 1. 30ss). - Cfr. per ciò F. J. DOLGER, Ichthys, Miinster 1922, v. 2, p. 30ss. - Homiliae in Leviticum, 7, 7 (GCS VI, p. 391, 1. 27ss). 40

41

De sanguisuga, 5, 3

(GCS METODICI, p. 483, 1. 1-8).

Epistola, 71, 1 (CSEL 55, 2, 1. 2-6). Altri testi, sopra a p. 508, nota 211. 42 Commetti, in Lucani (PG 72, 553 D ) .

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più dimenticata. Mosé e i profeti, così egli spiega il Vangelo, « hanno lavorato tutta la notte e non hanno preso nulla ». Ma ciò che essi non poterono fare, « lo ha compiuto proprio quel Simone, l'uomo di Galilea, il povero, il barbaro quanto a lingua. Lo dimostrano le Chiese, ancor oggi luminose, che sono più piene di pesci spirituali che non quella navicella: quella di Cesarea in Palestina, di Antiochia in Siria, e la Chiesa nella città di Roma » 43 . Qui si sente risuonare la fiera consapevolezza del vescovo di Cesarea, che pone la sua Chiesa come una buona navicella di Pietro a fianco alle altre due Chiese di Pietro: è la stessa fierezza, con cui più tardi CRISOSTOMO, nella «Palaia» dell'antica basilica di Antiochia, che si credeva fondata dagli apostoli, tiene la sua scintillante predica sulla tempesta marina della navicella di Pietro ed esalta la valentia di questa nave con le parole di Matteo 16,18 44 . Da Antiochia Pietro si recò a Roma, « il pescatore ha conquistato la città imperiale » 45. E « Pietro, che una volta gettò la sua rete in un mare, ecco, ha pescato il mondo »46. Mostreremo in seguito che questi toni romani della spiegazione scritturistica si uniscono al linguaggio politico ecclesiastico, che dall'Oriente, scompigliato dalla tempesta, passa a Roma. E proprio in questo contesto è un fatto degno di nota che un BASILIO DI SELEUCIA, il quale a Calcedonia sottoscrive il Tomus di Papa Leone, spiega con parole retoriche il vangelo del pescatore di uomini: «Potremo guadagnare le anime de43 Teofania siriana, 6, 6 (GCS EUSEBIO III, 2, p. 173, 1. 2^-34; PG 24, 627 C). 44 Homilia in Inscriptionem Adomm, 1 (PG 51, 78 AB). 45 Expositio in Psalmum 48, 6 (PG 55, 232 A). *· in illuà Vidi Dommum, Homilia 4, 3 (PG 56, 123 C).

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gli imperatori con il nostro linguaggio di barcaioli ? », così egli fa chiedere dagli apostoli. Eppure il loro viaggio vittorioso va verso Roma : « E Roma depone il diadema imperiale, per gettarsi nella polvere dinanzi all'annuncio della croce » 47 . L'Occidente latino ha elaborato con particolare amore precisamente il tema dottrinale di Pietro pescatore di uomini. Esso viene sviluppato mediante l'immagine di Pietro pescatore con amo, desunta da Mat 17,26: «Va al mare e getta l'amo». Qui nella spiegazione allegorica la persuasione del potere magisteriale di Pietro esercita un ruolo sin dall'inizio. Infatti l'amo è la parola di Dio, come dichiara AGOSTINO : « Sic enim est sermo Dei et sic esse debet fìdelibus: tamquam pisci hamus. Tunc capit quando capitur » 48. Pietro è il pescatore, a cui viene affidato l'amo: questa immagine dice la stessa cosa dell'immagine del pilota di prua che grida e del presidente della verità. « Destinatus enim ad praedicationem Petrus et piscator hominum factus, doctrinae hamum misit in saeculo, quo appositi sibi dulcedine vagos ex eo flucruantesque protraheret », dice ILARIO 49. Ed è una eco di Origene, che dipinge appropriatamente la morte e la rianimazione del pesciolino preso all'amo di Pietro, quando AMBROGIO arringa i cristiani : « Noli igitur, ο bone piscis, Petri hamum timere: non occidit, sed consecrat » 50 . Amo, rete e la sbarra del timone: tutto raffigura che Pietro "' Oratia 30, 1 (PG 85, 336 A; 337 A ) . 48 Traci, in Ioannem 42, 1 (PL 35, 1700. Cfr. sopra, p. 2923). *» Comment. in Matthaeum 17, 13 (PL 9, 1018 A). 50 Exameron, 5, 6, 16 (CSEL 32, 1, p . 151, 1. 19S). - Cfr. ZENONE DI VERONA, Tract. II, 13, 2 (PL 11, 430 B ) . - Per tutto ciò anche F. J. DOLGER, Ichthys, Munster 1943, v. 5, p. 313SS.

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anche oggi, e per giunta per tutta l'umanità, è la personificazione della doctrina. « Ipse est apostolicus piscator electus - così predica Pietro Crisologo - qui ad se turbas errorum fluctibus mersas hamo sanctitatis invitat, et doctrinae suae rete concludit ad fidem hominum multitudine copiosam » 51. Ancora una volta riecheggia la dottrina origenista della mistica morte e vita dei pesciolini, che vengono portati nel chiuso della nave della Chiesa, quando MASSIMO DI TORINO così si esprime in un'omelia a proposito della pesca apostolica : « Navis Ecclesiae liberatos de turbine homines animat, cuna capescat, animat intra se, inquam, Ecclesia, et velut intermortuos vivificat ». Il capo nel peschereccio della Chiesa è Pietro : « Velut saucios ergo mundi turbinibus et praefocatos saeculi fluctibus homines vivificaturus dicitur Petrus, ut qui mirabatur refertam naviculam palpitantium piscium numero, viventium onustam Ecclesiam hominum multitudine plus miraretur » 52. La mano, che una volta ha guidato l'amo, sta ora al clavus, alla barra del timone della nave, dalla quale viene intrapresa la pesca di tutto il genere umano : questa è la teologia del primato, che ARATORE espone nella sua parafrasi poetica degli Atti degli Apostoli. Egli dedica la sua opera a papa Vigilio, proprio nel periodo in cui le onde particolarmente tempestose sbattono qua e là la navicella di Pietro: «Ma Pietro, che una volta camminò con piede asciutto in mezzo alle onde, ha preparato alle nostre navi un porto sicuro »S3. I versi sul pescatore di uomini suonano così: 51

Sermo 107 (PL 52, 498 B). - Sermo 28 (PL 52, 279 B). «» Sermo 95 (PL 57, 723 B-D). 53 Lettera dedicatoria metrica a Papa Virgilio, ·ν. 135 (PL 68, P- 77 A).

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« Primus apostolico, parva de puppe vocatus, agmine Petrus erat, quo piscatore solebat squamea turba capit: subito de littore visus, dum trahit, ipse trahi meruit: piscatio Christi discipulum dignata rapit, qui retia laxet humanum captura genus: quae gesserai hamum ad clavum est translata manus... » 54. È dunque perfettamente naturale che la teologia del primo medioevo e che i papi consapevoli del loro ufficio si servano volentieri di questa immagine del pescatore romano di uomini. Infatti la Glossa Ordinaria dice espressamente che questa promessa del Signore era indirizzata in maniera speciale a Pietro : « Hoc ad ipsum Petrum specialiter pertinet, cui exponitur, quid captura significet piscium. Sed sicut tunc per retia pisces, sic per verba aliquando capiet homines, in quo Petrus est typus totius Ecclesiae » 55 . Papa NICOLA I, per nominare soltanto uno dei grandi, saluta un vescovo franco come suo collaboratore nella pesca delle anime 56 . E quando nell'alto medioevo, dopo i giorni del grande Innocenzo, i papi cominciano a sigillare le loro lettere con ì'anulus piscatoris, probabilmente per la prima volta sl De actibus Apostolorum, versi 69-75 (PI- 69, 97S). Secondo il Protocollo aggiunto (PL 68, 55 A) Arator ha letto questi versi nell'aprile del 544. nella chiesa di S. Pietro ad Vincula dinanzi al papa e al popolo. - Nell'ultimo verso alcuni manoscritti danno la lezione « clavum » invece del « davem » che si legge nel Migne. Che si debba leggere « clavum » è assodato sia dallo spirito nautico di questo brano, sia perché così si rende molto meglio il giuoco di parole hamumclavum. 55 Su Lue 5,10 con un'espressione di Beda (PL 114, 256 C). 58 Epistola 82 (PL 119, 918 C). - Cfr. anche AIMONE, Homilia de sanctis, 1 (PL 118, 751 B).

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sotto Clemente IV in una lettera del marzo 1265 57, si tratta soltanto dell'ultima conseguenza, sopravvissuta sino ad oggi, della teologia del primato che si cela nel simbolo di Pietro pescatore e padrone della nave. Giungiamo così al punto centrale della spiegazione allegorica della pericope lucana riguardante la nave di Pietro. L'immagine della nave carica di pesci del pescatore di uomini si tinge di dramma nella pericope della tempesta marina. Tutto diventa quasi dialettico: la Chiesa è carica, ma con ciò va quasi a fondo ; ci sono due navi, e tuttavia solo una è la nave di Pietro; c'è tempesta, ma in pari tempo enorme successo. È Ambrogio che, nella sua forte oratoria antitetica, fa risonare i motivi fondamentali, di cui per mille anni si percepirà la eco nell'esegesi allegorica. Ci troviamo di fronte ad un classico esempio del modo in cui il testo di un Padre della Chiesa ha influenzato la liturgia, l'oratoria e il diritto ecclesiastico del primo medioevo. Ancor oggi la Chiesa universale nella preghiera delle ore della quarta domenica dopo la Pentecoste, legge l'omelia di Ambrogio sulla navicella di Pietro. Cerchiamo ora di mettere in risalto i pensieri fondamentali della teologia della Chiesa e del Primato, che si celano sotto la pienezza dell'immagine impiegata da Ambrogio. Sin dall'inizio l'essere e il destino della Chiesa sono espressi nell'irriducibile antitesi di pericolo e di sicurezza, di minaccia e di preda: «Et ideo ascendit (Christus) in Petri navem. Haec est illa 87 A. POTTHAST, Regesta Pontificum Romanorum, Berlino 1875, p. 1544, n. 19051: « N o n scribimus tibi nec famujaribus nostris sub bulla, sed sub piscatoris sigillo, quo R o m a n i Pontifices in suis secretis utuntur». - M A N S I , 23, p. 1124. - Cfr. anche A. STIEGLER, Lexikon f. Theo!, una Kircke, 1960, v. 4, col. 157: Fischerring.

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navis, quae adhuc secundum Mattheum fluctuat, secundum Lucam repletur piscibus, ut et principia Ecclesiae fluctuantis et posteriora exuberantis agnoscas: pisces enim sunt qui hanc enavigant vitam. Ibi adhuc discipulis Christus dormit, hic praecipit »58. Il mistero umano-divino del Cristo dormiente e tuttavia imperante come Signore, continua nella Chiesa. Il suo inizio storico è pericolo marino, il suo sviluppo è ricco bottino: in ambedue i casi però essa è la navicula Vetri, nave del Pescatore, che solleva i pesci viventi dal mare del mondo. Ambrogio suppone l'identità della Chiesa con la nave di Pietro come cosa nota agli uditori; così pure si dica dell'immagine del cristiano come pesciolino: si tratta di un antico simbolo. Ciò che egli vi aggiunge come pensiero proprio, è la dialettica degli opposti. Il pesciolino, che viene catturato dalla rete, deve morire per poter vivere (vi si sente sommessamente parlare Origene), l'acqua è per il battezzato tomba ed ad un tempo rinascita, come Ambrogio ha spiegato ai fedeli nei giorni di Pasqua59. Ma è nella nave di Pietro che avviene questo mistero : « Et bene apostolica instrumenta piscandi retia sunt, quae non captos perimunt, sed reservant et de profundo ad lumen extrahunt, fluctuantes de infimis ad superna transducunt »60. Viceversa, questo ricco bottino del pescatore a sua volta è molto pericoloso per la Chiesa: un pensiero questo, che ha fatto profonda impressione su Agostino. « Questa grande quantità suscita in me 68 Expositio evangeli! secundum Lucani, 4, 68 (CSEL 32, 4, p. 174, 1. 4-9). 58 De mysteriis, 4, 21 (CSEL 73, p. 97). - De sacramento, 3, 3 (CSEL 73, p. 38s). •° Expositio Lucae, 4, 72 (CSEL 32, 4, p. 176, 1. 6-8).

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preoccupazioni; la navicella potrebbe affondare a causa del proprio peso; ci debbono essere anche degli errori, affinché i buoni vengano provati » 61 . Proprio in ciò consiste la preoccupazione del timoniere Pietro : « Ecce alia sollicitudo Petri, cui sua iam praeda suspecta est » : « Tuttavia, da uomo perfetto, egli sa preservare i pesciolini messi al sicuro, come sa prendere quelli che guizzano ancora non presi. Egli li prende nella parola; egli li consacra alla parola » 62. È così che Ambrogio sviluppa la teologia del primato. La nave che, secondo Matteo, è minacciata dalla tempesta marina, porta anche Giuda, ma la navicella, che pesca un così ricco bottino, appartiene soltanto a Pietro. « Non turbatur ista quae Petrum habet, turbatur illa, quae Judam habet » 63. Certo si tratta di pura allegoria dell'indipendente Ambrogio: ma così facendo egli tenta soltanto di inserire nella pericope la sua persuasione dogmatica della sicurezza della navicella di Pietro. Egli predica infatti in un periodo in cui, nelle ultime tempeste dell'arianesimo, combatte unitamente assieme a papa Damaso per la cattedra di quel Pietro che insegna in Roma. Dobbiamo situare la sua parola in questo contesto : « Ergo non turbatur haec navis, in qua prudentia navigat, abest perfidia, fides spirat. Quemadmodum enim turbari poterai, cui praeerat is, in quo Ecclesiae firmamentum est?» 64 . Il suo sguardo si rivolge al tempo presente, in cui i pericoli della perfidia ariana, sempre in agguato, cercano di svuotare il mi81

Ivi, 4, 77 • ! Ivi, 4> 78 3 « Ivi, 4, 70 " Ivi, 4, 70

(P· (p(p. (p.

177. 1. 24s) 178. 1. 4-7). 175, 1. is). 175, ). 6-9).

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stero della divinità di Cristo. Unica sicurezza in queste tempeste marine è la navicella di Pietro. Anche se l'ordine di gettare le reti è stato rivolto a tutti gli apostoli, tuttavia solo a Pietro son rivolte le parole : « C o n duci verso l'alto ». E questo ' alto mare ' è la dottrina secondo cui Cristo è Dio. « Soli tamen Petro dicitur: due in altum, hoc est in profundum disputationum. Quid enim tana altum quam altitudinem divitiarum videre, scire Dei filium et professionem divinae generationis adsumere ? » Verso questo alto mare di Dio esce con sicurezza soltanto la nave petriana della Chiesa: «In hoc altum disputationis Ecclesia a Petro ducitur » 65 . Dietro l'immagine si nasconde quindi la medesima convinzione del primato dottrinale del successore di Pietro, che abbiamo trovato nella lettera dello Pseudo-Clemente. Ritorna nuovamente Mat 16,18, quando Ambrogio chiama il timoniere Pietro firmamentum Ecclesiae. La nave di Pietro è simbolo dell'unità della Chiesa e i collaboratori dell'« altra navicella », che Ambrogio applica alla sinagoga, vengono qua per mettere al riparo assieme a Pietro la pesca. In Pietro la Chiesa è diventata una: « Ad navem Petri, hoc est ad Ecclesiam, convenerunt, ut implerent ambas naviculas. Omnes enim in nomine Jesu gemi flectunt, sive Judeaus sive Graecus : omnia et in omnibus Christus » 66 . Questa dottrina non è stata mai dimenticata, dal momento che PAOLO DIACONO stabilì il capitolo del commento a Luca come lettura per quella domenica dopo Pentecoste, che aveva come pericope evangelili"', 4. 71 (p- 175. 1- Ϊ Ι - Ι 4 ) · Ivi, 4, 77 (p. 177, 1. 20-23).

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ca Lue 5,1-11 67 . Oggi nel messale romano è la quarta domenica dopo Pentecoste, alle cui orazioni scritturistiche abbiamo accennato più sopra 68 . Nel primo medioevo questa pericope, e con essa anche la lezione ambrosiana, cadeva in una domenica ante natale Apostolorum69, e gli studi hanno accertato che proprio la vicinanza della festa di San Pietro ha esercitato un influsso su questa scelta 70 . N o i possediamo ancora una predica sul capitolo quinto di Luca, tenuta nel quinto secolo da un imitatore di Ambrogio, la quale ci mostra in che modo la dottrina del primato del successore di Pietro viene suggerita dal commentario a Luca del vescovo di Milano : « Hanc igitur solam Ecclesiae navem ascendit Dominus, in qua Petrus magister est constitutus, dicente Domino : super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam. Quae navis in altum saeculi ita natat, ut pereunte mundo omnes quos suscipit servet illaesos » 71 . Può anche darsi che l'omelia vada attribuita al vescovo MASSIMO DI TORINO. Essa sarebbe in ogni caso conforme alla dottrina del primato insegnata da questo fedele seguace di Ambrogio. Egli, infatti, in " PL 95, 1369 C. Cft. ST. BEISSEL, Entstehung der Periiwpen des Rómischen Messbuchs, Friburgo 1907, p. 148. 68 Cft. sopra, p. 558, nota 147. 69 T H . KLAUSER, Das Ròmische Capitolare Evangeliorum (Liturgiegeschichtliche Quellen imd Forschungen, 28), Miinster 1935, v. 1,

p.

30,

n.

140;

p.

178,

n.

168.

- In PAOLO D I A C O N O ,

Lue

5,iss e

l'omilia di Ambrogio per la prima domenica sono letti « post natale Apostolorum » : cfr. BEISSEL, op. cit., p. 149 e 152. ,0 Cfr. anche A. VOGEL, Der Einfluss voti Heiligenfesten auf die Perikopenwahl an den Sonntagen nach Pfingsten, in Zeitschrifì fiir kathoHsche Theologie 69 (1947) p. 100-118. 71 PS.-AMBROGIO, Sernio 37, 5 (PL 17, 678 AB). Stampato anche tra le omilie di MASSIMO DI T O R I N O , Sermo 94 (PL 57, 722 A).

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una sua predica così si esprime a proposito di Pietro: « Quantum igitur meriti apud Deum suum Petrus erat, ut eipost naviculae parvae remigium totius Ecclesiae gubernacula traderentur » 72. Comunque stiano le cose, una cosa è certa: sia il commento a Luca di Ambrogio, sia la predica del suo imitatore, hanno profondamente influenzato la dottrina e il vocabolario teologico del medioevo. Infatti sono entrati nel Decretimi di GRAZIANO 73 e ANSELMO DI LUCCA si richiama ad ambedue

i testi nella sua collezione di canoni, quando dimostra la tesi : « Quod navis beati Petri non turbatur », e quando spiega la proposizione: « Quod Petrus a soliditate fidei petra dicitur et in navi eius omnes tuti sunt » 74. Con il richiamo, di origine pseudo-ambrosiana, alla Chiesa come unica nave della salve2za, un tema dottrinale dell'antica teologia simbolica cristiana viene introdotto nell'allegoria della navicella di Pietro, che ora intendiamo per l'appunto ricordare brevemente: la Chiesa è l'arca di Noe e fuori delle sue tavole salvatrici c'è soltanto naufragio e affondamento. Ciò che colpisce, è il fatto che soltanto Pietro è paragonato a Noe, ambedue sono i « timonieri di una nuova epoca del mondo »75. « Sicut enim Noe arca naufragante mundo cunctos quos susceperat incolumes reservavit, ita Petri Ecclesia conflagrante saeculo omnes quos amplectitur repraesentabit illaesos »76. Da Gregorio Magno sino a 72

Homiìia 70 (PL 57, 399 A).

" C.

II, q.

4, e.

2

(FRIEDBERG I,

p.

422).

71

Collectio Canonum, I, 37 (a cura di FR. THANER, Innsbruck 1906, p. 22). - I, 69 (p. 36). 75 76

CRISOLOGO, Homiliit 163 (PL 52, 628 D. 629 A ) . Ps.-AMBROGIO Ο MASSIMO (PL 57, 722 A).

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Bonifacio Vili vi si vide un simbolo della Chiesa, fuori della quale non c'è salvezza 77. La storia ulteriore dell'allegoria dogmatica della navicella di Pietro può essere riassunta rapidamente, tanto numerose son ora le testimonianze. Ovunque risuonano le parole di Ambrogio. Dagli amboni degli ultimi Padri della Chiesa e nelle aule scolastiche dei monaci carolingi, ovunque echeggia la lode alla Chiesa e a Pietro, il suo buon timoniere. La Chiesa è la nave di Pietro provata dalla tempesta, di cui AGOSTINO predica: « Quia etsi turbatur navis, navis est tamen. Sola portat discipulos et recipit Christum. Periclitatur quidem in mari, sed sine illa statini peritur » 78. Pietro è il ' tipo ' e la personificazione della nave della Chiesa: « Gestat enim Petrus Ecclesiae plerumque personam » 79. Il mare raffigura il mondo presente; Pietro Apostolo è il tipo dell'unica Chiesa »80. Le due navi sul lago di Genesareth diventano il simbolo della Chiesa dei giudei e dei pagani 81 , proprio come in Ambrogio. La nave di Pietro viene caricata sino quasi ad affondare con la enorme massa di cattivi cristiani82, ancor più che al tempo di Ambrogio. Ma viene il giorno, in cui Cristo glorificato starà sulla riva dell'eternità, per tirare a terra " Cfr. ad esempio GREGORIO M A G N O (PL 76; 982 C D ) . - Ps.ISIDORO (PL 130, 191 A). - INNOCENZO III (PL 215, 278 C; 622 D ) . -

BONIFACIO Vili nella Bolla Ausculta fili, in C. J. HEPELE, Conciliengeschichte, Friburgo 1890, v. 6, p. 325. - Per i testi antichi in favore della simbolica arca-Chiesa, cfr. F. J. DOLGBR, Sol Salutis, Miinster 1 9 2 5 , 2 e d . , p. 78

273SS.

Sermo 75, 3 (PL 38, 475). '" Sermo 75, 9 (PL 38, 478). «0 Sermo 76, 1 (PL 38, 479). 81 Tractatus de sexta feria Paschae ( M O R I N , p. 488S). 82 Sermo 13, 2 Wilmart ( M O R I N , p. 713).

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per sempre la navicella, la Ecclesia gloriosa 83. A causa dei Santi, che appartengono inseparabilmente al mistico Corpo di Cristo, il timone della Chiesa fu affidato a Pietro in mezzo alle tempeste di questo mare terreno 84. Un ignoto discepolo di Agostino, che ci ha lasciato una predica piena d'immagini marine, esclama: « Navicellam. quippe istara, fratres, Ecclesiam cogitate, turbulentum mare, hoc saeculum ». Cristo è il vigile timoniere sulla nave di Pietro, perciò l'approdo è certo : « Naviget ergo, carissimi, naviget haec dominica navis inter procellas saeculi Christo protegente secura, Deo donante sollicita » 85 . Tutto ciò è così ben noto ai credenti, che Gregorio Magno ha appena bisogno di accennarvi : « Per navem Petri quid aliud quam commissa Petro Ecclesia designatur ? » 86. Attraverso la collezione di excerpta di PATEHIO (e di Bruno), questa domanda retorica giunge al medioevo 87 . Beda riallacciandosi alla nota spiegazione di Ambrogio, dà ancora una volta a questa simbolica una più decisa colorazione romana. La navicella di Pietro è la figura dell'antica Chiesa dei giudei : « Navis Simonis est Ecclesia primitiva... de qua Christus docebat turbas, quia de auctoritate Ecclesiae docet usque hodie gentes »88. Questo usque hodie, con lo sguardo rivolto verso l'autorità dottrinale romana, viene continuamente ritrascritto nel 83

Sermo 248, 3 (PL 38, 1159S). - Sermo 250, 3 (PL 38, 1155S). Tractatus in Joannem, 124, 7 (PL 35, 1976). Sermo 72, 2. 3 (PL 39, 18845). 86 Moralia in Job, 17, 26 (PL 76, 28 A). Cfr. anche l'omelia 24, 3, 4 (PL 76, 1 1 8 5 B - D ) : il concetto agostiniano delle due navi, la Chiesa terrestre e quella gloriosa di Pietro : « Ipsi quippe sancta Ecclesia est commissa ». 87 Expositio super Lucam (PL 79, 1060 A; 1206 B). 88 Expositio in Lucani, 2, 5 (PL 92, 302 C ) . 84

85

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medioevo 89 . Lo vediamo chiaramente nello P S . - A I M O NE DI HALBERSTADT : « Navis Simonis primitiva Ecclesia ex Judaeis collccta, quae ideo Simonis dicitur, quia specialiter ei est commissa. Illi enim a Domino dicami est: tu es Petrus et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam » 9 0 . La stessa cosa va detta della Chiesa dei pagani: anche la sua certezza di salvarsi riposa sulla roccia, che ha a sua volta in Cristo la sua forza sostenitrice 91 . Così la navicella della Chiesa non può mai affondare, nonostante tutte le tempeste degli eretici: « Mergi non potuit, quia Christum in fondamento habuit, ipso dicente: super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam » 92 . Gesù insegna soltanto dalla nave di Pietro: ciò indica l'unica ecclesiastica dottrina, che deve essere annunziata dai predicatori 9 3 , e il fatto di Pietro che discende dalla sua navicella, per andare incontro a Gesù si ripete ogni volta che un maestro inviato da R o m a espone la parola di Dio : « quoties quilibet sanctus doctor de gremio Matris Ecclesiae, ubi fuerit educatus, pia condescensione perrexit ad illos, qui foris erant, ut eis viam salutis ostenderet » 94 . Siamo così giunti alla seconda parte della nostra ricerca, in cui udiremo l'eco politico-ecclesiastica di tale esegesi. Citiamo ancora due testimoni per concludere la storia esegetica del simbolo; essi infatti, più chiara89

Cfr. ad esempio SMARAGDO DI ST. MIHIEL (PL 102, 375 D). -

W E R N E R DI SAN B I A G I O

(PL 157,

1045 C ) ; B R U N O DI SEGNI

(PL 165,

374 B). 80 Homilia 117 (PL 118, 626 A). 91 Ivi (626 B). Qualcosa di simile anche in BEDA (PL 92, 383 A). 9! Ivi (628 Β). Cfr. anche Homilia de Sanciti, 3 (PL 117, 762 B). 9 3

Ivi (626 B). Anche in PASCASIO RADBERTO, Expositio in Mat-

thaeum, 5, 8 (PL 120, 359 D ) . 9 a

ANSELMO DI CANTERBURY (?), Homilia 3 (PL 158, 600 C D ) .

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mente che gli altri, mostrano come si applicava il risultato della spiegazione occidentale della pericope lucana per gridare all'altra barchetta, all'Oriente separato, la parola ammonitrice di Pietro: la storia dell'esegesi della nave di Pietro, che ora possiamo abbracciare con uno sguardo, ci dimostra che si tratta di uno sviluppo spiccatamente latino-occidentale, a cui la tardiva esegesi greca e quella bizantina non prendono più parte. ANSELMO DI HAVELBERG, nelle discussioni con Niceta di Nicodemia sull'unità della Chiesa e sul primato del vescovo romano (avvenuta nel 1135), esalta Pietro come il buon timoniere della Chiesa, a cui il Signore ha detto: «Tu però rafforza i tuoi fratelli » (Lue 22,32). « Ac si aperte dicat : tu qui hanc gratiam accepisti, ut aliis in fide naufragantibus semper in fide immobilis et constane permaneas » 95. Il secondo documento è come il brillante epilogo della nostra storia, scritto da Innocenzo III in un momento drammatico per la storia papale, quando le schiere della quarta crociata erano entrate nella Hagia Sophia di Bisanzio e per un momento sembrò che la cristianità greca dovesse essere ricondotta all'unità della nave di Pietro. Il 21 gennaio 1205 il papa scrive al clero di Costantinopoli una lettera piena di gioia sulla ricostituita « unità » e ogni parola di essa è come il frutto maturo della storia del nostro tema: « Sicut per mare saeculum, ita per navem Ecclesia et per rete praedicatio designatur. Navis ergo Simonis est Ecclesia Petri, quae benedicitur una, quia catholica Ecclesia una est, quam Christus commisit Petro regendam, ut unitas divisionem excludat » 96 . Cristo che si " Dialogi, 3, 5 (PL 188, 1214S). " 6 Epistola 203 (PL 215, 512-517). POTTHAST, n. 2382.

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mette sulla nave di Pietro, per istruire di li i popoli, significa : « Sedens docebat de navicula turbas, quia extunc fecit Petrum stabilem sedem habere, sive in Laterano, sive in Vaticano ». A Pietro fu indirizzato il comando: «Due in altum et laxa retia in capturam». Queste parole si son di nuovo adempiute ora e con sommesso orgoglio Innocenzo getta il suo sguardo sulle Chiese occidentali ed orientali, dalla Livonia, alla Bulgaria, sino all'Armenia: veramente la nave di Pietro è in alto mare, mentre Innocenzo getta le reti : « Hoc unum audacter affirmo, quia laxavi retia in capturam ». Bisogna leggere la lettera spassionatamente, per carpire di frase in frase l'eco della teologia di Agostino e di Ambrogio sul primato del timoniere romano. Questa è la buona nave, che mille anni prima il cristiano romano sotto Callisto ha esaltato e che da allora è andata attraverso tempeste e alte onde, così che le sue fracide tavole scricchiolavano, come una volta si lamenta il grande Avversario all'inizio del suo pontificato 97. Adesso apprenderemo, in che modo il temporale politico ecclesiastico minaccia la nave di Pietro. Ma anche qui restano valide le parole : « Tunditur, non mergitur ».

2. L'IMPIEGO POLITICO-ECCLESIASTICO DEL SIMBOLO

Anche questa linea della storia del simbolo si sviluppa secondo le medesime leggi della spiegazione dommatica: l'immagine è usata in primo luogo in genere, in quanto viene applicata, in un contesto " Epistola i, 4 (PL 77, 447 A).

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politico e giuridico ecclesiastico, alla Chiesa come nave degli Apostoli e alle Chiese particolari, che vengono rappresentate come le navi a prova di mare, pilotate dal vescovo in veste di timoniere. Tra queste « naviculae Apostolorum. » la Chiesa di Roma è la nave del primo tra i pescatori. Con crescente autocoscienza i successori di Pietro riconoscono il proprio compito di reggere i « gubernacula totius Ecclesiae », e i colleghi nell'episcopato lo riconoscono volentieri. Quando percorriamo con lo sguardo le testimonianze di questa storia, allora, dal modo in cui Roma si serve della collaborazione episcopale dei timonieri apostolici e dal modo in cui, a loro volta, questi, specialmente nelle tempeste delle eresie e della politica, si rivolgono di continuo al capo timoniere della nave di Pietro, diventa chiaro il convincimento teologico, presente dietro queste immagini e parole nautiche. Non resta alcun posto per una « presunzione romana » storicamente dimostrabile. Il lento formarsi della teologia del primato è una crescita vivente: essa avviene secondo una legge esistente sin dall'inizio, e cioè in forza di una convinzione sempre presente, la quale, sebbene inizialmente soltanto implicita, è presente come dato storico afferrabile ed enunciabile. Il primato del vescovo romano non è sorto da un oscuro impulso, né come semplice risultato di fatto di fattori storici molto meno ancora come risultato imposto da un'abile politica d'interessi. K. HOLL ha ragione quando scrive : « La Chiesa cattolica non può mai impegnarsi in una considerazione storica, che pone all'inizio dello sviluppo un semplice impulso, un'idea, un seme non sviluppato... la Chiesa cattolica deve mettere già come punto di partenza del-

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DEI

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la storia del cristianesimo qualcosa di formato, qualcosa di relativamente compiuto »98. Questo qualcosa di compiuto, che va tenuto presente nel caso del lento divenire del primato, è il tema di cui ci occupiamo ora esponendo l'applicazione politico-ecclesiastica del simbolo della nave di Pietro, sullo sfondo della conoscenza ormai acquisita dal suo sviluppo esegetico. Il pensiero fondamentale, che si estende attraverso testimonianze del millennio che va tra Callisto e Innocenzo III. non è determinato tanto dal racconto biblico di Luca 5, quanto piuttosto dalle pericopi della tempesta marina, che sbatte qua e là la nave di Pietro. La Chiesa è la nave, che, sotto una immane minaccia, naviga attraverso il « mare cattivo del m o n d o » : persecuzione politica dall'esterno ed eresie dall'interno la pongono in pericolo di naufragare. Lo abbiamo già esposto sopra basandoci su innumeri testi della teologia patristica ". I vescovi e i teologi, specialmente nei momenti di pericolo, esaltano la navicella degli Apostoli così atta alla navigazione. GEROLAMO ne ha scritto in quel tornante drammatico, quando si placò la tempesta rabbiosa degli ariani con la morte improvvisa dell'imperatore Costanzo, la grande « bestia ». Era come dopo la tempesta nel mare di Galilea (Mat 8,26): tutto in una volta si fece gran calma : « Periclitabatur navicula Apostolorum, urgebant venti, fluctibus latera tundebantur, nihil iam supererai spei: Dominus excitatur, imperat ventis, bestia moritur, tranquillitas rediit » 1 0 °. In tale tempesta lo sguardo dei marinai e dei ss Gesammelte Aujsàtze zur Kirchengeschkhte, Tubinga 3. P- 455· "" Cfr. sopra, p. 499-507. 100 Dialogus adversus Luciferianos, 19 (PL 23, 172S).

1938, v.

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passeggeri va verso la poppa, ove il timoniere governa e ha in suo potere l'unico gubernaculum che salva, poiché tiene in mano, impugnandolo con calma, il clavus (οΐαξ), il manico ligneo del timone. Costui, nella nave della Chiesa, è il vescovo: egli è l'uomo, a cui è stato elargito il dono spirituale della κυβερνήσις (iCor 12,28) 1 0 1 , ed è stato costituito guhernator della Chiesa ο come proreta del divin timoniere, Cristo. In questo linguaggio simbolico navale è contenuta la persuasione giuridico-ecclesiastica della posizione del vescovo. Scegliamo nella massa di testimonianze che si potrebbero portare in favore di ciò, qualcuna delle più significative. Il vescovo, in collaborazione con i sacerdoti, è il timoniere della nave, come spiega" già CIPRIANO in una lettera 102. In uno scritto al suo vescovo, Agostino, che era ancor semplice sacerdote, riconosce che egli non è capace di assumere neppure questo « secondo posto » sulla nave della Chiesa d'Ippona guidata da Aurelio: « Ut secundus locus gubernaculorum mihi traderetur, qui remum tenere non noveram » 103 . TEODORETO ci riferisce, a proposito della Chiesa di Antiochia, che il vescovo Alessandro vi « dirigeva il timone » 104 ; e, a proposito di Stefano vescovo della medesima città divenuto eretico, ricorda : « Egli teneva in mano il timone di quella Chiesa e guidava la navicella verso l'affondamento » 105. Questo diventa sempre più un linguaggio giuridico sacro e quindi levigato, si potrebbe 101 Cfr. il materiale patristico in G. KITTEL, Theol. Wòrterbuch z. Neuen Testament, Stoccarda 1938, v. 3, p. 1036 (BEYEH). loa Epistola 14, 1 (CSEL 3, 2, p. 510, 1. 2s). 103 Epistola 21, 1 (CSEL 34, 1, p. 50, 1. 6s). 104 Historia ecclesiastica, $, 35 (GCS TEODORETO, p. 337, 1. 14S). 105 Histor. eccles., 2, 9 (GCS, p. 119, 1. I2s).

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anche dire lontano dall'immagine, come, ad esempio, quando LEONE MAGNO parla degli « episcopalia gubernacula » 1 0 6 , ο EUCHERIO della « dioecesis gubernatio » 1 0 7 , proprio come aveva già detto CIPRIANO 108. Lo si vede anche nella traduzione che RUFINO dà al testo di Eusebio: in esso narra che papa Alessandro ha ricevuto l'ufficio come quinto vescovo dopo Pietro (την έπισκοπήν ύπολαμβάνει); Rufino traduce la frase con le seguenti parole : « Plebis guberanacula sortitus est » 1 0 9 . Il concetto dell'ufficio episcopale è « Navim Ecclesiae gubernare » 110 . Rivolgiamo ora l'attenzione alla Chiesa romana. Anche qui, conformemente alla tendenza antica del simbolismo cristiano, si parla del vescovo come timoniere della propria nave, esattamente come a Cartagine ο ad Antiochia. Ma ciò che colpisce, che è interessante per la storia giuridica del primato e che dimostra chiaramente come la priorità del timoniere romano sulla nave della Chiesa non può essere una usurpazione, è il fatto, ampiamente documentabile, che Roma non ha mai contrastato la posizione dei singoli vescovi come capi nave (servendosi, ad esempio, dell'argomento, apparentemente ovvio, che sulla nave della Chiesa ci può essere soltanto un timoniere); al contrario i papi romani hanno sempre salutato i loro fratelli nel ministero come i timonieri delle loro Chiese. Nel sarcasmo con cui TERTULLIANO burla il ricco armatore Mario» Epistola 12, io (PL 54, 654 B). 107 108 109 110

Instructiones, 2 (CSEL 31, p. 160, 1. 13). Sententiae episcoporum, praefatio (CSEL 3, i, p. 416, 1. io). Historia ecclesiastica, 4, 1 (GCS EUSEBIO, 2, 1, p. 301, 1. 5s). Così in CESARIO DI ARLES, Suggestio humilis (ed. MALNOEY,

Bibliothèque de Γ Ecole des Hautes Etudes 103, 1894, p. 305).

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845

cione, che in Roma vuol spacciarsi come il nauclerus della comunità e come successore dei pescatori della barca galilaica, ascoltiamo già come una eco e una reminiscenza della gubernatio episcopale m . CIPRIANO, proprio nelle sue lettere indirizzate a Roma, si sforza di far suo il linguaggio nautico sacro, di cui ci si serviva volentieri nelle lettere che giungevano dalle rive del Tevere. Nella commovente autodifesa, che al tempo dello scisma di Fortunato egli indirizzò a papa Cornelio, spiega che gli assalti contro l'unità episcopale della Chiesa cartaginese venivano in ultima istanza dal diavolo: questi ha suscitato le tempeste marine, che minacciano la nave della Chiesa, poiché, quando si riesce ad eliminare il timoniere, allora il naufragio è inevitabile : « Ille qui Christo adversarius et Ecclesiae eius inimicus ad hoc Ecclesiae praepositum sua infèstatione persequitur, et gubernatore sublato atrocius atque violentius circa Ecclesiae naufragia grassetur » 112. Il simbolo viene applicato in maniera realistica anche quando Cipriano afferma che i cinque apostati consacrati dall'antivescovo veleggiarono con nave veloce alla volta di Roma, per diffamare il vescovo legittimo presso il papa : « Essi sono partiti con il loro carico di bugie alla volta di Roma, questi compagni di naufragio, come se dietro di essi non potesse veleggiare a sua volta anche la verità » 113 . La consapevolezza che Cipriano ha di se stesso si manifesta nella sua fierezza: a Cartagine, e questa è la Chiesa, c'è soltanto un timoniere ora, poiché l'unità di questa Chiesa è 111 112 113

Adversus Mardonem, 4, 9 (CSEL 47, p. 44.0, 1. 16-19). Epistola 59, 6 (CSEL 3, 2, p. 673, 1. 20 - p. 674, 1. 2). Epistola 59, 11 (p. 678, 1. 20s).

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L'ECCLÉSIOLOGIA

DEI

PADRI

l'unità di tutta la Chiesa, e ciò che avviene contro un vescovo, viene fatto a tutta la Chiesa. Ogni vescovo è sulla sua nave il magister navis inviato da Dio. Mai è venuto in niente ad un vescovo di R o m a di negarlo, per innalzare la propria sede. Papa Anastasio I, che è uno dei costruttori della dottrina del primato, durante i disordini suscitati dalla polemica di Origene, scrisse al vescovo di Milano e lo informò su ciò che Teofilo, vescovo di Alessandria, aveva fatto in questa questione così importante per la purezza della fede. Ma non si attribuisce il diritto di decisione, bensì loda la vigilanza del timoniere alessandrino : « Magister providus navis hora tempestatis et periculi magnani patitur animi iactationem, ne procellis atque asperrimis fluctibus navis elidatur in saxa. Pari animo vir sanctus et honorabilis Theophilus, frater et coepiscopus noster, circa salutis commoda non desinit vigilare, ne Dei populus per diversas Ecclesias Origenem legendo in magnas incurrat blasphemias » 1 1 4 . Tuttavia, nonostante il riconoscimento dei diritti dei vescovi e nonostante la gioia con cui è accettato il servizio della loro collaborazione sulla nave della Chiesa, nella scelta dei simboli nautici, che si riscontrano nelle lettere del papa, si percepisce una delicata sensibilità per la posizione unica del vescovo di R o m a : nello sfondo infatti c'è sempre la figura di Pietro, che nella Chiesa universale è il primo timoniere; e i vescovi, a cui le lettere erano indirizzate, non lo hanno contestato, dal momento che volevano restare nell'unità della navicuìa Petri. Dal punto di 114

Epistola 2, ι

(PL 20, 74A), JAFFÉ 276 M A N S I , V.

3, p . 945.

LA NAVICELLA DI PIETRO

847

vista della storia dello sviluppo del primato, tutto ciò diviene chiaro soprattutto all'inizio del quinto secolo, allorché gli imperatori orientali si misero a favorire l'ascesa della Chiesa episcopale della capitale situata sul Bosforo e dopo che dall'Oriente si levarono le tempeste delle eresie cristologiche. Chi è il timoniere responsabile, che manovra il manico del timone della nave di Pietro, per guidarla sicura attraverso ogni tempesta? Questa è la questione giuridica, contenuta nell'immagine simbolica, di cui ora cominciamo ad occuparci. In queste tempeste, R o m a diventa consapevole della sua posizione stabilita da Dio, il papa difende il suo posto sull'alta poppa della nave della Chiesa, ma sempre in m o d o da lasciare intatti i diritti dei vescovi. La situazione diventò incandescente nella controversia sui diritti di vicariato della diocesi di Tessalonica, ove Bisanzio e R o m a si urtarono a vicenda. Nel marzo del 422 papa BONIFACIO scrive a Rufo di Tessalonica un'ammonizione, affinché conservi il suo Vicariato sull'Illiria concesso da R o m a : infatti il beato Apostolo Pietro stesso si batterà come suo difensore. « Nolo perturbatione maris conciti terrearis. In nullo te turbo, in nullo penitus procella vexabit. N o n patitur ille sedis suae perire privilegium, te laborante, piscator. Omnis tumor fluctuum, omnis procella cessabit, eo favente, nisibus tuis, cui soli mare pervium fuit » U 5 . Con fine diplomazia e dommatica chiarezza, il Vicario del Papa viene designato come « collaboratore » di Pietro e del suo successore. Del tutto simile è il modo di esprimersi di una lettera con 115

Epistola 13, 1 (PL 20, 775 B). JAFFE, 363. M A N S I , V. 8, p. 754. -

C&. E. CASPAK, GeschicHte àes Papsttums, Tubinga 1930, ν. ι, ρ. 37tìs.

848

L'ECCLESIOLOGIA

D E I PADRI

cui, cinque anni dopo, papa SIMPLICIO concede al vescovo Zeno di Siviglia i diritti di Vicario papale. Zeno è degno dell'ufficio, perché, da buon pilota, sa guidare la navicella della propria Chiesa: «Plurimorum relatu comperimus, dilectionem tuam fervore Spiritus Sancti ita navis ecclesiasticae gubernatorem existere, ut naufragii detrimenta Deo auctore non sentiat » U 6 . Dall'Oriente si levano le tempeste dell'eresia e minacciano di affondare la nave della Chiesa. Papa CELESTINO è al suo posto con Cirillo di Alessandria e quando, dopo la grave crisi del Concilio di Efeso, le dottrine ereticali dell'infido pilota di Costantinopoli, Nestorio, furono sconfitte e la pace fu restaurata, una lettera piena di gioia giunge al nuovo vescovo della città imperiale orientale, che lo saluta come il timoniere della nave tanto gravemente minacciata·. « Ancora ti sbattono qua e là le onde sollevate da Nestorio e ti minacciano i flutti ammucchiati in alto e le tempeste. Resisti con ogni vigilanza e poni cura come maestro della nave che ti è stata affidata, nel migliore dei modi, per la salvezza di coloro che sono nelle tue mani. Calma di nuovo il mare, su cui navighi, abbi cura che la nave, da te guidata, mediante la tua arte, dopo tutte le tempeste, viaggi sicura ». Nestorio è affogato nel naufragio, poiché si arrogava l'ufficio di un pilota maestro. « Ma tu, prendi in mano il legno del timone della nave affidatati »: « Sume gubernacula notae tibi navis eamque, ut didicisse te a tuis prioribus novimus, rege. Obsiste undis, quas 118

Epistola 21 ( T H I E L , ρ. 213S). JAFFÉ, 590. M A N S I , V . 7, p . 972. -

E. CASPAR, Geschichte des Papsttums, Tubinga 1933, v. 2, p. 14 e p. 766.

LA NAVICELLA DI PIETRO

849

ille ventus, qui et a navi vectores abegerat, sed omnibus inimicus excivit, omni eam laterum cupiens compage dissolvere ». Ma anche in questo notevole riconoscimento del timoniere bizantino, il papa fa risuonare la dottrina di Pietro, l'unico timoniere di tutta la nave : « Segui quel pescatore, che con i piedi cammina sul mare, per poter giungere a Cristo nostro Signore » 117 . L'Oriente non ha mai voluto comprendere pienamente questo linguaggio delicato e fermo ad un tempo. Subito dopo il trionfo del potere magisteriale di Roma, che è contrassegnato dal Tomus dommatico di Leone e dal Concilio di Calcedonia, scoppia lo scisma di Acacio, primo annuncio della futura separazione. In Roma tiene il timone papa Felice II, e il suo magnanimo ispiratore è Gelasio, il futuro papa 118. Nel marzo del 483 parte la prima lettera per Acacio, tutta piena del sentimento romano per la grandezza del successore di Pietro, il quale sa che è a proposito della nave della Chiesa che sono dette le parole: Le porte dell'inferno non possono annientarla e quanto più violenta è la tempesta, tanto più alta sarà portata la nave. A questo punto la lettera adotta « un fiero linguaggio nuovo, con un sottotono minaccioso » 119. Il naufragio minac117

Epìstola 24 (PL 50, 547 B C ) . JAFFÉ, 387. M A N S I , V. 5, p. 269.

E. SCHWAKTZ, Ada Cotte, oec, 1, 2, p. 90, 1. 19-28. 118 Cfr. H. K O C H , Gelasius im kirchenpolitischen Oienst seiner Vorganger, der Pdpste Simplicius und Felix IH, in Sitzungsberichte der Bayrischen Akademie der Wissenschaften, Phil. hist. Klasse, v. VI, Monaco 1935. - H. R A H N E R , Kirche und Staat im fruiteti Christentum, Moncao i960, p. 222. - Cfr. W. HAACKE, Die Glaubensformel des Papstes Hormisdas im Acacianischen Schisma (Analecta Gregoriana, 20), R o m a 1939. P- 8, nota 33. "· E. CASPAR, Geschichte des Papsttums, v. 2, p. 28.

850

L ' E C C L E S I O L O G I A D E I PADRI

eia l'infedele timoniere della nuova R o m a : « U b i prospiciendum est, ne Ecclesiam, quae nullis potest obrui molibus procellarum, quicumque submergere nititur in huius saeculi pelago fluctuantem, ipse potius gubernatione salutari in profonda deiectus, illa praevalente, mergatur » 1 2 0 . La gioia era tanto più grande, per il fatto che dopo anni di apprensione la pace tra R o m a e Bisanzio poteva essere conclusa. Il 9 Luglio del 519, papa ORMISDA invia il suo primo scritto di saluto al successore episcopale dell'inglorioso naufrago Acacio e rafforza nel patriarca imperiale la coscienza episcopale: « Ricordati che sei il timoniere della nave, che ti fu graziosamente affidata da Cristo, e non ti far strappare di mano il timone della nave del Signore » : « Memento nunc clementer te adsignatae a Christo navis esse rectorem. Fac cogites diabolicae contumaciae spiritus quieti itineris secura turbantes, nec te lateant fluctus tempestatis incertae, quos evigili mente prospicias et erecta in Deum ratione compescas. Nulla tibi commissi negotii negligentia clavum dominicae ratis extorqueat » 121 . Quanto lealmente, e ad un tempo saggiamente, O r misda, il papa della classica teologia del primato 1 2 2 , sa applicare qui la simbolica della nave della Chiesa! Giovanni di Costantinopoli è effettivamente il signore sulla propria nave, ma (così bisogna intendere), soltanto su quella che Cristo gli ha affidato. E tuttavia la sua Chiesa è ratis dominica nel pieno senso della parola, 120

H.

Epistola 2, 7 (THIEL, p . 237). JAFFÉ 592. M A N S I , V. 7, p . 1028. -

RAHNER,

ivi,

p.

224S.

i" Epistola 80, 3 ( T H I E L , p. 880). Avellana, 169 (CSEL 35, p. 625, 1. 21-26). JAFFÉ, 820. CASPAK, V. 2, p. 1 , 1

163. HAACKE, ρ. 75.

Cfr. anche HAACKE, p . 122-150. A p . 2-8 p a r k del ruolo

importante esercitato dalla formula di Ormisda sul Concilio Vati­ cano I.

LA NAVICELLA DI PIETRO

851

appartenente alla stessa unica nave, che Pietro guida da R o m a . Cerchiamo ora di comprendere anche dal lato opposto lo sviluppo della consapevolezza del primato alla luce del nostro simbolo e cioè: nelle espressioni che parlano del posto speciale, del posto di guida all'interno della nave della Chiesa, come fu formulato spesso da parte di R o m a rivolgendosi al mondo cattolico. La controprova di ciò è la eco, che dalle Chiese episcopali risponde al timoniere romano riconoscendo i suoi diritti di capo; e proprio qui si trova la migliore dimostrazione in favore del primato giuridico. È questo comandare con piena consapevolezza dell'ufficio, è questo gioioso riconoscimento che sono precisamente il mistico άντιβάλλειν tra il vicario del timoniere Cristo e i suoi proretae episcopali, appello e controappello, comando e risposta dalla poppa alla prua della nave di Pietro 1 2 3 . N o n andiamo errati, quando consideriamo il bel capitolo navale presente nella lettera dello P S . - C L E MENTE come un'espressione del sentimento ecclesiale ro­ mano, il quale, al tempo di papa Callisto, viene già ad assumere la forma concreta di esigenza de facto del primato. Basterà aspettare soltanto qualche altro decennio e ciò che nella lettera di Clemente forse sembrava ancora un'allegoria non obbligatoria, nelle lettere del clero romano diventa chiaro linguaggio giuridico latino. Dopo la morte di papa Fabiano (250), mentre la sede era vacante, NOVAZIANO, a nome del clero romano, scrive a Cartagine una lettera riguar123

Cfr. la traduzione che abbiamo dato più sopra (p. 820) al-

Γ ά ν τ φ α λ λ έ τ ω della lettera dello PS.-CLEMENTE.

852

L ' E C C L E S I O L O G I A D E I PADRI

dante la disciplina penitenziale. In modo misurato e nella piena e ferma consapevolezza di parlare per tutta la Chiesa, vi vengono tracciate le linee direzionali. HARNACK ammirava la grandezza romana di questa lettera e il modo « in cui il clero romano teneva in mano il timone della Chiesa e delle Chiese, anche se gli mancava il vescovo » 124. È necessario, come è detto nella lettera al vescovo Cipriano, è necessario per la salvezza della Chiesa che la severità penitenziale venga regolata in modo unitario, nel ricevere i caduti è necessaria la « debita severitas divini rigoris » : « Quam qui remiserit, instabili rerum cursu erret semper necesse est, et huc atque illuc variis et incertis negotiorum tempestatibus dissipetur et quasi extorto de manibus consiliorum gubernaculo navem ecclesiasticae salutis inlidat in scopulos, ut adpareat non aliter saluti ecclesiasticae constili posse, nisi si qui et contra ipsam faciunt quasi quidam adversi fluctus repellantur et disciplinae ipsius semper custodita ratio quasi salutare aliquod gubernaculum in tempestate servetur » 125 . Come si vede, Roma ha saldamente in mano il timone della questione penitenziale, ed è esatto, quando E. CASPAR, a proposito delle righe appena citate della lettera, dice che in esse « la fermezza e la fierezza romana trovano una piena ed imponente espressione » 126 . Questo clero, da cui veniva scelto il papa, era informato del posto che, 124 Die Briefe des rò'mischen Klerus aus der Zeit des Sedivacanz im Jahre 350, in Theobgische Ahhcmdlungen C. Weizsàcker gewidmet, Lipsia 1892, p. 1-36. - Dogmengeschichte, Tubinga 1909, 4 ed., v. 1, p. 491. 125 N e l corpus delle lettere di CIPRIANO, Epistola 30, 2 (CSEL 3, 2, p. 549s)· 126 Geschichte des Papsttums, v. 1, p. 65.

LA NAVICELLA DI PIETRO

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secondo la tradizione primitiva, compete alla Chiesa romana, e, immediatamente dopo la frase riguardante il timone della salvezza ecclesiastica e dell'antica disciplina penitenziale, scrive : « Questa non è una decisione nuova, emessa ora per la prima volta, né un improvvisato mezzo di aiuto, a cui ora la prima volta avremmo fatto ricorso contro i cattivi. Al contrario, presso di noi è antica la severità, antica la fede, antica la disciplina, che è scritta, altrimenti l'Apostolo non avrebbe pronunciato su di noi una così alta lode con le parole : « La vostra fede è lodata in tutto il mondo » (Rom 1,18), se questa forza non avesse le sue radici già in quei tempi » 127. Non ci meravigliamo, quando incontriamo nuovamente questo linguaggio giuridico investe nautica negli scritti di Damaso: questo vescovo romano infatti è uno dei grandi nella storia del primato. È lui che ha reso classica l'espressione Sedes Apostolica, in uso sino ad oggi per indicare i diritti papali 128 , ed è lui (con un altro simbolo biblico, la cui storia meriterebbe di essere studiata) che conia per l'unità della Chiesa e delle Chiese l'indimenticabile espressione di « una sola stanza nuziale », in cui alla Chiesa di Roma spetta il primo posto 129. « Poiché è da qui che i diritti della comunità degna di onore vanno a tutte le Chiese » 13 °. "' Epistola 30, 2 (CSEL 3, 2, p. 550). 1M

Cfr. H . R A H N E R , Kirche uni Staat,, p . 105-107. - E. CASPAR,

Geschichte ies Papsttums, v. 1, p. 242S. 12! N e l terzo capitolo del Deaetum Celasianum, che fu edito dal Sinodo romano sotto Damaso nell'anno 3 82. Testo in E. VON D O B SCHUTZ, Das Deaetum Gelasianum in kritischem Text (Texte und U n t e r suchungen, 38, 3), Lipsia 1912, p. 7. - Cfr. E. CASPAR, Geschichte ies Papsttums, v. 1, p. 2473 e p. 598s. - H. R A H N E R , ivi, p. 109. 130

AMBROGIO, Epistola 11, 4 (PL 16, 946 A).

854

L ' E C C L É S I O L O G I A D E I PADRI

Egli interviene con forza nei disordini ereticali dei suoi giorni, soprattutto nelle questioni su Apollinare. Dietro richiesta dei chierici di Beirut, manda in Oriente una lettera che ci è stata conservata soltanto in greco: « Fa anche a noi il massimo onore, reverendi fratelli, che il vostro amore mostri il debito rispetto alla Sede Apostolica (τη αποστολική καθέδρα). Anche se il santo apostolo, stando in trono, ha insegnato, (καθεξόμενος έδίδαξε), soprattutto (τα μάλιστα) in questa santa Chiesa, allo stesso m o d o in cui noi dobbiamo mano­ vrare rettamente il timone affidatoci (τους ο'ίακας ίθ-ύνειν), tuttavia confessiamo di non essere all'altezza di questo onore. Ci sforziamo però in ogni maniera di poter giungere alla fama della sua santità » 1 3 1 . Q u e sta è la navicella di Pietro : quella in cui Cristo « sedette ed insegnò » (κα&ίσας έδίδασκεν Lue 5,3), quella in cui Pietro sedette e insegnò (καθ-εζόμενος έδίδαξε) e questa è la Cattedra apostolica di Damaso di R o m a . Dalla prua dell'unica nave egli insegna e guida le Chiese del m o n d o . Si vede ancora dalla lettera, con cui papa Innocenzo I nell'anno 401 annuncia la sua ascesa al Pontificato all'Oriente greco, quanto fosse corrente dovunque la simbolica nautica e quanto naturalmente il vescovo romano si considerasse come il pilota timoniere della Chiesa universale: egli sarebbe stato eletto dopo la morte di papa Anastasio, « ne eius Ecclesia sine rectoris gubernaculo remaneret » 1 3 2 . E come una eco di questa lettera, ciò che CRISOSTOMO nel 407, durante l'esilio, circondato da peste, 131 In TEODOHETO, Historia Ecclesiastica, 5, io (GCS TEODORETO' p. 295, 1. 7-10). JAFFE, p. 234. 132

Epistola

1

(PL 20,

464 D ) . JAFFE,

285.

M A N S I , V.

8, p .

750.

LA NAVICELLA DI PIETRO

855

fame e spade, scrive al vescovo di R o m a , unico rifugio del diritto ecclesiastico in mezzo al dispotismo statale, al quale papa Innocenzo aveva resistito invano nel caso della tragedia del vescovo costantipolitano. Ora assume significato politico ecclesiastico ciò che Boccadoro aveva predicato una volta a proposito di Pietro il pescatore e della sua navicella: lassù, nell'antica R o m a , siede al timone l'uomo che solo ha diritto di dirigere la nave di tutta la Chiesa attraverso le onde minacciose. Ciò che gli scrive il proscritto Crisostomo è più che retorica, è la più profonda convinzione del fedele u o m o di Chiesa : « I buoni timonieri lo imitano sempre e sono continuamente vigili, quando le onde si alzano, quando il mare si gonfia, le acque spumeggiano e la notte profonda irrompe ». L'immutato amore e cura del papa è come il molo protettore del porto, in cui la navicella della sua vita, sferzata dalla tempesta, sta al riparo: l'attaccamento del papa al diritto è per il vescovo perseguitato « m u r o e sicurezza e porto resistente alla tempesta», τοϋτο ήμΐν τείχος, τοϋτο ασφάλεια, τοϋτο λιμήν ακύμαντος 1 3 3 . Ancora una volta: qui non si tratta di semplice retorica non impe­ gnativa ο di linguaggio immaginoso, ma siamo nel campo di quelle solenni confessioni del primato della Sede Apostolica, che sempre, nei periodi di pericolo politico ecclesiastico, dall'Oriente si dirigevano verso R o m a . Durante le tempeste della medesima tirannia civile di cui cadde vittima il Crisostomo, un vescovo

133 PG 52, p. 535 B. MANSI, V. 3, p. 1113S. Pei un cauto apprez­ zamento di queste testimonianze dei vescovi orientali sul primato di Pietro, cfr. CHR. BAUR, Johannes Chrysostomus uni seine Zeit, Mo­ naco 1929, v. 1, p. 29OS.

856

L'ECCLESIOLOGIA DEI

PADRI

orientale così scrisse al papa, dopo gli orrori del latrocinio dì Efeso : « La sede Apostolica di Roma sin dall'inizio ha avuto cura di difendere colui, a cui viene fatta ingiustizia » 134 . Ciò in linguaggio piano e senza immagini, è la stessa cosa che, con simbolo nautico, aveva voluto dire il Crisostomo, quando aveva chiamato la Chiesa di Roma il porto sicuro dalle tempeste. Quanto sia giusta questa spiegazione canonica giuridica e dommatica, che attribuiamo al simbolo, appare chiaramente alla fine del tempestoso quinto secolo, quando il genio politico ecclesiastico di papa Gelasio riassume la dottrina del primato: è lo sviluppo e la chiarificazione della dottrina ciprianea e culmina nell'immagine, parimenti già impiegata da Cipriano, di Roma come porto sicuro della nave della Chiesa 135. « Dodici erano gli Apostoli, è certo, e tutti erano muniti della stessa dignità e dello stesso merito (paribus mentis parique dignitate suffulti). Eppure: sebbene tutti fossero illuminati dalla medesima luce spirituale, tuttavia fu volontà di Cristo che soltanto uno di essi fosse il capo (princeps) e con meravigliosa disposizione lo guidò verso la Signora dei popoli, verso Roma: affinché Cristo qui, nella più degna, nella prima tra tutte le città, guidi Pietro il più alto locato, il primo. A questa Sede, che egli stesso ha benedetto, egli concede con promessa divina che le porte dell'inferno non prevarranno mai su di essa e che in tal modo sia il più sicuro dei porti per tutti gli uomini, che si trovano in pericolo marino (ut a portis inferi numquam prò Domini promissione vin-

134 A cura di T H . MOMMSEN, Notes Archiv li (1886) p. 364. Cfr. H. R A H N E R , Kirche una Staat, p. 230. »« Epistola 68, 3 (CSEL 3, 2, p. 746, 1. 8-12).

LA NAVICELLA DI PIETRO

857

catur, omniumque sit fluctuantium tutissimus portus). Chi sta all'ancora in questo porto può contare su un approdo beato ed eterno (beata et aeterna statione gaudebit) » 136 . Anche papa NICOLA I, facendo sua la dottrina e il vocabolario gelasiano, ha esaltato la Chiesa romana come l'unico porto salvifico in mezzo ad ogni tempesta ; verso di essa tutti i vescovi piloti guidano i minacciati vascelli, poiché qui è la Cattedra di Pietro : « Sedes illius cui divino oraculo dictum est: tu aliquando conversus confirma fratres tuos » 137. Il pensiero cattolico dei fratelli nell'episcopato era così cosciente del potere giuridico del vescovo di Roma espresso in queste immagini, che, nei turbini e nelle tempeste di quei secoli agitati, persino i capi di opposti partiti si rivolgevano alla Sede di Pietro per consiglio ed aiuto; anzi, c'è ancor dì più: vescovi coraggiosi ο semplici chierici, spinti da apostolica franchez­ za, si permettevano di difendere la minacciata unità della navicella di Pietro, quando il pilotaggio della poppa romana sembrava loro troppo debole. Così due seguaci della cristologia nestoriana moderata si rivolgono a papa Sisto III (433) per protestare contro il simbolo dell'unione di Cirillo. Quando E. CASPAR 138 afferma che questo « ardente grido di aiuto rivolto a Roma » non avrebbe nulla a che vedere con la dottrina papale di Pietro, egli trascura precisamente l'espressione determinante della lettera. I vescovi dì Tiana e Tarso, che cercavano aiuto, riconoscono apertamente 13

' Tractatus 2, io (THIEL, p. 530). Lo stesso concetto già in

SISTO III, Epistola 1, 4 (PL 50, 583 A ) . JAFFÉ, 390. M A N S I , V. 5, p .

375l3

' Epistola 28

138

(PL 119,

813). JAFFÉ, 2716.

Geschichte des Papsttums, v. 1, p. 418.

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L ' E C C L E S I O L O G I A D E I PADRI

che il vescovo di R o m a è il pilota di tutta la nave della Chiesa e che egli « preserva il mondo dal naufragio » in mezzo ai pericoli, tesi dall'astuzia dei « pirati »: « Nostrum quidem est, qui triplices multiplicesque patimur tempestates et paene in piratas incidimus, ad eum clamare, qui a Deo productus est gubernator » 1 3 9 . Il peso di questa dommatica che si nasconde nel simbolo del pilota unico e supremo della navicella di Pietro doveva rivelarsi in quei frangenti tempestosi, in cui la nave venne minacciata da discordia e debolezza dall'interno. Nei disordini, che si ebbero in R o m a tra il 499 e il 501 dopo l'elezione di papa SIMMACO, si voleva trarre in giudizio il timoniere romano dinanzi al foro di un potere giudiziario sinodale ο al foro p o ­ litico. C o n questo ammutinamento veniva sollevata la questione fondamentale di tutto l'ordinamento giuri­ dico ecclesiastico. Il papato trovò un difensore in E N NODIO DI PAVIA, che prese parte al Sinodo romano del 501 in qualità di accompagnatore del vescovo Lorenzo di Milano: in lui infatti la dottrina gelasiana di Pietro era ancora viva. Dalle vette retoriche della sua confutazione di un libello di quei giorni, che metteva in ridicolo il papa e il confuso disordine della nave di Pietro, egli presenta il Principe degli Apostoli che si leva a parlare per difendere la navicella, sulla quale tutti sghignazzano : « Antiquo adhuc utor reti post hominem, et inrisam a sapientibus saeculi cumbulam non reliqui; illa me per m u n d i freta sustentat, ditat probatum in captione hominum rete, quod cernitis » 140 . Allo stesso "» E. SCHWARTZ, Ada cerne, oec, v. 1, 4, p. 145, 1. 28-30. M A N S I , v. 5. p. 893. 110 Libellus prò synodo (= Epistola 49) MG Auct. antiqu. VII, p. 63, 1. 8-10. CSEL 6, p. 319, 1. 13-16).

LA NAVICELLA DI PIETRO

859

tempo, dalla più famosa bocca dell'episcopato restato fedele a R o m a , viene una difesa del primato papale, la cui dignità era intaccata in Simmaco; è in questa difesa che si trova la famosa espressione riguardante l'unità giuridica tra papato ed Episcopato, che sarà ripresa nel Concilio Vaticano I : « N o i sentiamo che lo stato di tutti vacilla, quando lo stato del Capo supremo {Princeps) viene scosso sotto i colpi delle accuse. Se negli altri vescovi qualcosa si mette a vacillare, si può sempre riparare; ma quando il papa della Città eterna viene posto in discussione, allora si vedrà andar vacillante non soltanto un vescovo, ma l'ufficio stesso episcopale ». E AVITO DI VIENNE che ha coniato queste parole. Per

la nostra storia però è significativo leggere anche il contesto in cui si trovano: poiché è proprio lì che il significato dogmatico della simbolica della nave di Pietro diventa più immediatamente afferrabile. Il papa è e rimane l'unico gubemator e magister della nave di Pietro e al di sopra della sua parola autoritativa non c'è alcun altra istanza terrena. Il testo, le cui singole parole sono spiegate dalla storia del simbolo esposta precedentemente, suona così: « At si papa urbis vocatur in dubium, episcopatus iam videbitur, non episcopus, vacillare. Notis bene, inter quas haeresum tempestates, veluti ventis circumflantibus fìdei puppi ducamur. Si nobiscum huiuscemodi pericula formidatis, expedit, ut gubernatorem vestrum participato labore tueamini. Alias autem, quae ultio est, si nautae sine magistro fuerint » 1 4 1 . Questo appello all'ordinamento giuridico ecclesiastico acquista maggior significato per il fatto che è indirizzato a laici influenti, ai senatori 141

Epistola 34 (MG Auct. antiqu. VI, 2, p. 6$, 1. 4-8).

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L'ECCLÉSIOLOGIA DEI PADRI

Fausto e Simmaco, ossia a quei « passeggeri » nella nave della Chiesa, che - per usare l'immagine della lettera di Clemente - « debbono restare seduti ai loro posti calmi e ordinati»; nessun dubbio che, in ultima analisi, con ciò si intendeva parlare del potere politico che, in Bisanzio e nella regina Teodorica, si arrogava il regime della Chiesa. Eppure: dalla zona dei semplici marinai, nelle ore del pericolo marino, possono levarsi anche appelli verso la poppa romana del timoniere, appelli che non risuonano inascoltati, quando sono espressi da vera preoccupazione per la Chiesa. Qualche decennio più tardi, la nave della Chiesa, guidata dal debole papa Vigilio, va attraverso le gole delle onde, e l'Occidente, di per sé così fedele al papato, si crede per lungo tempo autorizzato a protestare scismaticamente contro la politica del tentennante Vigilio nella questione dei Tre Capitoli. Nell'Italia settentrionale soprattutto questo rifiuto, nato da un amore adirato, dura sino all'inizio del settimo secolo; ed è stato il grande monaco irlandese COLOMBANO, che ha indirizzato al papa Bonifacio IV uno scritto ammonitore, pieno del riconoscimento fondamentale del primato, ma anche pieno di schietta critica, in cui si trova l'espressione : « Vigila, quaeso, papa, vigila, et iterum dico, vigila: quia forte non bene vigilavit Vigilius ». Nella medesima lettera egli si rivolge al papa come mistico timoniere e pilota di poppa, come vigile marinaio della navicella di Pietro: «Ego enim libere eloquar nostris utpote magistris ac spiritualis navis gubernatoribus ac mysticis proretis dicens: Vigilitate, quia mare procellosum est... totius elementi nimirum undique consurgentis et undique commoti mysticae navis naufragium in-

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LA NAVICELLA DI PIETRO

tentat. Ideo addo tumidus nauta clamare: vigilate, quia aqua intravit in Ecclesiae navem et navis periclitatur » 142. Non è affondata questa nave di Pietro idonea alla navigazione, le cui tavole già il predecessore di Bonifacio, il grande Gregorio, udì scricchiolare, quando la tempesta longobarda e le pretese bizantine la sbatterono qua e là e fecero credere che la fine dei tempi fosse venuta 143. Nel mezzo millennio che va dal primo al settimo Gregorio, la Chiesa è stata gettata attraverso le gole delle onde ed è stata sollevata a superbe altezze; ma fu sempre la sicurezza di giungere in porto, che diede al timoniere romano animo e coraggio per resistere, nella tempesta e nella calma, sulla poppa della cattedra papale. E così anche la storia politico-ecclesiastica del nostro simbolo, come quella della sua interpretazione esegetica, giunge nel primo e nell'alto medioevo a quell'applicazione alla nave di Pietro della Chiesa Romana, che nelle fonti di quel periodo ha trovato una espressione così immaginosamente bella e così profondamente dommatica, oggi ancor viva nel nostro pensiero, per altri versi così spoglio di immagini, quando parliamo della barca di Pietro. Della santa Madre, la Chiesa di Roma, Gregorio VII parla come di navicella quasi naufraga e lasciata in balia di ogni tempesta, in mezzo ai temporali della lotta delle investiture 144. Suona amaramente tragico, quando anche 142 Epistola Cfr. per ciò, H. Friìhmittel alter, 143 Epistola 144

5, 2 (MG Epistolae III, p. 171S.; PL 80, 275 AB). VON SCHUBERT, Geschichte der christlichen Kirche im Tubinga 1921, p. 2125. 1, 4 (PL 77, 447 A).

Reg. I, 25 (PL 148, 309 C ) . JAFFÉ, p. 4796. - E. CASFAH, Das

Resister Gregors VII., Berlino 1920, p. 42, 1. 28-33. -

Re

g-, I> 42 (PL

148, 322 D ) . JAFFÉ, 4819. CASPAR, p. 64, 1. 31-33. - Reg., I, 148, 320 D ) . JAFFÉ, 4813. CASPAR, p. 61, 1. 29-32.

39

(PL

862

L'ECCLESIOLOGIA DEI

PADRI

l'antipapa imperiale WIBERTO prende le armi traditrici contro Gregorio con le parole : « Hac itaque necessitate compulsi, ne beati Petri navicula tot pertubationum fluctibus et paene ad naufragium discrimen inflexa laberetur, ad arma nos convertimus » 1 4 5 . Imperatore e antipapa sono affondati nel naufragio, ma la nave del successore di Pietro naviga verso il porto. INNOCENZO IH lo ha annunciato dalla vetta del potere occidentale del papato, non soltanto in quella lettera piena di orgogliosa gioia per la vittoria, con cui abbiamo conclusa la prima parte di questa storia, ma anche durante le pericolose tempeste, che gli eretici del suo tempo preparavano alla nave di Pietro : « Anche se la navicella del Pescatore viene trascinata qua e là dai flutti marini e percossa ovunque dalle tempeste sferzanti, essa confida tuttavia nella protezione di Colui che sollevò dal profondo Pietro che camminava sulle onde, e piena di sicurezza fa assegnamento sulle parole: Le porte dell'inferno non supereranno la Chiesa » 146 . Infatti questa nave è, nello stesso tempo, la sposa del divin pilota Cristo, l'unica imbarcazione della salvezza eterna: per quanto gli imperatori e gli antipapi si rallegrino della loro apparente vittoria, soltanto la Chiesa vince. Nel bel mezzo della lotta contro la strapotenza del Barbarossa e contro l'antipapa imperiale, Alessandro III si affida alla parola del Signore, che ha promesso alla Chiesa : « Io sono con voi sino alla fine del mondo ». « Procul dubio Ecclesiam suam in suo statu et ordine, licet ad instar naviculae Petri fluctuare aliquando videatur, perpetuo faciet permanere. Christus, auctor et cal4s 14e

Epistola s (PL 148, 833 B). JAPPÉ, 5330. MANSI, V. 20, p. 596. Reg., VII, 76 (PL 215, 358 A). POTTHAST, 2229.

LA NAVICELLA DI PIETRO

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put Ecclesiae, eam veluti unicam sponsam suam. p r o vida gubernatione tuetur et navcm egregii piscatoris, licet saepe et saepius quatiatur a fluctibus, non permittet naufragium. sustinerc » 147. Mentre il medioevo terminava tra le tempeste e papa Bonifacio Vili ancora una volta riassumeva l'insegnamento della verità del primato della Chiesa Romana, nell'atrio di San Pietro Giotto nel 1208., per incarico del cardinal Stefaneschi, dipingeva la sua immortale navicella 14S . Ancor oggi l'immagine può essere veduta come un prezioso saluto proveniente dal medioevo, in mezzo allo sfarzo barocco delle generazioni posteriori. Ciò che essa vuol dire, lo ha detto al mondo, in nome di papa Bonifacio Vili, un altro cardinale negli anni in cui essa veniva eseguita. Oggi come sempre quelle parole si possono applicare al vescovo, che ha la sua cattedra in San Pietro e di lì dirige la nave del santo pescatore del lago di Genesareth: « Nella Chiesa, che è la nave di Cristo e di Pietro, c'è un solo timoniere e un solo capo, i cui ordini debbono essere obbediti da ognuno » 149 .

147

Epistola 1 (PL 200, óy B C ) . JAFFÉ, 10584.

148

Cfr. C. V I T Z T H U M e W. F. VOLBACH, Die Molerei uni Plastik

des Mittelalters in Italien (Handbuch der Kunstwissenschaft), Potsdam 1924, p. 258S. - C. H. WEIGFXT, Giotto. Des Meisters Gemàlde (Klassiker der Kunst in Gesamtausgaben, 29), Stoccarda 1925, p. Xlls., riproduzione I. Quivi, a p. XIII, anche la riproduzione della Navicella di Andrea da Firenze nella cappella spagnola di S. Maria Novella in Firenze. - Su di una moneta di papa Niccolò V è riprodotta una nave, con il papa che siede al timone tenendo in mano una bandiera crociata, e la scritta dice: Ecclesia. Riproduzione nel Lexikon fiir Theologie u. Kirche (1935), v. 7, col. 588. 149 II cardinale di Porto nel discorso in difesa di Bonifacio Vili (agosto 1302). Testo in C. H. VON HEFELE, Conciliengeschichte, Friburgo 1890, v. 6, p. 342.

L'ARCA DI NOÈ COME NAVE DELLA SALVEZZA

La dottrina cLom.rn.ati.ca dei Padri della Chiesa, espressa nel simbolo della nave e soprattutto nel simbolo della navicella di Pietro, trapassa ora nella ricca storia del paragone tra l'arca di Noe e la Chiesa 1. Quanto siano vicine le due immagini ci è noto; il 1 Tra la più importante, e soprattutto più recente bibliografia sulla teologia e l'archeologia dell'arca di N o è cfr. F. X. KEAUS, Realenzyklopàdie der christlichen Alterttimer, Friburgo 1886, v. 2, p. 499501. - C. M. KAUFMANN, Handbuch der christlichen Archàologie, Pad e r b o m 1922, 3 ed., p. 301-303. - Realenzykìopddie f. Antike u. Christentum, 1950, v. 1, p. 597-602 (FR. SCHMIDTXE). - E. PETERSON, Das Schiff als Symbol der Kirche in der Eschatologie, in Theol. Zeitschrifl (Basilea), 6 (1959) p. 77-79. - IDEM, Friihkirche, Judentum und Gnosis, Friburgo 1959, p. 92-96. - K. GOLDAMMER, Das Schiff der Kirche. Eifi antiker Symbolbegriff aus der politìschen Metaphorik in eschatologischer und ekklesiologischer Umdeutung, in Theol. Zeitschrifl (Basilea) 6 (i95°) p· 232-237. - IDEM, Navis Ecdesiae. Eine unbekannte altchristiiche Darstellung der Schiffallegorie, in Zeitschtifi f. d. ntl. Wissenschaft 40 (1941) p. 76-86. - D A C L 1 (1907) 2709-2732, Arche. - D A C L XII ( I Q 35) 1397-1400, Noe. - D. FORSTNEH, Die Welt der Symbole, Innsbruck, 1961, p. 542S. - J . FINK, Noe der Gerechte in der friihchristlichen Kunst, Miinster 1955. - J. DANIÉLOU, Théologie du Judéo-Christianisme, Tournai 1958, p. 317-339. - IDEM Les Symboles chrétiens pritnitifs, Parigi 1961, p. 65-76: Le navire de l'Eglise. - IDEM, Sacrametttum futuri, Parigi 1950, p. 55-94. - IDEM, Déluge, Baptème, Jugement, in Dieu

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PADRI

raffronto tra la navicella di Pietro e l'arca di Noe era già presente nella teologia dei Padri, quando parlavano della necessità della Chiesa in ordine alla salvezza2. Cercheremo di spiegare i caratteri fondamentali della teologia simbolica dell'arca di Noe come esemplare della Chiesa quale unico messo salvifico. A questo scopo è necessario rifarci, come già GIROLAMO a suo tempo, alla polemica, cosi importante per la storia dei dommi, vivant 8 (1947) p. 97-112. - H. U. VON BALTHASAR, Sponsa Verbi, Einsiedeln 1961, p. 225SS. - L. B U D D E , Die retiende Arche Noes, in Rivista di Archeologia Cristiana 32 (1956) p. 41-58. R. H O O Y M A N , Die Noedarstellung in der Jrtihchristlkhen Kunst, in Vigiliae Christianae 12 (1958) p. 113-135. - H. DE LUBAC, Exégèse Medievale, Parigi, 1959, v. 1, 2, p. 463SS; Parigi 1961, v. 2, p. 317-328 (vers. ital. R o m a , 1962). - G. STRECKER, Das Judenchristentum in den Pseudokletnentinen, Berlino 1958, p. 105S; p. 113S. - A. PARROT, De'luge et Arche de Noe, Neuchàtel 1952. - P. LUNDBERG, La Typologie baptismaìe dans Vancienne Eglise, Lipsia-Uppsala 1942. a Cfr. P S . - A M B R O G I O , Sermo 37, 5 (PL 17, 678). Lo stesso discorso si trova anche sotto il n o m e di Massimo di Torino come Sermo 94 (PL 57, 722) : « Questa nave di Pietro galleggia sulle alte onde, in modo che nell'affondamento del mondo, si salva incolume tutto ciò che essa prende su di sé. La prefigurazione di questa nave possiamo vederla nell'Antico Testamento. C o m e infatti l'arca di Noe, nel naufragio del m o n d o , conservò incolume tutto ciò che essa prese su di sé, così la Chiesa di Pietro, quando il m o n d o brucerà, presenterà incolume a Dio tutto ciò che essa conserva e protegge. Quando il giudizio sarà passato, Cristo porterà alla Chiesa di Pietro la gioia della pace ». - Cfr. PS.-AMBROGIO, Commento all'Apocalisse, 3, 6 (PL 17, 814S). - CRISOLOGO, Homilia 163 (PL 52, 628s): N o è e Pietro sono i padroni della nave dell'ultima epoca (yectores novi saeculi). - Il paragone tra N o è e Pietro riceve nel medioevo un significato politico. Cfr. PS.-ISIDORO

(PL 130,

191 A). - INNOCENZO III

(PL 215, 278 C). -

Ancora in un m o m e n t o di altissima emozione politica, BONIFACIO Vili si richiama, nel suo scritto al re francese, all'immagine dell'arca: « Mediante il battesimo tu sei entrato nell'arca del vero Noe, fuori della quale nessuno verrà salvato, ossia nella Chiesa cattolica, questa unica sposa di Cristo, in cui il vicario di Cristo e successore di Pietro detiene il primato » (Cfr. J. HEFELE, Conciliengeschichte, v. 6, p. 325 ; Bullarium Magnum, v. 9, p. 121).

L'ARCA DI N O È COME NAVE DELLA SALVEZZA

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suscitata contro l'ecclesiologia dei vescovi, che combattevano fanaticamente adunati attorno a Lucifero di Cagliari. Essi cercavano di fondare la loro dottrina della salvezza nella Chiesa, settariamente unilaterale, richiamandosi all'arca di Noe. Gerolamo, che conosce il mondo del simbolismo dell'arca di Noè come esemplare della Chiesa con le sue numerose applicazioni tipologiche, scrive: « Dies me deficiet, si omnia arcae sacramenta cum ecclesia componens edisseram » 3. In una situazione simile a questa, nella lotta contro il rigorismo dei Donatisti in Africa, AGOSTINO scrive : « Nessuno di noi dubita, che con l'arca di Noe, senza menomare la fede nei fatti narrati, è anche presignificata la Chiesa. Ciò potrebbe certamente sembrare a qualcuno come una intromissione del pensiero puramente umano, se l'Apostolo Pietro non avesse già accennato alla stessa cosa nella sua lettera » 4. E in questo contesto narra della predica di un vescovo donatista in Ippona, il quale difende la sua dottrina dell'invalidità del battesimo fuori della Chiesa richiamandosi al fatto che l'Arca fu resa impermeabile dal di fuori con pece 5 . Da questi due esempi desunti dalla storia del domina del IV secolo si vede chiaramente sino a che punto la spiegazione tipologica persino di piccole allusioni contenute nel racconto della Genesi porgesse l'occasione per esprimere una convinzione dommatica già da tempo fermamente stabilita dalla tipologia. Ancora Lutero nel 3

Dialogus adversus Luciferianos, 22 (PL 23, 176 C ) . De untiate Ecclesiae, 5, 9 (PL 43, 397). - Questa applicazione di iPet 3,20 alla Chiesa si trova anche in GEROLAMO, Adversus Iovinianum, 1, 17 (PL 23, 236 B). Cfr. Fu. J. D O L C E » , SO! Salutis, Munster 1925, 2 ed., p. 273. 6 PL 43, 397S. - Cfr. CIPRIANO, Epistola 73, 21 (CSEL 3, p. 759): « Salus extra Ecclesiam non est ». 4

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suo opuscolo sul battesimo dell'anno 1523 esprimeva nella seguente preghiera la sua dottrina del battesimo e della Chiesa, conforme al pensiero della teologia medievale, che a sua volta si era formata sulla teologia simbolica dei Padri della Chiesa : « Onnipotente, sempiterno Dio, che con il diluvio universale hai annegato il mondo incredulo e, secondo la tua grande misericordia, hai salvato il credente Noe... hai santificato e istituito il Giordano e tutte le acque mediante il beato diluvio ... affinché mediante questo salutare diluvio venga inondato e sommerso ciò che (nel battezzato) è contratto da Adamo ... venga separato dal numero degli infedeli, conservato asciutto e sicuro nell'arca della cristianità » 6. Nella nostra trattazione studieremo più da vicino le origini della simbolica dell'arca seguendo lo schema, che già sta alla base della più antica teologia del II secolo : la salvezza ci viene elargita mediante « legno ed acqua ». Ciò significa che l'acqua del battesimo è divenuta salvifica mediante il legno della croce; viceversa: il diluvio è acqua mortifera ed allo stesso tempo conserva la vita nel legno dell'arca. Nelle ricerche più recenti si è giustamente rilevato che il simbolismo del1 arca ha la sua origine già nella teologia del tardo giudaismo, in cui Noe e la sua famiglia vengono intesi come esemplari del « resto di Israele »7, e, per conse• Citato da P. LUNDBERG, La typologie baptismale, p. 1, nota 1. Eccli 44, 17: «Noè il giusto fu trovato perfetto e al tempo dell'ira egli divenne denaro di riscatto. A causa di lui un resto della terra sopravvisse e a causa del patto fatto con lui il diluvio cessò ». Per la teologia del « resto di Israele », che non possiamo indugiarci ad esporre ulteriormente e che tuttavia, a nostro avviso, è di somma importanza per la ecclesiologia della Chiesa primitiva, cfr. ThWNT, 7

L'ARCA D I N O È COME NAVE D E L L A SALVEZZA

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guenza, l'arca rappresenta l'esemplare della comunità dei salvati sul « tenue legno » 8 . Noi siamo convinti, che nell'antica teologia cristiana l'arca non sia stata tanto il tipo del legno della croce e del battesimo, ma sin dall'inizio sia stata primariamente il tipo della Ecclesia9. La precedente trattazione sulla nave costruita col legno della croce ci ha mostrato quanto ci mancasse poco all'identificazione tra arca e Chiesa e ad estendere il paragone dell'arca all'acqua battesimale e al legno della croce. Solo a partire dal tipo arca=Chiesa comprendiamo il significato che questo simbolo ebbe nella storia del dogma e nelle polemiche intorno alla dottrina ecclesiastica della penitenza e della salvezza durante il terzo e quarto secolo, come già abbiamo cercato di indicare nel capitolo sulla « Tavola nel naufragio ». Dopo un breve studio sull'origine di questa teologia simbolica nelle ultime fonti giudaiche esporremo in primo luogo la teologia della Chiesa antica, in cui l'arca è il modello della comunità ecclesiale presa nel suo significato salvifico, vedremo poi i rapporti dell'arca con il legno della croce della salvezza e con l'acqua del battesimo, l'arca insomma come modello della Chiesa, come grembo materno della vita per la generazione ventura, che promana da Noè come da un nuovo Adamo e trova il suo vertice nella storia v. 4, p. 200-221. - H. H A A G , Bibel-Lexikon, Einsiedelti 1951, p. 1427. J. DANIÉLOU, Sacramentttm Futuri, Parigi 1950, p. 6os. - R. DE V A U X , Le reste d'Israel d'après les prophètes, in Revue Biblique 42 (1933) p. 526-539. - G. VON R A D , Theologie des Alien Testamentes, Monaco 1962, v. 2, p . 34S.; p . 175S. s Sap 10,4. 8 F. J. DOLGBR, Sol Salutis, p. 273, nota 2, dice che il paragone tra arca e Chiesa è una « interpretazione posteriore ». Cfr, LTJNDBERG, p. 86-90.

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della salvezza, nel Noe della nuova generazione, che è Cristo. Soltanto descrivendo in modo ordinato la dottrina simbolica della Chiesa, della croce e del battesimo comprendiamo l'influsso che ebbe nella storia dei dogmi la dogmatica patristica della salvezza e della Chiesa che si cela dietro le immagini del racconto genesiaco. A noi pare cosa più importante mettere in luce l'influsso di questa simbolica nella storia del dogma, che non limitarci a raccogliere testi patristici generici.

i. L'ARCA DI NOÈ NELLA TEOLOGIA GIUDEO-CRISTIANA DEI PRIMI TEMPI Per comprendere il m o n d o di immagini e di convincimenti, da cui siamo in grado di far rivivere primordi cristiani della simbolica dell'arca e della Chiesa, prendiamo le mosse da una « Meditazione sull'arca di N o e » del tardo giudaismo, sino ad oggi non ancora valorizzata troppo. Questa strana tradizione nasce dalle parole di Gen 8,4 (LXX): «L'arca si adagiò sui monti dell'Ararat » (Volg. : montes Armeniae). Rifacendosi a Berossos e ad altre fonti giudaiche, GIUSEPPE FLAVIO ci informa : « Il luogo dove l'arca si posò, dagli Armeni è chiamato Apobaterion, ossia Uscita, e sino ad oggi vi si mostrano i resti di legno ( λ ε ί ψ α ν α ) » 1 0 . Inoltre ricorda che già Nicola di Damasco parlava dei λείψανα τ ω ν ξύλων dell'arca e che si usavano dei frammenti della pece dell'arca come mezzi magici benefici (προς τους αποτροπιασμούς). Queste reliquie dell'arca era10

Antiquitales, 1, 3, 5 (NIESE I, p. 2iss).

L'ARCA DI N O È COME NAVE DELLA SALVEZZA

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no note anche all'antica teologia cristiana. Ce ne informa TEOFILO DI ANTIOCHIA: «Gli avanzi dell'arca vengono mostrati sino ad oggi sui monti dell'Armenia » n . Un frammento probabilmente non autentico del commento di IPPOLITO DI ROMA al libro della Genesi dice che l'arca era approdata sul monte di Kardu e che « nessun uomo sa cosa ci sia sul monte, eccetto che sulla cima, ove c'è ancora una parte dell'arca di Noe » 12 . Anche IPPOLITO lo ha appreso dalle Antichità di Giuseppe : « Le dimensioni e i resti dell'arca vengono mostrati ancor oggi sul monte, che si chiama Ararat » 13. Per il predicatore CRISOSTOMO, le reliquie dell'arca sui monti armeni sono come un simbolo reificato dell'ira divina che perdura : « Non son forse le reliquie dell'arca conservate sino ad oggi sul monte per essere nostro ammonimento? » 14. La stessa cosa predica anche BASILEIO DI SELEUCIA 1S e GEROLAMO menziona le reliquie

(vestigia) dell'arca sull'Ararat16. In qual modo questa conoscenza della strana archeologia della tarda tradizione giudaica abbia influenzato l'esegesi mistica del medioevo, lo vediamo in RABANO MAURO, che cita alla lettera il testo di Giuseppe 17. In BEDA questa strana storia diventa un modello della salita ascetica de11

Ad Autolycum, 3, 19 ( O T T O Vili, p. 232).

12

GCS

13

IPPOLITO

I,

2,

91,

23S.

-

90,

29.

Elenchos, io, 30 (GCS IPPOLITO III, p. 286, 1. i6s). 14 De perfetta cantale, 7 (PG 56, p. 288 A). 15 Oratio 6, In N o e 4 (PG 85, 100 B). 10 De situ et nominibus lacorum Hebraicorum, 1 (PL 23, 859 A). Secondo la leggenda armena, Giacomo di Nisibi nei suoi viaggi missionari portò con sé una reliquia dell'arca. Cfr. E. T E R - M I N A S SIANTZ, Die armenische Kirche ( T U N.F. XI, 4, 9 ) ; cfr. J. FINK, Noe der Gerechte, Miinster 1955, p. 98, nota 453. 17 Comment. in Genesim, 2, 8 (PL 107, 519S).

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L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

gli uomini, che nell'arca della Chiesa giungono all'eterno approdo attraverso la navigazione della vita: « Ma l'arca andò a posarsi sui monti di Armenia, allo stesso modo in cui l'uomo, che disprezza la tentazione dello splendore mondano e in questo pellegrinaggio plasma la sua vita, si accosta in spirito alla gioia celeste » 18 . L'immagine allegorica del riposo finale è popolare nel medioevo : « Arca requievit in montibus Armeniae, et sancta Ecclesia requiescet in sublimitate vitae aeternae » 19 . La storia antica della simbolica cristiana dell'arca di Noè può essere illuminata ancora da un altro lato. I cristiani appartenenti alla cultura ellenistica erano proclivi a pensare al racconto del diluvio della mitologia greca, alla storia di Deucalione e della sua salvezza in un'arca 20. Sappiamo da ORIGENE che il motteggiatore Celso si divertiva sulla « strana cassa, che conteneva tutto » e definiva il racconto biblico di Noè come una 18 Hexaemeron, 2 (PL 91, 99 B ) . " P s . - U c o Di S. VITTORE, Allegatine in Vetus Testamentum, 1, 13 (PL 175, p. 642 B). - Il « riposo » dell'arca sul monte Ararat si rifa naturalmente a Gen 8,4 ( L X X ) : καΐ έκά-8-ισεν ή κ ι β ω τ ό ς ε π ί τ ά δρη τ α ' Α ρ α ρ ά τ . Cfr. per ciò D A C L XII, 1397-1400. Alcuni testi chiariranno meglio la cosa. Il Libro dei Giubilei 5,28 (CHARLES II, 21) afferma: « L'arca si diresse ivi e approdò sulla vetta del Lubar, uno dei monti dell'Ararat ». - Caverna dei tesori siriaca, 19, 6 (RIESSLER 964): «L'arca navigò per 150 giorni verso quel luogo e giunse in un sito calmo sul monte Kardo». - AMBROGIO, De Noe et arca, 17, 60 (CSEL 32, 1, p. 457): « T u n c ergo sedit arca super m o n t e m Q u a rati ». - Circa la leggenda dell'approdo dell'arca in Apameia di Frigia, che portava il n o m e di κ ι β ω τ ό ς , cfr. J. F I N E , op. cit., 9. 15. 30. 104. Oracula Sybillina, 1, 261-267. - Per le monete di N o e di Apameia cfr. anche T H . RLAUSER, in Jahrbuch d. Antike u. Christentum 4 (1961) p. 142S. 20 J. D A N I É L O U , Sacramentum Futuri, 70. - R A C III (1957) p. 784-794. - P A U L Y - W I S S O W A , 5 (1903) p. 261-276.

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superficiale imitazione del mito di Deucalione 21. Anzi, già molto tempo prima nell'antica teologia e apologetica cristiana, l'ellenistico Deucalione viene paragonato al biblico Noè. GIUSTINO argomenta in modo conforme alle idee della teologia giudeocristiana, quando difende l'ardita afférmazione secondo cui Dio ritarda la catastrofe della conflagrazione universale soltanto a causa del seme dei cristiani cosi come anticamente trasformò la catastrofe del diluvio universale nella salvezza « del solo Noe e dei suoi (ιόν μόνον συν τοις ιδίοις), cioè di quell'unico salvato, che da noi si chiama Noe, mentre voi lo chiamate Deucalione » 22. È vero che ORIGENE ripudia questa identificazione alquanto semplicista delle due catastrofi diluviali; tuttavia nella più antica spiegazione della Genesi, TEOFILO DI ANTIOCHIA con una artificiosa etimologia identifica Noe con Deucalione 23 , rifacendosi a FILONE DI ALESSANDRIA, il quale aveva scritto : « Il Creatore volle che uno stesso uomo fosse ad un tempo l'ultimo della stirpe dannata e il primo anche di quella innocente. Gli Elleni lo chiamano Deucalione, ma i Caldei Noè » 24 . In tal modo Filone indica i fondamenti, in base ai quali più tardi la teologia cristiana parlerà della posizione salvifica di Noè come padre di una nuova stirpe e della importanza salvifica della Chiesa come grembo mater" Adversus Celsum, 4, 41 (GCS ORIGENE I, p. 314S). - I, 19 (GCS 1, p. 70, 1- 25). 22 Apologia, 2, 7,2 ( O T T O I, 1, p. 216). 23 Ad Autolycum, 3, 18; 19 ( O T T O Vili, p. 230-232). - 2, 30 (p. 144)· 24 De praemiis etpoenis, 23 ( C O H N , 5, p. 3405). - Cfr. anche Martyrium Pionii, 4, 23 (KNOPF, p. 45, 1. 15). - PS.-CLEMENTE, Homilia 2, 16 (PG 2, 85 D ) . - FiLASTHio, Haer., 122 (Corp. Christ. IX, p. 286). B E D A conosce ancora il paragone tra N o è e Deucalione (PL 91, 86 C ) .

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no della nuova vita. Sembra di sentire un motivo conduttore greco che annuncia la futura spiegazione cristiana dell'arca, quando Luciano di Samosata, usando una immagine platonica, denomina l'arca di Deucalione « la scintilla vivente dell'umana posterità » 25. Per comprendere con più precisione le origini e le fonti dell'antica teologia cristiana dell'arca di Noe come « tipo » della Ecclesia, è necessario rifarsi alle opere della teologia giudeo cristiana. E certamente esatto dire che negli scritti del cristianesimo primitivo l'arca appare come modello in primo luogo della croce e poi del battesimo, ma non è esatto affermare che l'esemplarità dell'arca nei confronti della Ecclesia è di origine posteriore. Noi siamo dell'opinione che, come eredità della teologia del tardo giudaismo, la simbologia dell'arca applicata alla Chiesa come comunità di salvezza rappresenta la forma originaria e quindi uno dei temi più antichi della teologia del primo e del secondo secolo. Tra i primi elementi costitutivi di questa teologia simbolista includiamo qualcosa di quell'evento storico, che J. DANIÉLOU definisce come uno dei più importanti fattori nel nascere della riflessione teologica : « Molto presto la Chiesa, riflettendo su se stessa, diventa consapevole della propria esistenza come dato teologico » 26. La Chiesa è l'arca, in cui la famiglia dei salvati S5

Timon, 3 (RETZ Ι, ρ. 106): "ζωπυρόν τι τοϋ ανθρωπίνου

σπέρματος. Cfr. PLATONE, Leggi, 3 (667 Β). Ζβ

J. DANIÉLOU, Théologie du Judéo-Chrisiianisme, p. 317. Per il processo della cosiddetta concretizzazione del simbolo dell'arca in nave e Chiesa, cfr. J. DANIÉLOU, Les Symboles chrétiens primitifs, Parigi 1961, p. 74SS. Ciò ha avuto un influsso anche sull'archeologia dell'arca e della nave come Chiesa. J. FINE, Noe der Gerechte, 16, dice: « L'arte figurativa, a differenza della letteratura, non conosce l'arca come simbolo a sé, che rappresenta la Chiesa ». Contro di ciò è L.

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scampa al diluvio universale e supera il giudizio del fuoco finale, così come una volta il giudizio dell'acqua divenne salvezza per l'arca di Noè. Già nei libri sapienziali si riscontrano quasi tutti gli elementi per la teologia di Noe e dell'arca che si avrà nel tardo giudaismo e nel cristianesimo primitivo. Ciò che allora avvenne nel modello, si verifica nel destino del popolo d'Israele. « Noè venne trovato perfetto e giusto; al tempo dell'ira egli è divenuto riconciliazione. Mediante questo Noè « fu preservato un resto (κατάλειμμα) per la terra, quando il diluvio esplose. Un patto eterno fu stipulato con lui, di non distruggere più tutta la carne mediante il diluvio » (Eccli 44,17.18). Sin da ora bisogna rilevare, perché saranno fondamentali più tardi, i seguenti elementi di questa riflessione sulla esemplarità di Noè: è il solo Noe, che viene salvato, ma con lui e per causa di lui prima la sua famiglia, che raffigura il « resto di Israele », il quale, come sola e unica comunità salvifica, diventa partecipe della salvezza dal diluvio. A ciò il libro della Sapienza aggiunge un secondo elemento: questa salvezza escatologica viene concessa al resto salvato, mediante l'arca di legno, mediante « l'insignificante legno » ( Si' εύτελοϋς ξύλου, Sap 10,4), onde la speranza del mondo riposa su una tavola di legno (έπί σχεδίας). Sia lodato BUDDE, Die rettende Arche Noes, in Rivista di Archeologia Cristiana 32 (1956) p. 50: «L'identificazione, sempre dimostrabile letteraria­ mente, dell'arca con la Chiesa è menzionata per la prima volta con certezza anche nell'arte figurativa dal mosaico di Mopsuestia ». K. GOLDAMMER, in Theol. Zeitsch. 6 (1950) p. 233 dice della simbolica della nave rispetto alla Chiesa : « Se il significato ecclesiologico della nave nel pensiero cristiano possa essere affermato già prima di Tertulliano ed Ippolito, come pensano Peterson e Rahner, mi sembra dubbio, ο per lo meno non sicuro ».

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dunque il legno, mediante il quale ci viene la giu­ stificazione (Sap 14,6.7). Per valutare l'importanza di questa teologia del re­ sto di Israele per la nostra simbolica, bisognerebbe spie­ gare qui tutta la dottrina del κατάλειμμα 2 7 . Accen­ niamo soltanto ad un punto, che risulta importante per l'applicazione teologica dell'arca alla Chiesa. Gen 7,23 (LXX) dice: καΐ κατελείφ&η μόνος Νώε και οι μετ'άυτοΰ εν τ^ κιβωτω. Noe «soltanto» viene salvato, ma questo « soltanto » si riferisce anche alla sua famiglia, che viene tenuta insieme mediante le ta­ vole lignee dell'arca e che quindi richiama alla mente la futura comunità di salvezza della Chiesa. Anche la Chiesa viene costruita e pilotata dall'unico Cristo-Noè, e ciò in virtù del legno della croce, mediante il quale l'ondata, altrimenti letale, può essere attraversata sino all'approdo sull'eterno Ararat. Gli avvenimenti che avranno luogo nei giorni della parusia finale del Figlio dell'uomo assomigliano ai « giorni di Noè ». L'avvenimento decisivo della salvezza è l'entrata di Noe nell'arca, nella quale soltanto il resto di Israele raggiunge la salvezza (Mat 24,37.38; Lue 17,26.27). La lettera agli Ebrei (11,7) dice a proposito di Noe che egli ha costruito l'arca είς σωτηρίαν του οΐχου αύτοΰ, cioè per la comunità dei salvati, che nella 2Pet 2,5 viene 2S chiamata il numero otto di Noe (ογδοον Νώε) . Noe diventa il modello dell'unico giusto, Cristo; e, a 27

Cfr. sopra, nota 7. " Ο γ δ ο ο ς è detto Noè in quanto ottavo nell'enumerazione dei padri delle origini a partire da Adarno, ma anche a causa del numero otto dei salvati nell'arca (iPet 3,20). LUTERO ha tradotto «selbacht» (= assieme con otto); DANIÉLOU, Sacramentimi Futuri, p. 66: « lui huitième ». Per la simbolica del numero otto cfr. F. J. DÒLGER, 28

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causa della giustizia di uno solo, l'arca diventa il seno materno di una vita nuova e mai più minacciata in futuro da un diluvio universale, la vita che supererà l'ultima prova giudiziaria, il diluvio universale del fuoco 29. Questi sono, naturalmente a brevi tratti, i pensieri fondamentali correnti ai primordi della teologia giudeo-cristiana. Ora sia che questa simbolica venga riferita immediatamente al legno della croce oppure al battesimo, in ogni caso l'idea essenziale di queste allegorie sta nel rapporto dell'arca alla Ecclesia come comunità di salvezza del resto israelitico salvato. È quanto ora dimostreremo con una serie di testi, per lumeggiare in qualche modo l'ambiente nel quale è sorto il « tipo » Arca=Ecclesia 30. Nel farlo non affrontiamo a fondo il problema di sapere quali opere del primo e secondo secolo siano di origine genuinamente giudaica, oppure rimaneggiate in senso cristiano, ο più in Antike una Christentum 4 (1934) p. 153-187. - H. RAHNEK, Griechische Mythen in christlicher Deutung, Zurigo, 1957, 2 ed-, p. 107-111, ove a p. 108 viene presentato il capitolo determinante di G I U S T I N O , Dialogo 138, 1, nella traduzione tedesca. - Le Ps.-Clementine, 1, 29 (PG i, 1223S) dicono: « Unus tamen tunc inventus est iustus, nomine Noe, qui in arca liberatus... mundi habitator effectus est ». - R i c o gnizioni, 4, 12 (PG 1, 1320 B), dicono a proposito del diluvio quale battesimo del m o n d o cattivo: « Q u o mundus purificationem acciperet et is, qui ad posterioritatem generis fuerat reservatus, per aquam mundus effectus m u n d u m denuo repararet ». - Nel testo slavo del Libro di Henoch, 35 (CHARLES II, p. 453) Dio parla così: « Io lascio d'avanzo un giusto con tutta la sua casa e dal suo ceppo sorge una nuova generazione». 29 Nella cosiddetta Vita di Adamo ed Eva, 49 (CHARLES II, p. 152), Eva morente dice ai figli : « Quando io e il vostro padre disobbedimmo al comandamento di Dio, l'arcangelo Michele ci disse: ' Il nostro Signore a causa dei vostri peccati porterà il suo giudizio d'ira sui vostri discendenti, prima con l'acqua e poi con il fuoco ' ». Cfr. 2Piet 3,6. 30 Cfr. E. PETERSON, Fruhkirche, p. 92-96.

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semplicemente giudeocristiane31. In ogni caso oggi possiamo riconoscere come opere genuinamente cristiane la Ascensio Isaiae, il Libro di Enoch e soprattutto il Testamento dei 12 Patriarchi, il cui autore è torse un Esseno convertito proveniente dall'ambiente spirituale di Qumran 32 . Nello Scritto di Damasco 1,4 il pensiero fondamentale è che alla fine dei giorni il resto di Israele verrà salvato : « Poiché si ricordò del patto con i Patriarchi, lasciò un resto in Israele » 33. La comunità dei fedeli di Qumran sente di essere lei stessa questo resto, che verrà salvato prima del giudizio del fuoco, pur trovandosi ancora « in mezzo alle acque della menzogna » 34, e si sente scelta sin dagli antichi giorni come la comunità risparmiata per i meriti di Noe. Il patto di Dio con i Patriarchi comincia dunque con Noè, ma viene distrutto dalla cattiveria dei figli di questo ultimo e loro discendenti, così che il patto si restringe ad Abramo e a Giacobbe : « I figli di Noè sbagliarono e perciò vennero sterminati » 35. Nel rotolo degli Inni Hodayot, « il maestro della giustizia » viene paragonato con il timoniere di una nave presa nella tempesta; alcuni elementi di questo inno poeticamente bello po31

J. DANIÉLOU, Théologie iu Judéo-Christianisme, p. 17-30. lui, p. 24. - R. DE JONGE, The Testamenti of the 12 Patriarchs, Asseti 1953. 33 Saìtto di Damasco, 1, 4, edizione francese di A. D U P O N T SOMMER, Les écrits esséniens découverts près de la Mer Morte, Parigi I9S9> P· 137· - Edizione tedesca di J. M A I E R , Die Texten vom Toten Meer, Monaco-Basilea i960, ν. ι, ρ. 46. 32

3 4

Scritto di Damasco, i , 15 (MAIER, p . 47); 2, 7-8 (p. 48).

35

Ivi, 3, 1 (p. 49).

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trebberò derivare dal paragone della comunità con l'arca di Noe: « Io divenni come un pilota sulla nave nell'imperversare dei mari. I suoi cavalloni e tutte le sue onde infuriavano contro di me. Scroscia l'antica onda ed io gemo, e la mia anima giunge alle porte della morte. E io divenni come uno che giunge in una città fortificata, munita di altissimo muro, per la salvezza. Ed io mi rallegro della tua verità, ο mio Dio » M. Si vede che l'immagine della comunità salvifica quale nave si trasforma immediatamente nell'irnmagine della Città di Dio, come poco prima aveva cantato il « Maestro della Giustizia » : « Essi mi resero simile ad una nave in alto mare e simile ad una città fortificata di fronte al ne[mico » 37 . La comunità è paragonabile ad una nave e ad una fortezza. A buon diritto, noi poniamo questi due canti della navigazione della comunità pilotata dal « Maestro della giustizia » in rapporto con il significato salvifico dell'arca, proprio come più tardi ritroviamo in Ippolito romano il medesimo passaggio dalla immagine dell'arca a quella di una nave capace di affron36

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(MAIEH, (MAIEE,

I, 1,

p. p.

89). 77S).

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tare il mare 38. Il diluvio universale come « tipo » del giudizio universale fa parte dei temi fondamentali della escatologia del tardo giudaismo 39. Nella teologia del primo libro della Sibilla incontriamo Noe come araldo della penitenza40. Qui l'arca viene chiamata esplicitamente una « casa di legno », che viene guidata con la « celeste arte del pilotaggio » attraverso i flutti del giudizio sino all'approdo in Frigia (Apameia) 41. L'appartenenza al numero otto dei salvati è il prerequisito per superare felicemente il secondo giudizio finale at38 Cfr. F. J. DOLGER, Sol Salutis, 2 ed., p. 273S. - Il raffronto dell'arca con una città è frequente anche nella teologia cristiana: ORIGENE, Adversus Celsum, 4, 41. - BASILIO DI SELEUCIA (PG 85, 97 C): πλείουσα πόλις. - Cfr. anche la descrizione dell'arca come nave sbattuta dalla tempesta: Sibilla, 1, 225-229 (ed. A. KUKPESS, Sybillinische Weissagungen, Monaco, 1959, p. 44). " P. GRELOT, L'eschatologie des Esséniens, in Revue de Qumran 1 (1958) p. 113-131. - P. VOLZ, Die Eschatologie der jùdischen Gemeinde, Tubinga 1934, 2 ed., p. 3. - P. LUNDBERG, Typologie baptismale, p. 109, nota 1. 40 Noè come araldo della penitenza, già nella Lettera di Clemente, 7, 6. - Cfr. la relazione di acqua (diluvio) e fuoco (giudizio finale), in PS.-MELITO (OTTO, IX, p. 132). - Per Noè quale predicatore di penitenza tra i due giudizi cfr. anche Sibilla, 1, 128S (KURFESS, p. 38): Dio disse a Noe: Κήρυξον μετάνοιαν, δπως σωθώσιν άπαντες. Anche qui viene sottolineato (ν. 125) che Noè soltanto era giusto e perciò fu salvato. 41 L'arca come «casa di legno»: Sibilla, 1, 133; 212. - La predica penitenziale di Noe: Sibilla, 1, 150-198. - La celeste arte nautica di Noè: Sibilla, 1, 257-259: «Ma mentre l'arca navigava sulle onde rumorose, spingendola con immortale pilotaggio qua e là sulle onde del flutto marino ». La posterità di Noè riceve il compito di trasmettere di generazione in generazione la giustizia. - Per la celeste τέχνη ο arte del pilotaggio cfr. Sap 14,6, ove si dice che l'arca è guidata dalla divina πρόνοια e ciò senza che Noè conosca l'arte del pilotare: άνευ τέχνης.

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traverso il fuoco 42. Dio parlò a Noe quale pilota di quella casa di legno salvatrice dicendogli che non sarebbe affondata « sino a che un giorno ogni generazione umana verrà al giudizio, poiché il giorno del giudizio aspetta tutti » 43 . Nel terzo libro della Sibilla la attesa del giudizio finale si fa ancora più chiara, là dove la nuora di Noè predice profeticamente la sorte, che a causa dei meriti del solo Noè sarà riservata a tutta la famiglia : « Il mondo era sommerso dalle acque e un solo uomo gradito era rimasto, che nella casa costruita con legno abbattuto continuava il viaggio sui flutti marini, affinché il mondo si popolasse di nuovo » 44 . Noe è precisamente l'« unico » tra tutti i salvati, poiché i rimanenti uomini che viaggiano sull'arca sono stati salvati soltanto a causa sua: «Solo Noe, tra tutti gli uomini, fu scampato » 45 . L'esegesi biblica del tardo giudaismo e, al suo seguito, la teologia giudeocristiana accentuano il fatto che a causa del solo Noè fu salvata tutta la sua casa. Così GIUSEPPE FLAVIO : « Noè fu salvato insieme ai suoi familiari, perché Dio lo amava a causa della giustizia e perché da lui doveva uscire 42 Cfr. LATTANZIO, De ira Dei, 23, 4 (CSEL 27, 1, p. 126), che cita la Sibilla, 4, 51-52 (KURFESS, 114): «Alia quoque Sybilla per indignationem Dei adversus iniustos per cataclysmum priore saeculo factum esse dixit, ut malitia generis humani extingueretur » ; subito dopo, 23, 5, per il giudizio finale nel diluvio del fuoco, cita Sybilla 4, 159-161 (KURFESS, 118): «Simili modo deflagrationem postea futuram vaticinata est, qua rursus impietas hominum deleatur». 13 Sibilla, 1, 273S (KURFESS, 46). Noè abbandona l'arca per « ottavo » (8γδοος), ossia come inizio di una nuova generazione: Si­

billa, 1, 281 (KURFESS, 46). 44 Sibilla, 3, 823-828 (KURFESS, H O ) ; Verso 824: καί τις άνήρ μόνος έλείφθη. 45 Sibilla, 7, 8 (KURFESS, 150): έκ πάντων μοϋνος.

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un'altra stirpe che fosse libera dai vizi » 46 . La stessa affermazione si trova nel libro sulle antichità bibliche dello PS.-FILONE : « Noe era un grande uomo e nella sua generazione era senza macchia. Perciò fu accetto al Signore ». Il diluvio di acqua sarebbe modello dell'avvenimento escatologico finale, il diluvio universale di fuoco : « Dopo quel giudizio finale, il mondo si placa e la morte scompare; nessuno, che sia stato giustificato in me, resta impuro; allora un'altra terra e un altro cielo saranno la dimora permanente » 47 . Così il solo Noe, come il solo Adamo e il solo seme di Abramo diventano figura esemplare dell'unico Cristo, che è sempre uno nella molteplicità di coloro che, con lui e per lui, vengono salvati. Nella teosofia di Filone di Alessandria Noe diviene la fine del mondo peccaminoso e per questo l'inizio di un nuovo mondo, il « punto angolare dei due mondi » 48 . In Filone Noe è sempre il δίκαιος, il nuovo inizio di una schiatta innocente, « il giusto Noe, che nella grande inondazione proseguì salvo il suo viaggio sulle onde » 49 . Per questo Filone, « Antiquitates, i, 3, 2 (NIESE, I, 18, 1. 20s): μ ε τ ά τ ω ν ο ι κ ε ί ω ν . " PS.-FILONE, Libro dell'antichità biblica, 3, 4 (RIESSLER, 738); 3, 9-10 (RIESSLER, 7395). Cfr. per ciò la teologia del duplice giudizio nell'acqua e nel fuoco in 2Piet 3,12. 13. P u ò essere interessante vedere qui come anche nella teologia simbolica del primo medioevo il colore blu significa il diluvio universale che non viene più ripetuto, il colore rosso il giudizio finale mediante il fuoco, che ancora n o n è giunto: R A B A N O (PL H O , J45SS), si serve per ciò delle parole di G B E GORIO M A G N O (PL 76, 865SS). Cfr. anche H. B. MEYER, Zur Symbolik friihmittelalterlicher Majestasbilder, in Das Munster 14 (1961) p. 80, 83. 48 J. D A N I É L O U , Sacramentum Futuri, p. 61. " De migratione Abraham 125 ( C O H N - W E N D L A N D , II, p. 292), N o è come primo giusto ( π ρ ώ τ ο ς δ ί κ α ι ο ς ) : De congressu eruditianis gratta, 17 ( C O H N - W E N D L A N D , III, p . 90, l. 14). Altri passi su N o e giusto ( Ν ώ ε δ ί κ α ι ο ς ) in C O H N - W E N D L A N D , IH, p. 59, 1. 17. -

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in base a Gen 5,29 rende l'etimologia del nome di N o e come άνάπα,υοις, in ciò seguito dai Padri della Chiesa 5 0 . Il Libro di Enoch, che, come sappiamo da TERTULLIANO 51 , fu così importante per l'antica teologia cristiana, parla dell'arca come casa di legno, da cui scaturisce una nuova generazione. Essa, a motivo di Noè, verrà conservata attraverso tutte le generazioni del m o n d o 5 2 . Il diluvio universale e la salvezza degli eletti chiudono la prima tappa della storia della salvezza, « ed in essa un solo u o m o viene salvato. D o p o quella data, l'ingiustizia aumenta ed una legge viene stabilita per i peccatori » 5 3 . Il patto di Dio con gli uomini viene concluso con Abramo, che verrà dato agli uomini come « pianta della giustìzia » per preparare alla giustizia definitiva. In tono profetico Enoch annuncia al nipote N o è : «Dio ha stabilito il tuo n o m e tra i santi, ti salverà tra tutti gli abitanti della terra. Egli ha stabilito che la tua posterità regni ed abbia grande onore » 5 4 . E in occasione della nascita di Noe afferma : « Viene un grande diluvio, ma questo figlio resterà superstite sulla terra, e i suoi tre figli saranno salvati con

N o e come inizio della generazione innocente: De praemus et poenis, 23 ( C O H N , V, p. 34OS). 50 Leg. allegor., 3, 77 ( C O H N , I, p. 129, 1. 22). - De Abraham, 27 ( C O H N , IV, p. 7, 1. 8 ) : ά ν ά π α υ σ ι ς ή δ έ κ α τ ο ς ; cfr. anche Quoà deterius, 121 ( C O H N , I, p. 285, 1. 25-30). 51 De cultu feminarum, 1, 3 (Cor. Christ. I, p. 346S). 52 Henoch 10, 3 (CHARLES II, p. 193). 53 Ivi, 93, 4 (II, p. 263). Del medesimo diluvio finale mediante il giudizio di fuoco parla Henoch 91, 1-17 (II, p. 26is). 54 Henoch 63, 12 (CHARLES II, p. 231). Per la teologia della Chiesa quale fonte di acqua viva è importante l'espressione del medesimo capitolo, nella profezia di Enoch al nipote N o e ; vien detto : « E dalla tua posterità promanerà una fonte di acqua della giustizia e della santità senza misura e per sempre ».

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L ' E C C L E S I O L O G I A D E I PADRI

lui. Chiamalo con il nome di Noe, poiché egli resta superstite e con i suoi figli verrà salvato dalla rovina » 55. Nei frammenti latini di una Apocalisse di Noe, Enoch proclama il posto del patriarca nella storia della salvezza : « Mittet Deus cataclismum aquae, ut deleat omnem creaturam ... et ipse vocabitur Noe, qui interpretatur requies, quia requiem praestabit in arcam» 56 . Anche nel Libro dei giubilei la persona di Noe presenta il medesimo significato escatologico: « Soltanto Noè trovò grazia dinanzi agli occhi del Signore. Tutti affogarono eccetto il solo Noe, poiché la sua persona trovò grazia in favore dei suoi figli, i quali furono salvati dal diluvio a causa di lui. Tutto ciò che si trovava sulla terra, fu annientato, eccetto coloro che si trovavano con lui nell'arca» 57 . Nel quarto libro di Esdra, il salvato prega Dio, accentuando l'unicità di Noe, per causa del quale soltanto i pii vengono salvati : « Come una volta la morte discese su Adamo, così l'onda sugli abitanti del mondo. Tu hai lasciato soltanto un superstite tra di essi, Noe e la sua casa, tutti i pii che da lui provenivano »58. Noè occupa il centro della teologia del tardo giudaismo e di quella giudeo-cristiana come esemplare dell'unico Messia futuro, a causa del quale i suoi saranno salvati nell'arca. Nel punto centrale c'è 55

Henoch, 106, 15-18 (CHARLES, II, p. 279). Frammento dall'Apocalisse di Noè, Henoch, 106, 1-19 (CHARLES, II, p. 278S). " Libro dei Giubilei, 5, 5; 19; 6, 2 (CHARLES, II, p. 20s). Nella benedizione di A b r a m o a Giacobbe, il Patriarca dice: «L'altissimo Dio ti diede tutte le benedizioni, con cui egli mi ha benedetto e con cui ha benedetto N o e ed A d a m o , affinché essi riposino sulla santa cima del tuo seme per tutte le generazioni in eterno » : Libro dei Giubilei, 22, 13 (CHARLES, II, p. 45S). 58 IV Esdra, 1, 9-11 (CHARLES, II, p. 562). 56

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l'arca di Noe come simbolo della Chiesa quale comunità definitiva della famiglia salvata nell'unico Noe. Nel libro siriaco dell'inizio del quinto secolo cristiano, che porta il nome di Grotta del tesoro 59, troviamo nuovamente riuniti gli elementi della teologia giudeo-cristiana su Noe e sull'arca. Noè e la sua famiglia, con il loro numero otto sono la personificazione del « resto »60. Noè e i suoi figli hanno preso sull'arca il cadavere di Adamo, per salvare, se così vogliamo esprimerci, la grazia che una volta era stata data ad Adamo e preservarla per l'epoca futura della grazia dell'unico e vero Adamo 61 . « L'arca era chiusa e sigillata e su in cima al tetto c'era un angelo del Signore come piIota » 62 . Il viaggio è diretto verso il paradiso, « porto e luogo di angeli » 63. « Il cadavere di Adamo era posto in mezzo all'arca, poiché vi erano rappresentati tutti i misteri della Chiesa » 84. Dopo il diluvio, Noè e i suoi figli deposero il cadavere del protoparente nel punto centrale del mondo, ossia sul monte Golgota 65 . Si tratta certamente di una speculazione teologica di un'epoca relativamente tardiva, ma essa dimostra ancora una volta le connessioni esistenti tra arca e Chiesa, che si erano andate formando sin dai primordi della riflessione sulla Chiesa. La Chiesa come unica arca della salvezza è costruita con il legno della croce. Essa 58

I. O R T I Z DE UHBINA, Patrologia Syriaca, R o m a 1958, p. 88. La caverna dei tesori siriaca, 16, 6 (RIESSLER, p. 960). 61 Ivi, 16, 14 (p. 960). 82 lui, 18, 14 (p. 963). Cfr. la π ρ ό ν ο ι α quale timoniere della arca: Sap 14,3. - Σ ο φ ί α quaie pilota dell'arca: Sap 10,4. - Providentia divina quale timoniere dell'arca: CHISOSTOMO (PG 48, 1037). 83 Caverna dei tesori siriaca, 17, 15 (p. 962). 84 Ivi, 18, 3 (p. 962). 85 Ivi, 22 e 23 (p. 967-969). ,0

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L'ECCLESIOLOGIA

DEI

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sola somministra il sacramento dell'acqua, poiché, portata dal « misero legno » vince precisamente l'acqua. Ancor oggi la Chiesa prega nella consacrazione dell'acqua lustrale : « Ut unius eiusdemque elementi mysterio et finis esset vitiis et origo virtutibus ». In una interpolazione cristiana dell'Apocalisse di Baruch, presumibilmente del secondo secolo, si accenna acutamente al medesimo rapporto sacramentale di Noe nei riguardi di Cristo e dell'arca come « tipo » dei misteri della Chiesa. Il salvato Noè viene incaricato da Dio di piantare una vite, che era stata trascinata via dal paradiso terrestre mediante il diluvio: «Alzati, Noe, e pianta la vite ... La maledizione, che gli è attaccata, sarà trasformata in benedizione, e ciò che verrà ottenuto da essa, diventerà sangue di Dio » m .

2. L ' A R C A C O M E N A V E DELLA SALVEZZA NELLA T E O L O G I A DELLA CHIESA A N T I C A

Come già abbiamo accennato, negli studi più recenti sul simbolismo dell'arca è stato detto che la tipologia più antica non paragona l'arca alla Chiesa, bensì alla croce e al battesimo; e ciò avverrebbe precisamente in quel settore della primitiva teologia giudeocristiana, che a buon diritto è stata denominata « Salvezza mediante il legno e l'acqua »67. Croce e battesimo sarebbero dunque gli elementi originari, che inβ ί

Apocalisse greca di Baruch, 4, 15 (CHARLES, II, p . 536).

" Cfr. per ciò LUNDBERG, p. 167-200; soprattutto a p. 186. J. DANIÉLOU, Théologie tìu Juiéo-Christianisme, p. 289-315; soprattutto p. 300 s. Le due liste, date da ambedue gli autori, della relazione tipologica di acqua e legno provengono certamente da un'antichissima serie di Testimonia riguardanti la croce. DANIÉLOU la chiama

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contriamo nella 2Pet 2,s e nella iPet 3,20s, ed ai quali Giustino, nel Dialogo con Trifone, ha dato una forma che probabilmente possedevano già da un pezzo. Noi invece pensiamo che l'elemento originario di questa tipologia presentava l'arca come presagio della comunità salvifica degli ultimi tempi, quindi la nave della Chiesa, la cui efhcenza salvifica unica nel naufragio del mondo, risiede nel fatto che essa è costruita con il legno della croce e che nel sacramento del battesimo trasforma l'acqua della distruzione del mondo in acqua della salvezza. I tre elementi della tipologia dell'arca sono dunque la Chiesa, il legno della croce e l'acqua battesimale, ma in modo tale che il presagio della Chiesa come comunità di salvezza radunata nell'arca va presupposto, se si vuole comprendere il riferimento al legno della croce e all'acqua del battesimo. Verso la fine dell'antica teologìa cristiana la cosa era ancora ben nota a un imitatore di Agostino e noi mostreremo più chiaramente che si trattava qui di un tema essenziale della catechesi battesimale. In una predica sulle prefigurazioni della Chiesa, che, come vera Madre dei viventi, è promanata dalla ferita del costato dell'AdamoCristo dormente sulla croce, egli dice : « Ecclesia intra arcam diluvio exundante servata crucis beneficium et baptismatis mysterium praesignavit » 68. a buon diritto un « état archai'que de la théologie» (p. 301). Cfr. per ciò anche alcuni recenti lavori sulla storia del simbolo della croce: L. D O I G N O N , Le salut par le jet et le bois chez Irenée, in Recherches de Science Religieuse 43 (i95S) P· 535-545- - E. DINKLER, Zur Geschichte des Kreuzsymbols, in Zeitschrift ftir Théologie u. Kirche 48 (1956) p. 148-172. - J. CARCOPINO, Le mystère d'un symbole chrétien, Parigi 1955, P- 69-76. 88 P S . - A G O S T I N O , Sermo 230, 1 (PL 39, 2171). - Il medesimo testo in

MASSIMO

DI

TORINO

(PL

57,

883).

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L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

Perciò cominciamo con la tipologia dell'arca rispetto al legno della croce. Si tratta di un tema fondamentale della teologia sacramentale dei Padri, a cominciare da Giustino sino alla teologia delle omelie su Noe di CRISOSTOMO69, nell'esposizione della Genesi di CIRILLO DI ALESSANDRIA70 e nel piccolo trattato di 71 GREGORIO DI ELVIRA sull'arca di Noe. . BASILIO DI SELEUCIA, in una delle sue prediche sul patriarca ha precisato lo spirito teologico simbolico con cui i Padri concepivano il mistero dell'arca nell'opposizione dialettica tra salvezza e perdizione, tra la salvezza dal naufragio del diluvio universale, che si estende a tutto il mondo e l'umile insignificante legno della croce : « Ο paradossale nave della salvezza (σκάφος ποφάδοξον σωτηρίου), immagine umbratile del legno della croce, tu mostri a coloro che navigano per mare, quanto sia necessaria la croce; tu salvi nell'acqua e ci strappi dal­ le acque ... Ritratto dell'intero mondo è l'arca. Essa è una città navigante, essa porta come nel seno materno tutta la creazione, porta in sé come un embrione il cosmo intero, è il corpo materno di tutte le diverse creature » 72 . « Noe fu salvato come timoniere in mezzo al naufragio di tutto il mondo »73. La storia dell'arca di Noe, scrive CIRILLO DI ALESSANDRIA, è una immagine e un « tipo » della salvezza restituita in Cri" Homiliae 22-29 (PG 53, 185-273). Glaphyra in Genesim, 2, 1 (PG 69, 49-68). Edizione di A. WILMART, in Revue Bénédictine 26 (1909) p. 1-12. - Cfr. J. SINT, Die Arche ah Typ der Kirche im Traktat ' De arca Noe ' des Gregorius voti Elvira (dissertazione non stampata), Innsbruck 1946. 72 Oratio 6 in Noe (PG 85, 97 C; 101 A). 73 Oratio 14 (PG 85, 184 B). Cfr. CRISOSTOMO, Homilia 12, 3 in Matthaeum (PG 57, 205 B). 70 71

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sto , 4 . Il diluvio universale diventa il battesimo, Noè diventa modello di Cristo. La parola conclusiva di questa teologia simbolica fu scritta per l'Occidente da AGOSTINO, quando ancora una volta egli vede i rapporti della Chiesa con il legno della croce prefigurati nell'immagine dell'arca: «Procul dubio arca figura est peregrinantis in hoc saeculo civitatis Dei, hoc est ecclesiae, quae fit salva per lignum, in quo pependit mediato! Dei et hominum, homo Christus Jesus » 75 . Il primo paragone chiaro tra l'arca e la salvezza donataci nel legno della croce e nell'acqua del battesimo dal vero Noè-Cristo, l'incontriamo nel dialogo di GIU76 STINO . Cristo, quale primogenito, è allo stesso tempo l'inizio di una nuova generazione, così come Noè fu il giusto, nella cui arca furono raccolte le otto anime, il cui numero rappresenta l'ogdoas, ossia il numero otto del giorno della resurrezione di Cristo che fu inizio dei novissimi e primordio della eterna generazione. Solo nell'arca di Noè il vero popolo evita il giudizio futuro. Tutti i posteri di Noè sono stati radunati nell'arca di Noè per costituire una sola comunità domestica (συνοικία). Già qui troviamo quindi il pensiero che la salvezza venne elargita a Noè e mediante lui alla comunità domestica, che si trovava nell'arca. Conseguentemente GIUSTINO può dire a proposito di Cristo quale novello Noè : « Egli è divenuto l'origine prima di una novella generazione, che mediante lui è rigenerata dall'acqua, dalla fede e dal legno, che porta in sé il mistero della croce, cosi come una volta Noè

'* P G 69, 49 C . "> De Civitate Dei, 15, 26 (CSEL 40, 2, 116). " Dialogo con Trifone, 138 139 ( O T T O I, 2, 486-492).

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venne salvato sul legno, navigando sulle acque, assieme ai suoi (μετά των ίδιων) ». La tipologia dell'arca e del legno della croce ci pone nel bel mezzo dell'antica dottrina cristiana della redenzione. Ciò giustifica il tentativo di sviluppare ancor più profondamente la staurocentrica dell'arca rispetto alla croce. Il pensiero dommatico viene espresso attraverso una contrapposizione dialettica di immagini. In fondo si tratta sempre della tensione sacramentale tra il piccolo esemplare e l'immane realtà salvifica. Lo vediamo ad esempio, quando nel Pastore di Ermas la Chiesa viene chiamata la costruzione, le cui fondamenta stanno sull'acqua 77 : ο quan­ do nella teologia giudeo-cristiana l'invisibilità della comunità salvifica viene contrapposta alla grandezza della Chiesa, che in un vero senso è coeva con la creazione e quindi era sempre là, ove la storia di Dio con la generazione umana entrava in una nuova fase78. Anche la natura salvifica dell'arca viene compresa soltanto quando si pensa alla futilità delle sue tavole e con tutto ciò non si dimentica che la salvezza dell'universo viene operata dal suo « spregevole legno » (Sap 14,7). Essa infatti viene lodata precisamente quale « legno » mediante il quale ci venne la giustificazione ». I Padri greci hanno sempre considerato il piccolo legno di Noe come modello del legno insignificante della croce il quale, proprio perché tale, è redentore dell'universo. Efrem chiamava l'arca la « terra di legno » 79 . AMBRO" Hermas Visio, I, 3, 4 (FUNK, p. 422). 78 Anche qui nella simbolica dell'arca agitiamo una questione essenziale dell'antica ecclesiologia cristiana, la questione del senso della Chiesa preesistente. Cfr. per ciò J. BEUMER, Die altchristliche Idee einer praexistenten Kirche, in Wissenschaft uni Weisheit, 9 (1942) p. 13-22. - J. D A N I É L O U , Théohgie, p. 3185. 79 Carmina Nisibena, 1, 1 (BKV, 2 ed., EPHREM, p. 254).

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Gio applica Sap 14,7 al legno benedetto 8 0 . La stessa cosa fanno una omilia sulla croce, che sta tra le opere di C R I S O S T O M O 8 1 e una predica di TEODORO DI S T U -

DION 8 2 . P. LUNDBERG e J. DANIELOU hanno detto lo

essenziale circa i primordi di questa teologia dei rapporti tra legno e acqua, ossia tra croce e acqua 8 3 . Già nella lettera dello Ps.-Barnaba c'è un midrasch giudaico, che echeggia il quarto libro di Esdra, ove, a proposito del tempo della redenzione, vien detto : « Dagli alberi di legno colerà sangue » 8 4 . N o n ci sbagliamo se leggiamo la interpretazione di queste parole nella lettera di Barnaba come indicante l'importanza salvifica escatologica dell'arca quale modello del legno della croce. Infatti alla domanda circa il momento in cui tutte le cose saranno compiute, Barnaba risponde : « Quando il legno riposa e sta dritto e quando dal legno gocciola sangue » 75 . D o v r e m m o parlare più a lungo del significato tipologico dell'arca di Noe rispetto alla futura redenzione, espresso nelle innumerevoli testimonianze, che designano N o e come il primo giusto e ad un tempo come l'uomo dell'ottava ο decima generazione dopo Adamo e profeta rispetto alla Chiesa. Ma è giocoforza limitarci ad indicare gli elementi fondamentali. Per AMBROGIO, N o è è il modello del Crocifisso e perciò anche della 80

Sermo 8 sul Salmo 118 (CSEL 62, p. 164, 1. 6ss). P G 52, 839 C . P G 99, 696 C. 83 Cfr. nota 67. 84 IV Esdra, 5, 5 (CHARLES II, p. 569). 85 Lettera ài Barnaba, 12, 1 (BIHLMEYER-SCHNEEMELCHER, 25, 1. 2s). - N o n andremmo certamente errati se mettessimo in relazione con l'arca e il suo approdo anche il legno che « riposa e risorge ». Altre testimonianze in favore di ciò, in J. DANIELOU, Théologie, p. 81 a!

29OS.

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L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

Chiesa : « Per crucem et sanguinem credimus Christi, cuius Noe gratiam in typo ecclesiae figuratam spirituali cognitione praesensit » 86 . AGOSTINO vuole che nell'istruzione battesimale si parli del modello dell'arca : « Nel mistero del diluvio (dilitvii sacramento), in cui i giusti furono salvati in virtù del legno, viene presignificata la Chiesa futura, che il suo Re e Dio Cristo ha salvato mediante il mistero della croce dall'affondamento in questo tempo del mondo » 87 . FIRMICO M A TERNO scrive : « La stirpe umana venne salvata dal diluvio mediante un'arca di legno. Così pure la salvezza è stata elargita a tutti gli uomini mediante il legno della croce e perciò il legno della croce sostiene tutto in cielo, rafforza le fondamenta della terra e conduce gli uomini, che si lasciano mettere in croce, alla vita eterna » 88 . Una preghiera della liturgia armena per la Epifania suona così: « Tu, ο Dio, hai salvato il giusto Noe dal flusso dell'acqua nell'arca simile alla croce (in the crosslike ark) » 89 . L'insignificante legno dell'arca salva l'umanità e la povera croce della redenzione diventa il segno cosmico, che tiene eternamente insieme cielo e terra. Non possiamo dilungarci a trattare la dottrina simbolica patristica della croce, che come l'arca che viaggia verso tutte le direzioni, penetra nelle quattro direzioni celesti e forma le coordinate del cosmo 90. 88

Comment. in Lucam, HI, 23 (CSEL 32, 4, p. 114, 1. 18-22). « De catechizandis rudibus, 19, 32 (PL 40, 334 B). 88 De errore prof, rei., 27 (CSEL 2, p. I20s). «· CONYBEARE, 45. - Cfr. LUNDBEHG, ρ. i86s. - Arca come croce anche presso GIOVANNI DAMASCENO M

(PG 96, 624 B).

Per la teologia della croce come segno cosmico, cfr. le testi­ monianze in J. DANIÉLOU, Théologie, p. 303-315: La aoix cosmique. Egualmente in H. RAHNER, Griechische Mythen, p. 73-89. Il più bell'inno di lode alla croce che abbraccia tutto l'universo, si trova nel-

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È la teologia, che Ireneo ha già in mente, quando scrive che Dio ha dato a Noè le dimensioni dell'arca e che in ciò sono significate misteriosamente le dimensioni del mondo per la seconda generazione91. Il secondo riferimento dell'arca di Noe all'opera salvifica in Cristo è, secondo il modo di vedere di competenti studiosi, il più originario, poiché garantito dalle parole di iPet 3,20; si tratterebbe cioè della esemplarità dell'arca riguardo all'acqua del battesimo cristiano. Noi pensiamo che l'arca fu concepita in primo luogo come tipo della Chiesa, ossia della comunità dei salvati per i meriti dell'unico Noè-Cristo, e quindi che il suo rapporto con il battesimo è « posteriore » ; tuttavia riconosciamo che la tipologia rispetto al battesimo svolge sin dall'antichità una parte fondamentale, che ritroveremo soprattutto nella polemica sul battesimo degli eretici. Che questo problema sia stato intravisto anche nella spiegazione esegetica dell'arca, ce lo dimostrano le parole di AGOSTINO nell'opuscolo sull'unità della Chiesa : « Nulli nostrum dubium est per arcam Noe, salva rerum gestarum fide, ut deletis peccatoribus domus iusti a diluvio liberaretur, etiam ecclesiam fuisse figuratam. Quod forte humani ingenii coniectura videretur, nisi hoc Petrus Apostolus in epistola sua diceret » 92. Noi non possiamo fornire qui molto di nuovo rispetto al materiale già presentato da Lundberg e Daniélou 93. L'immagine del diluvio dell'acqua che ucYOmelia pasquale molto discussa, che si voleva attribuire ad IPPOLITO (PG 59, 743). - Sourees Chrctiennes 27, Parigi, 1950, p. 177S. 91 Adversus haer., 4, io, 1 e 16, 2 (HARVEY II, p. 172; p. 190). " De untiate Ecclesiae, 9 (PL 43, 397 B). 03 P. LUNDBERG, Tipologie, p. 98-116: Le déluge et le Baptème. - J. DANIÉLOU, Sacramentum Futuri, p. 74-78.

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ride e che ad un tempo salva in virtù del legno, appartiene al fondo originario della riflessione arcaica sulla tipologia « acqua e legno ». L'efficacia dell'acqua viene dalla croce. Gli ολίγοι ο gli « otto » designano la comunità dei salvati nella Chiesa dal giudizio finale e perciò la comunità di coloro che attraverso il battesimo sono stati destinati alla salvezza definitiva. Battesimo e chiesa, dunque, già si corrispondono e non possiamo parlare della tipologia dell'arca rispetto al battesimo, senza pensare alla croce e alla Chiesa e, inoltre, al diluvio finale del giudizio di fuoco. Alla fine del quarto secolo, EPIFANIO chiama l'arca di N o e un m o 94 dello della π α λ ι γ γ ε ν ε σ ί α mediante il b a t t e s i m o . Il diluvio universale, come abbiamo già ascoltato nella catechesi battesimale di Tertulliano, è un bagno purificatore dei peccati per tutto il mondo e ciò precisamente per il fatto che, per via del giusto Noe, dall'arca uscì la futura generazione di coloro che credono in Cristo e nella virtù del legno della sua croce. Acqua, legno e Chiesa sono quindi connessi tra di loro tipologicamente e teologicamente, e tuttavia è una questione inevitabile precisare quale dei tre elementi sia quello originario. Nelle Quaestiones in epistolas S. Pauli, falsamente attribuite ad Anastasio e probabilmente bizantine, si riuniscono gli elementi della suesposta teologia della nave, il cui albero è la croce, che riunisce i credenti nella Chiesa e che, attraverso le tempeste, si dirige verso il porto celeste : « Tre volte l'umanità ha sofferto naufragio spirituale ( μ υ σ τ ι κ ώ ς ) : la prima volta a causa del peccato originale, la seconda volta nel diluvio di Noe e la terza volta quando trasgredì la ·* Ancoratus, 96 (PG 43, 189).

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Legge, finché Cristo venne come timoniere delle anime, eresse l'albero della croce e diresse la nostra nave attraverso le onde sino in cielo » 9 5 . Si vede come la immagine della nave trapassa nell'immagine dell'arca di legno della croce e nell'immagine del vero N o é Cristo, tanto che l'autore ha potuto anche dire, che « il primo battesimo è stato il diluvio universale per l'estirpazione di ogni peccato » 9 6 . Nei Titilli composti da AMBROGIO, il sacramento del battesimo viene assimilato alla discesa della colomba sull'arca di Noe e il suo frutto è la pace, che viene data in seno alla Chiesa: « Arca Noe nostri typus est et spiritus ales qui pacem populis ramo praetendit olivae » 97 . Nel commento a Luca, Ambrogio interpreta così questi versi : « Arca ista quae sola fuit diluvii immunis typus est pacis Ecclesiae » 98 . Quanta parte occupino nel fondo originario dell'antica catechesi battesimale cristiana la teologia del battesimo e i suoi rapporti alla arca di Noe, lo abbiamo già mostrato con le parole della catechesi battesimale di CIRILLO DI GERUSALEMM E 9 9 e lo possiamo intuire nelle vivaci domande della catechesi battesimale di AMBROGIO. Il vescovo di Milano conclude per l'appunto la teologia dell'« acqua

« Quaestio, 105 (PG 28, 761 A). 86 Quaestio, 101 (PG 28, 760 A). 97 Titulus 19: Testo in Ramisene Quartahchrift io (1896) p. 221. 98 Comtnent, in Lucani, 2, 92 (CSEL 32, 4, p. 95). 89 Catech., 17, io (PG 33, 981 A). - Caverna dei tesori siriaca, 19, 13 (RIESSLER, p. 964), ove le due colombe dell'arca vengono identificate con i due Testamenti: « La prima non trovò riposo nel popolo contrario a Dio, nel secondo (Testamento) invece la colomba si adagiò tranquilla sul popolo attraverso l'acqua del battesimo ».

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e del legno», divenuta quasi un «tipo» arcaico, con il rinvio al mistero dell'arca e chiede agli ascoltatori : « Tu vedi l'acqua, tu vedi il legno, tu vedi la colomba, quali dubbi hai ancora su questo mistero? ... Il legno è quel legno, a cui fu inchiodato il Signore Gesù, quando patì per noi » 1 0 °. Vediamo come i tre elementi stiano incessantemente insieme: legno della croce, acqua del battesimo, arca della Chiesa. Perciò Ambrogio alla fine riassume così : « In diluvio quoque fuit iam tunc figura baptismatis » 1 0 1 e nel commento a Luca scioglie una lode magistrale al mistero dell'acqua, la cui virtù salvifica viene presignificata dal diluvio universale : « Ο aqua, quae sacramentum Christi esse meruisti... tu incipis prima, tu comples perfecta mysteria... ο aqua, quae h u m o aspersimi sanguine ut praesentium lavacrorum figura praecederet, orbem terrarum lavasti » 1 8 2 . Il mistero della salvezza, che Cristo morente sul legno della croce ci ha procurato e che la­ sciò scorrere simbolicamente nell'acqua della ferita del costato, viene accennato anche da GEROLAMO in una delle sue lettere : « Il mondo ha peccato e non verrà purificato se non nell'inondazione mediante l'acqua del diluvio, allorché la colomba dello Spirito Santo venne a Noe - come più tardi su Cristo nel Giordano - ad annunciare all'universo la pace con il ramoscello dell'olio nutriente e illuminante » 1 0 3 . In un'altra lettera, Gerolamo suppone la conoscenza del rapporto tipologico tra diluvio universale e battesimo, e chiama il di-

100

De mysteriis, 3, io, 11 (CSEL 73, p. 92s). De sacramento, 1, 6, 23 (CSEL 73, p. 25). 102 Commetti, in Lucam. i o , 48 (CSEL 32, 4, p. 473, 1 7-11). ""> Epistola 69, 6 (CSEL 54, p. 6Sgs). 101

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luvio « il bagno purificatore dell'universo dopo il naufragio di tutta l'umanità » 1 0 4 . GAUDENZIO DA BRESCIA, imbevuto dello spirito delle traduzioni latine di O r i gene, predicava : « Nei giorni del santo N o e la Provvidenza purificò con il diluvio il mondo insozzato da innumerevoli peccati, distrusse il male e dopo riedificò il mondo » 105 . Parleremo ancora una volta del diluvio universale quale battesimo salvifico dell'universo, quando approfondiremo il significato storico-dommatico del raffronto tra diluvio e battesimo. Un testo poetico dell'ultimo periodo della patristica latina dimostra quanto la teologia dell'arca, del battesimo e della Chiesa, comune sin dal tempo di Tertulliano, sia coerente. In un'opera sugli Atti degli Apostoli, poco rilevante dal punto di vista teologico, troviamo questi versi: « Ecclesiae speciem pracstabat machina quondam temporibus constructa N o e quae sola recepii omne genus clausique ferens baptismatis instar cum vaga lethales pateretur turba procellas ad vitam convertit aquas » 106 . U n o sguardo alla storia del testo della consacrazione dell'acqua battesimale 1 0 7 mostra che la cono104

Epistola i o , ι (CSEL 54, P· 35. 1. io). Tractatus io, 3 (CSEL 68, p. 93, 1. 30-32). - Per la relazione tra arca e battesimo, cfr. anche CIRILLO DI ALESSANDRIA (PG 77, 976 Β ; PG 69, 65 B) - D I D I M O (PG 29, 697). - CRISOSTOMO: PG 48, 1037S. - O T T A T O MILEVITANO (CSEL 26, p. 8, 1. is). 10 « De actibus apostolorum (PL 68, 148). " " Cfr. H. SCHEIDT, Die Taufwasser-Weihegebete (=Liturgische Quellen una Forschungen, 29), Miinster 1935, p- 80. - Lo studio più recente per il testo della consacrazione romana dell'acqua battesimale di S. B E N Z , in Revue Béiédictine 66 (1956) p. 218-255; soprattutto, p. 226. 105

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scenza patristica di questa applicazione simbolica dell'arca di Noè al sacramento del battesimo restò viva proprio a motivo della trasmissione riverente di questi testi. Nella consacrazione dell'acqua battesimale contenuta nel Messale Romano ricorre quest'espressione da noi citata ma che ora rivela meglio il suo significato teologico : « Deus qui nocentis mundi crimina per aquas abluens regenerationis speciem in ipsa diluvii effusione signasti, ut unius eiusdemque elementi mysterio et finis esset vitiis et origo virtutibus ». E molto istruttivo vedere che, immediatamente dopo, si parla anche della tipologia dell'arca quale seno materno di una nuova progenie « Respice Domine in faciem Ecclesiae tuae et multiplica in ea regenerationes tuas ». Questa opposizione dialettica, secondo cui mediante la medesima onda che distrusse il peccato, viene ricevuta la vita in virtù del legno, viene espressa anche nel Messale di Bobbio: « Exuis nos mortem et induis nos vitam » 108. Nel Testamentum Domini arabico, l'innocente Noè viene designato come colui, per la cui innocenza il diluvio divenne salvezza : « Dio ha salvato dall'acqua del diluvio quegli uomini, che erano all'interno dell'arca, a causa dell'innocente Noe » 109 . Nella consacrazione greca dell'acqua per l'Epifania c'è una preghiera che, muovendosi nell'ambito della teologia della fine del secondo secolo, si esprime così: « Ma tu, ο nostro Dio, sei colui che, nell'acqua e nello spirito, rinnovi la natura umana invecchiata a causa dei peccati. Sei stato tu, che hai distrutto i peccati nell'acqua del diluvio, per 1 M Messale di Bobbio (MURATORI, V. 2, ρ. 849S). - E. A. LOWE, The Bobbio Missal, Londra, 1920, p . 72S. - SCHEIDT, p. 58. i m SCHEIDT, p . 44. - A. BAUMSTARK, Eine iigyptische Mess - uni Tauflitutgie, i n Oriens Christianus 1 (1901) p . 39. - LUNDBERG, p. IOS.

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amore di Noè » n 0 . La stessa cosa leggiamo in un cantico di lode all'acqua, scritto da OPTATO MILEVITANO : « Ο aqua, quae, ut purum, faceres orbem, lavasti terram » 1 1 X . Infine nella consacrazione spagnola dell'acqua battesimale risuona ancora una volta l'antica dialettica cristiana del diluvio, il cui effetto viene riprodotto dalla grazia del fonte battesimale: « Una eademque es: salus fidelium et ultio criminum » 1 1 2 . Nel suo opuscolo sul battesimo Tertulliano condensa in una breve sentenza tutto ciò che riguarda la teologia battesimale e i suoi tipi: « Numquam sine aqua Christus » 113 . II rapporto tipologico dell'arca al legno della croce e all'onda del battesimo può essere compresa, a nostro avviso, soltanto se ammettiamo, quale elemento originario dell'antica simbolica cristiana, il rapporto dell'arca alla Chiesa in genere, anche là dove questo rapporto non viene enunciato esplicitamente. Per questo soltanto adesso parliamo dell'arca come simbolo della Chiesa. « Nessun tema è più frequente presso i Padri quanto il simbolismo dell'arca di Noè come modello della Chiesa, nel cui grembo gli uomini vennero risparmiati dal giudizio di Dio mediante l'acqua » m . Il concetto fondamentale di questa ecclesiologia escatologica vede nel diluvio il modello del giudizio che verrà alla fine nel fuoco; la morte e la resurrezione del Signore sono l'anticipazione della beatitudine finale 110

SCHEIDT, p. 24; p. 26. - CONYBEAKE, p. 418.

III

CSEL 26, p. 153S. FÉHOTiN, p. 30S. - SCHEIDT, p. 98. De baptismo, 9, 4 (Cor. Christ., TERTULLIANO I, p. 284, 1.

112 113

16). 114

IDEM,

J. DANIÉLOU, Sacrameiitiim Futuri, p. 55; cfr. anche p. 80-82. Thcohgie du Judéo-Christianisme, p. 317-339.

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o, in termini biblici, dell'approdo sul monte Ararat; la storia di questa salvezza procede per mezzo dell'arca, ossia nella Chiesa. Il primo testo dell'antica letteratura cristiana, che chiama esplicitamente l'arca modello della Chiesa, è stato individuato nel cap. 8 dell'opuscolo DI TERTULLIANO sul battesimo. Ma la prima lettera di Clemente dimostra che, a partire dalla teologia giudeocristiana, il paragone tra arca e Chiesa era frequente già molto prima di Tertulliano. Lo scopo dottrinale di questo scritto, come è risaputo, è il richiamo alla concordia in seno alla comunità di Corinto. L'autore si ricorda in modo naturale dell'arca di Noe come esempio della concorde coabitazione di tutti gli esseri viventi : « Noe fu trovato fedele mediante il suo obbediente servizio (δια της λειτουργίας) e annunciò al mondo la rinascita; è a causa Ai lui che il Signore salvò tutti gli esseri viventi, che con concordia entrarono nell'arca » 115 . L'arca della concordia è evidentemente la comunità di Corinto. Proseguendo nella medesima linea di pensiero Tertulliano definisce perciò il diluvio universale « il battesimo dell'universo » 116. Come la colomba dello spirito scese su Gesù dopo il battesimo, così discende sopra i cristiani. Questo ragionamento che faceva parte degli antichi elementi della catechesi battesimale, richiama l'immagine dell'altra colomba, che annuncia alla famiglia di Noe la fine del diluvio : « Conformemente alla medesima disposizione, la colomba dello Spirito Santo volteggia sulla 115 Lettera di Clemente, 9, 4 (FUNX-BIHLMEYEH, p. 40, 1. 7-9. Cfr. un'interpretazione simile in B. KNOPF, Handbucn zum NT. Dii Apostolkhen VMer, Tubinga 1920, p. 59. 11» De baptismo, 8; 4 (CSEL 20, p. 207, 1. 25s).

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terra, ossia sulla nostra carne, quando, dopo la vecchia vita di peccato, usciamo dal bagno battesimale; essa apporta la pace con Dio; essa è stata mandata dal cielo, ove la Chiesa è la figura dell'arca » U 7 . Secondo la teologia di IRENEO, il paradosso dell'arca quale modello della Chiesa consiste nel fatto che è sempre il Signore a mandare l'acqua letale del diluvio e l'acqua vivente della Chiesa. Questo pensiero si trova già in GIUSEPPE FLAVIO, il quale designa come « paradoxon » il fatto che l'acqua del diluvio sia stata principio di salvezza per alcuni 118 . Occorre pertanto considerare un po' più da vicino la ecclesiologia di Ireneo, poiché ha esercitato un grande influsso sulla ecclesiologia dei secoli posteriori e allo stesso tempo contiene nel modo più chiaro gli elementi della teologia giudeo-cristiana del II secolo. La Chiesa può essere paragonata all'arca costruita con legno immarcescibile 119. Nella Demonstratio, Ireneo richiama espressamente l'attenzione sulla unicità di Noe, a noi già nota dalla teologia giudeo-cristiana, nella quale è stata preannunciata l'unicità del redentore Cristo: « Quando attraverso il diluvio il giudizio di Dio venne sul mondo, nella decima generazione dopo la creazione del mondo, si trovò un unico giusto, Noe. Mediante 117 De baptismo, S, 4 (CSEL 20, p. 207, 1. 28 - p. 2C8, 1. 1): qui il testo viene reso secondo la lezione di un'unica trasmissione: « de caelis, ubi Ecclesia est arca figurata ». Nel testo di Cor. Ckrist. I, p. 283, 1. 77 si trova: « Dal cielo, ove si trova la chiesa raffigurata dall'arca ». - Secondo la teologia biblica di Tertulliano, Noè è, assieme ad Adamo, una prefigurazione di Cristo e della Chiesa, e cioè del « Christus monogamus in Spiritu, unam habens Ecclesiam sponsani » : De monogamia, 5, 4-7 (Cor. Christ., II, p. 1235, 1. 44-48). 118 Antiquitates, 2, 16, 5, § 347. - Per il medesimo concetto del paradosso del diluvio che uccide e che salva nella teologia di Ireneo, cfr. J. DANIÉLOU, Sacramentum Futuri, p. 71. 118

Adv. haer., 3, 24, 1 (HARVEY II, p. 131).

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la sua giustizia, egli trovò salvezza per sé, per sua moglie e per i suoi figli, rinchiusi nell'arca » 12 °. Come il messaggio di Cristo è contenuto nei quattro vangeli, così la preparazione della salvezza operata da Dio ha conosciuto quattro testamenti: il patto con Noè, con Abramo, con Mosé e con Cristo m . La funzione determinante che vi esercita il diluvio universale e la salvezza sul legno dell'arca, è espresso nel miglior modo nel simbolo della fede, quando Ireneo parla della lettera di Clemente e ricorda esplicitamente il diluvio intercorrente tra Adamo e Abramo : « Unum Deum omnipotentem, factorem caeli et terrae, plasmatorem hominis, qui induxerit cataclysmum et advocaverit Abraham » 122. In seguito al diluvio l'unico salvato, Noe, rappresenta la continuazione ininterrotta del seme adamitico ed ha, nella storia della salvezza, il compito di conservare il « tipo primitivo dell'uomo, la figura di Adamo » 123. L'arca è come l'albero del paradiso, la immagine della caduta e della redenzione della stirpe di Adamo in virtù del legno 124 . Allorché Dio gli diede l'incarico di costruire l'arca, « Noe ricevette la misura del mondo per la seconda generazione » 125. Noè dunque, per questa dommatica biblico-teologica, è come il secondo Adamo e il modello di Cristo, che costruisce l'arca della Chiesa come nave della salvezza prima del cataclisma definitivo del giudizio finale. Con120

Demonstratio, i, 2, 19 (BKV, 2 ed., IRENEO, II, p. 596). Adv. haer., 3, 11, 8 (HARVEY II, p. 50). Adv. haer., 3, 3, 3 (HARVEY II, p. 11). 123 Adv. haer., 4, 36, 4 (HARVEY II, p. 279). Ci ricordiamo delle espressioni della Caverna dei tesori siriaca a proposito del cadavere di Adamo nell'arca e della sua inumazione sul monte Golgotha. 124 Adv. haer., 5, 16, 3 e 5, 17, 4 (HARVEY II, p. 368; p. 371). 125 Adv. haer., 4, 16, 2 (HARVEY, II, p. 190). 121

122

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seguentemente in un frammento siriano di Ireneo, il Logos viene chiamato il « pilota dell'arca di Noe » : « Hic (Logos) enim est qui Noemo fuit nauta, ipse direxit Noemum in navi » 126 . Ciò richiama alla mente le parole della Caverna siriana dei tesori: « Sul tetto dell'arca c'era l'angelo del Signore quale pilota » 127 . Di grande importanza, soprattutto per Ambrogio e per la formazione di testi liturgici, è stata la teologia dell'arca che si trovava in IPPOLITO DI ROMA, il quale ha senza dubbio raccolto pensieri della primitiva teologia simbolica giudeo-cristiana soprattutto mediante Ireneo. Nel commento al Cantico dei Cantici, Ippolito dice esplicitamente che Noe fu giustificato e fu salvato nell'arca in virtù del Redentore futuro 128. Forse il più bel brano teologico della tipologia dell'arca rispetto a Cristo e alla croce si trova nei frammenti ippolitiani sul Pentateuco (lasciamo da parte il problema della loro autenticità). In essi l'arca diventa una grande nave a prova di mare : « La nave si sollevò dai piedi del monte santo, l'acqua la trasportò, ed essa solcò il mondo in tutte e quattro le direzioni, tracciando una croce e dirigendosi dal monte santo verso occidente, in su verso il nord e quindi verso il sud; dopo ritornò verso oriente e si posò sul monte Kardu. Ciò allude alla croce; e l'arca, ossia la nave, è il Cristo atteso; l'arca infatti era la fonte della salvezza di Noe e dei suoi figli e degli animali domestici, delle belve e degli uccelli, poiché Cristo morì per noi in croce e ci ha salvati da satana e dal peccato ... e come l'arca ritornò verso la

* Frammento siriaco di Ireneo, 30 (HARVEY II, p. 461S). Cfr. sopra, nota 62. 188 Comment. in Cani. Cani., 2 (TU 23, p. 29, 1. 5-11).

127

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PADRI

l'oriente e si posò sul monte Kardu, così Cristo compì il suo faticoso viaggio e tornò in cielo, nel seno del Padre, e sedette sul trono glorioso alla destra di questi » 129 . Molti brani di questi frammenti di Ippolito ritornano nella Caverna dei tesori siriaca, ove è detto: « E l'arca volò sulle onde con le ali del vento, da oriente verso occidente, da nord verso sud, e così descrisse una croce sull'acqua » 130. La seconda omelia di ORIm GENE sulla G e n e s i vede ancora più chiaramente nell'arca una nave costruita dal vero Noe Cristo e nel diluvio l'immagine degli avvenimenti del giudizio escatologico 132. Il vero Noe della storia della salvezza è Gesù Cristo, che salva il suo popolo nell'arca della Chiesa, da lui costruita quale « architectus Ecclesiae » 133 : « Spiritualis Noe Christus in arca, id est in Ecclesia sua » 134. Segue un'artificiosa ed elegante allegoresi delle dimensioni dell'arca, già accennata a suo tempo da Ireneo, e della quale qui non intendiamo trattare a fondo, anche se, al dire di Origene, in essa sono con129 Frammenti arabi al Pentateuco IV iti Gen 8,1 (GCS IPPOLITO 2, p. 91). 130 Caverna dei tesori, 19, 5 (RJESSLER, p. 964). 111 GCS ORIGENE VI, p. 22-39. - Per la sua allegoresi dell'arca, Origene si richiama sia alla tradizioned ell'insegnamento ecclesiastico (quae nobis sunt a maioribus tradita: p. 22, 1. 18), sia alla tradizione giudaica (hebraicarum traditionum: p. 29, 1. is). 132 G C S VI, p. 30, 1. 7: « F o r m a m tenens finis illius qui vere futurus est mundi ». Indi rinvia espressamente a Lue I7,26s. Una riguardevole allegoresi alessandrina accenna al futuro diluvio di fuoco. L'arca di N o è è costruita in forma piramidale come simbolo della futura purificazione del m o n d o mediante il fuoco, Così già

I,

in CLEMENTE ALESSANDRINO,

Stromata, 6,

11,

86

(GCS CLEMENTE II,

p. 475,1. 5). - ORIGENE, Homilia 1 in Genesim (GCS VI), p. 23,1. 18). " 3 GCS VI, p. 33, 1. 17S. 151 G C S VI, p. 34, 1. 29S.

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tenute molte prefigurazioni della Chiesa 135. Ciò che intendiamo mettere in evidenza è il rapporto dell'arca e della Chiesa con Cristo, poiché « anche al nostro Noè, l'unico veramente giusto e perfetto, e cioè al nostro Signore Gesù Cristo, fu impartito l'ordine di costruirsi l'arca dalle dimensioni piene di celesti misteri. Il vero Noè è nostro Signor Gesù Cristo ; se ' Noè ' significa ' riposo ', oppure ' giusto ', diciamo che soltanto Gesù è tale » 136 . Da tutto ciò vediamo ancora una volta che il rapporto tra arca e croce e, più precisamente, tra arca e Chiesa, sono inscindibili. È impossibile condensare anche nei suoi soli elementi principali la messe dei pensieri patristici riguardanti la tipologia dell'arca rispetto alla Chiesa. Agostino si richiama esplicitamente a Origene per la tipologia dell'arca e delle sue dimensioni 137 . Nelle celebri parole della Città di Dio, che tanto influsso esercitarono sulla tipologia, AGOSTINO esalta l'arca come modello della Chiesa, come « compagine molto ben connessa » e unitaria che abbraccia puri e impuri sino al momento della loro separazione alla fine della storia 138 . Nello stesso periodo, DIDIMO DI ALESSANDRIA riassume per la teologia

greca tale tipologia: «Il diluvio, che ha purificato il 135 In connessione con Eph 3,18 le dimensioni dell'arca vengono spiegate qui (p. 33s) nelle loro quattro direzioni cosmiche. Un'allegoresi questa, che avrà ancora una ricca storia. 136 GCS VI, p. 30, 1. 7-19; p. 31, 1. 6s e 15S: « Ingentium sacramentorum figurae»; p. 34, 1. 4:. - « Mensurae caelestibus sacramentis repletae»: p. 30, 1. 19. 137 Quaestiones in Heptateuchum, 1, 4 (CSEL 28, p. 5s). - De Civitate Dei, 15, 27 (CSEL 40, 2, p. 120,1. 4). - Ancora BEDA si richiama ad Origene (PL 91, 92 A), cosi pure REMIGIO DI AUXEHBE (PL 75 A). - Cfr. per ciò H. DE LUBAC, Exéghe Medievale, Parigi, 1959, v. 1, 2, p. 463-465 (vers. ital., Roma, 1962). 133 De Civitate Dei, 15, 27 (CSEL 40, 2, p. 122, 1. 11-16).

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mondo da una peccaminosità esistente da molto tempo, è come una profezia del battesimo; e l'arca che salvò gli uomini raccolti nel suo interno è il modello della santa Chiesa e l'immagine della nostra buona speranza che su di essa si fonda » 139 . Ricordiamo ancora una volta il già menzionato scritto latino, il trattato di GREGORIO DI ELVIRA sull'arca, poiché in esso si incontrano e fondono le ecclesiologie di Giustino, Ireneo, Origene e Cipriano, che di qui giungeranno alla teologia del primo medioevo, passando attraverso Isidoro di Siviglia. L'arca e le sue tavole incorruttibili diventano l'immagine della Chiesa, che resta con Cristo nel suo splendore finale: « Arca est Ecclesia semper cum Christo mansura ». Noe, inteso come « quiete » e come « giusto », è il modello di Cristo. Le dimensioni dell'arca vengono interpretate sulla base del numero 300, simbolo della croce. I 30 bracci sono immagine della vita di Gesù, la costruzione dell'arca sino al vertice significa che la natura umana, assunta dalla Parola Eterna, è il fine supremo e il significato più profondo della redenzione mediante il legno della croce 14 °. Anche nel Tractatus Origenis egli espone la tipologia dell'arca nei confronti della Chiesa, restando pienamenla<

140

DIDIMO, De Trinitate, 2, 14 (PG 39, 696 AB).

Edizione di A. WILMAET, in Revue Bénédictine 26 (1909) p. 1-12: tldeo in unum cubitum arcae fabrica consummatur, quia in uno Christi torpore et in gratta passionum eius omnis plenitudo trai Ectlesiae redigendo* (1. 159-161). - « Usque ad unum cubitum, id est usque ad mensuram suscepti kominis qttem induit Dominus » (1. 148-150). - Anche Agostino, che paragona le dimensioni dell'arca con la statura del corpo umano, passa immediatamente a parlare del corpo del Verbo incarnato : « Mensurae ipsae longitudini! et Iatitudinis eius (arcae) significai corpus humanum in cuius ventate ad homines praenuntìatus est venturus et venti*: De Civitate Dei, 15, 27 (CSEL 40, 2, p. uós).

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te fedele al pensiero del maestro alessandrino: «In cataclysmo nemo naufragium orbis evasit nisi qui in arca Noe meruit reservari quae typum Ecclesiae portendebat » 141 . In base a quanto detto sin qui, ci sembra importante sottolineare il cristocentrismo della ecclesiologia patristica, elaborata a partire dal tipo dell'arca. Crediamo che proprio questa sia la migliore eredità della teologia giudeo-cristiana del primo e secondo secolo e cioè il concetto così spesso enunciato della unicità di Noe e della salvezza data agli altri uomini radunati nell'arca, salvezza che viene concessa loro soltanto a cagione di Noe. La tipologia della dommatica patristica descrive così la posizione unica del Messia quale vero Noe. Come già diceva Giustino, Cristo e la sua Chiesa sono la fine dell'antica stirpe del peccato e il nuovo inizio della vita data soltanto in lui, della nuova ed eterna generazione, che è salvata nell'arca della Chiesa. Cristo è Noè 1 4 2 . Anche EFREM SIRO ci ha conservato questa eredità della teologia siriana : « Noe offri il sacrificio ed arrestò i flutti ». In ciò egli è divenuto il modello di Cristo. La poetica preghiera efre141

Tractatus Origenis, XII (ed. P. BATITFOL, Parigi 1900, p. 139,

1. 21-23). 142

Qualche altro testo: PS.-IPPOUTO (PG io, 857 C). - EPIFANIO

(PG 41, 647 AB). - CIRILLO ALESSANDRINO (PG 69, 67 AB). - CRISOSTOMO (PG 48, 1037 CD; PG 57, 205). - PROCLO (PG 65, 760 C). - GIOVANNI DAMASCENO (PG 96, 6245). - AGOSTINO. Centra Fau-

stum, 12, 16 (CSEL 25, p. 345). - Viceversa anche Ambrogio chiama Noe « aedificator Ecclesiae», in Commetti, in Lucam, 3, 48 (CSEL 32, 4, p. 135, 1. 23). - Del resto ciò è già una tradizione della teologia del tardo giudaismo. Il libro di Enoch, 71, 14 dice di Noe: «Tu sei il figlio dell'uomo, che è stato generato alla giustizia ». Cfr. per ciò H. GRESSMANN, Der Messias, Gottinga 1929, p. 350; p. 356; p. 378. - Cfr. anche LUNDBERG, p, 75. - DANIÉIOU, Sacramentum Futuri, p. 64-66.

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miana è rivolta direttamente a Cristo : « La tua croce solcherà il mare. La tua grazia creò una terra di legno e l'arca generò nuova vita sul monte ». « L'arca scivolò via sulle onde, portata dal tuo amore » 143 . IPPOLITO DI ROMA enuncia la tipologia di Noe nei confronti di Cristo con un'espressione quasi contraddittoria, con cui Noe viene detto il pio ed amato da Dio, che è salvato « solo » e ad un tempo con tutta la sua famiglia : μόνος άμα γυναικί και τέκνοις 1 4 4 . Γη queste due parole μόνος άμα, « solo, ma insieme », è contenuto tutto il mistero dell'importanza salvifica della Chiesa. La salvezza è stata promessa soltanto a Noè, ma in pari tempo anche a coloro che vengono salvati mediante il legno dell'arca. Nell'opuscolo chiamato Caena, falsamente attribuito a Cipriano, Noe viene paragonato a Cristo, e l'entrata nella nave di legno alla salita del legno della croce : « Includitur Noe, suffigitur Christus » 145 . Nella catechesi battesimale di CIRILLO DI GERUSALEMME la tipologia di Noè rispetto a Cristo viene spiegata ai semplici fedeli secondo la tradizione primitiva: « Come a quegli (Noè) fu elargita la salvezza per mezzo di legno e di acqua, ossia come inizio di una nuova generazione, così pure lo Spirito Santo di143

Carmina Nisibena, ι, ι (BKV, a ed., EFREM I, p. 2525; p. 254). Elenchos, io, 30 (GCS IPPOLITO III, p. 286, 1. i6s). - Questa dialettica tra « solo » e « insieme » si fonda naturalmente sulle parole di Gen 7, 1 LXX: σύ καΐ πας ό οίκος σου, e viene continuamente espressa nella teologia dei Padri. Cfr. ad esempio ORIGENE, Homiliae in Ezechielem, 4, 8 (GCS 8, p. 369, 1. 25) : solus cum filiis suis. - AGO­ STINO, Contra Faustum, 12, 15 (GCS 25, p. 345, 1. 19-24): «Che Noè assieme ai suoi (ipse cum suis) raggiungessero il numero otto, significa che in Cristo si è manifestata la speranza della nostra resurrezione, poiché egli risuscitò dai morti l'ottavo giorno ». 145 TU, Nuova Serie, 4, 3D, p. 13. - Cfr. per ciò J. FINK, Noe der Gerechte, p. 98, nota 453. 144

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scese sul vero Noe, il creatore di una nuova stirpe ... affinché sia chiaro che è lui stesso che sul legno della croce ha salvato i credenti » 146 . Una predica indebitamente attribuita a Gregorio il Taumaturgo, e che dipende dalla suesposta dottrina di Cirillo di Gerusalemme, afferma : « Dio Padre aprì le porte del cielo e inviò lo Spirito Santo sotto forma di colomba sul capo di Cristo quale nuovo Noe, il buon pilota della natura naufraga » 147. Cristo solo è la vera quiete (Mat 11,28), il vero Noè, come dice ILARIO nel suo trattato sui misteri : « Erit ergo huic Noe Dominus noster, qui Verbum caro factum est, comparatus » 148 . E ANASTASIO SINAITA dice a proposito di Noe e della sua arca, che essi prefiguravano il Cristo futuro : « Quae quidam est verus et ccrtus typus Christi » 149 . L'influsso esercitato dal confronto tra arca e Chiesa, che torna continuamente nella catechesi battesimale e nella dommatica ecclesiale dei Padri, si spiega col fatto che molto presto anche la Chiesa particolare ο Chiesa episcopale viene designata come arca del vero e spiri146

Cattai., 17, io (PG 33, 981 AB). In S. Theophaniam, 4 (PG i o , 1188 C ) . Per il problema del­ l'origine di questa predica cfr. BARDENHEWER, V. 2, p. 332. 148 Tractatus mysteriorum, 1, 13 (CSEL 65, p. 13, 1. ios). - Cfr. 1, 13 (p. 14, 1. I s ) : «Christus oh imminens iudicium in dottrinai et ecclesiae suae arcam filios et genitos recondit ». - Per la teologia del solus Noe cfr. ad esempio ancora GREGORIO D I ELVIRA, De arca, 1. 24-26; «Ipse solus cum d o m o sua salvatus est». - CIPRIANO, De ìapsis, 19 (CSEL 3, p. 251): «Solus iustus inventus est in terris ». Cfr. per ciò J. FINK, Noe der Gerechte, p. 72. - AMBROGIO, De qfficiis, 1, 25 (PL 16, 50 B) : « Solus ex omnibus superstes ». - ISIDORO DI SIVIGLIA, Quaest. in Vet. Test., 7 (PG 83, 230 C ) : « Solus Christus iustus atout perjectus... sicut Noe Me cum suis per lignum et aquam salvatur, sic familia Christi per baptìsmum et crucis passìonem salvatur ». - N o è come re in prefigurazione di Cristo, cfr. in J. FINK, Noe, p. 97, nota 448. 149 Hexaemeron, 5 (PG 89, 914S). 147

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tuale Noe, Cristo. In una lettera GEROLAMO paragona la Chiesa romana all'arca di Noè 150. Nell'orazione funebre per il proprio padre, GREGORIO NAZIANZENO, dopo aver detto che la Chiesa episcopale di Nazianzo è un'arca, così continua : « Il vescovo trasformò la sua Chiesa in una nuova Gerusalemme, e come il grande Noe, padre di questo mondo nuovo, la trasformò in una seconda arca navigante sulle onde » 1S1. La medesima immagine torna nel discorso in lode di Basilio : « A Noe fu data l'arca e la semenza di un secondo mondo, afEdata al legno e salvata di mezzo alle acque ... Così Basilio trasformò la sua città nell'arca della salvezza, che navigò leggera sulle onde delle eresie » 152. Citiamo ancora alcuni testi presi dalla tarda latinità patristica: nella Vita di san Remigio, la Chiesa di Remis viene chiamata arca e il suo timoniere diventa un vero Noe: « In eo quod inter amarissimos huius saeculi fluctus rneritorum atque virtutum, orationum ac praedicationum remigiis sanctam ecclesiam ad portum aeternae salutis gubernavit, sicut Noe qui arcam praesignantem ecclesiam in diluvio rexit » l 5 3 . Anche nella biografia di Cesario di Arles, il vescovo viene lodato come un nuovo Noè, proprio perché fondò nella sua città epi150 Epistola, 15, 2 al papa Damaso (CSEL 54, p. 64, 1. 39). Egli dice a proposito della Chiesa romana : « Chi n o n abita nell'arca di Noè, affonderà nei giorni del diluvio ». - Anche per Ambrogio la Chiesa è paragonabile all'arca: De Noe et arca, 19, 70 (CSEL 32, 1, p. 464, 1. 22s). 151 Oratio 18, 17 (PG 35, 1005 B ) . "· Oratio 43, 70 (PG 36, 592). - Cfr. anche GREGORIO N A Z I A N ZENO, Cantra Iulianum, 1, 18 (PG 35, 545): « N o e venne salvato e salvò in una piccola nave il mondo, i semi dei popoli ». - Per l'arca come simbolo della Chiesa universale, cfr. PG 37, 1243 A. I5S Vita Remigli, 30 (MG Script. Merov. Ili, p. 327, 1. 4-7).

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scopale un convento per donne, simile ad un'arca: « Quasi recentior temporis nostri Noe » 154 . Come si vede, l'immagine dell'arca si stringe sino a divenire, nella pietà del primo medioevo, un simbolo molto usitato e perciò logoro. La ecclesiologia patristica è interessante anche da un altro punto di vista, a motivo di un'immagine, che già abbiamo incontrato spesso nella teologia del tardo giudaismo e in quella giudeo cristiana, e che qui va studiata data la sua importanza. L'arca di Noe è divenuta il principio della nuova stirpe dei salvati, poiché essa, a somiglianza di un seno materno, conteneva i germi della nuova vita innocente. Su questa base la teologia dei Padri ha sviluppato uno dei suoi temi dottrinali più profondi: la dommatica del seno materno della Chiesa, da cui promanano i figli di una nuova stirpe salvati nel battesimo 155 . Già le omilie dello PS.-CLEMENTE parlano dell'arca come inizio della nuova progenie 15e . FILONE designava la sorte della famiglia di Noe come il nuovo principio di una stirpe innocente 157. Nel IV Libro dei Maccabei, un giudeo alessandrino del primo secolo paragonava l'eroica madre dei Maccabei all'arca : « Essa era simile all'arca di Noè nel diluvio che sommergeva l'universo; conteneva in 154

Vita Caesarii, i, 35 (MG Script. Merov. Ili, p. 470, 1. 7s). Per la dottrina del fonte battesimale, e quindi dell'arca come seno materno, dobbiamo ricordare quanto abbiamo detto più sopra a proposito del carattere muliebre della nave nella cultura ellenistica. - Cfr. anche H. R A H N E R , Griechische Mythen, p. 114-117. 15 « PS-CLEMENTE, Homilia 8, 17 (PG 2,236 C ) ; (GCS P S . - C L E M E N TINE I, p. 128, 1. 21-25): ένί τ ι ν ι δ ι α κ α ί ψ όίμα τ ο ι ς λ ο ι π ο ΐ ς . N o è in quanto δ ί κ α ι ο ς anche in Homilia 17, 4 (PG 2, 385 C ) ; Homilia 18, 13 (PG 2, 416 A). 157 De praemiis et poenis, 23 ( C O H N V, p . 340S). - Legendae allegoricae, 3, 24 ( C O H N I, p. 129). 155

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sé il mondo vivente e resisteva a ondate gigantesche » 158 . Nel « Libro dei Giubilei » Noe viene chiamato « padre della stirpe pia » 159 : Ci troviamo quindi sempre nella linea di questa teologia della salvezza che ha inizio in Noe e i suoi, quando GIUSTINO afferma le stesse cose a proposito di Cristo considerato come novello Noe, e fa iniziare il compimento della salvezza con la rigenerazione dell'acqua nella virtù del legno della croce: Cristo è αρχή πάλιν άλλου γέν­ ους 1 6 0 . Attingendo immediatamente da Filone, ORI­ GENE dice che Noe è il progenitore di tutti i nati dopo il diluvio e che l'arca raccoglie in sé tutti gli esseri viventi. Nella seconda omilia sulla Genesi, asserisce che la dimensione dell'arca è cosi grande da poter contenere tutto il mondo : « Quae vere totius mundi reparanda germina et universorum animantium capere potuerint rediviva seminarla » 1 β 1 . Spieghiamo quindi brevemen­ te il significato che ha nella storia della salvezza l'arca quale seno materno e la funzione che svolge come ini­ zio e modello della comunità dei rinati in Cristo, la Chiesa, che, per dirla con IRENEO 162 , conserva per sempre in se stessa il « germe della giustizia ». Data la dipendenza spesso anche letterale di AMBROGIO da Filone, è evidente quale sia la ragione precisa per cui gli stia tanto a cuore il parlare di questa esemplarità di Noè rispetto alla nuova stirpe. Noè è auctor generationis futura;, il progenitore di tutti gli uomini futuri, che, as158

1S8

4 Macc 15, 3is

(CHARLES II, p.

681. - RIESSLER, p . 724).

Libro dei Giubilei, io, 3-6 (CHARLES II, p. 28). »° Dialogus, 138, 6 ( O T T O II, p. 486). lel Homiliae in Genesin, 2, 2 (GCS ORIGENES VI, p. 29, 1. -I2). - Adversus Ceìsum, 4, 41 (GCS ORIGENE I, p. 314): N o è quale seme di tutti i viventi. 1,2 Demonstratio, 1, 2, 18 (BKV, 2 ed., IRENEO, II, p. 545).

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sieme alla sua famiglia salvata, come « resto della stirpe passata, fu generato più per il mondo che non per se stesso » 163 . Nel suo opuscolo su Noe e l'arca, egli così scrive : « In diluvio per arcam Noe servatae sunt reliquiae generis humani ad seminarium reparationis et renovationis futurae » 164 . Egli paragona Noe a Cristo quale costruttore della Chiesa. « Quando si tratta della genealogia di nostro Signore, non si può omettere di menzionare Noe, poiché il costruttore della Chiesa lo aveva mandato innanzi come progenitore della stirpe umana, come colui che ha istituito la Chiesa nel prototipo » 165 . « Noe il giusto è il seme di tutte le cose future » 166 . GREGORIO NAZIANZENO chiama l'arca e tutto ciò che vi era dentro « il seme del secondo mondo, il legno di poco conto, che contiene la salvezza sulle onde » 167 . Noe è il modello di Cristo, « poiché salva tutto il mondo su di un miserabile legno » 168 . Servendosi dell'immagine della scintilla, a noi già nota, Crisostomo, generalmente così contrario alle spiegazioni allegoriche, parla dei μυστήρια dell'arca come mo­ dello esemplare delle cose future, compiutesi in Cristo. 163

De qfficiis, i, 25,121 (PL 16, 59). De Noe, 5, 11 (CSEL 32, i, p. 421, 1. 2-4). Per le « reliquiae generis humani » si pensa anche senza volerlo a ciò che già dicevamo a proposito delle reliquie dell'arca. 1115 Comment. in Lucani, 3, 48 (CSEL 32, 4, p. 135SS). - Cfr. N o è nella genealogia di Cristo in Lue 3, 26. 1M Cfr. AMBROGIO, In Psalmum 39, 6 (PL 14, 1060 A) : « Noe iustus semen futurorum». - Cfr. ancora De Noe, 1, 1 (CSEL 32, 1, p. 413, 1. ss) : « N o e , quem Dominus Deus ad renovandum semen h o m i n u m reservavit, ut esset iustitiae seminarium ». 197 Oratio 43, 70 (PG 36, 592 Β ) : κ ό σ μ ο υ δ ε υ τ έ ρ ο υ σ π έ ρ μ α τ α ξ ύ λ ω μ ι κ ρ φ σ ω ζ ό μ ε ν α . - Orario 4. 18 (PG 35, 545 C ) : τ ο ϋ δευτέρου κ ό σ μ ο υ π α τ ή ρ . iea Oratio 28, 18 (PG 36, 49 A). - Oratio 18, 17 (PG 35, 1006 Β). 164

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L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

« Noè è la scintilla della nostra stirpe, una scintilla in mezzo alle onde marine. Perciò l'arca non può subire naufragio, poiché imbarca, quale timoniere, il Signore di tutte le cose. La Chiesa dunque è simile all'arca, e Noè significa Cristo, e la colomba lo Spirito Santo. E come l'arca salva in mezzo alle onde coloro che sono in lei, così la Chiesa salva tutti gli erranti » 169 . Noè è il principio e la radice di quelli che sono nati dopo il diluvio 17°. Questa dommatica della necessità salvifica della Chiesa e di Cristo novello Noè, pervade le omelie che Boccadoro ha tenuto su Noè e l'arca m. Ma poiché ora questa salvezza viene data agli uomini nella Chiesa soltanto mediante la rigenerazione dal sacramento del battesimo, per questo i Padri greci paragonano volentieri il sacramento del battesimo e quindi l'arca con il seno materno ( μ ή τ ρ α ) 1 7 2 : «L'arca di Noè divenne, nel naufragio, il seno materno della nuova vita » 173 . E siccome il numero di coloro che si salvarono nell'arca era di otto, e otto rappresenta il giorno della resurrezione di Cristo, la croce e la resurrezione divengono 169 Hotnilia de Lazaro, 6, η (PG 48, 1037S). - Cfr. anche l'umilia penitenziale 7, 1 (PG 49, 336s). - Homilia 22 in Genesim (PG 53, 187 A). 1,0 Homilia 26 in Genesim (PG 53, 236). Noè qui viene chiamato ζύμη τις καΐ αρχή καΐ ρίζα. 171 Homiliae 22-29 '« Genesim (PG 53, 185-273)· "• Per la dottrina greca della vasca battesimale come μήτρα, cfr. PS.-DIONIGI, Hierarchia ecclesiastica, 2, § 7 (PG 3, 396 C): μήτρα υίο&εσίας. - CRISOSTOMO, Homilia 26, I In Ioannem (PG 59, 153 B): « Pertanto ciò che è il seno materno per l'embrione, ciò procura al credente l'acqua. Nell'acqua egli viene trasformato e formato ». Cfr. H. RAHNER, Griechische Mythen, p. iiós. 173 PROCLO, Oratio 2 in S. Andream (PG 65, 824 C) : « Guarda come l'arca nel naufragio diventa seno materno della vita ». Già conosciamo l'espressione di una predica di BASILIO DI SELEUCIA, che chiama l'arca l'embrione e il seno gravido della creazione (PG 85, 97 C).

L'ARCA DI NOÈ COME NAVE DELLA SALVEZZA

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la vera rigenerazione della nuova stirpe, al cui capo, quale nuovo Noe, c'è il Cristo 174. È ancora una volta GIOVANNI DAMASCENO che conclude e trasmette questa ecclesiologia riccamente immaginifica : « Noè ha salvato nell'arca le virtù seminali del secondo cosmo, e cosi è diventato il principio di una nuova stirpe, quale tipo di Cristo, che sul legno della croce ha salvato la nuova stirpe » 175 . Per accennare alla continuità di questa dottrina sino alla teologia bizantina, ricordiamo ancora una predica di MACARIO CRISOCEFALO per l'esaltazione della croce: In mezzo al naufragio dell'universo, l'arca rappresenta il tipo della croce; perciò salvò i semi germinali di una nuova stirpe, che ebbe inizio l'ottavo giorno, nella Pasqua del Signore, quale principio dell'eternità senza fine, che è già presente in Cristo e che fu preannunciata nel mistero dell'arca 176. Tale simbolica dell'arca come inizio prefigurativo della nuova progenie dei salvati nella Chiesa, restò viva anche presso i Padri latini. GEROLAMO parla di Noe come della « secunda radix humano generi » 177 . Così a suo tempo aveva detto anche ORIGENE. Noe è « quodam modo secundi rursus orbis creator » 178 . Cassiodoro riunisce come in un mosaico le immagini che ormai ci sono tanto familiari. Per lui la Chiesa è l'arca di Noè quale 1,4 Cfr. ASTEKIO, Sermo in Psalmum 6 (PG 40, 488 BD). - Cfr. per ciò J. DANIÉLOU, Saaamentum Futuri, 79. Del resto in ASTERIO (PG 40, 448 C) si trova anche il paragone dell'arca con il sepolcro di Cristo, in cui il Signore riposa e perciò diventa Noè, ossia άνάπαυσις, così come nella leggenda il corpo del primo Adamo riposava nell'arca. "» Homilia 4> 25 in Sabb. Sanctum (PG 96, 624 B). " · PG 150, 181 BC. "* Aduersus Iovinianum, 1, 17 (PL 23, p. 236 B). "· Homiliae in Ezechielem, 4, 8 (GCS Vili, p. 369, 1. 27).

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PADRI

seno materno della vita; perciò, come in un inno, egli così le parla : « Tu attraversi sicura il mare di questo tempo terrestre e la tremenda tempesta delle eresie, poiché sei simile a quell'arca di Noe che porta palesemente in sé la tua immagine. Tu attraversi il tempo seguendo una rotta senza pericoli per i credenti, senza che ti sovrasti la minaccia di un nuovo diluvio universale; e ciò che si trova al di fuori del tuo seno vitale, non può che finire in un mortale naufragio » 179. Il poema Contro Marciane, dipendente da Tertulliano, afferma che Noè fu preservato, assieme con la sua famiglia, in mezzo al mortale pericolo delle onde, per dare inizio ad una seconda generazione : « Promeruit tantis ereptus mortis ab undis et cum prole sua servatus in altera gente » 180 . Né la teologia della tarda latinità si è dimenticata della dottrina dell'arca quale seno materno della nuova generazione in Cristo. Leggiamo infatti nella esposizione del gallico CIPRIANO sulla Genesi: « Arca venturisque parens servabat semina saeclis, naufragio secura suo » 181 . Anche nell'introduzione alla 178 Expositio in Psalterium, Praef. 17 (PL 70, 23 A B ) : «Quidquid enim repcritur praeter vitale gremium tuum mortiferum constai esse naufragium ». - Cfr. per ciò H. R_AHNER, Mater Ecclesia, Einsiedeln 1944, p. 119. - Cfr. anche Expositio in Psalmum 118 (PL 70, 901 A). Expositio in Psalmum 131 (PL 70, 950 B). - Il paragone tra nave (arca) e seno materno viene richiesto in latino dalla somiglianza delle parole alveus=alveo ο carena, e alvus=seno materno. Cfr. ENNODIO, Dictio 13, il (CSEL 6, p. 467, 1. 7s), ove, a proposito del fonte batte­ simale, vien detto : « Mater virgo sacri fontis alvus effudit ». - V I T ­ TORE D I VITA, Historia 2, 50 (CSEL 7, p . 43, 1. 231): « Crispantem benedixit alveum fontis ». - In greco ά μ φ ι μ ή τ ρ ι ο ν significa il ventre della nave e il seno materno. Cfr. POLLUX, Onomastikon, i, 87 (ed. DINDORF, Lipsia 1824, p. 26). - Cfr. anche PG io, 777, nota 1. 180 Carmen adversus Marcionitas, III, p. 23-28 (Cor. Christ. T E R ­ TULLIANO II, p. 1434). 181 Heptateuchos, Genesis 295S (CSEL 23, p. 12).

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storia ecclesiastica dei Franchi, scritta da GREGORIO DI TOURS, si legge: «Non dubito che quest'arca sia stata il modello della madre Chiesa; la Chiesa infatti attraversa le onde e gli scogli di questo tempo terreno e ci salva dai mali minacciosi, portandoci nel suo seno materno e circondandoci con un pio abbraccio (materno gestamine fovens pio amplexu) 182. Qui bisogna almeno accennare ad un'ultimo tratto della teologia dell'arca. Generalmente FILONE DI ALESSANDRIA paragona l'arca al corpo umano: την κιβωτον λέγω δε το σώμα 1 8 3 . Oppure, in un altro passo: «L'ar­ ca è un simbolo del corpo umano, che attraversa ineluttabilmente i selvaggi e furiosi semi di corruzione delle passioni » 184 . Questo aftievolimento della tipologia dell'arca in favore di un moralismo psicologico è caratteristico di Filone, e quindi anche di Ambrogio, dato che il suo opuscolo sull'arca dipende quasi esclusivamente da Filone e generalmente diluisce l'esemplarità dell'arca in una antropologia moralizzante 185. Anche per lui, le dimensioni dell'arca, date da Dio a Noe, sono un richiamo all'armonia delle dimensioni del corpo umano : « In (arcae) exaedificatione descriptam humani figuram corporis » 186. Più precisamente: l'arca 182

Hist. Frane, i, 4 (PL 71, 164 B). De conf. ling., 105 ( C O H N - W E N D L A N D II, p . 249, 1. 6). 184 De plantatione, 43 ( C O H N - W E N D L A N D II, p. 142, 1. 11-13). - Quod deterius, 170 ( C O H N I, p. 296). 185 Tuttavia Ambrogio interrompe a volte il suo trattato un pò troppo filosofico con inserzioni per cosi dire « sacramentali », dovute certamente all'influsso di Ippolito. C o m e esempio ricordiamo l'inno di lode alla resurrezione della carne, prefigurata dall'arca: De Noe, 13, 45 (CSEL 32, 1, p. 442S). ise £>e N 0 E I g^ !j (CSEL 32, 1, p. 422, 1. is). - Cfr. Exameron, 6, 9, 72 (CSEL 32, 1, p. 258, 1. 23S): «Denique etiam in Genesi arca N o e ad fabricam humani corporis ordinatur ». 183

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è il simbolo del principale animae, άεΙΓήγεμονικόν, del centro più intimo del cuore umano; è quindi il simbolo dell'isolamento morale della persona umana, che, a somiglianza dell'arca, manovra in mezzo al diluvio del pericolo morale. L'arca è il « principale cordis vel animae ... foris diluvium, foris periculum » 187 . Ma proprio qui si impone anche l'interpretazione « sacramentale » della tipologia dell'arca. E stato soprattutto AGOSTINO ad accettare la dottrina di Ambrogio dell'arca come simbolo del corpo umano, elevandolo però al corpo del Verbo Incarnato 188. L'arca è il simbolo del corpo umano salvifico di Cristo. Anche in questa suprema identificazione di Chiesa e Corpo di Cristo, possiamo applicare all'ecclesiologia dei Padri la famosa espressione di Tertulliano : « Caro salutis est cardo » 189. Soltanto se supponiamo questa identificazione tipologica tra arca e corpo di Cristo, comprendiamo meglio una dottrina immediatamente connessa con la devozione diffusa sin dai tempi di Giustino, Ireneo e Ippolito, e quindi popolare nell'antica tradizione del18

' De Noe, i l , 38 (CSEL 32, 1, p. 437, 1. 5-12). De Civitate Dei, 15, 26 (CSEL 40, 2, p. 116,1. 25-p. 117, 1. 1): « Mensurae arcae significant corpus h u m a n u m , in cuius ventate ad homines praenuntiatus est venturus et venit». - Contra Faustum, 12, 14 (CSEL 25, p. 344, 1. 4 ) : Le dimensioni dell'arca raffigurano il corpo di Cristo (quia in corpore h u m a n o Christus adparuit). - Cfr. AGOSTINO, Epistola 187, 38 (CSEL 57, ρ. 115, l. 20s): il corpo u m a n o è tempio di Dio, t quod templum quamdiu sicut arca N o e in hoc saeculo fluctuat, fit quod in psalmo scriptum est: Dominus diluvium 188

inhabitat».

-

GREGORIO

DI ELVIRA,

De Noe

(WILMART

2,

p.

64S):

l'arca è « corpus Christi integrum ». - La medesima teologia cristocentrica della simbolica dell'arca ancora in BEDA, Hexaemeron, 2, (PL 9 1 , 88s). 1,8 De resurrectione mortuorum, 8, 2 (Cor. Chris., TERTUIXIANO Π, ρ. 931, 1. 6s).

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l'Asia Minore: la devozione alla ferita del costato trafitto del Crocifisso, considerata come fonte della vita della Chiesa, che di là promana. Ne abbiamo già parlato nel capitolo sulla fonte promanante dal corpo di Cristo. Quanto le due linee siano vicine lo vediamo in IRENEO, il quale dice a proposito della Chiesa: «Lo spirito Santo ha racchiuso la fede in un vaso preziosissimo e conserva giovanile il vaso, in cui si trova la fede. Nella Chiesa si trova la comunità con Cristo, ossia lo Spirito Santo, l'arca incorruttibile, la scala celeste per andare verso Dio ... Dove è la Chiesa, là è anche lo Spirito di Dio, e dove è lo Spirito di Dio là è anche la Chiesa ... Coloro però che non accolgono lo Spirito della verità, non ricevono la zampillante fonte di acqua che promana dal corpo di Cristo » 19 °. L'acqua viva della grazia cola dal fianco di colui che è morto sulla croce: ciò porta involontariamente l'uomo pio dei primi tempi a pensare alla porta dell'arca. Nel più recente studio su Ippolito è stata attirata la attenzione sull'importanza che ha in quella teologia il mistero del sangue e dell'acqua sgorganti dal costato di Cristo 191. Ancora una volta, alla fine della teologia greca, GIOVANNI DAMASCENO, nella sua profonda predica sul Sabato Santo, riassume il mistero del Verbo Eterno addormentato sulla croce; egli si serve dell'immagine dell'arca che ci porta a pensare alla leggenda, dommaticamente importante, di Adamo morto racchiuso nell'arca, ed allo stesso tempo richiama alla menl '° Adv. haer., 3, 24, 1 (HARVEY Π, p. 131S). - La lettura di Harvey « arrha incorruptelae » deve essere certamente mutata in « arca ». 191 Nell'edizione critica dell'omelia pasquale falsamente attribui­ ta a Ippolito (Sources chrétiennes, 27, Parigi 1950, p. 99, nota 2), P. NAUTDJ raccoglie i testi delle fonti dagli scritti autentici di Ippolito.

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te l'antiteticità del redentore morto e salvatore : «Noe era rinchiuso nell'arca e così salvò il seme per il secondo mondo e divenne la sorgente di una nuova generazione: proprio in ciò egli è divenuto il tipo del Cristo sepolto, che lava i peccati con il sangue e con l'acqua, che colano dal suo costato trafitto, e che quindi, mediante il legno della croce, ha redento tutta la nostra stirpe ed è diventato la guida verso una nuova vita e verso una nuova forma di esistenza » 192 . Questa spiegazione della porta situata sulla fiancata dell'arca fu portata a conoscenza della pietà occidentale attraverso la cristologia di Agostino e da quel tempo fa parte degli elementi originari della devozione patristica al cuore trafitto del Signore. Nella Città di Dio AGOSTINO così spiega le parole di Gen 6,16: « L'arca aveva sul fianco una porta: ciò significa palesemente quella ferita, che la lancia aprì nel costato del Crocifisso; attraverso questa porta, infatti, entrano tutti coloro che vengono a Cristo, poiché da essa sono sgorgati i sacramenti, mediante i quali i fedeli sono iniziati ai misteri » 193 . A questo punto Agostino si richiama esplicitamente alla dottrina, che aveva già esposto nell'opera contro il manicheo Fausto. L'arca si restringe in alto, egli dice, sino a misurare un solo piede, « così come la Chiesa è radunata nell'unità del Corpo di Cristo. Che sul fianco dell'arca sia stata praticata una porta d'ingresso significa che nessuno può entrare visibilmente nella Chiesa senza il sacramento della remissione dei peccati (battesimo), il quale sgorgò dal l

" Homilia in Sabbatum Sanctum, 25 (PG 96, 624 BC). "» De Ciuitate Dei, 15, 26 (CSEL 40, 2, p. 117, 1. 11-14).

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costato squarciato di Cristo » 194 . Le parole che forse esercitarono il maggior influsso nella storia della devozione alla ferita del costato del Signore si trovano nelle prediche di Agostino sul vangelo di Giovanni; esse vedono il mistero nella immagine di Adamo dormente e della porta praticata sulla fiancata dell'arca : « Bisogna aprire la porta della vita, da cui scorrono i sacramenti della Chiesa, senza i quali nessuno va alla vita vera ... Abbiamo un'immagine di ciò nel fatto che a Noè fu ordinato di praticare una porta sulla fiancata dell'arca, attraverso la quale dovevano entrare gli animali non destinati a perire; in ciò veniva prefigurata la Chiesa » 195 . Il vescovo AVITO DI VIENNE verso l'inizio del secolo VI, imita in questo punto il maestro Agostino. In una predica sulla passione del Signore prende lo spunto dalle parole del Salmo 131,8 {Surge, Domine, in requiem tuam, tu et arca sanctificationis tuaé), le mescola

stranamente con le parole riguardanti l'arca approdata in cima al monte e le applica al corpo del Redentore crocifisso ; poi così continua : « Ancor oggi riconosco tutto ciò in nostro Signore, il quale attraverso la morte di croce giunge al suo riposo, lui e l'arca della sua santificazione, ossia la sua carne. Io riconosco, dico, sul fianco di quest'arca il nostro ingresso in quel luogo ove la fonte dell'acqua viva si nascose nel corpo del morente » 196 . Noè è Cristo. Perciò, nel suo poema sul diluvio universale, Avito, parlando del patriarca, afferma : « Tu sei il secondo progenitore proveniente dalla stirpe annientata. Per mezzo della tua paternità, 191

Contra Faustum, 12, 16 (CSEL 25, p. 345, 1. 28- p. 346, 1. 1). Tractatus in Ioannem, 120, 2 (PL 35, 1935 AB). Sermo 2 de Passione Domini (MG Auct. antiqu. VI, 2, p. 106, 1. 2-4). 195

198

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dopo il primo progenitore, il mondo viene nuovamente popolato » 197. E nel medesimo poema : « Il mondo è stato salvato dalle onde mediante il legno vivificante della croce ». Il Liber de promissionibus, che non appartiene a Prospero di Aquitania, bensì ad un discepolo cartaginese di Agostino, dice a proposito del Redentore crocifisso : « Appeso al legno della croce, egli emise il suo sangue prezioso dalla ferita del costato come dalla porta dell'arca » 198. Per dimostrare l'influsso esercitato da Agostino sulla pietà del primo medioevo, accenniamo ancora all'esposizione della tipologia dell'arca contenuta nel commento di BEDA alla Genesi: « È giusto che Noe venga descritto nell'atto di praticare una porta sul fianco dell'arca; questa infatti indica chiaramente la porta che venne aperta dalla lancia del soldato nel costato del Signore e Redentore pendente dalla croce » 199 . Ancor all'inizio del secolo X ascoltiamo nel commento di REMIGIO DI AUXERRB alla Genesi l'antica spiegazione escatologica dell'arca e della porta : « Misticamente Noe significa l'uomo giusto e anche, secondo il nome e secondo le opere, il perfetto, il Cristo. Il suo nome infatti viene interpretato come riposo, poiché alla fine delle fatiche di questo mondo, Cristo condurrà gli eletti al riposo eterno. La porta sulla fiancata raffigura la ferita del costato di Cristo, da cui è venuta la Chiesa con i suoi sacramenti del sangue e dell'acqua » 200. Nella predica sulla passione, composta da un benedettino di nome Drogone (113 7), 1,7

Carmen IV de diluvio mandi, v. 257S (MG Auct. Antìqu. VI, 2, P- 245)· 198 Liber de promissionibus, 1, 7, 11 (PL 51, 739 BC). 199 Hexaemeron, 2 (PL 91, 90 A). ,M Comment. in Genesim, 6, io (PL 131, 75 BC).

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questa bella teologia simbolica si rivolge con una preghiera a Cristo : « Aprici, ο Signore, aprici la porta del tuo costato, ossia della tua arca. Tu sei il vero Noè, l'unico che Dio, tuo Padre, trovò giusto al suo cospetto. Facci penetrare in te attraverso la porta del tuo costato, che è la fede della tua Chiesa » 201 .

1. L'IMPORTANZA DELL'ARCA COME NAVE DELLA SALVEZZA NELLA STORIA DEL DOGMA

Di fronte alla pia interiorità della devozione alla ferita del costato del Signore sta l'applicazione che della simbolica dell'arca viene fatta nella storia del dogma e nella simbolica ecclesiale. La dottrina dell'arca come simbolo della Chiesa una ed unica, nella quale soltanto l'uomo raggiunge la salvezza definitiva, ha acquistato via via importanza nel corso dell'antica storia cristiana del dogma. Come avvenne per i simboli della nave di Pietro e della tavola della penitenza, cosi anche l'esegesi allegorica dei racconti della Genesi riguardanti l'albero e il viaggio dell'arca ha esercitato un profondo influsso sulla formazione delle convinzioni dommatiche riguardanti l'essenza e il destino della Chiesa. Realtà e immagine, qui come altrove, sono strettamente connesse in un preciso rapporto: non c'è "» Sermo de Passione Dominka (PL 166, p. 1527 BC). - Cfr. anche PL 184, p. 753-55. - Per gli inizi della devozione del primo medioevo al cuore di Gesù, che si forma da questo simbolo della porta dell'arca, cfr. J. LECLERCQ, Le Sacré-Coeur darti la tradition bénédktine au moyen~age, in Cor lesti, Commentationes in Litteras Encyclkas Pii XII Haurietis aquas, Roma 1959, v. 2, p. 7-10. - IDEM, Drogon et S. Bernard, in Revue Bénédktine 63 (1943) p. 124-128.

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dubbio infatti che se anteriormente alla formazione di una immagine c'è sempre una convinzione dommatica, che sceglie appunto l'immagine appropriata, è anche vero che a volte, a causa di un allegorismo eccessivo, l'immagine ha aperto la via a spiegazioni non sempre giustificabili. E così che l'arca esercita un ruolo determinante nella discussione teologica sul peccato in seno alla Chiesa, sulla possibilità di salvezza al di fuori della Chiesa e inoltre nella questione della validità del battesimo degli eretici. Queste questioni sono strettamente connesse tra loro: la Chiesa è una Chiesa dei peccatori, in linguaggio simbolico, è un'arca, che accoglie anche animali immondi e selvatici, ed è allo stesso tempo la unica Chiesa dei salvati ai quali la grazia della redenzione viene elargita soltanto all'interno di essa. La soluzione di questa aporia fu cercata già a suo tempo da AGOSTINO, là dove paragona la Chiesa all'arca, che è ancora in viaggio e tuttavia è già arrivata sul monte dell'eternità 202. E risaputo che il problema dell'appartenenza alla Chiesa restò sempre vivo sino al dibattito del Vaticano I proprio per via del simbolo dell'arca. Nei progetti della dottrina ecclesiologica che furono 202 De Ciuitate Dei, 15, 27 (CSEL 40, 2, p. 122, 1. 11-18). - La dottrina di Agostino passa chiaramente da un atteggiamento rigoristico ad una grandiosa soluzione del problema. Nel Cantra Fatistum, 12, 20 (CSEL 25, p. 349,1. 2-5) sviluppa la dottrina secondo cui molti che furono battezzati al di fuori dell'arca, in quanto manca loro almeno il ramoscello di ulivo, ritrovano poi la via del ritorno nell'arca, come avvenne alla colomba. Giungono cioè ad appartenere all'unico Noe, alla famiglia di Cristo, che in ultima analisi consiste in quell'amore, che la teologia odierna chiamerebbe il votum baptismi. Lo sguardo di Agostino, quando paragona la città di Dio con l'arca, va sempre verso la fine del pellegrinaggio : « La nostra città di Dio, che è straniera in questo mondo come in un diluvio universale»: De civitate Dei, 15, 26 (CSEL 40, 2, p. 117, 1. 24S).

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accantonati nel 1870, e che in seguito non vennero più ripresi, si afferma esplicitamente : « Non può ricevere la giustificazione e la vita eterna colui che, separato per propria colpa dall'unità della fede e dalla comunità della Chiesa, si allontana dalla vita. Se uno non è in quest'arca, perirà nella tempesta del diluvio » 203 . Si tratta della medesima dottrina enunciata già da Pio IX nel 1854: « È verità di fede che al di fuori della Chiesa apostolica romana nessuno può essere salvato, poiché essa è la sola arca della salvezza e chiunque non entra in essa, perisce nel diluvio. Dobbiamo tenere però con pari certezza che chiunque viva in una ignoranza invincibile della vera religione, non andrà soggetto a questa colpa dinanzi al Signore » 204. Il simbolo della arca diventa così l'immagine della proposizione : « Fuori della Chiesa, non c'è salvezza » 205. Qui possiamo solo accennare alle linee principali di questo complesso problema della storia del domma. Si tratta di sapere come mai il semplice paragone della Chiesa con l'arca, così caro alle catechesi battesimali del periodo primitivo, abbia prodotto un'impressione così profonda, che i migliori maestri della teologia, cominciando da Origene 206 203

Coli. Lac, 7, 569· Allocutio « Singultiti quadam » del 9 Dicembre 1854: Denz. 1647. - Per l'esposizione dommatica di questo problema, cfr. K. R A H N E R . L'appartenenza alla Chiesa, in Saggi sulla Chiesa, ediz. Paoline, R o m a 1966, p. 6ass. 205 Cfr. per ciò J. BEUMER, Extra Ecclesiam nulla salus, in Lexikon j'ùr Theologie una Kirche, Friburgo 1959, 2 ed., v. 3, col. 132OS. Q u i si dice effettivamente: « Il principio si rifa all'immagine dell'arca di N o e ». 209 Homilia injosue 3, 4 (GCS ORIGENE Vili, p. 304-306); Homilia 6, 4 (p. 320). - Cfr. per ciò H. U R S VON BALTHASAR, Sponsa Verbi, Einsiedeln 1961, p. 225-227. 204

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sino alla Chiesa papale del medioevo 207, non si siano potuti accordare sulla retta interpretazione dommatica del simbolo. Diamo anzitutto uno sguardo al problema della Chiesa dei peccatori. È noto che la storia letteraria dell'arca come nave della salvezza inizia con le parole di TERTULLIANO, che furono scritte sotto le prime impressioni della problematica montanista sulla santità della Chiesa : « Facciamo attenzione che, per rimanere fedeli all'immagine dell'arca, non permettiamo che nella Chiesa ci siano anche dei corvi, dei nibbi, dei lupi, dei cani e dei serpenti. Se l'arca è il suo prototipo, allora al suo interno non ci sono degli idolatri. Nessun animale dell'arca è un tipo dell'idolatria. E ciò che non c'era nell'arca, non deve esserci neanche nella Chiesa » 208. Come si vede la speculazione dommatica sulla possibilità che nella Chiesa ci siano dei peccatori si serve dell'immagine degli animali impuri e selvatici salvati nell'arca sia per dimostrare l'impossibilità di mettere insieme Chiesa e idolatri, e sia, in un senso contrario, per ammettere la possibilità di membri peccatori della Chiesa finché questa è in cammino. Poco tempo dopo udiamo in IPPOLITO DI ROMA che papa Callisto si serve so? Nello scisma papale e al Concilio del 1139, BERNARDO DI CHIARA VALLE parlò in tono conciliante a Pietro di Pisa : « Noi vogliamo entrare tutti in quest'arca e abitarvi con sicurezza ». Cfr. HEFELE, Conciliengeschichte, Friburgo 1886, v. 5, p. 440. - Sono note le parole della bolla « Unam Sanctam » di papa Bonifacio Vili (Denz. 468) : « Ai tempi del diluvio ci fu infatti soltanto un'arca, quella di Noe, che era immagine esemplare dell'unica Chiesa, che si restringeva in alto sino alla dimensione di un solo piede ed aveva soltanto un Noe come pilota e timoniere; fuori di questa Chiesa, cosi leggiamo, ogni essere sulla terra fu annientato ». 208 De idololatria, 24 (CSEL 20, p. 58, 1. 4-8). - Per il significato di questo passo cfr. F. J. DÒLGER, Sol Salutis, 2 ed., p. 275.

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delle medesime immagini per la questione della riammissione dei settari: « Anche la parabola dell'erba cattiva, egli dice, si deve riferire a ciò [alla possibilità di membri peccatori all'interno della Chiesa], Lascia pure che la gramigna cresca assieme al frumento, ossia i peccatori nella Chiesa. Si, egli diceva, anche l'arca di Noe è una similitudine per la Chiesa; in essa si trovavano cani e lupi e corvi, tutto il puro e l'impuro, e così deve essere nella Chiesa » 209. Anche Ippolito, nella sua esposizione positiva della fede, accetta la tradizione riguardante Noe propria della teologia giudeo-cristiana e di Ireneo, e, come vedemmo già, richiama l'attenzione sul fatto che Noè solo con i suoi fu salvato : « Noè era sommamente pio e amico di Dio, e perciò egli solo con la moglie e i figli e le loro mogli sfuggì al diluvio, essendo stato salvato in un'arca, le cui dimensioni e i cui resti sono mostrati ancor oggi sul monte detto Ararat » 210. Nel III secolo la medesima problematica si ripresenta contro la dottrina rigorista di Novaziano riguardante la santità della Chiesa. Nel trattatello Contro Novaziano, attribuito falsamente a Cipriano, l'autore spiega : « In quell'arca, che ai tempi di Noè fu costruita dalla divina Provvidenza prima del diluvio, erano racchiusi non soltanto gli animali puri, 20i Elenchos 9, 12 (GCS IPPOLITO III, 250, 1. 4-7) : per l'interpretazione di questo testo e il suo significato per la storia della penitenza del secolo III, cfr. E CASPAR, Geschichte des Papsttums, Tubinga 1930, v. I, p. 24S. - A. D'ALÉS, La théologie de S. Hippolyte, Parigi 1906, p. 217-227. - K. VON PSEYSWG, in Zeitschrift /tir katholische Théologie 43 ( I 9 I 9) P- 358-362. - B. POSCHMANN, Poenitentia secunda, Bonn 1940, p. 342-367. - J. GROTZ, Die Entwicklung des Bussstufenwesens in der vornicànischen Kirche, Friburgo 1955, p. 392-396. - A. HAMEL. Kirche bei Hippolyt von Rom, Gutersloh 1951, p. 77-81. 210 Elenchos, io, 30 (GCS IH, p. 286).

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ma anche gli impuri... Soltanto quest'arca, assieme con quelli che vi erano racchiusi dentro, fu salvata in mezzo all'acqua. I rimanenti, invece, che non vennero trovati al suo interno, affogarono a causa del diluvio » 211. Questa divisione degli animi all'interno dell'arca che naviga ancora attraverso il mare del mondo, si estende sino ai figli di Noe, come possiamo leggere nella Didascalia siriana e quindi nelle Constitutiones Apostolicae: « Poiché nell'arca di Noe sono stati salvati e benedetti due dei suoi figli, mentre Cam, figlio di Noè, non lo fu, ma la sua posteriorità fu maledetta » 212. L'immagine degli animali puri e impuri ha esercitato un ruolo anche nella teologia del IV secolo. GEROLAMO, ad esempio, che pure aveva scritto con precisione dommatica: « Si quis in Noe arca non fuerit, perit regnante diluvio » 213, tuttavia nella polemica con Gioviniano parla dell'arca come tipo della Chiesa in cui vivono i vari animali 214. Il medesimo problema tormenta lo spirito di Agostino. Nel famoso capitolo della Città di Dio egli trova la soluzione nella struttura escatologica della esistenza della Chiesa 215. Nelle prediche sul vangelo di Giovanni così parla ai discepoli: « Se l'arca prefigura 211

Ad Novatianum, 2 (CSEL 3, p. ss, 1. 1-5). Didaskalia, 2, 14, 9 (FUNK, I, p. 52, 1. 5s). - Constitutiones Apostolicae, z, 14, 8 (FUNK 1, p. 53, 1. I2s). « 3 Epistola 15, 2 (CSEL 54, p. 64, 1. 3s). 214 Adversus Iovinianum, 1, 17 (PL 23, p. 236 B ) ; 2, 22 (PL 23, p. 317 A). - Cfr. il problema della riammissione di coloro che erano stati battezzati come Ariani: Adversus Luciferianos, 22 (PL 23, p. 176 A), con rinvio al mistero del numero otto in 1 Piet 3, 20. 2 5 i De Civitate Dei, 15, 27 (CSEL 40, 2, p. 122, 1. 14-16): «I popoli hanno già riempito la Chiesa, puri e impuri, sino alla divisione finale, ed hanno preso posto nella ben strutturata compagine della sua unità». - Cfr. anche Centra Faustum, 12, 15 (CSEL 25, p. 345, 1. 9) : « in Ecclesiac sacramentis et boni et mali versantur ». 212

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la Chiesa, voi vedete bene che nel diluvio di questo mondo la Chiesa contiene ambedue i generi, i corvi e i colombi » 216 . Ed in una predica sul Salmo 103 impiega l'immagine dei diversi animali dell'arca per vedervi una prefigurazione di tutti i popoli, che verranno salvati nell'arca per il tempo finale. In tal modo il problema della simbolica degli animali impuri nell'arca viene affievolito un poco 2 1 8 e PROSPERO DI AQUITANIA potrà dire a proposito del medesimo versetto del Salmo 103,16: gli animali dell'arca «rappresentano tutti i popoli che vengono chiamati all'unità nella Chiesa » 219. Il simbolo dell'arca riveste grande importanza anche in un altro problema della dommatica della Chiesa 216

Tract. in Ioannem, 6, 2 (PL 35, 1426 A). "' Enarrationes in Psalmum 103, Sermo 3, 2 (PL 37, 1358). 216 Detto più chiaramente, secondo una soluzione non rigoristica, come quella prospettata da Agostino nell'opera Centra Faustum. (cfr. sopra nota 202). - Un'altra soluzione, pedagogico-salvifica, del problema dei peccatori nella Chiesa, è accennata da O S I C E N E : gli animali selvatici potrebbero essere stati addomesticati un poco alla volta nell'arca: « Q u o r u m ferocitatis saevitiam nec fìdei dulcedo mollivit » (GCS ORIGENE VI, ρ. 30, l. 34). 219

Espostilo super Psalmum 103, 11 (PL 51, 291 C ) . - N o n c'è

da meravigliarsi che GREGORIO D I ELVIRA, da c o m p a g n o di c o m b a t -

timento di Lucifero di Cagliari, cerchi di dimostrare il suo rigorismo anche con il simbolo dell'arca. Cfr. Tractatus Origenis, 12 (ed. BATIFFOL, p . 139, 1. 2 i s ) . - De arca Noe (ed. W I L M A R T , 1. 88-91):

« Cosi come nessuno potè sfuggire al diluvio delle acque, ad eccezione di chi era nell'arca, così nel giorno del giudizio divino nessuno sfuggirà, eccetto colui che è albergato dall'arca della Chiesa cattolica ». Ed alla fine del trattato ammonisce i cristiani ( W I L M A R T , 1. 211-215): « Vedete dunque, cari fratelli, che nella costruzione di quell'arca tutto fu detto in previsione del sacramento della Chiesa santissima, e l'uomo non può sfuggire altrimenti al naufragio di tutto il m o n d o , così come nel diluvio nessuno scampò all'infuori di quelli che l'arca albergava in se stessa». - Cfr. la dottrina di Agostino anche in B E D A (PL 9 1 , 91 C D ,· 223 D ) . 10 — L'ecclesiologia dei Padri

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antica: nella storia della penitenza del III secolo e nel problema ad essa connesso della validità del battesimo amministrato dagli eretici. Quanto sia importante la storia del sacramento della penitenza per la spiegazione iconografica delle immagini dell'arca nella Chiesa antica, ce lo ha mostrato JOSEPH FINK 220. L'argomentazione della maggior parte dei teologi del III secolo quanto a questo problema è molto semplice: Se l'arca significa la Chiesa, allora chiunque ne è fuori non verrà salvato, e perciò non si può neanche amministrare validamente il battesimo al di fuori dell'arca. Noi ci ricordiamo della predica piuttosto ingenua sulla pece dell'arca, tenuta dal vescovo donatista che cercava un fondamento biblico alla sua dottrina dell'invalidità del battesimo degli eretici : « Eandem arcam Noe ideo bituminatam intrinsecus ne aquam emitteret suam; ideo autem edam extrinsecus, ne admitteret alienam » 221. Egli avrebbe potuto richiamarsi anche a CIPRIANO, la cui dottrina dell'invalidità del battesimo degli eretici è nota. Così, ad esempio, nella lettera 74, ove l'arca è additata come una personificazione del mistero dell'unità ecclesiale: «Poiché, come in quel battesimo del mondo, con il quale fu lavata l'antica peccaminosità, chi non era nell'arca di Noe neanche potè essere salvato mediante l'acqua, così anche oggi non può essere salvato mediante il battesimo, chi non è battezzato dentro la Chiesa, la quale, a somiglianza dell'unica arca, è fondata sull'unità del Signore » 222. Le parole di Ci220 J. FINK, Noe der Gerechte in der fruhchristlichen Kunst, Miirister-Colonia 1955, P· 70-85. 221 AGOSTINO, De unitale Ecclesiae contra Donatisias, s, 9 (PL 43, 397 C ) . 2 « Epistola 74, 11 (CSEL 3, 1, p. 809, 1. 10-14).

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priano, non più dimenticate fino ad oggi, dimostrano la fruttuosità, ma anche la pericolosità di una teologia dell'immagine che chiede troppo all'immagine : « Habere non potest Deum patrem, qui ecclesiam non habet matrem. Si potuit evadere quisquam qui extra arcam Noe fuit, et qui extra ecclesiam foris fuerit evadit » 223 . Per la conoscenza di questa teologia battesimale, che era così scottante quasi esclusivamente nella Chiesa latina occidentale, ha una particolare importanza la lettera, che il vescovo Firmiliano scrisse a CIPRIANO dall'Asia Minore: «Poiché l'arca di Noè non era altro che un mistero rispetto alla Chiesa di Cristo e poiché a suo tempo l'arca ha salvato soltanto coloro che si trovano all'interno di essa, mentre tutti coloro che ne erano fuori annegarono, ci viene insegnato chiaramente che dobbiamo fare ogni sforzo per l'unità della Chiesa » 224 . Ora questa unità viene data soltanto nel bagno unico e salvifico del battesimo. Nella difesa dell'eresia ariana del IV secolo ritorna la medesima argomentazione, ma semplificata. Il partito del vescovo LUCIFERO DI C A GLIARI, a cui apparteneva anche Gregorio di Elvira, non è d'accordo con la politica dommatica canonica, apparentemente troppo rinunciataria, di papa Liberio e degli uomini dell'attempato Atanasio. Questo partito degli oltranzisti luciferiani, per giustificare il proprio rigorismo, si richiama al simbolo dell'arca. Lucifero 223 De untiate Ecclesiae, 6 (CSEL 3, ι, ρ. 214, 1. 23-25). *2* Conservato nella trasmissione latina tra le lettere di Cipriano, come Epistola 75, 15 (CSEL 3, 1, p. 820, 1. 13-23). - Cfr. anche Epi­ stola 69, 2 (CSEL 3, 1, p. 751, 1. 10-18). - Sull'influsso dell'immagine dell'unica arca di Noè sulla dommatica nella polemica sul battesimo degli eretici cfr. E. ERNST, Die Stellung der romischen Kirche zur Ketzertauffrage, in Zeitschrift fiir katholische Tlteologie 29 (1905) p. 81 ; p. 276.

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grida agli eretici: « Ut enim illi positi extra arcarti saivari non potuerunt, ita nec vos, sed sic sitis interituri, nisi credentes in unicum Dei filium. eius in sancta Ecclesia fueritis commorantes nobiscum » 225. Richiamandosi a Cipriano, FULGENZIO DI RUSPE tratta dello stesso problema: l'eretico battezzato validamente, il quale non si trova nella Chiesa visibile, appartiene a coloro che annegano fuori della Chiesa. « L'acqua uccide, mentre solleva verso il cielo tutti coloro che essa trova nell'arca. L'acqua solleva l'arca in alto verso il cielo, ma ciò che si trova al di fuori, lo inghiottisce e lo uccide » 226. Ci voleva, lo diciamo ancora una volta, il genio di un AGOSTINO, che sapesse concordare la simultaneità dell'esistenza terrena della Chiesa con il suo approdo escatologico nel porto. Chiunque è stato battezzato validamente, è « dentro » ; e viceversa, ci sono molti che sembrano stare nella Chiesa, ma in realtà ne sono già fuori 227. Questa divisione degli spiriti diventerà palese soltanto il giorno dell'approdo, anche se essa si attua già « dentro », in ogni momento dell'esistenza terrena dell'arca. Richiamandosi alla lettera 73 di Cipriano, AGOSTINO, nel suo trattato sul battesimo contro i Donatisti, così scrive con la sua inimitabile densità di concetti : « Eadem quippe arcae unitas eos salvos fecit, in qua nemo nisi per aquam salvatus est... Si non per 225 De s. Athanasio, 2, 18 (CSEL 14, p. 181, 1. 6-10). - La replica di Gerolamo è consapevole della difficoltà del problema : « Iste scrupulus multos titillat »: Dialogus adversus Luciferianos, 21 (PL 23, 175 D). 226 De remissione peccatorum, i, 20; 21 (PL 65, p. 543S). Cfr. anche ILARIO, Tractatus in Psalmum 146, 12 (PL 9, p. 874 B). - GEROLAMO, Epistola 22, 38 (CSEL 54, p. 204). - GAUDENZIO DI BRESCIA, Sermo 8 (CSEL 68, p. 74, 1. 4-8). 227 De imitate Ecclesiae contra Donatistas, 5, 9 (PL 43, 397 B D ) . - Breviculus collationis cum Donatistis, 9, 16 (PL 43, 633 AB).

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aquam, quomodo in arca? Si non in arca, quomodo in ecclesia? Si autem in ecclesia, utique in arca: et si in arca, utique per aquam » 228. Terminiamo qui l'indagine sulla tipologia dell'arca nei confronti di Cristo e della Chiesa. Ciò che ora segue, meriterebbe d'essere attentamente considerato: si tratta infatti della sopravvivenza di tale dottrina nel primo medioevo, a partire da ISIDORO DI SIVIGLIA229 sino al trattato De arca Noe di UGO DI S. VITTORE 230 . Anche in questo caso si vedrebbe che, con la fine del XII secolo nella teologia occidentale muore la capacità di comprendere la teologia simbolica patristica, che non trova più posto nella scolastica nascente. Molto più ricchi sono i cinque secoli della ecclesiologia dei carolingi e dei primi benedettini, che attinsero a piene mani nei tesori patristici, raccolti da ISIDORO DI SIVIGLIA. In essa, la proposizione fondamentale della tipologia dell'arca è sempre l'espressione di Isidoro: «Ma Noe, in tutto ciò che egli è e compie, rappresenta soltanto Cristo » 231. « Noe significa quiete e in ciò egli è l'immagine esemplare del Signore, nella cui Chiesa trovano la quiete coloro che vengono salvati dal diluvio di questo mondo come in un'arca » 232. Leggiamo ancora in Ugo di S. Vittore: «La Chiesa è l'arca che l'ultimo Noe, ossia nostro Signor Gesù Cristo, guida 228

De baptismo cantra Donatistas, 5, 28, 39 (PL 43, 196 C ) . Cfr. soprattutto le sue Quaestiones in Vetus Testamentum, in Genesim 7 (PL 83, 229-235). 230 De arca Noe Libri IX (PL 176, 617-681). Ivi soprattutto la sezione De arca Noe morali, i, 4 (PL 176, 629-634). - H. DE LUBAC, Exégèse medievale, Parigi 1961, v. 2, p. 317- 328 (vers. ital., R o m a 1962). 231 PL 83, 229. 232 PL 83, 102 A. 229

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come un timoniere e conduce al porto attraverso le onde di questa vita; egli la riconduce mediante se stesso ed a se stesso » 233. La dottrina più brillante e più indipendente della tipologia dell'arca si trova nella esposizione della Genesi 234 e nello Hexaemeron 23s di BEDA VENERABILE. Anche qui l'affermazione fondamentale è questa: «Ma Noè raffigura in tutto Cristo che ci redime nel legno e nell'acqua, ossia mediante la croce e il battesimo » 236. L'arca della Chiesa è l'unica salvezza tra i due giudizi divini, quello dell'acqua del diluvio e quello del fuoco del giudizio finale, tra il blu e il rosso dell'arcobaleno 237. Con una spiegazione svincolata dalla tipologia di Origene 2S8 e dalla sua ricca allegoresi delle dimensioni dell'arca e della loro riduzione all'unica dimensione del corpo umano di Cristo, Beda riprende e arricchisce la dottrina dei Padri, distinguendo accuratamente tra la spiegazione escatologica e quella sacramentale ecclesiologica dei misteri dell'arca 239. Nello sfondo della sua dottrina brilla un'immagine interiore e profondamente pensata della Chiesa. Poco prima dell'opera teologica di Beda, l'anglosassone Caedmon 2 4 0 , un figlio di contadini, aveva cantato le sue »»» PL 176, 629 D . «4 In Cenesim, 5-8 (PL 91, 221-226). " 5 Hexaemeron, 2 (PL 91, 85-106). »»· PL 91, 222 A. 237 PL 9 1 , 1 1 0 B . ·"· PL 91, p . 109 C D ; PL 91, 92 A. ,M PL 91, 86 B C . - La stessa teologia ecclesiologica dell'arca è espressa da B E D A brevemente e chiaramente in una delle sue omelie: Homitia i, 14 (Cor. Chris. 122, p. 100, 1. I59ss). 240 Resta ancora a vedersi se la Vita di Noè, trasmessa tra le poesie di Caedmon, sia veramente sua. La poesia sull'arca di N o è , ad ogni m o d o , è una ragguardevole testimonianza della permanenza e del cambiamento dell'allegoresi patristica. Cfr. per ciò C. W. G R E I N , Dichtungen der Angelsachsen, Heidelberg 1930, 2 ed.

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rozze allitterazioni nella spiegazione della Genesi; e nella poetica merovingia del VII secolo si incontrano gli aspri versi su Noè e sull'arca, che attestano il cristocentrismo di tutta la dottrina simbolica di quei tempi: « Noe iustus Dominus arcam iussit fieri. Arcae per diluvium guberantor quis fuit? Benedictus Dominus Christus Dei filius » 241 . L'inizio e la coscienza della teologia carolingia sono caratterizzati dall'introduzione al primo libro dei Libri Carolini, nei quali Carlo Magno è lodato come pilota dell'arca, che è la nave della Chiesa 242. Nelle sue domande e risposte sulla Genesi, ALCtnNO, servendosi della mediazione di Beda, presenta alquanto scolasticamente l'eredità patristica e anche nelle sue poesie giunge a parlare di Noe come padre della nuova stirpe e come riposo per il mondo, sempre secondo il pensiero agostiniano 243 . Bisognerebbe dire la stessa cosa anche per RABANO MAURO 2 4 4 , TEODULFO DI ORLEANS 2 4 5 , ER246 MENRICO DI EIXWANGEN e altri poeti carolingi. La lil

Ritmo Merovingio 25, v. 13-18 (MG Poetae Latini IV, 2, p.

649).

z4 * Cfr. la traduzione tedesca in HEFELE, Conciliengeschkhte, v. 3, P- 699. a4a Interrogationes et responsione* in Genesim, 101-137 (PL 100, p. 527-532)· - Carmina, 69, v. 45-48 (MG Poet. Lat. I, p. 289). ! " Comment. in Genesim, 2, 6 (PL 107, 515-18). - Una poesia

di RASANO SU Noè: cfr. in MG Poet. lat. II, p. 195. 215

Carmen 21, 13S (MG Poet. lat. I, p. 478). "· MG Epist. V, p. 539, 1. 353; p. 558, 1. 37SS. - Cfr. anche la poesia di MILO (MG Poet. lat. Ili, p. 620).

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L'ECCLÉSIOLOGIA

D E I PADRI

tematica è ovunque la medesima. Due ulteriori fasi di questo ultimo sviluppo degli elementi patristici stanno ad attestare il passaggio al pensiero propriamente medievale. L'arca di Noe diventa l'immagine dell'anima interiore, come dice un mistico del secolo XII : « Arca est anima. In arca debemus salvari, ad ipsam redeuntes, ipsam intrantes, sicut scriptum est : redite ad cor » 247. Un'altra interpretazione medievale si collega ai pensieri che abbiamo già recensito presso i Padri a proposito dell'arca come seno materno della nuova vita: l'arca significa il seno materno della santa Vergine, da cui fu generata la nuova vita in Cristo. Così già in un inno del secolo X di Reichenau 248. Così pure nell'opera di un discepolo di Bernardo di Clairvaux : « Come dunque mediante quell'arca tutti sfuggirono al diluvio, così mediante Maria tutti sfuggono al naufragio del peccato » 249 . Del resto, questa applicazione mariologica dell'allegoresi dell'arca è frequente anche nella teologia bizantina 250. L'immagine di Maria come arca della salvezza fu ed è ancor oggi ravvivata nella teologia per il fatto che nella bolla « InefFabilis Deus » del 1854, Pio IX chiama la Madre di Dio arca della salvezza 251. La storia della tipologia dell'arca è esattamente un riflesso dello sviluppo della teologia di mille anni, da 247 P S . - U G O DI S. VITTOHE, Allegoriae in Vetus Testamentum, I, 14 (PL 175, 642 D). 248 F. M O N E , Lateinische Hymnen des Mittelalters, Friburgo 1853, v. 2, p. 386. 148 Sermo de Beata Maria Virgine (PL 184, 1017 C D ) . 250

Cfr.

GIOVANNI

DAMASCENO

(PG

96,

712 C.)

-

PROCLO

(PG

65, 760 C ) . 251 Cfr. A. BEA, Das Marienbild des Alteri Bundes, in P. STRATER, Katholische Marienkunde, Paderborn 1952, 2 ed-, ν. ι, ρ. 39.

L'ARCA DI N O È COME NAVE DELLA SALVEZZA

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Origene sino a Bonaventura. All'inizio di questa storia, Origene ha così ammonito i suoi fedeli « Ex ipsa arca mysterium magnum, quod in Christo et in Ecclesia impletur agnosce » 252. Alla fine del periodo romanico, un orante scrisse i versi, che poi risuoneranno nella mistica francescana della croce di Bonaventura e riecheggiano ancora una volta tutta la bellezza della teologia patristica (già li conosciamo in parte): « Ligno crucis fabricatur arca Noe qua salvatur mundus a miseria. Servos tuae crucis, Christe, mundi maris due per triste, Crucifer, naufragium » 253. Così la nostra esposizione della mistica dell'immagine della nave della Chiesa passa nella escatologia propriamente detta, nell'immagine del beato approdo della Chiesa nel porto del riposo eterno. Agostino ha concluso la tipologia dell'arca con una delle più grandiose espressioni, con lo sguardo alle ultime cose e all'inizio dell'eternità, a partire dal quale soltanto si comprende la storia dell'arca e di coloro che si salvano in essa : « Il fatto che la colomba fu nuovamente rilasciata da Noè sette giorni dopo e non ritornò, rappresenta la fine del mondo, quando per i santi giunge il riposo, non più soltanto nel sacramento della speranza, nel quale durante l'epoca presente la Chiesa si amalgama, bevendo continuamente ciò che sgorga dal costato tra"· GCS Origene VI, p. 38, 1. 3S. "' Analecta Hymnica, 8 (Lipsia, 1890), p. 29S.

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L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

fitto di Cristo: ma nel vero compimento della salvezza eterna, quando il regno verrà consegnato a Dio Padre, ove noi, nella luminosa visione della Verità immutabile non avremo più bisogno di misteri corporalmente visibili» 254 .

·»* Centra Faustum, 12, 20 (CSEL 25, p. 349, 1. 5-12).

9L'ARRIVO IN P O R T O

Ciò che ora segue nello studio da noi posto sotto il titolo generale di « Antenna Crucis », è come un epilogo e contiene la parola definitiva, senza cui non si comprenderebbe quanto siamo andati dicendo sin qui: la dommatica della escatologia della Chiesa, espressa con l'immagine del beato approdo, del porto e dell'ancoraggio dell'eternità. Quanto sia importante la teologia della Chiesa come nave, che è ancora in viaggio e, non di meno, dopo la morte in croce di Dio e la sua resurrezione, è già giunta in senso vero e proprio, lo vediamo dalla massa di pensieri patristici, che siano andati presentando attorno a questo tema nelle pagine precedenti. La Chiesa è la nave che solca il cielo, che veleggia attraverso il mare del mondo, che è certa di arrivare, perché Cristo non soltanto ci ha elargito il legno della croce per costruirla, ma, mediante la sua resurrezione, ha anche compiuto anticipatamente il mistero dell'« arrivo nel porto » l. Egli ha affidato tale mi1 Questo il titolo di una liturgia siriaca. Cfr. A. RUCKEH, Die t Ankunft im Hafen » des syrisch-jakobitischen Festrituals una vertvandte Riten, in Jahrbuch fiir Liturgiewissenschafì 3 (1923) p. 78-92. Cfr. sotto, alla nota 73.

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L ' E C C L E S I O L O G I A D E I PADRI

stero alla Chiesa, la quale pertanto è sicura della salvezza ; i suoi membri, nel mistero pasquale, si sentono sempre certi della salvezza e si preparano a diventare partecipi del paradiso e del riposo nel porto dell'eternità. I Padri hanno visto questo destino della Chiesa raffigurato, come in una bella immagine, nel racconto di Noè e della sua famiglia (Gen 8,15-18): dopo l'approdo dell'arca sul monte Ararat, cosi dice Agostino, Noe e i suoi figli raffigurano l'arrivo alia pace finale della perfetta città di Dio 2 . Nella ecclesiologia di BEDA tale immagine è un tipo del mistero esistente tra Cristo e la Chiesa, che si svela nel suo significato più profondo soltanto a partire dalle ultime cose 3 . Già per CLEMENTE ALESSANDRINO lo scopo del viaggio cristiano della vita è l'approdo nella città di Dio 4. Secondo la tradizione del giudeo-cristianesimo, alla quale hanno richiamato la nostra attenzione il PETEHSON5 e il D A NIFXOU 6 , questo momento escatologico dell'approdo nel « porto del riposo » è già accennato nel Testamento di Neftali, ove la nave di Giacobbe raffigura la comunità salvifica ecclesiale, che viene salvata nonostante il il naufragio: « E quando la tempesta cessò, la nave toccò terra e fu in pace » 7. In questa teologia simbolica delle origini, il porto è la raffigurazione dell'άνάπαυσις ; esso raffigura contemporaneamente anche il battesimo, che in virtù della morte di croce già anticipa la possibilità finale di salvezza e fa della Chiesa il porto sem2

Cantra Faustum, 19, 21 (CSEL 25, p. 350, 1. 2-6). PL 91, 226 B . Paidagogos, 3, 12, 101 (GCS CLEMENTE I, p. 291, 1. 4-6). 5 Friihkirche, Judentum una Gnosis, Friburgo i960, p. 92-96. * Les symbotes chrétiens primitifs, Parigi 1961, p. 68-70. ' Testamentum Nephtali, 6, 1-9 (CHARLES II, p.338). 3 4

L'ARRIVO I N P O R T O

941

pre sicuro 8. Dio ha preparato la città di Gerusalemme come luogo di riposo per l'arca 9 . Nel paragone navale contenuto nella lettera di Clemente a Giacomo, il tema fondamentale della simbolica patristica del porto della salvezza viene così delineato : « Se siete d'accordo, allora potete essere portati al porto della salvezza, là dove è la città pacifica del grande Re » 10. La città della pace è Gerusalemme, Cristo ne è il « buon Re » u . e i fedeli abitanti vengono esortati alla preghiera e al buon viaggio, « affinché, viaggiando a gonfie vele, possiate dirigervi con minor pericolo verso il porto della città sperata » 12. Non sarà male pertanto se chiariremo innanzitutto il simbolo del porto del riposo e dell'approdo nell'eternità dopo la traversata di questa vita, servendoci della simbolica ellenistica. Ancora una volta, come abbiamo fatto per Ulisse e per la tavola della salvezza dopo il naufragio, passeremo in rassegna le testimonianze che ci permetteranno di comprendere perché mai, nelle loro prediche e catechesi, i Padri della Chiesa parlino così volentieri e così insistentemente dell'approdo nel porto dell'eternità. Tutto ciò che è connesso con il porto e con i suoi moli protettivi (in greco λιμήν e δρμος) era di vitale importanza per il navigante dell'antichità. Per questo 8 Cfr. i testi in P. LUNDBEHG, La typologie baptismale dans l'ancienne Eglise, Uppsala 1942, p. 75-85. 8 J. DANIÉLOU, Sacramentum Futuri, Parigi 1950, p. 78S. 10 Epistola Ckmentis, 13, 3 (GCS PS.-CLEMENTINE I, p. 16, 1. 3s; PG 1, 49 A). 11 Ivi, 4, 3 (I, p . 9, 1. 1). la Ivi, 14, 6 (I, p. 17, 1. 5-7).

942

L'ECCLESIOLOGIA DEI PADRI

egli giunse persino a personificare il porto 13. C'è nell'Anthologia Graeca una graziosa poesia sul porto di Pozzuoli, ove un giorno era approdato anche Paolo con la nave alessandrina consacrata a Castore e Polluce (Atti 28,11-13). Il molo del porto è imponente e se ne vanta con queste parole : « Io accolgo la flotta del mondo. Guarda sopra di te verso Roma: credi che io abbia il porto che basti alle sue dimensioni? » 14 . Nelle sue lettere, CASSIODORO, loderà il porto di Roma, dove si cominciano a gustare le deliciae romanae 15 ; e anche Crisostomo scrivendo, con un linguaggio biblico (di cui conosciamo già le espressioni), a papa Innocenzo, parlerà della Chiesa di Roma come molo protettore nella tempesta 16. Di qui si comprende come l'uomo antico parli continuamente della traversata della vita e quindi del porto del riposo e della morte. Già SOFOCLE paragonava il porto al rassicurante seno materno 17. Nave e porto sono inseparabili; per questo ESCHILO parla del giubilo della nave giunta nel porto sicuro (δρμω ναϋν θρασυν&ήνοα) 1 8 . Lo stato d'animo del navigatore dell'antichità rivive nel modo più immediato nelle poesie aell'Anthologia Graeca. Incappato nel pericolo, il timoniere prega Giove di concedergli un buon viaggio (εΰπλοια:): «Danne anche ora un viaggio propizio, sii oggi il mio salvatore e conducimi 13 Cfr. W H. ROSCHER, Lexikon der griechischen uni romischen Mythologie, Lipsia 1894, v· 2, 2, p. 2130S. 14 Anthologia Graeca VII, p . 379 (BECKBY, Monaco 1957, v. 2, p. 222). " Var., 7, 9 (PL 79, 715 A B ) . " P G 52, p . 535 B. - M A N S I , V. 3, p. 11135. 17 Oed. T., 1208. 18 Supl., p. 772.

L'ARRIVO IN PORTO

943

dal pericolo al porto della tranquillità » 19 . Oppure in un inno a Τύχη : « Le navi, che il tuo aiuto salva dal mare ondoso, trovano consolante rifugio e tranquillità nel silenzio del porto » 20. Abbiamo già citato più sopra 21 la bella poesia di PALLADE sulla traversata della vita, ma la presentiamo di nuovo qui, nella seguente traduzione: « La vita è un viaggio sul mare. Tutto attorno sono appostati i pericoli, e spesso una tempesta di vento ci colpisce peggio di un naufragio in mare. Altezzosa siede al timone della vita Tyche, la dea; noi veleggiamo nel blu come sulle onde del mare. Alcuni viaggiano felici, altri ne sbatte la bufera, tutti però andiamo sottoterra, alla fine, verso il medesimo porto » 22 . Al medesimo Pallade dobbiamo i la rinuncia e la rassegnazione stoica: tener dinanzi agli occhi, quando più no le parole del cristiano sicuro del di là:

versi in cui parla versi che bisogna tardi si ascolteransuo arrivo nell'ai

« Io sto al di là della speranza e della felicità, le vostre bugie non mi possono più ingannare: finalmente son giunto in porto » 23 . 19

9, 9 (BECKBY, v. 3, p. i Cfr. ad esempio VITTRICIO D I R O U E N (PL 20, 456 A ) . 118

PL 83, 281 A. " · PL 83, 106 B.

L'ARRIVO IN PORTO

965

si trova sull'altra riva, è anche, in senso molto ampio, il « porto della salvezza », come la chiama EUSEBIO (σωτηρίας όρμος) 120. La barca della Chiesa è già nella pace e ormai giunta in porto, predica Pier CRISOm 122 LOGO . Essa è il « porto senza tempesta di Cristo » . In una sua predica AGOSTINO ha descritto con vivacità questa dommatica della certezza della salvezza, espressa in immagini, descrivendo con tutta l'arte della sua eloquenza una tempesta marina, in cui la nave in pericolo non può servirsi del timone né della vela : « Tutto ciò che resta ai marinai è rivolgere preghiere e grida al Signore. Egli dunque, che accorda ai naviganti lo ingresso nel porto, dovrebbe forse venir meno alla sua Chiesa e non condurla alla tranquillità? » 123 . Certo, i Padri a volte dipìngono anche il naufragio della salvezza, che può aver luogo in mezzo alla calma non ancora completa del porto, e in questa dottrina espressa in immagini l'antico detto del « nufragio in porto » riceve un completamento dommaticamente profondo m . Ma la gioia cristiana per la salvezza assicurata e definitivamente iniziata nella croce e nella resurrezione del Signore ha sempre l'ultima parola nell'antica ecclesiologia cristiana. La salvezza infatti è assicurata dalla 120

Vita Constantini, 3, 63 (PG 20, 1139B). - GCS Eusebio I,

p. i l i , 1. 12). 121

Homilia 149 (PL 52, 598 B): nHodie ecclesiae navis in portu est et haereticorum furor iactatur in fluctibus ». 122 Nella lettera di PALLADIO DI SUEDRA ad Epifanio all'inizio déH'Ancoratus (PG 43, 16 B). 123 Sermo 75, 3 (PL 38, 476 A). - cfr. una raccolta della simbolica della nave e del porto in Ilario nell'introduzione di W. ANTWEILER, BKV, 2 ed., Ilario I, 1933, p. 22-24 . 124 Oltre ai testi che abbiamo già presentato nel capitolo sul « Naufragio ». cfr. ad esempio CIRILLO ALESSANDRINO (PG 77, 996 A). - AMBROGIO, De qfficiis, 2, 2, 7 (PL 16, 105 C).

966

L'ECCLÉSIOLOGIA DEI

PADRI

morte in croce del Signore. La Chiesa, per citare ancora una volta un'espressione di IPPOLITO, è « come una nave; ha con sé Cristo in qualità di esperto pilota e porta nel suo centro la croce del Signore, il segno di vittoria contro la morte » 125 . Perciò, a buon diritto, abbiamo presentato questa trattazione sotto il titolo generale di « Antenna Crucis ». Ed ora, giunti alla fine, ritorniamo all'inizio, ove CLEMENTE ALESSANDRINO dice : « Il Logos di Dio guiderà la tua nave, il santo Pneuma ti farà ritornare nel porto del cielo » 126 . La Chiesa è in pellegrinaggio e tuttavia è già arrivata. La sua celeste terrestrità è incancellabile della sua fisionomia. Come la teologia odierna torna a sottolineare e come i Padri dell'antichità già sapevano perfettamente, essa è il grande sacramento del Regno di Dio, la Madre che muore nel diffondere la vita, la luna che decresce accostandosi al sole Cristo, l'arca da cui esce salvata la famiglia di Dio quando è approdata nel regno della pace. Non abbiamo incontrato nella teologia patristica nessuna espressione più bella di quella scritta da IPPOLITO nella esegesi a Prov 25,54 (LXX), per esprimere questo transito escatologico della Chiesa visibile nel Regno invisibile. Il Sapiente dei Proverbi si meraviglia che la nave viaggia per mare non lasci alcuna orma dietro di sé. A questo proposito IPPOLITO dice: « Cosi neanche la Chiesa. Essa viaggia ancora attraverso il mare. Ma ha lasciato la propria speranza dietro di sé sulla riva, poiché la sua vita è già ancorata in cielo » 127 . 128

De antkhristo, 59 (GCS IPPOLITO I, 2, p. 39S). Ptotrepticon, 12, 118, 4 (GCS I, p. 83, 1. 27). 127 Frammento 27 su Prov. 30,19 (Volgata) (GCS IPPOLITO I, 2, P- 165)· 121

INDICE

INDICE NB. - L ' e s p o n e n t e

ANALITICO

rimanda

A ABRAMO, significato allegorico dei 318 servi, 711SS. ABYSSUS, profondo del mare, sede del diavolo, 483SS, 498 1 ' 5 . A C Q U A E LEGNO, 758;

=

croce

e battesimo, 886, 889, 959. A C Q U A LUNARE, 235SS.

ACTA ARCHELAI, 553 13 °, 560 155 . A D A M O , il suo corpo giacente nell'arca di Noè, 885, 915"*; peccato originale, 780, 884; la tomba sul Golgota, 885; Adamo-Noè-Cristo, 902; tipo di.Cristo, 887; naufrago, 755. ADAMO

DI

S.

VITTORE,

733.

AGOSTINO, dottrina del Verbum coriìs, 19S, 23; dottrina della nascita di Dio dalla Chiesa, 97-103; in Eckehart, 140S, 149S; allegoria della luna, 155, I 6 I 1 2 , 162 13 ; teologia lunare, 216227; 269S; resurrezione della carne, 277S, 284; esegesi di Giov 7, 37, 328, 331; 339 126 , 402; canto dei marinai, 405S, 447s, 457; simbolica del mare, 468, 487S; Neptunalia, 474, 485; 500, 512 4 ; dottrina della navicella della vita, 554, 554 1 3 a ; 56o 1M , 564, 577, 581; dialettica del legno della croce e della Chiesa, 599S; 608, 668, 670S, 675S; su Ezechiele 9, 4, 7ios; 713, 721, 741, 747 48 ,

alla n o t a della p a g i n a citata. 748, 763s, 766; Pietro come pescatore, 827; 836, 843; Chiesa come arca di Noè, 867; 889, 892, 905, 918, 92OS, 924S, 930 2 ", 932S, 937, 940, 957, 9°5Aio, come fanciullo, 34. AIMONE

DI

HALBERSTADT

(?),

23". ALANO

267 127 ,

DI

LILLA,

E

ANTENNA

457',

526. ALBERO

nell'antica

mitologia, 62os; albero = croce, 581; 582-590, 614S; albero e antenna come croce, 634; come trofeo della nave della Chiesa, 611-659. ALBERTO

MAGNO,

116,

800.

ALCEO, 537ALCIFRONE, 5 3 0 S S .

ALCMANE, 240S, 417, 583. ALCUINO,

935.

ALDELMO, 23 2 a , 434, 688s. ALESSANDRIA, 544. ALESSANDRO D'ALESSANDRIA, 22 2 °,

549, 595, 753ALESSANDRO III, papa, 862. ALPENO,

634.

ALTERCATIO PHILI,

22,

SIMONIS

ET

THEO-

710.

ALTIBURO, mosaici nautici, 615, 620, 648. AMBROGIO, I8», 19 10 , 2 2 1 9 . 2 0 , 2 3 M ; dottrina della nascita di Dio, 92-98 ; senso mariano, 96S; mariologia, 95ss; 152 7 ; allegoria della luna, 153 15 , 155S;

INDICE ANALITICO

970

teologia lunare, 205-216; 263266; 2 4 8 " , 254 a > ; 276 26 , 28os, 286 82 . 63 , 296 1 3 ; teologia dell'acqua viva, 321-326; senso di Giov 7, 37, 32Ss, 382-390; 334s; 4 0 1 ' , 4 1 0 " , 414; le sirene, 421S, 43 i s ; Ulisse, 444SS; 459 12 , 484S, 490, 495, 502; la Chiesa come nave, 509; 511, 523, 536, 548 1 1 1 , 552S, 559 151 , 585S, S89, 598 ; la croce come trofeo della Chiesa, 656; 659 143 , 665, 698, 712S, 716, 719S, 722, 741, 742S; canto funebre per il naufragio, 744; 746, 752S; 758; naufragio nella fede, 762S; 764S, 765 124 , 767; dottrina della penitenza, 784; Pietro come pescatore, 827; dottrina della Chiesa come nave di Pietro, 830S; 8S3 130 , 872 19 , 89is, 895S, 912, 917, 9 5 L 952. 957. 962, 964AMBROSIASTER, 60 52 , 763. 9

AMMONIO, ANAITIDE,

153 . 246.

SINAITA,

74,

153 1 0 ,

ANDREA DI CRETA, ÓOOS, 606 302 ,

954ANELLO DEL PESCATORE, del papa,

829S. D'ICONIO,

66 8 .

ANGELO come timoniere l'arca, 885, 885»2.

del-

ANSELMO DI CANTERBURY, 838. ANSELMO DI HAVELBERG, 839. DI

LAON,

IIJM,

686, 794. ANSELMO

DI

ANTICHITÀ E CRISTIANESIMO, 148S,

638S. ANTIFILO, 5293V, 533 53 , 575S, 586. APAMEIA, 880; monete di Noè, 872". APOCALISSE DI BARUC, 886. APOLLINARE DI GERAPOLI, 362.

LUCCA,

835.

483.

APOLLONIO R O D I O , A P O N I O , 330.

169; C o m m . in Exaemeron, selenologia dommatica, 199205; 2 2 9 1 " , 246*°; mistica lunare della Chiesa, 257-262; 284S, 288, 909.

ANSELMO

409 2 ». ss , 508, 584, 740". 1 2 . 1 3 . 1 4 ; 742 23 , 744s», 747, 749", 773 1 5 8 , 942, 9 4 8 5 0 . " .

APOLLIONE,

ANARCHIDE, 572 , 574. ANASTASIO I, papa, 846S.

ANFILOCHIO

ANTHOLOGIA GRAECA (sei.), 405,

APOLLINARE S I D O N I O , 624S. 186

ANASTASIO

ANTENNA (xspaloc, antemna, antenna), etimologia, 617S; tecnica dell'antenna, 6 I 8 S S ; fortuna e pericolo per la nave, 625S; nel mito ellenistico, 627S ; simbolo etico, 629-633; croce, ancor prima del cristianesimo, 63 3s; simbolo della ' buona nave ', 624S ; croce sulla nave dell'anima, 657-669; a. della Chiesa = la croce, 676, a. della croce e archeologia, 680-685.

604,

771.

25

APULEIO, 161, 165 , 233, 236", 238, 2 3 9 " , 241, 272S, 275 23 , 558, 591, 615S, 619S, 944 26 . A Q I B A , Rabbi, 310. ARATO, 4 0 5 " , 460, 529311, 558, S7SARATORE,

828.

arbor = albero della nave = croce, 6145, 758. A R C A DI N O È , letteratura, 865 l , 874 26 ; reliquie dell'A., 78OSS; nave della salvezza nella tradizione tardogiudaica e giudeocristiana, 870-886; nella storia del dogma della chiesa primitiva, 923-938; Arca (Chiesa) nelle controversie sulla penitenza del III secolo, 929-933; fi-

INDICE ANALITICO gura della Chiesa dei peccatori, 926-929; simbolo della Chiesa, 577, 75
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