Raffaele Morelli - Le Piccole Cose Che Cambiano La Vita
February 3, 2017 | Author: bododonno | Category: N/A
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Raffaele Morelli - Le Piccole Cose che Cambiano la Vita Il segreto della felicità nascosto nei gesti quotidiani
Oscar Mondadori 2008
Introduzione Questo libro ha un titolo semplice, Le piccole cose che cambiano la vita, e il lettore potrebbe credere che con una serie di gesti compiuti in modo idoneo, la sua vita diventerà meravigliosa, realizzata o, con una parola che oggi è molto di moda, "efficiente", insomma di successo. Se pensa così, ha acquistato il libro sbagliato... Qualcun altro potrebbe ritenere che piccoli cambiamenti allo stile di vita possono produrre grandi effetti, tipo un nuovo lavoro, un amore più coinvolgente, relazioni meno conflittuali con i figli: una nuova vita. Anche chi ragiona così ha acquistato il libro sbagliato... Questo libro, in realtà, è scritto per gli occhi. Sì, per gli occhi, o meglio per chi vuole avere "buoni occhi"... Quando tengo una conferenza, prima di cominciare io guardo gli occhi delle persone che vengono a sentirmi, li guardo senza farmi vedere, senza mostrare alcun particolare interesse. Così, nei gruppi che conduco, guardo sempre gli occhi dei partecipanti. E sono quasi sempre e quasi tutti completamente offuscati-Che cosa intendo per offuscati? No, non intendo che vi sia una particolare malattia agli occhi, che la vista sia deficitaria o il campo visivo ridotto. No. È lo sguardo che è lontano, le persone sono lì a sentire le cose che dico, ma sono lontane... Sono lì che ascoltano, ma con il pensiero sono altrove. I loro occhi non sono lì, a sentire, ad ascoltare, a vedere se c'è qualcosa di nuovo, qualcosa di sconosciuto, di straniero, che potrebbe loro veramente "aprire gli occhi". No, sono "occhi vecchi", stanchi, quelli con cui guardiamo
le cose, occhi comuni, occhi senza speranza. "Il mondo è questo, bisogna prenderlo così com'è, bisogna accontentarsi" sembrano dire. Sono "occhi accontentati" quelli di cui parlo, occhi statici, occhi domati, pieni della certezza di una vita già tracciata. Per la verità, questi "occhi spentì" li vedo anche nei giovani medici e psicologi che vengono alle lezioni di psicoterapia. Non tutti, ma la stragrande maggioranza sa già come sarà la sua vita. A trent'anni tutti sanno già dove andranno a parare. Mi accorgo di questi occhi offuscati quando, mentre parlo, qualcuno si accosta al suo vicino di sedia per commentare quello che dico. In genere interrompo la lezione e mi rivolgo alle due persone, dicendo loro: "Se parlate tra di voi, non siete qui e, se non siete qui, se siete distratti... non siete niente". Queste parole colpiscono: non c'è cosa che ci fa più paura, nella nostra cultura legata alla becera apparenza, di non essere qualcuno, di non essere importanti. Mai il Nulla, il Niente, attributi della morte, hanno spaventato un'epoca quanto la nostra. In chi parla con il vicino, gli occhi non sono lì ad ascoltare, no, gli occhi sono altrove, non sono immersi nel presente, sono offuscati dai pensieri, dalla propria visione del mondo, dalle proprie certezze, insomma dal passato; non sono lì nell'adesso. Nessuno ha niente da imparare. Ciascuno si porta in giro la sua "mentalità". Mentre facevo vedere a un gruppo un esercizio per allontanare il mal di testa, e mentre ascoltavo una signora soddisfatta la quale diceva che il dolore era scomparso, Rosanna, un'altra del gruppo, si è messa subito a dire: "Il mio mal di testa è diverso, non passa con niente". Un giorno Rosanna mi ha raccontato di avere finalmente provato e il mal di testa, dopo anni di analgesici, si è attenuato e in poche sedute è scomparso. La mia tecnica è semplicissima: si tratta di portare l'attenzione sul capo, ed esattamente nel punto in cui il dolore si
avverte più forte. Si tratta di far lavorare l'attenzione, la presenza ulteriore. Dove mi fa male? In che punto esattamente? Il mio mestiere consiste nel percepire in che luogo, magari una piccolissima zona, sento il dolore più forte. Da qui, immagino che il dolore si espanda dolcemente per tutto il capo, sino ad allontanarsi. Così ha fatto Rosanna, e la cefalea che durava da anni è scomparsa. È una cosa semplice da fare, facile da praticare. Eppure, quando qualcuno ai gruppi mi parla dei suoi dolori e io lo invito a fare così, cioè a cercare semplicemente il punto dove nasce il dolore, il disagio, e a portarci sopra l'attenzione, all'inizio tutti dicono: "Vede Morelli, il mio mal di testa è diverso". In realtà, tutti vogliono dire un'altra cosa: "Io sono come sono, i miei disturbi sono speciali, la mia vita non cambierà mai". Quando parli con il vicino mentre qualcun altro cerca di insegnarti qualcosa che non conosci, non sei lì in quello che sta accadendo, e se non sei lì è come se non esistessi, come se non fossi nulla. Gli occhi sono offuscati dai pensieri... Nessuno è presente a ciò che fa. Nelle scuole non si insegna la presenza interiore, al contrario, si riempie il cervello di nozioni. Chi valuta se i nostri bambini hanno una loro specificità? Chi ritiene che sia importante sapere che "pianta" sono, che cosa ha di diverso Roberto da Francesco? Noi vogliamo che siano attenti alle cose che insegniamo loro, non ci viene il dubbio che a loro non servano le nostre nozioni vecchie, superate, ormai morte. Sino a quattordici anni il cervello non attiva i circuiti per la matematica, e quindi insegnarla serve solo a stancarli, a ri-durne la creatività. Certo, se uno è un "genio matematico" la imparerà facilmente, ma per tutti gli altri sarà un esercizio inutile. Così come è inutile far leggere Dante, che scriveva nella lingua del suo tempo, o i Promessi Sposi. Sono libri datati, figli della loro epoca... Ma noi ci siamo identificati con quei modelli, e pensiamo che siamo arrivati a essere ciò che siamo grazie a quelle let-
ture. Personalmente, penso che siamo arrivati a essere ciò che siamo "nonostante" quelle letture. I bambini lo sanno bene: essi sono la nuova semenza del mondo e per questo il loro cervello, che è il seme dell'universo, partorisce nuovi modelli, nuovi modi di essere, nuovi linguaggi Basta guardare Internet e gli SMS nelle loro mani, così come la PlayStation, quali intelligenti innovazioni mentali sono in grado di produrre. Insomma, dovremmo essere noi a imparare dai nostri piccoli, dai loro occhi sempre svegli, attenti, aperti, curiosi, facili alle sorprese, pronti a ogni magia. Siamo riusciti a far trovar loro insopportabile persino il Libro dei libri, l'Odissea, il libro che racconta i percorsi inferiori della vita come nessun altro, che racconta, nel suo linguaggio sempre attuale, il viaggio che ognuno di noi deve compiere verso la sua Itaca, verso la sua terra promessa, e quali demoni si debbano incontrare. Calipso, il Ciclope, Circe, le Sirene sono i temi eterni, i volti dell'anima che spettano a ognuno di noi. Questo libro si basa sugli occhi, e sulla luce: sì, perché c'è una luce misteriosa dentro di noi. Il sole non sorge tutti i giorni solo intorno a noi, come lo vediamo, no, la stessa luce inonda il nostro cervello, lo rende cosciente, e quell'ammasso di atomi e di sostanze che siamo, quel codice animale in cui siamo imprigionati, è capace di secernere la coscienza, la consapevolezza, la presenza interiore. Ma questa "luce interna" è quasi sempre offuscata dai pensieri, dai ragionamenti, dagli scopi che diamo alla nostra vita, e ancora dai ricordi, dal passato, dalle abitudini, dagli schemi di tutte le epoche che ci hanno preceduto e che ci si sono depositati dentro. Il filosofo greco Plotino sapeva che in ognuno di noi esistono due personaggi: quello esteriore, condizionato, domato dai pensieri, dalle convinzioni, dalle mode dell'ambiente. Plotino lo chiamava "la copia". Ma chi di noi accetta di essere una copia o, si potrebbe di-
re oggi, una fotocopia di tutti gli altri? E poi c'è il secondo personaggio, antico, vivo, autentico, che ci risulta completamente estraneo e sconosciuto. Per questo vale la pena di vivere, pensava Plotino. Chissà chi sarò stato in un'altra vita, si chiedono in molti. Ma, in realtà, è solo un alibi per giustificare l'assenza di successi, di risultati, gli amori frustrati di questa vita. Mentre ci chiediamo quale principe o principessa siamo stati nel Settecento, mentre pensiamo a una vita migliore di quella che conduciamo, mentre seguiamo i modelli, mentre cerchiamo di assomigliare a questo o a quel personaggio, noi non siamo mai veramente lì nelle cose che facciamo. Mentre ci poniamo domande su noi stessi, mentre cerchiamo di capire chi siamo e dove andiamo, stiamo compiendo il più imperdonabile degli atti: perdere quella "luce interna", quel bagliore che riposa incessantemente dentro di noi. C'è qualcosa adesso, proprio adesso, che sta partorendo l'essenza che sono, il corpo che vedo. L'essenza di me stesso vive nel silenzio, e fa ciò che sono senza il mio parere, senza alcun pensiero. Non lo vedo perché guardo dalla parte sbagliata, perché sono identificato nella mia storia, in ciò che credo di essere e, più di tutto, nei miei pensieri. I pensieri sono un altro campo energetico, un altro territorio, un'altra dimensione. Vedersi, vedersi senza pensieri e giudizi è tutta la partita: se voglio cambiare vita non potrò mai farcela ragionandoci su. La mia forza, il mio potere interiore, la mia realizzazione, vivono agli antipodi dei pensieri. L'anima non ama i pensieri, vive in un altro mare, dove le "gocce dell'immenso" si propagano attraverso quella "luce senza tempo" che è la mia presenza ulteriore. Percepire il mio interno, adesso! Che cosa mi abita adesso? Che cosa percepisco dentro di me adesso? Come sto? Quando pongo questa domanda ai partecipanti dei miei gruppi, quando chiedo: "Tu come stai?", tutti rispondono: "Bene", come si fa sull'ascensore incontrando l'inquilino di un altro piano. La risposta è scontata: "Bene, grazie, e lei?".
Sono risposte meccaniche... Con noi stessi facciamo la stessa cosa: "Come stai?", ci chiediamo. "Sento una grande tristezza perché mio padre se ne è andato di casa", oppure: "Mi sento agitata perché il mio lavoro non mi piace". Nei confronti delle percezioni interne la parola "perché" andrebbe abolita. Che cosa senti? Tristezza, indecisione, irrequietezza oppure freddezza, apatia o rabbia... Qualsiasi cosa proviamo, la stiamo provando adesso, occorre che i nostri occhi la percepiscano nel momento in cui ce ne accorgiamo, mentre la percepiamo. Io non voglio dare la spiegazione del mio disagio, io voglio percepirlo bene, essere presente. Essere presente è il contrario di pensare: è semplicemente ascoltare senza commento gli stati d'animo, cioè gli stati dell'anima. "Ero in acqua, al mare, e anche mentre nuotavo pensavo alla mia vita che non va, alla mia insoddisfazione, al rapporto con il mio compagno che non funziona. Pensavo e ripensavo", mi scrive Nadia, di trentotto anni. Il pensiero è diventato il nostro compagno di viaggio, crediamo di essere più di tutto i nostri pensieri, e con i pensieri vogliamo correggere, rimettere le cose a posto. Ci dimentichiamo che la soluzione è in quella "luce interna": lei sa cosa fare, i pensieri no; essi rimbalzano su se stessi, ridondano, non risolvono i problemi, non hanno soluzioni. Nadia continua: "All'improvviso, mentre ero lontana dalla riva, si è sollevato un temporale, il vento e le onde hanno incominciato a travolgermi. Di colpo ho smesso di pensare, di ragionare sulla mia vita, su cosa era giusto o sbagliato. È arrivata la paura: un'onda mi ha travolto, ho cominciato a bere, c'era un mulinello, una corrente che mi trascinava verso il basso. Ho nuotato con tutte le mie forze e quando ho visto che non ce la facevo, mi sono lasciata trasportare dalla corrente, abbandonandomi alle onde. "Forse, per la prima volta nella mia vita ero lì, presente a
me stessa, tutta coinvolta, presa nei gesti, nelle azioni, nei movimenti del mio corpo che dovevano portarmi in salvo. Non so quanto ho nuotato, ma stavo facendo le cose che dovevo fare; ero totalmente immersa in me stessa. La paura è scomparsa: qualcosa dentro di me mi guidava, non mi faceva fare sforzi inutili, seguivo la corrente. Non mi spaventavo vedendo che mi allontanavo sempre di più dalla riva. Non avevo paura di morire, ero in uno stato di dolce incoscienza, ma consapevole di quello che dovevo fare. A poco a poco sono arrivata a riva senza accorgermene". Qualcosa dentro di noi sa cosa fare se siamo presenti alle nostre azioni. Ancora di più, dobbiamo imparare a essere presenti quando arrivano i disagi: sono come le onde del mare di Nadia. Non c'è da pensare, da ragionare su come allontanarli; c'è da percepire bene, con attenzione, quello che capita dentro di me. Io voglio osservare il mio disagio. Non commentarlo, non mandarlo via. La "luce interna" del cervello farà la sua parte; così hanno detto i saggi di tutti i tempi. Sapevano che la consapevolezza è un altro territorio energetico, di quella stessa "energia intelligente" che ha il seme che, senza pensare, si trasforma in pianta, la stessa che ha una cellula fecondata che "fa" un bambino senza alcun ragionamento. È stata questa "intelligenza innata" che ha salvato Nadia. È in lei che vivono le nostre speranze di cambiamento, di realizzare una vita "su misura" per ognuno di noi. E arrivo ora alle "piccole cose che cambiano la vita". Che cosa intendo? Camilla, di trentadue anni, mi ha scritto per dirmi che ha scoperto l'antidoto per la sua ansia, per le sue difficoltà esistenziali, per i suoi rapporti insoddisfacenti con il marito e con i figli: "Sa come faccio Morelli, quando sento che l'ansia sta per arrivare? Io mi metto lì a percepirla. Da lei e dai suoi libri ho imparato a non combatterla. La lascio salire, parte dalla pancia, e non mi oppongo fino a che arriva al petto e poi alla gola. Quando sento che mi soffoca cedo an-
cora di più e lei, l'ansia, si ferma, si allontana. A quel punto mi metto a fare il bucato. Prendo i panni sporchi, li metto nell'ammorbidente, metto le mani nell'acqua e sono tutta lì. Non c'è che quello: spengo TV, telefonino. Mi godo il lavaggio, la lavatrice, i panni bagnati, lo stenderli. Morelli, io sarò matta, ma mi godo il bucato. In quello stato non c'è alcuna sofferenza, alcun problema. Ma la cosa che le sembrerà più strana è che, finito il bucato, mi sembra di essere un'altra donna. Le cose che prima mi assillavano sono del tutto scomparse. I problemi che un'ora prima erano una montagna, dopo il bucato non ci sono più". Che cos'è il bucato? Quella che si potrebbe chiamare un"'azione minima", come versarsi il caffè, bere un bicchiere d'acqua, ricamare, guidare, camminare, mangiare, preparare la tavola, fare i letti. Azioni qualsiasi che ci sembrano di secondaria importanza nella vita di tutti i giorni. Ci sembrano di secondaria importanza perché siamo assorti dai pensieri, che ci dicono che cosa è giusto o sbagliato per noi, dove andare, cosa cambiare della nostra vita, che cosa va bene o cosa non va bene di noi, cosa migliorare... Chi direbbe mai che esiste una "luce interna", immensa, che regala la gioia, la pace, la felicità quando facciamo il bucato? Non ce ne accorgiamo perché siamo identificati nei ragionamenti, perché pensiamo e crediamo di esistere solo lì. Dopo un po', abbiamo una spiegazione per tutto: ognuno crede di conoscere la causa della sua tristezza. E immediatamente associamo la tristezza a un abbandono subito, o ad altro. Ci si deve accorgere che c'è tristezza e prenderne atto, prendere visione di quello che percepisco dentro di me. Se non percepisco che in questo momento c'è la tristezza o l'ansia o l'insoddisfazione, non potrò stimolare la mia "luce interna" ad allontanarla. Quello stato di "estraneità" del bucato non è un'azione inutile, ma il gesto che fa tramontare l'Io, i pensieri, che annulla le mie soluzioni, la mia storia, e prepara il terreno perché
la "luce interiore", l'"intelligenza del seme" si affacci, svolga la sua funzione, sviluppi la mia natura, la mia pianta, l'essere che sono. Questo stato di "estraneità", che le donne conoscono bene quando sono dedite alle azioni minime, come il trucco, il lavoro a maglia, lo stirare, il cucinare, è forse il più potente stato terapeutico che possiamo produrre spontaneamente senza farmaci. È il balsamo dei balsami, è l'elisir. C'è una regola da sapere e da imparare: non devo mai ragionare sulle cose dell'anima, mai dare spiegazioni alle emozioni, ai sentimenti, alle fantasie, alle immagini, e men che meno pensare alle cause della mia tristezza o della mia ansia. Il mondo dei pensieri appartiene a un'energia pesante, quella della terra, mentre il mondo delle immagini, dei sentimenti e degli affetti, appartiene alla sfera dell'acqua. Emozioni, sentimenti e immagini sono mutabili, i pensieri invece sono terreni, statici. Ogni volta che penso a un mio disagio sto buttando terra sull'acqua, e così creo una palude energetica, rendo statica la mia anima. Sentite come parla di questi due mondi (quello della ragione, dei concetti, e quello opposto delle emozioni, degli affetti, delle immagini) Gaston Bachelard, il grande filosofo francese, quando, ormai vecchio, scopre che queste due dimensioni stanno agli antipodi, ai lati opposti della vita psichica: "Così, immagini e concetti si formano ai due poli opposti dell'attività psichica: l'immaginazione e la ragione. Tra di loro gioca una polarità di esclusione. Non vi è nulla di comune con i poli del magnetismo. Qui i poli opposti non si attirano; si respingono. Bisogna amare le potenze psichiche con due amori diversi se si vogliono amare i concetti e le immagini, i poli maschile e femminile della Psiche. Io l'ho capito troppo tardi".1 Le cose dell'anima, emozioni, sentimenti, affetti, vengono imprigionate dai pensieri, imputridite, rese stagnanti, fissate da quella terra pesante che sono i ragionamenti.
Come l'acqua, i disagi arrivano e se ne vanno: non è vero che l'ansia o la tristezza ci sono e ci saranno sempre; l'anima detesta la parola "sempre". No, ci sono adesso: se li guardo se ne andranno, se mi metto a ragionarci su si fisseranno lì. I pensieri bloccano l'anima, e Bachelard lo sapeva come nessun altro. E così, questo libro è dedicato a Iside, l'unica vera potenza del femminile, la Dea tra le dee. Gli antichi pensavano che il femminile fosse la forza capace di trasmutare il mondo, di portarlo a destinazione e di portare ciascuno di noi verso la sua casa, verso la sua dimora. L'anima ci porta i disagi non perché siamo sbagliati, non perché siamo vittime di una storia sfortunata, ma per liberarci. La sua "acqua" ce li mette davanti agli occhi, al nostro sguardo, non perché ci ragioniamo su, ma perché li guardiamo, perché portiamo la presenza ulteriore, l'attenzione su di loro. La Dea ci vuole insicuri, incerti, fragili: non ne può più delle parole che ci diciamo, dei soliti pensieri, della "copia" che siamo diventati, per dirla con Plotino. I disagi vengono per essere guardati, non combattuti o spiegati. Alla Dea, alla signora delle anime, interessa che ciascuno di noi realizzi la sua natura, e che così sia unico e non assomigli a nessun altro. Ecco cosa mi scrive Maria, che viene ai miei gruppi del giovedì e ha scoperto il ballo come antidoto ai suoi attacchi di panico: "Quando ho iniziato a ballare sentivo dentro di me che ciò che stavo facendo era insolito, anche se per me era come se fosse una cosa naturale e che conoscevo da tempo. Se ti ricordi una volta ti ho detto che ogni tanto, mentre mi recavo a scuola di danza, volevo scendere e prendere il tram opposto: sentivo dentro di me che il ballo mi faceva entrare in un'altra dimensione, quasi mi estraniava dal mondo. A volte ho la sensazione che in quel momento esistiamo solo io e i passi che danzano sulle note della musica".
Il suo insegnante non credeva che Maria non avesse mai ballato, che fosse la prima volta. Pensava che lo ingannasse, che avesse già fatto chissà quanti corsi di ballo... Maria non lo sapeva, il suo insegnante nemmeno, ma la Dea, la sua donna interiore, non voleva che lei ragionasse, voleva farle perdere la testa, insomma, farla ballare. Sentite che riflessioni fa Maria sui suoi disturbi, che l'hanno portata a entrare nelle librerie a leggere testi che mai si sarebbe sognata di sfogliare: "Leggendo Lao Tzu ho scoperto che le varie forme dell'arte sono differenti modi di meditazione, vie di realizzazione di sé attraverso lo sviluppo intuitivo della coscienza. Quindi, quando ballo medito, e devo presumere che meditando arriverò alla consapevolezza, cioè arriverò alla mia essenza, alle 'ragioni' per cui sono su questa terra? Ultimamente, anche dalle deduzioni delle mie letture, sono sempre più convinta che siamo su questa terra per adempiere a un compito e che se non lo realizziamo, visto che è la nostra natura, ci ammaliamo. Esso attraverso l'ansia, la depressione, il panico, 'bussa nella nostra anima', e più non gli diamo ascolto, più la forza del bussare aumenta. Se non d sediamo, o meglio ci sdraiamo e lo ascoltiamo, possiamo arrivare anche alla morte, e ho letto che poi ci servirà un'altra vita per adempierlo. È vero ciò che dici tu, che l'ansia, il panico, la depressione, i pensieri perversi non sono mai uguali. Quando ero a Catania vivevo perennemente in uno stato ansioso, tutte le notti non dormivo. Poi sono arrivati gli attacchi di panico. Le prime volte ebbi paura, sentivo che stavo morendo, e cercavo di stare all'erta, poi, a mano a mano quella sensazione di morte incominciò a piacermi: per un po' staccavo da quello stato ansioso. Con ciò non ho voluto rivangare il passato, ma dirti che, pensandoci bene, in quel modo ho ceduto, e credo che siano stati loro a portarmi da te." I disagi vengono per portarci un altro lato di noi stessi, una dimensione sconosciuta. Se i pensieri ci trascinano nel fango, la "luce ulteriore", la presenza ulteriore potenzia l'anima. Che cos'è la Dea? Che cos'è l'anima?
È la forza femminile che porta i semi a diventare piante, e in questo senso è provvidenza, piacere, mutamento, crescita, cambiamento, divenire... Insomma, la Iside degli antichi, la Dea di tutte le dee. Che cosa le è più gradito? Ed ecco lo sguardo... Lo sguardo la inonda di luce, libera l'"intelligenza innata" che le ricorda chi siamo e dove dobbiamo andare. Il resto lo fa lei. Per questo è fondamentale accorgersi dei nostri stati d'animo, chiedersi: "Come sto?" e percepire la tristezza, se c'è, e non combatterla. Lo sguardo posato sugli stati d'animo, inonda di luce l'interiorità, la porta in un'altra dimensione, via dalla terra dei pensieri. Se impariamo a "sostare" nelle cose che facciamo e a lasciare tutto così com'è, d rendiamo conto che le cose cambiano senza che ce ne accorgiamo. Che la gelosia, l'invidia, il dolore, non durano, che è il nostro Io, sono i nostri pensieri che li cronicizzano. Quando sono presente a ciò che facdo, quando sono immerso nelle azioni minime il cervello libera la "luce del seme" e il mio essere trasmuta. Jan Vermeer, il grande pittore fiammingo del Seicento, lo aveva capito. Nei suoi quadri illuminava solo le azioni minime come versare il latte, scrivere una lettera, indossare una collana... Aveva capito che senza pensieri siamo immersi in una "luce interna", profonda, capace di cambiare la vita. nota: 1 Gaston Bachelard, La poetica della réverie, Edizioni Dedalo, Bari 1987, p. 61. 1 Immergiti nelle azioni minime Caro dottor Morelli, vorrei sottoporle un quesito per me urgente. Conosco e leggo la sua rivista da tanto tempo, ho letto decine e decine
di libri sulle filosofie orientali (quelle occidentali le ho studiate a scuola), pratico la meditazione yoga vipassana e, soprattutto, cerco di applicare alla vita di tutti i giorni gli insegnamenti che queste letture mi hanno dato, insieme alla psicoterapia che ho fatto in passato. Sono riuscita a superare i miei problemi più gravi, la bulimia e propensioni auto-distruttive, e oggi sto abbastanza bene. Abbuffate e inclinazioni nichiliste sono solo un lontano ricordo. Anche nella sfera sentimentale sono riuscita ad accettare di non poter avere una relazione stabile e duratura, e non ne faccio un dramma. Vivo la vita come un flusso, senza domandarmi se ho raggiunto o meno le famose tappe obbligatorie: laurea, matrimonio, figli, una casa ecc. Nel lavoro invece ho grandi difficoltà, che neanche tutto il mio cammino interiore è riuscito a scalfire. Le faccio un esempio calzante e recentissimo. Sono una promotrice finanziaria e due giorni fa ero a Milano per la convention annuale. Era stato invitato Fabio Capello che, come era prevedibile, ha tenuto un intervento su come "essere vincenti". Naturalmente, tutti gli incontri a cui partecipo hanno lo stesso tema, dato che lavoro in un'azienda che deve vendere e guadagnare; quindi questa non è un'accusa contro l'allenatore. Si è parlato di lotta, di "tener duro", di andare diritti alla meta, di non cedere mai, di avere obiettivi sempre e comunque più ambiziosi, di considerarsi al di sopra degli altri... Tutto questo è agli antipodi rispetto a quello che insegnano il Buddha, il Tao, e ogni altro Saggio. Io mi sento squartata dentro: da una parte questi insegnamenti che mi sono consoni, e che hanno dato sollievo alla mia perenne angoscia, dall'altra la crudezza della realtà, l'impellenza delle bollette da pagare e dei soldi per vivere onestamente! Non riuscirò mai a essere un "bravo venditore" come la società pretende da me, e mi chiedo: c'è in questo caso una via di mezzo, una soluzione intermedia, o qualcos'altro che non conosco? Si può vivere in questa società materialista, consumista e truffàldina, coltivando il vuoto, la cedevolezza, e meditando? Per poter essere "cedevole", devo necessariamente ri-
nunciare a un certo tipo di lavoro? Può la motivazione non essere solo quella economica? Un manager può essere zen? Spero di essermi espressa chiaramente. Il problema è ampio e molto diffuso, mi creda. La prego di rispondermi, perché tengo molto a quello che lei può pensare al riguardo. La ringrazio anticipatamente. Con affetto, Raffaella Sa, cara Raffaella, che cosa ho imparato più di tutto in questi anni? A ridurre lo sforzo, la fatica. Quando faccio qualcosa, quando mangio, quando guido, quando scrivo un articolo, quando sono in aereo, in treno, non sempre, ma a volte mi soffermo sulla mia presenza interiore; la ascolto, la osservo, la percepisco. E così mi accorgo se sto facendo fatica, se sto lottando. Se avverto che mi sto sforzando per realizzare i miei gesti, rallento... Mi dico: "Raffaele, stai facendo troppo sforzo!". Tutto qua. C'è poi un'altra cosa che faccio: sono presente, immerso, preso, assorbito, incantato dalle "azioni minime", sì, quelle azioni che in genere riteniamo banali; quando bevo il caffè, per esempio, io sono lì, solo lì. Non lo faccio sempre (la parola "sempre" si è allontanata dal mio vocabolario), ma quando sento che i pensieri stanno prendendo il sopravvento, io mi tuffo, mi immergo nelle azioni. Guardo la mia mano che scrive, la penna che scorre sul foglio, e sento dilatarsi la mia presenza ulteriore; sono totalmente assorto, rapito dal gesto. Non mi ritiro, amica mia, e neppure penso che serva, in meditazione. Non mi chiedo se il mondo è buono o cattivo, no, io porto l'attenzione sul mio gesto. Così facendo, un giorno, mentre guidavo il più in fretta possibile per assistere un amico morente, ho sentito una pace, una tranquillità, una serenità che forse non avevo mai sperimentato. Sono arrivato in ospedale, e il mio amico era fuori pericolo... Non so se il mio "stato tranquillo" è servito alla sua guarigione, ma so che nel mio interno la serenità sgorga spontaneamente ogni volta che sono immerso nell'azione. Per me non c'è quasi più una meta da raggiungere, non ci
sono più obiettivi che mi prefiggo. No, ci sono le cose che sto facendo e il mio essere immerso in loro: è il più potente antidepressivo che esista. Secondo il Saggio chassidico Baal Shem Tov, tutti i gesti, anche i più piccoli e insignificanti, se compiuti in uno stato di coscienza in cui si è presenti a se stessi e con la mente vuota, racchiudono una speciale essenza spirituale. Scrive Baal Shem Tov: "La più alta cultura dell'anima resta fondamentalmente arida e sterile, a meno che da questi piccoli incontri, a cui noi diamo ciò che spetta loro, non sgorghi, giorno dopo giorno, un'acqua di vita che irriga l'anima".1 Sono le "azioni minime" che cambiano la nostra vita. Si ammala chi crede che debba arrivare "una svolta", o chi passa il tempo a rimuginare sulla sua vita sbagliata, oppure a pensare, come fa lei cara Raffaella, che dobbiamo conciliare teoria e pratica, affari e buddhismo, business e Zen. Non c'è da diventare un buon venditore, un buon manager o un uomo d'affari realizzato. No, c'è soltanto da essere immersi in quello che si sta facendo e poi, sarà quel che sarà. Friedrich Nietzsche a questo riguardo afferma: "L'uomo non è la conseguenza di una sua propria intenzione, di una volontà, di uno scopo, con lui non si tenta di raggiungere un 'ideale di uomo' o un 'ideale di felicità' o un 'ideale di moralità', è assurdo voler fare rotolare il suo essere verso un qualsiasi scopo. Noi abbiamo inventato il concetto di 'scopo': nella realtà lo scopo manca... Si è necessari, si è un frammento di destino, si appartiene al Tutto, si è nel Tutto...".2 Non avere mai un secondo pensiero Se vogliamo tradurre in immagini il concetto di "azioni minime", possiamo rifarci al grande pittore olandese del XVII secolo Jan Vermeer. Vermeer dipinge le "azioni minime": una donna che ricama, una che cuce, una che versa il latte, una che scrive una lettera... Pochi quadri, capolavori, ma c'è qualcosa che lo rende unico, egli fa una cosa sconvolgente: prende queste "azioni minime"e le riempie di luce.
La sua arte è questa: riempire di luce le "azioni minime". Che bisogno c'è, che senso ha inondare di luce una donna che ricama? Perché Vermeer ha capito come nessun altro che c'è una "luce interna" che inonda le "azioni minime". Noi ci siamo riempiti la testa di cose importanti da fare, di obiettivi da raggiungere, di successi da inseguire, e poi... e poi? Vermeer ritiene invece che l'Assoluto, il centro dell'universo, la vita, siano lì, nelle "azioni minime", dove noi non siamo mai. A tal proposito Martin Buber, filosofo e studioso della cultura chassidica - citando il Maestro Rabbi Bunam - sottolinea: "[...] ci sforziamo sempre, in un modo o nell'altro, di trovare da qualche parte quello che ci manca. Da qualche parte, in una zona qualsiasi del mondo o dello spirito, ovunque tranne che là dove siamo, là dove siamo stati posti: ma è proprio là, e da nessun'altra parte, che si trova il tesoro. Nell'ambiente che avverto come il mio ambiente naturale, nella situazione che mi è toccata in sorte, in quella che mi capita giorno per giorno, in quella che la vita quotidiana, mi richiede: proprio in questo risiede il mio compito essenziale, lì si trova il compimento dell'esistenza messo alla mia portata".3 Quando bevi il caffè, quindi, c'è una "luce interna", misteriosa... Perché Vermeer non illumina gli occhi, ma il ricamo, la lettera... perché? Perché inondare di luce un'"azione minima"? Perché in particolare quelle delle donne? Perché Vermeer sapeva che nei gesti femminili d sono tutte le soluzioni: se vuoi capire una donna, guarda il suo bagno. C'è il "luogo dei bisogni", le decine di creme dappertutto, la vasca, i trucchi... Una donna che si trucca, una donna che si pettina, è sempre lì, nel presente. Allora, per esempio, quando arriva il dolore, cara Raf-faella, comincia a pensare che ti devi truccare... Nel bagno le donne rendono possibile un mistero immenso: le cose più concrete della vita convivono con quelle più
futili, con l'effimero, con l'apparenza. Ecco perché Vermeer illuminava le donne. In particolare, se volete capire di cosa parlo, dovete guardare le donne incinte, si distinguono per pochi gesti: quel movimento così, quella posizione colà... Se hanno accettato bene la gravidanza sono molto naturali, per nulla trattenute. Sapete cosa fanno le donne incinte? Niente. Non fanno niente. Noi dobbiamo imparare a non fare niente. Non passano il tempo a domandarsi come sarà il figlio che deve nascere, se sarà intelligente, bello, alto... Gli uomini fanno così, non le donne. Bisogna fare come le donne incinte: un'altra vita cresce dentro di loro, e loro sono lì, e non fanno niente. Sono lì in quel processo. Quindi è necessario che io impari a stare, ogni tanto, nelle "azioni minime". Se sto guidando, guido e basta. Senza pensare a cosa sarà, a cosa devo fare... Ogni volta che non sono lì, sto male. Non devo guarire, non devo combattere il dolore, non devo evitare che torni, devo stare lì, e basta! Devo sostare dentro l'"azione minima". Quando c'è un disagio, anch'io faccio questo esercizio con me stesso. "Devi stare qui", mi dico, e allora la "donna interiore" incomincia a ricamare per me! Vedi, cara Raffaella, noi siamo una serie di progetti, di intenzioni, di sogni da realizzare, e non ci accorgiamo che c'è qualcosa dentro di noi che sta facendo quello che va fattoQuesto è il pensiero di Vermeer. Lui non si chiedeva se le donne che ritrae sono felici o meno, anzi, si comprende che molte non lo sono, ma lui vuole illuminare l'"azione minima". Lui illumina l'"azione minima". Io devo stare, sostare lì, non devo fare la cosa che si fa sempre: correggere. Devo osservare il disagio senza correggerlo, perché dentro io sto ricamando, sto compiendo l'"azione minima". Nessuno come Vermeer riempie di luce i gesti quotidiani, nessuno come lui li sospende nel senza tempo, nessuno co-
me lui rende eterno l'effimero, nessuno come lui ha rinunciato a dipingere santi, madonne, dèi, per santificare, illuminandolo, ogni gesto banale del quotidiano; lo porta nella "casa dell'eternità". Non sono me stesso quando penso, rifletto, rimugino, quando decido se la mia vita è giusta o sbagliata, e neppure quando cerco di far entrare questo mondo nei miei schemi, nelle mie convinzioni, nelle mie teorie. Lo conferma anche Nietzsche quando scrive: "Inconsciamente noi cerchiamo i principi e le dottrine che si confanno al nostro temperamento, sicché alla fine sembra che siano stati quei principi e quelle dottrine a produrre il nostro carattere e a conferirgli tenuta e sicurezza: mentre è accaduto esattamente il contrario. Del nostro pensiero e del nostro giudizio si fa in seguito, come sembra, la causa del nostro essere: ma in effetti è il nostro essere la causa per cui pensiamo e giudichiamo in un certo modo".4 Non so, cara amica, se diventerà una buona venditrice, ma le garantisco che se lei sarà immersa nelle sue azioni, l'immenso che è in lei verrà fuori e sarà lui a decidere dove portarla. E come minimo farà di lei una venditrice "tarata" sulla misura della sua anima, sulla sua specificità, sulle sue caratteristiche. Oppure, l'immenso che è in lei, il suo Sé, la porterà senza fatica a realizzare il suo "talento", quindi la sua unicità, e magari questo avverrà con un altro lavoro, che dovrà essere scoperto senza sforzo. Anche Buber vede la vita come un processo che deve poter dispiegarsi fluidamente e in libertà, e paragona l'uomo a un albero che si sviluppa senza sforzo: "L'uomo è come un albero. Se ti metti di fronte a un albero e lo guardi incessantemente per vedere se cresce e di quanto sia cresciuto, non vedrai nulla. Ma curalo in ogni momento, liberalo dal superfluo e tienilo pulito da scarafaggi e vermi, ed esso, a tempo debito, comincerà a crescere. Lo stesso vale anche per l'uomo: l'unica cosa che gli serve è superare lacci e impedimenti, e non mancherà di svilupparsi e crescere."5 E quando lei mi chiede se un manager può essere zen, Ver-
meer ha la risposta: stai nelle cose che fai, e la luce riempirà le tue azioni, i tuoi gesti. Nelle "azioni minime", nell'effimero, nel banale, se siamo concentrati, attenti, persi, incantati, siamo nella trama luminosa dell'universo; di più non è possibile chiedere. A chi fa così, il Sé regala salute, gioia, "talento" e, ancor di più, la realizzazione del suo destino. Essere lì nelle cose che facciamo è la vera, la sola meditazione. Anche la saggezza chassidica lo ribadisce: "C'è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell'esistenza. E il luogo in cui si trova il tesoro è il luogo in cui ci si trova".6 Alan Watts, il più grande studioso di Zen, ricorda che il segreto dei segreti è non avere mai un secondo pensiero, vale a dire essere totalmente lì, immerso nell'azione. Il mondo è tutto lì per chi è presente a se stesso, per chi non decide che cosa è importante e cosa è banale. Anzi, il banale, l'effimero, sono la casa dell'immenso, del Sé. Fermati a osservare i tuoi gesti Ogni giorno compiamo migliaia di azioni a cui associamo migliaia di pensieri. Ma quanti di questi pensieri ci rappresentano davvero? Di quanti possiamo dire: "Mi corrispondono, sono io, sono proprio io?". In genere viviamo immersi in azioni e pensieri inutili, così che spesso scambiamo l'inutile per il fondamentale. La nostra mente è satura di impegni da rispettare: cose da fare e da dire, immagini di noi stessi da dare agli altri, risposte da non sbagliare, doveri da assolvere. Sogni, idee, preoccupazioni, programmi... In questa selva di "fantasmi della mente" ci sentiamo alla fine sperduti, soli. Così cerchiamo qualcosa in cui radicarci. Ma questa ricerca finisce per portarci ancora più lontano, dentro ad altri sforzi o ad altri modelli a cui assomigliare. No, non c'è bisogno di intraprendere percorsi per migliorare. Serve fermarsi a osservare ciò che c'è, in quell'istante. Solo così il nostro cervello si mette nella condizione ideale per secernere le sostanze del benessere e dell'autoguarigione, che spengono lo stress e regalano la pace ulteriore.
Dobbiamo ricordare che da ogni più piccolo gesto sgorga una luce infinita... Allora poni attenzione a ogni azione che fai. Concentrati, rimani nell'azione e dimentica lo scopo! Baal Shem Tov, dopo un viaggio in terra d'Israele, riflette sull'angoscia che produce il pensiero di ricevere una ricompensa: "E, tuttavia, è possibile agire senza alcun fine in mente? Può l'Ego agire senza aspettarsi qualcosa in cambio? Quando agiamo senza un fine, senza alcuna aspettativa di ricompensa, l'azione diventa un fine, e la ricompensa è immediata. Questo è quello che sanno tutti i grandi mistici: fare è ricevere! Fare è la salvezza!".7 Se crei in te uno stato di assenza mentale, arriverai a muoverti come se non avessi alcuna intenzione: in questo modo l'Io sfuma e, nello stato contemplativo, ogni tuo gesto diventa luce. Ora osservati: stai leggendo, respiri, ti prepari un caffè, scrivi un appunto... Piccole azioni. Di solito non diamo importanza alle "azioni minime", pensiamo che siano solo un ponte per arrivare al nostro piccolo o grande obiettivo di oggi, di domani, della nostra vita. È questo che ci rende sperduti, in perenne e affannosa ricerca. Viviamo per qualcosa che non esiste: quel "domani" non c'è, e quando arriverà, anche allora non lo degneremo di uno sguardo; sempre proiettati altrove. Viviamo sempre in un altrove che non esiste. Invece, prova a pensare: che è tutto qui, ora! Ciò che fai non vale perché ti porta a qualche meta, ma vale di per sé. Tutto si esaurisce nel gesto che stai facendo: quel gesto è tutta la vita. Non è un "attimo fuggente". Prova a sentire e a godere la pienezza del gesto che stai facendo. Rimani nei gesti, nell'"azione minima", nel presente. Il mistico armeno Gurdjieff, sostiene che il nostro scopo dovrebbe essere cercare semplicemente il piacere del corpo in movimento, del gesto che si sta compiendo: "Quando il corpo è più libero, tu ti senti guidato da un'energia interiore, un'energia essenziale che non è più quella dell'automatismo. A un certo momento, perseverando, senti che il movimento
è realmente preso in carica da questa energia, che esso esprime il linguaggio di questa energia. E tu sei lì senza intervenire. Noi sentiamo solamente che in noi c'è qualcosa di puro, che è importante avere un corpo e un'attenzione che restano abbastanza liberi per continuare a essere in contatto con questo movimento che appare".8 Non esistono azioni banali, tutto è importante. Quando sei concentrato nell'azione che stai facendo, ogni cosa si illumina. È una luce che splende in ogni azione e in ogni oggetto. Tutto - noi compresi - esiste nell'istante; non dobbiamo fare altro che osservarlo. E il nostro sguardo in quei frangenti, se libero dal pregiudizio, accende la luce della consapevolezza. Gurdjieff ce lo racconta con queste parole: "Uno sguardo libero, lo sguardo che vede. Senza questo sguardo posto su di me e che mi vede, la mia vita è la vita di un cieco che va dove lo spinge l'impulso senza sapere né come né perché. Senza questo sguardo posato su di me non posso sapere che esisto [...] Senza sguardo sono condannato all'automatismo e alla legge dell'accidente. Questo sguardo allo stesso tempo mi colloca e mi libera. E nei miei migliori momenti di raccoglimento accedo a uno stato nel quale mi è dato di conoscere, di sentire il beneficio di questo sguardo che scende su di me, che mi abbraccia. Mi sento sotto la luce, sotto lo splendore di questo sguardo".9 Non c'è bisogno di cercare niente, tutto ciò che ti serve è qui. Qui splende la vita! Le donne sanno che è così. Sì, dobbiamo imparare dall'antica saggezza delle donne. Nel trucco, nella toeletta, nell'attenzione all'effimero, a ciò che c'è ma "sta già passando", nell'infinito tornare su se stesso del gesto del ricamo c'è un insegnamento fondamentale: l'importanza dell'istante, l'attenzione all'"azione minima". Noi siamo abituati a pensare alla "durata", a ciò che resterà nel tempo: cerchiamo di rendere perenne ciò che non lo è e per questo siamo infelici.
Pensiamo che il significato della nostra vita dipenda da ciò che faremo, diremo o costruiremo, e non vediamo la luce che splende in ogni azione. Così diventiamo esseri inutili. note: 1 Martin Buber, Il cammino dell'uomo, Edizioni Qiqajou, Comunità di Bose, Biella 1990, pp. 61-62. 2 Friedrich Nietzsche, Opere 1882-1995, Newton Compton, Roma 1993, p. 727. 3 M. Buber, Il cammino dell'uomo, cit., pp. 58-60. 4 F. Nietzsche, op. cit., p. 692. 5 M. Buber, I dieci gradini della saggezza, Baroli Editore, Novara 2003, p. 76. 6 M. Buber, Il cammino dell'uomo, cit., p. 59. 7 Rami Shapiro (a cura di), Un silenzio straordinario, in Racconti chassidici, Giuntala, Firenze 2004, p. 205. 8 George Ivanovitch Guidjieff, La via maestra, vol. I, Riza, Milano 2001, pp. 238-241. 9 Ibid. 2 Diventa puro sguardo Esplorare lo spazio interno richiede un grande coraggio: quello di non cambiare le cose che troviamo dentro di noi. A volte sentiamo arrivare all'improvviso dei brutti pensieri, rancori, sensi di colpa, ricordi, nostalgie, rimpianti, e quasi sempre reagiamo, li combattiamo; vogliamo espellerli dalla nostra anima. Quasi mai vogliamo che il "fango" venga ad assalirci, la nostra "idea di perfezione" non tollera di vederci seduti su "serpenti tentatori" come l'invidia, la gelosia, la rabbia, l'avidità... Ma non basta, abbiamo grandi aspettative su di noi, puntiamo a diventare quel personaggio che ci siamo messi in testa di essere, e così quasi sempre recitiamo, fingiamo, diventiamo artificiali. Lottiamo per essere quel modello che vogliamo imitare, e non ci andiamo mai bene, siamo sem-
pre lì a giudicarci, ad assolverci o a condannarci. Finiamo con il pensare che la vita non è stata generosa con noi, e passiamo il tempo a lamentarci, a rimuginare, a farci domande, a darci risposte che quasi mai ci soddisfano. E allora? Come si trova la pace, come si entra dentro se stessi senza farsi troppo male? Diventando puro sguardo! Sì, osservando, contemplando le cose brutte, quelle che non ci piacciono di noi, ma con un nuovo modo di vedere a cui siamo poco abituati. Non si tratta di cercare di cambiare le cose, ma di accoglierle, invece, così come sono. Scrive William Shakespeare: "Questa cosa di tenebra io la riconosco mia".1 I Saggi hanno insegnato che tutto quello che si deve fare è perdere la personalità che conosciamo, lasciarla "andare via" per essere sostituita da quella che sgorga limpida dal profondo. Non c'è da cambiare vita, non c'è da migliorarla: occorre inondare lo spazio interno di consapevolezza, di quella luce che il cervello possiede e che è oscurata, più di tutto, dai nostri tentativi di diventare le maschere che indossiamo e a cui vogliamo assomigliare. Guarda con dolcezza i tuoi pensieri, belli o brutti che siano, non sono altro che energia che si è sedimentata, non sono altro che i modelli che hanno preso il sopravvento sulla tua essenza. Se li guardiamo e basta, senza alcun commento, se ne andranno da soli: questo è il potere della consapevolezza, dello sguardo libero che disintegra tutto l'inutile che ci sovrasta. Se continuiamo a pensarci e a ripensarci, se cerchiamo di capire, di spiegare, ci si attaccheranno addosso ancora di più. I pensieri sono pesanti come il fango, solo il libero sguardo ulteriore è capace di portarci in un'altra dimensione di noi stessi. Una dimensione in cui le cose avvengono senza che neppure ce ne accorgiamo. Negli anni ho imparato a "disturbare" sempre meno il mio
spazio interno, a lasciare lì dentro di me, senza commento, tutto ciò che sento, a rispettare ogni stato d'animo. Dopo un po' si sta con se stessi senza alcun giudizio, e allora... Arriva la pace, arrivano parole che non ti aspetti, pensieri che mai avresti sospettato potessero albergare dentro di te. Diventi vuoto, diventi nulla, e sei come una pianta che germoglia. A questo punto, senza saperlo, sbocci come un fiore, il tuo fiore, e arrivano le "parole dell'indicibile", ti chiedi: "Chissà da dove saranno scaturite, chissà quali parti dell'anima le avrà partorite?". E avrai imparato che, mettendo da parte te stesso, il tuo Io, la tua storia, il tuo passato, è l'"eterno presente" che ti attraversa. Posiziona lo sguardo sull'adesso Quindi, tutta la partita sta nel posizionare lo sguardo. Se non lo fai non puoi stare bene, li ti giochi una grande occasione. Per esempio, quando qualcuno ti chiede: "Come stai?", la tua risposta deve posizionarsi sull'adesso. Non ti hanno chiesto come stavi ieri, né come starai domani. Se rispondi: "Sono stata molto male e non riesco a disfarmi di un dolore che continua a camminare accanto a me", lo si può accettare. Ma se ti chiedono: "Come stai?" e tu non porti lo sguardo sull'"adesso", non ce la puoi fare, non ce la puoi fare ad affrontare la vita stando bene. È necessario posizionarsi sull'"adesso"! Il problema è che tutti noi siamo convinti di portarci dietro un disagio, ci siamo convinti di avere un disagio che è solo nostro; un figlio che è morto, un marito disgraziato, qualcuno che amiamo ma non può vivere con noi, un lavoro che non ci piace... Un motivo vale l'altro: siamo diventati persone che ragionano in un modo qualsiasi, e nel tempo, collettivamente, si è formata in noi una convinzione errata: che i dolori durano per sempre. Ma non è così, non è così! Anche il filosofo greco Epicuro a proposito del dolore, sostiene che: "Ogni dolore è facilmente disprezzabile, perché
la massima sofferenza è di breve durata, e la sofferenza più lunga ha una intensità minima".2 Sì, dobbiamo aver ben chiaro che i disagi li creiamo noi, soltanto noi. Non stiamo male perché lui o lei ci ha lasciato, perché non ci capisce, perché nostro figlio non studia... Il nostro disagio dipende solo da noi stessi. Solo da noi stessi, e non anche da noi stessi. Solo da noi stessi. Se partiamo da questo presupposto, abbiamo delle possibilità di uscirne, altrimenti no. È una mentalità malata che ci ha portato ad attribuire la responsabilità dei nostri disagi al mondo esterno. In realtà stiamo male perché ci siamo riempiti la testa di modelli inadeguati, di progetti che non hanno nulla a che vedere con noi, siamo condizionati da continui giudizi che proferiamo a ogni pie' sospinto, abbiamo convinzioni sbagliate che ci intasano la mente... Insomma, abbiamo una visione errata del mondo, è questo il motivo principale delle nostre sofferenze. L'importante è essere lì Tutto il lavoro, il vero lavoro, è semplicemente essere lì. Cosa accadrà dopo non mi interessa, perché io sono stato lì. Perché quando sono lì il mio cervello distilla gocce di un'energia particolare che altrimenti non si potrebbe produrre. E devo essere lì senza intenzione alcuna. Blaise Pascal fa un'interessante riflessione sull'incapacità di vivere nel presente: "Ciascuno esamini i propri pensieri, li troverà tutti presi dal passato oppure dall'avvenire. Non pensiamo quindi affatto al presente; e se ci pensiamo, è solo per prendere lumi per predisporre l'avvenire. Il presente non è mai il nostro scopo: il passato e il presente sono i nostri mezzi; l'avvenire solo è il nostro scopo. In tal modo noi non viviamo mai, ma speriamo di vivere; e, predisponendoci sempre ad essere felici, è inevitabile che non lo siamo mai".3 Quando, per esempio, nel cervello nasce un pensiero come: "Oddio, mio marito non mi piace più!", bisogna metterci un punto. Quello è il pensiero. Punto. Oppure: "Giovanni
non mi vuole". Punto. Oppure: "Mi piacerebbe vivere con Roberto, ma non ho il coraggio di dirglielo". Punto. Il cervello chiede solo che tu gli formuli il problema, non che tu lo risolva. Il cervello ha semplicemente bisogno che una volta che gli hai presentato il problema, tu ti "tolga di mezzo" e ti limiti semplicemente a stare nel presente, senza pensare a nulla, e che, ogni tanto, ti dedichi alle cosiddette "azioni minime". Robert Louis Stevenson, poeta e scrittore scozzese, parla così delle "azioni minime": "Le cose migliori sono le più vicine: il respiro che sale lungo le narici, la luce nei tuoi occhi, i fiori al tatto, i compiti affidati alle tue mani. Non cercare di afferrare le stelle, ma svolgi con semplicità i compiti assegnati dalla vita, nella certezza che gli incarichi di ogni giorno e il pane quotidiano sono le cose più dolci della vita".4 Agisci senza intenzioni Perché i dolori durano? Perché siamo pieni di intenzioni, pieni di intenzioni... I chassidim ebraici insegnano che quanto più le nostre intenzioni diventano forti, tanto più la nostra anima rischia di ammalarsi: "Come si ammala l'anima? Quando pensiamo, parliamo e agiamo, intenzionalmente, in modo contrario all'inclinazione naturale di un'anima sana, noi ne provochiamo il deperimento".5 Ti sei mai chiesto come mai tutto è possibile per i bambini? Vuoi che sia così anche per te? Osserva un bambino quando gioca. Lui è lì nelle cose che fa, è lì, non ha un progetto, non ha intenzioni, non si domanda: "Sarò un buon bambino? Starò giocando bene?", non si sta chiedendo: "È il gioco giusto da fare oggi?". Sei tu, adulto, che cerchi di mettergli in testa queste cose. Lui è presente all'azione e basta. E tu devi fare lo stesso. Il bambino è in un altro stato della mente, e noi adulti dobbiamo imparare da lui come si fa. Plotino riflette sulla relazione che esiste tra l'essere presenti a se stessi e la felicità dell'anima: "La felicità è uno stato che esiste tutto nel presente. [...] Il ricordo della felicità non
importa affatto, essa non consiste in un discorso che si sviluppa, ma in uno stato. Ora, lo stato esiste nel presente ed anche è l'atto della vita".6 Quindi io devo essere lì, non devo risolvere i problemi, io devo essere lì, lì! Un tempo le donne ricamavano. E mentre ricamavano parlavano, si raccontavano di tutto, s'incantavano. Solo con "il ricamo" ti incanti: fai lo stesso gesto, non lo modifichi per ore e ore, fino a che - raccontano molte donne - senza rendersene conto raggiungevano l'orgasmo. Quindi l'orgasmo non nasceva per via genitale, ma da un atteggiamento mentale. Un altro esempio interessante viene osservando una donna dopo la fecondazione. Durante le prime settimane, non si accorge neppure di essere incinta, se ne accorge solo nel tempo, da alcuni segnali: il seno gonfio, le mestruazioni che non vengono... Si tratta di segnali "indiretti", non c'è una voce interna che annuncia "sei gravida". Non c'è! E in più, per tutta la gravidanza, la donna di questo grande evento spesso quasi non se ne accorge. Segno, quindi, che un grande evento così possiamo solo accompagnarlo. Essere presenti e accompagnarlo. Non dobbiamo fare nulla o, al massimo, possiamo "covare" noi stessi, sì, come fanno i volatili. Essere presenti e consapevoli. Il cervello ha bisogno di presenza, il cervello ha bisogno della nostra presenza. Quando ci diciamo "i dolori non mi passano", è perché non siamo presenti; altrimenti passerebbero subito. Invece, incominciamo a ripeterci: "Come? Una donna come me è stata lasciata dal marito? Impossibile!...". E ci lamentiamo, inveiamo, ci disperiamo. E siccome la parola "feconda" il cervello, noi fissiamo queste parole, e nel tempo creiamo e ci portiamo in giro una persona che non esiste. L'abbiamo creata noi, ma non esiste, non c'è mai stata! La magia delle azioni minime C'è un'unica cosa da fare: tre-quattro volte al giorno bisogna essere presenti alle "azioni minime".
Se sei presente nelle azioni minime, si sprigiona una luce sconosciuta. Il bambino pensa che la magia dipenda dal fatto che una luce sconosciuta è capace di produrre fatti prodigiosi. Quante volte ci è accaduto che ci chiamasse proprio chi cercavamo, o incontrassimo ciò di cui avevamo bisogno. Se fossimo stati attenti ci saremmo chiesti come era potuto avvenire, e ci saremmo accorti che, in quei frangenti, avevamo la mente vuota. Così hanno detto i Saggi. Dobbiamo toglierci dalla testa l'idea che le cose si realizzano con sforzo e con fatica; la fatica misura solo la nostra resistenza. La fatica non produce niente... Il cervello ha bisogno che tu osservi il disagio, poi, automaticamente, lo corregge lui. Quindi, bisogna che io sia presente e che non pensi. Ed è così che nell'azione minima arriva la pace, perché sei "seduto sull'eternità". Perché non disturbi con il pensiero ciò che naturalmente sarebbe così. Quando arriva un dolore, qualsiasi dolore, io devo solamente "illuminarlo" con il mio sguardo. Se ho paura che il dolore mi annienti è perché non lo sto guardando, perché insisto a dare spiegazioni, a giudicare, a commentare. Queste sono le cose da non fare. "Lui mi abbandona, è un disgraziato, se non torna da me morirò..." No, così non ce la puoi fare! Io sto male, questo è il mio dolore, io lo osservo, non che cosa lo causa. E non penso a nulla... I miei pensieri sono solo un nemico da allontanare! In genere come si pensa di ritrovare se stessi? Attraverso i propri pensieri. Li ripassiamo di continuo: quanti soldi ho in banca, la casa da sistemare, le mie abitudini, i miei ragionamenti, le teorie in cui mi riconosco... In sintesi, io mi convinco di essere quello che sono stato in passato. Ma come farò a cambiare se il mio passato è sempre con me? Se noi fossimo solo i nostri pensieri non ce la potremmo fare! Nessuno ce la può fare. Dobbiamo aver sempre presente che eravamo una cellula
fecondata, uno spermatozoo o un ovulo. Questo siamo: uno spermatozoo che è entrato in un ovulo, oggi come allora. Non è cambiato niente, niente. Dobbiamo ricordarci che quella cellula fecondata ha fatto operazioni di una complessità sconvolgente. Quindi, non è da un pensiero che siamo stati creati, e non è stato con i pensieri che si è formata la nostra vita. Quindi, io non sono i miei pensieri. I miei pensieri mi danno l'illusione di esistere nei ricordi del passato, di esistere nei progetti per il futuro. Ma quelli non siamo noi, non siamo noi! Quindi la partita, la vera partita della vita è sapere che noi non siamo i nostri pensieri. Anzi, il pensiero è un vero, grande inganno! Nietzsche, per spiegare i limiti del pensiero e della razionalità, ci propone come metafora un'antichissima favola romantica: "Noi nani intelligenti, con la nostra volontà e con i nostri fini, veniamo molestati da stupidi, arcistupidi giganti, i casi, gettati a terra dalla loro corsa, spesso calpestati a morte, ma nonostante tutto ciò, non vorremmo rimanere senza la terribile poesia di questa vicinanza, poiché questi mostri giungono spesso quando la vita nella tela di ragno dei fini è diventata troppo noiosa o troppo angustiosa e ci offrono un sublime diversivo per il fatto che la loro mano lacera l'intera ragnatela".7 Il cervello ti sta covando Mentre noi parliamo, mentre pensiamo, mentre ci lamentiamo... C'è qualcosa che sta facendo quello che va fatto. Sta covando. Il cervello sta covando te. Nell'utero aveva ben chiaro che le influenze esterne avrebbero disturbato il processo... Una storia vale l'altra. Una vita vale l'altra. Potevamo frequentare questa o quella scuola, potevamo avere dei dolori più o meno forti, sposarci o no, abortire o no... E se noi non ci fossimo "attaccati" a questi eventi, con tutte le nostre forze, essi sarebbero scivolati via nel nulla. Noi siamo semplicemente quella presenza interiore che c'era nel momento in cui si è formata l'anima, e che, adesso
come allora, ci sta orientando, e ci suggerisce di indossare quegli orecchini, quella collana... Ma gli unici che la trascurano, che sono distratti, che non se ne occupano, siamo noi. Perché siamo sempre lì a guardare ciò che è stato, a fare i soliti ragionamenti, ad autoconvincerci di essere il frutto del nostro passato: il nostro passato sono i nostri detriti. Non c'è mai stato "il passato". Siamo noi che abbiamo fatto diventare delle cose "morte", delle cose a cui ci siamo affezionati: la nostra storia. Non ci sarebbe mai stata se noi non ci fossimo impuntati, e non c'è nessun progetto che la nostra vita possa seguire. Nessuno. La nostra pianta fa da sola il suo frutto, e lo fa perfettamente. E senza di noi lo fa ancora meglio. Allora le cose cambiano: io sono qui per guardare i dolori, non per lamentarmi. Sono qui per osservare senza commento e senza giudizio. A mente vuota. Seneca, ragionando sull'uomo, afferma che un seme divino basta lasciarlo crescere, senza correggerlo, per assistere a una grande opera: "Semi divini sono stati sparsi nel corpo degli uomini, e se li riceve un buon coltivatore, vengono fuori simili ai loro principi originali... se il coltivatore è incapace, come un terreno sterile e paludoso, li fa morire e poi fa spuntare erbacce invece di buone messi".8 Guarda senza giudicare Quando guardi qualcosa, soffermati sullo sguardo non su ciò che vedi: qualsiasi cosa accada tu devi dirti: "Io sto guardando, io sto guardando". E in che modo lo sguardo acquista potenza? Quando non corregge. Io sto guardando il dolore che provo... Io sto guardando... Togli poi la parola "io": "Sto guardando, sto guardando..." Se si riesce a guardare e a essere presenti allo sguardo, quello stato ulteriore, da solo, rimette tutto in equilibrio. Io vedo il dolore che provo e francamente non ne conosco la causa, e non la voglio neanche conoscere. Allora lo sguardo fa la sua parte: se non sa, partorisce qualcosa di nuovo, di mai fatto prima. Se lo sguardo "non sa", partorisce te!
Perché, quando eri nell'utero, questo ti ha fatto senza sapere nulla. Io mi devo dire sempre: "Non so, non so", e contemporaneamente devo essere presente. Quindi il mio lavoro, l'unico, è purificare lo sguardo, guardare senza alcuna intenzione. Lo sguardo è la secrezione dell'occhio. Una sostanza più sottile del Sé. Ecco perché nella mistica di tutti i popoli e di tutti i tempi, l'evento supremo era la contemplazione, ovvero guardare senza nessuna intenzione. E poi guardare, ancora, guardare ancora, poi guardare, guardare ancora. Affinchè guardando tu ti accorga che dentro di te non c'è niente, solo un grande vuoto. E poi guardare, ancora, e poi guardare ancora. Questa è l'essenza di tutto il taoismo, perché l'occhio può trasformare il mondo, il nostro mondo, tutto il mondo. Io devo mettere a fuoco lo sguardo, devo posizionarlo bene. "Sto vedendo bene?" mi devo chiedere. Noterete che molte volte non si "vede chiaramente" perché il nostro sguardo è sempre pieno di intenzioni, di ricordi... Lo sguardo è sempre pieno di qualcosa del passato. Tant'è che in genere la prima cosa che si fa quando viene un dolore, è di cercare la causa. Ma lo sguardo non vuole questo. Assolutamente! Nietzsche considera "folle" chi cerca di ragionare secondo il principio di causa ed effetto: "'Causa ed effetto'! - Su questo specchio - e il nostro intelletto è uno specchio - succede qualcosa che mostra con regolarità come ogni volta una determinata cosa segue di nuovo un'altra determinata cosa, questo, quando lo percepiamo e vogliamo dargli un nome, noi lo chiamiamo causa ed effetto, noi folli! Come se noi qui avessimo compreso e potessimo comprendere una qualsiasi cosa! Infatti non abbiamo veduto nient'altro che le figure di 'cause ed effetti'! Ed è proprio questa figuratività che rende anzi impossibile penetrare con lo sguardo in una più essenziale connessione...".9 È lo sguardo il mio potere. Non c'è niente, niente che deve rimanere. Solo lo sguardo. Più lo sguardo guarda, più non
conosce la causa da dove proviene il dolore, più lo disintegra. Lo disintegra! L'unica cosa che serve fare nella vita è evitare di riflettere sui dolori. Dobbiamo accoglierli e guardarli. E Basta. Le soluzioni migliori della nostra vita affiorano in momenti di scarsa coscienza e di grande presenza. Presenza vuota. La presenza vuota è la sostanza più potente che possediamo. Io devo essere vuoto. Devo essere presente e vuoto. Allora tutto è possibile! Non decidere, osserva Io da tempo ho perso l'abitudine di prendere decisioni. E delle volte mi dico: "Raffaele, mancano due minuti". E mi rispondo: "Non decidere". Io non decido mai. Anzi, quando mi viene da decidere, osservo, semplicemente osservo. A volte, qualcosa di più forte di me, di atavico, mi porta a prendere decisioni, ma io cerco sempre di non decidere. Perché ragiono così: se qualcosa mi ha creato senza il mio parere, allora io lascio fare a quel qualcosa. Io devo osservare il problema e basta. Cosa non va bene nel rapporto con mia mamma? Osservo, finito. Non ci devo pensare più. Basta! E con gli stati d'animo faccio la stessa cosa: li osservo quando arrivano. Io li voglio guardare, e se sono tremendi li guardo ancora di più. Mi viene un brutto pensiero, io lo voglio guardare! Mi viene una fantasia di morte, io la voglio guardare! Io voglio guardare ciò che abita dentro di me, adesso! Questa è la partita, perché se io lo guardo lui si dissolverà! Devo affidarmi solo allo sguardo, e lasciar perdere il pensiero, anche se spesso rappresenta ciò a cui siamo più attaccati. Il pensiero ci fa commettere un errore fondamentale: ci da l'idea di permanenza. Ma ciò che è accaduto un minuto fa, non c'è già più. Sei tu che lo fai durare con il pensiero, ma non ci sarebbe più e non tornerebbe più... Se noi non lo richiamassimo in campo con il ricordo, si trasformerebbe in energia, e ci pre-
parerebbe alla prossima mossa; come una partita a scacchi. E questa mossa prepara quella che verrà. Ma il pensiero ferma questo processo naturale. Il pensiero ti consegna un'idea di permanenza. Perché in tutte le tradizioni i Maestri cambiano nome agli adepti? È come se dicessero: "Guarda che tu con quel nome richiami automaticamente in campo la tua storia. Tu non sei il tuo nome, ricordalo bene. Non sei il tuo nome". Per comprendere come siamo, dobbiamo immaginarci come un cubetto di ghiaccio che si scioglie; l'emblema dell'im-permanenza. Perché, se seguiamo la testa, passiamo il tempo a ripetere: "Guarda com'è il mio cubetto, il mio è più quadrato del tuo, più freddo, più alto, ha più acqua, ha meno acqua...". E non ci rendiamo conto che l'"evento" è l'acqua e non il cubetto. Che l'acqua si scioglie e torna all'acqua. E che il cubetto non è nient'altro che una "forma" dell'acqua. Il cubetto deve fare l'acqua... Questa è tutta la partita. note: 1 William Shakespeare, La tempesta, Marsilio, Venezia 2006. 2 Epicuro, La felicità, Newton Compton, Roma 2005, p. 57. 3 Blaise Pascal, Breviari, Bompiani, Milano 2002, p. 236. 4 AA.VV., Cogli l'attimo, San Paolo Edizioni, Milano 2002, p. 37. 5 Rami Shapiro (a cura di), Un silenzio straordinario, in Racconti chassidici, Giuntola, Firenze 2004, p. 113. 6 Plotino, Il pensiero occidentale, Bompiani, Milano 2004, p. 119. 7 Friedrich Nietzsche, Aurora, Newton Compton, Roma 2004, p. 87. 8 Seneca, Breviari, Bompiani, Milano 2005, p. 26. 9 Nietzsche, op. cit., p. 84. 3 Accetta le cose come sono
Quando Elisa è venuta a trovarmi allo studio, francamente non vedevo soluzioni. Negli anni però ho imparato che quando si affaccia un problema irrisolvibile, io mi oscuro, mi affido al buio interiore, chiudo gli occhi. Insomma, spengo la luce. Mando a riposare la ragione e i pensieri. Così ha fatto anche Elisa: "Una sera ho tradito mio marito con uno che non mi piaceva. Volevo vendicarmi, punirlo per come mi aveva trattato nei giorni precedenti. Mentre mi rivestivo e tornavo a casa in macchina, sentivo tutto lo schifo del corpo che era entrato nel mio, e insieme una grande tenerezza per mio marito e un amore per lui che non avevo mai provato. Quello schifo mi ha fatto rincontrare l'amore". La sera stessa Elisa fa poi l'amore con il marito "con un'intensità mai provata" e, dopo otto anni di tentativi, rimane incinta. Non pensa nemmeno per un attimo che il bambino possa essere dell'altro... Utilizzando le parole di Rabbi Elimelech, Nilton Bonder rabbino con funzione di leader spirituale della Congregazione giudaica del Brasile - ci aiuta a riflettere sul tema del tradimento: "Tradire è un processo, è il momento in cui ci dirigiamo verso un'altra direzione, segna un nuovo segmento delle nostre storie individuali e collettive. Il corpo e la morale, però, percepiscono questo atto come un disorientamento, anche se trasgredire è necessario".1 Ascolta la tua Dea Per una serie di coincidenze il marito di Elisa viene a sapere del tradimento: messa alle strette, lei confessa, e da quel momento scoppia l'inferno. "Se sapesse quante volte mi ha chiesto di abortire... Ma io non potevo farlo. Dentro di me ero sicura che fosse suo il bambino, anche se lui non ne voleva sapere. Mi sono sentita dire di tutto; insulti di ogni tipo. Mai e poi mai credeva che l'avevo tradito solo quella sera." In quei giorni Elisa viene a trovarmi. È al terzo mese di gravidanza, disperata, sola. Suo marito l'ha lasciata, non è riuscito a reggere un affronto così grande, e non è disposto
a fare il padre di un bambino che forse non è suo. Elisa se ne sta sdraiata sul lettino del mio studio, ormai quasi senza parole, spenta. L'unico gesto che compie spontaneamente è quello che accomuna tutte le donne incinte: le mani appoggiate sulla pancia, sul grembo. Quando cammina, osservo che sembra una donna di altri tempi. Una grande familiarità con la sua pancia, come solo le donne che hanno avuto diverse gravidanze sanno fare. Nella sua totale confusione, in quel senso di sconfitta che l'alimenta, tra la disapprovazione della sua famiglia, degli amici (la sua migliore amica Rosaria tutti i giorni le dice: "Come fai a tenere il bambino se non sei certa al cento e per cento che è di tuo marito?"), immersa nel dolore dell'abbandono di colui che aveva di colpo scoperto essere l'amore della sua vita, Elisa ha una sola certezza: tenere il bambino. Qualcosa dentro di lei, una Dea sconosciuta, sa che cosa si deve fare. Il deserto intorno a Elisa si amplifica quando si accorge che non può contare su nessuno: "Mia madre è sempre stata una donna egoista, solo mia zia mi è venuta a trovare, a stare con me, coccolandomi senza dire nulla". Anche nei momenti più bui, quando ci sentiamo abbandonati da tutti, se impariamo a guardarci intorno scopriamo che c'è sempre qualcuno che corre in nostro aiuto, una figura provvidenziale come è stata la zia per Elisa. Queste persone che vengono in nostro soccorso, ad accudirci, le manda l'anima, la nostra Dea ulteriore. Elisa soffre, sta male, ma il dolore che prova la fa sentire libera, pura, senza fronzoli, senza pensieri inutili. Arriva al settimo mese di gravidanza "addolorata nell'anima, ma serena". Per lei non c'è più niente di importante: i negozi, il cinema, le cene con gli amici... Non contano più nulla. "Le sembrerà strano" mi dice "ma tutto questo dolore mi sta facendo diventare una donna." Quella Dea misteriosa, la signora del femminile, ha una strategia per Elisa: non vuole che diventi una donna comune, una donna qualsiasi. No, vuole, attraverso il dolore, portarla via dai lamenti, dalle se-
rate inutili, dagli amori banali, dagli atteggiamenti infantili. "Ho imparato ad amare in modo del tutto disinteressato: se mio marito vorrà tornare, bene, altrimenti io lo amerò comunque, silenziosamente dentro di me." Verso l'ottavo mese l'ho rivista in una seduta, serena, con qualche timido sorriso sulle labbra. Non lottava più: aveva accettato le cose così come sono. Mi portò una lettera che conservo. Vede, caro Morelli, non ho osato dire a mio marito che quella sera, quando l'altro si era tolto il preservativo, ho provato un grande schifo. Ma la cosa davvero sconvolgente è stata la notte, quando sono tornata a casa. Per la prima volta in vita mia, dopo quello schifo, ho goduto con mio marito come mai mi era capitato, con un'intensità, un piacere che non sapevo neppure lontanamente cosa fossi. In quel momento io stavo diventando una vera donna, e la mia anima mi ha fatto un regalo: un bambino. Non importa di chi è, perché è venuto dall'anima. Ho consigliato a Elisa di spedire una lettera uguale a suo marito. Io in genere non do consigli, ma questo mi è venuto dal profondo, e non potevo non darglielo. Ogni donna è una Dea Elisa spedisce quella lettera solo dopo il parto, tre mesi più tardi. Ma suo marito si rifiuta di vedere il bambino, nonostante l'esame del DNA dimostri che è suo figlio. Un giorno, mentre allatta il piccolo Francesco, Elisa si percepisce diversa: "Forse per la prima volta in vita mia, mi sono sentita bene con me stessa. Sì, Raffaele, mi sono sentita a casa. Ero lì, con il piccolo, serena; avevo tutto. Non c'era nessun rimpianto. Ero presente a me stessa, e sentivo la voce del mio femminile che mi diceva: 'Stai tranquilla, va tutto bene'". Quella voce interna, misteriosa, Elisa la avverte come una presenza provvidenziale, una "madre celeste" che la abita, che provvede a lei. "In quel momento ho ceduto, mi è venuto da piangere, un pianto dolce, sereno. Non ero più una bambina capricciosa, ma una donna." Elisa in quel frangente ha partorito se stessa. Le lacrime,
dolci, serene, senza pensieri, senza lamenti, arrivano dalle parti più profonde, più essenziali. È come se si fossero rotte le "acque dell'anima", ed Elisa stesse per rinascere. In quel momento, la chiama suo marito per dirle che è ancora innamorato di lei. Come tutte le cose significative della vita, il loro riavvicinamento avviene in modo semplice, naturale, come se non si fossero mai staccati l'uno dall'altra. Per entrambi i giudizi degli altri non contano più: sono diventati un uomo e una donna. Gli dèi li avevano separati, portati nel dolore, perché si ritrovassero in una nuova maturità, in una consapevolezza più larga. Le cose si mettono a posto da sole, o meglio, se mettiamo il nostro Io in disparte, gli dèi ci guidano verso la nostra realizzazione. Ancora Rabbi Bonder, a proposito dei motivi che sottendono un tradimento, afferma: "Il vero grande crimine dell'essere umano è quando egli può dare a se stesso una semplice svolta in qualsiasi momento, ma non lo fa. Il problema non è il tempo perso o le stupidaggini commesse nel passato, ma è l'ora, il momento presente, un'opportunità non sfruttata per mutare il corso della vita. Due cose rimangono compromesse per l'assenza di trasgressione: la qualità della vita e l'assenza di continuità. La qualità della vita collettiva è pregiudicata ogni volta che un individuo non esercita tutto il suo potenziale trasgressivo. La vita potrebbe essere migliore, produrre maggiore soddisfazione, ma gli individui si astengono dai loro diritti e con questo pregiudicano il diritto di tutti".2 A sostegno di quanto scritto da Nilton Bonder, anche Carl Gustav Jung afferma con forza l'importanza di vivere pienamente le esperienze che l'esistenza ci riserva. Le rinunce a priori, sull'onda di modelli o stili di vita a cui rigidamente attenersi, potrebbero rivelarsi assai controproducenti, in quanto: "Ogni vita non vissuta rappresenta un potere distruttore e irresistibile, che opera in modo silenzioso ma spietato".3 Non accusarti A volte in molti di noi si insinua un pensiero ricorrente:
quello di non vivere la vita che abbiamo sognato, di avvertire un irreparabile senso di sconfitta, di aver contratto il fallimento. Quando qualcuno in psicoterapia mi dice che ha fallito, io gli chiedo qual è la sua idea di successo. Insomma, la mia domanda è più o meno questa: "Se lei non fosse fallito, se le cose non fossero andate male, se avesse realizzato il sogno della sua vita, adesso dove si troverebbe, cosa farebbe?". Qualcuno risponde: "Avrei più soldi, una vita più agiata, mi sentirei più tranquillo, sarei più sereno, darei ai miei figli qualcosa in più". Qualcun altro, invece, la mette sull'amore: "Il mio matrimonio è fallito perché non ho sposato la donna giusta, eppure l'avevo trovata, ma ormai ero sposato con un altra", oppure: "Quando l'ho conosciuta eravamo troppo giovani, inesperti, non sapevamo gestire le emozioni, la gelosia... E così è finita". Quanto ci piacciono le illusioni... Così, Marcello di quarantun anni mi scrive: "Con lei non sarebbe diventata un'abitudine come è successo con mia moglie". Come se l'abitudine non fosse sempre in agguato, pronta a far affiorare un'altra energia rispetto a quella della passione. Tutto inesorabilmente diventa abitudine, stasi energetica, continuità, ripetizione. Il che in sé non è negativo, fa parte dei modi di essere che ci spettano, che ci toccano. Il pericolo è l'illusione, la fuga dal reale, il pensiero che ci vuole protagonisti assoluti della nostra vita, che ci vuole far evadere, che immagina quello che non c'è, che pensa che quello che non è accaduto era il nostro vero destino. Nietzsche ci propone un distinguo sottile tra le abitudini di breve e lunga durata, e offre - con un esempio personale una chiave per uscire dal vicolo cieco della ripetitività: "Amo le abitudini di breve durata e le considero uno strumento inestimabile per venire a conoscenza di molte realtà e per calarsi fino al fondo delle loro dolcezze e amarezze;
alla mia natura si confa decisamente l'abitudine di breve durata. Essa mi nutre a mezzogiorno e sera e diffonde una profonda frugalità attorno a sé e dentro di me, così che non desidero niente altro, senza che debba far paragoni o disprezzare o odiare. E poi un bel giorno ha fatto il suo tempo: la buona abitudine si separa da me, non come qualcosa che adesso suscita in me disgusto ma in modo del tutto pacifico e sazia di me come io sono di lei e come se dovessimo esserci reciprocamente grati e ci dessimo la mano in senso di commiato".4 Continua ancora Nietzsche: "Odio invece le abitudini durature, e ho l'impressione che un tiranno mi si avvicini e che l'aria che respiro si appesantisca ogni volta che le circostanze si configurano in modo tale da darmi l'impressione che ne debbano risultare abitudini durature".5 Il fallimento diventa tale perché non accettiamo che le cose siano andate così, proprio così, e che le risorse che abbiamo siano qui, adesso, dentro di noi, immutate; oggi come allora. Epitteto, filosofo greco ed eminente esponente della corrente stoica, sosteneva che l'uomo non è padrone del proprio destino, né di ciò che sta al di fuori di lui. Il Saggio, perciò, oltre che sopportare il dolore come un destino ineluttabile, deve imparare a discernere ciò che è in suo potere da ciò che non lo è, e, quindi, coltivare quello di cui è veramente padrone, cioè la sua interiorità: "Non devi cercare di fare in modo che le cose vadano come vuoi, ma accettare le cose come vanno: così vivrai sereno."6 Il fallimento è sempre figlio di "qualcosa" che si opponeva, dentro di noi, a seguire la strada che avevamo deciso di intraprendere, di percorrere. Forse non era la nostra strada, la nostra via... "Sono arrivato all'ultimo esame della laurea in Legge, bastava poco, eppure non riuscivo più a concentrarmi. Mentre divoravo romanzi e poesie, ogni volta che prendevo in mano il libro del mio esame, mi sentivo un idiota. Pur di non studiare mi inventavo le cose più assurde. Sono andato avanti così tre anni, e alla fine ho rinunciato. Adesso faccio
l'impiegato, mi sento un fallito, e sto con una donna che neppure mi piace tanto. Quella di prima, quella che avrei dovuto sposare dopo la laurea, se ne è andata. E la mia famiglia di grandi professionisti mi guarda come fossi la pecora nera." Le parole di Marco, trentotto anni, sono assai comuni. Più o meno in ciascuno di noi, anche in chi ha ottenuto notevoli successi professionali, il senso del fallimento, di una vita che non è andata proprio nel verso giusto, si presenta qua e là; a volte si manifesta con un senso di smarrimento, o una tristezza immotivata. "Ho tutto, una bella famiglia, soldi, la casa al mare, eppure mi manca qualcosa" dice Rosalba di quarantadue anni "forse avrei bisogno di innamorarmi..." Nella percezione di una "vita sbagliata" c'è sempre l'idea che l'amore avrebbe potuto risolvere le cose. Ecco un'e-mail che ho ricevuto a tal proposito: "Sono arrabbiata con me stessa perché dopo un matrimonio fallito non sono più riuscita a innamorarmi... Il mio unico amore sono i miei figli meravigliosi". Oppure scrive Eleonora: "Mi arrabbio perché mio marito non capisce che ho bisogno d'amore! Sono sposata da tre anni e da un anno intero non mi sfiora. Non è possibile, avendo io ventotto anni e lui trentotto. Mi aiuti Morelli". Quando si parla di fallimento in amore, mi viene in mente il mito di Afrodite e mi chiedo: "Dov'è finita la Dea dell'amore che abita ogni donna?". "Afrodite era dotata di soave voluttà, dolcezza, sorriso malizioso e riscosse un'accoglienza e un successo strepitoso fra gli dèi dell'Olimpo. Dea dell'Amore e della Vita Sessuale, ella possedeva un cinto magico gelosamente custodito che faceva innamorare chiunque lo portasse. Al seguito c'erano Peregoros (la Consolatrice delle pene d'amore), Imeros ( il Desiderio d'amore), Pathos (il Dolore d'amore), e sempre immancabile e determinante la figura alata di Eros. Le sue armi erano la dolcezza e la seduzione e al suo servizio erano Peitho (la Persuasione), Apate (la Seduzione) e Philotes (il legame amoroso)."7
Comunque vada la nostra vita, siamo sempre pronti ad accusarci, non ci andiamo mai bene. Ecco come si giudica Dolores: "Sono arrabbiata perché ho scoperto che mia figlia falsifica la firma sulle verifiche andate male. Ha solo tredici anni e, in realtà, non sono arrabbiata con lei ma con me stessa, perché forse ho fallito, non sono stata capace di metterla in condizione di potermene parlare liberamente. Come è difficile essere genitore...". Seneca pensava che è stupido accusarci per le cose che accadono, perché c'è una legge universale che guida il Tutto e, mentre lo fa, compie una grande opera: "La natura governa con i mutamenti questo regno che tu vedi: alle nuvole succede il sereno; il mare si agita dopo essere stato calmo; i venti soffiano a turno; il giorno segue la notte; una parte del cielo si leva, un'altra tramonta; l'eterno andare delle cose si basa sulla legge dei contrari. Il nostro animo deve adattarsi a questa legge; la segua, le obbedisca; e si persuada che tutto ciò che avviene doveva avvenire, e non rimproveri la natura. La cosa migliore è sopportare quello che non puoi correggere, e adattarsi senza mormorare a ciò che Dio stabilisce, poiché tutto procede da lui: è un cattivo soldato chi segue il generale lamentandosi. "Perciò accogliamo gli ordini sollecitamente e con entusiasmo e non abbandoniamo la via di questa bellissima opera, alla quale è intrecciato tutto quello che soffriremo; e rivolgiamoci così a Giove, dal cui governo dipende l'andamento dell'universo, come il nostro Cleante gli si rivolge in versi eloquentissimi: 'Conducimi dove vuoi, o padre e signore dell'alto cielo; non esito ad obbedire: eccomi pronto. Supponi che io non voglia, seguirò piangendo e subirò di malanimo ciò che avrei potuto fare volentieri'. Il fato guida chi segue, trascina chi recalcitra".8 E continua Seneca: "Viviamo così, parliamo così: il destino ci trovi pronti e solleciti. È grande l'anima che si abbandona ad esso: al contrario, è meschina e vile quella che fa resistenza e disprezza l'ordine dell'universo e preferisce correggere gli dèi piuttosto che se stessa".9 Non sei tu che fallisci
Ritornando all'amore, Francesca giudica duramente la propria indecisione, la propria incapacità di concludere una storia. "Sono arrabbiata con me stessa. Sono insieme a un ragazzo stupendo da due anni e mezzo, ma vado sempre a cacciarmi nei guai: ho cominciato a frequentare un ragazzo conosciuto in chat, che ieri mi ha detto di essersi innamorato di me. Sono arrabbiata perché non so mai decidermi: gli ho detto che non dovevamo né sentirci né vederci e invece, ieri sera, siamo stati insieme. Non sono innamorata di lui perché amo il mio ragazzo, ma non riesco a stargli lontana". Perché non proviamo a pensare che dentro di noi, nella nostra essenza esiste una "volontà più profonda", una "forza" che rifiuta i nostri modelli, il nostro modo di essere, il tragitto di vita che ci siamo imposti. Il senso di inadeguatezza, l'indecisione, il fallimento, arrivano perché la nostra testa, il nostro Io, la nostra mente vogliono andare in direzione opposta al nostro Sé, alla nostra vera natura. Come quando ci rinfacciano di non seguire l'esempio dei nostri genitori, ma se lo facessimo, finiremmo per realizzare la loro esperienza e non la nostra, ciò che siamo nel profondo. Allo stesso modo accade in amore: ci adattiamo a un partner, un marito, una moglie, però qualcosa dentro di noi vuole con tutte le sue forze un'altra persona, non perché siamo leggeri, ma semplicemente perché quella persona è più affine a ciò che siamo nel profondo. Quando arriva un fallimento, sia nel lavoro che negli affetti, l'unica cosa da fare non è sognare o fantasticare un'altra vita, rimpiangere, ma accettare quello che accade. Non sono io che fallisco, è semplicemente la mia anima che vuole portarmi in un'altra direzione, verso la mia vera fioritura, verso il mio vero "talento". Accettarsi quando si sbaglia, senza rimproveri, senza punirsi, è il primo passo verso la propria autoguarigione e quindi verso la gioia di vivere. Accettare non significa rassegnarsi
La storia di Elisa, con cui ho iniziato questo capitolo, è una storia a lieto fine. Ma il fatto che suo marito sia tornato da lei, che le abbia dichiarato il suo amore dopo aver superato il tradimento e accettato il bambino non ha per me nessuna importanza. In questo caso le cose sono "andate a finire bene", quasi come in una bella fiaba o in un bel fotoromanzo, ma non è per questo che ho voluto soffermarmi su Elisa. Ciò che mi ha colpito e commosso, è che lei a un certo punto ha accettato le cose così com'erano. Attraverso il tradimento ha ritrovato la sua capacità di amare, di lasciarsi andare all'eros, ha scoperto che questo coinvolgimento sessuale poteva viverlo con suo marito, con cui cercava un figlio ma con il quale non si era mai veramente coinvolta. Il tradimento le ha fatto provare lo schifo e poi la passione amorosa. È stata quella "intensità mai provata" a regalarle un bambino? Non lo sapremo mai. Ma sappiamo che da quel giorno Elisa ha cambiato atteggiamento mentale. Non è più la "donna superficiale" di prima, decide di tenere il bambino perché "sa" che è di suo marito, e va avanti nonostante tutti siano contro di lei; tutti, anche le amiche più care. Ma Elisa è orientata verso il suo interno, acquisisce il "sapere dell'anima", va avanti, continua la gravidanza, si affida all'interiorità e basta. Accetta le cose come sono, non si lamenta, non guarda più, come le sue amiche, le cose futili dell'esteriorità: si affida alla sua Dea ulteriore, si dice "sia quel che sia" senza aspettarsi nulla. La storia è a lieto fine perché Elisa è cambiata, maturata. Ha imparato a contare sulle proprie forze interne, sul suo femminile, sulla Dea. Vogliamo davvero cambiare vita? Il primo segreto è quello di accogliere le cose così come so-
no, di accettarle senza alcuna condizione, senza opporsi. L'accettazione non va vista come un modo di rassegnarsi alle vicissitudini della vita, o come la sopportazione religiosamente intesa. No, va piuttosto guardata come uno stato energetico terapeutico per il cervello. In questo stato energetico il cervello produce soluzioni, libera quell'energia femminile, la Dea provvidenziale che si mette a riparare il danno, mette le cose a posto. Perché il nostro cervello ha cento miliardi di cellule intelligenti, di lampadine creative capaci di risolvere i nostri problemi. I pensieri spengono queste lampadine, l'accettazione le accende. Se vogliamo veramente cambiare vita occorre che guardiamo le cose come sono, senza pareri, senza commenti, senza ragionamenti, accettandole così come vengono. Senza dirci niente, senza giudicarci, senza lamentarci. Come ha fatto Elisa. L'energia provvidenziale del cervello ha risolto, ha riparato perché Elisa si è arresa, perché non ha titubato un attimo. "Sia quel che sia" è quello che ha bisogno di sentirsi dire la nostra Dea. note: 1 Nilton Bonder, L'anima immortale (tradimento e tradizione attraverso il corpo), Città aperta Edizioni, Traina, Enna 2003, p. 78. 2 N. Bonder, op. cit., p. 78. 3 Carl Gustav Jung, Opere complete, vol. XI, Bollati e Boringhieri, Torino 1985, p. 39. 4 Friedrich Nietzsche, Divieni ciò che sei (pensieri sul coraggio di essere se stessi), Christian Marinotti Edizioni, Milano 2006, pp. 144-145. 5 Ibid. 6 Federico Ronconi (a cura di), La saggezza degli antichi (massime e aforismi greci e latini), Mondadori, Milano 1993, pp. 407-410.
7 Rosa Agizza, Miti e leggende dell'antica Grecia, Newton Compton, Roma 2005, pp. 52-54. 8 Seneca, Breviari, Bompiani, Milano 2005, pp. 279-280. 9 Ibid. 4 Parla con te stesso Vi sono parole che non sopporto, frasi che francamente detesto. Tra queste, vi sono quelle che suonano più o meno così: "Ci vuole il coraggio di vivere", oppure: "Devo trovare le forze per andare avanti". Sono parole che rivelano il nostro rifiuto del mondo, della vita: appartengono alla nostra maledetta superbia, la quale vuole farci credere che l'esistenza deve scorrere come noi l'abbiamo pensata, programmata. Invece, la vita, senza chiedere il nostro parere, scorre in noi e si fa parola, immagine, fantasia, sentimento, emozione, pensiero... Coscienza. E tra le secrezioni di tutto il mio organismo, la coscienza è il tesoro più sublime, l'energia più preziosa, che ha il sapore dell'eterno. Scrive Giuliano Kremmerz, grande simbolista dei primi del Novecento: "Avere, possedere, sentire la coscienza propria e integrarla al punto di sottrarsi all'ambiente immediato e ai pregiudizi storici, è opera che passa i limiti delle nature comuni".1 Occuparsene, dunque, è determinante, è la partita della vita. Ma occuparsene significa che io devo semplicemente essere cosciente, non cambiare le cose... Avere coraggio non significa sforzarsi o possedere la capacità di sopportare le sventure, e quindi pronunciare l'altra infelice frase: "Tanto la vita continua". Si tratta solo di luoghi comuni, come i lamenti a cui ci siamo abituati; non vediamo l'ora di incontrare qualcuno per poter raccontare quanto le nostre disgrazie sono peggiori di quelle degli altri. Anche quando il problema è risolto ci piace raccontarlo, esporre le difficoltà che abbiamo dovuto superare per arri-
vare a risolverlo. Come nella lettera che mi scrive Franco: "Tutte le mie più grandi vittorie le ho ottenute con tenacia e determinazione. Ma questo come si concilia con il lasciarsi andare e 'cedere' - a cui lei spesso allude - senza farsi sopraffare dalla passività? Sono molto confuso". Con tenacia e determinazione, lottando e sforzandoci, otteniamo in genere quello che non ci interessa. Nella vita capita che ci si convinca di voler diventare un personaggio che, in realtà, non vogliamo affatto diventare. Scrive William Shakespeare: "Desideri e destini vanno in senso contrario, tanto che i nostri calcoli sono sempre rovesciati: nostri sono i progetti ma non i risultati".2 Ti piace il tuo lavoro? A volte, da bambini, quando ci domandavano "Cosa vuoi fare da grande?", rispondevamo l'autista, il ferroviere o il fruttivendolo. Non perché questo ci interessava realmente, ma perché eravamo attratti dalla curiosità di quei mestieri, o perché stavamo imitando dei personaggi a cui volevamo assomigliare. Con il tempo, queste fantasie se ne vanno e lasciano il posto ad altre identificazioni che ci hanno trasmesso i genitori, la famiglia, l'ambiente. E allora, magari, vogliamo diventare un manager perché lo è il nostro migliore amico, oppure immobiliarista perché pensiamo piaccia alla nostra compagna. Ma se nel profondo della nostra anima il lavoro che stiamo svolgendo non ci interessa, non possiamo che far conto su tenacia, determinazione e fatica. Se, invece, quel che facciamo ci piace per davvero, noi siamo allora come i bambini quando giocano. Possiamo lavorare ore, ore e ore senza sentirci mai stanchi, perché presi da quello che facciamo; siamo talmente coinvolti che non ci accorgiamo che sono passate dieci-dodici ore, e che magari non abbiamo nemmeno mangiato. Vede, caro Franco, quando facciamo quello che ci piace per davvero non siamo affatto confusi, anche se il mondo ci contrasta e altri non sono d'accordo, sentiamo una forza che ci spinge a svolgere il nostro compito, a seguire la nostra strada. Se vogliamo sapere se nella vita stiamo ottenendo le
nostre vittorie, lo capiamo dal fatto che tutto accade senza alcuna fatica, senza alcuno sforzo, senza alcuna lotta. Platone cita a proposito un detto del drammaturgo greco Euripidei "Ciascuno brilla in una cosa e a questa è portato, dedicando ad essa la maggior parte del giorno, perché in essa si trova ad essere superiore a se medesimo".3 Posa lo sguardo sul dolore Ci piace il personaggio dell'eroe che ha superato la sofferenza ed è poi riuscito a farcela. "Sapessi quanto è stata dura!", così, in questo modo, evochiamo la fatica, il dolore, la sofferenza, che se ne erano già andati via. Ma ogni volta che li raccontiamo, senza saperlo li "chiamiamo" e li prepariamo a tornare la prossima volta, al prossimo problema. Non siamo quasi mai attenti, e men che meno presenti alle parole che diciamo, e non sappiamo che la nostra essenza è più di tutto sensibile ai suoni che emettiamo, alle parole che ci diciamo. Mi ha fatto piacere, recentemente, sapere che un famoso ortopedico che aveva in cura un caro amico affetto da un dolorosissimo e cronico mal di schiena, dopo aver fatto tutti gli esami necessari e averlo invitato a sospendere gli antidolorifici, gli ha consigliato di "parlare alla sua schiena!". Questo mio amico, anch'egli medico, mi aveva raccontato del fastidioso disturbo che lo colpiva e che durava quasi tutta la giornata; provava sollievo solo quando faceva attività sportiva. Il mio consiglio, visto che il dolore non passava nonostante le radiografie non segnalassero niente di patologicamente così grave da giustificare un dolore tanto intenso, e per di più cronico, era stato quello di "posare lo sguardo" sul dolore e di inondarlo della propria presenza ulteriore. È una cosa che faccio spesso con me stesso: essendo anch'io uno sportivo, soffro frequentemente di dolori muscola-ri-articolari, e ogni volta che sopravvengono io non prendo nessun farmaco. Mi curo semplicemente con la consapevolezza. E quando sto un po' meglio, vado a ricercare il dolore, senza resistergli, cedendo, arrendendomi, percepen-
dolo bene come se lo guardassi a mente vuota, senza pensieri. Questa tecnica mi ha dato grandi benefici, e anche ai terapeuti -così mi hanno raccontato - che l'hanno fatta propria. A volte consiglio anche di socchiudere gli occhi per percepire meglio le zone dolenti, abbandonarsi fino a sentire che il dolore si allarga, aumenta... E poi cedergli, senza resistere. A questo punto è utile emettere un suono, un vocalizzo, quello che ci viene più naturale e, mentre lo si emette, avvertirlo vibrare sulla parte dolente; come insegnavano i Maestri taoisti. A me, e ai colleghi che usano questa tecnica, ha sempre colpito lo "stato di estraneità" che si viene a creare. Negli ultimi anni il mio lavoro di psicoterapeuta e di psichiatra, mi ha fatto constatare che il cervello produce le sostanze del-l'auto-guarigione quanto più siamo "estranei a noi", e questo stato si raggiunge facilmente e paradossalmente essendo presenti a se stessi, senza pensieri. Parlare alla propria schiena o al proprio organo sofferente significa essere lì, posizionati sul dolore, e solo su quello. Senza pensieri, lamenti, senza ragionamenti sulle cose giuste o sbagliate che abbiamo fatto nella vita, senza spiegazioni, senza passato, senza la nostra storia. Lo "stato di estraneità", di "resa al dolore" va visto come uno stato energetico terapeutico, mentre il lamento va considerato "un'energia pesante" che cronicizza e fissa la patologia. Così il pensiero - l'energia più "pesante" che il cervello possa produrre - fa da impedimento allo sblocco del disagio. Parlare al disturbo, come ha sottolineato l'ortopedico che aveva in cura il mio amico, significa mettersi in un certo stato mentale, significa chiedere dolcemente all'organo dolente: "Che cosa vuoi da me, dove vuoi portarmi, che cosa non sto realizzando, che cosa devo esprimere?". Fondamentale è non ragionare sulla risposta: non prepararsi a pensarci su. Lo stato terapeutico deriva dall'atmosfera che si crea mentre parliamo a noi stessi, quell'intimità senza pensieri, quella percezione di un senso nascosto al mio in-
terno, quel contare solo su di me, sulla mia cedevolezza, sull'assenza di sforzo, di fatica. Abbi cura di te Parlare a noi stessi significa percepire la sensazione di "avere cura" di noi, di esser presenti a ciò che accade, e sapere che il nostro sguardo emette sostanze terapeutiche come la nostra parola, il nostro suono. Le parole pronunciate in questo "stato di estraneità", in questa "consapevolezza vuota", sono rivolte al buio che abita dentro di me, al nulla che percepisco di essere quando la coscienza non è riempita dal pensiero ed è solo presenza interiore. Queste parole inondate di consapevolezza, di presenza ulteriore hanno l'effetto di un mantra, di una preghiera. Apparentemente le preghiere invocano un'entità lontana da noi, inawicinabile. Ma questo è vero solo per l'Io, per la mente che pensa. In realtà, le parole che diciamo a noi stessi si rivolgono, fecondano, irradiano il mio spazio interno: possono stimolarlo a produrre le sostanze, le vibrazioni, i suoni dell'autoguarigione, ma allo stesso tempo possono cronicizzare le malattie, renderle insopportabili, nemiche, tremende. Il fondatore del chassidismo Baal Shem Tov, diceva: "Siamo quello che diciamo. La qualità della nostra conversazione rispecchia la qualità della nostra anima [...] una parola ha il potere di sanare o di fare del male".4 Gli antichi parlavano a se stessi, e quindi pregavano, per stimolare le energie ancestrali (gli dèi), per chiamarle a intervenire, per creare un campo energetico dove la coscienza, lo sguardo e la parola sono tutta la terapia che ci serve. Platone, riflettendo sugli dèi che abitano in noi, afferma: "Sono gli dèi quelli che si prendono cura di noi uomini, e noi siamo in possesso degli dèi".5 Tutti i nostri organi, sin dalla vita embrionaria, si sono formati e si formano a nostra insaputa. Evidentemente esiste nel nostro profondo un'energia creativa, una forza risa-natrice, che la consapevolezza esalta e i pensieri frenano. Personalmente, ho constatato più volte che un significati-
vo miglioramento del disagio psichico Tiene accompagnato da un modo diverso di usare il linguaggio, di parlare, per-sino dalla tendenza a utilizzare parole "nuove". Ogni disturbo è un linguaggio, racconta di energie sconosciute, di territori che il nostro Io non sta esplorando, di modi di essere che abbiamo dimenticato. Dobbiamo fare attenzione alle parole che diciamo agli altri e a noi stessi: come il seme - gli antichi lo sapevano - la parola "crea". Con la voce possiamo benedirci o maledirci, risanarci o annientarci. La saggezza chassidica pensava che le parole avessero un grandissimo potere sull'uomo, e per questo invitava a utilizzarle con attenzione: "Devi pronunciare le parole come se al loro interno si spalancassero i cieli, e non come se le ponessi in bocca, ma come se penetrassi in esse".6 Evita le parole sbagliate Federico mi scrive di un'angoscia che lo attanaglia: "È più di un anno che ho perso mio figlio di soli diciotto anni. Contrariamente a quanto in molti mi dicevano, il tempo non ha cancellato niente del dolore e dell'angoscia che ho dentro il cuore. Di giorno lavoro e non ci penso, ma quando mi fermo sono angosciato dal pensiero di mio figlio che non c'è più. Mi chiedo se ho fatto tutto per lui, se potevo fare di più, se non l'ho lasciato troppo solo. Spesso mi si stringe il cuore, e spesso piango, in solitudine. Ma non doveva passare pian piano questo dolore? Forse io sono sbagliato? Perché non riesco a darmi pace? Mah... Lei cosa ne pensa?". Caro Federico, mi spiace doverglielo dire, ma sa cosa le fa male? Tutte le parole sbagliate, le domande inutili che lei si fa. Noi non piangiamo perché abbiamo perso il nostro "cucciolo", ma piangiamo perché il nostro giudizio ha preso il sopravvento. Che importanza può avere se lei è stato un buon padre o no? E poi cosa vuol dire essere un "buon padre"? Seguire gli inutili modelli della televisione, stare con i figli un tot di ore al giorno, coccolarli, sgridarli quando è opportuno? Vede, Federico, se seguissimo uno standard saremmo dei
genitori veramente banali. Sa cosa dovremmo dire ai nostri figli che non ci sono più? Queste parole: "Sai tesoro, sai figlio mio, io non so in cosa ti sei trasformato, so che non ti vedo più, ma io sono qui per custodire la tua immagine, il tuo viso, i tuoi occhi. Sai tesoro, quando mi diverto, quando sorrido, quando gioco, ogni tanto lascio affiorare la tua immagine dentro di me. Insomma, nel mio essere vivo, nel mio godere io ti faccio sentire vivo, ogni volta che ti ricordo". Perché da un lato è vero, come sostiene Seneca, che c'è un tempo assegnato a ciascuno di noi: "Convinciti: lo hai perduto per eterno decreto della mente divina: egli ebbe la sua parte e giunse al traguardo dell'età concessa. Non hai motivo di caricarti con dei "poteva vivere di più. La sua vita non è stata interrotta: il caso non può mai frapporsi agli anni. A ciascuno viene pagato quanto gli è stato promesso: il destino fa la sua strada e non aggiunge e non toglie nulla a quanto ha promesso una volta per tutte".7 Dall'altro, contemporaneamente, dobbiamo sapere che possiamo fare ancora qualcosa per i nostri morti: a loro serve che rievochiamo la loro immagine quando ci divertiamo, perché quando godiamo attraverso di noi tornano a vivere. Se lei farà così, caro Federico, le garantisco che il dolore se ne andrà, e lei avrà il piacere, tutti i giorni, di dare vita al suo piccolo che non c'è più. Così come le parole possono vivificare i nostri cari che non ci sono più, allo stesso modo le parole possono trasformare noi stessi. La lingua, come il fallo o il clitoride sul piano genitale, secerne molecole cariche di energia fecondante. "Le secrezioni del sesso e quelle della parola" questo era il pensiero del grande studioso e mistico russo Pavel Flo-renskij "sono omotipiche, le ultime maturano come le prime ed escono all'esterno per la fecondazione."8 Florenskij aveva compreso come il cranio abbia somiglianze straordinarie con l'apparato riproduttivo: nelle parti basse si crea la vita animale, nelle parti alte quella spirituale.
La parola "feconda" e l'orecchio, che è il vero "utero del cranio", la raccoglie e la consegna al cervello; l'organo in cui ogni giorno veniamo "ripartoriti". Più di un autore e pensatore ha sottolineato la stretta somiglianzà che esiste tra il feto nell'utero e il cervello nella scatola cranica. In particolare, il simbolista Schwaller de Lubicz mette in evidenza questa suggestiva analogia quando scrive: "Nella testa tutto l'encefalo potrebbe essere considerato come un feto in gestazione".9 Il seme più evoluto dell'universo è il cervello dell'uomo e la parola, dunque, è la manifestazione più alta della sua capacità creativa. Dobbiamo stare attenti a non dilapidare questo bene prezioso, quelle molecole sonore che sono le nostre parole, che sono la sostanza dello spirito, della nostra essenza. Non si ha idea di quanto la presenza ulteriore, nel silenzio dei pensieri e dei suoni, possa rigenerare la nostra anima e sconfiggere i disagi. Non devo avere il coraggio di vivere, ma la tenera voglia di parlare con me stesso, in quello "stato di estraneità" in cui l'Io si assenta, e in cui gli dèi, le forze misteriose che ci abitano, si mostrano benevoli. note: 1 Giuliano Kremmerz, La Scienza dei magi, vol. II, Fratelli Melita Editori, Genova 1987, p. 153. 2 William Shakespeare, Amleto, Garzanti, Milano 1999, pp. 133-135. 3 Platone, Breviari, Bompiani, Milano 2002, p. 285. 4 Rami Shapiro (a cura di), Un silenzio straordinario, in Racconti chassidici, Giuntina, Firenze 2004, p. 57. 5 Platone, op. cit., p. 171. 6 Martin Buber, I dieci gradini della saggezza, Baroli Editore, Novara 2003, p. 32. 7 Seneca, Breviari, Bompiani, Milano 2005, pp. 276277. 8 Pavel Florenskij, Il valore magico della parola, Medusa, Milano 2003, p. 73.
9 R.A. Schwaller de Lubicz, Il tempio nell'uomo, Edizioni Architettura e simboli sacri, p. 115. 5 È la donna che cambierà il mondo Ma dov'è finita l'interiorità, dove si è rifugiata? Perché passiamo ore e ore davanti alla TV a guardare programmi demenziali, dove il banale, l'inutile conduce la sua danza? Perché consumiamo droghe, psicofarmaci, analgesici e farmaci in generale, come fossero caramelle e come mai nessuna epoca ha fatto? Perché, secondo i sondaggi, il sentimento più sgradito, più temuto, più sofferto è la solitudine? Perché non sappiamo stare da soli? Quali mostri temiamo di incontrare quando siamo con noi stessi? Siamo diventati "esterni", guardiamo solo la superficie, e crediamo che i nostri pensieri siano tutto ciò che c'è dentro di noi. E così pensiamo, pensiamo, pensiamo... Siamo diventati "grandi programmatori", abbiamo sempre in mente progetti, mete da raggiungere. Ma, ammonisce Alan Watts: "Un mondo che si interessa solo di 'arrivare in qualche posto' il più rapidamente possibile, diviene un mondo senza sostanza".1 Quando siamo da soli non facciamo che ragionare, quasi mai ci lasciamo andare alle fantasie, alle immagini, al silenzio ulteriore, al vuoto. Crediamo che senza pensieri non siamo niente e... ci sbagliamo. Ci sbagliamo per davvero! Pensiamo che il mondo sia tutto qui: pieno di cose da dire, da fare, pieno di "efficienza" da dimostrare. Dobbiamo essere sempre all'altezza... Essendo diventati solo "esterni", ci sembra di non avere più risorse interne, di non possedere soluzioni se non quelle che ci arrivano dai rotocalchi, dal gossip, dove i nostri modelli - gli attori, i politici, le star della televisione - sono tutti centrati sull'apparire, sull'esser belli, sull'artificiale, sul lifting. Crediamo che il mondo sia solo quello che vediamo fuori di noi...
Insomma: siamo diventati stranieri a noi stessi, non sappiamo più chi siamo, dove andiamo, qual è la nostra via, il nostro destino. Siamo fragili come non mai, e i disagi collettivi come la depressione, il panico, l'ansia, l'insonnia, l'obesità vengono a trovarci, ad assalirci, ad annientarci. La nostra anima è scontenta di noi, le nostre forze interiori sono stanche, sfinite dal continuo pensare e ripensare alle cose, dai continui giudizi e critiche che facciamo su noi stessi. Eppure, dentro di noi esiste, nel silenzio, qualcosa che ci vuole aiutare, che ci vuole portare via da tutto questo, che ci vuole ridare la vita, che ci vuole restituire ciò che non sappiamo più di avere o che abbiamo perduto. Mentre i moralisti e i bigotti, che per la verità sono soprattutto uomini, invocano come causa della crisi del mondo i valori perduti, le donne sembrano essere state scelte dalle "forze interiori" (gli dèi degli antichi) per cambiare il mondo, per spazzare via i luoghi comuni della nostra civiltà; ormai vecchi, obsoleti, inutili. Non stiamo male perché sono tramontati i "valori di una volta" (coppia, matrimonio, famiglia, figli), ma perché ci ostiniamo a ritenerli perenni, perché ci sforziamo a voler essere sempre uguali, sempre identici ai nostri padri, ai nostri nonni Di questo gli uomini hanno fatto il loro credo fondamentale: figli di un'idea antiquata di virilità, di dominio e di possesso, hanno concepito e fissato dentro di loro dei condizionamenti atavici, ereditati, da cui non riescono ad allontanarsi, di cui non riescono a fare a meno. Quando una civiltà, una cultura, un'epoca si ripiega sulle sue certezze, l'evoluzione si arresta, e allora gli dèi scendono in campo: ci "prendono per mano", spazzano via ciò che "di vecchio" ci si è attaccato addosso, ci preparano al cambiamento, alla trasformazione. Trasformarsi significa ampliare la coscienza, essere più "ricchi", più liberi, meno ancorati all'esterno, insomma, meno prigionieri delle gabbie in cui ci siamo chiusi. Che ne sarà del mondo se il femminile verrà relegato ai
fornelli, alla cura dei figli, all'allattamento, alle gravidanze, alle notti di matrimoni senza eros e piacere, senza passione, senza interessi, prigioniere e schiave delle abitudini? Che ne sarà di noi se gli uomini sono solo dei "machi", attenti alla performance sessuale, dominatori dell'universo femminile? Che ne sarà di noi se siamo solo pensieri ripiegati sull'esteriorità, sull'apparire, sulla credenza che il mondo che vediamo è tutto ciò che c'è? La Donna è infelice "Santa e perpetua salvatrice del genere umano -, così il poeta latino Apuleio nell'Asino d'oro invoca Iside - tu che sei sempre larga di favori ai mortali, largisci un dolce affetto di madre alle sventure dei miseri. [...] Te onorano i celesti, ti venerano gli Inferi, tu fai roteare il mondo, fai comparire il sole, reggi l'universo, calchi il Tartaro. A te rispondono le stelle, per te ritornano le stagioni, giubilano i numi, servono gli elementi."2 E allora la Dea tra le dee, la signora del mondo per eccellenza, quel femminile dal volto misterioso e senza tempo, scende in campo e chiama a raccolta le donne, le invita a prendere parte alle cose del mondo, a cambiare il maschile, a farlo diventare e ritornare utile all'evoluzione. Scrive il filosofo e mistico Satprem, allievo del Maestro Aurobindo: "La donna è colei che realizza davvero. Realizzare vuol dire mettere le cose nella Materia. La donna applica la propria coscienza alla Materia. L'uomo se ne va con gran facilità nei propri sogni, nelle filosofie, nelle sue... in tutte le sue storie. Ma se non c'è accanto a lui una donna che TIRI, che l'aiuti a incarnare il suo ideale, lui resta lì a sognare. La donna è la base, sì".3 "Dove sono i veri uomini?" si chiedono le donne di oggi. Significa che la loro donna ulteriore è scontenta, che la Donna di tutte le donne che abita ognuno di noi, maschi e femmine indistintamente, è infelice. Sì, l'anima del mondo si sente relegata dalla vita, inaridita, allontanata, sconfitta. Come chiamare questa Donna senza volto e senza tempo di cui nessuno è mai riuscito a sollevare le vesti, a toglierle il
velo? Apuleio, autore delle Metamorfosi e di quella fiaba magistrale che è Amore e Psiche, la chiama Iside, la sola vera unica Dea che sia mai esistita. È sempre lei che, cambiando forma e nome nei luoghi e nei tempi, si trasforma in Venere, in Minerva, in Giunone, in Proserpina... Sino ad arrivare alla Maria e alla Maddalena dei cattolici, alla Miriam degli ebrei, alla Sofia dei filosofi. Iside ha tante sfumature, tanti volti, tante facce, tante anime, e tutte sconosciute, misteriose. Scrive Pessoa, il grande poeta portoghese: "La mia anima è una misteriosa orchestra; non so quali strumenti suoni e strida dentro di me: corde e arpe, timballi e tamburi. Mi conosco come una sinfonia."4 Iside si presenta dentro la nostra interiorità con un immotivato stato d'animo gioioso, con un desiderio erotico inspiegabile e prorompente, lasciarci sopraffare dalla carne, dalle sue tentazioni, altre volte, facendoci sentire indecisi, paurosi, fragili, o ancora puri, celesti, sottili. In qualsiasi forma Iside si presenti, la Dea tra le dee incarna tutto il femminile del mondo, e la caratteristica che la rende unica è la inafferrabilità... Vive nel mistero, nel buio, nella notte, eppure illumina i nostri atti; anche se per pochi bagliori. Iside non ama gli uomini "miopi", che vogliono trasformare le donne in "regine della casa". Lo accettava un tempo, quando gli uomini erano i sovrani incontrastati del mondo. li subiva, e solo grazie a Eros, il dio che decide le attrazioni fra gli uomini e le donne, riusciva a far perdere loro la testa, a confonderli, a indebolirli. Sì, gli uomini dominavano il mondo, ma il femminile di Iside li portava comunque alla follia d'amore, rendendoli fragili, persi; era la sua vendetta. Ma, oggi, gli uomini dominatori non le interessano più. Le chiavi del mondo che aveva loro consegnato, solo per un certo tempo, adesso Iside vuole riprendersele. Non è soddisfatta la "dea splendente immersa nel buio più totale" di come i maschi hanno condotto e conducono il mondo. Pensa che senza il femminile
non ci sarà più evoluzione: è stanca dei padri famiglia seduti a capotavola che ripetono sempre le stesse cose, non sopporta la saggezza scontata dei terrificanti proverbi maschili (come "donne e buoi dei paesi tuoi"), non ne può più degli uomini "mammoni" e dei pranzi ipercalorici della domenica dalle suocere... Ma, più di tutto, non vuole donne senza interessi, senza passioni, senza desideri, spente e relegate sullo sfondo. Iside vuole le donne vive, costi quel che costi, le vuole disposte a rimettere tutto in discussione, matrimoni, fidanzamenti, abitudini, tradizioni... E a chi non comprende il "multiforme e variegato volto della Dea", Iside è pronta a regalare grandi dolori; a chi le resiste prepara sofferenze come la depressione, l'infelicità, l'insoddisfazione. L'imprevedibile vuole cambiare le cose La Dea vuole scendere in campo, vuole "rimettere" il femminile al giusto posto nel mondo; vuole riprendersi le "chiavi della vita". Già ai primi del Novecento, precorrendo i tempi, lo psicanalista "selvaggio" Georg Groddeck scriveva: "Il futuro è della donna. Il cervello dell'uomo è coperto di polvere. Solo la donna è abbastanza barbara da rinnovare la civiltà marcia. Guai al mondo, se la donna diventa sapiente, la madre dei figli. Il futuro è della donna. Datele autocoscienza. Il divenire dell'umanità è nel suo grembo. L'uomo perisce ma la donna è eterna".5 La Dea non sa che farsene di uomini che non capiscono, gelosi, attaccati ai modelli, o dei bigotti che si permettono di dire alle donne come si deve amare, cosa è giusto e sbagliato. Iside ricerca la magia, l'incanto, il sogno, vuole spostare lo sguardo sull'interno, detesta la tanto decantata "sapienza razionale" dei maschi, rifugge dalle cose scontate; vuole seguire la sua natura imprevedibile. Iside è entrata nel cuore e nella mente di ogni donna. Iside ama gli opposti e i contrari, adora le contraddizioni, ed ecco allora le donne che vogliono un uomo a cui legarsi ma da cui essere libere, mentre i maschi pretendono che siano "completamente" di loro pro-
prietà. Ma noi maschi, si sa, vediamo in modo unilaterale... Iside, propagandosi nelle loro anime, vuole donne misteriose, segrete: le donne di oggi infatti, secondo i sondaggi, si confidano sempre meno con i loro partner, con i loro compagni. La Dea non si fida dei pensieri maschili, e ancora di meno dei loro giudizi moralistici; le confidenze si possono fare alle amiche, non agli amanti... Così, oggi le donne vogliono restare inviolabili, misteriose. Sentite cosa scriveva Nietzsche sulle donne: "Quello che nella donna c'ispira rispetto e non di rado anche timore è la sua natura che è molto più naturale dell'uomo, la sua mobilità, l'agilità da vera bestia selvaggia, l'unghia della tigre sotto il guanto, la sua ingenuità nell'egoismo, la sua incapacità ad essere educata, la sua intima selvatichezza, l'inafferrabile, lo sconfinato, il divagante delle sue brame e delle sue virtù."6 Anche quando le senti veramente tue, perse in una notte d'amore coinvolgente, subito dopo sono già distanti, lontane, prese dalle loro cose. La Dea ha sussurrato alle loro orecchie "Goditi tutto il piacere che vuoi, ma stai alla larga da lui, perché punta a fare di te la sua 'schiava'". I "veri uomini", quelli che sono diventati maturi estimatori della vita, adorano questa irraggiungibilità del femminile, questo suo "esserci e non esserci", questo suo lasciarsi afferrare e poi sfuggire. Sanno che la Dea li ha scelti per parlare del "nuovo mondo femminile", e la guardano con gli occhi misteriosi che hanno acquisito dalla saggezza degli anni, sapendo che la legge di Iside è che tutto muta, tutto cambia, che la padrona è Lei, e che occorre seguire i suoi desideri. Gli uomini infantili, invece, dicono: "Non ci sono più le donne di una volta", ma non si arrendono: vogliono dominare le donne, trasformarle in spose, madri, mamme... Vogliono donne "all'antica", imprigionandole nelle abitudini che hanno ereditato dai loro padri. A questo proposito è interessante notare che gli uomini,
nella ricerca delle "donne di una volta", hanno in mente modelli antiquati, antichi, arcaici, quelli delle madri, delle nonne. Le donne, invece, si chiedono: "Ma dove sono gli uomini?" e non intendono uomini che assomigliano ai modelli del passato, ai padri, ai capofamiglia. No, le donne intendono "uomini nuovi", aperti, liberi, maturi, capaci di legami profondi, intensi e non abitudinari. La differenza è sostanziale: le donne cercano "uomini nuovi", i maschi invece rimpiangono ciò che non c'è più, ciò che è già morto. Ma Iside vuole ridere, giocare, godere. Mentre le nostre nonne e le nostre mamme ritenevano che il matrimonio dovesse andare avanti costi quel che costi, Iside ha sussurrato alle orecchie di ogni donna, del femminile del mondo, che il piacere, l'eros, la esaltano, trasformano le fibre della sua carne, esaltano la sua anima, la elevano. Tutto il contrario delle sciocchezze che abbiamo imparato sull'eros, relegandolo nella sfera del peccato. Ci attende un mondo fieno di sorprese Chissà come sarà il mondo quando Iside avrà finito il suo lavoro. Forse avremo solo donne-dee. Forse noi uomini saremo diventati portatori di una saggezza che mai l'umanità ha posseduto così diffusamente a livello collettivo. E la qualità più grande di Iside, l'inafferrabilità associata all'imprevedi-bilità, ci riserverà un mondo pieno di sorprese. Non saremo più, noi uomini, prevedibili, razionali, pieni di pensieri organizzati, di abitudini; forse al mattino non sapremo per davvero come saremo e cosa faremo la sera. Saremo forse capaci di trasmutare, saremo pronti al nuovo e alle sorprese che la vita ci prepara. Si sa quanto le donne, come i bambini e la loro mente sempre aperta, pronta a tutto, adorano le sorprese più di ogni altra cosa-Forse non avremo più uomini che ripetono le solite frasi scontate, tipo: "Perché mi ha lasciato nonostante i regali, i viaggi che le ho fatto fare, la vita agiata che le ho dato?". Il maschile di oggi ragiona ancora così: per il maschio
contemporaneo la donna è un possesso da accudire, un oggetto fra gli oggetti della sua vita. Ma Iside ama l'interiorità, le sue contraddizioni, le innovazioni, i mille volti dell'anima... Iside non ci sta a diventare una tra le tante "cose degli uomini". Vuole possedere ed essere libera, vuole essere accudita, ascoltata, e non essere ostacolata. E così, mentre scrivo queste righe, si affaccia Francesca Testi, la psicologa con cui rispondo all'e-mail di Riza, e che è una collega veramente preziosa per il mio lavoro. Le chiedo: "Francesca, che cosa cerchi di più in un uomo?". La risposta, che forse tutte le donne già conoscono, è completamente sconosciuta a noi uomini, distante dal nostro vissuto. "La cosa che più mi interessa di un uomo è l'attenzione. Sì, che sia attento..." Nessun uomo risponderebbe così... Le donne come Francesca sanno che il femminile vive nascosto, nei silenzi, nelle profondità dell'anima. Si rivela nelle sfumature, nel "non detto", in un battito di ciglia, in un'espressione del volto. Quanto male hanno causato gli uomini solo per il fatto di non essere stati attenti, presenti? Quante carezze non sono state date al momento giusto? Quante parole non sono arrivate nei momenti d'intimità, e quanto dolore ha creato la loro assenza? Che cosa significa essere attenti, presenti, per il mondo femminile? Significa ascoltare l'interno, percepire i propri stati d'animo, sentire quello che la tua donna ti trasmette senza parole, cogliere le sue tristezze, i suoi desideri, i suoi cambiamenti, i suoi rifiuti di quelle cose scontate in cui noi uomini siamo, quasi sempre, immersi. Essere attenti a lei, alla tua donna, vuol dire percepire Iside dentro di te, dentro il mondo maschile; cogliere la sua impercettibilità, la sua inafferrabile presenza misteriosa. Piaccia o no, noi uomini, quando siamo con le nostre donne, amiamo parlare, raccontare, spiegare, esprimere la no-
stra visione del mondo. Ci delizia parlare di noi, delle cose che ci capitano, della nostra storia. Essere attenti è invece saper ascoltare le donne, ciò che dicono, senza giudicarle, senza condirle con la nostra visione, senza collocarle nei nostri pregiudizi; lasciandole così come sono. Noi uomini pensiamo ancora di dover guidare le donne, e questo Iside non lo sopporta più. Il cammino che spetta alle donne non sarà solo rose e fiori: sarà costellato anche da disagi, da sofferenze, percorsi tortuosi, ripensamenti, da salite e discese, cadute e sconfitte. A volte i "vecchi modelli" torneranno a "chiamare" le donne, cercheranno di riempirle di sensi di colpa, rinfacceranno loro di non essere "brave madri" perché si stanno separando o perché stanno seguendo le loro aspirazioni. Ma il cammino del femminile nel mondo è già tracciato, e Iside non le farà sentire sole. Insegnerà loro a non giudicarsi, a seguire il loro "talento" dove solo le donne possono essere tante anime insieme: quella erotica, quella gravida, quella mistica, quella che partorisce, quella che accudisce i bambini, quella che lavora, quella che consola, quella che realizza le passioni, i talenti e, più di tutto, quella che si affida all'interiorità, a quel luogo misterioso dove Iside, silenziosa, le protegge e le custodisce. Mentre gli uomini temono la solitudine, le donne sanno che è una compagna preziosa verso la auto-realizzazione, e sanno che guardarsi dentro da consolazione e non fa paura. Lo sanno perché facendo quello che va fatto per loro, Iside sta provvedendo al loro destino e ricamando il mondo al femminile... Insomma: Iside sta spazzando via "il vecchio", e le donne sono le sue preziose ancelle. Sì, Iside sta spazzando via tutti i vecchi pensieri del mondo, i "gusci vuoti", le parole senza senso. E noi uomini? Dobbiamo essere contenti, perché la Dea sta pensando anche a noi. Ci sta facendo incontrare la nostra anima, la nostra saggezza, quella che i superficiali modelli di mascolinità non potevano darci, anzi, avrebbero distrutto la nostra vera essenza.
Iside, di cui nessuno ha visto mai il volto, la Regina della Notte, ci sta regalando, attraverso le donne, la possibilità di essere noi stessi. Dobbiamo imparare ad affidarci alle donne. Maurice Maeterlinck, poeta e saggista belga che visse a cavallo tra il XIX e il XX secolo, scrive: "Se l'essere che più amo al mondo, mi chiedesse quale scelta debba fare, e quale sia il rifugio più profondo, più sicuro e più dolce, gli direi di affidare il proprio destino al rifugio dell'anima che si perfeziona".7 È in atto una rivoluzione silenziosa Tutto questo per dire che i cambiamenti, quelli a cui assistiamo, che ci spaventano perché mettono in crisi le sicurezze che ci siamo dati, non vengono dall'esterno, non sono casuali. No, appartengono all'anima, alla terra di Iside. Il mondo degli uomini è scontato, fermo, bloccato, e il femminile, che altro non è che la casa della Dea, rimette in discussione tutto. Non lo fa con gli sconvolgimenti sociali, con le rivoluzioni che sono sempre state appannaggio dei maschi, ma modificando in modo perentorio la mentalità, il modo di stare e di vedere il mondo. È una rivoluzione silenziosa quella femminile: la Dea l'ha ricamata di nascosto e, mentre nessun uomo se ne accorgeva, preso com'era dal seguire i modelli patriarcali, ha messo ognuno di noi di fronte al fatto compiuto. Guardatevi intorno: mentre prima tutti sapevano cosa pensavano le donne, che cosa desideravano, che puntavano cioè a matrimonio e famiglia, ora le donne sono imprevedibili; hanno fatto proprio il volto segreto della Dea. Il maschile è spiazzato, la loro autonomia, la loro indipendenza lo spaventa. Cambia radicalmente l'idea dell'amore, del desiderio, della passione, della fedeltà... Iside ha voluto che il femminile non appartenesse più "completamente" alla sfera maschile; "Sono tua stasera, ma... domani la vita mi chiama ai miei interessi, alle mie passioni." Gli uomini pensano da sempre che essere "bravi a letto", che "sfinirle" in una notte d'amore, basti per tenerle accan-
to, al loro fianco. Non è più così... Iside non lo permette più! Iside ama i mille piaceri dell'anima. Eros accende la sessualità, sì, ma sa dare anche mille altri piaceri: quello di sostare dentro di sé, quello della libertà, quello dei viaggi, delle serate e delle confidenze con le amiche, degli interessi da seguire, quello del "perdere la testa", quello delle novità. Ma c'è di più: Iside sta insegnando che si può sostare dentro se stessi, che la pace, la gioia, il benessere sono conquiste inalienabili. E che produrre "gocce di felicità" nel nostro cervello, significa per davvero cambiare il mondo. Ecco cosa mi scrive Elisabetta: "Il fatto è che io ho lottato negli anni per essere quella che sono, vivace, spontanea, allegra, autonoma nelle scelte, capace di svincolarmi dai legami pressanti. Capace di non essere come mia madre, delusa di tutto, triste per la vita pur avendo molte cose belle attorno. Io godo ogni giorno delle meraviglie che mi circondano, piccole meraviglie da cui cerco di prendere tutta la linfa che serve al vivere bene e sano". Già, come dice Elisabetta, occorre godere dello stare con se stessi e delle meraviglie della vita. Se usciamo dai pensieri, se non ragioniamo, se sostiamo dentro di noi, qualsiasi cosa facciamo siamo immersi nell'immenso. Solo il pensiero, di cui i maschi sono prigionieri, non ci fa godere dei gesti più banali, come bere, mangiare, lavarsi, vestirsi, svegliarsi, camminare... Guardate le donne quando si truccano, quando praticano quel rito magico davanti allo specchio, quando si fanno belle, quando sono nel bagno e passano il rossetto sulle labbra, quando si pettinano, quando si spalmano le creme sul corpo... Non sono loro che lo stanno facendo, no, è Iside che le porta in un'altra dimensione, dove il tempo si annulla. Le donne vivono in un'altra realtà Quanti ritardi ci hanno "regalato" le nostre compagne, quante attese piene di imprecazioni abbiamo vissuto mentre le aspettavamo sulla porta o in auto, richiamandole per il ritardo che si accumulava... Ma loro erano in un altro mondo, nel "mare della bellezza" di Iside, dove truccarsi il viso,
provare e riprovare l'abito, cambiare scarpe, era "il compito" da seguire, una missione da compiere. Come sostare a ogni colpo di rossetto sulle labbra in un nuovo personaggio, in un nuovo volto del femminile. No, le donne non si truccano per farsi belle, ma perché una voce interna, misteriosa, le chiama per portarle in un altro tempo; quello dell'anima. Che cosa vuoi che sia un ritardo di mezz'ora, che cosa vuoi che sia arrivare puntuali quando una donna sta in realtà creando "il nuovo volto di Iside", nuovi occhi, nuove espressioni? Provate a far uscire di casa una donna se, come dice lei, non è "a posto". Per forza vi terrà il muso: ha il compito di portare la Dea a una nuova serata, a incontrare nuove persone, a sedurre e a essere sedotta. Cosa sarà mai il suo ritardo? La puntualità è degli uomini, che sono formali, che aderiscono alle regole esterne, che "lavorano" anche quando escono per divertirsi. Le donne, a ogni colpo di trucco, stanno preparando il terreno per fare scendere in campo Iside... Che è sì la Regina della Notte, del buio, del profondo, del piacere, della provvidenza, della saggezza, della tenerezza, della magia... Ma, tutti ci dimentichiamo che è anche la signora dell'apparenza". Questo libro è tutto dedicato all'"apparenza", cioè al lasciare le cose così come sono, al prendere atto di ciò che capita dentro di me, a sostare nelle "azioni minime". Chiunque può "truccarsi", tutti possono farlo, ma quasi nessuno sa che quando siamo veramente presenti, immersi nelle azioni più banali, come fanno i bambini quando giocano, la Dea si esalta. Iside adora l'attenzione, vuole tutta l'attenzione centrata sul banale, sul trucco, sulla pettinatura, sulle creme che si spalmano sul corpo... Tutti i gesti in cui il suo nemico più pericoloso, il pensiero, è assente. "Il sapere uccide il creare" scriveva Groddeck. "La donna ha bisogno di un libero spazio per il gioco, per poter, giocando, generare un pensare e sapere proprio, una civiltà
propria, civiltà delle donne. Il mondo per la donna sia un largo spazio per il gioco. Un bambino sia la donna, dolce, senza pensieri e puro. Ogni cosa sia per lei un gioco, e il gioco sia per lei sacra serietà."8 E allora ci pensa Iside a regalare a tutte le donne l'immenso. Sembra dire alle loro orecchie: "Ti fai bella, sei immensa nel gesto, e io ti regalo la mia presenza. Tu non pensare a cosa farai alla festa, a cosa dirai, a chi piacerai... Tu truccati e basta, fatti bella, fammi bella! Non avere progetti, pensieri per il dopo, e io ti regalerò la gioia dell'infinito, del senza tempo, il piacere di essere lì dove sei". E così, il banale diventa veramente la "casa dell'immenso". Truccandosi le donne non "perdono la testa", ma trovano il Tempo di tutti i tempi. Più si è capaci di sostare nelle azioni banali, apparentemente senza senso, più si è presenti ai gesti senza pensieri, e più la Dea scende in campo e ci regala, senza che ce ne accorgiamo, una vita nuova; quella che abbiamo sempre sognato, e che i pensieri, i progetti, i giudizi allontanano da noi. Insomma, se vogliamo cambiare vita, dobbiamo imparare dalle donne quando si truccano. La Dea ha un grande progetto Credo che la Dea "detti" tutte le parole che le donne dicono a se stesse, ai loro compagni e agli uomini in generale. La Dea ha un grande progetto per le donne, e le donne lo stanno facendo proprio. La Dea sussurra alle loro orecchie messaggi come quello che mi ha scritto Anita: "Molto meglio la passione... Lascio mio marito per un ragazzo più giovane di me di dodici anni. Io ne ho quarantaquattro e ho due figlie. Tutti mi dicono che non ragiono, ma a me non interessa...". La storia di Anita richiama una poesia del belga George Rodenbach: Più in fondo, completamente in fondo, nella Casa dell'Anima, dove vanno e vengono e si siedono intorno a un fuoco, le passioni con i loro visi di donna.9 Iside, vuole donne coinvolte, appassionate, non spente, prigioniere delle notti fredde, aride, abitudinarie dei mariti. Non le vuole più in cucina relegate ai fornelli, o a portare i
bambini a scuola, a fare la spesa o ad aspettare che i mariti tornino a casa, o a essere paragonate alle suocere e ai loro luoghi comuni. Come tutte le "energie del cervello", Iside, il femminile del mondo si propaga in modo silenzioso, senza che nessuno se ne accorga. Men che meno noi uomini! E così, nel cambiamento delle donne è Lei la protagonista, è Lei che fa dir loro, attraverso Annamaria: "Ho detto addio a mio marito dopo ventisette anni di matrimonio. Il rimpianto è che avrei dovuto farlo prima...". E Giovanna di trentadue anni mi scrive per dirmi: "La cosa che più detesto di mio marito è che ripete sempre la stessa frase idiota: "Solo prima del matrimonio mi sono divertito, è un bene sposarsi tardi, mettere la testa a posto". Lui l'ha messa a posto, io no, io mi diverto e perdo la testa con i miei amanti". Iside ha deciso che Eros, il suo dio preferito, quello che sceglie le attrazioni tra gli uomini e le donne, non poteva essere appannaggio solo dei maschi, dei capofamiglia... La Dea non vuole più che le donne vivano senza piacere, o che qualche moralista bigotto le obblighi a "resistere" in un matrimonio senza amore, o a cambiare per essere come gli uomini hanno sempre voluto le donne: buone mamme, buone cuoche, buone colf, buoni e dolci caratteri, mansuete... "Se non sei come dico io, smetterò di amarti" diceva Bruno, il marito di Maria. "A me una donna piace quando è accogliente, dolce, capace di ascoltare l'uomo che torna a casa dopo aver lavorato e lottato tutto il giorno." Maria mi è poi venuta trovare per dirmi di averlo lasciato, si è portata via il figlio e si è trovata un compagno che "mi ha fatto sentire donna per davvero: amante, moglie, legata e libera. E comunque senza obblighi da seguire". Sentite cosa ha scritto a Tutte le mattine (la trasmissione di Maurizio Costanzo) Anna di trentasei anni: "Per essere amati io non accetto nulla: o mi si ama per come sono oppure niente. E parlo per esperienza, anche se sono giovane, perché in passato ho accettato un marito che mi tradiva in continuazione, per i figli ho sopportato questa situazione. Ma poi ho aperto gli occhi. I figli sono 'rimasti', il marito è
volato verso 'lidi migliori'". Iside non vuole donne a cui si dica come devono essere, come devono amare: la Dea non vuole più "donne schiave". Noi pensiamo di essere protagonisti nella vita, di decidere con chi stare, chi lasciare, crediamo di saper orientare le nostre aspirazioni, di sapere che cosa è giusto e sbagliato per noi. In realtà non è così. Non siamo noi a tenere le redini della vita, ci sembra di guidarla, ma chi veramente ci conduce è una "forza misteriosa", quell'energia femminile che gli antichi chiamavano Iside e la cui targa, sulla statua, recita così: "Io sono tutto ciò che è stato, che è e che sarà, e nessun mortale ha mai sollevato il mio velo". Ancora Groddeck scrive: "Sacra profondità dorme nella donna. Ah chi sapesse svegliarla! Da che mondo è mondo la donna fu educata a servire, quando imparerà a regnare? La donna è rimasta etèra. Risvegliate in essa il disgusto per l'uomo, per il mondo, per se stessa. Spezzerà le catene, sarà signora della casa, del mondo, del futuro. L'uomo perisce ma la donna è eterna."10 Basta con le "mogli di una volta" Mentre un tempo essere "zitella" era una vergogna da evitare, perché o ti sposavi o eri una "donna di serie B", ora le donne, cioè le ancelle di Iside, protette dalla Dea, sanno che nel loro intimo riposa la forza del femminile e a lei si affidano. Non sanno dove vanno, non sanno quale ignoto le attende, ma hanno ben chiaro che non saranno mai più le "mogli di una volta". Annamaria, quarantun anni, in questo senso non ha dubbi: "Le donne, quando realizzano e hanno la consapevolezza che una storia è finita, hanno il coraggio di lasciare il compagno rimanendo anche da sole. A differenza degli uomini che, anche solo per convenienza, non mettono fine a una storia pur essendo consapevoli del fatto che è finita, finché non trovano una sostituta". La Dea oggi non tollera più che la femminilità non abbia spazio nel mondo, che non si diffonda a macchia d'olio, e così allontana le donne dagli uomini che non la esaltano. Mi scrive Rosy di quarantaquattro anni: "Il mio 'giro di
boa' è stato quando ho avuto il coraggio di chiudere con mio marito che stava devastando la mia femminilità''. Ed ecco cosa scrive Claudia di cinquantacinque anni: "Sono divorziata da quindici anni. Ho dei figli grandi che quest'anno sono lontani, e non potrò vedere nemmeno a Natale. Da poco, inoltre, è finita la storia che da sette anni avevo con un uomo. Abbiamo litigato perché io ho passato tutto il giorno a cercare il gatto di mio figlio che si era perso, e lui per questo si è innervosito. Io ho colto l'occasione al volo e ho fatto le valigie. Ora sono sola nella casa al mare che mi ha prestato mia sorella. Quanto è successo, invece di abbattermi, mi ha ridato spinta e serenità. Passerò il Natale da sola, ma sono comunque felice". Le "nuove donne" non hanno età, non hanno paura dell'abbandono, della solitudine. La Dea le chiama alla passione, e poi sia quel che sia. Iside sembra volere spazzare via tutto quello a cui le donne sono state costrette ad abituarsi, come le terrificanti processioni dei paesi o, secondo i sondaggi, lo stress più pesante per tutte le donne: il giorno di Natale. Come Claudia, anche Paola di sessantatré anni ritiene che la passione abbia ben più valore delle "feste comandate": "Convivo tuttora malamente con un uomo con cui spartisco solo interessi lavorativi: in casa facciamo di tutto per non incontrarci. Da tre mesi, invece, sono innamorata di un uomo sposato che vive a cento chilometri di distanza, e che vedo più o meno due volte alla settimana. Ho perso la testa come fossi una ventenne; vorrei sbaciucchiarlo tutto il tempo. Lo desidero a tal punto da rinunciare, quest'anno, a raggiungere i miei cinque figli per Natale. Rimarrò in città nella speranza di poter vedere il mio amante martedì 27. Passerò quindi il Natale da sola...". Qualcuno obietterà che, mentre scrivo queste righe, sto in realtà parlando solo di alcune donne, che per altre il cammino è ancora tutto da compiere. È vero, ma è anche vero che le donne in pochi anni hanno cambiato il modo di pensare, le relazioni, i rapporti, i modelli della famiglia e dell'amore. Grazie a loro sono cambiati e stanno cambiando gli uomi-
ni... E ha poca importanza il fatto che Iside si sia manifestata solo in alcune anime del femminile: di fatto il vento della Dea soffia forte, e credo che niente la possa fermare. Iside è stanca di come i maschi hanno condotto il mondo, e non vuole più lasciar loro le chiavi dell'universo. Sì, perché Iside fa tutto questo anche per gli uomini, per propagare anche dentro di loro il femminile, per renderli liberi dai modelli virili dei padri, per portarli via dall'aggressività malsana che li vuole "padroni" dei figli, delle madri, delle mogli... del mondo. Forse Iside vuole un mondo con meno guerre, meno distruttività, cosa di cui i maschi di oggi non sanno ancora fare a meno, come sostiene Silvia di quarantacinque anni: "Noi donne siamo biologicamente portate alla pace, al perdono, alla sopportazione, alla comunicazione... Così, quando siamo obbligate a essere cattive, riversiamo in poco tempo tutta la cattiveria possibile. Ricordatevi che se il mondo fosse governato dalle donne, non ci sarebbero guerre... forse solo qualche spintone alla cassa del supermercato". Quindi l'auto-realizzazione di ogni donna è un regalo per tutti noi, ed è un comandamento di Iside. Questo vuole Iside, e questo è il motto di tutte le donne di oggi. note: 1 Alan Watts, La via dello Zen, Feltrinelli, Milano 2000, p. 209. 2 Erich Neumann, Amore e Psiche, Edizioni Astrolabio, Roma 1989, p. 112. 3 Satprem, L'uomo dopo l'uomo, Edizioni mediterranee, Roma 1996, p.128. 4 Ferrando Pessoa, Il libro dell'inquietudine, Feltrinelli, Milano 2003, p. 32. 5 Georg Groddeck, Questione di donna, Guarda, Milano 1980, p. 67. 6 Friedrich Nietzsche, L'arte di combattere con le donne, Edizioni Acquaviva, Bari 2001, p. 89. 7 Gaston Bachelard, L'intuizione dell'istante. La psicanalisi
del fuoco, Edizioni Dedalo, Bari 1987, p. 95. 8 G. Groddeck, op. cit., p. 69. 9 Costantino Kafavis, Poesie, Edizioni Acquaviva, Bari 2005, p. 278. 10 G. Groddeck, op. cit, p. 67. 6 Cedi ai tuoi demoni Vi sono lettere che toccano il cuore delle cose, che vanno al centro di ciò che siamo nell'intimo e che sono vicine al nostro modo di vedere il mondo, la vita. A volte queste lettere si presentano sotto forma di domande, di interrogativi, di critiche... Ma forse sono solo "voci antiche" che cercano di emergere verso la superficie, verso ciò che vediamo di noi stessi e che ci sorprende, che non riusciamo a ordinare, a collocare, a farcene una ragione. Ettore di quarantacinque anni, un professore universitario di Lettere, le rende manifeste in queste righe che estrapolo da una sua lettera: Caro Morelli, da quando leggo "Riza" o ascolto i suoi interventi in televisione mi sono fatto un'idea della sua filosofia di vita, da cui sono affascinato ma che non so fino a che punto si possa condividere. Per lei tutto quello che passa dentro di noi, dalla gelosia all'avidità, alla rabbia, ai rancori, e ogni tipo di desiderio non va capito o spiegato o, peggio ancora, represso. Va solo, per usare le sue parole, "accolto", accettato così com'e e mai combattuto. Per lei, ragionando così, non esistono il bene o il male dentro di noi, ma solo stati d'animo e, come tali, vanno semplicemente osservati. Come se, guardando il brutto che c'è dentro ognuno di noi potessimo, per usare ancora le sue parole, "trasmutare", diventare migliori. Ne è proprio sicuro? Perché da quello che lei dice si evince che non dobbiamo essere capaci di controllarci, di guidarci verso mete più alte, ma affidarci soltanto al nostro sguardo interiore. È proprio sicuro che guardandosi dentro senza giudicarsi,
noi approderemo, come lei ha scritto più volte, alV'isola della felicità" senza danneggiare nessuno? Con stima e con dubbi Lorenzo P. I peccati sono virtù capovolte in questi anni ho imparato a parlare poco con me stesso e, più di tutto, a non commentare qualsiasi pensiero mi passa per la testa. Faccio la stessa cosa con gli stati d'animo che affollano la mia interiorità. Da anni non mi dico più: "Raffaele vai bene o non vai bene...", e neppure mi dico: "Bravo" o mi rimprovero quando credo di aver fatto un errore. Se vengono a "trovarmi" la gelosia, l'insicurezza o la paura, non esprimo giudizi e men che meno mi dico che devo mandarle via, liberarmene. No, prendo atto della loro presenza, accolgo il dolore che mi provocano, e mi "siedo accanto a loro" come un compagno di viaggio. Ho scoperto che quando faccio così, che quando non mi oppongo alla loro presenza, quando non cerco di cambiare nessuno dei miei stati d'animo, improvvisamente arriva la pace. Ma perché questo accada bisogna rinunciare a una vita tranquilla, non si deve sapere chi siamo e dove stiamo andando. In genere detesto le persone che fanno di tutto per vivere serenamente, tranquille, con tutte le loro cose a posto, figli, mariti, lavoro, casa, amici, con le loro certezze, senza dubbi, magari con le pillole per dormire meglio la notte. Non esistono solo i calmanti o le pillole per addormentare l'anima: ancora più potenti sono i ragionamenti con cui cerchiamo di domarci, di controllarci, di essere delle "brave persone"! Luca di cinquant'anni mi ha scritto per dirmi che, nonostante i suoi sforzi d'uomo sposato di lasciare Giovanna, la sua amante, qualcosa dentro di lui faceva tutto il contrario dei suoi buoni propositi. Significa che i nostri stati d'animo non si adeguano, non vogliono essere imbrigliati. Rossana, invece, mi scrive per dirmi che a quarant'anni, dopo quindici di un matrimonio sereno, fedele, e tranquillo, è letteralmente impazzita per un uomo, con cui prova un piacere di un'intensità così forte da metterle i brividi solo a
sentirne la voce. "Per un bel po' ho combattuto, ma poi ho ceduto. Posso ben dire che il piacere mi ha reso una donna autentica, semplice, equilibrata. Prima ero solo una 'bambina sposata' dentro un castello di luoghi comuni. Quello che tutti chiamerebbero la lussuria' mi ha insegnato a vivere, a crescere, a essere una persona autentica, comprensiva del modo di essere degli altri." A Rossana il peccato ha "regalato" la maturità del suo femminile, ne ha fatto una donna, o meglio una Dea. Certo, nei peccati possiamo perderci, possiamo esserne travolti, ma sono l'unica voce dell'inconscio che ci porta via dal pericolo più tremendo che possa toccare a un essere umano: quello della normalità, o peggio dell'aridità. Dobbiamo pensare ai peccati come a un'onda di energia che arriva alla superficie di noi stessi: se li giudichiamo, se li condanniamo, li renderemo più impetuosi, se li reprimiamo, avremo perso l'occasione di conoscere il nostro "mare in tempesta". Diventeremo banali. Se li accogliamo, se li guardiamo con dolcezza, allora ci riveleranno che sono forze misteriose, impetuose in superficie ma calme, creative, benefattóri, nel profondo. Sono "diavoli" quando ci tentano verso la trasgressione, nell'intimo però hanno il volto angelico della virtù. Non ho mai visto un grande uomo che non sia stato vicino all'essere travolto dai "demoni"; gli dèi "cattivi". Scrive Emile Cioran, filosofo e pensatore francese: "Nella divinità è più importante ritrovare i nostri vizi che le nostre virtù. Alle nostre qualità siamo rassegnati, mentre i nostri difetti ci perseguitano e ci tormentano. Poterli proiettare in un dio suscettibile di cadere in basso come noi... questo ci da sollievo e ci conforta. Il dio cattivo è il più utile che sia mai esistito".1 I peccati amano essere inondati dalla luce del nostro sguardo nel momento in cui si presentano, ogni volta che ci rendiamo conto della loro invasione. Sarà la luce dello sguardo a dare loro l'energia di trasmutare in forze beneficile, creative, dispensataci di gioia, di pro-
digalità, di amore. Non esistono "i gelosi", "gli avidi", "i golosi"... Sono solo coloro che si sono attaccati alla superficie delle onde del "mare peccaminoso": non hanno avuto il coraggio di accorgersi che gli stati d'animo che non ci piacciono, aprono, una volta accettati, le porte di nuove vite che ci attendono, di nuove energie psichiche, di nuovi incontri, di amori più maturi, più coinvolgenti. Insomma, nei peccati c'è molta più luce che ombra. Non vi è nulla di cui esser sicuri Egregio dottor Morelli, ho letto il suo libro Non siamo nati per soffrire e purtroppo non ne condivido il contenuto. Non solo, ma leggendolo mi sono sorte alcune domande: se non faccio progetti con cosa mangio? Se non ho obiettivi come vivo? L'immagine che ho ricavato è quella di un vegetale seduto sul divano con gli occhi chiusi che aspetta... Ma cosa? A cosa serve la famosa "pianta" se devo stare in poltrona ad aspettare perché cresca? Io sono una persona molto impulsiva, e le peggiori decisioni della mia vita le ho prese senza pensarci, mentre alcune delle migliori sono arrivate dopo lunghe valutazioni. Come posso non decidere? Tutta la vita è una decisione! La ringrazio per l'attenzione che ha voluto prestare a questa mia e-mail. Cordialmente, Viola Quando si capisce che il cervello è in gran parte una "spugna", che assorbe tutto ciò che viene in contatto con lui, quando lo si capisce per davvero si entra nel regno dell'incertezza e si è, senza saperlo, a un passo dalla saggezza, dalla salute, dalla felicità. Io sto alla larga dalle persone che "sanno", cara Viola, e ancor di più da quelli che danno definizioni di sé, da quelli come lei, che pensano, rimuginano, decidono, si guidano, si conducono. Non sto alla larga perché mi infastidiscono (forse giusto un po'), o perché sono divorati dall'orgoglio, dalla certezza del sapere. No, sto alla larga da loro perché non voglio fare mio quel modo di ragionare, di pensare, che per la verità ho assorbito, proprio come una spugna, per tanti anni.
Semmai io sto con Carl Gustav Jung quando, ormai ottantenne, sorprendendo tutti coloro che, da un grande Saggio come lui, si aspetterebbero tante certezze sulla vita, chiarezza di idee e un'invidiabile sicurezza, nelle ultime pagine della sua biografia scrive: "Non vi è nulla di cui mi senta veramente sicuro. Non ho convinzioni definitive, proprio di nulla. So solo che sono venuto al mondo e che esisto, e mi sembra di esservi stato trasportato. Esisto sul fondamento di qualche cosa che non conosco".2 Impara da Dostoevskij Il cervello non è solo una "spugna", una "carta assorbente" che è stata impregnata delle parole dei genitori, delle idee del tempo, delle definizioni che ci diamo, dei modelli, dei tentativi di assomigliare al personaggio che recitiamo... No, il cervello, proprio come il seme della mia pianta, sta partorendo l'essere che sono, il mio albero. Che cosa più di tutto lo opprime? La nostra maledetta voglia di guidarci, di correggerci, di dirci come dobbiamo essere. Emma, trentacinque anni, aveva ossessioni sessuali che devastavano la sua vita, il suo comportamento, le sue relazioni. In qualsiasi posto si trovasse scattava una "forza più grande di lei" che la costringeva a fare proposte indecenti, insistenti, volgari, a uomini sconosciuti o incontrati da pochi minuti; e non solo proposte-Niente poteva fermarla! In psicoterapia, per la verità, data l'assenza del benché minimo risultato dopo due anni, mi sentivo scoraggiato, frustrato, sconfitto. È stata una delle poche volte che ho pensato agli psicofarmaci; i sintomi compulsivi non si modificavano, anzi peggioravano. Emma aveva tuttavia una certezza: i suoi disturbi sarebbero passati quando avrebbero esaurito la loro funzione, insomma, quando "lo avrebbero deciso loro". Mentre i primi tempi ne parlava con vergogna, via via aveva cominciato ad accettare che facessero parte della sua vita emotiva, che avessero "un percorso da farle fare". Emma era un'insegnante, e conosceva la letteratura russa in modo veramente approfondito. L'aveva colpita il fatto
che il grande scrittore russo Dostoevskij, un giocatore incallito e accanito che aveva bruciato tutte le sue fortune alla roulette, persino gli orecchini, l'anello, la spilla della giovane moglie, dopo alcuni anni avesse smesso di punto in bianco. Come se una "forza superiore" l'avesse invaso per perseguire un fine, realizzato il quale se ne sarebbe andata, lo avrebbe liberato. Il giornalista e scrittore Pietro Citati, in un saggio sullo scrittore russo, riporta e commenta così quel momento cruciale: '"Ora è finita!' così dice Dostoevskij alla moglie. 'È veramente l'ultima volta! Credimi Anja ho le mani slegate.' I suoi demoni erano usciti da lui, come dall'indemoniato dei Vangeli... Era libero. Poteva lasciare l'esilio, 'la maledetta terra straniera e i suoi fantasmi' e tornare in patria. Non entrò mai più in una casa da gioco".3 Quante volte Dostoevskij era stato costretto a chiedere soldi, indebitarsi, umiliarsi persino per pagare i biglietti del treno e venire via dai casinò, per tornare a casa. "'Anja' così scrive, affranto, alla giovane compagna 'mia cara, amica mia, perdonami, non trattarmi da canaglia! Ho commesso un delitto, ho perso tutto quello che m'hai mandato, tutto, fino all'ultimo Kreuzer. Anja, come mi guarderai ora come mi qualificherai?'"4 Aveva lottato Dostoevskij contro il proprio demone del gioco, come Emma contro le sue ossessioni sessuali, finché un giorno... Lascia che i demoni realizzino il loro compito Emma, nel profondo della sua anima sapeva che quelle ossessioni svolgevano una funzione: dovevano farle partorire una nuova donna. L'ha capito a poco a poco, comunque prima di me, che la seguivo in psicoterapia. Emma sapeva che Dostoevskij era guarito quando non si era opposto al gioco, a quella forza misteriosa che lo possedeva, quando era arrivato a un passo dall'abisso, dall'essere travolto. Quando si era lasciato completamente dominare, quando aveva ceduto, il demone del gioco se ne era andato da lui. È guarito in una notte, dopo che sogni angosciosi gli avevano annunciato la catastrofe. In un attimo si è sentito libero, ha scritto subito alla moglie per informarla della sua salvezza:
"Ora è finita! [...] ho le mani slegate". Emma senza saperlo ha fatto lo stesso... In terapia le dicevo di essere presente alle sue "azioni volgari", di osservarle con attenzione, di riempirle della sua presenza interiore, senza giudicarle. Non so cosa l'ha guarita, ma, come per Dostoevskij, un giorno tutto si è affievolito, le "azioni ripugnanti" si sono accartocciate su se stesse, e di colpo il fango è diventato luce, la tela di sacco si è trasformata in broccato, la notte, la lotta, il buio, la tempesta dell'anima sono state inondate dall'arcobaleno. "Stavo male perché i miei impulsi sessuali andavano contro il modello mentale di tutti gli altri, perché ci pensavo su, ci ragionavo. Quando ho imparato a smettere di rimuginarci, quando li ho guardati e basta, tutto si è rimesso a posto." Emma aveva capito che la quiete viene dall'assenza di pensieri. Nell'epoca in cui Dostoevskij giocava al casinò, contemporaneamente prendeva corpo il suo capolavoro assoluto, I demoni, come se il suo essere "indemoniato dal gioco" fosse necessario per partorire quell'opera. Qualcosa dentro sa dove portarci a nostra insaputa: il travaglio è necessario perché si "rompano le acque" della conoscenza comune, perché noi possiamo scoprire ciò che neppure sappiamo di possedere. Per Emma le ossessioni sessuali lasciarono il posto a indagini, viaggi, scritti sulla prostituzione, che ne hanno fatto una delle più grandi conoscitrici della psicologia femminile che abbia mai conosciuto. Riprendendo un concetto caro al poeta portoghese Pessoa, possiamo proprio dire che ciò che ci sconfigge, che ci annichilisce, che ci rende impotenti e fragili, sta celebrando la vittoria della nostra essenza. Vede, cara Viola, lei ha assorbito i luoghi comuni del pensiero razionale della nostra epoca, dove la saggezza viene confusa con l'ipertrofia della ragione, della mente, del controllo. Se non ho obiettivi, come vivo? Se non penso sarò un vegetale? Se sono impulsivo devo dominarmi, altrimenti sba-
glio decisione? Vede, Viola, Emma e Dostoevskij sarebbero state persone comuni, inutili se avessero domato i loro demoni. C'è qualcosa dentro di noi, e anche in lei, cara Viola, che non si adatta, non si adegua. Proviamo a darle spazio... Sa perché le decisioni istintive sbagliano? Perché le abbiamo logorate, combattute con i nostri ragionamenti, con i dubbi, con la voglia di adeguarci, di diventare schiavi dei luoghi comuni. Altrimenti, gli istinti sarebbero il volto dello spirito. Se la smettiamo di voler essere protagonisti, la nostra vera natura, la pianta decide e... fa di noi il capolavoro che siamo! Se si impara a stare alla larga dai pensieri, a essere presenti a noi stessi, proprio come un vegetale, si fiorisce. Sembra poca cosa, ma solo a chi ha la vista oscurata da se stesso e dai progetti mentali. Chi non sa, chi si affida, invece, sperimenta la fioritura... Di più non esiste. Quando è più forte di te Abbiamo troppe certezze su di noi, crediamo di conoscerci, di sapere chi siamo e dove andiamo. Niente di più falso! Sentite che cosa mi scrive Milvia: "A cinquantacinque anni, quando pensavo che la mia vita fosse ormai tranquilla, ho scoperto il gioco d'azzardo. Inizialmente giocavo qualche euro alle macchinette dei bar, poi sono passata al casinò, alle slot-machine, alla roulette. Nell'arco di tre-quattro anni ho giocato tutti i soldi che avevo, la liquidazione di mio marito e i soldi che mi avevano prestato i miei figli, ignari di come li avrei usati; finsi di voler acquistare una casa in campagna. Non so cosa mi sia successo, ma era più forte di me. Più mi dicevo di smetterla e più giocavo". Nel proseguo della lettera Milvia mi dice che da alcuni anni, prima del gioco, provava un senso di scontentezza, di tristezza senza motivo. "Non mi accontentavo della vita che facevo. Magari avrei voluto innamorarmi. Spesso mi dicevo: 'Che vita è questa?', poi cacciavo via quei brutti pensieri. Mi ripetevo: 'Sei una nonna', 'Hai tutto', 'Come puoi essere scontenta?'. Sa cos'è la cosa impressionante, caro dottor Morelli, che quando gio-
cavo io mi sentivo un'altra, e anche se perdevo ero soddisfatta." Milvia ha dovuto confessare al marito e ai figli i debiti che aveva contratto, l'ipoteca che aveva acceso sulla casa del mare; "Per fortuna ci voleva anche la firma di mio marito per avere accesso al mutuo sulla casa dove abitavamo." Quando è venuta da me "non aveva più una lira", e c'era stata una rottura definitiva con il marito. "Era meglio se avevi un amante, piuttosto del vizio del gioco. Hai rovinato la mia vecchiaia, la mia tranquillità, che razza di donna sei? Ho vissuto trentacinque anni con un'estranea, con una donna che non conosco", mi riferì che le aveva detto suo marito prima di andarsene. A ogni seduta facevo sdraiare Milvia e la invitavo a immaginare di veder arrivare un vento che spazza via tutte le cose della sua vita. E così volavano via i mobili, gli album dei ricordi, i figli... persino i nipotini. Restava sempre una pianta sconosciuta, piena di bacche rosse. Tutto volava via, le cose, le persone, gli affetti, ma la sua pianta era perennemente fissa là, ancorata al terreno, con i suoi magnifici frutti rossi. La sua pianta era disinteressata a quello che lei aveva fatto, al gioco, all'essere rimasta con niente in tasca. "La ghianda" ovvero il nostro "daimon", come lo chiama lo psicanalista americano Hillman "perfino come Cattivo Seme, è la più profonda forza motivante della vita."5 In quanto, ribadisce l'autore in un altro passaggio: "La vita non è soltanto un processo naturale; è anche, forse più ancora, un mistero".6 Milvia mi racconta poi un sogno: "Mi sono vista camminare per la città, completamente nuda, senza vestiti. Cercavo di coprirmi ma senza trovare nulla. A un certo punto, nel sonno, mi è sembrato di chiedermi se non mi ero giocata anche i vestiti". I tuoi demoni ti salveranno Il sogno è chiaro: Milvia è nuda, senza abiti, senza sovrastrutture, senza maschere. Forse avrebbe dovuto ascoltare quei sentimenti di tristezza, di scontentezza, che accompagnavano la sua esistenza. Non lo ha fatto. Ma qualcosa den-
tro di lei non voleva essere "la vecchia pensionata", "la nonna", ed ecco arrivare il demone del gioco che ha rimesso tutto in discussione, tutto, appunto, "in gioco"... Milvia quando perdeva era soddisfatta: in quei momenti i "personaggi artificiali" che recitava con gli altri svanivano. I suoi demoni le ricordavano che tutto è in gioco, che la nostra vita è sempre in discussione, che, come dice il proverbio, "non si può mai stare veramente tranquilli". La vita cambia completamente, radicalmente quando si impara che quello che conosco di me, quello che so di me, quello che mi passa per la mente, non mi riguarda, non sono io. "Nessuno sa" scrive Pessoa "che cosa vuole. Nessuno sa quale anima possiede, né cosa siano male e bene."7 Così, quando irrompono un brutto pensiero o un sentimento sgradevole, o un disagio, io ho imparato l'arte di "far posto", di non ostacolarli, di non giudicarli. Le "forze oscure" che mi assalgono vogliono qualcosa da me: vogliono irrompere, vogliono trovare posto, non mi vogliono lasciare in pace. Magari mi basta godere la mia vita tranquilla, magari sono soddisfatta di come vivo, di quello che ho raggiunto, ma loro no, le "forze oscure" hanno altri progetti per me. Qualcuno dentro di me, qualcosa di nascosto e di sepolto centomila piani sotto i miei ragionamenti, mi sta mandando un messaggio. Dobbiamo smetterla di chiamare "disagi" quelli che sono solo messaggi che la mia anima mi sta inviando, per farmi aprire gli occhi, per farmi vedere quello che le mie certezze mi impediscono di conoscere. Milvia ha aperto gli occhi! Oggi non gioca più, ma non perché si è domata, semplicemente perché quel vento l'ha portata a coltivare altri interessi, altri desideri, altre amicizie... Insomma, quell'autenticità che il demone del gioco cercava per lei. note: 1 Emile Cioran, Il funesto demiurgo, Adelphi, Milano 1986, p.14.
2 Carl Gustav Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, Rizzoli, Milano 2004, p. 418. 3 Pietro Citati, La civiltà letteraria europea, Mondadori, Milano 2005, p. 831. 4 Ibid. p.823. 5 James Hillman, Il codice dell'anima, Adelphi, Milano 1996, p. 302. 6 Ibid., p.351. 7 Fernando Pessoa, Poesie esoteriche, Guanda, Parma 2000, p. 131. 7 Non spiegare l'amore Ognuno di noi ha un destino da seguire, un solco da percorrere, un sentiero, una via che appartiene solo a lui. Le illusioni, le sirene ci distraggono, ci fanno credere che viviamo per qualcuno o per qualcosa, per un progetto da realizzare, per ritrovare un amore perduto, per riempire la solitudine. In attesa che il progetto che ci siamo dati si realizzi, tutto ci sembra vano, inutile, arido, spento, perduto... "Amo ancora il mio ex marito anche se siamo separati da dieci anni. Sono stanca." Questa è l'e-mail di Nadia, arrivata alla redazione di Tutte le mattine. Nadia pensa di amare ancora il suo ex marito, pensa di volerlo. La stanchezza di cui parla rivela che questa lotta per riaverlo, questo dolore che spesso viene a trovarla, questo senso di frustrazione che prova l'hanno stremata. Gli antichi non ragionavano così. Pensavano che nelle cose che ci accadono c'è un disegno degli dèi per "ritornare a casa", a Itaca, nella terra promessa. L'Odissea è il grande libro dell'Occidente. Ricorda a tutti che è il viaggio, il cammino verso il nostro sentiero, l'"even-to", e non le tappe, gli scogli in cui veniamo intrappolati. Nemmeno Calipso, la ninfa dai bei riccioli che promette a Ulisse l'eterna giovinezza, l'immortalità, riesce a fermarlo: il compito dell'eroe è andare verso il suo destino... Realizza-
re se stesso. "In ogni uomo vi è qualcosa di prezioso" afferma il chassidismo "che non si trova in nessun altro. Perciò dovremmo onorare ogni singolo uomo per quello che di nascosto è in lui e che solo lui possiede e nessun altro dei suoi compagni."1 Cara Nadia, è dunque l'amore che la chiama, Eros, non il suo ex marito: lui è solo l'"oggetto", la tappa, il ricordo di ciò che non c'è più, insomma, un'ombra. Se sbagliamo, se scambiamo un'immagine (per Nadia quella del suo ex marito) a cui ci siamo attaccati per raggiungere la meta, allora la vita diventa un inferno, ci esaurisce, ci strema, ci annienta. Non sto male perché lui o lei mi hanno lasciato, no, sto male perché non sono in viaggio, perché sono impigliato nella rete, perché non vedo il mare, perché non voglio convincermi che l'amore non è mio ma una forza dell'universo che vuole portarmi verso la mia Itaca. L'Eros è la tua linfa vitale Francesca, come Nadia, è entrata in una grave forma di depressione dopo l'abbandono del suo compagno. Durante il giorno, risentimenti, pensieri rabbiosi, senso di scoramento, la ferita della perdita venivano a trovarla, e lei a ogni seduta mi ripeteva ossessivamente: "Senza di lui non posso più amare", come se l'amore potesse esaurirsi, come se noi potessimo comandare Eros, governarlo o, peggio ancora, incatenarlo a un viso, a un'immagine, a una persona. Chi d abbandona, chi ci fa soffrire è capace di una grande "magia": farci estrarre il desiderio, l'amore. Solo questo ha fatto! Crediamo che senza di lui o lei l'amore sia scomparso. In realtà, continuando a identificarlo in ricordi, in quel volto, noi commettiamo un peccato di immensa superbia: vogliamo controllare l'amore, guidarlo, renderlo alla portata del nostro modo di vedere il mondo... Vogliamo evitare di affidarci, di farci portare in viaggio da lui. Anziché affidare ad Amore le nostre sorti, lo vogliamo incanalare nella nostra storia, lo vogliamo solo dentro quel volto, tra le nostre abitudini, tra gli schemi che non abbia-
mo intenzione di abbandonare. Eros si arrabbia, non accetta di essere identificato in una persona, vuole scorrere libero, vuole farci viaggiare, volare. Ma noi non cediamo, ci intestardiamo: o lui o lei, o niente. Seneca ci fa capire con queste parole il divino potere di Eros: "Solo nell'eccitazione la mente può pronunciare parole nobili e inusitate, in quanto che nel disprezzo delle cose ovvie e volgari, spinta da una divina ispirazione, l'anima, si solleva più in alto e allora canta in un modo che va al di là dell'umano. Finché rimane troppo attaccata a se stessa non può toccare alcunché di sublime o inaccessibile, deve staccarsi dalla sua abituale condizione, uscire, mordere i freni e trascinare il suo cocchiere, fin dove questi, senza tale stimolo, non avrebbe il coraggio di salire".2 In quelle sedute di psicoterapia, dominate dal risentimento, dalla malinconia, dai pensieri di morte, dall'immobilità, dal senso di rinuncia a vivere, Francesca restava meravigliata quando la invitavo a chiudere gli occhi, e a immaginare il suo amore perduto. Mentre tutti intorno a lei le chiedevano di dimenticarlo, io glielo facevo rievocare, le facevo raccontare le "belle notti", il piacere, la tenerezza, il calore che provava. A ogni seduta commentavo dicendo: "Certo che lei, Francesca, sa amare con una grande intensità...". Diverse volte rispondeva: "Ora non più", e subito riempiva il compagno di improperi, di insulti, di lamenti. Io mi soffermavo sulle immagini dell'amore, fino a che, in una seduta, le ho chiesto di provare le stesse emozioni che mi stava raccontando, per un personaggio senza volto, sconosciuto. A volte quell'"uomo senza volto" veniva subito ricoperto dal viso del suo ex, ma via via veniva sempre più accettato come tale. E quando le riusciva, il dolore psichico si mitigava, la seduta finiva senza lamenti, senza rancori, senza dolorosi ricordi del passato. Sapevo che Eros, Amore stava nuovamente riaffacciandosi, la stava rimettendo in viaggio, verso nuovi incontri e, ancor di più, verso la sua Isola, fatta di interessi, di immagini,
di fantasie che sarebbero appartenute solo a lei. Quando l'eros si accende, quando siamo attratti da una persona, quando la corteggiamo, quando flirtiamo, quando facciamo l'amore... si attiva una tempesta di "ormoni del piacere" che scatena in noi la tachicardia, l'arrossamento della pelle, l'eccitazione, ma soprattutto raddoppiano il livello di NGF (fattore di crescita nervosa), la proteina scoperta da Rita Levi Montalcini che - lo afferma una recente ricerca dell'università di Pavia - ripara il sistema nervoso, quello endocrino e quello immunitario. E se questo fattore non trova nulla che ha bisogno di "essere aggiustato", si dedica a stimolare la maturazione del nostro cervello in modo che svolga appieno la sua funzione più nobile, ovvero "fare coscienza". L'eros, dunque, è la vera linfa vitale da cui non dovremmo mai separarci. Lo sanno bene i Maestri dell'ebraismo chassidico quando sostengono che l'uomo vive per produrre piacere, eros, e quindi luce; a questo serve la sessualità: a portarci a un passo dal divino. Così scrive a tale proposito lo studioso di ebraismo David Biale: "Ogni tnitzvah, o atto di santità, inizia con pensieri di piacere fisico" ed è "lecito per l'uomo avere desideri fisici, e da essi egli arriverà a desiderare la Torah e l'adorazione di Dio".3 In questo senso parlare di eros significa alludere a una sostanza taumaturgica per la nostra salute, e non solo. È la porta attraverso cui affacciarsi sull'infinito. I mistici, quando puntano all'incontro con il sacro, lo fanno ricercando proprio lo stato di estasi, equiparabile a un orgasmo mentale. Ancora Biale scrive che i mistici, in preghiera, andavano alla ricerca della presenza ulteriore attraverso l'eros e il piacere: "I chassidim si comportano, durante la preghiera, come se stessero avendo un rapporto sessuale con l'emanazione femminile di Dio".4 È necessario dunque divenire consapevoli di cosa sia realmente l'eros, e di che valore determinante abbia per la nostra salute e la nostra vita: è la quota d'infinito racchiusa in
ognuno di noi, è un'energia universale e immortale, è la via attraverso cui la coscienza accede a dimensioni più ampie. Liberiamo allora questa linfa universale dalle briglie troppo corte che le abbiamo imposto. All'attuale addomesticamento forzato hanno contribuito un po' tutti: la religione e il bigottismo, la morale comune, una visione medico-scientifica ristretta, l'ignoranza collettiva dei meccanismi fondamentali su cui poggia la vita... Così facendo, però, l'eros ha perduto sempre più i suoi connotati di energia "divina e immortale", per assumere le sembianze di un evento riduttivamente pornografico. L'eros deve poter scendere in campo per controbilanciare lo strapotere odierno del pensiero. Infatti, chi è calato in un'atmosfera erotica pensa meno, pensa diversamente, lascia, soprattutto, che la mente si liberi per essere piacevolmente invasa e stimolata dai mediatori chimici del piacere. Il nostro corpo sa sempre cosa fare, parla, racconta, dice tutto, anche quello che, con le parole, non vogliamo o non siamo in grado di dire. Anche quello che non vogliamo sentire, anche le cose che non sappiamo pronunciare, o i pensieri che neppure osiamo formulare dentro di noi. A volte il linguaggio del corpo assume la forma dell'acqua, delle secrezioni vaginali, di quell'eros "liquido" che sorge dalle aree più misteriose del cervello, da una sorgente invisibile, in cui nasce per propagarsi e condensarsi nella materia, nell'acqua eccitata che le donne conoscono bene. L'eros fa parlare la tua anima Barbara, trentasei anni, non ha rapporti sessuali con il marito da più di quattro anni. Da quando ha avuto il bambino lui non l'ha più toccata. "Mi tratta come una madre, prima di dormire mi da il bacio della buonanotte e si addormenta." Capita a molti uomini, più di quello che si pensa, di astenersi dai rapporti sessuali dopo il parto: la donna viene vissuta come madre e non più come amante. È quello che è accaduto a Barbara, che si è rivolta a sessuologi e a esperti di terapia di coppia, ma con nessun risultato.
Come spesso succede, Barbara si adegua: "La mia vita funziona anche senza sesso, tra mio marito e me c'è comunque stima e amicizia. Il bambino cresce in salute, stiamo bene economicamente, non litighiamo mai. Se non fosse per il sesso il nostro rapporto sarebbe perfetto". Come sempre, quando si ragiona così, ci si ammala... Quando l'eros scompare dalla vita, quando il desiderio non viene più a trovarci, la malattia si affaccia inesorabilmente: il nostro corpo ci chiama, con il suo linguaggio, con i suoi modi di dire "iscritti" nella materia. I nostri desideri negati diventano linguaggio del corpo: ci sembrano disturbi, ma sono solo messaggi. Barbara comincia a soffrire d'insonnia, d'ansia e di attacchi di panico. Ha paura di restare sola, ha bisogno sempre di qualcuno in casa quando il marito non c'è. Ogni notte passa ore al telefono con sua madre, con le amiche; "per non pensare, per non stare sola con me stessa". Casualmente, un sabato in campagna, conosce un uomo che insistentemente la corteggia, nonostante non fosse minimamente truccata, nonostante si fosse spenta e avesse bandito dalla sua vita l'eros e i giochi della seduzione. All'improwiso, mentre lui le parla, prova "un'eccitazione del tutto incontrollabile", si trova al suo fianco e si sente eccitata, cerca di controllare l'emozione, ma si accorge che "le parti intime sono umide". "Corro in bagno. Per fortuna indosso un paio di jeans, avevo le mutandine completamente bagnate. Ma la cosa sconvolgente era che le mie secrezioni vaginali erano profumate, le ho assaggiate: sapevano di rosa. Nonostante i miei sforzi, non riuscivo a bloccarle." Barbara cerca di controllarsi, per alcuni giorni evita le telefonate di lui, sta alla larga dalla possibilità di rivederlo, di frequentare luoghi dove può incontrarlo. Ma l'eccitazione perdura, e le secrezioni vaginali si trasformano "in una vera e propria inondazione." "Una sera ero così bagnata che ho dovuto alzare il telefono, chiamarlo; io e Luca siamo usciti e abbiamo fatto l'amore, e anche lui sentiva il sapore di rosa..."
Barbara e Luca hanno fatto l'amore solo quella sera, eppure l'eccitazione e le secrezioni liquide continuavano. Erano l'antidoto al panico, alla sofferenza di Barbara. L'anima si liberava dalle tossine psichiche con T'acqua di rosa"... "Gli attacchi di panico, l'insonnia, la paura della solitudine ogni volta che ne sentivo i prodromi, ogni volta che avvertivo che stavano per venire, per arrivare, io cercavo l'eccitazione, portavo l'attenzione sull'umidità, sull'acqua di rosa che sgorgava dalla vagina, e i miei disagi psichici scomparivano. Più mi arrendevo a quel liquido profumato e magico e più stavo bene." Non c'è stata epoca in cui abbiamo controllato, dominato, manipolato le emozioni, come nella nostra. Così, quando ci eccitiamo, quando ci innamoriamo, la prima cosa che facciamo è ragionarci su, pensarci e ripensarci, chiederci se è la cosa giusta, ci facciamo domande su domande finendo per uscire da quello stato magico che Eros ci regala. Questo ha fatto Barbara. Ha vissuto questo incontro come un nemico che si abbatteva sulla sua esistenza, come qualcosa che poteva distruggere, annientare la sua vita matrimoniale. Così decide di non vederlo più, lo chiama e glielo dice. Nello stesso istante le arriva un attacco di panico "di una violenza mai provata", che la costringe al pronto soccorso, dove rimane tutta la notte, assistita dal marito e dalla madre. Ma la cosa più sorprendente è che, cessato l'attacco di panico, Barbara scopre di essere nuovamente "bagnata". Questa volta le secrezioni vaginali erano "maleodoranti, vischiose, giallastre, acide". Da quel momento inizia un periodo travagliato, dominato da una vaginite cronica e dagli attacchi di panico, dalle fobie, dall'insonnia, dalla paura di morire. Non si può fermare l'anima e i tragitti che ha preparato per noi! Contrariamente a quanto si crede, l'eccitazione non viene a trovarci per farci cambiare vita o per mutare la nostra realtà matrimoniale.
Eros irrompe nella nostra vita psichica perché l'anima vuole che realizziamo la nostra natura, che esterniamo, come nel caso di Barbara, quella femminilità repressa senza la quale siamo solo dei robot, senza la quale perdiamo la lucentezza della vita. Eros non è solo il Dio dell'amore, ma anche della passione, di nuovi interessi, di nuovi stimoli creativi. Com'è guarita Barbara? Quando si è arresa... Quando ha accettato che quel Dio misterioso stesse al suo fianco. Qualche tempo dopo incontra un nuovo partner e l'acqua di rosa" torna a trovarla. Non la combatte più, l'eccitazione non viene più respinta... E i disturbi se ne vanno. Non voler sistemare l'"amore" "È stato molto bello ieri sera con lui, coinvolgente, appassionante. Non avevo mai fatto l'amore così. Poi il mattino sono tornata a casa e ho cominciato a pensare. A pensare che lui è sposato, che ha due figli, che non lascerà mai sua moglie. Mi sono detta che devo scappare da un uomo simile, che questa storia non porterà a niente di buono anche se lui è dolce, carino, sereno, anche se stare con lui mi fa bene. Più ci ragionavo su è più mi incasinavo. Mi sono detta che non devo più rivederlo, e mentre stavo prendendo il telefono per dirglielo, ho sentito una fitta al petto, al cuore. Ho avvertito un dolore che mi annientava, che mi faceva precipitare in un deserto, sola, abbandonata. Non sono riuscita a telefonargli e a dirgli che non lo volevo più. Ma sono sempre in lotta: se lasciarlo o no. Anche se poi ogni volta che lo vedo finisco per stare con lui, per farci l'amore. Sono combattuta e infelice." Questa è la testimonianza di Luisa, trentaquattro anni; ho ritenuto di riportarla perché questo dilemma, questa lotta interiore, ha abitato o abita il cuore di molti di noi. Si potrebbe definire il conflitto ulteriore che vive Luisa, quello tra il desiderio, il piacere, il sentimento, e il pensiero. Mentre quando i loro corpi si incontrano tutto sembra appartenere a una dimensione magica, dove si percepisce la potenza creativa e vivifica dell'eros - "non ho mai fatto
l'amore così" - non appena Luisa recupera la sua solitudine, quando si riappropria del suo spazio interno, subentra un'altra dimensione, quella dell'intelletto, quella del pensiero, del ragionamento. La saggezza chassidica afferma che ognuno di noi deve percorrere una via nella vita, il rischio è quello di cambiare strada a causa dei soliti ragionamenti: "La via in questo mondo assomiglia al filo della lama di un coltello. Di qua e di là c'è l'abisso e la via della vita scorre nel mezzo".5 I pensieri di Luisa sembrano disinteressarsi della grande attrazione che prova, della "scintilla" che chiama e unisce lei e il suo amante. Quello stato paradisiaco, quell'oceano di piacere, quella beatitudine che inondava le loro notti vengono sovrastati dal mondo delle intenzioni mentali, dei progetti dell'Io. "Quando sono da sola, quando lui non c'è" continua Lui-sa "io penso ai progetti, a noi due che viviamo insieme, che facciamo dei bambini. Io ho già una certa età. Ma poi mi dico che non succederà e comincio ad agitarmi, a stare male, insomma, anche se lui mi piace da morire io non sono contenta, io non sono felice, non sto bene." Luisa non sa che la sua è una visione comune del mondo, un modo comune di accostarsi all'eros, che i suoi sono i ragionamenti di tanti. Quella di "sistemare l'amore", di collocarlo dentro una convivenza, un matrimonio non è un pensiero originale. È un pensiero atavico, ereditato dai modelli precedenti... Ed è, comunque, un pensiero. La domanda che dovremmo farci nei confronti dell'amore, ma ritengo nei confronti di tutti i sentimenti, è se il pensiero, se il ragionarci su, possa essere di una qualche utilità. Pensare e ripensare a come andrà a finire ha una qualche utilità sul destino della storia che sto vivendo? Oppure mi porterà a vivere un disagio che andrà a cronicizzarsi dentro di me, a mettere in crisi la relazione, a minarla nelle fondamenta, a trasformare quel paradiso in un inferno? Nelle "cose dell'amore" il pensiero è necessariamente un
mio compagno di viaggio, un mio alleato o, al contrario, è il mio nemico, un veleno che intossica la mia interiorità? Per la verità fin da bambini, ancora di più a scuola, e naturalmente in famiglia, noi veniamo abituati a giudicare gli stati d'animo e a controllarli. "Se mi lascio andare, cosa penserà di me? Cosa diranno gli altri?" Nessuno ci ha insegnato a non pensare sulle "cose dell'anima"! Nessuno ci ha insegnato, per esempio, dopo un incontro d'amore, a spegnere i ragionamenti, i pensieri, i commenti, i progetti, i giudizi. Come ricorda Hillman, e come ribadisce il chassidismo, dobbiamo prendere spunto dai bambini in cui risiedono contemporaneamente semplicità e saggezza: "Dal bambino puoi imparare tre cose: è felice senza un motivo preciso; non sta mai ozioso; quando ha bisogno di qualcosa, allora domanda con energia".6 Francesca, quarant'anni, per esempio, ha imparato sulla sua pelle che ogni volta che faceva progetti su un amore coinvolgente, puntualmente finiva per essere abbandonata. "Forse trasmettevo al mio partner la sensazione che volevo catturarlo, farlo mio, sposarlo o conviverci? Chissà... Mi sembrava che dopo una notte coinvolgente avessi il diritto ad attenzioni speciali, a telefonate di sostegno. Anche se, me ne rendo conto, invadere lo spazio dell'altro era più forte di me. E lui puntualmente fuggiva, e la cosa si ripeteva identica nella storia successiva." Durante una seduta di psicoterapia mi sono soffermato sul fatto che forse la sua "donna ulteriore", la sua anima, voleva uomini da portarsi a letto e a cui non legarsi... Forse, Francesca diventava invadente per essere allontanata e ritrovarsi sola con se stessa. E forse poteva non spaventarsi di questa solitudine, accoglierla, e vedere dove avrebbe potuto portarla. Spesso compiamo azioni, gesti che sembrano andare nella direzione opposta rispetto a quello che desideriamo, che vogliamo. Magari diventiamo invadenti non perché vogliamo quell'uomo, ma solo perché ci spaventano la nostra autono-
mia, la nostra libertà, il fatto che lo desideriamo a letto e basta. Forse non abbiamo il coraggio di dircelo o di vederci come persone diverse dagli altri, dagli slogan dei luoghi comuni. Spesso vogliamo essere come i nostri amici o le nostre amiche, accasati, accoppiati, insomma, come tutti gli altri. Si tratta di vedere cosa cerca la nostra essenza attraverso Eros. Qual è la funzione del piacere. Godere per procreare, per fare continuare l'evoluzione della specie, come sostiene qualche becero evoluzionista? Oppure il piacere è in grado di inondare il cervello di una luce misteriosa, di attivare dei circuiti cerebrali che vivono nel senza tempo e che sono il riflesso dell'eternità? Se fosse così, chiunque incontriamo non è che l'oggetto che innesca l'amore: non è lui o lei che amo, ma Eros, che attraverso lei o lui è venuto a trovarmi. La differenza è sostanziale! Forse la mia essenza ha bisogno, per esprimersi al suo livello più alto, per raggiungere le vette delle sue capacità creative, proprio di qualcuno che accenda la scintilla. In questo caso l'"evento" è la fiamma, non il combustibile, non chi la accende... E così, la domanda che dovrebbe ricorrere ogni volta che ci innamoriamo è fondamentalmente questa: adesso che ho conosciuto il paradiso di Eros, quale nuovo lato di me scoprirò? Quali nuove tendenze inesplorate si affacceranno? Quali nuovi "talenti" e capacità mi guideranno? Ma il nostro Sé, il nostro nucleo, non si rivela mai a chi riempie di pensieri, di progetti, le "cose dell'amore"... Se proprio voglio fare qualcosa di utile per me stesso e per la mia evoluzione, ogni volta che mi piace qualcuno, è spegnere le intenzioni, i progetti, le riflessioni. Il pensiero è il mio nemico: vuole spiegare ciò che è indicibile; e puntualmente lo rovina. La "casa" degli affetti, delle emozioni, dei sentimenti, la casa di Eros risiede in una terra lontana, posta agli antipodi dell'intelletto, della ragione. A scuola e dalla nostra famiglia non ci viene insegnato che
i sentimenti non vanno commentati, che vanno solo guardati, non guidati, percepiti e lasciati così come sono. Non sono io il protagonista dell'amore, non sono io che devo decidere, non sono io che mi devo chiedere come andrà a finire. Questo riguarda solo il mio piccolo Io. Quello che Eros mi sta portando appartiene a una terra che detesta i commenti, che non vuole essere analizzata e occupata dai miei schemi mentali. A questo proposito Racine, scrittore francese del Settecento, dimostra che gli uomini nulla possono contro le proprie passioni. Basta ricordare la vicenda di Erifile, prigioniera di Achille, che detesta il suo rapitore fino al momento in cui, stretta fra le sue braccia, un misterioso turbamento s'impadronisce dei suoi sensi. Nel momento stesso in cui è pronta a odiare Achille, l'amore si insinua in lei e precede la sua volontà. Ella sente di amare contro la ragione, contro l'onore. La lotta contro questo turbamento sembra inutile: "Lo vidi: il suo aspetto non aveva nulla di feroce. Sentii il rimprovero spegnersi sulle mie labbra. Sentii, me stessa, il mio cuore aprirsi all'amore".7 Eros vuole prendere possesso di me, portarmi dove la mia essenza deve andare, e a me, se voglio fare la mia parte, non resta che affidarmi, abbandonarmi. Forse nel profondo di noi stessi c'è una luce profonda, immensa, che ha bisogno di essere accesa dagli orgasmi, dal piacere, da Eros, per mettersi in moto e mettere in moto la mia anima. Il pensiero è il tuo nemico E la sofferenza? Dipende dal fatto esclusivo che resisto, che lotto, che voglio controllarmi, dirigermi, abituarmi, instradare l'amore nei luoghi comuni, nelle abitudini di tutti gli altri. Forse quello che dobbiamo chiederci è: "Vediamo cosa appare adesso che sono stato baciato dall'amore? Quali nuovi interessi mi chiamano? Quali incontri stanno per arrivare?". Giovanna, trentanove anni, si è accorta che ogni volta che fa l'amore con il suo compagno, con il quale è molto coinvolta, le capitano incontri misteriosi, coincidenze significa-
tive: "Qualche giorno fa sono salita in macchina dopo un incontro bellissimo con Michele, coinvolgente, appassionato. Non so quanti orgasmi ho provato. Bene, mentre ero ferma a un semaforo mi è venuta in mente Chiara, la mia amica d'infanzia che non vedo da vent'anni. "Mi sono voltata, e Chiara stava attraversando la strada. Ma la cosa pazzesca è che io ero a cinquecento chilometri da dove abitavamo da bambine, e lei passava nella stessa ora e allo stesso semaforo in una città dov'era per la prima volta". L'eros accende l'anima? Attiva la sua capacità di cogliere, di vedere quello che il nostro Io, prigioniero dei pensieri e della mente, non riesce a percepire? Quell'incontro aprì per Giovanna nuovi sbocchi lavorativi, dove sono emerse capacità che Giovanna manifestava da bambina ma che da anni non erano più affiorate. Nei nostri incontri, nelle coincidenze significative c'è sempre un senso nascosto. Se è così, facciamo l'amore per conquistare poteri che non sappiamo di avere, per entrare nel Regno degli dèi, un altro territorio in cui la profezia, la chiaroveggenza, la sensibilità si acuiscono. Come è accaduto a Giovanna, gli orgasmi ripetuti l'hanno portata nella dimora del senza tempo. Non è forse un orgasmo allargato all'infinito l'estasi dei mistici, liberato dalle scorie temporali, dallo spazio limitato dell'Io? Insom-ma, Eros viene per allargare quella luce intensa, quella scintilla che abita nel nostro profondo, la nostra intima essenza, il luogo del Senso, dove le cose sono legate le une alle altre, dove siamo un tutfuno con l'universo. Eros è misterioso, come è misteriosa la vita. Solo nel pensiero tutto è sempre uguale, i soliti ragionamenti, i soliti commenti... Quello che è capitato a Giovanna è stato possibile perché, come mi ha detto "negli anni ho imparato a non parlare più delle cose mie con nessuno, nemmeno con gli amici". Cosa rara in un mondo dove, appena ci innamoriamo, la prima cosa che facciamo è correre a dirlo a qualcuno, con il
risultato di vedere allontanarsi la magia. Ma Eros, si pensi alla favola di Amore e Psiche, non vuole essere guardato in volto, vuole restare misterioso, sconosciuto, e farci sentire la sua presenza dal profondo, una presenza fatta di eventi inspiegabili; come è successo a Giovanna che dopo venf anni ha rincontrato la sua amica d'infanzia. Per questo, perché la luce di Eros si manifesti, occorre diventare "custodi di segreti", soli, capaci di stare con se stessi e con la mente vuota. Chi non ha segreti è come se non avesse vissuto. Chi vuole spiegare, capire tutto, sapere tutto, diventa banale. Sentite che cosa scrive Jung nella vecchiaia avanzata: "È importante avere un segreto, una premonizione di cose sconosciute. Riempie la vita di qualcosa di impersonale, di un numinosum. Chi non ha mai fatto questa esperienza ha perduto qualcosa d'importante. L'uomo deve sentire che vive in un mondo che, per certi aspetti, è misterioso; che in esso avvengono e si sperimentano cose che restano inesplicabili, e non solo quelle che accadono nell'ambito di ciò che ci si attende. L'inatteso e l'inaudito appartengono a questo mondo. Solo allora la vita è completa. Per me, fin dal principio, il mondo è stato infinito e inafferrabile".8 Il lettore avrà compreso che il pensiero è il nemico principale di Eros: mai, assolutamente mai spiegare, commentare, paragonare gli amori. Mai avere progetti su di loro. Diventeremmo come tutti gli altri che hanno trasformato Eros in un coacervo di abitudini. Solo che, ci si accorge che le abitudini hanno vinto dopo un po' di tempo, che Eros si è allontanato, offeso, per lasciare posto alla depressione, alla noia, al panico, all'ansia, all'insonnia. Ogni volta che mi innamoro devo "fare un regalo" al Demone che abita dentro di me, alla mia essenza. Il regalo è la rinuncia al pensiero! Come ha fatto Francesca: "Mi sono arresa. Una sera che stavo per riproporre la solita solfa al mio uomo, quando ho avvertito che stavo per diventare nuovamente invadente per paura di essere ancora abbandonata, sa cosa ho fatto? Sono
uscita di casa e mi sono messa a camminare, portando l'attenzione solo sui miei piedi, sulle gambe, sul mio corpo che andava, andava... "Giravo a vuoto senza una meta, sono entrata in un bar e ho bevuto una spremuta d'arancia. Ero presente a tutto quello che facevo: al bicchiere, alla mia mano che lo sollevava, alle mie labbra che bevevano lentamente. "Mentre ero presente, il dolore dell'abbandono se ne andava. Ho continuato a camminare, a girare senza meta. Non so quanti chilometri ho fatto per la città. Era buio, ma non avevo paura di niente. Camminavo e basta. Prima è arrivato un senso di vuoto, poi ho perso la sensazione del tempo, camminavo, ed è arrivata la gioia. Uno stato di felicità senza motivo. Ero estranea ai miei pensieri, ero estranea, camminavo ed ero felice". Quando muore l'idea del passato, quando non abbiamo alcun progetto, Eros ci da la felicità. C'è una luce profonda che le "azioni minime" rivelano, che si manifesta quando facciamo le cose e siamo presenti senza pensieri. È la luce di Eros. Il piacere la esalta, ma è comunque presente anche quando non siamo eccitati. A patto di essere totalmente lì, immersi nelle cose che stiamo facendo. Allora, bere un caffè, mangiare un gelato, camminare, scrivere, ricamare... ci regala l'estasi. E l'estasi, senza fare niente, ci cambia la vita. note: 1 Martin Buber, I dieci gradini della saggezza. Baroli editore, Novara 2003, p. 82. 2 Seneca, L'ozio e la serenità, Newton Compton, Roma 1993, pp. 93-94. 3 David Biale, L'eros nell'ebraismo. Giuntura, Firenze 2003, p. 183. 4 Ibid. p. 200. 5 M. Buber, op. cit, p. 71. 6 Ibid., p.57. 7 Charles Moeller, Saggezza greca e paradosso cristiano, Edizioni Morcelliane, Bre-scia 1980, pp. 88-89.
8 Carl Gustav Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, Rizzoli, Milano 2006, p. 416. 8 Non decidere Una "goccia di seme" sa fare da sola, senza alcun aiuto esterno, senza nessun pensiero, senza progetti, quell'essere vivente che è ciascuno di noi. Dopo la fecondazione forma un embrione, un feto, un bambino, un uomo, una donna. Non ha bisogno di parole come "controllo", "equilibrio", "auto-stima". Lo fa e basta! Nel seme ci deve essere un'intelligenza profonda, immensa, innata nell'universo, che sa fare le piante, gli animali e la creatura più elevata dell'evoluzione: l'essere umano. Questa intelligenza non ci ha creati, ci sta creando adesso! Se la ignoriamo, se ci allontaniamo da lei... siamo perduti. Non devi avere fiducia in te! Grazie professor Morelli! Grazie a lei e alle sue parole ho imparato a "vivere a colori"! Una sola cosa mi affligge: nei momenti più difficili della quotidianità non riesco ad avere abbastanza fiducia in me stessa, mi esaspero per niente e metto tutto in discussione, eppure, spesso la gente mi fa apprezzamenti per la mia dolcezza e per la grinta che dimostro. Perché non riesco a captare i lati più belli di me? Perché ho sempre paura di sbagliare? Perché ho sempre la sensazione di stare un gradino sotto rispetto alle persone che stimo e che ammiro? Queste incertezze non fanno di me una persona serena. Ringrazio Maria Catena che mi ha scritto queste belle parole, a Tutte le mattine. Ma io vorrei ricordarle "l'intelligenza del seme", quella che la sta creando e di cui Maria sembra aver dimenticato l'esistenza. Come si fa a "sedersi" sull'"intelligenza del seme"? Prima di tutto occorre non valutare se stessi. Poi, bisogna imparare a non mettersi in discussione e, ancora di più, a
non soffermarsi sulle critiche, sugli apprezzamenti, sui complimenti degli altri. L'intelligenza del mio seme mi sta creando adesso, così come sono... Lei sa come sono, che cosa è adatto a me. Sono io che faccio confusione quando mi metto alla ricerca dei miei "lati belli". I turbamenti dell'anima nascono dalle opinioni che noi abbiamo su noi stessi, e sulle situazioni che viviamo: "Gli uomini sono agitati e turbati" scrive il filosofo greco Epitteto "non dalle cose, ma dalle opinioni ch'egli hanno sulle cose. Per tanto, quando noi siamo turbati o afflitti, non dobbiamo però accagionare gli altri, ma sì veramente noi medesimi, cioè le nostre opinioni".1 Cara Maria, prova a fare quello che anch'io ho imparato a fare con me stesso, e cioè a eliminare gli aggettivi... Dentro di me non ci sono lati belli o brutti, e neppure ci sono cose da cambiare o da migliorare. Semplicemente, c'è da imparare a stare con se stessi, percependo quello che ci arriva, qualsiasi disagio sia, e solo nel momento in cui ci arriva. Cioè, devo imparare a dirmi: "Adesso provo incertezza e adesso la focalizzo, la guardo, sento che c'è. Adesso. Non sempre. Nessun stato d'animo c'è e dura per sempre". L'intelligenza del seme Forse la domanda che andrebbe formulata è questa: "Cosa vuole da me l'intelligenza del mio seme quando mi 'manda' la sensazione di sfiducia, quando mi fa sentire incerto?". Sbaglia Maria quando ritiene che le incertezze non fanno di lei una persona serena. Che cosa ci fa stare male, che cosa ci porta alla nevrosi? Più di tutto l'idea di perfezione: la paura di stare "un gradino sotto le persone che amiamo" nasconde il nostro desiderio di essere sempre un gradino sopra gli altri, di essere all'altezza; insomma, di essere speciali, perfetti. Ma "l'intelligenza del seme" sta già facendo quell'essere che sono. Io non me ne accorgo perché voglio essere il personaggio che mi sono messo in mente, senza sbavature, senza fragilità. E così, anziché guardare, prendere atto delle incertezze nel momento in cui arrivano, anziché percepirle, io le giudico e
arrivo alla conclusione, come fa Maria, che se sono indeciso non potrò mai essere una persona serena. Niente di più sbagliato. È il nostro modello di perfezione che ci vuole sempre sicuri, sereni, intelligenti, capaci di dire cose giuste, sempre alla ricerca della nostra qualità, dei lati belli e unici che possediamo. E così ci riempiamo di pensieri... Dimenticando che l'intelligenza del seme" vive in un'altra dimensione, dove più di tutto la disturbano i nostri pensieri, i nostri ragionamenti. Epitteto considera fondamentale l'atto di osservare senza giudizio; questo atteggiamento ci darà la possibilità di vivere pienamente ogni istante della vita, senza la zavorra dei nostri ragionamenti: "Siccome, andando per le vie, tu hai l'occhio a non calpestare un chiodo e a non ti storcere un piede, così abbi cura di non fare pregiudizio alla parte principale di te medesimo. E se altrettanto osserveremo in ciascun atto, noi faremo ogni cosa più sicuramente".2 L'"intelligenza del seme" vive in un altro tempo, è dinamica, libera, creativa, mentre i nostri pensieri sono statici, sempre uguali, sempre pieni di valutazioni, di giudizi. Per questo ho imparato, e lo insegno nei miei gruppi, a guardare le emozioni, i disagi, con l'orologio in mano. Sì, proprio con l'orologio in mano... Adesso, alle 17.30, mi sento indeciso, insicuro e sfiduciato. Adesso! E se non interferisco con i miei pensieri, la tristezza, la sfiducia, così come sono venute se ne vanno. Alle 17.35 non saranno più nel mio orizzonte mentale, perché io avrò guardato la mia tristezza, la mia indecisione, senza commentarle, senza valutarle e, soprattutto, guardandole con gli occhi di chi le vede arrivare dentro di sé per la prima volta. L'"intelligenza del seme" sta "producendo" l'indecisione o la tristezza non per farmi del male, ma per liberare la mia anima dalle tossine mentali che ha accumulato. Guai se mi metto a ragionarci su con i soliti schemi: finirò per trattenere il disagio, per renderlo cronico. Finirò per convincermi che sono sbagliato, e farò la cosa peggiore: cercare di cambiare, di redimermi, di buttare via le cose che
non mi piacciono di me e che, invece, sono le più preziose. Quando sto male, quando vengo assalito dal disagio, è perché mi sforzo di essere come tutti gli altri, perché voglio decidere di cose che all'intelligenza del mio seme non interessano; trascurando così quello che mi serve veramente. L'intelligenza del nostro seme è il nostro Demone, il Dio vuole realizzare la nostra vera natura che in sé è perfetta; e non quella dei modelli, delle valutazioni altrui. Sentite cosa riporta il filosofo Lev Sestov, citando Plotino, colui che più di tutti ha parlato dello sguardo ulteriore, della contemplazione che allontana le tossine dell'anima: "Non cercarlo con gli occhi mortali, come l'intelletto (il pensiero) ti invita a fare. Sono proprio le cose che si credono maggiormente esistenti a esistere meno di tutto. Bisogna opporsi a quel che è comunemente accettato, altrimenti saremo respinti dal dio".3 E Plotino stesso continua, e diventa oltremodo esplicito, quando sottolinea che i luoghi comuni sono tra i peggiori nemici da cui guardarsi: "È necessario contrapporsi all'ovvio, a ciò che è comunemente accettato".4 I disagi, allora, vengono per liberare il mio Io dalle sue certezze, dal fatto che vuole assomigliare e adeguarsi alle valutazioni degli altri. Per questo possiamo provare ogni tanto, qualche volta durante la giornata, a non cercare i nostri lati belli, a non cercare di piacere, di essere giusti per gli altri, ma a percepire i nostri stati d'animo, a chiederci: "Adesso, in questo momento, come sto?". A percepire ciò che provo, senza commentare lo stato d'animo. E se arriva la tristezza, mi devo dire che è quella delle 18, quella di oggi. Devo percepirla proprio mentre arriva. E l'"intelligenza del seme" mi darà la pace... Lascia decidere la tua anima Nessuno sa veramente che cosa vuole, e neppure dove sta andando. È vero che ogni giorno prendiamo mille decisioni, ma sono quasi tutte insignificanti. Sì, decidiamo come fare colazione, se andare o no in palestra, se sgridare o meno i nostri bambini quando non studiano, con chi uscire il sabato sera... Ma ci accorgiamo che
non è lì il perno della nostra vita. Neppure nelle decisioni cosiddette "importanti", ammesso che esistano, siamo veramente protagonisti, siamo veramente noi a decidere. Anche le decisioni che ci sembrano più razionali, come mettersi a dieta quando si è in sovrappeso, o cambiare un lavoro che non ci piace, lasciare un coniuge con il quale il rapporto si è spento, non arrivano spontaneamente e, quando arrivano, sono sempre il frutto di dubbi, contrasti, sofferenze. Così, Loredana mi telefona per dirmi che si sente annientata perché il suo amante vuole vivere con lei, e lei non ha il coraggio di separarsi dal marito che non sa nulla, ma la vede triste e disperata; le ha detto: "Non è giusto che mi tratti così, io che ho dato tutto, ho lavorato giorno e notte per la nostra famiglia". Loredana è affranta perché, a suo dire, non sa decidere: ha paura che l'altro, a causa del suo tentennare, la lasci, e che il marito prima o poi se ne accorga. "Sa Morelli" mi dice "io non sono come molte mie amiche che sanno tenere il piede in due scarpe. Da due mesi non dormo più la notte, ho continui attacchi d'ansia." Riporto questo esempio perché è una situazione molto frequente: come si fa a sapere quello che si vuole? A scegliere che strada prendere? Non prendendo mai decisioni! Non dicendo più a se stessi dove si deve andare, che cosa si deve fare. A questo proposito, la saggezza chassidica dice che la nostra anima, se siamo attenti osservatori, ci dirigerà istante dopo istante verso la nostra realizzazione. Rabbi Pinhas citava spesso la frase: "L'anima dell'uomo gli insegnerà", e la sottolineava aggiungendo: "Non c'è uomo al mondo al quale l'anima non insegni ogni momento". Uno degli scolari gli chiese: "Se è così, perché gli uomini non obbediscono alla loro anima?". "L'anima insegna senza posa" gli spiegò Rabbi Pinhas "ma non ripete mai."5 Interrogati senza darti risposte
Ho chiesto a Loredana: "Ma tu cosa vuoi?". Ognuno dovrebbe chiedersi, tutti i giorni quando si sveglia: "Io che cosa voglio?". E poi non darsi la risposta. Il segreto sta proprio nel non rispondersi e nel dirsi: "Aspetto"! Così ha fatto Loredana e, dopo qualche giorno, mi ha chiamato: "Sì, sono come le mie amiche, li voglio tutti e due. Da quando ho smesso di tormentarmi su cosa dovevo desiderare, è arrivata la pace. Con l'altro mi piace fare l'amore, con mio marito apprezzo l'idea di solidità, di famiglia". Occorre smetterla di pensare di essere "speciali", di essere protagonisti della vita, di pensare "io non sono come le miei amiche...". Prendere atto che non sappiamo decidere, che siamo attratti da due modelli di vita differenti, ci fa diventare donne e uomini responsabili. Occorre alzarsi il mattino e dirsi: "Io che cosa voglio?", e non rispondersi ma aspettare. La risposta non verrà dalla mente, dai pensieri, ma dall'anima che vive nel senza tempo, che "se ne frega" delle nostre finte decisioni sui matrimoni, gli amori, le diete, le palestre. L'anima ci fa innamorare per "allargare lo sguardo", non per fare il moralista o il bigotto, ma per sentirci diversi. Non decidere tu, l'anima sa farlo meglio! Soprattutto quando non la riempi di dubbi, auto-definizioni, false illusioni. Com'è finita Loredana? Sta meglio con se stessa, e ha compreso che non c'è niente da scegliere e da decidere. Ora è serena. Le decisioni le prenderà la sua anima, senza soffrire, quando e se sarà necessario. Giuliano Kremmerz, a questo proposito, afferma che è indispensabile abbandonarci all'ignoto, lasciando che dall'ignoto affiori il nostro stile di procedere: "Il mare dell'ignoto è immenso: v'è chi viaggia nei veloci transatlantici, chi sulle navi a vela contentandosi delle raffiche, chi sui battelli da pesca, chi sulle zattere".6 Qualcosa dentro di te vuole solo maturare È di moda il lifting, e la sua corsa sembra inarrestabile. Non
importa che il risultato sia di trovare visi tutti uguali, labbra deformate, zigomi prorompenti, pelle del collo tirata all'inverosimile, seni che resistono alla forza di gravita'. Non importa. Nel 2005 gli interventi di lifting sono stati circa settecentomila, il venti per cento in più dell'anno prima. Sono in forte aumento le ragazze che, a diciotto anni, chiedono come regalo di compleanno un seno nuovo. Qualcuno dirà: "Che male c'è? Con tutto quello che succede nel mondo, perché dovremmo preoccuparci anche dell'estetica, del corpo che uomini e donne vogliono rifarsi per restare giovani, per apparire più belli?". Non c'è nulla di male, solo che, andare a correggere il proprio corpo per ispirarsi a un modello mentale - quello dell'eterna giovinezza, per esempio - comporta conseguenze profonde sulla nostra interiorità. C'è qualcosa dentro di noi che vuole invecchiare, che vuole portare a maturazione il frutto che ciascuno di noi incarna. Questo qualcosa, per la psicologia analitica, è il Sé, il centro misterioso della nostra vita psichica, a cui interessa che siamo in sintonia con la nostra vera essenza, con la pianta, con l'albero che siamo, e che ci detesta quanto più siamo superficiali, prigionieri dei luoghi comuni, delle mode, delle somiglianze. Il Sé detesta che tu diventi una fotocopia... Così come sono quasi tutte fotocopie l'una dell'altra le attrici che vediamo, con super labbra, super zigomi, super tette... Super uguali! Maturare è il nostro compito nella vita, e non diventare caricature. Invecchiare è la cosa più importante che può capitare a un essere vivente. Non dimentichiamoci che i Saggi di tutte le tradizioni orientali e occidentali, diventano tali solo dopo una certa età; da giovani il cervello non possiede le "sostanze della saggezza". Maturare vuol dire occuparsi di più del nostro mondo interiore, diventare più introversi, più profondi, scoprire po-
tenzialità e interessi che quando eravamo giovani non potevamo coltivare, perché troppo presi dagli affanni della vita, dal lavoro, dai figli, dagli attaccamenti, dalle perdite di tempo, dai luoghi comuni. Invecchiando si diventa semplici, concreti, liberi dalle mode, saggi. Mai frase è più sbagliata di questa: "Ormai, alla mia età...". L'età matura nasconde veri tesori, e soprattutto permette l'incontro più magico che esiste: quello con te stesso, con la tua intimità, che porterà a vedere le cose da fuori, senza il coinvolgimento degli anni giovanili, con lo sguardo di chi conosce la vita. Non potrai trovare questi tesori se sei lì a inseguire un ideale di bellezza effimera, se ti metti a rincorrere il mito dell'eterna giovinezza. I Saggi insegnavano che l'età matura è quella giusta per realizzare l'unico "lifting" che conta: quello con la tua intimità, con il tuo nucleo, con la tua essenza... La saggezza chassidica ci dice che, solo liberando la nostra essenza, apriremo le porte al divino che ci abita. Fatti travolgere dalle emozioni Le cose sono sempre più "larghe" di come ci appaiono... Apparentemente quello che ci accade - da un amore finito a un disagio che prorompe dalle tenebre dell'anima, a un'ossessione che strema la nostra psiche - sembra lì, sdraiato davanti a noi che lo guardiamo, che non ne capiamo la ragione, che ci sentiamo esausti, sfiniti. "Perché doveva capitare proprio a me? Dopo tutto quello che ho fatto per lei, perché mi ha lasciato?" oppure: "Perché a letto il nostro rapporto funziona così bene e poi nella vita di tutti i giorni c'è tanta sofferenza?" La verità è che noi "personalizziamo" i dolori, le storie, gli incontri, le relazioni. Personalizzarli vuol dire vederli solo con i nostri occhi, con i nostri soliti "vecchi occhi". Non pensiamo mai che la nostra compagna o il nostro compagno siano solo l'ombra di ciò che appare, e a quell'ombra ci attacchiamo come fosse certezza e verità.
La lei o il lui che è al tuo fianco è in realtà di una "larghezza" inimmaginabile. Sì, non è quella che va a fare la spesa, che allatta i bambini, che li veste, che li fa giocare, non ha niente a che vedere con quella che conosco. Lui non è quello che conosco. Ciò che mi appare di lei o di lui è ancora ombra, è solo un segmento della realtà. Al nostro fianco non c'è una lei o un lui in carne e ossa, ma una dea o un dio, che si nasconde tra le cose che fa, che dice, che pensa, che recita. Ognuno di noi è più "largo" di ciò che appare, ed è al di là delle cose e della vita che conduce. Mentre siamo presi dalle ombre, mentre ci tormentiamo di gelosia, di invidia, di risentimenti, dobbiamo sempre chiederci: "Il mio personaggio nascosto dov'è? Che cosa desidera, che cosa gli piace fare in questo momento?". Non si tratta di darsi risposte, ma di aprire le porte al mistero... Quella con cui facciamo l'amore non è la nostra compagna di letto, ma la sembianza di Venere che, mai e poi mai, vuole essere collocata in uno schema o peggio nella pornografia. Venere non vuole servire il caffè a letto, e neppure essere usata; se lo si fa, si ribella. Quando tutto si rompe, quando gli amori finiscono non è perché uno di noi si è stancato, dipende piuttosto dal fatto che i nostri dèi non erano soddisfatti di noi, di come li trattavamo, del fatto che volevamo sempre guidare la nostra vita, controllarla, dominarla. Insomma, gli dèi "se ne fregano" dei nostri progetti, della nostra voglia di pensionamento, di avere una vita regolare, normale. E neppure ci vogliono compagni contenti di donne soddisfatte. No, vogliono che diventiamo più "larghi", che ci facciamo travolgere dalle emozioni, che perdiamo la testa, che non siamo segmenti ma rette infinite. Insomma, se nella nostra vita tutto è tranquillo, gli dèi non sono contenti. Ecco perché arrivano le crisi: per trasformarci, per farci scendere in campo, per rimetterci in gioco. Solo chi è in gioco conosce l'infinito che lo abita. Con il piacere arriva anche la soluzione
Anche Miriam mi scrive per parlarmi delle sue contraddizioni, di una vita in cui non è mai stata capace di scegliere, in cui si è sempre sentita in lotta con se stessa. Mi soffermo sulla sua lettera perché riguarda ognuno di noi. Chi non è mai stato in lotta con se stesso? Chi non si è sentito macerato, combattuto in attesa di prendere una decisione? Oppure la sofferenza ci è toccata per il fatto di avvertire dentro di noi sentimenti in contrasto tra loro? Miriam ha trentun anni ed è un'insegnante di Educazione fisica che ha trovato un espediente curioso, ma efficace, per combattere e sradicare gli stati d'animo di segno opposto, quando sente dentro di sé della confusione, quando "non sa che pesci prendere", come per esempio le è capitato nel momento in cui si voleva obbligare a scegliere tra il marito e l'amante, e si sentiva tirare da una parte all'altra. "Mi sentivo lacerare, e la cosa che mi infastidiva è che ogni ragione che adducevo per lasciare mio marito era altrettanto convincente di quella che mi diceva di stare con lui. Parlavo per ore e ore con me stessa, finché arrivavo a essere sfinita, senza forze e, naturalmente... senza avere preso nessuna decisione." Miriam ha fatto anche quello che in genere facciamo tutti, vale a dire ne ha parlato con qualcuno, con le amiche, con il suo preside, con sua madre e, come sempre accade in questi casi, ritrovandosi sempre più incerta dopo ogni colloquio. La soluzione si è incominciata a intravedere quando una sera, spossata, si è lasciata cadere sul letto. "I miei stati d'animo contraddittori mi avevano fatto sentire esausta, completamente senza forze. Ero svuotata; per un istante mi sono detta 'sia quel che sia', io non sono in grado di scegliere." Questa "resa" ha prodotto nel suo intimo uno stato di silenzio, un'assenza di parole, di pensieri che, come un fiume, è sfociato nella pace, nella tranquillità. "In un"oasi' in cui forse non mi sono mai trovata. Ho sentito all'improvviso venire dalla pancia, dai genitali, una sensazione di calore, di fuoco, di intenso piacere. "Senza neppure accorgermene ho incominciato a toccarmi,
e a raggiungere un orgasmo dopo l'altro. Erano completamente diversi da quelli che avevo provato con gli uomini con cui ero stata. "Non c'era nessuna frenesia, erano orgasmi tranquilli, senza pensieri, oserei dire 'orgasmi di pace', silenziosi, bellissimi. Forse non sono mai stata così bene." Da quel momento il suo atteggiamento mentale è cambiato: decide di non decidere, di non essere lei la protagonista. Dopo qualche giorno il suo amante, che per mesi l'aveva supplicata di andare a vivere con lui, le comunica di voler tornare con la moglie. "Le sembrerà strano dottor Morelli, ma quando lui me l'ha detto, non ho provato il benché minimo dolore. "In quel momento mi sono accorta che anche a me lui non interessava più. "La mia smania di dover scegliere a tutti i costi, aveva creato il conflitto, il tormento, l'indecisione." Paolo De Benedetti, filosofo e docente di Giudaismo, afferma: "Non c'è confine stabile tra i vivi e i morti, tra gli angeli e i demoni, tra la pace e il tormento, ogni uomo compie il proprio cammino non tanto guidato da idee e dottrine, quanto, se così possiamo dire, da ciò che sta dietro l'angolo. E quanti incontri misteriosi si fanno dietro l'angolo!".7 I ragionamenti ti indeboliscono Dobbiamo cercare noi stessi in un luogo che non sia abitato dai pensieri, in cui non vi siano decisioni da prendere, in cui siamo a contatto con la nostra essenza. La ghianda non fa nessuna fatica a diventare una quercia maestosa, non si chiede se i suoi incontri, le sue relazioni hanno funzionato o no, se si trova in un buon terreno o se è circondata da piante amiche. Il cervello dell'uomo è come la ghianda: sa in ogni attimo perfettamente cosa fare, dove andare, e sa prendere le decisioni giuste al momento giusto. Lo fa tanto meglio, quanto più ci arrendiamo, e quanto più lo inondiamo di piacere. Come ha fatto Giovanna; prendendo spunto dall'esperienza di questa donna. Quando ci accorgiamo di provare al nostro interno stati d'animo contrastanti, quando siamo in bilico tra due decisioni - lascio o non la-
scio il mio partner, per esempio, cambio lavoro o no, in quale scuola porto il bambino, rompo con la mia amica o recupero l'amicizia - è fondamentale imporsi di non decidere. Per questo è determinante non continuare a pensare, a rimuginare come si fa abitualmente, a addurre motivi validi per l'una o per l'altra tesi. Insomma, guai a ragionarci sopra! Finiremo per esaurirci e, alla fine, per non scegliere lo stesso. I ragionamenti indeboliscono la volontà. Bisogna non opporsi alla presenza di due sentimenti contrastanti, e non pensarci più. L'intelligenza del cervello sceglierà da sola e, improvvisamente, ci troveremo ad avere scelto senza neppure essercene accorti. Anche Epitteto ci dice che esiste un'energia più forte della nostra razionalità, che ci porterà senza sforzo nelle situazioni più adatte a noi: "Tu non devi cercare che le cose procedano a modo tuo, ma volere che elle vadano così come fanno, e bene starà".8 note: 1 Epitteto, Manuale di Epitteto, Società Editrice Internazionale, Torino 1932, p. 12. 2 Ibid. p. 42. 3 Lev Sestov, L'eredità fatale. Etica e ontologia in Plotino, Edizioni Ananke, Torino 2005, p. 121. 4 Ibid. 5 Martin Buber, I dieci gradini della saggezza, Baroli Editori, Novara 2003, p. 67. 6 Giuliano Kremmerz, La porta ermetica, Edizioni mediterranee, Roma 2000, p. 35. 7 Paolo De Benedetti (presentazione di), Racconti di angeli e demoni, Edizioni Gri-baudi, Milano 2000, p. 6. 8 Epitteto, op. cit., p. 14. 9 Il banale è l'immenso Da quello che abbiamo detto sino a ora, il lettore avrà compreso che il "sostare" nelle cose, nelle "azioni minime", il
percepire la propria presenza ulteriore, sono la base di ogni trasformazione, di ogni cambiamento, di ogni realizzazione. Stiamo male perché cerchiamo di cambiare le cose, perché sogniamo un mondo migliore, un paradiso che verrà, mentre l'unica cosa che ci spetterebbe è accorgerci, prendere atto, di quello che stiamo percependo. Essere lì quando si scrive, quando si fa un conto, quando si beve, si mangia... è approdare a quella luce ulteriore e silenziosa che il cervello secerne incessantemente. Non percepirla, non sentire la propria presenza ulteriore, significa diventare meccanici, e quindi... stare male prima o poi. La lotta tra apparenza ed essenza che caratterizza il nostro Io di uomini occidentali, è alla base della nostra infelicità. Noi separiamo il banale dall'immenso e mai ci sembra di essere nel posto giusto al momento giusto. Noi non facciamo niente senza uno scopo o senza riflettere. Nessuno pensa che l'essenza del mondo è lì sdraiata al nostro fianco mentre beviamo il caffè; al contrario, tutti pensiamo che si tratta di un gesto qualsiasi, insignificante; in attesa di altre cose più importanti da fare. Noi siamo sempre in attesa... E il mondo che si affaccia in superficie, le sue forme ci sembrano solo apparenza e quindi banali. Quanti sforzi facciamo per cercare la pace, la beatitudine, il Nirvana (come direbbero i buddhisti), senza raggiungerli mai. Eppure, l'insegnamento di Vermeer è che il Nirvana è qui con noi, adesso! La pace, la beatitudine, la gioia, non dipendono dalla realizzazione di obiettivi, ma solo da un atteggiamento mentale, dal modo in cui guardiamo le cose. Se sei presente quando bevi il caffè... il Nirvana è lì! Scrive Alan Watts, il più grande studioso di Zen: "Poiché il risveglio non si verificherà se si andrà cercando di fuggire o di trasformare il mondo quotidiano della forma, o di allontanarsi dalla particolare esperienza in cui ci si trovi in un dato momento. Ogni tentativo del genere è una manifestazione dell'afferrare. Perfino lo stesso afferrare non va cambiato per forza".1 Anche il risveglio e l'illuminazione, così concepite, non
sono il risultato di uno sforzo, ma una condizione naturale come la felicità che vediamo negli occhi dei bambini. Questa è la via della saggezza. Continua Watts: "Si arriva al punto, allora, in cui risulta chiaro che tutti i propri atti intenzionali - desideri, ideali, stratagemmi - sono vani. In tutto l'universo, dentro e fuori, non c'è nulla di cui prendere possesso, e nessuno che prenda possesso di qualcosa. Questo è stato scoperto mediante la limpida consapevolezza".2 Non dobbiamo fare le cose per degli ideali, dei progetti, o per l'idea che ci siamo fatti della vita. No, dobbiamo immergersi nella presenza ulteriore, senza pensieri e senza intenzioni. E qui, vale la pena distinguere le differenze tra il Santo e il Saggio. Si tratta di sapere che la via della saggezza e quella della santità sono profondamente diverse; stanno agli antipodi. Il Santo viaggia avendo al suo fianco Dio, o almeno così crede. Si libera di tutto, rinuncia a tutto pur di incontrare la "voce" del Sacro, l'immagine dell'infinito. Domine non sum dignus significa: "Signore io sono poca cosa, ma tu fammi la grazia", sud tectum meutn, "fammi la grazia di entrare nel mio mondo, e dì una parola per salvare la mia anima". La ricerca del Mistico e del Santo passano per la rinuncia ai piaceri del mondo: essi ritengono che la vita sia una grande illusione, e che la "carne" sia la grande tentazione. I sensi ingannano: ci fanno credere quello che non è, ci fanno innamorare, desiderare, cercare l'effimero, allontanandoci da Dio. Il Santo vuole domarsi, ed è pronto a ogni sofferenza per sentire la "voce" di Dio, e pensa che più si estranea dal mondo, più controlla la sua avidità, la sua invidia, la sua avarizia e la sua lussuria, e più è sulla strada della realizzazione. Il Santo sa di avere un nemico, il Demonio, che cerca di portarlo verso i piaceri della carne, e contro di lui compie una lotta immane.
Sii Saggio, non Santo. Il Saggio, invece, è collocato in un'altra prospettiva, dove la consapevolezza è la via, forse tutta la via. Il Saggio sa che è abitato da forze sconosciute e si mette nell'atteggiamento di guardarle, di conoscerle... Esattamente il contrario che domarle! Un mio affezionato lettore, Alfredo, mi scrive per dirmi che non vede grandi differenze tra la via ascetica e la via alchemica, forse la più profonda di tutte le strade, di tutti i percorsi che portano alla saggezza, come scrive magistralmente Pessoa: "La via alchemica, la più difficile e la più perfetta di tutte perché comporta una trasmutazione persino della personalità che la prepara, senza grandi rischi, anzi con le difese che le altre vie non hanno".3 Alfredo si chiede, per esempio, che differenza ci sia tra il digiuno del Santo e quello di molti Saggi: "So che tutti i Santi e tantissime religioni danno al digiuno un'importanza fondamentale. Ma anche Saggi come Krishnamurti, Gurdjieff, Aurobindo si astenevano dal cibo. Anche Apu-leio, l'autore dell'Asino d'Oro, che lei molto spesso cita, caro Morelli, esalta il digiuno come via verso l'Assoluto. Come vede, Morelli, Saggi e Santi percorrono strade simili. Sia chi crede che chi non crede, sa che deve fuggire dalle illusioni di questo mondo, deve espiare, sacrificarsi per raggiungere Dio per i Santi, e l'Uno, l'assoluto, per i Saggi". Varrà la pena fare alcune considerazioni. È vero che il Saggio spesso digiuna, ma non lo fa per incontrare Dio e neppure, come si usa dire oggi, per depurarsi dalle scorie, dalle tossine o per dimagrire. No, non ha in mente la via della sofferenza e della espiazione, e non lo fa per un dio di cui non ha nessuna idea. Il Saggio osserva: "Cosa succede quando la bocca è chiusa, quando non mangia?", si chiede. All'allievo che domanda a Rabbi Simlai che differenza ci sia tra prima e dopo la nascita, il grande Saggio risponde che nel neonato, prima della nascita "la [sua] bocca è chiusa e l'ombelico è aperto, mangia ciò che mangia sua madre e beve ciò che beve la madre [...] Appena viene al mondo,
l'organo chiuso (la bocca) si apre, l'organo aperto (l'ombelico) si chiude".4 Se l'embrione e il feto non mangiano con la bocca, ma con l'ombelico, significa che tutto lo sviluppo fetale ed embrionale avviene senza bocca. E senza pensieri, senza ragionamenti. Dentro l'utero si formano tutti gli organi del corpo umano; cervello compreso. Il Saggio digiuna per cercare altri stati energetici, altre dimensioni della coscienza, altri stadi dell'essere. Di certo non vuole espiare, di certo non ritiene che la rinuncia sia la sua via, se non per produrre effetti capaci di portarlo vicino all'essenza, a quel nucleo creativo che incessantemente genera l'essere che siamo. Il motto del Saggio è "digiuno e sto a vedere". Il mondo è tutto qui, vi devono essere energie nascoste, misteriose, che forse il digiuno può liberare. E si guarda bene dal chiamare queste energie "Dio". Mai pensa di dover espiare, sacrificarsi, ma, piuttosto, di dover usare quelle forze che la natura gli mette a disposizione. Digiuna per esaltare la potenza creativa del corpo che l'embrione sembra possedere in modo mirabile. Il Saggio non pensa a un dio da cercare o da trovare: osserva ciò che accade in lui e fuori di lui. Detesta ogni commento, darsi una direzione, sta bene attento a non domarsi, a non farsi condurre dai pensieri, dai ragionamenti e dai giudizi. L'embrione "fa" se stesso, il suo capolavoro, senza pensare, senza esprimere alcun parere su di sé e su quello che sta facendo. Così il Saggio cerca di "ragionare", se può, con l'intelligenza del seme": sta nelle cose, le guarda, le osserva, non si pronuncia, non ha pareri da dare. Il Santo, invece, crede che digiunando, mettendo sullo sfondo la carne, la bocca, il Signore finirà per premiarlo, per trasformare la sua rinuncia in Grazia. Il Saggio porta l'attenzione, lo sguardo sull'interiorità: si accorge che digiunando i pensieri se ne vanno, che la coscienza si libera dalle identificazioni, che diventa "vuota". Non si aspetta l'arrivo di un dio... Non crede, perché sa che
credere significa comunque seguire un pensiero, immettere dentro di sé una certezza... Il Saggio non ha intenzioni. Il segreto è "disidentificarsi". L'alchimista digiuna e non si aspetta niente, constata quel vuoto di pensieri che arriva, che percepisce, quel vuoto che i grandi digiunatori conoscono bene. La via della saggezza è la via della disidentificazione. Il motto di Giuliano Kremmerz, il grande alchimista, è "non credere", scrive infatti: "L'ermetismo che ricerca la verità assoluta come conoscenza perfetta, dice non credere, e purificati da ogni convinzione transitoria per ritrovare in te prima, fuori di te dopo, la visione semplice della Natura che è verità eterna, e quindi scienza assoluta".5 Il grande Saggio sapeva che noi di ogni cosa ci facciamo un'idea, e questa idea è la grande illusione che poi ci guida, prende il sopravvento, ci manipola, ci "vampirizza". E anche qui si tratta di "comportamenti energetici" come nel digiuno, ci si accorge che arriva l'assenza, la riduzione di pensieri, nel "non credere", nel non sentirsi supportati da alcun sostegno, neppure da un'immagine divina, si entra in uno stato interiore che ha la consistenza del Nulla. Nel "non sono niente" del Mistico, dell'asceta, c'è la colpa del peccato da espiare, c'è una distanza incommensurabile tra l'uomo e Dio, tra il creatore e la creatura. Nella percezione degli stati inferiori vuoti, senza pensieri, senza credenze, il Saggio, invece, si avvicina a un'altra dimensione energetica, quella in cui le cose non sono più ammantate da giudizi, da atmosfere del passato, da pensieri consolatori, da una morale da seguire, o da un progetto da realizzare. Il Saggio è solo con quel suo sguardo libero che vede il bene e il male dentro di sé. Non pensa, quando fantasie e immagini trasgressive vengono a trovarlo, che sia il Demonio a mandarle. Guarda e basta. E quando queste se ne vanno, non crede che Dio lo abbia liberato. Non ha un parere da dare su di sé. Dice il grande Saggio Krishnamurti: "Senza libertà totale, ogni percezione, ogni considerazione obiettiva viene stravolta. Soltanto l'uomo totalmente libero riesce a guardare e
a capire immediatamente".6 Dentro di noi non c'è niente, e quel Nulla che si affaccia, mi porta ancora alla dimensione dell'embrione, del seme che non sa eppure "costruisce" la mia pianta, l'albero che sono. Il Saggio, così, non ha alcuna intenzione se non guardare dentro di Sé quell'abisso dove si percepisce soltanto la coscienza, la presenza interiore. Sono qui, guardo ciò che c'è dentro di me e "sia quel che sia". Senza dare spiegazioni. Non ho niente da dire su di me, non mi aspetto niente. Osservo solo che cosa percepisco. Se c'è dolore, guardo il dolore. Non so altro di me, non so chi sono! Il Saggio osserva, fa del "non sapere" la sua via... Non si ritira dal mondo, non medita, non cerca, non crede. È presente a quel vuoto e aspetta che qualcosa accada. Non distingue tra apparenza e reale, non vi sono per lui cose importanti e cose secondarie. Sosta come Vermeer nelle "azioni minime", perché sa che l'essenza e la sua luce sono sempre presenti quando non vengono offuscate dai giudizi e dai pensieri. C'è una differenza sostanziale tra la fede del Mistico, che si affida al Dio che ha depositato nella mente, che vive solo per Lui e i segni che gli manda, e la "fede" del Saggio. "Dal punto di vista del saggio" scrive Emile Cioran "non potrebbe esservi nessun altro più impuro del santo; dal punto di vista di quest'ultimo, nessuno più vuoto del saggio. Sta qui tutta la differenza fra l'uomo che capisce e l'uomo che aspira."7 Il Mistico si affida a un Dio che già conosce, che si è prefissato, e nel lungo e doloroso cammino ascetico aspetta i suoi segni, insomma, il Santo si affida ma sa già cosa cercare, cosa trovare e cosa aspettarsi. Scrive ancora Giuliano Kremmerz: "Il Mistico deve attribuire tutto ciò che può ottenere alla elargizione per grazia di Dio o di un Nume. Lo spirito di santità religiosa subordina la propria unità pensante alla volontà esteriore del padrone di tutte le cose: gl'israeliti su questo argomento sono come i cristiani e i maomettani".8
Ama le contraddizioni Il Saggio no. Si affida al Nulla e basta, a quella dimensione vuota della coscienza, al "senza volto" del Sacro. Poiché non sceglie, il Saggio lascia dentro di sé tutte le contraddizioni: non ritiene che i brutti e i cattivi pensieri siano, come dicevo prima, figli del Demonio da debellare. Quando si affacciano dentro di lui li guarda e basta, senza alcun intento, senza un'idea rassicurante sul Bene e il Male, senza cercare la protezione di qualche immagine salvatrice. "Non credere" significa per lui entrare in una dimensione dove lo sguardo è libero, puro, non offuscato da immagini, nemmeno da quella di un Dio della salvezza. Che coraggio hanno avuto gli alchimisti che si allontanarono dalle concezioni del tempo per osservare solo le trasformazioni che avvenivano dentro di loro, senza curarsi delle credenze degli altri. Forse che un seme deve "crederci" per "fare" la sua pianta? No, la "fa" e basta. Affidandosi semplicemente a un sapere misterioso e sconosciuto, a un'energia che "fa" le cose, le piante, gli animali, gli uomini, senza alcun ragionamento. Un tempo, quando volevo scacciare i miei demoni, ero molto ansioso. Ora ho imparato a non giudicarli, a non reprimerli, a non condannarli. E loro mi hanno fatto un regalo: mi hanno dato la pace, la gioia, la serenità. Naturalmente, quando arrivano questi stati d'animo io bado bene di non trattenerli, constato solo la loro presenza. Questo fanno i Saggi: non credono, vivono! E guardano! Ancora Krishnamurti ammonisce: "O continuate a evolvere lentamente nel dolore, nella sofferenza, nell'ansia e in ogni genere di conflitto, all'infinito, oppure uscite da questa corrente nel suo complesso, in qualsiasi momento, come quando si scende da una barca sulla riva del fiume: potete farlo in qualsiasi momento. Ma soltanto la mente libera può farlo".9 L'universo è tutto ciò che c'è, e il mondo è tutto qui, adesso. Il Nulla, se esiste, deve essere una parte consistente dell'Essere. Il Nulla è una "sostanza" come tutte le cose che tocchiamo e vediamo: se non lo fuggiamo, se lo sentiamo al
nostro fianco, allora non sapremo più chi siamo, dove andiamo, cosa cerchiamo... Non avrò più da credere in qualcosa da trovare e da raggiungere, sarà il Nulla ad azzerare ogni mio pensiero finché resterà il mio cammino, la mia via, quella che mi spetta e che non so cos'è. Se il Saggio ragiona come il Nulla, con il Nulla, non va alla ricerca della causa. Non ritiene che i disagi nascano da un Demonio, da qualcosa o da qualcuno. I pensieri, i ragionamenti cercano le cause delle cose, dei dolori della vita, dell'anima, vogliono spiegarli, capirli, ve dere da dove vengono. Il Saggio guarda e basta. Guarda i disagi, guarda quelle "forze" che chiamiamo peccati, che gli antichi chiamavano dèi, con l'occhio di chi ne vuole percepire la presenza. Si tratta di una percezione differente, di un modo che ha nell'occhio il centro di un mistero. Guardare, osservare, percepire l'interno e l'esterno con l'occhio liberato dal pensiero, dalle cause, con lo sguardo immerso nel presente, è il primo vero grande segreto della saggezza. Lo rivela Arthur Schopenhauer in età avanzata, nei suoi ultimi scritti: "Quando meno uno pensa, tanto più ha gli occhi ovunque: in lui il vedere deve prendere il posto del pensare".10 Quindi, la saggezza consiste nell'"occhio libero", nel vedere le cose come sono, senza alcun commento. I Saggi non sono dei guru, non si vestono di bianco, non camminano sulle acque, francamente detestano i miracoli: trattano il banale e l'immenso alla stessa stregua. Sanno che l'anima si illude e si inganna facilmente, e che il nostro Io ama più le illusioni che la sostanza delle cose, i "giochi di prestigio" piuttosto che il reale. I Saggi seguono la propria natura e la natura degli eventi. Così dice il Maestro Lao Tzu: "Chi segue il Tao segue la terra. La terra segue il cielo. Il cielo segue il Tao. Il Tao segue la propria natura".11 Insomma, non c'è figura più semplice, naturale e cosciente
del Saggio. note: 1 Alan Watts, La via dello Zen, Feltrinelli, Milano 2000, p. 79. 2 Ibid. 3 Fernando Pessoa, Una sóla moltitudine, vol. I, Adelphi, Milano 1979, p. 136. 4 Menachem Brod, I giorni del Messia, Edizioni DLI, Milano 1997, p. 27. 5 Giuliano Kremmerz, La sapienza dei magi, vol. II, Fratelli Melita Editori, Genova 1987, p. 162. 6 Krishnamurti, Sulla libertà, Edizioni Astrolabio, Roma 1996, p. 79. 7 Emile Cioran, Sommario di decomposizione, Adelphi, Milano 1996, p. 166. 8 G. Kremmerz, op. cit., p. 142. 9 Krishnamurti, op. cit., p. 81. 10 Arthur Schopenhauer, L'arte di invecchiare, Adelphi, Milano 2006, p. 97. 11 Lao Tzu, Tao Te Ching, Mondadori, Milano 1998, p. 49. Conclusioni Che cosa da veramente sollievo? Essere lì nelle cose che si fanno. Essere lì, presenti, veramente presenti. In fondo si tratta solo di accorgersene, di essere attenti a quello che si sta facendo. "Attenti" significa avere lo sguardo sull'azione. È questo il mistero della presenza ulteriore, di questa energia che sembra avere un potere immenso. Così ci hanno detto i Saggi, d'Oriente e d'Occidente. Badate bene, i Saggi, cioè gli uomini dalla mente vuota. Non i Santi, che hanno l'anima prigioniera dell'idea che si sono fatti di Dio, e che riempiono il mondo di regole etiche, forse perché diffondendole si sentono meno soli a combattere i demoni, e le tentazioni che da loro provengono. Per questo ho dedicato un capitolo, l'ultimo, a queste due figure, che stanno agli antipodi nella ricerca e nello studio
dell'anima. Molti mi chiedono qual è il mio rapporto con le religioni. Rispondo che le religioni insegnano tanto solo a chi ne è "liberato", a chi ha imparato che il "mondo è tutto qui". Se "il mondo è tutto qui", ogni gesto, anche il più banale, è sacro, perché l'immenso dimora incessantemente dentro di noi. Il coglierne la dimensione è solo un problema di attenzione, di percezione dell'interno, di sosta nelle cose, di accorgersi che io sono presente qualsiasi cosa accada. Essere presenti vuol dire non pensare. Difficile in un'epoca in cui siamo tutti identificati nel pensiero, nel ragionamento, e dove l'interiorità è la grande assente; per questo i suoi silenzi, il suo buio ci fa sempre più paura. Eppure, in questo buio immenso, in questa desolazione che molti provano quando tornano a casa la sera e si buttano sulla TV, o sul telefonino o su Internet, per "parlare" con qualcuno, per non restare soli, c'è una luce immensa, profonda, inimmaginabile. Non può conoscerla l'uomo prigioniero dei giudizi, dei pensieri e delle parole. Può orientarla solo chi si abitua, per qualche istante durante la giornata, a essere presente nelle cose che fa, mentre guida, mentre parla, mentre fa l'amore, mentre telefona... È un problema di energia: essere presenti ci porta in un altro luogo, in un'altra dimensione dell'anima, la stessa che trasforma un seme in una pianta, uno spermatozoo e un ovulo in un embrione e in un uomo. Non c'è da azzerare le cose, "diventare testimoni" come direbbero gli orientali, per staccarsi, per non venire travolti dalle emozioni. No. Se fosse così avremmo un fine in mente, un obiettivo, tipo, appunto, quello di diventare più distaccati. Una finalità, un obiettivo sono parte della mente che ragiona. Io guardo, sono presente quando bevo il caffè, e basta. Sarà l'energia del seme, della presenza ulteriore, a fare di me quello che vuole "la mia pianta". Questo è l'insegnamento di Vermeer sulle "azioni minime", descritto nel primo capitolo. Guarda mentre versi il latte, o rincasi o ti vesti, guarda che
la tua presenza ulteriore, la tua scintilla è lì. Per percepirla non pensare a cosa farai tra un minuto, o cosa è accaduto ieri, o se ti piaci o non ti piaci... Stai lì, nelle cose. Bastano pochi attimi della giornata immersi nelle azioni semplici per vedere cambiare la propria vita, il proprio modo di guardare il mondo. Le radici dell'ebraismo stanno nella luce che era racchiusa in vasi (gelim) che si sono trasformati e hanno portato le "scintille di Dio" in ogni cosa. È questo che fa dire al Saggio chassidico: "Ogni cosa è illuminata". È illuminata la bocca che mangia, l'evacuazione, il respiro, le secrezioni... E queste sono solo le più pensanti, perché altre secrezioni sono la tristezza, il pianto, l'ansia, la tensione. Per questo dobbiamo arrenderci ai disagi che percepiamo e mai, assolutamente mai, riempirli di ragionamenti; così come ha fatto Elisa, il cui caso ho riportato nel terzo capitolo. I pensieri oscurano la scintilla dell'anima, la sua secrezione più sottile e ricca di luce che è la coscienza, la consapevolezza. Posso dire che, in tanti anni di lavoro, ho visto venire da me persone sempre e comunque forti delle loro certezze. "Io so perché sto male, perché lui mi ha lasciato", "perché mia mamma mi tratta male", "perché mio padre non mi ha mai capito", "perché sono stata violentata"... La parola "perché" non è adatta all'anima: l'anima non ragiona. Il nostro Io si illude e si inganna, e trasforma tutto in alibi. Come potrò stare bene se lui non mi vuole più? Se una donna viene violentata la sua vita non sarà più quella di prima... Ci si sbaglia: la presenza interiore non va "in vacanza". Mai. Ermes, il Dio dei bambini, dei ladri e dei furfanti, delle cure del corpo e dell'anima, è sempre vigile dentro di noi. Come la "donna di tutte le donne", Iside, la Dea, il femminile che abita la nostra profondità. Per riparare i danni della vita, i danni che la nostra storia ha prodotto, occorre imparare, almeno per pochi istanti al giorno, a fare le cose senza intenzioni, senza pensieri. A sta-
re nelle azioni, presenti a ciò che si fa. Iside ed Ermes, a chi è presente, a chi si arrende ai dolori che vengono dal profondo, regalano inesorabilmente la pace, la gioia, la vitalità. Per questo è determinante non correggere gli stati d'animo, ma osservarli e cedere, arrendersi, senza l'intenzione di mandarli via. Io sono qui e osservo il disagio che provo, gli "regalo" la mia attenzione, sono presente e non ho alcun commento da fare, nessun pensiero da esprimere. Il dolore che provo ora è quello di questo momento. Non c'entra nulla con quello di ieri o di un'ora fa. La differenza è che ora lo sto guardando, lo sto percependo. Mi sto arrendendo. La mia attenzione è tutta lì. È semplicissimo da attuare, come semplice è essere presenti quando si beve il té, o quando si esce di casa, o mentre si cammina... Normalmente vediamo il mondo dalla parte dei pensieri, si tratta, invece, di spostare lo sguardo sulla presenza interiore. E allora, quella luce che Vermeer ritrae così bene, inonda la nostra interiorità; via via prendiamo possesso di un tesoro impagabile. Dentro le intemperie della vita, fra le onde dell'oceano tumultuoso degli incontri, delle relazioni e dei nostri pensieri, scopriamo che c'è un'"oasi", un porto inviolabile che brilla di luce propria. Via via che si cammina verso l'essenza, verso l'intelligenza del seme" tutto si semplifica. Così hanno detto i Saggi, e così è. Si tratta di impostare l'esistenza sullo sguardo e non sul pensiero. Si tratta di non modificare le cose che ci accadono, di cambiare vita, di ragionare sui nostri drammi e sulla nostra storia. Si tratta di lasciare le cose così come sono e portare l'attenzione sulla presenza interiore, libera dai pensieri, vuota. Sarà questa intelligenza, questa "luce di Vermeer", a portar-
ci dove dobbiamo andare. Mentre tutti pensano e ripensano ai loro disagi, e così li fissano e li cronicizzato, il Saggio guarda e basta. Mentre guarda sa di produrre un elisir, un balsamo risanatore. Ecco cosa diceva il Maestro Huang Po nel IX secolo: "Gli ignoranti evitano il fenomeno, ma non il pensiero; i saggi evitano il pensiero, ma non i fenomeni. [...] Osservate le cose così come sono e non fate attenzione agli altri".1 Fare le cose senza alcuna intenzione, senza alcun pensiero, senza commento, immersi nella presenza interiore, è il centro della salute, del benessere e del nostro destino. nota: 1 Sauro Tronconi, Al di là del peccato di incoscienza, Edizioni Edup, Roma 2003, p. 34.
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