Procedura penale 1 e 2

September 21, 2020 | Author: Anonymous | Category: N/A
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Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi

COMPENDIO DI PROCEDURA PENALE

PRIMA EDIZIONE 2009 A CURA DI

M@RcOnI 1

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi

Indice Sommario 

Capitolo Primo



Capitolo Secondo



Capitolo Terzo



Capitolo Quarto

– Misure Cautelari …………………………….…………………….pag. 92



Capitolo Quinto

– Indagini Preliminari e Udienza Preliminare …………..pag. 115



Capitolo Sesto



Capitolo Settimo



Capitolo Ottavo



Capitolo Nono



Capitolo Decimo

– I Soggetti …………………………………………………...............pag.

3

– Atti

………………………………………………………………pag. 41

– Le Prove

…...……………………………………………………….pag. 70

– Procedimenti Speciali……………………..……………………….pag. 143 Giudizio………………………………………………………………….pag. 166

– Procedimento in Composizione Monocratica………….pag. 183

– Impugnazioni………………………………………………………….pag. 190 – Esecuzione……………………………………………….…………..pag. 233

 SCHEMI DI RIEPILOGO………………………………………………………………..pag. 250

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Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi CAPITOLO I

I SOGGETTI 1. Premessa. E’ opportuno distinguere, anche in considerazione della differente ampiezza dei poteri che in molti casi si ricollega a questa distinzione, tra «soggetto» e «parte». Dovendosi riservare quest'ultima qualifica a chi vanta il diritto ad una decisione giurisdizionale in rapporto ad una pretesa fatta valere nel processo, ne consegue che la qualifica di parte non spetta alla totalità dei soggetti elencati nel libro I del codice. Dev'essere anzitutto escluso il giudice, visto che il suo ruolo istituzionale esige, come fondamentale requisito, quello dell'imparzialità. Neppure la polizia giudiziaria, la persona offesa e il difensore assumono la qualifica di parte, che, invece, compete ai rimanenti soggetti elencati nel libro I. 2. La giurisdizione penale. In piena sintonia con il disposto dell'art. 102 comma 1° Cost., che attribuisce la funzione giurisdizionale a «magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario», l'art. 1 riserva l'esercizio della giurisdizione penale ai «giudici previsti dalle leggi di ordinamento giudiziario». Ciò significa che soltanto il giudice, e non qualsiasi magistrato (quindi, non il pubblico ministero), può essere titolare di funzioni giurisdizionali penali. La qualità di giudice è il risultato di un atto di investitura di potere regolato dalla legge, e precisamente — come stabilisce l'art. 1 — dalle leggi di ordinamento giudiziario. Non può sfuggire lo stretto raccordo intercorrente tra la normativa ordinamentale e quella codicistica, se è vero che il valido esercizio della funzione giurisdizionale risulta fortemente condizionato dalla ritualità dell'investitura. Stabilisce, infatti, l'art. 178 che «è sempre prescritta a pena di nullità [assoluta] l'osservanza delle disposizioni concernenti: a) le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi stabilito dalle leggi di ordinamento giudiziario». L’art. 33, prevedere che le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi giudicanti sono stabiliti dalle leggi di ordinamento giudiziario. Tuttavia la portata di questo enunciato normativo viene ad essere incisivamente circoscritta dai due commi successivi, che individuano una serie di ipotesi dichiarate processualmente irrileti Non vengono considerate attinenti alla capacità del giudice le disposizioni sulla su: «destinazione agli uffici», sulla «formazione dei collegi» e «sulla assegnazione dei processi a sezioni, collegi e giudici». Anche per quanto concerne le disposizioni relative alla formazione dei collegi può essere ribadito il rilievo di una non puntuale pertinenza rispetto al requisito della capacità del giudice. Escluso che rientrino in tale categoria le disposizioni inerenti al numero dei giudici necessari per costituire il collegio, la cui violazione è inequivocabilmente sanzionata con una nullità assoluta (art. 179 comma 1°) sembra doversi ritenete che la locuzione in esame riguardi: a) le disposizioni che regolano la composizione dell'organo giudicante nel caso di assegnazione di un numero di giudici; b) le disposizioni relative alle «supplenze» e alle «applicazioni». Per quanto attiene infine alle disposizioni sulla destinazione del giudice all'ufficio — si pensi ad un trasferimento o all'assegnazione di nuove funzioni giudicanti — esse sono sicuramente riconducibili al concetto di capacità. L'unico attributo rilevante ai fini di un'eventuale incapacità del giudice sembra essere quello della qualifica richiesta per l'esercizio delle funzioni giudiziarie che è chiamato a svolgere. 3. Profili ordinamentali. I precetti costituzionali dedicati sia alla magistratura nel suo complesso sono (artt. 104, 105, 106 comma 1°, 107, 108 e 109 Cost.). Di primaria importanza risulta la distinzione tra giudici straordinari (istituiti successivamente al fatto da giudicare), giudici speciali (figure estranee alla legge di ordinamento giudiziario) e giudici ordinari, contrapponibili ai giudici speciali in quanto traggono la loro legittimazione dall'ordinamento giudiziario. La Costituzione vieta di istituire giudici straordinari o speciali, mentre ammette l'istituzione di giudici specializzati – tipico esempio: il tribunale per i minorenni – in ragione dello specifico oggetto della loro giurisdizione (art. 102 comma 2° Cost.). Restano esclusi dal divieto, conformemente a quanto è desumibile dagli artt. 103 comma 3° e 134 Cost., solo due giudici speciali: i tribunali militari (e gli altri organi giudicanti della giustizia militare) in relazione ai reati militari commessi da appartenenti alle forze armate; la Corte costituzionale, nella particolare composizione risultante dall'art. 135 3

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi comma 7° Cost., con riferimento alle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. La categoria dei giudici ordinari, ricomprende i seguenti organi giudicanti: a) giudice di pace: giudice onorario e monocratico, che si contrappone, per un verso, al giudice professionale e, per l'altro verso, al giudice collegiale, il quale risulta composto da una pluralità di magistrati. b) giudice per le indagini preliminari: monocratico. c) giudice dell'udienza preliminare: monocratico. L’art. 6 d. lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, stabilisce che il giudice dell'udienza preliminare debba essere diverso da quello che, nel medesimo procedimento, ha svolto le funzioni di giudice per le indagini preliminari. I commi 2-bis e 2-ter dell'art. 7-bis ord. giud.: la loro introduzione, risalente all'art. 57 comma 1°1. 16 dicembre 1999, n. 479, va ricollegata, da un lato, all'esigenza di assicurare un'elevata qualificazione professionale dei giudici de quibus (il comma 2-bis, integrato dall'art. 24 1. 1° marzo 2001, n. 63, esige che essi abbiano precedentemente svolto per almeno due anni la funzione di giudice del dibattimento o quella di giudice dell'udienza preliminare) C), dall'altro, all'intento di creare le migliori premesse per la terzietà di questi giudici. A tal fine è stata fissata la regola della temporaneità delle funzioni (il comma 2-ter esclude che le medesime possano essere esercitate «per più di dieci anni consecutivi»). d) tribunale ordinario: a seconda della gravità del reato o delle caratteristiche dello stesso – come emergerà meglio in seguito quando si esaminerà il suo doppio ordine di attribuzioni (infra, § 7) – tale organo giudica in composizione monocratica oppure in composizione collegiale, decidendo, in quest'ultimo caso, «con il numero invariabile di tre componenti». L'art. 7-bis comma 2 quarter. ord. giud. (introdotto dall'art. 57 comma 101. 16 dicembre 1999, n. 479) stabilisce che il tribunale in composizione monocratica sia costituito da un magistrato che abbia esercitato la funzione giurisdizionale per non meno di tre anni. Vi è possibilità di una deroga «per imprescindibili e prevalenti esigenze di servizio» (art. 7-bis comma 2-quinquies ord. giud.). e) corte d'assise: giudice collegiale composto da otto magistrati, di cui due togati (magistrati professionali, stabilmente appartenenti all'ordine giudiziario come magistrati di carriera) e sei laici (magistrati onorari, che solo temporaneamente fanno parte dell'ordine giudiziario e sono scelti fra i cittadini in possesso di determinati requisiti), la cui partecipazione all'amministrazione della giustizia va ricollegata al disposto dell'art. 106 comma 2° Cost. f) corte d'appello: giudice collegiale composto da tre magistrati. g) corte d'assise d'appello: giudice collegiale, la cui composizione mista (ai due magistrati togati si vanno ad aggiungere sei giudici onorari o «popolari») ricalca quella della corte d'assise. h) magistrato di sorveglianza: monocratico. i) il tribunale di sorveglianza: giudice collegiale composto da quattro magistrati, di cui due togati e due laici. Al vertice di questo organigramma si colloca la corte di cassazione. La corte di cassazione è divisa in sette sezioni, ciascuna delle quali giudica con cinque componenti, che diventano nove quando tale organo è chiamato a pronunciarsi nella composizione a sezioni unite. Anche i giudici minorili (in relazione ai quali v. diffusamente infra, cap. XII) sono regolati dalla legge di ordinamento giudiziario (artt. 49 ss.): rispetto ad essi, come si è anticipato, è quindi corretta la definizione di giudici ordinari specializzati. 4. Le questioni pregiudiziali. La giurisdizione penale è una giurisdizione autosufficiente, nel senso che ha cognizione autonoma su tutte le questioni strumentali alla pronuncia finale. L’art. 2 stabilisce il dovere del giudice penale di risolvere ogni questione che si ponga come antecedente logicogiuridico della decisione di cui è investito. Quella con cui viene risolta – non a caso il legislatore non parla di «decisione» – la questione logicamente prioritaria è una semplice pronuncia incidentale che può avere natura civile, amministrativa o penale, e che ha rilevanza solo all'interno del procedimento in cui è inserita (cognitio incidenter tantum), senza alcuna efficacia vincolante in nessun altro processo (art. 2 comma 20). Le deroghe alla regola della cognizione incidentale stabilita dall'art. 2 vanno fatte risalire a talune disposizioni del codice che è opportuno suddividere in due categorie. 4

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi Da un lato, si collocano quelle disposizioni che, in caso di controversia sulla proprietà delle cose sequestrate (artt. 263 comma 3° e 324 comma 8°) o confiscate (art. 676 comma 2°), si limitano a devolvere la relativa risoluzione al giudice civile. Quanto appena osservato vale in particolar modo per le questioni pregiudiziali relative allo «stato di famiglia o di cittadinanza» (art. 3). In presenza di una controversia rientrante in una ditali categorie, il giudice penale «può sospendere» il processo – si presuppone, quindi, superato lo stadio procedimentale, in seguito all'avvenuta formulazione dell'imputazione – allorché ricorrano le tre seguenti condizioni: a) deve effettivamente sussistere un rapporto di pregiudizialità tra la risoluzione della controversia sullo stato di famiglia o di cittadinanza e la decisione della regiudicanda penale. Ciò non implica necessariamente un condizionamento sulla decisione circa l'esistenza del reato, essendo da riconnettere l'effetto devolutivo anche a quelle controversie la cui risoluzione influisce sull'esistenza di una condizione di punibilità odi una circostanza aggravante; b) è necessario che la questione pregiudiziale sia seria, vale a dire non mani-lestamente infondata o artificiosa; c) dev'essere già stata proposta l'azione «a norma delle leggi civili». Sarà il giudice a stabilire, di volta in volta, se, nonostante la ricorrenza dei presupposti stabiliti dall'art. 3 comma 1°, non sia preferibile risolvere autonomamente la questione pregiudiziale. Nel caso di sospensione (e di conseguente devoluzione della controversia al giudice «naturale») è prevista la pronuncia di un'ordinanza, che può essere impugnata – senza che si produca l'effetto sospensivo di cui all'art. 588 – in Cassazione (art. 3 comma 2°): nel silenzio della legge si deve ritenere ehe, in conformità con quanto stabilito nel secondo periodo dell'art. 568 comma 3°, siano legittimate al ricorso tutte le parti in quel momento presenti nel processo. Finché dura la sospensione, è ammesso soltanto il compimento degli atti urgenti (art. 3 comma 3) In tema di status, alla sentenza irrevocabile intervenuta in sede extrapenale viene riconosciuta efficacia di giudicato (art. 3 comma 4°). A questo proposito vale anzi la pena di aggiungere che il giudicato civile o amministrativo ha un'identica efficacia vincolante sia se si è formato anteriormente all'inizio del processo penale, sia se, risolta incidenter tantum la questione pregiudiziale nell'ambito del processo penale, è sopraggiunto mentre il medesimo è ancora in corso. Per quanto concerne, infine, l'ulteriore eventualità della decisione extrapenale divenuta irrevocabile dopo la definitiva conclusione del processo penale, soccorre la previsione di cui all'art. 630 lett. c ove la sentenza di condanna dipenda da un accertamento incidentale sconfessato dal giudice civile o amministrativo, potrà essere percorsa la strada della revisione (infra, cap. IX, § 47). La seconda ipotesi di sospensione del processo penale a causa di una questione pregiudiziale è quella prevista dall'art. 479. Qui la controversia da risolvere in via prioritaria non verte su uno status ma su una qualsiasi altra questione di competenza del giudice civile o amministrativo. La sospensione ex art. 479 può essere disposta solo nel corso del dibattimento. L'impronta restrittiva si può cogliere anche nella determinazione dei requisiti inerenti alla questione pregiudiziale: a) la risoluzione della controversia deve condizionare la decisione sull'esistenza del reato; b) l’attributo della serietà non è sufficiente, dal momento che la controversia deve risultare di particolare complessità; c) dev'essere già in corso il relative procedimento presso il giudice civile o amministrativo. Ulteriore condizione stabilita dall'art. 193 è che la legge civile o amministrativa non ponga limitazioni alla prova della situazione soggettiva. Limitazioni che il giudice penale non incontra, con migliori prospettive per la pienezza del suo accertamento, se risolve la controversia in via incidentale. Le divergenze rispetto alla normativa dettata per le questioni pregiudiziali sullo stato di famiglia e di cittadinanza risultano nuovamente marcate. Si consente al giudice di revocare, anche di ufficio, l'ordinanza di sospensione qualora il giudizio civile o amministrativo non si sia concluso nel termine di un anno. Dall'altro, non avendo il legislatore ribadito la prescrizione contenuta nel comma dell'art. 3, risulta precluso il riconoscimento di un'efficacia vincolante della sentenza extrapenale. Quest'ultima viene a far parte del materiale probatorio destinato a costituire la base per la formazione del convincimento del giudice, il quale, in ipotesi, la può anche disattendere, Con l'unico limite di dover esporre in motivazione le ragioni della divergenza. 5. La competenza: per materia, per territorio e per connessione. Il capo II del titolo relativo al giudice è dedicato al tema della «competenza»: vale a dire all'insieme di regole giuridiche che consentono di attuare una distribuzione, in senso orizzontale e verticale, delle regiudicande penali, 5

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi in modo che risulti predeterminato il giudice legittimato a conoscere di ogni 1)1 alimento, come impone il 1° comma dell'art. 25 Cost. Prima di esaminare la normativa sulla competenza, va detto che alle due tradizionali figure (competenza per materia e per territorio) il codice ne ha aggiunta una terza (competenza per connessione). A proposito della competenza per materia, è anzitutto opportuno precisare che il codice, uniformandosi alle indicazioni contenute nella legge delega (art. 2 n. 12), ha tracciato la suddivisione tenendo conto sia del tipo di reato (criterio qualitativo, orientabile su vari parametri quali, ad esempio, la natura o, talora, addirittura la frequenza statistica dell'illecito o la maggiore professionalità del giudice), sia del livello della pena edittale (criterio quantitativo), per il cui calcolo lo stesso legislatore delegante ha fornito taluni criteri puntualmente recepiti dall'art. 4. Quest'articolo dispone che bisogna tenere conto della pena – o, meglio, del massimo della pena – stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato, per cui, nella seconda ipotesi, la pena edittale deve essere diminuita di un terzo (art. 56 comma 2° c.p.). Viene contestualmente esclusa l'incidenza della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, salvo che si tratti delle aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa (come quando, per esempio, si passa dalla reclusione all'ergastolo) o di quelle ad effetto special. Più specificamente risultano affidati alla corte d'assise (art. 5): a) i delitti puniti con l'ergastolo o con la reclusione non inferiore nel massimo a ventiquattro anni, fatta eccezione per i delitti di tentato omicidio, di rapina e di estorsione, comunque aggravati, non-ché per i delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione (sempre che non ne sia conseguita la morte della persona offesa, nel qual caso si rientra nell'ipotesi sub c) , e per quelli previsti dal d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 in materia di sostanze stupefacenti; b) i delitti consumati - esclusi, dunque, quelli rimasti allo stadio del tentativo- di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.), omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.); c) ogni delitto doloso, qualora dal fatto sia derivata la morte di una o più persone, escluse le ipotesi di morte come conseguenza non voluta di altro reato (art. 586 c.p.), di morte avvenuta in seguito a rissa (art. 588 c.p.) e di morte derivante da omissione di soccorso (art. 593 c.p.); d) i delitti di riorganizzazione del partito fascista, i delitti di genocidio e i delitti contro la personalità dello Stato puniti con pena edittale non inferiore nel massimo a dieci anni. Quanto al tribunale, la sua competenza si ricava per sottrazione, come risulta dall'art. 6 che, dopo l'aggiornamento operato dall'art. 47 d. lgs. 28 agosto 2000, n. 274, lo investe dei reali non appartenenti alla competenza della corte di assise o del giudice di pace. Per quanto riguarda la competenza per territorio, la regola fondamentale è quella del luogo in cui il reato è stato consumato (art. 8 comma 1°). Ad essa il legislatore fa seguire: a) altre regole di carattere generale che derogano al criterio del locus commissi delictii in ragione della particolare configurazione della fattispecie delittuosa; b)talune regole «suppletive», che consentono l'individuazione del giudice territorialmente competente quando non è possibile applicare le regole generali. Le ipotesi che giustificano una deviazione dalla regola base sono quelle del fatto che abbia cagionato la morte di una o più persone, del reato permanente e del delitto tentato (art. 8 commi 2°, 3° e 4°). Nel primo caso, è parso preferibile radicare la competenza nel luogo in cui è avvenuta l'azione o l'omissione: in tale luogo, infatti, si è creato l'allarme sociale ed è più agevole la ricerca delle prove. Nelle altre due ipotesi si è optato, rispettivamente, per il criterio del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione, anche se dal fatto è derivata la morte di una o più persone (essendo ne della permanenza), e per il criterio del luogo in cui è stato compiuto l'ultimo atto diretto a commettere il delitto. Quanto alle regole suppletive, occorre rispettare la gerarchia interna risultante dall'art. 9. Con la conseguenza che è prioritario il criterio del luogo o dell'ultimo, se i luoghi sono più di uno – in cui è avvenuta una parte dell'azione o dell'omissione; seguono, in successione, il criterio della residenza, della dimora, del domicilio dell'imputato; ed, infine, quello «del luogo in cui ha sede l'ufficio del pubblico ministero che ha provveduto per primo a iscrivere la notizia di reato nel registro previsto dall'art.. 335» (art. 9 comma 3°). La normativa esaminata si applica anche quando il reato è stato commesso in parte all'estero (art. 10 comma 3°), mentre in caso di reato commesso interamente all'estero risultano indispensabili taluni adeguamenti. La competenza viene pertanto ad essere consecutivamente determinata dal luogo della residenza, della dimora, del domicilio, dell'arresto o della consegna dell'imputato, con prevalenza – se più sono gli imputati - del giudice competente per il maggior numero di essi (art. 10 comma 1°). Vale anche qui, come ultima regola, quella che privilegia il giudice del luogo in cui è avvenuta la prima iscrizione nel registro contemplato dall'art. 335 (art. 10 comma 2°). 6

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi Numerose deroghe alla regola del locus commissi delicti traggono la loro legittimazione dall'art. 210 disp. att., il quale stabilisce che continuano ad osservarsi le disposizioni di leggi o decreti disciplinanti la competenza per territorio sulla base di criteri non coincidenti con quello fissato dall'art. 8 comma 1°. Altre deroghe sono, inoltre, riconducibili a leggi successive alla pubblicazione del codice. Tra le varie ipotesi si possono menzionare: i reati commessi dal presidente del Consiglio dei ministri o dai ministri nell'esercizio delle loro funzioni, rispetto ai quali è competente il tribunale ubicato nel capoluogo del distretto di corte d'appello (art. 11 1. cost. 16 gennaio 1989, n. 1); la diffamazione commessa attraverso trasmissioni radiofoniche o televisive, che implica la competenza del giudice del luogo in cui ha la residenza la persona offesa (art. 30 comma 5°1. 6 agosto 1990, n. 223). In due situazioni, è lo stesso codice che crea regole ad hoc. Una prima deroga è quella risultante dall'art. 328 commi 1-bis e 1-ter, che riguardano, rispettivamente, i procedimenti relativi ai delitti elencati nell'art. 51 comma 3-bis e a quelli, caratterizzati da finalità di terrorismo, di cui all'art. 51 comma 3-quater. In tal caso le funzioni di giudice per le indagini preliminari nonché quelle di giudice dell'udienza preliminare – come precisato dall'art. 4-bis d.l. 7 aprile 2000, n. 82 (convertito con 1. 5 giugno 2000, n. 144) – sono esercitate da un magistrato appartenente al tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice. Del tutto particolare è poi la seconda situazione, che riposa su un duplice presupposto (art. 11): a) l'esistenza di un procedimento penale in cui un magistrato (giudice o pubblico ministero, anche se, come precisato il cui incarico sia caratterizzato dalla stabilità) assuma la qualità di imputato ovvero quella di persona offesa o danneggiata dal reato; b) la competenza, in relazione al fatto per il quale si procede, di un ufficio giudiziario ricompreso nel distretto di corte di appello in cui lo stesso magistrato esercita le proprie funzioni, ovvero le esercitava al momento del fatto. La competenza per i procedimenti previsti dall'art. 11 spetta ora al giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede «nel capoluogo del distretto di corte di appello determinato dalla legge», sulla scorta di una tabella – allegata alle disposizioni di attuazione — incentrata sul criterio della circolarità La connessione è criterio autonomo di attribuzione di competenza. Una scelta che comporta l'automatico confluire davanti ad un unito giudice di procedimenti, riservati in base alle regole sulla competenza per materia e per territorio, a giudici diversi. Attualmente, dopo i vari interventi a cui si è accennato, l'art. 12 dispone che si ha connessione di procedimenti: a) se il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso o — trattandosi di reato colposo in cooperazione tra loro, ovvero se più persone, con condotte indipendenti, hanno determinato l'evento; b) se una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione (concorso formale) ovvero con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso (reato continuato); c) se dei reati per cui si procede taluni sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri. Anche i criteri dettati per la determinazione del giudice competente nel caso di procedimenti connessi riflettono l'esigenza di non concedere spazio a scelte discrezionali. È prioritario il criterio del giudice superiore, dal quale discende che i procedimenti di competenza del tribunale risulta-no automaticamente attribuiti alla corte d'assise (art. 15); quando invece ci si muove esclusivamente sul versante della competenza territoriale — coinvolgendo i procedimenti connessi più giudici ugualmente competenti per materia — prevale il giudice competente per il reato più grave (alla stregua dei parametri forniti dall'art. 16 comma 3°) o, in caso di pari gravità, quello_ competente per il primo reato (art. 16 comma 1°). Nel caso di concorso di persone o di condotte indipendenti, le azioni o le omissioni sono state commesse in luoghi diversi e dal fatto è derivata la morte di una persona: in deroga al criterio generale stabilito dall'art. 8 comma 2°, si attribuisce la competenza al giudice del luogo in cui si è verificato l'evento (art. 16 comma 2°). Criteri particolari sono, inoltre, dettati per la connessione di procedi-menti di competenza di giudici ordinari e speciali. Nell'ipotesi di competenza concorrente tra Corte costituzionale e giudice ordinario, prevale la prima (art. 13 comma 1°), mentre nel rapporto tra giudice militare e giudice ordinario vale la regola opposta, fermo restando, tuttavia, che la connessione opera solo quando il reato comune è più grave di quello militare (art 13 comma 2°). Per i procedimenti relativi ad imputati che, al momento del fatto, erano minorenni, e procedimenti relativi ad imputati maggiorenni, la connessione non opera.

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Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi 6. La competenza funzionale. La competenza funzionale ha a riguardo varie figure di giudici che si differenziano non già in base a coordinate esterne (tipo di reato, collocazione spaziale), ma in ragione della funzione che gli stessi svolgono nell’ambito di un medesimo procedimento. Partendo dalla suddivisione per gradi, è possibile distinguere tra giudice di pace, tribunale ordinario e corte d'assise (giudici di primo grado), tribunale (in composizione monocratica), corte d'appello e corte d'assise d'appello (giudici di secondo grado) corte di cassazione, cui è demandato il controllo di legittimità sulle decisioni assunte nei gradi precedenti. Progredendo nella suddivisione, viene in rilievo l'articolazione in fasi, a cominciare dalla fase anteriore al giudizio, nella quale si collocano l'attività del giudice per le indagini preliminari e, successivamente, quella del giudice dell'udienza preliminare. Seguono la fase del giudizio, con riferimento alla quale sono funzionalmente competenti il tribunale, la corte d'assise, la corte d'appello, la corte d'assise d'appello, la corte di cassazione, e, quindi, la fase dell'esecuzione. Rispetto ad essa vanno distinte le funzioni del giudice di esecuzione da quelle della magistratura di sorveglianza, al cui interno emerge l'ulteriore ripartizione tra le funzioni del magistrato di sorveglianza (giudice di primo grado) e quelle del tribunale di sorveglianza. Per quanto concerne, infine, la competenza funzionale che si incentra sulla specifiche attribuzioni di un determinato giudice, non si può andare al di là di un'esemplificazione. Ci si limita, pertanto, a ricordare le funzioni espressamente riservate al presidente del collegio giudicante (artt. 465, 467 e 468), quelle espletate dal tribunale — in composizione collegiale (artt. 309 comma 7° e 310 comma 2°) — quale giudice del riesame o dell'appello. 7. Le «attribuzioni» del tribunale. L'appurato che in relazione ad un certo reato deve giudicare il tribunale, s'impone un ulteriore passaggio logico che permetta di stabilire se sia richiesta la composizione monocratica ovvero quella collegiale. In questo caso il criterio di ripartizione non è più basato sul concetto di competenza, che regola la distribuzione fra i diversi uffici giudicanti, ma su una sua sottocategoria che il legislatore ha indicato con il termine «attribuzione». L'attribuzione al tribunale in composizione monocratica dei delitti puniti con pena uguale od inferiore nel massimo a venti anni. Nelle sezioni distaccate sono trattati unicamente «gli affari civili e penali sui quali il tribunale giudica in composizione monocratica» (per una possibile deroga, v. però il disposto dell'art. 48-quinquies ord. giud.). Lo stesso art. 48-quater comma l° ord. giud. chiarisce, inoltre, che giudica in composizione monocratica il tribunale della sezione distaccata, anziché quello ubicato nella sede principale, quando il luogo in base al quale si determina la competenza per territorio ai sensi degli artt. 8 e 9 rientra nella circoscrizione della sezione. La riformulazione degli artt. 33-bis e 33-ter è stata determinata dal proposito di ridimensionare le attribuzioni originariamente previste per il giudice monocratico, come si ricava senza possibilità di equivoci dalla correzione apportata al criterio quantitativo, che attualmente consente di devolvere al tribunale "collegiale" i delitti puniti con la reclusione superiore nel massimo a dieci anni, anche nell'ipotesi del tentative. Il limite dei dieci anni va calcolato applicando le regole dettate dall'art. 4 (art. 33-bis comma 2°). Il criterio quantitativo va tuttavia coordinato con quello qualitativo, che implica deroghe di non trascurabile portata: per un verso, risultano sottratti al tribunale "collegiale" taluni delitti puniti con la reclusione superiore talora, anche ampiamente – a dieci anni, e, per un altro verso, gli vengono attribuiti reati che, in base al suddetto criterio quantitativo, dovrebbero essere giudicati dal tribunale in composizione monocratica. Per quanto concerne la prima della due deroghe vengono in rilievo i delitti previsti dall'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 in materia di sostanze stupefacenti, fermo restando che su di essi giudica comunque il tribunale in composizione collegiale quando siano contestate le aggravanti di cui all'art. 80 del medesimo testo unico (art. 33-ter comma 1°). Relativamente alla seconda situazione, riguardante i reati puniti con la reclusione non superiore a dieci anni, bisogna far capo all'elenco risultante dal 1° comma dell'art. 33- bis. Quanto alle attribuzioni del tribunale in composizione monocratica, vile la regola della complementarietà. Oltre che sui delitti previsti dall'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (purché non aggravati ai sensi del successivo art. 80), il tribunale "monocratico" giudica, pertanto, sui reati non attribuiti al tribunale "collegiale" dall'art. 33-bis o da altre disposizioni di legge (art. 33-ter). 8

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi Precisata la sfera cognitiva delle due diverse composizioni del tribunale, resta da stabilire l'incidenza di un eventuale vincolo connettivo. Quando il vincolo riconducibile a taluna delle ipotesi previste dall'art. 12 (retro, § 5) intercorre tra procedimenti dei quali alcuni appartengono alla cognizione del tribunale "collegiale" e altri a quella del tribunale "monocratico", si applicano le disposizioni relative al procedimento davanti al giudice collegiale, cui sono attribuiti tutti i procedimenti connessi. Non può essere considerato casuale che il legislatore abbia sancito l'applicabilità delle disposizioni relative al «procedimento» da-vanti al giudice collegiale: se ne deve dedurre che l'incidenza della connessione non è circoscritta alla fase dibattimentale, ma opera anche in rapporto alle indagini preliminari. 8. La disciplina della riunione e della separazione dei processi. La riunione e la separazione sono istituti che operano a partire dal momento in cui, in seguito all'esercizio dell'azione penale, il procedimento si è evoluto in «processo». La riunione dei processi produce come risultato la trattazione congiunta di processi in precedenza pendenti davanti a diversi giudici, sezioni (o anche composizioni, nel caso del tribunale) dello stesso ufficio giudiziario, Dall'art. 17 comma 1° si ricava che per la riunione dei processi devono sussistere i seguenti presupposti: 1) la pendenza davanti al medesimo ufficio giudiziario dei processi da riunire; 2) uno sviluppo omogeneo di questi ultimi, che devono trovarsi «nello stesso stato e grado»; 3) una prognosi negativa circa un possibile ritardo nella definizione delle singole vicende processuali; 4) la sussistenza di uno dei casi tassativamente indicati dalla legge. Relativamente alla trattazione separate dei singoli processi è di ostacolo alla riunione la prospettiva di un (semplice) ritardo nella loro definizione. La riunione può essere disposta quando i processi pendenti siano connessi ai sensi dell'art. 12 (art. 17 comma 1° lett. a), nonché — in seguito quando siano relativi ai reati dei quali taluni siano stati commessi in occasione di altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l'impunità, o che sono stati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre, ovvero se la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla provo di un altro reato o di un'altra circostanza. Qualora venga esclusa la sussistenza di un pregiudizio, in termini di «ritardo nella definizione», per i processi pendenti, la riunione costituisca un atto dovuto. Negli stessi casi e alle stesse condizioni risultanti dall'art. 17 comma 1° si procede alla riunione configurata dal comma successivo, in cui si stabilisce che se alcuni dei processi pendono davanti alle due diverse composizioni di un medesimo tribunale, viene disposto l'accorpamento in capo al tribunale in composizione collegiale, il quale si pronuncerà su tutte le regiudicande anche nell'eventualità in cui esse siano oggetto di un successivo provvedimento di separazione (art. 17 comma 1-bis). La separazione è disciplinata dall'art. 18, che, nel 1° comma. Si tratta di ipotesi accomunate dal fatto che per taluni imputati o talune imputazioni si versa in una situazione di attesa, mentre per altri imputati o per altre imputazioni è possibile l'immediata trattazione. E’ stata introdotta un'ulteriore ipotesi di separazione, da disporre quando il processo abbia come protagonisti uno o più imputati chiamati a rispondere di reati di elevata gravità – quelli previsti dall'art. 407 comma 2° lett. a – sempre che tali imputati siano prossimi ad essere rimessi in libertà per scadenza dei termini massimi di custodia cautelare (infra, cap. IV, § 19), data la mancanza di altri titoli di detenzione. Alla base della separazione vi sono dunque esigenze di celerità che, tuttavia, soccombono di fronte alle esigenze di accertamento. La separazione è infatti esclusa qualora il giudice ritenga che la riunione sia assolutamente necessaria per l'accertamento dei fatti (art. 18 comma 1°). Al di fuori delle ipotesi di cui si è parlato, la separazione dei processi può essere altresì disposta sulla base di un accordo tra le parti, sempre che il giudice la reputi utile sotto il profilo della speditezza (art. 18 comma 2°). Per i provvedimenti in tema di riunione e di separazione dei processi è prescritta la forma dell'ordinanza, che può essere emessa anche d'ufficio, sentite le parti (art. 19). 9. I procedimenti di verifica della giurisdizione e della competenza. In questa direzione gli artt. 20 e 21 indicano i momenti in cui può esse-re sollevata la relativa questione. Quanto al difetto di giurisdizione si prevede che lo stesso possa essere rilevato, anche d'ufficio, in ogni stato e grado del «procedimento» (art. 20 comma 1°): quindi, a cominciare dalla fase delle indagini preliminari. 9

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi Se il difetto di giurisdizione è rilevato nel corso delle indagini preliminari, il giudice provvede con ordinanza e dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero. Dopo la chiusura delle indagini preliminari e in ogni stato e grado del processo, il giudice pronuncia, invece sentenza e ordina, eccettuata l'ipotesi di un difetto assoluto di giurisdizione, che gli atti vengano trasmessi all'autorità competente (art. 20 comma 2°). L'incompetenza per materia, può essere rilevata anche d'ufficio in ogni stato e grado del «processo» (non prima, quindi, che sia stata esercitata l'azione penale). L'incompetenza per territorio e per connessione, invece, deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare o, se questa man-chi, ovvero se l'eccezione venga respinta in sede di udienza preliminare, entro, il termine previsto dall'art. 491 comma 1° per la trattazione delle questioni preliminari (art. 21 commi 2° e 3°). Si è accennato a due situazioni che comportano una deroga all'ordinario regime dell'incompetenza per materia: la prima ricorre quando il giudice conosce di un reato che appartiene alla cognizione di un giudice di competenza inferiore. L'incompetenza deve essere rilevata d'ufficio o eccepita, a pena di decadenza, entro il termine stabilito dall'art. 491 comma 1° (art. 23 comma 2°). La seconda deroga concerne l'ipotesi dell'incompetenza per materia derivante da connessione, che, in base all'art. 21 comma 3°, deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, entro gli stessi termini stabiliti per l'incompetenza per territorio. Più precisamente: al nel corso delle indagini preliminari, il giudice che riconosca la propria incompetenza pronuncia ordinanza (con effetti circoscritti al provvedimento richiesto) e dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero (art. 22 commi 1° e 2°); b) dopo la chiusura delle indagini preliminari e in sede di dibattimento di primo grado, il giudice dichiara con sentenza la propria incompetenza e ordini la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice competente; c) in grado di appello si pronuncia la sentenza di annullamento si ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice di primo grado (art. 24 comma 1°). Nel giudizio davanti alla corte di cassazione, quest'ultima è tenuta a dichiarare, anche d'ufficio, l'incompetenza per materia derivante dall'avere il tribunale giudicato un reato di competenza della corte d'assise; può essere eventualmente dichiarata anche l'incompetenza per territorio o per connessione, purché la relativa eccezione, tempestivamente proposta in primo grado e riproposta nei motivi di appello, sia stata ulteriormente riproposta nei motivi del ricorso per cassazione. Da notare che la decisione della corte di cassazione sulla giurisdizione o sulla competenza è vincolante nel corso del processo: può essere superata nella sola ipotesi in cui risultino nuovi fatti. Il mancato rispetto delle norme sulla competenza non determina l'inefficacia delle prove acquisite, con la sola parziale eccezione delle dichiarazioni rese al giudice incompetente per materia che, se ripetibili, possono essere utilizzate soltanto in sede di udienza preliminare e per le contestazioni regolate dagli artt. 500 e 503. La seconda prevede che le misure cautelari (personali e reali), disposte da un giudice dichiaratosi incompetente contestualmente o successivamente alla loro pronuncia, cessino di avere efficacia qualora entro venti giorni dall'ordinanza di trasmissione degli atti al giudice competente non siano confermate da quest'ultimo ai sensi degli artt. 292, 317 e 321. Gli artt. 28-32, che si occupano dei conflitti tra giudici. Il conflitto è una situazione che si determina quando, in qualsiasi stato e grado del processo, due o più giudici contemporaneamente prendono (conflitto positivo) o rifiutano di prendere (conflitto negativo) cognizione del medesimo fatto – quale che sia la sua qualificazione giuridica – attribuito alla stessa persona. Ad originare il procedimento di conflitto è una «denuncia» di parte, privata o pubblica, o una «rilevazione» d'ufficio del giudice. L'elevazione del conflitto non ha effetti sospensivi sul processo in corso. Lo sviluppo del procedimento incidentale è scandito dagli artt. 30, 31 e 32, i quali, oltre ad indicare l'organo cui spettala risoluzione del conflitto - la corte di cassazione -- delineano un meccanismo di comunicazione, notificazione e trasmissione di copie di atti tale da garantire la partecipazione al procedi-mento di tutti i soggetti interessati ai processi coinvolti nel conflitto. La corte di cassazione decide con sentenza in camera di consiglio, secondo a procedura stabilita dall'art. 127 (art. 32 comma 1°). Il conflitto cessa anzitutto per effetto dell'iniziativa di uno dei giudici che dichiari, anche di ufficio, la propria competenza, m caso di conflitto negativo, o la propria incompetenza, in caso di conflitto positivo (art. 29). Se ciò non si verifica, bisogna attendere la sentenza della corte di cassazione , che produce gli effetti previsti dall'art. 25: è vincolante, tranne che nell'ipotesi delle modificazioni ivi contemplate, derivanti da fatti nuovi. Quanto agli atti compiuti dal giudice risultato incompetente, bisogna rifarsi al disposto degli artt. 26 e 27, con un unico 10

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi adeguamento: relativamente ai provvedimenti cautelari, il termine diventi giorni di cui all'art. 27 decorre, in questo caso, dalla comunicazione della sentenza della corte al giudice che ha disposto la misura cautelare. 10. Il controllo sul corretto riparto di «attribuzioni» fra tribunale "monocratico" e tribunale "collegiale". L'inosservanza delle disposizioni concernenti l'attribuzione di un reato ad una determinata composizione del tribunale e delle disposizioni processuali collegate alla suddetta attribuzione, deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare ovvero, nei processi in cui si prescinde da tale udienza, entro il termine previsto per la trattazione delle questioni preliminari dall'art. 491 comma 1°. In sede di udienza preliminare, il giudice dell'udienza preliminare dispone con ordinanza che gli atti vengano trasmessi al pubblico ministero, affinché il medesimo provveda ad emettere il decreto di citazione a giudizio contemplato dall'art. 552 (art. 33-sexies comma 1°). Qualora, invece, l'inosservanza delle regole sull'attribuzione del reato venga rilevata nel corso del dibattimento di primo grado, il giudice procede diversamente a seconda che il dibattimento sia stato instaurato in seguito ad udienza preliminare oppure a decreto di citazione diretta a giudizio. Nel primo caso, tanto se emerge che il reato rientra fra le attribuzioni del giudice collegiale, anziché fra quelle del giudice monocratico, quanto nell'ipotesi opposta, è sufficiente trasmettere gli atti, con ordinanza, al giudice competente a decidere sul reato contestato (circa l'eventualità di un conflitto «analogo», retro, § 9). Nel secondo, essendo stato l'imputato indebitamente privato dell'udienza preliminare, l'error in procedendo può essere invece corretto solo mediante una regressione del processo. La questione relativa alla violazione delle regole sulle attribuzioni può essere affrontata anche nel giudizio di appello e in quello di cassazione. Dall'art. 33-octies si desume che: a) quanto al giudice di appello, qualora lo stesso ritenga che dovesse giudicare il tribunale in composizione collegiale, pronuncia sentenza di annullamento e ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice di primo grado; b) quanto alla corte di cassazione è opportuno distinguere tra attribuzione viziata per difetto o per eccesso: nel primo caso, la corte procede come il giudice di appello – sentenza di annullamento e trasmissione degli atti al pubblico ministero; nel secondo vale la stessa regola, purché il ricorso riguardi una sentenza inappellabile o si tratti di un ricorso ai sensi dell'art. 569 comma 1°. Al di fuori di queste ipotesi, l'errore di attribuzione risulta irrilevante. L'art. 26, l'art. 33-nonies stabilisce che in tal caso sono pienamente utilizzabili le prove acquisite. Il medesimo articolo, caratterizzandosi sotto questo profilo rispetto all'art. 26, precisa altresì che non è neppure inficiata la validità degli atti compiuti. Oltre alle disposizioni relative al riparto di attribuzioni fra le due composizioni del tribunale, può essere violata la normativa di ordinamento giudiziario (artt. 48-quater ord. giud.) che consente di ripartire tra sede principale e sezioni distaccate o tra diverse sezioni distaccate i procedimenti nei quali il tribunale giudica in composizione monocratica (retro, § 7). Tale violazione può essere rilevata fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado (art. 163-bis comma 1° disp. att.). Il giudice che la ritenga sussistente, o che ritenga anche solo non manifestamente infondata la relativa questione, rimette gli atti al presidente del tribunale, affinché quest'ultimo si pronunci in proposito con un decreto non motivato e non soggetto ad impugnazione (art. 163-bis comma 2° disp. att.). 11. Le cause personali di estromissione del giudice: incompatibilità, astensione e ricusazione. Nel capo VII del libro I sono regolate le ipotesi in cui il giudice ha l'obbligo di non esercitare la sua funzione giurisdizionale (astensione) e le parti hanno diritto di chiederne l'estromissione (ricusazione). Per quanto riguarda, in particolare, le cause d'incompatibilità, esse sono previste autonomamente negli artt. 34 e 35, nonché negli artt. 18 e 19 ord. giud.; ma, nonostante la configurazione autonoma, risultano ricomprese, in forza di esplicito richiamo, nella stessa disciplina delle ipotesi di astensione e di ricusazione (art. 36 comma 1° lett. g). Per la giurisprudenza l'esistenza di una situazione di incompatibilità costituisce esclusivamente un motivo di ricusazione, che la parte interessata deve far valere tempestivamente (art. 38) qualora il giudice sospetto non abbia ottemperato all'obbligo di astenersi. Come si è anticipato, le cause d'incompatibilità sono stabilite, in parte, dalle leggi di ordinamento giudiziario (in particolare, dagli artt. 18 e 19 ord. giud.) e, in parte, dal codice di rito (artt. 34 e 35). Le prime attengono 11

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi esclusivamente alla costituzione dell'organo giudicante e prefigurano alcune condizioni dirette ad assicurare che la persona chiamata ad esercitare la funzione giurisdizionale non solo sia, ma anche appaia imparziale. Bisogna preliminarmente distinguere tra l'incompatibilità per ragioni di parentela, affinità o coniugio, regolata dall'art. 35 («nello stesso procedimento non possono esercitare funzioni, anche separate o diverse, giudici che sono tra loro coniugi, parenti o affini fino al secondo grado») e l'incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento. Quest'ultima species di incompatibilità è disciplinata dall'art. 34, il quale, dopo l'ampliamento operato dall'art. 171 del decreto attuativo della legge delega in tema di giudice unico (d. lgs. n. 51 del 1998), contempla quattro diversi gruppi di situazioni: a) il giudice che ha pronunciato o ha concorso a pronunciare sentenza in un grado del procedimento non può esercitare funzioni di giudice negli altri gradi, né partecipare al giudizio di rinvio dopo l'annullamento; non può partecipare al giudizio il giudice che ha pronunciato il provvedimento conclusivo dell'udienza preliminare o ha disposto il giudizio immediato o ha emesso decreto penale di condanna, né quello che ha deciso sull'impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedure. Chi aveva funzioni di giudice per le indagini preliminari non può in quello stesso procedimento emettere il decreto penale di condanna, né partecipare al giudizio; inoltre, è incompatibile alla funzione di giudice dell'udienza preliminare (art. 34comma 2-bis). Questa disposizione, introdotta dall'art. 171 d. lgs. n. 51 del 1998, è stata successivamente precisata, nella sua portata, dal comma 2-ter (aggiunto dall'art. 11 1. 16 dicembre 1999, n. 479), il quale, in deroga alla previsione del comma precedente, esclude la ricorrenza di una situazione di incompatibilità allorché il giudice per le indagini preliminari si sia limitato ad adottare, nell'ambito del medesimo procedimento, taluno dei seguenti provvedimenti, ritenuti inidonei a de-terminare una situazione di pregiudizio: a) il provvedimento con cui si autorizza il trasferimento in un luogo esterno di cura dell'indagato sottoposto a custodia cautelare in carcere e quello con cui si autorizza il medesimo ad essere visitato da un sanitario di fiducia (art. 11 commi 2° e 11° ord. penit.); b) i provvedimenti relativi ai permessi di colloquio, alla corrispondenza telefonica e al visto di controllo sulla corrispondenza, concernenti l'indagato sottoposto a custodia cautelare in carcere (art. 18 comma 8° ord. penit.); c) il provvedimento con cui si accoglie o si rigetta la richiesta di un permesso di uscita dal carcere in presenza dell'imminente peri-colo di vita di un familiare o del_ convivente della persona sottoposta ad indagini, ovvero in presenza di altri eventi di particolare gravità inerenti alla sua famiglia (art. 30 commi 1° e 2° ord. penit.); d) il provvedimento con cui una parte o un difensore vengono restituiti in un termine stabilito a pena di decadenza (art. 175); e) il provvedimento con cui viene dichiarata la latitanza dell'indagato (art. 296). Per completare l'elenco, bisogna aggiungere che l'art. 2-quater d.l. 7 aprile 2000, n. 82 (convertito con 1. 5 giugno 2000, n. 144) ha inserito nell'articolo in esame il comma 2-quater, il quale prende in considerazione l'ipotesi in cui il giudice «abbia provveduto all'assunzione dell'incidente probatorio o comunque adottato uno dei provvedimenti previsti dal titolo VII del libro quinto» , titolo dedicato, per l'appunto, all'incidente probatorio - escludendo che ciò basti a configurare a suo carico una situazione di incompatibilità. Dato atto del carattere tutto sommato marginale delle ipotesi derogatorie, bisogna riconoscere che il disposto di cui all'art 34 comma 2-bis risulta innovativo sotto due diversi profili: da un lato, sancendo un'incondizionata incompatibilità al giudizio, assorbe (e supera) sia quella parte dell'art. 34 comma 2° in cui si fa riferimento al giudice che «ha disposto il giudizio immediato o ha emesso il decreto penale di condanna», sia quell'ampio ventaglio delle succitate sentenze della Corte costituzionale che hanno ricollegato l'incompatibilità algiudizio del giudice per le indagini preliminari a specifiche situazioni "pregiudicanti"; dall'altro, escludendo che il giudice per le indagini preliminari possa «tenere l'udienza preliminare», capovolge, come emerge inequivocabilmente dalla riformulazione del secondo periodo dell'art. 7-ter comma 1° ord. giud. (art. 6 lett. a d. lgs. n. 51 del 1998), l'originaria impostazione. e) non può, infine, esercitare l'ufficio di giudice in un determinato procedimento chi, in quello stesso procedimento, ha esercitato funzioni di pubblico ministero o ha svolto atti di polizia giudiziaria ovvero un altro ruolo (difensore o procuratore speciale di una parte, testimone, perito, consulente tecnico) idoneo a comprometterne l'imparzialità. Per quanto concerne le cause di astensione e di ricusazione, esse sono disciplinate unitariamente nella disposizione relativa all'astensione (art. 36). Non si può parlare, però, di una totale coincidenza: non costituisce, infatti, motivo di ricusazione l'ipotesi — non richiamata dall'art. 37 — in cui sussistono non meglio specificate «gravi ragioni di convenienza» (art. 36 lett. h); e, viceversa, non costituisce motivo di 12

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi astensione (a meno di non far ricorso alla generica previsione di cui al citato art. 36 lett. h) la manifestazione indebita da parte del giudice, nell'esercizio delle sue funzioni e prima che sia pronunciata sentenza, del proprio convincimento sui fatti oggetto dell'imputazione, essendo tale ipotesi contemplata soltanto nella disposizione relativa alla ricusazione (art. 37) ("). Per il resto tutti i motivi sono comuni. Va comunque precisato che, per intuitive ragioni di opportunità, è stata fissata la regola secondo cui, concorrendo la dichiarazione di astensione con quella di ricusazione, quest'ultima si considera come non proposta, ove l'astensione venga accolta (art. 39). Il catalogo risultante dagli artt 36 e 37 è tassativo, ed i casi considerati riguardano in linea generale i rapporti del giudice con le parti ovvero con la situazione dedotta in giudizio. Oltre che nell'ipotesi precedentemente richiamata (art. 36 lett. h), ha pertanto l'obbligo di astenersi (e può essere ricusato dalle parti) il giudice che abbia interesse nel procedimento; che sia tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti private ovvero che sia prossimo congiunto — e lo stesso dicasi per il suo coniuge — del difensore, procuratore o curatore di una delle parti; che abbia dato consigli o manifestato il suo parere sull'oggetto del procedimento fuori dell'esercizio delle funzioni giudiziarie; che sia — egli stesso o un suo prossimo congiunto — in rapporto di grave inimicizia con una delle parti private (art. 36 lett. a, b, c, d). E ulteriormente previsto l'obbligo di astensione (e, parallelamente, la ricusabilità del giudice) quando alcuno dei prossimi congiunti del giudice o del coniuge è offeso, danneggiato dal reato o parte privata; quando un prossimo congiunto, suo o del coniuge, svolge o ha svolto nello stesso procedimento funzioni di pubblico ministero; ed, infine, quando, il giudice si trova in taluna delle situazioni di incompatibilità stabilite dagli artt. 34 e 35 e dalle leggi di ordinamento giudiziario (art. 36 lett. e, f, g). Dal punto di vista del procedimento, la divaricazione tra astensione e ricusazione è marcata: mentre per l'astensione è prevista la procedura semplificata di cui all'art. 36 comma 3° («la dichiarazione di astensione è presentata al presidente della corte o del tribunale che decide con decreto senza formalità di procedura»), per la ricusazione si è in presenza di un impianto normativo che persegue. un triplice obiettivo: 1) accentuare il carattere giurisdizionale della procedura incidentale; 2) escludere un'automatica sospensione dell'attività processuale in seguito alla semplice presentazione della domanda di ricusazione; 3) assicurare criteri oggettivi per l'individuazione del giudice che sostituisce quello ricusato. Il procedimento di ricusazione inizia con la presentazione della dichiarazione nella cancelleria del giudice competente e con il deposito di un; copia di questa nella cancelleria del giudice ricusato. Dalla presentazione della dichiarazione scatta il divieto per il giudice ricusato di pronunciare sentenza fino a che non sia intervenuta l'ordinanza d'inammissibilità o di rigetto della dichiarazione stessa (art. 37 comma 2°). Dal canto suo, l'art. 38 fissa i termini entro cui va presentata la domanda di ricusazione e le modalità con le quali essa va proposta: si tratta di termini e di modalità sanciti a pena d'inammissibilità (art. 41). L'art. 40 indica gli organi competenti a decidere sull'istanza di ricusazione (per la riscusazione di un giudice del tribunale , della corte di assise o della corte di assise di appello ; per la ricusazione di un giudice della corte di appello o della corte di cassazione, una sezione diversa della stessa corte a cui appartiene il giudice ricusato), precludendo opportunamente nel 3° comma la ricusazione dei giudici appartenenti a tali organi. Nell'intento di scoraggiare un uso dilatorio dell'istituto, il legislatore ha potenziato la funzione di filtro della dichiarazione d'inammissibilità: il tribunale, o la corte, competente a decidere sulla ricusazione pronuncia, infatti, ordinanza d'inammissibilità, oltre che per mancanza di legittimazione soggettiva e per inosservanza di forme e termini, anche per manifesta infondatezza dei motivi addotti. Si tratta di una scelta non indolore sul piano delle garanzie, dato che la decisione consegue ad una procedura de plano senza avvisi alle parti e nell'assenza di contraddittorio. È previsto però un controllo successivo, realizzabile mediante ricorso per cassazione. Superata la fase dell'ammissibilità, la corte – d'appello o di cassazione – decide, in camera di consiglio, sul merito della ricusazione con le forme previste dall'art. 127, dopo aver assunto, se necessario, le opportune informazioni (art. 41 comma 3°). La stessa corte può anche disporre, con ne. In caso di ricorso, la corte di cassazione decide con le stesse modalità di procedura stabilite dall'art. 611 per i procedimenti in camera di consiglio. Quanto agli effetti della dichiarazione di ricusazione, risulta evidente che la semplice presentazione di tale dichiarazione non comporta per il giudice ricusato alcuna limitazione di poteri nello svolgimento dei compiti istituzionali, né tanto meno l'insorgere di un obbligo di astensione. L'unico divieto imposto dalla legge a carico del giudice ricusato, al fine di non pregiudicare irreparabilmente le ragioni della parte istante, è quello contemplato dal 2° comma dell'art. 37, nel senso che non gli è consentito «pronunciare, né concorrere a pronunciare, sentenza fino a che non sia intervenuta l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione», salvo il temperamento recentemente introdotto dalla Corte costituzionale. 13

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi Sennonché, per la violazione del divieto la legge non stabilisce espressamente alcuna sanzione. Ne consegue che l'unico presidio posto a garanzia dell'esigenza di non vanificare le legittime aspettative collegate alla dichiarazione di ricusazione è quello offerto dal 2° comma dell'art. 42, il quale attribuisce al giudice chiamato a decidere sull'astensione o sulla ricusazione il potere discrezionale di dichiarare, in caso di accoglimento dell'istanza, quali atti precedentemente compiuti dal giudice astenutosi o ricusato conservino efficacia. Resta sempre ferma, comunque, la rilevanza della violazione dell'obbligo di cui all'art. 124 ai fini della responsabilità disciplinare, a carico del giudice che non abbia osservato il suddetto divieto. L'accoglimento della dichiarazione di astensione o di ricusazione segna un effetto automatico di divieto assoluto, per tale giudice, di compiere qualsiasi allo del procedimento (art. 42 comma 1°). Non solo: come si ricava dall'art. 43, alla pronuncia di accoglimento consegue, altresì, la sostituzione del giudice astenuto o ricusato. Tutte le ordinanze che si pronunciano sul merito, emesse dal giudice competente a decidere sulla ricusazione, sono immediatamente eseguibili. Diversamente dal codice abrogato (art. 71 c.p.p. abr.) che imponeva la condanna a pena pecuniaria come contenuto necessario dell'ordinanza d'inammissibilità o di rigetto dell'istanza di ricusazione, l'art. 44 prevede tale condanna come facoltativa («può essere condannata»). 12. La rimessione del processo. Gli artt. 45-49 disciplinano la rimessione del processo, cioè il suo spostamento da una sede ad un'altra in presenza di turbative ambientali che possono compromettere il suo regolare svolgi-mento. Anche in questo caso si vuole salvaguardare l'imparzialità di chi giudica: diversamente dall'astensione e dalla ricusazione, ad essere messa in dubbio non e però l'imparzialità del magistrato in quanto persona fisica, ma quella dell'organo giudicante nel suo complesso. D'altra parte, la rimessione del processo, sia pure al fine di tutelare un valore di sicura rilevanza costituzionale, recentemente riaffermato dall'art. 111 comma 2° Cost., interferisce con il principio del giudice naturale garantito dall'art. 25 comma 1° Cost. Da qui l'esigenza – scarsamente rispettata dalla corrispondente normativa del codice abrogato – che vengano tassativamente disciplinate dal legislatore le situazioni idonee a determinare lo spostamento del processo. Deve intercorrere il nesso causale tra le «gravi situazioni locali, tali da turbare Io svolgimento del processo e non altrimenti eliminatili», e il conseguente pregiudizio alla «libera determinazione delle persone che partercipano al processo» (giudice, parti, difensori, testimoni, ecc.) ovvero alla sicurezza» o all'«incolumità pubblica». Il riferimento al carattere locale del fattore inquinante sta a significare non solo che il medesimo non deve essere di dimensioni estese, perché in tal caso lo spostamento di sede risulterebbe improduttivo, ma anche che deve trattarsi di un agente esterno al processo (con esclusione, quindi, delle situazioni endoprocessuali); si richiede inoltre che la turbativa non sia eliminabile «altrimenti», ricorrendo cioè ad adeguati interventi di carattere anche amministrativo. Per un altro verso si è, tuttavia, ampliata la precedente casistica, essendosi ammessa la rimessione del processo anche nell'ipotesi in cui le suddette «gravi situazioni locali» determinino «motivi di legittimo sospetto». Per «legittimo sospetto» è consentito, anche secondo la più recente interpretazione fornita dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, lo spostamento del processo quando sussiste «il ragionevole dubbio che la gravità della situazione locale possa portare il giudice a non essere, comunque, imparziale o sereno». Dall'art. 45 – rimasto sul punto invariato si ricava altresì che la rimessione può essere richiesta in ogni stato e grado del processo di merito dall'imputato, dal procuratore generale presso la corte d'appello e dal pubblico ministero presso il giudice procedente. Se sono ovvie le ragioni che inducono ad escludere l'operatività dell'istituto quando il processo pende davanti alla corte di cassazione, assai meno scontata, in considerazione degli importanti provvedimenti che il giudice può assumere durante le indagini preliminari (archiviazione, restrizione della libertà personale dell'indagato), risulta la scelta di subordinare la richiesta di rimessione all'avvenuto esercizio dell'azione penale («in ogni stato e grado del processo»). Ai sensi dell'art. 46 – unico articolo non modificato dalla novella del 2002 – la richiesta di rimessione proveniente dall'imputato deve essere, a pena di inammissibilità, sottoscritta da lui personalmente o da un suo procuratore speciale e, sempre a pena di inammissibilità, dopo essere stata depositata nella cancelleria del giudice unitamente ai documenti che la giustificano, va notificata, entro sette giorni, a cura del richiedente alle altre parti. Una volta depositate, la richiesta e la relativa documentazione sono immediatamente trasmesse alla corte di cassazione ad opera del giudice procedente, al quale è consentito formulare proprie osservazioni aggiuntive (art. 46 comma 3°). 14

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi In base all'odierna formulazione dell'art. 47 comma 1°, è lo stesso giudice procedente che, in seguito alla presentazione della richiesta, può disporre con ordinanza (inoppugnabile) la sospensione del processo fino a che non sia intervenuta l'ordinanza di inammissibilità o di rigetto. Analogamente, dopo essere stata investita della richiesta, la corte di cassazione può disporre la sospensione. Quanto ai presupposti delle due ipotesi di sospensione facoltativa appena ricordate sono ancorate ai principi del fumus boni iuris e delpericulum in mora. La sospensione può essere obbligatoria, rospetto alla stessa, funge da necessaria premessa la comunicazione, da parte della corte di cassazione, che, non avendo il presidente della medesima corte rilevato, nell'ambito del suo esame preliminare, alcuna causa di inammissibilità tale da giustificare l'investitura della sezione-filtro di cui all'art. 610 comma 1°, è avvenuta l'assegnazione della richiesta ad una delle altre sezioni della corte oppure alle sezioni unite (art. 48 comma 3°). In seguito a tale comunicazione, il giudice procedente deve sospendere il processo prima dello svolgimento delle conclusioni (in sede di udienza preliminare) o della discussione (in sede dibattimentale), e resta preclusa la pronuncia sia del decreto che dispone il giudizio, sia della sentenza. Anche in questo caso la sospensione dura fino a che non venga pronunciata l'ordinanza della corte che dichiari inammissibile o rigetti la richiesta (art. 47 commi 2° e 3°). E' da escludere la sospensione quando la richiesta non è fondata su elementi nuovi rispetto a quelli di una precedente richiesta rigettata o dichiarata inammissibile (art. 47 comma 2°). Finché dura la sospensione, restano sospesi i termini della prescrizione del reato e, se la richiesta di rimessione proviene dall'imputato, anche i termini di durata massima della custodia cautelare previsti dall'art. 303 comma 1° (infra, cap. IV, §§ 19-20). La sospensione consente comunque il compimento degliatti urgenti (art. 47 comma 3°). La decisione della corte di cassazione, che procede in camera di consiglio ex art. 127 dopo aver eventualmente acquisito le necessarie informazioni (art 48 comma 1°), assume la forma dell'ordinanza. Che potrà essere di inammissibilità, di rigetto o di accoglimento: in quest'ultima ipotesi l'ordinanza – contenente l'indicazione del nuovo giudice, da individuare ai sensi dell'art 11 (retro, § 5) – è immediatamente comunicata al giudice designato e al giudice originariamente competente. Da notare che, quando la corte di cassazione rigetta o dichiara inammissibile la richiesta di rimessione, può condannare l'imputato – così deve essere inteso l'inesatto riferimento alle «parti private» risultante dall'art. 48 comma 6° – al pagamento di una somma (da 1000 a 5000 euro) a favore della cassa delle ammende. Quanto alla conservazione degli atti del processo oggetto di rimessione, (ferma restando l'utilizzabilità degli atti validamente compiuti dinanzi al giudice a quo, in quanto inseriti nel fascicolo dibattimentale), vale ora la regola, secondo cui il giudice designato procede alla rinnovazione degli atti quando una (qualsiasi) delle parti ne faccia richiesta. Con due sole eccezioni concernenti, da un lato, l'ipotesi che si tratti di atti «di cui è divenuta impossibile la ripetizione» e, dall'altro, l'eventualità che si versi in una delle due situazioni rispettivamente contemplate dal comma comma 1-bis dell’art. 190-bis. L'ipotesi di una nuova richiesta di rimessione è regolata dall'art. 49, che consente l'iterazione sia nel caso in cui la richiesta sia diretta ad ottenere un ulteriore spostamento del processo, sia nel caso in cui essa miri ottenere per la prima volta il relativo provvedimento, già negato da un’ordinanza di rigetto o d’inammissibilità. L’ulteriore spostamento del processo può essere richiesto quando nella sede designata si ripresenta una situazione riconducibile al disposto dell'art.45 ovvero quando, essendo venute meno nella sede originaria le ragioni che avevano indotto a sollecitare l'intervento della corte di cassazione, si creano le premesse per una revoca del provvedimento di rimessione. Nel caso in cui, invece, sia intervenuto un provvedimento negativo della corte di cassazione, bisogna distinguere: in presenza di un'ordinanza che abbia rigettato la precedente richiesta o abbia dichiarato l'inammissibilità della stessa per manifesta infondatezza, l'ulteriore richiesta, per non essere dichiarata inammissibile, deve essere fondata su «elementi nuovi» (art. 49 comma 2°). La richiesta dichiarata inammissibile per motivi diversi dalla manifesta infondatezza – si consideri il disposto dell'art. 46 comma 4° – può essere sempre riproposta (art. 49 comma 4°). 13. La posizione di parte del pubblico ministero e la sua funzione tipica. Il pubblico ministero, pur rivestendo la qualità di parte nel processo, anzi fin dalla fase delle indagini preliminari, costituisce, al tempo stesso, un organo dell'apparato statale incaricato di vegliare «all'osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia», nonché, tra l'altro, di iniziare ed esercitare l'azione penale (artt. 73 e 74 ord. giud.). 15

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi Ma il pubblico ministero non è solo affrancato dal potere esecutivo, ma gode di una posizione di indipendenza (c.d. esterna) rispetto a tutti gli altri poteri costituzionali. A riguardo rilevanti sono l’art. 101 comma 2° Cost e l'art. 107 comma 4° Cost. Anzitutto, l'art. 104, si riferisce pure alla magistratura requirente che gode, del resto, dell'elettorato attivo e passivo rispetto all'organo di autogoverno (Consiglio superiore della magistratura). Ancora, l'art. 108 comma 2° Cost., laddove demanda alla legge il compito di assicurare l’indipendenza del pubblico ministero presso le giurisdizioni speciali, non può che valere, a maggior ragione, per il pubblico ministero istituito pressi) gli organi di giurisdizione ordinaria. Inoltre, l'art 109 Cost. statuendo e che l'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria, indica un obiettivo il cui raggiungimento sarebbe in maniera inevitabile compromesso se al potere esecutivo fosse dato interferire, grazie alla sopraordinazione goduta sugli apparati di polizia, nell'attività investigativa del pubblico ministero. Un peso assorbente riveste, infine, il canone dell'obbligatorietà dell'azione penale (art. 112 Cost.). Non solo, la Corte ha riaffermato (sentenza n. 420 del 1995) che l'indipendenza non tollera interferenze esterne non solo nel momento in cui il pubblico ministero decide in ordine all'esercizio dell'azione penale, ma pure nel corso dell'intera fase anteriore delle indagini preliminari. Allo stato, il pubblico ministero risponde del suo operato solo di fronte alla legge, godendo delle stesse garanzie attribuite al giudice circa il reclulamento, l'inamovibilità dalla sede e la soggezione al potere di controllo del Consiglio superiore della magistratura. L'aspirazione in senso accusatorio del sistema e la parità tra accusa e difesa trovano un primo sviluppo nel titolo II del libro I dedicato al pubblico ministero colto quale soggetto del procedimento (artt. 50-54-quater). Vi trovano posto disposizioni che regolano i rapporti tra i diversi uffici _ed all'interno di ogni ufficio in modo tale da evidenziare l'acquisita natura di parte del titolare dell'accusa e l'autonomia delle soluzioni rispetto aquelledettate per il giudice. L'art. 50 comma 1° conferisce, anzitutto, al pubblico ministero la titolarità dell'azione penale. Pertanto, nel sistema codicistico non trova spazio né l'azione penale privata, conferita cioè alla persona offesa dal reato, né l'azione penale popolare, attribuita cioè al quisque de populo. Si tenga presente, però, che l'art. 21 d. lgs. 28 agosto 2000, n. 274, prevede che per «i reati procedibili a querela è ammessa la citazione a giudizio dinanzi al giudice di pace della persona alla quale il reato è attribuito su ricorso della persona offesa» (infra, cap. XIII § 10). Sempre l'art. 50 comma 1° enuncia, poi, il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, in piena aderenza all'art. 112 Cost.: il doveroso esercizio dell'azione rinviene quale suo unico limite la richiesta di archiviazione . Si noti, tuttavia, come le sole attività riportabli all’inizio dell'azione penale, e non già al suo proseguimento,siano presidiate dalla previsione di una nullità assoluta (art. 179 comma 1°). La lettura coordinata con l'art. 405 – che elenca gli atti tipici di esercizio dell'azione penale, contenenti tutti la formulazione dell'imputazione – permette di individuare il momento di inizio del processo penale in senso proprio, riservando la fase delle indagini preliminari al mero procedimento. Al contempo, lettura coordinata con l'art. 60 dedicato all'assunzio ne della qualità di imputato, chiarisce come quest'ultima discenda unicamente da un atto – la formulazione dell'imputazione – che segna l'avvenuto esercizio dell’azione penale (infra, § 21). Trattandosi di fatti in mancanza dei quali il pubblico ministero non può agire validamente, le condizioni di procedibilità sono suscettibili, in concretp, di collidere con principio dell'obbligatorietà dell'azione penale. Non trova, invece, posto nel codice un altro consueto principio – quello della pubblicità dell'azione penale – perché la sua enunciazione è parsa superflua: i poteri attribuiti alla persona offesa, specie là dove consentono di opporsi alla richiesta di archiviazione (art. 410), non sono assimilabili all'esercizio di un'azione penale privata. Il 3° comma esprime, poi, il tradizionale principio della irretrattabilità dell'azione penale: questa, una volta esercitata, esce dalla sfera del suo autore e comporta l'insorgere di un dovere decisorio in capo al giudice: ciò equivale a dire che l'oggetto del processo penale è indisponibile. Naturale, a tal punto, sottoporre le cause di sospensione o di interruzione dell'azione penale al principio di tassatività. 14. L'organizzazione e la distribuzione del lavoro tra gli uffici: loro rapporti. In forza dell'art. 51 comma 1° lett. a le funzioni di pubblico ministero nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado sono esercitate dai magistrati della procura della Repubblica presso il tribunale. In virtù dell'art. 71 ord. giud., alle procure della Repubblica presso i tribunali ordinari possono essere addetti magistrati onorari in qualità di vice procuratori «per l'espletamento delle funzioni indicate dall'art. 72». 16

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi Una deroga all'art. 51 comma 1° lett. a, con il consentire al procuratore della Repubblica presso il tribunale di delegare nominativamente determinate funzioni, da precisarsi di volta in volta, ad uditori giudiziari, a vice procuratori onorari addetti all'ufficio, a «personale in quiescenza da non più di due anni che nei cinque anni precedenti abbia svolto le funzioni di polizia giudiziaria», ovvero a laureati in giurisprudenza che frequentano il secondo anno della scuola biennale di specializzazione per le professioni legali di cui all'art. 16 d. lgs. 17 novembre 1997, n. 398. Dal comma lett. b dell'art. 51 si desume, invece, che i magistrati della procura della Repubblica presso la corte d'appello esercitano, per regola, le funzioni di pubblico ministero nei soli giudizi di impugnazione, così come accade sempre per i magistrati della procura generale presso la corte di cassazione relativamente a tale giudizio. Merita evidenziare, in proposito, come la partecipazione al giudizio d'appello del rappresentante dell'ufficio presso il giudice di primo grado, che abbia presentato le conclusioni e ne abbia fatta richiesta nell'atto di appello, non si configuri alla stregua di una deroga in senso proprio. In tal caso la sostituzione, atteggiandosi a delega nominativa, è disposta, sulla base di una valutazione di mera opportunità, dallo stesso procuratore generale presso la corte d'appello al quale continuano a spettare i relativi avvisi (art. 570 comma 3°). Al procuratore generale non sono neppure forniti mezzi per controllare la mancata attivazione dei procuratori della Repubblica del suo distretto nei riguardi di informazioni che non assurgano al ramo di notizia di reato: esse, infatti, non impongono di richiedere il decreto di archiviazione, allorché non siano state neppure iscritte, per la loro indeterminatezza, nell'apposito registro ex art. 335 (art. 109 disp. att.). Durante la fase delle indagini preliminari si apre una serie di canali informativi tra procure della Repubblica e relative procure generali presso la corte d'appello, e viceversa. Si considerino le notizie e le segnalazioni di cui all'art. 118-bis disp. att. che preludono, quando il coordinamento investigativo non sia stato promosso o non risulti effettivo, al potere del procuratore generale presso la corte d'appello di riunirei procuratori della Repubblica che procedono ad indagini collegate (infra, cap. V, § 28). L'unico strumento mediante il quale il procuratore generale presso la corte d'appello subentra, nella titolarità delle indagini preliminari, al procuratore della Repubblica del sua distretto è l'avocazione. Il relativo potere non è generalizzato, ma sempre subordinato a tassative previsioni legislalive così da caratterizzarsi come istituto di natura eccezionale (cfr. 2 n. 42 della legge delega). L'avocazione scatta in maniera, per così dire, automatica quando ricornano le situazioni qui di seguito descritte (infra, cap. V, § 32). In primo luogo, nel caso di impossibilità di provvedere, nell'ambito dell'ufficio della procura della Repubblica, alla tempestiva sostituzione del magistrato designato a seguito di astensione o di incompatibilità (art. 372 comma 1° let. A); in secondo luogo, nel caso di omessa tempestiva sostituzione del magistrato da parte del capo dell'ufficio, ricorrendo alcune tra le fattispecie che avrebbero imposto al giudice di astenersi e consentito alle parti di ricusarlo (art. 372 comma 1° lett. b.); infine, in un diverso contesto, nel caso di omessa presentazione, nei termini prefissati, della richiesta di archiviazione ovvero di omesso esercizio, sempre nei medesimi termini, dell’azione penale (art. 412 comma 1°). Meno solido è il collegamento con il presupposto dell'inerzia rispetto al caso di avocazione (facoltativa) che si configura, nel procedimento per reati di competenza del tribunale o della corte d'assise (infra, cap. V, § 35), quando il giudice per le indagini preliminari fissa l'udienza in camera di consiglio, non avendo accolto in prima battuta la richiesta di archiviazione (art. 412 comma 2° in rapporto all'art. 409 comma 3°), oppure quando ritiene ammissibile l'opposizione all'archiviazione proposta dalla persona offesa (art. 410 comma 3°). Nella medesima prospettiva si colloca l'avocazione consentita al procuratore generale nell'ipotesi in cui il giudice dell'udienza preliminare abbia indicato al pubblico ministero le ulteriori indagini da svolgersi ad integrazione di quelle già svolte, ma ritenute «incomplete» (art. 421-bis comma 2°). Investe una valutazione complessa, poi, l'ipotesi delineata dall'art. 372 comma 1- bis. Qui il procuratore generale, assunte le necessarie informazioni, dispone, sempre con decreto motivato, l'avocazione delle indagini preliminari per una serie di delitti di criminalità organizzata, allorquando, trattandosi di indagni collegate, non risulti effettivo il coordinamento prescritto ex art. 371 comma 1° e non abbiano dato esito le riunioni disposte o promosse dal procuratore generale, anche d'intesa con gli altri procuratori generali interessati (in-fra, cap. V, § 35). In aggiunta al vincolo del decreto motivato, si prevede, inoltre, che copia del provvedimento con cui il procuratore generale presso la corte appello (al pari del procuratore nazionale antimafia nelle ipotesi appena ricordate) dispone l'avocazione delle indagini preliminari è sempre trasmessa al Consiglio superiore della magistratura ed ai procuratori della Repubblica interessati. Ciò consente a questi ultimi di proporre reclamo al procuratore generale 17

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi presso la corte di cassazione. Per assicurare incisività ed efficienza all'ufficio dell'accusa, gli effetti dell'avocazione disposta nel corso delle indagini preliminari perdurano al di là di tale fase. Anche se il codice non usa il termine competenza, per regolare la distribuzione dei lavori tra i vari uffici del pubblico ministero, il parametro adottato è il medesimo, posto che il pubblico ministero trae la propria titolarità alle funzioni (c.d. legittimazione) in modo riflesso dalla competenza del giudice del dibattimento presso il quale è istituito. La legittimazione spetta al procuratore della Repubblica territorialmente «competente» secondo i criteri stabiliti dagli agli art. 8, 9, 10 e 16, ancorché nel relativo circondario non abbia sede la corte d'assise. Se il pubblico ministero ritiene che la competenza a conoscere il reato spetti ad un giudice diverso da quello presso cui esercita le sue funzioni, trasmette tempestivamente gli atti all'ufficio del pubblico ministero presso il giudice competente. L’ufficio che ha ricevuto gli atti, ove dissenta - non potendo ritrasmetterli al mittente, perché ne deriverebbe una stasi non altrimenti superabile - demanda la risoluzione di tale contrasto negativo al procuratore generale presso la corte d'appello o a quello presso la corte di cassazione, qualora appartenga ad un diverso distretto. Il procuratore della Repubblica dissenziente trasmette all'organo risolutore del contrasto tutti gli atti del procedimento in originale o in copia. La risoluzione del contrasto non è in ogni caso parificabile agli effetti che scaturiscono dal provvedimento con cui la corte di cassazione risolve un conflitto di competenza. La statuizione del procuratore generale estrinseca la sua portata solo all'interno della fase delle indagini preliminari ed unicamente nei confronti degli appartenenti all'ufficio del pubblico ministero. Anche la sorte degli atti diverge da quella delle prove acquisite dal giudice incompetente (art. 26). Il carattere tendenzialmente investigativo degli atti effettuati dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero, insieme ai ritmi accelerati impressi alla fase delle indagini preliminari, hanno suggerito di conservare agli atti compiuti prima della trasmissione o della designazione l'efficacia che è loro propria (art. 54 comma 3°). In parte analoghe sono le cadenze del contrasto positivo. In questo caso, tuttavia, il presupposto è duplice, poiché non basta che le indagini preliminari abbiano ad oggetto il medesimo fatto storico, seppure, magari, diversamente qualificato, ma occorre, al pari di quanto è contemplato per i conflitti di competenza tra giudici (art. 28), che esse siano a carico della stessa persona. Più precisamente, allorquando il pubblico ministero procedente riceva notizia che presso un altro ufficio sono in corso indagini preliminari così caratterizzate, ne informa senza ritardo il pubblico ministero presso quell'ufficio, richiedendogli la trasmissione degli atti (art. 54-bis comma 1°). A sua volta, il pubblico ministero che ha ricevuto la richiesta, ove non ritenga di aderirvi, ne informa il procuratore generale presso la corte d'appello ovvero, qualora appartenga ad un diverso distretto, il procuratore generale presso la corte di cassazione. Assunte le necessarie informazioni, il procuratore generale determina con decreto motivato, secondo le regole dettate per la competenza del giudice, quale ufficio debba procedere, dandone comunicazione agli uffici interessati. A proposito dei contrasti positivi, il legislatore si è preoccupato di contemplarne la risoluzione anticipata, prevedendo l'ipotesi in cui, prima della designazione operata dal procuratore generale, uno degli uffici procedenti desista, trasmettendo gli atti all'altro (art. 54-bis comma 3°). Quando, invece, due giudici per le indagini preliminari siano investiti contemporaneamente di una richiesta relativa al medesimo fatto, si verifica un conflitto positivo di competenza che sarà risolto dalla corte di cassazione (art. 25). L'art. 54-quater prevede poi un controllo sulla legittimazione del pubblico ministero a svolgere le indagini preliminari con riguardo ai parametri della competenza per territorio e per connessione. Titolari del potere di promuovere l'incidente sono, infatti, la persona sottoposta alle indagini che abbia avuto conoscenza delle indagini a suo carico nonché la comunicazione dell'iscrizione del, suo nominativo nel registro delle notizie di reato o l'invio dell'informazione di garanzia e (ma, poco comprensibilmente, solo in questo secondo caso) la persona offesa, nonché i rispettivi difensori. L'elenco dei presupposti può dirsi tassativo, tuttavia non appare dubbio, ad esempio, che la procedura in discorso sia innescabile a seguito un decreto di perquisizione del pubblico ministero. La richiesta di trasmettere gli atti al corrispondente ufficio istituito presso il giudice competente è depositata presso la segreteria del pubblico ministero procedente, a pena di inammissibilità, corredata delle ragioni poste a sostegno dell'indicazione del diverso giudice ritenuto competente. Il pubblico ministero, nel termine non perentorio di dieci giorni, è posto di fronte all'alternativa o di accogliere la richiesta, trasmettendo gli atti al pubblico ministero istituito presso il giudice ritenuto competente (anche diverso 18

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi da quello indicato) o di rigettarla. In tale ultimo caso, e così pure quando non ottenga risposta nel termine prescritto, al richiedente – a cui la decisione deve essere, evidentemente, comunicata – resta il potere di investire, nei successivi dieci giorni, della questione il procuratore generale presso la corte d'appello o quello presso la corte di cassazione, qualora il giudice ritenuto competente appartenga ad un diverso distretto. Nel termine, al pari del precedente, non perentorio di venti giorni dal deposito della richiesta il procuratore generale, assunte le necessarie informazioni e, se del caso, ottenuta la trasmissione di copia degli atti del procedimento (art. 4-bis, comma 2° disp. att. così come introdotto dall'art. 48 1. 16 dicembre 1999, n. 479), provvede con decreto motivato dandone comunicazione al richiedente e agli uffici interessati. La richiesta non può essere riproposta, a pena di inammissibilità, salvo che si fondi su «fatti nuovi e diversi». La formula legislativa si limita qui ad esplicitare un principio generale: la decisione, almeno per l'organizzazione degli uffici del pubblico ministero, è resa rebus sic stantibus sicché a superare la clausola non vale, di per sé, la mera indicazione di un diverso giudice ritenuto competente. Chiarito che i termini di durata delle indagini preliminari continuano a decorrere dal momento che non si profila alcuna paralisi nel relativo svolgimento. 15. L'astensione. L'astensione - e la conseguente necessità di sostituire il magistrato designato con un altro - trova nell'art. 52 un'agile disciplina. Essa resta - almeno stando alla lettera - non obbligatoria sotto il profilo processuale, si fonda genericamente su «gravi ragioni di convenienza», presuppone una dichiarazione motivata, è decisa dal capo dell'ufficio o dal procuratore generale presso la corte d'appello o presso la corte di cassazione, se riguarda i capi degli uffici (art. 52 commi 2° e 3°). La sostituzione è effettuata con un magistrato appartenente al medesimo ufficio, ma la regola è derogabile allorché si tratti del capo dell'ufficio. Stante la sua qualità di parte, il pubblico ministero non può essere ricusato. Qualche difficoltà interpretativa può insorgere dal riferimento normativo al «magistrato» - e non già al rappresentante del pubblico ministero - per quanto riguarda le figure dell'uditore giudiziario, del vice procuratore onorario e dell'ufficiale di polizia giudiziaria (nonché del laureato in giurisprudenza che frequenti il secondo anno della scuola biennale di specializzazione per le professioni legali) occasionalmente delegati all'esercizio di funzioni requirenti. L'istituto estende il suo ambito ai primi due soffietti in forza della qualifica di magistrato e dell'equiparazione al magibre 1988, n. 449). La stessa conclusione non vale, invece, per _gli ultimi due soggetti: qui soccorre la revocabilità della delega, consentita nelle so-le ipotesi «in cui il codice di procedura penale prevede la sostituzione del pubblico ministero» (art. 22 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449). 16. I rapporti all'interno dell'ufficio. Ciascun ufficio del pubblico ministero si compone del titolare (procuratore generale presso la corte di cassazione o presso la corte d'appello; procuratore della Repubblica presso il tribunale ordinario) e di uno o più magistrati addetti all'ufficio (sostituti procuratori). Negli uffici delle procure della Repubblica presso i tribunali ordinari possono essere istituiti posti di procuratore aggiunto in proporzione all'organico dell'ufficio (art. 70 comma 1° ord. giud., così come modificato dall'art. 4 d. lgs. 4 maggio 1999, n. 138). Alle procure collocate presso le sezioni distaccate delle corti d'appello sono preposti avvocati generali alla dipendenza del procuratore generale (art. 59 comma 3° ord. giud.). I titolari dirigono l'ufficio a cui sono preposti e ne organizzano l'attività, secondo quei criteri di buon andamento ed imparzialità che ispirano il funzionamento della pubblica amministrazione. Il titolare può anche procedere ad una designazione congiunta. La piena autonomia del magistrato del pubblico ministero, rispetto al titolare dell'ufficio, è tutelata dagli artt. 70 comma 4° ord. giud. e 53 comma 1°, che attuano la legge delega (art. 2 n. 68) là dove prescrive clic «le funzioni di pubblico ministero in udienza siano esercitate in piena auonomia». Il riferimento al termine «udienza» — nel quale riecheggia l'anteo adagio francese secondo cui «la penna è serva, ma la parola è libera» — consente, pertanto, di assicurare l'autonomia del pubblico mini- stero nell'udienza preliminare oppure nell'udienza per l'applicazione della pena nella fase delle indagini preliminari (art. 447) o per il giudizio abbreviato (art. 441), investendo, addirittura, il potere di rinunciare all'impugnazione, anche se la stessa è stata proposta da altro pubblico ministero (art. 589 comma 4°). Per conseguenza, si deve ritenere che, nell'intera fase delle indagini, la sostituzione operata dal titolare dell'ufficio non incontri i limiti rigo-rosi stabiliti dall'art. 53 comma 2°. 19

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi La ratio sottostante al riconoscimento codicistico dell'autonomia sta nel consentire che la condotta del magistrato possa adeguarsi all'oralità dell'udienza. Ciò non toglie che il capo dell'ufficio possa impartire direttive sulle premesse dell'udienza. L'autonomia del magistrato del pubblico ministero nell'udienza comporta che le cause di sostituzione restino circoscritte perché non si risolva-no in un espediente volto ad aggirare quel principio. L'art. 53 commi 2° e 3° fornisce, al riguardo, un elenco assai articolato. Un primo gruppo si riferisce a cause che consentono una valutazione discrezionale da parte del capo dell'ufficio come il «grave impedimento» e «le rilevanti esigenze di servizio». Un secondo — definibile in termini di obbligatorietà – concerne alcune fra le situazioni in presenza delle quali il giudice sarebbe obbligato ad astenersi: il rinvio all'art. 36 comma 1° lett. a, b, d ed e rende palese che sono state escluse le «gravi ragioni di convenienza» di cui alla lett. h. Un terzo gruppo riguarda la sostituzione effettuata con il consenso del magistrato interessato: le cause possono essere le più disparate, perché la tutela dell'obiettività della parte pubblica è assicurata dal consenso. Qui possono trovare spazio anche quelle «gravi ragioni di convenienza» che avrebbero potuto sorreggere una richiesta di astensione. Spetterà al capo dell'ufficio scegliere tra le due vie. Resta da considerare il caso in cui il capo dell'ufficio non abbia provveduto alla sostituzione in presenza di uno dei presupposti considerati nel secondo gruppo: essendo la sostituzione demandata al procuratore generale, con designazione di un magistrato del suo ufficio, si avrà qui una figura simile all'avocazione. Nel caso in esame la designazione vale, invece, per le sole funzioni di udienza e per le attività che ne seguono, cosicché la sostituzione disposta ex art. 53 comma 3° riveste un'efficacia meramente temporanea. Ma è sul piano dei presupposti che si coglie appieno, la differenza tra i due istituti: la sostituzione, infatti, opera successivamente all'esercizio dell'azione penale, mentre l'avocazione ex art. 372 lett. b si colloca nella fase delle indagini preliminari. Per guanto riguarda la fase delle indagini preliminari, in forza di una lettura a contrario dell'art. 53, non vi è dubbio che il magistrato del pubblico ministero goda di un certo grado di autonomia. 17. Uffici del pubblico ministero e criminalità di stampo mafioso. Una serie di deroghe che incidono sulla divisione del lavoro e sui _rapporti tra gli uffici del pubblico ministero, così da creare, fin dalla fase delle indagini preliminari, una sorta di procedimento speciale per tali reati (c.d. doppio binario). Per quel che qui importa, la disciplina speciale concernente il pubblico ministero opera nei procedimenti di cui all'art. 51 comma 3-bis, cioè quelli relativi ai delitti, consumati o tentati, di associazione di tipo mafioso (art. 416bis c.p.) e di sequestro di persona a scopo estorsivo (art. 630 c.p.), ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p. (c.d. reati «fine» rispetto al delitto di associazione di stampo mafioso) ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo (c.d. reati «mezzo»), al delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), al delitto di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291-quater d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43), nonché per i delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo (art. 51 comma 3-quater, così come introdotto dall'art. 10-bis comma 1° 1. 15 dicembre 2001, n. 438). Per tutti i reati in discorso le funzioni di pubblico ministero nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado sono attribuite all'ufficio che ha sede presso il tribunale del capoluogo del distretto di corte d'appello. Il procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto costituisce, sempre nell'ambito del suo ufficio, una direzione distrettuale antimafia. Negli uffici delle procure distrettuali può essere comunque istituito un posto di procuratore aggiunto. Salvi casi eccezionali, il procuratore distrettuale designa per l'esercizio delle funzioni di pubblico ministero nei procedimenti in discorso i magi-strati addetti alla direzione (art. 70-bis ord. giud.). La continuità nella designazione può, però, venir meno, essendo previsto che — su richiesta del procuratore distrettuale — il procuratore generale presso la corte d'appello, per giustificati motivi, possa disporre che le funzioni di pubblico ministero per il dibattimento siano esercitate da un magistrato designato dal procuratore della Repubblica presso il giudice competente (art. 51 com- ma 3-ter): l'eccezione alla deroga ripristina, così, la regola. Tutto ciò, naturalmente, non scongiura l'eventualità che si diano contrasti, positivi o negativi, tra i diversi uffici del pubblico ministero sulla relativa legittimazione a procedere. 20

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi In proposito, l'art. 54-ter muove dalle consuete due ipotesi. Se il contrasto si verifica tra diverse direzioni distrettuali, la risoluzione è affidata al procuratore generale presso la corte di cassazione, ma al procuratore nazionale antimafia è demandata, in virtù della sua sfera di cognizione privilegiata, una funzione consultiva. Se, invece, il contrasto insorge all'interno del medesimo distretto, il compito tocca al procuratore generale presso la corte d'appello. Diversa è, invece, la collocazione della procura (rectius, direzione) nazionale antimafia, istituita nell'ambito della procura generale presso la corte di cassazione (art. 76-bis ord. giud.). Ad essa è preposto un magistrato di cassazione (il procuratore nazionale antimafia, per l'appunto), di spiccate attitudini organizzative e professionali, il quale viene nominato con delibera del Consiglio superiore della magistratura di concerto con il Ministro della giustizia; tale incarico ha la durata di quattro anni e può essere rinnovato una sola volta. Alla direzione sono addetti, quali sostituti, venti magistrati con funzioni di magistrati di corte d'appello, essi pure nominati dal Consiglio superiore della magistratura, sentito il procuratore nazionale antimafia. Al procuratore nazionale sono attribuite unicamente le funzioni previste dall'art. 371- bis e dato che esse investono i soli procedimenti per i reati di cui all'art. 51 comma 3- bis, si può cogliere nella direzione nazionale antimafia la fisionomia di un ufficio del pubblico ministero specializzato. In una situazione del genere. In effetti, il procuratore nazionale antimafia appare investito di due nuclei di funzioni: quelle di impulso al coordinamento e quelle di impulso alle investigazioni. Al primo nucleo è ascrivibile il compito di assicurare, d'intesa con i procuratori distrettuali interessati, il collegamento investigativo anche tramite i magistrati della direzione nazionale antimafia (lett. a). Il procuratore nazionale antimafia e, inoltre, investito del potere di impartire ai procuratori distrettuali specifiche direttive, alle quali essi debbono attenersi al fine di prevenire e risolvere contrasti sulle modalità relative al coordinamento delle attività di indagine (lett. f). Estremo rimedio al mancato coordinamento il procuratore nazionale antimafia può ricorrere allo strumento dell'avocazione (lett. h) (infra, cap. V, § 37). L'impulso alle investigazioni si risolve, anzitutto, nell'acquisizione e nell'elaborazione di notizie, di informazioni e di dati attinenti alla criminalità organizzata, ai fini non solo del coordinamento investigativo, ma pure della repressione dei reati (art. 371-bis comma 3o lett. c). Nella medesima prospettiva si colloca la facoltà di procedere a colloqui personali con detenuti ed internati, attribuita – senza necessità di autorizzazione – al procuratore nazionale antimafia ai fini delle funzioni di impulso e di coordinamento ex art. 371- bis. Anche la funzione di curare, mediante applicazioni temporanee dei magistrati della direzione nazionale e delle direzioni distrettuali antimafia, la necessaria flessibilità e mobilità degli apparati del pubblico ministero, così da soddisfare specifiche e contingenti esigenze investigative e processuali (art. 371-bis comma 3° lett. b). I presupposti sono l’esistenza di procedimenti di particolare complessità o che richiedono specifiche esperienze e competenze professionali. L'applicazione è disposta con decreto motivato del procuratore nazionale antimafia, sentiti i procuratori generali e i procuratori della Repubblica interessati. Il decreto di applicazione è trasmesso senza ritardo al Consiglio superiore della magistratura per l'approvazione, nonché al Ministro della giustizia (art. 110-bis commi 2° e 3° ord. giud.). Poiché il titolare dell'ufficio al quale il magistrato viene applicato non può designare il medesimo per la trattazione di affari diversi da quelli in-dicati nel decreto di applicazione (art. 110-bis comma 4° ord. giud.), è logico desumerne che anche nel corso delle indagini preliminari non siano consentite sostituzioni, se non quelle scaturenti dall'art. 36 lett. a, b, d ed e. Anche da questo punto di vista si coglie l'estrema duttilità e la grande latitudine di questa particolare forma di applicazione che, di fatto, finisce per ridimensionare l'ambito dell'istituto dell'avocazione, pur utilizzabile dallo stesso procuratore nazionale antimafia. 18. Le funzioni ed i soggetti di polizia giudiziaria. le funzioni di polizia giudiziaria «sono svolte alle dipendenze e sotto la direzione dell'autorità giudiziaria» (art. 56). L'elevazione al rango di soggetto del procedimento non altera, pertanto, la tradizionale collocazione della polizia giudiziaria tra gli organi ausiliari dell'autorità giudiziaria. L'art. 55 comma 1°, occupandosi così delle attività che la polizia svolge anche di propria iniziativa – vale a dire senza un previo impulso dell'autorità giudiziaria – segue una classica tripartizione. L'attività informativa si sostanzia nell'acquisire la notizia di reato, secondo le forme dell'apprensione diretta o della ricezione (art. 330) e 21

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi nel riferirla, con ritmi accelerati, ancorché variamente stabiliti, al pubblico mini- stero (art. 347). L'attività investigativa consiste nel ricercare l'autore del reato mediante il compimento di atti atipici e di atti tipici (art. 348 comma 2°)` L'attività assicurativa, infine, quale ideale perfezionamento della precedente, è riferita alle fonti di prova, in conformità al canone secondo cui la prova si forma tendenzialmente in sede dibattimentale. La norma menziona, inoltre, l'obbligo di raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale e l'obbligo di impedire che i reati siano portati a conseguenze ulteriori. L'art. 55 comma 2° considera, per completezza, le funzioni che la polizia giudiziaria adempie su ordine o su delega dell'autorità giudiziaria. Per quanto riguarda il pubblico ministero sono da ricordare accanto al genenerale potere coercitivo, nel cui esercizio è consentito ricorrere non solo alla polizia giudiziaria ma, pure, alla forza pubblica, le direttive ai sensi dell’art. 348 comma 3° e gli atti delegabili ex art. 370. Né vanno dimenticate le funzioni esecutive consistenti – ad esempio – nell'eseguire le notificazioni richieste dal pubblico ministero con riferimento ai soli atti di indagine o ai provvedimenti «che la stessa polizia giudiziaria è delegata a compiere o è tenuta ad eseguire» (art. 151 comma 1°), ovvero nel documentare, mediante verbale o annotazioni, gli atti del titolare delle indagini (art. 373 comma 6°). Per quanto riguarda il giudice – oltre al potere coercitivo di cui si e appena fatto cenno (art. 131) – va rammentato come l'intervento della polizia giudiziaria possa essere chiesto per eseguire provvedimenti ordinatori quali l'accompagnamento coattivo dell'imputato (art. 132) o di altre persone (art. 133), misure cautelari personali o reali, provvedimenti che dispongono mezzi di ricerca della prova come le ispezioni (art. 244), le perquisizioni (art. 247), i sequestri (art. 253). Si noti come nei procedimenti con detenuti e nei procedimenti davanti al tribunale del riesame il giudice può disporre, in caso di urgenza, che le notificazioni siano eseguite dalla polizia penitenziaria del luogo in cui i destinatari sono detenuti (art. 148 comma 2°, così novellato dall'art. 17 comma 1° lett. a d.l. 27 luglio 2005, n. 144, convertito con l. 31 luglio 2005, n. 155). L'elenco di chi riveste la qualifica di ufficiale o di agente di polizia giudiziaria è fornito dall'art. 57. In una posizione del tutto particolare si situano coloro che fanno parte della già ricordata Direzione investigativa antimafia (Dia) istituita, nell'ambito del dipartimento della pubblica sicurezza, con d.l. 29 ottobre 1991., n. 345, convertito con modificazioni dalla 1. 30 dicembre 1991, n. 410. Il relativo personale, attinto da quello dei ruoli della polizia di Stato, dell'arma dei carabinieri e della guardia di finanza, è investito, oltre che delle funzioni di investigazione preventiva attinente alla criminalità organizzata, anche del compito di «effettuare indagini di polizia giudiziaria relative esclusivamente a delitti di associazione di tipo mafioso o comunque ricollegabili all'associazione medesima» (art. 3 comma l° d.l. 29 ottobre 1991, n. 345). 19. L'organizzazione della polizia giudiziaria e la sua dipendenza funzionale dall'autorità giudiziaria. L'attribuzione dei compiti di polizia giudiziaria a funzionari appartenenti alla pubblica amministrazione posti, pertanto, alle dipendenze di superiori politici ed amministrativi - presenta l'inconveniente di consentire ad organi estranei all'attività giudiziaria di condizionare l'esercizio dei compiti giudiziari. La scarsezza di personale o la modestia delle attrezzature tecniche della polizia giudiziaria finisce per compromettere così l'indipendenza esterna dell'ordine giudiziario e la stessa garanzia che discende dal principio dell'obbligatorietà dell'azione penale. Occorre distinguere la dipendenza funzionale dall'autorità giudiziaria dalla dipendenza burocratica dalla pubblica amministrazione. Benché tutte le funzioni di polizia giudiziaria siano sempre svolte alla dipendenza e sotto la direzione dell'autorità giudiziaria, il legame che si instaura con la medesima è variabile perché costruito in relazione ai diversi apparati amministrativi. L'art. 56, come tipica norma a valenza organizzativa, individua una triplice struttura. La prima concerne i servizi di polizia giudiziaria così come previsti dal-la legge, con implicito richiamo all'art. 17 1. 1° aprile 1981, n. 121, che prevede l'istituzione e l'organizzazione di simili unità da parte del diparti-mento di pubblica sicurezza, «nei contingenti necessari, determinati dal Ministro dell'interno, di concerto con il Ministro della giustizia». Le amministrazioni interessate devono costituire servizi centrali ed interprovinciali della polizia di Stato, dell'arma dei carabinieri e del corpo della guardia di finanza: al riguardo, devono ricordarsi il Servizio centrale operativo della polizia di Stato (Sco), il Raggruppamento operativo speciale dell'arma dei carabinieri (Ros), il gruppo di investigazione sulla criminalità organizzata della guardia di finanza (Gico). In determinate regioni e per particolari esigenze, le predette strutture possono essere poi costituite in servizi interforze (art. 12 comma 2° d.l. 13 maggio 1991, n. 152). Nella stessa prospettiva si colloca l'introduzione di unità antiterrorismo. 22

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi In sede attuativa è stata collocata la regola (art. 12 comma 1° disp. att.) secondo la quale fanno parte dei servizi tutti gli uffici e le unità cui, dalle rispettive amministrazioni o dagli organismi previsti dalla legge, sono affidate, in via prioritaria e continuativa, le funzioni di polizia giudiziaria. Il grado massimo di dipendenza organizzativa e funzionale dall'autorità giudiziaria si coglie in rapporto alla seconda struttura, cioè alle sezioni di polizia giudiziaria. Esse sono istituite (art. 56 lett. b) unicamente presso ogni procura della Repubblica (del tribunale ordinario o del tribunale per i minorenni), al fine di garantire uno stretto rapporto con l'organo che dirige, per regola, le indagini preliminari (art. 327) e di scongiurare una proliferazione che avrebbe finito per comprometterne il livello di efficienza. A sua volta, l'art. 6 disp. att. prevede che il personale delle sezioni non debba essere inferiore al doppio dei magistrati della procura della Repubblica presso il tribunale e stabilisce in due terzi il rapporto numerico tra ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria. Al grado minimo di dipendenza organizzativa e funzionale sono posti (terza struttura) i restanti ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria tenuti per legge a compiere indagini a seguito di una notizia di reato. Dal sistema si ricava che la disponibilità e conferita al magistrato in quanto titolare delle indagini preliminari o del processo, benché, secondo l'organizzazione tipica dell'ufficio del pubblico ministero, al procuratore della Repubblica sia sempre consentito sostituirsi al magistrato designato per le indagini preliminari nell'impartire ordini alla polizia giudiziaria. La disponibilità da parte del singolo magistrato, oltre che diretta, può dirsi anche immediata, non essendo sottoposta né al filtro dei capi dell'organizzazione della polizia giudiziaria, né a quello del dirigente dell'ufficio del pubblico ministero. Le attività di polizia giudiziaria per i giudici del distretto, ivi compreso il giudice per le indagini preliminari, sono svolte dalle sezioni istituite presso le corrispondenti procure della Repubblica: qui la disponibilità non è immediata, come esplicitano sia l'art. 58 comma 2° sia l'art. 131, laddove prevede che il giudice, ancorché ai fini dell'esercizio dei poteri coercitivi, possa «chiedere l'intervento della polizia giudiziaria». Va, infine, evidenziato come, in termini generali, l'art. 83 ord. giud., novellato dall'art. 23 delle norme di adeguamento approvate con d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449, demandi al procuratore generale presso la corte d'appello l'esercizio della sorveglianza sul rispetto delle norme in ordine alla diretta disponibilità della polizia giudiziaria da parte dell'autorità giudiziaria. 20. I rapporti di subordinazione. La diffusa convinzione che la dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dall'autorità giudiziaria risulterebbe priva di una qualche effettività se non fosse accompagnata da forme di dipendenza organizzativa ha trovato nel sistema uno spazio di notevole rilevanza nella direzione attuativa dell'art. 109 Cost. Benché gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria restino sempre subordinati, in via di principio, agli enti amministrativi di appartenenza, l'autorità giudiziaria risulta anch'essa investita di una serie di poteri di natura tipicamente gerarchica. L'entità di tali poteri segna, pertanto, il reale livello della dipendenza funzionale. L'art. 59 costruisce il rapporto di subordinazione anche qui con riguardo alla tipologia dell'organizzazione della polizia giudiziaria. Le sezioni, considerate quali unità organiche, si pongono in un rapporto di subordinazione nei confronti del procuratore della Repubblica che dirige l'ufficio presso cui esse sono istituite (art. 59 comma 1°). Il disegno di evitare interferenze con l'amministrazione di appartenenza è perfezionato dal divieto di distogliere gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria dalla loro attività se non per disposizione del magistrato dal quale dipendono (art. 59 comma 3°). L'esclusiva destinazione a compiti di polizia giudiziaria può essere de-rogata solo in casi eccezionali o per necessita di istruzione o di addestramento (art. 10 comma 3° disp. att.). Nei confronti dei servizi, il rapporto di subordinazione si attenua nel senso che gli ordini dell'autorità giudiziaria sono mediati dalle gerarchie amministrative. Pertanto, la responsabilità personale investe unicamente l'ufficiale preposto al servizio. Dal punto di vista del potere disciplinare, la relativa responsabilità si pone nei soli confronti del procuratore della Repubblica presso il tribunale. Il rapporto di subordinazione è ulteriormente rafforzato dall'obbligo, in capo alle singole amministrazioni, di ottenere il consenso del procuratore della Repubblica presso il tribunale o del procuratore generale presso la corte d'appello per allontanare, anche provvisoriamente, dalla sede od assegnare ad altri uffici i dirigenti dei 23

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi servizi (art. 14 disp. att.) e di vincolare altresì le promozioni dei dirigenti degli uffici al parere favorevole dei magistrati predetti (art. 15 comma 2° disp. att.). In ordine al potere disciplinare, in sede attuativa si sono individuate le singole fattispecie di illecito con le relative sanzioni (art. 16 disp. att.), nonché si è introdotto un analitico regolamento del rito medesimo instaurato dal procuratore generale presso la corte d'appello (artt. 17 e 18 disp. att.), a partire dalla contestazione scritta dell'addebito e dall'obbligaloria assistenza del difensore. 21. L'imputato e la persona sottoposta alle indagini. L'individuazione del momento in cui taluno assume la qualità di imputato – e, quindi, di parte in senso stretto – è stata colta dal codice sulla base di considerazioni di ordine sistematico ancorate alla volontà di creare un rigido spartiacquetra la fase delle indagini preliminari (il procedimento) e quella successiva all'esercizio dell'azione penale (il processo vero e proprio). Nella prima fase, l'attribuzione di un reato (c.d. imputazione preliminare, ovvero ipotesi di imputazione ovvero, ancora, addebito provvisorio), sebbene emergente, ad esempio, dall'adozione di una misura restrittiva della libertà personale, presenta un carattere precario connesso allo stato fluido delle indagini; in sede processuale, invece, superato il dubbio circa la non in- fondatezza della notizia di reato, l'addebito si cristallizza nella formulazione dell'imputazione, che, a sua volta, si risolve nella richiesta dell'indefettibile accertamento giurisdizionale. Facendo coincidere l'assunzione della qualità di imputato con l'atto che contiene la formale individuazione della persona a cui un determinato fatto storico penalmente rilevante è attribuito - e, quindi, con l'avvenuto esercizio dell'azione penale, ai sensi dell'art. 405, sicché senza imputato non c'è processo - l'art. 60 enumera gli atti tipici dai quali tale assunzione scaturisce. Alcuni si configurano quali domande dell'organo dell'accusa, come le richieste di rinvio a giudizio (suscettibile di sfociare, poi, nel giudizio abbreviato), di giudizio immediato e di decreto penale di condanna. Altri sono il prodotto di un incontro di volontà tra le parti, come la richiesta di applicazione della pena nel corso delle indagini preliminari (art. 447 comma 1°). Altri, ancora, assumono la veste di atti di impulso: tali il decreto di citazione diretta nel giudizio davanti al tribunale in composizione monocratica emesso dal pubblico ministero (art. 550 comma 1°) o, nel giudizio direttissimo, la contestazione orale dell'imputazionein dibattimento o il decreto di citazione a giudizio se l'imputato è libero (previsti, rispettiva-mente, dagli artt. 451 comma 4° e 450 comma 2°). A questi atti sono da aggiungere sia la contestazione del reato connesso o del fatto nuovo al-l'udienza preliminare (art. 423 commi 1° e 2°) o nel dibattimento (artt. 517 e 518 comma 2°) sia la formulazione coatta dell'imputazione allorquando la richiesta di archiviazione non sia stata accolta, neppure in seconda battuta, dal giudice per le indagini preliminari (art. 409 comma 5°). In un sistema dove l'azione penale è, come già sappiamo (retro, § 13), irretrattabile (art. 50 comma 3°), la perdita della qualità di imputato può derivare solo da una sentenza o da un provvedimento ad essa assimilabile. L'art. 60 comma 2° fornisce la relativa casistica (sentenza di non luogo a procedere non più soggetta ad impugnazione, sentenza di prosciogli-mento o di condanna irrevocabili, decreto penale divenuto esecutivo) da integrarsi con l'ordinanza che dichiara l'inammissibilità dell'impugnazione, nonché con le sentenze che dichiarano il difetto di giurisdizione (art. 20 comma 2°) o di competenza (art. 22 comma 3°) in quanto importano la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice ritenuto competente. Per contro, ai sensi dell'art. 60 comma 3°, la qualità di imputato risorge per effetto della revoca della sentenza dinon luogo a procedere o dell'emissione del decreto di citazione a dibattimento per il giudizio di revisione, essendo la relativa richiesta apparsa ammissibile e non manifestamente infondata (art. 636 comma 1°), ma in margine al primo caso bisogna introdurre una distinzione. Il prosciolto, infatti, riacquista la qualità di imputato con l'ordinanza che fissa l'udienza preliminare allor- ché il pubblico ministero abbia richiesto il rinvio a giudizio, essendo già state acquisite le nuovi fonti di prova (art. 436 comma 2°); se, invece, le nuovi fonti debbano essere ancora acquisite, l'ordinanza di riapertura del-le indagini non produce il medesimo effetto formale. Il prosciolto riassumerà, in tal caso, la qualità di imputato unicamente allorquando, a seguito delle indagini espletate – nei confronti di chi è, per il momento, solo persona sottoposta alle indagini stesse – il pubblico ministero provveda a formulare l'imputazione, ed eserciti così una seconda volta l'azione pena-le a carico del medesimo soggetto per il medesimo fatto, non operando al riguardo il diveto di un secondo giudizio sancito dall'art. 649. In ordine all'estensione alla «persona sottoposta alle indagini preliminari» (o all'«indagato» secondo l'espressione corrente ormai penetrata nel linguaggio codicistico) delle garanzie e dei diritti attribuiti a chi ha assunto la 24

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi qualità di imputato, l'art. 61 ha opportunamente evitato una costruzione in chiave di riscontri formali: è sufficiente la semplice sottoposizione della persona alle indagini preliminari. Più precisamente, taluno diviene persona sottoposta alle indagini a seguito, anzitutto, del ricevimento da parte della polizia giudiziaria o del pubblico ministero di una notizia qualificata di reato (denuncia, referto; ma pure querela, istanza, richiesta) contenente un'incolpazione nei confronti di un soggetto determinato. Inoltre, viene in gioco la valutazione di dati emergenti dalle indagini e ritenuti idonei a fornire un principio di conoscenza circa l'attribuibilità a taluno di _un fatto di reato. L'ipotesi trae origine dalla nozione di indizio, così come omesso utilizzata dal legislatore (artt. 63 comma 1°, 207 comma 2°, 267 comma 1°, 273 comma 1°, 312, 384 comma 1° e 705 comma 1°), nonostante le interferenze che si creano con la nozione di prova indiziaria scaturente dall'art. 192. Con la prima espressione ci si riferisce ad un risultato conoscitivo indispensabile per adottare alcune misure, anche ad opera del giudice, nel corso della fase delle indagini preliminari o per far-ne scaturire determinati effetti diversi dalla decisione sul dovere di punire. Con la seconda, invece, si allude alle c.d. prove critiche assoggettate ad una apposita regola di giudizio al momento della valutazione probatoria. La tutela assicurata alla «persona sottoposta alle indagini preliminari» si estende tanto per i diritti dell'imputato quanto per le garanzie a lui riconosciute, senza alcun limite derivante dall'effettivo compimento di un qualche atto del procedimento. L'art. 61 comma 2° sancisce poi, la regola per cui alla persona sottoposta alle indagini si estende ogni altra disposizione relativa all'imputato, salvo esplicite statuizioni in diverso senso. 22. Le dichiarazioni rese dall'imputato. Le norme contenute negli artt. 62-65 presentano un oggetto comune (riguardando dichiaraszioni rese dall'imputato, dalla persona sottoposta alle indagini ovvero da soggetti che a seguilo di tali dichiarazioni possono assumere le predette qualità) ed uno scopo comune (mirando tutte ad assicurare nei rapporti con I'autorità procedente un livello di lealtà e di civiltà adeguato ai canoni personalistici tipci del modello accusatorio). In effetti, l'art. 62 assume una portata estremamente lata con il prescrivere che le dichiarazioni comunque rese nel corso del procedimento dal-l'imputato e dalla persona sottoposta alle indagini non possono formare oggetto di testimonianza. In primo luogo, la norma investe non solo le dichiarazioni sollecitate (artt. 294 comma 299 comma 3-ter, 301 comma 2-ter, 302, 364 comma 388 e 391 comma 3°), ma pure quelle che il soggetto rilasci di propria iniziativa (artt. 350 comma 7°, 374 comma 2°, 415-bis comma 3°, 421 comma 2° e 422 comma 4°). Sono escluse, pertanto, le dichiarazioni rilasciate prima dell'avvio del procedimento o al di fuori di esso (c.d. res gestae): si pensi a quanto narrato ad un ufficiale di polizia giudiziaria nel corso di una conversazione svoltasi in un bar. Infine, stante la natura oggettiva del divieto, è inibito pure l'ingresso alla testimonianza di chi riferisca, anche avendolo appreso da altri, il con-tenuto delle dichiarazioni dell'imputato o dei soggetti a lui assimilati. La regola probatoria in discorso esplica la sua funzione precipua nei confronti delle dichiarazioni che la persona sottoposta alle indagini o i soggetti individuabili ex art. 63 rendono alla polizia giudiziaria al di fuori dell'assistenza del difensore Il legislatore ha inteso dare efficacia rappresentativa solo alla documentazione appositamente redatta ed utilizzabile entro i limiti stabiliti in funzione dello sviluppo procedimentale (cfr. art. 514 comma 1°). Al tempo stesso, ha voluto impedire che, ricorrendo al duplice meccanismo delle «dichiarazioni spontanee» e della «testimonianza de auditu», possa venire aggirato il diritto al silenzio riconosciuto dal successivo art. 64 comma 3°. È appena il caso di evidenziare che l'inosservanza del divieto posto dall'art. 62 non è priva di sanzioni processuali. Acquisita illegittimamente, la testimonianza in discorso risulta, infatti, compresa nella sfera dell'inutilizzabilità costruita dall'art. 191 comma 1°. La disciplina delle dichiarazioni indizianti costituisce non solo un'anticipazione del diritto al silenzio operante in sede di interrogatorio (art. 64 comma 3"), ma, nei confronti di chi è chiamato a deporre dinnanzi al giudice, suona a completamento della regola per cui nessuno può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere la propria responsabilità penale (art. 198 comma 2°). L’art. 63 viene in gioco nei confronti di chi abbia già commesso il reato — sebbene, al momento, ciò fosse ignorato dall'autorità procedente — e non già di chi ponga in essere il reato mediante le dichiarazioni che sta rendendo: si pensi ad una falsa testimonianza o ad una calunnia. Profilatisi gli indizi, si determinano, in capo 25

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi all'autorità procedente, tre obblighi distinti Anzitutto, vige l'obbligo di interrompere l'esame, come pure l'eventuale assunzione d'informazioni. Inoltre, l'autorità procedente deve avvertire la persona che «potranno» essere svolte indagini nei suoi confronti per effetto della mutata veste processuale. Il richiamo alla mera eventualità di future indagini tien conto che le dichiarazioni indizianti sono magari rese non davanti al pubblico ministero — titolare delle indagini — ma davanti alla polizia giudiziaria o al giudice i quali saranno, in ogni caso, tenuti a trasmettere, nelle forme ordinarie, la notizia di reato al suo destinatario ultimo (ai sensi, rispettiva- mente, degli artt. 347 e 331). Poiché l'art. 63 comma 1° non contempla l'obbligo di avvertire l'indiziato che «le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti» così come prevede, invece, l'art. 64 comma 3° lett. a, il soggetto non è messo sull'avviso circa gli effetti sfavorevoli che potrebbero scaturire da ulteriori dichiarazioni rese prima dell'inizio dell interrogatorio o delle sommarie informazioni ex art. 350. Infine, l'invito alla persona che ha rilasciato le dichiarazioni indizianti a nominare un difensore accentua il divario rispetto a coloro ai quali il fatto è attribuito da una comune notizia di reato. Nei confronti di costoro l'invito è formulato, di regola, nell'informazione di garanzia, da inviarsi, però, solo a partire dal primo atto cui il difensore ha diritto di assistere (art. 369 comma 10). La disciplina dell'art. 63 si perfeziona con il divieto di utilizzare, contro la persona autoindiziatasi, le dichiarazioni rese prima dell'avvertimento (c.d. inutilizzabilità soggettivamente relativa). La norma vuole, infatti, tutelare la libertà di autodeterminazione di chi, se fosse stato consapevole del proprio status, avrebbe ben potuto esercitare il diritto al silenzio e non rilasciare dichiarazioni a sé pregiudizievoli. La prevista inutilizzabilità anche nei confronti di coloro che dalle dichiarazioni indizianti sono comunque coinvolti (c.d. inutilizzabilità assoluta) si spiega, dunque, col proposito di disincentivare l'adozione di comportamenti contra legem intesi ad acquisire non già il contributo della persona ormai sottoposta alle indagini (a tal fine sarebbe sufficiente, infatti, il più circoscritto divieto posto dal 1° comma), bensì dichiarazioni accusatorie a carico di terzi. 23. L'interrogatorio. Il sistema distingue in maniera netta l'esame dell'imputato dall'interrogatorio della persona sottoposta alle indagini e dell'imputato stesso. Date le loro rispettive funzioni, il primo è collocato tra i mezzi di prova (artt. 208210: infra, cap. III, § 9), il secondo è disciplinato dagli artt. 64 e 65. Nella fase delle indagini preliminari, il pubblico ministero procede all'interrogatorio il titolare delle indagini è libero di scegliere il momento in cui assumere l'atto, salvo che si tratti di una persona sottoposta a custodia cautelare (e non già ad arresto in flagranza o a fermo di indiziato di delitto): in tal caso l'interrogatorio del giudice deve precedere quello del pubblico ministero (art. 294 comma 6°). Il pubblico ministero, ove non intenda formulare richiesta di archiviazione, è chiamato a notificare, prima della scadenza del termine di durata delle indagini preliminari, un avviso di conclusione delle medesime indirizzandolo alla persona sottoposta alle indagini ed al difensore. Tale avviso contiene, tra l'altro, l'avvertimento che l'indagato ha facoltà, entro venti giorni, di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero chiedere di essere sottoposto ad inter-rogatorio. Non solo il pubblico ministero è tenuto a procedere all'interrogatorio, se il soggetto lo richiede, ma all'inosservanza della prescrizione in ordine all'invio dell'avviso è ricollegata una nullità – da intendersi a regi-me intermedio – della richiesta di rinvio a giudizio (art. 416 comma 1°) o del decreto di citazione a giudizio del pubblico ministero (art. 552 comma 2°). Nella fase in discorso, essendo il giudice per le indagini preliminari tendenzialmente privo di poteri ufficiosi, il relativo interrogatorio si atteggia come attività sempre doverosa. Ciò vale, in sede di convalida, per quello dell'arrestato o del fermato, «salvo che questi non abbia potuto o si sia rifiutato di comparire» (art. 391 comma 3°) e per quello di chi sia sottoposto ad una misura cautelare personale, entro termini scadenzati: immediatamente e, comunque, non oltre cinque giorni dall'esecuzione se si tratta di custodia cautelare in carcere (a meno che all'atto in discorso si fosse non oltre dieci giorni dall'esecuzione o della notificazione del provvedimento cap. IV, § 15). Ma vi è un correttivo: se il pubblico ministero ne fa istanza nella richiesta di custodia cautelare, l'interrogatorio deve avvenire entro quarantotto ore (art. 294 commi 1°, 1-bis, 1-ter). Si noti, però, come dal solo mancato interrogatorio nei termini prescritti della persona in stato di custodia cautelare discenda la caducazione della relativa misura (art. 302). Il giudice procede, inoltre, ad interrogatorio in rapporto a talune vicende delle misure cautelare personali: quando il pubblico ministero, nel corso della fase delle indagini preliminari, gli ha richiesto di sospendere la persona 26

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi sottoposta alle indagini dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio (art. 289 comma 2°); quando gli è richiesto di revocare o sostituire la misura applicata: qui 1 atto è facoltativo, ma diviene obbligatorio se l'istanza medesima «è basata su elementi nuovi o diversi rispetto a quelli già valutati» (art. 299 comma 3-ter); del pari obbligatorio è l'interrogato-rio quando il giudice proroga la custodia cautelare in carcere disposta per esigenze probatorie (art. 301 comma 2-ter). Esercitata l'azione penale, l'imputato è libero di sottoporsi ad interrogatorio in sede di udienza preliminare (artt. 421 e 422), così come nel giudizio abbreviato. Dal punto di vista funzionale, all'interrogatorio condotto dal pubblico ministero si suole attribuire un prevalente carattere investigativo, a quello condotto, invece, dal giudice si suole ricollegare un prevalente significato di controllo e di garanzia. Quanto all'assistenza tecnica un dato comune è rappresentato dal diritto del difensore di essere, anche in termini brevi (art. 364 comma 5°), avvisato del compimento dell'atto così da potervi sempre assistere. Quanto alla difesa personale, gli artt. 64 e 65 modellano l'interrogatorio in maniera idonea a garantire una partecipazione libera e cosciente da parte del soggetto. L'art. 64 comma 1°, stabilendo che la persona assoggettata al regime di custodia cautelare o detenuta per altra causa, intervenga libera nell'interrogatorio, salve le cautele necessarie per prevenire il pericolo di fuga. L'art. 64 comma 2° esplicita il principio per cui nel corso dell'interrogatorio non possono essere impiegati, ancorché con il consenso della persona interrogata, metodi o tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare le capacita mnemoniche o valutative. In questo quadro si colloca il nucleo essenziale della disciplina del diritto al silenzio della persona sottoposta ad interrogatorio. Prima che inizi l’interrogatorio vero e proprio, scatta per l’organo procedente l'obbligo di rivolgere alla persona interrogata un triplice avvertimento, ai sensi del suddetto art. 64 comma 3°. In primo luogo (lett. a), il soggetto deve essere edotto che le dichiarazioni che renderà potranno sempreessere utilizzate nei suoi confronti. In secondo luogo (lett. b), deve essere avvertito che, fermo restando quanto previsto dall'art. 66 comma 1°, circa l'obbligo di fornire le proprie generalità, gli compete «la facoltà di non rispondere ad alcuna domanda», ma che, in ogni caso, il procedimento proseguirà il suo corso. Al fine di dare effettività a tali prescrizioni, alla loro omissione è ricollegata l'inutilizzabilità delle dichiarazioni eventualmente rese. In terzo luogo (lett. c), la persona interrogata deve essere altresì avvertita che «se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità (li altri, assumerà in ordine a tali fatti, l'ufficio di testimone». Peraltro, l'indagato destinato a vedersi attribuire coattivamente la qualifica di testimone per il solo fatto di avere rilasciato, nel corso dell'interrogatorio, dichiarazioni coinvolgenti la responsabilità di terze persone — anche se non sollecitato da una specifica domanda — non è sottoposto ad una disciplina dell'esame del tutto analoga a quella del testimone non indagato. Si spiega così perché, anche al mancalo avvertimento in discorso, l'ari. 64 comma 3- bis ricolleghi una duplice «sanzione»: per un verso, la persona interrogata non potrà assumere, in ordine ai fatti riferiti e concernenti la responsabilità di altri, l'ufficio di testimone; per altro verso, le dichiarazioni eventualmente rese contra alios non saranno utilizzabili nei confronti dei terzi coinvolti, ferma restando la loro utilizzabilità, nei confronti del dichiarante (c.d. inutilizzabilità relativa). Dall'esercizio del diritto a non rispondere - ossia di non collaborare - l'organo procedente non può ricavare conseguenza alcuna in quanto insindacabile espressione del diritto di difesa personale. Una volta che il soggetto abbia dichiarato di voler rispondere, entrano in gioco le prescrizioni dettate per l'interrogatorio nel merito dall'art. 65. Esse presentano un carattere più specifico, operando esclusivamente per l'atto assunto dall'autorità giudiziaria. La portata di tali prescrizioni (obbligo di contestare in forma chiara e precisa alla persona sottoposta alle indagini il fatto attribuitole, di renderle noti gli elementi di prova esistenti a suo carico e, se non può derivarne pregiudizio per le indagini, di comunicargliene le fonti) è, però, destinata a subire adattamenti in rapporto allo sviluppo dell'iter procedimentale (fase delle indagini preliminari o udienza preliminare). Del resto, per l'interrogatorio dell'arrestato o del fermato cui procede il pubblico ministero, l'art. 388 comma 2° detta prescrizioni solo in parte analoghe (infra, cap. V, § 20). La dimensione dell'interrogatorio come strumento difensivo emerge appieno dal (sempre successivo) invito ad esporre quanto la persona ritenga utile per discolparsi e dalla mancata riproduzione dell'invito ad in-dicare le fonti di prova a favore, nonché dall'assenza dell'obbligo di dire la verità, salvi i limiti scaturenti dalle norme che incriminano l'autocalunnia e la calunnia. In ordine allo svolgimento dell'atto, la tecnica adottata è quella delle domande poste in via diretta dal solo organo procedente. 27

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi 24. L'identificazione e l'esistenza in vita dell'imputato. Le questioni relative all'identificazione dell'imputato (ossia ai contrassegni che caratterizzano l'individuo nella vita di relazione) ed alla sua esistenza in vita so-no affrontate con una tecnica legislativa assai semplificata. Per quanto concerne il profilo dell'identità personale o anagrafica (art.66), nel primo atto del procedimento in cui è presente l'imputato – atto che non coincide necessariamente con l'interrogatorio – l'autorità giudiziaria lo invita a dichiarare le proprie generalità e quant'altro può valere ad identificarlo, ammonendolo sulle conseguenze cui si espone chi rifiuta. L'impossibilità di attribuire all'imputato le sue esatte generalità è irrilevante in quanto non pregiudica il compimento di alcun atto da parte della polizia giudiziaria o dell'autorità giudiziaria, purché sia certa l'identità fisica della persona. L'attribuzione di generalità erronee è trattata alla stregua di un mero errore materiale, così da far luogo alla rettificazione mediante il relativo procedimento in camera di consiglio (infra, cap. II, § 10). Allo scopo di ridurre il margine dei possibili errori nell'applicazione dei c.d. benefici penali, a causa dell'incompleta identificazione del soggetto e dei suoi precedenti penali. L'art. 66-bis. prevede che l'autorità giudiziaria debba, in ogni stato e grado del procedimento, comunicare a quella competente ai fini dell'applicazione della legge penale la circostanza che l'indagato o l'imputato è già stato segnalato, magari sotto diverso nome, «all'autorità giudiziaria quale autore di un reato commesso antecedentemente o successivamente a quello per il quale si procede». Dal profilo dell'identità personale si distingue quello dell'identità fisica che, per l'imputato, si sostanzia nella coincidenza tra la persona nei cui confronti è esercitata l'azione penale e quella che in effetti è assoggettata a processo. Tocca, pertanto, al pubblico ministero, nella fase delle indagini preliminari, disporre gli accertamenti del caso sulla base dei quali saranno formulate le conseguenti richeste al giudice. Se, invece, il dubbio insorge nel processo, le determinazioni in materia saranno tratte dal giudice dell'udienza preliminare o del dibattimento. II codice non si occupa neppure dell'errore sull'identità fisica (c.d. errore di persona) che risulti nel corso della fase delle indagini preliminari: soccorre in proposito l'ampiezza delle formule per le quali è consentito al pubblico ministero richiedere il decreto di archiviazione (art. 411). Se l'errore di persona risulta invece nel processo, il giudice, ai sensi dell'art. 68, sentiti obbligatoriamente il pubblico ministero e l'imputato, pronuncia semenza ex art. 129. L'incertezza circa l'età minore dell'imputato è sciolta dal giudice minorile con le forme caratteristiche di quel rito. La soluzione è coerente ad un sistema che demanda al giudice specializzato la cognizione di tutti i reati commessi da minori degli anni diciotto e risponde, al tempo stesso, all'intento garantistico di evitare che, durante il tempo occorrente per l'esplelamento della relativa perizia, la persona della cui età minore si dubita possa rimanere a contatto, se sottoposto a custodia cautelare in carcere, con imputati maggiorenni. In coerenza con queste premesse, allorche l'autorità giudiziaria abbia ragione di ritenere che l'imputato o la persona sottoposta alle indagini sia minorenne, trasmette gli atti al procuratore della Repubblica presso il tribunale minorile. Al pari di quanto osservato per il caso di incertezza sull'identità fisica, anche l'incertezza sull'esistenza in vita dell'imputato non è più disciplinata dal codice. Premesso che non conta la dichiarazione di morte presunta pronunciata dal giudice civile, se il dubbio è risolto nel senso della morte, il pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari chiede l'archiviazione per estinzione del reato (art. 150 c.p. in rapporto all'art. 411), mentre, nel corso del giudizio, il giudice proscioglie, avvalendosi della regola posta dall'art. 531 comma 2°. Posto che la morte dell'imputato si risolve in una causa estintiva del reato, la relativa declaratoria rimane subordinata in modo esplicito alla gerarchia delle formule scaturente dall'art. 129 comma 2°. Pertanto, l'accertata morte dell'imputato non dovrebbe impedire al giudice, se già risulti evidente che il fatto non sussiste, che l'imputato non l'ha commesso ovvero che il fatto non costituisce reato, di adottare la formula di merito. L'esito rileva, ovviamente, ai fini dell'efficacia conferita alla sentenza di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo di danno intentabile contro gli eredi (art. 652). L'art. 69 comma 2° ha cura di precisare che la sentenza erroneamente dichiarativa dell'estinzione del reato per morte dell'imputato non impedisce un nuovo esercizio dell'azione penale per il medesimo fatto a carico della medesima persona. Tale previsione va messa in rapporto con l'art. 649, là dove contempla per l'ipotesi in discorso un'espressa deroga al principio del ne bis in idem (infra, cap. X, § 5). 28

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi 25. Infermità mentale e partecipazione cosciente. Ogni persona fisica è, di regola, legittimata ad assumere la qualità di imputato, ossia è titolare della capacità ad essere parte nel processo penale. Tale capacità difetta, però, negli infanti e negli immuni, da distinguersi in «assoluti» o «relativi», a seconda che l'esenzione dalla giurisdizione valga per tutte, le imputazioni, o solo per alcune. Nozione distinta e logicamente successiva è quella di capacità processuale dell'imputato, che si risolve nell'idoneità ad esercitare, all'interno del processo, i diritti e le facoltà ricollegati all'assunzione di tale qualità. L'eccezione più vistosa alla normale coincidenza tra le due capacità è rappresentata dall'ipotesi dell'infermità mentale dell'imputato sia antecedente che sopravvenuta al fatto costituente il reato. L'infermità mentale dell'imputato è commisurata e valutata sulla inidoneità del soggetto a partecipare coscientemente al processo. Una volta che non debba essere pronunciata — in forza della sua priorità pro reo — sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento ex art. 129, la valutazione sull'esistenza dell'infermità di mente dell'imputato non è necessariamente subordinata all'esito di un'indagine peritale disponibile anche d'ufficio. Il giudice può, infatti, persuadersene altresì sulla base di elementi ricavabili da perizie appena espletate o da manifestazioni conclamate. Qualora la perizia psichiatrica venga disposta, nel lasso di tempo occorrente per il suo svolgimento l'attività giudicante subisce consistenti limitazioni, sicché può parlarsi di una «paralisi parziale». Il giudice può assumere, su richiesta del difensore, solo le prove che possono condurre al proscioglimento dell'imputato e, sempre su richiesta delle parti, anche al-tre prove unicamente nel caso di pericolo nel ritardo (art. 70 comma 2°). Se la necessità di provvedere sorge durante la fase delle indagini preliminari, la perizia è disposta dal giudice solo su richiesta delle parti con le forme dell'incidente probatorio (art. 70 comma 3°). Accertato che lo stato psichico dell'imputato ne impedisce la cosciente partecipazione al procedimento, il giudice – sempreché non debba pronunciare sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento – emette ordinanza di sospensione del procedimento a norma dell'art. 71 comma 1°. L'ordinanza, ricorribile per cassazione, produce una pluralità di effetti. Il più rilevante tra di essi è costituito dall'obbligo di nominare un curatore speciale a favore dell'imputato. La sospensione, infatti, non impedisce al giudice di assumere prove. Ulteriori effetti consistono nell'obbligatoria separazione del processo (art. 18 comma 1° lett. b) e nell'inoperatività della regola posta dall'art. 75 comma 3° circa la sospensione obbligatoria del processo civile (art. 71 comma 6°). Sul piano sostanziale, l’art 159 comma 1° c.p. dispone che il corso della prescrizione rimanga sospeso. L'ordinanza di sospensione, destinata per sua natura ad esplicare un'efficacia a tempo indeterminato, è immediatamente revocata, ex art. 72 comma 2°, allorché risultino integrati i presupposti di una sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento, oppure sia acquisita la certezza che l'imputato è in grado di partecipare coscientemente al procedimento. Allo scopo di evitare che si cristallizzi la figura del cosiddetto «eterno giudicabile», l'art. 72 comma 1° impone al giudice di verificare comunque lo stato psichico dell'imputato con frequenze periodiche semestrali mediante appositi accertamenti peritali. Quanto al trattamento terapeutico, ai sensi dell'art. 73 vi provvede, invece, l'autorità competente (il sindaco) per l'adozione delle misure previste dalla normativa sul trattamento sanitario delle malattie mentali, sulla scorta di un'informativa del giudice comunicata col mezzo più rapido; solo se vi è pericolo nel ritardo, al giudice è consentito ordinare, anche d'ufficio, il ricovero provvisorio. Se è stata già disposta o debba disporsi la custodia cautelare, il ricovero si resolve in una misura alternativa alla custodia in carcere (infra, cap. IV, §§ 11 e 25). 26. La parte civile: legittimazione, costituzione ed esodo dal processo penale. La parte civile, il cui intervento è finalizzato ad ottenere le restituzioni o il risarcimento del danno ricollegabili al reato oggetto di accertamento in sede penale (art. 185 c.p.). Per quanto concerne la legitimatio ad causam, l'art. 74 stabilisce che l'azione civile di cui all'art. 185 c.p. possa essere esercitata dal soggetto che mira alle restituzioni o al risarcimento del danno (patrimoniale e non patrimoniale) cagionato dal reato, o dai suoi «successori universali». I danneggiato può costituirsi parte civile anche per mezzo di un procuratore speciale. 29

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi Una volta costituitosi partecipa al processo in tutti i suoi gradi. Qualora sia carente la capacità processuale del danneggiato, costui dev'essere rappresentato (ad es. quando si tratta di un minore non emancipato), assistito (si pensi al minore emancipato e all'inabilitato), o autorizzato (si può fare riferimento all'interdetto, per il quale è richiesta la preventiva autorizzazione del giudice tutelare) nelle forme prescritte per l'esercizio delle azioni civili. Dopo aver posto questa regola, che è in perfetta consonanza con quanto stabilito, in tema di capacità processuale, dall'art. 75 c.p.c., l'art. 77 prevede, in successione, due diversi correttivi per l'ipotesi in cui risulti impedito l'inserimento dell'azione civile all'interno del processo penale. Anzitutto (art. 77 commi 2° e 3°), viene considerata l'eventualità della nomina di un curatore speciale, necessaria quando manchi la persona a cui spetterebbe la rappresentanza o l'assistenza e ricorrano ragioni di urgenza. Secondariamente (art. 77 comma 4°), ma solo sul presupposto di una «assoluta urgenza», viene consentito che il pubblico ministero eserciti l'azione civile nell'interesse del minore o dell'infermo di mente, finché non subentri il legale rappresentante. A sua volta, l'art. 79 stabilisce un termine iniziale e uno finale, tra i quali deve di regola collocarsi la costituzione di parte civile: quanto al primo, è previsto che la stessa debba avvenire «per l'udienza preliminare». Quanto al termine finale, previsto a pena di decadenza, esso coincide con l'effettuazione, da parte del giudice dibattimentale di primo grado, degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti di eui all'art. 484. Risulta preclusa la costituzione della parte civile una volta iniziata la trattazione delle questioni preliminari regolate dall'art. 491. L'esclusione può, anzitutto, essere la conseguenza di una richiesta motivata, proveniente dal pubblico ministero, dall'imputato e dal responsabile civile art. 80 comma 1°), Relativamente a tale richiesta, con cui possono essere denunciati svariati profili di illegittimità - quali, ad esempio, la tardività della costituzione, il difetto di legittimazione o di capacità processuale, l'inesistenza di un danno risarcibile - il giudice procedente è tenuto a pronunciarsi senza ritardo con un'ordinanza (inoppugnabile). Anche per la relativa richiesta di esclusione occorre rispettare dei termini perentori; va effettuata, prima che siano terminati gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti; se, invece, la parte civile si è costituita nella fase degli atti preliminari al dibattimento o nel corso degli atti introduttivi del medesimo, la richiesta di esclusione deve essere avanzata in sede di trattazione delle questioni preliminari. Una seconda ipotesi di esclusione della parte civile è quella disposta – sempre con ordinanza inoppugnabile – ex officio dal giudice (art. 81), il quale, quando accerti l'inesistenza dei requisiti stabiliti per la costituzione di parte civile, può provvedere in conformità fino a che non sia stato aperto il dibattimento di primo grado. Come si è anticipato, si può anche verificare uno spontaneo recesso del danneggiato che, espressamente o tacitamente, revoca la costituzione di parte civile, ad esempio, perché ha concluso con l'imputato una transazio ne sul danno oppure perché, cambiata opinione, ritiene meglio tutelabili le sue pretese in sede civile. Nel easo di revoca espressa, che può aver luogo in ogni stato e grado del procedimento e riguardaretaluno soltanto de-gli imputati, occorre un'apposita dichiarazione, resa personalmente (a differenzadi quanto è richiesto per l'atto di costituzione) o per mezzo di un procuratore speciale. Le ipotesi di revoca tacita, o, meglio, presunta, sono invece tassativamente previste dall'art. 82 comma 2°. 27. Segue: i rapporti tra azione civile da reato e azione penale. Niente impedisce che l'azione di danno, esercitata nella sede naturale proceda in assoluta autonomia rispetto al parallelo processo penale. Nell'ipotesi in cui il processo penale si concluda con una sentenza irrevocabile di condanna, il danneggiato può sfruttare nel giudizio civile l'efficacia di giudicato ad essa riconosciutadall'art. 651 comma 1°, mentre non può accadere il contrario, poiché, grazie alla clausola disalvezza inserita nella parte finale dell'art. 652 comma è esclusa l'efficacia di giudicato della sentenza assolutoria. Solo in via di eccezione alla regola, l'art. 75 comma 3° detta una disciplina che ricalca quella del codice previgente, disponendo che il processo civile rimanga sospeso in attesa del giudicato penale – destinato, in questo caso, ad esercitare la sua efficacia anche ai sensi dell'art. 652 comma 1 ° – qualora l'azione sia stata proposta in sede civile dopo la sentenza penale di primo grado o dopo la precedente costituzione di parte civile nel processo penale. L'art. 75 comma 3° fa salve «le eccezioni previste dalla legge», con la conseguenza che il giudizio civile prosegue senza interruzioni il suo corso quando: a il processo penale è stato sospeso per incapacità dell'imputato (art. 71 comma 6°); b) vi è stata esclusione, ai sensi degli artt. 80 e 81, della parte civile (art. 88 comma 3°); c) la paste civile ha abbandonato il processo penale in seguito alla sua mancata accettazione del rito abbreviato (art. 441 30

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi comma 4°); d) l'esodo della parte civile consegue alla pronuncia di una sentenza che applica la pena su richiesta delle parti (art. 444 comma 2°); e) il danneggiato, già costituitosi parte civile, esercita l'azione civile in sede propria, dopo che il giudice penale ha dichiarato estinto il reato per intervenuta oblazione (art. 141 comma 4° disp. att.). 28. Il responsabile civile. Oltre che nei confronti dell'imputato, il soggetto danneggiato dal reato può agire per le restituzioni e il risarcimento del danno nei confronti della persona fisica o dell'ente plurisoggettivo (anche non personificato), che, come recita l'art. 185 comma 2° c.p., è tenuto, a norma delle leggi civili, a rispondere per il fatto dell'imputato. A questo soggetto, obbligato in solido con il protagonista del processo penale, il codice di rito riserva il nome di «responsabile civile». La presenza del responsabile civile è strettamente collegata all'inserimento e al mantenimento, da parte del danneggiato, della pretesa restitutoria o risarcitoria all'interno del processo penale. Si è previsto che il responsabile civile venga citato su richiesta di parte e che possa, altresì, intervenire volontariamente nel processo penale. Ai sensi dell'art. 83 comma 1°, legittimati a richiedere la citazione sono esclusivamente la parte civile, che ha un trasparente interesse a fare inter-venire il coobbligato solidale, e il pubblico ministero, limitatamente all'ipotesi in cui, sul presupposto di una «assoluta urgenza», abbia esercitato l'azione civile a favore dell'infermo di mente o del minore (art. 77 comma 4°). Quanto ai tempi della richiesta, l'art. 83 comma 2° stabilisce solo il termine finale, ovverosia che venga «proposta al più tardi per il dibattimento». Verificato il fumus boni iuris della richiesta, il giudice procedente ordina la citazione con un decreto, il cui contenuto è specificato dall'art. 83 comma 3°. La citazione è nulla – si tratta di una nullità intermedia, desumibile dal combinato disposto di cui all'art. 178 comma 1° lett. c e all'art. 180 (infra, cap. Il, § 31) – qualora, per omissione o per erronea indicazione di qualche elemento essenziale, il responsabile civile non sia stato in grado di esercitare i suoi di-ritti nell'udienza preliminare o nel giudizio, ovvero qualora risulti nulla la relativa notificazione. È importante sottolineare che, come si ricava dalla lettera dell'art. 84 comma 1°, il responsabile civile, regolarmente citato, non è per ciò solo tenuto ad intervenire nel processo. Premesso che, al pari della parte civile, sta in giudizio col ministero di un difensore (art. 100 comma 1°), il responsabile civile, al quale è estesa la regola dell'immanenza della costituzione (art. 84 comma 40), può costituirsi in ogni stato e grado del processo. Anche se non è stato citato, il responsabile civile può intervenire volontariamente nel processo penale – per contribuire, ad esempio, alla dimostrazione di non colpevolezza dell'imputato o per contestare l'elemento fondante della sua obbligazione solidale – sempre che vi sia stata costiuzione di parte civile o il pubblico ministero abbia agito come supplente ai sensi dell'art. 77 comma 4°. È pur vero che, non essendo stato citato, non può essere pronunciata condanna nei suoi confronti e che, per la stessa ragione, non subisce l'efficacia extrapenale di un eventuale giudicato di condanna (art. 651 comma 1°), ma è facile comprendere il pregiudizio che gli potrebbe derivare, come convenuto nell'eventuale giudizio civile, dall'esistenza di una pronuncia che sancisce la responsabilità dell'imputato. Esiste un termine finale, stabilito a pena di decadenza, che coincide con l'effettuazione, nel dibattimento di primo grado, degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti, previsti dall'art. 484. Si è già avuto modo di ricordare che tanto la citazione (art. 83 comma 6°) quanto l'intervento (art. 85 comma 4°) del responsabile civile perdono efficacia in caso di revoca della costituzione di parte civile o di esclusione di quest'ultima ai sensi degli artt. 80 e 81. Oltre a queste ipotesi di estro-missione del responsabile civile, va tenuta presente la possibilità di una sua esclusione su richiesta di parte o di ufficio. Le parti legittimate a pro-porre l'esclusione – a condizione che non si tratti della stessa parte che ha già chiesto la citazione – sono 1 imputato, la parte civile e il pubblico mini- stero (art. 86 comma 1°). La richiesta (motivata) di esclusione, sulla quale il giudice decide, con ordinanza, senza ritardo, de-ve essere proposta, a pena di decadenza, «non oltre il momento degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti nella udienza preliminare o nel dibattimento» (art. 86 comma 3°). L'esclusione sarà disposta, con ordinanza inoppugnabile, sia qualora venga accertata la mancanza dei requisiti per la citazione o per l'intervento del responsabile civile 31

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi (indipendentemente dall'eventuale rigetto, in sede di udienza preliminare, della richiesta di esclusione), sia qualora venga accolta dal giudice la richiesta di giudizio abbreviato. Se l'esclusione del responsabile civile è stata deliberata in seguito a richiesta della parte civile, viene meno, per il soggetto danneggiato dal reato, la possibilità di esercitare l'azione riparaloria ex delicto in sede propria. 29. Il civilmente obbligato per la pena pecuniaria e l'ente responsabile per l'illecito amministrativo dipendente da reato. Una persona (fisica o giuridica) può essere assoggettata, in via sussidiaria ed eventuale, ad una obbligazione civile pecuniaria pari all'importo della multa o dell'ammenda inflitta al condannalo: più esattamente si può affermare che la responsabilità della persona civilmente obbligata si concretizza nel momento in cui il condannato risulta insolvibile (art. 534). Non è prevista la possibilità di un intervento volontario. Può essere, invece citata, «per l’udienza preliminare o per il giudizio», su richiesta del pubblico ministero o dell'imputato (art. 89 comma l°). Per quanto concerne la citazione, la costituzione e l'esclusione della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, l'art. 89 comma 2° rinvia alla normativa dettata per il responsabile civile, escludendo, tutta-via, esplicitamente l'applicabilità dell'art. 87 comma 3°: non viene, pertanto, disposta la sua esclusione da parte del giudice che accoglie la richiesta di giudizio abbreviato. La normativa recentemente approvata prevede l'irrogazione di sanzioni amministrative, consistenti nella sanzione pecuniaria, nelle sanzioni interdittive, nella confisca e nella pubblicazione della sentenza (art. 9 d. lgs. cit.), a carico degli enti forniti di personalità giuridica, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica (art. 1 comma 2° d. lgs. cit.), qualora vengano accertati reati commessi nel loro interesse o a loro vantaggio da parte di persone che rivestano funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente nonché di persone che ne esercitino, anche di fatto, la gestione e il controllo, ed, infine, di persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza dei soggetti precedentemente menzionati (art. 5 d. lgs. cit.). Va peraltro sottolineato che la responsabilità amministrativa collegata al reato-presupposto e le relative sanzioni possono venire in rilievo solo se espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della com- missione del fatto (art. 2 d. lgs. cit.). La cognizione dell'illecito amministrativo addebitabile all'ente appartiene al giudice penale competente per il reato dal quale l'illecito amministrativo dipende (art. 36 comma l° d. lgs. cit.). Se intende partecipare al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, l'ente, al quale si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni processuali relative all'imputato (art. 35 d. lgs. cit.), deve costituirsi – la sua costituzione è ammessa sin dalla fa-se delle indagini preliminari – depositando in cancelleria una dichiarazione. Come si è rilevato, la partecipazione dell'ente al processo penale è peraltro solo eventuale: fermo restando che, in caso di mancata costituzione, è prevista, sulla falsariga di quanto dispone il codice di rito relativamente all'imputato (infra, cap. V, § 42 e cap. VII, § 10), un'apposita dichiarazione di contumacia (art. 41 d.lgs. cit.). 30. La persona offesa dal reato. Anche se al titolare dell'interesse protetto dalla norma penale che si assume violata è attribuibile, qualora decida di intervenire nel processo, la qualifica di soggetto, anziché quella di parte. La nozione di persona offesa è stata dilatata mediante il riconoscimento di tale status a soggetti (prossimi congiunti dell'offeso deceduto in conseguenza del reato, enti rappresentativi degli interessi lesi dal reato) che non sono titolari del bene giuridico tutelato dalla norma penale. In concomitanza con l'avvenuta rivalutazione del ruolo della persona offesa quale accusatore privato, avente titolo per supportare l'azione del pubblico ministero, è parso opportuno, in secondo luogo, operare in modo da tenere ben distinta la sua posizione da quella della parte civile, nel tentativo di caratterizzare con maggiore chiarezza quest'ultima come la parte che interviene nel processo penale per far valere la sua pretesa restitutoria o risarcitoria. Sul piano dei risultati, l'operazione si può dire riuscita per quanto concerne la fase delle indagini preliminari. Alla persona offesa dal reato in quanto tale vengono riconosciuti poteri assai ridotti.

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Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi 31. I diritti e le facoltà della persona offesa. L'art. 90 comma 1°, riprendendo il binomio che compare nella rubrica, rinvia ai «diritti» e alle «facoltà» della persona offesa garantiti da specifiche previsioni legislative, e contestualmente puntualizza che, a prescindere da tali attribuzioni, l'offeso dal reato è legittimato, in via generale, a «presentare memorie e, con esclusione del giudizio di cassazione, a indicare elementi di prova». Quanto ai termini del binomio, essi trovano la loro giustificazione nella diversa robustezza delle posizioni soggettive di cui è titolare la persona. A seconda dei casi, le memorie saranno indirizzate al pubblico ministero (per prospettare, tra l'altro, una diversa ricostruzione del fatto criminoso o per sollecitare la richiesta di una misura cautelare) o al giudice procedente (per eccepire, ad esempio, una nullità), anche se è bene precisare che in entrambe le ipotesi, diversamente da quanto prevede l'art. 121 con riferimento alle memorie provenienti dalle parti ed aventi come destinatario il giudice, non corrisponde, almeno di regola, un dovere di tali soggetti di deliberare sulle medesime. Sempre in via generale, alla persona offesa è riconosciuto altresì, in ogni stato e grado del procedimento, escluso, ovviamente, il giudizio davanti alla corte di cassazione, il potere di «indicare elementi di prova». Anche relativamente alla persona offesa, che, in ipotesi, potrà essere un ente collettivo – con o senza personalità giuridica – si pone la questione della capacità processuale. A questo proposito, l'art. 90 comma 2" prende in considerazione il soggetto minorenne nonché quello interdetto per infermità di mente o inabilitato, rinviando a quanto disposto dagli artt. 120 e 121 c.p. in tema di esercizio del diritto di querela. Per un verso, ne consegue che i minori infraquattordicenni e gli interdetti per infermità di mente devono essere rappresentati dai genitori e dal tutore, mentre, trattandosi di minore ultraquattordicenne o di inabilitato, la legittimazione ad esercitare i diritti e le facoltà riconosciuti alla persona offesa spetta tanto al diretto interessato quanto ai genitori, al tutore, al curatore; per un altro verso, il richiamo dell'art. 121 c.p. autorizza, in presenza dei presupposti contemplati da tale disposizione, la nomina di un curatore speciale. In ogni caso si consideri che, a differenza di quanto previsto per le altre parti e per lo stesso imputato, la legge autorizza, non obbliga, la per-sona offesa a nominare un difensore (art. 101 comma 1°). Di conseguenza l'interessato potrà validamente operare anche in prima persona (infra, § 37). Nell'ultimo comma dell'art. 90 è sancita la prima delle due estensioni soggettive che operano ope legis (per la seconda, infra, § 32): deceduta, in conseguenza del reato, la persona offesa, i diritti e le facoltà riservati dal codice di rito a tale soggetto sono attribuiti ai suoi prossimi congiunti, da individuare in base all'art. 307 comma 4° c.p. Quando, invece, la morte non possa ritenersi collegata al reato di cui è stata vittima la persona offesa, l'equiparazione non opera, per cui, a patto che i prossimi congiunti siano eredi del defunto, il loro ingresso nel processo penale può avvenire soltanto attraverso la costituzione di parte civile (art. 74). 32. Gli enti e le associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato. L'art. 91, garantisce l’ingresso ad enti che tutelano interessi collettivi e diffuse, se risultano rispettati taluni requisi sui quali ci si soffermerà tra breve, gli enti e le associazioni aventi finalità di tutela degli interessi lesi dal reato possano esercitare, in ogni stato e grado del procedimento, i diritti e le facoltà attribuiti – in via generale, dell'art. 90 o, specificamente, da singole previsioni del codice di rito – alla persona offesa dal reato. Con il varo del nuovo codice i confini sono tracciati con chiarezza: qualora l'ente collettivo risulti direttamente danneggiato dal reato, niente gli impedisce di inserire la sua pretesa civilistica all'interno del processo penale mediante la costituzione di parte civile (retro, § 26); al contrario, se manca tale presupposto e risultano contemporaneamente soddisfatti i requisiti di cui alt' art. 91, l'ente collettivo può partecipare al processo in veste di accusatore privato (circa l'allineamento alle nuove coordinate di precedenti previsioni contenute in leggi speciali, si veda l'art. 212 disp. att.) al fianco della persona offesa disposta ad accettare il suo intervento (art. 92). La coincidenza di poteri tra la persona offesa e la sua eventuale appendice non è perfetta. Si richiede non solo che l'ente collettivo non abbia «scopo di lucro», ma anche che gli siano state riconosciute «in forza di legge» «finalità di tutela degli interessi lesi dal reato», e che il riconoscimento sia avvenuto anteriormente alla commissione del fatto per cui si procede(art. 91).

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Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi Per l’ingresso dell’ente o associazione è necessario il consenso della persona offesa, da prestare con atto pubblico o con scrittura privata autenticata e si è ammessa la possibilità di una revoca, con le stesse forme previste per la prestazione del consenso, in qualsiasi momento dell'iter processuale: fermo restando che, in conformità con l'obiettivo, dopo l'eventuale revoca resta in assoluto esclusa, per la persona offesa, la possibilità di essere nuovamente fiancheggiata da uno degli enti di cui all'art. 91 (art. 92 comma 4°). Il consenso può essere prestato ad un unico ente è stata rafforzata dall'ulteriore previsione di una generale inefficacia, in caso contrario, dei consensi prestati (art 92 comma 2°). Affinché l'ente collettivo possa svolgere all'interno del processo il ruoto ausiliario che gli compete, è indispensabile che il suo difensore (artt. 101 comma 2° e 100 commi 1° e 2°), munito di procura speciale, presenti all'autorità procedente un atto di intervento – da notificare alle parti quando la presentazione non avviene in udienza – il cui contenuto deve essere conforme, a pena di inammissibilità, alle indicazioni risultanti dal l'ari. 93 comma l°. gli interessi lesi dal reato». Anche per quanto concerne questo soggetto l'intervento produce i suoi effetti in ogni stato e grado del procedimento fatti, che, con riferimento al termine finale, l'intervento non può avvenire dopo che si è conclusa la fase del dibattimento dedicata alla verifica della regolare costituzione delle parti (art. 94); l'intervento dell'ente collettivo si può collocare nella fase delle indagini preliminari. Successivamente all'intervento, si può pervenire ad un'estromissione dell'ente collettivo, disposta dal giudice con ordinanza (inoppugnabile), in seguito ad un'opposizione di parte oppure ex officio, allorché si riscontri un motivo di inammissibilità o un vizio attinente alla capacità processuale del soggetto intervenuto. Con riferimento all'eventualità di un'opposizione, bisogna tenere presenti le distinzioni operate dall'art. 95. L'ipotesi più articolata è quella in cui vi sia stato un atto di intervento, notificato alle parti ex art. 93 comma 3°: l'opponente, nel termine perentorio di tre giorni dalla data della notificazione, deve, a sua volta, far notificare la dichiarazione scritta di opposizione al rappresentante legale dell'ente collettivo, in modo da consentire a quest'ultimo di presentare, nel termine perentorio di cinque giorni dalla notifica, le sue controdeduzioni. Vi termini stabiliti a pena di decadenza per l’opposizione all’ingresso degli enti ed associazioni: nel caso l’opposizione avvenga nel corso dell'udienza preliminare, bisogna proporla prima che sia dichiarata aperta la discussione (art. 421 comma 1°); analogamente, con riferimento all'udienza dibattimentale, l'opposizione deve essere proposta «subito dopo compiuto per la prima volta l'accertamento della costituzione delle parti» (art. 491 comma 1 °). Occorre considerare, infine, l'estromissione che il giudice dispone ex officio quando accerta, «in ogni stato e grado del processo», la mancanza dei requisiti richiesti dalla legge per l'intervento dell'ente collettivo (art. 95 comma 4. Con riferimento al dies a quo, è necessario attendere l'inizio del processo. Con la conseguenza che, nel corso delle indagini preliminari, l'estromissione dell'ente collettivo deve essere necessariamente collegata ad un'opposizione di parte. 33. Il querelante. In relazione ad una serie di reati espressamente indicati dal legislatore è previsto che l'esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero sia subordinato ad un'esplicita voluntas persecutionis, che la persona offesa o, in sua vece, gli altri soggetti menzionati dagli artt. 1211 e 121 c.p. sono tenuti ad esprimere nella forma della «querela» (art. 50 comma 2°). Se, da un lato, è fuori discussione l'appartenenza della querela alla categoria delle notizie di reato, e, più specificamente, alla sottocategoria delle condizioni di procedibilità, dall'altro, è innegabile la petiva. Come risulta con chiarezza dall'art. 178 comma 1° lett. c, che sanziona con una nullità (di natura intermedia ai sensi dell'art. 180) l'omessa citazione in giudizio del querelante, nonché dagli artt. 427 comma 4° e 576 comma 2°, dai quali deriva la legittimazione del medesimo ad impugnare il capo della sentenza che, in presenza di determinati presupposti, lo con danna alla rifusione delle spese (e, in caso di colpa grave, al risarcimento del danno), si tratta di una posizione di ben maggiore rilievo rispetto a quella in cui si collocano gli autori di altri tipi di notitiae criminis. Dato da evidenziare concerne I limititemporali entro cui deve essere presentata la querela: di regola entro tre mesi; per un raddoppio del termine si veda, peraltro, l'artt. septies comma 2° c.p., relativo ai delitti di violenza sessuale e di atti sessuali con minorenne – dal giorno della notizia del fatto che costituisce il reato (art.124 comma 1° c.p.); tuttavia, nell'ipotesi in cui si debba procedere alla nomina di un curatore speciale (art. 121c.p.), tenuto a valutare l'opportunità di presentare querela, il termine decorre dal giorno in cui gli è notificato il decreto di nomina (art. 338 comma l°). 34

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi Occorre, naturalmente, che da parte del soggetto legittimato a sporgere querela non vi sia stata rinuncia, la quale opera automaticamentemente nei confronti di tutti gli autori del reato, e che può essere espressa o tacita, desumibile, cioè, da fatti incompatibili con la volontà di una posteriore iniziativa persecutoria (art. 124 commi 3° e 4° c.p.): circa le forme della rinuncia espressa, si rinvia all'art. 339 il cui 2° comma sanciscel'inefficacia dell'atto abdicativo sottoposto a termini o condizioni. Regola importante è la c.d. indivisibilità della querela: ne consegue che il reato commesso in danno di più soggetti è perseguibile anche quando la querela sia presentata da una sola delle persone offese (art. 122 c.p.) e, reciprocamente. Il diritto di querela si estingue in seguito alla morte della persona ofresa che non lo abbia ancora esercitato. L'estinzione del reato consegue, invece, alla remissione della querela (art. 152 comma 1° c.p.), sempre che il querelato non l'abbia espressa-mente o tacitamente ricusata (art 155. comma 1° c.p.). Si tratta, in sostanza di una revoca da effettuare, salvo che la stessa non sia espressa- mente esclusa dalla legge (art. 609-septies comma 3° c.p.), in ambito processuale o extra processuale prima che sia divenuta irrevocabile la sentenza di condanna (art. 152 comma 3° c.p.). Per quanto concerne i profili formali della remissione bisogna far capo nll'art. 340 (il cui 4° comma, come modificato dall'art. 13 1. 25 giugno 1999, n. 205, ribalta la previgente regolamentazione ponendo le spese a carico del querelato, salvo che sia diversamente convenuto). Con riferimento ai procedimenti relativi ai reati per i quali è prevista dall'art. 550 la citazione diretta davanti al tribunale in composizione monocratica, vale, infine, la pena di ricordare la remissione di cui all'art. 555 collima 3°, la quale consegue al tentativo diconciliazione tra il querelato e la persona offesa esperito con successo dal giudice in sede di udienza di comparizione (infra, cap. VIII, § 11). 34. Il difensore di fiducia dell'imputato. L'art. 24 comma 2° Cost., garantisce un'adeguata copertura nei confronti non solo della difesa tecnica, ma anche dell'autodifesa: ossia di quel complesso di attività che l'imputato esplica personalmente – si veda, ad esempio, l'art. 65 oppure l'art. 494 –per dimostrare l'inconsistenza dell'accusa a suo carico. Il difensore dell'imputato – al quale l'art. 99 comma 1° attribuisce, di regola, le facoltà ed i diritti che la legge riconosce all'imputato stesso (infra, § 36) – viene chiamato a svolgere un ruolo più importante e, di riflesso, più impegnativo, essendo tenuto non solo a dimostrare la scarsa significatività degli elementi di prova a valenza accusatoria, ma anche – soprattutto dopo l'entrata in vigore della 1. 7 dicembre 2000, n. 397 in tema di indagini difensive (infra, cap. V, §§ 23 ss.) – ad individuare e ad acquisire elementi probatori che scagionino l'imputato o alleggeriscano la sua. Nel nostro ordinamento si è negate qualsiasi spazio all'ipotesi di un'esclusiva autodifesa dell'imputato. L’imputato ha diritto di nominare non più di due difensori di fiducia (art. 96 comma 1°). Sono tre possibili le possibili modalità di nomina consistenti, rispettivamente, nella dichiarazione orale resa dall'interessato all'autorità procedente, in quella scritta consegnata alla medesima dal difensore e nel documento di nomina trasmessole con raccomandata (art. 96 comma 2°): senza che sia necessaria l'autentificazione o la certificazione da parte del difensore dell'autografia delta sottoscrizione. Non si tratta peraltro di ipotesi tassative. Va inoltre ricordato che in base all'art. 391-nonies, introdotto dall'art. 11 della succitata legge n. 397 del 2000 in tema di indagini difensive, la no-mina del difensore può essere fatta in via preventiva, cioè «per l'eventualità che si instauri un procedimento penale». In tal caso, la nomina non può non adeguarsi alla specificità della situazione: il mandato difensivo, da rilasciare con sottoscrizione autenticata, deve contenere, oltre all'indicazione del difensore, quella «dei fatti ai quali si riferisce» (art. 391-nonies comma 2°). Ovviamente il difensore dev'essere in possesso dei requisiti richiesti dalla legge professionale per assistere e rappresentare l'imputato nel pro-cesso a suo carico. Tre sono le differenti figure che possono assumere la qualità di difensore: il praticante avvocato che, coi limiti stabiliti dall'art. 8 comma 2° r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, può patrocinare davanti al giudice di pace e al tribunale in composizione monocratica, nei (soli) processi aventi ad oggetto i reati previsti dall'art. 550, per i quali si procede con ci-fazione diretta a giudizio (art. 7 della legge n. 479 del 1999, novellato dalI'art. 2terdecies 1. 5 giugno 2000, n. 144); l'avvocato, che può svolgere il suo ruolo di difensore nei processi davanti ad ogni giudice penale, fatta eccezione per la corte di cassazione; l'avvocato iscritto nello speciale albo di cui all'art. 33 del succitato r.d.l. n. 1578 del 1933, il quale può difendere anche davanti alla suddetta corte. La prestazione del difensore di fiducia costituisce l'oggetto di un contratto per la cui conclusione è indispensabile l'accettazione sia pure implicita del nominato (infra, § 42) Inoltre, diversamente da quanto stabilisce l'art 100 comma 3° in relazione alle parti private diverse dall'imputato (infra, § 37), la nomina 35

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi produce di regola i suoi effetti, salvo che intervengano cause risolutive del rapporto contrattuale (si vedano, ad esempio, gli artt 106 e 107) per tutto l'arco del processo di cognizione. Non solo: ai fini dell'iniziativa contemplata dall'art. 656 comma 6° (infra, cap. X, § 7), dell'istanza, cioè, finalizzata alla concessione di una misura extracarceraria al proprio assistito (ormai condannato con sentenza irrevocabile), è prevista una proroga automatica in executivis dell'investitura effettuata dall'imputato per il processo di cognizione (art. 656 comma 5°). Nel caso l’imputato sia sottoposto a misure restrittive opera la regola che legittima i prossimi congiunti della persona arrestata fermata o sottoposta a custodia cautelare in carcere ad attivarsi in sua vece. A costoro è consentito infatti, nominare, con le stesse forme previste per la nomina diretta, un difensore di fiducia che cessa di operare non appena l'interessato manifesti una diversa volontà (art. 96 comma 3°). In quest'ottica va letta la disposizione che vieta agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria, nonché a tutti i dipendenti del-l'amministrazione penitenziaria di dare consigli sulla scelta del difensore di fiducia (art. 25 disp. att.). 35. Il difensore d'ufficio. Qualora l'imputato non abbia nominato un difensore di fiducia o ne sia rimasto privo deve essere assistito da un difensore d'ufficio (art. 97 comma 1°), la cui figura può essere a grandi linee tratteggiata sulla base delle seguenti coordinate: a) la sua presenza è da correlare all'imputato, anche se il carattere esclusivo di tale abbinamento; b) il suo ruolo è sussidiario rispetto a quello del difensore di fiducia; c) mentre il difensore di fiducia è libero di non accettare la nomina (infra, § 42), quello d'ufficio ha l'obbligo di prestare il patrocinio salvo che in presenza di un giustificato motivo (art. 97 comma 5°). Il comma 1-bis dell'art. 29 disp. att. stabilisce – per la prima volta con un minimo di specificità – i requisiti necessari per poter essere iscritti nell'elenco alfabetico dei difensori d'ufficio, predisposto da ciascun consiglio dell'ordine forense, il quale è tenuto a provvedere al suo aggiornamento almeno ogni tre mesi. A tal fine vengono indicati due possibili itinerari: l'aver conseguito un'attestazione di idoneità, rilasciata dall'ordine forense di appartenenza, o, in alternativa, l'essere in grado di dimostrare, mediante un'adeguata documentazione, di aver esercitato la professione nel settore penale per almeno due anni, che, nonostante la legge non lo specifichi, sembrerebbero dover essere consecutivi. A questo proposito va precisato che i vari consigli dell'ordine forense costituiti all'interno del di-stretto sono tenuti a predisporre l'elenco dei difensori d'ufficio, e a stabilire altresì i criteri per la nomina di chi vi figura iscritto sulla base delle competenze specifiche, della prossimità alla sede del procedimento e della reperibilità (art. 97 comma 2°). E’ innegabile che in determinate circostanze l'automatismo della nomina si potrebbe ritorcere contro il soggetto a favore del quale è stato progettato. È da condividere, pertanto, la previsione che consente di non far ricorso alla procedura informatizzata nell'ipotesi in cui la materia oggetto della notizia criminis riguardi competenze specifiche (art. 29 comma 2° ult. Period disp. att.). Se il difensore, già ritualmente nominato, non è stato reperito, non è comparso o ha abbandonato la difesa, al giudice è consentito designare come sostituto — e, quindi, senza che il difensore originario venga soppiantato — un altro difedsore immediatamente reperibile, A meno che la necessità di _nominare sostituto non si appalesi «nel corso del giudizio» nel qual caso - data la particolare importanza dell'apporto del difensore il criterio dell'immediata reperibilità passa in secondo piano. Grazie all'avviso previsto dall'art. 369-bis (in fra, cap. V, § 19), la persona sottoposta alle indagini viene tempestivamente informata — tra l'altro — del fatto che non le è consentito fare a meno del difensore, nonché del suo obbligo di retribuire il difensore di ufficio ove non sussistano le condizioni per essere ammessa al patrocinio a spese dello Stato (art. 369-bis comma 2° lett. a e d). In tema di retribuzione, la normativa base è dettata dall'art. 116 d.P.R. cit., dal quale si posso-no estrapolare le tre regole seguenti: a) il difensore d'ufficio si deve far carico della procedura esecutiva per il recupero del credito professionale nei confronti dell'assistito (indagato, imputato o condannato) inadempiente, fermo restando che in questa sua iniziativa giudiziaria usufruisce dell'esenzione da bolli, imposte e spese; b) qualora sia in grado di dimo- strare che la procedura di cui sopra è risultata infruttuosa, il difensore vie-ne retribuito dallo Stato «nella misura e secondo le modalità» previste dall'art. 82 d.P.R. cit., relativo alla retribuzione del difensore patrocinante a spese dello Stato; c) a meno che l'assistito non chieda ed ottenga l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, quest'ultimo surroga il difensore nel suo credito verso il soggetto assistito. Si è inoltre dettata una norma ad hoc — l'art. 117 d.P.R 36

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi irreperibile: com'è ovvio, in tal caso il difensore viene retribuito senza che sia necessaria una sua preventiva attivazione per il recupero del credito professionale.. cit. - per l'ipotesi in cui l'assistenza risulti prestata a favore di un soggetto (indagato, imputato, condannato) 36. Patrocinio dei non abbienti e poteri del difensore. Dell'art. 98, il quale se per un verso ha rinviato ad un'emananda legge sul patrocinio dei non abbienti, per altro verso non ha rinunciato ad un'anticipazione, menzionando un'ampia gamma di destinatari (imputato, persona offesa dal reato, danneggiato che intenda costituirsi parte civile, responsabile civile). Dalla l. 29 marzo 2001, n. 134, con cui si è dettata una disciplina generale del patrocinio dei non abbienti davanti ad ogni giurisdizione. Attualmente, l'intera materia è disciplinata nel t.u. delle legislative e regolamentari sulle spese di giustizia, approvato con d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115. Il soggetto ammesso al patrocinio sceglie quale difensore un libero professionista, il cui compenso viene poi liquidato dall'autorità giudiziaria ed è a carico dello Stato. Non si tratta, evidentemente, dell'unica soluzione possibile, come si ricava, del resto, dallo stesso art. 24 comma 3° Cost., il quale si limita a stabilite che il diritto di difesa dei non abbienti dev'essere assicurato tramite «appositi istituti». Per ipotesi, quindi, anche mediante l'istituzione di «pubblici uffici di assistenza legale», istituto rimasto del tutto incompiuto. L'esame della normativa contenuta nel t.u. può essere avviato partendo dall'art. 81, che, con una previsione parallela all'art. 7 legge n. 60 del 2001 sulla difesa d'ufficio, contempla l'istituzione presso ogni consiglio dell'ordine di un elenco degli avvocati idonei ad essere nominati difensori da colui che è ammesso al patrocinio a spese dello Stato. Circa l'inserimento, su richiesta dell'interessato, in tale elenco — da rinnovare entro il 31 gennaio di ogni anno — delibera il consiglio dell'ordine, che valuta una serie di requisiti recentemente modificati dall'art. 2 l. 24 febbraio 2005, n. 25. Per l’iscrizione all’elenco è sufficiente «l'iscrizione all'albo degli avvocati da almeno due anni»; per l'iscrizione inoltre è necessaria una esperienza professionale «specifica». La soglia per poter usufruire del gratuito patrocinio è di euro 9.296,22 (e, dalla fine del 2005, di curo 9.723,84) del reddito annuale – quello imponibile ai fini dell'imposta personale sul reddito delle persone fisiche – che consente di usufruire del patrocinio a spese dello Stato. Con l'art. 96 commi 2° e 3° d.P.R. cit. ci si è preoccupati del rischio che vengano ammessi al patrocinio soggetti i quali, contrariamente alle loro attestazioni, non versino in realtà nella situazione di "non abbienza". Si è quindi previsto che l'istanza li ammissione al patrocinio vada respinta qualora il tenore di vita, le condizioni personali e familiari del richiedente nonché le attività economiche da lui eventualmente svolte offrano al giudice «fondati motivi» per ritenere – anche in base alle verifiche effettuate dalla Guardia di finanza a tal fine sollecitata – che il reddito da prendere in considerazione superi il tetto stabilito dalla legge. Non solo: con più specifico riferimento all'ipotesi in cui si proceda per uno dei delitti previsti dall'art. 51 comma 3-bis c.p.p. ovvero nei confronti di persona proposta o sottoposta a misura di prevenzione, viene sottratta al giudice qualsiasi discrezionalità, essendo egli tenuto ex lege a chiedere preventivamente al questore, alla direzione investigativa antimafia (Dia) e alla direzione nazionale antimafia (Dna) «le informazioni necessarie e utili» ai fini di una decisione più oculata circa l'ammissione del richiedente al beneficio. E' stata altresì ampliata dal solo processo "principale" a «tutte le eventuali procedure, derivate ed incidentali, comunque connesse». Il difensore del soggetto ammesso al patrocinio può nominare sia un sostituto, secondo quanto dispone l'art. 102 (infra, § 38), sia un investigatore privato autorizzato. A sua volta, l'art. 102 d.P.R. cit. stabilisce che il soggetto ammesso al patrocinio possa «nominare un consulente tecnico di parte». Ne consegue che, diversamente dal passato, è consentita la scelta del sostituto, dell'investigatore e del consulente tecnico anche al di fuori dell'ambito distrettuale, sia pure con la clausola che in tal caso non sono dovute le spese e le indennità di trasferta imputabili alla scelta extra districtum. L'ammissione al patrocinio non è più in alcun modo ostacolata dalla natura contravvenzionale del reato. Nelle ipotesi in cui l'imputato o il condannato partecipino al procedimento penale «a distanza», in base a quanto stabilito dalla l. 7 gennaio 1998, n. 11 (infra, cap. VII, § 8), è ammessa la nomina di un secondo difensore «limitatamente agli atti che si compiono a distanza». Eccettuata tale ipotesi, la nomina di un secondo difensore implica, invece, che gli effetti dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato vengano a cessare (art. 91 comma 1° lett. b d.P.R. cit.). 37

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi Occorre ribadire la regola che – nel definire in via generale i poteri del difensore – estende a quest'ultimo le facoltà ed i diritti spettanti all'imputato medesimo (art. 99 comma 1°). Resta salva in ogni caso la possibilità per l'imputato di togliere effetto con espressa dichiarazione contraria all'atto compiuto dal difensore, anche se per ragioni più che evidenti tale iniziativa deve essere assunta anteriormente alla pronuncia del giudice inerente all'atto controverso (art. 99 comma 2°). 37. Il difensore delle parti eventuali, della persona offesa e degli enti rappresentativi di interessi lesi dal reato. L’artt. 82 ss. c.p.c. stabiliscono che la parte civile, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria stiano in giudizio col ministero di un (solo) difensore (art. 100 comma 1°) – per le eventuali nomine in soprannumero opera il disposto dell'art. 24 disp. att. – munito di procura speciale, ossia relativa al processo in corso, da presumere conferita solo per un determinato grado a meno che nell'atto sia espressa una volontà diversa (art. 100 comma 3°). Per quanto concerne le forme della procura, è ammessa la sua apposizione in calce o a margine dei vari atti mediante i quali avviene l'ingresso della parte nel processo penale: l'autografia della sottoscrizione è certificata dal difensore (art. 100 comma 2°); al di fuori di tale ipotesi, si può inoltre conferire la procura con atto pubblico o con scrittura privata autenticata. Il difensore può compiere e ricevere tutti gli atti del procedimento tranne quelli che la legge riserva espressamente al rappresentato, il cui domicilio deve intendersi automaticamente eletto ad ogni effetto processuale presso il difensore (art. 100 comma 5°). Inoltre, in assenza di una procura ad re, mentre lo stesso non si può dire con riferimento alla persona offesa. Per questo soggetto processuale la nomina di un (solo) difensore – da effettuare con le modalità previste per la nomina del difensore dell'imputato (art. 96 comma 2°) – è infatti solo facoltativa (art. 101 comma 1°). 38. Il sostituto del difensore. Il difensore — sia esso di fiducia o di ufficio — a nominare un sostituto (art. 102 comma 1°). Affinché sia efficace, la designazione deve essere portata a conoscenza dell'autorità procedente con le stesse forme indicate nell'art. 96 comma 2° per la nomina del difensore dell'imputato (art. 34 disp. att.). Spetta dunque al difensore nominare il sostituto, fatta eccezione per le ipotesi prese in considerazione dall'art. 97 comma 4°, dove è previsto che provveda alla designazione il giudice ovvero il pubblico ministero o la polizia giudiziaria. Quanto ai poteri del sostituto, indubbio che la sostituzione non incide sulla titolarità dell'incarico difensivo, fermo restando tuttavia che il difensore sussidiario esercita i diritti e assume i doveri del difensore impedito (art. 101 comma 2°). 39. Le garanzie di libertà del difensore. Il diritto di difesa necessita di un adeguato scudo normativo che ponga, a vantaggio del difensore, precisi limiti ai poteri investigativi degli organi inquirenti. Si considerino anzitutto le ispezioni e le perquisizioni. Se effettuate negli uffici dei difensori – qualunque sia la parte o il soggetto assistiti – sono consentite in due sole ipotesi: quando il difensore o altre persone che svolgono stabilmente la loro attività nel suo ufficio sono imputati (o anche solo indagali data l'estensione prevista dall'art. 61 comma 2°), fermo restando che gli atti in questione devono essere esclusivamente finalizzati all'accertamento del reato attribuito a tali soggetti; oppure quando si tratta, a prescindere da chi sia l'imputato, di rilevare tracce o altri effetti materiali del reato ovvero di ricercare cose o persone specificamente predeterminate (art 103 comma 1°). Questo primo nucleo di garanzie è completato dalla previsione che delimita in negativo il materiale sequestrabile presso i difensori, gli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento (infra, cap. V, § 23), i consulenti tecnici, salvaguardando le carte e i documenti relativi all'oggetto della difesa, sottoponibili a sequestro solo quando costituiscano corpo del reato (art. 103 comma 2°). A pena di nullità l'autorità giudiziaria deve avvisare il locale consiglio dell'ordine per consentire al presidente o ad un suo delegato di presenziare alle operazioni; nel qual caso, su richiesta dell'intervenuto, deve essergli consegnata copia del provvedimento (art. 103 comma 3°). Su un diverso versante si colloca la limitazione inerente ai soggetti legittimati a procedere: devono agire in prima persona, senza possibilità di delegare l'atto alla polizia giudiziaria il giudice o, durante le indagini preliminari, il pubblico ministero. Anche la corrispondenza e le conversazioni del difensore sono ovviamente oggetto di specifiche regole dirette ad immunizzarle da eventuali intrusioni. Per quanto concerne la corrispondenza tra l'imputato, pur se detenuto (art. 35 comma 4" disp. att.), e il proprio difensore, l'art. 103 comma 6° -- si tratta dell'unica disposizione non riferibile ai difensori delle altre parti - stabilisce il diveto di sequestro e di ogni altra forma di controllo. È altresì vietata l'intercettazione – in qualsiasi forma – delle conversazioni (dialoghi) e delle comunicazioni (esternazioni 38

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi unilaterali) che difensori, investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, consulenti tecnici e loro ausiliari effettuino tra di loro, al pari di quelle tra i medesimi e i loro assistiti (art. 103 comma 5°). Il profilo sanzionatorio: fatti salvi i divieti di utilizzazione sanciti dall'art. 271 e la nullità (di natura intermedia ai sensi dell'art. 180), prevista dal 3° comma dell'art. 103, si è stabilito che in caso di inosservanza delle rimanenti disposizioni del medesimo articolo i risultati delle operazioni compiute non possano essere utilizzati. 40. Il colloquio del difensore con l'imputato privato della libertà personale. Da tali premesse è scaturito il riconoscimento che – di regola – il soggetto sottoposto a custodia cautelare, al pari della persona in stato di fermo o di arresto, ha diritto di conferire con il difensore subito dopo che è stato privato della libertà personale (art. 104 commi 1° e 2°) (23). È stato conseguentemente previsto che il difensore, di fiducia o di ufficio, venga immediatamente avvisato dell'avvenuta esecuzione della misura restrittiva (artt. 293 comma 1° e 386 comma 2°), e si è attribuito al difensore il di-ritto di accedere ai luoghi in cui la persona fermata, arrestata o sottoposta a custodia cautelare si trova detenuta (art. 36 disp. att.). In presenza di specifiche eccezionali ragioni di cautela è consentito dilazionare il colloquio per un termine non superiore a cinque giorni. Dato atto dell'operatività dell'eccezione nella sola fase delle indagini preliminari, per quanto concerne il funzionamento del meccanismo dilatorio bisogna distinguere l'ipotesi in cui la privazione della libertà sia l'effetto di un'ordinanza cautelare da quella in cui consegua ad una misura pre-cautelare (arresto in flagranza o fermo): nel primo caso la decisione circa l'eventuale differimento del colloquio spetta al giudice per le indagini preliminari che deve provvedere con decreto motivato – inoppugnabile – su richiesta del pubblico ministero (art. 104 comma 3°); nel secondo, non essendovi spazio per un immediato intervento del giudice, provvede direttamente. il pubblico ministero che può dilazionare il colloquio lino al momento n cui l'arrestato o il fermato è posto a disposizione del giudice. Dopo tale periodo che, in base al disposto dell'art. 390 comma 1° può estendersi per un massimo di quarantotto ore. Il provvedimento è da ritenere inoppugnabile alla luce del principio di tassatività delle impugnazioni (infra, cap. IX, § 2), al difetto o all'insufficienza di motivazione è ricollegabile una nullità (intermedia) suscettibile di estendersi agli atti successivi secondo quanto dispone l'art. 185 comma 1°. 41. L'abbandono della difesa e il rifiuto della difesa d'ufficio. Il procedimento disciplinare nei confronti dei difensori si svolge in assoluta autonomia; esso è devoluto alla competenza esclusiva del consiglio dell'ordine forense (art. 2 n. 4). I primi tre commi dell'art. 105. Con riferimento all'abbandono della difesa e al rifiuto dell'incarico difensivo da parte del difensore d'ufficio (compreso quello chiamato ad operare come sostituto), si dispone infatti che il relativo_ procedimento disc jlinare sia di competenza esclusiva del consiglio dell'ordine forense (art. 105 comma 1°). L'autonomia di quest'ultimo risulta ancora più chiaramente ribadita dalla previsione secondo cui, trattandosi di abbandono o rifiuto motivali dalla violazione dei diritti della difesa, il consiglio dell'ordine, qualora ritenga giustificato il comportamento del difensore, non applica la sanzione disciplinare neppure in presenza di una sentenza irrevocabile che escluda la violazione (art.105 comma 3°). L'autorità giudiziaria è tenuta infatti a comunicare al consiglio professionale sia i casi di abbandono e di rifiuto della difesa d'ufficio, sia i comportamenti integranti vio- lazione da parte dei difensori dei doveri di lealtà e di proibità, sia la violazione del disposto dell'art. 106 comma 4-bis, concernente il divieto, per uno stesso difensore, di assumere la difesa di più imputati che abbiano reso dichiarazioni accusatorie nei confronti di altro imputato (infra, § 42). A seguito dell'abbandono della difesa da parte del difensore di fiducia dell'imputato si determina una stasi processuale, finché non si proceda alla nomina di un nuovo difensore di fiducia ovvero, in mancanza, alla nomina di un difensore d'ufficio. Tutt'altro discorso invece nell'ipotesi di abbandono della difesa delle altre parti private, della persona offesa e degli enti o associazioni di cui all'art. 91, in quanto non risulta ostacolata l'immediata prosecuzione del procedimento (art. 105 comma 5°). Non bisogna però dimenticare che a seguito all’abbandono del difensore tali soggetti, ove non provvedono alla nuova nomina, perdono la possibilità di essere attivi in sede processuale. 42. Incompatibilità, non accettazione, rinuncia e revoca del difensore. Mancando una definizione legislative del concetto di incompatibilità, ci si può utilmente rifare all’elaborazione giurisprudenzaiale, dalla quale emerge che è condizione indispensabile l'inconciliabilità — e non la semplice diversità — delle posizioni degli imputati, nel senso che l'uno deve avere interesse a sostenere tesi pregiudizievoli all'altro. Com'è ovvio, può aversi una spontanea rimozione dell'incompatibilità qualora l'imputato o gli imputati interessati revochino la nomina del difensore oppure quest'ultimo, uniformandosi ad un basilare canone 39

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi deontologico, rinunci alla difesa. Nell'ipotesi in cui ciò non avvenga, è previsto un intervento del giudice in base al quale viene fissato un termine per la sua rimozione da parte dei diretti interessati (art. 106 commi 2° e 4°). L'extrema ratio, è costituita da un'ordinanza del giudice con la quale viene dichiarata l'incompatibilità e sentite le parti interessate, si procede alle necessarie designazioni dei difensori d'ufficio (art. 106 comma 3°). Nel caso più imputati, difesi da un unico difensore abbiano reso dichiarazioni accusatorie nei confronti di un altro soggetto, imputato nello stesso procedimento o in un procedimento connesso ai sensi dell'art. 12 o in un procedimento collegato ex art. 371 comma 2° lett. b.. Il divieto viene in gioco non già per non pregiudicare il diritto di difesa di uno (o più) degli imputati in conflitto di interessi, bensì per non sa- crificare il diritto di difesa del soggetto accusato: sacrificio che, secondo il Il meccanismo previsto dall'art. 106 presuppone l'esistenza di un difensore di fiducia. Lo stesso si deve dire per le ipotesi di non accettazione, rinuncia e revoca del difensore (art. 107). Mentre nel caso di revoca il soggetto agente è l'assistito, la non accettazione e la rinuncia sono iniziative da ricondurre al difensore. Questi ultimi si configurano come atti alternativi (essendo ipotizza bile la rinuncia solo se in precedenza vi è stata l'accettazione della proposta di nomina) che, al pari della revoca, non necessitano di una motivazione. Un profilo importante è quello che concerne il momento in cui si incomianciano a produrre i relativi effetti. Mentre la prima ha effetto dal momento in cui perviene la relativa comunicazione all'autorità procedente (art. 107 comma 2°), con l'eventualità di possibili vuoti di copertura difensiva medio tempore, le seconde sono prive di effetto fino a che la parte non risulti assistita da un nuovo difensore (art. 107 comma 4°). Anzi, se ai fini di una difesa informata il nuovo difensore si avvale ex art. 108 del diritto di ottenere un termine a difesa, la rinuncia e la revoca diventano efficaci solo a partire dalla sua scadenza. Il difensore «ha diritto» ad un termine che, di regola, non può essere inferiore a sette giorni (art. 108 comma 1°). Si può scendere al di sotto di tale termine, fermo restando il limite minimo invalicabile delle ventiquattro ore solo se ricorre una delle tre situazioni considerate nel 2" comma del nuovo art. 108: se vi è il consenso dell'imputato o del suo difensore (in caso di divergenza, troverà applicazione il criterio di cui all'art. 99 comma 2°); se vi sono «specifiche esigenze processuali che possono determinare la scarcerazione dell'imputato»; se ricorrono specifiche esigenze processuali che possono determinare la prescrizione del reato. 43. Gli ausiliari del giudice. Affiancano il giudice o il pubblico ministero svolgendo compiti di vario genere, accomunabili, peraltro, in virtù del loro carattere strumentale rispetto alla funzione della figura cui ineriscono. Pur potendosi attribuire la qualifica di ausiliare in senso lato a chi collabori, anche in via precaria (art. 259) – per ausiliare in senso stretto si deve intendere il coadiutore istituzionale, quello, cioè, la cui presenza è con- trassegnata dai connotati della continuità e della ordinarietà. Con più specifico rifimento alle funzioni del cancelliere, merita di essere anzitutto citato l'art. 126, in cui si prescrive la sua assistenza a tutti gli atti posti in essere dal giudice. Non meno importante è l'attività di documentazione. Tra gli ulteriori compiti vanno segnalati: l'autenticazione di atti (art. 110 comma 3°, art. 39 disp. att.) e dei provvedimenti emessi dal giudice (art. 292 comma 2-bis, art. 429 comma 1° lett. g, art. 460 comma 1° lett. h), la custodia delle cose sequestrate (art.. 258), il rilascio di copie (art. 116), la notificazione dell'atto di i impugnazione (art. 584). Anche presso l'ufficio del pubblico ministero, e, più precisamente, nell'ambito della sua segreteria, opera un ausiliario che svolge funzioni analoghe a quelle del cancelliere. Quanto all'ufficiale giudiziario, premesso che la sua principale funzione è quella di curare l'esecuzione delle notificazioni, ne consegue che svolge un'attività ausiliaria nei confronti sia del giudice (art. 148 comma 1°), sia del pubblico ministero (art. 151). Al medesimo sono attribuiti anche compiti funzionali al corretto svolgimento dell'udienza. Al pari dell'ufficiale giudiziario, anche il direttore dell'istituto penitenziario opera come ausiliario sia del giudice che del pubblico ministero, essendo tenuto a ricevere e ad inoltrare immediata-mente, dopo aver proceduto alla loro iscrizione in apposito registro, l'atto di impugnazione e gli altri atti contenenti dichiarazioni e richieste desti-nate all'autorità giudiziaria, che gli vengano presentati dal soggetto detenuto o internato (art. 123 comma 1° e art. 44 disp. att.).

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Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi Capitolo II

Atti 1. Premessa. Si tratta di definire l'atto processuale penale, in assenza di una esplicita definizione legislativa. Sul piano soggettivo, sono tali quelli posti in essere dai soggetti del procedimento. Sul piano oggettivo, secondo l'opinione in passato prevalente, due sarebbero le caratteristiche essenziali dell'atto processuale penale: la sua attitudine a produrre effetti giuridici dotati di rilevanza processuale penale ed il suo realizzarsi nel contesto del processo penale, ossia all'interno di una fattispecie a formazione progressiva. Una simile impostazione, però, non appare più oggi accoglibile stante la scelta del codice di definire due distinte sequenze denominate, rispettivamente, «procedimento» e «processo», la prima delle quali più ampia e comprensiva della seconda. Lo spartiacque tra i due concetti si ritrova nel compimento, da parte del pubblico mini- stero, di uno dei vari possibili atti di esercizio dell'azione penale, che il legislatore si preoccupa di tipicizzare nell'art. 405, con riguardo sia al pro-cesso ordinario sia ai processi speciali. Ciò che precede l'esercizio dell'azione penale - e, dunque, l'intera fase delle indagini preliminari - compone già la sequenza degli atti del procedimento, mentre ciò che segue fa parte anche del processo. Nella fase delle indagini preliminari difetta un giudice investito del procedimento in senso proprio. Solo nel contesto del processo opera un giudice investito della pienezza delle proprie funzioni giurisdizionali ed abilitato, pertanto, a pronunciare sentenze. Restano da individuare l'atto iniziale e quello finale del procedimento medesimo, ai fini dell'applicabilità delle norme di cui agli artt. 109 ss. Circa la questione del momento iniziale, sembra fuori discussione che gli atti posti in essere prima che la notizia di reato sia venuta ad esistenza non possano mai costituire atti del procedimento. Il primo atto del procedimento con quello immediatamente successivo alla ricezione della notizia di reato da parte della polizia giudiziaria o del pubblico ministero istituito presso il tribunale o la pretura. Ne segue che gli atti nei quali la notizia medesima si sostanzia (denuncia, referto, come pure querela, istanza o richiesta, al- lorquando rivestano una siffatta attitudine) si collocano al di fuori della sequenza del procedimento penale. Da qui, ad esempio, l'inoperatività delle prescrizioni circa l'uso della lingua italiana nella loro redazione. Per le notizie apprese di propria iniziativa dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero appare inevitabile introdurre una distinzione capace di tener conto del fatto che in simili casi la notizia di reato non trova mai consacrazione originaria in un atto tipico. Se la notizia è stata acquisita dal pubblico ministero, poiché scatta l'immediato obbligo di iscriverla nell'apposito registro (art. 335 comma 1°), è da tale iscrizione che ha inizio il procedimento. Il primo atto del procedimento sarà costituito da quello cronologicamente anteriore tra gli atti compiuti dopo l'acquisizione della notizia di reato. Anche per l'individuazione dell'atto finale occorre distinguere. Se le indagini preliminari sfociano in un provvedimento di archiviazione, questo sarà l’ultimo atto del procedimento. Se, invece, l'azione penale è stata esercitata, l'art. 650 comma 2° individua nell'esecutività il momento finale del processo relativamente alle sentenze di non luogo a procedere, così come l'art. 648 individua nella irrevocabilità il momento finale relativamente alle sentenze pronunciate in giudizio ed al decreto penale di condanna. Infine, debbono essere considerati a tutti gli effetti atti processuali penali quelli relativi al procedimento di esecuzione ed al procedimento disorveglianza. Non rileva, invero, la circostanza che entrambe le sequenze siano poste in essere dopo il passaggio in giudicato della sentenza o del decreto di condanna. 2. La lingua degli atti. Di regola, gli atti del procedimento sono compiuti in lingua italiana, che è la lingua ufficiale, ma non si prevedono sanzioni amministrative per chi, pur sapendo esprimersi in tale lingua, ne usi un'altra. L'art. 109 comma 2° supera ogni disegno nazionalistico perché eleva, seppure in un ambito circoscritto al «territorio dove è insediata una minoranza linguistica riconosciuta», altre lingue al rango di lingue del procedimento, accanto e alla pari di 41

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi quella italiana. L'operazione assicura al cittadino appartenente ad una minoranza linguistica riconosciuta il diritto di impiegare nei rapporti con l'autorità giudiziaria la propria madrelingua, a prescindere dal suo livello di conoscenza della lingua italiana. Ciò vale – si badi – non solo per l'imputato e le altre parti private, ma, pure, per i te- stimoni, i periti, i consulenti tecnici e quanti altri vengono in contatto con il procedimento penale Tuttavia, per i primi, stante l'intensità della tutela approntata, il diritto alla difesa personale (dal punto di vista delle capacità di comprendere e di comunicare della parte) risulta assorbito in quello dell'uso della lingua minoritaria. Al di là della sfera di operatività dell'art. 109 comma 2°, per il cittadino italiano alloglotto che non conosca la lingua italiana operano le regole dettate dalla normativa sulle traduzioni (infra, § 18). L'uso di una lingua diversa da quella italiana è subordinato alla sussistenza di una serie. di requisiti. Il primo è che si tratti di una lingua di cui una legge, (anche regionale) «riconosce» la qualità di lingua minoritaria. Il secondo requisito circoscrive la tutela ai soli procedimenti che si svolgano davanti ad un'autorità avente competenza di primo o secondo grado sul territorio dove, ancorché in parte, è insediata la minoranza linguistica. Il terzo requisito si risolve nell'onere del soggetto alloglotto di richiedere sempre l'uso della lingua minoritaria, ma l'opzione, espressa in forma scritta od orale, è revocabile. La tipologia delle nullità conseguenti all'inosservanza delle regole così poste (art. 109 comma 3°) va esaminata separatamente per ciascuno dei due primi commi. Quanto al 1° comma, non v'è motivo per discostarsi dall'orientamento giurisprudenziale affermatosi in passato: in ogni caso si tratterà di una nullità relativa. Il medesimo assunto sembra non valere per le nullità scaturenti dalla violazione del 2° comma: se essa riguarda una parte privata, è messa in gioco l'inosservanza di una disposizione relativa al suo intervento, sicché l'assorbimento della tutela linguistica in quella del diritto di difesa comporta, di regola, l'inquadramento tra le nullità a regime intermedio (art. 180). Ma non è da escludere il verificarsi di una nullità assoluta allorché si tratti di citazione dell'imputato (art. 179 comma 1°). L'autorità giudiziaria, nell'indicare il difensore d'ufficio o designarne il sostituto ai sensi dell'art,97 comma 4°, deve tener conto dell'appartenenza etnica o linguistica dell'imputato. Essendo la lingua nient'altro che uno strumento di comunicazione, accanto all'art. 109 può situarsi l'art. 119, relativo alla partecipazione del sordo, del muto o del sordomuto agli atti del procedimento. Tutte le volte in cui un soggetto in tali condizioni voglia o debba fare dichiarazioni – espressione volutamente lata così da ricomprendere anche atti non qualificabili come interrogatori od esami – sono previste particolari modalità di comunicazione che si avvalgono della parola o dello scritto. In ipotesi del genere, anche indipendentemente dalla circostanza che la persona in discorso non sappia leggere o scrivere, l'autorità procedente provvede a nominargli uno o più interpreti «scelti di preferenza fra le persone abituate a trattare con lui». A favore del sordo, del muto o del sordomuto imputati, stanti le regole generali fissate dall'art. 144, non potrebbe prestare l'ufficio di interprete il prossimo congiunto, trattandosi di soggetto che usufruisce della facoltà di astenersi: proprio al fine di evitare che un tal genere di imputato non possa giovarsi dell'ausilio di chi, presumibilmente, è persona abituata a trattare con lui, l'art. 144 lett. d introduce un'apposita deroga al divieto. 3. La sottoscrizione e la data. Permane l'interdizione all'impiego di mezzi meccanici (ad esempio, la dattilografia) oppure di segni diversi dalla scrittura (ad esempio, la stampigliatura a timbro), equiparati ad una mancata sottoscrizione: in tal senso va intesa la comminato-ria di invalidità contenuta nell'art. 110 comma 2°. Talora il codice impone che gli atti dei soggetti privati siano muniti di un'attestazione relativa all'autenticità della firma. Sono ora abilitati ad autenticare la sottoscrizione di atti, oltre al funzionario di cancelleria, il notaio, il difensore, il sindaco un funzionario delegato dal sindaco, il segretario comunalé, il giudice conciliatore, il presidente del consiglio dell'ordine forense o un consigliere da lui delegato. Naturalmente, il significato dell'intero discorso sta tutto nelle pur ridotte comminatorie di invalidità, sia nella specie dell'inammissibilità (art. 78 comma l°) sia nella specie della nullità relativa (artt. 142, 171 lett. c e g, e 546 comma 3°), talora rilevabile anche d'ufficio (art. 292 comma 2° lett. e), peri casi di mancata sottoscrizione dell'atto. Da un punto di vista generale, può dirsi che la sottoscrizione illeggibile non produce nullità allorché la provenienza dell'atto, sia ricavabile aliunde. Premesso che nel 42

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi linguaggio del codice la data resta comprensiva pure del luogo di formazione dell'atto (c.d. data topica), di regola è sufficiente, accanto all'indicazione spaziale, quella temporale sotto forma di menzione del giorno del mese e dell'anno (art. 111); talvolta è prevista anche l'indicazione (artt. 136 comma 1°, 386 comma 3°, 480 comma 1°, nonché un 59 e 115 comma 1° disp. att.). Per espresso disposto dell'art. 111 comma 2°, l'invalidità sussiste solo nell'ipotesi cui la data non possa stabilirsi con certezza sulla base di elementi tratti dall'atto medesimo o da atti a questo connessi. Se la documentazione di un'atto, per qualsiasi causa è stata distrutta, smarrita o sottratta, né è possibile ricuperarla, ma di tale atto occorre tuttavia fare uso, il codice prevede l'impiego di più rimedi, collocati secondo un ordine successivo che tiene conto della rispettiva complessità. Il più semplice (art. 112) si risolve nella surrogazione all'originale di una copia autentica. Se non è possibile procedere alla surrogazione, soccorre l'istituto della ricostituzione. Nell'intento di rafforzare i poteri del giudice rispetto alle lacune degli atti, l'art. 113 consente un'iniziativa ex officio, ma non indica l'organo incaricato a provvedere. Al pari di quanto dottrina e giurisprudenza hanno sostenuto in passato, tale organo si individua nel giudice avanti al quale pende il procedimento o nel giudice dell'esecuzione. Data la sua natura antieconomica, la rinnovazione dell'atto mancante è configurata dall'art. 113 comma 3° alla stregua di un'extrema ratio. Previo un giudizio di necessità e di possibilità, essa e disposta con ordinanza — da ritenersi inoppugnabile, ma non irrevocabile — che ne prescrive le modalità, non anche le forme, essendo queste predeterminate dalla legge. 4. Il divieto di pubblicazione. L'art. 114 assegna una limitata durata al divieto incondizionato di pubblicazione, ma, nel contempo, prevede numerosi, temporanei divieti, tra cui quelli derivanti dalla flessibilità dell'obbligo del segreto ex art. 329. Dalla lettura del 1° e del 7° comma dell'art. 114 si ricava come il legislatore abbia concepito due tipi di divieto di pubblicazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo. Il primo concerne la riproduzione totale o parziale dell'atto. Il secondo riguarda la pubblicazione di quanto l'atto esprime dal punto di vista concettuale, sicché rileva la pubblicazione fatta anche solo in modo riassuntivo o meramente informative. Essendo la pubblicazione una modalità di rivelazione, l'art. 114 comma 1° correla la disciplina del divieto di pubblicazione anzitutto agli atti coperti dal segreto. Qui il divieto suona assoluto, investendo sia la riproduzione pubblica dell'atto, parziale o totale, sia il contenuto dell'atto, nel senso sopra detto. Dato che la sfera del segreto è determinata in rapporto alla conoscenza (legittima) che la persona sottoposta alle indagini possa avere degli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria (art. 329 comma 1°), il divieto di pubblicazione in discorso opera per tutta la durata delle indagini preliminari, finché restano ignoti i potenziali autori del reato. Dal momento nel quale è individuata la persona sottoposta alle indagini, il divieto si modella in funzione del regime di conoscenza di ogni singolo atto. Tale divieto viene meno con i depositi previsti dagli artt. 366 (per gli atti ai quali avrebbero avuto diritto di assistere i difensori), 409 comma 2° (nel caso di richiesta di archiviazione seguita da fissazione dell'udienza in camera di consiglio) e 415-bis comma 2° (nel caso in cui il pubblico ministero intenda richiede-re il rinvio a giudizio). Tuttavia, esistono atti, come l'informazione di garanzia, che – non rientrando nell'ambito degli «atti di indagine» cui allude l'art. 329 comma 1° – sorgono senza il presidio del divieto assoluto di pubblicazione ex art. 114 comma 1°. L'area del divieto di pubblicazione subisce, poi, una concreta variazione per effetto dei decreti motivati del pubblico ministero relativi alla «desegretazione», ovvero alla «segretazione» di singoli atti. La durata dei divieti è modulata con riguardo alla funzione dell'atto. Se non si procede a dibattimento, l'art. 114 comma 2° fa cadere il divieto in discorso o con la conclusione delle indagini preliminari o con il termine dell'udienza preliminare. Se, invece, si procede a dibattimento, è necessario distinguere tre categorie di atti. Gli atti che all'epilogo del dibattimento risultavano inseriti nel relativo fascicolo, senza che ne fosse stata data lettura in udienza, era-no oggetto di un divieto di pubblicazione destinato a cadere con la pronuncia della sentenza di primo grado. Una declaratoria di illegittimità ha accorciato la durata del divieto: ora gli atti inseriti nel fascicolo per il dibattimento sono pubblicabili sin dalla relativa formazione (art. 431). Se, però, l'atto viene trasferito dal fascicolo per il dibattimento a quello del pubblico ministero, essendosi accolta la relativa questione preliminare 43

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi sollevata ex art. 491, il divieto di pubblicazione non può che ripristinarsi automaticamente, e lo stesso vale nel caso in cui l'atto sia poi letto in una porzione di dibattimento tenuto a porte chiuse. Gli atti che, terminato il dibattimento, risultano, invece, collocati nel fascicolo del pubblico ministero, sono pubblicabili solo dopo la pronuncia della sentenza di secondo grado. Sono, tuttavia, immediatamente pubblicabili gli atti già posti in quest'ultimo fascicolo, in quanto siano stati utilizzati per le contestazioni. La diversa estensione e la tipologia dei divieti posti dall'art. 114 commi 2° e 3° svelano gli interessi per tale via tutelati. Nella prima si coglie essenzialmente l'intento di preservare la neutralità psicologica del giudice. Per gli atti compiuti in sede di udienza dibattimentale la regola desumibile dal regime dell'atto e la libera pubblicazione: eccezioni sono introdotte solo per il dibattimento tenuto a porte chiuse. Lo stesso 4° comma ed il 5° dell'art. 114 introducono, poi, due divieti di pubblicazione di un atto o di una sua parte, che si caratterizzano per essere disposti dal giudice sentite le parti. Il primo concerne gli atti già utilizzati per le contestazioni, allorché sia scattato il divieto di pubblicazione degli atti del dibattimento, essendosi quest'ultimo svolto a porte chiuse. Il secondo divieto investe la riproduzione pubblica, anche parziale, degli atti non segreti dei procedimenti speciali privi della fase dibattimentale, che sarebbero risultati di per sé pubblicabili con la chiusura delle indagini preliminari o al termine dell'udienza preliminare. Nella più ampia prospettiva della tutela della dignità della persona si colloca i1 comma 6-bis. Qui il divieto di pubblicazione investe l'immagine di chi si trovi sottoposto a restrizione della libertà personale. L'esigenza di impedire la pubblicazione di dati che potrebbero cagionare pregiudizio alla personalità del minore, perché ne consentirebbero l'identificazione, è soddisfatta dal 6° comma. Stante la sfera di competenza del giudice non specializzato, il divieto si riferisce alla sola pubblicazione delle generalità o dell'immagine del minore che assuma la qualità di testimone, persona offesa o danneggiato. Successivamente all'entrata in vigore del codice, e stato poi introdotto l'art. 734-bis c.p. che prevede una fattispecie contravvenzionale per chi divulghi, senza il suo consenso, le generalità o l'immagine di persona offesa da atti di violenza sessuale. L'art. 115 ha, perciò, ripiegato sulla previsione di un apposito titolo di responsabilità disciplinare a carico degli impiegati dello Stato o di altri enti pubblici, ovvero degli esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato. Di regolala sanzione disciplinare è destinata a concorrere con quella penale, del resto superfluamente fatta salva. Vi sono, tuttavia, ipotesi in cui la prima assume carattere esclusivo, data l'irrilevanza penale dei divieti di pubblicazione conseguenti ad un ordine di segretazione impartito dal pubblico ministero o dal giudice. La norma sanzionatoria – l'art. 684 c.p. – pone, infatti, una riserva assoluta di legge. 5. La circolazione di copie e di informazioni. La circolazione di atti e di informazioni sul procedimento è disciplinata dagli artt. 116, 117 e 118 in ragione dei soggetti legittimati ad ottenerli. La prima disposizione afferma, come principio generale, che chiunque vi abbia interesse può ottenere, a proprie spese, il rilascio di copie, estratti o certificati di singoli atti, ivi compresi, pertanto, quelli incorporati su supporti non cartacei. Tale rilascio non può essere ottenuto allorché si tratti di atti ancora coperti dal segreto sulle indagini o divenuti oggetto di un decreto di segretazione (art. 329). Nessuno ostacolo discende, invece, dall'esistenza di un mero divieto di pubblicazione sganciato da un sottostante segreto. Tuttavia, per giurisprudenza consolidata, il diniego dell'autorizzazione non è impugna-bile, neppure tramite ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., poiché si tratta non di un provvedimento giurisdizionale, ma di un atto amministrativo ampiamente discrezionale. L'art. 43 disp. att. esplicita, poi, che nessuna autorizzazione è dovuta «nei casi in cui è riconosciuto espressamente al richiedente il diritto al rilascio di copie, estratti o certificati di atti». Ciò vale, nei confronti della generalità delle sentenze in quanto emanate in nome del popolo (art. 101 comma 1° Cost.). Ai sensi dell'art. 116 comma 3°-bis, introdotto dall'art. 2 comma l" I. 7 dicembre 2000, n. 397, il difensore (o un suo sostituto) che presenti all'autorità giudiziaria atti o documenti ha diritto al rilascio di attestazione dell'avvenuto deposito. Stando ai primi interpreti – meglio, alla maggior parte di essi – la norma si porrebbe in stretto rapporto con la formazione del fascicolo difensivo e, in particolare con l'esigenza di individuare con certezza la data del deposito allorquando il giudice non abbia tenuto conto del contenuto del 44

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi fascicolo difensivo. Per quanto riguarda l'attività investigativa, la trasmissione di informazioni svolge un compito essenziale all'interno di un sistema che ha inteso ridimensionare l'ambito del processo cumulativo (art. 12). Benché la stessa autorità giudiziaria procedente possa disporre, di propria iniziativa, la trasmissione, ai sensi dell'art. 117, organo legittimato a presentare la richiesta è unicamente il pubblico ministero che procede, donde l’esclusione di organi delegate. La circolazione di copie e di informazioni troverà, pertanto, spazio quando manchino i presupposti del coordinamento informativo ed investigativo, ovvero vi sia dissenso tra gli uffici del pubblico ministero sulla gestione delle indagini, a meno che si tratti di procedimenti per reati di criminalità organizzata (artt. 118-bis comma 3° disp. att. e 371-bis) – il che preclude un coordinamento che l'art. 371 vuole spontaneo – o quando le indagini non risultino collegate nonostante l'ampiezza dei parametri fissati in materia dal legislatore o, ancora, quando l'altro procedimento non si trovi più nella fase delle indagini preliminari. Verificate «senza ritardo» la propria competenza e quella dell'organo da cui proviene la motivata richiesta, l'autorità giudiziaria versa in un'alternativa secca: rigettarla od accoglierla. La prima soluzione sarà adottata, oltre che per ragioni di ordine rituale, per la riconosciuta esigenza di preservare il segreto di cui all'art. 329. L'obbligo di motivare congrua-mente il rigetto non è comunque sanzionato dalla legge processuale. Naturalmente, resta sempre aperta la strada di rinnovare la richiesta. Anche per quanto concerne l'utilizzabilità delle copie di atti o delle in-formazioni trasmesse, l'attenzione si focalizza nell'art. 117. Qui il legislatore ha specificato che la trasmissione vale solo «per il compimento delle indagini» da parte del pubblico ministero. Escluso ogni impiego in chiave probatoria. Un'ulteriore penetrazione nella sfera del segreto investigativo proviene poi dal potere conferito dall'art. 117 comma 2-bis al procuratore nazionale antimafia. 6. Memorie, richieste e dichiarazioni delle parti. Gli artt. 121, 122 e 123 concernono alcuni poteri accordati alle parti – ivi compreso il pubblico ministero – ed alcune modalità di esercizio di altri poteri non necessariamente propri delle parti. Tali soggetti usufruiscono del potere di presentare memorie o richieste scritte al giudice in ogni stato e grado del procedimento. Non sussiste, in effetti, un obbligo generale di comunicare le richieste e le memorie alle altre parti. Avuto riguardo alle sole richieste, l'art. 121 comma 2° impone al giudice di provvedere entro il termine massimo di quindici giorni. Disposizioni speciali stabiliscono poi termini più brevi (artt. 299 comma 3°, 398 comma 1°, 418 comma 1° e 455). Naturalmente, l'obbligo scatta solo in dipendenza di una richiesta «ritualmente formulata». L'imputato detenuto o internato ha facoltà di presentare impugnazioni dichiarazioni (ivi compresa la nomina del difensore di fiducia) o richieste con atto ricevuto dal direttore dell'istituto. Esse, dopo l'iscrizione nell'apposito registro, sono comunicate all'autorità competente immediatamente, ed hanno efficacia come se fossero ricevute direttamente dall'autorità giudiziaria (art. 123 comma in altre parole, risulta neutralizzato il tempo per l'inoltro dell'atto. L'imputato custodito fuori dell'istituto usufruisce delle medesime facoltà: l'atto e in tal caso ricevuto da un ufficiale di polizia giudiziaria. Le impugnazioni, le richieste e le altre dichiarazioni sono comunicate nel giorno stesso o al più tardi in quello successivo all'autorità giudiziaria competente mediante estratto, copia autentica o raccomandata, ma, nei casi di speciale urgenza, è dato avvalersi di strumenti più celeri, come il telegramma confermato da lettera raccomandata o di «altri mezzi tecnici idonei». 7. La garanzia della legalità. Le norme contenute negli artt. 120 e 124 sono accostabili, in sede espositiva, per la comune garanzia di legalità che mirano a realizzare tramite strumenti diversi. L'intervento del testimone ad atti del procedimento (c.d. testimonianza impropria, oppure ad acta) si giustifica, anzitutto, per assicurare la regolare effettuazione dell'atto e precostituire, a tal fine, una fonte di provapersonale distinta ed aggiuntiva rispetto al relativo verbale. Si tenga presente come il codice espliciti che sono oggetto di prova pure i fatti dai quali dipende l'applicazione di norme processuali (art. 187 comma 2°) e collochi il testimone ad atti del procedimento tra coloro che sottoscrivono il verbale (art. 137 comma 1°). Ciò spiega perché l'art. 120 si preoccupi di enunciare tassativamente le cause di 45

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi incapacità, distinguendole tra naturali e giuridiche (c.d. morali). Se l'imputato o le altre parti private non sono state avvisate della facoltà loro accor- data o ne è stato loro precluso l'esercizio, si verifica una nullità a regime intermedio (art. 180); se, invece, le stesse ipotesi si concretano nei riguardi un altro soggetto, si resta nell'ambito della mera irregolarità. Pure l'obbligo posto dall'art. 124 mira a tutelare il valore della legalità nel procedimento. La norma adempie, infatti, un'importante funzione di chiusura che non può essere pretermessa all'interno di un sistema che accoglie il principio di tassatività delle nullità (infra, § 29). Indipendente, pertanto, dalla comminatoria di forme sanzionatorie endoprocessuali, le norme del codice debbono essere osservate dai magistrati, dai cancellieri, dagli altri organi ausiliari del giudice (e del pubblico ministero). 8. Le forme dei provvedimenti. Il codice contrappone gli atti compiuti nel procedimento, inteso come fase delle indagini preliminari, a quelli posti in essere nel contesto del processo. I primi sarebbero caratterizzati da forme libere. I secondi si atteggerebbero sulla base di forme vincolate (o tassative, ovvero tipiche) in quanto non ammettono equivalent (es.: art. 361 e artt. 213-217): qui non solo la forma intesa come struttura dell'atto risulta minuziosamente prescritta, ma su questa stessa struttura si riverbera anche la forma intesa quale modalità della documentazione (infra, § 14). Da qui un irrigidimento delle forme che anticipa quelle prescritte per i corrispondenti atti probatori del giudizio. Valga, per tutti, l'esempio delle informazioni che il pubblico ministero assume dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini, assoggettate a forme analoghe a quelle della testimonianza (artt. 362 e 373 comma l° lett. d). L'art. 125 segue la tradizione col prevedere tre modelli: sentenza, ordinanza, decreto. Le sentenze si caratterizzano per l'idoneità a chiudere uno stato o un grado del procedimento, in quanto contengono una decisione sulla regiudicanda; quale massima espressione dell'attività giurisdizionale, esse sono pronunciate in nome del popolo italiano. Numerose sono le classificazioni proposte in tema di sentenze e di provvedimenti ad esse equiparabili. Guardando al contenuto decisorio, fondamentale è la contrapposizione tra sentenze di condanna e sentenze di proscioglimento, Le prime sono considerate dall'art. 533 (infra, cap. VII, § 22) come uno degli esiti tipici del dibattimento, ma sentenze di condanna sono pronunciabili anche a lei mine del giudizio abbreviato (art. 442 comma 2°). Vale come sentenza di condanna il decreto penale, mentre la sentenza che applica la pena su richiesta delle parti è solo equiparata ad una sentenza di condanna ex art 445 comma I° (infra, cap. VI, § 8). Le sentenze di proscioglimento costituiscono una categoria assai ampia che include, anzitutto, le sentenze di assoluzione pronunciate all'esito del dibattimento con le formule (indicate nel dispositivo) per cui: il fatto non sussiste, l'imputato non l'ha commesso, il fatto non costituisce reato o non e previsto dalla legge come reato, il reato e stato commesso da persona non imputabile o non punibile per un'altra ragione (art. 530 comma 1°). Le sentenze di assoluzione, allorché diventano irrevocabili, acquistano l'autorità di cosa giudicata, godendo della particolare efficacia loro attri- buita dall'art 652. Dalle sentenze di assoluzione si distinguono tutte le altre sentenze di proscioglimento, in quanto non fornite della particolare efficacia sopra accentrata. Guardando alla progressione dell'iter, cadono sotto l'attenzione le sentenze di non luogo a procedere, pronunciate, al termine dell'udienza preliminare, con le formule, tanto di merito che di rito, indicate nell'art. 425 comma 1°. Esse, ove non siano più soggette ad impugnazione, acquistano forza esecutiva (art. 650 comma 2°), ma non godono dell'irrevocabilità potendo, a certe condizioni, essere revocate (infra, cap. V, § 48). Residuano, infine, le sentenze di non doversi procedere emesse nei re-stanti stati e gradi del procedimento. Qui si collocano le sentenze predibattimentali pronunciate pronunciate con le formule per cui l'azione penale non dove-va essere iniziata o non deve essere proseguita ovvero il reato e estinto (art. 469). le sentenze dibattimentali fondate sulle stesse formule (artt. 529 e 531), nonché quelle pronunciate, sempre con le medesime formule, al termine del giudizio abbreviato (art. 442 comma 1°). In questa classe debbono, infine, essere annoverate anche le sentenze che riconoscono non doversi procedere per l'esistenza di un segreto di Stato (artt. 202 comma 3° e 256 comma 3°) ovvero di una violazione del divieto di bis in idem (art. 649 comma 2°). Trattandosi di sentenze meramente processuali esse non implicano, in quanto ciò non appare necessario, un 46

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi completo approfondimento di merito: sicché, pur divenendo irrevocabili sono sempre prive di efficacia in sede exlrapenale. Le sentenze c.d. dichiarative in quanto verificano l'esistenza di determinate fattispecie, caratterizzate per la loro natura processuale, ma sfornite della portata liberatoria propria delle sentenze di non luogo a procedere ,e di proscioglimento. Tali sono, ad esempio, le sentenze di annullamento e, soprattutto, le sentenze che pronunciano sulla giurisdizione e sulla competenza. Queste due ultime, in particolare, non sono, per definizione, impugnabili e, se pronunciate dalla Corte di cassazione, godono della particolare efficacia loro decretata dall'art. 25 (retro, cap. I, § 9). Si pensi, ancora, alle sentenze c.d. costitutive, in quanto esse stesse creative di effetti giuridici. Tali sono, ad esempio, le sentenze emesse dal tribunale peri minorenni che concedono il perdono giudiziale (art. 169 c.p.), le sentenze di riabilitazione (art. 683), nonché quelle che riconoscono efficacia alle sentenze penali straniere (art. 730). Altra distinzione è quella tra sentenze di merito e sentenze processuali, posto che essa è ricavata, in larga misura, dall'efficacia della decisione in sede extrapenale. Le ordinanze servono, invece, specie risolvendo le c.d. questioni incidentali, a governare l'andamento del processo, pur essendovene alcune in grado, altresì, di concluderlo, come quelle che dichiarano l'inammissibilità deII'impugnazione (art. 591). Di regola, le ordinanze sono revocabili. A sua volta il requisite dell’inoppugnabilità, inteso alla stregua di un corollario della revocabilità, non e un dato costante, soffrendo di diverse deroghe (artt. 41, 309, 318 e 586). Dal canto loro, i decreti esprimono un comando dell'autorità procedente, assumendo, pertanto, natura prevalentemente amministrativa. Essi sono assoggettati al regime della revoca. I decreti, a differenza delle sentenze e delle ordinanze, non abbisognano, se non è diversamente disposto (artt. 117 comma 2°, 118 comma 2°, 127 comma 8°, 409 comma 1° e 460 comma 1°), di motivazione. Al tempo stesso, è comminata (art. 125 comma 3°) la nullità - relativa - per la mancanza di motivazione nelle sentenze, nelle ordinanze e, ove prescritta, nei decreti, con l'intento di dare piena attuazione all'art. 111 comma 6° Cost.. Stando alla giurisprudenza prevalente, la motivazione per relationem - ossia quella che si riporti al contenuto di un altro atto non è causa di nullità tutte le volte in cui il secondo sia conosciuto o facilmente conosci-bile dalla parte, ad esempio, per effetto del deposito in cancelleria. La giurisprudenza ammette poi l'uso di moduli prestampati. Nella prospettiva di una massima semplificazione, trova spazio, seppur residuale, la categoria dei provvedimenti adottati senza formalità – per-tanto innominati – ed esternabili anche oralmente (art. 125 comma 6°). Il più cospicuo esempio della categoria lo forniscono i provvedimenti emessi dal presidente del collegio (artt. 470 comma 1°, 471 commi 4°, 5° e 6° e 504). L'art. 125 non si occupa solo delle forme dei provvedimenti (commi l°, 2° e 30), ma anche della relativa deliberazione in camera di consiglio, la quale si caratterizza per l'immediatezza rispetto alla chiusura della trattazione, per l'immutabilità dei giudici rispetto alla trattazione medesima e per la continuità delle operazioni. Dalla fase deliberativa è escluso, per espresso divieto (comma 4° prima parte), unitamente alle parti, l'ausiliario che, designato a norma dell'ordinamento, di regola assiste il giudice in tutti gli atti ai quali procede, in conformità alla regola dettata dall'art. 126. Nella seconda parte del 4° comma è collocata, invece, l'espressa previsione del segreto sulla deliberazione, penalmente tutelato dagli artt. 326 e 685 c.p. Nel caso di provvedimenti collegiali e purché lo richieda un componente del collegio che non abbia espresso voto conforme alla decisione, è compilato sommario verbale contenente l'indicazione del dissenziente, della questione o delle questi alle quali si riferisce il dissenso ed i motivi dello stesso, succintamente esposti. Il verbale, redatto dal meno anziano tra i componenti togati del collegio e sottoscritto da tutti gli altri, viene conservato, a cura del presidente, in plico sigillato presso la cancelleria dell'ufficio. 9. Il procedimento in camera di consiglio. La costruzione operata dall'art. 127 di un modello validoper tutti i procedimenti che si svolgono in camera di consiglio (c.d. rito camerale) adempie ad una duplice funzione: da un lato, realizza un'apprezzabile economia legislative; dall'altro, assicura il contraddittorio tra le parti e, più in generale, il diritto di difesa dei soggetti interessati. Al riguardo, si possono distinguere i numerosi casi, in mercé di espresso riferimento all'art. 127, il rinvio a tali forme è integrale, da quelli rispetto ai quali la norma speciale introduce adattamenti talora piuttosto 47

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi sensibili. Il senso della deviazione rispetto al modello si apprezza guardando al modo di realizzazione del contraddittorio. Una garanzia più intensa (c.d. modello forte) vale nell'area dei procedimenti in cui è imposta la partecipazione necessaria del difensore della persona sottoposta alle indagini, dell'imputato o dell'interessato, nonché del pubblico ministero. Vi si collocano l'udienza per l'incidente probatorio (art. 401 comma 1°), l'udienza preliminare (art. 420 comma 1°), comprensiva di quella susseguente all'innesto del giudizio abbreviato (art. 441), l'udienza volta a consentire il proscioglimento prima del dibattimento (art. 469), l'udienza in camera di consiglio nel caso di rinnovazione dell'istruzione in grado d'appello (art. 599 comma 3°), nonché le udienze dei procedimenti di esecuzione (artt. 666 comma 4° e 678 comma 1°) e di estradizione passiva (art. 704 comma 2"). La sola indefettibile presenza del difensore (e non del pubblico ministero) è imposta per l'udienza di convalida dell'arresto in flagranza e del fermo di indiziato di delitto (art. 391 comma 1°). Per contro, vi sono ipotesi in cui il contraddittorio è assicurato ad un li-vello inferiore al modello offerto dall'art. 127, assumendo una forma meramente cartolare (modello «debole»). Tali sono il procedimento con cui il giudice autorizza senz'altro la proroga del termine delle indagini preliminari (art. 406 comma 4°) o il procedimento mediante il quale la corte di cassazione decide i ricorsi quando sussistano i presupposti indicati dall'art. 611. Al di là della questione se l'elenco dei procedimenti in camera di consiglio sia tassativo, è certo che tale procedimento non deve essere sempre adottato allorché il giudice assume una deliberazione in camera di consiglio. E' lo stesso art. 127 a mettere in risalto l'esistenza di due categorie, quando contrappone, alle forme da seguire allorché si deve procedere in camera di consiglio, l'adozione di un provvedimento «anche senza formalità procedura», come viene esplicitato nel 9° comma in ordine all'inainmissibilità dell'atto introduttivo del procedimento. L'attuazione del contraddittorio è scandita dall'obbligo, a pena di nullità, di dare avviso alle parti private (nonché al pubblico ministero), alle altere persone interessate ed ai difensori – avviso da notificarsi (o da comunicarsi al pubblico ministero) almeno dicci giorni (da intendersi "liberi") prima della data fissata per l'udienza – e di provvedere a nominare un difensore d'ufficio all'imputato che ne sia privo. Fino a cinque giorni prima dell'udienza possono presentarsi memorie in cancelleria. Il verbale può essere ora redatto tanto in forma integrale quanto in forma riassuntiva, ai sensi dell'art. 134 comma 2 (infra, § 13). Appena compiuti gli atti introduttivi, e, quindi, accertata la regolare costituzione delle parti (in cui non rileva, stando alla giurisprudenza, il legittimo impedimento del difensore), nei procedimenti davanti ad organi collegiali la relazione orale è svolta da uno dei componenti il collegio, previa designazione del presidente, in funzione della natura dialettica del procedimento (art. 45 disp. att.). Il pubblico ministero, gli altri destinatari dell'avviso ed i difensori sono sentiti, a pena di nullità, se compaiono, donde si ricava che non è prescritta la partecipazione necessaria del pubblico ministero e del difensore della persona sottoposta alle indagini, dell'imputato o dell'interessato, eccettuati i soli casi richiamati dianzi. L'interessato detenuto o internato in luogo situato fuori della circoscrizione del giudice procedente, se ne fa richiesta, deve, sempre a pena di nullità, essere sentito prima del giorno dell'udienza dal magistrato di sorveglianza del luogo in cui è ristretto (art. 127 commi 3° e 5°). Per il solo imputato o condannato se sussiste un legittimo impedimento, altro non resta che disporre, a pena di nullità (art. 127 commi 4° e 5°) il rinvio dell'udienza. Si prevedono la forma del provvedimento finale (ordinanza, in genere), la sua comunicazione al pubblico ministero e la correlativa notificazione alle parti private, alle persone interessate ed ai difensori, la ricorribilità per cassazione, nonché l'esclusione dell'effetto sospensivo: impregiudicato, peraltro, il potere del giudice di disporre diversamente con decreto motivato. In ordine, invece, ai provvedimenti deliberati in camera di consiglio senza far luogo al procedimento descritto, l'art. 127 comma 9° prende in considerazione unicamente quelli conseguenti al-l'inammissibilità dell'atto introduttivo, le cui cause sono individuate, in linea generale, dall'art. 591. Tramite il deposito, i provvedimenti emessi a seguito di procedimento in camera di consiglio o de plano entrano a far parte dell'ordinamento. La disciplina stabilita dall'art. 128 eccettua tanto i provvedimenti emessi nell'udienza preliminare, rispetto ai quali vale l'art. 424, quanto - natural-mente - quelli emessi nel dibattimento, cui si riferisce l'art. 544. Nell'ipotesi in cui il provvedimento sia suscettibile di impugnazione, 48

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi l'avviso di deposito - nel quale è contenuto il solo dispositivo – deve essere comunicato al pubblico ministero e a tutti i titolari del diritto di impugnazione. 10. L'immediata declaratoria di cause di non punibilità e la correzione degli errori materiali. L'immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità e la procedura per la correzione di errori materiali integrano entrambe manifestazioni di un potere di iniziativa ufficiosa conferito al giudice. Estesa è la gamma delle formule terminative considerate dall'art. 129 e disposte se- condo un ordine di priorità improntato alla tutela dell'innocenza dell'imputato: autonomia è conferita, come in altri casi, alle formule per cui «il fatto non costituisce reato» ovvero «non è previsto dalla legge come reato» (per il rispettivo significato, infra, cap. VII, § 22). Nondimeno, il riferimento alla mancanza di una condizione di procedibilità va interpretato in senso estensivo, così da comprendervi anche la mancanza di una causa di proseguibilità, come si evince dal richiamo effettuato dall'art. 68 all'art. 129 (retro, cap. I, § 24). La stessa conclusione vale, poi, per le ipotesi di violazione del divieto del bis in idem. Poiché nella fase delle indagini preliminari non esiste un giudice che proceda, si è dovuto prevedere che la immediata declaratoria operi solo nel contesto del processo e non anche nel momento anteriore di natura preprocessuale. Nella fase delle indagini preliminari un compito equivalente è svolto dall'istituto dell'archiviazione: nei confronti delle formule in facto soccorre l'art. 408, dove è disciplinata l'archiviazione della notizia infondata, mentre nei confronti delle formule in iure opera l'art. 411, dove sono contemplate la mancanza di una condizione di procedibilità, l'estinzione del reato o l'essere il fatto non previsto dalla legge come reato. L'art. 425 comma 3°abilita ora il giudice ad emettere sentenza di non luogo a procedere "anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contradditorio comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio". Nei confronti dei procedimenti speciali, l'art. 444 comma 2° e l'art. 459 comma 3° esplicitano l'incidenza dell'art 129, la cui concreta applica a impedisce l'accoglimento della richiesta, rispettivamente, di applicazione della pena o di emissione del decreto penale. Negli atti preliminari al dibattimento in base all'art. 469, è ammessa la declaratoria con le sole formule relative all'improcedibilità dell'azione ed all'estinzione del reato, sempre che per accertarne l'esistenza non sia necessario procedere a dibattimento: diversamente, il giudizio prosegue (infra, cap. VII, § 6). Nei gradi di impugnazione, l'applicabilità ex officio dell'art. 129 comma 1° configura una deroga all'effetto parzialmente devolutivo dell'appello (art. 597).- ed al carattere del (art. giudizio (cassazione quale controllo di legittimità vincolato ai motivi (art. 606), (infra cap. IX § 22 e 32) In quest'ultima sede la declaratoria che il fatto non e previsto dalla legge come reato, che il reato è estinto o che, l'azione penale non doveva essere iniziata o proseguita si risolve in un annullamento senza rinvio (art. 620 comma 1° let. a). Pure le formule per cui il fatto non sussiste e l'imputato non lo ha commesso sono adottabili dalla corte di cassazione. L'«obbligo del proscioglimento nel merito, quando ne ricorrano gli estremi, anche in presenza di una causa estintiva del reato», così come prescrive la legge delega (art. 2 n. 11), è disciplinato nell'art. 129 comma 2°, con esclusivo riferimento alle sentenze di assoluzione o di non luogo a procedere. La norma contiene una regola di giudizio, nel senso della prevalenza (c d. «priorità») della formula di merito su quella estintiva, ed una regola istruttoria, per cui tale prevalenza deve risultare evidente dagli atti. Per le sentenze di assoluzione, la prevalenza del merito vale anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussista o che l'imputato l'abbia commesso, che il fatto costituisca reato o che il reato sia stato commesso da persona non imputabile (art. 530 comma 2°). Per le sentenze di non luogo a procedere, dovrebbe ormai valere la stessa conclusione (infra, cap. V, § 45), alla luce del nuovo testo dell'art. 425. Nel dibattimento, si delinea un contrasto tra la regola di giudizio improntata al riconoscimento dell'innocenza dell'imputato e la regola istruttoria in tema di evidenza ex actis tutte le volte in cui l'imputato voglia esci citai e il suo diritto alla prova. Poiché il giudice, di fronte alla causa estintiva, altro non potrebbe fare che dichiararla, l'imputato si vedrebbe sottratta la possibilità di ottenere, tramite l'acquisizione probatoria dibattimentale, la pronuncia di una formula assolutoria. Per chi ritenga l'art. 129 comma 2° applicabile in tale sede, residua, tuttavia, la considerazione che l'imputato ha diritto a rinunciare all'amnistia sopravvenuta, nonché alla 49

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi prescrizione nel frattempo maturate. Per quanto concerne il giudizio di cassazione è da ritenere che possa pronunciarsi la formula di merito allorquando il giudice di primo o di secondo grado abbia applicato una causa estintiva. La correzione degli errori materiali (art. 130) mette riparo a deviazioni non gravi dell'atto dal suo schema tipico (infra, § 29). L'apposita procedura opera in presenza di tre presupposti. Anzitutto, ne sono oggetto unicamente gli atti del giudice riportabili al modello delle sentenze, ordinanze e decreti; inoltre, all'errore materiale (o all'omissione) non deve essere ricollegata una previsione di nullità. Stando ad un'opinione corrente, l'errore si deve sostanziare in una difformità tra il pensiero del giudice e la sua formulazione (ossia tra contenuto dell'atto e sua estrinsecazione), mentre l'omissione deve riguardare un comando che discenda, in maniera pressoché automatica, dalla legge. Tuttavia vi sono casi, come l'omessa declaratoria sulla falsità di un documento accertata con sentenza di codanna (art. 537 comma 1°), non riparabili ex art. 130: il rimedio consiste allora nell'impugnazione, anche autonoma, del relativo capo (art. 537 comma 3°). Infine, secondo una valutazione da effettuarsi in concreto, l'eliminazione dell'errore o dell'omissione non deve comportare una «modificazione essenziale dell'atto». Competente a procedere – anche d'ufficio – alla correzione è il giudice autore _ dell'atto, ma, quando sia stata proposta impugnazione, tocca al giudice ad quem, salvo che dichiari inammissibile l'impugnazione stessa. Il procedimento si svolge in camera di consiglio secondo le forme prescritte dall'art. 127. L'ordinanza che dispone la correzione è annotata poi sull'originale dell'atto. Numerose sono le ipotesi alle quali è resa esplicitamente applicabile la procedura in discorso (benché, talora, riferita alla species della rettificazione). Ne segue che, per il principio di specialità, le severe condizioni poste dall'art. 130 possono essere travalicate: così in tema di erronea attribuzione delle generalità all'imputato (art. 66 comma 3°); di omessa condanna alle spese (art. 535 comma 4°); di correzione della sentenza se occorre completare la motivazione ovvero se mancano o sono incompleti altri requisiti previsti dall'art. 546, escluse la mancanza di motivazione, la mancanza o l'incompletezza del dispositivo, la mancata sottoscrizione del giudice, trattandosi di cause di nullità (art. 547); di condanna di una persona in luogo di un'altra per errore di nome. Le Sezioni unite della Corte suprema hanno ritenuto che il procedimento di correzione degli errori materiali operi pure nel giudizio di cassazione. Rispetto alla correzione ex art. 30 assume una più spiccata autonomia la retificazione della sentenza impugnata, a cui provvede la corte di cassazione in forza dell'art 619 (infra, cap. IX § 38). 11. I poteri coercitivi. I poteri coercitivi del giudice di cui si occupa l'art. 131 assumono natura tipicamente amministrativa (c.d. polizia processuale). Il giudice deve avvalersi, anzitutto, della polizia giudiziaria e, solo se quest'ultima non sia in grado di provvedere, ricorrere alla forza pubblica. L'accompagnamento coattivo: l'istituto in discorso si risolve in una restrizione della libertà personale resa necessaria dall'indispensabile acquisizione di un contributo probatorio, la relativa disciplina non poteva trovar posto tra le misure coercitive personali perché oggetto di una rigida predeterminazione finalistica. Può essere adottato anche per reati di minima entità peri quali non è consentita l'emissione di una misura coercitiva personale (art. 280). Al di là dell'ipotesi dell'art. 376, in cui l'accompagnamento è disposto dal pubblico ministero, ancorché a seguito di un'autorizzazione del giudice, per procedere ad atti di interrogatorio o confront. L'accompagnamento coattivo dovrebbe essere preceduto, a seconda dei casi, da un avviso notificato o da un decreto di citazione rimasti senza effetto; suoi destinatari sono la persona sottoposta alle indagini, l'imputato (tanto assente quanto contumace) e gli imputati in un procedimento connesso (artt. 210 comma 2° e 513 comma 2°); suo scopo l'assunzione di prove diverse dall'esame, eccezion fatta per l'esame di persona imputata in un procedimento connesso. Il decreto motivato di accompagnamento è atto dall'efficacia temporale predeterminata. La durata massima pari a ventiquattro ore. La formula dell'art. 133, concernente l'accompagnamento coattivo dei testimoni, periti, consulenti tecnici, interpreti e dei custodi di cose sequestrate, contiene una specifica indicazione dei presupposti. I soggetti indicati sono, infatti, passibili di accompagnamento solo se, regolarmente citati o convocati, omettano di comparire nel luogo e nel tempo stabiliti senza addurre un legittimo impedimento: la medesima condizione vale pure per 50

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi l'accompagnamento coattivo disposto dal pubblico ministero (art. ;77 comma 2° lett. c). Data la qualità rivestita, le persone in discorso pos- sono essere condannate ad una sanzione pecuniaria, nonché alle spese causate dalla mancata comparizione, ma la condanna è revocata con ordinanza ove il giudice ritenga fondate le giustificazioni addotte in seguito dall'interessato (art. 47 disp. att.). 12. I princìpi in materia di documentazione degli atti. L'attività volta alla documentazione può definirsi come il meccanismo attraverso cui un atto viene inserito e conservato nella sequenza procedimentale, affinché giudice e parti possano controllarne la regolarità ed averne memoria ai fini delle decisioni che si dovranno adottare in primo grado e, soprattutto, nei giudizi di impugnazione. Benché di documentazione possa discorrersi a proposito di tutti gli atti processuali, l'espressione è usata per antonomasia per quelli la cui esternazione si realizza mediante dichiarazioni verbali e per quelli consistenti in operazioni. Solo in tali casi, infatti, assume autonoma rilevanza, rispetto all'attività volta a confezionare l'atto, l'attività intesa a documentarne l'avvenuta confezione. Il senso della linea distintiva si avverte già sul piano soggettivo considerando come l'autore dell'atto documentato non coincida – di regola – con l'autore della documentazione. L'attività di documentazione produce come risultato un un documento (rectius, un atto, secondo la terminologia codicistica, in quanto riferito al medesimo procedimento) avente natura rappresentativa di un'entità distinta dalla propria materialità, consistente in un supporto cartaceo, magnetico, etc. Per gli atti del pubblico ministero si rinvia alle modalità di quelli del giudice (art. 373 comma 2°); per gli atti della polizia giudiziaria il rinvio è mediato, facendosi riferimento alla disciplina predisposta per quelli del pubblico ministero (art. 357 comma 3°). Non solo, è toccato pure modulare l'impianto della documentazione in rapporto alle caratteristiche di ciascuna fase del procedimento: sono state così introdotte disposizioni specifiche per l'incidente probatorio (art. 401 commi 5° e 8°), per l'udienza preliminare (art. 420 comma 4°), per l'udienza dibattimentale ordina-ria (artt. 480-483 e 510) e per quella davanti al tribunale in composizione monocratica (art. 559 comma 2°). 13. Le modalità della documentazione. L'art. 134, dedicato alle singole modalità di documentazione, rappresenta la chiave di volta che sorregge l'intera costruzione della materia. Il 1° comma enuncia il principio generale per cui la documentazione degli atti del giudice si effettua «mediante verbale». La formula esclude, anzitutto, che per tali atti valga quella modalità documentativa che si sostanzia nella semplice annotazione: essa è praticabile solo per gli atti del pubblico ministero o della polizia giudiziaria. Per quanto concerne la documentazione delle indagini difensive, si tenga presente il rinvio operato alle disposizioni qui esaminate (artt. 134-142) dell'art. 391-ter comma 3°. II codice non fornisce una definizione di «verbale», ma una simile esigenza non assume carattere pressante dal momento che al verbale non è più riconosciuta all'interno del processo penale quella fede privilegiata che gli era conferita in passato perché suscettibile di essere superata solo tramite l'apposito incidente di falso. Nell'udienza preliminare, di regola, il verbale è redatto in forma riassuntiva, ma, su richiesta di parte, il giudice dispone la riproduzione fonografica o audiovisiva ovvero la redazione del verbale con la stenotipia (art. 420 comma 4°). Nel dibattimento davanti al tribunale in composizione monocratica, l'adozione del verbale riassuntivo è rimessa, addirittura, alla concorde volontà delle parti (art. 559 comma 2°), sempre che il giudice non ritenga necessaria la redazione in forma integrale. Niente è detto circa l'inosservanza delle disposizioni dettate in ordine alla forma documentativi prescritta, sicché si deve escludere che ne derivi una qualche invalidità, salvo quanto prescritto dall'art. 141-bis. Nell'elencare i mezzi di documentazione il codice pone sullo stesso piano la stenotipia o altro strumento meccanico e, in posizione subordinata, la scrittura manuale. L'art. 134 comma 3° ricollega come regola alla redazione del verbale in forma rias- suntiva la riproduzione fonografica. Il nesso così creato tra forma e modo di documentazione non è però indefettibile: l'art. 140, infatti, vi apporta una vistosa eccezione (infra, § 14). Infine, l'art. 134 comma 4° prevede che se la modalità di documentazione già considerate appaiono al giudice 51

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi insufficienti, può essere «aggiunta» la riproduzione audiovisiva «se assolutamente indispensabile». Gli artt. 135, 136 e 137, applicabili quanto meno ai verbali redatti con la stenotipia o con altro mezzo meccanico, ne disciplinano la redazione, il contenuto e la sottoscrizione. Nel redigere il verbale con tali mezzi, l'ausiliario del giudice, se sfornito delle necessarie competenze, può essere autorizzato a farsi assistere sia da personale tecnico facente parte dell'amministrazione sia da personale esterno. Il contenuto del verbale si sostanzia nei normali referenti topografici e cronologici, nonché nella menzione della generalità delle persone intervenute e nell'indicazione delle cause, se conosciute, della mancata presenza di coloro che sarebbero dovuti intervenire. La formalità della sottoscrizione, previa lettura del verbale, è disciplinata dall'art. 137, ove si prevede che la firma (valida, stando alla giurisprudenza, anche con le sole iniziali del nome o con una sigla) sia apposta alla fine di ogni foglio da parte del pubblico ufficiale che l'ha redatto, dal giudice e dalle persone intervenute, ancorché le operazioni non siano esaurite e vengano rinviate ad altro momento. Se taluno degli intervenuti non vuole o non è in grado di sottoscrivere, ne è fatta menzione nel vebale indicandone i motivi: da qui la conclusione che l'atto resta piena mente valido. La regola è semplificata, dato il numero degli intervenienti, per il verbale del dibattimento (art. 483) e per quello dell'incidente probatorio (art. 401 comma 5°), nonché, per ragioni tecniche, tutte le volte in cui è impiegato uno strumento meccanico che non comporla l'immediata impressione di caratteri comuni di scrittura (art. 50 comma 2° disp. att.). 14. Le trascrizioni e le riproduzioni. I nastri impressi con i caratteri della stenotipia sono trascritti in caratteri comuni, ai sensi dell'art. 138, non oltre il giorno successivo a quello in cui sono stati formati, ma la prescrizione risulta tecnologicamente tardiva, stante la possibilità di procedere ormai ad una trascrizione simultanea mediante computer. Ad ogni modo, il termine, non perentorio, è derogato da un'espressa clausola di salvezza per il verbale del dibattimento, che deve essere trascritto non oltre tre giorni dalla sua formazione (art. 483 comma 2°). Effettuate da personale tecnico anche estraneo all'amministrazione dello Stato, ma sempre sotto la direzione dell'ausiliario del giudice, le riproduzioni fonografiche e audiovisive sono in seguito trascritte — senza limiti di tempo — a cura del personale tecnico giudiziario. Se le parti vi consentono, il giudice può disporne l'omissione. Pur senza attribuire alle parti un potere dispositivo sulla documentazione, si vuole realizzare una consistente economia ogniqualvolta le parti non abbiano interesse alla trascrizione, come accade quando la sentenza non sia impugnata. Le registrazioni fonografiche o audiovisive e le relative trascrizioni – se effettuate – sono poi accluse al fascicolo del procedimento (art. 139 comma 6° e, per il dibattimento, art. 483 comma 3°). Dall'art. 139 comma 2° si ricava che, tutte le volte in cui è effettuata la riproduzione fonografica, nel verbale e indicato il momento di inizio o di cessazione delle operazioni di riproduzione. In base l'art. 139 comma 3°, se una parte della riproduzione, per qualsiasi causa, non abbia avuto esito o non sia chiaramente intelligibile, fa prova il verbale redatto in forma riassuntiva. L'art. 140 comma 2° stabilisce, poi, che, se è redatto solo il verbale in forma riassuntiva, al giudice spetta uno specifico obbligo di vigilare a l t in ché sia riprodotta nell'originaria genuina espressione la parte essenziale delle dichiarazioni e siano descritte le circostanze nelle quali esse sono rese, sempre che ciò serva a valutarne la credibilità. Nella prassi, è Io stesso giudice ad intervenire nella redazione, dettando all'ausiliario il riassunto delle dichiarazioni rese davanti a lui. Le cause di nullità (relativa) del verbale sono ridotte dall'art. 142 all'incertezza assoluta sulle persone intervenute ed alla mancata sottoscrizione da parte del pubblico ufficiale che ha redatto il verbale. Essendo il verbale un atto del procedimento, pure l'inosservanza delle prescrizioni dettate dall'art. 109 commi I° e 2° produce nullità. La clausola di salvezza posta nell'art. 142 va riferita alla disciplina delle ricognizioni, da cui si apprende che la mancata menzione nel verbale di determinati adempimenti e dichiarazioni (art. 213 commi 2° e 3°), nonché delle relative modalità di svolgimento (artt. 214 comma 3° 215 comma 3° e 216 comma 2°), determina la nullità del mezzo di prova. In tal caso, pertanto, la documentazione dell'atto funge da condizione di validità del suo contenuto. 52

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi 15. La documentazione dell'interrogatorio del detenuto. Tre sono le condizioni perché scatti la disciplina speciale. Anzitutto, il riferimento all'interrogatorio include varie ipotesi sia l'interrogatorio della persona sottoposta alle indagini o, meno di frequente, dell'imputato (artt. 294, 299 comma 3-ter, 301 comma 2-ter, 364 comma 1°, 388), sia quello dell'imputato (e della persona sottoposta alle indagini) in un pro-cedimento per reato connesso o collegato a quello per cui si procede ex art. 371 comma 2° lett. (art. 363). Infatti – ed ecco la seconda condizione – l'interrogato deve essere «a qualsiasi titolo, in stato di detenzione», operando anche nei confronti di chi sia sottoposto a custodia cautelare per un altro procedimento o stia espiando una pena detentiva per un altro reato. Per chi si trovi in detenzione domiciliare, la circostanza che si tratti di una «misura alternativa alla detenzione» sembrerebbe orientare verso la soluzione negativa, ma verso quella positiva spinge l'interpretazione sistematica con l'art. 275 comma 4°. Infine, la norma non vale per gli interrogatori assunti nel contesto spaziale e temporale dell'udienza: esclusi, pertanto, quelli svoltisi in sede di convalida Nicola Prati 81 dell'arresto in flagranza o del fermo o nell'udienza preliminare. E’ giocoforza intenderlo come una manovra volta a rafforzare la determinazione della persona sottoposta ad interrogatorio ad avvalersi della facoltà di non rispondere, in situazioni in cui il suo esercizio, già indebolito per l'accresciuta soggezione psicologica, potrebbe essere esposto a sollecitazioni allorquando il difensore non sia presente. Le testimonianze assunte tramite incidente probatorio nei procedimenti per reati di cui agli artt. 609-bis, 609 terz, 609-quater e 609 octies c.p., quando tra le persone interessate all'assunzione della prova vi siano minori di anni sedici, devono essere sempre documentate con modalità analoghe a quelle imposte dall'art. 141-bis. Sussistendo gli indicati presupposti, nasce il vincolo a disporre la riproduzione fonografica o audiovisiva integrale, laddove l'aggettivo significa qui per intero e senza interruzioni. La trascrizione non è obbligatoria, ma avviene solo su richiesta di (ciascuna) parte, tuttavia la mancata indicazione di limiti temporali profila diseconomie quando l'esigenza sia fatta valere in dibattimento. Riuscendo incomprensibile perché il giudice non possa disporre la trascrizione, si deve ipotizzare che essa rientri nei suoi poteri ufficiosi. Per il suo indubbio carattere oggettivo ed assoluto, l'inutilizzabilità prevista dall'art. 141-bis copre ogni impiego dell'interrogatorio. Essa scatta ogni qual volta in motivazione si faccia significativo impiego probatorio dell'atto viziato e non, invece, quando il medesimo funga da mero antecedente storico di un altro atto del procedimento. Ben lo dimostra, tra tutte, la fattispecie di cui all'art. 63: la regola di inutilizzabilità ivi stabilita implica, addirittura, che le dichiarazioni precedentemente rese siano impiegate come materiale indiziante così da fornire la notizia di reato (retro, cap. I, § 22). Quale che fosse l'inltentio legis, il meccanismo di cui al combinato disposto degli artt. 294 e 302, prescindendo da ogni obbligo motivazionale, non impedisce all'interrogatorio documentato in difformità dall'art. 141-bis di valere alla stregua di fatto giuridicamente rilevante, talché non si determina l'effetto estintivo della custodia cautelare. 16. La partecipazione a distanza. La partecipazione a distanza vuole realizzare obiettivi di economia processuale riducendo le traduzioni dei detenuti ed i tempi del dibattimento, nonché, se del caso, fornire effettività al regime di cui all'art. 41-bis ord. penit. L'esame a distanza vuole, invece, prevalentemente, garantire la sicurezza personale del dichiarante. Appare, quindi, privo di significato interrogarsi se gli istituti in parola diano vita a realtà fenomeniche diverse da quelle prese in considerazione dalla disciplina codicistica: la risposta affermativa suonerebbe assolutamente scontata stante l'impossibilità di ridurre a zero la differenza tra il cosiddetto processo virtuale, di cui già oggi molti discorrono, ed il processo attuale. In virtù dell'art. 146-bis comma 1° disp. att. la partecipazione a distanza è attivabile in presenza di due presupposti. In primo luogo, deve trattarsi di un dibattimento relativo ad uno dei reati indicati dall'art. 51 comma 3-bis o dell'art. 407 comma 2° lett. a n. 4. In secondo luogo, l'imputato deve trovarsi, a qualsiasi titolo, in stato di detenzione in carcere. Non rileva che la detenzione dipenda dall'applicazione della custodia cautelare o dalla espiazione di una pena. A tal punto, nasce l'obbligo per il giudice di valutare se sia integrata una delle due ipotesi enunciate dall'art. 146-bis comma l° disp. att. La prima – lett. a – rimanda a parametri notoriamente «aperti» quali sono le «gravi ragioni di sicurezza o di ordine 53

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi pubblico». La seconda ipotesi – lett. b – fa leva su un parametro di prevalente natura oggettiva. Qui si coglie appieno l'esigenza di economia processuale sottostante al disegno di evitare il cosiddetto «turismo giudiziario», in quanto gioca la particolare complessità del dibattimento, congiunta all'esigenza che la partecipazione a distanza risulti necessaria ad evitare ritardi nello svolgimento dell'udienza. Valgono, invece, fattori quali il numero degli imputati o delle imputazioni, il numero e la natura delle prove da assumere. Tra i parametri da valutarsi, la norma esplicita poi il «fatto che nei confronti dello stesso imputato siano contemporaneamente in corso distinti processi presso diverse sedi giudiziarie». Una terza ipotesi di partecipazione a distanza si delinea con esclusivo riferimento alla sottoposizione alle misure di cui all'art. 41-bis comma 2° ord. penit. Qui il «turismo giudiziario» e impedito per evitare che sia sfruttato dall'imputato al fine di mantenere contatti con le organizzazioni criminali. Pertanto, la partecipazione a distanza scatta nei dibattimenti nei confronti di detenuti sottoposti al regime in discorso pur senza che essi siano imputati, in quel processo. Ai sensi dell'art. 146-bis comma 7° disp. att. la videoconferenza può interrompersi con il conseguente ripristino della partecipazione fisica del-l'imputato Ciò se occorre procedere a confronto o ricognizione dell'imputato od altro atto che implichi l'osservazione della sua persona, sempre che il giudice, sentite le parti, ritenga indispensabile la presenza dell'imputato. La partecipazione a distanza va, in via ottimale, disposta anteriormente all'inizio della prima udienza dibattimentale per evitare che essa si tenga con l'imputato presente e, al contempo, per rendere più agevole l'opera della difesa chiamata ad affrontare i profili organizzativi scaturenti dall'attivazione del collegamento a distanza. Preso in assenza del contraddittorio il provvedimento assume, in tal caso, forma di decreto motivato che deve essere comunicato al pubblico ministero e notificato alle parti almeno dieci giorni liberi prima della data fissata per l'udienza. La partecipazione a distanza può essere disposta, altresì, nel corso del-lo svolgimento dell'udienza dibattimentale. Divenuto funzionalmente competente il collegio, il provvedimento assume, a seguito della doverosa instaurazione del contraddittorio, forma di ordinanza, ma alla difesa va concesso un termine _adeguato per fronteggiare il nuovo scenario. Naturalmente, la forma dell'atto reagisce sul profilo dell'impugnabilità: esclusa quella del decreto, l'ordinanza potrà essere appellata, in forza dell'art. 586 comma 1°, congiuntamente con la sentenza. L'equiparazione della postazione remota — in genere una saletta situata all'interno di uno stabilimento carcerario — all'aula di udienza, decretata dal 5° comma, costituisce una fictio iuris carica di risvolti normativi per-ché estende le regole dettate per il contesto spaziale e temporale del-l'udienza dibattimentale. Ne segue che al presidente del collegio resta affidato, anche rispetto alla postazione remota, il potere di direzione del di-battimento, ivi compreso quello di decidere, senza formalità, sulle questioni relative alle modalità del collegamento audiovisivo, nonché il potere di disciplina dell'udienza (art. 476). In ordine alla qualifica della persona incaricata di stare nella postazione remota, si deve trattare, per regola, di un ausiliario abilitato ad assiste-re il giudice in udienza e designato dal giudice stesso, o, in caso di urgenza, dal presidente. Solo durante il tempo in cui non si procede all'esame dell'imputato può essere designato un ufficiale di polizia giudiziaria, scelto tra coloro che «non svolgono, né hanno svolto attività di investigazione o di protezione con riferimento all'imputato o ai fatti da lui riferiti». La scelta dipende anche dalla natura delle funzioni demandate all'ausiliario. Lo stesso è chiamato ancora a dare atto «delle caute-le adottate per assicurarne la regolarità con riferimento al luogo ove si trova». La documentazione delle dichiarazioni, richieste, eccezioni e quant'altro provenga dalle persone presenti nella postazione remota, confluirà necessariamente nel verbale tenuto dall'ausiliario del giudice che siede nell'aula di udienza. La fictio iuris trova la sua ragion d'essere nell'escludere la necessità –più volte reclamata come indispensabile nel corso del dibattito parlamentare – che l'imputato debba essere assistito da due difensori, uno nell'aula di udienza l'altro nella postazione remota. Da qui la creazione di una figura non solo inedita, ma anomala di sostituto (art. 102). Ad ogni buon conto il legis latore_si è preoccupato di garantire la libertà del flusso di informazioni tra assistito e difensore, stabilendo che «il difensore, o il suo sostituto presenti nell'aula di udienza e l'imputato possono consultarsi riservatamente, per mezzo di strumenti tecnici idonei». Il profilo di legittimità costituzionale più delicato investe però, quella forma di autodifesa che è integrata dal diritto dell'imputato di partecipare al dibattimento come momento essenziale ai 54

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi fini della pienezza del contraddittorio. Nondimeno la relativa questione di legittimità è stata seccamente respinta dalla Corte costituzionale, rimettendo in sostanza al guidi ce la valutazione, caso per caso, delle diverse esigenze. Il legislatore ha esteso anche ai procedimenti che si svolgono in camera di consiglio la disciplina approntata per partecipazione a distanza dell'imputato al dibattimento mercé l'introduzione dell'art. 45-bis disp. att.. E’ sufficiente la sottoposizione al regime di cui all'art. 41-bis ord. pen. affinché operi la partecipazione a distanza. In ordine allo sviluppo procedimentale, il riferimento portato all'imputato appare insufficiente a restringere l'ambito dell'istituto ai procedimenti in camera di consiglio instaurati dopo l'esercizio dell'azione penale. Vale qui l'estensione, potenzialmente anche in malarm partem decretata dall'art. 61 comma 2°, della persona sottoposta alle indagini all'imputato, donde la disponibilità della partecipazione a distanza anche nei procedimenti che si svolgano durante la fase delle indagini preliminari. Il riferimento al condannato vale poi per il procedimento di esecuzione e per quello di sorveglianza, non, invece, in sede di prevenzione, dove il soggetto che partecipa all'udienza assume la qualifica di «interessato». Il delicato quesito in ordine all'individuazione delle udienze in camera di consiglio per le quali vale il nuovo istituto sorge a causa del tenore dell'art. 45-bis comma 2° disp. att., a mente del quale il provvedimento che dispone il collegamento a distanza è comunicato o notificato «unitamente all'avviso di cui all'art. 127 comma 1° c.p.p.». Il richiamo all'art. 127 comma 1° assume un significato generico alla stregua di un mero sinonimo di avviso della data di fissazione dell'udienza camerale. Pertanto, la partecipazione a distanza risulta disponibile pure nei procedimenti che si tengono in udienza camerale per i quali sia stabilito un termine di comparizione inferiore a dieci giorni. Rispetto ai procedimenti a partecipazione eventuale per i reati di cui all'art. 51 comma 3-bis non è pensabile che il legislatore abbia voluto introdurre, in sede attuativa, una sorta di parlecipazione necessaria (sia pure mediatica), ma neppure è sostenibile cbe il legislatore abbia voluto rendere disponibile la partecipazione a distanza solo nei casi in cui il soggetto sia detenuto nella stessa circoscrizione del giudice investito del procedimento. I lavori preparatori testimoniano che si inteso estendere l'istituto a procedimenti come il riesame delle misure coercitive, l'appello delle misure cautelare. La partecipazione a distanza diviene disponibile tutte le volte in cui il giudice ritenga necessaria la presenza dell'imputato o del condannato, anche a seguito di sua richiesta, anziché l'audizione ad opera del magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. i comma 3°. 17. L'esame a distanza. Per salvaguardare la sicurezza di testimoni o imputati il codice aveva fatto leva sul tradizionale strumento di procedere al relativo esame a porte chiuse (art. 472 comma 3°). Con l'art. 7 d.l. 8 giugno 1992, n. 306 poi convertito, con modificazioni, nella 1. 7 agosto 1992, n. 356, il legislatore ha risposto alle esigenze di tutela con l'introduzione, tra l'altro, dell'esame a distanza. Il 1° comma dell'art. 147-bis disp. att. continua così ad occuparsi dell'esame di persone ammesse, in base alla legge, a programmi o a misure di protezione ed a riferirsi alle sole udienze dibattimentali. Ma, trattandosi di disciplina che investe il momento dell'assunzione di un mezzo di prova, non sussistono ostacoli insormontabili ad estenderla, per intero, al-l'incidente probatorio. Se si dovesse ritenere inoperante la clausola posta dall'art. 401 comma 5° riuscirebbe davvero arduo sottrarre l'art. 147-bis disp. att. ad una censura di legittimità per manifesta irragionevolezza. Quanto al telesame, si distinguono ipotesi in cui l'adozione rimane discrezionale da altre in cui essa si atteggia tendenzialmente come obbligatoria. L'art. 147-bis comma 2° disp. att. ne contempla una discrezionale dove l'adozione del telesame, subordinata alla disponibilità di strumenti tecnici idonei, scatta a seguito di una determinazione che il giudice o il presidente del collegio possono assumere sì d'ufficio, ma solo dopo aver sentito le parti. Pure nella dimensione della discrezionalità si collocano le ipotesi di cui al 5" comma. Qui l'adozione del telesame non mira a garantire l'incolumità del dichiarante – prescindendosi da ogni considerazione circa lo status del medesimo, come pure dai reati per cui si procede – ma a realizzare obiettivi di semplificazione processuale rimessi, non sempre congruamente, ad una richiesta delle parti. Il telesame «obbligatoriole» di cui al 3° comma non può dirsi davvero tale: è comunque fatto salvo il caso in cui «il giudice ritenga assolutamente necessaria la presenza della persona 55

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi da esaminare». La formula va riferita essenzialmente, alla mancata disponibilità o al cattivo funzionamento momentaneo delle apparecchiature tecniche, ma se quest'ultima eventualità si verificasse nel corso dell'esame, l'ordinanza ammissiva ben potrebbe essere revocata. Tre le ipotesi, tutte costruite in chiave soggettiva. Quella di cui alla lett a investe persone., ammesse a programmi o a misure di protezione «nell'ambito di un processo per delitti indicati dall'articolo 51, comma 3-bis nonché dall'art. 407, comma 2°, lettera a), n. 4, del codice»; devono essere esaminate le persone indicate neil'art. 210 nei cui confronti si proceda per uno dei delitti di stampo mafioso oppure con finalità di terrorismo o, ancora, di eversione dell'ordinamento costituzionale. L'ipotesi cui all'art. 147-bis comma 3° lett. c disp. att. si atteggia invece come residuale rispetto a quella della partecipazione a distanza, poiché ritaglia il proprio spazio applicativo al di fuori dei presupposi disegnati dall'art. 146-bis disp. att.. Profili ancor più delicati dischiude la lett. b che scatta «quando nei confronti della persona sottoposta ad esame è stato emesso il decreto di cambiamento delle generalità di cui all'art. 3 d. lgs. 29 marzo 1993, n. 119» Qui vigono due speciali regole: anzitutto, uniformandosi a quanto già prescriveva l'art. 6 comma 8° del decreto appena rammentato, il telesame sarà condotto sotto le precedenti generalità; inoltre, dovranno esse-re disposte «le cautele idonee ad evitare che il volto della persona sia visibile». Le modalità di conduzione del telesame sono state perfezionate. Si è, tuttavia, mantenuta la regola per cui il collegamento audiovisivo si limita n garantire «la contestuale visibilità delle persone presenti nel luogo dove In persona sottoposta ad esame si trova», talché lo standard tecnici) è inferiore a quello della partecipazione a distanza. In armonia, poi, coi l'art. 146 bis comma 6° disp. att. si è attribuito al solo ausiliario del giudice il compito di documentare le operazioni effettuate. Tra di esse, merita di essere evidenziata quella di dare atto delle cautele adottate per assicurare la regolarità dell'esame: non si vuole, pertanto, che il dichiarante si serva di appunti non resi visibili dall'inquadratura delle telecamere, in violazione dell'art. 499 comma 5°. Il telesame si converte in videoconferenza se la persona da esaminare deve essere assistita da un difensore ma, come già sappiamo, si tratta di ipotesi residuali rispetto alla partecipazione a distanza dell'imputato detenuto, per il quale resta ferma la disciplina più garantista. La metamorfosi è decretata dall'art. 147-bis comma 4° disp. att. laddove estende le regole stabilite dall'art. 146-bis commi 3°, 4° e 6° disp. att.. 18. La traduzione degli atti. La traduzione non integra un mezzo di prova, ma una semplice mediazione linguistica tra i soggetti del procedimento, e che il suo impiego non si esaurisce nell'ambito probatorio. Quanto alla terminologia adottata, il titolo quarto prende nome dalla natura dell'attività considerata,mentre, sul piano soggettivo, l'espressione «interprete» è usata per designare sia la persona che riproduce in lingua italiana o in lingua diversa dichiarazioni orali, sia la persona che svolge il medesimo compito nei confronti di atti o documenti scritti. Le ipotesi in cui si deve ricorrere all'ausilio dell'interprete sono tipicizzate dall'art. 143 mediante una tripartizione. La prima concerne esclusivamente l'imputato (e la persona sottoposta alle indagini) il quale non conosca, perché non parla o non comprende, la lingua italiana. Conta qui, come è naturale, non la comprensione del significato tecnico degli atti processuali, ma la padronanza della lingua, talché una conoscenza «media» esclude la necessità dell'interprete. Il diritto all'assistenza dell'interprete investe non solo gli atti orali, ma pure quelli scritti, tutte le volte in cui, fin dalla fase delle indagini preliminari, la mancata conoscenza della lingua italiana sia evidenziata dall'interessato o accertata dall'autorità procedente. Gioca, infatti qui il dettato dell'art. 111 comma 3° Cost., stando al quale la persona accusata di un reato deve essere «assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo». La garanzia deve, ad ogni modo, essere coordinata con quelle predisposte per gli appartenenti ad una minoranza linguistica riconosciuta (retro, § 2). Tuttavia, indipendentemente dalla sfera di operatività dell'art. 109, al cittadino italiano imputato che non parli o non comprenda la lingua italiana e assicurata una posizione di parità con l'imputato straniero, anche se, per evitare facili strumentalizzazioni, l'art. 143 comma 1° pone a suo carico una presunzione relativa di conoscenza della lingua italiana. La tutela dell'imputato straniero che si trovi all'estero si completa con l'obbligo - allorché dagli 56

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi atti non risulti che egli conosca la lingua italiana - di redigere nella lingua dello Stato dove è nato l'invito a dichiarare o elegge-re domicilio nel territorio dello Stato (art. 169 comma 3°). La seconda ipotesi concerne il sordo, il muto o il sordomuto che non sappia leggere o scrivere: qui la nomina dell'interprete ubbidisce a regole particolari (retro, § 2). La terza ipotesi assume carattere residuale, riferendosi all'esigenza (li procedere alla nomina dell'interprete per tradurre uno scritto in lingua straniera o in dialetto non facilmente intelligibile, oppure per trasferire in lingua italiana una dichiarazione- di qualsivoglia contenuto - effettuala da chi non conosce la lingua italiana. Premesso che l'interprete deve essere nominato pure allorquando il giudice, il pubblico ministero o l'ufficiale di polizia giudiziaria abbia personale conoscenza della lingua o del dialello da interpretare, la prestazione del relativo ufficio assume carattere obbligatorio (art. 143 comma 4°), talché può disporsi l'accompagnamento coattivo dell'interprete (art. 133). Talune persone non possono svolgere la relativa funzione, a pena di nullità (art. 144), il cui regime dipende dal soggetto a favore del quale l'interprete opera. I requisiti di capacità e le situazioni di incompatibilità dell'interprete sono costruiti sulla falsariga di quelli del perito (infra, cap. III, § 11). E’ già rilevato (retro, § 2) come possa assumere la qualità di interprete un prossimo congiunto del sordo, del muto o del sordomuto. L'interprete incapace o incompatibile è ricusabile dalle parti private e, per i soli atti compiuti o disposti (le prove) dal giudice, è ricusabile anche dal pubblico ministero. Assoggettata a precise condizioni temporali, la dichiarazione di ricusazione o di astensione è decisa con ordinanza da ritenersi inoppugnabile (art. 145). Con il provvedimento di nomina, l'interprete è citato a comparire tramite notificazione e, in situazioni di urgenza, anche oralmente per mezzo dell'ufficiale giudiziario o della polizia giudiziaria (art. 52 disp. att.). Il conferimento dell'incarico avviene con forme che non contemplano naturalmente - la prestazione del giuramento, ma che mantengono l'obbligo incondizionato di serbare il segreto, benché esso cada, in ogni caso, con la chiusura delle indagini preliminari (art. 146). Se l'incarico concerne traduzioni scritte che richiedono un lavoro di lunga durata, l'art. 147 abilita l'autorità procedente a prorogare, per giusta causa, il termine fissato per una sola volta. L'interprete che non abbia presentato la traduzione nel termine può essere sostituito; in quest'ultimo caso, dopo essere stato citato a comparire per discolparsi, è passibile, al pari del perito (art. 231), di condanna al pagamento di una somma a favore del-la cassa delle ammende. Nel corso delle indagini preliminari, è il pubblico ministero che chiede al giudice di applicare la sanzione (art. 53 disp. att.). 19. Le linee di fondo del regime delle notificazioni. Nel processo penale gli atti contano in quanto, con l'osservanza di determinate forme (ed entro certi termini), siano portati a conoscenza dei soggetti diversi dal loro autore: allo scopo è predisposto l'istituto delle notificazioni. L'obiettivo di una tutela effettiva è stato, d'altro canto, imposto dalle interdipendenze che scaturiscono dalla disciplina della restituzione nel termine (art. 175 comma 2°), dalla rinnovazione dell'avviso (art. 420-bis) e della citazione (art. 484 comma 2-bis) e, in generale, dal regime della contumacia. In questo disegno si collocano tanto la consegna dell'atto da parte della cancelleria ex art. 148 comma 4° (infra, § 20), quanto la rinnova-none della notificazione ex art. 157 comma 5° (infra, § 21). Dal punto di vista strutturale, il procedimento di notificazione – nella sua forma più complessa – è tradizionalmente distinto in tre fasi: l'impulso consistente nell'ordine o nella richiesta di eseguire la notificazione e nella consegna materiale dell'atto all'organo esecutivo; l'esecuzione di cui fanno parte la predisposizione dell'atto da notificare, l'attività di ricerca del destinatario e la consegna dell'atto alla persona abilitata a riceverlo; la documentazione dell'attivtà svolta dall'organo esecutivo.

20. Gli organi e le forme delle notificazioni disposte dal giudice o richieste dalle parti. L'art. 148 disciplina gli organi e le forme relative alle notificazioni disposte dal guidice. L'ufficiale giudiziario resta l'organo investito in via primaria dell'attività di notifica, anche se accanto continua ad essergli collocato «chi ne esercita le funzioni». Tra gli organi che esercitano funzioni notificativevanno annoverati, accanto agli aiutanti 57

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi ufficiali giudiziari, i messi di conciliazione, e trova posto pure la polizia penitenziaria (art. 148 comma 2°) Nei procedimenti con detenuti ed in quelli dinanzi al tribunale del riesame in presenza del requisito dell'urgenza, il giudice è infatti abilitato a disporre che le notificazioni siano eseguite tramite gli organi di polizia penitenziaria. Sempre in questa sede (art. 148 comma 2°bis), nonostante le indubbie interferenze che si configurano con altre disposizioni, è stata collocata una speciale previsione relativa alle sole notificazioni ed agli avvisi ai difensori. Senza alcun limite derivante da un qualche presupposto, l'autorità giudiziaria - quindi anche il pubblico ministero – può disporre che tali notificazioni o tali avvisi siano eseguiti «con mezzi tecnici idonei». L'unico vincolo per l'ufficio che invia l'atto consiste nell'attestazione, in calce allo stesso, di aver trasmesso il testo originale. Oggetto della notificazione è l'atto nella sua interezza (art. 148 comma 3°). Ragioni di economia, tempestività o riserbo hanno indotto, in casi tassativi, a prevedere la notificazione per estratto, ossia la riproduzione della sola parte essenziale dell'atto (artt. 32 comma 2°, 48 comma 2°, 149 comma 5°, 397 comma 4°, 520 comma 1°, 548 comma 3° e 585 comma 2°). Se, però, la notificazione è eseguita tramite la polizia giudiziaria, trattandosi di organo sfornito di poteri certificativi, vie-ne trasmesso all'ufficio di polizia competente per territorio un numero di copie eguale a quello dei destinatari delle notificazioni (art. 54 disp. att.). A tutti gli effetti, acquista «valore di notificazione» la consegna di copia dell'atto all'interessato da parte della cancelleria, sempreché sull'originale sia annotata l'avvenuta consegna e la relativa data (art. 148 comma 4°). Si è così codificata una prassi da tempo ammessa dalla giurisprudenza allorché parifica alla conoscenza legale quella effettiva, il che renderebbe la notificazione superflua per l'avvenuto raggiungimento dello scopo. A sua volta la previsione (art. 148 comma 5°) secondo cui la lettura dei provvedimenti alle persone presenti e gli avvisi dati verbalmente dal giudice - nonché dal pubblico ministero ex art. 151 collima 3° – agli interessati in loro presenza sostituiscono le notificazioni, purché ne sia fatta menzione nel verbale. La ricerca di «nuovi mezzi di comunicazione», ispirata ai ritmi serrati imposti dal sistema accusatorio, è stata condotta, nondimeno, con estrema cautela, nello sforzo di coordinare le imprescindibili esigenze della garanzia con quelle della celerità. Ciò vale, anzitutto, per le notificazioni a mezzo del telefono: le ragioni che ne avevano già in passato suggerito un impiego circoscritto sono state condivise anche dall'art. 149. Restano così fermi i presupposti (i casi d'urgenza), l'oggetto (l'avviso o la convocazione), il destinatario (persona di-versa dall'imputato), il soggetto che la dispone (il giudice, anche su richiesta di parte), il soggetto che l'esegue (gli addetti alla cancelleria e la poli-zia giudiziaria) ed i luoghi della comunicazione (solo quelli indicati nei primi due commi dell'art. 157: casa di abitazione, sede del lavoro abituale, dimora, recapito). Sull'originale dell'avviso o della convocazione sono poi annotati il numero telefonico chiamato, il nome, le funzioni o le mansioni svolte dalla persona che riceve la comunicazione, il rapporto della medesima con il destinatario, il giorno e l'ora della telefonata. La comunicazione non ha effetto se non è ricevuta dal destinatario ovvero da persona che conviva anche temporaneamente col medesimo; tuttavia le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno ammesso che le segreterie telefoniche servano allo scopo. La successiva comunicazione telegrafica per estratto, mantenuta per dare certezza circa la provenienza della convocazione o dell'avviso, non intregra una mera conferma, ma una forma costitutiva di tale complesso procedimento di notifica, benché, quanto al momento in cui avviene la conoscenza, si debba aver riguardo alla comunicazione telefonica. Allorché, per qualunque causa, non sia possibile far luogo alla notificazione a mezzo del telefono, soccorre quella eseguita, per estratto, mediante telegramma (art. 149 comma 50). Inedita, per il sistema processuale penale- ma non per quello civile, dove l'art. 151 c.p.c. delinea una figura analoga – è la forma notificativa innominata a persona diversa dall'imputato, che si realizza ricorrendo a mezzi di comunicazione non tradizionali,ma sempre tecnicamente idonei a garantire la conoscenza dell'atto (art. 150). Tale introduzione, subordinata, per di più, alla generica esistenza di «particolari circostanze», nonché all'indicazione, nell'apposito decreto motivato posto in calce all'atto, del mezzo tecnico prescelto, e delle modalità ritenute necessarie per portare l'atto a conoscenza destinatario, si pone in evidente rapporto al diffondersi sociale dell'impiego di nuovi mezzi di telecomunicazione. La posizione di parte attribuita al pubblico ministero ha indotto a predisporre una disciplina autonoma per le notificazioni richieste (non già ordinate) dal medesimo. Gli esiti di un simile disegno non si sono, però, spinti 58

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi troppo avanti. Invero, le notifiche di atti del pubblico ministero, nel corso della fase delle indagini preliminari, sono eseguite, anzitutto, dall'ufficiale giudiziario. La polizia giudiziaria, in forza dell'art. 151 comma 1° (così come sostituito dall'art. 17 comma 2° d.l. 27 luglio 2005, n. 144, convertito con 1. 31 luglio 2005, n. 155), può provvedere «nei soli casi di atti di indagine o provvedimenti che la stessa polizia giudiziaria è delegate a compiere o è tenuta ad eseguire». Trattandosi di organo pubblico, scontata è la valenza delle forme previste a proposito delle notificazioni per equipollenti, ivi compresa quella con il rito degli irreperibili. Si applicano, inoltre, le forme telefoniche e telegrafiche considerate dall'art. 149, mentre sono inoperanti quelle dell'art. 150. Marcate esigenze antiformalistiche animano pure la disciplina delle notificazioni richieste dalle parti private (art 152). E' consentito, infatti, sostituire alle forme ordinarie – salvo che la legge disponga altrimenti l'invio di copia dell'atto effettuato dal difensore mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento. La norma è integrata dall'art. 56 disp. alt., che impone al difensore di documentare la spedizione con il deposito in cancelleria della copia dell'atto inviato, l'attestazione della conformità all'originale e l'avviso di ricevimento. 21. Le notificazioni all'imputato. La disciplina delle notificazioni all'imputato è costruita sulla base del relativo status personale. Le notificazioni all'imputato detenuto in Italia, anche per una causa diversa rispetto al procedimento in corso, purché risultante dagli atti (art. 156), si distinguono a seconda delle situazioni raggruppabili sotto tale matrice. L'ipotesi tipica – delineata dal 1° comma – resta l'esecuzione della notifica mediante consegna a mani proprie nel luogo di detenzione. Nel 2° comma il legislatore si preoccupa di disciplinare l'ipotesi in cui l'imputato rifiuti di ricevere l'atto: di ciò si fa menzione nella relazione di notifica e la copia è consegnata al direttore dell'istituto o a chi ne fa le veci. Modalità particolari sono predisposte per il caso dell'imputato legittimamente assente perché usufruisce del regime di semilibertà, semidettenzione, autorizzazione al lavoro esterno. L'art. 156 comma 5° esclude che la notificazione all'imputato detenuto – od internato – possa effettuarsi con il rito degli irreperibili. All'interno del sistema delle notificazioni un ruolo centrale riveste l'art. 157 che, nell'occuparsi della prima notifica ad imputato libero, costruisce un modello al quale numerose disposizioni operano un espresso rinvio. La norma è imperniata sulla preferenza accordata alla consegna di copia dell'atto a mani proprie, dovunque l'imputato si trovi. Se ciò non è possibile, la notificazione viene eseguita nella casa di abitazione o nel luogo in cui il soggetto esercita abitualmente l'attività lavorativa, consegnando la copia ad un convivente, anche temporaneo, o, in mancanza, al por- tiere o chi ne fa le veci. Tali luoghi non siano conosciuti, la notificazione è eseguita nel luogo dove l'imputato ha temporanea dimora o recapito, «mediante consegna ad una delle predette persone». Il portiere (o chi ne fa le veci), provvede a sottoscrivere l'originale dell'atto notificato mentre l'ufficiale giudiziario deve dare notizia al destinatario, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, dell'avvenuta notifica (i cui effetti decorrono, però, dal ricevimento della raccomandata). E’ fatto divieto di consegnare la copia ad un minore degli anni quattordici o a chi versi in «stato di manifesta incapacità di intendere o di volere». Invece di limitarsi ad escludere la consegna alla persona offesa, il 5° comma persegue una soluzione più articolata, anche se non scevra di difficoltà: l'autorità giudiziaria deve disporre che si rinnovi la notificazione. Se la consegna è fatta nelle mani di persona diversa dal destinatario, il plico deve consegnarsi chiuso, mentre la relazione della notifica deve essere effettuata secondo le già rammentate forme di cui all'art. 148 comma 3° (retro, § 20). Per le notificazioni ad imputato militare in servizio attivo, la relativa disciplina (art. 158) è stata circoscritta alla prima notificazione. Se la prima notificazione non è andata a buon fine corre l'obbligo di un secondo accesso per cercare l'imputato presso la casa d'abitazione, ovvero presso la sede del lavoro abituale, o presso i luoghi di dimora o di recapito. Ai sensi dell'art. 157 comma 8°, l'atto è depositato nella casa comunale dove l'imputato ha l'abitazione o, in subordine, dove esercita abitualmente la sua attività lavorativa; nel contempo, un avviso di deposito è affisso sulla porta della casa d'abitazione o sul luogo di esercizio della predetta attività. Dell'avvenuto deposito l'ufficiale giudiziario dà comunicazione all'imputato mediante, lettera raccomandata con avviso di ricevimento, talchè solo dalla ricezione della medesima decorrono gli effetti della notificazione. L'art. 157 comma 8-bis (introdotto 59

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi dall'art. 2 comma 1° d.l. 21 febbraio 2005, n. 17, convertito con l. 22 aprile 2005, n. 60) si occupa delle notificazioni all'imputato libero successive alla prima, a dispetto della rubrica esibita dalla disposizione in parola. Se l'imputato ha provveduto a nominare un difensore di fiducia (retro, cap. I, § 34), le notificazioni di cui si tratta sono effettuate mediante consegna al suddetto difensore, sempre che l'imputato non abbia provveduto a dichiarare o ad eleggere domicilio ex art. 161. L'intento è quello di favorire uno snellimento delle forme, anche allo scopo di ridurre il rischio di vizi notificativi, gravando il difensore dell'onere di mantenere solidi rapporti con l'assistito. Per tale ragione la regola vale per il solo difensore di fiducia, ma risulta temperata dal riconoscimento a quest'ultimo del potere di «dichiarare immediatamente all'autorità che procede di non accettare la notificazione». Per le notificazioni all'imputato latitante od evaso (art. 296) l'art. 165 pone un'equiparazione di trattamento con l'irreperibile: pertanto, la norma ne riprende i caratteri semplificati (infra, § 22). Per le notificazioni all'imputato interdetto o infermo di mente, l'art. 166 persegue l'obiettivo di una conoscenza personale: l'atto viene così notificato tanto al soggetto quanto, rispettivamente, presso il tutore o il curatore. La disciplina delle notificazioni all'imputato residente o dimorante all'estero (art. 169) è costituita sulla scorta dell'indirizzo assunto in passato. Se risulta dagli atti notizia precisa del luogo di residenza o di dimora all'estero sorge l'obbligo di inviare raccomandata con avviso di ricevimento, contenente una sorta di informazione di garanzia, nonché l'invito a dichiarare o eleggere domicilio nel territorio dello Stato. Se entro trenta giorni il soggetto non risponde in modo congruo all'invito, le notificazioni sono eseguite mediante consegna al difensore. Tale forma di notificazione non si accompagna, peraltro, all'emissione del decreto di irreperibilità. Se, invece, il giudice o il pubblico ministero non abbiano notizie del luogo di residenza all'estero, essi non possono emettere ex abrupto il decreto di irreperibilità, ma devono prima disporre – così come prescritto dalla sentenza costituzionale n. 172 del 1974 – ricerche sia nel territorio dello Stato sia all'estero, ovviamente nei limiti consentiti dalle Convenzioni internazionali. 22. L'irreperibilità ed i suoi effetti. Posto che il rito degli irreperibili sacrifica quasi del tutto la conoscenza effettiva a favore di quella legale. Ai sensi dell'art. 159, condizione essenziale per far luogo alla dichiarazione di irreperibilità resta l'impossibilità di eseguire la notificazione secondo le forme dettate per la prima notifica all'imputato non detenuto. I maggiori obblighi imposti all'organo delle notificazioni dall'art. 157 servono, pertanto, a prevenire il verificarsi di casi di irreperibilità. Nel caso in cui la notificazione all'imputato non detenuto non abbia avuto effetto, sorge, in capo al giudice o al pubblico ministero (art. 161 comma 4°), l'obbligo di disporre nuove ricerche a cui provvede la polizia giudiziaria (cfr. art. 61 disp. att.). Esse investono, in via successiva e non più alternativa, il luogo di nascita, l'ultima residenza anagrafica, l'ultima dimora, il luogo dove il soggetto esercita abitualmente la sua attività lavorativa, nonce l'amministrazione carceraria centrale; inoltre, come rivela l'avverbio «particolarmente», l'elenco dei luoghi non ha carattere tassativo. Se le ricerche non danno esito positivo, il giudice o il pubblico ministero emettono l'apposito decreto con il quale, ove l'imputato sia privo di difensore, si provvede, in ogni caso, a designarne uno d'ufficio. Ma il dato di assoluto rilievo consiste nella circostanza che la notificazione va eseguita mediante consegna di copia dell'atto al difensore. L’art. 160 individua una serie di limiti temporali che talora non coincidono con la chiusura della fase in cui il decreto è stato emesso. A prima vista, parrebbe che la questione non si ponga nel giudizio di cassazione perché le parti vi sono rappresentate dai difensori (art. 613 comma 2°), presso quali risultano rappresentate ex lege. Tutta-via, allo scopo di incrementare le garanzie a favore dell'imputato sfornito di difesa fiduciaria, l'art. 613 comma 4° prevede che pure a lui siano notificati gli avvisi che debbono essere dati al difensore d'ufficio (infra, cap. IX, § 34) Ma siffatti limiti possono non esplicare per intero i loro effetti perché il decreto di irreperibilità resta pur sempre atto sottoposto alla clausola rebus sic stantibus in quanto meramente dichiarativo di uno stato preesistente. In tutti i casi, ogni decreto di irreperibilità deve essere preceduto da nuove ricerche nei luoghi indicati dall'art. 159. 60

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi 23. L'elezione di domicilio. In una prospettiva di collaborazione leale, l’imputato ha l'onere di determinare il luogo dove dovranno essergli notificati gli atti, mediante un'appo sita dichiarazione o elezione di domicilio, alle quali può conseguire pure una serie di facilitazioni in ordine all'esercizio del diritto di difesa: la noti ficazione avverrà non in un luogo astrattamente ritenuto idoneo alla conoscenza, bensì in uno indicato dallo stesso imputato. La dichiarazione di domicilio consiste in una manifestazione di scienza intesa ad indicare un luogo che può essere solo la propria casa di abitazione o la sede del proprio lavoro. L'elezione di domicilio consiste, invece, in una manifestazione di volontà che comporta la designazione di un luogo e, necessariamente, di un destinatario (c.d. domiciliatario). Nel primo atto compiuto, il giudice, il pubblico ministero o gli ufficiali o agenti di polizia giudiziaria li invitano a dichiarare o a eleggere domicilio per le notificazioni. Nel contempo, al soggetto è rivolto l'avvertimento che, data la sua qualità, ha l'obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto e che, in mancanza di tale comunicazione, oppure in caso di rifiuto di dichiarare o eleggere do- micilio, le notificazioni verranno eseguite mediante consegna al difensore (c.d. domicilio «legale»). Nel verbale dovrà poi farsi menzione della scelta, positiva o negativa, effettuata dall'imputato o dalla persona sottoposta alle indagini. Al di fuori dell'ipotesi del contatto diretto e, quindi, in un ambito residuale, si colloca l'invito a dichiarare o a eleggere domicilio formulato con l'Informazione di garanzia o con il primo atto notificato per disposizione dell'autorità giudiziaria (art. 161 comma 2°). All'imputato (o alla persona le successive notificazioni saranno eseguite nel luogo in cui il primo atto è stato notificato, essendosi tenuto conto che la procedura già una volta è andata a buon fine (c.d. domicilio «determinato»). Se la notificazione nel domicilio determinato ex art. 161 comma 2° diviene impossibile, si provvede mediante consegna al difensore, che assume la veste di semplice consegnatario. Valgono le prescrizioni dettate dagli artt. 157 e 159 qualora, per caso fortuito o forza maggiore, l'imputato non sia stato in grado di comunicare il mutamento del luogo dichiarato o eletto (art. 161 comma 4°): in altre parole, la consegna al difensore resta ancora (nonostante il tenore dell'art. 157 comma 8 bis) l'extrema ratio. Quanto alle forme con cui è comunicato il domicilio dichiarato o eletto, nonché ogni sua variazione, l'art. 162 appronta un elenco che deve ritenersi tassativo. Esse consistono in una comunicazione all'autorità che procede, con dichiarazione raccolta a verbale, anche dalla cancelleria del tribunale fuori sede, ovvero mediante telegramma o lettera raccomandata muniti di sottoscrizione autenticata. 24. Le notificazioni a soggetti diversi dall’imputato. La rubrica dell’art 153, relative alle notificaziono e comunicazioni al pubblico ministero, lascia impregiudicata la vexata question circa l’autonomia concettuale delle seconde, concernenti i soli atti del giudice, rispetto alle prime. Il mantenimento della comunicazione all'interno di un modello orientato in senso accusatorio, benché teoricamente discutibile, si giustifica in quanto il rappresentante dell'accusa è organo pubblico, nei confronti del quale non si profilano questioni di reperibilità. Tanto premesso, l'art. 153 comma 1° ammette le parti ed i difensori ad eseguire «direttamente» la notificazione mediante la semplice consegna di copia dell'atto nella segreteria del pubblico ministero. Le notificazioni alla persona offesa, alla parte civile, al responsabile civile ed al civilmente obbligato per la pena pecuniaria (art. 154) risultano raggruppate perché nei confronti di tali soggetti valgono, in linea generale, le forme prescritte per la prima notificazione all'imputato non detenuto. La natura dei poteri conferiti nella fase delle indagini preliminari alla persona offesa ha imposto la creazione di una disciplina alquanto analitica e sufficientemente garantista. Allo schema dell'art. 157 sono state introdotte due deroghe: l'una relativa alla tutela della riservatezza di cui al 6 comma,l'altra relativa al doppio accesso da parte dell'ufficiale giudi ziario, cui si aggiunge una previsione ulteriore circa le ipotesi di irreperibilità nonché di residenza o di dimora all'estero. In tali casi la notificazione si dà per avvenuta con il deposito in cancelleria (sempreché l'offeso, dall'estero, non abbia dichiarato o eletto domicilio nel territorio dello Stato), non essendo ipotizzabile la soluzione adottata per l'imputato, stante la mancata previsione dell'obbligatorietà dell'assistenza tecnica. Si noti che se la persona offesa si avvale, ex art. 101, della nomina (facoltativa) di un difensore, 61

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi quest'ultimo, per ragioni di economia e di celerità, assume la funzione di domiciliatario ex lege (art. 65 disp. att.). Allorché, per il numero elevato delle persone offese ovvero per l'impossibilità di identificarne alcune, la notificazione prevista dall'art. 154 riesce difficile, l'art. 155 demanda all'autorità giudiziaria il potere di disporre l'impiego di un meccanismo simile a quello approntato, a più ampio spettro, sotto la rubrica di «notificazione per pubblici proclami», dal-l'art. 150 c.p.c. In ogni caso, copia dell'atto è depositato nella casa comunale del luogo ove si trova l'autorità procedente ed un estratto del medesimo è inserito nella Gazzetta Ufficiale. La notificazione si «ha per avvenuta» allorquando l'ufficiale giudiziario deposita una copia dell'atto nella segreteria o nella cancelleria dell’autorità procedente. Per quanto riguarda la parte civile, posto che essa deve provvedere a nominare un difensore all'atto della costituzione (art. 78 comma l° lett. e), le notificazioni sono eseguite presso tale soggetto, che cumula, pertanto, il ruolo di domiciliatario: del resto, la soluzione era necessitata non essendo stato imposto l'obbligo di indicare il domicilio all'atto della costituzione. Per quanto riguarda il responsabile civile ed il civilmente obbligato per la pena pecuniaria costituiti, vale, per affinità di condizioni, la medesima regola. Se i destinatari sono pubbliche amministrazioni, persone giuridiche o enti privi di personalità giuridica, le notificazioni seguono le regole del rito civile (art. 154 comma 3°). Nei confronti, infine, dei soggetti fino ad ora non considerati (quali difensori, testimoni, periti, interpreti, consulenti tecnici, custodi di cose sequestrate, procuratori e curatori speciali), l'art. 167 mantiene il richiamo alla disciplina della prima notificazione all'imputato non detenuto, ma, come per la persona offesa, non operano le regole dettate per la tutela della riservatezza e per il doppio accesso di cui all'art. 157 commi 5°, 6° e 7°. 25. La relazione di notificazione e le cause di nullità. Nella relazione, scritta in calce all'originale, ed alle singole copie notificate – fatta salva la tutela della riservatezza imposta dall'art. 157 comma 6° – l'ufficiale giudi- ziario indica il richiedente, le ricerche effettuate, le generalità della persona a cui è stata consegnata la copia e, qualora la notificazione non avvenga a mani proprie, i rapporti tra destinatario e consegnatario, le funzioni e le mansioni svolte da quest'ultimo, il luogo e la data della consegna, infine, appone la propria sottoscrizione al fine di attestare la paternità dell'atto (art. 168 comma 1°). La notificazione produce effetto per ciascun interessato dal giorno della sua esecuzione, ma vi sono eccezioni: se il termine per impugnare decorre diversamente per l'imputato e per il suo difensore, vale per entrambi quello che scade per ultimo (art. 585 comma 3°). Sul terreno dei mezzi rilevano le notificazioni effettuate con l'ausilio degli uffici postali. Alle cause di nullità considerate dall'art. 171 debbono aggiungersi quelle enucleabili in via generale dall'art. 178 (infra, § 29), nonché le ipotesi di inesistenza vera e propria. Nella relazione l'ufficiale giudiziario deve, tra l'altro, indicare la data della consegna: l'inosservanza di una siffatta prescrizione può dar luogo a responsabilità disciplinare ex art. 124. 26. Le regole generali in materia di termini. Un atto non può validamente essere posto in essere prima che se ne realizzi un altro da intendersi come presupposto del primo. All'interno delle tante classificazioni operabili in materia, non può sottacersi quella tra termini dilatori e termini acceleratori (o impulsivi). I primi fanno sì che un atto non possa compiersi (o produrre effetti) prima che il relativo termine sia decorso, sicché generano un effetto inibitorio dell'attività dei soggetti del procedimento: un cospicuo esempio è fornito dal termine di comparizione (art. 429 comma 3°). Se l'atto è egualmente compiuto, esso risulta, per regola, affetto da nullità speciale (art. 127 comma 5°) o generale (art. 178). I secondi sono volti a conseguire un fine opposto a quello dei precedenti perché stimolano l'evolversi del procedimento. Spesso capita che uno stesso termine assuma un'efficacia diversa in funzione dell'attività dei soggetti del procedimento cui si riferisce. Così, il termine ex art. 429 comma 3° è dilatorio per il giudice ai fini della fissazione della data del giudizio, ma acceleratorio per i difensori ai fini del-l'esercizio delle facoltà loro attribuite dall'art. 466. In relazione alle conseguenze ricollegate al loro spirare, i termini acceleratori si distinguono, a loro volta, in due classi. Sono detti termini ordinatori (o comminatori) quelli le cui conseguenze 62

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi sono prive di rilevanza di natura processuale, salvi restando, se del caso, eventuali riflessi disciplinari (art. 124). Si pensi ai termini per il deposito della sentenza di cui all'art. 548. Sono detti, invece, perentori (o finali) i termini la cui scadenza comporta la perdita del potere di compiere l'atto al quale ineriscono oppure la cessazione degli effetti del medesimo: di regola, l'inosservanza di siffatti termini è riportata alla c.d. sanzione della decadenza. La scadenza del termine in un giorno festivo comporta una proroga ex lege al giorno successivo. La regola secondo cui, nel computare i termini stabiliti ad ore o a giorni, non si ha riguardo alla frazione di ora o di giorno immedialamente successiva all'avvenimento considerato, mentre si deve conteggiare l'ultima ora o l'ultimo giorno designato (dies seu hora a quibus non computantur in termino), è derogabile. Così, secondo la giurisprudenza prevalente, in forza dell'art. 297 comma 1°, ai fini del computo dei termini massimi della custodia cautelare vale anche il giorno di inizio della restrizione. Data l'entità delle conseguenze ricollegate all'inosservanza di un termine stabilito a pena di decadenza (perentorio) l'art 173 comma 1° introduce, per evitare difficoltà interpretative, una disposizione identica all'art. 152 comma 2° c.p.c. : in materia vige il principio di tassatività della previsione legislativa. Tuttavia, al di là della terminologia adottata (artt. 79 comma 2°, 95 comma 3°, 175 comma 3°, 182 comma 3° e 585 comma 5°), sono da ricondurre alla decadenza le fattispecie caratterizzate da un identico trattamento. Un intuitivo bisogno di coerenza spiega poi la regola secondo cui i termini stabiliti a pena di decadenza sono improrogabili, a meno di espresse previsioni legislative in diverso senso (art. 173 comma 2°). Oltre alle proroghe che il Ministro della giustizia può accordare in rapporto ad eventi di carattere eccezionale, vanno menzionate la proroga dei termini delle indagini preliminari (art. 406: infra, cap. V, § 30) e la proroga dei termini della custodia cautelare (art. 305 commi 1° e 2°: infra, cap. IV, § 20), entrambe sempre richieste dal pubblico ministero al giudice. Nel secondo caso, essendo il potere cautelare personale affidato in via esclusiva all'organo giurisdizionale, si dovrebbe parlare, più propriamente, di un'«autoproroga». Istituto tradizionale è l'abbreviazione del termine, chiesta o consentita dalla parte a favore della quale esso è stabilito. Diverso dalla proroga è il prolungamento dei termini di comparizione di cui all'art. 174. La prima presuppone la pendenza di un termine già in corso, posticipandone la relativa scadenza, mentre il secondo scatta fin dal momento della fissazione del termine dilatorio ordinario, indipendentemente dalla circostanza che quest'ultimo sia o no prorogabile. L'istituto della sospensione dei termini, infine, non è preso in considerazione dal titolo VI benché significative applicazioni se ne rinvengano nel tessuto codicistico. Per la durata della fase delle indagini preliminari, un'ipotesi di sospensione dei relativi termini è prescritta dall'art. 70 comma 3° con riguardo all'espletamento della perizia volta a stabilire se la persona sottoposta alle indagini sia in grado di partecipare coscientemente al processo (retro, cap. I, § 25); un'altra si rinviene nell'art. 405 comma 4° avuto riguardo al tempo intercorrente fra la richiesta di autorizzazione a procedere ed il momento in cui la medesima perviene al pubblico ministero (infra cap. V, § 30). Per la durata della custodia cautelare, i casi di sospensione sono contemplati dall'art. 304 commi 1° e 2° (infra, cap. IV, § 20). Una portata generale assume poi la sospensione dei termini processuali in materia penale nel periodo feriale, ossia dal 1° agosto al 15 settembre di ogni anno. Preordinato al fine di consentire alla classe forense di godere liberamente delle ferie estive, l'istituto si estende, pertanto, anche al procedimento di esecuzione ed a quello di sorveglianza. Non tocca, invece, l'attività del giudice: così, nel periodo feriale si può ben depositare la motivazione di un provvedimento, ma il dies a quo per impugnarlo decorre dal termine di detto periodo. La sospensione dei termini «procedurali», compresi cioè quelli stabiliti per la fase delle indagini preliminari, non opera nei procedimenti relativi ad imputati in stato di custodia cautelare, qualora essi o i loro difensori rinuncino espressamente ad avvalersene (art. 2 comma 1° l. 7 ottobre 1969, n. 742). In ogni caso, però, la sospensione dei termini di durata delle indagini preliminari non scatta nei procedimenti per reati di criminalità organizzata, investendo, secondo la giurisprudenza, pure i termini concernenti le impugnazioni in materia di misure cautelari personali (art. 240-bis comma 2° disp. att.). Se si tratta di procedimenti per reati la cui prescrizione maturi durante la sospensione feriale o nei successivi quarantacinque giorni, ovvero se durante il medesimo periodo scadono o sono prossimi a scadere i termini della custodia cautelare, il giudice che procede, anche d'ufficio (il giudice per le indagini 63

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi preliminari, nella relativa fase, su richiesta del pubblico ministero), pronuncia ordinanza inoppugnabile, ma revocabile, con cui è specificatamente motivata e dichiarata l'urgenza del processo. In tali casi, i termini decorrono, anche nel periodo feriale, dalla data di notificazione dell'ordinanza (art. 2 comma 3° 1. 7 ottobre 1969, n. 742). Egualmente la sospensione dei termini non opera nei confronti delle ipotesi previste dall'art. 467, ossia di atti non rinviabili al dibattimento. 27. La restituzione nel termine. La restituzione nel termine si atteggia a rimedio eccezionale in rapporto a situazioni in cui un impedimento abbia determinato l'estinzione di un potere, essendo decorso il termine perentorio (retro, § 26) stabilito per il suo esercizio. La legge delega ha previsto la restituzione nel termine con riguardo sia al potere di impugnazione dell'imputato giudicato in contumacia, il quale non abbia avuto conoscenza del procedimento (art. 2 n. 82), sia all'opposizione a decreto penale (art. 2 n. 46), sia, infine, all'eventuale impugnazione a seguito di apposito incidente d'esecuzione (art. 2 n.80). I soggetti titolari del diritto ad ottenere la restituzione nel termine sono individuati non solo nelle parti, ma pure nei difensori. Nonostante il tenore letterale della disposizione ed il carattere eccezionale dell'istituto, riesce difficile escludere la legittimazione, almeno nella fase delle indagini preliminari, della persona offesa. La giurisprudenza esclude che l'istituto possa essere invocato ai fini della presentazione della querela. Quale presupposto il 1° comma dell'art. 175 richiede la prova assoluta che non si è potuto osservare un termine stabilito a pena di decadenza (o di inammissibilità) per caso fortuito o forza maggiore. Il termine per proporre la richiesta di restituzione nel termine è, nei casi in parola, di dieci giorni, che decorrono, in virtù del secondo periodo dell'art. 175 comma 1° (come introdotto dall'art. 1 comma l° d.l. 21 febbraio 2005, n. 17, convertito con l. 22 aprile 2005, n. 60), da quello nel quale è cessato il fatto costituente caso fortuito o forza maggiore. Nei casi in cui sia pronunciata sentenza contumaciale (infra, cap. V, § .12) o decreto penale di condanna, il testo originario dell'art. 175 comma 2° prevedeva che la restituzione nel termine per proporre impugnazione od opposizione potesse essere concessa altresì a favore dell'imputato che provasse di non avere avuto effettiva conoscenza del provvedimento. Quanto al termine per proporre la richiesta di restituzione, nelle ipotesi in discorso l'art. 175 comma 2-bis (introdotto, a sua volta, dall'art. I comma 1° lett. c del decreto legge citato) prescrive che tale richiesta debba essere presentata, a pena di decadenza, entro il più lungo termine di trenta giorni dal momento in cui l'imputato ha acquisito effettiva conoscenza del provvedimento. Se l'imputato deve essere estradato dall'estero (infra, cap. XI, § 9), il termine per la presentazione della richiesta decorre dal giorno in cui l'imputato condannato e stato consegnato all'autorità giudiziaria italiana. 28. L'invalidità degli atti. Nel processo penale gli atti sono, in stragrande maggioranza, a forma vincolata (retro, § 1). Impostata così la questione, perfezione dell'atto (ossia conformità allo schema tipico) e sua efficacia (ossia attitudine a produrre effetti giuridici) si implicano reciprocamente. In linea di principio, la mancanza anche di un solo elemento della fattispecie non dovrebbe consentire la produzione dei relativi effetti. Tuttavia, l'ordinamento non decreta l'invalidità e, quindi, l'inefficacia di ogni difformità, ben potendo ritenere talune di esse del tutto irrilevanti. In tal caso, si resta al di fuori del sistema dell'invalidità delineandosi una mera irregolarità (infra, § 29). Premesso che sono correntemente ritenute specie di invalidità I'inesistenza, la nullità, l'inammissibilità e l'inutilizzabilità, ma non la decadenza (retro § 26), il titolo VII (artt. 177-186) si è limitato a disciplinare una sola species di invalidità – la nullità – salvo un unico riferimento, peraltro in negativo, all'inammissibilità (art. 186). La natura dei requisiti la cui assenza produce l'inammissibilità è alquanto disparata. Oltre ai casi in cui questa specie di invalidità discende dal compimento dell'atto nonostante la scadenza del relativo termine (retro, § 26), spesso il vizio riguarda la forma della domanda (artt. 46 comma 4° e 122 comma 1°) o l'omissione di taluni contenuti della stessa (alt. 38 comma 4°) ovvero la sussistenza di un certo rapporto con un albo atto (alt, 586 comma l°). Quanto al trattamento, l'inammissibilità, oggetto di autonomo motivo di ricorso per cassazione (art. 606 comma 1° lett. c), 64

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi è dichiarabile d'ufficio, in ogni stato e grado del procedimento (come dispone espressamente l'art. 591 comma 4° per le impugnazioni), senza altra causa di sanatoria se non quella del giudicato, a meno che non siano espressamente previsti limiti temporali alla sua rilevazione. Nemmeno l'inutilizzabilità è inclusa nella disciplina del libro II, nonostante si tratti di una sanzione processuale fornita di una sua puntuale autonomia, sia pure nel quadro definito dall'art. 191 (infra, cap. III, § 6), come dimostra la sua elevazione a motivo di ricorso per cassazione (art. 606 comma 1° lett. c), a fianco della nullità, dell'inammissibilità e della decadenza. La sua mancata considerazione nel litro II accanto alla nullità non può essere certo rapportata alla circostanza formale che si tratta di sanzione che concerne non tutti gli atti del procedimento, ma unicamente quelli probatori A dire il vero, l'inutilizzabilità può investire non solo le prove in senso proprio ma pure gli atti delle indagini preliminari. Ogni ipotesi di inutilizzabilità appare funzionale ad una esigenza di tutela della legalità della prova. Si ritiene che le ipotesi di inutilizzabilità integrino un numero chiuso anche rispetto alla fase dibattimentale, posto che la regola fissata dall'art. 526 («il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite al dibattimento»). Circa il modo di operare sul piano soggettivo, evidenziato come inutilizzabilità sia, per lo più di natura assoluta (artt. 63 comma 2° e 188). L'art. 191 comma 2° sancisce la rilevabilità in ogni stato e grado del procedimento, anche d'ufficio, della inutilizzabilità (infra, cap. III, § 6). 29. Il principio di tassatività delle nullità e la tecnica di previsione. Le disposizioni in tema di nullità sono dominate dal principio di tassatività, l'art. 177 riferisce tale principio all'inosservanza non già «delle forme prescritte per gli atti processuali», bensì a quella «delle disposizioni stabilite per gli atti del procedimento», ivi comprese quelle relative alla fase delle indagini preliminari: pertanto, anche agli atti compiuti dal pubblico ministero. All'interprete non è consentito ricorrere all'integrazione analogical. Dato che le nullità formano un sistema chiuso, ne discende che, al di fuori delle ipotesi così esplicitamente definite o implicitamente definibili non vi sono spazi residui per questa specie di invalidità. I vizi della volontà considerati dal codice ci-vile non sono riferibili agli atti processuali penali data l'autosufficienza del relativo sistema delle nullità. Pertanto, un atto — e segnatamente un provvedimento del giudice — anche se inficiato da violenza o minaccia è processualmente valido. Al più, gli interrogatori dell'imputato (art. 64 comma 2°) e le prove (art. 188) affette da vizi della volontà conseguenti all'adozione di metodi o tecniche idonee ad influire sulla libertà di auto determinazione si pensi alla confessione o alla testimonianza in tal modo estorti — rientrano nell'ambito dell'inutilizzabilità. Diverso è il caso in cui venga in gioco non un vizio della volontà, ma il suo assoluto difetto, quale conseguenza di una coazione fisica. Inevitabile, a tal punto, concludere per la raffigurazione di un'ipotesi di inesistenza giuridica. Tra le nullità non sono – per la stessa ragione – inquadrabili gli errores in iudicando, vale a dire quei vizi sostanziali dei provvedimenti del giudice, elevati dall'art. 606 comma 1° lett. b ad autonomo motivo di ricorso per cassazione. Le restanti difformità dallo schema tipico, escluse, ovviamente, le specifiche ipotesi di inammissibilità e di inutilizzabilità (retro, § 28), non possono che essere riportate alla tipologia della mera irregolarità, produttiva, tutt'al più, di conseguenze di natura disciplinare ex art. 124 (retro, § 7) o ricavabili da altri rami dell'ordinamento, come quello penale, civile o tributario (salvo che si cada nell'errore materiale cui pone rimedio, se si tratta di sentenze, ordinanze o decreti del giudice, l'apposita procedura ex art. 130) (retro, § 10). A meno che, in prospettiva decisamente opposta, perché sottratta al principio di tassatività, non debbano ricondursi in via interpretativa alla specie più grave d'invalidità ravvisabile nell'inesistenza giuridica. L'inesistenza pone rimedio alla tassatività delle cause di nullità, l'abnormità alla tassatività oggettiva delle impugnazioni, rendendo ammissibile un autonomo ricorso per cassazione (infra, cap. IX, § 2) o la rilevazione ufficiosa da parte del giudice dell'impugnazione ritualmente investito. Tuttavia, l'abnormità è assoggettata agli ordinari termini ad impugnandum, talché, a differenza, ancora, dell'inesistenza, perde rilevanza a seguito della formazione del giudicato. L'art. 178 è dedicato nella rubrica alle nullità di ordine generale. In tale classe figura l'inosservanza di una serie di disposizioni che concernono il giudice, iI pubblico ministero, l'imputato — espressione comprensiva della persona sottoposta alle indagini, giusta l'equiparazione 65

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi operata dall'art. 61 compia 1° — le altre parti private, i loro difensori e rappresentanti, nonché «la citazione a giudizio della persona offesa dal reato e del querelante». Alle nullità di ordine generale si contrappongono quelle speciali, perché stabilite da un’apposita previsione legislative. 30. Le nullità assolute. Le nullità che la rubrica dell’art. 179 designa come assolute si caratterizzano per la nota dell’insanabilità. Ciò che distingue le nullità assolute da tutte le altre è il normale regime di insanabilità fino all'irrevocabilità del giudicato. Il secondo attributo menzionato dall'art. 179 comma 1° consiste nella rilevabilita ex officio da parte del giudice in ogni stato e grado del procedimento. È, pertanto, causa di nullità assoluta l'inosservanza delle disposizioni concernenti le condizioni di capacità del giudice ed il numero dei giudici necessario a costituire i collegi giudicanti. Al contrario, non sono riconducibili a tale ambito i vizi concernenti la nomina del giudice, ove non rientranti nell'ambito della capacità. Per quanto riguarda la figura del pubblico ministero, tra le nullità di ordine generale sono assolute solo quelle relative all'iniziativa del medesimo nell'esercizio dell'azione penale. Sono sicuramente riconducibili al regime delle nullità assolute, anzitutto, le violazioni delle disposizioni concernenti l'atto di promuovimento dell'azione penale, facendo riferimento sia alla sua mancanza che alla sua invalidità. Soccorre, al riguardo, l'elenco fornito dall'art. 405 comma l", ma alle ipotesi ivi contemplate debbono, quanto meno, aggiungersi quelle dell'imputazione coatta (artt. 409 comma 5°) e della contestazione in udienza del reato connesso o del fatto nuovo (artt. 423 commi 1° e 2°, 5 I7 e 518), nonché – è appena il caso di dirlo – la citazione diretta a giudizio nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica (art. 550). Nell'ambito delle nullità assolute si collocano le violazioni delle disposizioni sulla capacità e sulla legittimazione del rappresentante del pubblico ministero, purché si riflettano sulla sua iniziativa nell'esercizio dell'azione penale. Al primo proposito, possono richiamarsi (retro, cap. 1, § 14) le norme sulla delega nominativa a svolgere le funzioni di pubblico ministero nell'udienza dibattimentale davanti al tribunale in composizione monocratica. Al secondo proposito, ci si può riferire al promuovimento dell'azione davanti ad un giudice diverso da quello presso cui l'ufficio del pubblico ministero è istituito. Per quanto riguarda l'imputato e il suo difensore – gli unici soggetti privati considerati dall'art. 178 lett. c, a favore dei quali operi il regime delle nullità assolute – la disciplina codicistica mira a presidiare le numerose sedi del contraddittorio indefettibile. L'intervento dell'imputato è garantito nei confronti delle nullità che derivano dall'omessa (o dall'invalida) citazione al dibattimento di primo grado (artt. 429 comma 4°, 465 comma 2°, 555 comma 3"), ancorché tenuto a seguito di giudizio direttissimo instaurato nei confronti di imputato libero (art. 450 comma 2°) o di giudizio immediato (art. 456 comma 3°), e al dibattimento di secondo grado (art. 601 comma 1°). Naturalmente la protezione della vocatio in iudicium investe tutti gli atti che compongono tale fattispecie complessa recettizia, ivi compresa la notificazione. Quanto al difensore dell'imputato, è presidiata da nullità assoluta non solo l'assenza dal dibattimento di primo e di secondo grado, così da ribadire l'indefettibilità dell'assistenza tecnica nel giudizio di merito (artt. 451 comma 1°, 484 ,comma 2°, 486 comma 5°, 559 comma 1°, 598), ma pure ogni altra ipotesi rispetto alla quale ne sia dichiarata obbligatoria la presenza. In tale ambito si collocano, pertanto, l'assenza del difensore dall'interrogatorio di persona sottoposta a misura cautelare personale (art. 294 comma 4°); dalle sommarie informazioni che la polizia giudiziaria assume dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini (art. 350 comma 3°); dall'interrogatorio e dal confronto, delegati dal pubblico ministero alla polizia giudiziaria. L'art. 179 comma 2°, come già accennato, riconosce per tabulas l'esistenza di nullità a previsione speciale definite espressamente come assolute. L'esempio è fornito dall'art. 525 comma 2°, dov'è stabilito, con riguardo al principio di immediatezza del giudizio, che alla deliberazione della sentenza debbono concorrere gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento; ma la precisazione appare superflua. Vero è che in tal caso non potrebbe farsi leva sulla previsione relativa all'inosservanza delle disposizioni circa il numero dei membri del collegio giudicante, essendo qui in gioco la loro identità fisica. 66

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi 31. Le nullità intermedie. Il regime delle nullità generali, diverse da quelle assolute, è dettato dall'art. 180, la cui rubrica («regime delle altre nullità di ordine generale») non provvede qui ad etichettature di sorta. L'espressione «nullità intermedie» appare la più opportuna per raggrupparle empiricamente, perché il relativo trattamento si situa, in effetti, in posizione mediana tra quello delle nullità assolute e quello delle nullità relative. Le nullità in discorso sono, al pari delle prime, rilevabili anche ex officio, mentre, al pari delle seconde, risultano sanabili in un momento anteriore all'irrevocabilità della sentenza. Le nullità a regime intermedio non possono essere né rilevate (dal giudice ), né dedotte (dalle parti), se verificatesi prima del giudizio, dopo la deliberazione della sentenza di primo grado, o, se verificatesi nel giudizio, dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo. Un limite di maggior portata per la deduzione della nullità intermedie deriva, poi, dalla lettura coorcli mula con l'art. 182 commi 1° e 2° (infra, § 33). Cè, infine, da chiedersi se per le nullità in discorso valga il principio per il quale una nullità — ove sia stata tempestivamente dedotta, ma non dichiarata dal giudice — risulta in via automatica devoluta al giudice dell'impugnazione, senza che debba formare oggetto dei relativi motivi (c.d. perpetuatio nullitatis). Il silenzio serbato, in materia, dall'art. 180 (a differenza di quanto disposto dall'art. 181 per le nullità relative) induce ad una risposta positiva in ordine all'appello, del resto in assenza di qualunque spunto legislativo utilizzabile in altro senso. Per il giudizio di cassazione, la lettera dell'art. 609 comma 2°, prescrivendo che la corte conosca — al di là dei motivi proposti — le sole «questioni rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del processo», sembrerebbe impedire un'analoga conclusione. Ma evidenti ragioni sistematiche, unite all'irrazionalità di un diverso trattamento nei due gradi, consigliano di propendere anche qui per la tesi della devoluzione ex lege. Nelle nullità intermedie troviami l’inosservanza delle disposizioni circa la partecipazione del pubblico ministero al procedimento, sempre che tale attività non sia inquadrabile in quella di iniziativa. La norma si riferisce, in primo luogo, all'attività di prosecuzione dell'azione, sicché, ad esempio, appare inficiata da nullità intermedia l'inosservanza delle disposizioni circa la modifica dell'imputazione nell'udienza preliminare (art. 423 comma 1°) o nel dibattimento (artt. 516 comma 1° e 517 comma 1°), ovvero circa l'applicazione della pena a richiesta (naturalmente, dopo che sia già stata esercitata l'azione penale), là dove si prevede il necessario consenso del pubblico ministero. In secondo luogo, essa si attaglia a tutti quegli interventi in cui si risolve il contributo dialettico del pubblico ministero al procedimento. Vengono, poi, in gioco le richieste del pubblico ministero in ordine al le misure cautelari, nonché la sua partecipazione attiva nel procedimento di esecuzione (art. 666). Assai estesa è la categoria delle nullità a regime intermedio che concernono l'inosservanza delle disposizioni circa l'intervento, l'assistenza e la rappresentanza dell'imputato. La prima figura va rapportata alle ipotesi di diretta e personale partecipazione dell'imputato (o della persona sottoposta alle indagini) al procedimento; la seconda alle attività svolte dal difensore al fine di far valere i diritti e gli interessi dell'imputato, come pure dal consulente tecnico, dall'interprete, dal curatore speciale; alla terza, infine, fanno capo una serie di fattispecie alquanto eterogenee, sicché mal le si adattano gli schemi di natura civilistica., Si possono ricondurre a tale ultima ipotesi il generale potere di rappresentanza conferito dall'art. 99 comma l° al difensore (c.d. rappresentanza convenzionale); i poteri di rappresentanza, sempre conferiti al difensore, da singole disposizioni (art. 165 comma 3°, 475 comma 2°, 420-quarter comma 2°). Essendo l'inosservanza delle disposizioni riguardanti l'intervento, l'assistenza e la rappresentanza delle altre parti private sempre tutelato da nullità a regime intermedio, ne discende che l’omessa (o invalida) citazione di tali soggetti risulta sottoposta ad un regime più blando di quello previsto per l’omessa (o invalida) citazione dell’imputato. In ordine all'inosservanza delle disposizioni che concernono la sola citazione a giudizio della persona offesa e del querelante, l'inserimento di tale vizio nell'ambito delle nullità a regime intermedio suona, infine, come un riconoscimento dell'esigenza che tali nullità siano rilevabili anche e officio, a differenza di quelle relative.

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Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi 32. Le nullità relative. Il contenuto della categoria delle nullità relative è ricavabile dall'art. 181 per esclusione. In breve, l'interprete, posto di fronte ad una nullità a previsione speciale è chiamato ad individuarne il trattamento mercé una serie di operazioni successive. Nota caratterizzante il trattamento delle nullità relative rispetto a tutte le altre è il fatto che esse debbono essere dichiarate dal giudice solo su eccezione della parte interessata. Le nullità concernenti le indagini preliminari o l'incidente probatorio o gli atti dell'udienza preliminare devono essere eccepite, ai sensi dell'art. 181 comma 2°, in termini sempre brevi, ma distinti a seconda che si tenga o no l'udienza preliminare. Nel primo caso, debbono essere eccepite anteriormente alla pronuncia del provvedimento conclusivo dell'udienza ai sensi dell'art. 424, nel secondo, invece, subito dopo compiuto per la prima volta l'accertamento della costituzione delle parti in giudizio, il che fa sì che l'eccezione di nullità divenga oggetto di una questione preliminare ex art. 491. L'affermazione del tradizionale principio per cui le cause di nullila relativa, per sfuggire alla sanatoria del grado successivo, debbono convertirrl in altrettanti motivi di impugnazione è enunciata solo con riguardo alle nullità verificatesi nel giudizio, lo stesso principio non può non valere, peraltro, anche per le 'milita relative che si sono verificate prima del giudizio e che il giudice non ha dichiarato in quest'ultima sede, pur essendo state eccepite entro i termini loro assegnati. In caso contrario, si dovrebbe concludere che le nullità in discorso divengono virtualmente insanabili. Il mancato esperimento delle specifiche impugnazioni consentite avverso le ordinanze cautelari provoca la sanatoria delle relative nullità entro i termini, assai brevi, di presentazione delle stesse. Pertanto, anche in sede di revoca della misura cautelare (art. 299), il giudice non potrebbe rilevare ex officio una delle nullità in discorso. In sede di riesame, la nullità della motivazione che dispone la misura coercitiva, ancorché rilevabile ex officio, non dovrebbe esplicare, sempre stando alla giurisprudenza prevalente, alcuna funzione a causa del potere del tribunale di sovrapporre la sua decisione a quella del giudice di merito. La medesima conclusione si impone anche in sede di appello. Solo in sede di ricorso per cassazione la nullità in discorso dà luogo ad un effettivo ampliamento della garanzia della motivazione. Ciò accade allorquando sia viziata la motivazione dell'ordinanza del tribunale del riesame oppure quando la Corte sia stata investita del ricorso per saltum ex art. 311 comma 2°, purché, beninteso, tra i motivi di ricorso — il che avviene assai di rado — non figuri già quello della nullità della motivazione. Per le nullità che afferiscono alle generalità dell'imputato, all'indicazione del fatto e delle norme violate, nonché alla data ed alla sottoscrizione dell'atto (art. 292 comma 2 lett. a, b, ed e), la rilevabilità anche d'ufficio sembra dotata di una qualche maggiore efficacia. 33. La deducibilità e le sanatorie. L'istituto della sanatoria, risolvendosi in un fatto successivo che, combinato con la fattispecie imperfetta, determina un'equivalenza di effetti rispetto al corrispon dente atto perfetto, non deve essere riferito alle ipotesi in cui sussiste un diletto di legittimazione a far valere la nullità. Ai sensi dell'art. 182 comma l°, la deducibilità delle nullità relative e delle nullità a regime intermedio – ma non di quelle assolute, al pari delle seconde rilevabili anche ex officio – trova un duplice limite soggettivo. La nullità non può essere dedotta o eccepita né da chi vi ha dato o concorso a darvi causa (secondo un canone di responsabilità individuale), né da chi non ha interesse all'osservanza della disposizione violate. Tenuto conto che in un processo di parti sono moltiplicate le occasioni in cui esse assistono agli atti, l'art. 182 comma 2°, ponendo un limite temporale, prevede che la nullità debba essere eccepita prima del compimento dell'atto oppure, se ciò non è possibile, immediatamente dopo. Pure i termini per rilevare o eccepire le nullità in discorso sono stabiliti a pena di decadenza. La disciplina delle sanatorie generali (art. 183), ispirata al principio della conservazione degli effetti precari prodotti dall'atto imperfetto, si incentra su due figure. Alla prima – definita correntemente come acquiescenza (lett. a) – si ascrivono la rinuncia espressa della parte interessata a eccepire la nullità e l'accettazione (a sua volta, espressa o tacita) degli effetti dell'atto, ossia del suo risultato pratico. Alla seconda figura di sanatoria (lett. b) si riferiscono, invece, i casi in cui la parte si sia «avvalsa della facoltà al cui esercizio l'atto omesso o nullo è preordinato», 68

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi formula che ha inteso disegnare con maggior concretezza la tradizionale sanatoria per il raggiungimento dello scopo rispetto a lutti gli interessati. La clausola di salvezza posta all'inizio dell'art. 183 esclude che le sanatorie generali operino nei confronti delle nullità assolute che l'art. 179 comma 1° dichiara espressamente insanabili. La sanatoria speciale prevista dall'art. 184 scatta nei confronti del pubblico ministero, delle parti private (ivi compresa, in questo caso, la persona offesa), nonché dei loro difensori (che siano comparsi o abbiano rinunciato a comparire), quanto alla nullità di una citazione o di un avviso, nonché delle relative comunicazioni e notificazioni. La comparizione deve essere personale, sicché quella del difensore non funge da sanatoria rispetto all'imputato, né valgono presunzioni di alcun genere; inoltre, deve essere volontaria, sicché non opera come causa di sanatoria l'accompagnamento coattivo (art. 132). 34. Gli effetti della dichiarazione di nullità. Gli effetti della dichiarazione di nullità sono disciplinati, sotto un triplice profilo, dall'art. 185 che li colloca in successione logica. La nullità di un atto comporta, anzitutto, l'invalidità di quelli consecutivi che dipendono da esso (art. 185 comma 1°): di qui il concetto di nullità derivata. Il giudice che dichiara la nullità dispone – ecco il secondo profilo – la rinnovazione dell'atto soltanto qualora essa sia necessaria (il che non accade, ad esempio, allorché l'atto viziato di nullità assoluta e, quindi, insanabile abbia egualmente raggiunto il suo scopo) e possibile (il che non si verifica nei confronti di atti ab origine non reiterabili). Quando si procede alla rinnovazione, il giudice ne pone le spese a carico di chi ha dato causa alla nullità per dolo o colpa grave (art. 185 comma 2°). Se la nullità è dichiarata in uno stato o grado diverso da quello in cui la stessa si è verificata, il codice (art. 185 commi 3° e 4°) opera una distinzione già da tempo elaborata dalla dottrina. La dichiarazione di nullità comporta, indipendentemente dalla tipologia della nullità medesima, la regressione del procedimento allo stato e grado in cui è stato compiuto l'atto nullo, purché si tratti di un atto di natura non probatoria. Se, invece, si tratta di nullità concernenti le prove, il giudice non può avvalersi della regressione (art. 185 comma 4°), ma deve provvedere, ai sensi del 2° comma dell'art. 185, alla rinnovazione, sempreché ciò sia necessario ai fini della decisione e la prova sia ripetibile. Naturalmente, il disegno di realizzare una consistente economia processuale – avvertibile pure nella linea di tendenza recepita a proposito delle prove acquisite dal giudice incompetente, cui l'art. 26 non disconosce efficacia – non può mai operare nel giudizio di cassazione: i limiti istituzionali propri del giudizio di legittimità impongono di far luogo all'annullamento con rinvio (ari. 623).

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Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi CAPITOLO III

LE PROVE 1. e 2. Premesse e il problema della sfera d’incidenza della normativa contenuta nel libro sulle prove. Le norme del libro sulle prove debbano applicarsi nelle fasi anteriori al dibattimento, con riferimento ai diversi momenti in cui - nell'arco di tali fasi - è previsto l'intervento del giudice, ora in funzione di organo di garanzia, ora in funzione di organo di decisione, anche nel merito. Cominciando da questa seconda ipotesi, e quindi facendo riferimento, in particolare, all'attività del giudice in sede di udienza preliminare - la quale, com'è noto, può anche rivestire la fisionomia di una udienza di integrazione della piattaforma probatoria già acquisita - sembra fuori discussione che il medesimo giudice debba attenersi, di regola, alle norme sancite nel libro III, fermi ovviamente i limiti risultanti da specifiche previsioni di natura derogatoria. Più precisamente, ad esempio, dovranno osservarsi le disposizioni generali in tema di ammissione delle prove. Non bisogna dimenticare, d'altra parte, che al termine dell'udienza preliminare – anche sulla base delle «prove» (così si esprime l'art. 422) ammesse ed assunte nel corso della medesima – il giudice potrà pronunciare non solo un decreto di rinvio a giudizio (art. 429) od una sentenza di non luogo a procedere (art. 425), ma anche una sentenza di condanna nel caso di giudizio abbreviato (art. 442) ovvero una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (art. 448). E, in proposito, è innegabile che, ai fini della selezione e della valutazione del materiale probatorio su cui fondare la propria decisione, il medesimo giudice non possa discostarsi dalle nor- me che presiedono ex artt. 191 e 192 alla formazione del convincimento giudiziale (infra, §§ 6 e 7). La conclusione non può essere diversa, salvi i necessari adattamenti, anche riguardo alle ipotesi in cui il giudice sia chiamato ad intervenire, nel corso delle indagini preliminari, nell'adempimento del suo tipico compito di garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali: ad esempio essendogli richiesta l'adozione di un provvedimento in tema di coercizione personale (art. 291), ovvero in tema di intercettazioni telefoniche (art. 267). In questa ed in altre analoghe situazioni si deve ritenere che il giudice per le indagini preliminari, di fronte agli elementi probatori fornitigli a sup- porto delle correlative richieste, possa utilizzare alla base del proprio provvedimento soltanto quelli il cui impiego non sia incoerente con la corrispondente disciplina stabilita in materia di prove. Il pubblico ministero (e lo stesso vale, ovviamente, per gli organi di polizia giudiziaria) non si trovi nella condizione di un organo legibus solutus nello svolgimento delle indagini preliminari, senza alcun obbligo di osservanza almeno dei princìpi di fondo dettati sul terreno probatorio. Non solo perché vi sono determinati atti del pubblico ministero (e della polizia giudiziaria) per loro natura destinati ad essere inseriti nel fascicolo per il dibattimento, e quindi ad essere acquisiti con valore di prova in tale sede (artt. 431, 511 e 511-bis), ed altri atti che il medesimo valore possono assumere per effetto del verificarsi di determinate circostanze, o in conseguenza del loro impiego per le contestazioni dibattimentali (artt. 500 commi 4° e 6° e 503 commi 5° e 6°), ovvero a seguito di lettura dei relativi verbali, in presenza di particolari situazioni (artt. 512, 512-bis e 5 13 ), od ancora in forza di accordo intervenuto tra le parti (artt. 431 comma 2°, 493 comma 3° e 500 comma 7°). Ma anche, e su un piano più generale, perché – stando al sistema accolto dal codice nella disciplina dei procedimenti speciali «senza dibattimento» – dipende in definitiva dal consenso delle parti che tutti gli atti di indagine preliminare compiuti dal pubblico ministero (e, se del caso, dalla polizia giudiziaria) possano venire utilizzali come prove alla base di una sentenza di merito idonea a definire il procedimento prima del passaggio al dibattimento. In altri termini, se è vero che le indagini preliminari del pubblico ministero (nonché quelle della polizia giudiziaria) sono suscettibili, nelle ipotesi appena ricordate, di assurgere al livello di prova, contribuendo così in positivo alla formazione del convincimento del giudice, non è seriamente pensabile che le medesime possano svolgersi al di fuori di qualunque riferimento alla disciplina dettata nel codice in materia di attività probatorie. Se ne desume, anzitutto, che le «disposizioni generali» con cui si apre il libro III (infra, §§ 3-7), in quanto espressive di alcune basilari scelte di civiltà giuridica sul terreno probatorio – e, quindi, della ricerca probatoria – debbano senz'altro applicarsi anchenel corso delle indagini 70

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi preliminari del pubblico ministero (e della polizia giudiziaria), ovviamente entro i limiti consentiti dalla natura e dalla finalità delle stesse. Per quel che concerne la disciplina dei mezzi di ricerca delle prove precostituite – corrispondenti, del resto, ad attività tipiche della fase delle indagini preliminari (infra, §§ 13-14) – non sembra dubbio che essa debba venire osservata dal pubblico ministero e, per quanto di sua competenza, dalla polizia giudiziaria. Lo stesso non può dirsi, invece, in ordine alla disciplina dei mezzi di prova (infra, §§ 8-12), che non a caso risulta dettata facendo di regola riferimento al «giudice», trattandosi di atti normalmente affidati alla sua gestione, in quanto destinati a sfociare in prove «formate» nel processo, e come tali idonee a concorrere direttamente alla formazione del eonvincimento giudiziale. Proprio per sottolineare questi aspetti peculiari, nel codice la regolamentazione delle omologhe attività da parte del pubblico ministero, all'interno delle indagini preliminari, presenta una sua specifica autonomia, tale da far pensare che il legislatore abbia inteso senza dubbio tenerla distinta da quella dei mezzi di prova in senso proprio. Sembra allora doversi concludere che le norme relative ai diversi mezzi di prova, quali risultano sancite nel libro III, non debbano in linea di massima applicarsi nel corso delle indagini preliminari del pubblico ministero. Ciò non significa, peraltro, che — al di fuori degli espliciti rinvii disposti dal legislatore — non si possa talora pervenire in sede interpretativa a ritenere applicabili le norme dettate per i mezzi di prova anche con riferimento a particolari attività o situazioni riconducibili all'ambito delle indagini preliminari del pubblico ministero. Così, in ispecie, non sembra potersi dubitare che agli atti di confronto cui alludono gli artt. 364 comma 1° e 376 (senza, peraltro, fornire ulteriori precisazioni) debba applicarsi la disciplina descritta ex artt. 211 e 212. Più precisamente, in quanto si tratti di norme dettate non già in funzione della specifica attitudine di tali mezzi a «formare» la prova, bensì, su un piano più generale, esclusivamente allo scopo di stabilire le idonee garanzie «minime» per il relativo procedimento di acquisizione probatoria (da osservarsi, dunque, prescindendo dalla circostanza che le risultanze così acquisite siano, o meno, destinate a valere come prova in sede dibattimentale): garanzie, cioè, in assenza delle quali il medesimo procedimento potrebbe risultare gravemente deficitario rispetto ai princìpi fondamentali del sistema. 3. L’oggetto della prova. Si definisce l'oggetto della prova facendo riferimento, in sostanza, al tema della decisione. E, attraverso tale riferimento, si è fissato il requisito della pertinenza come critrio-guida per lo sviluppo dell'attività probatoria, ma anche, nel contempo, per la definizione dei suoi confini. Dal 1° comma dell'art. 187, dove è evidente lo sforzo di una limitazione del perimetro del thema probandum corrispondente all'area delle questioni poste attraverso l'esercizio dell'azione penale (ovvero prima di quell'esercizio, all'area delle questioni da risolversi in vista delle relative «determinazioni», con riferimento alla «ipotesi di imputazione» posta alla base delle indagini. Tali, da un lato, i fatti che si riferiscono all'imputazione, dall'altro quelli concernenti la punibilità dell'imputato, nonché la determinazione della pena o della misura di sicurezza. Quando vi sia costituzione di parte civile, poi, il tema probatorio è destinato ad allargarsi fino ad includere le questioni derivanti dall'esercizio dell'azione civile in sede penale. Del tutto nuova infine, risulta la prevista estensione dell'oggetto della prova anche ai c.d. «fatti processuali» , o, più esattamente ai fatti «dai quali dipende l'applicazione di norme processuali» (art 187 comma 2"). Il criterio di pertinenza che vi è enunciato rappresenta infatti come si dirà (infra, § 5), il parametro di fondo per la verifica circa la rilevanza della prova in vista della sua ammissione (art. 190 comma 1°) oltreché per la soluzione dei diversi problemi che possono porsi in sede di assunzione di determinate prove: ad esempio, per quanto riguarda l'esercizio dei poteri del presidente volti ad assicurare la «pertinenza delle domande» (art. 499 comma 6°), ed a decidere sulle correlative opposizioni (art. 504), in sede di esame diretto e di controesame. Proprio in relazione alla disciplina dell'oggetto della prova va ricordata, infine tra le numerose, e spesso inutili, classificazioni del fenomeno probatorio – la distinzione tra «prove dirette» e «prove indirette», a seconda che le stesse si riferiscano, o non si riferiscano, immediatamente al thema probandum principale, quale risulta dall'art. 187. Stando a questa terminologia sono prove dirette quelle aventi per oggetto il fatto da provare – nelle sue diverse articolazioni – mentre sono prove indirette quelle che non hanno direttamente ad oggetto il fatto da 71

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi provare, bensì un altro fatto, dal quale il giudice potrà risalire al primo solo attraverso una operazione mentale di tipo induttivo. Le prove appartenenti a questa seconda categoria si definiscono anche come «prove indiziarie», così da sottolinearne la struttura tipicamente inferenziale, e tali sono gli «indizi», cui si riferisce la regola di valutazione dettata dall'art. 192 comma 2° (infra, § 7), da non confondersi con gli «indizi» richiesti quale presupposto, ad esempio, per I'adozione di una misura cautelare ex artt. 273 comma 1° e 292 comma 2° lett. c (infra, cap. IV, §§ 3 e 13) ovvero per l'autorizzazione ad una intercettazione telefonica ex art. 267 comma 1° (infra, § 15). In queste ultime ipotesi, infatti, perpetuando una infelice ambiguità già criticala al l'epoca del codice abrogato, il legislatore parla di «indizi» con riguardo ad elementi conoscitivi di varia natura, di per sé idonei a concretare soltanto una situazione di fumus commissi delicti. 4. Prove atipiche e garanzie per la libertà morale della persona. Si è deciso, quindi, di non dettare alcuna aprioristica preclusione nei confronti delle prove «non disciplinate dalla legge» (ciò che sarebbe potuto risultare eccessivo, soprattutto nell'ottica dei prevedibili sviluppi tecnologici sul terreno degli strumenti investigativi), ma di trasferire in capo al giudice, caso per caso, il compito di un vaglio preliminare circa l'ammissibilità di tali prove. La verifica è subordinata a due distinte e concorrenti valutazioni: da un lato, che essa «risulta idonea ad assicurare l'accertamento dei fatti», dall'altro che «non pregiudica la libertà morale della persona». Dopo di che, qualora venga riconosciuta l'ammissibilità della prova non ostante la sua fisionomia atipica, sarà ancora compito del giudice definire in concreto le modalità del-la sua assunzione, dopo avere sentito le parti allo scopo di concordare, se possibile, le relative cadenze procedurali (art. 189). Nessuna prova potrà essere ammessa ai sensi dell'art. 189, qualora possa derivarne una lesione alla libertà morale del soggetto che vi è coinvolto. Si tratta, del resto, (li una applicazione del principio di fondo secondo cui non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, tecniche o metodi probatori «idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti» (art. 188). Nessuna prova potrà essere ammessa, né tanto meno assunta, quando la stessa pre- supponga il ricorso a metodiche tali da vanificare, o comunque da compromettere, la normale attitudine della persona all'autodeterminazione ed all'esercizio delle facoltà mnemoniche e valutative. 5. Diritto alla prova e criteri di ammissione. Alle parti è ricunosciuto un vero e proprio «diritto alla prova» (a sua volta tipica manifestazione diritto di difesa, per quanto riguarda le parti private, sotto il particolare profilo dell'esigenza di «difendersi provando»), che infatti il codice esplicitamente sancisce. Lungo questa prospettiva, e relegando nei confini delle eccezioni stabilite dalla legge «i casi in cui le prove sono ammesse d'ufficio», l'art. 190 non esita ad affermare con chiarezza il principio – di impronta tipicamente accusatoria – per cui «le prove sono ammesse a richiesta di parte», e su tale base impone al giudice di provvedere «senza ritardo con ordinanza» alla delibazione di ammissibilità che gli è demandata. Emerge così il duplice livello sul quale si articola il diritto alla prova riconosciuto alle parti. In primo luogo come diritto di richiedere l'ammissione di determinate prove. In secondo luogo, una volta adempiuto a tale onere, come diritto ad ottenere la prova ri- chiesta, entro i limiti in cui la medesima possa venire ammessa, o, comunque, ad ottenere una tempestiva pronuncia – distinta dalla sentenza finale sulla richiesta ritualmente formulata. Non si può non ricordare almeno l'esplicita attribuzione all'imputato del diritto ad ottenere l'ammissione prove delle a discarico «sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico ed al pubblico ministero del corrispondente diritto in ordine alle prove a carico «sui fatti costituenti oggetto delle prove a discarico» (art. .115 comma 2°). In queste ipotesi, anzi, legislatore ha voluto evidentemente attribuire un particolare risalto al c.d. diritto di «controprova» – in quanto tipica espressione della dialettica del contraddittorio – al punto da configurare uno specifico motivo di ricorso per cassazione proprio con riferimento alla «mancata assunzione di una prova decisiva», allocche la stessa sia stata richiesta dalla parte, anche nel corso dell'istruzione dibattimentale, a norma dell'art. 495 comma 2° (art., 606 comma 1° lett. d). Sul piano delle valutazioni di diritto, il 72

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi giudice dovrà escludere anzitutto le prove «vietate dalla legge». Sul piano delle valutazioni di fatto, lo stesso giudice, dopo avere riscontrato l'insussistenza di divieti legislativi, dovrà escludere le prove che risultino in concreto, e manifestamente, «superflue» o «irrilevanti». A quest'ultimo proposito, mentre la verifica sulla rilevanza della prova si risolve in un giudizio circa la sua riconducibilità all'ambito oggettivo delineato dall'art. 187 (dunque, in realtà, circa la sua pertinenza al thema probandum), la successiva verifica sulla «non superfluità» comporta un giudizio sulla potenziale utilità della stessa. Rispetto alla disciplina ordinaria di ammissione della prova presenta carattere derogatorio la norma dell'art. 190-bis, destinata ad operare nei soli procedimenti per i delitti di criminalità organizzata indicati nell'art. 51 comma 3-bis. Ne deriva una evidente deroga in rapporto ai criteri di ammissione della prova sanciti dall'art. 190, che ubbidisce anzitutto ad un'esigenza di tutela delle persone da esaminare. Queste esigenze risultano oggi soddisfatte nell'ambito di una disciplina che, se da un lato è attenta ad assicurare in ogni caso l'osservanza della garanzia del contraddittorio, dall'altro subordina il potere del giudice di ammettere o di non ammettere la rinnovazione. Non sembra dubbio che quest'ultima valutazione debba riservarsi sempre al giudice, secondo i principi generali in tema di ammissione della prova, senza alcun vincolo (nonostante l'ambiguità del linguaggio normativo) alle richieste ed alle prospettazioni avanzate da «taluna delle parti». I princìpi espressi nell'art. 190 risultano di per sé applicabili nell'intero arco del procedimento, e quindi anche nelle fasi anteriori al dibattimento, beninteso entro i limiti di compatibilità con tali fasi della tematica che vi è disciplinata. Non sembra dubbio, anzitutto, che i principi in questione debbano applicarsi in sede di incidente probatorio, lo stesso può dirsi in sede di udienza preliminare. Resta fermo, in ogni caso, che la fase dibattimentale è quella in cui con maggiore ampiezza ed intensità sono destinati a trovare applicazione i principi generali riguardanti il diritto alla prova — quali risultano oggi consacrati, in termini espliciti, nel nuovo art. 111 Cost — a cominciare dalla già ricordata disciplina del diritto di «controprova» (artt. 468 comma 4° e 495 comma 2°) e dalla articolazione dialettica dell'esame diretto ed incrociato (artt. 498-504): il tutto, del resto, in coerenza con alcune tra le più qualificanti direttive della legge delega (art. 2 nn. 73 e 75). Si deve aggiungere, peraltro, che proprio in rapporto alla fase dibattimentale (al di la, dunque, della peculiare disciplina introdotta con riguardo all'udienza preliminare nell'art. 422 comma 1° e con riguardo al giudizio abbreviato nell'art. 441 comma 5°), sono previste le più vistose eccezioni al principio dell'iniziativa di parte sul terreno probatorio, accanto a quelle stabilite in via generale nell'ambito della regolamentazione di singoli mezzi di prova. Come risulta, ad esempio, dalle disposizioni dettate in materia di testimonianza (artt. 195 e 196) o di esame di persone imputate in un procedimento connesso (art. 210), od ancora di perizia (art. 224) o di documenti provenienti dall'imputato (art. 237). Ci si riferisce alle diverse ipotesi in cui il codice — anche qui sulla base di esplicite prescrizioni della legge delega (art. 2 nn. 73 e 76) — configura determinati poteri di iniziativa probatoria come esperibili ex officio, attribuendoli ora al presidente del collegio (artt. 468 comma 5° e 506), ora al giudice del dibattimento (artt. 507, 508, 511 e 511-bis), talvolta in base al criterio della «assoluta necessità» (artt. 507, 523 comma 6° e 603 comma 3°). Senonché, per quanto rilevante e significativa, sul piano dei rimedi agli eventuali squilibri verificatisi nel contraddittorio tra le parti, l'attribu- zione all'organo giurisdizionale di un simile potere di intervento suppletivo assume un risalto secondario e marginale. 6. Prove illegittimamente acquisite e sanzione di inutilizzabilità. Il principio di legalità in materia di prova, si colloca soprattutto la regola che sancisce la non utilizzabilità delle «prove illegittimamente acquisite», cioè ammesse o assunte «in violazione dei divieti stabiliti dalla legge» (art. 191). Assume in tal modo risalto formale la categoria della inutilizzabilità, intesa come vizio e, per altro aspetto, come sanzione processuale predi-sposta in via generale nel caso di violazione dei divieti probatori risultanti ex lege. La inutilizzabilità della prova, infatti, è rilevabile «anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento» (art. 191 comma 2°), quindi pure nell'ambito del giudizio in cassazione. Quanto alla sfera di operatività della sanzione prevista dall'art. 191, essa va individuata avendo riguardo ad ogni ipotesi di inosservanza di un divieto sancito dalla legge processuale – per via diretta o indiretta – in materia di ammissione ovvero di acquisizione 73

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi probatoria, ivi comprese le ipotesi in cui il divieto, per sua natura, possa emergere soltanto ex post rispetto al momento acquisitivo, e quindi si concreti esclusivamente nel momento di valutazione della prova (come risulta, ad esempio, ex artt. 63 comma 1°, 64 comma 3-bis e 195 comma 30). In altri termini, il disposto dell'art. 191 si configura, da un lato (comma 1°), come norma generale di previsione della sanzione dell'inutilizzabilità, destinata a combinarsi con tutte le svariate disposizioni che, pur sancendo un divieto probatorio – da intendersi come vero e proprio divieto all'ingresso della prova nel processo - non prevedono alcun riflesso sanzionatorio per l'ipotesi della sua trasgressione. Dall'altro (comma 2°), come norma generale di riferimento per il regime normativo del vizio della inutilizzabilità, destinata a trovare applicazione tutte le volte in cui singole disposizioni dichiarino tout court inutilizzabili determinai atti probatori. La sanzione della inutilizzabilità – ribadita per la sentenza dibattimentale con riguardo alle prove «diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento» (art. 526) opera in via generale nei confronti di tutte le prove acquisite contra legem, cioè nella inosservanza di un divieto di ammissione o di acquisizione stabilito per legge. 7. Valutazione della prova e regole di convincimento del giudice. Passando al regime di valutazione della prova, cui è testualmente dedicato l'art. 192, ne risulta anzitutto ribadito il principio del «libero convincimento» del giudice. Tale principio viene affermato con esclusivo riferimento al momento della valutazione della prova non anche a momenti anteriori del procedimento probatorio. Questa esigenza di legalità circa il momento valutativo della prova trova la sua conferma nella previsione del necessario raccordo tra le valutazioni operate dal giudice - ai fini del proprio convmcimento - e la motivazione dei provvedimenti che ne siano derivati, nella quale dovrà essere dato conto sia dei «risultati acquisiti», sia dei «criteri adottati» (art. 192 comma 1°). Il giudice dovrà in concreto ricostruire il percorso logico conoscitvo che lo abbia condotto ad apprezzare in un certo modo le prove disponibili ed a trarne determinate conclusioni: all'interno della motivazione non solo dovranno essere indicate le «prove poste a base della decisione», ma dovranno essere altresì enunciate le «ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie» (art 546 comma let. e). Oltre al limite razionale derivante dall'obbligo della motivazione, il principio del libero convincimento del giudice incontra tuttavia (a testimonianza di una «libertà» suscettibile di esplicarsi soltanto entro i confini prefissati ex lege) anche alcuni limiti di tipo normativo, a parte la dichiarata irrilevanza degli sbarramenti probatori «stabiliti dalle leggi civili» (rectius, non penali), con l'unica eccezione per quelli concernenti lo stato di famiglia e di cittadinanza (art. 193). In primo luogo, su un piano generale, si esclude che a tale fine possano venire utilizzati elementi di natura soltanto indiziaria (si riflette qui, evidentemente, la classica distinzione tra «prove dirette» ed «indizi», questi ultimi intesi nel senso di prove critiche indirette: retro, § 3), a meno che i medesimi possano qualificarsi come «gravi, precisi e concordanti». Quando si accerti una simile caratterizzazione degli indizi entrati nella sfera conoscitiva del giudice, infatti, la regola probatoria risulta ribaltata: gli indizi, così intesi nel loro organico complesso, assumono valenza di prova, e diventano senz'altro idonei ad integrare la piattaforma di convincimento, da cui può essere desunta «l'esistenza di un fatto» (art. 192 comma 2°). In secondo luogo, ma questa volta con riferimento alla peculiare situazione dei coimputati del medesimo reato, ovvero degli imputati in un procedimento connesso a norma dell'art. 12 (al cui esame, qualora si proceda separatamente, devono applicarsi le disposizioni dettate nell'art. 210, trattandosi di soggetti ex art. 197 incompatibili con l'ufficio di testimone), si stabilisce che le dichiarazioni, di natura sostanzialmente testimoniale, provenienti da una di tali persone non possano venire valutate ex se, ma debbano sempre esserlo «unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità» (art. 192 comma 3°). E lo stesso vale anche nei confronti delle dichiarazioni rese dall'imputato di un «reato collegato» a quello per cui si procede, nell'ipotesi di collegamento probatorio ai sensi dell'art. 371 comma 2° lett. b (art. 192 comma 4°); nonché nei confronti delle dichiarazioni rese dall'imputato che abbia assunto l'ufficio di testimone, per effetto del disposto ex art. 197-bis comma ultimo (infra, § 8). Da ultimo, una ulteriore ipotesi di limite al principio del libero convincimento del giudice — sia pure circoscritto alla prova della «colpevolezza dell'imputato» – è quella che si 74

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi esprime nel divieto di valutazione sancito dall'art. 526 comma 1-bis, con l'escludere che tale prova possa essere ottenuta sulla base di «dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'esame da parte dell'imputato o del suo difensore». Dove evidentemente si è operata una trasposizione nel tessuto codicistico della regola enunciata nella seconda parte dell'art. 111 comma 4° Cost.. 8. La testimonianza. Mentre i mezzi di prova (testimonianze, esami delle parti canfronti, ricognizioni, esperimenti giudiziali, perizie documenti) si caratterizzano per la loro attitudine ad offrire al giudice dei risultati direttamente utilizzabili ai fini della decisione, lo stesso non può dirsi invece per i mezzi di ricerca della prova (ispezioni, perquisizioni, sequestri, intercettazioni telefoniche), che non integrano di per sé una fonte del convincimento giudiziale, ma risultano funzionalmente diretti a permettere l'acquisizione di cose, tracce, notizie o dichiarazioni idonee ad assumere rilevanza probatoria. I mezzi di ricerca della prova si caratterizzano specialmente in quanto diretti a propiziare l'acquisizione al processo (per lo più attraverso atti fondati sulla sorpresa) di elementi probatori in vario modo precostituiti rispetto al medesimo, laddove i mezzi di prova si qualificano, al contrario, per la loro funzionalità ad assicurare la formazione della prova in sede processuale. Quanto alla tematica della testimonianza (artt. 194-207), il cui oggetto ed i cui limiti risultano definiti con sufficiente chiarezza dall'art. 194. merita anzitutto d'essere posta in luce la articolata normativa dettata per il fenomeno della c.d. testimonianza indiretta (art. 195). Più precisamente, da un lato, viene sancita, in termini generali, la inutilizzabilità della deposizione di chi non possa o non voglia indicare la persona o la fonte da cui abbia appreso la notizia al centro dell'esame testimoniale (art. 195 comma 7°). E di qui deriva il tradizionale corollario rappresentato – come si vedrà tra breve – dal divieto di acquisizione e di impiego delle notizie provenienti dagli informatori confidenziali, dei quali gli organi di polizia e dei servizi di sicurezza non abbiano rivelato i nomi, essendo espressamente facoltizzati a tacerli anche di fronte al giudice (art. 203). D'altro lato, viene previsto che, allorquando il testimone riferisce fatti o circostanze, la cui conoscenza dichiari di aver appreso da persone diverse, queste ultime non solo possano essere chiamate a deporre d'ufficio dal giudice, ma debbano comunque esserlo su richiesta di parte, a pena di inutilizzabilità delle dichiarazioni de relato (art. 195 commi 1° e 3°) laddove tale richiesta venga disattesa (salvo che l'esame del testimone direttamente a conoscenza dei fatti risulti impossibile a causa di morte, di infermità o di irreperibilità). In questo quadro, con riferimento ad una esplicita direttiva della legge delega (art. 2 n. 31), il 4" comma dell'art. 195 aveva stabilito il divieto – nei confronti di ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria – di deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni (rectius, da persone che successivamente potessero assumere la veste di testimoni), configurando così una deroga piuttosto rigida rispetto alla ordinaria disciplina della testimonianza indiretta. Sebbene questa disposizione derogatoria fosse stata dichiarata costituzionalmente illegittima (e, con essa, la corrispondente direttiva della de-lega), in quanto discutibilmente ritenuta «sfornita di ragionevole giustificazione», essa è stata tuttavia di recente riproposta nello stesso 4° comma, sia pure in versione più circoscritta, nell'ambito della legislazione attuativa dei princìpi di garanzia del contraddittorio affermati nel testo novellato dell'art. 111 Cost.. Più precisamente, è stato ripristinato in capo ad ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria il divieto di deporre sul contenuto di dichiarazioni rese da testimoni, ma limitatamente alle dichiarazioni acquisite «con le modalità di cui agli artt. 351 e 357 comma 2 lett. a e b. Questo divieto non opera, invece, negli «altri casi» (rispetto a quelli specificamente indicati nel 4° comma del l'art. 195). Alla esigenza di assicurare sempre, in linea di principio, la operatività di un controllo sulla fonte delle deposizioni «di seconda mano» — oltreché iii rallorzare la tutela processuale di determinati segreti – ubbidisce anche In regola di esclusione della testimonianza dei soggetti che facciano rilevimento a fatti conosciuti da persone titolari di un segreto prolessionale (art. 200), ovvero di un segreto d'ufficio (art. 201), senza dubbio comprensivo anche del segreto di Stato, sempreché le medesime persone non abbiano deposto sugli stessi fatti, o non abbiano altrimenti divulgate. Dopo avere delineato in termini organici i capisaldi della capacità di testimoniare (art. 196), il codice si sofferma a descrivere la disciplina delle incompatibilità con il relativo ufficio (art. 197), ed in 75

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi particolare le ipotesi di incompatibilità a testimoniare dell'imputato. In particolare, per quanto concerne l'area essa risulta oggi circoscritta in termini assoluti (con notevole restrizione rispetto alle corrispondenti previsioni del previgente art. 197) alla situazione di chi sia coimputato del medesimo reato o imputato in un procedimento connesso a norma dell'art. 12 comma 1° lett. a, sempreché nei suoi confronti già non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, ovvero sentenza irrevocabile di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444. A questa ipotesi di incompatibilità assoluta a testimoniare dell'imputato, prevista dalla lett. a dell'odierno art. 197, si affianca nella successiva lett. b un'ulteriore ipotesi di incompatibilità ad essa speculare, con riferimento alla situazione di chi sia imputato in un procedimento connesso ai sensi dell'art. 12 comma 1° lett. c, ovvero di un reato collegato a norma dell'art. 371 comma 2° lett. b (sul punto non rilevano, quindi, le pur significative modifiche rispettivamente apportate circa l'ambito di operatività delle suddette disposizioni), naturalmente sempreché nei suoi confronti non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444. Senonché tale ulteriore ipotesi di incompatibilità risulta temperata dalla clausola di esordio della stessa lett. b dell'art. 197, che fa «salvo quanto previsto dall'art. 64 comma 3 lett. C». Se ne desume, in sostanza, che quest'ultima causa di incompatibilità non opera allorché si realizzino le circostanze descritte nel medesimo art. 64 comma 3° lett. c, dopo che all'imputato dichiarante sia stato dato il relativo avvertimento. Tutto ciò trova conferma nel nuovo art. 197-bis, destinato per l'appunto a disciplinare la posizione delle persone che rivestendo (o avendo rivestito) la qualifica di imputato «in un procedimento connesso o collegato», nondimeno possono ricoprire l'ufficio di testimone (ferme, ovviamente, le già ricordate incompatibilità sancite dall'art. 197). Tali sono, in primo luogo, alla stregua dell'art. 197-bis comma 1°, tutti gli imputati che si siano trovati nelle situazioni descritte dall'art. 197 lett. a e b. Tali sono, in secondo luogo, come risulta dall'art. 197-bis comma 2° in rapporto all'art. 197 lett. b, tutti gli imputati in un procedimento connesso ai sensi dell'art. 12 comma 1 lett. c o di un reato collegato a norma dell'art. 371 comma 2° lett. b, i quali in sede di interrogatorio abbiano reso dichiarazioni concernenti l'altrui responsabilità, essendo stati ritualmente preavvertiti ex art. 64 comma 3° lett. c. Un testimone che è tale a tutti gli effetti. Ma anche, nel contempo, un testimone che gode di un regime particolare dal punto di vista delle garanzie, evidentemente in ragione del rischio che – tenuto conto del suo peculiare status processuale – dall'adempimento del dovere di deporre possa derivargli qualche pregiudizio sul terreno dell'accertamento delle proprie eventuali responsabilità. Anzitutto si stabilisce, attraverso una previsione inedita rispetto alli ordinaria figura testimoniale, che nelle ipotesi in questione il testimone venga assistito da un difensore (di qui la formula, ormai diffusa nella prassi, di «testimone assistito»), con l'ulteriore precisazione relativa alla nomina di un difensore d'ufficio nel caso di mancanza di un difensore di fiducia. E, sebbene a questo difensore non venga attribuito un «diritto di partecipare all'esame» del tipo di quello spettante, invece, al difensore dei soggetti (imputati in un procedimento connesso che «non possono assumere l'ufficio di testimone») ai quali si riferisce l'art. 210 comma 4°, non sembra tuttavia dubbio che al medesimo difensore debba riconoscersi sia il diritto di presenziare all'esame dei testimoni di cui tratta l'art. 197-bis (nonché all'audizione dei medesimi soggetti prevista dagli artt. 351 comma 10 e 362, stante il rinvio ivi operato al suddetto art. 197-bis) sia, in quella sede, il diritto di formulare richieste, osservazioni e riserve, ovviamente a tutela della posizione del testimone assistito e delle corrispondenti prerogative sul versante dei limiti al dovere testimoniale. L'art. 197 bis comma 4° individua due altre specifiche ipotesi con riferimento alle quali il medesimo testimone «non può essere obbligato a deporre», e quindi può legittimanueule rifiutarsi di rispondere alla relative domande. In primo luogo, quando si versi in una delle situazioni previste dal 1° comma del predetto art. 197-bis, si stabilisce che il testimone è esonerato dall'obbligo di deporre sui fatti per i quali in giudizio sia stata pronunciata a suo carico senbilia irrevocabile di condanna (non anche, dunque, sentenza di applicazione della pena ex art. 444, attesa la esplicita distinzione tra le due sen Irnze rimareata nello stesso 1° comma), allorché nel procedimento egli «aveva negato la propria responsabilità» (da intendersi in senso stretto, con riguardo al fatto storico), ovvero «non aveva reso alcuna dichiarazione». Inoltre, quando si versi in una delle situazioni previste dal successivo 2° comma dell'art. 197-bis, si stabilisce che il testimone è del pari esonerato 76

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi dall'obbligo di deporre su fatti concernenti «la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti», così integrandosi e specificandosi il già ricordato principio per cui nessun testimone può essere obbligato a deporre su fatti «dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale» (art. 198 comma 2°). Il 5° comma dell'art. 197-bis si preoccupa di predisporre anche un diverso tipo di garanzia, destinata ad operare ex post. Più precisamente si prescrive che tali dichiarazioni non possano essere utilizzate «contro» la persona da cui provengano non solo nel procedimento a suo carico, ove ancora in corso (e potrebbe anche trattarsi dello stesso procedimento in cui tale persona avesse assunto veste testimoniale ex art. 197-bis comma 2°), ma nemmeno nell'eventuale procedimento di revisione della sentenza di condanna pronunciata nei suoi confronti, ne in qualsiasi altro giudizio civile o amministrativo relativo al fatto oggetto di tali procedimenti o di tale sentenza. Meno comprensibile risulta, invece, da un certo punto di vista, la previsione contenuta nell'ultimo comma dell'art. 197-bis, là dove alle dichiarazioni provenienti dai testimoni indicati nel medesimo articolo viene estesa la regola dettata nell'art. 192 comma 3°, nel senso di esigere che anche le suddette dichiarazioni, per assumere pieno valore probatorio, debbano venire corroborate da «altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità» (retro, § 7). Per quanto riguarda i doveri processuali cui è tenuto in via generale, salvo diversa disposizione di legge, il soggetto che assume la veste di testimone, l'art. 198 – dopo aver definito i tradizionali obblighi propri dell'ufficio testimoniale (obbligo di presentarsi al giudice, di attenersi alle prescrizioni e di rispondere veridicamente) – vi ricollega esplicitamente la classica garanzia contro il rischio della selfincrimination, stabilendo che il medesimo teste «non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale». A parte la disciplina della testimonianza dei prossimi congiunti dell'imputato, imperniata sull'ordinario riconoscimento della facoltà di astensione e sul diritto al relativo avviso, a pena di nullità (art. 199) – salvo che abbiano presentato denuncia, querela o istanza, ovvero essi, od un loro prossimo congiunto, siano offesi dal reato – le deroghe all'obbligo della deposizione sono dunque riconducibili alla sfera dei segreti cui la stessa legge delega (art. 2 n. 70) ha imposto di attribuire rilevanza in sede di acquisizione probatoria. Per quanto riguarda l'ambito del segreto professio- nale (art. 200), prescindendo dai ritocchi apportati alla definizione delle categorie già in precedenza legittimate all'opposizione di quel segreto, va soprattutto segnalato l'allargamento operato attraverso il riferimento anche agli esercenti altri uffici o professioni, cui la legge «riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale». Fermo restando il potere del giudice di ordinare che, in ipotesi del genere, il testimone deponga, tutte le volte in cui si sia convinto, dopo i necessari accertamenti, della infondatezza della dichiarazione di segretezza opposta dal medesimo per esimersi dal deporre, un regime particolare è previsto nei confronti dei giornalisti professionisti iscritti all'albo (esclusi, dunque, i pubblicisti), relativamente ai nomi delle persone che abbiano loro fornito notizie in via fiduciaria. Entro questi limiti anche ad essi viene estesa la normativa dettata per il segreto professionale, ma al giudice è sempre riservato il potere di obbligarli a rivelare l'identità di tali persone, quando le suddette notizie siano indispensabili per la prova del reato, e la loro veridicità possa venire accertata solo attraverso l'identificazione della fonte fiduciaria (art. 200 comma 3°). La stessa disciplina prevista per la facoltà d'astensione dei titolari di un segreto professionale (ivi compresa la importante precisazione «salvi i casi in cui hanno l'obbligo di riferirne all'autorità giudiziaria») risulta estesa anche ai pubblici ufficiali, ai pubblici impiegati ed agli incaricali di un pubblico servizio in rapporto alla tematica del segreto d'ufficio, sia pure con la variante che ad essi compete non tanto la facoltà, quanto «l'obbligo di astenersi dal deporre» sui fatti «che devono rimanere segreti» (art. 201). Un aspetto peculiare della disciplina del segreto d'ufficio è rappre- sentato, infine, dalla prerogativa riconosciuta agli ufficiali ed agli agenti di polizia giudiziaria – ai quali vengono accomunati, per la prima volta, gli appartenenti ai servizi di sicurezza – di non rivelare i nomi dei propri informatori confidenziali, senza alcuna possibilità per il giudice di obbligarli a lornire le relative indicazioni, fermo in tal caso il già ricordato divieto di acquisizione e di utilizzo processuale delle informazioni provenienti dai medesimi (art. 203 comma 1°). Quanto alle ipotesi di opposizione del segreto di Stato, da parte degli stessi soggetti legittimati ad opporre il segreto d'ufficio, l'art. 202 non fa che ricalcare le linee della corrispondente direttiva della legge delega (art. 2 n. 70), del 77

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi resto a sua volta ispirata alle scelte operate dalla 1. 24 ottobre 1977, n. 801, stabilendo l'obbligo del giudice di rivolgersi al presidente del Consiglio dei ministri – sempreché, naturalmente, non ritenga fondata l'opposizione addotta dal testimone – al fine di chiedere conferma all'esistenza di quel segreto. Dopo di che ove entro sessanta giorni la relativa conferma sia fornita (con provvedimento motivato nelle sue «ragioni essenziali», si deve ritenere, sulla scorta di un preciso insegnamento della sentenza costituzionale n. 86 del 1977, anche in vista dell'eventuale ricorso per conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato), il giudice che reputi..tale testimonianza indispensabile per la definizione del processo potrà soltanto dichiarare non doversi procedere per l'esistenza di un segreto di Stato. Qualora, invece, quel termine scada senza che nessuna conferma venga fornita, il giudice potrà ordinare che il testimone deponga. Sempre in attuazione della medesima direttiva della delega (dov'è sviluppato il principio già espresso nell'art. 12 comma 2° l. 24 ottobre 1977, n. 801), l'art. 204 vieta, infine, che possano venire legittimamente opposti il segreto d'ufficio ed il segreto di Stato su fatti, notizie e documenti «concenenti» reati diretti all'eversione dell'ordinamento costituzionale (salvo per quanto riguarda i nomi degli informatori come risulta dall'art. 66 comma 1° disp. att.), riservando in caso di opposizione e al giudice il compito di definire la natura del reato: cioè, il presupposto per l'eventuale pronuncia contraria all'eccezione di segretezza, affidata allo stesso giudice. Si prevede, comunque, che del provvedimento di rigetto venga data comunicazione al presidente del Consiglio, evidentemente allo scopo di consentirgli le opportune iniziative. Venendo alle restanti disposizioni sulla disciplina della testimonianza, a parte le opportune precisazioni dettate in ordine alle modalità di assunzione del presidente della Repubblica e dei grandi ufficiali dello Stato (art. 205), nonché, rispettivamente, degli agenti diplomatici (art. 206), riveste notevole importanza il trattamento processuale della testimonianza falsa o reticente: a cominciare dall'esclusione di qualunque rapporto di pregiudizialità del relativo procedimento rispetto al procedimento principale e, in ogni caso, dal divieto della possibilità di arresto in udienza per il testintone, sancito dall'art. 476 comma 2° in conformità all'esplicita previsione della legge delega (art. 2 n. 74). Per conseguenza, la situazione risulta regolata dall'art. 207 all'insegna di una netta distinzione tra il profilo della iniziativa penale contro il testimone per il delitto di «falsa testimonianza» previsto dall'art. 372 c.p. ed il profilo della valutazione della testimonianza da parte del giudice del pro-(esso. A quest'ultimo, infatti, è imposto di informare il pubblico ministero, trasmettendogli gli atti, ove ne ricorrano gli estremi, soltanto con la decisione conclusiva della fase processuale in cui il testimone ha deposto (la informativa della notitia criminis sarà immediata, invece, nel caso di rifiuto della testimonianza), salva ovviamente l'autonomia del pubblico ministero stesso di promuovere l'azione penale in qualsiasi momento, anche prima dei suddetti adempimenti. Da notare che analoga disciplina è stata successivamente dettata nell'art. 371 bis comma 2° c.p., a proposito del delitto di «false informazioni al pubblico ministero», precisandosi peraltro che il relativo procedimento – ferma l'immediata procedibilità nel caso di rifiuto di informazioni – debba rimanere sospeso finché il procedimento principale, nel corso del quale le informazioni siano state assunte, si sia concluso con sentenza di primo grado, ovvero sia stato anteriormente definito. E quest'ultima pre- visione è stata ribadita anche nell'art. 371-ter comma 2° c.p., a proposito del delitto di «false dichiarazioni al difensore», nelle ipotesi previste dal-l'art. 391-bis commi 1° e 2°. 9. L'esame delle parti. Circa il nuovo istituto dell'esame delle parti private (artt. 208-210), destinato a prender luogo della figura dell'interrogatorio in sede dibattimentale (art. 503) — e, ricorrendo determinate ipotesi, anche in sede di incidente probatorio (art. 392) — va anzitutto sottolineato come si tratti, diversamente dall'interrogatorio, di un vero e proprio mezzo di prova, sia pure di natura eventuale, essendo la sua esperibilità su- bordinata alla volontà delle parti stesse. Le quali, in realtà, sono sottoposte all'esame soltanto qualora ne facciano richiesta, o consentano alla richiesta formulata da altra parte (salva, nel caso della parte civile, l'esigenza del suo esame come testimone), ivi compreso, ovviamente, il pubblico ministero (art. 208). Entro questi limiti, una volta manifestata la propria volontà favorevole all'esame, la parte che vi è stata sottoposta — quindi, anzitutto, 78

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi l'imputato, cui l'istituto è esplicitamente riferito dalla legge delega (art. 2 n. 73) — Perde la possibilità di esercitare senza pregiudizio la strategia del silenzio. Anche se bisogna aggiungere che, per quanto concerne l'imputato, In scelta del rifiuto all'esame non appare del tutto libera (ci si riferisce al l'esame sul fatto proprio, in quanto nel caso di esame sul fatto altrui ali che all'imputato, come si vedrà, deve applicarsi la disciplina ex art. 210, sempreché il medesimo non abbia assunto la figura di «testimone assistito» ai sensi dell'art. 197-bis), ma deve inquadrarsi nella particolare prospettiva dell'onere, come risulta dalle conseguenze per lui potenzialmente svantaggiose che ne fa discendere l'art. 513 comma 1°. Sebbene non si parli, al contrario di quel che accade per il testimone, di un obbligo di «rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte» (art. 198 comma l°), non è in realtà prevista alcuna formale attribuzione alla parte esaminata della facoltà di non rispondere, né, tanto meno, è previsto un avvertimento analogo a quello prescritto dall'art. 64 comma 3° in sede di interrogatorio, sebbene tale mancata previsione possa venire superata sul piano interpretativo (5). Si stabilisce, semmai, che dell'eventuale rifiuto di rispondere venga fatta menzione nel verbale (art. 209 comma 2°). Rimane fermo, in ogni caso, come per il testimone, ed in analoga prospettiva di tutela anticipata dal rischio della selfincrimination – sebbene, nella specie, tale rischio dovrebbe essere ridotto al minimo dal carattere volontario della sottoposizione all'esame – l'esplicito riconoscimento, anche per la parte esaminata, della facoltà di non rispondere, tutte le volte in cui dalla risposta potrebbe «emergere una sua responsabilità penale» (artt. 198 comma 2° e 209 comma 1°). Per quanto concerne, invece, le regole di esclusione dettate in materia di testimonianza indiretta, esse risultano richiamate solo con riguardo all'esame delle parti diverse dall'imputato (artt. 195 e 209 comma 1°). Un apposite regolamentazione risulta prevista, infine, dall’art. 210 con riferimento all’esame bibattimentale delle persone imputate in un procedimento connesso (salva l'ulteriore precisazione per cui, come si dirà tra breve, deve trattarsi di procedimenti connessi a norma dell'art. 12 comma l° lett. a), nei confronti delle quali si proceda, o si sia proceduto, separatamente, e che comunque non possano assumere l'ufficio di testimone. Riguardo a tali soggetti si stabilisce, allora, che nei dibattimenti relativi a processi diversi da quello in cui rivestano formalmente la qualità di imputati (ma anche nei processi in cui rivestano tale qualità, ove l'esame si riferisca al fatto altrui, secondo quanto aveva insegnato a suo tempo la giurisprudenza costituzionale), essi vengano di regola esaminati a richiesta di part,. ma possano, o meglio debbano, esserlo anche d'ufficio, allorché ai medesimi sia stato fatto riferimento nell'ambito di una testimo- nianza, o di un esame, di natura indiretta (art. 210 comma 1°). Per il resto, la disciplina dell'esame dei soggetti in questione risulta costruita sulla base di un assetto intermedio tra quello del testimone e quel 19 dell'imputato: da un lato sotto il profilo del richiamo delle norme con cernenti la citazione (ai sensi dell'art. 142 disp. att.),1'obbligo di presenta zione e l'eventuale accompagnamento coattivo dei testimoni (art. 210 comma 2°); dall'altro sotto il profilo della necessaria assistenza difensiva. Sotto il profilo dell'esplicito riconoscimento a tali soggetti del diritto al silenzio. Diversamente da quanto previsto nell'ipotesi del procedimento cumulativo – al cui interno, in forza dell'art. 208, il coimputato può comunque sottrarsi all'esame diretto – quando si proceda in via separata il medesimo coimputato potrà essere sempre costretto a soggiacervi, salvo il diritto ad essere avvertito della facoltà di non rispondere, come se si trattasse di un interrogatorio (art. 210 comma 4°). I soggetti cui dovrà applicarsi la particolare disciplina dell'esame attualmente prevista dal l'art. 210 non sono più, come era in passato (sulla scorta dell'allora vigente disposto dell'art. 197 lett. a e b), tutte «le persone imputate in un pro cedimento connesso a norma dell'art. 12, nei confronti delle quali si pro cede o si è proceduto separatamente», bensì soltanto quelle non riconn prese nell'area degli imputati che a norma dell'art. 197-bis «assumono l'ufficio di testimone». Più precisamente, dispone a quest'ultimo proposito il nuovo 6° comma dell'art. 210 che la disciplina contenuta nell'intero articolo debba applicarsi anche ai soggetti in questione, ma solo quando i medesimi «non hanno reso, in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell'imputato». Attraverso una simile precisazione ci si riferisce – a ben vedere – sia all'ipotesi in cui tali persone non siano mai state sentite da alcuna autorità interrogante, sia all'ipotesi in cui, pur essendo state interrogate, non abbiano reso in tale sede alcuna dichiarazione sull'altrui responsabilità. Tuttavia si prevede altresì che a tali soggetti, pur chiamati per essere 79

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi esaminati a norma dell'art. 210, venga comunque dato l'avvertimento previsto dall'art. 64 comma 3° lett. c, nel qual caso, ove non si avvalgano della facoltà di non rispondere, gli stessi assumeranno l'ufficio di testimone. 10. Confronti, ricognizioni ed esperimenti giudiziali. Riguardo alle figure dei confronti sono disiplinate agli artt. 211-212, le ricognizioni artt. 213-217 e gli esperimenti giudiziali artt. 218-219. I confronti aono ammessi «esclusivamente» fra persone «già esaminate o interrogate», nel caso di dichiarazioni in contrasto «su lutti e circostanze importanti» (art. 211), si tratta di un mezzo che dovrebbe trovare largo impiego anche, se non soprattutto, nel corso delle indagini preliminari (non a caso il relativo potere viene testualmente riconosciuto al pubblico ministero ex art. 364 comma 1°). Circa le modalità dell'atto, ne risulta evidenziata la funzione propulsiva attribuita al giudice nel richiamare le precedenti dichiarazioni – sulle quali i soggetti ammessi al confronto siano risultati in disaccordo – non-che nell'invitarli alle «reciproche contestazioni». Anche la disciplina delle ricognizioni ricalca, nelle sue grandi linee, i modelli tradizionali di questo mezzo probatorio, caratterizzandosi in ispecie sia che esse abbiano ad oggetto le persone (art. 213), sia che abbiano ad oggetto le cose (art. 215) – per la accuratezza e l'analiticità della descrizione degli adempimenti preliminari e, quindi, dei modi di svolgimento dell'atto (art. 214), evidentemente a causa di una certa diffidenza legislativa verso l'attendibilità dei risultati di questo delicato mezzo di prova. Addirittura si prevede che sia causa di nullità anche soltanto la mancata menzione, in sede di verbale, dell'osservanza delle forme prescritte per scandire la relativa procedura dai suoi preliminari alla vera e propria attività ricognitiva (artt. 213 comma 3°, 214 comma 3° e 215 comma 3°). Merita di essere ricordata, ancora, l'apertura contenuta nell'art. 216 a proposito della ricognizione di voci, di suoni o «di quanto altro può essere oggetto di percezione sensoriale». Il codice delinea qui una figura probatoria riconduci-bile all'ambito delle prove «non (del tutto) disciplinate dalla legge», per la quale dovranno quindi valere, anche in rapporto alle modalità di assunzione, i princìpi dettati nell'art. 189. Sia nel caso dei confronti, sia nel caso delle ricognizioni, è innegabile che la persona chiamata a compiere l'atto viene a trovarsi nella condizione di dover rilasciare dichiarazioni che – a seconda della sua posizione processuale – sono assimilabili per il loro contenuto informativo a quelle rese dall'imputato in sede di interrogatorio ovvero di esame ex art. 503. Quanto agli esperimenti giudiziali, mezzo di prova tipicamente finalizzato ad accertare se un fatto «sia o possa essere avvenuto in un determinato modo», attraverso la riproduzione della situazione e la ripetizione delle modalità relative al suo presumibile svolgimento (art. 218), la preoccupazione del legislatore si è appuntata soprattutto sull'esigenza di una maggiore specificazione in ordine alle forme da osservarsi per fare luogo alla relativa procedura, come risulta dal disposto dell'art. 219. Il giudice ha l’obbligo di provvedere affininché l'esperimento possa regolarmente svolgersi senza offendere «sentimenti di coscienza», e senza esporre a pericolo «l'incolumità delle persone o la sicurezza pubblica». 11. La perizia. La disciplina della perizia è data agli artt. 220-233. Circa l'oggetto della perizia, esso risulta delineato in via generale dall'art. 220 comma 1° attraverso la definizione del presupposto di ammissibilità della prova peritale (che si configura, nel contempo, come presupposto del dovere del giudice di disporre la perizia), facendo cioè riferimento alle situazioni in cui «occorre svolgere indagini», ovvero «acquisire dati o valutazioni», i quali richiedano «specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche». Un'ipotesi particolare di perizia, di recente introdotta nel sistema, è quella prevista dall'art. 16 1. 15 febbraio 1996, n. 66, stando alla quale l'imputato per uno dei gravi delitti ivi indicati (contro la personalità dei minori o contro la libertà sessuale) dev'essere sottoposto «con le forme della perizia» ad accertamenti per l'individuazione di «patologie sessualmente trasmissibili», tutte le volte in cui le modalità del fatto possano prospettare «un rischio di trasmissione delle patologie medesime». Tornando alle linee di fondo dell'istituto, quando il giudice accerti la sussistenza di una delle necessità indicate nell'art. 220 comma 1° egli sarà obbligato ad ammettere - e, quindi, a disporre – la perizia anche d'ufficio, come si dà cura di precisare l'art. 224 comma 1°, prevedendo altresì il 80

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi contenuto della relativa ordinanza, che accanto alla nomina del perito dovrà, tra l'altro, recare la «sommaria enunciazione dell'oggetto delle indagini». A quest'ultimo proposito, restano confermate le tradizionali esclusioni dell'ammissibilità della perizia in rapporto a determinati oggetti. Salvo quanto disposto in sede di esecuzione della pena o della misura di sicurezza (artt. 678 comma 2° e 679 comma 1°), infatti, sono vietate le perizie concernenti il carattere e la personalità dell'imputato, le forme qualificate di pericolosità sociale e, in genere, le sue qualità psichiche indipendenti da cause patologiche (art. 220 comma 2°). Mentre in rapporto alla tematica della incapacità, incompatibilità ed astensione del perito (artt. 222 e 223) non emergono profili di particolare interesse, il criterio principale per la nomina del perito quello della sua iscrizione negli «appositi albi» professionali. Il codice impone giudice di disporre una perizia collegiale, quando «le indagini e le valutazioni risultano di notevole complessità», ovvero quando le medesime «richiedono distinte conoscenze in differenti discipline» (art. 221). Circa le ulteriori sequenze procedurali, l'art. 224 comma 2° attribuisce anzitutto al giudice — a parte i necessari adempimenti relativi alla citazione del perito ed alla comparizione delle persone sottoposte all'esame peritale — il potere di adottare ogni altro provvedimento necessario per l'esecuzione delle relative operazioni, essendo peraltro da escludere da tale ambito le misure incidenti sulla libertà personale dell'imputato o di terze persone, salve quelle specificamente previste nei «casi» e nei «modi» dalla legge. Una breccia per il superamento in concreto di tale divieto (breccia significativa, ma tanto più singolare nella perdurante assenza di una specifica disciplina in materia peritale) risulta dalla attribuzione agli organi di polizia giudiziaria del potere di procedere anche coattivamente al «prelie- vo di capelli o di saliva», nelle forme e con le garanzie previste dall'art. 349 comma 2-bis ai fini della identificazione dell'indagato. Ovvero, più in generale, sebbene attraverso una formula piuttosto ambigua nella sua ampiezza, del potere di procedere, allo stesso modo, al «prelievo di materiale biologico», ai fini degli accertamenti urgenti previsti dall'art. 354 comma 3°. Si prevede che il perito possa essere autorizzato dal giudice ad assistere all'esame delle parti ed all'assunzione di altre prove, mentre.potrà prendere visione degli atti e delle cose prodotti dalle parti soltanto nei limiti in cui imedesimi siano acquisibili al fascicolo dibattimentale (art. 228 commi 1° e 2°). E’ consentito, poi, che ai fini dello svolgimento dell'incarico il perito raccolga «notizie» dall'imputato, dall'offeso od anche da «altre persone», ma con la precisazione – evidentemente volta ad evitare il rischio di aggiramenti delle ordinarie regole relative alla rilevanza probatoria degli atti corrispondenti – che gli elementi così acquisiti potranno essere utilizzati «solo ai fini del l'accertamento peritale» (art. 228 comma 3°). Quanto alla relazione finale della perizia bi è l’espressa previsione che il perito risponda immediatamente ai quesiti propostigli, e comunque in forma orale, mediante «parere raccolto nel verbale» (art. 227 commi 1 ° e 2°), salvo peraltro al giudice il potere di autorizzare anche la presentazione di una relazione scritta, ove la stessa risulti indispensabile ad illustrare il suddetto parere. Naturalmente qualora il perito non sia in grado di fornire una risposta immediata, e sempreché il giudice non ritenga di sostituirlo (come è consentito, a norma dell'art. 231, anche in ogni altra ipotesi di inerzia o di negligenza nell'espletamento dei suoi compiti),_ si prevede la concessione di un termine non superiore a novanta giorni - ma prorogabile fino ad un massimo di sei mesi. Si può dar luogo ad incidente probatorio quando la medesima perizia se fosse disposta nel dibattimento, ne potrebbe determinare «una sospensione superiore a sessanta giorni». I consulenti tecnici possono essere nominati, in numero non superiore a quello dei periti, sia dal pubblico ministero (art. 73 disp. att.), sia dalle parti private, se del caso ricorrendo al patrocinio statale per i non abbienti (art. 225) lungo l'intero arco di svolgimento della perizia, fin dal momento della formulazione dei quesiti (art. 226 comma 2°). Un significativo riscontro di questa disciplina sarà fornito, poi, dalla prevista possibilità di sottoposizione ad esame, in sede dibattimentale, tanto dei periti, quanto dei consulenti tecnici, secondo le disposizioni dettate per l'esame dei testimoni (art. 501). In particolare, relativamente alle modalità di intervento dei consulenti tecnici, essi sono autorizzati ad assisere al conferimento dell'incarico e, quindi, a partecipare a tutte le operazioni peritali (di cui le parti devono essere informate ex art. 229, anche nel caso di «continuazione»): non solo formulando osservazioni e riserve, ma anche proponendo al perito lo svolgimento di specifiche indagini, con la previsione che delle une e delle altre debba darsi atto in sede di relazione (art. 230 81

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi commi 1° e 2°). Essi possano sempre prendere visione delle relazioni, ed essere autorizzati dal giudice ad esaminare le persone, le cose o i luoghi oggetto della perizia, purché non ne derivi ritardo al-l'esecuzione della perizia od al compimento di altre attività processuali (art. 230 commi 3° e 4°). Del tutto inedita è, infine, la normativa contenuta nell'art. 233, a proposito della possibilità di nomina e di intervento dei consulenti tecnici delle parti anche nelle ipotesi in cui non sia stata disposta perizia (potrà trattarsi, se del caso, degli stessi consulenti tecnici già nominati nel corso delle indagini preliminari, in occasione degli accertamenti previsti dagli artt. 359 e 360), con la conseguente attribuzione a tali consulenti del potere di esporre al giudice il proprio parere su singole questioni, eventualmente attraverso la presentazione di memorie ai sensi dell'art. 121. Dopo di che, qualora successivamente alla nomina del consulente tecnico il giudice si decidesse a disporre perizia, al medesimo consulente sarebbero riconosciuti i diritti e le facoltà ordinariamente previsti ex artt. 226 comma 2° e 230 (art. 233 comma 2°). Qualora, invece, la perizia non venisse disposta, si deve ritenere che il consulente tecnico possa di sua iniziativa svolgere le indagini e gli accertamenti consentitigli dalla oggettiva disponibilità (ad opera della parte che lo abbia nominato) delle persone, delle cose o dei luoghi assunti come oggetto della consulenza. Il consulente tecnico nominato ex art. 233 (al quale possono essere attribuiti i poteri previsti dal comma 1-bis dello stesso articolo) pùò essere sottoposto ad esame, nel corso del dibattimento, ai sensi dell'art. 501, proprio allo scopo di consentire l'acquisizione probatoria degli esiti delle sue indagini e delle sue valutazioni. 12. La prova documentale. La è prova documentale disciplinata dagli artt. 234-243. Si tiene distinta l'area dei «documenti» in senso stretto (formati fuori dall'ambito processuale, nel quale devono essere introdotti affinché possano acquistare rilevanza probatoria) da quella degli «atti» (formati all'interno del procedimento, e rappresentativi di quanto vi sia accaduto, come sono tipicamente i verbali), e soltanto ai primi si è riferita la nuova disciplina, sulla base della definizione accolta nell'art. 234 comma 1°: dove, accanto ai tradizionali «scritti», e con innegabile intento estensivo, viene consentita la acquisizione come documento di ogni altra cosa idonea a rappresentare «fatti, persone o cose» attraverso «la fotografia, la cinematografia, la fotografia e qualsiasi altro mezzo». Viene inveee ammessa la acquisizione dei documenti necessari al giudizio sulla personalita dell'imputato e, se del caso, della persona offesa dal reato, ricompren(len dovi anche quelli esistenti presso gli uffici pubblici di servizio sociale e presso gli uffici di sorveglianza (art. 236 comma 1°). Per i certificati del casellario giudiziale e per le sentenze divenute irrevocabili - nonché per le sentenze straniere riconosciute - si prevede, inoltre, che possano venire acquisiti, con evidente riferimento alla tematica dell'esame diretto, anche al fine di valutare la credibilità dei testimoni (art. 236 comma 2°). I documenti costituenti corpo del reato «devono essere acquisiti qualunque sia la persona che li abbia formati o li detenga» (art. 235), anche d'ufficio. Una normativa particolare è inoltre dettata, secondo tradizione, per i documenti provenienti dall'imputato, nel senso che di essi è sempre consentita l'acquisizione «anche di ufficio», sebbene si tratti di documenti sequestrati presso altri o da altri prodotti (art. 237). Riguardo alla verifica della provenienza è previsto che il documento venga sottoposto per il riconoscimento alle parti private ed ai testimoni (art. 239) mentre relativamente ai documenti anonimi rectius, contenenti «dichiarazioni anonime» - viene confermata la classica regola di esclusione, prescrivendosi che essi «non possono essere acquisiti, né in alcun modo utilizzati», a meno che «costituiscano corpo del reato o provengano comunque dall'imputato» (art. 240). Quanto alla ipotesi di falsità dei documenti, a parte l'eventualità in cui la stessa venga accertata e dichiarata con la sentenza di condanna o di proscioglimento (art. 537), stabilisce l'art. 241 che il giudice - ove ritenga falso uno dei documenti acquisiti - dopo la definizione del procedimento, debba informarne il pubblico ministero, trasmettendogliene copia in vista degli adempimenti di sua competenza. È palese come, per questa via, si sia in sostanza riconosciuto al giudice penale il potere di accertare incidenter tantum l'eventuale falsità dei documenti. Adottandosi una impostazione coerente con gli ordinari limiti posti all'impiego probatorio delle risultanze degli atti compiuti nelle fasi preliminari al dibattimento, l'acquisizione dei verbali di prove di altri procedimenti penali è ammessa senza ulteriori condizioni, secondo i normali criteri di 82

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi legge (eosì come, in genere, l'acquisizione dei verbali di prove assunte in un processo civile definito con sentenza passata in giudicato), solo quando si tratti di prove assunte nell'incidente probatorio (10) o nel dibattimento (art. 238 commi 1° e 2°), mentre la stessa regola non vale per i verbali di cui sia stata data lettura in sede dibattimentale. È stato opportunamene precisato, tuttavia, che nel caso di acquisizione dei verbali di prove previste dal 1° e dal 2° comma, ove si tratti di verbali recanti dichiarazioni, essi sono utilizzabili – in omaggio al principio del contraddittorio – soltanto contro gli imputati i cui difensori abbiano partecipato alla loro assunzione, ovvero nei cui confronti fa stato la sentenza civile (art. 238 comma 2-bis). È sempre ammessa, inoltre, l'acquisizione della documentazione di atti compiuti nel corso di altri procedimenti penali, ivi comprese le fasi preliminari, i quali anche per cause sopravvenute «non sono ripetibili» (art. 238 comma 3°). È stato inoltre di recente precisato, sulla base di una previsione analoga a quella risultante dall'art. 512 (ma difficilmente riconducibile alla medesima ratio, trattandosi nel nostro caso di atti compiuti in «altri» procedimenti), che, nell'ipotesi di impossibilità di ripetizione do- vuta a «fatti o circostanze sopravvenuti», l'acquisizione della relativa documentazione deve ritenersi consentita soltanto quando questi ultimi fatti o circostanze risultino «imprevedibili». Restano ferme, per altro verso, le limitazioni previste in ordine agli «atti non ripetibili compiuti dalla polizia straniera» (art. 78 comma 2° disp. att.), mentre è fatta salva, ovviamente, l'eventuale diversa disciplina risultante da specifiche disposizioni: qual è, ad esempio, l'art. 270 con riguardo all'utilizzabilità «in altri procedimenti» dei risultati delle intercettazioni telefoniche (infra § 15). Al di fuori delle ipotesi fin qui descritte, invece, l'acquisizione e la successiva utilizzazione dibattimentale dei verbali di altri procedimenti con-tenenti dichiarazioni (si pensi, soprattutto, alle dichiarazioni rese da testimoni, o da imputati in separati procedimenti connessi, nell'ambito delle indagini preliminari o dell'udienza preliminare) è ammessa soltanto nei confronti dell'imputato che vi consenta. In assenza di tale consenso, i predetti verbali potranno essere utilizzati esclusivamente ai fini delle contestazioni in sede di esame dibattimentale, nei limiti e per gli effetti previsti dagli artt. 500 e 503 (art. 238 comma 4°). Rimane fermo il diritto delle parti di ottenere, ai sensi dell'art. 190, l'esame delle persone che tali dichiarazioni abbiano rese. Va ricordato, ancora, che per effetto dell'art. 238-bis – e fermo restando quanto previsto dall'art. 236 – è sempre consentita l'acquisizione delle sentenze divenute irrevocabili, ai fini della prova dei fatti in esse accertati. Più precisamente, dopo che siano stati ammessi su richiesta di parte a norma dell'art. 495 (o, bisogna aggiungere, anche ex officio a norma dell'art. 507) i documenti dovranno essere inseriti nel fascicolo per il dibattimento, e perciò, come tali, potranno considerarsi legittimamente acquisiti: salva la possibilità di lettura ai sensi dell'art. 511, ma senza che quest'ultimo adempimento possa configurarsi come presupposto necessario per la loro acquisizione al processo (la lettura rappresenta invece, come si accennava poco sopra, a norma dell'art. 511-bis, il normale strumento di acquisizione processuale dei verbali di prove provenienti da altri procedi-menti ex art. 238). Quanto alle fasi anteriori al dibattimento, assume rilievo la disciplina dettata con riferimento all'avviso di conclusione delle indagini preliminari (art. 415-bis comma 3°), nonché, specialmente, all'udienza preliminare, in vista della quale si stabilisce che – una volta avvenuto il deposito in cancelleria del fascicolo del pubblico ministero, contenente tutte le risultanze delle indagini preliminari (art. 416 comma 2°) – anche il difensore dell'imputato possa, tra l'altro, «produrre documenti» (art. 419 comma 2°, da leggersi tenendo conto delle «facoltà» previste ex art. 327-bis), i quali do vi anno essere ammessi dal giudice prima dell'inizio della discussione (art. 421 comma 3°). Allo stesso modo dovranno essere ammessi i nuovi documenti eventualmene prodotti a seguito delle «ulteriori indagini» contemplate dall'art. 421bis comma l°, come pure quelli acquisiti dal giudice in virtù dei poteri di integrazione probatoria ex art. 422. Dopo di che, conclusasi l'udienza preliminare con il rinvio a giudizio, tra i documenti acquisiti in precedenza sono destinati a confluire nel fascicolo per il dibatti-mento ex art. 431 soltanto i certificati del casellario giudiziale ed i restanti atti indicati nell'art. 236 (nonché i documenti costituenti corpo del reato o, comunque, cose pertinenti al reato), mentre tutti gli altri documenti già raccolti dal pubblico ministero nel corso delle indagini, o successivamente prodotti ed ammessi ai fini dell'udienza stessa, entreranno a far parte del fascicolo del pubblico 83

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi ministero formato ai sensi dell'art. 433 (e, quindi, potranno essere impiegati, se del caso, solo contestazioni ex artt. 500 e 503, ove non vengano ritualmente ammessi come prova in dibattimento).

per le

13. Ispezioni e perquisizioni. Passando all'area dei mezzi di ricerca della prova, il codice comincia con l'occuparsi di due tipici atti «a sorpresa», quali sono le ispezioni (artt. 244-246e le perquisizioni (artt. 247-252), le une e le altre disciplinate – per la verità senza vistose innovazioni rispetto alla normativa previgente – attraverso l'attribuzione dei relativi poteri al-la «autorità giudiziaria»: dunque, col preciso intento di sottolineare come si tratti di atti appartenenti alla sfera di competenza non solo del giudice, ma altresì (anzi soprattutto, data la loro tipica riconducibilità alla fase delle indagini preliminari) del pubblico ministero. E questo vale, come si vedrà tra breve, anche in tema di sequestro (infra, § 14). Ferma la tradizionale distinzione finalistica tra l'attività dell'inspicere, diretta ad accertare sulle persone, nei luoghi o nelle cose «le tracce e gli altri effetti materiali del reato» (art. 244), e l'attività del perquirere, diretta a ricercare «il corpo del reato o cose pertinenti al reato» sulle persone od in luoghi determinati, ovvero ad eseguire in questi ultimi «l'arresto dell'imputato o dell'evaso» (art. 247). Per quanto attiene, in particolare, alle ispezioni, questa prospettiva emerge ad esempio dalla disciplina dell'ispezione personale (art. 245). Da un lato attraverso il tradizionale avvertimento all'interessato della facoltà che gli è riconosciuta di farsi assistere da persona di fiducia, purché reperibile ed idonea secondo i canoni dettati ex art. 120 per i testimoni agli atti del procedimento; dall'altro attraverso il richiamo all'esigenza che l'ispezione, da compiersi personalmente ad opera dell'autorità procedente, ovvero «anche per mezzo di un medico», venga eseguita nel rispetto della dignità, oltreché se possibile, del pudore della persona che deve soggiaeervi (a quest'ultima esigenza si riallaccia anche la particolare previsione dell'art. 79 disp. att.). Circa l'ispezione di luoghi o di cose, va sottolineata l'estensione a tale atto della garanzia (in precedenza prevista per le sole perquisizioni domiciliari) rappresentata dalla consegna del correlativo decreto, prima del-l'inizio delle operazioni, all'imputato ed alla persona titolare della disponibilità dei luoghi, sempreché siano presenti. Viene ribadito, inoltre, il potere dell'autorità giudiziaria di impedire l'allontanamento di una o più persone dai luoghi dell'ispezione, prima della loro conclusione, e di farvele ricondurre se del caso in forma coattiva, in entrambe le ipotesi eon provvedimento motivato da ricomprendersi nel verbale (art. 246); nonche, con riferimento ad ogni specie di ispezione, il potere della medesima autorità di disporre rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici, insieme ad ogni altra necessaria operazione tecnica (art. 244 comma 2°). Allo stesso modo, anche in materia di perquisizioni — atti cui l'autorità giudiziaria procede personalmente, salva la possibilità di delegarvi un ufficiale di polizia giudiziaria — il legislatore si è preoccupato di garantire una maggior tutela dei diritti delle persone interessate, sulla base di una disciplina che, sia rispetto alle perquisizioni personali (art. 249), sia rispetto alle perquisizioni locali (art. 250), ricalca le grandi linee della correlati va disciplina dettata in tema di ispezioni. A parte la tradizionale del impzione degli ordinari limiti temporali delle perquisizioni nel domicilio sia pure in chiave più oggettiva di quanto non fosse precedentemente con sentito dai poetici riferimenti all'alba ed al tramonto (art. 251) rispetto alle perquisizioni locali viene ribadita una particolare cura per gli adempimenti connessi alla consegna del decreto ed all'avviso circa la laeuna di assistenza nel corso delle operazioni (con le ulteriori precisazioni fornite dall'art. 80 disp. att.), mentre i poteri dell'autorità giudiziaria procedente risultano estesi all'eventuale perquisizione delle persone sopraggiunte. Da notare, poi, che viene enunciato in termini generali (non più circo-scrivendolo, cioè, alle sole perquisizioni personali) il principio della «richiesta di consegna» come attività prodromica rispetto alla perquisizione, allorquando si ricerchi una cosa determinata. Per questa via, nell'ipotesi in cui tale cosa venga presentata in adesione all'invito dell'autorità procedente, la perquisizione medesima potrà venire evitata. Mentre per quanto concerne le garanzie in tema di assistenza del difensore agli atti di ispezione e di perquisizione – atti tipicamente «non ripetibili» ai sensi dell'art. 431 lett. b e c – si rinvia alla disciplina dettata con riguardo alle indagini preliminari della polizia giudiziaria (artt. 352, 354 e 356) e del pubblico ministero (artt. 364 e 365), merita d'essere qui ricordata la peculiare e complessa normativa prevista 84

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi circa la fisionomia ed i limiti delle ispezioni e delle perquisizioni presso gli uffici dei difensori, non a caso collocata nell'apposito titolo dedicato ai medesimi, sotto la si- gnificativa rubrica «garanzie di libertà del difensore» (art. 103). Definiti rigorosamente i presupposti in presenza dei quali soltanto può farsi luogo a simili atti, quando debbano eseguirsi negli studi professionali dei difensori – da parte del giudice in persona, ovvero, nel corso delle indagini preliminari, da parte del pubblico ministero, sulla scorta di un motivato decreto autorizzativo del giudice competente per tale fase – la relativa procedura si caratterizza, ancora, per la prevista necessità che ne venga avvisato il locale consiglio dell'ordine forense, affinché il presidente od un consigliere suo delegato possa assistere alle operazioni. A ciò si aggiunga, per connessione di argomento, che identiche modalità procedurali sono stabilite dal predetto art. 103 anche in materia di sequestro, peraltro con la classica precisazione che presso i difensori ed i consulenti tecnici non si può procedere a sequestro di «carte o documenti relativi all'oggetto della difesa, salvo che costituiscano corpo del reato». In applicazione della medesima esigenza di tutela della riservatezza dei rapporti funzionali all'esercizio della difesa (diretta espressione, d'altronde, del principio sancito nell'art. 24 comma 2° Cost.) sono vietati, inoltre, il sequestro ed ogni altra forma di controllo della corrispondenza tra l'impatato ed il proprio difensore, in quanto riconoscibile dalle apposite indica/ioni, sempreché l'autorità giudiziaria non abbia «fondato motivo di rienere che si tratti di corpo del reato»; e,_alla stessa stregua, sono vietate le intercettazioni di conversazioni e di comunicazioni dei difensori, dei consulenti tecnici e dei loro ausiliari (ovviamente in quanto riguardanti I'oggetto della difesa), nonché quelle tra i medesimi ed i loro assistiti. Nell'ultimo comma dell'art. 103, si precede che risultati delle ispezioni, delle perquisizioni, dei sequestri e delle intercettazioni eseguiti in violazione delle precedenti disposizioni del medesimo art. 103 (salvo che per l'avviso al consiglio dell'ordine forense, previsto a pena di nullità) non possano venire utilizzati, con l'unica eccezione rappresentata dall'ipotesi in cui essi costiluiscano corpo del reato. Devono ricordarsi, infine, alcune particolari figure di perquisizione consentite agli organi di polizia giudiziaria da leggi speciali allorché, nel corso di operazioni dirette alla prevenzione o alla repressione di determinati delitti, si verifichino situazioni di necessità ed urgenza tali da non permettere un tempestivo intervento dell'autorità giudiziario. Così, ad esempio, quando tali operazioni riguardino il traffico illecito di stupefacenti gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria possono procedere di re-gola a perquisizioni (oltreché, prima ancora, al controllo ed all'ispezione in ogni luogo di mezzi di trasporto, bagagli ed effetti personali), ove abbiano fondato motivo di ritenere che possano essere rinvenute sostanze stupefacenti (art. 103 commi 2" e 3° d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309). Analogo potere e attribuito, poi, ai medesimi organi, nell'ambito di operazioni relative ai delitti previsti dagli artt. 416-bis, 648-bis e 648- ter c.p., nonché agli altri delitti indicati in questi ultimi articoli, ove abbiano fondato motivo di ritenere che possano essere rinvenuti denaro o valori costituenti il prezzo o il profitto di tali delitti, o comunque da essi provenienti, ovvero armi ed esplosivi (art. 27 1. 19 marzo 1990, n. 55). Resta fermo, inoltre il potere attribuito in via generale agli organi di polizia, sempre in situazioni di necessità ed urgenza, di procedere ad «immediata perquisizione sul posto» di persone dimezzi di trasporto «al solo fine di accertare l'eventuale possesso di armi, strumenti di effrazione ed esplosivi» (art. 4 1. 22 maggio 1975, n. 152), mentre è stato ripristinato in capo ai soli ufficiali di polizia giudiziaria il potere, già loro attribuito all'epoca della legislazione antiterroristica, di procedere a perquisizioni locali anche di «interi edifici o blocchi di edifici». Possano venire disposte quando vi sia fondato motivo di ritenere che in tali edifici si trovino armi, munizioni ed esplosivi, ovvero che vi si sia rifugiato un latitante od un evaso in relazione a taluno dei delitti di criminalità organizzata indicati nell'art. 51 comma 3-bis, ovvero ai delitti aventi finalità di terrorismo (infra, cap. IV, § 14). Si tenga presente che in tutte le suddette ipotesi di perquisizioni di polizia si prevede – coerentemente con la regola dettata nell'art. 352 confina 4° (infra, cap. V, § 15) – che delle operazioni compiute venga data tempestiva notizia al procuratore della Repubblica in vista della eventuale convalida delle stesse, che dovrà sopravvenire entro le successive quarantotto ore, affinché i risultati così acquisiti possano venire utilizzati nel procedimento.

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Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi 14. Il sequestro. Nel tracciare la disciplina del sequestro penale il legistatore si è anzitutto preoccupato di distinguere questo particolare mezzo di acquisizione della prova (artt. 253-265) dalle diverse figure di sequestro che, pur concretandosi anch'esse nell'imposizione di un vincolo di indisponibilità sulla cosa, ubbidiscono invece ad una esigenza di natura eminentemente cautelare: ora, come si vedrà, con finalità «conservativa» (artt. 316-320), ora con finalità «preventiva» (artt. 321-323). a non equivoca caratterizzazione in chiave probatoria dell'istituto emerge già, del resto, dalla stessa definizione del suo oggetto, che l'art. 253 comma l° individua facendo riferimento al «corpo del reato» ed alle «cose pertinenti al reato», le quali – si aggiunge con evidente accentuazione della dimensione finalistica – risultino «necessarie per l'accertamento dei fatti». Circa la nozione di corpo del reato, essa viene opportunamente precisata dal 2° comma dello stesso art. 253 (anche a beneficio delle numerose disposizioni che vi si richiamano), ricomprendendovi non solo le cose «sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso», ma anche quelle che «ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo». Da tutto ciò parrebbe doversi desumere che, nell'ipotesi di perquisizione eseguita contra legem, dalla illegittimità della attività perquisitiva dovrebbe scaturire in via derivata la illegittimità del sequestro ad essa con-seguente e, quindi, la inutilizzabilità come prova dei suoi risultati (secondo la nota teoria dei «frutti dell'albero avvelenato», codificata nei limiti previsti dall'art. 191). Tuttavia, dopo una lunga serie di contrasti giurisprudenziali, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno ritenuto che la sanzione dell'inutilizzabilità non operi quando si tratti di sequestro ex art. 253 del «corpo del reato» o delle «cose pertinenti al reato», sulla base del rilievo che in tali ipotesi — essendo il sequestro comunque un «atto dovuto» — debba reputarsi irrilevante il modo con cui allo stesso si sia pervenuti, e debba invece prevalere l'obbligo dell'autorità procedente di disporre il sequestro. Dopo avere rapidamente delineato i profili procedurali del sequestro, prescrivendo la necessità del decreto motivato (da consegnarsi in copia all'interessato, se presente) ad opera dell'autorità giudiziaria procedente, e stabilendo altresì che la medesima possa procedere all'atto sia di persona, sia a mezzo di un ufficiale di polizia delegato con il predetto decreto (art. 253) - ferma in ogni caso la redazione dell'apposito verbale (art. 81 disp. att.) — il codice passa quindi a disciplinare alcune fattispecie peculiari di sequestro, ovviamente prescindendo da quello presso i difensori, di cui poco sopra si è ricordata la specifica regolamentazione all'interno dell'art. 103. Rientrano in questa cornice le ipotesi del sequestro di corrispondenza, del sequestro presso banche, nonché le diverse figure di sequestro aventi ad oggetto atti o documenti rispetto ai quali venga eccepita la sussistenza di un segreto. Cominciando dal sequestro di corrispondenza, dal testo dell'art. 254 non risultano particolari innovazioni rispetto alla nostra tradizione legislativa, essendo stata confermata, da un canto, la sequestrabilità negli uffici postali di lettere, pieghi, pacchi e di ogni altro oggetto presumibilmente spedito dall'imputato, od a lui diretto (esclusa, come si è constatato ex art. 103, la corrispondenza «riconoscibile» tra imputato e difensore), o che comunque possa avere relazione con il reato; e, d'altro canto, qualora proceda al sequestro un ufficiale di polizia giudiziaria, l'obbligo per il medesimo di consegnare gli oggetti sequestrati al magistrato senza aprirli e senza prendere in altro modo conoscenza del loro contenuto (in ottemperanza al disposto dell'art. 15 comma 2° Cost.). L'unica novità riguarda l'esplicita enunciazione della regola che impone la immediata restituzione all'avente diritto delle carte e dei documenti sequestrati, laddove si accerti ex post la loro estraneità all'ambito della corrispondenza suscettibile di sequestro. Anche in rapporto al sequestro presso istituti bancari non emergono dall'art. 255 peculiarità di grande rilievo, a parte la possibilità (che deve ritenersi sempre ammessa ex art. 253 comma 3°, non essendo stata esplicitamente esclusa) che l'esecuzione di tale atto venga delegata agli organi di polizia giudiziaria; presso le banche possano venire sequestrati documenti (ivi compresi, naturalmente, i c.d. documenti bancari), titoli, valori, somme ed ogni altra cosa, ancorché depositata o contenuta in cassette di sicurezza, quando si abbia fondato motivo di ritenere la loro pertinenza al reato, indipendentemente dal fatto che appartengano all'imputato o siano iscritti a suo nome: col elle risulta manifestamente ribadita la insussistenza di alcun «segreto ban- cario» di fronte al potere di sequestro dell'autorità giudiziaria in sede penale. Più delicata appare, invece, la tematica dei rapporti tra sequestro e segreti: essendo state in concreto ricalcate le linee della normativa già 86

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi dettata a proposito dei rapporti tra testimonianza e segreti, stilla base del generale «dovere di esibizione» imposto alle per persone indicarte negli artt. 200 e 201, allorchè venga loro richiesta dall'autorità giudiziaria la consegna di atti, documenti e di ogni altra cosa di cui abbiano la disponibilità «per ragioni del loro ufficio, incarico, ministero, professione o arte»; a meno che, siaggiunge, le medesime persone vi si oppongano, dichiarando per iscritto il vincolo derivante da un segreto professionale, o d'ufficio, ovvero da un segreto di Stato (art. 256 comma 1°). L’autorità quando dubiti dell’autenticità del segreto opposto potrà disporre i necessari accertamenti, a conclusione dei quali il sequestro dovrà essere ordinato, nel caso di accertata infondatezza dell'opposizione di quei segreti (art. 256 commi 1° e 2°). Il sequestro dovrà essere ordinato allorché le notizie fornite dalla fonte fiduciaria del giornalista risultino indispensabili ai fini della prova del reato, e la loro veridicità possa venire accertata solo attraverso la identificazione di tale fonte. E' da escludere che possano comunque venire sottoposti a sequestro gli atti ed i documenti contenenti i nomi degli informatori confidenziali, dei quali gli organi di polizia uhudi' ziorio o dei servizi di sicurezza dichiarino di non voler rivelare l'identità. Nell'ipotesi, poi, di opposizione del segreto di Stato, gli adempimenti prescritti all'autorità giudiziaria risultano esattamente gli stessi delineati dall'art. 202 a proposito della analoga eventualità in ordine alla prova testimoniale. A parte la prevista possibilità dell'impugnativa del decreto di sequestro mediante richiesta di riesame — per la quale viene richiamata la procedura descritta nell'art. 324. L'estinzione del vincolo imposto attraverso il sequestro e, quindi, la resititunione delle cose ad esso assoggettate dipendano, in linea di principio, dal venir meno delle esigenze probatorie che avevano determinato il provvedimento, a parte altri adempimenti specificamente previsti (artt. 84 e 85 disp. att.). In particolare, come si esprime il 1° comma dell'art. 262, quando «non è necessario mantenere il sequestro a fini di prova», le cose sequestrate devono essere restituite «a chi ne abbia il diritto, anche prima dealla sentenza». A questa regola si collega, in chiave derogatoria, la previsione relativa alle ipotesi di conversione del sequestro, da misura con finalità probatoria a misura con finalità cautelare: non si tratta, tuttavia, di una conversione di tipo automatico, giacché la vigente normativa è esplicita nel subordinare il passaggio tra l'una e l'altra forma di sequestro alla pronuncia di un apposito provvedimento, nel rispetto delle ordinarie procedure, limitandosi in sostanza ad operare una saldatura tra il momento estintivo del sequestro penale ed il momento di eventuale adozione della cautela reale (art. 262 commi 2° e 3°). Tornando al procedimento per la restituzione delle cose sottoposte a sequestro penale, prevede l'art. 263 che il relativo provvedimento possa venire pronunciato de plano allorché non vi siano dubbi sulla loro appartenenza (ma nel caso di sequestro presso una terza persona si dovrà sempre instaurare il contraddittorio, secondo le forme del rito camerale ex art. 127), mentre quando sorga controversia sulla proprietà delle stesse la sua risoluzione dovrà essere rimessa al competente giudice civile, fermo restando il vincolo del sequestro. Si prevede tuttavia che, nel corso delle indagini preliminari, sulla restituzione delle cose sequestrate debba provvedere il pubblico ministero con decreto motivato. Dopo di che, contro il decreto che abbia disposto la restituzione, ovvero abbia respinto la relativa richiesta (art. 263 commi 4° e 5°), le persone interessate potranno proporre opposizione, sulla quale sarà chiamato a decidere il giudice per le indagini preliminari, ai sensi dell'art. 127; in simmetria, del resto, con la attribuzione allo stesso giudice del potere di decidere sulla richiesta di sequestro penale proposta dall'interessato, nel corso delle indagini preliminari, laddove il pubblico ministero non ritenga di accedervi (art. 368). 15. Le intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni. Il settore dei mezzi di ricerca della prova si conclude con la disciplina delle intercettazioni di conversazioni e di comunicazioni (artt. 266-271), il cui risalto e la cui delicatezza, anche alla luce del dettato ex art. 15 Cost. – dov'è precisato che la libertà e la segretezza delle comunicazioni, definite «inviolabili», possono venire limitate soltanto «per atto motivato dell'autorità giudiziaria, con le garanzie stabilite dalla legge» – sono testimoniati dal largo spazio che vi ha dedicato la legge delega. L'art. 266 definisce anzitutto, con riferimento alla natura ed alla gravità dei reati per i quali si stia procedendo – il cui elenco deve ritenersi tassativo – i limiti oggettivi entro i 87

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi quali soltanto deve ritenersi ammissibile l'intercettazione di conversazioni, ivi compresi i colloqui tra presenti (anche nei luoghi di domicilio, se del caso previa introduzione di appositi strumenti di ascolto, da autorizzarsi specificamente, e purché vi risulti in corso di svolgimento l'attività criminosa), ovvero di comunicazioni di qualunque specie. Nell'art. 267, si prevede che, di regola, l'intercettazione possa venire diposta dal pubblico ministero solo a seguito di autorizzazione da parte del giudice per le indagini preliminari, il quale vi provvederà con decreto motivato — nella propria qualità di organo garante delle libertà individuali — quando in presenza di «gravi indizi» di reato, non necessariamente già orientati a carico di una determinata persona, la intercettazione stessa risulti «assolutamente indispensabile» per la prosecuzione delle indagini (ovvero necessaria, in forza dell'art. 295 commi 3° e 3- bis, al fine di «agevolare le ricerche del latitante»). Tuttavia nei casi di urgenza, qualora cioè vi siano valide ragioni per ritenere che il ritardo provocherebbe gravi pregiudizi alle indagini, si ammette che ziativa di disporre l'intercettazione possa venire direttamente assunta dal pubblico ministero con decreto motivato, peraltro da convalidarsi entro quarantotto ore ad opera del medesimo giudice mediante un proprio decreto. Le Sezioni unite — hanno escluso la necessità di estendere all'acquisizione dei suddetti tabulati le garanzie dettate in tema di intercettazioni telefoniche. Circa la disciplina dell'acquisizione dei tabulati relativi al traffico telefonico, l'art. 132 d. legisl. 30 giugno 2003, n. 196 (così come modificato dall'art. 6 d.l. 27 luglio 2005, n. 144, convertito con 1. 31 luglio 2005, n. l-55) stabilisce che, entro un primo termine di ventiquattro mesi, essa avvenga con decreto motivato del pubblico ministero, mentre, entro l'ulteriore termine di ventiquattro mesi, essa debba essere autorizzata dal giudice con decreto motivato, sul presupposto della sussistenza di «sufficienti indizi dei delitti di cui all'art. 407 comma 2° lett. a», nonché dei delitti in danno di sistemi informatici o telematici. E’ previsto che il decreto del pubblico ministero stabilisca «le modalità» e «la durata» delle corrispondenti operazioni. A quest'ultimo proposito l'art. 267 comma 3° prevede che esse non possano prolungarsi, in forza di tale decreto, oltre il termine di quindici giorni (peraltro prorogabili dal giudice, con decreto motivato, ed in permanenza dei presupposti richiesti ab origine, per periodi successivi di quindici giorni), e debbano venire eseguite dal pubblico ministero personalmente, o tramite un ufficiale di polizia giudiziaria (art. 267 comma 4°). Una disciplina particolare è stata dettata, al riguardo, in deroga a quanto disposto ex art. 267, dall'art. 13 d.l. 13 maggio 1991, n 152 (così come modificato ed esteso, a seguito di successivi interventi legislativi), con riferimento alle indagini relative a delitti di «criminalità organizzata», ovvero al delitto di «minaccia col mezzo del telefono», nonché ai delitti previsti dagli artt. 270-ter, 280-bis, 600-604 c.p. e dall'art. 3 1. 20 febbraio 1958, n. 75, ed ancora ai delitti indicati nell'art. 407 comma 2° lett. a n. 4. Più precisamente, da un canto si è stabilito che, quando l'intercettazione risulti «necessaria» per lo svolgimento di tali indagini, essa possa venire autorizzata dal giudice anche soltanto in presenza di «sufficienti indizi» di reato, nella valutazione dei quali dovrà applicarsi, così come in rapporto ai «gravi indizi» previsti dall'art. 267 commi 1° e 1-bis, il disposto dell'art. 203. D'altro canto, si è prescritto (con evidente allungamento rispetto ai termini ordinari) che la durata delle operazioni così autorizzate non possa di regola superare i quaranta giorni, ma che la stessa possa venire prorogata, con decreto motivato, dal giudice (ovvero, nei casi di urgenza, direttamente dal pubblico ministero), previa verifica della permanenza dei presupposti richiesti dalla legge, per periodi successivi di venti giorni. Quando poi si tratti di una intercettazione di conversazioni tra persone presenti (c.d. intercettazione ambientale), sempre nell'ambito di procedi-menti per delitti di criminalità organizzata, nonché per gli altri gravi delitti richiamati poco sopra, si è ulteriormente precisato, in deroga al limite fissato ex art. 266 comma 2°, che la relativa operazione possa venire autorizzata e disposta - anche nei luoghi di domicilio — pur quando «non vi è motivo di ritenere che nei luoghi predetti si stia svolgendo l'attività criminosa». Alla sfera delle preoccupazioni legislative di tipo garantistico si ricollega — tornando alla normativa ordinaria - la previsione che impone al pubblico ministero di annotare in un apposito registro riservato, secondo il loro ordine cronologico, tutti i decreti che abbiano disposto, autorizzalo, convalidato ovvero prorogato le intercettazioni (poi destinati ad essere depositati a disposizione delle parti ex art. 268 comma 4°), nonché, in rapporto a ciascuna di esse, i tempi di inizio e di conclusione delle operazioni. Si prevede, inoltre, che queste ultime vengano compiute «esclusiva- mente» per mezzo degli impianti installati 88

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi nella procura della Repubblica presso il tribunale (art. 90 disp. att.), salvo consentire subito dopo che nel caso di insufficienza o inidoneità dei medesimi — lo stesso pubblico ministero possa autorizzare con decreto motivato l'uso degli impianti di pubblico servizio, ovvero di quelli in dotazione alla polizia giudiziaria. Quanto alle ulteriori forme di svolgimento delle operazioni, dopo avere stabilito expressis verbis che le comunicazioni intercettate siano sempre registrate, e che nel relativo verbale venga trascritto, anche in maniera sommaria, il loro contenuto (nell'uno e nell'altro caso osservando le modalità indicate ex art. 89 disp. alt.), l'art. 268 delinea del dettagliatamente i successivi adempimenti. Dalla immediata trasmissione dei verbali e delle registrazioni al pubblico ministero si passa al deposito degli stessi in segreteria, che dovrà effettuarsi, di regola, entro cinque giorni dalla conclusione definitiva delle operazioni (salva la possibilità di un ritardo, autorizzato dal giudice, non oltre la chiusura delle indagini preliminari, quando potrebbe derivarne un «grave pregiudizio» per le indagini stesse). Dopo effettuato tale deposito, si prevede che i difensori delle parti vengano avvisati della facoltà di esaminare gli atti, nonché di prendere conoscenza, anche mediante ascolto, delle registrazioni depositate, entro il termine fissato dal pubblico ministeso ed eventualmente prorogato dal giudice. Per questa via, la legge stabilisce le premesse per il realizzarsi del contraddittorio tra il pubblico ministero ed i difensori, che è momento essenziale dell'apposito procedimento incidentale diretto alla cernita ed alla selezione del materiale (conversazioni ed altre forme di comunicazioni, ivi comprese quelle informatiche o telematiche) costituente il risultato delle operazioni di intercettazione. Un procedimento che, come emerge chiara-mente dal combinato disposto dei commi 5° e 6° dell'art. 268, dovrebbe svolgersi entro (o, al più tardi, subito dopo) la chiusura delle indagini preliminari, e nell'ambito di una apposita udienza camerale, per ovvie ragioni di garanzia della privacy delle persone, le cui conversazioni o comunicazioni siano state intercettate, specialmente quando siano estranee al te-ma delle indagini. Al riguardo deve, tuttavia, rilevarsi come a seguito del deposito dei verbali e delle registrazioni delle conversazioni o comunicazioni intercettate, nonché del relativo avviso ai difensori, sia ormai caduto il segreto sugli atti depositati. Tornando alla disciplina dettata nel 6° comma dell'art. 268, una volta scaduto il termine riservato ai difensori per poter prendere conoscenza degli atti e delle registrazioni depositati, il giudice per le indagini preliminari disporrà – dietro richiesta delle parti – l'acquisizione delle conversazioni e delle comunicazioni indicate dalle parti stesse, che non appaiano manifestamente irrilevanti (è implicito, dunque, che dovrà essere escluso, mediante stralcio, tutto il materiale intercettato di cui le parti non abbiano chiesto l'acquisizione, o di cui risulti la manifesta irrilevanza). Il medesimo giudice procederà quindi, anche d'ufficio, ma con la possibilità di partecipazione del pubblico ministero e dei difensori, allo stralcio delle registrazioni e dei verbali relativi alle intercettazioni di cui sia vietata l'utilizzazione, ai sensi dell'art. 271 o di altre disposizioni di legge. A questo punto il giudice provvederà per la trascrizione integrale delle registrazioni destinate ad essere acquisite, nel rispetto delle forme e delle garanzie previste per le perizie, salva in ogni caso ai difensori la facoltà di estrarre copia delle trascrizioni e di trasporre le registrazioni medesime su nastro: dopo di che le trascrizioni così ottenute, in quanto espressive di atti per loro natura «non ripetibili», saranno inserite nel fascicolo per il dibattimento formato ai sensi dell'art. 431 (art. 268 commi 7° e 8°). Quando la relativa documentazione non sia necessaria per il procedimento, gli interessati, a tutela della propria riservatezza, possano chiederne la distruzione al giudice, il quale provvederà in camera di consiglio e, qualora la distruzione venga disposta, curerà che sia eseguita sotto il proprio controllo (art. 269). Quanto al profilo della utilizzabilità delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli rispetto ai quali siano state autorizzate, esplicitamente prevista dalla legge delega (art. 2 n. 41 lett. a), essa viene consenti la dall'art. 270, in deroga alla regola generale della non utilizzabilità, l'unica coerente con la garanzia dell'art. l5 Cost. – ma anche, per altro verso, in deroga al disposto dell'art. 238 comma 3° – soltanto quando le medesime risultino «indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza». Per ciò che riguarda, infine, il regime dei divieti di utilizzabilità delle intercettazioni eseguite contra legem, stabilisce anzitutto l'art. 271 comma 1° – anche qui in sintonia con una esplicita direttiva della delega (art. 2 n. 41 lett. f) – che non possano venire utilizzati i relativi risultati, quando le stesse siano state effettuate senza osservare le disposizioni previste dagli artt. 267 e 268 commi 1° e 3°, o, 89

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi comunque, «fuori dei casi consentiti dalla legge». Nel medesimo ambito deve poi ricomprendersi, a maggior ragione, quale fonte di un divieto di utilizzazione nel caso di inosservanza, il principio enunciato nell'art. 68 comma 3° Cost., a proposito della necessità di autorizzazione della Camera di appartenenza per poter «sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni». La suddetta autorizzazione deve essere richiesta dall'autorità che ha emesso il provvedimento da eseguire, con l'ulteriore corollario per cui, nel frattempo, l'esecuzione del suddetto provvedimento dovrà rimanere sospesa: sicché, ove le intercettazioni venissero nondimeno eseguite, lo sarebbero «fuori dei casi consentiti dalla legge». Da notare che lo stesso art. 4 prevede analoga disciplina anche nel caso in cui l'autorità giudiziaria debba «acquisire tabulati di comunicazioni» nei riguardi di un parlamentare. Sul piano dei contenuti il divieto di utilizzazione sancito dall'art. 271 viene esteso, poi, in virtù di una scelta legislativa inedita per il nostro ordinamento — ma coerente con il sistema di tutela processuale del segreto professionale (artt. 200 e 256 comma 2°), anche a livello di testimonianza de auditu (art. 195 comma 6°) — fino a ricomprendervi tutte le intercetta-,ioni riguardanti le comunicazioni delle persone indicate nell'art. 200 comma 1°, quando abbiano ad oggetto fatti conosciuti «per ragione del loro ministero, ufficio o professione», salvo che tali persone «abbiano de- posto sugli stessi fatti, o li abbiano in altro modo divulgati» (art. 271 comma 2°). Come risulta anche da questo inciso, ispirato alla medesima ratio dell'identica precisazione nell'art. 195 comma 6° (retro, § 8), la norma rappresenta una sorta di proiezione del diritto di astensione riconosciuto alle suddette persone in sede di testimonianza. Se ciò è vero, tuttavia, non può non sorprendere che tale normativa di salvaguardia indiretta sia stata dettata per i soli segreti professionali, con esclusione del segreto d'ufficio. Quanto alla sorte delle registrazioni e dei verbali relativi alle intercettazioni riconosciute come inutilizzabili (destinati ad essere stralciati), dispone l'art. 271 comma 3° che, in deroga al principio generale di «conservazione» enunciato nell art 269, essi debbano venire distrutti per ordine del giudice in ogni stato e grado del processo. Un problema particolare, è quello che sorge a proposito dei verbali e delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni, cui abbiano preso parte dei membri del Parlamento, le quali siano state regolarmente intercettate nel corso di procedimenti riguardanti terze persone, o, comunque, non a seguito di operazioni disposte nei confronti del parlamentare (intercettazioni c.d. indirette). Come si accennava poco sopra, il tema delle intercettazioni occasionali (o, come si diceva, indirette) nei confronti di membri del Parlamento, è stato espressamente disciplinato dall'art. 6 1. 20 giugno 2003, n. 140. In questa prospettiva il suddetto art. 6 commi l° e 2° distingue a seconda che il giudice per le indagini preliminari ritenga irrilevanti, ovvero che li ritenga rilevanti: più precisamente, che ritenga «necessario» utilizzare le risultanze delle relative intercettazioni, su istanza di una parte. Nella prima ipotesi, infatti, è stabilito che le medesime risultanze debbano essere integralmente distrutte, a norma dell'art. 269 commi 2° e 3°; nella seconda ipotesi, invece, è stabilito che il giudice, per poter utilizzare le intercettazioni così eseguite, debba tempestivamente ri- chiedere l'autorizzazione della Camera di appartenenza del parlamentare. I problemi sorgono nel caso in cui la medesima venga negata, poiché il 5° comma del citato art. 6 è tassativo nel prescrivere che, in una simile evenienza, la «documentazione delle intercettazioni» deve essere «distrutta immediatamente, e comunque non oltre dieci giorni dalla comunicazione del diniego». Il successivo 6° comma stabilisce che tutti i verbali e le registrazioni acquisiti «in violazione del disposto» del suddetto art. 6 debbano essere «dichiarati inutilizzabili» ad opera del giudice «in ogni stato e grado del procedimento». Si tratta evidentemente di una disciplina molto drastica, che tuttavia può comprendersi, sul piano della ragionevolezza, soltanto se riferita al caso delle intercettazioni indirette, i cui contenuti risultino obiettivamente incidenti sulla po- sizione di un membro del Parlamento. La medesima disciplina sarebbe, invece, difficilmente giustificabile in termini di ragionevolezza – ed anzi, per certi aspetti, decisamente paradossale – qualora la si volesse riferire anche al caso delle intercettazioni indirette, i cui contenuti risultassero rilevanti esclusivamente sulla posizione di terze persone (in particolare, del soggetto indagato, la cui utenza sia stata sottoposta a controllo), delle quali un membro del Parlamento sia stato interlocutore occasionale. Con la conseguenza che, nel caso di diniego (ovvero di mancata concessione) dell'autorizzazione prevista dal citato 90

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi art.6, dovrebbero essere distrutte, o comunque dichiarate inutilizzabili. Le c.d. intercettazioni preventive trovano oggi la loro disciplina nell'art. 226 disp. att., che le consente, su iniziativa del Ministro dell'interno o di un'autorità da lui delegata – ed a seguito di autorizzazione del procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del «distretto in cui si trova il soggetto da sottoporre a controllo ov- vero, nel caso in cui non sia determinabile, del distretto in cui sono emerse le esigenze di prevenzione» – quando le medesime risultino «necessarie per l'acquisizione di notizie concernenti la prevenzione» dei delitti indicati dall'art. 407 comma 2° lett. a n. 4 e dall'art. 51 comma 3-bis. Inoltre, quando le suddette intercettazioni siano ritenute «indispensabili per la prevenzione di attività terroristiche o di eversione dell'ordinamento costituzionale», esse possono venire disposte anche su iniziativa dei direttori dei servizi informativi e di sicurezza, in quanto a ciò delegati dal presidente del Consiglio dei ministri, ed a seguito di autorizzazione del procuratore generale presso la corte d'appello del distretto come sopra individuate. Gli elementi eventualmente acquisiti attraverso tali intercettazioni «non possono essere utilizzati nel procedimento penale, fatti salvi i fini investigativi». Le risultanze «non possono essere menzionate in atti di indagine, né costituire oggetto di deposizione, ne essere altrimenti divulgate».

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Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi CAPITOLO IV

MISURE CAUTELARI 1. e 2. Premessa e Riserva di legge e riserva di giurisdizione in materia di misure cautelari personali. Il sistema delle misure cautelari è basato e modellato sul principio di legalità delle stesse; principio in proposito sancito dall’art. 272, con lo stabilire che «le libertà della persona possono essere limitate con misure cautelari soltanto a norma delle disposizioni del presente titolo. La disposizione dell'art. 279, che è norma generale attributiva della competenza funzionale, nella quale si riflette la garanzia della riserva di giurisdizione in ordine al medesimo settore. Stabilendo che sia sull'applicazione, sia sulla revoca, sia sulle vicende modificative delle misure cautelari personali la competenza a provvedere spetta sempre al giudice che procede, l'art. 279 si riferisce in sostanza al giudice competente all'esercizio della giurisdizione nelle diverse fasi del procedimento. In tal modo viene data attuazione alla scelta della legge de-lega di riservare all'organo giurisdizionale la titolarità esclusiva dei poteri in materia di restrizioni della libertà personale (art. 2 n. 59), riconoscendo al pubblico ministero unicamente il potere di disporre il fermo di indiziati (art. 2 n. 32), sulla base di una ripartizione di funzioni che il codice puntualmente fa propria (art. 384 comma 1°, da leggersi anche in correlazione con l'art. 307 comma 4°). 3. I presupposti del fumus commissi delicti e del periculum libertatis. I presupposti delle misure stesse, sia con riferimento al profilo del fumus commissi delicti, sia con riferimento alla sfera del periculum libertatis. L'art. 273 comma 1° individua quali «condizioni generali» di applicabilità delle misure in questione la sussistenza a carico del destinatario di «gravi indizi di colpevolezza», con l'evidente proposito di accentuare (rispetto alla formula tradizionale del codice previgente, dove ci si accontentava di «sufficienti indizi») la consistenza della piattaforma indiziaria. Venendo ai criteri di valutazione dei suddetti «gravi indizi», va segna lato il nuovo comma 1-bis dell'art. 273 (inserito ad opera della l. 1° marzo 2001, n. 63), nel quale vengono richiamate allo scopo alcune specifiche previsioni, in aggiunta al già ricordalo art. 203 (retro, cap. III, § 8). Questa volta, infatti, il richiamo non riguarda soltanto l'art. 203, ma si allarga fino a ricomprendere anche l'art. 192 commi 3° e 4°, nonché l'art. 271 comma 1°, descrivendo così un ventaglio piuttosto ampio di disposizioni (tra le quali peraltro, si noti, non rientrano tutti i commi dell'art. 195 diversi dall'ultimo), di cui il giudice dovrà necessaria-mente tener conto nel valutare il presupposto del fumus commissi delicti a fronte di una richiesta di misura cautelare. E’ disposta l’applicazione delle regole di valutazione probatoria sancite dall'art. 192 commi 3° e 4° anche nell'ambito del procedimento applicativo delle misure cautelari. Ne deriva che, ai fini della valutazione circa la sussistenza dei «gravi indizi» necessari per l'adozione di una misura cautelare, in tanto il giudice potrà tener conto delle dichiarazioni provenienti da persone che siano imputate dello stesso reato, o in un procedimento connesso, o di un reato collegato ex art. 371 comma 2° lett. b, in quanto le medesime dichiarazioni risultino corredate da altri elementi probatori idonei a confermarne l'attendibilità. Mentre, come emerge dal mancato richiamo anche al 2° comma del suddetto art. 192, il medesimo giudice non dovrà ritenersi necessariamente vincolato dalla regola ivi prevista, per cui «l'esistenza di un fatto» non può essere desunta sulla base di indizi (qui da intendersi come prova critica indiziaria), salvo che gli stessi risultino «gravi, precisi e concordanti». Per un verso, infatti, ne risulta notevolmente irrigidito il criterio di apprezzamento dei gravi indizi. Per altro verso, non si può sottacere il rischio che, per questa via, il provvedimento applicativo di una misura cautelare (tanto più se passato indenne al vaglio del tribunale del riesame e della corte di cassazione) finisca per caricarsi di un peso assai gravoso sulla sorte processuale dell'imputato. Quanto al versante del periculum libertatis, l'art. 274, affrontando e risolvendo con chiarezza sistematica il problema del «vuoto dei fini», si preoccupa di predeterminare le «esigenze caute-Iati» che sole, concorrendo con il presupposto rappresentato dai gravi indizi di colpevolezza, devono considerarsi di per sé idonee a giustificare l'adozione delle misure 92

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi cautelari personali. Al riguardo la previsione normativa è esplicita non soltanto nel sottolineare, per un verso, come si tratti di esigenze ciascuna autonomamente sufficiente a legittimare il ricorso allo strumento cautelare; ma anche, per altro verso, come nessuna misura possa venire disposta se non in base al concreto accertamento della sussistenza di una delle suddette esigenze. Ne risulta così confermato un duplice corollario. Da un lato, la esclusione di qualsiasi automatismo nell'adozione delle misure in parola. Dall'altro, il rifiuto di qualunque meccanismo imperniato sull'obbligo del giudice di "giustificare", motivandone in positivo le ragioni, la mancata adozione della custodia cautelare con riferimento a determinate imputazioni (salvo quanto previsto dall'art. 275 comma 3°, sia pure con esclusivo riguardo agli indiziati di alcuni delitti particolarmente gravi di criminalità organizzata: infra, § 5). 4. Le diverse esigenze cautelari. Con riferimento alla sussistenza di «specifiche ed inderogabili» esigenze attinenti alle indagini (com'è ovvio relative ai soli «fatti per i quali si procede»), queste vengono finalisticamente circoscritte in rapporto a «situazioni di concreto ed attuale pericolo per l'acquisizione o la genuinità della prova». Il proposito legislativo è, evidentemente, quello di consentire il ricorso alle misure cautelari per fronteggiare il c.d. pericolo di «inquinamento» delle prove (quale potrebbe profilarsi, in certi casi, anche in sede dibattimentale), cui si affianca, però, un altrettanto preciso intento di escludere qualunque possibilità di impiego delle misure in questione al-lo scopo di assicurare il «compimento di atti determinati», per i quali non si possa prescindere dalla presenza dell'imputato (a tale fine essendo pre- visto, come si è già ricordato, il diverso strumento dell'accompagnamento coattivo ex artt. 132 e 376). Circa l'ipotesi della fuga o del «concreto» pericolo di fuga dell'imputato (non occorre, dunque, che «stia per darsi alla fuga»), essa trova un limite alla sua rilevanza sul terreno cautelare nel collegamento alle sole imputazioni per le quali il giudice preveda che possa venire irrogata «una pena superiore a due anni di reclusione» (art. 274 lett. b). Così, infatti, è stato tra-dotto il riferimento della legge delega a reati «di particolare gravità». Più delicato era il problema della specificazione, nel codice, dell'esigenza cautelare di natura sostanziale evidenziata dalla delega attraverso il non meglio precisato richiamo alle «esigenze di tutela della collettività». Il problema, comunque, è stato risolto assumendo quale parametro di valutazione dell'esigenza cautelare in questione gli elementi ricavabili da specifiche modalità e circostanze del fatto», nonché dalla «personalità» dell'imputato (in quanto desunta da «comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali»), e riconoscendole rilevanza ogniqualvolta ne risulti il «concreto pericolo» che il medesimo imputato — ove non assoggetato ad alcuna cautela — possa commettere «gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale, o diretti contro l'ordine costituzionale, ovvero delitti di criminalità organizzata», od ancora delitti «della stessa specie di quello per cui si procede» (art. 274 lett. e). Con riguardo a quest'ultima ipotesi si è tuttavia precisato, per coerenza con la regola generale dettata nell'art. 280 comma 2° (infra, § 9), che la misura della custodia cautelare potrà essere disposta solo quando il suddetto pericolo si riferisca alla commissione di delitti per i quali sia comminata una pena detentiva «non inferiore nel massimo a quattro anni». L'art. 274 lett. a, stabilendo che «le situazioni di concreto ed attuale pericolo» ivi previste «non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato di rendere dichiarazioni né nella mancata ammissione degli addebiti». In nessun caso l'esercizio del diritto al silenzio, da parte dell'imputato, può essere posto a fondamento, sul terreno del periculum libertatis, di una misura cautelare disposta a suo carico e quindi, a maggior ragione, che nessuna misura cautelare (a cominciare da quella carceraria) possa venire legittimamente adottata allo scopo di indurre l'imputato stesso a collaborare con l'autorità giudiziaria. 5. I princìpi di adeguatezza e di proporzionalità nella scelta delle misure. Per quanto riguarda l'esercizio della discrezionalità del giudice, una volta accertata la sussistenza di (almeno) una delle esigenze cautelari descritte dall'art. 274, in ordine alla «scelta delle misure» da adottarsi nel caso concreto – sia in via originaria, sia in via sostitutiva – l'art. 275 detta alcuni «criteri» fondamentali, ispirati alla logica della adeguatezza e della proporzionalità, entrambi radicati nelle direttive della legge delega (art. 2 n. 59). Viene 93

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi anzitutto enunciato il principio di adeguatezza. In forza di tale principio il giudice, nel-l'individuare «quale» misura debba venire disposta, sarà obbligato a tener conto della «specifica idoneità di ciascuna», rapportandola «alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto» (art. 275 comma 1°): con l'ovvia conseguenza che dovrà venire scelta la misura meno gravosa per l'imputato, tra quelle di per sé idonee a fronteggiare le suddette esigenze. Al principio di adeguatezza, così enunciato in termini generali, si raccorda poi, con funzione integrativa, il principio di proporzionalità, stando al quale ogni misura «deve essere proporzionata all'entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata» (art. 275 comma 2°). Co-me dire che il giudice, nel determinare la misura meglio idonea ad essere adottata nella singola fattispecie, dovrà tener conto non solo dell'attitudine della misura stessa a soddisfare le esigenze cautelari verificate caso per caso, ma anche della sua congruità, sotto il profilo della deminutio libertatis che ne deriva all'imputato: sia rispetto alla gravità del fatto addebitatogli, sia rispetto al quantum di pena che in concreto (alla luce della complessiva situazione processuale) possa essergli irrogata. Il comma 2-bis dell'art. 275, detta in capo al giudice un esplicito divieto di disporre la custodia cautelare quando il medesimo ritenga che «con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena». La norma sembra ispirata ad una concezione pressoché esclusivamente sostanzialistica della custodia cautelare (quasi si trattasse di una sorta di «anticipazione della pena», peraltro contra legem); ma trascura, nel contempo, l'eventuale profilarsi di esigenze cautelari di natura probatoria. Il comma 1-bis ed il comma 2-ter dell'art. 275 si occupano dei criteri relativi alla scelta delle misure cautelare da disporre contestualmente ad una sentenza di condanna. A norma del comma 1-bis è previsto anzitutto che, contestualmente ad una sentenza di condanna, l'esame delle esigenze cautelare debba essere «condotto tenendo conto anche dell'esito del procedimento, delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti, dai quali possa emergere che, a seguito della sentenza, risulta taluna delle esigenze indicate nell'art. 274, comma 1, lett. b e c». Il comma 2-ter dello stesso art. 275 stabilisce che qualora la condanna sia stata pronunciata in grado di appello, e previsto che le misure cautelari personali debbano essere «sempre disposte, contestualmente alla sentenza, quando, all'esito dell'esame condotto a norma del comma 1-bis, risultano sussistere esigenze cautelari previste dall'art. 274 e la condanna riguarda uno dei delitti previsti dall'art. 380 comma 1, e questo risulta commesso da soggetto condannato nei cinque anni prece-denti per delitti della stessa indole». Ciò significa, in altri termini, che in deroga alla regola generale (infra, § 13) per cui il giudice procedente applica le misure cautelari su richiesta del pubblico ministero (artt. 279 e 291 comma 1°), nel caso di sentenza di condanna pronunciata in secondo grado, contestualmente alla sentenza il medesimo giudice dovrà obbligatoriamente, anche in assenza di quest'ultima richiesta, valutare la sussistenza delle esigenze cautelari e degli altri presupposti indicati nel suddetto comma 2-ter, ed applicare «sempre» la misura cautelare personale più adeguata, ogni qualvolta tale valutazione abbia dato esito positivo. Il 3° comma dell'art. 275, con riferimento alla misura della custodia cautelare in carcere stabilisce che la medesima «può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata». Questa regola subisce, tuttavia, una cospicua eccezione a seguito delle modifiche successivamente via via introdotte – anche in termini piuttosto estesi, all'inizio degli anni novanta – nel suddetto 3° comma dell'art. 275. Nel quale, in particolare, è oggi stabilito che, quando sussistano gravi indizi di colpevolezza in ordine ad uno dei delitti ivi elencati, debba venire sempre disposta la custodia carceraria, a meno che siano acquisiti «elementi» dai quali risulti «che non sussistono esigenze cautelari». Si configura così in capo all'indiziato dei suddetti delitti una forte presunzione relativa di periculum libertatis. Ne deriva, con riguardo al medesimo giudice, un vero e proprio onere di motivazione negativa, circa la (non) sussistenza in concreto di esigenze cautelari. Ed è questa una situazione che, dal punto di vista del giudice, do- vrebbe concretare una sorta di «scudo normativo» di fronte al rischio delle minacce o dei condizionamenti cui lo stesso potrebbe venire sottoposto, soprattutto nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata.

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Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi 6. Altre applicazioni del principio di adeguatezza. Per quanto riguarda, in ispecie, l'impiego della custodia in carcere, una sorta di presunzione di «non necessità» della misura carceraria risulta sancita nel 4° comma dell'art. 275, con riferimento ad una gamma variegata di ipotesi, rispetto alle quali si delinea una previsione di divieto («non può essere disposta la custodia cautelare in carcere») della suddetta misura. Così è stabilito, m particolare, quando siano imputati una donna incinta, o una madre di prole di età inferiore ai tre anni con la stessa convivente, ovvero un padre (sembrerebbe senza ulteriori condizioni) qualora «la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole», od ancora una persona che abbia superato i settanta anni. Lo stato di incompatibilità con la custodia in carcere è presunzione posta dalla legge a favore dei medesimi imputati, potrà (anzi, dovrà) disporsi anche a loro carico la misura della custodia in carcere. Analogamente, qualora ricorrano i presupposti per la custodia in carcere, ma non sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, e si tratti di imputati tossicodipendenti o alcooldipendenti sottoposti a programma terapeutico di recupero, l'art. 89 commi 1° e 2° d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (così come modificato dall'art. 4- sexies d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con 1. 21 febbraio 2006, n. 49) stabilisce che nei confronti di tali imputati debba essere disposta la misura degli arresti domiciliare, allorché l'interruzione del programma in atto potrebbe pregiudicare il loro recupero. La medesima disciplina si applica altresì nei confronti dell'imputato tossicodipendente o alcooldipendente, già assoggettato a custodia cautelare, il quale intenda sottoporsi ad un programma terapeutico di recupero. Un esplicito, ed anzi più rigido, «divieto di custodia cautelare» (questa è la dizione ancora accolta nella rubrica dell'art. 286-bis, pur dopo le sopravvenute modifiche) è stabilito, infine, dall'art. 275 comma 4-bis nei riguardi degli imputati che siano affetti «da Aids conclamata o da grave deficienza immunitaria» (accertate ai sensi dell'art. 286-bis comma 2°), ovvero «da altra malattia particolarmente grave». Allorché venga verificata la sussistenza di condizioni di salute del tipo di quelle ivi menzionate — sulla base di accertamenti e di terapie praticabili anche in strutture pubbliche esterne all'ambito penitenziario, a norma e nei limiti dell'art. 286-bis comma 3° — si prevede che, con riferimento a tali soggetti, la custodia cautelare in carcere «non può essere disposta né mantenuta». Se «sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza», dovrà farsi regolarmente luogo a custodia cautelare presso «idonee strutture sanitarie penitenziarie», a meno che l'adozione di tale misura non risulti possibile «senza pregiudizio per la salute dell'imputato» o per quella «degli altri detenuti». Più in generale, infine, pur ricorrendo le situazioni appena descritte, allorché il soggetto risulti imputato, o sia stato sottoposto ad altra misura cautelare, per uno dei delitti previsti dall'art. 380 (in quanto commessi dopo l'applicazione delle misure previste dal suddetto comma 4-ter), il giudice potrà comunque disporne la custodia cautelare in carcere, evidentemente allo scopo di evitare gli inconvenienti altrimenti derivanti, soprattutto in rapporto al pericolo d _reiterazione di determinati reati, dal sostanziale riconoscimento a tali soggetti di una sorta di «immunità» rispetto alla custodia carceraria. Ancora alla sfera del principio di adeguatezza, sia pure con riferimento all'ipotesi di condotte dell'imputato contrastanti con le prescrizioni inerenti alle singole. misure cautelari deve ricondursi la disposizione dell'art. 276 comma 1°. Dove, in termini generali, viene enunciato il principio per cui, nel caso di inosservanza delle suddette prescrizioni, il giudice può ordinare la sostituzione della misura già disposta, ovvero il suo cumulo con altra più grave: sempre, di regola, dietro richiesta del pubblico minister. I criteri di valutazione, oltre a quelli indicati una volta per tutte nel medesimo art. 275, sono quelli imperniati sulla «entità», sui «motivi» e sulle «circostanze della violazione». Resta inteso, dunque, che non ogni «trasgressione» dell'imputato alle prescrizioni impostegli dovrà necessariamente dare luogo — da parte del giudice — ad un nuovo provvedimento in chiave sostitutiva. 7. La salvaguardia dei diritti della persona sottoposta a misura cautelare. Tipica norma di garanzia per la posizione soggettiva dell'imputato è l'art. 277 che stabilisce che le modalità esecutive delle misure cautelari «devono salvaguardare i diritti della persona ad esse sottoposta».

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8. I criteri di determinazione della pena ai fini dell'applicazione delle misure. Le regole dettate dall'art. 278 per la determinazione della pena agli effetti dell'applicazione delle misure stesse. Quanto alla soluzione accolta, articolata sulla scia della stessa delega (art. 2 n. 59), essa prescrive che debba aversi riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato, senza tener conto né della continuazione, né della recidiva (il riferimento alla recidiva è stato ripristinato, a sorpresa, dal legislatore del 1995), né, di regola, delle circostanze del reato. Da notare che i criteri dell'art. 278 risultano richiamati dall'art. 379 per quanto concerne la determinazione della pena ai fini dell'arresto in flagranza e del fermo. 9. Misure coercitive e misure interdittive. Le une e le alter possono applicarsi soltanto «quando si procede per i delitti per i quali la legge stabilise la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni» (artt. 280 e 287). E’ lo stesso 1° comma dell'art. 280 a fare anzitutto «salvo quanto disposto dai commi 2 e 3» dello stesso articolo, o dove la deroga si riferisce specificamente all'impiego della custodia cautelare in carcere. Essa, infatti può essere applicata esclusivamente- quando si proceda per delitti «consumati o tentati, per i quali sia prevista, la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni» " 1995). Questo limite, tuttavia, ai sensi del 3° comma dell'art. 280, non opera «nei confronti di chi abbia trasgredito alle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare». Una seconda eccezione, di segno contrario rispetto a quest'ultima regola generale, è stabilita dal medesimo art. 280 comma 1° facendo salvo quanto disposto «dall'art. 391» (anche se, come si vedrà tra breve, un palese difetto di coordinamento legislativo rende imperfetto un tale raccordo). Il richiamo va, ovviamente riferito a15° comma dello stesso art. 391, dove, nel disciplinare in via generale la c.d. conversione dell'arresto in flagra z odel fermo in «una misura coercitiva a norma dell'art. 291», ivi compresa la custodia in carcere, si dispone espressamente che tale conversione — naturalmente in presenza dei presupposti richiesti ex artt. 273 e 274 — possa avere luogo «anche al di fuori dei limiti di pena previsti dagli artt. 274 comma 1 lett. c e 280», quando l'arresto «è stato eseguito per uno dei delitti indicati nell'art. 381 comma 2», ovvero «per uno dei delitti per i quali è consentito anche fuori dei casi di flagranza»: dunque, anche con riferimento a determinati delitti punibili «con la reclusione non inferiore nel massimo a tre anni». Ciò significa che, in ordine alle ipotesi delittuose contemplate dall'art. 381 comma 2°, l'applicazione di una misura di coercizione personale potrà configurarsi soltanto a seguito di conversione dell'arresto in flagranza, mentre non potrà trovare base nel potere coercitivo originariamente spettante al giudice. Il 2° comma del suddetto art. 280 ha circoscritto l'applicabilità della custodia in carcere esclusivamente ai delitti punibili con la «reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni». L'applicazione della custodia carceraria a seguito di convalida dell'arresto in flagranza continua ad essere consentita — anche «al di fuori dei limiti di pena previsti» dall'art. 280, nonché dall'art. 274 comma 1° lett. c — nei soli casi in cui l'arresto sia stato eseguito a norma dell'art. 381 comma 2° (quantunque i delitti ivi elencati siano tutti punibili con la reclusione «non inferiore nel massimo atre anni»), mentre risulta preclusa nei casi in cui l'arresto sia stato eseguito a norma dell'art. 381 comma 1°, ogniqualvolta si tratti di delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione in misura bensì «superiore nel massimo a tre anni», ma «inferiore nel massimo a quattro anni». In questi ultimi casi, infatti, a causa della mancata predisposizione di una clausola derogatoria analoga a quella contenuta nell'art. 391 comma 5° non può non operare il limite di applicabilità sancito, per la custodia in carcere, dal 2° comma dell'art. 280, e richiamato dall'art. 274 comma 1° lett c. Senonché tutto ciò è palesemente assurdo, poiché, per effetto di un simile difetto di coordinamento legislativo, esiste oggi nel sistema una fa-scia di situazioni rispetto alle quali (sebbene riferite a delitti più gravi di quelli cui allude l'art. 381 comma 2°), pur dopo la convalida dell'arresto in flagranza, non potrà essere applicata la misura custodiale nei confronti dell'arrestato, non ostante l'accertamento dei presupposti cautelari idonei a legittimarne l'applicazione ex art. 391 comma 5°. Quanto al resto, non risultando ammessa nessuna ulteriore deroga, il limite stabilito dall'art. 280 deve ritenersi operante per tutte le altre misure coercitive, ivi comprese le più blande, com'è ad esempio il divieto di espatrio. 96

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10. La tipologia delle misure coercitive ed il principio di gradualità. All'interno di questa ideale gerarchia, nella quale si concreta uno strumento evidente- mente indispensabile per l'attuazione del principio di adeguatezza (art. 275), si collocano le misure del divieto di espatrio, opportunamente raccordato con la disciplina dei passaporti, sulla base della riconosciuta specificità dei suoi presupposti (art. 281), dell'obbligo di presentazione periodica agli uffici di polizia giudiziaria (art. 282) e dell'allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis). Ad esse si aggiungono le misure del divieto e dell'obbligo di dimora (art. 283). A proposito dell'obbligo di dimora va in ogni caso sottolineata la attribuzione al giudice del potere di imporre all'imputato anche quella di «non allontanarsi dall'abitazione in alcune ore del giorno, una prescrizione analoga, seppur circoscritta entro limiti temporali piuttosto rigidi, a quella in cui si sostanzia la misura degli arre- sti domiciliari (art. 284), riguardo alla quale l'obbligo dell'imputato «di non allontanarsi dalla propria abitazione», o dagli altri luoghi consentili, può risultare attenuato soltanto dalla autorizzazione del giudice «ad assentarsi nel corso della giornata dal luogo di arresto, per il tempo stretta-mente necessario» a provvedere ad «indispensabili esigenze di vita», ovvero per esercitare una attività lavorativa, nel caso di «assoluta indigenza». Anche su questo terreno, dunque, attraverso la duplice possibilità offerta al giudice di graduare diversamente, per intensità e per durata, la sottoposizione dell'imputato all'obbligo di «non allontanamento» dalla propria abitazione – ora facendo ricorso alla versione più gravosa dell'obbligo di dimora, ora disponendo direttamente gli arresti domiciliary. L'imputato agli arresti domiciliari «si considera in stato di custodia cautelare» (art. 284 comma 5°), soltanto in quest'ultimo caso, e non anche nel primo l'imputato costretto a rimanere nella propria abitazione potrà usufruire dei vantaggi derivanti dalla suddetta equiparazione: in particolare con riferimento alla disciplina dei termini massimi di custodia, nonché al meccanismo di scomputo della durata della misura domiciliare dalla durata della pena (infra, § 11). Mentre per quanto riguarda la concedibilità degli arresti domiciliare un limite soggettivo espresso è quello sancito dal nuovo comma 5-bis dell'art. 284, in termini di divieto nei confronti degli imputati già condannati (dunque, con sentenza irrevocabile) per il reato di evasione nei cinque anni precedenti al fatto per cui si procede, assai più articolata e complessa appare la disciplina oggi consacrata nell'art. 275-bis, con riferimento alla possibilità di subordinare la misura degli arresti domiciliari all'assoggettamento dell'imputato a particolari «procedure di controllo» da attuarsi mediante «mezzi elettronici o altri strumenti tecnici»: dove è evidente l'allusione al congegno del c.d. "braccialetto elettronico". Più precisamente, stabilisce il 1° comma dello stesso art. 275-bis che il giudice, nel disporre la misura degli arresti domiciliari «anche in sostituzione della custodia cautelare in carcere», possa prescrivere – ove lo ritenga necessario in relazione alle esigenze cautelari del caso concreto – la adozione delle suddette «procedure di controllo» elettronico, salvo comunque prevedere con il medesimo provvedimento l'applicazione della misura carceraria, allorché l'imputato neghi il proprio consenso a sottoporsi ai relativi «mezzi e strumenti». 11. Le forme della custodia cautelare. La custodia in carcere non presenta grandi novità dal misura della pinto di vista dei contenuti, trovando base nel provvedimento con cui il giudice dispone che l'imputato «sia catturato ed immediatamente condot to in un istituto di custodia per rimanervi a disposizione dell'autorita giudiziaria» (art. 285). Quando, poi, si tratti di un imputato. in stato di infermità di mente tale da incidere gravemente sulla sua capacità di intendere e di volere, si prevede che il giudice possa disporne — in luogo della custodia carceraria — la custodia cautelare non carceraria mediante ricovero provvisorio in una idonea struttura. Il raggio di operatività di tale istituto (così come previsto dall'art. 206 c.p.) copre un'area di ipotesi assai più ampia di quella riferibile al solo imputato infermo di mente. Quanto agli imputati che si trovino nelle gravi condizioni di salute descritte dall’art. 275 comma 4-bis, stabilisce il 3° comma dell’art. 286-bis che il giudice possa disporre il ricovero provvisorio in una adeguata struttura del servizio sanitario nazionale «per il tempo necessario», adottando nel contempo, ove occorra, i provvedimenti «idonei a evitare il pericolo di fuga». Dopo di che, una volta cessate le esigenze del ricovero (che deve 97

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi considerarsi, a tutti gli effetti, una forma di custodia cautelare non carceraria), il giudice provvederà a norma dell'art. 275: a seconda dei casi, o ripristinando la custodia in carcere, o disponendo gli arresti domiciliari ex art. 275 comma 4-ter, o pronunciando uno dei provvedimenti previsti dall'art. 299. Tornando alle disposizioni comuni alle misure di custodia cautelare, sia in carcere sia in luogo di cura, va ricordato, infine, il principio relativo alla computabilità per una sola volta della durata delle stesse (oltreché, in forza della ricordata equiparazione, del periodo trascorso dall'imputato agli arresti domiciliari) ai fini della determinazione della pena da eseguire, ai sensi dell'art. 657. L’«informazione» prevista dall'art. 129 commi l° e 2° disp. att. nei confronti di deterrai nate autorità pubbliche, ovvero dell'autorità ecclesiastica, allorché venga esercitata l'azione penale contro uno dei soggetti ivi indicati (pubblici impiegati, e, rispettivamente, ecclesiastici o religiosi del culto cattolico), dovrà essere inviata alle medesime autorità pure nel caso in cui tali soggetti vengano a trovarsi in stato di custodia cautelare — ovvero siano stati arrestati o fermati — anche prima dell'esercizio dell'azione stessa (art. 129 comma 3-bis disp. att.). 12. La tipologia delle misure interdittive. Per quel che concerne le misure interdittive, il limite di sbarramento correlato ai procedimenti «per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni» (retro, § 9) subisca svariate deroghe, in rapporto a «quanto previsto da disposizioni particolari» (art 287). Circa la tipologia delle misure interdittive vengono disciplinate, in particolare, la sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori (art. 288); la sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio peraltro non applicabile agli uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare; ed infine il divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali, ovvero determinati uffici direttivi delle persone giuridiche o delle imprese (art. 290). Quanto ai criteri di scelta delle misure interdittive, per le quali valgono, ovviamente, i princìpi di adeguatezza e di proporzionalità enunciati invia generale nell'art. 275, con riferimento alle esigenze cautelari di cui all'art 274 va ricordata l'ulteriore possibilità offerta al giudice di dare più specifica attuazione a tali principi – secondo la logica del «sacrificio minimo» – attraverso la applicazione soltanto parziale della misura prescelta. Infatti le diverse disposizioni dettate al riguardo, facendo leva sulla formula «in tutto o in parte» (artt. 288-290), consentono che l'incidenza della misura stessa possa venire in concreto limitata esclusivamente a una parte della, potestà ovvero a un settore o a una parte della attività. 13. I profili formali dei provvedimenti cautelari. Più precisamente, nel 1° comma dell'art. 291 viene, anzitutto, ribadita la regola (retro, § 2) secondo cui la competenza a disporre tali misure appartiene al giudice, il quale nel momento applicativo provvede sempre su richiesta del pubblico ministero (a parte quanto si è detto a proposito del-l'art. 275 comma 2-ter, una iniziativa ex officio del giudice è prevista dall'art. 299 comma 3° soltanto in materia di revoca o di sostituzione di misure già applicate). In particolare il pubblico ministero dovrà fornire al giudice non solo, naturalmente, «gli elementi su cui la richiesta si fonda», ma anche tutti gli altri «elementi a favore dell'imputato» (tra i quali rientrano sia quelli acquisiti dallo stesso pubblico ministero ex art. 358, sia quelli pervenutigli a seguito dell'attività investigativa ex art. 327-bis), nonché le eventuali «deduzioni e memorie difensive già depositate». Successivamente, nel 2° comma dello stesso art. 291 viene dettata una particolare disciplina per le ipotesi in cui il giudice destinatario della suddetta richiesta riconosca per qualsiasi causa la propria incompetenza. In ipotesi del genere, ove quel giudice, ricorrendo le altre condizioni previste dalla legge, accerti l'urgenza di provvedere sotto il profilo cautelare, egli stesso dovrà disporre la misura richiesta – con il medesimo provvedimento declinatorio di competenza - salva la caducazione della misura così applicata qualora, entro venti giorni dalla trasmissione degli atti al giudice competente, questi non la «confermi» con proprio autonomo provvedimento (come previsto, in via generale, dall'art. 27). La richiesta formulata dal pubblico ministero, necessaria ad attivare l'esercizio del potere cautelare del giudice, non è tuttavia vincolante. E’ indubbio che, oggi, il giudice possa disporre anche una 98

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi misura cautelare meno grave di quella richiesta dall'organo dell'accusa; non, invece, una misura più grave, per la quale mancherebbe qualunque iniziativa del pubblico ministero. E questo è, innegabilmente, un ulteriore sintomo del proposito legislativo di rafforzare la posizione del giudice, quale organo decisorio in materia de liberiate, rispetto al pubblico ministero. È stato previsto, infine, su un piano generale, ad opera del comma 2-bis dell'art. 291, che il pubblico ministero - in caso di «necessità o urgenza» - possa chiedere al giudice, nell'interesse della persona offesa, l'applicazione di una delle «misure patrimoniali provvisorie» previste dal-l'art. 282-bis comma 3°. Quanto agli aspetti formali del provvedimento del giudice (si tratterà, di regola, di una ordinanza), tra i requisiti elencati dall'art. 292 va segnalato - accanto alla «ipotesi di imputazione» rappresentata dalla «descrizione sommaria del fatto», con l'indicazione delle norme di legge che si assumono violate (lett. h) soprattutto quello relativo alla stia motivazione (lett. c), espresso con formula analitica e stringent. Con riguardo a quest'ultimo profilo si prescrive altresì la predeterminazione della durata della misura (più esattamente, della sua «data di scadenza... in relazione alle indagini da compiere»), quando la stessa sia stata disposta in vista dell'esigenza cautelare di cui all'art. 274 lett. a, cioè al fine di garantire l'acquisizione o la genuinità della prova (lett. d). E la prescrizione, come si vedrà, è evidentemente funzionale alla specifica disciplina della estinzione delle misure disposte «per esigenze probatorie» e della loro eventuale rinnovazione ex art. 301 commi 1° e 2°, oltreché al peculiare regime della durata della custodia cautelare disposta per le medesime esigenze, quale risulta dai nuovi commi 2-bis e 2-ter del predetto a I. 301 (infra, § 18). Nell'art. 292 comma 2° è stata inseritta una nuova lett. c-bis, in virtù della quale si impongono al giudice due ulteriori adempimenti. Tali sono, da un canto, l'esposizione delle rapioni per le quali siano stati ritenuti «non rilevanti gli elementi forniti dal la difesa»; dall'altro, quando venga applicata la misura carceraria, I'espo sizione delle «concrete e specifiche ragioni» per le quali si sia ritenuto elle le esigenze cautelari del caso «non possono essere soddisfatte con alt le misure». Nel rapportare le esigenze cautelari riscontrate in concreto alla «specifica idoneità» della misura applicata, il giudice debba sempre dar conto della osservanza dei «criteri di scelta» stabiliti dall'art. 275 (retro, § 5), con particolare riguardo ai canoni della adeguatezza e della proporzionalità. Senza dimenticare, tra l'altro, che in sede di controllo successivo sulle ordinanze applicative di una misura cautelare, accanto all'ordinario strumento del riesame, si prevede anche la eventualità che le medesime ordinanze vengano immediatamente assoggettate ex art. 311 comma 2° a ricorso per cassazione (infra, § 24), con la conseguenza di rendere possibile un diretto sindacato di legittimità sulla loro motivazione. Tutti i requisiti indicate nell'art. 292 comma 2° sono stabiliti a pena di nullità (non così, invece quelli indicati nel comma 2-bis) e questa nullità, inopinatamente definita come rilevabile anche d'ufficio dal legislatore del 1995 (retro, cap. II, § 32), in assenza di altra specifica disposizione deve ritenersi, per il resto, assoggettata alle regole generali di deducibilità e di sanatoria ex artt. 181-183. Una ulteriore nullità risulta prevista, infine, nel nuovo comma 2-ter dell'art 292, con riferimento all'ipotesi dell'ordinanza che non contenga la valutazione degli elementi «a carico e a favore dell'imputato», questi ultimi individuabili come quelli «di cui all'art. 358, nonché all'art. 327-bis». 14. Gli adempimenti esecutivi e le garanzie difensive. Tra gli adempimenti diretti a dare esecuzione alle ordinanze recanti una misura cautela-re (per le quali è prescritta la immediata trasmissione agli organi competenti ex art. 92 disp. att.) emergono dall'art. 293 soprattutto quelli più strettamente funzionali a consentire l'esercizio della difesa. Nel 3° comma dell'art. 293 si prevede che tutte le suddette ordinanze, una volta notificate od eseguite, siano depositate in cancelleria, e del deposito sia notificato avviso al difensore. Insieme all'ordinanza cautelare deve essere depositata anche la richiesta del pubblico ministero, e con essa gli atti presentati da quest'ultimo a norma dell'art. 291 comma 1°. Mentre le ordinanze applicative della custodia cautelare vengono materialmente eseguite con la consegna all'imputato di copia del provvedi-mento e con il suo immediato trasferimento, se del caso manu militari (questo è il significato del riferimento alla «cattura» contenuto nell'art. 285 comma 1°), in un istituto di custodia a disposizione dell'autorità giudiziaria, le ordinanze applicative delle misure cautelari non custodiali sono 99

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi semplicemente _notificate all'imputato secondo i modi ordinari. Per quanto concerne, in particolare, le ordinanze relative alla custodia caute-lare viene inoltre espressamente stabilito — del resto in ottemperanza ad una specifica direttiva della delega (art. 2 n. 5) — che l'organo di polizia incaricato dell'esecuzione avverta l'imputato della facoltà di nominare un difensore di fiducia, e quindi ne informi immediatamente il difensore così nominato, ovvero quello designato d'ufficio ai sensi dell'art. 97. Circa la procedura da seguire nel caso in cui il destinatario della misura non venga rintracciato, l'art. 295 prevede la redazione del verbale di vane ricerche da parte del competente organo di polizia, e la successiva dichiarazione dello stato di latitanza dell'imputato, ad opera del giudice che tali ricerche abbia ritenuto esaurienti. Quanto alla disciplina della latitanza nell'art. 296 l'enunciazione della regola volta a circoscrivere l'operatività dei suoi effetti al solo «procedimento penale nel quale essa è stata dichiarata». La previsione di maggiore risalto, tuttavia, è quella che autorizza il giudice o il pubblico ministero ad utilizzare lo strumento della intercettazione di conversazioni o di comunicazioni telefoniche, nonché di altre forme di telecomunicazione, nei limiti degli artt. 266 e 267, anche allo scopo di «agevolare le ricerche del latitante» (art. 295 comma 3°). Può farsi luogo ex art. 295 comma 3-bis anche alla intercettazione di comunicazioni tra persone presenti, quando si tratti di latitanti in relazione ad uno dei delitti di criminalità mafiosa previsti dall'art. 51 comma 3-bis, ovvero ad uno dei gravi delitti di natura terroristica od eversiva previsti dall'art. 407 comma 2° lett. a n. 4; e, in questo caso, si deve ritenere, senza il limite previsto per le intercettazioni ambientali nel domicilio dall'art. 266 comma 2°, trattandosi di limite già derogato in via generale con riguardo ai procedimenti per delitti di criminalità organizzata (retro, cap. III, § 15). Allo stesso scopo, d'altro lato, si è stabilito che possa procedersi, anche ad iniziativa di ufficiali di polizia giudiziaria, alla perquisizione locale di interi edifici o di blocchi di edifice. L'autorità giudiziaria può, con decreto motivato, ritardare l'emissione, o disporre che sia ritardata l'esecuzione, di provvedimenti di cattura (oltreché di arresto o di seque- stro) quando ciò sia necessario per acquisire rilevanti elementi probatori, ovvero per l'individuazione o la cattura dei responsabili dei delitti concernenti sostanze stupefacenti previsti dagli artt. 73 e 74 dello stesso d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309. Analoghe disposizioni risultano dettate dall'art. 7 comma 3° d.l. 15 gennaio 1991, n. 8 (convertito con 1. 15 marzo 1991, n. 82), nell'ambito dei procedimenti per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, ed inoltre dall'art. 9 comma 7° l. 16 marzo 2006, n. 146, nell'ambito dei procedimenti per i delitti di terrorismo e di criminalità organizzata, nonché per gli altri gravi delitti indicati nei commi 1° e 6° del medesimo art. 9. Alla tematica degli adempimenti necessariamente successivi all'esecuzione della misura della custodia cautelare in carcere appartiene anche l'istituto dell'interrogatorio dell'indiziato. Interrogatorio che l'art. 294 comma l° (nella versione risultante dall'art. 2 d 1 22 febbraio 1999, n. 29, convertito con 1. 21 aprile 1999, n. 109) affida «fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento», al giudice che ha deciso sull'applicazione della misura cautelare – sempreché il medesimo giudice non vi abbia proceduto ex art. 391 comma 3° nel corso dell'udienza di convalida dell'arresto in flagranza o del fermo – prescrivendone l'effettuazione «immediatamente e comunque non oltre cinque giorni dall'inizio dell'esecuzione della custodia», a meno che l'indiziato stesso sia assolutamente impedito. In virtù del nuovo comma 1-bis dell'art. 294 un analogo interrogatorio di garanzia è inoltre previsto nei confronti di qualunque persona sottoposta a «misura cautelare, sia coercitiva che interdittiva», diversa dalla custodia in carcere (nella versione originaria dell'art. 294 la medesima garanzia veniva estesa, invece, soltanto al caso degli arresti domiciliari), con l'ulteriore precisazione che il predetto adempimento debba venire assolto «non oltre dieci giorni dall'esecuzione del provvedimento o dalla sua no- tificazione». 15. L'interrogatorio della persona in stato di custodia. L’141-bis prevede l’obbligatorietà della documentazione integrale dell'interrogatorio stesso (quando si tratti di «persona in stato di detenzione»), mediante appositi strumenti di riproduzione fonografica o audiovisiva. Una prescrizione, questa, stabilita «a pena di inutilizzabilità» probatoria dei risultati dell'atto, con la conseguenza che — nel caso di sua inosservanza — l'avvenuto interrogatorio, se per il resto valido, dovrà ritenersi comunque 100

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi idoneo ad integrare tutte quelle fattispecie che lo configurano come presupposto necessario per il prodursi di determinati effetti. Quanto alla cornice soggettiva dell'interrogatorio in questione, che verrà «condotto dal giudice», essa è definita dal 4° comma dell'art. 294 col prevedere una facoltà di intervento del pubblico ministero ed un correlativo obbligo del difensore, ai quali verrà dato tempestivo avviso (a parte, in ogni caso, il diritto dei medesimi di prendere visione del relativo verba-le, ai sensi dell'art. 93 disp. att.). Circa il contenuto di garanzia dell'interrogatorio, dispone il 3° comma dell'art. 294 che il giudice debba valutare se «permangono» le condizioni di applicabilità e le esigenze cautelari richieste per l'assoggettamento a custodia dagli artt. 273, 274 e 275. Proprio perché si deve presumere che già prima dell'adozione della misura il giudice (di norma, il medesimo giudice) abbia necessariamente accertata la sussistenza di tali presupposti, il senso della disposizione non può essere se non quello di porre le pie messe per una nuova valutazione degli stessi, alla luce degli elementi che gli siano stati forniti dall'indiziato in sede di interrogatorio: a conferma, dunque, della natura eminentemente difensiva dell'atto, in quanto volto a consentire all'indiziato di fare presenti le circostanze adducibili a suo favore. Le Sezioni unite della Corte di cassazione ritengono tale interrogatorio viziato da nullità (e, quindi, ne sottolinea la inidoneità ad evitare l'effetto caducatorio previsto dall'art. 302, i cui si dirà tra breve) allorquando non sia stato preceduto dal deposito nella cancelleria del giudice, a norma dell'art. 293 comma 3°, dell'ordinanza cautelare e degli altri atti ivi indicati. Lo stesso art. 302 continua poi precisando che, una volta avvenuta la liberazione dell'indiziato, il medesimo potrà essere, di nuovo sottoposto a custodia cautelare, su richiesta del pubblico ministero, sempreché ne ricorrano i presupposti, soltanto dopo che sia stato interrogato in stato di libertà. L'art. 294 comma 6° stabilisce che «l'interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare da parte del pubblico ministero non può. precedere l'interrogatorio del giudice». In assenza di apprezzabili ragioni di segno garantistico, la regola della necessaria anteriorità dell'interrogatorio del giudice sembra potersi spie gare soltanto alla luce di un aprioristico atteggiamento legislativo di diligenza verso l'attività inquirente dell'organo dell'accusa. Poiché, d'altra parte, è innegabile che, in determinate situazioni di tu genia investigativa, il pubblico ministero possa avere necessità di interrogare al più presto la persona in custodia (senza, dunque, dover attendere i cinque giorni consentiti al giudice per l'espletamento del suo interrogatorio), il nuovo comma 1-ter dell'art. 294 stabilisce che, ove lo stesso pubblico ministero ne faccia istanza nel presentare la richiesta di custodia caute-lare ex art. 291, il giudice sia tenuto ad effettuare l'interrogatorio «entro il termine di quarantotto ore» dall'inizio della custodia. Non è azzardato immaginare, quindi, che in eventualità del gene-re i magistrati del pubblico ministero preferiranno ricorrere, appena se ne verifichino i presupposti, allo strumento del fermo di indiziati ex art. 384, a seguito del quale il pubblico ministero continua ad essere legittimato ad interrogare l'indiziato sottoposto a fermo (come pure la persona arrestata in flagranza, in virtù dell'art. 388). È da escludere, comunque, che nell'ipotesi dell'art. 294 comma 1-ter, qualora il giudice non riesca ad effettuare il suddetto interrogatorio entro il termine di quarantotto ore, così come richiestogli dal pubblico ministero, ne consegua la caducazione della custodia cautelare sancita dall'art. 302, dovendosi tale conseguenza ricondurre (in armonia con la ratio di garanzia per la persona detenuta, cui la disposizione si ispira) esclusivamente alla inosservanza del termine ordinario di cinque giorni «previsto dall'art. 294» comma 1°. 16. Il computo dei termini di durata delle misure. Dopo aver espresso a chiare lettere, nei primi due commi, il principio generale secondo cui gli effetti della custodia cautelare decorrono dal momento della cattura, dell'arresto o del fermo, mentre gli effetti delle altre misure — ivi compresi gli arresti domiciliari — decorrono dal momento del la notifica della relativa ordinanza, l'art. 297 si preoccupa di disciplinare l'ipotesi della pluralità di provvedimenti applicativi della medesima misura a carico del medesimo imputato. Cominciando dall'ipotesi più tradizionale, quando cioè i suddetti provvedimenti riguardino lo stesso fatto (ancorché «diversamente circostanziato o qualificato»), il nuovo 3" comma dell'art. 297 si dà carico di precisare che i termini decorrono dal giorno in cui è stato eseguito o notificato il primo provvedimento, ma sono commisurati in rapporto all'imputazione più grave tra quelle contestate con le diverse 101

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi ordinanze. La normativa non tien conto della eventualità che, nel corso delle indagini, l'originaria imputazione sia stata modificata in melius, con ovvie possibili ripercussioni sui termini di durata della custodia e delle altre misure caulelari. Il presupposto è che le suddette ordinanze facciano riferimento a «fatti diversi», sotto una duplice condizione: quando tra tali fatti sussistano i rapporti di connessione descritti dall'art. 12 lett. b (caso del concorso formale di reati e del reato continuato) o dall'art. 12 lett. c (limitatamente al caso di reati «commessi per eseguire gli altri»), e purché si tratti di fatti «commessi anteriormente all'emissione della prima ordinanza». In ipotesi del genere, l'unica deroga alla regola della retrodatazione del dies a quo per il computo dei termini di durata della misura disposta con le ordinanze conseguenti alla prima è quella che si ricava dall'ultima parte del nuovo 3° comma dell'art. 297, stando al quale tale regola «non si applica» in rapporto alle ordinanze emesse «per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste connessione» a norma del medesimo 3° comma. Ne consegue che, per l'operatività della regola in questione, e sufficiente che i «fatti diversi», contestati con le ordinanze ulteriori, applicative della medesima misura nei confronti dello stesso imputato, risultassero «desumibili dagli atti» nel momento del rinvio a giudizio per il fatto contestato con l'originaria ordinanza cautelare. Il proposito del legislatore di contrastare una certa deplorevole prassi giudiziaria (quella delle c.d. contestazioni «a catena»), molto spesso adottata in chiave elusiva dell'ordinaria disciplina dei termini delle misure cautelari. La Corte costituzionale ha sottolineato come la suddetta regola di retrodatazione del termine debba applicarsi anche al di fuori delle ipotesi legislativamente definite: in particolare, anche nell'ipotesi di misure cautelari relative a «fatti diversi non connessi», sempreché tuttavia, in quest'ultima eventualità, gli elementi posti a base della successiva ordinanza risultassero «già desumibili dagli atti al momento della emissione della precedente ordinanza». Quanto all'ipotesi del cumulo tra un provvedimento cautelare ed un provvedimento di custodia per altro reato, ovvero di detenzione o di internamento a titolo definitivo, occorre fare riferimento al disposto dell'ultimo comma del medesimo art 297,l-a regola è quella per cui, anche in situazioni del genere, gli effetti della misura cautelare decorrono dal giorno della notifica della relativa ordinanza, ove si tratti di misura compatibile con lo stato di detenzione o di internamento, mentre nel caso contrario decorrono dalla cessazione di tale stato; ma la stessa disposizione si preoccupa, altresì, di stabilire in via assoluta che, agli effetti del computo dei termini massimi, la custodia cautelare «si considera compatibile con lo stato di detenzione per esecuzione di pena o di internamento per misura di sicurezza». Lo stesso deve, infine, ritenersi – sebbene la legge non lo dica in forma esplicita – nell'ipotesi di cumulo tra una misura cautelare detentiva ed un provvedimento di custodia già in atto a carico della medesima persona per un diverso fatto di reato (salvo restando, ovviamente, quanto si è precisato a proposito del cumulo dei provvedimenti di custo- dia per i «fatti diversi» contemplati dall'art. 297 comma 3°). In analogo ordine di idee l'art. 298 prevede poi – simmetricamente – che l'esecuzione di un ordine di carcerazione nei confronti di un imputato sottoposto ad una misura cautelare personale per un diverso reato determini la sospensione dell'esecuzione di quest'ultima, a meno che gli effetti di tale misura risultino compatibili con l'espiazione della pena. 17. I provvedimenti di revoca e di sostituzione. L'art. 299 riflette con chiarezza l'intento di riunire in un unico contesto normativo le diverse ipotesi di «revoca e sostituzione delle misure» riconducibili alla fenomenologia dei presupposti (li fatto e di diritto delle stesse. In questa cornice – già delineata con chiarezza dalla legge delega (art. 2 n. 59) – si inserisce, per l'appunto, la configurazione della revoca come fattispecie estintiva delle misure cautelari personali, destinata ad operare tutte le volte in cui (a seguito di una valutazione sulla sussistenza ex ante, o sulla permanenza ex posi) risultino carenti, per ciascuna di esse, le condizioni di applicabilità previste dall'art. 273, o da altre specifiche disposizioni, ovvero le esigenze cautelari previste dall'art. 274 (art. 299 comma 1°). E lo stesso vale, in armonia con i «criteri di scelta» enunciati nell'art. 275, per quanto concerne l'ipotesi in cui si accerti che le esigenze cautelari si sono attenuate. In eventualità del genere si prevede che il giudice, ubbidendo ai princìpi di adeguatezza e di 102

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi proporzionalità, debba sostituire la misura originaria con altra correlativamente meno grave, ovvero disporne la applicazione con modalità meno gravose, salvo ovviamente il limite risultante dal 3° comma del medesimo art. 275 (art. 299 comma 2°). E quando si tratti della sostituzione della custodia in carcere con gli arresti domiciliari, una particolare disciplina autorizzativi è dettata nell'art. 97-bis disp. att., allo scopo di consentire all'imputato di «raggiungere» con i propri mezzi, e sia pure nell'osservanza delle prescrizioni eventualmente imposte dal giudice il «luogo dell'arresto individuato a norma dell'art. 284», sempreché non risulti necessario disporne «l'accompagnamento per salvaguardare comprovate esigenze processuali o di sicurezza». Quanto ai profili procedurali, si stabilisce che, durante le indagini preliminari il giudice debba provvedere in ordine alla revoca ed alla sostituzione delle misure, di regola, soltanto dietro richiesta del pubblico ministero o dell'imputato, ed entro cinque giorni dal deposito di tale richiesta. Tuttavia anche nel corso delle indagini preliminari si ammette che il giudice possa assumere ex officio l'iniziativa della revoca o della sostituzione delle misure suddette, quando risulti già investito del procedimento per l'esercizio di uno dei poteri appartenenti alla sua competenza funzionale: in particolare, come si è già rilevato (retro, § 15), quando assuma l'interrogatorio dell'indiziato in stato di custodia cautelare ex art. 294, o quando sia richiesto della proroga del termine per le indagini preliminari ex art. 406, ovvero quando proceda all'assunzione di un incidente pro- batorio ex artt. 392 e seguenti (art. 299 comma 3°). Il giudice deve sempre sentire il pubblico ministero. Il comma 3-ter dell'art. 299 dispone che che il giudice – dopo avere valutato gli elementi addotti a fondamento della richiesta di revoca o di sostituzione – prima di provvedere possa sempre procedere ad interrogatorio della persona sottoposta alla misura. Senonché tale interrogatorio diventa doveroso per il giudice, ove l'imputato Io abbia specificamente richiesto, quando l'istanza di revoca o di sostituzione della misura sia basata su «elementi nuovi o diversi. Le esigenze cautelari si sono accresciute rispetto a quelle individuate alla base della misura applicata, è previsto che il giudice, su richiesta del pubblico ministero, debba sempre, ricorrendone i presupposti, sostituire la misura originaria con altra più rigida, ovvero disporne l'applicazione con modalità più gravose (art. 299 comma 4°). Con riferimento a tutti i provvedimenti previsti dall'art. 299 è stabilito, infine, che il giudice – quando si trovi nell'impossibilità di decidere «allo stato degli atti» sulla richiesta di una parte – possa «in ogni stato e grado del procedimento» disporre anche d'ufficio, e prescindendo da particolari formalità, i necessari «accertamenti sulle condizioni di salute o su altre condizioni o qualità personali dell'imputato» (art. 299 comma 4-ter). Una particolare disciplina è dettata con riguardo alle ipotesi che si verificano quando la richiesta di revoca o di sostituzione della misura della custodia carceraria sia fondata sulle «condizioni di salute particolarmente gravi» previste dall'art. 275 comma 4bis (ovvero quando tali condizioni vengano segnalate dal servizio sanitario penitenziario, o risultino in altro modo al giudice). In ipotesi del genere, infatti, qualora il giudice non ritenga di accogliere tale richiesta sulla base degli atti prodotti, o comunque disponibili, a suo conforto, è prescritto (a seguito di una innovazione introdotta dalla legge del 1995) che debbano essere disposti «con immediatezza» gli accertamenti medici del caso, attraverso la nomina di un perito ad hoc. 18. Particolari fattispecie di estinzione automatica delle misure. A parte la già ricordata ipotesi di estinzione della custodia cautelare et art. 302 (retro, § 15), a causa dell'omesso interrogatorio dell'indiziato entro il termine previsto dall'art. 294, qui viene in evidenza anzitutto la prevista estinzione ipso iure di tutte le suddette misure in conseguenza della pronuncia di determinati provvedimenti, sulla base delle disposizioni emergenti dall'art. 300. Vi si stabilisce, anzitutto, nei commi 1° e 2°, la immediata perdita di efficacia delle misure applicate con riferimento ad un certo fatto allorquando, per lo stesso fatto e nei confronti della medesimi persona, venga disposta l'archiviazione, ovvero venga pronunciata una sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento. Gli artt. 131-bis e 154-bis disp. att. dispongono che l'imputato detenuto, nei cui confronti sia stata pronunciata una sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento, venga immediatamente posto in libertà. Laddove, invece, la sentenza sia stata di condanna, l'art. 300 commi 3° e 4° stabilisce - in evidente applicazione del principio di proporzionalità es art. 275 comma 2° – che le misure già in 103

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi atto perdano efficacia ogni qualvolta la pena irrogata venga dichiarata estinta, ovvero condizionamente sospesa; e, in analogo ordine di idee, che la custodia cautelare perda altresì efficacia quando la durata della custodia presofferta sia uguale o superiore all'entità della pena irrogata, indipendentemente dalla circostanza che contro la sentenza sia stata proposta impugnazione. In tutte queste ipotesi, come si diceva poco sopra, l'effetto estintivo si produce di diritto, sicché al giudice non resterà che adottare con ordinanza i provvedimenti necessari per far immediatamente cessare l'esecuzione delle misurte. Quando, poi, la cessazione della misura consegua ad una sentenza della corte di cassazione, si applica il disposto dell'art. 626. Per quanto riguarda, poi, la peculiare situazione dell'imputato prima destinatario di una sentenza di proscioglimento, o di non luogo a procedere, e successivamente condannato per il medesimo fatto, dispone l'ultimo comma dell'art. 300 - dando attuazione ultra litteram ad una specifica direttiva della legge delega (art. 2 n. 63) - che nei suoi confronti possano venire adottate una o più misure coercitive, soltanto quando ricorrano le esigenze cautelari previste dall'art. 274 comma 1° lett. b (fuga o concreto pericolo di fuga, essendo stata irrogata una pena superiore a due anni di reclusione), ovvero lett. c (concreto pericolo di commissione dei gravi delitti ivi indicati). Ad analogo meccanismo estintivo deve ricondursi, ancora, l'ipotesi di caducazione contemplata dall'art. 301, col prevedere la perdita di efficacia delle misure applicate per esigenze cautelari di natura probatoria, allorquando alla scadenza del termine fissato nel provvedimento applicativo, a norma dell'art. 292 comma 2° lett. d, non ne venga ordinata la rinnovazione. I nuovi commi 2-bis e 2-ter. dell'art. 301, dov'è previsto un particolare regime per quanto concerne la durala della misura della custodia cautelare in carcere, quando questa sia stata disposta per esigenze probatorie e, quindi, ne sia stata prefissata la «data di scadenza» a norma dell'art. 292 comma 2° lett. d (retro, § 13). La disciplina ordinaria dettata dall'art. 301 comma 2-bis è nel senso che, per tutte le altre ipotesi, la custodia carceraria motivata da esigenze probatorie non possa avere «durata superiore a trenta giorni». L'art. 301 gomma 2-ter, dov'è prevista la possibilità di una proroga del suddetto termine (non, naturalmente, della «misura», come con scarsa proprietà si esprime il testo legislativo), ad opera del giudice, dietro richiesta del pubblico ministero e previo interrogatorio dell'imputato, sulla base di un'ordinanza che dovrà valutare «le ragioni che hanno impedito il compimento delle indagini per le cui esigenze la misura era stata disposta». Attraverso questa procedura il termine della misura inizialmente stabilito potrà essere prorogato «per non più di due volte» e, comunque, entro «il limite complessivo di novanta giorni», Nulla esclude, tuttavia, per quanto si desume dall'intero contesto del-l'odierno art. 301, che, alla scadenza di questo termine (cui, altrimenti, dovrebbe conseguire la immediata caducazione della misura già prolungatasi, al massimo, fino al novantesimo giorno), il pubblico ministero possa chiedere, ed il giudice possa disporre, la rinnovazione della custodia in carcere nei confronti dello stesso imputato, e sempre per esigenze di natura probatoria (anche riconducibili, se del caso, a quelle per le quali era stata disposta la misura da rinnovarsi). Naturalmente tale rinnovazione dovrà essere disposta mediante la pronuncia di un provvedimento idoneo a fungere da nuovo titolo di custodia, in conformità a quanto previsto in via generale dall'art. 301 commi 1° e 2°, e nell'ovvio rispetto dei limiti legali di durata sanciti dal codice per le ipotesi in discorso. 19. I termini di durata massima della custodia cautelare. L'art. 303 individua tutte le varie ipotesi in cui si realizza il fenomeno della caducazione della misura custodiale per decorso dei termini massimi della stessa (salva l'eventualità della proroga di quei termini, nei casi delineati dall'art. 305, e salvi altresì i meccanismi di «neutralizzazione» e di sospensione rispettivamente disciplinati negli artt. 297 comma 4° e 304). Nel 1° comma dell'art. 303 è stata prevista una serie di termini «auto-nomi» di durata massima della custodia cautelare in relazione ai diversi stati o gradi del procedimento, e con riferimento a ciascuna di tali fasi i suddetti termini «intermedi» sono stati quantitativamente differenzia-li: ora in funzione della gravità dell'imputazione, ora in funzione della pena applicata in concreto quando vi sia già stata sentenza di condanna. Più precisamente, ai sensi dell'art. 303 comma 1°, per quanto riguarda la fase preliminare, la custodia è destinata a perdere efficacia allorché, dall'inizio della sua esecuzione, e senza che sia stato emesso il decreto 104

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi che dispone il giudizio o l'ordinanza di giudizio abbreviato e art. 438 (ovvero senza che, nel frattempo, sia stata pronunciata la sentenza di applicazione della pena su richiesta), siano decorsi i seguenti termini: a) tre mesi, quando si procede er un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni; b) sei mesi, quando si procede per un delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione superiore nel massimo a sei anni; c) un anno, quando si procede perun_delitto per il quale è stabilita la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a venti anni, oppure per uno dei delitti indicati nell'art. 407 comma 2° lett. a (sempreché per questi ultimi sia prevista la pena del-la reclusione superiore nel massimo a sei anni). Per quanto riguarda la fase del giudizio di primo grado, secondo il rito ordinario, la custodia è destinata a perdere efficacia allorché dal provvedimento che dispone il giudizio (o dalla sopravvenuta esecuzione della custodia stessa), e senza che sia stata pronunciata sentenza di condanna di primo grado, la sua durata abbia superato il termine di sei mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni; ovvero il termine di un anno, quando si procede per un delitto per il quale risulta stabilita la pena della reclusione non superiore nel massimo a venti anni, od ancora il termine di un anno e sei mesi quando si procede per un delitto per il quale risulta stabilita la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a venti anni. Occorre aggiungere, peraltro, che qualora si proceda per uno dei delitti di cui all'art. 407 comma 2° lett. a i termini appena menzionati «sono aumentati fino a sei mesi», con la precisazione che quest'ultimo termine dev'essere imputato al termine previsto per la fase precedente (ove non completamente utilizzato), ovvero ai termini previsti per le fasi successive alla sentenza di condanna in appello, che saranno perciò corri- spondentemente ridotti. Per quanto riguarda, infine, la fase del giudizio abbreviato, la custodia è destinata a perdere efficacia allorché dall'ordinanza con cui sia stato disposto tale giudizio (o dalla sopravvenuta esecuzione della custodia stessa), e senza che sia stata pronunciata sentenza di condanna ai sensi dell'art. 442, la sua durata abbia superato il termine di tre mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni; ovvero il termine di sei mesi, quando si procede per un delitto per il quale risulta stabilita la pena della reclusione non superiore nel massimo a venti anni; od ancora il termine di nove mesi, quando si procede per un delitto per il quale risulta stabilita la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a venti anni. Il criterio è diverso, invece, relativamente alle ulteriori fasi di giudizio, dal momento che, rispetto ad esse, la definizione dei termini massimi intermedi è stata operata facendo riferimento non più alla pena legislativamente prevista per il delitto di cui all'imputazione, bensì alla pena concretamente irrogata in sede di condanna. Così, per quanto riguarda la fase del giudizio di secondo grado, la custodia cautelare è destinata a perdere efficacia allorché dalla pronuncia della sentenza di condanna in primo grado (o dalla sopravvenuta esecuzione della custodia stessa), e senza che sia stata pronunciata sentenza di condanna in appello, sia decorso il termine di nove mesi, se vi è stata condanna alla pena della reclusione non superiore a tre anni; ovvero il termine di un anno, se vi è stata condanna alla pena della reclusione non superiore a dieci anni; od ancora il termine di un anno e sei mesi se vi è stata condanna alla pena dell'ergastolo o del la reclusione superiore a dieci anni. La stessa disciplina si applica, inoltre, nelle fasi di giudizio successive alla pronuncia della sentenza di condanna in grado di appello, e finché la condanna non sia diventata irrevocabile, salva però una importante precisazione, nella quale si riflette un palese (ancorché non irragionevole, date le premesse) affievolimento della presunzione costituzionale di non colpevolezza dell'imputato. In particolare, quando vi sia già stata condanna anche in primo grado (per lo stesso fatto storico, si deve ritenere, secondo la logica della «doppia conforme»), ovvero quando l'impugnazione sia stata proposta esclusivamente dal pubblico ministero, si stabilisce che non debba più farsi riferimento ai termini intermedi di fase, ma che si applichi soltanto» la disposizione dell'art. 303 comma 4°, concernente i termini di durala complessiva della custodia cautelare. Nell'eventualità di regresso del procedimento ad una diversa fase, o di rinvio dinanzi ad un diverso giudice, a partire dalla data del correlativo provvedimento (ovvero dalla sopravvenuta esecuzione della misura di custodia), riprendono a decorrere ex novo i termini stabiliti con riguardo a ciascuno stato e grado del procedimento. E proprio in relazione alla disciplina così integrata si spiega altresì la 105

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi successiva previsione di un termine massimo di «durata complessiva» della custodia – da legger- si anche con riferimento al disposto degli artt. 303 comma 3° e 307 comma 3° (infra, § 21) – che il 4° comma dell'art. 303 individua a tre diversi livelli, così definiti a seconda della gravita dell'imputazione, sulla base della seguente scansione: due anni, quando si procede per un delitto per il qua-le la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni; al di fuori di questi casi, quattro anni, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel massimo a venti anni; ed infine sei anni, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a venti anni ovvero l'ergastolo. Quelli individuati dall'art. 303 comma 4° sono limiti che, nella sistematica del codice, risultano di regola non suscettibili di superamento. 20. Proroga e sospensione dei termini massimi di custodia. Nell'ambito delle deroghe all'ordinaria disciplina dei termini di durata massima della custodia cautelare il codice annovera esplicitamente (oltre a quella appena ricordata, con riferimento al 4° comma dell'art. 297) gli istituti della sospensione e della proroga di quei termini, entrambi riconducibili alle direttive della legge delega (art. 2 n. 61). Quanto alla disciplina della proroga, se si prescinde dall'ipotesi peculiare connessa ex art. 305 comma 1° al compimento di una perizia psichiatrica (ipotesi verificabile «in ogni stato e grado del procedimento», e con riguardo al periodo di tempo «assegnato per l'espletamento della perizia»), l'art. 305 comma 2° ne circoscrive l'operatività alla sola fase delle indagini preliminari. I termini di custodia prossimi a scadere in tale fase possano venire prorogati soltanto in presenza di «gravi esigenze cautelari», le quali, rapportate ad «accertamenti particolarmente complessi», ovvero a nuove indagini disposte ai sensi dell'art. 415- bis comma 4°, rendano «indispensabile» la prosecuzione della custodia. La competenza a provvedere sulla richiesta (con ordinanza, appellabile ai sensi dell'art. 310) è attribuita al giudice per le indagini preliminari. Il quale, dopo avere sentito il pubblico ministero ed il difensore dell'indiziato nell'ambito di un «contraddittorio semplificato ma effettivo» ove ne ricorrano i presupposti potrà concedere una proroga, ed anche rinnovarla «una sola volta», fino al limite rappresentato dalla metà dei termini massimi di custodia previsti per la fase delle indagini preliminari. L'art. 304 configura la sospensione dei termini di durata della custodia cautelare (secondo la nostra tradizione legislativa, peraltro confortata dalla formula impiegata dal legislatore delegante) come fenomeno idoneo a determinare, in certi casi, anche il superamento dei termini fissati dall'art. 303 comma 4° per la durata complessiva della custodia cautelare. A parte questa precisazione, gli interrogativi di maggiore risalto investono la definizione delle fattispecie di sospensione dei termini di custodia previsti dall'art. 303, che l'art. 304 comma. Con riguardo, da un lato, come risulta dalla lett. a, alle ipotesi di sospensione o di rinvio del dibattimento per impedimento dell'imputato o del suo difensore, ovvero dietro richiesta dei medesimi dall'altro, come risulta dalla lett. b, alle ipotesi di sospensione o rinvio del dibattimento a causa della mancata presentazione, dell'allontanamento o della mancata partecipazione di uno o più difensori, qualora ne rimangano privi di assistenza uno o più imputati. Come risulta dalla let. C quella la sospensione dei termini di custodia durante «la pendenza dei termini previsti dall'art. 544 commi 2 e 3» per la redazione differita dei motivi della sentenza (infra, cap VII, § 21). Analogamente, infine, i termini di custodia devono essere altresì sospesi quando le situazioni appena descritte si verifichino nell'ambito del giudizio abbreviato, come risulta dalla lett. c-bis. L'operatività dell'istituto della sospensione dei termini di custodia è stata allargata anche alla fase della udienza preliminare. Le ipotesi di sospensione previste dal medesimo art. 304 comma lett. a e b (anche se «riferite al giudizio abbreviato», com'è stato da ultimo precisato) e comma 4° (tutte riguardanti vicende soggettive riconducibili a singoli imputati) «non si applicano», all'interno del processo cumulativo, nei confronti dei coimputati cui le stesse «non si riferiscono», sempreché questi ultimi chiedano che nei loro confronti si proceda «previa separazione dei processi». Nelle ipotesi di particolare complessità dei dibattimenti o dei giudizi abbreviati relativi ai più gravi delitti, ivi compresi tutti quelli tipici della criminalità organizzata (ci si riferisce a tutti i delitti peri quali l'art. 407 comma 2° lett. a ammette l'allungamento fino a due anni della durata massima delle indagini preliminari), il regime della sospensione ex art. 106

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi 304 possa venire esteso anche ai periodi di tempo, cioè all'intero arco temporale, in cui «sono tenute le udienze o si delibera la sentenza» nella fase del giudizio. Si tratta, per intenderci, di quegli stessi periodi rispetto ai quali l'art. 297 comma 4° prevede invece, di regola - prescindendo dalla natura del dibattimento, e senza esigere alcun adempimento procedurale (retro, § 19) -soltanto il meccanismo della neutralizzazione automatica dei giorni corrispondenti, cioè dei soli giorni di fatto impiegati per tali attività, ai fini del computo dei termini «intermedi». Quando sussistano i presupposti definiti dal 2° comma dell'art. 304, si desume dal successivo 3° comma che la sospensione dei termini di custodia non potrà venire disposta dal giudice ex officio, ma unicamente dietro richiesta del pubblico ministero, e sempre con ordinanza appellabile ex art. 310. Per conseguenza, qualora manchi tale richiesta, o comunque non venga pronunciato il suddetto provvedimento sospensivo, anche nelle situazioni descritte dall'art. 304 comma 2° si verificherà in ogni caso ex lege almeno il menzionato effetto di «congelamento» del decorso dei termini di custodia, nei modi e nei limiti sanciti dall'art. 297 comma 4°. Avendo riguardo alla durata della custodia nelle diverse fasi del procedimento, si stabilisce che — anche nelle ipotesi di sospensione dei termini — tale durata non possa in ogni caso superare il doppio dei termini «intermedi» di fase sanciti dall'art. 303 commi 1°, 2° e 3°, senza comunque tener conto dell'ulteriore termine previsto dall'art. 303 comma 1° lett. b n. 3-bis. Dall'altro, invece, avendo riguardo alla durata complessiva della custodia, si stabilisce che — sempre nelle medesime ipotesi, ed ovviamente presupponendo l'osservanza del limite relativo ai termini di fase — tale durata non possa comunque superare i termini sanciti dall'art. 303 comma 4° «aumentati della metà», ovvero, quando in concreto risulti più favorevole, il tradizionale limite commisurato ai «due terzi del massimo della pena temporanea prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza». Si è ottenuto il risultato di ridurre di molto, rispetto al passato, il «tetto massimo» di potenziale prolungamento della durata della custodia cautelare, in conseguenza del verificarsi di una delle fattispecie sospensive descritte dall'art. 304, con evidenti pericoli di scarcerazioni automatiche. Ed è questa una situazione che risulta particolarmente critica nei casi di regresso del procedimento o di rinvio ad altro giudice rispetto ai quali l'originaria previsione della causa interruttiva del termine intermedio ex art. 303 comma 2° è stata fortemente ridimensionata, se non vanificata, da una recente sentenza costituzionale: per effetto di tale sentenza, infatti, l'intera durata della custodia cautelare presofferta (nelle fasi o nei gradi diversi antecedenti la regressione o il rinvio) dev'essere comulativamente computata ai fini del- l'individuazione del «tetto massimo» di fase di cui all'art. 304 comma 6° (pari al doppio del termine previsto per la «nuova» fase). L'unica deroga alla nuova disciplina dei termini, qual è fissata nel 6° comma dell'art. 304, si ricava dal successivo 7° comma, dov'è previsto che dei «periodi di sospensione» di cui all'art. 304 comma 1° lett. b si tenga conto so-lo nel computo riguardante il limite relativo alla durata complessiva della custodia, e non anche in quello riguardante il limite relativo alle diverse fasi del procedimento, operandosi così, rispetto a quest'ultimo computo, una sorta di «neutralizzazione» dei suddetti «periodi». E poiché alle ipotesi di sospensione, cui si riferisce quest'ultima previsione derogatoria, sono riconducibili tutte quelle provocate dal fenomeno della astensione collettiva dei difensori dalle udienze, è lecito ritenere che attraverso la disposizione in esame il legislatore abbia inteso porre una sorta di freno (non si sa ancora quanto adeguato) al rischio di un uso pretestuoso dello strumento dello «sciopero degli avvocati». La Corte di cassazione ha affermato l'importante principio per cui l'art. 159 comma 1 ° c.p. dev'essere interpretato «nel senso che la sospensione o il rinvio del procedimento o del dibattimento hanno effetti sospensivi della prescrizione, anche se l'imputato non è detenuto, in ogni caso in cui siano disposti per impedimento dell'imputato o del suo difensore ovvero su loro richiesta, salvo quando siano disposti per esigenze di acquisizione della prova o in seguito al riconoscimento di un termine a difesa». 21. I provvedimenti adottabili nei confronti dell'imputato scarcerato per decorrenza dei termini. L'art. 307 detta un'autonoma disciplina circa i provvedimenti adottabili nei confronti dell'imputato «scarcerato» (rectius, liberato) per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare, nella particolare ipotesi che a carico di tale imputato il giudice debba disporre le altre misure cautelari di cui ricorrano i presupposti (con esclusione, 107

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi ovviamente, degli arresti domiciliari, attesa la loro equiparazione alla custodia). Permane che la custodia cautelare debba essere tutta via rinnovata – ove essa risulti necessaria alla stregua dei criteri di adeguatezza e di proporzionalità sanciti dall'art. 275 – allorquando si verifichino due situazioni di specifica rilevanza cautelare: l'ipotesi dell'imputato scarcerato che abbia dolosamente trasgredito alle prescrizioni inerenti ad una delle misure cautelari applicategli in luogo della custodia; l'ipotesi della sopravvenienza a carico del suddetto imputato di una sentenza di condanna di primo o di secondo grado (qualora il medesimo si sia dato alla fuga, ovvero si accerti un concreto pericolo di fuga, nei casi previsti dall'art. 274 comma 1° lett. b. Da notare che, con riferimento a simili ipotesi di ripristino della custodia, l'art. 307 comma 3" si preoccupa di dettare la regola della decorrenza ex novo dei termini relativi alla fase in cui il procedimento si trova (salvo restando il computo della custodia anteriormente subita ai fini del termine di durata complessiva previsto dall'art. 303 comma 4°), e la stessa regola risulta opportunamente sancita dall'art. 303 comma 3° anche con riguardo al caso dell'imputato sottrattosi mediante evasione all'esecuzione della custodia cautelare. Quanto alla situazione dell'imputato scarcerato che, trasgredendo alle prescrizioni della misura cautelare applicatagli in via sostitutiva, ovvero quando ricorra l'ipotesi prevista dal 2° comma lett. b, stia per darsi alla fuga, l'art. 307 comma 4° prevede – per rendere possibile nei suoi con-fronti un intervento coercitivo più immediato – che ufficiali ed \agenti di polizia possano procedere al suo fermo. In proposito viene dettata, inoltre, una particolare normativa per la comunicazione del provvedimento al procuratore della Repubblica presso il tribunale del luogo, al più tardi entro ventiquattro ore. 22. I termini di durata massima delle misure cautelari non custodiale. L'art. 308 opera una distinzione di fondo a seconda che si tratti di misure coercitive ovvero di misure interdittive. Il 1° comma dell'art. 308, con lo stabilire la perdita di efficacia delle misure coercitive diverse dalla custodia cautelare (oltreché dagli arresti domiciliari, ad essa equiparati), a seguito del decorso di un periodo di tempo pari al doppio dei termini previsti dall'art. 303 in rapporto alla custodia. Al contrario, per quanto concerne la durata delle misure interdittive il 2" comma dell'art. 308 fissa in via generale il termine di due mesi, scaduto il quale si prevede che le medesime perdano efficacia, con l'unica eccezione rappresentata dalla possibilità di rinnovazione delle misure disposte pei esigenze probatorie. Si tratta, probabilmente, di un termine troppo rigido, nella sua brevità, per quelle misure interdittive. Ad una simile preoccupazione viene incontro, sia pure soltanto in parte il 3° comma dell'art. 308, enunciando con chiarezza il principio secondo cui la sopravvenuta estinzione delle misure in discorso non può recare pregiudizio all'esercizio dei poteri attributi ex lege al giudice penale o ad altre autorità in materia di pene accessorie, ovvero di misure interdittive di diversa natura. 23. Il procedimento di riesame dei provvedimenti coercitivi dinanzi al tribunale. Alla tematica dei rimedi contro i provvedimenti applicativi delle miusure cautelari (o di alcune di esse) sono anzitutto riconducibili i vari istituti appartenenti alla sfera delle impugnazioni. E per tutti questi mezzi deve ovviamente richiamarsi il principio generale fissato nell'art. 588 comma 2°, per cui le impugnazioni contro i provvedimenti in materia di libertà personale «non hanno in alcun caso effetto sospensivo». In aderenza all'indicazione appena ricordata della delega, lo strumento del riesame nel merito è configurato dall'art. 309 come utilizzabile esclusivamente avverso le ordinanze che abbiano disposto una misura coercitiva, salvo che si tratti di ordinanze emesse dietro appello proposto dal pubblico ministero ai sensi del successivo art. 310. Ricalcando la fisionomia impressa all'istituto dal legislatore del 1982, fin dalla sua prima introduzione nel nostro ordinamento, l'art. 309 attribuisce la titolarità del diritto al riesame soltanto all'imputato, accanto al quale risulta esplicitamente menzionato anche il difensore, salva la previsione per l'uno o per l'altro di un diverso regime di decorrenza del termine di dieci giorni fissato per la proposizione della relativa richiesta (a pena di decadenza, com'è precisato per tutte le impugnazioni in materia di misure cautelari dall'art. 99 disp. att., attraverso il richiamo al disposto dell'art. 585 comma 5°), a norma dei primi tre commi del medesimo art. 309. In forza del successivo comma 3-bis viene, tuttavia, precisato che dal computo del suddetto termine devono escludersi i 108

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi giorni per i quali sia stato disposto ex art. 104 comma 3° il differimento del colloquio tra il difensore e l'imputato detenuto, a dimostrazione dell'importanza attribuita dal legislatore a tale colloquio, in vista della scelta della strategia difensiva di fronte al provvedimento di custodia. Mentre la competenza a decidere sulla richiesta di riesame risulta individuata non più su base provinciale (secondo il testo originario della noi ma), bensì con riferimento al tribunale «in composizione collegiale» del capoluogo del distretto di corte d'appello. La medesima richiesta, per intuibili ragioni di speditezza processuale, debba venire direttamente pro-posta alla cancelleria di quel tribunale, nell'osservanza delle forme stabilite dagli artt. 582 e 583. A seguito dell'«immediato avviso» proveniente dal presidente del tribunale, l'autorità giudiziaria procedente – quindi, nel corso delle indagini preliminari, il pubblico mini- stero – dovrà trasmettere al medesimo tribunale gli atti correlativi «entro il giorno successivo» a quello dell'avviso, e «comunque non oltre il quinto giorno». Al riguardo occorre sottolineare come quest'ultimo termine de ve ritenersi decorrente dal giorno stesso della presentazione della richiesta di riesame insieme a questi atti (corrispondenti a quelli già dedepositati a disposizione del difensore ex art. 293 comma 3°) dovranno veni re altresì trasmessi al tribunale «tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini». Quanto al contenuto della richiesta di riesame, l'art. 309 comma 6° prevede che essa possa – non che debba – recare contestualmente l'enunciazione dei motivi, riconoscendo peraltro, nel contempo, al proponente la facoltà di enunciare nuovi motivi dinanzi al tribunale competente per il riesame, purché ne venga dato atto a verbale prima dell'inizio della discussione. E, tra questi motivi, che potranno riguardare anzitutto i presupposti della misura coercitiva adottata, sia sotto ilprofilo del furcus. commissi delicti (art 273), sia sotto il profilo del periculum libertatis (art. 274), devono ritenersi sempre compresi anche quelli diretti a contestare la sussistenza dei «gravi indizi di colpevolezza». La caratteristica di rapidità coessenziale al procedimento di riesame emerge dall'art. 309 commi 8° e 9°, la dove si prescrive che il tribunale emetta la sua decisione nel termine di dieci giorni dalla ricezione degli atti trasmessigli a norma del 5° comma. Il procedimento di riesame dovrebbe di regola sempre concludersi, al più tardi, nell'arco di quindici giorni da quello in cui la richiesta sia pervenuta alla cancelleria del tribunale competente (20). no ritenersi sempre compresi. In forza del richiamo alle forme previste dall'art. 127 (retro, cap. II, § 9), i soggetti destinatari del predetto avviso hanno diritto di essere sentiti, se compaiono in udienza, di fronte al tribunale investito della richiesta di riesame. Tuttavia per l'imputato detenuto o internato in un luogo posto fuori della circoscrizione del tribunale si stabilisce che, prima dell'udienza, il medesimo debba bensì essere sentito, dietro sua richiesta, ma - almeno di regola - solamente dal magistrato di sorveglianza del luogo. L'esigenza del rispetto del termine di dieci giorni fissato per la decisione sulla richiesta di riesame è, infine, ulteriormente, sottolineata dal 10° comma dell'art. 309, attraverso la tradizionale previsione per cui la misura coercitiva disposta con l'ordinanza assoggettata a riesame deve ritenersi immediatamente caducata. Ed è que- sta, senza dubbio, una ulteriore fattispecie di estinzione automatica delle misure coercitive, da aggiungersi a quelle previste negli artt. 300-308. Quanto al criterio di individuazione della scadenza del suddetto termine deve farsi riferimento alla data di deliberazione del provvedimento da parte del tribunale del riesame, attestata dal deposito in cancelleria del dispositivo e della corrispondente documentazione. L'art. 309 comma 9° definisce anzitutto con maggiore chiarezza rispetto alla disciplina anteriore la tipologia dei provvedimenti adottabili dal tribunale stesso (declaratoria di inanamissibilità della richiesta; annullamento, riforma o conferma dell'ordinanza sottoposta a riesame, cui si dovrà aggiungere, non ostante l'apparente dimenticanza, anche l'ipotesi della revoca). L'ordinanza impugnata potrà venire annullata, ovvero riformata in senso favorevole all'imputato (ad esempio mediante la sostituzione della misura originariamente disposta con una meno grave), anche per motivi diversi da quelli enunciati nella richiesta, o successivamente ad essa. D'altro lato la medesima ordinanza potrà venire confermata (non, invece, riformata in peius), anche sulla base di ragioni diverse da quelle indicate nella sua motivazione. Una sentenza costituzionale, per molti aspetti discutibile, ha notevolmente allargato l'ambito dei poteri di cognizione del tribunale, in sede di riesame, per quanto riguarda il versante del fumus commissi delicti, riconoscendo al medesimo tribunale la possibilità di valutare la sussistenza (o, meglio, la permanenza) dei «gravi indizi di colpevolezza» anche quando, a 109

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi carico dell'imputato, sia già stato emesso il decreto che dispone il giudizio ex art. 429. Nell'art. 425 comma 3° un nuovo criterio decisorio, stabilendo che la sentenza di non luogo a procedere debba venire pronunciata «anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti» o «contraddittori» (in fra, cap. V, § 43). 24. La disciplina dell'appello e del ricorso per cassazione in materia di misure cautelari personali. Definendo l'area di operatività dell'appello attraverso la sua qualificazione come mezzo di impugnazione utilizzabile «contro le ordinanze in materia di misure cautelari personali», ma «fuori dei casi previsti dall'art. 309 comma 1°», l'art. 310 ne delinea chiaramente la fisionomia di strumento residuale rispetto all'ambito oggettivo e soggettivo tipico della richiesta di riesame. In particolare, la cerchia dei provvedimenti suscettibili di appello è individuata con riferimento a tutte le ordinanze in materia di misure cautelari personali (sia coercitive, sia interdittive), diverse da quelle assoggettabili a riesame, mentre la titolarità del relativo potere viene riconosciuta all'imputato, al suo difensore, ed al pubblico ministero: riguardo al quale ultimo si tratterà, ovviamente, del l'unica possibilità di impugnazione nel merito, essendogli precluso lo strumento del riesame. Quanto ai profili procedurali, per quel che riguarda la proposizione dell'appello viene esplicitamente fatto rinvio alle corrispondenti disposizioni dettate in tema di riesame, salva restando la necessità della contestuale enunciazione dei motivi. Viene altresì richiamata la disposizione attributiva della competenza (anche quale organo d'appello) al tribunale del capoluogo del distretto in cui risiede il giudice che abbia emesso l'ordinanza appellata, stabilendosi inoltre elle quel tribunale decida, seguendo il rito camerale previsto dall'art. 127, entro venti giorni dalla ricezione della suddetta ordinanza. Per il resto, deve ritenersi implicito il rinvio alla disciplina generale dell'appello, in quanto non risulti diversamente disposto, a cominciare dalla regola dell'effetto limitatamente devolutivo. Ne deriva, pertanto, che il tribunale investito ai sensi dell'art. 310 vedrà circoscritta la sua cognizione (contrariamente a quanto accade in sede di riesame) esclusivamente ai punti dell'ordinanza appellata cui si riferiscano i motivi tempestivamente proposti. Quando poi il tribunale, accogliendo l'appello del pubblico ministero, abbia disposto una misura cautelare a carico dell'imputato, stabilisce l'art. 310 comma 3° – in ossequio al principio del favor libertatis che l'esecuzione di tale decisione rimanga sospesa, finché la medesima non sia diventata definitiva. Nel disciplinare contestualmente il ricorso per cassazione avverso le ordinanze emesse dal tribunale a seguito di riesame ex art. 309, ovvero a seguito di appello ex art 310, l’art. 311 comma 1° riconosce la relativa titolarità all'imputato, al suo difensore, ed al pubblico ministero (si tratterà, in mancanza di diversa indicazione, del pubblico ministero presso il tribunale), stabilendo che il ricorso debba venire proposto entro dieci giorni dalla notificazione o, rispettivamente, dalla comunicazione dell'avviso di deposito del provvedimento. Tuttavia il 2° comma del medesimo art. 311, introducendo un istituto soltanto da poco «anticipato» all'interno della previgente normativa (art. 23 1. 5 agosto 1988, n. 330), configura la possibile proposizione di un ricorso omisso medio (si veda, al riguardo, la disposizione generale dell'art. 569), là dove autorizza l'imputato ed il suo difensore a ricorrere in cassazione per violazione di legge «direttamente» contro le ordinanze applicative di una misura coercitiva, cioè prescindendo dalla previa richiesta di riesame. La proposizione del ricorso rende di per sé inammissibile quest'ultima richiesta, quantunque eventualmente già presentata. Nell'uno e nell'altro caso di tratta di un ricorso caratterizzato da ritmi temporali piuttosto serrati. Come risulta non solo dalla disciplina della sua presentazione presso la cancelleria del giudice a quo, e dal conseguente meccanismo di trasmissione degli atti (di quelli, si deve ritenere, su cui si sia fondata l'ordinanza impugnata) alla corte di cassazione, da parte dell'autorità giudiziaria procedente («entro il giorno successivo» al l'immediato avviso), bensì anche dalla previsione che impone alla stessa corte di decidere entro trenta giorni dalla ricezione di tali atti, osservando la procedura in camera di consiglio di cui all'art 127 (art. 311 comma 5°), salva per il resto la disciplina generale del ricorso per cassazione. Con riferimento ad entrambe le ipotesi di ricorso si stabilisce specificamente, infine, che i motivi debbano venire enunciati contestualmente al ricorso, riconoscendosi peraltro al ricorrente la facoltà di enunciare nuovi motivi dinanzi alla corte di cassazione, prima dell'inizio della discussione. 110

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25. L'applicazione provvisoria di misure di sicurezza. Quanto alle condizioni di applicabilità provvisoria delle misure in questione (individuate dall'art. 206 c.p. nel ricovero in un riformatorio, ovvero_ in un ospedale psichiatrico giudiziario, ovvero in una casa di cura o di custodia), stabilisce lo stesso art. 312 che esse possano venire disposte dal giudice procedente, in qualunque stato e grado del procedimento, e sempre su richiesta del pubblico ministero, sulla base anzitutto di un presupposto riconducibile all'area del fumus commissi delicti. Occorre, cioè, che sia accertata la sussistenza a carico dell'imputato di «gravi indizi di commissione del fatto», e sia contemporaneamente esclusa la ricorrenza di una delle cause di non punibilità o di estinzione previste dall'art. 273 comma 2° quali «condizioni» negative delle misure cautelari personali. In secondo luogo si richiede altresì che il giudice accerti in concreto la sussistenza dalla «pericolosità sociale» del soggetto contro cui si sta procedendo, in quanto risulti rientrare nell'ambito dei soggetti ai quali testualmente si riferisce l'art. 206 c.p. Tali sono, a parte il minorenne (per il quale dovrà provvedere il competente giudice minorile), l'infermo di mente, o l'ubriaco abituale, ovvero la persona dedita all'uso di sostanze stupefacenti, o in stato di cronica intossicazione da alcool o da stupefacenti. Si desume dall'art. 313 comma 1° che la pronuncia del provvedimento applicativo della misura di sicurezza (destinato ad assumere le forme dell'ordinanza, a norma dell'art. 292) dovrà, di regola, essere preceduta dall'interrogatorio dell'imputato, ove ciò non sia possibile, l'indiziato sottoposto in via provvisoria alla misura di sicurezza dovrà essere interrogato dal giudice per le indagini preliminari non oltre cinque giorni dall'inizio dell'esecuzione della stessa. Tipica causa estintiva di queste ultime misure è, invece, quella già evidenziata dall'art. 206 comma 2° c.p., col prevedere la revoca delle stesse allorquando le persone ad esse sottoposte «non siano più socialmente pericolose». Allo scopo di dare concretezza a questa previsione l'art. 313 comma 2° impone al giudice di procedere anche d'ufficio (oltreché, naturalmente, su richiesta di parte) ad una sorta di periodico riesame circa la «pericolosità sociale» dell'imputato assoggettato a misura di sicurezza, prescrivendogli -nuovi accertamenti» sul punto nei termini fissati dall'art. 72: dunque, al più tardi, allo scadere del sesto mese dalla pronuncia dell'ordinanza (od anche prima, quando se ne ravvisi la necessità), ed analogamente ad ogni successiva scadenza semestrale. E questo vale, tra l'altro, anche nella particolare ipotesi che si verifica ex art. 300 comma 2° quando, trovandosi già l'imputato in stato di custodia cautelare — ed essendo stata pronunciata nei suoi confronti una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere per difetto di imputabilità, accompagnata dal ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario - a seguito dell'estinzione dello status custodiae per effetto di tale sentenza il giudice abbia applicato al medesimo imputato la suddetta misura. di sicurezza in via provvisoria ai sensi dell'art. 312 (retro, § 18). Per il resto, dispone il 3° comma dell'art. 313 che, ai fini delle impugnazioni dei relativi provvedimenti, le misure di sicurezza provvisoriamente applicate vengano equiparate alla custodia cautelare. Si stabilisce, inoltre,quasi a completamento della tendenziale equiparazione di disciplina tra le misure in questione e la a custodia cautelare, che anche nei riguardi delle prime debbono applicarsi «le norme sulla riparazione per l'ingiusta detenzione». 26. La riparazione per l'ingiusta detenzione. In questa prospettiva l'art. 314. ha individuato due diverse fasce di ipotesi di detenzione (più esattamente, di «custodia cautelare», questa essendo l'interpretazione accolta, con evidente possibilità di estensione anche alla misura degli arresti domiciliari), come quelle nelle quali si profilano i presupposti di una situazione di «ingiustizia» rilevante ai fini di una «equa riparazione». La prima fascia è riferita dal 1° comma dell'art. 314 alla situazione dell'imputato che, dopo aver subìto un periodo di custodia cautelare – senza avervi dato causa, per dolo o colpa grave – sia stato prosciolto con sentenza irrevocabile per nonaver commesso il fatto, ovvero perché il fatto non sussiste, o non costituisce reato, ivi comprese le eventualità del fatto compiuto nell'adempimento di 111

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima, od ancora perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. E lo stesso vale, grazie all'ovvia estensione operata dal 3° comma, per quanto riguarda la persona nei cui confronti siano stati pronunciati, al termine delle indagini preliminari, una sentenza di non luogo a procedere, con le medesime formule, ovvero addirittura un provvedimento di archiviazione. Alla disciplina riparatoria dettata nell'art. 314. si affianca, per chiunque sia stato sottoposto a custodia carceraria ovvero agli arresti domiciliari, il riconoscimento ex art. 102-bis disp. att. del «diritto di essere reintegrato nel posto di lavoro» che occupava prima dell'applicazione della misura, e dal quale sia stato licenziato a causa di tale «ingiusta detenzione». Diverse sono, invece, le situazioni ricomprese nella seconda fascia, che il 2° comma dell'art. 314 definisce con riguardo al caso dell'imputato (non importa se successivamente condannato o prosciolto, ovvero destinatario di una delle pronunce previste dal 3° comma) già sottoposto a custodia cautelare nel corso del processo, facendo riferimento alle ipotesi in cui sia stato accertato con decisione irrevocabile che il relativo provvedimento era stato emesso, o mantenuto, senza che sussistessero le «condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280». In ipotesi del genere non viene necessariamente in evidenza un profilo di «ingiustizia» sostanziale della restrizione subita dall'imputato, mentre risulta in re ipsa la sua illegittimità (cioè, per così dire, la sua «ingiustizia» formale). L'istituto della riparazione per l'ingiusta detenzione, così come disciplinato dall'art. 314 commi 1° e 2°, deve ritenersi operante entro gli stessi limiti — anche con riferimento alle ipotesi di detenzione originata da arresto in flagranza o da fermo disposto ex art. 384, non ché alle ipotesi di detenzione originata, nell'ambito di un procedimento di estradizione passiva, da un provvedimento di arresto provvisorio, o di applicazione provvisoria di misura cautelare a carico dell'estradando, in assenza delle «condizioni per una sentenza favorevole all'estradizione». Si esclude la configurabilità di un diritto alla riparazione per quella parte della custodia. cautelare che sia stata computata ex art. 657 ai fini della determinazione della misura di una pena, ovvero per il periodo in cui le relative limitazioni siano state sofferte ex artt, 297 e 298 anche in forza di un altro titolo. Quanto ai profili procedurali, dispone l'art. 315 che la domanda di riparazione (per un ammontare comunque non eccedente un miliardo di lire, pari a euro 516.456, 89) debba essere proposta a pena di inammissibilità, entro due anni dal giorno in cui siano divenute irrevocabili le sentenze rispettivamente previste dal 1° e dal 2° comma dell'art. 314 o sia divenuta inoppugnabile la sentenza di non luogo a procedere, ovvero dal giorno in cui il provvedimento di archiviazione sia stato notificato al soggetto destinatario, tale notifica essendo prescritta (a norma del combinato disposto dei nuovi artt. 315 comma 1° e 409 comma 1°, così come modificati dalla 1. 16 dicembre 1999, n. 479) quando al medesimo soggetto sia stata applicata nel corso del procediinexitoia misura della custodia cautelare. La legittimazione a proporre la suddetta domanda spetta al soggetto interessato, che si trovi in una delle situazioni descritte dall'art. 314 ovvero in casi particolari, anche ai suoi eredi. Per il resto, viene fatto rinvio — nei limiti della loro compatibilità — alle norme sulla riparazione dell'errore giudiziario, previste dagli artt. 643-647. 27. Le misure cautelari reali: a) il sequestro conservativo; b) il sequestro preventivo: c) i rimedi avverso i provvedimenti di sequestro. Il codice ha individuato due diverse specie di misure riconducibili a tale ambito, accomunate dalla finalità cautelare, Da un lato, la classica figura del sequestro conservativo, dall'altro l'inedita figura del sequestro preventivo, entrambe regola affidate alla competenza del giudice di merito – dietro richiesta del pubblico ministero, od anche della parte civile nel primo caso (artt. 317 e 321). a) Circa il sequestro conservativo, la sua funzione rimane tradizionalmente quella di assicurare, attraverso il vincolo posto sui beni mobili o immobili dell'imputato (si suppone, quindi, già esercitata l'azione penale), nonché sulle somme o cose a lui dovute, 112

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi l'esecuzione della sentenza che potrebbe venire emessa, tutte le volte in cui vi sia «fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano» le relative garanzie. Sia sotto il profilo del pagamento della pena pecuniaria, delle spese processuali e delle altre somme dovute all'erario statale, nell'ipotesi di iniziativa del pubblico ministero (art. 316 comma 1°), sia sotto il profilo dell'adempimento delle obbligazioni civili da reato, nell'ipotesi di iniziativa della par-te civile, estensibile anche ai beni del responsabile civile (art. 316 comma 2°). Tra le novità di maggiore rilievo si segnalano quella rappresentata da una più organica disciplina dell'offerta di cauzione – in funzione alternativa ex ante o sostitu- tiva ex post, rispetto al provvedimento di sequestro (art. 319) – e, soprattutto quella relativa alla prevista conversione del sequestro in pignora-mento, quale conseguenza del giudicato di condanna (art. 320). b) Passando alla figura del sequestro preventivo, essa si caratterizza per il suo spiccato finalismo cautelare in quest'ultima direzione. Più precisamente, si stabilisce che, anche prima dell'esercizio dell'azione penale, il giudice, su richiesta del pubblico ministero, debba disporre con decreto motivato il sequestro delle «cose pertinenti al reato» (ivi compre-se, ovviamente, le cose suscettibili di confisca), tutte le volte in cui la libera disponibilità delle stesse possa «aggravare o protrarre» le conseguenze del reato medesimo, ovvero «agevolare la commissione di altri reati» (art. 321 comma 1°), osservandosi al riguardo la normativa di attuazione dettata per il sequestro probatorio (art. 104 disp. att.). Al di fuori di questi presupposti, il sequestro delle «cose di cui è consentita la confisca» è di regola rimesso alla discrezionalità del giudice, mentre diventa obbligatorio nel corso dei procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (art. 321 commi 2° e 2-bis). Durante le indagini preliminari, il sequestro preventivo potrà essere disposto con proprio decreto dal pubblico ministero, ed addirittura potranno procedervi di loro iniziativa, prima dell'intervento di quest'ultimo, anche ufficiali di polizia giudiziaria, salva la necessaria trasmissione al medesimo pubblico ministero del relativo verbale entro quarantotto ore. In ipotesi del genere, comunque, si prevede che il sequestro perda efficacia qualora entro le successive quarantotto ore (dallo stesso sequestro o, rispettivamente, dalla ricezione del verbale) il pubblico ministero non ne abbia richiesto al giudice la convalida e l'emissione del decreto di sua competenza, ovvero qualora il giudice non emetta il suddetto provvedimento di convalida entro dieci giorni dalla ricezione di tale richiesta (art. 321 commi 3-bis e 3-ter). Previsto che la misura venga revocata dal giudice - a richiesta del pubblico ministero - ovvero, nel corso delle indagini preliminari, dallo stesso, pubblico ministero (art. 321 comma 3°) quando si accerti l'insussistenza, anche per fatti sopravvenuti, delle esigenze di prevenzione che l'avevano giustificata. Ci si riferisce, da un lato, all'ipotesi di conversione del sequestro preventivo in sequestro probatorio, tutte le volte in cui il primo, avendo avuto per oggetto «più esemplari identici» della cosa sequestrata (c.d. sequestro «di massa»), abbia perso efficacia a seguito di una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, peraltro impugnata dal pubblico ministero: in situazioni del genere, ove la cosa presenti nondimeno interesse sotto il profilo probatorio, il giudice ordinerà il mantenimento del sequestro a tale scopo su un solo esemplare della stessa, disponendo la restituzione degli altri esemplari (art. 323 comma 2°). Viene in risalto, d'altro l'ipotesi di conversione conseguente alla pronuncia di una sentenza di condanna, ovviamente quando non sia stata disposta la confisca delle cose sequestrate in via preventiva, nel qual caso dovranno rimanere fermi gli effetti del sequestro (art. 323 comma 3°). Al di fuori di questa eventualità e sempreché non permanga l'esigenza cautelare ex art. 321, dovrà essere ordinatala la restituzione di tali cose, ma il giudice potrà disporre la conversione del sequestro preventivo in sequestro conservativo, ove ne sussistano i presupposti. c) Quanto al sistema dei rimedi avverso i provvedimenti di sequestro, esso fa perno anzitutto sullo strumento del riesame, individuato quale tipica impugnazione nel merito, di fronte al tribunale in composizione collegiale sia contro l'ordinanza di sequestro conservativo (art. 318), sia contro il decreto di sequestro preventivo (art. 322), dopo che analoga previsione era già stata dettata con riferimento al decreto di sequestro per finalità probatorie (artt. 257 e 355 commi 3° e 4°). La richiesta di riesame «non sospende l'esecuzione del provvedimento» di sequestro. In tutti questi casi il procedimento di riesame è delineato dall'art. 324 sulla falsariga di quello descritto nell'art. 309 in materia di misure di coercizione personale. Nel caso di contestazione sulla proprietà delle cose se questrate, il giudice del riesame dovrà rimettere la decisione della coni ro versia al 113

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi giudice civile, mantenendo fermo nel frattempo il sequestro. Nel 3° comma dell'art. 324, per quanto riguarda la disciplina della trasmissione degli atti dall'autorità procedente al tribunale, è rimasta ferma la previsione che tale adempimento debba avvenire «entro il giorno successivo» al giorno dell'avviso (senza alcuna modifica del tipo di quella introdotta nel 5° comma dell'art. 309, attraverso l'ulteriore specificazione « e comunque non oltre il quinto giorno», alla quale soltanto si riferisce la nuova fattispecie di caducazione derivante dalla inosservanza del termine così precisato), sembra doversi escludere che dal combinato disposto degli artt. 324 comma 7° e 309 comma 10° possa desumersi la perdita di efficacia del provvedimento di sequestro, nel caso in cui gli atti non vengano trasmessi al tribunale entro il brevissimo termine di cui all'art. 324 comma 3°. Si prevede, infine, che tutte le ordinanze emesse dal tribunale in sede di riesame intorno ai provvedimenti di sequestro siano suscettibili di ricorso per cassazione. Tuttavia si ammette esplicitamente – anche qui sulla scorta della disciplina dettata ex art. 311 comma 2° in materia di misure di coercizione personale – che lo stesso ricorso possa venire altresì proposto «direttamente» contro i medesimi provvedimenti di sequestro, in quanto emessi dal giudice, con la conseguenza che in tal caso il ricorso «rende inammissibile la richiesta di riesame» (art. 325 commi 1° e 2°). A ciò si aggiunga che, fuori dei casi di riesame del decreto di sequestro preventivo previsti dall'art. 322, al pubblico ministero, all'imputato e alle altre persone interessate alle cose sequestrate è comunque riconosciuto il diritto di proporre appello al tribunale, in composizione collegiale, contro le altre ordinanze in materia di sequestro preventivo (ad esempio le ordinanze che abbiano respinto la richiesta di sequestro, ovvero la richiesta di restituzione delle cose sequestrate), nonché contro il decreto di revoca eventualmente emesso dal pubblico ministero, mentre nulla del genere si dice per quanto riguardai corrispondenti provvedimenti in materia di sequestro conservativo (art. 322-bis, ove si esclude l'effetto sospensivo di tale appello, richiamandosi per il resto, in quanto compatibili, le disposizioni dell'art. 310). Naturalmente anche contro le ordinanze emesse dal tribunale in sede di appello è ammesso ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 325 comma 1°.

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Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi CAPITOLO V

INDAGINI PRELIMINARI E UDIENZA PRELIMINARE 1. Premessa. Le indagini preliminari sono l'attività di ricerca e raccolta di informazioni che il pubblico ministero e la polizia giudiziaria, acquisita la notizia che un reato sarebbe stato commesso, svolgono per consentire allo stesso pubblico ministero di assumere «le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale» (art. 326), cioè di decidere se esercitare o non esercitare tale azione. L'azione penale esprime il diritto- dovere del pubblico ministero di ottenere dal giudice l'esercizio della giurisdizione penale e specificamente una pronuncia sulla fondatezza dell'imputazione: cioè del- l'addebito, mosso a taluno dallo stesso organo, di aver commesso un reato. Se le indagini preliminari fanno emergere elementi idonei a sostenere un'accusa in giudizio nei confronti della persona cui è attribuito il reato, al termine di esse il pubblico ministero formula l'imputazione ed esercita l'azione penale nei confronti dell'imputato chiedendone al giudice il rinvio al giudizio della corte d'assise o del tribunale (oppure, come il codice prevede nei libri VI e VIII, promuovendo un giudizio speciale o emettendo il decreto di citazione diretta ex art. 550 davanti al tribunale in composizione monocratica). Se le indagini preliminari non fanno emergere elementi idonei_ a sostenere un'accusa in giudizio e dunque per esercitare l'azione penale, il pubblico ministero chiede al giudice l'archiviazione della notizia di reato e degli atti delle indagini preliminari. Il giudice, richiesto del rinvio a giudizio, svolge l'udienza preliminare per valutare nel contraddittorio delle parti la fondatezza della richiesta. Se la ritiene fondata, dispone con decreto il rinvio dell'imputato al giudizio della corte d'assise o del tribunale (in composizione collegiale, ovvero in composizione monocratica al di fuori dei casi previsti dall'art. 550). Se la ritiene infondata, emette sentenza di non luogo a procedere. Le indagini preliminari sono collocate nel procedimento, e non nel processo (secondo la terminologia accolta dal codice), perché sono svolte da pubblico ministero e polizia giudiziaria prima dell'esercizio dell'azione penale. L'udienza preliminare è, invece, parte del processo, perché è celebrata da un giudice dopo l'esercizio dell'azione penale. 2. Il pubblico ministero. Nelle indagini e nell'udienza preliminare le funzioni di pubblico ministero sono esercitate: a) nei procedimenti per i delitti consumati o tentati di cui agli artt. 416 comma 6°, 600, 602, 416-bis e 630 c.p., per i delitti commessi valendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis o al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste da tale articolo, per i delitti di cui all'art. 74 d.P.R. 30 ottobre 1990, n. 309 ed all'art. 291-quater d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, nonché per i delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo, dal procuratore della Repubblica presso il tribunale sito nel capoluogo del distretto di corte d'appello in cui il giudice, che sarebbe competente a conoscere dei suddetti reati nella fase del giudizio, ha sede (art. 51 commi 3-bis e 3-quater); b) in ogni altro procedimento, dal procuratore della Repubblica presso il tribunale nel cui circondario il reato risulta commesso a norma degli artt. 8-11-bis e 16 (art. 51 comma 3° e, quanto ai reati di competenza della corte d'assise, art. 238 comma 1° disp. att.). c) Il magistrato del pubblico ministero investito delle indagini preliminari può svolgerle personalmente oppure valersi della polizia giudiziaria impartendole direttive per le indagini o delegandole il compimento di specifici atti (artt. 348 comma 3°, 370 comma 1° e 371 comma 1°). Può compie-re atti anche nel circondario di un altro tribunale oppure richiederne il compimento al procuratore della Repubblica presso quest'ultimo. II magistrato richiesto compie gli atti delegatigli e, per ragioni di urgenza o altri gravi motivi, può compiere pure gli atti che il compimento di quelli delegati dimostri essere necessari ai fini delle indagini (art. 370 commi 3° e 4°. I contrasti sono risolti dal procuratore generale presso la corte d'appello o, se le procure in contrasto rientrano in diversi distretti di corte d'appello, dal procuratore generale presso la corte di cassazione. 115

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi Costoro, esaminati gli atti e assunte le necessarie in-formazioni, determinano con decreto motivato, applicando le regole sulla competenza del giudice, quale ufficio del pubblico ministero deve procedere, trasmettono gli atti del procedimento a questo ufficio e comunicano il proprio provvedimento a tutti gli uffici interessati (artt. 54 comma 2° e 54-bis comma 2°). Quando il contrasto ha per oggetto uno dei reati previsti dall'art. 51 comma 3-bis, il procuratore generale presso la corte di cassazione pronuncia sentito il procuratore nazionale antimafia; il procuratore generale presso la corte d'appello informa del provvedimento da lui emesso il pro-curatore nazionale antimafia (art. 54-ter). Anche la persona sottoposta alle indagini che ha avuto notizia del procedimento, come vedremo, a norma degli artt. 335 e 369, la persona offe-sa dal reato che ha avuto tale notizia a norma dell'art. 369 ed i relativi difensori possono chiedere al pubblico ministero procedente di trasmettere gli atti al pubblico ministero presso il giudice che essi ritengono competente depositando nella segreteria della procura della Repubblica che procede una richiesta indicante tale giudice nonché, a pena di inammissibilità, le ragioni della richiesta. Il pubblico ministero investito della richiesta pronuncia entro dieci giorni dalla presentazione della stessa. Ove esso non l'accolga trasmettendo gli atti all'ufficio del pubblico ministero indicato come competente, il richiedente nei dieci giorni successivi può chiedere la determinazione del-l'ufficio competente al procuratore generale presso la corte d'appello o, se l'ufficio ritenuto competente appartiene ad un altro distretto, al procuratore generale presso la corte di cassazione. Il procuratore generale, assunte le informazioni necessarie, entro venti giorni dal deposito della richiesta pronuncia decreto motivato. A pena di inammissibilità la richiesta può essere riproposta solo per fatti nuovi e diversi (art. 54-quater comma 4°). 3. Il giudice per le indagini preliminari e il giudice dell'udienza preliminare. Nelle indagini e nell'udienza preliminare le funzioni di giudice sono esercitate: a) nei procedimenti per i reati elencati nell'art. 51 commi 3-bis e 3-quater, dal giudice per le indagini preliminari del tribunale sito nel capoluogo del distretto di corte d'appello in cui il giudice competente per la fase del giudizio ha sede; b) in ogni altro procedimento, dal giudice per le indagini preliminari del tribunale nel cui circondario il reato risulta commesso a norma degli artt. 8–11-bis e 16 (art. 328 e, quanto ai reati di competenza della corte d'assise, art. 238 comma 1° disp. att.). Di regola uno stesso magistrato svolge le funzioni di giudice nel corso delle indagini preliminari (art. 7ter comma 10 ord. giud.). Tale magistrato non può però tenere l'udienza preliminare nel medesimo procedimento, salvo che nel corso delle indagini preliminari egli si sia limitato ad adottare le autorizzazioni sanitarie, i provvedimenti relativi ai permessi di colloquio, alla corrispondenza telefonica e al visto di controllo sulla corrispondenza, nonché i provvedimenti relativi ai permessi (così come previsti, rispettivamente, dagli artt. 11, 18, 18-ter e 30 ord. penit.), oppure il provvedimento di restituzione in termine di cui all'art. 175 o quello dichiarativo della latitanza ex art. 296 (art. 34 commi 2-bis e 2-ter). Tanto il giudice per le indagini preliminari quanto quello dell'udienza preliminare sono magistrati del tribunale ordinario, che abbiano svolto per almeno due anni le funzioni di giudice del dibattimento (art 7-bis comma 2-bis ord. giud.). Si usa dire che la giurisdizione esercitata dal giudice per le indagini preliminari è: a) una giurisdizione senza azione, perché nel corso di tali indagini e, in caso di richiesta di archiviazione, anche dopo la loro conclusione, viene esercitata senza che il pubblico ministero abbia esercitato l'azione penale; b) una giurisdizione semipiena, perché si limita a pronunciare «nei casi previsti dalla legge, sulle richieste del pubblico ministero, delle parti private e della persona offesa dal reato» (art. 328 comma 1°); c) una giurisdizione di garanzia, perché a richiesta dei soggetti testé elencati il giudice pronuncia nel corso delle indagini preliminari a tutela dei diritti dell'indagato e della persona offesa dal reato nei confronti delle iniziative del pubblico ministero, e dopo la conclusione delle indagini, in caso di richiesta di archiviazione, a garanzia del rispetto del principio di obbligatorietà dell'azione penale.

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Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi 4. I soggetti privati. Anche alcuni soggetti privati sono interessati alle indagini ed all'udienza preliminare: a) la persona sottoposta alle indagini preliminari (art. 61 comma 1°) – talora qualificata anche come «indagato» (art. 415-bis comma 2°) – è colui al quale la commissione di un reato viene attribuita in una notizia di reato e nei confronti del quale il pubblico ministero e la polizia giudiziaria svolgono le indagini preliminari per verificare se elementi idonei a soste-nere un'accusa in giudizio esistono a suo carico. L'iscrizione del nome di tale persona nel registro delle notizie di reato ha valore non costitutivo ma meramente ricognitivo della qualifica di persona sottoposta alle indagini. b) la qualifica di persona sottoposta alle indagini viene meno e la persona che la rivestiva acquista quella di imputato nel momento in cui la commissione del reato è attribuita ad essa in uno degli atti costituenti esercizio dell'azione penale: la richiesta di rinvio a giudizio o la citazione diretta e, nei riti speciali, la richiesta di applicazione della pena a norma dell'art. 447 comma 1°, la richiesta di giudizio direttissimo o il decreto di citazione a tale giudizio, la richiesta di giudizio immediato o di decreto penale di condanna (art. 60 comma 1°). Com'è noto (retro, cap. I, § 21), per quanto attiene alla materia esposta nel presente capitolo, la suddetta persona perde la qualità di imputato nel momento in cui la sentenza di non luogo a procedere, pronunciata nei suoi confronti, diviene non più suscettibile di impugnazione (art. 60 comma 2°). La riacquista nel momento in cui tale sentenza viene revocata (art. 60 comma 3°); c) la persona offesa dal reato (art. 90) o soggetto passivo del reato è il titolare del bene giuridico tutelato dalla norma penale incriminatrice e offeso dal reato. Tale persona, oltre a poter presentare denuncia, querela o istanza di procedimento, può prendere notizia dell'esistenza delle indagini preliminari mediante la richiesta di informazioni circa il contenuto del registro delle notizie di reato (art. 335 comma 3°) o la ricezione dell'informazione di garanzia (art. 369) e, eventualmente dopo aver nominato un difensore (art. 101 comma 1°), può intervenire nelle indagini presentando memorie o indicando elementi di prova al pubblico ministero o al giudice (art. 90 comma 1°) nonché, tra l'altro, partecipando agli accertamenti tecnici irripetibili (art. 360) e all'incidente probatorio (art. 401 comma 3°). Il danneggiato civilmente dal reato, il quale non sia anche persona offesa dal reato, non ha veste per partecipare alle indagini preliminari. d) tanto la persona offesa dal reato quanto i prossimi congiunti del-l'offeso deceduto non possono, se non si costituiscono parte civile, partecipare all'udienza preliminare. Essi possono però prestare il consenso al-l'intervento nelle indagini e nell'udienza preliminare, per esercitarvi le facoltà e i diritti attribuiti alla persona offesa, di un ente o associazione senza scopo di lucro ai quali, prima della commissione del reato per cui si procede, la legge abbia riconosciuto finalità di tutela degli interessi lesi dal reato stesso (artt. 91 e 92); e) colui che ha subito un danno civile dal reato, sia o non sia persona offesa, ed i suoi successori universali possono costituirsi parte civile nel processo penale per ottenere le restituzioni ed il risarcimento del danno dall'imputato (art. 74). La costituzione si attua, dopo che il pubblico ministero ha esercitato l'azione penale, mediante una dichiarazione scritta notificata all'imputato e al pubblico ministero e depositata in cancelleria oppure presentata direttamente all'udienza preliminare insieme con la procura al difensore (artt. 78 e 79 comma 1°). Il pubblico ministero e l'imputato possono opporre alla costituzione di parte civile la richiesta di esclusione di quest'ultima, presentata al giudice a pena di decadenza non oltre l'accertamento relativo alla costituzione delle parti nell'udienza preliminare. Il giudice pronuncia sulla richiesta di esclusione senza ritardo con ordinanza (art. 80 commi 1°, 2° e 4°). f) il danneggiato dal reato costituitosi parte civile può esercitare l'azione per le restituzioni e il risarcimento del danno anche contro il responsabile civile, cioè contro la persona fisica o l'ente che a norma delle leggi civili risponde per il fatto dell'imputato (art. 185 comma 2° c.p.). A questo scopo la parte civile chiede al giudice di citare il responsabile civile per l'udienza preliminare (art. 83 comma 1°). Il responsabile civile può costituirsi in ogni stato e grado del processo depositando nella cancelleria del giudice o presentando in udienza l'apposita dichiarazione con la procura al difensore (art. 84). g) il pubblico ministero e l'imputato possono chiedere al giudice di ordinare la citazione per l'udienza preliminare della persona fisica o giuridica obbligata civilmente per il pagamento della multa o dell'ammenda in caso di insolvibilità del condannato. La citazione e la costituzione di 117

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi tale soggetto sono disciplinate dalle norme sulla citazione e costituzione del responsabile civile in quanto compatibili (art. 89). 5. La notizia di reato. La notizia di reato (o come si suole dire la notitia ciminis) è l'informazione che un reato sarebbe stato commesso da una o più persone non identificate (notizia generica) o identificate (notizia specifica). L'acquisizione di una notizia di reato, sia pur generica, da parte del pubblico ministero o della polizia giudiziaria è indispensabile perché tali organi possano iniziare le indagini preliminari. Nell'ambito della notizia di reato così intesa si distinguono la notizia nominata o tipica o qualificata, cioè disciplinata dalla legge, e la notizia innominata o atipica o non qualificata, cioè non disciplinata dalla legge. La notizia di reato, così come le condizioni di procedibilità (querela, istanza, richiesta) che vedremo svolgere anche la funzione di notizia di reato, costituisce un presupposto del procedimento penale, ma non fa parte di questo, giacché il procedimento inizia con il primo atto d'indagine preliminare compiuto dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria dopo l'acquisizione della notizia. Per tale ragione: a) la notizia di reato e le suddette condizioni di procedibilità non sottostanno al dettato dell'art. 109, per cui, salve le disposizioni a favore delle minoranze linguistiche riconosciute, gli atti del procedimento penale devono essere compiuti in lingua italiana. La notizia di reato e le suddette condizioni di procedibilità sono efficaci anche se redatte in altra lingua; b) i termini eventualmente stabiliti dalla legge per la presentazione della notizia di reato o delle condizioni di procedibilità di cui sopra non sono termini processuali e quindi non sono suscettibili della restituzione prevista dall'art. 175 né della sospensione feriale prevista dall'art. 1 l. 7 ottobre 1969, n. 742. La notizia di reato non è fonte o mezzo di prova del reato. Disposto il rinvio a giudizio dell'imputato, essa resta inclusa nel fascicolo del pubblico ministero. Viene immessa nel fascicolo per il dibattimento solo in quanto costituisca anche una condizione di procedibilità (art. 431 lett. a), ma in tale caso prova soltanto l'esistenza di quest'ultima, non la commissione del reato (art. 511 comma 4°). 6. La notizia nominata. Il codice prevede due notizie nominate di reato: a) la denuncia è la dichiarazione con cui una qualsiasi persona fisica, non esercente una professione sanitaria, porta la commissione di un reato perseguibile d'ufficio a conoscenza del pubblico ministero o della polizia giudiziaria. I pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio, diversi dagli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria (i quali ultimi come vedremo hanno un obbligo di denuncia più ampio) ed esclusi i «responsabili delle comunità terapeutiche socio-riabilitative per fatti commessi da persone tossicodipendenti affidate per l'esecuzione del programma definito da un servizio pubblico» (art. 362 comma 2° c.p.), hanno l'obbligo penalmente sanzionato di fare denuncia dei reati non perseguibili a querela di cui abbiano avuto notizia nell'esercizio o a causa delle loro funzioni o del loro servizio (artt. 361-363 c.p.). I privati hanno analogo obbligo in alcuni casi tassativamente indicati dalla legge: tra l'altro quanto agli «atti o fatti concernenti il delitto, anche tentato, di sequestro di persona a scopo di estorsione» (art. 3 d.l. 15 gennaio 1991, n. 8 convertito con 1. 15 marzo 1991, n. 82) e al furto di armi ed esplosivi (art. 20 comma 3° 1. 18 aprile 1975, n. 110). I cittadini italiani hanno l'obbligo di denunciare i delitti contro la personalità dello Stato puniti con l'ergastolo (art. 364 c.p.). In ogni altro caso il fare denuncia è una facoltà del privato. La denuncia indica gli elementi essenziali del fatto, il giorno in cui l'autore di essa ha avuto notizia del fatto stesso, le fonti di prova già note nonché, se possibile, le generalità, il domicilio e quant'altro possa servire all'identificazione del presunto responsabile, della persona offesa dal reato e delle persone informate dei fatti (art. 332). Il pubblico ufficiale e l'incaricato di pubblico servizio fanno la denuncia per iscritto. Della denuncia anonima non può farsi alcun uso, salvo che essa costituisca corpo del reato o provenga comunque dall'imputato (art. 333). Peraltro si ritiene comunemente che pubblico ministero e polizia giudiziaria possano valersi di essa come presupposto della ricerca ufficiosa della notizia di reato loro prescritta dall'art. 330. Il difensore e gli altri soggetti che vedremo legittimati a svolgere l'inve- stigazione difensiva non hanno l'obbligo della denuncia in rapporto ai reati di cui abbiano preso 118

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi conoscenza nel corso di tali indagini (art. 334-bis); b) il referto è la dichiarazione con cui l'esercente una professione sanitaria (art. 99 r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, t.u. delle leggi sanitarie) porta la commissione di un reato perseguibile d'ufficio, del quale abbia avuto notizia in occasione della prestazione della sua opera, a conoscenza del pubblico ministero o della polizia giudiziaria. La presentazione del referto è un obbligo penalmente sanzionato per gli esercenti una professione sanitaria, salvo il caso in cui il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale (art. 365 c.p.). In tale caso, poiché la legge vuole facilitare a colui, qui in re illicita versatur ed abbia bisogno di cure, l'accesso all'assistenza sanitaria, gli esercenti la professione sanitaria hanno non l'obbligo, ma la facoltà di presentare referto. Questo indica la persona che è stata assistita e, se possibile, le sue generalità, il luogo dove essa attualmente si trova e quant'altro valga ad identificarla, nonché il tempo, il luogo e le altre circostanze dell'intervento del sanitario. Inoltre dà le notizie che servono a stabilire le circostanze del fatto. Anche gli esercenti una professione sanitaria, allorché abbiano l'obbligo di referto, non possono nel procedimento penale invocare il segreto professionale per astenersi dalla testimonianza (art. 200 comma 1°). 7. La notizia innominata. La notizia innominata di reato è costituita da-gli atti o fatti più vari, quali ad esempio la sorpresa in flagranza, la notizia confidenziale, cioè fornita ad un ufficiale o agente di polizia giudiziaria da una persona della quale costui si è impegnato a tenere segreta l'identità, la dichiarazione autoincriminante resa da un testimone nell'esame, e non utilizzabile come prova contro il suddetto a norma dell'art. 63, e finanche la lettura dei giornali. 8. La notizia di polizia giudiziaria. Gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria devono fare denuncia al procuratore della Repubblica dei reati perseguibili d'ufficio di cui abbiano avuto notizia comunque, cioè anche fuori dell'esercizio e non a causa delle loro funzioni (361 comma 2° c.p.). Nella denuncia essi devono indicare gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi raccolti fino a quel momento, il giorno e l'ora in cui hanno acquisito la notizia, le fonti di prova, le attività da essi compiute (delle quali trasmettono la documentazione) nonché, se possibile, le generalità, il domicilio e quant'altro valga all'identificazione del presunto autore del reato, della persona offesa e di quelle che possono riferire sui fatti (art. 347 commi 1°, 2° e 4°). Diversi sono i momenti in cui per gli ufficiali e agenti scatta l'obbligo di tale comunicazione: a) quando la notizia ha per oggetto uno dei reati elencati nell'ari. 407 comma 2° lett. a n. 1-6, ed in ogni caso di urgenza, la comunicazione va data immediatamente, anche in forma orale; b) se, acquisita la notizia, la polizia giudiziaria ha compiuto un atto al quale il difensore dell'indagato aveva diritto di assistere, la comunicazione va data entro quarantotto ore dal compimento dell'atto, salvi i termini particolari stabiliti da altre disposizioni di legge (art. 347 comma 2-bis); c) le denuncie contro ignoti sono trasmesse in elenchi mensili, insieme con gli atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria ai fini del-l'identificazione degli autori dei reati (art. 107-bis disp. att.); d) in ogni altro caso la comunicazione va data senza ritardo (art. 347 comma 1°). 9. Le condizioni di procedibilità. Di regola il pubblico ministero esercita l'azione penale d'ufficio, non appena abbia acquisito, in ordine al reato oggetto di notizia, elementi idonei a sostenere l'accusa in giudizio. Peraltro in alcuni casi eccezionali l'esercizio dell'azione penale è subordinato all'integrazione di una cosiddetta condizione di procedibilità cioè di un atto o un fatto in mancanza del quale, anche se la notizia di reato appare fondata: a) il pubblico ministero non deve esercitare l'azione penale e neppure iniziare le indagini preliminari ma deve chiedere 1' archiviazione del notizia di reato (art. 411). b) se il pubblico ministero comunque esercita l'azione penale, il giudice anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo dichiara con sentenza non doversi procedure. Alcuni casi, in cui l'esercizio dell'azione penale è subordinato ad una condizione di procedibilità, sono previsti dalla Costituzione o da altre norme 119

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi costituzionali. Il codice disciplina quattro condizioni di procedibilità: la querela (artt. 336-340), l'istanza di procedimento (art. 341), la richiesta di procedimento (art. 342) e l'autorizzazione a procedere (artt. 343 e 344). 10. La querela. La querela è la dichiarazione facoltativa con la quale la persona offesa da un reato, la cui perseguibilità la legge appunto subordina a querela, o un altro soggetto agente nell'interesse di costei ex artt. 120 e 121 c.p. manifesta la volontà che il pubblico ministero proceda in ordine al reato stesso (art. 336). a) la querela è presentata, dalla persona offesa dal reato o da altro soggetto legittimatopersonalmente o a mezzo di provuratore speciale, oralmente o per iscritto, al pubblico ministero, ad un ufficiale di polizia giudiziaria o ad un agente consolare all'estero. Se proposta dal legale rappresentante di un ente dotato o privo di personalità giuridica, deve indicare specificamente la fonte del potere di rappresentanza. La querela scritta, purchè con firma autenticata a norma dell'art. 39 disp. att., quindi eventualmente dal difensore nominato nell'atto stesso, può essere anche recapitata tramite un incaricato oppure spedita per raccomandata agli organi sopra elencati. L'autorità che riceve la querela attesta la data e il luogo della ricezione, identifica la persona che la presenta (e che, se la presentazione è orale, deve sottoscrivere il verbale di ricezione), e trasmette il tutto al pubblicoministero (art. 337); b) il curatore speciale per la querela, previsto dall'art. 121 c.p. per l'offeso dal reato minore degli anni quattordici o infermo di mente, il quale non abbia un rappresentante o il cui rappresentante si trovi in conflitto di interesse con lui, è nominato, a richiesta del pubblico ministero o di un ente avente per scopo la cura, l'educazione, la custodia o l'assistenza dei minori. Se il curatore speciale è nominato ai fini della presentazione della querela, il termine per tale presentazione decorre per lui dalla notifica del decreto di nomina. Egli può anche costituirsi parte civile nell'interesse dell'offeso (art. 338); c) la rinuncia espressa a proporre la querela può essere fatta personalmente o a mezzo di procuratore speciale con dichiarazione scritta rilasciata all'interessato o ad un suo rappresentante oppure con dichiarazione orale verbalizzata da un ufficiale di polizia giudiziaria o da un notaio e sottoscritta dal dichiarante. La rinuncia è inefficace se è priva di questa sottoscrizione o è sottoposta a termine o condizione. Essa può essere accompagnata dalla rinuncia all'azione civile per le restituzioni ed il risarcimento del danno (art. 339); d) la remissione della querela è fatta ed accettata, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, nelle forme stabilite per la rinuncia espressa, con dichiarazione resa all'autorità giudiziaria che procede o ad un ufficiale di polizia giudiziaria, quale la trasmette a tale autorità. Le spese del procedimento sono a carico del querelato, salva diversa statuizione nell'atto di remissione (art. 340). 11. L'istanza e la richiesta. L'istanza di procedimento è la dichiarazione facoltativa con la quale la persona offesa da uno dei reati commessi all'estero elencati negli artt. 9 commi 2° e 10 comma 1° c.p. chiede che il pubblico ministero proceda per il reato stesso. La legge esige una tale condizione di procedibilità affinché il costo della celebrazione in Italia di un processo per un reato commesso all'estero sia sopportato solo se l'offeso lo richieda. L'istanza si propone nelle stesse forme stabilite dall'art. 337 per la presentazione della querela (art. 341). La richiesta di procedimento è la dichiarazione discrezionale con cui un organo pubblico estraneo all'organizzazione giudiziaria manifesta la volontà che il pubblico ministero proceda per un determinato reato. 12. L'autorizzazione a procedere. L'autorizzazione a procedere è la dichiarazione discrezionale con cui un organo pubblico estraneo all'organizzazione giudiziaria, a richiesta del pubblico ministero, consente che nei confronti di una determinata persona o in rapporto ad un determinato reato l'autorità giudiziaria proceda penalmente oppure compia taluni atti limitativi di libertà (in quest'ultimo caso si parla più specificamente di autorizzazione ad acta). Il potere di autorizzazione è conferito: a) all'assemblea parlamentare di appartenenza per sottoporre un membro del 120

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi Parlamento a perquisizione personale o domiciliare, ad arre-sto, ad altra limitazione della libertà personale o a mantenimento in detenzione, salvo che il parlamentare sia stato colto nell'atto di commettere un delitto per il quale è obbligatorio l'arresto in flagranza o si debba eseguire nei suoi confronti una sentenza irrevocabile di condanna, nonché ad intercettazione di comunicazioni o sequestro di corrispondenza (art. 68 Cost.); b) all'assemblea parlamentare di appartenenza oppure al Senato (se si procede contro persone appartenenti a camere diverse o non appartenenti ad alcuna camera) per sottoporre il presidente del Consiglio (lei ministri o un Ministro, anche cessati dalla carica, a procedimento penale per un reato ministeriale o per sottoporre i medesimi, in tale procedimento, a misure limitative della libertà personale; c) alla Corte costituzionale per sottoporre un giudice ordinario o aggregato di essa a procedimento penale nonché se il medesimo deve essere «arrestato, o altrimenti privato della libertà personale»; d) al Parlamento europeo per sottoporre un componente italiano di esso agli atti sopra elencati sub a con riferimento ai membri del Parlamento italiano (art. 10 comma 1° lett. a 1. 3 maggio 1966, n. 437); e) al Ministro della giustizia per procedere per i delitti contro la personalita dello Stato elencati dall'art. 313 commi 1°, 2° e 3° c.p.; f) alle assemblee legislative per procedere per il reato di vilipendio delle stesse (art. 313 comma 3° c.p.). L'autorizzazione a procedere è richiesta dalle norme costituzionali o di legislazione ordinaria sopra ricordate: a) nel procedimento per reati ministeriali, perché la camera competente possa escludere il procedimento quando ritenga, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, che «l'inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il persegui mento di un preminente interesse pubblico nell'esercizio della funzione di Governo» (art. 9 comma 3°1. cost. n. 1 del 1989); b) nei procedimenti per reati di vilipendio, per consentire al Ministro della giustizia o all'assemblea offesa di valutare se dare spazio allo Strepitus fori; c) in ogni altro caso perché, a garanzia della libertà di taluni organi pubblici o dei loro componenti, si vuole riservare all'organo stesso la possibilità di valutare se il procedimento penale ha un'apparenza di fondamento o invece presenta il cosiddetto fumus persecutionis. L'autorizzazione è richiesta dal pubblico ministero all'organo legittimato a concederla (art. 343 comma 1°). Fino a quando non venga concessa, non possono essere adottati i provvedimenti previsti dal 2° comma dell'art. 343, salve le deroghe consentite dal successivo 3° comma. La richiesta deve indicare il fatto per il quale il pubblico ministero intende procedere, le norme di legge che si assumono violate e gli elementi sui quali la richiesta medesima si fonda (art. 111 disp. att.). Essa è presentata: i. se vi è stato arresto in flagranza, immediatamente dopo questo e comunque prima dell'udienza di convalida dell'arresto (art. 344 comma 2°); ii. negli altri casi prima, che il pubblico ministero proceda a giudizio direttissimo o presenti la richiesta di rinvio a giudizio o di giudizio imme- diato o di decreto penale di condanna o emetta il decreto di citazione diretta, e comunque entro trenta giorni dall'iscrizione del nome della persona, per la quale l'autorizzazione è necessaria, nel registro delle notizie di reato (art. 344 comma 1°); iii. se la necessità dell'autorizzazione insorge dopo l'esercizio dell'azione penale (tipicamente perché dopo tale esercizio l'imputato è assurto al pubblico ufficio che l'ordinamento tutela con la previsione dell'autorizzazione a procedere nei confronti dei suoi titolari), subito dopo che il giudice ha disposto la sospensione del processo per carenza di tale condizione. In pendenza della sospensione il giudice, se vi è pericolo nel ritardo, assume le prove richieste dalle parti (art. 344 comma 3°). In attesa di essa pubblico ministero e polizia giudiziaria possono compiere qualsiasi atto di indagine preliminare, anche non necessario ad assicurare le fonti di prova, eccettuata – nei confronti della persona per cui l'autorizzazione è prescritta – una serie di atti, quali la perquisizione personale o domiciliare, l'ispezione personale, la ricognizione, l'individuazione, il confronto, l'intercettazione di comunicazioni, il fermo e l'applicazione di una misura cautelare personale. Possono inoltre compiere l'interrogatorio di tale persona solo se la stessa lo richiede (art. 343 comma 2°). Anche gli atti testé elencati possono essere compiuti se l'interessato è stato colto nella flagranza di uno dei delitti enumerati dall'art. 380 commi 1°e 2°. L'autorizzazione è richiesta alla Camera dall'autorità che ha emesso il provvedimento che deve essere eseguito. In attesa dell'autorizzazione l'esecuzione è sospesa (art. 41. 20 giugno 2003, n. 140). Gli atti compiuti in violazione dei divieti statuiti dall'art. 121

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi 343 commi 2° non possono essere utilizzati (art. 343 comma 4°). L'autorizzazione a procedere, una volta concessa, non può essere revocata (art. 343 comma 5°). 13. Il registro delle notizie di reato. Ogni notizia di reato, comprese le condizioni di procedibilità (querela, istanza e richiesta di procedimento) che rechino in sé la prima notizia di un reato, deve essere iscritta in un registro tenuto dalla procura della Repubblica (art. 335 comma 1 °). Se la notizia iscritta è generica, nel registro si iscrivono in seguito il no-me o i nomi delle persone a cui il reato venga attribuito. Nel registro si iscrivono anche, ma a titolo non di nuova iscrizione bensì di mero aggiornamento di un'iscrizione già effettuata, il diverso nomen juris che successivamente sia attribuito al fatto e le circostanze del reato che in seguito vengano ravvisate (art. 335 comma 2°). L'iscrizione deve avere luogo nello stesso giorno in cui la notizia di reato perviene alla procura della Repubblica. Essa comporta: a) se la notizia è generica, la decorrenza del termine di sei mesi entro il quale il pubblico ministero deve chiedere al giudice per le indagini preliminari l'archiviazione della notizia di reato oppure l'autorizzazione a proseguire le indagini contro ignoti (art. 415 comma 1°), nonché la decorrenza del termine di novanta giorni entro il quale il pubblico ministero deve presentare al suddetto giudice la richiesta di giudizio immediato (art. 454 comma 1°); b) se la notizia è specifica o diviene specifica in conseguenza della successiva iscrizione del nome del presunto autore del reato, la decorrenza dei termini entro i quali il pubblico ministero deve chiedere l'autorizzazione a procedere, se prescritta nei confronti di quella persona (art. 344 comma 1°), nonché concludere le indagini preliminari chiedendo al giudice l'archiviazione (art. 408 comma 1°) o il rinvio a giudizio (art. 405 comma 2°) o il decreto penale di condanna (art. 459 comma 1°) oppure presentando la richiesta di giudizio direttissimo nei confronti dell'imputato che nell'interrogatorio ha reso confessione (art. 449 comma l°). I registri delle notizie di reato tenuti dalle procure della Repubblica sono non uno, ma quattro: a) il registro delle notizie di reato a carico di persone ignote, nel quale vengono iscritte le notizie generiche di reato;il registro delle notizie di reato a carico di persone note; b) il registro delle notizie anonime di reato, delle quali l'art. 333 comma 3° vieta l'uso nel processo; c) il registro degli atti non costituenti notizia di reato, nel quale il pubblico ministero registra gli atti che non gli impongono lo svolgimento di indagini preliminari ne la richiesta di archiviazione. 14. L'ispezione del registro. Tuttavia, a garanzia dei diritti di azione e di difesa rispettivamente del-la persona offesa dal reato e di quella sottoposta alle indagini, queste due persone ed i loro difensori possono chiedere al pubblico ministero di comunicare se risulti iscritta una notizia di reato nel registro di cui all'art. 335, il nome della persona alla quale il reato è attribuito e eventuali aggiornamenti dell'iscrizione operati per mutamento della qualificazione giuridica del fatto o per l'emergere di nuove circostanze (sempreché, naturalmente, essi non ne abbiano già avuto conoscenza in forza dell'informazione di garanzia prevista dall'art. 369). A seguito di tale iniziativa, le comunicazioni richieste devono essere fornite, salvo che l'iscrizione abbia ad oggetto uno dei delitti elencati nell'art. 407 comma 2° lett. a. A parte quest'ultima eventualità, il medesimo pubblico ministero può inoltre disporre con decreto motivato, per specifiche esigenze di tutela delle indagini, il segreto sulle iscrizioni per un tempo non superiore a tre mesi e non rinnovabile (art. 335 commi 3° e 3-bis). 15. Le indagini della polizia giudiziaria. La polizia giudiziaria, dopo avere acquisito la notizia di reato ed averla eventualmente comunicata al pubblico ministero a norma dell'art. 347, sino a quando costui non abbia assunto la direzione delle indagini compie di propria iniziativa gli atti di indagine preliminare che risultano necessari a norma dell'art. 55 comma 1° A tali fini la polizia giudiziaria compie sia un'attività formale d'indagine, consistente in atti specificamente regolati dalla legge (art. 348 comma 2° lett. c), sia un'attività informale, cioè non disciplinata specificamente, costituita da atti non implicanti l'esercizio di poteri autoritativi. Nell'ambito delle attività del primo tipo, che la legge per lo più 122

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi subordina all'urgenza o ad altri particolari presupposti e limita nel tempo, si collocano i seguenti atti: a) gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria identificano la persona sottoposta alle indagini e le persone che possono fornire informazioni sui fatti oggetto delle medesime. Nell'identificare l'indagato essi possono compiere rilievi dattiloscopici, fotografici e antropometrici, nonché altri accertamenti, (art. 349 commi 1°-3°); b) gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria accompagnano la persona sottoposta alle indagini o informata dei fatti, la quale rifiuti di farsi identificare o fornisca generalità o documenti di identificazione di cui vi sia ragione per ritenere la falsità, nei propri uffici e la trattengono qui per il tempo strettamente necessario all'identificazione e comunque per non più di dodici ore ovvero non oltre le ventiquattro ore, se l'identificazione risulta particolarmente complessa. Gli ufficiali o agenti informano immediatamente dell'accompagnamento e dell'ora in cui questo è avvenuto il procuratore della Repubblica, il quale, se ritiene che essi abbiano agito in difetto dei presupposti indicati dalla legge, ordina il rilascio della persona accompagnata. c) gli ufficiali di polizia giudiziaria , a condizione che la persona sottoposta alle indagini non sia in stato di arresto o di fermo e che il suo difensore sia presente, acquisiscono sommarie informazioni (c.d. interrogatorio di polizia) dalla stessa persona, con le garanzie previste dall'art. 64. d) gli ufficiali di polizia giudiziaria, sul luogo e nell'immediatezza del fatto, possono acquisire dalla persona sottoposta alle indagini, anche se arrestata o fermata ed anche se il difensore non è presente, notizie utili all'immediata prosecuzione delle indagini; peraltro le dichiarazioni così ottenute, qualora siano assunte senza l'assistenza del difensore, non possono essere documentate in alcun modo, né possono essere utilizzate se non ai fini dell'immediata prosecuzione delle indagini (art. 350 commi 5° e 6°). e) gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria ricevono dalla persona sottoposta alle indagini, anche se arrestata o fermata ed anche in assenza del difensore, le sue dichiarazioni spontanee, cioè non sollecitate da domande. Tali dichiarazioni possono però essere utilizzate in dibattimento solo a norma dell'art. 503 comma 3°, cioè solo per le contestazioni all'imputato che sottostia all'esame, e non anche a norma dell'art. 513 comma 1°, vale a dire se l'imputato resti assente o contumace o rifiuti di sottoporsi al-l'esame (art. 350 comma 7°). Inoltre, una volta contestate, possono essere utilizzate dal giudice solo per valutare la credibilità dell'imputato e non come prova dei fatti dichiarati (art. 503 comma 4°); f) gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria assumono sommarie informazioni dalle persone informate dei fatti osservando quanto gli artt. 197-203 stabiliscono in tema di incompatibilità a testimoniare, obblighi del testimone e facoltà o obbligo di costui di astenersi dal deporre. Se nel corso dell'audizione la persona rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l'ufficiale o l'agente di polizia procedente interrompe l'atto, avverte la persona esaminata che indagini potranno essere iniziate nei suoi confronti e la invita a nominarsi un difensore. g) gli ufficiali di polizia giudiziaria assumono informazioni anche dalle persone indicate nell'art. 210, vale a dire dalle persone indagate o imputate in un procedimento connesso a norma dell'art. 12. o di un reato collegato a norma dell'art. 371 comma 2° lett. b a quello formante oggetto delle indagini. h) nella flagranza del del reato o in caso di evasione gli ufficiali di polizia giudiziaria (se ricorrono particolari circostanze di necessità e urgenza, anche gli agenti: art.113 disp. att.) compiono la perquisizione della personale sulla quale o del luogo nel quale abbiano fondato motivo di ritenere che siano occultate cose o tracce pertinenti al reato che possono essere cancellate o disperse, nonché ove abbiano fondato motivo di ritenere che la persona sottoposta alle indagini o l'evaso si trovi. La polizia giudiziaria trasmette senza ritardo e comunque non oltre le quarantotto ore dal compimento dell'atto il verbale della perquisizione al procuratore della Repubblica del luogo in cui lo stesso è stato compiuto. Il procuratore pronuncia sulla convalida dell'atto entro quarantotto ore dalla ricezione del verbale (art 352 comma 4°); i) gli ufficiali di polizia giudiziaria (in presenza di particolari situazioni di necessità e urgenza, anche gli agenti: art. 113 disp. att.), se vi è pericolo che le cose pertinenti al reato o le tracce di questo si disperdano o si alterino o che lo stato dei luoghi venga mutato e il pubblico ministero non può intervenire tempestivamente o non ha ancora assunto la direzione delle indagini, compiono i necessari rilievi ed accertamenti sullo stato dei luoghi, delle cose e delle persone (peraltro senza sconfinare nell'ispezione personale) e sequestrano il corpo del reato e le cose pertinenti a questo (art. 354). Se tali rilievi o accertamenti comportano il prelievo di materiale biologico, gli ufficiali e agenti procedono a norma 123

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi dell'art. 349 comma 2-bis, cioè previa autorizzazione scritta oppure orale, ma confermata per iscrit to, del pubblico ministero (art. 354 comma 3°). Quando i rilievi egli accertamenti, come del resto qualsiasi altra ope razione compiuta dalla polizia giudiziaria, esigono «specifiche competenze tecniche», i funzionari possono valersi dell'ausilio di persone idonee le quali non possono rifiutare la propria opera (art. 348 comma 4°). L'ufficiale o agente enuncia il motivo del sequestro nel verbale, del quale consegna una copia alla persona cui le cose sono state sequestrate e trasmette un'altra, non oltre quarantotto ore, al procuratore della Repubblica del luogo dove il sequestro è stato compiuto. Entro quarantotto ore dalla ricezione il procuratore della Repubblica con decreto motivato convalida il sequestro oppure ordina la restituzione delle cose sequestrate. Copia del decreto di convalida è immediatamente notificata alla persona cui le cose sono state sequestrate. l) gli ufficiali di polizia giudiziaria trasmettono intatti al procuratore della Repubblica, per il sequestro che questi voglia disporre, i plichi sigillati o altrimenti chiusi che abbiano acquisito. Se hanno fondato motivo di ritenere che gli stessi contengano elementi utili all'individuazione di fonti che potrebbero andare disperse a causa del ritardo, informano con il mezzo più rapido il pubblico ministero, il quale può autorizzarli al-l'apertura immediata (art. 353 commi 1° e 2°); m)gli ufficiali di polizia giudiziaria, i quali rilevano la giacenza in un ufficio postale o telegrafico di lettere pieghi, pacchi, valori, telegrammi o altri oggetti di corrispondenza che «comunque possono avere relazione con il reato» (art. 254 comma 1°), in caso d'urgenza ordinano al preposto all'ufficio di sospendere l'inoltro e avvertono di ciò il pubblico ministero. Se entro quarantotto ore questi non dispone il sequestro, gli oggetti fermati devono essere inoltrati (art. 353 comma 3°); n) se non è possibile attendere l'intervento del pubblico ministero, gli ufficiali di polizia giudiziaria attuano il sequestro preventivo delle cose pertinenti al reato la cui libera disponibilità può aggravare o protrarre le conseguenze di questo oppure agevolare la commissione di altri reati, nonché delle cose suscettibili di confisca (art. 321 commi 1° e 3-bis). 16. Le ulteriori indagini della polizia giudiziaria. Dopo che il procuratore della Repubblica ha assunto la direzione delle indagini, la polizia giudiziaria compie ancora: a) gli atti che le vengono specificamente delegati dal suddetto pubblico ministero (artt. 55 comma 2° e 348 comma 3°), compresi l'interrogatorio e il confronto della persona sottoposta alle indagini, a condizione che costei si trovi in libertà ed il suo difensore presenzi all'atto (art. 370 comma 1°). In ogni atto delegato la polizia giudiziaria osserva le disposizioni che vedremo dettate dagli artt. 364, 365 e 373 per gli atti di indagine preliminare espletati dal pubblico ministero (art. 370 comma 2°); b) gli atti necessari per ottemperare alle direttive di indagine impartite dal pubblico ministero alla stessa polizia giudiziaria (art. 348 comma 3°); c) gli atti non delegati ed estranei a tali direttive che risultano necessari per accertare i reati ovvero sono richiesti dagli elementi successivamente emersi. In quest'ultimo caso la polizia giudiziaria assicura le nuove fonti di prova e informa di esse prontamente il pubblico ministero (artt.327 e 348 comma 3°). In nessun caso la polizia giudiziaria può assumere informazioni dalle persone che le parti del processo hanno indicato come fonti di prova in una richiesta di incidente probatorio nonché, dopo la conclusione delle indagini preliminari, in una richiesta di .integrazione probatoria di cui all'art. 422 comma 2° o in una lista predibattimentale a norma dell'art. 468 oppure ancora dalle persone il cui esame sia stato disposto dal giudice a norma dell'art. 507. 17. Le indagini del pubblico ministero. Acquisita la notizia di reato direttamente o per la comunicazione fattane dalla polizia giudiziaria, il pubblico ministero iscritta la notizia nel registro ex art. 335, svolge le indagini preliminari necessarie a consentirgli di determinarsi in ordine all'esercizio dell'azione penale (art. 326). Esso indaga anche su fatti e circostanze favorevoli all'indagato (art. 358). Nello svolgimento delle indagini preliminari il pubblico ministero: a) compie l'interrogatorio della persona sottoposta alle indagini (art. 364 comma 1°). Quando ha ottenuto dal giudice l'ordinanza applicativa di una misura cautelare, il pubblico ministero può interrogare l'indagato sottoposto a tale misura, a norma dell'art. 294 comma 6°, solo dopo che il giudice abbia svolto l'interrogatorio digaranzia di costui. 124

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi L'interrogatorio dell'indagato detenuto (o perché in custodia cautelare, o per altra causa) condotto dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari è verbalizzato in forma riassuntiva e documentato integralmente, a pena di inutilizzabilità, con la riproduzione fonografica o audiovisiva (art. 141- bis); b) riceve la presentazione spontanea dell'indagato e le conseguenti dichiarazioni spontanee dello stesso. Chi ha notizia che nei suoi confronti sono svolte indagini preliminari ha infatti la facoltà di presentarsi al pubblico ministero e rilasciare dichiarazioni. Se in occasione di tale presentazione il pubblico ministero contesta il fatto all'indagato e lo ammette ad esporre le proprie discolpe, l'atto equivale ad interrogatorio e deve svolgersi a norma degli artt. 64, 65 e 364. c) compie l'esame delle persone informate dei fatti, con il divieto, si-no a che la testimonianza venga assunta o non venga ammessa o comunque non abbia luogo, di escutere persone che un'altra parte processuale abbia indicato come fonti di prova in una richiesta di incidente probatorio o di integrazione probatoria a norma dell'art. 422 comma 2°, in una lista predibattimentale depositata a norma dell'art. 468 o il cui esame sia stato ammesso dal giudice del dibattimento a norma dell'art. 507 (art. 430-bis). Inoltre il pubblico ministero osserva gli artt. 197-203 (art. 362). Pertanto esso: i. avverte la persona esaminata della sua facoltà di non rendere dichiarazioni allorché essa sia un prossimo congiunto della persona sottoposta alle indagini o legata alla medesima persona dagli altri rapporti indica-ti nell'art. 199 comma 3° (art. 199 comma 2°); ii. nei confronti delle persone informate dei fatti che invocano il segreto professionale o d'ufficio compie gli accertamenti necessari; iii. ordina al giornalista di rivelare il nome del suo informatore se la notizia di carattere fiduciario da lui acquisita e indispensabile ai fini della prova del reato; iv. informa il presidente del Consiglio dei ministri dell'intervenuta opposizione del segreto di Stato; v. prende atto della dichiarazione dell'ufficiale o agente di polizia giudiziaria o del dipendente dei servizi per le informazioni e la sicurezza di non voler rivelare il nome del proprio informatore (art. 203). La persona informata dei fatti, la quale esaminata dal pubblico ministero afferma il falso o nega il vero o tace in tutto o in parte ciò che sa in ordine ai fatti su cui è escussa, commette il reato di false informazioni al pubblico ministero, punibile con la reclusione sino a quattro anni. Il pubblico ministero che abbia escusso una persona informata dei fatti può, con decreto motivato da specifiche esigenze attinenti alle indagini, vietarle per un tempo non superiore a due mesi di comunicare a terzi i fatti oggetto di indagine di cui essa ha conoscenza, avvertendola altresì delle conseguenze penali dell'indebita rivelazione di notizie (art. 391-quinquies); d) compie l'esame delle persone indicate nell'art. 210 (art. 363); e) compie il confronto dell'indagato con altri indagati e con le persone informate dei fatti o con quelle indicate nell'art. 210 (art. 364 comma 1°). f) in caso di necessità per l'immediata prosecuzione delle indagini, dispone l'individuazione di una persona, di una cosa odi quant'altro sia suscettibile di percezione sensoriale, anche sottoponendo l'oggetto «in immagine» a chi deve individuarlo e adottando le cautele prescritte dal-l'art. 214 comma 2° se la persona che deve effettuare l'individuazione può essere intimidita o altrimenti influenzata dalla presenza di quella che deve subirla (art. 361). g) dispone con decreto motivato l'ispezione delle persone, delle cose e dei luoghi sulle quali o nei quali ragionevolmente ritenga di poter accertare le tracce e gli altri effetti materiali del reato (artt. 244 e 364 comma 1°); h) compie rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici, accertamenti ed ogni altra operazione tecnica nominando, se tali atti richiedono «spediti che competenze», uno o più consulenti tecnici, i quali non possono rifiutare la loro opera e possono essere autorizzati dal pubblico ministero ad assistere ad atti di indagine (art. 359); i) dispone con decreto motivato la perquisizione personale di colui del quale vi è fondato motivo di ritenere che «occulti sulla persona il corpo del reato o cose pertinenti al reato» (art. 247). In caso d'urgenza dispone per iscritto che la perquisizione di un'abitazione o dei luoghi chiusi adiacenti ad essa sia iniziata in tempo di notte (art. 251 comma 2°). Chiede al giudice l'autorizzazione a disporre l'ispezione, la perquisizione o il sequestro negli uffici dei difensori. Esegue personalmente tali atti, non delegabili alla polizia giudiziaria (art. 103 comma 4°); l) dispone con decreto motivato il sequestro probatorio del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato necessarie per l'accertamento dei fatti (art. 253 comma 1°) anche presso uffici postali e telegrafici (art. 254) e banche (art. 255). Provvede sulla restituzione delle cose sequestrate con decreto motivato, contro il quale gli interessati possono proporre opposizione al giudice (art. 263 commi 4° e 5°); m)chiede al giudice l'autorizzazione a disporre 125

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi l'intercettazione di comunicazioni (art.. 267 comma 1°). Dispone l'intercettazione senza autorizzazione «nei casi di urgenza, quando vi è fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave pregiudizio alle indagini», con decreto motivato che trasmette entro ventiquattro ore al giudice per la convali da (art. 267 comma 2°). n) se l'urgenza non consente di attendere il provvedimento del giudice, dispone il sequestro preventivo con decreto motivato che entro quarantotto ore dall'esecuzione trasmette al giudice per la convalida; o) al fine di compiere gli atti sopra elencati, emette invito all'indagato a presentarsi e decreto di citazione della persona offesa dal reato, delle persone informate sui fatti, delle persone indicate nell'art. 210, del consulente tecnico, dell'interprete e del custode di cose sequestrate, con avvertimento che Io stesso pubblico ministero potrà disporre a norma degli artt. 132 e 133 l'accompagnamento coattivo della persona invitata o citata la quale non compaia senza addurre un legittimo impedimento (artt. 375 e 377). L'invito all'indagato a presentarsi contiene l'indicazione dell'atto al cui compimento l'invito è preordinato e, se tale atto è l'inteiiogatorio, «la sommaria enunciazione del fatto quale risulta dalle indagini fino a quel momento compiute», nonché «ai fini di quanto previsto dall'articolo 453 comma 1°, l'indicazione degli elementi e delle fonti di prova e l'avverti-mento che potrà essere presentata richiesta di giudizio immediato» (art. 375 comma 3°). L'invito a presentarsi va notificato con un anticipo di almeno tre giorni, salvo, in caso di urgenza, un termine minore comunque sufficiente per la comparizione (art. 375 comma 4°). Solo su autorizzazione del giudice il pubblico ministero può disporre l'accompagnamento coattivo dell'indagato per procedere ad interrogatorio o confronto (art. 376); p) nell'esercizio delle sue funzioni dispone dei poteri coercitivi con-feriti al giudice dall'art. 131, sicché può chiedere l'intervento della polizia giudiziaria e, se necessario, della forza pubblica prescrivendo tutto quanto occorre per l'ordinato compimento dei propri atti (art. 378). 18. La documentazione delle indagini. Tutti gli atti d'indagine preliminare compiuti dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero devono essere documentati: l) gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria redigono verbale ai sensi art. 357 comma 2°. Tutti gli altri atti della polizia giudiziaria sono documentati mediante annotazione anche sommaria, secondo le modalità ritenute utili per le indagini (art. 357 comma 1°). L'annotazione indica l'ufficiale o agente che ha operato, il giorno, l'ora e il luogo nonché succintamente il risultato dell'atto, le generalità e le altre indicazioni utili all'identificazione delle persone che hanno reso dichiarazioni o della cui opera la polizia giudiziaria si è valsa (art. 115 comma 1° disp. att.). La polizia giudiziaria trasmette la documentazione dei propri atti al pubblico minister (art. 357 commi 4° e 5°). Trattiene copia dei verbali e delle annotazioni trasmessi (art. 115 comma 2° disp. att.). m) il pubblico ministero redige verbale ai sensi art. 373 commi 1° e 2°. Tutti gli altri atti del pubblico ministero sono documentati mediante verbale redatto in forma sommaria o, se si tratta di atti a contenuto semplice o di limitata rilevanza, mediante annotazione (art. 373 comma 3°). La documentazione degli atti del pubblico ministero è stesa dall'ufficiale di polizia giudiziaria o dall'ausiliario che assiste il pubblico ministero stesso. La notizia di reato, gli atti trasmessi dalla polizia giudiziaria e la documentazione degli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero sono conservati da quest'ultimo nel cosiddetto fascicolo delle indagini (art. 373 comma 5°). 19. La partecipazione del difensore. La persona sottoposta alle indagini non può non avere notizia degli atti che, come il suo interrogatorio, esigono la sua personale partecipazione. Inoltre, nella fase delle indagini preliminari svolte d'iniziativa della polizia giudiziaria, il difensore della persona sottoposta alle indagini deve presenziare all'interrogatorio di costei (rectius all'assunzione di sommarie informazioni ai sensi dell'art. 350 comma 1°) ed ha diritto di presenziare, peraltro senza essere preavvisato del compimento dell'atto, alla perquisizione personale o locale, ai rilievi e accertamenti sullo stato (li persone, luoghi e cose, al sequestro e all'immediata apertura di plichi autorizzata dal pubblico ministero (art. 356). Al fine di assicurare la partecipazione del difensore all'interrogatorio di polizia, l'ufficiale che procede avuta la presenza dell'indagato, lo invita a nominare un difensore di fiducia e se l'indagato non 126

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi provvede, dà avviso dell'atto al difensore il cui nominativo è stato designato dall'ufficio centralizzato previsto dall'art. 97 comma 2° e 3°. Invece l'ufficiale o l'agente di polizia giudiziaria, quando compie un atto al quale il difensore ha diritto di assistere senza essere preavvisato, avverte la persona sottoposta alle indagini, se presente sul luogo, che ha la facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia (art. 114 disP. att.) e, se la cosa non pregiudica il risultato dell'atto, ne attende l'intervento. I verbali degli atti ai quali il difensore dell'indagato deve o può assistere sono depositati entro tre giorni dal compimento dell'atto nella segreteria del pubblico ministero e qui rimangono depositati per cinque giorni, affinché il difensore possa prenderne visione ed estrarne copia. Quando non è stato dato avviso del compimento dell'atto, al difensore è immediatamente notificato l'avviso di deposito e il termine decorre dal ricevimento della notificazione. ll pubblico ministero può con decreto motivato disporre «per gravi motiviti», cioè per tutelare l'efficacia delle indagini, che il deposito venga ritardato «senza pregiudizio di ogni altro diritto del difensore», per non oltre trenta giorni. Nel corso delle indagini preliminari svolte dal pubblico ministero, il difensore dell'indagato ha diritto di presenziare all'interrogatorio ed al confronto del suo assistito, all'ispezione personale, all'accertamento tecnico irripetibile e, senza avere diritto al preavviso dell'atto, alla perquisizione ed al sequestro (artt. 360, 364 comma 1° e 365). Il pubblico ministero, allorché deve compiere un atto al quale il difensore ha diritto di assistere (si noti: «solo» quando deve compiere un atto del genere, non prima), invia alla persona sottoposta alle indagini ed alla persona offesa dal reato una informazione di garanzia recante l'indicazione delle norme che si assumono violate, della data e del luogo del fatto e l'invito a nominare un difensore di fiducia. L'informazione è spedita in piego chiuso raccomandato con ricevuta di ritorno. Il pubblico ministero, se ne ravvisa ab initio la necessità oppure dopo che l'ufficio postale ha restituito il piego per irreperibilità del destinatario, può disporre che l'informazione sia notificata all'indagato a norma dell'art 151 (art.369). Secondo la giurisprudenza, l'informazione di garanzia può essere sostituita da un «equipollente». Il pubblico ministero avvisa il difensore del compimento dell'interrogatorio, dell'ispezione o del confronto cui deve partecipare la persona sottoposta alle indagini con almeno ventiquattro ore di anticipo. Peraltro egli può omettere l'avviso dell'ispezione personale, impregiudicato il diritto del difensore di intervenire comunque all'atto. I motivi della deroga e le modalità dell'avviso devono essere indicati nel verbale a pena di nullità (art. 364 commi 5° e 6°). Accertamento tecnico non ripetibile è disciplinato dall' art 360 comma e seguenti. Questo può essere operato quando l'atto che si va a compiere determina «modificazioni delle cose, dei luoghi o delle persone tali da rendere l'atto non ripetibile» (art. 117 disp. att.). L'autopsia deve sempre compiersi con le garanzie dell'accertamento tecnico non ripetibile (art. 116 disp. att.). Allorché il pubblico ministero ritiene di dover compiere un tale accertamento, la persona sottoposta alle indagini, la persona offesa ed i loro difensori sono avvertiti del tempo e del luogo di conferimento dell'incarico al consulente tecnico del pubblico ministero e della facoltà di nominare propri consulenti tecnici. Se prima del conferimento dell'incarico la per-sona sottoposta alle indagini fa riserva di chiedere al giudice che la prova sia assunta con le forme della perizia in incidente probatorio, il pubblico ministero non può fare luogo all'accertamento tecnico a meno che ritenga che l'atto, in caso di differimento, non sarebbe più compiuto utilmente. Se egli fa espletare l'accertamento tecnico errando nel ravvisare questo presupposto, i risultati dell'atto non possono essere utilizzati in dibattimento (art. 360 commi 4° e 5°). I verbali sono depositati entro tre giorni dal compimento dell'atto nella segreteria del pubblico ministero, dove restano per cinque giorni a disposizione del difensore. Costui, se non ha avuto avviso del compimento dell'atto, riceve avviso del deposito (art. 366). Nel corso delle indagini preliminari i difensori hanno facoltà di presentare memorie e richieste scritte al pubblico ministero (art. 367). Peraltro, a differenza di quanto l'art. 121 comma 2° stabilisce a proposito delle richieste presentate al giudice, l'art. 367 non prevede un obbligo del pubbilico ministero di pronunciare, tantomeno entro un termine prefissato, sulle richieste presentategli dai difensori nella fase delle indagini preliminari.

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Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi 20. L'arresto e il fermo. Nelle indagini preliminari la polizia giudiziaria e il pubblico ministero possono limitare la libertà personale dell'indagato. L'arresto e il fermo, in quanto provvedimenti limitativi della libertà personale adottati da organi non giurisdizionali, sottostanno al dettato dell'art. 13 comma 3° Cost. L'arresto è la restrizione della libertà personale che ufficiali e agenti di polizia giudiziaria dispongono a carico di chi è colto nella flagranza di un reato, cioè di chi «viene colto nell'atto di commettere il reato» (c.d. flagranza propria) oppure «subito dopo il reato è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone ovvero è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima» c.d. flagranza impropria o indiziaria o quasi flagranza). Nel reato permanente lo stato di flagranza dura fino a quando la permanenza non è cessata (art. 382). Gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria hanno il dovere di arrestare chi è colto nella flagranza dei reati elencati nell'art. 380 ed hanno la facoltà (rectius il potere di- screzionale) di arrestare chi è colto nella flagranza dei reati elencati nell'art. 381 commi 1° e 2°. L'arresto discrezionale deve essere giustificato «dalla gravità del fatto ovvero dalla pericolosità, del soggetto desunta dalla sua personalità o dalle circostanze del fatto» (art. 381 comma 4°). Nei casi in cui l'arresto è obbligatorio per la polizia giudiziaria, lo stesso, sempreché si versi in flagranza di un reato perseguibile d'ufficio, è facoltativo per il privato, il quale, se lo esegue, deve consegnare senza ritardo l'arrestato e il corpo del reato alla polizia giudiziaria. Questa redige il verbale della consegna ,e ne rilascia copia al privato (art. 383). Il fermo è il provvedimento limitativo della libertà personale che il pubblico ministero dispone nei confronti di chi non sorpreso in flagranza di un reato, risulta gravemente indiziato di un delitto per il quale la legge stabilisce l'ergastolo o la reclusione superiore nel massimo a sei anni e non inferiore nel minimo a due anni (art. 384 comma 1°). Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria possono operare il fermo prima che il pubblico ministero abbia assunto la direzione delle indagini se ricorrono i presupposti sopra indicati (art. 384 commi 2° e 3°). Tanto l'arresto quanto il fermo sono vietati allorché soggetto abbia agito in presenza di una causa di giustificazione o di non punibilità (art. 385). Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria che hanno effettuato l'arresto o il fermo oppure hanno ricevuto in consegna l'arrestato dal privato: a) avvertono l'arrestato o fermato che egli ha la facoltà di nominare un difensore (art. 386 comma 1°); b) redigono il verbale dell'arresto o del fermo, che deve contenere «l'eventuale nomina del difensore di fiducia, l'indicazione del giorno, del l'ora e del luogo in cui l'arresto o il fermo è stato eseguito e l'enunciazione delle ragioni che lo hanno determinato» (art. 386 comma 3°); c) informano dell'arresto o del fermo a') immediatamente il pubblico ministero del luogo in cui l'alto è stato compiuto (art. 386 comma 1°); b') il difensore di fiducia o quello d'ufficio designato dal pubblico nnniste ro a norma dell'art. 97 (art. 386 comma 2°), c') con il consenso dell'arrestato o fermato, i familiari di costui (art. 387); d) possono, assumere sommarie informazioni utili all'immediata prosecuzione delle indagini (art. 350 commi 5° e 6°); e) liberano immediatamente l'arrestato o fermato se risulta che l'arresto o il fermo è stato effettuato per errore di persona o fuori dei casi previsti dalla legge, informando della liberazione il pubblico ministero del luogo dell'arresto o fermo (art. 389 comma 2°); f) se non dispongono la liberazione, al più presto e comunque non oltre ventiquattro ore dall'arresto o del fermo (a pena di decadenza del provvedimento: art. 386 comma 7°) mettono l'arrestato o fermato a di- sposizione del pubblico ministero conducendolo nella casa circondariale o mandamentale del luogo dell'arresto o fermo. Inoltre trasmettono il verbale dell'arresto o del fermo allo stesso pubblico ministero, salvo che costui autorizzi una dilazione della trasmissione (art. 386 commi 3° e 4°); g) trasmettono il verbale di fermo anche al pubblico ministero che ha disposto la misura, se questo è diverso da quello del luogo in cui la stessa è stata eseguita (art. 386 comma 6°). Il pubblico ministero: a) sino a che l'arrestato o il fermato non sia stato messo a disposizione del giudice, può con decreto motivato per «specifiche ed eccezionali ragioni di cautela» dilazionare l'esercizio del diritto dell'arrestato o fermato di conferire con il difensore (art. 104 commi 3° e 4°); b) previo tempestivo avviso al difensore di fiducia o d'ufficio, può interrogare l'arrestato o fermato informandolo, oltreché della facoltà di non rispondere alle domande diverse da quelle dirette alla sua identificazione; c) dispone immediatamente con decreto motivato la liberazione dell'arrestato o fermato a') se risulta che l'arresto o fermo è stato effettuato per errore di persona o fuori dei 128

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi casi previsti dalla legge, b') se l'arresto o il fermo è divenuto inefficace perché l'arrestato o fermato non è stato eseguito regolarmente (artt. 389 comma 1° e 390 comma 3°) e (art. 121 comma l° disp. alt.); d) ove non ordini la liberazione, entro quarantotto ore dall'arresto o fermo (come abbiamo testé detto, a pena di decadenza della misura) chiede la convalida del provvedimento al giudice per le indagini preliminari del luogo in cui lo stesso è stato eseguito (art. 390 comma l°). Con la richiesta trasmette al giudice il decreto di fermo, il verbale di arresto o fei mo e la documentazione che l'arrestato o fermato è stato tempestivamente condotto nel luogo di custodia (art. 122 disp. att.); e) ove non intenda partecipare all'udienza di convalida, fa pervenire al giudice le proprie richieste in ordine alla libertà personale dell'arrestato o fermato e gli elementi su cui queste si fondano (art, 390 comma 3-bis). Il giudice per le indagini preliminari: l) fissa l'udienza di convalida entro quarantotto ore dalla richiesta di convalida dandone avviso al pubblico ministero, al difensore (art. 390 comma 2°) nonché all'arrestato o fermato già liberato a norma dell'art. 121 comma l ° disp. att. (art. 121 comma 2° disp. att.); m) all'udienza, che si svolge in camera di consiglio con la presenza necessaria del difensore, nomina a norma dell'art. 97 comma 4° un sostituto del difensore non reperito o non comparso (art. 391 commi l° e 2°). Sente il pubblico ministero, se comparso. Quindi interroga l'arrestato o fermato, se comparso, e sente il suo difensore (art. 391 comma 3°). Pronuncia sulla richiesta di convalida, adottan- do il relativo provvedimento se l'arresto o il fermo risulta legittimo e poli-zia giudiziaria e pubblico ministero hanno osservato i termini previsti dagli artt. 386 comma 3° e 390 comma 1° (art. 391 comma 4°). L'arresto o il fermo perde efficacia se l'ordinanza di convalida non è pronunciata entro, quarantotto ore da quando l'arrestato o fermato fu messo a disposizione del giudice (art. 391 comma 7°); n) convalidato o non convalidato l'arresto o il fermo a richiesta del pubblico ministero dispone con ordinanza la misura cautelare personale della quale ravvisi i presupposti. Le ordinanze sulla convalida e sulla misura catetelare sono lette in udienza, e in tale caso comunicate al pubblico ministero e notificate all'arrestato o al fermato se non comparsi oppure sono pronunciate fuori udienza e comunicate e notificate ai soggetti di cui sopra. I termini per impugnarle decorrono dalla lettura in udienza o dalla comunicazione o notificazione (art. 391 comma 7°). 21. L’incidente probatorio. Il legislatore si è rappresentato l'eventualità che nel corso delle indagini preliminari debbano compiersi atti di acquisizione probatoria sicuramente o prevedibilmente non ripetibili in dibattimento,ed il cui risultato non potrà essere sottratto alla cognizione del giudice del giudizio. Per tale eventualità esso ha previsto l'incidente probatorio, destinato appunto a consentire, davanti al giudice per le indagini preliminari (o anche, come si vedrà, dell'udienza preliminare) l'assunzione nel rispetto del contraddittorio di prove destinate ad avere piena efficacia nella fase del giudizio. L'incidente probatorio può essere espletato per assumere: a) una testimonianza; b) l'esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la responsabilità di altri; c) l'esame delle persone indicate nell'art. 210; d) il confronto fra le persone testé elencate sub a, b, c (testimoni, persone sottoposte alle indagini su fatti concernenti la responsabilità di altri, persone già esaminate dal pubblico ministero o in un precedente incidente probatorio, se esse hanno reso dichiarazioni divergenti su circostanze importanti e, trattandosi di confronto fra testimoni, sussiste una delle situazioni di cui sub a; e) una perizia o un esperimento giudiziale riguardanti una persona, una cosa o un luogo soggetti ad una modificazione non evitabile, oppure una perizia la cui effettuazione in dibattimento potrebbe determinare la sospensione di quest'ultimo per un tempo superiore a sessanta giorni; f) una ricognizione, che per ragioni d'urgenza non può essere rinviata al dibattimento; g) la testimonianza di una persona minore degli anni sedici in un procedimento per i reati contro la personalità individuale o la liberi i sessuale previsti dagli arti. 600, 600-bis, 600-ter (anche se relativo al materiale pornografico di cui all'ari. 600-quater.1), 600-quinques, 601, 602, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinques e 609-octies c.p. (art. 392). L'incidente probatorio può essere richiesto al giudice per le indagini preliminari dal pubblico ministero o dalla persona sottoposta alle indagini, fino al termine delle indagini preliminari, salvi i successivi ampliamenti alla fase dell'udienza preliminare operati dalla giurisprudenza costituzionale. Con 129

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi riferimento alla fase delle indagini, a norma dell'art. 393 comma 4° i soggetti legittimati a promuovere l'incidente possono chiedere, ai fini della sua esecuzione, la proroga dell'ordinario termine delle indagini stesse. Quanto alla persona offesa dal reato, essa non è legittimata come tale all'iniziativa incidentale ma può sollecitare il pubblico ministero a chiedere l'incidente. Il pubblico ministero, se non accoglie la sollecitazione, pronuncia un decreto motivato che deve essere notificato all'offeso (art. 394). La richiesta di incidente probatorio deve indicare a pena di inammissibilità quanto dettato dall’art. 393. La richiesta è depositata nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari o dell'udienza preliminare con le cose e i documenti ritenuti pertinenti. Quella proposta dal pubblico ministero nei procedimenti per i sopra elencati reati contro la personalità individuale o la libertà sessuale è depositata con la documentazione di tutti gli atti di indagine compiuti fino a quel momento (art. 393 comma 2-bis). Il richiedente fa notificare la richiesta a seconda dei casi al pubblico ministero o alle persone nei cui confronti si procede per i fatti oggetto di prova, e deposita in cancelleria la prova della notificazione (art. 395). Secondo l'insegnamento della Corte costituzionale, la richiesta di incidente probatorio proposta dal pubblico ministero va notificata anche al difensore della persona sottoposta alle indagini. Entro due giorni dalla notifica, i destinatari di questa possono depositare in cancelleria le loro deduzioni. La persona sottoposta alle indagini deve depositare le proprie deduzioni anche nella segreteria del pubblico ministero (art. 396). Entro due giorni dalla notifica della richiesta di incidente probatorio proposta dalla persona sottoposta alle indagini, il pubblico ministero può chiedere al giudice il differimento dell'incidente se «la sua esecuzione pregiudicherebbe uno o più atti di indagine preliminare». La richiesta di differimento è disciplinata dall'art. 397 commi 1° e 2°. Il giudice pronuncia sulla richiesta di incidente decorsi due giorni dalla notifica della stessa (art. 398 comma 1.°) L'ordinanza di accoglimento è disciplinata dall'art. 398 comma 2°. L'ordinanza che invece dispone il differimento fissa l'udienza per l'incidente probatorio non oltre il tempo strettamente necessario al compimento dell'atto o degli atti di indagine che devono essere tutelati, ed è immediatamente comunicata al pubblico ministero e notificata per estratto alle persone nei cui confronti si procede per i fatti oggetto della prova. La richiesta e l'ordinanza di differimento sono depositate solo all'udienza destinata all'incidenteprobatorio (art. 397 comma 4°), affinché durante il tempo del differimento l'indagato non abbia contezza degli atti di indagine che il pubblico ministero si propone di compiere e che l'immediato svolgimento dell'incidente avrebbe potuto pregiudicare. Premesso che, se si devono espletare più incidenti, questi sono assegnati ad una stessa udienza sempreché il cumulo non comporti ritardo (art. 398 comma 4°) e che, quando l'incidente deve essere compiuto nella circoscrizione di un altro tribunale, il giudice procedente può per ragioni d'urgenza delegarne l'espletamento al giudice per le indagini preliminari di tale tribunale (art. 398 comma 5°), sono previsti adempimenti tipicamente diretti alla instaurazione del contraddittorio. Più precisamente, il giudice con almeno due giorni di anticipo la comunicare al pubblico ministero e notificare alla persona sottoposta alle indagini, all'offeso dal reato e ai relativi difensori l'avviso di giorno, ora e luogo in cui l'incidente si svolgerà. Ai soggetti testé elencati, diversi dal pubblico ministero, è inoltre notificato l'avvertimento che nei due giorni precedenti l'udienza essi possono rendere visione e estrarre copia delle dichiarazioni già rese dalla persona che dovrà essere esaminata (art. 398 comma 3°). Allo stesso scopo, ma in termini assai più ampi si prevede che la persona sottoposta alle indagini ed i difensori abbiano diritto di ottenere copia di tutti gli atti di indagine già depositai a norma dell'art. 393 comma 2-bis (art 398 comma 3-bis) . L'udienza per l'incidente probatoriosi svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del pubblico ministero e del difensore della persona sottoposta alle indagini. Se il difensore non compare, il giudice nomina un sostituto (art. 401 commi 1° e 2°). Il difensore della persona offesa dal reato ha diritto di assistere all'udienza e di chiedere al giudice di rivolgere domande alle persone esaminate. L'indagato e l'offeso hanno diritto di assistere se si deve escutere una persona; negli altri casi possono assistere se autorizzati dal giudice (art. 401 comma 3°). Le prove sono assunte con le forme previste per l'assunzione dibattimentale (art. 401 comma 5°). L'assunzione della prova non può essere estesa a fatti riguardanti persone i cui difensori non presenziano all'incidente, né si possono verbalizzare dichiarazioni che le coinvolgano (art. 401 comma 6°). Se il pubblico ministero o il difensore della persona sotto-posta alle indagini 130

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi chiede che la prova si estenda a fatti o dichiarazioni concernenti tali persone, il giudice, sempreché il rinvio dell'udienza non pregiudichi l'assunzione della prova, dispone la notifica prevista dall'art. 398 comma 3° alle persone stesse (art. 402). Le prove assunte in incidente probatorio sono utilizzabili solo nei confronti dell'imputato il cui difensore abbia partecipato alla loro assunzione anche se al momento di questa il suddetto non fosse ancora indiziato, salvo che nel momento di insorgenza dell'indizio, la ripetizione dell'atto fosse divenuta impossibile (art. 403). La sentenza basata su una prova assunta in un incidente probatorio, al quale il danneggiato dal reato non sia stato posto in condizione di partecipare, non fa stato nel giudizio civile di risarcimento, salvo che il danneggiato l'abbia accettata anche tacitamente (art. 404). 22. Gli altri interventi del giudice. Il giudice per le indagini preliminari svolge vari interventi nel corso tali indagini. Tra l'altro: a) anche fuori dei casi in cui è chiamato a pronunciare sulla convalida di arresto o fermo, provvede in tema di adozione, modifica, revoca e sostituzione delle misure cautelari personali (artt. 291 comma 1°, 299 commi 1° e 2°). Inoltre provvede sull'applicazione provvisoria di misure di sicurezza (artt. 312 e 313) nonché sulla richiesta del pubblico ministero di dilazionare, per «specifiche ed eccezionali ragioni di cautela» e per non più di cinque giorni, l'esercizio del diritto dell'indagato detenuto di conferire con il proprio difensore (art. 104); b) dichiara ed eventualmente rimuove l'incompatibilità della difesa di più indagati o di più dichiaranti a carico della medesima persona da parte di uno stesso difensore (art. 106 comma 4°); c) dispone il sequestro preventivo (art. 321 comma 1°); d) provvede, in seguito a trasmissione da parte del pubblico ministero, sulla richiesta di sequestro probatorio proposta da un interessato al pubblico ministero e disattesa da questo (art 368); e) autorizza il pubblico ministero a disporre ed eseguire l'ispezione, la perquisizione ed il sequestro negli uffici dei difensori (art. 103 comma 4°); f) provvede in tema di autorizzazione, convalida e proroga dell'intercettazione di comunicazioni (art. 267 commi 1°-3°), differimento e proroga del deposito dei relativi verbali e registrazioni (art. 268 commi 4° e 5°), acquisizione, stralcio e trascrizione delle registrazioni (art. 268 commi 6° e 7°). 23. L'investigazione difensiva: la ricerca delle prove personali. Pure i difensori delle parti private, e finanche della semplice persona offesa o dan- neggiata dal reato e di colui che potrebbe assumere nel processo la veste di responsabile civile o di civilmente obbligato per la pena pecuniaria, possono svolgere investigazioni per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito. Ciascun difesore può svolgere l'indagine personalmente o tramite un sostituto, un investigatore privato autorizzato o un consulente tecnico (art. 327-bis commi 1°, 3°). Nello svolgimento dell'indagine difensiva il difensore può acquisire dichiarazioni dalle persone informate dei fatti e da quelle coindagate o coimputate nello stesso procedimento o in un procedimento conesso, o per un reato collegato (art. 391-bis commi 1° e 5°). Sono sottratte a tale possibilità di escussione: a) le persone incompatibili alla testimonianza a norma dell'art. 197 lett. c e d; b) le persone alle quali il pubblico ministero, dopo averle sentite come persone informate dei fatti a norma dell'art. 362, abbia vietato, con decreto motivato da specifiche esigenze delle indagini e per un tempo non superiore a due mesi, di comunicare a terzi i fatti e le circostanze oggetto d'indagine, avvertendole della responsabilità penale in cui incorrerebbero in caso di violazione del divieto (art. 391-quinquies); c) le persone il cui esame sia stato chiesto da una parte in incidente probatorio, in sede di integrazione probatoria nell'udienza preliminare o nella lista predibattimentale presentata a norma dell'art. 468 oppure sia stato ammesso dal giudice a norma dell'art. 507. Inoltre il difensore: a) per conferire con una persona detenuta deve procurarsi l'autorizzazione del giudice che procede nei confronti di essa; b) perconferire con i coindagati o coimputati nello stesso procedimento o in un procedimento connesso o per un reato collegato deve avvertire con almeno ventiquattro ore di anticipo il loro difensore, il quale deve presenziare al colloquio; c) alle persone che siano già state sentite dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero a norma degli artt. 351, 362 e 363 non può chiedere notizie sulle domande loro formulate da tali organi e sulle risposte che essi hanno dato alle stesse (artt. 351 131

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi comma 1° e 362 comma 1-bis). Il difensore può avere con la persona un semplice colloquio non documentato, oppure, ma a ciò possono procedere solo il difensore ed il suo sostituto (non l'investigatore privato ed il consulente tecnico), ricevere da essa un a dichiarazione scritta o svolgerne un esame documentato. In ognuna delle menzionate ipotesi il difensore preliminarmente avverte la persona ai sensi dell'art 391-bis, comma 3°. I difensore interrompe interrompe tanto il colloquio informale quanto l'acquiszione della dichiarazione scritta, quanto ancora l'esame documentato (tutti atti ai quali l'indagato, la persona offesa dal reato e le altre parti private del processo non possono assistere) non appena la persona esaminata, la quale non sia indagata né imputata, renda dichiarazioni da cui emergono indizi di reità a suo carico. In tale caso le precedenti dichiarazioni rese dalla persona non possono essere utilizzate nei suoi confronti (art. 391-bis comma 9°). Se la persona esaminata rilascia una dichiarazione scritta, la sua firma in calce a questa è autenticata dal difensore (art. 391ter). Le dichiarazioni orali o scritte, acquisite dal difensore a) senza la previa formulazione degli avvertimenti prescritti, b) trattandosi di coindagato o coimputato nello stesso procedimento o in un procedimento connesso o di un reato collegato, in assenza del difensore di costui, e) in violazio ne del divieto di interrogare la persona esaminata sulle domande eventualmente fattele dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero e le risposte date da essa, non possono essere utilizzate. L'omissione degli avvertimenti di cui sopra e la violazione degli altri doveri del difensore costituiscono illeciti disciplinari di costui, dei quali il giudice procedente dà comunicazione al titolare del relativo potere sanzionatorio (art. 391-bis comma 6°). Quando una persona, invitata a fornire informazioni, non abbia accettato il contatto con il difensore oppure abbia dichiarato di volersi avvalere della facoltà di non rispondere, il difensore che svolge l'indagine può alternativamente: l) chiedere al pubblico ministero di compiere l'esame della suddetta, se essa è una persona informata dei fatti e non un coindagato o coimputato nello stesso procedimento o in un procedimento connesso o per un reato collegato; Il pubblico ministero fissa l'esame entro sette giorni dalla richiesta dandone avviso al difensore richiedente, il quale deve intervenire e per primo formula le domande (art. 391-bis comma 10°); m)chiedere al giudice per le indagini preliminari di svolgere l'esame della suddetta persona in incidente probatorio anche se non ricorrono i casi previsti dall'art. 392. L'audizione in incidente probatorio può essere richiesta nei confronti tanto della persona informata dei fatti quanto di quella coindagata o coimputata nello stesso procedimento o in un procedimento connesso o per un reato collegato (art. 391-bis comma 11°). 24. Segue: la ricerca delle prove reali. Quanto alle indagini sulle cose il difensore: a) può chiedere alla pubblica amministrazione, che ha formato o comunque detiene stabilmente un documento, di avere visione o estrarre copia dello stesso a proprie spese. Se l'amministrazione non accoglie la richiesta, si applicano gli artt. 367 e 368, cioè il difensore può chiedere al pubblico ministero di disporre il sequestro del documento. (art. 391-quater); b) può accedere ai luoghi privati o non aperti al pubblico che presentino un interesse per il procedimento, compresi, quando sia necessario accertare le tracce e gli altri effetti materiali del reato, i luoghi di privata abitazione e le loro pertinenze. Se chi ha la disponibilità del luogo rifiuta l'accesso, il difensore può chiedere l'autorizzazione all'accesso al giudice. La persona presente sul luogo è avvertita della facoltà di farsi assistere da una persona di sua fiducia purché idonea a norma dell'art. 120 (artt. 391-sexies e septies); c) può compiere atti irripetibili ai quali il pubblico ministero ha facoltà di presenziare personalmente o tramite la polizia giudiziaria (art. 391-decies commi 2° e 3°). Dell'accertamento tecnico irripetibile il difensore deve avvertire senza ritardo il pubblico ministero, il quale può esercitare le facoltà previste dall'art. 360, in quanto compatibile (art. 391-decies comma 3°); d) prima che l'azione penale sia esercitata, può chiedere al pubblico ministero di autorizzare il consulente tecnico della difesa ad intervenire al-le ispezioni e ad esaminare l'oggetto delle ispezioni alle quali non è inter-venuto nonché le cose sequestrate nel luogo in cui queste si trovano. Contro il decreto del pubblico ministero che nega l'autorizzazione il difensore può proporre opposizione al giudice, il quale decide a norma detrai t. 127. Dopo che l'azione penale è stata esercitata, il difensore chiede l'autorizzazione direttamente al giudice. L'organo che concede 132

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi l'autorizzazione impartisce le prescrizioni necessarie per la conservazione dello stato dei luoghi e delle cose ed il rispetto delle persone (art. 233 commi 1-bis. e 1-ter). 25. Segue: l'utilizzazione dei risultati dell'indagine. Il difensore di regola e libero di utilizzare o non utilizzare nel processo, e quindi di portare o non portare a conoscenza del pubblico ministero o del giudice, i verbali e gli altri risultati dell'indagine difensiva svolta. Le sole eccezioni a questa regola sono costituite dai verbali degli accertamenti tecnici e degli altri atti irripetibili ex art. 391-decies comma 3°, dei quali atti il difensore se vuole conservare la possibilità di utilizzarne i verbali nel processo, deve dare preavviso al pubblico ministero. Fatto ciò i relativi verbali sono acquisiti dal pubblico ministero e quindi, poiche im messi nel fascicolo delle indagini, conosciuti dal giudice. Fuori di questi casi il difensore può presentare i risultati dell'indagine difensiva che consideri favorevoli al proprio assistito, al pubblico ministero. Può anche presentarli direttamente al giudice per le indagini preliminari, il quale li inserisce in un fascicolo del difensore tenuto presso il proprio ufficio Il pubblico ministero può prendere visione ed estrarre copia dei documenti contenuti in tale fascicolo solo prima che il giudice per le indagini preliminari adotti una decisione su richiesta di parte o con l'intervento delle parti. Dopo la chiusura delle indagini preliminari il fascicolo del difensore viene inserito in quello delle indagini (art. 391- octies). Si vedrà che, disposto il rinvio a giudizio: a) i documenti delle dichiarazioni acquisite nel corso dell'indagine difensiva sono inseriti nel fascicolo del pubblico ministero e possono essere utilizzati dalle parti in dibattimento a norma degli artt. 500, 512 e 513; b) i verbali degli atti irripetibili compiuti dal difensore in occasione dell'accesso ai luoghi, sempreché il pubblico ministero vi abbia assistito anche tramite la polizia giudiziaria, i verbali degli accertamenti tecnici irripetibili e, su accordo delle parti, qualsiasi altro documento dell'indagine difensiva sono inseriti nel fascicolo per il dibattimento e possono essere letti in dibattimento a norma dell'art. 511 (artt. 391-decies, 431 comma 2°, 493 comma 3°). 26. Segue: le ulteriori indagini. Oltreché in pendenza delle indagini preliminari, il difensore può svolgere l'indagine difensiva testé descritta. a) ancora prima dell'inizio di un procedimento penale, purché abbia ricevuto dalla persona assistita un mandato ad indagare contenente la no-mina di lui come difensore, l'indicazione dei fatti ai quali il mandato si riferisce e la sottoscrizione della suddetta persona autenticati dal difensore. Prima dell'inizio di un procedimento penale il difensore che svolge l'indagine difensiva non può però compiere gli atti di indagine che presuppongono l'autorizzazione o implicano la partecipazione dell'autorità giudiziaria (art. 391 nonies); b) una volta disposto il rinvio a giudizio, può svolgere, in vista della richiesta di ammissione di prove in dibattimento, la stessa attività integrativa di indagine che vedremo consentita al pubblico ministero (art. 430-bis); c) può svolgere l'indagine difensiva anche in ogni ulteriore stato e grado del procedimento di cognizione nonché dopo la formazione del giudicato, in vista del giudizio di revisione o dei procedimenti incidentali di esecuzione (art. 327- bis comma 2°). 27. Segue: la tutela penale dell'indagine difensiva. Lo svolgimento ed i risultati delle indagini difensive sono garantiti da alcune norme penali: a) la persona informata dei fatti, la quale, richiesta di informazioni dal difensore, rende dichiarazioni false, commette il reato di false dichiarazioni al difensore, punito con la reclusione sino a quattro anni (art. 371-ter comma 1° c.p.). La suddetta persona non è punibile se per legge non avrebbe dovuto essere richiesta di fornire informazioni al difensore, o avrebbe dovuto essere avvertita della facoltà di astenersi dal renderle, o ha commesso il fatto perché costretta dalla necessità di salvare se medesima o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore (alt. 3M c.p.), oppure se ritratta il falso e dichiara il vero prima della chiusura del dibattimento nel procedimento penale in cui ha reso le dichiarazioni (art. 376 comma 1° c.p.). Il procedimento per il reato di false dichiarazioni al difensore resta sospeso sino a che quello, in cui la persona ha 133

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi reso tali dichiarazioni, non sia sfociato nell'archiviazione, nella sentenza di non luogo a procedere o nella sentenza conclusiva del giudizio di primo grado (art. 371-ter comma 2° c.p.); b) la persona informata dei fatti, la quale, sentita dal pubblico ministero a richiesta del difensore, rende false dichiarazioni oppure tace in tutto o in parte ciò che sa intorno ai fatti sui quali è esaminata, commette il reato di false informazioni al pubblico ministero, punito con la reclusione sino a quattro anni (art. 371-bis comma 2-bis c.p.); c) si discute se e in quali sanzioni incorra il difensore che documenta infedelmente i risultati dei suoi atti di indagine. In giurisprudenza si è ritenuto che egli, nel momento in cui redige ed immette nel circuito processuale il verbale documentante tali risultati, assume la qualità di pubblico ufficiale e quindi può commettere il reato di falso ideologico in atto pubblico di cui all'art. 479 c.p. Altri ritengono invece che egli conservi comunque la sua ordinaria qualità di esercente un servizio di pubblica necessità (art. 359 c.p.) e pertanto possa al più commettere il reato di falsità ideologica in certificati previso dall'art. 481 c.p. 28. Il coordinamento delle indagini. L' istituto è disciplinato dall'art. 371. 29. L'obbligo del segreto e il divieto di pubblicazione degli atti. Gli atti di indagine, cioè di ricerca e di acquisizione della prova (non, per esempio, l'informazione di garanzia ed i provvedienti cautelari), compiuti dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari sono segreti sino a quando la persona sottoposta alle indagini non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari (art. 329 comma 1°). Chiunque rivela indebitamente notizie relative ad uno dei suddetti atti commetti il delitto di rivelazione di segreti inerenti ad un procedimento penale, punito dall'art. 379 bis c.p. con la reclusione fino ad un anno. Inoltre gli atti d'indagine preliminare dichiarati segreti dall'art. 329 comma 1° non possono formare oggetto, con la stampa o altro mezzo di diffusione delle notizie, di pubblicazione totale o parziale né nel loro contenuto ovvero per riassunto (art. 114 comma 1°). Il divieto di pubblicazione degli atti d'indagine risponde, però, anche all'esigenza di tutelare il buon nome di colui che è sì sottoposto alle indagini. Pertanto, anche dopo la caduta del segreto sancita dall'art. 329 comma l° e fino alla chiusura delle indagini preliminari o dell'udienza preliminare, gli atti d'indagine possono essere pubblicati non testualmente, in tutto o in parte, ma solo nel loro contenuto ovvero per riassunto (art. 114 commi 2° e 7°). 30. La durata delle indagini. Il pubblico ministero deve chiudere le indagini preliminari con la richiesta di archiviazione o l'esercizio dell'azione penale entro sei mesi o, se si procede per taluno dei reati elencati nell'art. 407 comma 2° lett. a, entro un anno dal giorno in cui il nome della persona sottoposta alle indagini è stato iscritto nel registro delle notizie di reato (art. 405 comma 2°). Se è necessaria l'autorizzazione a procedere, il termine resta sospeso. Inoltre il termine resta sospeso durante il tempo della perizia disposta in incidente probatorio per accertare l'attitudine della persona sottoposta alle indagini a partecipare coscientemente al processo (art. 70 comma 3°) e, salvo che nei procedimenti per i reati di criminalità organizzata, è soggetto alla sospensione feriale. A richiesta del pubblico ministero il suddetto termine può subire una o più proroghe, ciascuna non eccedente i sei mesi, sino ad un massimo di diciotto mesi o nei procedimenti elencati nell'art. 407 comma 2°, di due anni (art. 407 commi 1° e 2°). Nei procedimenti peri reati di cui agli artt. 589 comma 2° e590 comma 3° c.p. la proroga può essere concessa una sola volta (art. 406 comma 2-ter) Il pubblico ministero chiede la proroga al giudice per le indagini preliminari prima della scadenza del termine indicando la notizi di reato che è all'origine delle indagini e il motivo della proroga, il quale può essere per la prima richiesta la «giusta causa» e per le richieste successive la «particolare complessità delle indagini» o l'«oggettiva impossibilità di concluderle entro il termine prorogato» (art 406 commi 1° 2° e 2 bis). La procedura per la proroga è regolata dall'art. 406. L'ordinanza che nega la proroga, se il termine per le indagini preliminari è già scaduto, fissa un termine non superiore a dieci giorni entro il quale il pubblico 134

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi ministero deve concludere le indagini chiedendo l'archiviazione o esercitando l'azione penale (art. 406 comma 7°). Quando la notitia criminis è generica,entro sei mesi dall'iscrizione nel registro ex art. 335 deve chiedere al giudice l'archiviazione della notizia per essere ignoti gli autori del reato oppure, se consideri ancora possibile arrivare all'individuazione di un indiziato, l'autorizzazione a conti-mare le indagini contro ignoti (art. 415 comma 1°). Inoltre gli atti di indagine, compiuti dal pubblico ministero dopo la scadenza del termine sono inutilizzabili (art. 406 comma 8° e 407 comma 3°). Le richieste di archiviazione e di rinvio a giudizio, anche se presentate al giudice dopo la scadenza del termine originario o prorogato di durata delle indagini preliminari, sono valide ed efficaci. Nei procedimenti per il reato di cui all’art. 589 comma 2° c.p., il pubblico ministero deve depositare la richiesta di rinvio a giudizio «entro trenta giorni dalla chiusura delle indagini preliminari». 31 e 32 La conclusione delle indagini e L'archiviazione. In esito alle indagini preliminari il pubblico ministero presenta al giudice richiesta motivata di archiviazione della notizia di reato anzitutto se questa è infondata (art. 408 comma 1°) «perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l'accusa in giudizio» (art. 125 disp. att.). Una tale situazione (c.d. archiviazione per inidoneità probatoria) ricorre quando le indagini hanno acquisito la prova, che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato, nonché quando la prova che il fatto sussiste o che l'imputato lo ha commesso o che il fatto costituisce reato manca o è insufficiente o contraddittoria e non si ritiene che essa possa venire integrata nella fase del giudizio. L'art. 125 disp. att. si pone dunque — per usare le parole della Corte come «la traduzione in chiave accusatoria del principio di non, superfluità del processo». L'archiviazione è altresì richiesta se manca una condizione di procedibilità,se il fatto non è previsto dalla legge come reato oppure se il reato è estinto (art. 411), ovvero se l'autore o gli autori del reato restano ignoti (art. 415 comma 1°). Infine pubblico ministero chiede l'archiviazione se nel corso delle indagini preliminari la Corte di cassazione ha dichiarato l'insussistenza àcarico dell'indagato dei gravi indizi di colpevolezza previsti dall'art. 273 comma l° c.p.p. ed elementi a carico di costui non sono stati acquisiti successivamente (art. 405 comma 1-bis). Con la richiesta di archiviazione il pubblico ministero trasmette al giudice il fascicolo delle indagini contenente la notizia di reato, la documentazione delle indagini espletate ed i verbali degli atti compiuti davanti al giudice per le indagini preliminari (art. 408 comma 1°). Il giudice, se accoglie la richiesta, dispone l'archiviazione con decreto motivato e restituisce gli atti al pubblico ministero (art. 409 comma 1°). La richiesta ed il decreto di archiviazone per essere ignoti gli autori del reato sono rispettivamente presentata dal pubblico ministero ed emesso dal giudice con riferimento all'elenco delle notizie di reato contro ignoti che la polizia giudiziaria presenta mensilmente alla procura della Repubblica a norma dell'art. 107 disp. att. Fuori dei caso di cui sopra il giudice fissa davanti a sé un'udienza in camera di consiglio a norma dell'art. 127 (art. 409 commi 2° e 3°). Sino al giorno dell'udienza gli atti restano depositati in cancelleria a disposizione delle parti, con facoltà del difensore di estrarre copia (art. 409 comma 2°). Tale deposito assume una speciale importanza per la persona sottoposta alle indagini, la persona offesa ed i loro difensori, i quali graziead esso hanno per la prima volta la possibilità di prendere visione (cosiddetta discovery) di tutto il fascicolo delle indagini. In esito all'udienza il giudice pronuncia ordinanza con cui alternativamente: a) dispone l'archiviazione (art. 409 comma 5°); b) se ritiene incomplete le indagini indica al pubblico ministero le ulteriori indagini; c) in caso di richiesta d'archiviazione motivata con l'essere ignoti gli autori del reato, se dissentendo dal pubblico ministero ritiene che le indagini in realtà hanno fatto emergere un possibile autore del reato, dispone che il nome di, costui sia iscritto nel registro di cui all'art. 335 (art. 415 comma 2°); d) ordina che entro dieci giorni il pubblico ministero formuli l'imputazione (cosiddetta imputazione coatta), cioè come dice l'art. 417 enunci il fatto costituente reato, le circostanze aggravanti e quelle che possono comportare l'applicazione di misure di sicurezza, nonché i relativi articoli di legge. La sua previsione risponde alla necessità di assicurare, in attuazione dell'art. 112 Cost., un controllo giurisdizionale sul rispetto da parte del pubblico ministero dell'obbligo di esercitare l'azione penale. Conosciuta l'imputazione, il giudice entro due giorni fissa l'udienza preliminare (art. 409 comma 5°) con un 135

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi decreto che indica le generalità dell'imputato e dell'offeso dal reato, l'imputazione e le fonti di prova acquisite ed è notificato all'imputato ed all'offeso medesimi (art. 128 disp. att.). Il decreto di archiviazione è notificato alla persona sottoposta alle indagini, la quale nel corso di queste sia stata sottoposta a custodia cautelare, affinché essa possa chiedere, concorrendo gli altri presupposti indicati dalla legge, la riparazione dell'ingiusta dell'ingiusta detenzione (art. 409 comma 1"). II termine di due anni per chiedere la riparazione decorre da tale notificazione (art. 315 comma 1°). 33. L'opposizione all'archiviazione. Allorché la persona offesa abbia dichiarato al pubblico ministero di voler essere informata dell'eventuale richiesta di archiviazione il pubblico ministero, il quale si proponga di chiudere le indagini preliminari con tale richiesta, deve far notificare all'offeso un avviso della richiesta stessa con avvertimento che nei dieci giorni successivi alla notificazione egli può prendere visione in segreteria del fascicolo delle indagini e presentare un'opposizione contenente la ri chiesta motivata di prosecuzione delle indagini preliminari (art. 408 commi 2° e 3°) con l'indicazione, a pena di inammissibilità, dell'oggetto del l'investigazione suppletiva e dei relativi elementi di prova (art. 410 comma 1°). Trascorsi dieci giorni dalla notificazione dell'avviso il pubblico ministero trasmette al giudice la richiesta di archiviazione, il fascicolo delle indagini e l'opposizione eventualmente proposta dall'offeso (art. 126 disp. att.). In presenza dell'opposizione, il giudice può disporre l'archiviazione con decreto motivato, senza fare luogo all'udienza in camera di consiglio, solo se l'opposizione risulta inammissibile e la richiesta di archiviazione fondata. 34. L'impugnazione del provvedimento di archiviazione e la riapertura delle indagini. L'ordinanza di archiviazione è ricorribile per cassazione dal pubblico ministero, dalla persona sottoposta alle indagini e dalla persona offesa dal reato per le cause di nullità elencate dall'art. 127 comma (art. 409 comma 6°). La Corte costituzionale ha precisato che il diritto di ricorrere ex art. 409 comma 6° non solo contro l'ordinanza, ma anche contro il decreto di archiviazione, va riconosciuto pure alla persona offesa dal reato che avesse ritualmente chiesto di essere informata dell'eventuale richiesta di archiviazione. Tanto il decreto quanto l'ordinanza di archiviazione possono essere revocati con decreto motivato dal giudice per le indagini preliminari in seguito a richiesta del pubblico ministero che la che rappresenti l'esigenza di nuove investigazioni. Poiché l'art. 414, a differenza di quanto vedremo stabilito dall'art. 434 per la revoca della sentenza di non luogo a procedere, non subordinala revoca dell'archiviazione al sopravvenire di nuove fonti di prova. Autorizzata dal giudice la riapertura delle indagini, il pubblico ministero iscrive di nuovo la notizia di reato nel registro ex art. 335 (art. 414 comma 2°), con conseguente nuova decorrenza dei termini di durata delle indagini preliminari. 35. L'avocazione. Le indagini preliminari, condotte dal procuratore della Repubblica presso il tribunale, possono essere avocate dal procuratore generale presso la corte d'appello e, nei procedimenti per i reati elencati nell'art. 51 comma 3-bis, dal procuratore nazionale antimafia. Il medesimo procuratore generale assunte eventualmente le informazioni necessarie, dispone con decreto motivato l'avocazione delle indagini: a) quando il procuratore della Repubblica non può sostituire tempestivamente il magistrato della procura da lui designato alle indagini preliminari, il quale si sia astenuto dallo svolgerle o versi in una situazione di incompatibilità, b) quando, trattandosi di indagini collegate per i reati di cui agli artt. 270-bis, 280, 285, 286, 289-bis, 305, 306, 416 (nei casi comportanti obbligo di arresto in flagranza) e 422 c.p., il coordinamento «non risulta effettivo» (art. 372 comma 1-bis); c) c) d ufficio, o su istanza della persona sottoposta alle indagini ovvero della persona offesa dal reato ex art. 413, quando il procuratore della Repubblica non ha concluso le indagini preliminari entro il termine stabilito dalla legge o prorogato dal giudice (art. 412 comma 1°). A questo fine la segreteria della procura della Repubblica trasmette ogni settimana al procuratore generale l'elenco delle notizie di reato a carico di persone note in rapporto alle 136

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi quali il pubblico ministero non ha richiesto l'archiviazione o esercitato l'azione penale entro il termine di cui sopra (art. 127 disp. att.); d) Quando il giudice per le indagini preliminari gli comunica ex art. 409 comma 3° di avere fissato l'udienza in camera di consiglio per pronunciare sulla richiesta di archiviazione presentata dal procuratore della Repubblica (art. 412 comma 2°) oppure, come vedremo, quando il giudice dell'udienza preliminare gli comunica l'ordinanza con cui, ritenute in-complete le indagini preliminari svolte, ha indicato al pubblico ministero le ulteriori indagini che si rendono necessarie (art. 421-bis). In queste ultime ipotesi abbiamo la c.d. avocazione facoltativa. Una specifica disciplina è dettata con riguardo al procuratore nazionale antimafia, il quale nei procedimenti di criminalità organizzata elencati nell'art. 51 comma 3-bis. A tale scopo, in particolare: a) assicura il collegamento investigativo, d'intesa con i procuratori distrettuali interessati, anche per mezzo dei magistrati della direzione nazionale antimafia; b) si adopera, anche attraverso applicazioni temporanee dei magi strati della direzione nazionale e delle direzioni distrettuali antimafia, per soddisfare specifiche e contingenti esigenze investigative o processuali, c) cura il coordinamento delle indagini collegate svolte da procure distrettuali diverse, impartendo direttive e promuovendo riunioni tra i d) avoca le indagini preliminari quando le suddette riunioni non hanno avuto esito e il coordinamento non è risultato possibile per perdurante e ingiustificata inerzia nelle indagini o reiterate violazioni dell'art. 371 (art. 371-bis). Il decreto di avocazione, adottato dal procuratore generale presso la corte d'appello o dal procuratore nazionale antimafia, è trasmesso in copia al Consiglio superiore della magistratura ed ai procuratori della Repubblica interessati. Ognuno di questi ultimi entro dieci giorni dalla ricezione può proporre reclamo contro il decreto al procuratore generale presso la corte di cassazione, (art. 70 commi 6° e 6-bis ord. giud.). Il procuratore generale presso la corte d'appello, se ha disposto l'avocazione d'ufficio, svolge le indagini e formula le richieste di archiviazione o di rinvio a giudizio entro trenta giorni dal decreto di avocazione (art. 412 comma 1°), se ha avocato ad istanza del soggetto indagato o della persona offesa, formula tali richieste entro trenta giorni dall'istanza (art, 413 comma 2°). 36. L'avviso di conclusione delle indagini. Alla fine delle indagini preliminari il pubblico ministero, il quale ritenga di non chiedere 1' archiviazione, deve, prima della scadenza del termine originario o prorogato di durata del-le indagini preliminari, far notificare alla persona sottoposta alle indagini ed al suo difensore un avviso di conclusione delle medesime contenente le indicazioni dell'art 415-bis. Acquisite le dichiarazioni dell'indagato, valutati i documenti e le memorie prodotti dalla difesa e compiuti gli atti di indagine eventualmente richiesti da questa, il pubblico ministero può chiedere l'archiviazione o il rinvio a giudizio. 37. La richiesta di rinvio a giudizio. Al termine delle indagini preliminari il pubblico ministero, il quale ravvisi elementi per sostenere un'accusa in giudizio nei confronti della persona sottoposta alle indagini formula l'imputazione e, se non ritiene di promuovere un procedimento speciale, esercita l'azione penale mediante la richiesta di rinvio a giudizio (artt. 50 comma 1° e 405 comma 1°), salvo quanto previsto ex art 550 nei casi di citazione diretta a giudizio dinanzi al tribunale in composizione monocratica (infra cap. VIII, § 5). Tale richiesta è nulla se non è stata preceduta dalla notificazione alla persona sottoposta alle indagini ed al suo difensore dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari ex art. 415-bis, nonché quanto indicato dall'art 416 comma 1°. La richiesta contiene: a) le generalità dell'imputato (o quant'altro valga ad identificarlo) e della persona offesa dal reato se identificata; b) l'imputazione, (art. 60 comma 1°); c) l'indicazione delle fonti di prova acquisite; d) la richiesta di emissione del decreto che dispone il giudizio; e) la data e la sottoscrizione del pubblico ministero (art. 417). La richiesta è depositata nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari. Il magistrato che ha svolto le funzioni di giudice per le indagini preliminari è però incompatibile a svolgere l'udienza preliminare, e deve quindi essere sostituito, nei casi previsti dall'art. 34 commi 2-bis e 2-ter. La richiesta è depositata insieme con il fascicolo delle indagini e recando allegati il corpo del reato e le cose pertinenti al reato che non debbano essere custoditi altrove (art. 416 137

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi comma 2°). La Corte costituzionale ha lirerisato che l'art. 416 comma 2° «non conferisce al pubblico ministero un potere di scelta degli atti da trasmettere al giudice per le indagini prelimi nari insieme con la richiesta di rinvio a giudizio, imponendo allo stesso pubblico ministero di trasmettere l'intera documentazione raccolta nel corso delle indagini». Peraltro, se le indagini preliminari hanno riguardato più persone o più ipotesi di reato, il pubblico ministero inserisce nel fascicolo solo gli atti relativi all'imputato ed all'imputazione per cui chiede il rinvio a giudizio. Egli può, per le esigenze delle indagini, trattenere copia degli atti tra-smessi al giudice (art. 130 disp. att.). 38. L'udienza preliminare: la convocazione delle parti. Investito della richiesta di rinvio a giudizio, il giudice celebra l'udienza preliminare per vagliare nel contraddittorio delle parti la sussistenza di elementi idonei a so- stenere l'accusa in giudizio, e quindi per tutelare l'imputato e l'economia processuale dalle richieste di dibattimento azzardate. Il giudice viene individuato come organo di verifica circa la completezza delle indagini svolte dal pubblico ministero (art. 421-bis), ed addirittura gli vengono attribuiti poteri di integrazione probatoria ex officio (entro i limiti sanciti dall'art. 422), mentre si prevede che la sentenza di non luogo a procedere possa venire pronunciata, tra l'altro, anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti o contraddittori (art. 425). La convocazione deve avvenire a norma degli artt. 418 e 419 L'udienza preliminare non ha luogo se l'imputato vi rinuncia presentando, almeno tre giorni prima della data fissata, la richiesta di giudizio immediato (art. 419 comma 5°), e propiziando così l'instaurazione di quest'ultimo procedimento speciale su base consensuale (infra, cap. VI, § 15). L'udienza preliminare non ha luogo neppure (o, più esattamente, pur essendo iniziata, è destinata a non proseguire), quando l'imputato chiede tempestivamente la celebrazione del giudizio abbreviato. 39. La costituzione delle parti. L'udienza preliminare si svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del pubblico ministero e del difensore dell'imputato. Il verbale è redatto di regola in forma riassuntiva. Il giudice a richiesta di parte dispone la riproduzione fonografica o audiovisiva dell'udienza oppure la redazione del verbale con la stenotipia (art. 420 comma 4°). In apertura d'udienza il giudice, nominato un sostituto al difensore non comparso dell'imputato, provvede agli accertamenti relativi alla costituzione delle parti ordinando la rinnovazione degli avvisi, delle citazioni, delle comunicazioni e delle notificazioni di cui rilevi la nullità. Accertata la validità dei suddetti atti, anche d'ufficio rinvia l'udienza, ordinando l'innovazione dell'avviso all'imputato e alla persona offesa dal reato, quando l'imputato non è comparso, né chiede o consente che l'udienza si svolga in sua assenza, né detenuto rifiuta di assistervi (art. 420-quinquies comma l°) e: a) è provato o appare probabile che egli senza sua colpa non abbia avuto effettiva conoscenza dell'avviso notificatogli, sempreche la notificazione non sia avvenuta mediante consegna della copia al difensore a norma degli artt 159, 161 comma 4° e 169. b) risulta che l'assenza dell'imputato e dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento (art 420-ter commi 1°e 2°). Il giudice rinvia l'udienza preliminare anche quando il difensore dell'imputato non è comparso per assoluta impossibilità dovuta a legittimo impedimento prontamente comunicato al giudice stesso e l'imputato non chiede che si proceda comunque o non ha anche un altro difensore o il difensore impedito non ha nominato un sostituto (art. 420-ter comma 5°). La lettura in udienza dell'ordinanza che fissa la nuova data dell'udienza preliminare sostituisce la citazione o l'avviso per tutti coloro che sono o devono considerarsi presenti alla lettura stessa (art. 420-ter comma 4°). Sempre nell'udienza preliminare, prima che la discussione abbia inizio, il danneggiato dal reato può costituirsi parte civile, il responsabile civile e il ci-vilmente obbligato per la pena pecuniaria possono costituirsi se citati, e il responsabile civile, non citato, può intervenire.

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Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi 40. Lo svolgimento dell'udienza. Terminati gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti, il giudice ammette gli atti e i documenti prodotti dalle parti stesse e dichiara aperta la discussione. Nel corso di questa il pubblico ministero espone gli elementi di prova che giustificano la richiesta di rinvio a giudizio, l'imputato può rendere dichiarazioni spontanee o chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio a norma degli artt. 64 e 65 (e, in quest'ultima ipotesi, su richiesta di parte, il giudice dispone che l'interrogatorio sia reso nelle forme previste dagli artt. 498 e 499). Dopo ciò i difensori della parte civile, del responsabile civile, del civilmente obbligato per la pena pecuniaria, se presenti, e quello dell'imputato espongono le loro difese. Una sola replica è consentita. Il giudice, dichiarata chiusa la discussione, se è in grado di decidere allo stato degli atti pronuncia la decisione (art. 421 comma 4°). Altrimenti anche d'ufficio con ordinanza: a) a) se le indagini preliminari svolte risultano incomplete, indica quel-le ulteriori che il pubblico ministerodeve compiere, il termine entro il quale le stesse vanno compiute e la data della nuova udienza preliminare. L'ordinanza è comunicata al procuratore generale presso la corte d'appello, il quale può con decreto motivato avocare le indagini (art. 421-bis); b) dispone l'assunzione in udienza preliminare delle prove delle quali appaia evidente la decisività ai fini della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere (art. 422 comma 1°). Se tali prove non possono essere assunte immediatamente il giudice fissa la data della nuova udienza. c) Quest'ultima è condotta dal giudice, al quale il pubblico ministero ed i difensori, nell'ordine stabilito per la discussione dall'art. 421 comma 2°, possono chiedere di rivolgere domande alla persona esaminata. In ogni momento dell'udienza preliminare può essere espletato l'incidente probatorio. Assunte le prove, si fa luogo ad una nuova discussione, nella quale le parti possono formulare e illustrare nuove conclusioni (art. 422 commi 2a e 3°). 41. Le nuove contestazioni. Nel corso dell'udienza preliminare, dal fascicolo delle indagini preliminari, dagli atti ammessi prima dell'inizio della discussione, dalle indagini demandate dal giudice al pubblico ministero o dalle prove assunte dal giudice nell'udienza stessa possono risultare a carico dell'imputato: a) un fatto diverso da quello contestatogli nella richiesta di rinvio a giudizio risulta essere stato commesso con modalità di tempo, luogo o altra natura diverse da quelle già contestate e rispetto alle quali l'imputato ha presu- mibilmente preparato la propria difesa; b) una circostanza aggravante, non contestata nella richiesta di rinvio a giudizio, relativa al reato contestato in questa; c) un reato ulteriore rispetto a quello contestato nella richiesta e connesso a questo a norma dell'art. 12 lett. b. d) d) un fatto nuovo, cioè un reato perseguibile d'ufficio ulteriore rispetto a quello contestato nella richiesta e non connesso. Per favorire l'economia processuale ed un più compiuto accertamento dei fatti, la legge prevede che il giudizio sulla circostanza aggravante, sul reato connesso a norma dell'art. 12 lett. b o sul fatto nuovo sia cumulato a quello in corso, avente ad oggetto il reato contestato nella richiesta di rinvio a giudizio. Pertanto, intervenuta una delle emergenze sopra elencate, a norma dell'art. 423 il pubblico ministero modifica l'imputazione. Se l'imputato non è presente, la comunica al difensore, il quale rappresenta l'imputato ai fini della contestazione. Ove sia emerso un fatto nuovo perseguibile d'ufficio, il pubblico ministero lo contesta all'imputato se costui, presente all'udienza, presta il suo consenso alla contestazione e il giudice, a richiesta del pubblico ministero, la autorizza perché ritiene che il cumulo processuale non pregiudica la celere definizione dell'udienza preliminare. La legge non prevede che, in caso di modifica o integrazione dell'imputazione, l'imputato o il suo difensore abbiano diritto ad un termine a difesa (art. 423). Il giudice dell'udienza preliminare deve con ordinanza restituire gli atti al pubblico ministero ove costui abbia eseguito una contestazione suppletiva fuori dei casi previsti dall'art. 423. 42. La contumacia e l'assenza. In sede di accertamenti relativi alla costituzione delle parti il giudice dell'udienza preliminare, sentite le parti stesse con ordinanza dichiara la contumacia dell'imputato e dispone che l'udienza si svolga appunto in 139

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi contumacia quando l'imputato non è comparso, la sua citazione e la relativa notificazione sono valide (art. 420quater). Nell'udienza preliminare svolta in contumacia l'imputato è rappresentato dal difensore (art. 420-quater comma 2°) e il decreto che dispone il giudizio, eventualmente emesso in esito all'udienza, deve contenere l'indicazione della contumacia dell'imputato, recare allegata l'ordinanza dichiarativa della contumacia (art. 420 quater comma 7°) ed essere notificato all'imputato (art. 429 comma 4°). Se il contumace compare all'udienza prima che il giudice abbia emesso la sentenza di non luogo a procedere o il decreto che dispone il giudizio, l'ordinanza contumaciale è revocata. La suddetta ordinanza è nulla secondo quanto dispone l'art. 420 quater comma 4°. L'udienza preliminare si svolge in assenza dell'imputato se costui non compare e: a) ancorché impedito a comparire, chiede o consente che si proceda in sua assenza; b) detenuto, rifiuta di assistere all'udienza; c) dopo essere comparso, si allontana dall'udienza senza essere impedito di assistervi da caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento. L'imputato assente è rappresentato dal difensore (art. 420-quinquies). L'eventuale decreto che dispone il giudizio deve recare l'indicazione che l'imputato è stato assente nell'udienza preliminare (art. 420 quater comma 7°), ma non gli viene notificato perché, avendo egli avuto contezza della celebrazione dell'udienza preliminare, è suo onere informarsi dei relativi esiti. 43. La sentenza di non luogo a procedere. In esito all'udienza preliminare il giudice pronuncia sentenza di non n luogo a procedere (retro , cap.11, § 10), indicandone la causa nel dispositivo: a) art. 425 comma 1°; b) se gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio (art. 425 comma 3°)e non si prevede che alcuna delle suddette prove possa essere acquisita o integrala nel dibaltiniento. Nel dispositivo della sentenza di non luogo a procedere il giudice può anche dichiarare la falsità di un atto o documento acquisito al procedimento e ordinare art. 425 comma 5°. Se si è proceduto per un reato perseguibile a querela e l'imputato viene prosciolto perché il fatto non sussiste o egli non lo ha commesso, il giudice condanna il querelante al pagamento delle spese del procedimento anticipate dallo Stato. Il querelante, se ha agito con colpa grave, può essere condannato anche a risarcire il danno all'imputato e al responsabile civile che ne abbiano fatto domanda. Se la sentenza dichiara l'estinzione del reato per remissione della querela, l'imputato è condannato al pagamento delle spese del procedimento salva una diversa pattuizione tra querelante e querelato nell'atto di remissione (art. 427). Il giudice dà immediata lettura della sentenza in udienza e la deposita in cancelleria con diritto delle parti di estrarne copia. Se l'immediata redazione dei motivi non è possibile, la sentenza è depositata in cancelleria non oltre il trentesimo giorno da quello della lettura del dispositivo (art. 424 commi 2°, 3° e 4°). Essa contiene quanto dettaro dall’art. 426 commi 1° e 2°. La sentenza è nulla in caso di mancanza della motivazione (art. 125 comma 3°), del dispositivo o della sottoscrizione del giudice, nonché di incompletezza del dispositivo nei suoi elementi essenziali (art. 426 comma 3°). La pronuncia della sentenza di non luogo a procedere comporta l'immediata perdita di efficacia delle misure cautelari in atto (art. 300 comma I"). L'imputato detenuto è posto in libertà subito dopo la lettura del dispositivo (art. 131-bis disp. att.). La suddetta sentenza, che come vedremo non diviene irrevocabile, acquista forza esecutiva (per esempio quanto alla dichiarazione di falsità di documenti e alla pronuncia su spese e danni) quando non è più soggetta a impugnazione (art. 650 comma 2°). Nello stesso momento la qualità di imputato viene meno (art. 60 comma 2°). 44. L'impugnazione della sentenza. La sentenza di non luogo a procedere può essere impugnata con ricorso per cassazione dal procuratore della Repubblica e dal procuratore generale presso la corte d'appello, dall'imputato (salvo in quest'ultimo caso che la sentenza abbia dichiarato che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso), nonché dalla persona offesa dal reato costituita parte civile. La persona offesa non costituita parte civile può impugnare la suddetta sentenza mediante ricorso per cassazione nei soli casi di nullità previsti dall'art. 419 comma 7°. 140

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45. Il decreto che dispone il giudizio. In esito all'udienza preliminare il giudice, se ritiene che a carico dell'imputato sussistano elementi idonei a sostenere un'accusa in giudizio, emette decreto che dispone il giudizio il quale contiene le prescrizioni dell'art. 429. Il decreto è nullo se l'imputato non è identificato in modo certo o se le indicazioni dell'imputazione e del tempo e luogo della comparizione mancano o sono insufficienti (art. 429 commi 1° e 2°). IL decreto è letto in udienza, e la lettura vale come notificazione per le parti presenti (art. 424 comma 2°), oppure notificato a quelle che non erano presenti (artt. 429 comma 4 c.p.p. e 133 disp. att.). Tra la lettura o notificazione del decreto e la data fissata per la comparizione deve correre un termine a comparire di almeno venti giorni (art. 429 comma 3°). Nei procedimenti per il reato di cui all'art. 589 comma 2° c.p. tale termine non può eccedere i sessanta giorni (art. 429 comma 3°-bis, così come può risulta dall'art. 4 l. 21 febbraio 2006, n. 102). 46. I fascicoli. Emesso il decreto che dispone il giudizio, il giudice, immediatamente o, se una parte lo richiede, in un'udienza fissata non oltre quindici giorni, provvede nel contraddittorio delle parti alla formazione del fascicolo per il dibattimento, a norma dell'art. 431. Questo fascicolo contiene i soli atti, che il codice rende incondizionatamente utilizzabili dal giudice dibattimentale. Il giudice dell'udienza preliminare colloca in esso, prelevandoli dal fascicolo dell'udienza stessa (art 431). In aggiunta agli atti fin qui elencati, possono essere inclusi nel fascicolo per il dibattimento gli altri atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, nonché la documentazione dell'attività di investigazione difensiva, dei quali le parti concordino la collocazione nel suddetto fascicolo dibatti-mentale (art. 431 comma 2°). Il fascicolo per il dibattimento, insieme con il decreto che ha disposto il giudizio ed i provvedimenti che hanno applicato misure cautelari tuttora in esecuzione, è trasmesso alla cancelleria del giudice competente per il giudizio (art. 432). Gli altri atti già contenuti nel fascicolo dell'udienza preliminare ed il verbale di quest'ultima sono inseriti nel fascicolo del pubblico ministero. 47. L'attività integrativa d'indagine. Dopo il rinvio a giudizio, come abbiamo già detto con riguardo al difensore, il pubblico ministero può continuare le indagini per porsi in condizione di fare richieste di ammissione di prova al giudice del dibattimento. Nel corso di tale cosiddetta attività integrativa d'indagine esso pi compiere qualsiasi atto consentitogli dalla legge nelle indagini preliminari, ad eccezione di quelli che involgono la partecipazione dell'imputato o ai quali il difensore di costui ha diritto di assistere. Neppure in questa fase il pubblico ministero può assumere informazioni dalle persone che un'altra parte del processo abbia indicato come fonti di prova in una lista predibattimentale. La documentazione dell'attività integrativa d'indagine è immediatamente depositata nella segreteria del pubblico ministero ed ai difensori è notificato avviso della facoltà di prenderne visione ad estrarne copia (art. 430). Essa è conservata in un terzo fascicolo, dal quale viene trasferita in quello del pubblico ministero solo dopo che in base ad essa le parti hanno fatto richieste di ammissione di prova al giudice e questi le ha accolte (art. 433 comma 3°). 48. La revoca della sentenza di non luogo a procedere. Essa può venire revocata se, una volta inoppugnabile, sopravvengono o sono scoperti nuovi elementi che, da soli o congiuntamente a quelli esaminati nell'udienza preliminare, dimostrano che la persona già imputata, destinataria della predetta sentenza, deve essere rinviata a giudizio (art. 434). Il pubblico ministero che ravvisi tali nuovi elementi chiede la revoca della sentenza di non luogo a procedere al giudice che l'ha emessa; chiede altresì, se i nuovi elementi sono già stati acquisiti (come può accadere) il rinvio a giudizio di tale persona oppure, se i suddetti elementi sono ancora da acquisire, la riapertura delle indagini. Se non dichiara l'inammissibilità, il giudice designa un difensore all'imputato che ne sia privo, fissa davanti a sé un'udienza a norma dell'art. 127 per pronunciare sulla richiesta di revoca e ne fa dare avviso al pubblico ministero, al già imputato, al difensore eli 141

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi costui e alla persona offesa dal reato (art. 435 comma 3°). In esito all'udienza il giudice pronuncia ordinanza con la quale, se non dichiara inammissibile o infondata la richiesta, dispone la revoca della sentenza di non luogo a procedere (con conseguente riacquisto della qualità di imputato ex art. 60 comma 3°). Inoltre: a) se con la revoca della sentenza il pubblico ministero ha chiesto il rinvio a giudizio, fissa l'udienza preliminare, dandone avviso; b) se con la revoca il pubblico ministero ha chiesto la riapertura del-le indagini, dispone tale riapertura fissando un termine non superiore a sei mesi. Il pubblico ministero può ricorrere per cassazione, per i motivi previsti dall'art. 606 comma 1° lett. b, d, e, contro l'ordinanza che dichiara inammissibile o respinge la richiesta di revoca della sentenza di non luogo a procedere (art. 437). 49. Il procedimento per reati ministeriali. La l. cost. 16 gennaio 1989, n. 1 ha modificato la disciplina dei reati ministeriali, cioè dei reati che si assumono commessi dal presidente del Consiglio dei ministri e dai ministri nell'esercizio delle loro funzioni: a) trasferendo la loro cognizione dalla Corte costituzionale in composizione allargata all'autorità giudiziaria ordinaria e precisamente, in primo grado, al tribunale del capoluogo del distretto di corte d'appello competente per territorio, cioè nel quale il reato risulta commesso, a norma d gli artt. 8-11-bis e 16 c.p.p. (art. 11 comma l ° I. cost. n. I del 1989); b) demandando le indagini su tali reati ad un collegio per i reati ministeriali, comunemente detto tribunale dei ministri, composto di tre membri effettivi e tre supplenti, estratti a sorte ogni due anni fra tutti i magistrati prestanti servizio nei tribunali del distretto e aventi la qualifica di magistrato di tribunale da almeno cinque anni o una qualifica superiore. Il collegio è presieduto dal magistrato con funzioni più elevate o, a parità di funzioni, più anziano di età (art. 7 l. cost. n. 1 del 1989); c) subordinando l'adozione di provvedimenti coercitivi nel corso del procedimento e il rinvio a giudizio all'autorizzazione della camera di appartenenza dell'imputato o, se costui non appartiene ad alcuna camera oppure si procede contro più persone appartenenti a camere diverse, del Senato della Repubblica (artt. 96 Cost. e 5 1. cost. n. 1 del 1989). Le notizie di reato relative ai reati ministeriali devono pervenire al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto di corte d'appello competente per territorio. Il procuratore, omessa ogni indagine, entro quindici giorni le trasmette al collegio per i reati ministeriali «dandone immediata comunicazione ai soggetti interessati perché questi possano presentare memorie al collegio o chiedere di essere ascoltati» (art. 6 comma 2° I. cost. n.1 del 1989). Il collegio svolge le indagini preliminari esercitando i poteri che nel corso di queste il codice di procedura penale attribuisce tanto al pubblico ministero quanto al giudice per le indagini preliminari. Entro novanta giorni dalla ricezione della notizia di reato il collegio per i reati ministeriali, sentito il procuratore della Repubblica, il quale può chiedere, precisando i motivi, che le indagini siano proseguite per altri sessanta giorni dispone con decreto motivato l'archiviazione degli atti (art. 8 commi 2° e 3° 1. cost. n. 1 del 1989) «se la notizia di reato è infondata, ovvero manca una condizione di procedibilità diversa dall'autorizzazione di cui all'articolo 96 della Costituzione, se il reato è estinto, se il fatto non è previsto dalla legge come reato, se l'indiziato non lo ha commesso ovvero se il fatto integra un reato diverso da quelli indicati nell'art. 96 della Costituzione» (art. 2 comma 1° legge n. 219 del 1989). Il decreto di archiviazione può essere revocato dal collegio, a richiesta del, procuratore della Repubblica, quando sopravvengono nuove prove (art. 2 comma 2° legge n. 219 del 1989). Se non ritiene di disporre l'archiviazione, il collegio trasmette gli atti con una relazione motivata al procuratore della Repubblica perché a sua volta li invii immediatamente al presidente della camera competente a concedere l'autorizzazione al giudizio. Se l'autorizzazione vien e concessala camera trasmette gli atti al collegio perché «continui il procedimento secondo le norme vigenti» (art. 9 comma 4°l. cost. n. 1 del 1989). Il collegio li rimette senza ritardo al procuratore della Repubblica (art. 3 comma 2° legge n. 219 del 1989) perché eserciti l'azione penale con la richiesta di rinvio a giudizio. In seguito a questa il collegio svolge l'udienza preliminare.

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Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi CAPITOLO VI

PROCEDIMENTI SPECIALI 1. Considerazioni introduttive sulla nozione di "specialità" del procedimento penale. Il concetto di «procedimento speciale» — secondo il significato proprio all'espressione che titola il libro VI — postula un riferimento alla dinamica processuale e va definito per differenza specifica rispetto al concetto di procedimento ordinario di primo grado. Se quest'ultimo si snoda lungo una linea complessivamente composta da tre segmenti principali (indagini preliminari, udienza preliminare e giudizio), il procedimento speciale si caratterizza invece per l'assenza di almeno uno di quei segmenti. In realtà, ogni ordinamento processuale, per quanto sensibile al canoni di eguaglianza, predispone, variamente giustificandole, procedure alter native a quella prevista come ordinaria. La tendenza ad attuare semplificazioni dell'ordinario svolgimento processuale, facendo leva sull'accordo delle parti o sulla conforme volontà anche di una sola di esse. Un'esigenza economica sta al fondo delle disposizioni che regolano i vari procedimenti speciali, i quali si differenziano in primo luogo per la diversità dei presupposti assunti dalla legge a premessa della loro applicabilità, come ragioni idonee a giustificare risparmio di tempo, di risorse umane e, in generale, di attività processuale. Il libro VI del nostro codice prevede cinque tipi di procedimento speciale: segnatamente, il giudizio abbreviato, l'applicazione di pena su richiesta delle parti, il giudizio direttissimo, il giudizio immediato e il procedimento per decreto. La serie, in realtà, non va intesa come esaustiva, se — come poc'anzi affermato — si ritiene che la qualifica di «speciale» spetti a quei tipi di procedimento la cui caratteristica essenziale risiede nell'essere privi di una fase o sottofase, presente invece nel procedimento ordinario. Alla luce di questa nozione meritano, infatti, di essere classificati come «speciali» il procedimento di oblazione (arti. 162, 162-bis c.p. e 141 disp. att.), il cui tratto caratteristico sta nel consentire una chiusura anticipata della vicenda processuale, evitando la fase dibattimentale; il giudizio immediato richiesto dall'imputato, che consente di anticipare il dibattimento saltando l'udienza preliminare (art. 419 comma 5° peraltro richiamato dall'art. 453 comma 3°); e, infine, i procedimenti che traggono origine da una contestazione suppletiva nel- l'udienza preliminare (art. 423) o nel dibattimento (artt. 517-518), i quali risultano privi, rispettivamente, dell'indagine preliminare e dell'intera fase preliminare al giudizio. Anche il procedimento davanti al giudice monocratico, per i reati indicatinell'art. 550 (in linea di massima corrispondenti a quelli già appartenenti alla competenza pretorile), costituisce, a suo modo, un caso di specialità, non foss'altro per il fatto di essere sempre privo dell'udienza preliminare. E un discorso analogo vale pure per il procedimento penale davanti al giudice di pace, disciplinato dal d. lgs. 28 agosto, n. 274 (infra, cap. XIII). La «specialità» qui in discussione riguarda il solo procedimento di primo grado e non le soluzioni tecniche - pur dettate da esigenze di economia processuale - che caratterizzano i gradi successivi del giudizio. 2. Ragioni della "specialità". Su un versante si collocano quei riti fondati su un requisito di carattere soggettivo, quale la scelta volontaria di una o di entrambe le parti. Sull'altro versante stanno i riti fondati su requisiti di carattere oggettivo (quali, ad esempio, la scarsa gravità del reato o l'evidenza dell'accusa), imperativamente affermati dal magistrato penale. V'è poi un gruppo "misto". Nel primo gruppo rientrano il giudizio abbreviato, l'applicazione di pena su richiesta delle parti (denominata anche «patteggiamento» nel gergo giudiziario e forense), il procedimento di oblazione e il giudizio immedia to richiesto dall'imputato. Espressione di una giustizia «consensuale», le normative che regolano tali procedimenti attribuiscono alle parti la facoltà di disporre di taluni stati o situazioni processuali, essi riconoscono una certa signoria delle parti su talune situazioni processuali e, in particolare, sul modo di formare la prova, nonché sulle questioni at- tinenti alla qualificazione giuridica del fatto e alla quantificazione della pena. I procedimenti speciali appartenenti al secondo gruppo, vale a dire: giudizio direttissimo, giudizio immediato, contestazione suppletiva del reato concorrente o del reato continuato art. 423 comma 1° ultima 143

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi parte nonché art. 517). Espressione di un modo di concepire l'esercizio della giurisdizione che — per contrasto con quello «consensuale» — possiamo definire «autoritativo». L'esigenza di semplificazione del rito si giustifica qui in forza di predefiniti presupposti processuali, connotati da una certa oggettività, la cui sussistenza viene affermata d'autorità: asserita dal pubblico ministero e poi, di regola, vagliata e confermata dal giudice. Caratteristica del terzo gruppo — come già accennato — è di far dipendere la semplificazione procedurale da una scelta imperativa del magistrato penale, combinata con un atto volontario di una o di entrambe le parti. Vi appartengono il procedimento per decreto (artt. 459-464), il giudizio direttissimo esperibile col consenso delle parti (art. 449 comma 2° seconda parte) e la contestazione suppletiva del fatto nuovo (artt. 423 comma 2° e 518 comma 2°). E invece sempre consentito il passaggio inverso, da un rito scelto ex auctoritate (giudizio direttissimo, giudizio immediato richiesto dal pubblico ministero, procedimento, per decreto a uno dei riti consensuali, premiati con uno sconto di pena, come il giudizio abbreviato e il «patteggiamento». A rendere opportuna e per certi versi doverosa questa trasformazione concorrono essenzialmente due ragioni: una di tipo economico, l'altra ragione ha carattere più propriamente giuridico-costituzionale e si collega all'esigenza di garantire un trattamento uniforme degli imputati di fronte alle possibili scelte processuali (gravide, oltretutto, di conseguenze sostanziali), verso le quali si può orientare la strategia difensiva dell'imputato. 4. Giustizia "consensuale" e corrispondenti forme di "specialità". Il comun denominatore dei procedimenti speciali su base consensuale risiede nella rinuncia delle parti — in particolare dell'imputato — a giovarsi dei possibili vantaggi abbinati a determinate situazioni processuali tipiche del procedimento ordinario. Quando rinuncia al dibattimento, l'imputato si priva della facoltà di contrastare l'accusa con quella dovizia di strumenti che — soprattutto nell'assunzione delle prove — la fase del giudizio offrirebbe. Una simile rinuncia del tutto, legittima sul piano costituzionale, in quanto espressamente giustificata da quel richiamo al "consenso" che compare nel novellato testo dell'art. 111 comma 5° Cost.. Nessun imputato farebbe ovviamente una scelta così palesemente autolesionistica, se non vi fosse spinto dalla prospettiva di un possibile tornaconto. Ben diversa la ragione che — è lecito supporre — determina la rinuncia all'udienza preliminare nel giudizio immediato richiesto dall'imputato (art. 419 comma 5°), o all'intera fase preliminare del processo nei casi di giudizio direttissimo consensuale artt.449 comma 2° e 558 comma 5°): qui è assente qualsiasi connotazione di premialità. Col consentire l'amputazione di una fase del procedimento penale per arrivare prima al giudizio, l'imputato rinuncia sì alla possibilità di profittare di certe chances di- fensive, ma — come si dirà — al verosimile scopo di meglio tutelare la propria posizione in vista di un possibile proscioglimento. 5. Procedimento di oblazione. Pur non regolata nel libro VI del codice di rito penale, l'oblazione appartiene, a pieno titolo, alle procedure speciali di tipo consensuale, considerato che essa si risolve in una chiusura anticipata il processo, provocata da una richiesta dell'imputato, di regolare in denaro la propria "pendenza" penale. Il rito in questione è esperibile unicamente per reati contravvenzionali punibili con l'ammenda. Le cose cambiano a seconda che la pena pecuniaria costituisca la sanzione esclusiva p er il reato o si configuri invece come alternativa all'arresto. Nei casi del primo tipo (oblazione c.d. «obbligatoria»: art. 162 c.p.), il giudice è pressoché tenuto ad accogliere la richiesta, se soltanto l'imputato l'ha presentata ritualmente entro il termine prescritto: l'unica eccezione èrappresentata dai casi di reato permanente, che, comprensibilmente, la giurisprudenza di legittimità considera insuscettibili di oblazione. Nei casi del secondo tipo (oblazione c.d. "facoltativa": art. 162-bis c.p.), il giudice ha invece un certo margine di discrezionalità: egli deve rigettare la richiesta, quando ritenga di dover applicare la pena detentiva anziché quella pecuniaria, quando considera grave il fatto commesso e quindi incongrua l'«offerta» dell'imputato (comma 4°) o, infine, nei casi di recidiva, abitualità e professionalità nel reato (comma 3°). I due tipi di oblazione differiscono anche sotto altri profili. Quella obbligatoria fissa a un un terzo del massimo dell'ammenda prevista in via edittale, la somma da pagare al fine di estinguere la contravvenzione (art. 144

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi 162 comma 1°c.p.). Quella facoltativa impone invece il pagamento della metà della massima ammenda prevista (art. 162-bis comma 1° c.p.), al fine di ottenere lo stesso risultato. Già nel corso delle indagini preliminari, l'oblazione può essere chiesta la presentata al pubblico ministero, il quale la inoltra al giudice insieme col fascicolo dell'indagine (art. 141 disp. att.). Iniziato il processo, la richiesta va presentata direttamente al giudice, prima che sia aperto il dibattimento o prima che sia emesso decreto penale di condanna. La legge prevede che il pubblico ministero — all'atto di chiedere il decreto penale — informi l'imputato sia della possibilità di essere ammesso all'oblazione, sia dei vantaggiosi effetti conseguibili tramite la stessa (art. 141 comma 2° disp. att.). L'omesso avvertimento sarebbe lesivo del diritto di difesa, poiché priverebbe l'imputato di una chance processuale. Tuttavia la legge non ne fa discendere almeno, in prima battuta - la nullità degli atti successivi: se il pubblico ministero non adempie a questo suo dovere, l'avviso dev'essere fatto dal giudice, contestualmente all'emissione del decreto penale per il fatto oblazionabile. Il termine per la richiesta di oblazione è perentorio. Accolta la richiesta, il giudice dichiara non doversi procedere per estinzione del reato, con sentenza inappellabile (art. 593 comma 2°). In caso di rigetto, il procedimento è destinato a proseguire nella forma ordinaria osecondo le regole del procedimento per decreto, ma l'imputato può rinnovare la richiesta d'oblazione anche nel corso del dibattimento di primo grado, fino all'inizio della discussione finale: benché esplicitamente prevista per la sola oblazione facoltativa (art. 162-bis comma 4° c.p.), tale regola viene comunemente come espressione di un principio generale,sicché la giurisprudenza è incline a farla valere anche nei procedimenti di oblazione obbligatoria. 6. Applicazione della pena su richiesta delle parti. Oggi, il patteggiamento è esperibile per una serie di reati, identificati dall'art. 444 comma 1° attraverso il riferimento alla sanzione in concreto applicabile: rientrano in questa cerchia i delitti e le contravvenzioni con una pena pecuniaria, oppure con una delle sanzioni sostitutive previste dalla legge n689 del 1981 o, infine,con una pena detentiva non superiore a cinque anni. La pena pecuniaria può essere applicata congiuntamente alla pena detentiva, la quale va a sua volta determinata computando le eventuali circostanze previste dalla legge penale e tenendo altresì conto della diminuzione di pena prevista dalla legge processuale come incentivo all'imputato per la scelta del rito speciale. Pertanto sono am messi al patteggiamento reati puniti con pene che, in astratto, superano di gran lunga i cinque anni di reclusione. Il patteggiamento risulta peraltro escluso — in chiave spiccatamente specialpreventiva — nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata (art. 51 comma 3-bis), di terrorismo art. 51 comma 3- quater ovvero per determinati delitti contro la personalità individuale o contro la libertà sessuale, di delinquenti abituali, professionali o per tendenza oppure risultino plurirecidivi (art. 444 comma 1-bis). Sussiste una differenza ragguardevole, quanto a contenuto punitivo, fra la sentenza che applica una pena concordata fino a due anni e quella che applica una pena da due a cinque anni. Donde l'opportunità di designare con nomi diversi i due tipi di maneggiamento: attribuiremo pertanto la qualifica di "maius" a quello concernente i reati più gravi (gergalmente definito anche come "patteggiamento allargato"), riservando all'altro l'appellativo "minus". Il patteggiamento è inoltre ammesso nei procedimenti a carico di persone giuridiche, per tutti gli illeciti sanzionati con pena pecuniaria, mentre per quelli sanzionati con altra pena il rito speciale è esperibile a condizione che non debba essere applicata, in via definitiva, una delle sanzioni interdittive previste dall'art.16 d. lgs. n. 231 del 2001: (art. 63 comma 3° d. lgs. cit.). Fulcro del rito speciale è l'accordo fra le parti principali del processo (imputato epubblico ministero): un accordo avente per contenuto il quantum di pena da applicare. La legge — in considerazione del carattere marcatamente obbiettivo e indisponibile della norma penale — impone al giudice di verificare _i presupposti di applicabilità dell'intesa raggiunta, alla luce dei parametri sostanziali e processuali che saranno qui di seguito illustrati. Dal punto di vista dell'imputato, ciò comporta una serie di rinunce a diversi diritti che gli spetterebbero in base alle ordinarie regole processuali: rinuncia ad esercitare il diritto alla prova, rinuncia controvertere sul fatto e sulla sua qualificazione giuridica; rinuncia a controvertere sulla specie e sulla misura della pena da applicare. In compenso, egli ottiene una serie di 145

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi cospicui vantaggi. Taluni vantaggi sono comuni ai due tipi di rito speciale. Innanzitutto lo sconto di pena: la sanzione, che risulterebbe in concreto applicabile all'esito di un normale dibattimento, va in ogni caso diminuita «fino a un terzo». Altro vantaggio comune ai due tipidi patteggiamento, è l'assenza di effetti pregiudizievoli della sentenza che applica la pena concordata: infatti, a parte l'eccezione della quale si dirà (cfr. infra § 8), essa non è idonea a irradiare effetti vincolanti nei giudizi civili e amministrativi nei quali sia parte l'imputato. Infine, merita di essere qui menzionata l'assenza di pubblicità. Vantaggi ulteriori sono invece collegati al solo patteggiamento minus. Vengono in considerazione, a questo riguardo, l'affrancamento dell'imputato dall'obbligo di pagare le spese processuali; l'esenzione da pene accessorie e misure di sicurezza (art. 445 comma 1° prima parte), eccettuata la confisca. La non menzione della sentenza nel certificato generale del casellario giudiziale richiesto dal private. La pena concordata che non superi i due anni di detenzione può essere sospesa sub condicione e la relativa condanna è destinata a sfociare in una declaratoria di estinzione del reato, se nei cinque anni post sententiam l'imputato non commette un altro delitto o se, nei due anni successivi, non incappa in una contravvenzione della stessa indole di quella che aveva costituito oggetto di accordo (art. 445 comma 2°). Dal punto di vista dell'accusa, la scelta di patteggiare comporta la rinuncia a controvertere sulle questioni di fatto e di diritto connesse col tema dell'imputazione. Il magistrato penale è tenuto ad effettuare la propria scelta alla stregua di parametri obbiettivi. Benché la normativa processuale non dica alcun- ché al riguardo, si deve perciò ritenere che il pubblico ministero debba qui affidarsi agli stessi criteri che la legge espressamente impone al giudice, per stabilire se la richiesta di patteggiamento vada ammessa o rigettata il pubblico ministero può, dunque, esprimere il proprio consenso dopo aver appurato che il materiale d'indagine è sufficiente per applicare la pena richiesta (altrimenti deve proseguire l'indagine oppure chiedere l'archiviazione della notizia di reato o, se del caso, la sentenza di non luogo a procedere): egli deve altresì verificare la corretta qualificazione giuridica assegnala, il fatto dall'imputato nella richiesta di patteggiamento o nell'atto di consenso; e, ancora, deve chiedersi se all'esperibilità del rito alternativo non ostino i motivi di esclusione oggettiva, o soggettiva menzionati nell'art. 444 comma 1-bis; infine, deve interrogarsi sulla congruità della sanzione richiesta rispetto alla gravità del fatto e alla personalità del suo autore. Per verità, il pubblico ministero non dà conto delle ragioni che lo spingono a optare per il patteggiamento,ci penserà poi il giudice a vagliare, anche, (ma non solo) alla stregua dei suddetti criteri, se il rito speciale possa aver luogo. Prima di pronunciarsi sul merito della questione, il giudice deve infatti condurre una, verifica sulla ammissibilità della richiesta di patteggiamento; a meno che non ricorra una delle situazioni indicate nell'art. 129, nel qual caso egli sarebbe tenuto a pronunciare la corrispondente sentenza di proscioglimento. Il giudice compie l'accennato vaglio di ammissibilità, innanzitutto verificando che il reato rientri fra quelli suscettibili di essere definiti con questa speciale procedura anche con riferimento alle esclusioni oggettive e soggettive imposte dall'art. 444 comma 1-bis; in secondo luogo, appurando che la qualificazione giuridica prospettata dalle parti sia corretta; infine, valutando che la pena dalle stesse indicata sia congrua rispetto alle finalità che le sono proprie, alla luce dell'art. 27 comma 2° Cost. (art. 444 comma 2°). Quanto alla completezza dell'indagine, il giudice deve assolvere l'imputato, se a suo carico non risulta alcun elemento (art. 444 comma 2°), sicché grava sul pubblico ministero il dovere (più che l'onere) di negare il proprio consenso a fronte di un'imputazione non sufficientemente suffragata da elementi conoscitivi acquisiti nella fase preliminare. Insomma, benché il consenso al patteggiamento non esiga una formale motivazione, conviene che il pubblico ministero rifletta bene prima di prestarlo onde evitare che l'insufficienza dello sforzo investigativo sfoci in un'improvvida assoluzione. Deve, invece, essere sempre motivato il dissenso opposto alla richiesta dell'imputato: lo esige l'art. 446 comma 6°. Col suo dissenso, il pubblico ministero impone la discussione dibattimentale del caso, ma non pregiudica in alcun modo il contenuto della decisione che si sarebbe potuta (e dovuta) applicare all'esito del patteggiamento: non preclude, cioè, una tardiva applicazione della pena chiesta dall'imputato, ogniqualvolta il giudice del dibattimento o dell'appello, ritengano ingiustificato il dissenso stesso. Orbene, per poter esercitare tale funzione critica i suddetti giudici debbono essere messi in 146

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi condizione di conoscere i motivi che hanno determinato l'opposizione del pubblico ministero al patteggiamento. Ecco perché quel dissenso va necessariamente motivato. 7. Segue: introduzione e svolgimento procedurale. Atto introduttivo del patteggiamento è la richiesta presentata al giudice da una delle due parti principali del processo. Richiesta e consenso possono essere formulati oralmente, se presentati in udienza. Debbono avere forma scritta negli altri casi (art. 444 comma 2°). Trattandosi di atti negoziali, coi quali le parti rinunciano a diritti e facoltà connesse a determinate situazioni processuali, ne è requisit o indispensabile la volontarietà. Ciò comporta che l'imputato deve agire- personalmente o tramite procuratore speciale. Per le persone giuridiche agisce il rappresentante legale, purché questi non abbia la veste di imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo. Un vizio della volontà renderebbe invalidi tanto la richiesta quanto il consenso e sarebbe pertanto motivo di inammissibilità del rito speciale.. la richiesta di patteggiamento può essere avanzata già nel corso dell'indagine preliminare ((arg. ex art. 447 comma 1°), nonché nella successiva udienza preliminare, fino a che le parti non abbiano concluso la relativa discussione (art. 446 comma 1° novellato dall'art.33 -legge n. 479 del 1999). Nel procedimento monitorio, la richiesta va proposta dall'imputato contestualmente all'opposizione contro il decreto dicondanna (art. 463 comma 3°). Negli altri proce- dimenti privi dell'udienza preliminare, il termine ultimo cade sempre nella fase predibattimentale: entro quindici giorni dalla notificazione del corrispondente decreto citazione, quando si procede con giudizio immediato (art. 458 comma 1°); prima che sia dichiarato aperto il dibattimento (art. 492), nel giudizio direttissimo e in quello conseguente a citazione diretta davanti al tribunale monocratico. Entro questi stessi termini, la par te che non ha formulato la richiesta ha facoltà di prestare il proprio con senso, anche se in precedenza tale consenso fosse stato espressamente negato (art. 446 comma 4°). Una sorta di rimessione in termini a favore della difesa è ammessa, a fronte di una contestazione del fatto diverso o del reato concorrente (artt. 516 e 517). La legge processuale non precisa quale debba essere il contenuto della richiesta, ma, dai criteri imposti al giudice per verificarne l'ammissibilità, si ricava che essa deve almeno indicare il fatto da giudicare, la relativa qualificazione giuridiche la pena ritenuta congrua, L'imputato può inoltre legare la sorte del patteggiamento alla chance di usufruire della sospensione condizionale della pena, subordinando l'efficacia cia de lla prima alla concessione della seconda (art. 444 comma 3°). Assume un contenuto particolare la richiesta presentata dal pubblico ministero durante l'indagine preliminare (così come il consenso prestato dallo stesso, all'eventuale richiesta avanzata dall'imputato in questa fase del procedimento). Qui, l'introduzione del rito coincide sempre con l'esercizio dell'azione penale (art. 405 comma 1°), sicché la richiesta o il consenso provenienti dall'organo requirente debbono necessariamente contenere l'atto di imputazione. Se ne ricava, tra l'altro, che il pubblico ministero non può presentare una richiesta di patteggiamento o prestare il proprio consenso, quando ancora l'indagine è incompleta (nel qual caso l'imputazione sarebbe formulata con eccessiva approssimazione) né, tanto meno, quando l'esito investigativo sia insufficiente per sostenere l'accusa in giudizio (nel qual caso, come già accennato in precedenza, il pubblico ministero dovrebbe avviare la procedura di archiviazione, stante la regola di giudizio espressa nell'art. 125 disp. att.). Si ritiene che la richiesta di patteggiamento sia revocabile o modificabile dal proponente, almeno fino a quando non sia intervenuto il consenso dell'altra parte. L'assunto prevalente in giurisrudenza sembra in effetti confermato dalla disposizione che prevede un (eccezionale) caso di irrevocabilità, per l'ipotesi in cui la richiesta sia presentata durante l'indagine preliminare e il giudice abbia assegnato un termine all'altra parte per esprimere il proprio consenso: ,in simile circostanza, ragionevolmente, la legge vieta alla parte istante di revocare o modificare la richiesta, finché quel termine è in corso (art. 447 comma 3° seconda parte). L'intesa (sotto forma di richiesta congiunta, ovvero di richiesta unilaterale seguita dal consenso dell'altra parte) che accusa e difesa raggiungono sulla applicazione della pena obbliga il giudice a decidere circa l'ammissibilità del rito speciale. A tal riguardo, egli è tenuto a svolgere una serie di accurate verifiche alla stregua di criteri in parte già noti per esser stati ripetutamente elencati in precedenza. Più che su un accertamento positivo della responsabilità penale, il 147

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi patteggiamento si fonda quindi sull'esclusione dei possibili presupposti di proscioglimento, alla stregua del materiale di indagine fornito dal pubblico ministero: ciò - come si dirà nel paragrafo seguente, rende problematico inquadrare fra le sentenze di condanna la decisione applicativa della pena concordata. Se si conclude con esito positivo, il vaglio di ammissibilità impone una soluzione di merito conforme all'accordo intervenuto fra le parti: in altre parole, quando accoglie la richiesta di pena, il giudice è vincolato al petitum espresso nella richiesta stessa (art. 448 comma 1° prima parte). Dove il giudice non condivida il "progetto di sentenza", deve rigettare la richiesta di atte giamento, provocando così la prosecuzione del procedimento lungo il normale itinerario che conduce al dibattimento. Tuttavia la dichiarazione di inammissibilità non preclude nuove richieste di fronte al medesimo giudice, finché è aperto il termine per la loro presentazione. Anche la inammissibilità dichiarata dal giudice primo destinatario della domanda di patteggiamento, è esposta, sia pur per una sola volta, al successivo sindacato di altro giudice, se l'imputato ne fa espressa richiesta: e, precisamente, al sindacato del giudice dibattimentale, qualora la richiesta di patteggiamento sia stata rigettata dal giudice dell'indagine preliminare (art. 448 comma 1° seconda parte, novellata dall'art. 34 legge n. 479 del 1999j al sindacato del giudice di appello, qualora la richiesta sia stata, invece rigettata dal giudice dibat- timentale (nei casi di giudizio direttissimo e di citazione diretta davanti al tribunale monocratico); infine, al sindacato del giudice di cassazione, ancora nei casi di citazione diretta e direttissima aventi ad oggetto reati che non ammettono l'appello art. 448 comma 1° terza parte, novellata dal citato art. 34 legge n. 479 del 1999). Un caso particolare di inammissibilità è quello provocato dal dissenso che il pubblico ministero oppone alla richiesta dell'imputato. Tale dissenso impedisce, è il caso di ribadirlo, soltanto la soluzione "patteggiaita" del rito. Non preclude, invece, l'applicazione - nella fase del giudizio - della pena, nella specie e nella misura a suo tempo chiesta dall'imputato. Cio accade ogniqualvolta il giudice del dibattimento (o il giudice d'appello) reputi quel dissenso privo di adeguata giustificazione, alla stregua dei criteri processuali e sostanziali. Sia che contesti il dissenso del pubblico ministero, sia che non condivida la declaratoria di inammissibilità del giudice primo destinatario della domanda di patteggiamento, l'imputato deve reiterare la richiesta davanti al giudice del dibattimento o, rispettivamente davanti a quello dell'impugnazione. Allo scopo di verificare la fondatezza del dissenso o della declaratoria di inammissibilità il giudice ordina l'esibizione degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero prima di dichiarare aperto il dibattimento (art. 135 disp. att. a sua volta rimaneggiato dall'art. 52 legge n. 479 del 1999) e, se la verifica dà esito negativo, dopo che gli atti esibiti sono stati inseriti nel fascicolo dibattimentale il medesimo giudice applica lo sconto di pena erroneamente escluso in precedenza. 8. Segue: la sentenza. L'applicazione di pena concordata non esige — come già accennato — un accertamento positivo della responsabilità penale. La sentenza contiene infatti un semplice accertamento negativo della non punibilità, risolvendosi nella constatata insussistenza delle cause di proscioglimento menzionate nell'art. 129 comma 1°. In particolare, l'insufficienza di prove non sarebbe di ostacolo a una applicazione della pena su richiesta delle parti, poiché il giudice — in sede di patteggiamento — dovrebbe prosciogliere solo se risultasse provata una delle cause indicate nell'art. 129 comma 1°. In altre parole, la situazione di incertezza non gioca qui a favore dell'imputato, come invece accade nel dibattimento. Per di più, nel patteggiamento la decisione è presa «allo stato degli atti», vale a dire, sulla base del materiale raccolto nell'indagine, che non può essere integrato con altro materiale probatorio, nemmeno per superare eventuali incertezze dell'organo giudicante. Nell'una e nell'altra situazione la regola di giudizio da applicare e diverso è altresì il tipo di accertamento condotto dal giudice e dalle parti sulla questione di fatto. Sta precisamente in questa diversità la radice dell'annoso problema riguardante la natura della sentenza che applica la pena richiesta dalle parti. Tale problema è affrontato e risolto con apparente linearità dalla legge, la quale equiparata suddetta sentenza «a una pronuncia di condanna» (art. 445 comma 1-bis seconda parte). Presa alla lettera, tale disposizione impone di ravvisare nella sentenza di patteggiamento una condanna penale, tutte le volte che la legge collega certi effetti all'esistenza, per l'appunto, 148

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi di una sentenza condannatoria: ad esempio, in tema di esecuzione della pena (art. 656 comma 1°), o di iscrizione nel casellario giudiziale (art. 686 comma 1° lett. a n. 1) o, ancora, di effetti «pregiudizali» nel procedimento cautelare personale (art. 300 comma 4"). In certi casi, però, la legge (penale o processuale) connette determinati effetti alla condanna, non tanto in ragione del fatto che esiste una sentenza di quel formale tenore, quanto piuttosto per l'accertamento di responsabilità che la sentenza stessa racchiude e, al contempo, documenta. Talvolta è la legge stessa ad escludere che la sentenza in questione vada considerata come decisione di condanna. Così, è espressamente stabilito, sia pur limitatamente alle ipotesi di patteggiamento minus, che la sentenza in questione non può applicare pene accessorie (art. 445 comma 2° seconda parte), nemmeno quando queste sono collegate ex lege alla condannaerdeterminati reati (artt. 31 e 34 c.p.). È inoltre sancita per tabulas come già riferito in precedenza — la sua inidoneità a sortire effetti vincolanti in sede 'civile risarcitoria (art 445 comma 1°, seconda parte), oltreché in sede amministrativa o in sede civile extra-risarcitoria (arg. ex art. 654 Unica eccezione, l'effetto vincolante che la sentenza di patteggiamento è capace di produrre nel procedimento disciplinare, a seguito della 1. 27 marzo 2001, n97: l'inciso inserito nell'art. 445 comma 1° (salvo quanto previsto dall'art. 653»), impone all'autorità disciplinare di considerare accertata la responsabilità penale di colui che patteggia. La giurisprudenza si è andata orientando nel senso di negare natura condannatoria alla sentenza in questione, ogniqualvolta il giudicato di condanna è dalla legge considerato, per la affermazione di responsabilità che esso racchiude e non in ragione del suo esser titolo per eseguire una pena. Questo spiega, ad esempio, prerché la sentenza di patteggiamento non sia considerata di condanna ai fini della revoca di diritto della sospensione condizionale della pena (art. 168 comma 1° n. 2 c.p.). A que- sto riguardo va tuttavia segnalato il diverso atteggiamento che la giurisprudenza di legittimità va assumendo in relazione alle sentenze ex art. 444, quando suggellano un patteggiamento maius: sentenze che applicano una pena superiore ai due anni sarebbero più prossime alla condanna di quelle che chiudono un patteggiamento minus e, pertanto sono ritenute idonee all'effetto di far revocare la sospensione condizionale della pena in precedenza concessa. La inappellabilità costituisce un altro peculiare tratto della sentenza in questione. L'unico caso di appellabilità è previsto dall'art. 448 comma 2° prima parte, a vantaggio del pubblico ministero. Quest'ultimo può appellare la sentenza con la quale il giudice del dibattimento ha applicato la pena richiesta dall'imputato, rite- nendo ingiustificato il suo dissenso. Non sarebbe stata la stessa cosa costringere il pubblico ministero a dolersi di un simile error in procedendo davanti alla Corte di cassazione. Infatti, se al giudice dell'impugnazione quel suo dissenso appariss giustificato, dovrebbe seguirne un giudizio ordinario che solo il giudice di secondo grado può chiudere con una sentenza di merito. A parte questo caso particolare, la sentenza ex art. 444 è impugnabile col solo mezzo del ricorso per cassazione, per uno dei motivi indicati nell'art. 606. Errores in procedendo ed errores in iudicando possono esser fatti valere in sede di legittimità, anche con riguardo ai punti della decisione su cui si formò l'accordo fra le parti (come, ad esempio, la qualificazione giuridica del fatto) giacché spetta pur sempre alla corte di cassazione l'ultima parola sull'esatta applicazione della legge sostanziale e processuale. 9. Segue: azione civile e patteggiamento. Il danneggiato da reato non vi può intervenire, né per esercitare in quella sede l'azione risarcitoria, né per opporsi alla definizione anticipata del giudizio. E se, nel precedente corso del processo egli avesse già avuto occasione di costituirsi parte civile, il sopravvenuto accordo circa l'applicazione della pena, lo costringerebbe ad abbandonare la sede penale per far valere la propria pretesa davanti al giudice civile. Un procedimento definito allo stato degli atti, alla stregua di una delibazione del materiale di indagine, non è la sede idonea per accertare la responsabilità dell'imputa- to, nemmeno sotto il profilo della sua responsabilità civile per l'eventuale danno cagionato dal reato. Al più il danneggiato già costituitosi parte civile, può esigere dall'imputato il pagamento delle spese processuali fino a quel momento sostenute. Il susseguente processo civile non subirebbe sospensione prevista dall'art. 75 comma 3° (come prevede espressamente l'art. 444 comma 2°), né sarebbe in alcun modo pregiudicato dall'esito del patteggiamento (art. 445 comma 1°, seconda parte). Non costituisce una 149

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi vera eccezione alla regola testé illustrata, il potere che la legge riconosce al giudice dell'impugnazione di decidere sulla questione civile con la sentenza che applica la pena richiesta dalle parti (art. 448 comma 3°). In questi casi, infatti, il giudizio di primo grado si è svolto regolarmente, fino in fondo, sicché il giudice dell'impugnazione ha adisposizione gli atti di una completa istruzione dibattimentale: atti reputati sufficienti a fondare anche una decisione sulla resporsabilità civile. 10. Giudizio abbreviato. Generalità. E’ ora superfluo it consenso del pubblico ministero, che la normativa previgente considerava invece quale requisito essenziale per I'ammissibilità del giudizio abbreviato. Viene meno inoltre la definibilità allo «stato degli atti» quale ulteriore criterio di ammissibilità del rito in questione, il quale può dunque essere disposto — come si vedrà — sulla base di una semplice richiesta formulata dall'imputato anche in presenza di un'indagine incompleta. Viene pressochè a sparire qualsiasi limite oggettivo di applicabilità del rito speciale, essendo ora suscettibili di definizione anticipata con le forme del nuovo giudizio abbreviato anche i processi aventi ad oggetto imputazioni per reati puniti con l'ergastolo. Infine per sopperire ad eventuali incompletezze dell'indagine preliminare, è assicurata la possibilità di assumere prove pure nel corso del giudizio abbreviato. 11. Segue: ambito di applicazione e presupposti. C'è tuttavia un caso in cui il giudizio abbreviato non può essere ammesso a causa della sanzione da applicare: esso riguarda il processo a carico delle persone giuridiche, quando giudice ritenga di dover cancellare l'ente dal mondo dei traffici giuridici infliggendogli la sanzione interdittiva perpetua (art. 62 comma 4° d. lgs.r n,4 231 del 2001). Evidentemente, l'esigenza specialpreventiva è qui avvertita misura così intensa e preponderante, da risultare incompatibile con sconti di pena offerti in cambio delle parziali rinunce al diritto di direndersi provando, insite nelle richieste di questo rito speciale. Quanto ai presupposti, il giudizio abbreviato risulta articolato in due diversi moduli procedurali. II primo modulo risulta imperniato su una richiesta semplice con la quale l'imputato si limita a chiedere the «il processo sia definito all'udienza preliminare allo stato degli atti», come dice l'art. 438 comma 1°. Il secondo modulo prevede invece una richiesta complessa (o condizionata): nel chiedere it giudizio anticipato, l'imputato pone come condizione che siano assunti taluni mezzi di prova, allo scopo di colmare un supposto deficit conoscitivo intorno alla questione di merito. Tale richiesta esige — come si vedrà — un controllo di ammissibilità. La richiesta di giudizio abbreviato (analogamente a quella presentata ex art. 444) è atto personalissimo dell'imputato, che il difensore può dunque presentare in sua vece, solo se munito di procura speciale (art. 438 comma 3°). Nei processi a carico delle persone giuridiche, provvede il legale rappresentante ovvero, se questi fosse a sua volta imputato del reato da cui dipende l'illecito attribuito all'ente, un diverso soggetto, scelto per fungere da rappresentante processuale (art. 39 d. lgs n. 231 del 2001). 12. Segue: fase introduttiva. L'imputato (o legale rappresentante dell'ente) che intende profittare del giudizio abbreviato deve presentare la relativa richiesta durante l'udienza preliminare, fino a che non siano presentate le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422» (art. 438 comma 2°). Tipica espressione del diritto di difesa, la facoltà di richiedere il giudizio abbreviato va ragionevolmente garantita all'imputato anche nei procedimenti privi di udienza preliminare. Nel giudizio immediato (ma solo in quello promosso per iniziativa del pubblico ministero) l'imputato può presentare la richiesta di giudizio, al giudice per le indagini preliminari, dopo che questi gli abbia notificato it decreto di citazione a giudizio e, precisamente, entro quindici giorni dall'ultima notifica del decreto stesso all'imputato, o dell'avviso al difensore, della data fissata per il giudizio. La richiesta dev'essere poi comunicata al pubblico ministero. De caso di giudizio direttissimo, e a seguito di citazione diretta davanti al tribunale in composizione monocratica, dove l'accusa non è sottoposta al vaglio preliminare di un organo giurisdiziona (g.i.p. o g.u.p.) la richiesta va presenteata giudice dibattimentale, in udienza, prima però chef sia dichiarato aperto il 150

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi dibattimentale (art. 452 comma 2° prima parte) e, rispettivamente, art. 556 comma 2° combinato con l'art. 558 comma 8°). Define, nel procedimened per decreed l'opponente può chiedere il giudizio abbreviato al giudice chef ha stesso it decreto stess6 (art. 461 comma 3°). il quake fissata addirittura l'udienza per it giudizio, dandone avviso a tutti gli intaessati(pubblico ministero, imputato, parte civile, persona offesa e relativi difensori), con almeno cinque giorni di anticipo sull'udienza medesima, onde consentire un'adeguata preparazione del contraddittorio (art. 464 comma 1° prima parte). Presentata la richiesta, incombe, sul giudice che la riceve, dovere di controllarne l'ammissibilita. Nel caso di richiesta semplice, di regola, si limita a un con-trollo meramente formale dell'atto di parte: si tratta di verificare se esso sia stato presentato nei termini prescritti (art. 438 comma 2°); se sia effettivamente riconducibile a una scelta volontaria dell'imputato eventualmente rappresento da un procuratore speciale (art. 438 comma 3°); se, infine, la volonta di quest'ultimo di essere giudicato «allo stato degli atti» risulti espressa in forma inequivoca (art. 438 comma 1°). Soltanto per le richieste provenienti dal rappresentante legale della persona giuridica il vaglio di ammissibilità implica una valutazione discrezionale circa la meritevolezza di una pena, la definitive interdizione dell'ente da ogni traffico giuridico, che - come già accennato - e ostacolo insormontabile all'esperibilità del giudizio abbreviato (art. 62 comma 4° d.lgs. n. 231 del 2001). Quando da esito positivo, il controllo sulla richiesta semplice sfocia nell'ordinanza che ammette al rito speciale (art. 438 comma 4°). In caso contrario la richiesta va rigettata e non può più essere riproposta. Quando è presentata una richiesta complessa, il giudice deve aggiungere al controllo meramente formale, del quale si è appena detto, un controllo sul contenuto della domanda di parte. Essendo, l'efficacia di tale richiesta, subordinata ad una "integrazione probatoria", che il richiedente reputa indispensabile ai fini della decisione, il giudice deve verificare se le prove indicate dall'imputato siano davvero «necessarie» per decidere il merito della causa e se la loro assunzione sia compatibile con le finalita di economia processuale proprie del procedimento (art. 438 comma 5° seconda parte). Benché la Legge non ne faccia menzione, si deve ritenere che il vaglio di ammissibilità di questa richiesta complessa vada condotto anche alla stregua del criterio di validità dei mezzi di prova dei quali l'imputato esige l'assunzione, giacchè la prova vietata (ad esempio, la testimonianza di una persona incompatibile ex art. 197) non solo inutilizzabile, ma anche e soprattutto insuscettibile di essere acquisita pure nel giudizio abbreviato. Entrambi i segnalati criteri impegnano in varia misura la discrezionalità del giudice. II concetto di necessarietà evoca, da un lato, il nesso di pertinenza che deve collegare la reclamata integrazione probatoria con i fatti da provare ai fini della decision di merito (art. 187 comma 1°), e dall'altro, l'idea di non superfluità della prova (art. 190 comma 1°): tutte valutazioni demandate a un apprezzamento soggettivo e insindacabile del giudoce destinatario della richiesta. Ancor pia elastico e, anzi, vago al punto da alimentare possibili arbitri, risultava il criterio connesso con l'esigenza economica. Di qui i dubbi di legittimità costituzionale che questa parte della normativa lasciava affiorare: dubbi che la Corte costituzionale ritenne insufficienti al primo rinvio della questione, ma the reputò fondati a seguito di una nuova prospettazione dell'asserita irragionevolezza. A seguito di tale intervento dunque, e sindacabile dal giudice del dibattimento it rigetto che, per ragioni di economia processuale, it giudice dell'indagine o dell'udienza preliminare dovesse opporre alla richiesta complessa di giudizio abbreviato. Mesta invece insindacabile l'eventuale rigetto opposto per gli stessi motivi dal giudice del trattamento, quando it rito abbreviate fosse chiesto a lui dopo l'instaurazione del giudizio direttissimo o nevi processi a citazione Biretta. La ragione del diverso trattamento risiede, quid, nel rilievo che it giudice del dibattimento, primo destinatario di una richiesta complessa, non è certo il soggetto piu indicato a sindacare la correttezza dell'eventualejrovvedimento di rigetto da lui stesso adottato. In questi casi, pertanto, non rimane che sperare nel giudice d'appello. Ma torniamo ai compiti del giudice destinatario della prima richiesta. L'eventuale rigetto della domanda avanzata dall'imputato non impedisce la riproposizione di una nuova richiesta, davanti al medesimo giudice, fino a che sia in corso l'udienza preliminare, come stabilisce l'art. 438 comma 6°. Tale facolta, stranamente e irragionevolmente, non 6 esercitabile dagli imputati dei procedimenti privi di udienza preliminare (giudizio direttissimo, citazione diretta davanti al giudice monocratico, giudizio immediato, decreto penale di condanna opposto), es- sendo stato omesso qualsiasi riferimento alla suddetta 151

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi norma. La nuova richiesta sara accolta, se l'imputato avrà saputo riformularla in maniera rispondente ai criteri suaccennati. L'imputato ha la facolta di presentare simultaneamente pia richieste, fra Toro alternative, ciascuna delle quali contenente un diverso "progetto" di integrazione probatoria. Ed altresi ragionevole consentire it cumulo di una richiesta complessa con una richiesta semplice, in modo da lasciar operare quest'ultima qualora la prima fosse rigettata. Rigettata la richiesta, it procedimento e destinato a proseguire lungo l'iter ordinario, verso la soluzione dibattimentale. L'ordinanza che nega accesso al rito speciale influisce sul quantum di pena da irrogare in caso di condanna. L'imputato ha ora facoltà di sottoporre all'esame del giudice dibattimentale (e, se del caso, del giudice di appello) it provvedimento che gli ha negato accesso al rito. Esame che va condotto riportandosi alla situazione processuale nella quale fu formulata la prima richiesta, vale a dire tenendo conto anche degli atti antecedenti la richiesta stessa e allocati nel fascicolo del pubblico ministero che di regola dovrebbero restare inaccessibile al giudice dibattimentale. Trova infatti applicazione qui quell'art. 135 disp. att. che regola l'analoga situazione del giudice (dibattimentale o d'appello) che si trovi a dover decider su una richiesta di patteggiainento ostacolata da un dissenso del pubblico ministero che l'imputato reputa ingiustificato. Quando, invece, la verifica di ammissibilita da immediatamente esito positivo, it giudice dispone l'udienza di giudizio abbreviato, con un ordinanza che — come si dirà, solo eccezionalmente potra essere revocata. 13. Segue: svolgimento procedurale. Il rito si svolge in camera di consiglio, in un'udienza alla quale il pubblico di regola non è ammesso, salvo che l'imputato o, in caso di piu persone, tutti gli imputati ne facciano unanimemente richiesta (art. 441 comma 3° seconda parte). La pubblicità del rito a ammessa nel solo procedimento di primo grado (non, invece, in appello come si interesse degli imputati, i quali vantano, al riguardo un diritto assistito da una semplice nullità relativa (arg. ex art 471 comma 1°), suscettibile peraltro di essere limitato nei casi in cui, in linea generale, si giustificherebbe il sacrificio della pubblicità dibattimentale (artt. 472 e 473). Di regola, l'udienza si svolge in camera di consiglio, con la partecipazione necessaria delle parti principali del processo. Non è poi esclusa la presenza della parte civile, che già costituita in precedenza - ha facoltà di ricusare l'accettazione del rito abbreviato, ma non di impedirne lo svolgimento. La non accettazione del rito speciale comporta l'uscita dal processo penale del soggetto che si reputa danneggiato e ha l'ulteriore conseguenza di mettere in discussione l'effetto vincolante che la sentenza conclusiva del giudizio abbreviato altrimenti avrebbe nel separato giudizio civile risarcitorio (artt. 651 comma 2° e 652 comma 2°). Il danneggiato può costituirsi parte civile anche dopo che è stata accolta la richiesta presentata a norma dell'art. 438, ma in tal caso la legge non gli permette di tornare sui propri passi, rifiutando it rito speciale. L’udienza di giudizio abbreviato si svolge secondo le norme riguardanti l'udienza i preliminare, con qualche necessario adattamento. Più apparente che reale è l'eccezione prevista dall'art. 441 comma 1°, in base alla quale sarebbero destinate a trovar applicazione 1'udienza di giudizio abbreviato, le disposizioni che regolano l’assunzione di prove (art. 422) e il mutamento dell'udienza preliminare. Gli ultimi due commi dell'art. 441, col riconoscere i poteri di integrazione probatoria e di contestazione suppletiva, smentiscono l'eccezione con riguardo alla generalità dei giudizi abbreviati. Il giudizio abbreviato ha svolgimenti parzialmente diversi, secondo che sia scaturito da una richiesta semplice o, rispettivamente, da una richiesta complessa. Nel primo caso, il giudice si avvia verso la decisione di merito, verificando in primo luogo se gli atti presenti nel fascicolo a sua disposizione siano sufficienti a risolvere la questione di fatto. Se così non fosse, vale a dire, se sussistesse qualche incertezza al riguardo, egli avrebbe comunque il potere di assumere «anche d'ufficio gli elementi necessari ai inn della decisione» (art. 441 comma 5°). Egli può agire d’ufficio oppure su sollecitazione dell'imputato, al quale tuttavia la Legge non riserva — in questa situazione — un vero e proprio diritto alla prova: proponendo una richiesta semplice, egli ha accettato, infatti, un giudizio «allo stato degli atti» (art. 438 comma 1°). Il pubblico ministero, privato a sua volta del diritto alla prova, perde il potere di svolgere ulteriori indagini a partire dal momento in cui la richiesta semplice dell'imputato viene accolta. Ma tornando ai poteri istruttori del giudice, va detto che ogni mezzo di prova può qui essere assunto, indipendentemente dal 152

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi dispendio di tempo che la sua formazione o acquisizione comporta. Essendo, infatti, irrevocabile l'ordinanza di ammissione del rito speciale, il giudice deve esperire ogni tentativo possibile per colmare le proprie lacune conoscitive, in modo non dissimile da quel che dovrebbe fare — in analoga si- tuazione — il giudice dibattimentale a norma dell'art. 507. L'unica vera differenza col dibattimento sta nel modo di assumere la prova che — nel giudizio abbreviato — segue le regole dettate per l'udienza preliminare (art. 4221 anziché quelle dell'istruzione dibattimentale (artt. 496 ss). Ciò significa che nell'udienza di giudizio abbreviato — come nell'udienza preliminare — eventuali testimoni, coimputati, periti o consulenti tecnici sono interrogati direttamente dal giudice e, solo per il tramite di quest'ultimo, le parti hanno facoltà di partecipare alla formazione dei relativi mezzi di prova, proponendo le loro domande (art. 422 comma 3°). L'imputato ha, diritto di farsi interrogare (art. 422 comma 4° prima parte). Diversamente vanno le cose, quando il rito speciale scaturisce da una richiesta complessa, la cui efficacia — lo si è già detto l'imputato ha inteso subordinare all'integrazione probatoria evocata dall'art. 438 comma 5°. Benché la legge non lo precisi è ragionevole ritenere che, quella richiesta — nella quale trova, a suo modo, parziale espressione il diritto alla prova enunciato dall'art. 190 — debba indicare le circostanze di fatto che esigono di essere chiarite e i relativi mezzi di prova dei quali l'imputato chiede l'assunzione. Ne segue che il giudice — una volta ammesso il giudi- zio abbreviato — è vincolato al contenuto di tale richiesta. Anche qui, beninteso, egli deve escludere le prove vietate e, se lo ritiene necessario, può assumere d'ufficio le prove indispensabili per emettere la sentenza: il 5° comma dell'art. 441. Dal canto suo, il pubblico ministero ha non solo la facoltà di proseguire la propria attività di indagine suppletiva (diversamente da quanto accade nel giudizio abbreviato introdotto da una richiesta semplice), ma anche il diritto di chiedere ed ottenere l'ammissione di prove contrarie a quelle indicate dall'imputato nella richiesta complessa (art. 438 comma 5° terza parte). Solo la mancata assunzione di una prova a norma del citato art. 495 costituisce motivo di annullamento della sentenza di merito (art. 606 comma d) . Un simile error in procedendo può certo esser portato all'attenzione del giudice di secondo grado, ma questo accadrà solo di rado, perché sono pochi i casi in cui l'accusatore è ammesso ad appellare le sentenze di un giudizio abbreviato. Qualsiasi tipo di integrazione probatoria rende probabile un mutameto dell'imputazione contestata nella richiesta di rinvio a giudizio. Per questo, con gli stessi articoli che regolano l'assunzione di prove nel giudizio abbreviato, la legge fa salvo l'art. 423). Il legislatore del 1999 ha ravvisato nell'art. 423 la disposizione adeguata a regolare i possibili mutamenti della res iudicanda. In altre parole, che l'art. 423 non assicuri (espressamente all'imputato un termine a difesa, né un diritto alla prova calibrato sul nuovo addebito, è tollerabile proprio per il carattere processuale dell'udienza preliminare. Ma dove, come nel giudizio abbreviato, è in gioco il merito della causa, dove il giudice è chiamato a sciogliere l'alternativa fra assoluzione e condanna, quella limitazione di diritti difensivi appare irragionevole e ingiustificata Detto altrimenti, sotto lo specifico profilo qui considerato, il rito abbreviato appare affine al dibattimento più che all'udienza preliminare. Di qui l'inadeguatezza del semplice richiamo all'art. 423 e la necessità di arricchire il corredo di garanzie dell'imputato che subisce la nuova contestazione. L'art. 441-bis (novellato dall'art. 2-octies della legge n. 144 del 2000) rimedia all'infortunio, con riguardo alla contestazione di fatti diversi, circostanze aggravanti o reati concorrenti ex art. 12 lett. b. Tale disposizione, in realtà, non si limita a tutelare le ragioni dell'imputato, garantendogli, in ordine al nuovo addebito, il diritto alla prova e un termine a difesa. In base ad essa, l'imputato può altressì togliere effetto alla propria precedente richiesta di giudizio abbreviato, provocando così la prosecuzione del processo nelle forme ordinarie. Il giudice deve assegnare all'imputato dietro sua specifica richiesta un termine non superiore a dieci giorni (art. 441-bis comma 3°). Niente esclude, ovviamente, che questi accetti, seduta stante, la nuova contestazione, rinunciando a quel termine. Del resto, anche nell'analoga situazione che si verifica in dibattimento, la concessione del termine dipende da una richiesta dell'interessato (art. 519 comma 2°). A seguito di tale richiesta, ogni attività processuale resta sospesa. Si apre, a questo punto, la possibilità di un duplice svolgimento, dipendente dalla scelta dell'imputato. Se il termine assegnato dal giudice scade senza che sia presentata richiesta di procedere per le vie ordinarie, il giudizio abbreviato continua sulla base della nuova imputazione. L'imputato può chiedere 153

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi l'assunzione di altri mezzi di prova, oltre i limiti previsti dall'art. 438 comma 5° (come precisa l'art. 441-bis comma 5°). E altrettanto può fare il pubblico minister. Dal canto suo, il, giudice è tenuto a valutare l'ammissibilità delle nuove prove richieste in base a criteri analoghi a quelli menzionati nell'art. 190 (non superfluità e utilizzabilità), e dopo averne stabilito la pertinenza rispetto al fatto descritto nella nuova contestazione. Non viene invece in considerazione il particolare (e discutibile) criterio di economicità. Quando l'imputato faccia espressa richiesta di trasformazione del rito (da abbreviato in ordinario), Questa richiesta é atto personalissimo dell'imputato. La richiesta di trasformazione del giudizio abbreviato in ordinario provoca un provvedimento giudiziale di revoca dell'ordinanza ammissiva del rito speciale. La sequenza procedurale refluisce, di regola, verso l'udienza preliminare e di lì riparte, proseguendo il suo normale iter. A tale scopo,. il giudice deve «fissare» l'udienza preliminare oppure disporne la «prosecuzione». Egli fissi l'udienza, ogniqualvolta la trasformazione del rito sia stata _preceduta da una richiesta di sospensione del giudizio abbreviato (art. 441-bis comma 3°), e ne ordini invece la prosecuzione, quando l'imputato abbia chiesto il giudizio ordinario immediatamente dopo la nuova contestazione. In quest'ultimo caso, l'esordio del giudizio abbreviato, infatti è idoneo a surrogare la fase introduttiva dell'udienza preliminare, mentre nel primo caso, essa dovrebbe ricominciare da capo per i necessari adempimenti. Altrimenti vanno le cose quando la trasformazione del_ rito avvenga nei procedimenti sforniti di udienza preliminare. A tutti questi è dedicato l'art. 2-nonies legge n. 144 del 2000, il quale, infatti, interviene, con opportune correzioni, sulle molteplici fattispecie normative che regolano il passaggio da un procedimento speciale (privo, per l'appunto di udienza preliminare) in giudizio abbreviato, stabilendo come debba avvenire il passaggio inverso, nei casi di nuova contestazione ex art. 423 comma 1°. Se il rito abbreviato era scaturito da un giudizio direttissimo, il processo deve tornare alla fase pre-dibattimentale e il giudice è tenuto a fissare l'udienza di giudizio direttissimo (art. 452 comma 2°, novellato dall'art. 2-nonies comma 1° 1. cit.). Analogamente, vale a dire, fissando l'udienza per il giudizio, occorre provvedere quando il rito abbreviato era stato chiesto per uno dei reati a citazione diretta, elencati nell'art. 550 (art. 556 comma novellato dall'art. 2-nonies comma 4° 1. cit.). Il giudice deve fissare l'udienza di giudizio immediato, aver revocato il rito abbreviato chiesto a norma dell'art. 458, come stabilisce il comma 2° dello stesso art. 458, nella versione emendata dall'art. 2-nonies comma 2° 1. cit. Infine, quando è revocata l'ordinanza ammissiva del rito abbreviato che era stato chiesto nel corso di un procedimento monitorio, il processo prosegue con la fissazione dell'udienza normalmente provocata dall'opposizione proposta dall'imputato contro il decreto di condanna (art. 464 comma 1°, modificato dall'art. 2-nonies comma 3° 1. cit.). Diversamente stanno le cose quando si tratta di contestare un fatto nuovo, a norma dell'art. 423 comma 2°. Qui, come si sa (retro, cap. V, § 41), la nuova contestazione è subordinata a un provvedimento autorizzativo del giudice e a un esplicito consenso dell'imputato questi due atti debbono adeguarsi al particolare contesto del giudizio abbreviato: da un lato, il consenso dell'imputato va formulato come richiesta (semplice o complessa) di definizione ancipata del processo, anche in ordine al fatto nuovo; dall'altro, l'autorizzazione del giudice ha per oggetto non solo la valutazione circa l'opportunità di cumulare la trattazione del fatto nuovo con quello già contestato, ma anche l'ammissibilità della richiesta di giudizio abbreviato, secondo i criteri illustrati nel paragrafo precedente. L'ultimo atto dell'udienza che chiude il giudizio abbreviato è costituito dalle conclusioni, formulate dalle parti. Al fine di stabilire l'ordine di intervento nella discussione finale, conviene riferirsi alla disciplina dibattimentale (art. 523 comma 1°), stando alla quale l'esordio è riservato al pubblico ministero, il seguito alle parti eventuali nella sequenza sopra indicata, mentre l'ultima parola spettae al difensore dell'imputato stesso, se ne fa richiesta (art. 523 comma 5°). 14. Segue: la sentenza. Terminata la discussione, il giudice si ritira per decidere il merito della causa. La legge non dice se deve trattarsi dello stesso giudice che, in precedenza, ha accolto la richiesta di giudizio abbreviato. Ma, al riguardo, la giurisprudenza - sia pur sotto la normativa antecedente la riforma del 1999 - si è andata nettamente orientando in senso affermativo. Il principio di immediatezza vale anche nel giudizio abbreviato. All'epoca si riteneva 154

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi incongruo, che la decisione di merito potesse essere adottata da un giudice diverso da quello che aveva vagliato l'ammissibilità del rito speciale. Se così fosse stato, il giudice, incaricato di emettere la sentenza di merito sarebbe stato costretto, per così dire, ad adeguarsi, suo Malgrado, all'apprezzamento del collega su un punto cruciale, quale quello concernente la definibilità del processo allo stato degli atti. In particolare, valgono le regole di giudizio dettate dagli artt. 529 ss. (espressamente richiamati dall'art. 442 comma 1°). Pertanto, se al termine della discussione il giudice non fosse certo della colpevolezza dell'imputato, vale a dire, se constatasse una insufficienza (o addirittura una totale mancanza) di prove a carico, dovrebbe emettere sentenza di proscioglimento a norma dell'art. 531) comma 2°. Dovrebbe altresì prosciogliere, con sentenza di non doversi rocedere nei casi di dubbio sull'esistenza di una condizione di proce- dibilità (art. 529 comma 2°) o di una causa di estinzione del reato (art. 531 cpmma 2°). comma 2°). La condanna presuppone dunque - come in dibattimento che la responsabilità penale dell'imputato sia positivamente dimostrata. L'art. 442 comma 1-bis elenca le fonti del convincimento giudiziale, individuandole, per l'appunto, negli atti di indagine preliminare (quelli cioè contenuti nel «fascicolo di cui all'art. 416 comma 2°»), negli eventuali esiti dell'indagine suppletiva (vale ,a dire, «la documentazione di cui all'art. 419 comma 3°) e nei verbali dell'attività di integrazione probatoria promossa dal giudice o richiesta dall'imputato (vale a dire, «le prove assunte nell'udienza»). Quando condanna, il giudice del giudizio abbreviato deve diminuire di un terzo la pena in concreto considerate. La legge fissa qui diversamente l'entità dello sconto, convertendo l'ergastolo con isolamento diurno in ergastolo semplice (art 442 comma 2°, seconda parte) ovvero la pena perpetua in pena temporanea di quantità determinata (trenta anni di reclusione: art. 442 comma 2°, seconda parte). La natura processuale di queste diminuenti impedisce che delle stesse si tenga conto per calcolare il tempo di prescrizione del reato. Non è escluso che la sentenza in questione contenga dei capi civili riguardanti il risarcimento del danno da reato. La sentenza penale, una volta divenuta definitiva, è destinata a spiegare effetti vincolanti nel separato giudizio civile di risarcimento del danno, sempre a condizione che la parte civile abbia accettato il giudizio abbreviato (artt. 651 comma 2° e 652 comma 2°). Quando il giudicato è di condanna (vale a dire, quando è favorevole al danneggiato) la legge ne sancisce comunque l'effetto vincolante per il giudice civile, salvo che non vi si opponga la parte civile che, a suo tempo non aveva accettato il giudizio abbreviato (art. 652 comma 2°; per ulteriori dettagli infra, cap X. §4). Diversamente dalla sentenza di patteggiamento, quella emessa al termine del giudizio abbreviato è appellabile, pur nei limiti fissati dall'art. 443. Vanno innanzitutto segnalati limiti oggettivi, è sempre interdetto l'appello contro le sentenze di proscioglimento, in linea con la scelta di carattere generale recentemente operata nel art. t593 comma 2° (infra, cap. IX § 19), e senza nemmeno la pur circoscritta eccezione ivi prevista. Anche le sentenze di condanna alla pena dell'ammenda (art. 593 comma 3°) sono sottratte al giusdizione di secondo grado. È stato invece rimosso il duplice limite all'appellabilità delle sentenze, originariamente stabilito dal codice nei confronti dell'imputato che subiva una condanna a sanzione sostitutiva o a pena che non doveva essere eseguita. Restano invece in vigore i limiti imposti al pubblico ministero il quale non può proporre appello contro le sentenze di condanna, salvo che queste riguardino un titolo di reato diverso da quello a suo tempo specificato nell'imputazione. In giurisprudenza si ritiene che questo limite previsto dall'art. 443 comma 3° escluda non solo l'appello in via principale contro le suddette sentenze, ma anche quello incidentale, previsto dalla generale disposizione dell'art. 595. Il pubblico ministero non può profittare dell'appello incidentale, per aggirare l'impedimento ad appellare che gli deriva dall'art. 443 comma 3°. Ne segue che l'imputato è il solo a poter proporre appello coritro le seatenze inapellabili dal pubblico ministero, in relazione alle quali, dunque, egli potrà sempre giovarsi del divieto di reformatio in peius (art. 597 comma 3°; nonché infra, cap. IX, § 21). Dubbia appare invece l’appellabilità della sentenza conclusiva del giudizio abbreviato ad opera della parte civile. Privata del diritto di appellare la sentenza, la parte civile subisce un'irragionevole compressione del suo diritto di difendersi nel processo penale giacché nel processo civile questo diritto certamente le spetterebbe). Insomma, questo diritto va affermato, anche per evitare collisioni con i principi costituzionali e in primo luogo, con la ragionevole attuazione del diritto di difesa che deve assistere il danneggiato da reato, il quale abbia scelto di costituirsi parte 155

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi civile, accettando il giudizio abbreviato come sede per l'accertamento del danno risarcibile. La parte civile ha facoltà di appellare le sentenze si condanna, e di proscioglimento emesse a norma dell'art. 442. Quando è appellata una sentenza emessa a seguito di rito abbreviato, il relativo giudizio di impugnazione è destinato a svolgersi sempre in camera di consiglio, vale a dire senza intervento del pubblico, anche se quello di primo grado si fosse svolto coram populo. Lo impone l'art. 443 comma che assoggetta questo tipo di appello alle «forme previste dall'art. 599». Nel corso dell'udienza di appello possono essere assunte nuove prove, entro i limiti ammessi dall'art. 603. L'imputato che ha condizionato l'ammissione del rito speciale a una determinata integrazione probatoria mantiene, anche in grado di appello, il diritto alla riassunzione del mezzo di prova già acquisito in primo grado, purché ciò appaia necessario ai fini della decisione (art. 603 comma 1°). A sua volta, il pubblico ministero limitatamente ai casi in cui figuri come appellante, ha diritto a chiedere la riassunzione, o l'assunzione per la prima volta delle prove contrarie (art. 438 comma 5° terza parte) a quelle che l'imputato aveva dedotto nella richiesta di giudizio abbreviato. Va risolto diversamente il caso dell'imputato il quale abbia proposto la richiesta di giudizio abbreviato, senza condizionarne l'efficaia a un'integrazione probatoria. Con questo atto egli ha volontariamente rinunciato al diritto alla prova e non può pretendere che tale diritto risorga nel giudizio di appello. Correlativamente, nemmeno il pubblico ministero, qualora si presentasse nella veste di appellante, sarebbe qui titolare di un diritto alla prova. L'integrazione probatoria è dunque affidata in via esclusiva al giudice, il quale può assumere tutti i mezzi di prova che ritiene assolutamente «necessari» ai fini della decisione. 15. Giudizio immediato richiesto dall'imputato. Fra i procedimenti speciali, espressione di "giustizia consensuale", il giudizio immediato richiesto dall'imputato occupa un posto a parte. Ne è conferma la circostanza che la disciplina di questo rito è contenuta non nel libro VI, dedicato ai procedimenti speciali, ma nel libro V, dedicato alla fase preliminare del processo e, precisamente, in una disposizione riguardante la fase preparatoria dell'udienza preliminare, qual è l'art. 419 comma 5' (retro, cap. V, § 38). La semplificazione procedurale riguarda il segmento intermedio del procedimento penale di primo grado (l'udienza preliminare, appunto), non quello finale (vale a dire il divattimento). Infine la rinuncia esplicitata dall'imputato nella richiesta di giudizio immediato sortisce un effetto meramente processuale, giacché la legge non vi collega alcuna diminuzione di pena. Il tratto tipico del rito qui considerato risiede nella facoltà che la legge attribuisce alla parte (e, segnatamente, all'imputato) di rinunciare alla chance difensiva rappresentata dall'udienza preliminare. Presupposto del rito è la dichiarazione con la quale l'imputato rinuncia all'udienza preliminare (art. 419 comma 5° prima parte). Essendo in gioco il diritto (individuale) di difendersi, la rinuncia costituisce, ancora una volta, atto personalissimo dell'imputato, il quale può far agire in propria vece un procuratore ad hoc. Unico requisito di ammissibilità dell'atto è il rispetto del termine per la sua presentazione: almeno tre giorni prima della data in cui dovrebbe tenersi l'udienza preliminare. Inoltre, nella disciplina in vigore fino al gennaio 2000 solo nel dibattimento l'imputato era assistito da un vero e proprio diritto alla prova (arti. 190 comma 1°, 468 e 495), mentre nell'udienza preliminare la legge non gli riconosceva il diritto di far assumere prove utili ai fini del proscioglimento. Questo ulteriore possibile incentivo alla scelta del giudizio immediato è venuto meno con la nuova formulazione dell'art. 422, che, pur non aprendo spazi al diritto alla prova, estende in misura considerevole i pote- ri del giudice, giustificandone l'esercizio proprio nella prospettiva del «non luogo a procedere». Il giudice emette decreto di giudizio immediato (art. 419 comma 6°). Si ritiene in giurisprudenza, che egli possa astenersi dall'emettere quel decreto e imporre la prosecuzione del processo con le forme ordinarie, quando sia in gioco una riunione di procedimenti che la richiesta dell'imputato finirebbe col mettere in discussione: le esigenze efficientistiche, di sistema, prevalgono sulla volontà dell'imputato. Infine, optando per il giudizio immediato, l'imputato si preclude la possibilità di chiedere il giudizio abbreviato (art. 458 comma 3), ma anche l'applicazione pena a norma dell'art. 444. Il rinvio fatto dal novellato art. 446 comma 1° seconda parte al 156

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi termine stabilito dall'art. 458 comma 1° concerne, infatti, il solo giudizio immediato promosso dal pubblico ministero, non quello richiesto dall'imputato. 16. Procedimenti speciali espressione di giustizia "conflittuale". Elemento comune di questi riti è, appunto, l'imposizione alle parti private e, in particolare, all'imputato, di una semplificazione procedurale che coincide con l'amputazione di uno o più segmenti della fase preliminare del procedimento di primo grado. Molteplici sono le ragioni che possono giustificare tale semplificazione. Rilevano, a questo riguardo, fattori eterogenei quali l'evidente fondatezza dell'accusa, l'esigenza di pervenire a una decisione dibattimentale con esemplare celerità in ordine a reati percepiti come allarmanti, la scarsa gravità dei reati da perseguire e l'opportunità di procedere a nuove contestazioni nell'udienza preliminare o nel dibattimento. In tutti questi casi la legge processuale introduce deroghe al canone di eguaglianza. Non solo. Anche un certo modo di intendere la presunzione di non colpevolezza trova qui un suo significativo temperamento. E se tutti i cittadini - sotto questo profilo - sono da presumere ugualmente innocenti, sarebbe logico che il procedimento penale constasse, per tutti gli imputati, delle stesse fasi, della stessa progressione di accertamenti. Discriminazione ragionevole, quando risulti basata su stati di fatto, standardizzabili con sufficiente precisione dalla legge. 17. Giudizio immediato richiesto dal pubblico ministero. Presupposto fondante questo procedimento speciale è l'evidenza della prova, comel'art. 453 comma 1°. A fronte di una simile evidenza di colpevolezza, sarebbe ozioso verificare la fondatezza dell'accusa pertanto, la legge ritiene ragionevole, in tal caso, sopprimere l'udienza preliminare, che è la fase espressamente preordinata a quella verifica. Non basta però che la prova appaia evidente al pubblico ministero, perché si possa direttamente passare dall'indagine preliminare al giudizio. Essa deve apparire tale anche al giudice, al quale il pubblico ministero deve rivolgersi per ottenere la citazione a giudizio immediato. Non solo. La legge pone condizioni ostative all'accoglimento della richiesta del pubblico ministero, allo scopo di scongiurare il duplice rischio che la scelta del rito speciale diventi un'ingiusta sperequazione ai danni dell'imputato; oppure che si risolva in una scelta nociva e perciò sconsigliabile sul piano dell'economia e dell'efficienza processuale. Sotto il primo profilo, è chiaro che la soppressione dell'udienza preliminare — quando è voluta dal pubblico ministero priva forzatamente la difesa di un'occasione per contrastare il cammino dell'accusa verso il dibattimento. Ecco perché il giudizio immediato non può essere disposto, se non dopo che la persona sottoposta alle indagini sia stata messa incondizione di interloquire, col magistrato penale, «sui fatti dai quali emerge l'evidenza della prova» (art. 453 comma 1°). Non è necessario che la persona sia effettivamente interrogata su quei fatti: se così fosse, la persona indagata potrebbe "boicottare" il giudizio immediato, semplicemente astenendosi dal comparire davanti al magistrato. È perciò sufficiente un invito a comparire per l'interrogatorio - con un atto nel quale siano descritti i fatti che rendono evidenti i termini dell'accusa: solo l'irreperibilità dell'imputato o un suo legittimo impedimento sarebbero, a quel punto, di ostacolo all'instaurazione del giudizio immediato (art. 453 comma 1°). Sotto il profilo dell'economia processuale e dell'efficienza la scelta del giudizio ,immediato potrebbe risultare controproducente in caso di connessione, quando si procede cumulativamente anche per reati la cui prova "non appare evidente". Favorevolealla separazione dei processi, il codice impone in questi casi che il rito speciale segua il suo iter scindendosi dalle vicende connesse. Tuttavia, se il giudice ritenesse «indispensabile» mantenere il cumulo processuale, dovrebbe rigettare la richiesta di guidizio immediate. Infine, la legge condiziona l'ammissibilità della richiesta proveniente dal pubblico ministero all'osservanza di un limite temporale, fissato in novanta giorni dalla registrazione della notizia di reato (art. 454 comma 1°). L'instaurazione di questa specie di giudizio immediato coincide sempre con l'eserci- zio dell'azione penale (art. 405), Il pubblico ministero formula l'imputazione con un atto (richiesta) che chiama in causa il giudice dell'indagine preliminare. A quest'ultimo va contestualmente trasmesso il fascicolo dell'indagine con la corrispondente notizia di reato (art. 157

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi 454 comma 2°). L'iniziativa del pubblico ministero fa scattare l'obbligo del giudice di pronunciarsi sull'ammissibilità del rito speciale: questione che va risolta entro il termine (meramente ordinatorio di cinque giorni da quella richiesta. Se la prova non appare evidente o se manca una delle altre condizioni il giudice rigetta la richiesta con decreto non motivato (art. 455). Egualmente privo di motivazone è il decreto con il quale il giudice – sussistendo i presupposti e le condizioni testé ricordati — accoglie la richiesta di giudizio immediato. L'assenza di motivazione rende insindacabili, nel merito, entrambi questi provvedimenti processuali. Non è invece esclusa una critica, sotto il profilo della legittimità, del decreto che accoglie la richiesta del pubblico ministero, quando questo sia stato emesso senza il previo interrogatorio (o l'equipollente invito a comparire) della persona indagata. In questo errore procedurale la giurisprudenza è giustamente incline a ravvisare una lesione del diritto di difesa, riconducibile all'art. 178 lett. c: nullità a regime intermedio, idonea a contaminare la validità del decreto di giudizio immediato (art. 185 comma 1°), del quale il giudice del dibattimento dovrebbe dunque constatare e dichiarare l'invalidità, restituendo poi gli atti al pubblico ministero (art. 185 comma 3°) per l'ulteriore, regolare corso della procedura. Il decreto che accoglie la richiesta del Pubblico ministero introduce al contempo il giudizio immediato. L'assenza di motivazione nel decreto di giudizio immediate è requisite negativo, volto non solo a rendere insindacabile l'atto ma altresì a preservare l'imparzialità del giudice dibattimentale, proprio come accade per il decreto emesso a norma del citato art. 429 (retro, cap. V, § 45). Si entra così nella fase degli atti preliminari al dibattimento (artt. 465 ss.). Disposto il giudizio immediato, l'imputato può, innanzitutto, chiedere il giudizio abbreviato o il patteggiamento. In relazione ad entrambi questi riti alternativi si esige che la richiesta sia presentata, a pena di decadenza, nei quindici giorni che seguono la notificazione del decreto di giudizio immediato (art. 458 comma 1° e, rispettivamente art. 446 comma 1° seconda parte). Per il patteggiamento le cose stanno diversamente, perché la richiesta di una parte non é nemmeno presa in considerazione dal giudice, se manca il consenso dell'altra parte. Il problema e che le norme da ultimo indicate non prevedono il termine entro il quale tale consenso dev'essere prestato. Caduta, con la riforma del 1999, la parte della norma che riguardava il consenso del pubblico ministero alla richiesta di giudizio abbreviato è stato soppresso anche il riferimento al termine che l'art. 458 istituiva per la prestazione di tale consenso. Oggi, la norma in questione vale anche per il patteggiamento, ma — privata di quell'inciso divenuto superfluo solo per il giudizio abbreviato — non fornisce alcuna indicazione circa il termine entro il quale dovrebbe essere prestato il consenso per il patteggiamento. Di fronte al silenzio della legge, sarà il giudice ad assegnare un termine alla parte, come accade, del resto, nell'analoga situazione in cui il patteggiamento è chiesto con l'opposizione al decreto penale di condanna (art. 464 comma 1° terza parte: cfr. infra, § 27). Se accoglie la richiesta di giudizio abbreviato, o quella di patteggiamento, il giudice dell'indagine preliminare fissa l'udienza. Il rigetto di quelle richieste avrebbe invece come conseguenza la prosecuzione del processo lungo l'ordinario iter. Tanto la richiesta di patteggiamento (art. 448 comma 1°, seconda parte) quanto la richiesta complessa di giudizio abbreviato possono essere tuttavia rinnovate davanti al giudice del dibattimento, in limine litis. 18. Segue: giudizio immediato "obbligatorio". Merita di essere considerato a parte il caso di giudizio immediato imposto ex lege quando vi sia stata opposizione al decreto penale di condanna. Presupposto del rito speciale non è ui l'evidenza della prova. Nel contesto del procedimento per decreto, l'udienza preliminare è ritenuta superflua non solo perché l'accusa appare saldamente ancorata a fatti incontestabili (al punto che il giudice per le indagini preliminari li aveva ritenuti sufficienti addirittura a giustificare un provvedimento di condanna), ma anche perché essa (accusa) ha per oggetto reati di scarsa gravità, i quali non sempre sono agevoli da provare. Un criterio essenzialmente politico, basato sulla tenuità del trattamento sanzionatorio, sta dunque al fondo di questa speciale ipotesi di giudizio immediato. Evidentemente il legistatore ha ritenuto che le chances offerte dall'udienza preliminare possano essere sacrificate, quando la posta in gioco è una semplice pena pecuniaria. Bisogna tuttavia considerare che la maggior parte di questi reati rien tra in quel settore di cognizione del giudice monocratico 158

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi soggetto alle regole della «citazione diretta» (art. 550), affidato a un iter procedurale di per sé privo — come si sa — dell'udienza preliminare. Ne segue che il giudizio immediato obbligatorio (art. 464 comma 1°) impone, di fatto, il sacrificio di questa fase di garanzia ai procedimenti riguardanti una ristretta cerchia di reati (fra questi, ad esempio taluni dei reati previsti dagli artt. 2621 e seguenti c c., possibile oggetto di decreto pepale in quanto punibili, in concreto, con sanzioni sostitutive di pene detentive: appartenendo alla cognizione del tribunale collegiale, il processo relativo a questi reati annovera, infatti, anche l'udienza preliminare, nel suo svolgimento ordinario). Le caratteristiche procedurali del giudizio immediato obbligatorio sono pressoché identiche a quelle descritte nel paragrafo precedente con riferimento al giudizio immediato, per così dire, ordinario, regolato dagli arti. 453-458. L'unica differenza di rilievo sta nell'atto introduttivo del rito; 11011 una richiesta del pubblico ministero, bensì un decreto di citazione, che il giudice dell'indagine preliminare emette d'ufficio quando abbia constatato che ogni via a una soluzione anticipata del processo è ormai preclusa. 19. Giudizio direttissimo. La specialità di questo rito risiede nella soppressione pressoché totale dell'intera fase preliminare e in una significativa contrazione o, se si preferisce, semplificazione della fase predibattimentale. Ad esso si ricorre — esclusivamente per atto imperativo del magistrato – quando il fondamento dell'accusa è a tal punto evidente da rendere superflua, non solo la verifica dell'udienza preliminare, ma addirittura la ricerca di mezzi di prova solitamente attuata nell'indagine preliminare. Si può dire che, se il giudizio immediato esige una generica evidenza dei fatti descritti nell'accusa, il giudizio direttissimo presuppone una evidenza "qualificata" degli stessi fatti. Rilevano, a questo riguardo, due classiche situazioni processuali e, precisamente, l'arresto in flagranza e la confessione resa a brevissima distanza dall'inizio dell'indagine. Si danno tuttavia due modalità di svolgimento del giudizio direttissimo, leggermente diverse, secondo che l'imputato sia privo della libertà personale o sia invece libero. L'imputato arrestato o in custodia cautelare – una volta chiusa l'udienza die convalida per l'arresto – è presentato direttamente dal pubblico ministero al giudice dibattimentale (art. 450 comma 1°). Qui l'imputazione è contestata oralmente in udienza questo prima che il dibattimento sia aperto. Con la contestazione del fatto, il pubblico ministero provvede a formare il fascicolo del dibattimento a norma dell'art. 431 e a consegnarlo al giudice (art. 138 disp. att.). Il predibattimento non esiste. I testimoni possono essere presentati direttamente nell'udienza, senza bisogno di previa citazione (art. 451 comma 4°). L'imputato può chiedere un termine (non superiore a dieci giorni) per meglio organizzare la propria strategia difensiva. Durante questo lasso di tempo, il dibattimento resta sospeso e il difensore può prendere visione sia di eventuali atti di indagine esistenti presso la segreteria del pub- blico. ministero (art. 450 comma 6°), sia degli atti inseriti nel fascicolo del dibattimento. L'imputato libero ovale a dire, quello rimesso in libertà dopo l'udienza di convalida o quello che, pur avendo confessato la propria responsabilità penale entro i quindici giorni dalla registrazione della notizia di reato, non si trova in stato di custodia cautelare) è invece citato a comparire all'udien za di giudizio direttissimo, convocata dal pubblico ministero nel rispetto di un termine dilatorio di tre giorni (art. 450 comma 2°). In questi casi, l'imputazione è contestata per iscritto, nel decreto di citazione a giudizio. C'è, in questi casi, il tempo per una pur breve indagine preliminare, che il pubblico ministero può condurre con la consueta ampiezza di mezzi (artt. 358 ss.), fino al decreto di giudizio direttissimo. In attesa del dibattimento, c'è spazio ancheper qualche essenziale adempimento predibattimentale; il fascicolo del dibattimento è formato, ancora una volta, dal pubblico ministero, subito dopo l'emissione del suddetto decreto (art. 450 comma 4°); il difensore ha diritto di essere avvertito della data fissata per il giudizio (art. 450 comma 5°); egli ha inoltre facoltà di vedere, nonché acquisire in copia, gli atti di indagine esistenti presso la segreteria del pubblico ministero (art. 450 comma 6°). Costituisce un diritto dell'imputato, sanzionato apena di nullità (art. 178 lett. c), quello di essere avvertito della facoltà di chiedere il giudizio abbreviato o il patteggiamento (art. 451 comma 5°), prima che sia dichiarato aperto il dibattimento (art. 446 comma 1° prima parte). Anche la richiesta di giudizio direttissimo, peraltro, subisce un vaglio di ammissibilità. La scelta di questo rito speciale — conviene ribadirlo — si regge su presupposti che 159

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi postulano un'accusa seriamente fondata. Nei casi di arresto in flagranza, il giudizio direttissimo è subordinato all'ulteriore condizione che l'imputato permanga in stato di privazione della libertà personale, talché la praticabilità del rito speciale resta preclusa senza un esplicito atto di consenso dell'imputato a piede libero (art. 449 comma 2°: il punto sarà ripreso infra, § 28). La posta in gioco è tale da esigere un controllo giurisdizionale sull'instaurazione del rito speciale. L'atto col quale il pubblico ministero introduce il giudizio direttissimo costituisce un «modo, di esercitare l'azione penale», sul quale il giudice è, chiamato a escrcitare il suo sindacato, se — a fronte di un'iniziativa del pubblico ministero volta a promuovere il giudizio direttissimo — il giudice ritiene che non sussista alcuna delle situazioni assunte dalla legge a presupposto del procedimento speciale, quest'ultimo non può aver luogo. Non c'è traccia nel codice di un provvedimento di inammissibilità, anche perché — come già detto — manca qui una formale richiesta del pubblico ministero cui riferire la valutazione di ammissibilità o di inammissibilità. Semplicemente la legge impone la restituzione degli atti al pubblico ministero. Ed è chiaro che nel provvedimento (motivato ma insindacabile) col quale il giudice ordina la restituzione degli atti al pubblico ministero è implicitamente contenuta una statuizione d'inammissbilità del giudizio direttissimo. Un ulteriore limite al promovimento del rito speciale può discendere dall'opportunità di mantenere riuniti diversi procedimenti penali, quando fra questi ve ne sia alcuno che il pubblico ministero intende definire "per direttissima". Tale scelta comporta, di regola, fa separazione del procedimento speciale rispetto alle altre vicende connesse. Se, però, ragioni di convenienza legate al complessivo buon esito delle indagini sconsigliano la separazione il giudice ordina che si proceda cumulativamente e nei modi ordinari in relazione a tutte le regiudicande (art. 449 comma 6°). 20. Segue: giudizio direttissimo davanti al giudice monocratico. Il giudizio direttissimo può essere promosso davanti al giudice monocratico per li stessi casi, per i quali risulta ammissibile davanti a quello collegiale. Restano alcune differenze: la presentazione in udienza della, persona arrestata è fatta, di regola, dall'organo di polizia giudiziaria (art. 558 commi 1° e 2°), il quale è altresì autorizzato dal giudice a svolgere una breve relazione orale, finalizzata principalmente a porre le premesse conoscitive per il giudizio di convalida. Solo eccezionalmente vi provvede il pubblico ministero. A norma dell'art. 558 comma 7° l'imputato facoltà di, chiedere un termine a difesa più breve (fino a cinque giorni) di quello assicurato davanti al giudice collegiale (dieci giorni), ma non ha diritto ad essere avvertito dal giudice della possibilità di avvalersi di tale facoltà, come invece prevede l'art. 451 comma 6°. Grazie al generale rinvio operato dall'art. 549, trovano perciò applicazione le corrispondenti norme previste negli artt. 450 e 451 e valgono dunque le osservazioni già svolte a questo riguardo, nel paragrafo precedente. 21. Segue: giudizi direttissimi c.d. atipici. In certi, eccezionali casi, il giudizio direttissimo può essere promosso senza che ricorrano i presupposti indicati negli artt. 449 e 558 e, dunque, sulla base di altra causa giustificativa. Il fondamento di questi particolari casi di giudizio direttissimo risiede non già in una supposta facilità della prova, bensì nell'esigenza, essenzialmente politica, di. giudicare con celerità reati per lo più percepiti come gravi e allarmanti. Il giudizio direttissimo per reati concernenti armi ed esplosivi e di introdurre ulteriori esemplari di questa tipologia procedimentale: segnatamente per i reati di discriminazione etnica, razziale e religiosa (art. 6 comma 50 d.l. 26 aprile 1993, n. 122, conv. con 1. 25 giugno 1993, n. 205); per taluni reati commessi in occasione di manifestazioni sportive (art. 8-bis 1. 13 dicembre 1989, n. 401 nella versione emendata d.l. 20 agosto 2001, n. 336, conv. con 1. 19 ottobre 2001, n. 377); per molti reati collegati all'illegale ingresso e permanenza degli stranieri nel territorio dello Stato. In relazione a tutti questi reati, il giudizio direttissimo costituisce il modo ordinario di procedere derogabile solo in quanto siano necessarie «speciali indagini», nel qual caso si reputa ragionevole far regredire il procedimento alla fase preliminare. Una simile deroga non viene tuttavia prevista per taluni casi di giudizio direttissimo introdotti dalla 1. n. 189 del2002, forse perché relativi a reati, quali quelli relativi al reingresso dello straniero 160

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi espulso (artt. 13 e 13-bis), considerati di facile e quindi, rapido accertamento. Sta di fatto però che, per simili reati non c'è alternativa al giudizio direttissimo. In tutti gli altri casi, invece, la necessità di «speciali indagini» legittima il pubblico ministero a scegliere il normale iter processuale, con atto che la giurisprudenza ritiene insindacabile. É invece sindacabile, da parte del giudice dibattimentale, l'apprezzamento negativo circa la necessità di speciali indagini, implicitamente contenuto nell'atto col quale il giudizio direttissimo atipico viene instaurato: soltanto quando le investigazioni da compiere si rivelino incompatibili, per complessità e durata, con la speditezza che deve pur cotrqassegnare anche il giudizio direttissimo cosiddetto atipico. Ne segue che questo rito speciale può comportare una preliminare fase investigativa, destinata a protrarsi per un periodo ben, superiore a quello (quindici giorni) consentito, nei casi previsti dall'art. 449commi 4° e 5° in relazione all'ordinario giudizio direttissimo. Ciò nonostante, la sequenza procedurale resta priva della fase predibattimentale. 22. Contestazione suppletiva del reato concorrente e del reato continuato. Pur estranea all'elenco di procedimenti contenuto nel libro VI, la contestazione suppletiva del reato concorrente e del reato continuato presenta in realtà tutte le caratteristiche del indizio speciale promosso ex auctoritate. Invero, quando avviene nell'udienza preliminare (art. 423), essa realizza un singolare caso di esercizio dell'azione penale, senza previa indagine preliminare. Quando, invece, avviene nel dibattimento (art. 517), essa comporta addirittura l'amputazione dell'intera fase preliminare del processo, oltre che di quella predibattimentale. L'istituto in questione trova la sua ragione d'essere nell'opportunità di giudicare insieme, cumulativamente, le regiudicande connesse a norma dell'art. 12 lett. b. L'affiorare, nell'udienza preliminare o nel dibattimento, di un fatto che appaia in rapporto di continuazione o di concorso formale con quello già contestato. Se per tutti questi fatti fosse riconosciuta la responsabilità dell'imputato, la relativa pena dovrebbe essere quantificata nel rispetto della proporzione stabilita dall'art. 81 c.p. Uno svolgimento separato delle vicende processuali riguardanti le regiudicande in questione renderebbe comprensibilmente difficoltoso, se non addirittura impossibile, questo calcolo. È vero che la legge processuale offre un rimedio esperibile in sede esecutiva (art. 671). Ma si capisce come sia preferibile prevenire l'errore. La legge impone una nuova contestazione senza esigere né il consenso dell'imputato, né l'au- torizzazione del giudice, che sono invece richiesti per la contestazione di fatti nuovi nell'udienza preliminare Cart. 423 comma 2°) o nel dibattimento(art. 518) e dei quali ci si occuperà in seguito (infra, § 29). A compensare questa perdita di garanzie, la normativa processuale riconosce comunque allegarti, nei casi previsti dall'art. 519 comma 1°, il diritto di ottenere una sospensione del dibattimento per preparare la difesa in ordine al nuovo addebito, analogamente a quanto accade nel giudizio direttissimo, il quale a sua volta si caratterizza come s'è visto —per l'assenza della fase predibattimentale (art. 451 comma). Anche il diritto alla prova è salvagurdato, col riconoscere a tutte le parti il diritto all'assunzione di nuove prove in ragione della mutata regiudicanda. È fatto salvo, infine, il diritto dell'imputato di essere ammesso all'oblazione; così come il diritto di accedere al patteggiamento. Resta invece escluso il diritto dell'imputato di accedere al giudizio abbreviato, in ordine al reato concorrente o continuato che siano stati contestati in dibattimento. 23. Procedure speciali di carattere misto. Si tratta — come già anticipato nelle prime pagine di questo capitolo — di quelle situazioni complesse, nelle quali la semplificazione procedurale scaturisce da un atto imperativo del magistrato penale, combinato con il consenso dell'imputato o con l'accordo delle parti principali del processo. È sempre l'autorità giudiziaria, e segnatamente il pubblico ministero, ad assumere l'iniziativa ufficiale volta a semplificare il rito ma tale iniziativa sortisce l'esito voluto, solo se ad essa segue un'accettazione del rito speciale da parte dell'imputato.

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Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi 24. Procedimento per decreto. In, certi casi, quando è in questione l'accertamento di reati lievemente punitila legge ammette che il provvedimento di condanna possa essere emesso al termine dell'indagine preliminare, senza previo contraddittorio. La forma del decreto assunta qui dal provvedimento di condanna è, per l'appunto, il riflesso formale di questa assenza del contraddittorio. Tratto essenziale del rito è, dunque, l'eliminazione della fase dibattimentale, attuata in via autoritativa dal giudice (su richiesta del pubblico ministero), alla stregua di un parametro oggettivo, identificato nella applicabilità in concreto di una pena pecuniaria. Il condannato (impuato o persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria) però facoltà di opporsi al decreto penale, l'ambito di operatività di questo procedimento speciale è stato esteso ai reati per i quali la pena pecuniaria fosse applicata in sostituzione di una breve pena detentiva (art. 53 1. 24 novembre 1981, n. 689). È stato altresì introdotto un "incentivo prerniale" - vale a dire, una riduzione della pena sino alla metà rispetto al minimo edittale. I reati assoggettabili a decreto penale,ora ricomprendono pure quelli perseguibili a querela della persona offesa: non più soltanto quelli procedibili d'ufficio. Infine, anche gli illeciti imputabili alle persone giuridiche, in quanto, a loro volta, sanzionabili con pena pecuniaria, possono essere definiti con questa rapida procedura (art. 64 d. lgs. n. 231 del 2001). 25. Segue: fase introduttiva e svolgimento procedurale. Atto introduttivo del rito è una richiesta che il pubblico ministero presenta al giudice delle indagini preliminari, allegandovi il fascicolo con gli esiti delle sue in- vestigazioni, entro sei mesi dalla della notizia di reato. La richiesta è atto di esercizio dell'azione penale: deve pertanto contenere tutti i dati idonei a identificare l'imputato e la correlativa imputazione (art. 459 comma 1°). Essa deve inoltre indicare la pena da applicare, che il pubblico ministero può quantificare — come già detto — con una generosa diminuzione (fino alla metà del minimo della pena edittale), per invogliare l'imputato ad accettare la condanna. La richiesta va innanzitutto rigettata se, dagli atti presenti nel fascicolo dell'indagine, risulta che l'imputato dev'essere prosciolto. In tutti. gli altri casi, il rigetto della richiesta comporta la restituzione degli atti al pubblico ministero, con atto insindacabile del giudice. Il rito speciale non è ammesso per ragioni eminentemente procedurali, quando la relativa richiesta è stata presentata fuori termine oppure quando — nei reati perseguibili a querela — la persona offesa si sia opposta al procedimento per decreto (art. 459 comma 1°). Ma l'inammissibilità di questo rito speciale può fondarsi anche su ragioni legate all'esigenza di assicurare l'esatta applicazione della legge penale sostanziale e, precisamente, quando il giudice ritiene che vada applicata misura di sicurezza personale (che non può essere disposta con decreto penale: art. 459 comma 4°), oppure quando reputa incongrua la pena proposta nella richiesta del pubblico ministero. Il giudice dell'indagine non può modificare l'entità della pena quantificata dal pubblico ministero. Se la richiesta del pubblico ministero merita di essere accolta, il giudice emette decreto di condanna, e caratterizzato da una motivazione sommaria sulle ragioni della decisione (art. 460 comma 10 lett. c), il decreto è tuttavia idoneo a divenire irrevocabile e a costituire titolo per eseguire la pena inflitta, a meno che la parte non vi si opponga entro quindici giorni dalla relativa notifica. A tale scopo, il giudice deve inserire nel decreto - a pena di nullità (art. 178 lett. c) - un avviso agli interessati (imputato, difensore, civilmente ob- bligato per la pena pecuniaria), per ricordar loro ex art. 460 comma 1° lett. e ed f, il diritto di opporsi al provvedimento di condanna, optando per uno dei riti speciali ivi indicati, e per avvertirli altresì che la mancata opposizione nel termine suddetto renderebbe esecutiva la condanna. Sempre a pena di nullità, l'imputato va avvertito della facoltà di nominare un difensore (art. 460 comma 1° lett. g). La singolarità si spiega se si pensa che l'imputato potrebbe essere del tutto ignaro de procedimento a suo carico, culminato nel decreto di condanna. Basta questo cenno per capire quale importanza rivesta, in simile contesto, il problema della notificazione del decreto. A questo fine, la legge allestisce un rimedio preventivo vietando - perché troppo rischiosa - la notificazione del decreto penale secondo la procedura normalmente seguita per l'imputato irreperibile (art. 159): perciò, di fronte all'impossibilità di rintracciare quest'ultimo, il giudice deve addirittura revocare il decreto di condanna e restituire gli atti al 162

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi pubblico minister. E lo stesso accade quando la notificazione del decreto all'imputato risulti impossibile, per essere inidonea o insufficiente la dichiarazione di domicilio ex art. 161 la legge appresta un rimedio esperibile successivamente all'emissione del decreto penale e consistente nel rendere particolarmente agevole la restituzione in terminiper proporre opposizione, tutte le volte che l'interessato dimostri di non aver avuto conoscenza effettiva del decreto stesso, per ragioni non imputabili a sua colpa (artt. 462 e 175 comma 2° prima parte). Ritualmente effettuata la notifica, la mancata opposizione equivale ad accettazione della condanna inflitta col decreto. 26. Il decreto penale. Scaduto il termine per l'opposizione, il decreto penale diventa definitivo e costituisce titolo per eseguire la condanna, salvo che l'opposizione proposta da altri coimputati, condannati con decreto per il medesimo reato, produca l'effetto estensivo previsto dall'art. 463 comma 1°, che — come si vedrà — può sfociare in una revoca del provvedimento di condanna. Sotto il profilo del ne bis in idem (art. 649) e ai fini del giudizio di revisione (art. 629), il decreto penale vale come una normale sentenza di condanna. L'accertamento contenuto nel decreto penale — al pari di quello contenuto nella sentenza di patteggiamento — è inidoneo a sortire effetti vincolanti, a norma degli artt. 651- 654 nei giudizi civili e amministrativi (art. 460 comma 5°). Inoltre, il pro- cedimento per decreto non può sfociare nell'applicazione di una misura di sicurezza personale. Ora, il condannato per decreto non subisce più l'obbligo di pagare le spese processuali, né gli possono essere applicate le sanzioni accessorie previste dalla legge penale (art. 460 comma 5° prima parte). Inoltre, il reato oggetto del decreto di condanna è destinato ad estinguersi, se nei cinque anni successivi (ridotti a due per gli illeciti contravvenzionali), l'imputato non ne commette un altro della medesima indole (art. 460 comma 5° seconda parte). Ancora, l'art. 460 comma 5° stabilisce che il decreto di condanna non è d'ostacolo a una successiva sospensione condizionale (art. 164 c.p.), né — si direbbe — può giustificare una revoca della sospensione stessa (art. 168 c.p. ). Infine, la condanna inflitta con decreto, pur iscritta nel casellario giudiziale, non dev'essere più menzionata nei corrispondenti certificati richiesti dai privati (art. 689 comma 2° lett. a n. 5). 27. Opposizione a decreto penale. Opponendosi al decreto penale, l'imputato (ovvero il civilmente responsabile per la pena pecuniaria o, ancora, la persona giuridica per il tramite del suo rappresentante) consegue simultaneamente un duplice risultato: da un lato, sospende l'esecuzione della condanna, dall'altro impone che l'accertamento del fatto avvenga in forme diyerse da quelle del procedimento per decreto, L'atto di opposizione ha perciò un duplice contenuto: esso vale come dissenso dell'interessato rispetto al rito speciale; ma vale anche come impugnazione rispetto alla condanna inflitta col decreto penale. In quanto atto che ripudia il rito speciale, l'opposizione è prerogativa dell'imputato oltre che degli altri soggetti suindicati. Ciò spiega perché la legge attribuisca principalmente a questi ultimi la facoltà di manifestare la propria contraria volontà. Essi, tuttavia, possono agire anche attraverso il proprio difensore. Sussiste quindi un'autonoma facoltà del difensore di proporre opposizione, analogamente a quel che accade nella generale disciplina delle impugnazioni (571 comma 3°). In quanto atto di impugnazione, l'opposizione è priva del cosiddetto effetto devolutivo, poiché - una volta proposta — il processo è destinato a proseguire davanti al giudice di primo grado, non davanti a un giudice di grado superiore. Inoltre, l'opponente non deve necessariamente indicare i motivi della sua doglianza: per veder ammesso il suo gravame, è sufficiente che, nella relativa dichiarazione egli indichi gli estremi del provvedimento di condanna, oltre alla data dello stesso e che identifichi il giudice del decreto. Il giudice non è qui assoggettato nemmeno al divieto di reformatio in peius (art. 597 comma 3°), Infine, l'opposizione sortisce un effetto estensivo, limitatamente ai casi in cui il decreto di condanna sia stato pronunciato contro una pluralità di imputati per il medesimo fatto. Solo se tale giudizio si conclude con certe formule di proscioglimento («il fatto non sussiste», «il fatto non è previsto dalla legge come reato», «il fatto non costituisce reato per la presenza di una causa di giustificazione») l'imputato non opponente può lucrare il buon esito dell'iniziativa altrui. In tali casi, 163

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi il decreto di condanna (la cui esecuzione è rimasta sospesa anche nei confronti del non opponente, grazie al suaccennato effetto estensivo) è revocato dal giudice (art. 464 comma 5°). Con la sua opposizione, l'imputato ripristina l'ordinaria situazione prosessuale subito successiva all'esercizio dell'azione penale, nella quale è ancora possibileeffettuare la scelta di un altro rito speciale. In particolare, egli può chiedere il giudizio immediato ovvero il giudizio abbreviato, il patteggiamento allo stesso giudice (delle indagini preliminari) che ha emesso il decreto penale (art. 461 comma 3°). L'eventuale richiesta d'oblazione (art. 464 comma 2°) va invece indirizzata al giudice procedente, da individuare nel giudice dell'indagine preliminare finché il fascicolo, formato a norma dell'art. 431, non sia trasmesso al giudice dibattimentale (art. 464 comma 2°). La scelta di una fra queste procedure alternative va fatta con l'atto d'opposizione. Per nessuna ragione può essere fatta nel corso del giudizio successivo all'opposizione stessa. Il giudice che riceve la dichiarazione di opposizione è innanzitutto tenuto a vagliarne l'ammissibilità, alla luce dei pochi requisiti imposti dalla legge: legittimazione dell'opponente; osservanza del termine; estremi e data del decreto di condanna; identificazione del giudice che lo adottò. Il difetto di uno di questi requisiti comporta l'inammissibilità dell'atto di parte, con la conseguenza che il decreto penale diventa esecutivo: non prima però che la relativa ordinanza diventi, a sua volta, definitiva. E l'attesa potrebbe prolungarsi, dal momento che l'ordinanza in parola è ricor ribile per cassazione (art 461 comma 6°). Se non c'è consenso o accordo fra le parti per una definizione anticipata del processo, si procede con citazione a giudizio immediato, secondo le regole già illustrate in precedenza (retro, § 18). Nel giudizio conseguente all'opposizione, il decreto penale deve essere revocato (art. 464 comma 3°): ma, anche se il giudice non provvedesse con atto formale, l'effetto di revoca si produrrebbe ex lege, a seguito del semplice accoglimento dell'opposizione. Il dibattimento si svolge secondo le regole ordinarie. Non si capisce bene quale ruolo possa avere il querelante nel giudizio conseguente ad opposizione. La legge impone che gli sia data comunicazione del decreto penale (art. 459 comma 4°). In linea generale la persona offesa vanta un diritto (adeguatamente tutelato) di essere citata in giudizio (art. 178 lett. c) per esercitare in quella sede le facoltà che la legge le attribuisce (artt. 90 ss.). Inoltre, se intendesse esser presente con maggior peso nel giudizio penale, essa avrebbe pur sempre il diritto di costituirsi parte civile. 28. Giudizio direttissimo su accordo delle parti. Costituisce un caso eccezionale di giudizio direttissimo quello previsto dall'art. 449 comma 2°, nonché — per il procedimento davanti al giudice monocratico — dall'art. 558 comma 5°, Come già rilevato in precedenza, la mancata convalida dell'arresto, di regola, è d'ostacolo all'instaurazione del giudizio direttissimo. Di fronte a simile eventualità, il giudice deve restituire gli atti al pubblico ministero affinché proceda in altra maniera (art. 449 comma 2° prima parte e art. 558 comma 5° prima parte). Tuttavia — si affretta a preci- sare la legge — il giudizio direttissimo può ancora essere ammesso, se «l'imputato e il pubblico ministero vi consentono» (art. 449 comma 2° seconda parte e art. 558 comma 5° seconda parte). Ciò che cambia è il presupposto, non più limitato all'ordinario requisito oggettivo (l'arresto in flagranza) che legittima il ricorso al rito speciale, ma tale da comprendere anche un requisito soggettivo (il consenso delle parti). Partiamo dalla considerazione che la legge processuale istituisce una sorta di rapporto pregiudiziale fra giudizio di convalida e instaurazione del giudizio direttissimo. L'esito positivo della prima — tutte le volte che vi sia stata presentazione dell'arrestato in dibattimento — impone di procedere «immediatamente al giudizio», come recita l'art. 449 comma 3°; la convalida dell'arresto è condizione necessariaper il protrarsi di quello stato. Ma non è condizione sufficiente, giacché potrebbe ben darsi il caso che l'arresto sia stato legittimamente operato e che, ciò nonostante, l'imputato vada restituito alla sua libertà, perché — ad esempio — difettano le esigenze cautelari indicate nell'art. 274. Che si sia fatto riferimento all'esito del giudizio di convalida, significa che si è inteso enfatizzare l'affermazione di «evidenza probatoria» insita in quel giudizio. La convalida di un arresto in flagranza acquista qui il senso di un'ulteriore conferma del quadro indiziario: è superfluo muovere alla ricerca di elementi idonei a sostenere un'accusa che, anche dopo il giudizio di convalida, appare seriamente fondata. Poco importa che 164

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi l'imputato, una volta convalidato l'arresto, sia rimesso in libertà, perché ciò non sposta di un millimetro la diagnosi a suo carico. Reciprocamente, la mancata convalida pone il problema dell'inopportunità del giudizio direttissimo, a sua volta per ragioni legate, stavolta in negativo, alla situazione di evidenza probatoria. La mancata convalida potrebbe riguardare un arresto effettuato sì nei confronti di un autore sorpreso in flagrante ma per un reato escluso dagli elenchi contenuti negli artt. 380 e 381. Poiché — lo si e già detto — l'esito negativo del giudizio di convalida non esclude necessaria mente l'evidenza dell'accusa il giudizio direttissimo può ancora essere promosso, purché però lo vogliano le due parti principali del processo. Non sono previste forme particolari per la prestazione del consenso. Il pubblico ministero potrà manifestarlo, semplicemente citando l'imputato a comparire (art. 450 comma 2°). Il consenso dell'imputato può essere presentato iin qualsiasi for- ma (orale o scritta), anche dal suo difensore pur privo di procura a ad hoc (arg. ex art. 99); può anche essere dedotto — per facta concludentia - dal comportamento dell'imputato che accetti l'iniziativa del pubblico ministero, volta a instaurare il giudizio direttissimo. 29. Contestazione suppletiva del «fatto nuovo». Il consenso dell'imputato gioca un ruolo centrale, anche in quel singolare caso di semplificazioneprocedurale, che si realizza quando il pubblico ministero contesta all'im-putato un nuovo fatto, mentre è in corso il processo per altra imputazione a carico del medesimo imputato. Deve ovviamente trattarsi di un fatto non connesso Il tipo di «nuove contestazioni» qui considerate è principalmente orientato ad esigenze di economia processuale. E, siccome tali esigenze non possono essere soddisfatte a scapito dei diritti dell'imputato, il consenso di quest'ultimo diventa condizione essenziale per questa specie di semplificazione del rito. Occorre distinguere secondo che il nuovo capo di imputazione sia contestato nell'udienza preliminare (art. 423 comma 2°), oppure nel dibattimento (art. 518). Nel primo caso, la sequenza procedurale risulta priva della fase dell'indagine preliminare. Ben diversamente stanno le cose nel dibattimento, dove la contestazione di un fatto nuovo (art. 518 comma 2°) comporta la soppressione dell'intera fase preliminare del processo, oltre che della fase predibattimentale, dimostrandosi così strutturalmente affine al giudizio direttissimo. Il diritto di difesa è tutelato alla stessa maniera che negli altri casi di modifica della regiudicanda dibattimentale (artt. 516 e 513 sospensione del processo (da venti a quaranta giorni) e ammissione dtprove in ordine al nuovo addebito sono assicurate all'imputato che ne fa richiesta. Accettando tale contestazione, l'imputato non solo rinuncia a, contrastare l'accusa nell'udienza preliminare, ma si preclude altresì quella variegata gamma di scelte che la legge impone di fare fra udienza preliminare e aper-tura del dibattimento: giudizio abbreviato, patteggiamento oblazione non possono essere richiesti in relazione al reato contestato a norma dell'art. 518 comma 2°. La legge esige che il consenso provenga direttamente dall'imputato presente nel dibattimento. La contestazione suppletiva in parola dev'essere accompagnata da un atto autorizzativo del giudice. La subordinandone l'esercizio non solo alla constatata manifestazione di personale consenso dell'imputato, ma altresì alla verifica che essa (contestazione) non nuoccia alla speditezza del procedimento. L'aggiunta di un nuovo capo di imputazione a quello già contestato si risolve necessariamente in un cumulo di regiudicande, che – secondo la regola generale contenuta nell'art. 17 comma 1° – è soggetto al vaglio di opportunità del giudice procedente.

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Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi CAPITOLO VII

GIUDIZIO 1. La fase del giudizio. Con il giudizio si apre una nuova fase del procedimento ovvero, più precisamente, del processo; il quale, come si sa, ha inizio dal momento della domanda del pubblico ministero al giudice di pronunciarsi sull'imputazione (domanda che prende il nome di esercizio dell'azione penale). Il giudizio viene instaurato in base al decreto che il giudice emette al termine dell'udienza preliminare (art. 429), ovvero a un decreto di giudizio immediato (art. 456). Tuttavia l'imputato può anche essere citato a giudizio con atto del pubblico ministero, come accade nei casi previsti, dall'art. 550, davanti al tribunale in composizione monocratica, nonché, se si trova in stato di libertà, quando si procede con giudizio direttissimo (art. 450 comma 2°); o addirittura può essere presentato dal pubblico ministero 'direttamente all'udienza dibattimentale (nel giudizio direttissimo in caso di arresto o di custodia cautelare: art. 450 comma 1°). 2. Caratteristiche del giudizio nel sistema accusatorio. L'art. 111 Cost. ribadisce testualmente alcuni punti fermi (peraltro già prima desu- mibili implicitamente da altre disposizioni costituzionali), con lo stabilire che «ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale» (comma 2°) e in particolare, per il processo penale, che lo stesso «è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova» (comma 4°). Il giudizio si può considerare di tipo accusatorio quando la formazione delle prove avviene pubblicamente nel contraddittorio delle parti, sul tema posto dall'accusatore, davanti al giudice che ha il compito di decidere il merito. I requisiti minimi del sistema: In primo luogo la parità delle parti (art. 2 n. 3 della legge delega), sancita attraverso la prevista «partecipazione dell'accusa e della difesa su basi di parità in ogni stato e grado del procedimento». Non meno essenziale, l'oralità, intesa come oralità-immediatezza, essa va intesa, più propriamente, come rapporto diretto tra il giudice e le prove (immediatezza): colui che ascolta, che assume le prove, deve decidere. L'oralità in senso stretto può esistere anche senza l'immediatezza. Nel caso dell'incidente probatorio, ad esempio, è presente il contraddittorio, è presente l'oralità, ma viene meno l'immediatezza. Ulteriore corollario del modello accusatorio è la distinzione delle funzioni del giudice da quelle dell'organo dell'accusa e dell'investigazione. 3. Indagini preliminari e dibattimento. Nell'art. 111 Cost., il quale, dopo aver ribadito che nel processo penale la prova deve essere formata in contraddittorio (comma 4°), indica tassativamente (comma 5°) le possibili eccezioni alla regola: consenso dell'imputato, impossibilità oggettiva di realizzare il contraddittorio, provata condotta illecita (diretta ad impedire o ad alterare la prova). Occorre ricordare che, per quanto riguarda le prove che possono essere poste alla base della decisione finale, nel codice esistono due chiavi interpretative generali, destinate ad assicurare la conformità al modello accusatorio. Una di queste è l'art. 187, che fa parte delle disposizioni generali sulle prove (retro, cap. III, § 3), e rappresenta il contraltare del già ricordato art. 299 del codice abrogato, delimitando in modo preciso l'oggetto della prova: sono oggetto di prova í fatti che si riferiscono all'imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza. Il thema decidendum è quindi delineato dal pubblico ministero nel momento in cui esercita l'azione penale, e ad esso si deve far capo nell'applicare i criteri di pertinenza e rilevanza ai fini della decisione sull'ammissione delle prove. Un'altra chiave, di lettura fondamentale è l'art. 526 comma 1°, secondo il quale il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento. Questa norma (infra, § 19) codifica un principio di legalità della prova, che consente di tener conto nella decisione conclusiva soltanto di ciò che è stato acquisito nelle forme previste dalla legge. Il riferimento alle prove «legittimamente» acquisite intende includere anche le letture 166

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi consentite, in via di eccezione, dei verbali di indagine. L'art. 526 va a sua volta collegato con l'art. 191 (anche questa è una norma di carattere generale: retro, cap. III, § 6), per cui le prove acquisite, in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate. E l'inutilizzabilità è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento, oltre a trovare riscontro in uno specifico motivo di ricorso per cassazione (art. 606 comma 1° lett. c). 6. Atti preliminari al dibattimento: estensione e contenuti della fase. Secondo uno schema consueto, nel giudizio si distinguono gli atti preliminari, il dibattimento vero e proprio, gli atti successivi al dibattimento (che comprendono la deliberazione e la pubblicazione della sentenza). La fase degli atti preliminari al dibattimento si estende dalla conclusione dell'udienza preliminare agli atti introduttivi del dibattimento. L'interpretazione sistematica, comunque, suggerisce di assumere come momento iniziale la ricezione del decreto che dispone il giudizio (art. 465) e come momento finale la costituzione delle parti ,(art. 484). È preposto alla fase — ha cioè competenza funzionale per la medesima — il presidente del collegio giudicante (tribunale o corte d'assise). Il compito di fissare l'udienza dibattimentale è stato invece assegnato, come si è visto a suo tempo (retro, cap. V, § 45), allo stesso giudice che dispone il giudizio, nell'intento di favorire l'eliminazione dei tempi morti e una più rapida instaurazione del dibattimento. Il decreto va notificato all'imputato contumace all'udienza preliminare (art. 429 comma 4°) e alle altre parti private che non erano presenti (art. 133 disp. att.), con l'indicazione del luogo, del giorno e dell'ora della comparizione (art. 429 comma 1° lett. f). In vista dei prevedibili problemi di coordinamento sul piano operativo, l'art. 132 comma 2° disp. att. stabilisce che il giudice per le indagini preliminari (oggi, giudice dell'udienza preliminare), richieda il giorno e l'ora della comparizione al presidente del tribunale. L'art. 465 consente che il presidente, ricevuto il decreto che dispone il giudizio, anticipi o differisca l'udienza per giustificati motivi, con decreto da notificare tempestivamente alle parti. A norma dell'art. 467, spetta inoltre al presidente – a richiesta di parte — l'assunzione di prove non rinviabili, negli stessi casi che, in sede di indagini preliminari o di udienza preliminare, consentirebbero un incidente probatorio. È, invece, di competenza del collegio l'eventuale sentenza anticipata di proscioglimento, se l’azione penale è improcedibile o il reato estinto. Viene tuttavia confermata la prevalenza del proscioglimento nel merito su quello per estinzione del reato, essendo espressamente fatta salva la previsione dell'art. 129 comma 2°. E siccome nel predibattimento non è contemplato il proscioglimento nel merito, in tale ipotesi la sentenza non può essere anticipata, ma occorre procedere al dibattimento. Il proscioglimento anticipato, comunque, non è in nessun caso possibile se il pubblico ministero o l'imputato, che devono essere sentiti, si opongono. Viene così esplicitamente riconosciuto all'imputato, almeno nella fase in esame, un vero e proprio diritto al giudizio di merito. La sentenza è pronunciata in camera di consiglio, ed è inappellabile (ferma restando la ricorribilità per cassazione ex art. 568 comma 2°) essendo intervenuta con il consenso delle parti. Durante il termine per comparire il fascicolo per il dibattimento rimane depositato nella cancelleria del giudice competente per il giudizio (art. 432), e le parti hanno facoltà di prenderne visione e di estrarne copia (art 466), Quanto al fascicolo del pubblico ministero, esso è visibile nella segreteria dello stesso (art. 4331 Non sarebbe stato inopportuno, peraltro, che fra le indicazioni da includere nel decreto che dispone il giudizio, in forza dell'art. 429, fosse previsto anche l'avvertimento delle facoltà suindicate, considerato tra l'altro che alle parti private non va nemmeno notificato l'avviso di deposito degli atti di indagine al momento dell'udienza preliminare, avviso spettante solo al pubblico ministero e ai difensori (art. 419 comma 2°). Almeno sette giorni prima della data fissata per il dibattimento, le parti presentano le liste dei testimoni, periti e consulenti tecnici, nonché delle persone indicate dall'art. 210, con indicazione delle circostanze su cui deve vertere l'esame (art. 468). Ciò a pena di inammissibilità (salvo, come si vedrà, il disposto dell'art. 493 comma 2°), poiché non sono consentite prove a sorpresa. Il decreto del presidente, che deve essere richiesto espressamente, ha il solo scopo di autorizzare la citazione delle persone indicate (art. 468 comma 2°), rendendone obbligatoria la presentazione (i testimoni e i consulenti tecnici, purché indicati nelle liste, possono anche essere presentati 167

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi direttamente all'udienza). La citazione può essere negata solo per le testimonianze vietate dalla legge e per quelle manifestamen- te sovrabbondanti. L'art. 468 non menziona l'esame delle parti. Se ne deduce che le prove di quest'ultimo tipo sono ammissibili senza bisogno di preavviso. Ciò comunque non vale per l'esame dell'imputato in un procedimento connesso o collegato che venga svolto ai sensi dell'art. 210, visto l'espresso riferimento al medesimo. Identica disciplina dovrebbe ritenersi applicabile anche all'esame dell'imputato nello stesso procedimento, che sia chiamato a rendere dichiarazioni nei confronti di altre persone senza assumere la veste di testimone. Il presidente ha il potere di disporre la citazione delle persone suddette, anziché per la data d'inizio del dibattimento, per le udienze successive. Il comma 4-bis dell'art. 468, prescrive che insieme alle liste sia depositata la richiesta di acquisizione dei verbali di prova provenienti da altri procedimenti ai sensi dell'art. 238: lo scopo è rimandare l'eventuale citazione delle persone delle cui dichiarazioni si tratta — anche se indicate nelle liste — al momento dell'ammissione della prova. È evidente infatti il collegamento con la modifica all'art. 495 comma 1° (introdotta dallo stesso decreto), che, a sua volta, richiama l'art. 190-bis: l'ammissione della prova orale deve seguire l'acquisizione del documento ex art. 238, e può anche essere rifiutata dal giudice, nei procedimenti per i più gravi delitti di mafia e di criminalità organizzata (di cui all'art. 51 comma 3-bis), La ratio di questa tortuosa disciplina va ricercata nell'intento di evitare la cosiddetta "usura" dei testimoni, tuttavia, rappresenta un limite al diritto alla prova, il quale si esplica anche mediante l'esame diretto e il controesame dei testimoni. Consente di derogare alle sopra descritte regole sul deposito delle liste testimoniali l'esercizio del diritto alla prova contraria. La facoltà suddetta può del resto essere esercitata, com'è ovvio, solo dopo la conoscenza delle liste presentate dalle altre parti. È invece disposta d'ufficio dal presidente la citazione del perito nominato nell'incidente probatorio. In dibattimento, dunque, il perito dovrà essere sempre esaminato oralmente, prima dell'eventuale lettura della sua relazione a norma dell'art. 511 comma 3°. 7. Pubblicità e disciplina dell'udienza. Il potere ordinatorio, nell'udienza dibattimentale, è ripartito tra il presidente e l'intero collegio (a quest'ultimo fanno riferimento le norme che parlano di «giudice»). La disciplina dell'udienza e la direzione del dibatti- mento spettano al presidente, il quale può avvalersi della forza pubblica (art. 470). Quando la legge non prevede una forma determinata, i provvedimenti sono dati oralmente, senza formalità e senza motivazione. La discrezionalità del presidente risulta vincolata quando si tratta di disciplinare l'accesso all'aula, poiché in tal caso entra in gioco il principio di pubblicità dell'udienza. Divieti o limitazioni di carattere particolare possono infatti essere imposti nei soli casi indicati dall'art. 471. Per la decisione di procedere a porte chiuse, è invece competente il collegio il quale decide con ordinanza revocabile, sentite le parti (art. 473). Nel solco di tale normativa, particolare attenzione è stata dedicata alla tutela della riservatezza delle parti private e dei testimoni, limitatamente all'assunzione di specifici mezzi di prova (intercettazioni, per esempio, ma anche perizie o testimonianze, in relazione all'oggetto delle stesse), nonché alla tutela dei minori (art. 472 commi 2° e 40). Vengono enunciati, inoltre, i tradizionali parametri del buon costume e del segreto nell'interesse dello Stato (da non confondersi col segreto di Stato. A tutela dell'ordine pubblico — sebbene riconosciuta dalla normativa internazionale — non trova spazio come tale, ma solo in quanto si traduca in tutela, da un lato, della pubblica igiene ovvero, dall'altro, del regolare svolgimento delle udienze. Sempre nell'ottica del possibile pregiudizio per gli «interessi della giustizia» (artt. 6 comma 1° Conv. eur. e 14 comma 1° Patto int., citati poco sopra) va inquadrata anche l'esigenza di salvaguardare la sicurezza di, testimoni o di imputati. In questo caso però, come nei due precedenti, non dev'essere necessariamente esclusa la pubblicità «mediata», cioè la presenza della stampa, che ai sensi dell'art. 473 comma 2° il giudi- ce può consentire. E' inoltre doveroso procedere a porte chiuse alla ricognizione delle persone che abbiano cambiato, le generalità. Infine, ma solo se la persona offesa lo chiede, il dibattimento si svolge in tutto o in parte a porte chiuse quando si procede per i delitti di pedofilia previsti dagli artt. 600-ter e 600-quinques, di violenza sessuale previsti dagli artt. 609-bis, 609-ter e 609-octies c.p., e per i delitti concernenti la tratta delle persone previsti dagli artt. 600, 601 e 602 c.p. Se la persona offesa è 168

Riassunti di Procedura Penale a cura di M@rCoNi minorenne, per gli stessi delitti si procede sempre a porte chiuse. Al presidente, nell'ambito dei compiti di discipline dell'udienza è attribuito il potere di ammonire l'imputato che si comporti in modo da impedirne il regolare svolgimento e di allontanarlo qualora persista (art. 475). L'allontanamento è disposto con ordinanza, ma può essere revocato in ogni momento. Direttamente dalla legge delega (art. 2 n. 74) discende il divieto di arresto del testimone in udienza, di cui all'art. 476 comma 2°. Una forma, peculiare di pubblicità, è quella rappresentata dalle riprese audiovisive del dibattimento per fini di divulgazione. L'art 147 disp. att. prevede che il giudice, con ordinanza, autorizzi, in, tutto o in parte, la ripresa fotografica, fonografica o audiovisiva ovvero la trasmissione radiofonica o televisiva. La regola cardine (art. 147 comma 1° disp. att) è che l'accesso dei mezzi audiovisivi ha bisogno del consenso delle parti in vista della protezione dei diritti della personalità di ciascuna di esse, in primo luogo dell'imputato. Spetta pertanto al giudice farsi carico dell'interesse pubblico, vietando le riprese o le trasmissioni quando ne derivi pregiudizio al sereno e regolare svolgimento dell'udienza o alla decisione, soprattutto, per tutelare la genuinità della testimonianza ed il libero al convincimento del giudice. Il consenso delle parti non è necessario (art. 147 comma 2° disp. att.) quando «sussista un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento». Si configuri o no un simile interesse, l'ordinamento si preoccupa di tutelare, in ogni caso quel profilo del diritto alla riservatezza che può dirsi il diritto all'immagine. Così il presidente del collegio — e non più il collegio — interdice la ripresa «delle immagini di parti, testimoni, periti, consulenti tecnici, interpreti e di ogni altro soggetto che deve essere presente, se i medesimi non vi consentono o la legge ne fa divieto» (come accade, ad esempio, per i minorenni testimoni). 8. Partecipazione al dibattimento ed esame a distanza. Si attua la partecipazione al procedimento penale a distanza dell'imputato detenuto, quando sia opportuno evitare la sua traduzione nel luogo dell'udienza (art. 146-bis disp. att.); istituto che si affianca all'esame a distanza delle persone che collaborano con la giustizia. L'obiettivo è quello di ridurre, nel primo caso, i rischi connessi con i frequenti spostamenti dei detenuti, nel secondo caso invece, si intende garantire la sicurezza del dichiarante. In entrambe le ipotesi la presenza all'udienza dibattimentale è sostituita da un collegamento audiovisivo che assicuri la «contestuale visibilità» delle persone che si trovano nel luogo collegato con l'aula di udienza. La reciproca visibilità è dunque doverosa solo quando il collegamento riguarda l'imputato, o se si tratta di esame a distanza (art. 147-bis comma 4° disp. att.), «un persona che deve essere assistita dal difensore». La partecipazione a distanza dell'imputato detenuto (per qualsiasi motivo) è prevista dall'art. 146-bis disp. att. Il presidente, nella fase degli atti preliminari, o il collego, nel corso del dibattimento (comma 3°), la dispongono quando si proceda per un delitto di cui all'art. 51 comma 3-bis (delitti di stampo mafioso) o all' art. 407 comma 2° lett a n.4 (delitti aventi finalità di terrorismo) e al tempo stesso sussistano
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