Principi Generali Tossicologia Forense(Pierini 2006)

October 30, 2017 | Author: Agostino Manzo | Category: Psychoactive Drugs, Pharmaceutical Drug, Bioavailability, Intention (Criminal Law), Blood
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Tossicologia...

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INTRODUZIONE Principi generali di Tossicologia forense La Tossicologia è la scienza che studia le sostanze che sviluppano azione tossica sull’organismo, applicando metodi specifici di indagine sulla loro natura e con criteri di valutazione sperimentale e biologico-statistica della tossicità. La Tossicologia forense riguarda l’ambito della diagnosi di avvelenamento ed è caratterizzata dai caratteri distintivi dell’ambito applicativo, del metodo analitico e del momento interpretativo. Gli ambiti di applicazione della tossicologia forense vanno dalla sperimentazione dei farmaci al controllo delle reazioni avverse o al controllo delle reazioni collaterali (Medical malpractice), al controllo del loro abuso, con particolare riguardo a quello delle sostanze stupefacenti; allo studio delle sostanze che manifestano spiccata azione sull’uomo, ma per le quali non è noto o applicato un regime di impiego terapeutico; allo studio dell’impatto di sostanze tossiche e nocive sull’uomo per causa ambientale (ecotossicologia) o lavorativa; allo studio e al controllo del doping sportivo; all’esame delle evenienze di accidente suicidio omicidio causate o concausate da sostanze tossico nocive e stupefacenti. Dalle limitazioni iniziali alle esigenze della perizia giudiziaria in casi di sospetto veneficio, la Tossicologia forense è oggi estesa a tutto il campo delle Leggi che tutelano la salute individuale e collettiva. Sempre il C.P. in caso di omicidio e lesioni personali gravissime prevede una aggravante specifica per l’uso di sostanze tossiche o nocive, in quanto le modalità operative per raggiungere lo scopo delittuoso rendono evidente la premeditazione, così come rendono vana, contestualmente, ogni possibile azione di difesa della vittima, in quanto la sostanza tossica o nociva, caratterizzata dalla proprietà di agire negativamente sulla salute a bassa concentrazione (veleno), è facilmente occultabile (azione “subdola”). Il metodo analitico si caratterizza come del tutto peculiare, in quanto i risultati provengono da più indagini sullo stesso materiale oggetto di indagine condotte secondo principi e logiche diverse sia per metodo che per strumentazione, e ciascuna idonea a caratterizzare aspetti e proprietà diverse di una specie molecolare. I risultati delle singole indagini contribuiscono a formare quello che viene definito il dato di laboratorio, con carattere di elemento di prova. La diagnosi di avvelenamento è un criterio integrato, facendo capo a quello anamnestico-circostanziale, a quello anatomo-patologico, a quello chimicotossicologico. La diagnosi deve risolvere quesiti che, in ordine di metodo, riguardano gli aspetti cronologici del fatto in esame e della sostanza identificata, del metabolismo della stessa della via di somministrazione, di eventuali fenomeni di accumulo, delle alterazioni trasformative del cadavere. Si definisce tossico o veleno ogni elemento o composto chimico il quale, introdotto nell’organismo per adatta via, agisce con meccanismo chimico o biochimico causando uno stato peggiorativo delle condizioni precedenti, malattia o morte. La proprietà tossica di una sostanza è legata a vari fattori, quali la solubilità (in acqua, o nei lipidi), la via di ingresso, la via metabolica e di eliminazione, la possibilità di creare depositi in aree bersaglio. Il termine veleno indica che la sostanza tossica agisce a piccole dosi, diversamente da altre sostanze che divengono tossiche solo se somministrate ad alte dosi e per modalità idonee. Anticamente il veleno veniva distinto in venenum bonum e malum, nel senso di distinguere fra una sostanza tossica solo ad appropriate dosi, e sostanza generalmente letifera: la distinzione non aveva un carattere prevalentemente quantitativo, mentre l’aspetto qualitativo veniva ad essere rappresentato dai criteri di idoneità e successivamente dai criteri del giudizio integrato medico legale, a posteriori. Quindi è più corretto parlare di avvelenamento che di veleno, con riferimento a fattori condizionanti piuttosto che univocamente determinati dal punto di vista della struttura chimica.

Farmacocinetica, farmacodinamica l’interpretazione dei risultati Al fine di interpretare i risultati di una indagine tossicologica, è necessario conoscere la disposizione del farmaco ed il suo metabolismo. La conoscenza degli aspetti anatomici e fisiologici che ne determina l’assorbimento, la distribuzione e l’eliminazione, unitamente alla comprensione del metabolismo farmacologico permetterà di rispondere a tali questioni con una certa attendibilità. L’inizio, la durata e l’intensità di azione di un farmaco dopo somministrazione sono controllati dalla concentrazione raggiunta dal farmaco nel suo sito d’azione. La farmacocinetica consiste nella valutazione matematica di questi processi che si correla alla dose somministrata, alla concentrazione ematica ed alla risposta farmacologica. La maggior parte dei farmaci somministrati per via intravenosa o per via orale daranno curve ematiche (o plasmatiche) del tipo tempo/concentrazione. In seguito alla somministrazione intravenosa, si verifica un rapido decremento della concentrazione del farmaco a livello plasmatico precocemente (fase alfa) allorché la distribuzione è il processo più importante, seguito da una quota più lenta e costante di riduzione della

fase di eliminazione (fase beta). Dopo somministrazione orale, le concentrazioni plasmatiche aumentano all’inizio quando il farmaco viene assorbito e poi si riducono quando l’eliminazione diviene il processo più importante. I meccanismi di assorbimento sono descrivibili in termini di diffusione passiva (attraverso un canale o poro di membrana idrofilo), diffusione facilitata di sostanze apolari (attraverso la parte lipoproteica della membrana), trasporto attivo (contro gradiente di concentrazione, mediante l’attivazione di pompe specifiche ATP dipendenti). Tre sono i fattori che regolano il trasporto: il flusso ematico al sito di assorbimento, la superficie totale di assorbimento, il tempo di contatto con questa del farmaco; il primo risulta inoltre dipendente dalla possibilità o meno di un trasporto mediato da proteine plasmatiche specifiche, a sua volta dipendente da eventuali fenomeni di competizione fra farmaci per il legame disponibile sulla molecola del trasportatore. Effetto del pH: molti farmaci sono basi deboli, o acidi deboli, potendo entrambi cedere un protone H+; gli acidi formano quindi un anione carico, nel caso di una base si libera invece la base libera, non carica. Dato che il passaggio transmembrana è legato al fatto che la molecola non sia dissociata, nel caso degli acidi passeranno le forme indissociate (protonate), e viceversa nel caso delle basi queste passeranno solo dopo la cessione di H+. Per questo la concentrazione di un farmaco è data dal rapporto fra la forma indissociata e quella dissociata a livello del sito di azione farmacologica, e anche dal pH in quel punto e dalla forza di dissociazione (pKa) del farmaco (più basso il suo valore, più forte la caratteristica acida della molecola). Il sistema tradizionale per descrivere l’assorbimento di un farmaco è l’ipotesi della ripartizione in funzione del pH. Tale ipotesi riguarda il passaggio del farmaco nel sangue per diffusione passiva di molecole non ionizzate attraverso la barriera lipidica delle cellule intestinali ed all’interno del sangue. I fattori che controllano il rilascio di un farmaco da una preparazione farmaceutica sono comunque complessi poichè la parete gastrointestinale non è una membrana lipidica semplice ma piuttosto uno strato di cellule. Un farmaco acido viene assorbito nello stomaco ad un pH di circa 2 se non è ionizzato; diffonde passivamente attraverso la barriera semplice all’interno dei capillari ed è portato dal plasma ad un pH di 7,4. Qui si ionizza ed è perciò incapace di tornare allo stomaco poichè c’è un netto gradiente di concentrazione dallo stomaco al plasma, della quota non ionizzata. I farmaci basici sono quindi scarsamente assorbiti nello stomaco, essendo la maggior parte assorbiti nel tratto superiore dell’intestino tenue (pH 5-7), nel tratto inferiore (pH 7-8 8) e del colon (pH 7-8). Tuttavia, si può talora verificare anche un assorbimento della quota ionizzata, in funzione del tempo di permanenza assoluta e prolungata nel tratto gastrointestinale per tutta la sua lunghezza. L’avvelenamento in questi casi può essere trattato efficacemente con la pronta somministrazione di un assorbente orale che prevenga l’ulteriore assorbimento del farmaco. La conoscenza del flusso ematico delle differenti parti del tratto gastroenterico e del pH dei suoi contenuti è perciò importante. L’ assorbimento è possibile lungo tutto il tratto gastroenterico, dallo stomaco al retto, sebbene il sito più importante sia la parte superiore dell’intestino tenue. Questo possiede un’elevata peristalsi, un’ampia area di superficie, un alto flusso ematico ed un pH ottimale per l’assorbimento della maggior parte dei farmaci, che risultano tutti notevolmente assorbiti. L’assorbimento dipende generalmente in larga misura dall’ampia differenza nella concentrazione del farmaco tra il tratto gastroenterico ed il sangue. L’ assorbimento di un farmaco dal suo sito di somministrazione all’interno della circolazione sistemica è noto col termine di biodisponibilità (assoluta o sistemica). La biodisponibilità è semplicemente la frazione della dose del farmaco, la quale è assorbita intatta da qualunque determinata via, confrontata con la somministrazione intravenosa che dà un equivalente di assorbimento del 100%. Dopo che il farmaco è stato assorbito, cioè dopo che è passato dal tratto gastrointestinale attraverso il fegato ed all’interno del circolo sistemico, viene distribuito in tutto il corpo. La distribuzione dipende da un certo numero di fattori. Questi includono il flusso ematico ai tessuti, il coefficiente di ripartizione del farmaco tra sangue e tessuti, il grado di ionizzazione del farmaco al pH plasmatico, il peso molecolare del farmaco e l’estensione del legame tra tessuto e proteine plasmatiche. Una piena descrizione della distribuzione del farmaco può essere resa completa se è basata sulla conoscenza della perfusione tissutale e sulla ripartizione del farmaco dal plasma ai tessuti o se è basata su un’analisi cinetica delle curve concentrazione plasmatica-tempo. Uno dei più importanti parametri descrittivi che è probabilmente il più interessante per il tossicologo è il volume di distribuzione (Va), ovvero la quantità di farmaco nell’organismo divisa per la concentrazione plasmatica dopo che si è stabilito l’equilibrio di distribuzione.

Droghe Il termine deriva probabilmente droog, termine con il quale gli olandesi definivano il trasporto di prodotti vegetali essiccati via mare dall’Oriente; in Fitognosia il termine droga definisce l’insieme di elementi cellulari di un vegetale, nei quali, all’interno dei vacuoli, siano presenti sostanze del metabolismo secondario, dotate di effetto sulle funzioni fisiologiche dell’uomo. L’uomo conosce fin da tempi immemorabili le modalità d’uso e gli effetti delle sostanze stupefacenti naturali; le forme di espressione artistica che hanno cantato i tempi della tradizione primordiale sulle rive del mediterraneo, ad esempio il bellissimo tema del sacrificio nella tradizione dionisiaca cretese, hanno posto in netto rilievo la presenza dei derivati dell’oppio e di altre piante.

All’uso collettivo regolato dal rituale e indirizzato alla celebrazione metafisica di una precedente età, poi corrotta, di intimo contatto fra umanità e divino, si è sostituito quello del singolo individuo, uso svincolato da ogni rito, quest’ultimo 10 inteso come atto che nella ripetizione approvata da procedure di consenso trovava motivo per motivare e celebrare una tradizione di concetti metafisici, non esprimibili o riservati. La separazione fra rito e uso individuale ha posto in essere nuovi riti, occasioni e realtà contro cui viene a formarsi una reazione di censura o del tutto repressiva per quanto attiene il meccanismo di controllo sociale affidato alle leggi, ovvero il comportamento assuntivo di “droghe”. Il passaggio successivo dalla disponibilità di sostanze naturali a quelle di semisintesi o addirittura di completa sintesi, ha fatto esplodere il quadro del comportamento legato all’abuso in una miriade di comportamenti, ciascuno dei quali ha creato situazioni diverse non solo sul piano farmacologico e tossicologico e in ultima analisi individuale, ma anche sul piano dei comportamenti generalizzati, del commercio clandestino, delle problematiche connesse con l’accertamento e il recupero da stati di abuso o dipendenza, del controllo sociale in termini di politica criminale. L’interesse sull’azione delle sostanze nasce quindi dal fatto che le sostanze attive sul sistema nervoso centrale dell’uomo hanno potere di influire profondamente non solo sui processi mentali, ma anche su molti aspetti del comportamento individuale, e, considerando la vastità del fenomeno, di ampie fasce di collettività, osservando soprattutto che l’abuso e la dipendenza interessano fasce peculiari e ristrette di età giovanile. La multiformità del problema si riflette e si motiva anche nella ricerca e nell’ impiego di nuovi farmaci, capaci di modificare selettivamente le risposte di aree cerebrali selezionabili, o di modulare la risposta comportamentale nella sua interezza. In particolare gli antidolorifici e gli ansiolitici e antidepressivi di recente acquisizione hanno riproposto con forza un problema di farmacodipendenza, prima storicamente limitato all’ambito di applicazione dei barbiturici, di conseguenze incalcolabili, quando l’abuso si configuri a ponte di situazioni collocabili sia nell’ambito dell’approccio agli stupefacenti che ai farmaci (politossicodipendenza). La farmacologia moderna studiando la sintesi di un farmaco, e quindi nel nostro caso di una sostanza psicoattiva, definisce gli effetti osservati in base alle modalità di introduzione, di assorbimento all’interno dell’organismo, di distribuzione, di azione e sito d’azione, di eliminazione. Da questo punto in avanti definiamo come principio attivo di una sostanza quella parte alla quale si deve l’azione farmacologica propriamente detta, caratterizza da costanza di azione, 11 variando questa solo in funzione della dose o per via della sensibilità individuale. La disponibilità delle sostanze pure, sia ottenute per via sintetica che estrattiva (naturale e semisintetica) ha cambiato le modalità d’uso delle sostanze stesse consentendo ulteriori vie di somministrazione. Nel caso degli stupefacenti la via di introduzione può’ essere multiforme, ovvero a seconda dello stato fisico e della solubilità dello stupefacente si possono avere varie fattispecie, fra le quali anche quella inalatoria, per l’assunzione di sostanze volatili a carattere aromatico (derivati nitrici, “popper”, idrocarburi leggeri, solventi di resine e colle) o addirittura di composti allo stato di polvere, sia stupefacenti o non, in origine confezionati a norma F.U. La dipendenza da farmaci e da droghe produce una vasta gamma di figure di danno per gli assuntori, che vanno dall’ AIDS alle epatiti, agli stati nutrizionali carenti, ai disordini mentali, con ricaduta rilevante non solo sui costi socio sanitari del fenomeno sulla collettività ma anche sulla capacità di controllo dell’ aumento delle forme di criminalità organizzata.

Terminologia

Abuso autosomministrazione ripetuta o episodica di sostanze psicoattive; danno a causa degli effetti farmacologici o per le conseguenze economiche e sociali dell’uso. Addiction modalità compulsiva nell’uso di stupefacenti; il termine pone l’accento sull’aspetto quantitativo del comportamento, a differenza di abuse che indica invece quello qualitativo. Astinenza gruppo di sintomi di vario tipo e gravità per cessazione o riduzione dell’uso di una sostanza psicoattiva assunta ripetutamente, la sindrome è in genere accompagnata da disturbi clinicamente obiettivabili, è un indicatore di dipendenza insieme ai fattori comportamentali e cognitivi che si sviluppano o modificano per uso di sostanze farmacologicamente attive. co-dipendenza stimoli all’uso e abuso indotti dal comportamento di soggetti dediti all’uso di stupefacenti. Craving desiderio incoercibile di sostanza psicoattiva e dei suoi effetti

Dipendenza la condizione di bisogno applicata a sostanza psicoattiva, necessità di ripeterle dosi onde evitare malessere fisico e psichico, uso ripetuto (cronico) con compulsione 14 all’abuso, perdita di controllo nell’uso della sostanza, la dipendenza fisica si riferisce alla tolleranza e ai sintomi della sindrome di astinenza. dipendenza crociata capacità di una sostanza di sopprimere le manifestazioni della sindrome di astinenza da un’altra sostanza e mantenere quindi lo stato di dipendenza fisica. Intossicazione condizione che segue la somministrazione di una sostanza psicoattiva provocando disturbi a livello di coscienza, cognizione, percezione, giudizio, affettività, comportamento o altre funzioni psicofisiologiche. Spesso una sostanza è assunta per raggiungere il grado desiderato di intossicazione. Intossicazione acuta è una intossicazione di significato clinico che include complicazioni mediche (fisiche). Intossicazione cronica si riferisce all’uso regolare e corrente di assumere una sostanza a livello di intossicazione. Overdose uso di una sostanza in quantità tali da produrre gravi effetti negativi, fisici o mentali. Poliabuso uso di più di una sostanza, spesso contemporaneamente o in stretta successione, per potenziare o bilanciare gli effetti di un’ altra sostanza. Tolleranza necessità di aumento della dose o posologia per avere lo stesso effetto conosciuto, causa l’attivazione delle vie metaboliche. tolleranza crociata sviluppo di tolleranza a una sostanza diversa, cui l’individuo non è stato precedentemente esposto, come risultato dell’assunzione acuta o cronica di una sostanza.

La diagnosi di tossicodipendenza La diagnosi di tossicodipendenza (TD) riveste un ruolo chiave nell’attivare tutto l’insieme delle procedure di controllo, cura e riabilitazione del soggetto assuntore di sostanze stupefacenti, e, più in generale, della filosofia di lavoro per gli aspetti di prevenzione, controllo e repressione dell’abuso su scala nazionale, dovendo chiarire quale sia stato il meccanismo considerato volta volta il più idoneo a raggiungere l’obiettivo del migliore approccio con la figura del tossicodipendente, una lettura storica mostra con evidenza come gli insuccessi registrati, sia pur diversificati sul piano qualitativo che quantitativo, riconoscano un comune denominatore, ovvero il momento della formulazione della diagnosi di TD. Base metodologica per un corretta formulazione della TD è ovviamente la definizione delle figure del consumatore occasionale, abituale e dipendente, in considerazione della capacità o meno delle singole sostanze stupefacenti di generare tolleranza e di indurre dipendenza psichica e/o fisica. Grande importanza riveste inoltre la tipologia del consumo, che può’ essere legata anche alla diversità ambientale e socio culturale, nonché alla variegazione dei rapporti interpersonali e sociali e al ricordo di disturbi dovuti all’uso di droghe. In questo contesto anche la scelta della sostanza stupefacente riveste un ruolo nell’indirizzare l’ iter d’uso della droga e dei meccanismi di passaggio fra una forma e l’altra di abuso o di tossicodipendenza vera e propria. La diagnosi di TD non puo’ e non deve essere esclusivamente legata, per deduzione, all’esito di una procedura analitica, sia pur sofisticata; ma richiede un approccio integrato di metodologie e di procedure di tipo clinico oltre che analitico, integrate nel contesto di una accurata indagine storica e del comportamento. Allo stato attuale solo l’indagine tossicologica su capello sembra poter fornire utili e soprattutto sicuri elementi sulla storia di abuso nel tempo di sostanze stupefacenti, ma rimane ancora senza risposta la domanda circa lo stato e il grado di TD. Per quanto riguarda lo stato di TD è ancora possibile ottenere buone informazioni con un procedimento a posteriori, identificando la presenza o meno di stupefacenti capaci di indurre dipendenza fisica, e fra tutti l’eroina, ma la quantificazione del grado di TD sfugge alle necessità del Legislatore quanto all’esame del clinico, nè le procedure di laboratorio possono essere utilmente interrogate al proposito. Il problema della mancanza di una soluzione al problema non è infatti di ordine tecnico, bensì metodologico, ovvero qualora un soggetto sviluppi una forma di dipendenza fisica, per es. da oppiacei, tale forma non presenta una correlazione strettamente lineare nei confronti della quantità di stupefacente da assumere. Questa caratteristica farmacologica ha minato alle fondamenta ogni tentativo di elaborazione di tests per la qualificazione del “bisogno” di stupefacenti del tipo oppioide, a fronte invece della indicazione legislativa di differenziare l’intervento repressivo in funzione appunto di parametri esattamente determinati di sostanze stupefacenti (la dose media massima giornaliera), poi successivamente emendata da referendum abrogativo (abolizione art.72 T.U.309/1990). Per quanto attiene l’ indagine sullo stato di TD è anche da segnalare come l’ indagine di laboratorio offra da un lato una notevole quantità di informazioni, ma dall’ altro non possa da sola esaurire il problema della validazione della TD quanto alla problematica del fabbisogno individuale di stupefacenti: l’ analisi quantitativa del campione biologico non è praticabile per tutte le sostanze di interesse tossicologico, ovvero i limiti di sensibilità non sono gli stessi per ogni famiglia di composti, inoltre non tutte le vie metaboliche di una sostanza sono conosciute. Puo’ infatti essere detto con certezza, al momento delle attuali conoscenze, che i livelli quantitativi di una sostanza determinata nelle urine non possono essere utilizzati per misurare l’ influenza di una sostanza stupefacente sul comportamento. Tale situazione mette quindi in seria difficoltà l’ operatore che affronti il problema dell’ accertamento dello stato di tossicodipendenza ai sensi delle procedure diagnostiche e medico-legali previste dalla Legge.

Le TD possono essere inquadrate in quattro tipi inerenti il disturbo: area del disturbo di adattamento e delle reazioni, nevrosi, border-line e psicosi, area sociopatica; la distinzione ha un significato preciso dal punto di vista della nosografia psichiatrica. Il disturbo sottostante tuttavia non è caratterizzato tanto dal sintomo quanto dalla struttura della personalità e del carattere. Ciò che svolge la funzione di sintomo è quindi la TD stessa, un comportamento sintomatico al servizio del conflitto psichico e dei relativi meccanismi di difesa rendendone meno evidenti le caratteristiche specifiche. L’importanza di una accurata indagine psicopatologica e una divisione metodologica di tipi risulta evidente in termini di terapia quanto di ricerca, stante la necessità di collegare variabili altrimenti non significative con tipi diversi di organizzazione psicologica, ad es. nel caso delle indagini sui fattori di rischio nel periodo della scolarità o della vita familiare. Il collegamento fra fattori di rischio e tipologia attira l’attenzione sul problema della prevenzione circoscrivendo l’area di applicazione degli interventi programmati per la sua riduzione.

L’esame tossicologico delle sostanze stupefacenti Le indagini svolte ai sensi del T.U. 309/90 hanno contribuito alla formazione di una notevole mole di informazione sul fenomeno droga, nel senso che il coordinamento delle procedure analitiche e di Polizia effettuato dalle Prefetture ha offerto un notevole e originale contributo alla conoscenza di un fenomeno che ad oggi veniva ad inscriversi nell’ ambito delle competenze delle Procure della Repubblica. Le indagini di laboratorio disposte dalla A.G. per via chimica rivestono un ruolo cardine nella documentazione e nel monitoraggio non solo degli aspetti qualitativi del fenomeno, ma anche di quelli quantitativi, in tal senso basti ricordare l’ importanza della percentuale di principio attivo dei narcotici per la valutazione del rischio di intravenous narcotism negli eroinodipendenti. L’ esame chimico affiancato da quello microscopico delle sostanze sequestrate è risultato nella nostra esperienza di fondamentale importanza al fine di determinare l’ambito geografico di provenienza dello stupefacente, le vie di importazione, le procedure di adulterazione prima della sua vendita “in strada”. Un sistema informatico di trattamento dei dati di laboratorio con un database basato su algoritmi di intelligenza artificiale ci ha permesso di collegare tutti i risultati delle indagini di laboratorio all’interno di un disegno-mappa fedele delle caratteristiche di mercato che influenzano la tipologia di disponibilità degli stupefacenti. Da un punto di vista operativo la raccolta dei dati potrebbe permettere quindi una maggiore incisività nelle operazioni di controllo e repressione del narcotraffico, individuando linee di tendenza nel trasporto e nella distribuzione dei narcotici. La strategia di lotta alle tossicodipendenze e al narcotraffico rende evidente la necessità di impiego di una banca dati informatica qualora si debba eseguire il monitoraggio di una situazione allargata, quale il mercato clandestino di stupefacenti. Una organizzazione di dati in costante aggiornamento può infatti non solo descrivere ma anche analizzare, come andamento di probabilità, le linee di sviluppo del fenomeno “droga”; e l’efficienza e quindi il successo dell’operazione, se pur limitata dall’impiego di database relazionali, farà comunque pensare ad un comportamento “intelligente”, soprattutto se la performance sarà legata all’impiego di strutture di rete, e quindi al metodo, piuttosto che alle caratteristiche costruttiva dei computer. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha varato nel 1991 un Documento Strategico, strettamente legato alla Dichiarazione Politica e Programma d’Azione Globale adottati dall’Assemblea Generale della XVII Sessione Speciale delle Nazioni Unite (23 febbraio 1990), e rivolto ai problemi del traffico e dell’uso di sostanze stupefacenti. In particolare, nella Dichiarazione della I° Conferenza pan-europea, al punto XVII° (Prevenzione, trattamento, riabilitazione e reinserimento sociale) :”... attribuiamo un’ importanza particolare alle iniziative prese per favorire una migliore conoscenza dei fattori che sottendono alla domanda di droga...” e nel documento del C.E.L.A.D. del 14 dicembre 1990 del Consiglio delle Comunità Europee, punto 5 della premessa (Misure di lotta alla droga) :”...creazione di un Osservatorio europeo sul fenomeno droga, non soltanto riguardo agli aspetti sociali e sanitari, ma anche agli altri aspetti connessi con la droga, inclusi il traffico e la repressione”, e al punto 6 dello stesso documento :”... il C.E.L.A.D. riconosce la necessità di disporre di dati statistici corretti e comparabili sul traffico di droga nella Comunità e negli stati Membri”. Risulta quindi evidente una doppia metodologia di ricerca di dati, una intesa alla repertazione di singole informazioni (tipo di sostanza, ambiente d’uso), mentre la seconda, tesa alla formulazione di un profilo dei motivi che spingono all’ assunzione di stupefacenti, delinea un problema di proporzioni ben più vaste. Non solo si tratta cioè di elaborare un profilo a posteriori delle tendenze di mercato ma anche dell’ assuntore, (con il rischio di indurre frequenti stereotipi dato che non sarà mai possibile organizzare la raccolta di tutti i dati relativi alla domanda di stupefacenti), ovvero di costruire un modello di consumo plurimodale, (date le valenze eterogenee dei dati da raccogliere: biologici, farmacologici, sociali, psicologici, ecc.); tale compito esula dalle tecniche statistiche per introdurre la tematica delle procedure informatiche volte alla previsione, ovvero ai sistemi esperti (se non all’ intelligenza artificiale). A seguito delle iniziative di Legge disposte dal TU 309/1990, (artt. 10 e 11), alla Direzione Centrale per i Servizi Antidroga sono demandati i compiti di mantenere e sviluppare i rapporti con i corrispondenti servizi delle Polizie estere, nonchè la creazione di uffici di intelligence antidroga al di fuori del territorio italiano. Le notizie disponibili nell’Annuale Nazionale sull’attività antidroga del Ministero dell’Interno circa il tipo delle sostanze stupefacenti presenti nel mercato clandestino, pongono in evidenze il ruolo informativo svolto dai laboratori di Tossicologia forense. Un database relazionale permette di seguire in tempo reale le più piccole modificazioni nell’ambito del consumo di narcotici in Bologna, e se la cosa è indubbiamente utile a fini di controllo del narcotraffico, e quindi a scopo di indagine criminalistica, è indubbio come il programma sia utile anche per monitorare la situazione sanitaria.

E’ infatti evidente come la tipologia delle sostanze di abuso influenzi anche non solo i comportamenti degli assuntori, ma anche il loro stato di salute. Per uscire da un periodo di approccio empirico al problema, potrebbe essere utile affiancare i dati relativi alle moderne acquisizioni sugli effetti degli stupefacenti a quelli relativi alla loro diffusione. Ci siamo proposti di valutare quali elementi fra i costituenti delle droghe da stradapotessero essere campionati a due distinti scopi: uno medico, teso alla valutazione del rischio sanitario delle preparazioni di droga da strada; la ricerca è stata mirata alla evidenziazione di sostanze di accompagnamento del principio attivo (eroina) per le quali si potesse supporre un ruolo nella etiopatogenesi della morte da intravenous narcotism da oppiacei. uno criminalistico, per la ricerca di indicatori utili alla comparazione di partite diverse di stupefacenti, ma eventualmente riconducibili, sulla base di somiglianze di costituenti in tracce, a precise linee di fabbricazione clandestina e di trasporto in Italia. La ricerca di tali sostanze di accompagnamento può risultare utile al Magistrato che abbia come problema quello della comparazione di partite diverse di droga, a fini penali, ma utile anche all’azione investigativa in tema di linee e rotte di narcotraffico, nelle quali i processi di lavorazione e trasporto possono lasciare traccia di sé nella varia tipologia delle sostanze di accompagnamento (precursori di semisintesi, parti botaniche dell’oppio di origine, tracce di cessione di materiali di imballaggio per il trasporto, ecc). uno informatico, per la costruzione di una mappa relazionale che tenesse conto di tutte le variabili, analitiche e di mercato. L’analisi in microscopia elettronica in scansione delle street drugs Il termine è applicabile prevalentemente alle preparazioni iniettabili di stupefacenti, e quindi di oppiacei (eroina), del mercato clandestino. Per quanto riguarda l’eroina, il contenuto in principio attivo oscilla tra il 2 e il 15%, la rimanente quota in peso, almeno nel nostro Paese, è costituita da zuccheri, derivati alimentari (latte in polvere, liofili di the e preparati da radici e spezie), e sostanze di accompagnamento, ovvero quelle residue della preparazione della sostanza stupefacente nelle fasi iniziali risentono delle caratteristiche etnobotaniche delle zone di produzione e di raffinazione preliminare. Nelle quote “non stupefacenti” delle street drugs per uso i.v. appaiono infatti, in aggiunta alle sostanze da taglio, elementi di origine esogena, prive di azione propriamente “stupefacente” che, soprattutto riguardo alla induzione di affezioni settiche ( quelle del miocardio, ad esempio, sono di frequente repertazione) è possibile ipotizzare che possano giocare un ruolo rilevante anche sul piano antigenico. Mentre infatti la patologia delle tossicodipendenze da uso i.v. della sostanza viene di norma definita come “aspecifica”, ma comunque caratterizzata da aspetti infettivi legati alla pratica iniettoria, poco è noto sugli agenti che etiologicamente possano essere considerati, almeno in parte e con ruolo concausale, responsabili della genesi di tale evento. In generale, il quadro è quello di una morte conseguente a un fatto tossico diretto. L’ interpretazione medica dei dati tossicologici deve considerare: patologie preesistenti, fattori di predisposizione genetica, età, stato di tolleranza, interazioni con altri farmaci e stupefacenti, condizioni di stato metatossico con insorgente astinenza o di condizioni esterne (paratossiche) che possano influenzare la tossicità di una sostanza. Il quadro in generale è quello di una morte conseguente a un fatto tossico diretto, considerazione che valorizza al massimo il ruolo della Tossicologia forense nella ricostruzione medico-legale dell’evento. Il residuo delle preparazioni da strada è stato osservato in microscopia ottica (polarizzazione e contrasto di fase) ed elettronica in scansione (SEM). La valutazione “morfologica” di tale residuo repertato si è giovata delle tecniche proprie della fitognosia; tale metodologia permette infatti di poter spesso pervenire ad una classificazione botanica a partire dagli elementi vegetali rinvenibili in polveri e preparazioni galeniche. Per l’identificazione delle parti vegetali possono essere utilizzate le tavole per fitognosia “Chromatographische und mikroskopische Analyse von Drogen” di Egon Stahl e l’atlante “ Powdered vegetable drugs ” di B.P.Jackson e D.W. Snowdon. E’ da notare che tutto il materiale visibile con questo metodo in scansione elettronica è capace per intero di attraversare l’ago sia di una siringa normale che da insulina, stessa considerazione può essere condotta a proposito del ruolo dei filtri da sigaretta impiegati spesso per l’iniezione delle preparazioni più torbide (per la presenza di basi non salificate o diluenti insolubili). Il risultato è che ciò che viene mostrato nel presente lavoro sperimentale entra nel torrente ematico per via venosa. Anche se alcuni elementi non sono chiaramente “leggibili” quanto alla loro natura, tuttavia l’immagine d’insieme consente di effettuare una “comparazione” (numero di frammenti, tipo di azione meccanica di frantumazione, ecc.), utile per affiancare il giudizio da questa emergente al risultato dell’indagine analitica. Più complesso quindi l’obiettivo di poter arrivare al riconoscimento dell’ origine geografica e del periodo di maturazione, anche in considerazione che il materiale in sequestro, e giunto all’osservazione, ha subito ripetuti “passaggi” e rimaneggiamenti. Ma le osservazioni di alcuni casi “fortunati” permettono di sviluppare un cauto ottimismo sulla possibilità di ottenere informazioni non solo sulla natura delle sostanze che accompagnano le preparazioni di stupefacenti da strada, ma anche sulla provenienza, se pur approssimativa, se non della area geografica di crescita del residuo, almeno dell’ambiente criminale in cui questo è stato utilizzato per costruire le preparazioni di droga destinate al mercato minuto. Il materiale estraneo risulta spesso contaminato da frammenti metallici, fra i quali risulta prevalente l’alluminio, forse derivante da

operazioni di imballaggio artigianale dell’oppio, per mascherarne le caratteristiche organolettiche all’olfatto dei cani anti droga. A tale scopo viene usato ad es. il metilisobutilchetone per annullare la presenza dell’haschis, mentre per la cocaina sono previste operazioni più complesse di salificazione che permettono di imbibire con la droga abiti, valige, libri, ecc. Un raffronto fra le patologie riscontrate e i risultati dell’indagine chimico tossicologica permetteva di poter confermare in buona sostanza quanto già evidenziato da altri Ricercatori che avevano affrontato il problema di evidenziare eventuali quadri caratteristici sul piano della sezione cadaverica e dell’indagine microscopica nell’ambito dei decessi da droga per assunzione endovenosa . A questo punto appare evidente come la frequenza dei reperti insolubili nelle preparazioni di droga da assumersi per via endovenosa apra un fronte di interesse per quello che potrebbe essere un ruolo di attivazione antigenica legato alla natura di tale materiale, considerando che già per i pollini e le spore è noto quanto possa essere rilevante la carica antigenica sulla anormale espressività del sistema immunitario. Riportiamo di seguito alcuni esempi di osservazioni sperimentali da noi condotte sul residuo insolubile in acqua e alcoli di preparazioni di eroina da strada. SEM Philips serie 500, metallizzazione Au/Pd; l’ingrandimento è riportato alla base di ciascun fotogramma.

Foto 1: da sn a dx e dall’alto in basso: drusa di ossalato di calcio, frammento di epidermide di dicotiledone sottoposto ad azione di frammentazione con frullatore, stoma di foglia di Menta piperita, stomi di dicotiledone.

Foto 2: da sn a dx e dall’alto in basso: frammenti dilacerati di epidermide foliare di dicotiledone, frammento di vasi di conduzione legnosi di radice di Zinziberacea, estremo cefalico di Anopheles, tricomi della pagina foliare superiore di piante aromatiche xerofitiche. Il database relazionale E’ stato utilizzato come base dell’applicativo il sistema Access II Microsoft, modificato secondo la necessità di operare con dati di laboratorio, notizie di generica e di specifica, diagrammi e fotografie. Il sistema applicativo da noi elaborato permette di ottenere in tempo reale qualsiasi rappresentazione di connessioni fra variabili, siano esse alfanumeriche che grafiche, sotto forma di grafico di correlazione o grafico di andamento. Di seguito mostriamo l’apertura seriata delle varie “pagine” del database di laboratorio, attive anche sull’evidenziazione di alcune operazioni automatiche connesse a variabili fisse di ingresso (dati di laboratorio).

LA RIDUZIONE DEL DANNO “La Riduzione del danno è una politica sociale che privilegia lo scopo di diminuire gli effetti negativi del consumo di droga. E’ una politica radicata in un modello scientifico di tutela della salute pubblica che attinge profondamente da una cultura di tipo umanitario e libertario” (Russel Newcombe, Direttore della Drugs and HIV monitoring Unit LIverpool) Riduzione del danno significa impegnarsi a eliminare o ridurre sensibilmente i danneggiamenti causati all’organismo nelle persone che fanno continuo uso di sostanze stupefacenti illegali, dalle modalità di consumo di queste ultime, nonché i danni causati dalle sostanze da taglio usate dai rivenditori di droga del mercato nero e/o da altre cause indirettamente collegate. Questo principio generale deve in ogni caso tenere conto delle leggi riguardo gli stupefacenti in vigore nel paese dove si svolge l’intervento, come si deve tener conto del fatto che oltre ai consumatori di droghe, indirettamente anche la società in generale trae un beneficio. Riduzione del danno significa ridurre tutti gli azzardi causati dall’uso di sostanze stupefacenti illegali, collegati ad esse direttamente o indirettamente. Nel corso di questi ultimi anni si è assistito ad una massiccia politica di liberalizzazione, soprattutto a livello europeo (Olanda, Svizzera) accompagnata però da una lettura più critica dei risultati ottenuti con tali sperimentazioni di liberalizzazione e legalizzazione di sostanze stupefacenti. Potrebbe essere a questo proposito utile andare a leggere la relazione molto critica del Ministrero olandese sugli effetti dei coffe shop e dei centri di distribuzione delle droghe erroneamente ritenute leggere (cannabis, marijuana, hashish): si mette in luce come queste realtà abbiano segnato un incremento del mercato legale ma anche illegale. In italia nel campo degli interventi contro la tossicodipendenza la politica della “riduzione del danno” occupa una posizione primaria e costituisce un elemento fondamentale. La presenza di valide politiche di riduzione del danno contribuisce ad evitare ai tossicodipendenti una vasta serie di problemi,fra i quali la diffusione del contagio delle infezione da HIV, nonchè l’arresto o la carcerazione. Le pratiche della riduzione del danno offrono anche dei benefici alla collettività se queste sono attuate con efficacia. Nella filosofia della riduzione del danno le unità mobili (attivate e ordinate secondo distinti piani e progetti da parte delle Regioni) sono uno strumento di avvicinamento delle persone tossicodipendenti “in strada”; gli “operatori di strada” - che lavorano sulle unità mobili - forniscono informazioni sui mezzi a disposizione per ridurre i rischi, offrono profilattici, siringhe monouso e altro materiale di prevenzione. Offrono supporto e facilitazione di accesso ai servizi e ai programmi di cura e riabilitazione. Fungono da mediatori sociali con il fine di modificare la percezione sociale nei confronti del consumatore-tossicodipendente, offrendo consulenza per informare, sensibilizzare, e possibilmente prevenire.

Detenzione, clandestinità I detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali e in quelli locali (DM 22 giugno 99, n.230). E’ noto che il carcere, per molti aspetti, è causa di rischi aggiuntivi per la salute fisica e psichica dei tossicodipendenti detenuti, che costituiscono circa il 30% della popolazione carceraria. I programmi da sviluppare devono garantire la salute del tossicodipendente detenuto e assicurare, contemporaneamente, la tutela complessiva della salute all’interno delle strutture carcerarie, in un’ottica che concili le strategie più tipicamente terapeutiche con quelle di prevenzione e di riduzione del danno. Tra gli obbiettivi di assistenza da garantire primariamente vanno indicati in modo particolare: - l’immediata presa in carico dei detenuti da parte del SERT competente sull’istituto penitenziario, al fine di evitare inutili sindromi astinenziali ed ulteriori momenti di sofferenza del tossicodipendente, assicurando la necessaria continuità assistenziale; - l’implementazione di specifiche attività di prevenzione, informazione ed educazione alla salute mirate alla riduzione del rischio di patologie correlate all’uso di droghe;

- la predisposizione di programmi terapeutici personalizzati, predisposti a partire da un’accurata valutazione multidisciplinare dei bisogni del detenuto, in particolare per quanto riguarda i trattamenti farmacologici (metadone ecc.), anche di mantenimento; - la disponibilità di trattamenti farmacologici sostitutivi tenendo conto del principio della continuità terapeutica,( in particolare per le persone che entrano in carcere già in trattamento), concordati e condivisi con il tossicodipendente detenuto. Un commento a questo punto si impone per fare un po’ di chiarezza, se possibile, e avanzare alcune necessarie critiche. Chiarezza perché spesso viene confusa una iniziativa disposta dalle regioni con una precisa norma di legge: a ben guardare nel TU 309/90 viene data necessaria enfasi alle cosidette politiche di prevenzione primaria e secondaria, ma in assenza di disposizioni precise o di linee guida, pertanto le iniziative sul territorio possono essere estremamente diversificate, e in alcune aree del tutto assenti. Una critica si impne invece sul piano etico deontologico: una politica di riduzione del danno che non tenga conto della complessità dell’intero stato di tossicodipendenza esita in un atto medico parziale, mirato ad un aspetto di malattia e non alla globalità delle problematiche del soggetto tossicodipendente, e questo non è eticamente accettabile. La frase “riduzione del danno” ha pertanto un margine di ambiguità, perché non affronta il danno nella sua interezza, ma solo uno o alcuni degli eventi di danno che esitano dalla condizione di tossicodipendenza.

IMPUTABILITA’ E TOSSICODIPENDENZE Imputabilità e colpevolezza Nel nostro ordinamento la colpevolezza significa colpevolezza per un fatto, lesivo di un bene penalmente protetto, mentre per il soggetto agente occorre che sia certo che sia imputabile, ovvero che possa essere dichiarato penalmente responsabile. Perché un soggetto possa essere colpito con la sanzione della pena non basta quindi che abbia commesso con dolo o colpa tale fatto lesivo di un interesse protetto né che la sua azione risulti non giustificata da alcuna esimente (antigiuridicità), ma è necessario che tutto il comportamento sia diretto contro la norma stabilita a partire dalla certezza della condizione di imputabilità. Al centro di un lungo dibattito, tuttora esistente, è stata la questione relativa ai rapporti intercorrenti tra imputabilità e colpevolezza. L’art. 85 CP recita:” Nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se al momento in cui lo ha commesso non era imputabile; è imputabile colui che ha la capacità di intendere e volere”. Lo scopo giuridico-formale della non imputabilità è quello di consentire l’esenzione da pena di certe categorie di soggetti: se la si definisce uno status soggettivo necessario per l’irrogazione della pena, la non punibilità del soggetto, pur in presenza di un reato completo di tutti i suoi elementi, dipenderà dalla assenza di una condizione soggettiva di punibilità. Sui rapporti tra imputabilità e colpevolezza, la giurisprudenza è stata oscillante. In un primo tempo, la Corte Costituzionale ha affermato che “soltanto chi è capace di intendere e di volere può in concreto determinarsi in modo penalmente rilevante nella coscienza e nella volontà della condotta”. Successivamente la posizione della Suprema Corte si è evoluta nella opposta direzione. Essa ha infatti riconosciuto che imputabilità e colpevolezza sono ‘due concetti ontologicamente distinti’, e che “l’indagine sul dolo non è preclusa dalla incapacità di intendere e di volere del soggetto, perché l’imputabilità non è presupposto della colpevolezza”, occorrendo accertare, anche nel caso di imputato infermo di mente, se il fatto commesso sia colposo, doloso, o preterintenzionale, sempre riguardo allo stato di mente dell’agente.

La Suprema Corte, in una delle sue formulazioni più analitiche, ha così definito la capacità di intendere e di volere:l’idoneità del soggetto a rappresentarsi l’evento conseguenza diretta ed immediata della propria attività, a riconoscere e valutare gli effetti della propria condotta, ad autodeterminarsi nella selezione dei molteplici motivi che esercitano nella sua coscienza una particolare spinta o una qualsiasi inibizione dirette l’una a concentrare (l’altra a paralizzare), l’impulso dell’azione. Le cause che escludono e diminuiscono l’imputabilità Nel nostro sistema penale le cause che escludono o diminuiscono l’imputabilità appartengono a due specie:

1. le alterazioni patologiche, dovute ad infermità di mente o anche correlate all’azione dell’alcool o a quella di sostanze stupefacenti (vizio di mente, totale, con esclusione dell’imputabilità, e parziale, con riduzione della stessa ai fini della pena); 2. l’immaturità fisiologica o parafisiologica, dipendenti rispettivamente dalla minore età e dal sordomutismo.

Secondo l’art. 88 c.p., circa il vizio totale di mente, recita: “non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere”. La diversa formulazione di tale articolo rispetto alla disciplina prevista dal codice Zanardelli all’art. 46 rispondeva ad un preciso intento: quello di riconoscere che il vizio, totale o parziale, di mente possa dipendere anche da infermità fisica, purché questa abbia effetto sulla capacità di intendere e di volere. Nel caso particolare della necessità di determinare una eventuale motivazione di non imputabilità nel caso di condotta sotto l’influenza dell’alcool o stupefacenti occorre ricordare alcuni punti basilari, soprattutto importanti per capire la ratio della norma giuridica. Il Legislatore ha infatti previsto di escludere l’imputabilità qualora le condizioni di ubriachezza si siano verificate, legandosi al fatto delittuoso, per fatto fortuito, o per costrizione da parte di terzi, mentre in caso di ubriachezza volontaria ma colposa non si prevedono variazioni. Negli altri casi (ubriachezza abituale o preordinata al fine di commettere un reato) viene addirittura applicata un’aggravante di pena, sulla base del concetto che essendo noti gli effetti dell’alcool, un soggetto dovrebbe essere in grado di autodeterminarsi sul piano della responsabilità delle proprie azioni, in modo da prevenire gli eccessi di una intossicazione acuta. Qualora però l’uso dell’alcool abbia determinato uno stato di malattia cronico, si torna alla previsione di una diminuzione del profilo di responsabilità, poiché lo stato di malattia impedisce, limita e talora nega del tutto la possibilità di autodeterminazione. Come si vede l’accertamento dell’imputabilità ai fini della responsabilità si lega strettamente al concetto di possibilità di autodeterminazione, cioè in definitiva al primitivo concetto di capacità di intendere e volere dell’art. 88 (vizio totale) e 89 (vizio parziale).

Il vizio parziale di mente non esclude del tutto l’imputabilità, comportando quindi la sola diminuzione di pena, in aggiunta alla quale può essere applicata (in caso di soggetto ritenuto pericoloso) la misura di sicurezza dell’assegnazione ad una casa di cura e custodia (art. 219 c.p.). Si ha quindi il cumulo della pena con la misura di sicurezza, con precedenza nella esecuzione della pena restrittiva, fatta salva la facoltà del giudice di disporre che il ricovero in una casa di cura e custodia venga eseguito prima che sia iniziata l’esecuzione della pena. L’uso di stupefacenti, legato al problema delle conseguenze dell’uso di alcolici e trattato negli artt. 91-95 CP pone maggiori problemi sul piano interpretativo. Se da una parte non è agevole distinguere fra consumo “abituale” e “cronico” di alcolici, a meno di non impiegare un distinguo centrato sulle conseguenze psicopatologiche della condizione di alcolismo cronico, dall’altra, per gli stupefacenti, il distinguo pone problemi di analisi critica e differenziale drammatici, poiché l’intossicazione cronica, se vogliamo legarla al concetto di dipendenza, non presenta sempre segni e sintomi nosograficamente utili per una costruzione di un quadro clinico di “cronicità nell’uso di stupefacenti”. Le prospettive di riforma in tema di imputabilità La problematica sin qui brevemente riassunta si inserisce nel più vasto problema riguardante la crisi di identità che la nozione di imputabilità sta attraversando. È opportuno allora fare riferimento alle prospettive di riforma elaborate nello “Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale”. Sulla prima fondamentale questione circa la impossibilità di identificare e definire la nozione di infermità, il Progetto di legge-delega per il nuovo codice penale fornisce un tentativo di soluzione. L’art. 34 del Progetto in riferimento alla imputabilità ed ai casi di esclusione di essa così dispone:

1. escludere l’imputabilità nei casi in cui, al momento della condotta, il soggetto:

1. era minore degli anni 14 ovvero, se maggiore degli anni 14 e minore degli anni 18, non aveva la capacità di intendere e di volere; 2. era per infermità o per altra anomalia o cronica intossicazione da alcool o sostanze stupefacenti, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere; 3. era, per ubriachezza o per l’azione di sostanze stupefacenti derivata da caso fortuito o forza maggiore, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere; 4. era, per altra causa, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere. A questo punto ci troviamo di fronte a numerose ricerche che ci possono configurare l’arduo compito del medico legale in materia di imputabilità sotto l’uso di sostanze stupefacenti, dal momento che tutte le discipline coinvolte nell’argomento non possono fornire risposte certe in senso assoluto. Ci accingiamo quindi ad una sintesi che ci conduca verso una conclusione o meglio che ci conduca a far suonare a nostra volta un campanello di allarme nel modo più sensato possibile. Abbiamo visto le difficoltà del Codice Penale da un punto di vista dottrinale per il permanere di una visione “dura” circa il concetto di punibilità del soggetto, che delinquendo ha agito liberamente, senza l’intervento di fattori extravolontari come i condizionamenti endogeni ed esogeni, (che porterebbero ad una maggior individualizzazione della pena), rischiando così di determinare una superficiale valutazione sulla personalità dell’agente e soprattutto di ‘deresponsabilizzare’ la società sulle cause sociali della criminalità e sulla ricerca dei mezzi di prevenzione. A ciò possiamo anche aggiungere come il disturbo mentale non sia solo malattia, bensì un’entità più complessa che può intendersi come la risultante di una condizione sistemica nella quale concorrono fattori genetici, le esperienze maturate, gli stress, il tipo di ambiente, i meccanismi psicodinamici, la capacità di reazione. Dunque una visione plurifattoriale integrata della malattia mentale che non può sempre rispondere al quesito postogli dal giudice in sede di perizia. Siamo quindi giunti all’oggetto principale della domanda, su quale sia la realtà del medico legale qualora gli si chieda una perizia esauriente sulla reversibilità o irreversibilità di una tossicodipendenza, quindi sullo stato di intendere e di volere dell’imputato, ovvero se si stia trattando di un caso di abitualità o di cronicità dell’intossicazione.Allo stato attuale sono state fatte numerose ricerche sugli effetti degli stupefacenti ma allo stesso tempo non si è ancora in grado di esprimere una diagnosi di certezza per la complessità del problema. La ricerca scientifica si trova a un bivio: da una parte l’indagine degli endocrinologi, che mostra alterazioni, ma reversibili, nel profilo dell’espressione genica e della regolazione dei secondi messaggeri, dall’altra l’evidenza sperimentale di danno neuronale accertata al momento solo nell’animale da esperimento, sia piccolo mammifero che più recentemente anche primate, dalla quale emerge un danno irreversibile a carico del cilindrasse (accorciamento) a livello delle fibre arciformi, accompagnato da un aumento della densità delle sinapsi dendritiche, qualora il problema investa il ruolo dinamico degli inibitori della ricaptazione, soprattutto dopaminergici. A ponte fra le due evidenze si colloca il lavoro dei clinici, fra i quali in particolare in Italia il gruppo diretto dal Prof. Schifano, (Padova), che pone l’accento su una documentata diminuzione della memoria a breve termine e un aumento dell’aggressività anche nelle fasi libere dall’assunzione di MDMA. Difficile, se non al momento impossibile, creare un collegamento fra l’evidenza clinica e quella sperimentale in vitro e in vivo, nel senso che non è lecito assumere una identità morfofunzionale fra SNC nei mammiferi in generale rispetto all’uomo, data la peculiare struttura in quest’ultimo della fiunzione coscienza. La presenza di comorbidità psichiatrica condiziona l’inizio, il decorso clinico, la compliance al trattamento e la prognosi del disturbo da uso di sostanze. In termini generali si può affermare che molti pazienti tossicodipendenti presentano comorbidità psichiatrica, con una elevata presenza di disturbi di personalità. Soprattutto i pazienti con comorbidità per disturbo borderline o antisociale di personalità manifestano una scarsa risposta al trattamento e un elevato rischio di suicidio. E’ stato evidenziato che i tossicodipendenti senza comorbidità psichiatrica seguono ogni tipo di trattamento, mentre i pazienti con comorbidità hanno maggiori difficoltà. E’ importante stabilire la cronologia dello sviluppo dei sintomi, se i sintomi sono presenti nelle fasi drug-free, e l’impatto di ciascun disturbo sulla presentazione, il decorso clinico e la risposta terapeutica. La probabilità che un paziente abbia comorbidità psichiatrica è maggiore se c’è una chiara storia di segni e sintomi psichiatrici precedenti l’uso di sostanze o durante le fasi drug-free e se c’è familiarità psichiatrica positiva. Oltre a questo, ci si pone da più parti il problema se l’abitudine al consumo, a partire da quella alcolica (alcolismo problematico) all’assunzione di sostanze stupefacenti o soprattutto eccitanti e allucinogene possa nel tempo configurare una condizione di indebolimento, come già anticipato dalle osservazioni cliniche relative ai disturbi dell’affettività e della memoria. Se così fosse, non potremmo uscire da una prospettiva di malattia in senso medico legale, dovendo quindi indicare al legislatore che simili condizioni non possono ricadere nell’aggravante destinata dal Codice Penale a colui il quale scientemente e liberamente si ponga nelle condizioni di diminuire le proprie capacità critiche con l’assunzione di alcool o sostanze stupefacenti.

Anche la teoria dell’attaccamento potrebbe fornire dati interessanti per una spiegazione dei fenomeni assuntivi ma con intervallo libero. Nonostante la saltuarietà sarebbe dunque soggiacente una condizione psicologica per la quale la sostanze di volta in volta assunta funge da sostitutivo rispetto all’esperienza, come dire ripolarizza la frattura negli stili adattativi dell’attaccamento indirizzandoli ad un sostituto. In questo caso l’intervallo libero non sarebbe connotabile in termini di libertà. A tutto ciò va aggiunto che le nuove ricerche sugli stati di coscienza mettono sempre più in evidenza come questa debba essere intesa in senso più approfondito, ovvero in termini di complessità e di relazioni fra le singole attività cerebrali, piuttosto che come un “unicum”. Sia dal punto di vista evoluzionistico (Edelmann) con l’ipotesi del rinforzo sia dal punto di vista antipositivistico (teoria dei sistemi) è ormai evidente che la memoria, funzione alla base dei comportamenti, sia da intendersi come funzione dinamica e non come “banca dati” statica. Con la conseguenza che anche i comportamenti risulterebbero modulati, o indotti, o favoriti verso certe direzioni in base alle acquisizioni esperienziali. Ciò pone un grosso limite operativo al concetto di libera determinazione, e apre alla possibilità che alcune sostanze, soprattutto metossianfetamine e allucinogeni, possano modificare permenentemente assetti funzionali dell’organizzazione di gruppi neuronali, senza che si debba invocare una condizione di malattia intesa come evidente scadimento delle condizioni cognitive o presenza di segni clinici obiettivabili secondo la nosografia psichiatrica accreditata. Si tratta di effetti molto più “sottili”, quindi, ma è importante sottolineare come sia comunque un meccanismo indotto dall’uso di certe sostanze a indurli, e a mantenerli in atto, come se fossero (e in realtà nel tempo lo sono) modificazioni del rapportarsi con la realtà esterna e con la propriocezione. Tutto depone quindi per una valutazione in termini di malattia per situazioni che clinicamente possono anche essere scarsamente connotabili quanto a segni, ma che al loro interno ospitano condizioni di peggioramento fisico e di disturbo dell’affettività che nel tempo possono emergere anche ad una dimensione autonoma (aggressività, disturbi compulsivi e della memoria a breve termine, deficit in generale cognitivi) Pertanto il quadro generale sembra orientato, alla luce delle acquisizioni scientifiche recenti, verso una ipotesi di malattia da leggersi in senso esteso, e non ridotto alla sola evidenza clinica di condizioni patologiche emergenti ancorchè croniche.

LEGISLAZIONE Definire che cosa si intenda per sostanza stupefacente è così problematico che, nella maggior parte dei casi, ci si limita a soffermarsi sulle caratteristiche distintive delle singole sostanze definite come stupefacenti, rimandando la loro individuazione alle tabelle di legge nazionali ed internazionali in cui queste sostanze sono elencate. Tali tabelle sono peraltro sempre aperte al successivo inserimento di nuove sostanze assunte a scopo voluttuario, provenienti sia dalla ricerca farmacologica ufficiale, sia dal mondo tecnologico clandestino. Questo difficile problema definitorio è stato affrontato nel corso della “Convenzione Internazionale sulla disciplina e controllo delle sostanze psicotrope” tenutasi a Vienna nel 1971, poi ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge n.385 del 25 marzo 1989. Ne è scaturito che, affinché una sostanza possa essere inserita negli elenchi internazionali

degli stupefacenti, occorre che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) abbia constatato che tale sostanza sia in grado di provocare: 1. 2. 3.

a) uno stato di dipendenza e b) uno stimolo o una depressione del sistema nervoso centrale, che dia luogo ad allucinazioni o a disordini della funzione motrice e della facoltà di giudizio e/o del comportamento e/o della percezione e/o dell’umore; oppure che tale sostanza possa dare luogo a degli abusi ed a difetti nocivi comparabili a quelli di una delle sostanze incluse nelle tabelle I, II, III, IV e che esistano ragioni sufficienti per ritenere che tale sostanza possa dare luogo ad abusi tali da costituire un problema di salute pubblica ed un problema sociale tali da giustificare il fatto che la stessa sostanza venga posta sotto il controllo internazionale”.

Uno degli elementi fondamentali di questa definizione è il concetto di dipendenza, la quale si può manifestare in ambito psichico, ma anche in ambito fisico: il quadro di dipendenza assume connotati peculiari a seconda della sostanza protagonista dell’abuso. L’OMS definisce la dipendenza psichica come “un sentimento di bisogno assoluto e la tendenza psicologica che richiede una somministrazione periodica o continuativa della droga per produrre l’effetto desiderato o per evitare disagio”. La dipendenza fisica, invece, è caratterizzata dal fatto che l’interruzione della periodica assunzione di una sostanze stupefacente, oltre al disagio psicologico, provoca la cosiddetta “crisi di astinenza”, cioè una serie di disturbi fisici, clinicamente obiettivabili, dovuti ad un alterato stato fisiologico collegato ad una acquisita esigenza biochimica dell’organismo. È importante sottolineare che non è corretto definire l’assuntore di sostanze stupefacenti come tossicodipendente, in quanto che la tossicodipendenza si instaura dopo una prolungata e frequente assunzione a scopo voluttuario della sostanza protagonista dell’abuso. Questa frequente e reiterata assunzione può anche indurre tolleranza, che consiste nella necessità di aumentare la dose, o posologia, per ottenere lo stesso effetto conosciuto in precedenza, a causa dell’attivazione delle vie metaboliche. Storia della legislazione sugli stupefacenti. Le leggi che disciplinano la materia degli stupefacenti hanno subito ben tre riforme dalla seconda metà degli anni ’50, quattro considerando anche le importanti modifiche intervenute a seguito del referendum abrogativo, del 1993, delle norme che riguardano il consumo non terapeutico delle sostanze stupefacenti. Tutte queste riforme hanno portato, a partire dalla Legge n.1041 del 1954, ad una collocazione extra-codicistica della materia, la quale si è infine voluta disciplinare in tutti i suoi diversi aspetti con l’adozione di un corpo normativo unico e coordinato: il vigente “Testo unico in materia di stupefacenti”. Quanto sopra scritto sottolinea il sempre maggiore impatto medico, sociale e sanitario, ancora più che giuridico, del problema inerente all’assunzione, alla detenzione, allo spaccio ed al traffico di sostanze stupefacenti. È poi importante sottolineare come su questo tema ci siano sempre state forti contrapposizioni ideologiche e culturali, soprattutto riguardo al consumo voluttuario, da qui l’importanza di fornire dei parametri sempre più sottratti alla discrezionalità di giudizio dei singoli Magistrati, almeno per ciò che riguarda l’uso personale. Le prime normative internazionali riguardarono esclusivamente l’oppio ed i suoi derivati; la Conferenza Internazionale dell’Aja (23 gennaio 1912) promulgò la prima Convenzione Internazionale dell’oppio, in vigore in Italia dal 1922. La prima legge italiana in tema di stupefacenti fu la Legge n.396 del 18 febbraio 1923, estesa anche alla cocaina. La legge non poneva l’accento tanto sulla circolazione delle sostanze oggetto di controllo quanto sul commercio, proibendone la vendita e la produzione ai non autorizzati. Solo con l’entrata in vigore del Codice Penale del 1931 si pervenne ad una rassegna più organica della materia, integrandosi il concetto di agevolazione dolosa dell’uso di stupefacenti ed il concetto di reato contravvenzionale per comportamenti legati all’alterazione psichica indotta da sostanze stupefacenti. La novità consisteva soprattutto nell’abbandono della categoria concettuale di “sostanze velenose” per gli stupefacenti, con l’equiparazione alle patologie ed alle sindromi alcool correlate. Nel 1954 l’intera materia venne sottoposta a revisione, senza operare distinzione tra venditore e consumatore; tale misura appariva sorretta dal convincimento che il fenomeno dell’abuso, ancora di scarsa rilevanza, potesse essere contenuto con misure repressive di ordine esclusivamente penale. Il rapido aggravarsi del fenomeno rese in seguito necessaria una ulteriore disamina dell’intera struttura legislativa in tema di controllo e repressione dell’uso e del traffico di stupefacenti, soprattutto in ordine al problema del trattamento medico e riabilitativo di sempre maggiori fasce di età giovanili coinvolte nel fenomeno della tossicodipendenza. La Legge n.685 del 1975 ha introdotto infatti esplicitamente il tema non solo della riabilitazione, ma anche quello della prevenzione, aprendo la strada alla lettura in chiave medica, sociale e sanitaria del fenomeno tossicodipendenza. Nella legge, oltre alle sostanze stupefacenti, erano comprese anche le psicotrope (anfetaminici, barbiturici, ansiolitici), divisi in sei tabelle delle quali le prime quattro raccoglievano sostanze che comportavano una sanzione penale se detenute in assenza di indicazione, o per uso non terapeutico. L’uso non terapeutico veniva inoltre valutato in termini di quantità (concetto di “modica dose”) per differenziare il semplice consumo dallo spaccio, soggetti a pene differenziate in gravità, sia quindi secondo il criterio qualitativo (art.71, pericolosità della sostanza, tabella di appartenenza) sia secondo quello quantitativo (art.72; art.80: in caso di modica quantità non punibilità, e art.98 relativo

ai trattamenti di riabilitazione). Con la Convenzione Unica di New York, ratificata in Italia con la Legge n.412 del 5 giugno 1974, per la prima volta si è posto a livello internazionale il problema non solo delle sostanze da sottoporre a controllo, ma anche dell’utilizzatore: l’art.38 è infatti dedicato al trattamento degli assuntori di stupefacenti, soprattutto al fine della riabilitazione, unitamente alla definizione delle pene per la detenzione illegale di stupefacenti. Il Testo Unico 309/1990. Il dibattito si è mantenuto acceso fino all’entrata in vigore della Legge n.162 del 1990, armonizzata con altri decreti in materia di stupefacenti nel Testo Unico (T.U.) del Decreto del Presidente della Repubblica (D.P.R.) 309 del 1990. Uno degli aspetti più significativi è quello della volontà di una più stretta collaborazione a livello internazionale nella lotta al narcotraffico ed ai suoi presupposti sociali ed economici. Importanti in tal senso sono le disposizioni sull’attività di Polizia Giudiziaria (acquisto simulato e ritardo nella trasmissione della notizia criminis a fini di indagine). Nei confronti del consumatore l’atteggiamento del Legislatore è cambiato nuovamente, prevedendo comunque una punibilità per quella che prima era considerata “modica quantità”, sia pure in termini solo amministrativi (sanzioni del Prefetto) e con valenza di controllo per l’inserimento dei soggetti in un circuito Sanitario, prevedendo altresì una divisione delle sostanze oggetto d’abuso in quattro tabelle, aggiornate soprattutto dal fatto che per ogni sostanza viene indicato un valore quantitativo (la “dose media massima giornaliera” - art.75), prima lasciato alla libera discrezionalità del Magistrato al momento della valutazione circa la modicità o meno di un quantitativo in sequestro. Si è riaffermato il divieto all’uso di stupefacenti e il Giudice non può fare eseguire un trattamento di recupero per via obbligatoria, ma solo con il consenso dell’interessato, il quale può godere, in caso affermativo, della sospensione della pena detentiva, purché questa non sia superiore ai tre anni.

Il periodo post-referendario La materia ha subito una ulteriore modificazione a seguito della parziale abrogazione referendaria attuata con il D.P.R. (Decreto del Presidente della Repubblica) n.171 del 5 giugno 1993: con tale modifica termina il periodo che potremmo definire della presunzione, basata dapprima, con la Legge 685/’75, sul concetto di “modica quantità”, e poi, con la Legge 162/’90, sulla “dose media giornaliera” (riferita però ad un individuo medio), per aprirsi un nuovo periodo esente da presunzioni: allo stato attuale la detenzione per uso personale di stupefacenti di qualsiasi natura ed in qualunque quantità è penalmente irrilevante e realizza un mero illecito amministrativo: ne consegue che, sul piano sanzionatorio, ogni condotta di importazione, acquisto o detenzione di sostanze stupefacenti, ai fini di uso personale, è assoggettabile al solo procedimento amministrativo di competenza prefettizia. In sostanza, dall’esito del referendum è derivato un fondamentale mutamento nella disciplina “repressiva” degli stupefacenti, a causa del superamento del principio del divieto dell’uso personale e del concetto di “dose media giornaliera” che, nella formulazione originaria del D.P.R.309/1990, era utilizzato per determinare il discrimine quantitativo tra illecito penale (art.73) ed illecito amministrativo (art.75). Permane il divieto della detenzione per uso personale non terapeutico (in caso contrario la Corte Costituzionale non avrebbe ammesso il referendum, dati gli obblighi dell’Italia a seguito della ratifica della Convenzione O.N.U. di Vienna del 20 dicembre del 1988 , il cui tema centrale è la lotta ad oltranza al narcotraffico, anche grazie all’intensificarsi delle sinergie tra gli organi di polizia dei singoli Stati aderenti all’organizzazione, in una visione globale del fenomeno a livello internazionale), comprendente sanzioni amministrative comminate dal Prefetto ex art.75, mentre sono decadute le sospensioni e le prescrizioni comminate dalla Autorità Giudiziaria ex art.76 e dal Prefetto ex art.72 del T.U. 309/90. In merito al problema circa l’attività attribuibile a piccole quantità di sostanza stupefacente, possono essere condotte le seguenti considerazioni: -

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l’efficacia di una qualunque sostanza sull’uomo è misurabile secondo due distinti ordini di grandezza: uno a livello molecolare (anche una sola molecola di sostanza svolge, purché chimicamente non degradata, la sua azione specifica, limitatamente ad una sola cellula) ed uno a livello sistemico (numerose molecole agenti su un insieme cellulare, ovvero un tessuto od un organo in senso sia anatomico, sia funzionale). In questo secondo caso, all’azione sistemica si accompagnano sia la percezione soggettiva dell’effetto, sia la sua obiettivazione clinica da parte di un Sanitario. Sotto il profilo medico legale tale distinzione è importante, perché se le sostanze stupefacenti fossero definibili come tali solo in base alla induzione di uno stato di stupefazione (soggettivamente percepibile e/o clinicamente obiettivabile) si perverrebbe alla antinomia di una esclusione dei prodotti stupefacenti e psicotropi dalle Tabelle di Legge, in quanto che non attivi sull’uomo solo da un punto di vista quantitativo, mentre il Legislatore non separa l’aspetto di valutazione quantitativo da quello qualitativo, ovvero l’essere un certo prodotto “di per sé” stupefacente. Il concetto di “dose drogante” (nato da una sentenza della Corte di Cassazione all’epoca della Legge 685/1975, utile in tale epoca per favorire il Magistrato nel decidere in merito al concetto di “modica quantità”) è stranamente rimasto non cassato quando la nuova normativa, raccolta nel T.U. del D.P.R.309/1990, prevedeva limiti quantitativi

ben precisi, ed anche successivamente agli esiti della abrogazione referendaria. Pertanto, il limite di 12 mg circa per l’eroina viene spesso inteso come la quantità sotto la quale non può aversi effetto di stupefazione. Un dibattito prolungato con i Magistrati aveva portato come conclusione la non applicabilità di questo limite inferiore, in quanto veniva a perdersi il concetto di “stupefacente” sul piano qualitativo, ed inoltre si ingenerava confusione tra effetto stupefacente, eclatante e ben apprezzabile, ed azione biologica, magari sommessa e inavvertita soggettivamente, ma comunque presente. Allo stato attuale, quindi, viene riaffermato il divieto dell’uso personale di stupefacenti, (ex art.72 comma II) ma la detenzione di questi, sempre che non si configurino altri reati, come ad es. lo spaccio o la cessione, costituisce non più reato ma illecito amministrativo; il procedimento può essere sospeso se l’interessato volontariamente si sottopone ad un programma terapeutico presso una struttura pubblica (medico di base, SerT) o privata (comunità terapeutica). Lo Stato, quindi, sembra assumere una posizione sempre più di neutralità rispetto al fenomeno dell’uso personale di stupefacenti, ed il connesso giudizio di disvalore è sempre più attenuato. N.B. Stato di intossicazione acuta per assunzione di stupefacenti. Oltre al materiale possesso della sostanza stupefacente nel momento dell’accertamento, è sanzionabile anche l’individuo colto in stato di over-dose, stato che comunque deve sempre venire appurato dal referto medico; in tale condizione si ha nell’organismo umano la materiale presenza, in forma ancora attiva, della sostanza assunta e, tenendo conto che ciò presuppone un rapporto diretto ed esclusivo, accertabile in via diagnostica, tra la persona e la sostanza stessa, questa condizione viene ricondotta alla fattispecie della detenzione. È stata così rivista l’impostazione pre-referendaria secondo cui la detenzione doveva essere interpretata in senso letterale, circoscrivendone l’accezione ai casi di possesso materiale della sostanza nel momento dell’accertamento: questo nuova atteggiamento si propone di rivalutare la finalità più propriamente sociale delle disposizioni, che tendono a consentire, in via prioritaria, la cura, la riabilitazione ed il reinserimento del tossicodipendente. Con il decreto del 14 settembre 1999 la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per gli Affari Sociali ha istituito l’Osservatorio permanente per la verifica dell’andamento del fenomeno delle droghe e delle tossicodipendenze (Gazzetta Ufficiale n.258 del 3.11.1999); tale Osservatorio si propone di divenire un polo di informazione e di aggiornamento sulle droghe e sulle tossicodipendenze, ai fini della interpretazione scientifica del fenomeno, anche nelle interreazioni di ordine sociale e culturale, nonché si prefigge un ruolo di proposta di strategie di intervento e di metodologie per la valutazione della loro efficacia. L’Osservatorio permanente mira a: a)

curare la raccolta, la elaborazione e la interpretazione di dati ed informazioni statistico epidemiologiche e di documentazione sul consumo, l'abuso, lo spaccio ed il traffico di stupefacenti e sostanze psicotrope; b) costituire un supporto tecnico e scientifico per: la elaborazione delle politiche di contrasto al consumo, all'abuso, allo spaccio ed al traffico di stupefacenti e sostanze psicotrope; il soddisfacimento delle esigenze informative e di documentazione delle amministrazioni pubbliche centrali, territoriali e locali, e delle organizzazioni del privato sociale operanti nel campo della prevenzione, dei trattamenti e del recupero degli stati di uso e abuso di droghe; c) curare i rapporti con le istituzioni europee ed extraeuropee che operano nel settore, al fine di un sistematico interscambio di informazioni e di documentazione. L’Osservatorio e' funzionalmente inserito nella competente Unita' organica del Dipartimento ed e' articolato in tre settori: 1.

2.

3.

il settore "statistico epidemiologico", il quale cura la raccolta, la elaborazione e l'analisi dei dati relativi al consumo ed all'abuso degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope, attivando un sistema informativo automatizzato; inoltre coordina e svolge ricerche specifiche su aspetti statistico epidemiologici del consumo e abuso di stupefacenti e sostanze psicotrope. Il settore della "riduzione della domanda", il quale cura la raccolta della documentazione e la elaborazione dei dati relativi alle attività di amministrazioni pubbliche centrali, territoriali e locali e del privato sociale impegnati nelle attività di prevenzione, trattamento e riabilitazione delle tossicodipendenze; nonché del consumo, abuso, spaccio e traffico di stupefacenti e sostanze psicotrope; cura il coordinamento delle attività di ricerca nel settore; cura il rapporto tra le diverse reti di operatori presenti sul territorio nazionale; cura la produzione, la distribuzione e la messa a disposizione di documentazione e bibliografia specifica del settore. Il "punto focale nazionale", il quale cura il collegamento con l'Osservatorio europeo sulle tossicodipendenze di Lisbona (OEDT), ne recepisce le indicazioni sulle attività da svolgere sul territorio nazionale, diffonde il materiale,

le raccomandazioni, le pubblicazioni, i risultati delle ricerche; cura la raccolta e la elaborazione dei dati statistico epidemiologici ai fini della predisposizione del Rapporto annuale nazionale per l'Osservatorio di Lisbona; propone all'Osservatorio di Lisbona le indicazioni e gli elementi provenienti da esperienze nazionali; cura l'attività di sviluppo delle rete informativa relativa al "Progetto Reitox".

Accertamenti in assenza di tossicodipendenza (art.125 del D.P.R.309/90). In base agli interventi preventivi, curativi e riabilitativi a cui si fa riferimento al titolo XI del testo unico in materia di stupefacenti (D.P.R.309/90), è effettuabile una serie di accertamenti a carico “di lavoratori destinati a mansioni che comportano rischi per la sicurezza, la incolumità e la salute di terzi”, al fine di evitare che soggetti che fanno uso di stupefacenti vengano utilizzati per determinate tipologie lavorative, ad esclusiva tutela di quei diritti e di quegli interessi dei terzi cui fa riferimento la norma. Tale disposizione non specifica in concreto quali siano tali mansioni, rinviando per la loro determinazione ad un decreto del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, di concerto con il Ministero della Sanità. Si precisa invece che gli accertamenti previsti devono venire effettuati periodicamente a cura di strutture pubbliche nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale ed a spese del datore di lavoro. In caso di accertamento dello stato di tossicodipendenza nel corso del rapporto di lavoro, il datore di lavoro è tenuto a far cessare il lavoratore dall’espletamento della mansione a rischio. Nel caso in cui, invece, l’accertamento di tossicodipendenza anticipi l’assunzione del soggetto, non viene fornita alcuna indicazione; tuttavia, quando l’assunzione sia relativa ad una mansione che comporta i rischi indicati dalla norma, è da ritenere che il datore di lavoro non possa assumere il lavoratore tossicodipendente. In caso di inosservanza delle precedenti prescrizioni, ne deriva l’inflizione di una sanzione penale, oltre che di una sanzione pecuniaria in forma di ammenda. Guida sotto l’influenza di sostanze stupefacenti (art.187 del Nuovo Codice della Strada). 1. 2.

3. 4. 5.

È vietato guidare in condizioni di alterazione fisica e psichica correlata con l’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope. In caso di incidente, o quando si ha ragionevolmente motivo di ritenere che il conducente del veicolo si trovi sotto l’effetto conseguente all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, gli agenti di Polizia Stradale fatti salvi gli ulteriori obblighi previsti dalla legge, hanno facoltà di accompagnare il conducente presso una struttura pubblica per il prelievo di liquidi biologici. Lo stato di alterazione fisica e psichica viene accertato con le modalità stabilite con decreto del Ministro della Sanità, di concerto con i Ministri dell’Interno e dei Lavori Pubblici. Copia del referto Sanitario, qualora l’accertamento risulti positivo, deve essere tempestivamente trasmessa, a cura dell’organo di Polizia che ha proceduto agli accertamenti, al Prefetto del luogo in cui è stata commessa la violazione, per gli eventuali provvedimenti del caso. Sulla base della certificazione rilasciata dalla sopraddetta struttura pubblica, il Prefetto ordina che il guidatore sia sottoposto a visita medica e, in via cautelativa, può disporre la sospensione della patente di guida fino all’esito dell’esame di controllo che, comunque, deve avvenire nel termine indicato dal regolamento. Si applicano le disposizioni dei commi 2 e 3 dell’art.186. In caso di rifiuto dell’accertamento di cui al comma 2, il conducente viene punito, salvo che il fatto costituisca un reato più grave, con l’arresto fino ad un mese e con un’ammenda da Lire cinquecentomila a Lire due milioni.

N.B. Si pone un problema operativo molto importante, in quanto che le Forze di Polizia, nell’accertamento del reato di guida sotto l’effetto di stupefacenti, debbono sottoporre il soggetto al prelievo di sostanze biologiche, poiché non esistono metodiche non invasive per la documentazione dell’assunzione delle stesse; tale prelievo non può essere effettuato senza il consenso dell’interessato. Per ciò che riguarda la guida in stato di ebbrezza da alcolici, il problema è stato risolto con l’introduzione dell’etilometro quale strumento per effettuare la misurazione dell’alcoolemia. Nel caso della intossicazione da sostanze stupefacenti, invece, il problema è ancora aperto. Detenzione lecita di sostanze stupefacenti: impiego terapeutico (art.43 del D.P.R.309/90). “È consentito l’impiego terapeutico di preparati medicinali a base di sostanze stupefacenti psicotrope, debitamente prescritti secondo le necessità di cura in relazione alle particolari condizioni patologiche del soggetto.” Fuori ed oltre la prescrizione medica, la detenzione per finalità terapeutica risulta illecita e, quindi, perseguibile amministrativamente. È da sottolineare che la prescrizione per uso terapeutico non può riguardare cocaina e anfetamine. Può riguardare, invece, la morfina, però a dosi tali da non indurre dipendenza, o i barbiturici in ambito anestesiologico, oppure il metadone come farmaco sostitutivo nel trattamento della tossicodipendenza da eroina e morfina. Ai fini della illiceità della detenzione è irrilevante il fatto che la prescrizione rechi irregolarità formali o non rispetti le necessità della cura, ovviamente al di là delle ipotesi di concorso nel delitto di prescrizione abusiva per uso non terapeutico, punito

dall’art.83 del D.P.R.309/90; si rientra invece nell’ipotesi penale qualora il soggetto detenga quantità eccedenti quelle prescritte per uso terapeutico. Oltre che per l’uso terapeutico, che riveste la quasi totalità di impiego legittimo degli stupefacenti, è consentito il loro utilizzo per scopi di ricerca o per perizie giudiziarie. La prescrizione di sostanze stupefacenti. La prescrizione delle sostanze stupefacenti inserite nelle Tabelle I, II e III è assoggettata a norme molto restrittive e costituisce la prescrizione speciale (prevista dall’art. 6 del decreto legge n.539 del 30 dicembre 1992). In tale decreto si stabilisce che la prescrizione avvenga su di un ricettario apposito a madre-figlia; questo ricettario è predisposto dal Ministero della Sanità e distribuito, a richiesta dei medici chirurghi e dei veterinari, tramite i rispettivi ordini professionali. Al momento del ritiro il Sanitario è tenuto a firmare, in apposito spazio, tutti i duecento moduli di cui è composto il ricettario: la sottoscrizione all’atto del ritiro servirà di confronto con quella apposta al momento della prescrizione. Sulla ricetta devono essere indicati con mezzo indelebile: cognome, nome e residenza dell’ammalato (ovvero del proprietario dell’animale ammalato). La dose prescritta va segnata in lettere, così pure la “indicazione dei modi e dei tempi di somministrazione” (ovvero la via di somministrazione e la posologia). Va inoltre riportata la data di prescrizione e la firma del prescrittore che, come sottolineato in precedenza, deve corrispondere a quella apposta al momento del ritiro del ricettario. Ogni ricetta può contenere la prescrizione di un solo tipo di medicinale, inoltre sono previste limitazioni quantitative nella prescrizione in relazione alla dose giornaliera prevista. In particolare, la prescrizione ad uso umano deve essere limitata “ad una sola preparazione o ad un dosaggio per cura di durata non superiore ad otto giorni” (art.43, III comma). In pratica il medico è tenuto a prescrivere, nel caso di specialità medicinali (che non sono sconfezionabili!), la confezione di dimensioni minori tra quelle presenti sul mercato, oppure un numero di confezioni che, pur contenenti complessivamente una quantità superiore alle necessità di otto giorni di cura, eccedano nella misura minore possibile rispetto alle quantità da somministrare. Il farmacista ha l’obbligo di accertare che la ricetta sia stata redatta in modo conforme alle disposizioni sopra descritte: il mancato rispetto, da parte del medico, delle norme sulla prescrizione comporta l’obbligo per il farmacista di non consegnare quanto prescritto. Soltanto in situazioni di vero stato di necessità (art. 54 del codice penale) il farmacista, sotto la propria responsabilità, può assumere un atteggiamento diverso; si tratta tuttavia di situazioni eccezionali che si possono verificare soltanto in ambiti territoriali particolarmente disagiati ed in circostanze di emergenza. Il Sanitario ha l’obbligo di conservare la documentazione relativa alla movimentazione delle sostanze stupefacenti e psicotrope relative alle prime cinque tabelle: tale documentazione consiste in tutta la documentazione giustificativa e nel registro di carico e scarico stupefacenti, che va vidimato e firmato in ogni sua pagina dall’Autorità Sanitaria. Su questo registro devono essere annotati, per ogni somministrazione, oltre il cognome, il nome e la residenza dell’ammalato, la data di somministrazione, la denominazione e la quantità della preparazione somministrata, la diagnosi e la sintomatologia. Ciascuna pagina del registro è intestata ad una sola preparazione e deve essere osservato un ordine numerico progressivo unico delle operazioni di carico e scarico. Ogni anno, dalla data del rilascio, i registri devono essere sottoposti al controllo ed alla vidimazione dell’Autorità Sanitaria locale. Gli ambulatori dei medici chirurghi e veterinari devono conservare i registri di entrata e uscita per due anni. In caso di perdita, smarrimento o sottrazione dei registri o di loro parti, o dei loro documenti giustificativi, tutte le persone responsabili devono presentare denuncia scritta alla più vicina autorità di Pubblica Sicurezza e darne comunicazione al Ministero della Sanità. La sanzioni previste per la non ottemperanza alle norme previste per la tenuta e la conservazione dei registri di entrata e uscita, per la trasmissione dei dati e la denuncia per perdita, smarrimento o sottrazione dei registri e/o documentazione inerente, consistono nell’arresto fino a due anni o nell’ammenda da tre a cinquanta milioni di lire. La prescrizione abusiva di sostanze stupefacenti (art.83 del D.P.R.309/90) Non è punita la prescrizione erronea per indicazione o posologia. Si tratta di una responsabilità per dolo, costituito dalla consapevolezza e dalla volontà di prescrivere una sostanza stupefacente per uso “non terapeutico”. Le sostanze comprese nelle Tabelle I, II e III, seppur utilizzate in medicina nella comune pratica clinica nei confronti di soggetti portatori di particolari affezioni o patologie, sono soggette a modalità particolari nella loro prescrizione da parte del medico, così da evitare o contenere fenomeni di “mercato grigio”, cioè il passaggio di stupefacenti attraverso formali modalità lecite nel mercato clandestino, o di prescrizione troppo inaccorta da parte dei medici. Meno rigide sono le modalità di prescrizione per le sostanze contenute nella Tabella IV, pur collegate alla sanzione penale e/o amministrativa, poiché in questa Tabella sono inclusi farmaci di largo impiego in patologie estremamente frequenti e tali da determinare anche il trattamento farmacologico cronico (per es. l’epilessia e l’uso dei barbiturici). In questo caso sembra che abbiano prevalso esigenze di carattere terapeutico su quelle di contenimento dell’illecito.

Commenti per il Medico

Tralasciando il discorso sulla prevenzione, peraltro di estrema importanza, da un punto di vista pratico il medico si è sempre trovato di fronte due opzioni terapeutiche: la terapia sostitutiva che, a seguito della somministrazione controllata di dosi a scalare di farmaci sostitutivi (metadone per la tossicodipendenza da eroina, in primis), si propone di eliminare totalmente, con il tempo, l’uso degli stupefacenti; e la terapia di mantenimento, molto contestata e, come vedremo, ai limiti della legalità, che, invece di proporsi come obiettivo la guarigione del tossicodipendente, si ripropone la sola cura del tossicodipendente, così da ottenere una “riduzione del danno” (grazie alla somministrazione in dosi e modalità controllate di farmaci sostitutivi in dosi non a scalare). Naturalmente ambedue le opzioni terapeutiche prevedono un concomitante sostegno psicologico del paziente stesso. La legge n.685 del 22 dicembre 1975 formulava e regolamentava, per la prima volta in Italia, l’intervento farmacologico riabilitativo della tossicodipendenza con farmaci stupefacenti sostitutivi. I decreti attuativi del 1978 e del 1980, indicavano i farmaci da utilizzare (metadone sciroppo e morfina in via sperimentale) e le strutture competenti per la loro utilizzazione e per la organizzazione del programma terapeutico. Il medico curante aveva la possibilità di partecipare a tale intervento terapeutico, ma solo come attività integrativa e di supporto. Con un decreto del 1985 si revocava la possibilità di utilizzazione, anche a livello sperimentale, della morfina nella disassuefazione da oppiacei. La legge n.162 del 26 giugno 1990, seguita dal decreto del Ministero della Sanità n.445 del 19 dicembre 1990, ribadiva il riconoscimento del metadone sciroppo come unico farmaco utilizzabile come sostitutivo e affermava che il trattamento doveva rientrare in un ampio programma di recupero psicologico, sociale e riabilitativo. Tale intervento era diretto a soggetti in cui fosse dimostrata la dipendenza fisica e nei quali altre terapie fossero risultate inefficaci. Le strutture deputate al trattamento erano individuate nei centri pubblici per le tossicodipendenze. Il D.M.445 del 1990 non prevedeva alcun ruolo per il medico curante o per altre figure professionali di fiducia del soggetto, che non erano di fatto coinvolte nella organizzazione e nella concreta esecuzione del progetto riabilitativo. Dopo il referendum del 1993, per quanto concerne gli obblighi del Medico, questi non ha più il dovere di inoltrare al SerT (Servizio Pubblico per le Tossicodipendenze) la scheda sanitaria del proprio assistito dedito all’uso di sostanze stupefacenti: tale scheda sanitaria prevedeva un sistema di codifica atto a tutelare, qualora richiesto, il diritto all’anonimato del paziente stesso, e doveva venire conservata dal Sanitario. È stato anche eliminato l’obbligo di analoga segnalazione per il Medico che comunque si fosse trovato ad assistere persone sotto l’azione di sostanze stupefacenti. Poiché a seguito del referendum abrogativo del 15 aprile 1993 non era più compito del Ministero della Sanità stabilire, mediante decreto, i limiti e le modalità di impiego dei farmaci sostitutivi, da allora è divenuto possibile per qualunque medico utilizzare dei farmaci sostitutivi nella terapia della tossicodipendenza. È venuta meno anche la previsione dell’uso del solo metadone sciroppo come farmaco sostitutivo, quindi potevano essere impiegati prodotti diversi, purché la loro utilizzazione avesse una giustificazione terapeutica nel trattamento della tossicodipendenza. Dal referendum in poi, quindi, spettava allo stesso medico, sulla base delle proprie esperienze e conoscenze, scegliere il farmaco più adatto ed opportuno per la terapia di ciascun paziente, indipendentemente da quanto riferito in sede di registrazione del farmaco. Tuttavia il decreto legge n.291 del 27 maggio 1996, avente per tema “Disposizioni urgenti in materia di sperimentazione ed utilizzazione di medicinali”, ha inteso regolare la materia in modo più rigoroso, limitando di fatto tale “libertà” e prevedendo modalità molto dettagliate che il medico deve seguire per utilizzare farmaci in condizioni patologiche non rientranti tra le indicazioni previste nel decreto di registrazione. Tale decreto, più volte reiterato e ora definitivamente decaduto, è stato tramutato in un disegno di legge non ancora approvato. Ai fini pratici, l’attuale barriera per il medico nella terapia della tossicodipendenza è rappresentata dall’insieme dei presidi utilizzabili legittimamente, in quanto preparazioni disponibili, e dai limiti relativi alla prescrizione abusiva (art.83 D.P.R. 309/90). È opportuno sottolineare che la previsione delittuosa dell’art.83 si riferisce alle sostanze contenute nelle Tabelle I, II, III e IV dell’articolo 14 del D.P.R.309/90, non alla eventuale utilizzazione di sostanze stupefacenti incluse nelle Tabelle V o VI. Il fatto che ora il medico curante non sia più obbligato a mettere in contatto il paziente con il SerT è un aspetto sicuramente negativo, perché in tal modo si perde l’opportunità da parte del SerT di “agganciare” il tossicodipendente stesso. Per quanto concerne in specifico il ruolo del Sanitario nella gestione del paziente tossicodipendente nella attuale legislazione sugli stupefacenti, va sottolineato come allo stato attuale esista un vero e proprio vuoto normativo, a seguito del quale il Medico viene lasciato praticamente solo.

La terapia con farmaci sostitutivi. Vero limite posto dal già citato art.83 (relativo alla prescrizione abusiva di sostanze stupefacenti) risiede nel labile confine tra illecito e prescrizione terapeutica per ciò che concerne non il trattamento a scalare, ma la terapia di mantenimento. Infatti, la prescrizione di farmaci stupefacenti costante nel tempo, cioè non organizzata al fine di giungere ad una disassuefazione, che ottenga come unico risultato il mantenimento dell’abuso come alternativa

legittima di approvvigionamento rispetto alle normali vie di acquisizione clandestina, configura una vera e propria “cessione”, come tale perseguibile per legge. Non è facile gestire questa alternativa mantenimento-disassuefazione, in quanto che la tossicodipendenza è caratterizzata da frequenti ricadute, che possono giustificare un intervento a scalare ripetuto nel tempo. Una circolare del Ministero della Sanità (n.20 del 1994) prevede, tuttavia, delle linee guida per la terapia della dipendenza da oppiacei con farmaci sostitutivi, citando il trattamento di mantenimento con il metadone come uno dei possibili interventi terapeutici nei confronti della tossicodipendenza, ma lo regola in maniera specifica, prevedendo le modalità operative, le raccomandazioni da seguire e gli strumenti da utilizzare per il controllo e la valutazione della sua efficacia. Il fine ultimo cui deve tendere anche l’intervento di mantenimento è “portare il paziente al distacco da ogni tipo di dipendenza , inclusa quella dal farmaco sostitutivo”. Ne consegue che il trattamento di mantenimento continuativo, anche per diversi anni, pone dei problemi di contrasto con tale presupposto terapeutico, poiché di fatto fornisce al tossicodipendente la sostanza stupefacente senza prevederne il suo abbandono definitivo. Diverse sentenze sottolineano che il recupero non può essere sinonimo di mantenimento, in quanto quest’ultimo non è altro che il perpetuarsi dello stato di tossicodipendenza, non consentendo di fatto la terapia di mantenimento con farmaci stupefacenti, pertanto non prescrivibili dal medico. Altre sentenze, invece, hanno ammesso la terapeuticità dell’intervento di mantenimento. Tale circolare (n.20 del 1990), la quale condiziona soltanto gli interventi posti in essere presso i Servizi Pubblici gestiti dal S.S.N., sembra essere ispirata ad una teoria che può essere definita di “riduzione del danno”, ed è in contrasto con l’attuale definizione della tossicodipendenza come uno “stato di malattia”, come tale bisognosa di interventi che tendano alla sua guarigione. “Norme per agevolare l’impiego dei farmaci analgesici oppiacei nella terapia del dolore”. È stata recentemente emanata la Legge n.12 datata 8 febbraio 2001, che costituisce una integrazione del D.P.R.309 del 1990, e di cui si riporta il testo integrale nell’Appendice (in coda a detto Decreto del Presidente della Repubblica, a pagina 118 di questa tesi). Tale Legge si propone di favorire l’utilizzo di farmaci oppioidi nell’assistenza, anche domiciliare, di pazienti affetti da dolore severo in corso di patologia neoplastica o degenerativa, ad esclusione del trattamento domiciliare degli stati di tossicodipendenza da oppiacei. In base a questa nuova Legge vengono agevolate la prescrizione e l’approvvigionamento di sostanze oppioidi morfinosimili; i farmaci che usufruiscono di tali modalità prescrittive semplificate sono: Buprenorfina Codeina Diidrocodeina Metadone Morfina Fentanyl Idrocodone Idromorfone Ossicodone Ossimorfone. La consegna di sostanze sottoposte a controllo può essere fatta anche da parte di operatori sanitari, per quantità terapeutiche di farmaci, accompagnate da dichiarazione sottoscritta dal medico di medicina generale o dal medico ospedaliero che ha in cura il paziente. La prescrizione dei soprascritti farmaci può comprendere fino a due preparazioni o dosaggi per cura di durata non superiore ai trenta giorni.Anche se l’intervento abrogativo del referendum del 1993 ha reso possibili percorsi terapeutici che si avvalgano di sostanze oppioidi come la buprenorfina, od anche di principi attivi diversi da quelli simili alla morfina (tra cui la clonidina), in Italia l’intervento terapeutico con farmaci sostitutivi in corso di tossicodipendenza da oppiacei si avvale fondamentalmente del metadone; ciò a causa della sua lunga durata d’azione, che ne consente una maggiore facilità di utilizzo. METADONE (Eptadone). Oppiaceo sintetico disponibile in fiale per somministrazione intra-muscolo da 100mg oppure in flaconi da 5-10-20mg da somministrare per os. Possiede ottima attività analgesica. Nel 1941 fu introdotto in terapia, per la prima volta, come analgesico. Come per molti altri prodotti antidolorifici di sintesi sostitutivi degli oppiacei, ben presto emerse anche per il metadone la sua capacità di indurre tolleranza, dipendenza psichica e fisica: caratteristiche idonee a farlo considerare stupefacente, alla stregua di altri analgesici oppioidi naturali, semisintetici e sintetici. Poiché dotato di tolleranza crociata nei confronti dell’eroina, attorno agli anni ’50 fu introdotta negli Stati Uniti la terapia di disintossicazione “a scalare” con metadone negli stati di dipendenza da eroina, da attuarsi in un periodo non superiore ai 21 giorni. Al termine del trattamento il soggetto non presentava più sintomi di dipendenza fisica da eroina. Nel 1964 Dole e Nyswander osservarono che mantenendo pazienti eroinomani in terapia con metadone per un periodo di tempo illimitato, si raggiungeva un miglioramento del loro comportamento, facilitandone il reinserimento sociale. La base fondamentale di tale atteggiamento terapeutico era che l’uso cronico di stupefacenti conduceva l’organismo a modificazioni irreversibili che richiedevano una terapia sostitutiva cronica con un altro narcotico, il metadone appunto, che permetteva meglio di ogni altro il reinserimento sociale. I vantaggi del metadone rispetto ad altri farmaci analgesico-narcotici erano indicati nella possibilità della somministrazione orale, in una lunga durata di azione, e nell’indurre effetti euforizzanti non eccessivi e tali da non impedire attività di relazione. Nel programma di mantenimento con metadone avviato negli Stati Uniti la posizione rigida di Dole e Nyswander (basata sulla sostanziale impossibilità di recupero del tossicodipendente) fu in parte attenuata, tanto che il programma terapeutico globale prevedeva anche un trattamento psicologico e sociale.

BUPRENORFINA (Temgesic). Disponibile in compresse sublinguali da 0.2mg o in fiale (0,3mg/cc) da somministrare intramuscolo od endovena; 0,4mg equivalgono a 10mg di morfina ed a 30mg di pentazocina. La buprenorfina è stata utilizzata per ridurre il craving per la cocaina in pazienti con dipendenza da eroina. Questo farmaco sembra combinare l’accettazione da parte del paziente e la tolleranza crociata agli oppiacei che rendono il metadone clinicamente efficace, con un livello di dipendenza fisica minore.

CODEINA (o metilmorfina). Disponibile in compresse da 60mg; possiede attività analgesica pari ad ¼ di quella posseduta dalla morfina rispetto alla quale, però, è meno tossica. Viene utilizzata anche come sedativo della tosse. CLONIDINA. L’agonista alfa2-adrenergico clonidina offre un approccio terapeutico senza oppiacei della sindrome da astinenza da oppiacei: viene utilizzata in parte per ridurre la iperattività del sistema nervoso simpatico. Somministrata a dosaggi di circa 5microg/kg (fino a 0,3 mg da 2 a 4 volte/die), la clonidina attenua la sintomatologia da astinenza da oppiacei nella maggior parte dei pazienti, migliorando le alterazioni a carico del sistema nervoso simpatico. BROMOCRIPTINA (Parlodel). Farmaco dopaminergico derivato semisintetico della segale cornuta, con azione dopamino-simile a livello cerebrale. Stimola i recettori D2 ( adenil-ciclasi indipendenti ) ed inibisce i D1 ( adenil-ciclasi dipendenti ). A dosi di 2-10 mg può essere utile per ridurre il craving da cocaina. Questa molecola agisce durante l’astinenza anche come antidepressivo, migliorando il tono dell’umore che di solito si presenta depresso in caso di crash da cocaina, ed agisce anche sulle alterazioni causate dalla cocaina sugli ormoni sessuali, prolattina in particolare. Ha una durata di azione di 6-8h. È disponibile in compresse da 2,5mg ed in capsule da 5-10mg. NALTREXONE (Antaxone). Non è un farmaco sostitutivo, in quanto che si tratta di un antagonista degli oppiacei (è correlato al Naloxone). È assumibile per os, ed è dotato di azione prolungata. Viene impiegato nella disintossicazione di etilisti, eroinomani e tossicodipendenti in genere. Somministrato 1 volta/die oppure 3 volte/settimana blocca gli effetti euforizzanti senza dare dipendenza, a differenza del metadone, il quale, però, è preferibile perché abolisce il desiderio impellente di oppiacei (craving). In commercio è disponibile in compresse da 10-50 mg ed in flaconi da assumere per os da 10-50 mg.

Tabelle (Articolo 14 del D.P.R.309/90). Tabella I. Nella prima tabella devono essere indicati: 1. L’oppio ed i materiali da cui possono essere ottenute le sostanze oppiacee naturali, estraibili dal papaver somniferum; gli alcaloidi ad azione narcotico-analgesica da esso estraibili; le sostanze ottenute per trasformazione chimica di quelle prima indicate; le sostanze ottenibili per sintesi che siano riconducibili, per struttura chimica o per effetti, a quelle oppiacee precedentemente indicate; eventuali importanti intermedi per la loro sintesi. 2. Le foglie di coca e gli alcaloidi ad azione eccitante sul sistema nervoso centrale da queste estraibili; le sostanze ad azione analoga ottenute per trasformazione chimica degli alcaloidi sopra indicati oppure per sintesi. 3. Le sostanze di tipo anfetaminico ad azione eccitante sul sistema nervoso centrale. 4. Ogni altra sostanza che produca effetti sul sistema nervoso centrale ed abbia capacità di determinare dipendenza fisica o psichica dello stesso ordine o di ordine superiore a quelle precedentemente indicate. 5. Gli indolici, siano essi derivati triptaminici che lisergici, e i derivati feniletilamminici, che abbiano effetti allucinogeni o che possano provocare distorsioni sensoriali.

6. 7. 8.

I tetraidrocannabinoli ed i loro analoghi. Ogni altra sostanza naturale o sintetica che possa provocare allucinazioni o gravi distorsioni sensoriali. Le preparazioni contenenti le sostanze di cui alla presente tabella.

Tabella II. Nella seconda tabella devono essere indicate: 1. La cannabis indica, i prodotti da essa ottenuti, le sostanze ottenibili per sintesi o semisintesi che siano ad essi riconducibili per struttura chimica o per effetto farmacologico, ad eccezione di quelle previste nel punto numero 6 della tabella I. 2. Le preparazioni contenenti le sostanze di cui al numero 1. Tabella III. Nella terza tabella devono essere indicate: 1. Le sostanze di tipo barbiturico che abbiano notevole capacità di indurre dipendenza fisica o psichica o ambedue, nonché altre sostanze ad effetto ipnotico-sedativo ad esse assimilabili. Sono pertanto esclusi i barbiturici a lunga durata e di accertato effetto antiepilettico ed i barbiturici a breve durata d’impiego quali anestetici generali, sempre che tutte le dette sostanze non comportino i pericoli di dipendenza innanzi indicati. 2. Le preparazioni contenenti le sostanze di cui al numero 1. Tabella IV. Nella quarta tabella devono essere indicate: 1. Le sostanze di corrente impiego terapeutico, per le quali sono stati accertati concreti pericoli di induzione di dipendenza fisica o psichica di intensità e gravità minori di quelli prodotti dalle sostanze elencate nelle tabelle I e III. 2. Le preparazioni contenenti le sostanze di cui al numero 1. Tabella V. Nella quinta tabella devono essere indicate le preparazioni contenenti le sostanze elencate nelle tabelle I, II, III e IV quando queste preparazioni, per la loro composizione qualitativa e quantitativa, e per le modalità del loro uso, non presentino rischi di abuso e pertanto non vengano assoggettate alla disciplina delle sostanze che entrano a far parte della loro composizione. Tabella VI. Nella sesta tabella devono essere indicati i prodotti ad azione ansiolitica, antidepressiva o psicostimolante, che possono dare luogo al pericolo di abuso ed alla possibilità di farmacodipendenza. Nelle precedenti tabelle debbono essere compresi, ai fini della applicazione del presente Testo Unico, tutti gli isomeri, gli esteri, gli eteri ed i anche i sali relativi agli isomeri, esteri ed eteri , nonché gli stereoisomeri nei casi in cui possono essere prodotti, relativi alle sostanze ed ai preparati inclusi nelle tabelle, salvo sia fatta espressa eccezione. Le sostanze incluse nelle tabelle debbono essere indicate con la denominazione comune ed usuale italiana, o con quella propria del prodotto farmaceutico oggetto di commercio. È tuttavia ritenuto sufficiente ai fini della applicazione del presente Testo Unico che nelle tabelle sia indicata una qualsiasi delle denominazioni della sostanza o del prodotto, purché sia idonea ad identificarlo.

Legge 8 febbraio 2001, n. 12:"Norme per agevolare l’impiego dei farmaci analgesici oppiacei nella terapia del dolore"in Gazzetta Ufficiale n. 41 del 19 febbraio 2001 Al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni: art. 41.1-bis. In deroga alle disposizioni di cui al comma 1, la consegna di sostanze sottoposte a controllo può essere fatta anche da parte di operatori sanitari, per quantità terapeutiche di farmaci di cui all’allegato III-bis, accompagnate da dichiarazione sottoscritta dal medico di medicina generale, di continuità assistenziale o dal medico ospedaliero che ha in cura il paziente, che ne prescriva l’utilizzazione anche nell’assistenza domiciliare di pazienti affetti da dolore severo in corso di patologia neoplastica o degenerativa, ad esclusione del trattamento domiciliare degli stati di tossicodipendenza da oppiacei»; art. 43: 2-bis. Le ricette per le prescrizioni dei farmaci di cui all’allegato III-bis sono compilate in duplice copia a ricalco per i farmaci non forniti dal Servizio Sanitario nazionale, ed in triplice copia a ricalco per i farmaci forniti dal Servizio Sanitario nazionale, su modello predisposto dal Ministero della sanità, completato con il timbro personale del medico»; 3-bis. La prescrizione dei farmaci di cui all’allegato III-bis può comprendere fino a due preparazioni o dosaggi per cura di durata non superiore a trenta giorni. La ricetta deve contenere l’indicazione del domicilio professionale e del numero di telefono professionale del medico chirurgo o del medico veterinario da cui è rilasciata»;

4. Il Ministro della sanità stabilisce con proprio decreto la forma ed il contenuto dei ricettari idonei alla prescrizione dei farmaci di cui all’allegato III-bis. L’elenco dei farmaci di cui all’allegato III-bis è modificato con decreto del Ministro della sanità emanato, in conformità a nuove disposizioni di modifica della disciplina comunitaria, sentiti l’Istituto superiore di sanità e il Consiglio superiore di sanità, per l’inserimento di nuovi farmaci contenenti le sostanze di cui alle tabelle I, II e III previste dall’articolo 14, aventi una comprovata azione narcotico-analgesica. 5. I medici chirurghi e i medici veterinari sono autorizzati ad approvvigionarsi dei farmaci di cui all’allegato III-bis attraverso autoricettazione, secondo quanto disposto dal presente articolo, e ad approvvigionarsi, mediante autoricettazione, a detenere nonchè a trasportare la quantità necessaria di sostanze di cui alle tabelle I, II e III previste dall’articolo 14 per uso professionale urgente. Copia dell’autoricettazione è conservata per due anni a cura del medico, che tiene un registro delle prestazioni effettuate, per uso professionale urgente, con i farmaci di cui all’allegato III-bis 5-bis. Il personale che opera nei distretti sanitari di base o nei servizi territoriali o negli ospedali pubblici o accreditati delle aziende sanitarie locali è autorizzato a consegnare al domicilio di pazienti affetti da dolore severo in corso di patologia neoplastica o degenerativa, ad esclusione del trattamento domiciliare degli stati di tossicodipendenza da oppiacei, le quantità terapeutiche dei farmaci di cui all’allegato III-bis, accompagnate dalla certificazione medica che ne prescrive la posologia e l’utilizzazione nell’assistenza domiciliare. 5-ter. Gli infermieri professionali che effettuano servizi di assistenza domiciliare nell’ambito dei distretti sanitari di base o nei servizi territoriali delle aziende sanitarie locali e i familiari dei pazienti, opportunamente identificati dal medico o dal farmacista, sono autorizzati a trasportare le quantità terapeutiche dei farmaci di cui all’allegato III-bis, accompagnate dalla certificazione medica che ne prescrive la posologia e l’utilizzazione a domicilio di pazienti affetti da dolore severo in corso di patologia neoplastica o degenerativa, ad esclusione del trattamento domiciliare degli stati di tossicodipendenza da oppiacei»; Il farmacista deve vendere i farmaci e le preparazioni di cui alle tabelle I, II e III previste dall’articolo 14 soltanto su presentazione di prescrizione medica sulle ricette previste dai commi 2 e 2-bis dell’articolo 43 e nella quantità e nella forma prescritta»;. Decorsi trenta giorni dalla data del rilascio la prescrizione medica non può essere più spedita. Gli articoli 46, 47 e 48 sono abrogati. All’articolo 60, dopo il comma 2, sono aggiunti i seguenti: 2-bis. Le unità operative delle strutture sanitarie pubbliche e private, nonché le unità operative dei servizi territoriali delle aziende sanitarie locali sono dotate di registro di carico e scarico delle sostanze stupefacenti e psicotrope di cui alle tabelle I, II, III e IV previste dall’articolo 14. 2-ter. Il registro di carico e scarico deve essere conforme al modello di cui al comma 2 ed è vidimato dal direttore Sanitario, o da un suo delegato, che provvede alla sua distribuzione. Il registro di carico e scarico è conservato, in ciascuna unità operativa, dal responsabile dell’assistenza infermieristica per due anni dalla data dell’ultima registrazione. 2-quater. Il dirigente medico preposto all’unità operativa è responsabile della effettiva corrispondenza tra la giacenza contabile e quella reale delle sostanze stupefacenti e psicotrope di cui alle tabelle I, II, III e IV previste dall’articolo 14. All’articolo 5, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 539, le parole: «hanno validità limitata a dieci giorni» sono sostituite dalle seguenti: «hanno validità limitata a trenta giorni».

Proposte legislative Nella nuova proposta di legge all’esame delle camere si riscontrano diversi elementi che, direttamente o indirettamente, interessano anche il settore sanitario, influenzando il “modus operandi” degli operatori. Innanzitutto viene ridotto il numero delle tabelle da sei a due. Nella tabella I trovano posto le sostanze vietate che “non trovano nessun impiego terapeutico”. Nella tabella II sono, invece, raggruppate, in cinque differenti sezioni, le sostanze aventi proprietà curative e pertanto definite medicinali e che, avendo in sè la capacità di indurre dipendenza fisica o psichica, possono diventare oggetto d’abuso. Quindi tutti i medicinali, per i quali è riconosciuto l’impiego terapeutico ma costituiti da molecole stupefacenti o psicotrope, e regolarmente registrati in Italia, trovano posto nella tabella II. Peraltro la suddivisione in sezioni consente di dedicarne una (sezione A) ai medicinali impiegati nella cosiddetta “terapia del dolore” e ad altre sostanze (flumitrazepam, ketamina, GHB) che sovente sono oggetti di abuso. Tali sostanze non solo possono indurre una dipendenza fisica e psichica di identità e gravità paragonabili a quelle della tabella I, ma risultano più conveniente oggetto di commercio clandestino. Queste sono sottoposte a un regime simile a quello delle sostanze incluse nella tabella I, anche per quello che riguarda le relative sanzioni. Inoltre nella tab. I è stata inserita la cannabis, effettuando praticamente, in questo modo, l’eliminazione di equivoci in relazione ad ipotetici prodotti farmaceutici a base di cannabinoidi, non presenti nella Farmacopea ufficiale italiana.

Ovviamente, questa nuova suddivisione in due tabelle, determina la necessità di modificare la formulazione dei criteri per includere delle sostanze in esse. Nonostante questo, i criteri di inclusione non si discostano, sostanzialmente, da quelli della vigente legge. Oltre alla cannabis, è stata inserita tra le sostanze della tabella I la salvia divinorum e il relativo alcaloide (salvinorina A), una delle c.d. “smart drugs” (droghe “sicure”), un allucinogeno attualmente disponibile in libera vendita. È stato introdotto l’obbligo dello smaltimento dei farmaci analgesici che rimangono inutilizzabili presso il domicilio dei pazienti. Con questo si intende eliminare la possibilità di cessione a qualsiasi titolo da parte del paziente stesso. Si è consentito ai farmacisti di cedere o acquisire da altri farmacisti medicinali contenenti sostanze stupefacenti, verificandosi la necesità di sopperire a carenze in casi di particolare urgenza. Al fine di tutelare le persone che, per motivi terapeutici entrano in contatto con i medicinali a base di sostanze stupefacenti contenuti nella tab. II, sezione A (in particolare pazienti che sono costretti a ricorrere a specialità farmaceutiche impiegate nella terapia del dolore) è stato previsto l’utilizzo nella prescrizione di un particolare tipo di ricetta medica a più copie, una delle quali da consegnare all’assistito. Così anche i soggetti tossicodipendenti in trattamento ai quali, per ragioni di cura, è consegnato in affidamento il medicinale oppioide prescrivibile ottengono una copia della prescrizione o del piano terapeutico da esibire in casi di controllo. Anche le forze di Polizia hanno così uno strumento operativo immediato in fase di accertamento di reati previsti dall’art. 73, comma 7 bis, lett. b. Inoltre, per quello che riguarda la prescrizione dei farmaci contenuti nella tab. II, essa viene ridisegnata nel seguente modo: tab. II, sezione A: ricetta non ripetibile per un massimo di due medicinali, per un dosaggio di 30 giorni tab. III, sezioni C e D: ricetta non ripetibile tab. II, sezione E: ricetta ripetibile Si fa inoltre esplicito richiamo alla normativa comunitaria che regola le attività di controllo sui precursori, e sulle sostanze chimiche di base (importazione, esportazione, fabbricazione e custodia). Il sistema sanzionatorio diventa anch’ esso oggetto di diversi cambiamenti. L’azione più importante è la reintroduzione del divieto dell’uso non autorizzato di sostanze stupefacenti o psicotrope, precedentemente espunto dall’ordinamento a seguito del referendum del 1993. La risposta sanzionatoria è stata diversificata, in un ottica di misure diverse da quella penale per i fatti di “violatura minore”. Così sono previste misure amministrative accompagnate, ricorrendone le condizioni, dal trattamento terapeutico per il mero uso individuale. Le sanzioni penali invece vanno riservate alle sole attività di spaccio e, comunque, alle condotte detentive di quantitative di sostanza stupefacente che, seppur modeste, per le oggettive modalità di presentazione delle stesse ovvero per altre circostanze dell’azione, appaiono destinati allo spaccio e ad un uso non esclusivamente individuale. La distinzione tra “droghe c.d. leggere” a “droghe c.d. pesanti”, sotto il profilo sanzionatorio, va abolita. La suddivisione seguita è quella fra sostanze contenute nella tab.I e nella tab. II. Ogni fatto illecito relativo alla tab. II viene punito meno severamente con l’eccezione delle sostanze contenute in sezione A della tab. II, che si equivalgono a quelle della tab. I. L’ abolizione della distinzione tra droghe “leggere” e “pesanti” attiva come conseguenza una discussione sulle conseguenze della percentuale del principio attivo delle c.d. droghe leggere. Significativo è l’esempio della cannabis. Il suo principio attivo, il tetraidrocannabinolo, negli anni ‘70/’80 risultava in una percentuale dal 0,5 al 1,5%; i valori attuali invece si aggirano attorno al 20-25% o anche di più. È quindi, evidente la necessità di mettere in dubbio la c.d. “leggerezza” della cannabis. Nell’ambito delle sanzioni inoltre, esiste la possibilità di applicazione, al posto delle sanzioni detentive e pecuniarie, della condanna al lavoro di pubblica utilità, andando oltre i limiti di pena previsti dalla legge che lo aveva a suo tempo introdotto nell’ordinamento (D.Lgs. 28 Agosto 2000 n°. 27). Si precisa però che non può concedersi più di due volte e che va revocato nell’ipotesi della violazione degli obblighi assunti. Le sanzioni amministrative vengono riservate in casi di uso esclusivamente individuale, senza possibilità di riserva e/o di accumulo. Si precisa però che per i casi dove si configuri una detenzione al disopra della quantità ammessa (per le sostanze di cui alla stessa tab. I) ovvero in assenza di prescrizione o al di fuori dei quantitativi prescritti (per le sostanze di cui alla nuova tab. II, sezione A) l’ uso è considerato pericoloso per la salute individuale e induttivo di possibilità di spaccio, e per questo viene applicata la sanzione penale. Lo stesso vale per il consumo di gruppo, ritenuto favorente la diffusione degli stupefacenti, come peraltro la coltivazione, non più ritenuta un reato amministrativo. La riforma non prevede l’inasprimento delle sanzioni per il tossicodipendente recidivo, bensì persegue immediatamente l’obiettivo di limitare il più possibile la pericolosità sociale di chi ha tenuto condotte allarmati per la collettività. Indicativo di questo è il divieto di guida dei veicoli a motore, ritenuto efficace sia come misura repressiva che come misura di tutela della collettività. Esiste però la possibilità di revocare i provvedimento limitativi se il programma terapeutico del tossicodipendente riscontra successo. Nello stesso spirito il divieto di disporre di custodia cautelare in carcere sostituito dagli arresti domiciliari, da scontare anche presso le strutture private. Coloro che abbiano terminato positivamente la parte terapeutica del programma possono evitare la detenzione in carcere per scontare il residuo anno di pena necessario ed essere ricondotti nei limiti dell’affidamento ordinario. Così si evitano discontinuità nel processo di recupero e reinserimento. Per la prevenzione del fenomeno di tossicodipendenza viene rinforzato il dispositivo già presente nel TU 309/90 volto al potenziamento degli inerventi di prevenzione primaria: l’educazione in particolare dei giovani e l’informazione della collettività, oltre al coinvolgimento di molto diversi enti (Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca – Ministero del Lavoro – Università – Uffici scolastici regionali – Comitato scientifico per il disagio giovanile –

Osservatorio – Direttore regionale), la riforma dei Centri di Informazione Consulenza, già presenti nelle scuole, con rafforzamento del loro ruolo. Molto importante è l’indicazione inserita nell’art. 122 (comma 1) inerente le metodologie di trattamento con medicinali non stupefacenti. Infatti la riforma suggerisce di cercare di evitare l’uso del metadone a dosi decrescenti, proponendo al paziente una strategia che conduca al distacco degli oppioidi, ritenendolo uno stupefacente. Nel comma 2 dello stesso articolo (122) si sottolinea comunque la necessità, caso per caso però, di utilizzare i medicinali oppioidi prescrivibili con schema “a scalare” (dosi decrescenti). Si lascia aperta la possibilità ai trattamenti con framaci sostitutivi, ma con limiti di attivazione dei programmi terapeutici e con limiti netti temporali che modificano ampiamente tutta l’attuale iniziativa e metodologia terapeutica dei Ser.T. Così si vorrebbe, nell’intenzione dei Proponenti il Disegno di Legge, evitare che lo stato di mantenimento possa configurare nei fatti una condizione permanente di tossicodipendenza da farmaci sostitutivi a struttura oppioide, come il metadone, eliminando ogni discussione sulla realtà di un fenomeno che è quello di uno stato di malattia (tossicodipendenza) a carattere cronico.

Considerazioni relative alle novità della alla attuale discussione parlamentare Dopo aver esaminato la situazione attuale della legislazione sugli stupefacenti e le differenze esistenti fra essa e la riforma in esame, sarebbe opportuno cercare di capire quali differenze determinerebbe tale riforma per il ruolo del medico nell’ambito della terapia tossicodipendenza. Non va mai dimenticato che è il medico la persona alla quale la Legge e la società, che considera la tossicodipendenza un danno ouna “malattia” sociale, chiede la “cura” di questa malattia. Nella sua lettura la proposta di legge lascia ancora intravedere, come nella giurisprudenza attuale, la persona tossicodipendente come una persona malata e non come criminale. Così, oltre le Forze dell’Ordine, anche il medico fa parte del processi di risoluzione di questo problema sociale. La riforma sottolinea l’importanza del recupero del tossicodipendente e non tanto della sua punizione. In altre parole è ritenuto molto importante il ruolo delle comunità di recupero, rappresentate da strutture sia pubbliche che private (purchè iscritte all’albo regionale). Questo, però, è un punto che merita un’ulteriore considerazione. Non è ovvio, in base all’esperienza acquisita in questi anni, che una struttura di recupero sia l’ambiente ideale per un tossicodipente, pur essendo evidente che si tratti di un ambiente più sicuro rispetto al carcere, e comunque predisposto con l’obiettivo di soddisfare le necessità e le particolarità presenti nel processo di recupero di una persona tossicodipendente e avendo in mente le particolarità che lo stesso tossicodipendente presenta come personalità. Rispetto alle disposizioni attuali (sospensione della pena nel caso il soggetto tossicodipendenti accetti un programma terapeutico presso una struttura accreditata) il progetto di legge introduce un criterio di obbligatorietà che elimina una pur debole possibilità di scelta e di autodetrminazione da parte del soggetto tossicodipendente, e pertanto a nostro avviso si configurerebbe la fattispecie di un trattamento sanitario obbligatorio (TSO), e questo creerebbe precise problematiche. Infatti l’articolo 32 della Costituzione dice chiaramente che i trattamenti sanitari sono di norma volontari, fattoa salva diversa e motivata disposizione. Pertanto in assenza di una chiara determinazione di introdurre il trattamento in comunità terapeutica fra le fattispecie di TSO permesse la proposta di legge introdurrebbe una disposizione in palese conflitto con il disposto costituzionale. Inoltre un TSO può avere, per legge, una durata non superiore ad una settimana, dopodichè è il paziente stesso a decidere se la terapia prosegue o meno. Quindi risultano ovvie le difficoltà emergenti nel processo voluto di evitare che il tossicodipente entra in carcere e favorire il suo recupero e reinserimento sociale. Contemporaneamente diventa più difficile e delicato il ruolo delle stesse strutture di recupero e del medico che fa parte di esse. Il ruolo delle strutture di recupero e del medico è quello di fare capire al tossicodipendente che ha bisogno di cure. Il medico deve aiutare il tossicodipendente di comprendere la situazione in cui si trova e che cosa questa situazione provoca a lui, alla sua vita ma anche all’ambiente che lo circonda. Solo così il paziente deciderà liberamente, come previsto dalla costituzione, di ricevere le cure necessarie. Naturalmente il medico per avere successo in questo suo tentativo, oltre alla preparazione scientifica, deve avere la volontà e la capacità comunicativa per convincere il tossicodipendente e metterlo davanti al suo problema. Un’altra considerazione importante riguarda le modalità di disassuefazione con medicinali non stupefacenti. Come detto prima, nell’articolo 122 la riforma propone delle modifiche che in sostanza non sono altro che indicazioni su come effettuare l’allontanamento del tossicodipendente delle sostanze stupefacenti. Questo comporta conseguenze chiaramente negative. Innanzitutto il medico viene privato della libertà di decidere il programma terapeutico, dovendo attenersi alle d’obbligo della legge e non a quelle del Codice deontologico: Il medico rischia infatti di venire indagato nel caso decida di seguire un proprio programma terapeutico indipendentemente dal disposto dell’art.122. Un’ultima considerazione va fatta a proposito dell’ambiguità fra i termini “mantenimento” e “stato cronico di malattia”. Nel progetto di legge si vorrebbe evitare che lo stato di mantenimento possa configurare nei fatti una condizione permanente di tossicodipendenza da farmaci sostitutivi a struttura oppioide, come il metadone, ma l’esperienza medica insegna due evidenze fondamentali.

La prima è che una guarigione non comporta una restitutio ad integrum, soprattutto nelle tossicodipendenze, dove il soggetto passa ad un piano di vita questa volta stabile e druf free, ma con un carico esperienziale, motivazionale e di impegno che lo collocano in una dimensione esistenziale del tutto nuova. La seconda è che nei casi di malattia più tenace, qualora non si riesca da parte del Curante ad ottenere una condizione di guarigione come illustrato sopra, è inevitabile che ci si debba attestare su una posizione di basso profilo, ma comunque con aspetti migliorativi rispetto alla condizione di malattia non affrontata terapeuticamente, profilo nel quale il mantenimento della terapia farmacologica gioca un ruolo essenziale, e non si può dire se il mantenimento si tradurrà o meno in un continuum che rappresenta in effetti uno stato cronico, ovvero una condizione di malattia probabilmnete insanabile da un punto di vista medico legale.

NARCOTRAFFICO Un terzo dei capitali prodotti dal commercio di stupefacenti viene trasformato in attività lecite d’impresa attraverso circuiti bancari (riciclaggio) senza tener conto degli scambi in natura fra gruppi criminali (es. eroina contro cocaina fra Cosa Nostra americana e italiana, un baratto che permette di regolare e calmierare il mercato e al tempo stesso di non lasciar traccia all’interno dei sistemi economici). E’ un’economia sommersa che come indica il nome stesso si articola in attività diverse e in stretto legame economico di interdipendenza, come una normale economia pulita. Ad esempio, basta considerare come le vie di traffico degli stupefacenti si inersechino o convivano utilmente con quelle del traffico di esseri umani, di acqua, di organi, di armi, così come il mercato della vendita al dettaglio delle droghe si lega alla prostituzione e alle attività della piccola criminalità, utile a creare un terreno fertile a nuove più importanti iniziative, a carico quindi di un territorio accuratamente scelto e tenuto lontano da ogni rischio di “rientro” nell’economia legale, di crescita civile. Come è stato giustamente detto, ciò che distingue infatti un sistema di mafia da uno legale è che nel primo si deve e si ottiene secondo la logica del favore, mentre nel secondo secondo quella del Diritto. Il Rapporto Mondiale sulla Droga 2000 dell'ONU, evidenzia il fatto che se da un lato la produzione di foglie di coca e di papavero di oppio è concentrata in determinate aree geografiche, il traffico delle sostanze stupefacenti negli ultimi anni ha d'altra parte dimostrato di abbracciare aree geografiche diversificate. Il fenomeno infatti ormai ha assunto proporzioni mondiali. Tuttavia, l'aumento dei sequestri di partite di droga (che ha coinvolto ben 170 paesi nel 1998, rispetto ai 120 coinvolti nel 1981), dimostra che i governi cominciano a dimostrare una seria volontà di reagire di fronte a questa piaga. Le statistiche comunque, dimostrano che di fatto le "rotte classiche" sono ancora valide. La cocaina coinvolge essenzialmente gli Stati Uniti, la Colombia, il Messico, la Spagna e Panama. Il percorso più comune per le resine da cannabis passa, invece, essenzialmente per la Spagna, il Regno Unito, il Pakistan, i Paesi Bassi ed il Marocco. La principale porta d'entrata in Europa resta la Spagna, a giudicare dall'ingente quantità di sequestri effettuati sul suo territorio negli anni 1998/1999, in particolare per cocaina e hashish. L'eroina invece, prodotto della lavorazione della morfina e dell'oppio, viene prodotta essenzialmente in Afghanistan. L’eroina, poi, seguendo la rotta dei Balcani, arriva fino all'Europa occidentale. Le droghe sintetiche, al contrario, sono fabbricate essenzialmente sul territorio europeo, in particolare nei Paesi Bassi, in Gran Bretagna ed in Spagna. Le inchieste giudiziarie sono ostacolate dall’insieme di leggi che disciplinano il segreto bancario. I paesi ove vige il segreto bancario, i cd “paradisi finanziari e centri off-shore", facilitano le organizzazioni criminali ad eludere le normative del proprio paese di origine. Ad oltre dieci anni dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico illecito degli stupefacenti e di sostanze

psicotrope del 1988 (che per la prima volta richiamò l’attenzione della comunità internazionale di fronte al problema dei prodotti del traffico criminale di droga), si deve constatare che la comunità internazionale non é ancora riuscita a scardinare il sistema creato da alcuni paesi sulla base di un’interpretazione pretestuosa del principio di sovranità nazionale. La forza delle mafie del mondo sta nell'aver compreso che, per ridurre al massimo le possibilità di essere scoperte, esse devono assicurarsi che i passaggi dei proventi di attività illecite, ricalchino il più possibile la struttura di normali transazioni commerciali. Infatti, più le attività illecite si mescoleranno a quelle lecite, meno sarà possibile risalire all’origine del capitale. Si assiste poi ad un'ulteriore strategia volta a reinvestire i proventi attraverso transazioni commerciali diversificate ad opera di piccole società apparentemente indipendenti l’una dall'altra. Nonostante i grossi sforzi che continuano ad essere fatti per cercare di migliorare la trasparenza nel settore finanziario, fino a quando non si riuscirà a scardinare il sistema dei paradisi fiscali e delle banche offshore, che offrono ogni genere di facilitazione per gli investitori stranieri, il crimine organizzato continuerà a prosperare sui proventi del narcotraffico. Solo attraverso l’isolamento internazionale e serie misure di repressione a livello mondiale piuttosto che iniziative prese da singoli paesi, si potranno ottenere dei risultati concreti. In Italia, già nel 1975 era stata varata la prima legge organica in materia di stupefacenti, la n.685. Tale legge, tuttavia, non si era dimostrata un valido strumento per la soluzione del fenomeno; pertanto, negli anni che seguirono alla sua approvazione, fu presentata una ventina di progetti di riforma che testimoniano il grande interesse delle diverse forze politiche per l’argomento. Nel 1990 fu, infine, approvato un disegno di legge governativo orientato verso un notevole rafforzamento delle attività di prevenzione, nuovi istituti per la lotta al narcotraffico e più articolati strumenti di recupero e reinserimento sociale. La legge 26 giugno 1990, n.162 si propone, infatti, di combattere la produzione e il commercio di droga e di incidere nell’area del consumo, scoraggiando il consumatore attraverso una serie di sanzioni e prevenendo l’uso di droghe con interventi in campo sociale, psicologico e medico. Nello stesso anno, le norme in vigore nella materia furono raccolte in un apposito Testo Unico in materia di disciplina degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza approvato con D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309. Il Testo Unico è stato modificato dopo il referendum del 1993, che ha abrogato le sanzioni penali a carico dei consumatori di stupefacenti, e più di recente dalla legge 18 febbraio 1999, n.45 che: ha attuato il decentramento alle Regioni di gran parte delle risorse finanziarie (75%) del Fondo Nazionale di Intervento per la Lotta alla Droga; ha istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per gli Affari Sociali un Osservatorio permanente sull’andamento del fenomeno della tossicodipendenza; ha riqualificato i servizi pubblici (Ser.t.) e del privato sociale e il relativo personale. Fra le misure contenute nel T.U. 309/90, volte a rendere più incisiva la lotta al narcotraffico, di particolare rilevanza sono: il coordinamento centrale delle indagini di polizia in ambito nazionale ed internazionale; le autorizzazioni relative all’acquisto simulato di droga ed alle consegne controllate; la possibilità di utilizzare per l’attività antidroga i beni e le somme di denaro sequestrate in tale contesto; il distacco in sedi estere di esperti e di ufficiali di collegamento antidroga. Il Ministero dell’Interno è impegnato nell’azione antidroga su un duplice fronte: la lotta al narcotraffico condotta dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza (Direzione Centrale per i Servizi Antidroga) e dalla Polizia di Stato, in collaborazione con le altre Forze di polizia; la prevenzione e il recupero dall’uso di sostanze stupefacenti attuata dai Prefetti. L’andamento del fenomeno droga nell’Unione Europea E’ disponibile sul sito dell’Osservatorio europeo sulla droga di Lisbona la relazione annuale sull’evoluzione nel 2001 del fenomeno della droga nell’ambito dell’Unione Europea. Un ruolo del tutto speciale viene svolto, anzi, fu svolto da Cosa Nostra italiana. Le origini si perdono nel profondo Medioevo, quando i Valvassori locali lasciavano in custodia a gruppi organizzati la cura dei terreni. Una cosa che infatti colpisce nel leggere la struttura della mafia è l’ombra, distorta ma tangibile, di un rituale, quello ereditato a somiglianza da quello della cavalleria in epoche lontane. La miscela apparentemente di scarso interesse o almeno solo per lo storico si rivela invece esplosiva: in assenza di una azione incisiva, anzi, di una presenza decisa e costante da parte dell’Autorità centrale, lo Stato, si consolida un rituale locale che imita in negativo gli aspetti di legge e di giustizia dello Stato. La giustizia locale, il suo discendere da un codice d’onore, sono i primi passi di Cosa Nostra alla fine del secolo scorso. Ma c’è un aspetto, sinora poco valutato, che la renderà potente e inafferrabile. E’ il rispetto alla regola del silenzio, anch’essa ereditata in modo distorto dai rituali di iniziazione, che genera il fenomeno dell’omertà, un fenomeno che mette in ginoccchio ogni attività investigativa che discenda e risponda ad un sistema di controllo democratico. La mafia entra in crisi la prima volta col fenomeno del pentitismo, che mina alle fondamenta questo baluardo impenetrabile, e così si motiva sia il feroce tentativo di repressione ai danni dei pentiti e dei loro familiari, sia l’ostinata lotta con tutti i mezzi, anche terroristici, contro l’articolo 141 bis ccp che prevede l’isolamento per i capi in detenzione, una misura che azzera la possibilità di operare e comandare al di là delle mura carcerarie. La mafia non sarebbe diventata quella che è senza la politica. Questo è un altro aspetto che chiarisce bene la natura della struttura di mafia, che non si contrappone, ma agisce di concerto se pure in arrovesciamento dei valori democratici e del Diritto, esattamente come nel 1200, a fianco ma un a fianco che si tramuta nel tempo nel rapporto ospite/parassita.

Se c’è la mafia, vuol dire che la mafia ha dove incistarsi, perché non agisce con l’intento di una identità politica contrapposta. In tal senso occorre leggere bene il fenomeno del separatismo, che ha anche il significato di distacco ma non quello di una autonomia completa: un distacco che permetta soprattutto di impedire allo Stato di esercitare le sue funzioni di controllo, piuttosto che un indipendentismo in senso strettamente politico economico. Possiamo ad esempio ricordare come la II guerra mondiale non abbia avuto termine alla pace di Yalta, ma sia continuata come noto con la politica della contrapposizione dei “blocchi” fra Est e Ovest. La mafia ha sicuramente giocato un ruolo nella contrapposizione delle strategie dei Servizi di Intelligence grazie al ruolo geografico, una posizione centrale nel Mediterraneo che costituiva un ponte naturale col nord Africa e soprattutto, negli anni ’70, con il medio oriente, soprattutto l’area turca e libanese. Eliminata fisicamente la concorrenza del cosidetto Clan di Marsiglia la mafia prende contati strettissimi (ancora oggi in piedi nonostante tanti cambiamenti) con la criminalità turca, aprendo anche raffinerie di acetilazione della morfina in eroina al centro della Sicilia. L’operazione espone troppo al controllo dello stato, così come il tentativo di coltivare la Eritroxilon coca, la pianta dalla quale si ricava la cocaina, sempre sul territorio siciliano. Le piantagioni fra l’altro non producono cocaina bensì un altro derivato tropanico, la tropococaina, responsabile di alcuni decessi del periodo, e comunque inefficace nella politica di vendita della cocaina. Smantellate dopo l’azione della Magistratura le raffinerie la mafia passa direttamente al controllo cosiddetto di secondo livello, intermedio fra Paesi produttori (Sud est asiatico, Turchia) e Paesi destinati alla vendita. La rivoluzione politica degli anni successivi vede il fondamentalismo islamico finanziarsi in proprio con le trattative sull’oppio attraverso il potenziamento delle coltivazioni afghane, prima limitatisssime, un commercio che prende piede grazie anche alla logica delle azioni politiche che di volta in volta affiancavano o contrastavano i movimenti locali militari in opposizione ai regimi istituzionali (guerra Iran-Iraq, indipendentismo ceceno, inasprimento dei rapporti fra India e Nepal); la “via della seta” l’antica via dell’Oxiana descritta da Byron diventa “il ponte del diavolo” del principale flusso di oppio verso l’Europa, addirittura attraverso l’intransigente Iran. La mafia pertanto si attesta a un ruolo più di agenzia di servizi che di gestore principale. Nel frattempo le vecchie famiglie siciliane erano state spazzate via dall’emergere della potenza livellatrice del gruppo di Corleone, capace di indirizzare e organizzare altre realtà criminali quali la nuova camorra napoletana, la n’drangheta, la sacra corona unita, dotandole di quella struttura organizzativa a piramide tronca che era stata il successo di Cosa Nostra, e rendendole quindi capaci di agire più in profondità nell’azione criminale. Attualmente l’attività mafiosa si è articolata con una diversa strategia, che vede in collegamento con il “parlamento” delle famiglie, la cosiddetta cupola, personaggi apparentemente ben inseriti nel sistema Stato, incensurati, che costituiscono come un meccanismo a cerniera fra gli interessi di mafia da un lato e la necessità di agire, ma riservatamente, con incisività economica dall’altro. Un cambiamento di rotta si rende infatti necessario considerando come il mercato chieda sempre più stimolanti e allucinogeni rispetto al passato; è l’attuale un momento dove è più forte l’edonismo e l’individualismo, rispetto agli anni dell’eroina in cui predominava la contrapposizione ideologica di gruppo. Metossianfetamine e derivati della triptamina sono i più richiesti, ma sono caratterizzati dal fatto di non dipendere da un paese produttore e da una linea criminale di raffinazione e distribuzione. Sono prodotti sintetici, di non difficile preparazione, creati e distribuiti dai più diversi gruppi criminali, anche di ridottissime dimensioni, un fenomeno quindi che ha attaccato direttamente il regime di monopolio di Cosa Nostra. La sua risposta è stata quella di inserirsi nei meccanismi economici dove il consumo di queste sostanze è più intenso, soprattutto nell’area dell’ex DDR e degli stati balcanici, intervenendo pesantemente nelle fragili economie dell’est e promuovendo e amplificando il fenomeno della prostituzione e della nuova schiavitù, ovvero dell’immigrazione clandestina.

I Servizi per le Tossicodipendenze (Ser.T.) L’evoluzione del sistema di Welfare State ha fatto maturare profondi cambiamenti nei ruoli degli attori coinvolti ridefinendo le competenze del Ministero e assegnando alle Regioni/Province autonome il ruolo di ente di programmazione. A queste ultime spetta ora il ruolo di definire gli obiettivi che orientano il funzionamento dei servizi, di autorizzare l'esistenza dei diversi soggetti che operano, di attivare forme di coordinamento e di controllo dell'intero sistema, in generale di definire l’insieme delle regole che sovrintende al funzionamento della rete. Ai cambiamenti nel sistema di

regolazione se ne sono aggiunti altri, primo fra tutti lo sviluppo dell’istituto dell’Accreditamento e l’adozione dei modelli dipartimentali per le dipendenze. Il Ser.T. (Servizio per le tossicodipendenze) è un centro che coordina gli interventi relativi all'intero percorso inerente i problemi legati alla tossicodipendenza che va dalla prevenzione fino al reinserimento del tossicodipendente nella società, passando per la cura e la riabilitazione dello stesso. Il Ser.T. è un servizio che, attraverso la predisposizione di progetti di intervento personalizzati che prevedono un'analisi della situazione del soggetto nella sua complessità e rete di relazioni (sociali, familiari, lavorative ecc...) si pone l'obiettivo principale di migliorare la qualità di vita dei pazienti. Prestazioni Generali - Accoglimento e orientamento della domanda di intervento - Diagnosi complessiva di tossicodipendenza ed alcoldipendenza - Certificazione di stato di tossicodipendenza - Interventi di psicodiagnosi trattamenti individuali e/o familiari di tipo medico, psicologico e socio-educativo - Impostazione ed erogazione dei principali trattamenti farmacologici di disuassefazione. Prestazioni ambulatoriali e domiciliari - Prevenzione, diagnosi e trattamento delle principali patologie associate e/o correlate alla tossicodipendenza ed all'alcoldipendenza - Inserimento di persone alcoldipendenti in gruppi di trattamento - Predisposizione di ricoveri per disintossicazione e per il trattamento delle patologie associate e correlate alla tossicodipendenza ed all'alcoldipendenza - Psicoterapia individuale e di gruppo - Osservazione ed accompagnamento educativo - Intervento sociale individuale e di rete - Interventi di consulenza e trattamento per le famiglie - Interventi per il reinserimento sociale e lavorativo - Inserimenti in Comunità Terapeutiche, residenziali e semiresidenziali Predisposizione ed attuazione di programmi terapeutici per soggetti tossicodipendenti inviati al Ser.T. su iniziativa dell'Autorità Giudiziaria ed Amministrativa - Interventi di informazione e prevenzione primaria, rivolti particolarmente ai giovani (scuole, territorio ed associazioni, ecc.) - Interventi di collaborazione e consulenza per altri Enti.

La parola chiave è la multidisciplinarietà, una strategia che integra l’intervento sull’individuo su diversi fronti: farmacologico, educativo, sociale e psicologico. Questi aspetti riflettono il lavoro che viene svolto nei Ser.T., i Servizi Tossicodipendenze, organi territoriali del Servizio Sanitario Nazionale che si occupano dei problemi legati alla tossicodipendenza. Per quanto l’organizzazione sia in fase di evoluzione, attualmente i Ser.T sono presenti su tutto il territorio; nelle grandi città è possibile trovarne uno per ciascun distretto in cui l’area urbana è stata suddivisa, e tutti fanno riferimento, per la direzione generale, alla ASL della città. La Legge permette anche al Medico di famiglia di poter attivare un percorso di riabilitazione e detossicazione con l’impiego dei farmaci sostitutivi consentiti ai sensi del TU 309/90 e successive modificazioni. All’interno di ogni Ser.T. si incontrano due tipi di figure professionali, mediche e sociali, che fanno capo a un primario. Gli operatori sanitari sono medici e infermieri, a loro è affidato il trattamento farmacologico della tossicodipendenza; le figure sociali sono educatori, assistenti sociali, psicologi che si occupano degli interventi psicosocioeducativi. Il lavoro degli operatori si integra in un programma che sarà differenziato in funzione delle caratteristiche del caso preso in carico. Il ruolo dei medici e degli infermieri interessa la somministrazione dei farmaci, soprattutto i sostitutivi, e la loro gestione. Sono presenti alla distribuzione e stabiliscono il dosaggio in base ai controlli settimanali delle urine. L’obiettivo dell’uso di farmaci affiancato al programma psicosocioeducativo è scalare le dosi, così da ridurre progressivamente l’azione fino a zero. Esistono anche progetti di prevenzione più ampi che coinvolgono scuole, studenti e insegnanti; inoltre ogni Ser.T. possiede un’unità mobile che si muove sul territorio secondo i piani regionali volti alla prevenzione. Nell’ultimo quadriennio il numero dei soggetti in trattamento per problemi di droga presso le strutture territoriali è in aumento; la percentuale di soggetti in trattamento presso le strutture del privato sociale accreditato sono in lieve diminuzione ; stabile la quota di soggetti sottoposti a trattamenti psicosociali/riabilitativi, in aumento la quota di chi

viene sottoposto a trattamenti farmaco- sostitutivi della durata maggiore di 6 mesi, in diminuzione la quota dei soggetti sottoposti ad altri trattamenti farmacologici. Il grafico sottostante ci indica come l’utenza afferente al Ser.T sia in lieve aumento.

Se storicamente abbiamo identificato il consumo problematico con l’eroinomane di vecchia data, oggi dobbiamo invece confrontarci con una realtà diversa e mutevole legata all’imperversare di sostanze diverse dall’eroina ma non meno importanti per danno alla salute e impatto sociale. Dal punto di vista sociale, infatti, la diffusione delle droghe è stata intimamente legata ai crescenti livelli di benessere (e quindi alla disponibilità economica verso di esse) nonché al disagio, soprattutto giovanile, che ne derivava. Oggi ci si trova invece in una fase in cui si sta passando dalle droghe della disperazione,del dolore, dell’emarginazione (oppiacei per dirla in parole povere) alle droghe del tempo libero, del divertimento e dello sballo (ecstasy). La situazione italiana non è dissimile a quella degli altri paesi dell’Unione Europea. Se facciamo riferimento ai decessi droga –correlati osserviamo come nel 2002 si sono avuti 516 decessi con una diminuzione del 37,4 % rispetto a quelli registrati nel 2001. La diminuzione però non coincide con una reale diminuzione del fenomeno ,ma lascia spazio ad altre considerazioni, come ad esempio il fatto che i decessi da eroina vengono gradualmente soppiantati dai decessi di assuntori di cocaina o ecstasy ;oppure spesso il decesso ha riguardato un soggetto non proprio tossicodipendente oppure ci sono state delle oggettive difficoltà nell’accertamento tossicologico dell’agente causale.La problematica è resa ancora più complessa dai fenomeni di poliabuso.Resta comunque preponderante la quota di decessi attribuibili ad oppiacei (eroina) : • •

32% dei casi facendo riferimento ai dati forniti dal Ministero dell’ Interno (516 ) casi 76% secondo gli accertamenti tossicologici, in base ai dati forniti dal GFT (348 casi esaminati ); sempre secondo il GTF (Gruppo Tossicologi forensi italiano della SIMLA) il 13,8 % dei decessi è attribuibile ad assunzione di cocaina.

Questi dati fanno ovviamente riferimento a quei decessi che sono legati con nesso di causalità diretta alla sostanza d’abuso, mentre non considerano le morti che sono indirettamente collegate, dovute a patologie di varia natura che la sostanza può provocare nel tempo. A ragione questo incremento del consumo di cocaina viene ritenuto un nuovo allarme sociale . La diffusione della cocaina è sempre maggiore sia perché erroneamente viene ritenuta meno pericolosa degli oppiacei, sia perché il suo consumo assume spesso connotati ritualistici, un nuovo fenomeno di costume che trova il suo setting ideale spesso in ambienti particolari come circoli privati o sportivi ,feste o particolari ambienti ricreativi. Molti abuser di cocaina misconoscono il rischio di decesso da overdose della sostanza, ma a preoccupare gli operatori sono anche le gravi implicazioni in termini di danno alla salute che il consumo ripetuto provoca : notevole incidenza di disturbi psico-organici che vanno dai disturbi della personalità a disforia, deliri acuti e psicosi, depressioni. Per quanto concerne la patologia infettiva correlata alla tossicodipendenza il dato indica una sostanziale stabilità del dato nazionale se ci riferiamo ad esempio alla positività HIV: 14.8% di soggetti positivi con un trend stabile rispetto al triennio 99/01. Il quadro diviene ancor più complesso se si considerano le nuove droghe o Designer Drugs o anche dette recreational drugs. Queste sostanze di sintesi vengono definite nuove per l’impatto sociale che hanno avuto in questi ultimi anni, in realtà sono composti che risalgono al secolo scorso, quindi vecchie farmacologicamente.

Possiedono una elevata potenza ma azione blanda; l’analisi della sostanza rivela come spesso quello che viene assunto come ecstasy sia una miscela di MDMA e analoghi (MDEA, MDBD, MDE, MDA ), ma anche di efedrina o ketamina (special K), talora anche di caffeina. E’ molto difficile poter conoscere con dati precisi quanti siano i reali consumatori di ecstasy perché in genere sono molto pochi coloro che si rivolgono ai servizi per le tossicodipendenze. Tuttavia le stime parlano di una prevalenza intorno al 5 % mentre un dato che sicuramente può far riflettere riguarda l’incremento dal 1997 ad oggi del 400% dei sequestri di ecstasy disposti dalle forze dell’ordine. Tra le manifestazioni cliniche meglio caratterizzate oltre al danno neurologico ha una notevole rilevanza la epatotossicità: il danno di tipo epatitico (l’MDMA è metabolizzata dal sistema enzimatico microsomiale ) può essere talmente grave da richiedere un trapianto in urgenza, può accompagnarsi a CID , insufficienza renale acuta (blocco ADH soprattutto nel sesso femminile), rabdomiolisi e ipertermia maligna. Allo stato attuale delle cose purtroppo non esiste ancora una sufficiente sensibilità clinica e diagnostica al problema ecstasy; molti casi non vengono riconosciuti e quindi ricondotti alla possibile assunzione della sostanza di conseguenza il dato relativo alle patologie correlate è sicuramente sottostimato. STRATEGIE D’INTERVENTO Esiste un piano quinquennale 2000/04 proposto dall’Unione Europea che invita i singoli stati membri ad adottare una politica comune in materia di droga con l’intento di arrivare ad una diminuzione della prevalenza del consumo, ma soprattutto di incidenza nelle fasce di popolazione più giovani. Tali strategie si possono riassumere in alcuni punti programmatici : • diminuire l’incidenza degli effetti negativi sulla salute legati al consumo nonché i decessi droga correlati • aumentare il numero dei pazienti sottoposti a trattamento con successo • diminuire la reperibilità di droghe sul mercato diminuire la criminalità legata alle droghe

TOSSICODIPENDENZA IN GRAVIDANZA

Gli effetti in gravidanza dell’uso di sostanze psicoattive con potenziale d’abuso sono stati indagati soprattutto su popolazioni di soggetti in trattamento presso strutture assistenziali. Fra le sostanze illegali, oggetto degli studi più approfonditi è stata indubbiamente l’eroina, in virtù della sua maggiore diffusione, soprattutto in passato; successivamente, infatti, l’attenzione dei ricercatori si è rivolta soprattutto alla cocaina, in relazione ai mutamenti epidemiologici che si sono verificati negli ultimi anni. I dati disponibili sull’epidemiologia dei fenomeni di abuso e dipendenza da sostanze psicoattive durante la gravidanza nella popolazione generale non sono invece altrettanto ampi, non solo per la inadeguatezza delle risorse economiche, ma anche per la mancanza di strumenti di rilevamento sufficientemente sensibili e specifici: le interviste cliniche sono poco attendibili a causa della reticenza e/o dell’imprecisione delle risposte ottenute, mentre i test di laboratorio non sono sempre tecnicamente realizzabili. Anche nell’ambito delle popolazioni cliniche (soggetti tossicodipendenti in trattamento) l’incidenza reale delle gravidanze può essere valutata solo per gestazioni sufficientemente avanzate, a meno di effettuare uno screening biochimico sistematico sull’utenza femminile dei servizi, indipendentemente dal fatto che le pazienti mostrino segni o sintomi riferibili all’inizio di una gravidanza. Infatti se da un lato la fertilità delle donne tossicodipendenti è usualmente ridotta a causa degli effetti neuroendocrini delle sostanze di abuso che alterano le funzioni riproduttive a livello dell’ipotalamo, propria la mancata regolarità del mestruo facilita il misconoscimento delle gravidanze iniziali e degli aborti precoci. Abitualmente inoltre la gravidanza non costituisce un evento programmato. Comunque, anche se tali approfondimenti conoscitivi venissero tentati, permarrebbe l’impossibilità di individuare quei soggetti che in corso di gravidanza abusano di sostanze psicoattive ma non sollevano una specifica richiesta di assistenza. Limitazioni metodologiche come quelle accennate sopra sono di riscontro comune nell’epidemiologia dell’abuso di sostanze, in particolare per quanto riguarda il problema del consumo “sommerso” da parte di soggetti socialmente integrati. Durante la gravidanza, però, diviene problematico per la salute del neonato anche un regime tossicologico che non altera la capacità della madre di condurre un’esistenza “normale” sul piano sociale, e quindi non tale da indurla a rivolgersi ai servizi sanitari deputati a questo problema o sollevare spontaneamente il problema al proprio ostretico curante.

Popolazioni cliniche. In Italia un 30% della popolazione tossicodipendente è costituita da donne (praticamente tutte in età fertile) e viene stimato che all’incirca 1 su 2 di esse sia andata incontro ad almeno una gravidanza nell’arco della vita. A completamento del quadro epidemiologico vale la pena accennare ai trends generali dell’uso di sostanze, che influenzeranno anche il problema futuro, nel senso probabilmente di un accresciuto bisogno di assistenza. Fra questi assumono maggiore rilievo l’espansione della politossicodipendenza, la tendenza all’invecchiamento (per “sedimentazione” o “normalizzazione”) dei pazienti in trattamento, l’uso problematico di sostanze legali (alcolici, tabacco, ansiolitici e ipnotici) ed illegali, in forma saltuaria (week-ender) o continuativa, anche da parte di soggetti socialmente integrati. Aspetti di tossicologia materno-fetale delle sostanze d’abuso. La maggior parte degli effetti farmacodinamici diretti delle più comuni sostanze psicotrope d’abuso sull’unità maternofetale sono dose-dipendenti e si verificano quindi per assunzione di quantità relativamente elevate. Occorre ricordare comunque che, da un punto di vista comportamentale, l’assunzione di tali dosi non è necessariamente limitata ai tossicodipendenti veri e propri, ma può riguardare anche soggetti dediti più o meno saltuariamente a comportamenti d’abuso. Complicazioni ostetriche Le più importanti complicazioni ostetriche che si verificano nella gestante tossicomane sono attribuibili all’effetto delle sostanze di abuso sull’utero gravido e/o sulla vascolarizzazione placentare. Fra le complicazioni acute, correlate soprattutto all’assunzione irregolare di dosi elevate, si registrano distacchi placentari, aborti, parti prematuri. Tali fenomeni, di natura ischemica, si presentano come effetto da assunzione nel caso della cocaina e come fenomeno da sospensione (sindrome astinenziale) per gli oppiacei. È probabile che in numerosi casi di tossicodipendenza hard le gravidanze eventualmente sopravvenute si interrompano precocemente per effetto di tali meccanismi. In caso di assunzione cronica, il meccanismo ischemico è invece responsabile di sofferenza fetale e dismaturità (feti piccoli per età gestionale, SGA - Small for Gestational Age), condizioni che espongono il neonato ad un accresciuto rischio di morbilità per numerose patologie ostetriche e neonatali. Neonati di basso peso si riscontrano comunemente nella progenie di donne che abusano di oppiacei, di cocaina, di marijuana, di tabacco. Alle complicazioni ostetriche dovute ad effetti dannosi sulle strutture utero-placentari occorre aggiungere la patologia medica prodotta dalle sostanze d’abuso in corso di gravidanza su organi-bersaglio dell’organismo materno, la cui disfunzione si riflette negativamente sul benessere fetale. È il caso, ad esempio, degli infarti miocardici dovuti all’azione vasocostrittrice della cocaina. Teratogenesi In merito all’effetto diretto delle sostanze psicoattive sullo sviluppo dell’organismo, si possono descrivere schematicamente due categorie di fenomeni: l’evidenza di alterazione morfogenetica (teratogenesi propriamente detta) da un lato, e gli effetti neurali e comportamentali in assenza di alterazione anatomica dimostrabile (teratogenesi neurocomportamentale) dall’altro. La comparsa dell’una o dell’altra manifestazione e la sua entità dipendono sia dal tipo di sostanza, sia dalla suscettibilità della specie e/o del particolare individuo, sia dalle modalità di assunzione (dose, via, etc.), sia dalla fase dello sviluppo embrio-fetale in cui l’esposizione si verifica. I meccanismi della teratogenesi anatomica sono ancora scarsamente sconosciuti; essi sarebbero collegati o con le interferenze che si verificano a carico della migrazione delle cellule embrionali o con turbe della vascolarizzazione degli abbozzi morfogenetici. Un danno diretto a carico del genoma è dubbio: le alterazioni cromosomiche non si associano ad alcun quadro specifico. Non sono disponibili studi sugli aborti precocissimi volti ad individuare eventuali malformazioni embrionali non compatibili con lo sviluppo. Una chiara teratogenesi morfologica è nota per l’alcol (sindrome fetale alcolica: difetto di accrescimento, microcefalia, di smorfie della faccia e degli arti, segni di irritabilità cerebrale con deficit di apprendimento), per la cocaina (malformazioni genito-urinarie ed esiti di alterazioni cerebrali sistemiche), per le anfetamine e l’LSD. L’incidenza di

malformazioni nei feti a termini non risulta invece significativamente aumentata nelle popolazioni cliniche di soggetti in trattamento metadonico. Secondo studi sperimentali, la modulazione oppiode è responsabile invece di specifici effetti sulla crescita cellulare (e quindi, secondariamente, organistica). Comunque, da un punto di vista clinico, il principale meccanismo patogenetico con cui gli oppiacei determinano sofferenza fetale e ritardato accrescimento è costituito, come già accennato, dall’ischemia utero-placentare che si determina in fase di astinenza materna (meccanismo indiretto). Secondo recenti segnalazioni epidemiologiche, l’uso di marijuana in gravidanza si assocerebbe ad un’aumentata incidenza di leucemie acute infantili di tipo non-linfoblastico (ANLL); non è tuttavia da escludere il ruolo di co-fattori di rischio, in particolare l’esposizione materna a pesticidi o la contaminazione delle colture di cannabis con tali fitofarmaci. Il meccanismo patogenetico implicato sarebbe di tipo mutageno. La teratogenesi neuro-comportamentale è costituita dalla persistenza post-natale di alterazioni a carico di funzioni neuro-psichiche essendo cessata l’esposizione alla sostanza psicoattiva. Questo tipo di teratogenesi può essere veduto come una particolare modalità di contro-adattamento (neuroadaptation) fissata nella “memoria biologica” dell’apparato neurale dell’individuo in via di sviluppo. Fenomeno assai selettivo, avrebbe luogo soltanto dopo la comparsa di specifiche strutture-bersaglio (dotate di recettore per la sostanza in questione) e prima che si sia verificata una maturazione completa del sistema neurale funzionalmente interessato. Evidenza di teratogenesi neuorocomportamentale è stata dimostrata in modelli animali per l’esposizione a numerose sostanze, fra cui benzodiazepine, cocaina, oppiacei, altre sostanze psico-stimolanti e psico-dislettiche. Ad esempio, le benzodiazepine sarebbero responsabili di un’alterata risposta allo stress e la cocaina di disturbi dell’apprendimento nei roditori, mentre gli oppiacei sarebbero implicati nei comportamenti di attaccamento parentale nei primati. Il fenomeno della teratogenesi neuro-comportamentale risulta tuttora di difficile verifica nella progenie umana a causa degli ostacoli metodologici che si incontrano nella discriminazione a posteriori (per es. in età scolare) degli effetti del tossico da quelli di altre noxae prenatali (le quali concomitano nella quasi totalità dei casi). Peraltro le alterazioni più fini possono essere indagate solo dopo alcuni anni dalla nascita, perché è necessario che le eventuali funzioni-bersaglio vengano espresse nella vita di relazione per poter riconoscere l’eventuale effetto teratogenico. Il problema metodologico della discriminazione fra effetti sostanza-specifici ed effetti di noxae concomitanti può essere parzialmente risolto, almeno per quanto riguarda gli effetti post-natali, mediante protocolli di studi sugli adottivi. Per quanto riguarda l’esposizione in utero è necessario affidarsi a tecniche statistiche di regressione applicate a studi di tipo caso-controllo. Si ritiene comunque cha la maggioranza dei problemi rilevati a livello di performance scolastiche nelle corti di figli delle donne che hanno ricevuto un trattamento per la tossicodipendenza durante la gestazione dipenda da fattori postnatali di tipo ambientale più che da noxae biologiche.

Problemi neonatali Si possono distinguere effetti da impregnazione e da sospensione. Le sostanze che deprimono il SNC (come gli oppiacei, le benzodiazepine, i barbiturici) sono responsabili di difficoltà respiratorie al momento della nascita per meccanismi di accumulo, dalle quali possono conseguire danni neurologici molto gravi su base anossica. Al contrario, la sindrome astinenziale del neonato si presenta come una sindrome di ipereccitabilità generalizzata dei sistemi neurali vegetativi e di relazione che dipende dalla brusca interruzione nell’assunzione di droga, introdotta nell’organismo fetale sino al momento della nascita attraverso gli scambi umorali con l’organismo materno. Essa è analoga sul piano patogenetico alla sindrome da astinenza dell’adulto, ma se ne differenzia sul piano sintomatologico in funzionedello stadio maturativi del sistema nervoso. La sindrome viene trattata mediante somministrazione a scalare di agonisti della sostanza d’abuso (p. es. metadone o morfina nel caso degli oppiacei). Se il dosaggio assunto dalla madre nelle ultime fasi della gestazionenon era particolarmente elevato e la terapia neonatale viene eseguita correttamente in ambiente specialistico ospedaliero, la sindrome non lascia reliquati specifici; altrimenti può diventare uno dei fattori responsabili dell’impairment biopsichico che si riscontra nella progenie delle donne tossicodipendenti. Conseguenze dello stile di vita della gestante tossicodipendente. Problema specifico della sindrome di dipendenza da sostanze – sindrome comportamentale di natura psico-biologica complessa – è l’incapacità a controllare l’uso della sostanza psicoattiva nonostante le conseguenze avverse che si verificano a carico dell’assuntore. È proprio l’insieme dei comportamenti materni (maggiormente condizionati al rapporto con la droga che alla fase riproduttiva della donna) ad esporre il prodotto del concepimento ad un insieme di rischi biologici che, nel complesso, possono rivestire un’importanza paragonabile a quella del rischio tossicologico in senso stretto, o addirittura superiore. Da un punto di vista medico, quindi, la gestazione della donna tossicodipendente viene considerata una gravidanza “a rischio” nel suo complesso. Malattie infettive Sono di natura infettiva le più importanti patologie correlate allo stile di vita tossicomanico. Un primo gruppo è costituito dalle patologie infettive trasmissibili al feto durante la gestazione e/o al neonato nel momento del parto. Fra queste occorre ricordare le epatiti (soprattutto HBV) e l’infezione da CMV, in relazione all’uso di siringhe; le malattie sessualmente trasmesse, legate alla promiscuità dei costumi e/o ad un basso livello di cultura igienico-sanitaria, tra cui annoveriamo lue, gonorrea, infezioni da Clamydiae ed Herpes genitalis (HSV-2). L’infezione da HIV, trasmessa orizzontalmente attraverso lo scambio di siringhe e con i rapporti sessuali, ha una probabilità di trasmissione verticale dell’ordine del 50%; il virus può infettare il feto in utero, contaminare il neonato durante il parto od essere trasmesso con l’allattamento. Questo gruppo di infezioni determina malattia nel feto, con effetti anche molto gravi, che giungono alle malformazione ed alla morte in utero. Il secondo gruppo di patologie infettive è prodotto dagli agenti che determinano uno scadimento delle condizioni materne (d’organo e di organismo) con ripercussioni dirette o indirette sul benessere fetale. Sono da ricordare in proposito la sepsi da germi banali o da miceti (soprattutto le endocarditi), anch’esse legate alle pratiche iniettive senza precauzione igienica, e la TBC, divenuta oggi frequente nei soggetti con immunodeficienza. Queste infezioni materne possono condurre a danni fetali di gravità variabile, sino alla morte in utero. Fra le patologie non infettive, ancora su base eminentemente comportamentale, ricordiamo gli stati di cattiva nutrizione dovuti all’alimentazione incongrua, nonché le conseguenze della scarsa cura della persona in genere. Ancora una volta tali condizioni si verificano sia attraverso meccanismi comportamentali indiretti (stile di vita) sia, in alcuni casi, per gli effetti di encefalici diretti delle sostanze psicoattive sulla regolazione del senso della fame, sulla termoregolazione, etc.

Problemi assistenziali e linee di intervento Le donne tossicodipendenti soffrono di una notevole alterazione dei vissuti della gravidanza, sotto la spinta di potenti meccanismi di negazione e/o di idealizzazione (meccanismi psicologici cui lo stesso rapporto con le sostanze

d’abuso è soggetto): da ciò derivano spesso atteggiamenti noncuranti di perseverazione o, all’opposto, fantasie eroiche di cambiamento radicale circa la propria condizione tossicomania; a volte la scoperta della gravidanza si associa addirittura ad una incrementata assunzione di sostanze psicotrope, probabilmente in relazione alle angosce provocate dall’evento. La richiesta di intervento assistenziale da parte delle gestanti tossicodipendenti risente negativamente di tali dinamiche psicologiche: essa è sovente tardiva e, quindi, responsabile di un ulteriore e cospicuo aumento di rischio per la salute del neonato. Ciò implica l’utilità di effettuare una diagnosi precoce di gravidanza in questo gruppo femminile. La gestione tossicologica della gravidanza è stata messa a punto secondo protocolli terapeutici che prevedono generalmente la sostituzione della droga di strada con la somministrazione regolare di metadone. Il mantenimento metadonico viene effettuato alla più bassa dose compatibile con la prevenzione delle recidive, che viene ricercata mediante scalaggio lento (riduzione di 1 mg ogni 1-2 giorni). Da un punto di vista ostetrico lo scalaggio viene effettuato di preferenza fra la 14ª e la 32ª settimana di gestazione, compatibilmente con le condizioni psicosociali della donna. La completa disintossicazione della madre è ragionevolmente attuabile quando si disponga di un supporto ambientale adeguato, in assenza del quale è preferibile aderire al mantenimento metadonico. Tale approccio consente di evitare lo stress fetale dovuto all’assunzione intermittente di droga in caso di recidiva e consente un contatto continuo della gestante con i servizi sanitari durante l’arco della gravidanza, sviluppando una maggiore disponibilità ad eseguire i controlli di routine. Se la dose di metadone assunta la momento del parto non supera i 20 mg/die non si verificano di regola complicazioni ostetriche e neonatali (atonia uterina, depressione respiratoria del neonato, astinenza neonatale, etc.) o comunque la loro gravità risulta limitata, buona essendo la trattabilità. L’intervento di assistenza alla gravidanza in corso di tossicodipendenza si confronta con uno spettro di bisogni e di problemi assai vasto, che richiedono competenze multidisciplinari. Schematicamente si possono elencare le seguenti aree: a)

somatica: include l’ampia serie dei problemi medici, ostetrici e infettivologici; psicologica: la psico(pato)logia della maternità si interseca con la psicopatologia dell’addiction e con la presenza di eventuali disturbi mentali concomitanti (co-morbilità psichiatrica); c) relazionale: frequenti i casi di nucleo familiare acquisito disgregato o assente, nonché di partner tossicodipendente; anche il supporto della famiglia di origine, operativamente ed emotivamente significativo per le gestanti, risulta spesso carente; d) socio-economica: basso livello culturale, difficoltà occupazionali e ricorso alla prostituzione costituiscono problemi non eccezionali; e) legale: oltre alle eventuali pendenze giudiziarie della madre connesse ad attività illegali, può accadere che il destino del nascituro venga rimesso al Tribunale dei Minori per inadempienza, incapacità, vizio di mente, della madre come di entrambi i genitori. Da quanto illustrato sinora è evidente che il più importante fattore di rischio riproduttivo nella donna tossicomane è di natura comportamentale in senso lato, e dipende tanto dall’assunzione sregolata di droga quanto dall’esposizione incontrollata ad altre noxae biologiche. Per una soddisfacente gestione della gravidanza è quindi necessario attivare un ampio ventaglio di supporti socio-sanitari (per rispondere ai multiformi problemi emergenti e per imbrigliare la distruttività del comportamento tossicomanico e, nei limiti del possibile, per modificarlo), ma soprattutto è necessario incentivare l’uso dei supporti assistenziali stessi da parte delle pazienti sviluppando una compliance ai trattamenti. Si è dimostrato infatti che, almeno nel caso della dipendenza da oppiacei, un buon livello di prenatal care annulla quasi completamente le differenze di morbilità fra i gruppi di gestanti tossicodipendenti trattate con metadone e la popolazione generale, differenze che sono invece assai significative fra i gruppi non trattati e i controlli.

b)

Molti fra i problemi accennati non investono soltanto il benessere attuale della gestante e del feto, ma debbono essere affrontati durante la gravidanza secondo un’ottica preventiva in relazione alla futura qualità della vita della coppia madre-bambino. Per quanto riguarda l’intervento assistenziale a favore della gestante, gli obiettivi principali sono i seguenti: 1. -

protezione biologica del feto; sviluppo delle capacità materne; interventi sulle patologie concomitanti; supporto sociale.

La protezione biologica del feto in assenza di patologie concomitanti richiede: interventi tossicologici specifici (sospensione o sostituzione farmacologica e prevenzione della recidiva drogastica); - provvedimenti generali (routine ostetrica, profilassi nfettivologica, igiene dell’alimentazione, etc.). Il conseguimento di questo obiettivo richiede, a livello di rapporto medico-paziente, interventi di tipo psicoeducativo e comportamentale, nonché un’opera di contenimento psicologico globale: si tratta di una metodologia riconducibile agli approcci di psichiatria di consultazione e raccordo. Si rendono inoltre necessari interventi

istituzionali, modulati a seconda delle necessità emergenti: ambulatori polispecialistici, ricovero ospedaliero, ospitalità in strutture intermedie. 2.

Lo sviluppo delle capacità materne non deve essere necessariamente conseguito entro i tempi biologici dello sviluppo intrauterino, ma necessita comunque di un’attenzione specifica sin dalle prime fasi della gravidanza al fine di garantire la qualità della vita del bambino. La competenza materna si articola in due versanti, entrambi carenti nella donna tossicodipendente: - la competenza psicologica (secondo una nozione di “madre sufficientemente buona”).; - le capacità concrete nelle cure parentali. La promozione di una competenza psicologica richiede un counseling psicoterapico, spesso del tutto informale, che può essere fornito da operatori diversificati. Lo sviluppo delle capacità operative carenti necessita di sviluppi informativi o propriamente pedagogici, come i corsi puericultura. 3. Gli interventi sulle patologie concomitanti sono di natura medica, infettivologica, ostetrica e psichiatrica: essi richiedono competenze specialistiche multidisciplinari che possono essere erogate in regime ambulatoriale o di degenza. È indispensabile, ad evitare indesiderabili abbandoni dei trattamenti od agiti tossicomanici da parte della gestante, che l’intervento sanitario eviti qualunque “schizofrenia istituzionale” fra specialisti, che rappresenta per questa fragile tipologia di pazienti un’ulteriore “lacuna di significazione” all’interno del vissuto gravidico, già di per sé molto turbato. 4. Gli interventi di tipo socio-assistenziale, indicati come ultimo obiettivo, costituiscono un complemento indispensabile degli interventi di natura prettamente sanitaria. Essi si embricato continuamente con l’erogazione dei trattamenti terapeutici e debbono svilupparsi secondo una logica di economia gestionale. In tale logica, ad esempio, il ruolo del ricovero ospedaliero della gestante farmacodipendenze merita una riflessione specifica. Indispensabile in alcune fasi delicate della gestione medico-ospedaliera e tossicologica (come nell’imminenza del parto, in presenza di complicazioni e e quando siano richieste riduzioni della dipendenza farmacologica in quantità considerevole), esso può rendersi necessario inoltre per esigenze psichiatriche in senso lato, in rapporto alla prevenzione secondaria dell’uso di sostanze o alla presenza di disturbi mentali concomitanti. Occorre ricordare però che esso, per quanto apparentemente risolutivo di ogni problema (poiché garantisce una “gestione totale” della paziente) costituisce un pericoloso boomerang sul piano psicologico. Infatti la separazione dalla difficoltà esterne, in luogo della promozione di una capacità a confrontarsi con esse, collude con i meccanismi idealizzanti della donna tossicomane, ostacolando il cammino maturativo della maternità e lo stesso reality testing: in tal modo i problemi irrisolti torneranno a riproporsi per la coppia madre-bambino dopo il termine biologico della gravidanza, probabilmente accresciuti.

CLINICA DELLE TOSSICODIPENDENZE E’ come avventurarsi nell’immenso oceano con una piccola e resistente imbarcazione, con pochi strumenti a bordo. L’equipaggio ha in testa molte conoscenze in campi diversi: medico scientifico, psicologico, sociale, legale; lavora insieme, troppo spesso accompagnato da una folla di competenti nel campo, che dalla terra ferma urla cosa si dovrebbe fare e come. Il viaggio lo possiamo immaginare pieno d’imprevisti, di spaventi, di strade diverse, con l’unica certezza che sarà lungo e difficile. L’obiettivo è viaggiare, riconoscere le persone, accompagnarle, curarle, imparare ad ascoltare, disporsi a modificare la rotta senza sentirsi troppo inadeguati, pronti a rottamare i pregiudizi e le certezze. In Italia, il fenomeno interessa circa 300.000 persone. E’ una scelta “normale” e possibile nell’esperienza della vita, può essere attuata per curiosità, ricerca del piacere, di nuove esperienze e sensazioni, può contenere aspettative e ricerca di approvazione, di anticonformismo e di trasgressione. Con l’intensificazione dell’uso, il consumatore, cerca di mantenere e reiterare gli effetti della sostanza che si presentano in modo prevedibile, stabile e che immagina siano duraturi.

Tenta così di controllare gli stati affettivi, di migliorare l’efficacia personale, l’autostima; il miglioramento delle relazioni interpersonali. L’uso abituale, costringe la persona all’evitamento della sofferenza, con l’automedicazione attraverso la sostanza, sperimenta una certa autoregolamentazione emotiva e raggiunge livelli di adattamento sostitutivo per fronteggiare situazioni altrimenti non controllabili; acquisisce infine una identità che può diventare la prevalente o esclusiva forma di funzionamento individuale in relazione agli effetti della sostanza, alla vulnerabilità individuale e del contesto ambientale.

Con queste premesse, affrontiamo l’osservazione clinica di una persona tossicodipendente, che introduce stabilmente nella propria vita, nelle abitudini, sostanze tossiche stupefacenti ( eroina, alcol, cocaina, anfetamine e allucinogeni), perché è condizionato psicologicamente e fisicamente fino al punto di non poter svolgere senza, le normali attività quotidiane. Gli effetti fisici degli oppiacei sono principalmente mediati dai recettori degli oppioidi che si trovano in numerose aree cerebrali; questi mediano l’azione analgesica, la depressione respiratoria, l’inibizione alla tosse, l’ipotensione,la secrezione gastrica, il vomito, la miosi, la stipsi, la catalessia, l’acinesia, provocano sedazione e disforia. La DROGA (eroina), è una sostanza capace di provocare intensi effetti psichici modificando lo stato di coscienza, della percezione e dell’umore, condizionando la memoria e il controllo sulla realtà. Gli studi più recenti hanno documentato che le proprietà gratificanti degli oppiacei sono mediate dall’attivazione del sistema Dopaminergico-mesolimbico proiettate alla corteccia prefrontale, che inducendo un massiccio rilascio di dopamina a livello del sistema limbico potrebbero funzionare come stimoli discriminativi, facilitando l’apprendimento degli eventi associati all’attivazione di questo circuito neuronale, favoriscono la ripetizione legata alla sensazione di piacere. L’assuefazione e il meccanismo biologico della tolleranza, rendono necessaria l’assunzione in dosi maggiori, per evitare i sintomi d’astinenza che compaiono sempre alla sospensione della sostanza. La sindrome d’astinenza, è dovuta ad una iperattivazione dei sistemi cerebrali non più controllati in senso inibitorio dagli oppiacei; l’intensità dei sintomi, dipende dalla frequenza di somministrazione e dalla dose di eroina assunta. Se immaginiamo un ipotetico consumatore abituale, possiamo osservare un comportamento caratterizzato da depressione, ansia, aggressività e passività, paura di fallire, limitate capacità di attuare strategie comportamentali per reagire allo stress e alle frustrazioni, necessità di immediate gratificazioni. Ormai è chiaro che fattori somatici come l’alterazione dei sistemi neurotrasmettitori e l’inibizione della normale produzione delle encefaline, associati a fattori emotivi come depressione, ansia, rabbia e vuoto, intensificano il desiderio di assumere la sostanza psicoattiva nonostante la consapevolezza dei danni fisici e relazionali che l’uso comporta.Assistiamo ad una vera perdita di controllo scatenata da fattori esterni come la disponibilità della sostanza, o da immagini mentali e stimoli visivi olfattivi o pensieri e ricordi di situazioni che riguardano la droga. E’ molto interessante a questo punto, capire se il meccanismo biologico neurotrasmettitoriale è di per sé sufficiente a condannare l’assuntore ad un destino da tossicomane, nella realtà noi osserviamo una discrepanza tra l’elevato numero di consumatori e quelli che tra loro dipenderanno dall’eroina presi in un meccanismo coattivo. Come può accadere che alcuni governano l’assunzione degli stupefacenti e s’identificano come consumatori e altri diventano tossicomani? Abbiamo imparato a non chiedere ai nostri pazienti PERCHÉ hanno iniziato; la risposta è sempre disarmante: “ Subito l’eroina mantiene la promessa di soddisfare il bisogno di piacere, allontana da me il dolore del corpo e della mente, non devo chiedere e non aspetto le risposte come devo fare nei rapporti con le persone”, cercherò di spiegare più avanti perché è una domanda sbagliata. Il nostro problema adesso è come ripariamo il danno di questa illusione. Osservando il tossicodipendente, possiamo fare l’ipotesi che esiste una vulnerabilità psicologica e fisica che trasforma l’incontro con la sostanza nell’unica risposta alla ricerca della soddisfazione, disattivando gradualmente le normali capacità di ottenere piacere. Sappiamo che l’azione delle sostanze ( l’eroina per esempio) si concentra sul SISTEMA DI GRATIFICAZIONE, deputato alla soddisfazione di bisogni vitali fondamentali; attraverso l’attivazione del SISTEMA LIMBICO e dei suoi neurotrasmettitori ( A, NA, DOPA, 5HT) il laboratorio delle emozioni L’eroina è un derivato semisintetico della morfina, è altamente liposolubile e questo le consente un passaggio rapido e massiccio a livello del sistema nervoso centrale, viene assunta per via endovenosa e produce immediatamente un intenso piacere, euforia e analgesia: il FLASH , un’esperienza intensa e indimenticabile. Nelle strutture anatomiche del Sist. Limbico, (Area del setto, Amigdala, Ippocampo) avviene la complessa integrazione emotivo istintivo comportamentale da cui deriveranno le emozioni, gli affetti, la memoria: quello che in sintonia con se stessi ci permette di comunicare il VISSUTO di un’esperienza. L’aspetto speculare agli avvenimenti sul piano neuro-fisiologico, è quello degli avvenimenti sul piano psichico; anche qui partiamo dalla gratificazione dei bisogni come motore principale per lo sviluppo del pensiero e dei comportamenti. Analizziamo ora uno degli aspetti fondamentali dello sviluppo psichico della persona : IL PROCESSO DI ATTACCAMENTO Nel bambino, fin dai primi momenti di vita, è evidente l’importanza del legame con la figura d’attaccamento ( di solito la madre ) che è in grado di soddisfare le necessità biologiche ed emotive, è un legame necessario alla sua sopravvivenza fisica e alla formazione e sviluppo delle funzioni psichiche. La modalità con cui si stabilisce questa relazione, dipende dalle caratteristiche di personalità della figura di attaccamento e dalle reazioni del bambino ai suoi comportamenti, definendo lo stile di attaccamento. Esiste per tutti la necessità di un attaccamento sicuro, idealmente dovrebbe essere caratterizzato da: Facile accessibilità e capacità di rispondere adeguatamente (cioè efficacemente) a tutti i bisogni espressi.

Le reazioni alla mancanza della figura di attaccamento o alla sua privazione sono fondamentalmente tre. 1) PROTESTA 2) DISPERAZIONE 3) DISTACCO Per fare un esempio: Possiamo osservare queste reazioni al ritorno della madre o chi per essa: il bambino potrebbe aggredire la madre, nel disperato, quanto inadeguato tentativo di comunicare il suo dispiacere e questo potrebbe mettere la madre in difficoltà perché la sua aspettativa è di essere confermata nel suo valore dalla felicità del figlio per averla ritrovata. Queste risposte potranno se non elaborate, essere causa di disturbi del carattere. Anche le caratteristiche della figura di attaccamento giocano un ruolo decisivo nella relazione, possiamo avere prevalentemente comportamenti carichi d’ansia, di ambivalenza, di ostilità di inadeguatezza. Per esempio una madre amorevole ma eccessivamente ansiosa, produrrà sentimenti di grande incertezza nel bimbo, questo potrebbe generare un comportamento che tende a rassicurare la madre a prezzo di non manifestare i suoi bisogni se questi producono ansia. La dinamica di questa relazione determina una varietà di reazioni che caratterizzeranno le difficoltà future dell’individuo, sia nelle relazioni affettive che nelle modalità di ricerca della soddisfazione. Il bambino, dovrà sviluppare delle strategie per non perdere la figura centrale a cui è legata la sua sicurezza emotiva e fisica. Queste strategie, costruiranno una parte fondamentale del suo carattere. Il processo d’attaccamento è indispensabile per costruire la fiducia di base; nel ciclo sano, il processo d’attaccamento creerà un legame dal quale ci si potrà separare, fiduciosi nella possibilità di nuovi legami, quando l’attaccamento è poco nutriente, il legame non va incontro alla separazione ma alla ROTTURA, con conseguenti sentimenti di paura e rabbia e possibili disturbi depressivi o compulsivi. Nella persona adulta si delinea lo stile di attaccamento con le sue strategie per evitare la perdita e in relazione all’uso di sostanze stupefacenti questo stile giocherà un ruolo decisivo. Nell’incontro con la sostanza, si concentrano una serie d’eventi straordinari che avranno potenti ripercussioni sia a livello fisico che psicologico. Il Flash evocato dall’eroina, provoca l’amplificazione e la distorsione delle sensazioni e delle emozioni, sembra di poter padroneggiare un’esperienza meravigliosa; nello stesso tempo si anestetizza il dolore per una perdita paradossale, l’oggetto d’amore di cui si teme l’abbandono non è mai stato realmente presente e soddisfacente ecco perché cresce l’angoscia che segnala il pericolo di tale perdita, l’oggetto d’amore non è assente o mancante non è perduto, non è mai stato. Fuggire questo dolore inciso nella memoria è alla base della compulsione e della ripetizione. Nel tossicomane, a causa dell’effetto della droga sul SNC, viene stravolto il normale decorso della curva del piacere, dove raggiunto l’acme segue una pacificazione della tensione, che è la condizione dell’efficacia della scarica. La meta della pulsione sarà cercata dal tossicomane, non nella scarica, ma fatalmente attraverso un pericoloso quanto impossibile salto nell’aumento dell’intensità, e la cercherà, la troverà solo usando la sostanza che altera il normale procedimento del piacere. Piuttosto che l’investimento di un oggetto d’amore, (che ha subito travagliati destini nel processo di attaccamento), si realizzerà l’investimento di un agire. La realizzazione di un godimento è la ricerca di un limite da raggiungere, ma se questo crolla per l’azione dell’eroina che salta i passaggi di un aumento graduale di tensione, e se anche l’oggetto esterno non c’è, il limite è già crollato, e il piacere diventa sempre più un miraggio lontano. Queste riflessioni non hanno la pretesa d’essere esaustive di un problema così complicato, ma offrono la possibilità di ragionare anche sulle possibilità di riparazione dei danni da eroina sia a livello psichico che fisico, credo sia chiaro come queste due polarità della persona, qui più che in altre discipline mediche devono essere approfondite, messe in relazione costantemente se cerchiamo una strada per la cura. Un altro importante passaggio, attraverso l’esperienza, è valutare la terapia come un tandem tra strumenti farmacologici che bloccano i danni cerebrali della sostanza sulla cellula, e strumenti di comprensione psicologica dei comportamenti, uno sforzo per andare nella direzione della composizione piuttosto che della separazione. L’uso d’eroina rimpiazza la realtà ordinaria, la sostituisce rendendola irrilevante e ridicola; ecco perché nella così detta fase dell’innamoramento della sostanza, qualsiasi tentativo critico è del tutto inefficace, e il medico dovrà reggere, come nella storia del tossicomane nessun adulto ha fatto, il peso dell’ingratitudine che distingue questi pazienti da tutti gli altri. Tutto questo avrà uno sviluppo possibile verso una vera collaborazione alla terapia se si saprà offrire una relazione terapeutica affidabile, solo la fiducia nella costruzione di un rapporto, potrà guadagnare terreno sull’illusione d’autarchia del tossicomane. LA CURA: Come l’eroina non fa un tossicomane, così il metadone non è l’unica cura. Il metadone non è più uno sconosciuto temibile farmaco stupefacente, ma un alleato insostituibile per la cura della dipendenza e del craving da eroina. Chiarito l’equivoco e la presunta dicotomia tra malattia fisica e disagio psichico, non ci resta che fronteggiare il compito assumendolo nella sua complessità.

Assistiamo nella pratica clinica ad un enorme cambiamento di prospettiva, se qualche anno fa, l’obiettivo “ disintossicazione” era la norma, e il metadone aveva principalmente questo compito da svolgere in un tempo medio di sei mesi, poi si avviava il paziente allo scalaggio del farmaco, oggi, che conosciamo la valenza terapeutica del metadone come farmaco anti-craving, il mantenimento della terapia diventa il nuovo obiettivo, e la cura si protrae nel lungo periodo senza poter determinare la scadenza. Naturalmente altri problemi si affacciano accanto ai vantaggi, gli svantaggi di un legame con il farmaco e con il Servizio che lo eroga a cui si aggiunge per gli operatori una nuova sfida: proporre iniziative educative, motivazionali, psicologiche per rendere adeguato l’accompagnamento del paziente verso la sua autonomia possibile, la massima indipendenza possibile accettando la sua complessa situazione psico-fisica e l’eventuale “guarigione difettuale”cioè il ripristino di una condizione differente di equilibrio, irreversibilmente diversa dalla situazione precedente la tossicodipendenza. Non abbiamo ancora un metodo per affrontare il lungo periodo, sappiamo certamente che in questa nuova prospettiva, non possiamo ripetere le proposte fatte al nostro paziente al suo arrivo al Ser.T. Il farmaco senza nessuna pretesa di essere unica soluzione, deve assolvere il compito come uno degli elementi organizzatori di significato per i processi di cambiamento. Riguardo ai vantaggi del trattamento farmacologico nel lungo periodo, abbiamo già raccolto e dimostrato con evidenze cliniche e con il miglioramento delle condizioni di vita come: la riduzione delle morti per overdose, il calo di nuovi casi di AIDS tra i tossicomani in trattamento, le maggiori possibilità per il reinserimento sociale, controllo e monitoraggio della salute, calo della pericolosità sociale per la diminuzione del ricorso all’eroina, non ultima la maggiore disponibilità all’elaborazione di strategie personali per il cambiamento. Gli svantaggi, o meglio le attuali difficoltà, sono altrettanto importanti e riguardano sia i cambiamenti strategici del Servizio per l’obiettivo dell’indipendenza dell’utente, stante la normativa che regola la somministrazione del metadone, sia la presenza di effetti collaterali del farmaco che anche se marginali nel complesso dei benefici, nel lungo periodo sono sicuramente da prendere in attenta considerazione. Il primo dato è intrinseco alla sua funzione terapeutica: provoca una farmacodipendenza di tipo morfinico, le ripetute somministrazioni, producono dipendenza fisica, psichica e tolleranza ; per questo è importante la partecipazione attiva del paziente al percorso di cura, altrettanto necessario è il consenso di tutti gli operatori anche non sanitari per favorire la “normalizzazione “ della terapia sostitutiva; entrambi queste condizioni sono indispensabili per la costruzione del percorso, specialmente quello a lungo termine che è rivolto proprio alla tipologia di dipendenza segnata da elementi di maggiore criticità e gravità. Tra gli altri effetti indesiderati, c’è l’introduzione quotidiana di notevoli quantità di zuccheri, presenti nella preparazione del farmaco, che se da un lato lo rendono incompatibile con un uso diverso dall’assunzione orale, dall’altro si può immaginare nel tempo, l’aumento di peso, a volte notevole, l’effetto cariogeno sui denti e il problema di intolleranza all’assunzione dopo anni con manifestazioni di nausea e vomito riportate anche se occasionalmente, dai pazienti. Altro elemento di rilievo è l’incompatibilità del trattamento a lungo termine con il rilascio della patente di guida, che come è evidente limita notevolmente la libertà del nostro utente, sentita tanto più acutamente quando la situazione clinica è stabile e la performance del paziente risulta normale. PREVENIRE E’ PRENDERSI CURA Per rendere efficace la prevenzione all’interno del Servizio che ha il compito della cura, credo sia necessario un cambiamento radicale della modalità comunicativa di tutti gli operatori. Mentre da un lato sembra una facilitazione, quella di avere l’utenza nella necessità o nella migliore delle ipotesi, nella volontà di modifica dei comportamenti e degli stili di vita, dall’altro le persone che sono dentro il problema, vivono le difficoltà psicologiche che hanno favorito o accelerato le condizioni problematiche in cui si trovano. La cultura medica, e quella psicoeducativa, subiscono ancora, nei fatti più che nelle intenzioni, un forte condizionamento della modalità prescrittiva, questo allontana dalla necessità di costruire una solida alleanza terapeutica che nella traduzione pratica significa una relazione credibile e vera in grado di creare una cornice di fiducia e rispetto, premesse obbligatorie per un qualsiasi intervento che non voglia solo giustificarsi ma cerca di essere la premessa per incidere sul comportamento. Nella pratica quotidiana, penso sia utile creare delle iniziative per piccoli gruppi, focalizzare un obiettivo, ovvero mettere a fuoco un problema e sviluppare il tema fino a produrre un qualsiasi risultato che sia visibile, che lasci una traccia sulla quale si può tornare a discutere. Sul tema dell’AIDS, delle malattie sessualmente trasmesse, incluse le Epatiti, occorre una informazione efficace sulla reale riduzione delle aspettative di vita e della sua qualità. Premesso questo, occorre far lavorare il piccolo gruppo possibilmente omogeneo, sui temi della sessualità, della qualità delle relazioni sentimentali, operando con la cautela (ascoltare senza giudicare) lasciando che i pazienti ci possano raccontare veramente come stanno le cose nella loro realtà. Si può discutere l’impiego di tecniche diverse come il colloquio motivazionale, la terapia corporea le tecniche di drammatizzazione il counseling come modalità di ascolto e di restituzione strutturata e strutturante.

Si possono usare le diverse capacità degli operatori per costruire diversi piccoli gruppi che lavorano autonomamente e producono materiale da elaborare e confrontare. Il monitoraggio dei pazienti sieropositivi viene fatto in collaborazione con il reparto di malattie infettive. Come dimostrano anche gli ultimi dati forniti da Malattie Infettive di Ferrara, le infezioni da HIV tra i tossicodipendenti sono in netto calo mentre aumentano nuovi casi di infezione nella popolazione adulta maschile oltre i 40 anni, fenomeno che riguarda la diffusione della prostituzione di donne sieropositive provenienti dall’Africa. Per quanto riguarda, l’impegno del Ser.T di via Mortara rivolto agli alcolisti, abbiamo avuto un notevole incremento dell’utenza che ha raggiunto il numero di 103 pazienti presi in carico, di 45 nuovi utenti. Nei loro confronti si sono attivate terapie con alcover e flebo praticate in cicli della durata di almeno una settimana per contrastare la sofferenza epatica e le patologie alcol-correlate. Sono state eseguite almeno 300 flebo, che hanno coinvolto 36 pazienti, nella fascia oraria dalle 8 alle 10 in un ambulatorio attrezzato appositamente con 4 lettini, naturalmente questo comporta la presenza del medico e l’attività dell’infermiera per 2ore dal lunedì al venerdì; a questo si aggiungono circa 70 iniezioni im a complemento della terapia e nelle fasi di mantenimento. Nell’ambito di questa nuova modalità di prendersi cura, è già attivo da mesi l’auricoloterapia, rivolta a tutta l’utenza che necessita di un trattamento non farmacologico sedativo dell’ansia nelle fasce orarie dalle 10 alle 14. Queste sono fattivamente proposte volte ad una maggiore attenzione alla salute e alla creazione di quel necessario clima di fiducia che si deve creare perché le raccomandazioni sanitarie abbiano una maggiore efficacia. Tutto questo deve essere prima di tutto garantito, in secondo luogo ampliato con una stabilità di personale sanitario e alcune modifiche organizzative che si dovranno apportare per fronteggiare l’incremento che ci auguriamo avvenga. VULNERABILITA’ Dalle numerose ricerche epidemiologiche e dall’osservazione clinica è ormai accertato che non tutte le persone sono esposte allo stesso rischio di sviluppare una dipendenza patologica nel momento in cui entrano in contatto con una sostanza stupefacente. Devono esistere quindi delle caratteristiche individuali genetiche, ambientali, familiari e sociali che si esprimono nel favorire una condizione di aumento del rischio di addiction, definendo la VULNERABILITA’ per alcuni, e l’uso voluttuario e sporadico per altri. I fattori considerati “markers” di vulnerabilità, quindi indicatori di aumentato rischio, possono essere presenti in epoche precoci della vita o sopraggiungere in età adulta; importante è la variabile del tempo (quanto tempo) le persone versano in condizioni precarie o senza cura: così disturbi della condotta, anoressia, bulimia, deficit mentali, disturbi di personalità, eccessiva timidezza, comportamento antisociale, alti livelli di aggressività, esclusione sociale, sono condizioni di disequilibrio neurobiologico e psichico, percepite negativamente o drammaticamente senza uscita, a cui le persone tentano di rispondere con l’assunzione di sostanze e il conseguente gradimento degli effetti da loro prodotti. L’effetto desiderato spesso è una sensazione di sollievo, di anestesia, o di distacco e indifferenza, oppure il bisogno di percepire le proprie capacità illimitate o straordinarie. Esistono altre caratteristiche individuali e del contesto ambientale che risultano fattori di protezione; tra questi, possiamo elencare i fattori genetici su cui non siamo in grado di intervenire né di conoscere in anticipo le caratteristiche, e poi tutte quelle condizioni che facilitano una buona integrazione delle persone nel loro ambiente: una realizzazione sociale sufficiente a nutrire l’autostima, un mondo affettivo caldo e accogliente, capacità relazionale e di partecipazione alla vita sociale politica e religiosa. E’ evidente che queste desiderabili declinazioni dell’esistenza, non preservano solo dalla dipendenza patologica dalle sostanze, ma anche dalla depressione, dal disagio psichico in generale, predispongono alla realizzazione dell’individuo nei suoi aspetti esistenziali più importanti; infatti, vivere interpretando le necessità personali, è l’unico argine sicuro alla ricerca più o meno consapevole, di trovare sollievo e benessere attraverso le sostanze, capaci di “alterare” la condizione fisica e psichica insoddisfacente. Ecco perché nonostante la ricerca scientifica metta a disposizione e concretizzi tante possibilità per migliorare la nostra vita, su questo aspetto specifico, ci troviamo a discutere tra il luogo comune e il richiamo alla volontà e ai comportamenti “corretti,” senza poter incidere sul problema aprendolo fin nelle viscere. La ricerca del benessere, non è solo un problema complicato da raggiungere, ma anche una speciale aspirazione tipicamente umana alla felicità, all’assenza di dolore, al superamento anche se temporaneo dei limiti di cui la natura ci ha dotato. Il confronto con il limite, è una questione spinosa che ci accompagna tutta la vita; in alcuni momenti è cruciale come nell’adolescenza, nei cambiamenti importanti nella vita affettiva e professionale; se le radici su cui si fonda l’autostima e la fiducia in se stessi sono troppo fragili , l’assunzione di sostanze, per raggiungere una gratificazione immediata, può sembrare una valida scorciatoia. Le sostanze stanno sempre al posto di qualcos’altro che non si sa trovare, o possono essere una soluzione per gestire una situazione fortemente ansiogena, creando una risposta funzionale ai bisogni della persona che ottiene immediatamente l’effetto desiderato, efficacemente, e senza “impegno”.

Un’altra caratteristica delle sostanze è che, per un certo periodo, i suoi effetti sono prevedibili, creano l’illusione del controllo garantita dalla ripetizione degli effetti, scatenano desiderio e gratitudine verso la sostanza, sostituendola drammaticamente come valore ad una relazione affettiva, riconoscendole una capacità di aiuto self-service. Queste considerazioni, rendono conto dell’impossibilità di organizzare categorie di persone che in modo preciso, ci facciano sentire “fuori pericolo”dalla rete seducente in cui cade chi aspira al benessere, prendendo una scorciatoia che nel tempo lo dirotterà fuori strada. Un altro elemento determinante, è l’impressionante accessibilità delle droghe legali e illegali, vicine in ogni luogo, ad ogni ora, disponibili per tutte le necessità; è questo che impone una costante capacità personale di scegliere il rifiuto, nonostante le debolezze e le incertezze che si patiscono ogni giorno. Ragionando di questo problema, in relazione all’adolescenza, ci rendiamo conto dell’inadeguatezza delle parole, anche le più scientifiche, o quelle più terrorizzanti ed esplicite sugli effetti devastanti delle sostanze, di raggiungere e colpire il mostro “droga” . Ecco che per incidere su quella parte di fattori espliciti che caratterizzano la vulnerabilità, dobbiamo tutti fare uno sforzo, partendo dal punto in cui siamo, da genitori, da insegnanti da medici da politici, da educatori, di rinuncia al giudizio sommario, alla punizione come valore in sé e se possibile, avvicinarsi al problema senza sentirci estranei e “oggettivi” ma partecipando al processo di valorizzazione e di educazione affettiva di cui l’adulto e l’adolescente, ha fame, e necessità. Questo, solo per indicare un atteggiamento utile, non certo la soluzione. Nello specifico, quando è superato quel confine di un uso “curioso” e la tentazione ha preso il posto del coraggio del rifiuto, quale sarà la scelta della sostanza, dipenderà molto più dal mercato illegale che dalle volontà individuali. Sia i fattori di protezione che di vulnerabilità, possono coesistere e alla fine, in ragione della loro proporzione e prevalenza, possono creare un grado di vulnerabilità basso, medio o alto che si esprimerà in un comportamento a rischio o protettivo nei confronti dell’uso di droga. Si crea così una condizione dinamica che può variare nel tempo in base soprattutto alla variabilità delle condizioni socio-ambientali, culturali, delle pressioni a cui la persona viene sottoposta nella vita; coinvolgendo inevitabilmente l’equilibrio psichico e spostando l’asse tra vulnerabilità e protezione, a seconda delle condizioni favorevoli o di disagio.

EMERGENZE

Le intossicazioni da stupefacenti rappresentano un gruppo di eventi che, negli ultimi anni, giunge con sempre maggiore frequenza all’osservazione degli operatori sanitari dei servizi e dipartimenti d’emergenza ed urgenza. E’ ormai assodata la difficoltà di elaborare dati statistici attendibili riguardo la prevalenza dei casi di intossicazione da stupefacenti; peraltro è noto come, in numerosi nosocomi siti in aree ad alta incidenza, questo valore risulti di particolare rilevanza. La tossicodipendenza e le emergenze-urgenze ad essa correlate rappresentano, in sostanza, un fenomeno multidimensionale dovuto all’interazione di una vasta gamma di variabili. Intercorre, statisticamente, uno stretto legame col territorio (rurale, montano, metropolitano, ad alta accoglienza turistica ecc. ecc.), è variabile rispetto alla popolazione (scolarità media, età media, densità di popolazione, flussi d’immigrazione ecc. ecc.), è soggetta a picchi stagionali e si confronta direttamente con la presenza - o l’assenza - di servizi sociali territoriali specifici. D’altra parte non si possono dimenticare alcune realtà che, indubbiamente, concorrono ad un’accurata caratterizzazione del fenomeno tossicodipendenza: la preparazione e la compliance dei Medici di famiglia e le strategie (sociali, mediche, giudiziarie) d’arginamento del fenomeno devono essere associate ad un lavoro capillare di modifica di fattori individuali, personali (intesi nel senso della complessa unità psico-fisica della persona), familiari e socioeconomici. E’ un dato di fatto che tra le ragioni che portano all’uso, ma soprattutto all’abuso, di droghe, sono clinicamente individuabili alcune caratterizzazioni che, benché diverse tra loro a livello fenomenologico e riferibili differenti motivazioni personali, rimandano ad alcuni particolari tipi di habitus psicologico e comportamentale che devono essere riconosciuti e inseriti in appositi programmi di recupero. A modo d’esempio è possibile distinguere: - i consumatori sperimentatori, cioè soggetti che hanno avuto contatti sporadici con gli stupefacenti mutuati dalla curiosità o dall’impossibilità di sottrarsi dalle pressioni del gruppo sociale al quale appartengono;

- i consumatori occasionali, soggetti che, pur avendo esperienze incostanti con gli stupefacenti, hanno ancora la possibilità di astenersi dal consumo se motivati a ritenerlo utile o necessario. In questi soggetti non si è ancora instaurata una patologia nei rapporti sociali e neppure nell’approccio psicologico; - i consumatori regolari: questi soggetti vengono ulteriormente distinti in consumatori lievi, medi o forti a seconda dei quantitativi assunti e della reiterazione nell’uso. Pur avvertendo un forte desiderio d’assumere droghe e manifestando, quindi, un variabile grado di dipendenza fisica e psicologica, i consumatori regolari riescono, generalmente, a mantenere regolari rapporti interpersonali all’interno del proprio ambiente; - i tossicodipendenti (o consumatori problematici) che provano un desiderio compulsivo ad assumere gli stupefacenti; mettono in atto qualsiasi mezzo per procurarseli, tendono all’acquisto indipendentemente dal costo e, nel contempo, provano un’invalidante dipendenza psichica e fisica alla quale si associa un pericoloso indebolimento dei legami con la realtà che lo circonda. Tali aspetti hanno inevitabili ricadute lesive sia a livello individuale che sociale. Alla luce di quanto esposto si evince che molteplice ed adeguato deve essere il momento d’intervento e comunque tale da coinvolgere, per quanto possibile, tutte le componenti della collettività e non solo quella specifica rappresentata dai sanitari. Purtroppo, l’intervento medico elettivo o d’emergenza è sovente destinato a fallire se non inserito in una più completa azione, per così dire, strategica, strutturalmente organizzata e finalisticamente coordinata. LE INTOSSICAZIONI NEI DIPARTIMENTI D’EMERGENZA-URGENZA: ANALISI STATISTICA Le statistiche dei Dipartimenti d’Emergenza-Urgenza Italiani sui decessi per droga si riferiscono prevalentemente ai decessi direttamente correlati al consumo acuto di sostanze stupefacenti od overdose. Peraltro, il confronto diretto dei dati statistici nazionali va fatto con cautela a causa delle differenze esistenti nelle definizioni degli indicatori, nella qualità delle segnalazioni e nella copertura del territorio. Alcuni studi dimostrano che il numero di decessi correlati all'uso di stupefacenti può essere un utile indicatore dell’andamento delle forme gravi di consumo. Nella maggior parte dei paesi d’Europa, le overdose sono una causa importante di morte tra i giovani adulti, particolarmente di sesso maschile. I decessi dovuti a patologie virali (AIDS ed epatiti) o ad altre cause violente (crimini, incidenti, ecc.) correlate alla droga rappresentano forme complementari di mortalità, con notevoli differenze da un paese all’altro e da una città all’altra. In genere, queste categorie di decessi vengono computati in statistiche specifiche. Da studi condotti negli anni Novanta in alcune città dell’UE (Glasgow, Madrid, Roma) (4) è emerso che una percentuale significativa di decessi tra i giovani adulti può essere attribuita all’abuso di stupefacenti (in particolare all’iniezione di oppiacei). Alcune analisi riportano che il numero totale di vittime da overdose si mantiene stabile da alcuni anni; di converso i risultati di altri studi ne segnalano il continuo aumento. Quest’ultimo dato viene confermato da uno studio Eurispes: nel 2001 in Italia risultavano segnalati oltre 300.000 consumatori di droghe pesanti, 145.897 tossicodipendenti in carico ai servizi pubblici per le tossicodipendenze e 19.289 nelle strutture socio-riabilitative. Questo studio definisce il fenomeno droga come «gravissimo» perché «spesso affrontato con strumenti insufficienti e in molti casi profondamente sbagliati». Tra le tendenze più allarmanti, l’aumento del consumo di cocaina, delle droghe sintetiche e delle anfetamine tra i consumatori più giovani ed il diffondersi della polidipendenza, intesa come contemporanea assunzione di un mix di sostanze diverse. Secondo l’Eurispes neI 2001 i decessi per overdose segnalati in Italia sono stati un numero impressionante: addirittura 1.016. Nei paesi dell’UE il consumo di stupefacenti viene stimato a 2–10 casi ogni 1.000 abitanti (età compresa tra i 15 ed i 64 anni). Il dato più elevato viene segnalato dall’Italia, dal Lussemburgo, dal Portogallo e dai paesi del Regno Unito (6–10 casi ogni 1.000 abitanti d’età compresa tra i 15 ed i 64 anni). Il dato più basso segnalato viene dalla Germania, dai Paesi Bassi e dall’Austria, con circa tre consumatori di stupefacenti ogni 1.000 abitanti. In Finlandia ed in Svezia la maggioranza dei consumatori problematici di stupefacenti è costituita da soggetti che fanno un uso primario di anfetamine (stima dal 70% all’80% nel 1999). Questo dato è in controtendenza rispetto ad altri paesi, dove i consumatori problematici di stupefacenti sono in gran parte soggetti che fanno un uso primario di oppiacei. In Spagna, la cocaina è diventata un fattore di grande rilevanza tra le cause di ricorso ai Dipartimenti di emergenzaurgenza: questo dato è confermato da recenti stime di prevalenza. Alcuni paesi del nord Europa, in particolare Germania e Paesi Bassi, segnalano un'elevata prevalenza di cocaina e crack tra i consumatori di stupefacenti, anche se principalmente nelle aree metropolitane e tra i soggetti che fanno un uso primario di oppiacei. Alcuni paesi (Spagna, Francia, Italia, Paesi Bassi e Regno Unito) hanno segnalato aumenti di carattere nazionale o locale del numero delle vittime in cui è stata riscontrata la presenza di cocaina, in genere associata ad altre sostanze; inoltre la cocaina, determinando patologie di carattere cardiovascolare, può essere considerata causa di morte per intossicazione cronica: tali casi possono non essere adeguatamente rilevati. Sebbene i decessi associati all’uso di ecstasy suscitino, attualmente, notevoli preoccupazioni, essi sono relativamente rari rispetto ai decessi dovuti all’uso di oppiacei, benché l’uso dell’ecstasy sia, statisticamente, molto più frequente. Il numero di decessi in cui l’analisi tossicologica rileva la positività per l’ecstasy è notevolmente aumentato ma spesso è concomitante con il riscontro di altre sostanze. Anche se le reazioni all’ecstasy appaiano sempre imprevedibili, alcuni

decessi potrebbero essere evitati adottando misure relativamente semplici (fornendo acqua potabile nelle discoteche, ad esempio), nonché migliorando la sensibilizzazione sanitaria. Numerose ricerche mostrano chiaramente che il trattamento farmacologico sostitutivo con Metadone riduce il rischio di mortalità da overdose tra i partecipanti al programma. Tuttavia, in svariati paesi dell’UE il Metadone è stato individuato in un numero significativo di decessi connessi all'uso di stupefacenti. Parecchi studi hanno dimostrato un’incidenza notevolmente maggiore di decessi dovuti all’uso illecito del Metadone, piuttosto che durante l’utilizzo terapeutico; altri studi hanno riscontrato, invece, un rischio elevato durante le fasi iniziali della terapia sostitutiva. Questi dati suggeriscono che occorre verificare che i programmi di trattamento farmacologico sostitutivo rispondano a determinati standard qualitativi. Alcuni dipartimenti di emergenza-urgenza statunitensi le intossicazioni assieme alle altre urgenze farmaco-correlate hanno rilevato una frequenza che può arrivare fino al 38% delle prestazioni erogate. Anche nell'attività di soccorso extraospedaliero le intossicazioni acute ricorrono con una rilevante frequenza. I dati dei Centri Antiveleni sottostimano l'evento intossicazione. Negli USA risulta che ai Centri Antiveleni non vengano segnalati la maggior parte dei casi di decesso da overdose di stupefacenti o da sovradosaggio di farmaci (ad esempio gli antidepressivi triciclici). Questi ed altri dati indicano l'elevata frequenza di questa patologia e la conseguente necessità di una formazione specifica in tossicologia clinica per i medici che operano nell'area dell'urgenza ed emergenza. A differenza di quanto avviene in altri paesi europei, in Italia non sono diffusi sul territorio nazionale reparti di cura e servizi diagnostici specifici per la tossicologia clinica; i pazienti vengono, nella maggior parte dei casi, ricoverati presso reparti e ospedali che spesso non sono dotati di specifiche competenze (ad esempio laboratori analisi idonei): questa realtà può essere causa, sovente, di approcci diagnostico-terapeutici inadeguati. DEFINIZIONE E MODALITA’ D’INTOSSICAZIONE Le intossicazioni da sostanze stupefacenti possono essere suddivise, per semplicità, in due grandi gruppi: le intossicazioni acute e le intossicazioni croniche. Per intossicazioni croniche si intende una categoria di sindromi provocate da un’esposizione ripetuta e prolungata a basse dosi di tossici, mentre con la definizione di intossicazione acuta si intende una condizione patologica causata da un’esposizione singola o reiterata ad una sostanza tossica; condizione necessaria all’acuzie è che la reiterazione avvenga in un breve lasso di tempo, convenzionalmente fissato in 24 ore. Nel caso di un’intossicazione cronica, il quadro sindromico può comparire immediatamente o manifestarsi in maniera più o meno tardiva. Il contatto con i tossici può avvenire attraverso varie vie d’assorbimento a seconda della forma e della chimica delle varie sostanze: le vie statisticamente più frequenti sono rappresentate dall’ingestione, dall’inalazione, dal contatto cutaneo e/o oculare e/o mucoso, dalla via rettale ed, infine, dall’iniezione parenterale. In caso d’intossicazione acuta, riveste primaria importanza l’attenta valutazione di numerosi fattori: in particolare, un’accurata raccolta anamnestica che renda disponibili in tempi brevi notizie riguardo il tipo di agente causale, la via di contatto, una buona approssimazione sull’intervallo fra esposizione e comparsa dei sintomi e la presunta quantità assorbita; anche la contemporanea presenza di fattori aggravanti riveste una particolare importanza sia diagnostica che terapeutica. Per quanto attiene l’ultimo punto enunciato, occorre ricordare che, in presenza di diversi substrati patologici, il quadro clinico delle intossicazioni risulta, ovviamente, di differente gravità; così per una uguale esposizione la sintomatologia è in genere di modesta importanza e facilmente trattabile in individui sani, mentre può risultare molto grave (anche letale) in caso di pazienti affetti, per esempio, da patologie croniche respiratorie o cardiache. Da quanto succintamente enunciato si possono evincere due principali costanti delle sindromi da intossicazione: A) esiste un nesso causale tra tossico e quadro sintomatologico molto più stringente e ripetibile rispetto ad altre patologie, B) il tempo di latenza fra esposizione e comparsa del quadro sindromico è costante e caratteristico per ogni sostanza. Conoscere queste costanti permette, nella stragrande maggioranza dei casi, di mettere in atto un efficace primo intervento medico basandosi sulla sola anamnesi e perfino prima della comparsa di qualunque sintomo o segno. L’impiego di misure atte a rimuovere il tossico prima del suo completo assorbimento e la tempestiva somministrazione di sostanze antidotiche può drasticamente diminuire il metabolismo delle sostanze, trasformando un’intossicazione potenzialmente mortale in un evento banale, scevro da conseguenze prognosticamente rilevanti. SOSTANZE STUPEFACENTI E PATOLOGIE DIRETTE ED INDIRETTE L’assunzione di stupefacenti provoca una serie di patologie dirette o primarie, correlate alla specifica composizione chimica delle sostanze, ed un gruppo di patologie cosiddette indirette o secondarie, relative alle modalità di consumo degli stupefacenti stessi. In estrema sintesi si possono annoverare i seguenti quadri clinici primari: - l’intossicazione acuta per sovradosaggio (overdose);

- la sindrome da astinenza; - le reazioni psicotiche a breve termine; - l’intossicazione cronica legata ad un uso protratto. Per quanto attiene le patologie indirette occorre ricordare: - le complicanze legate all’assunzione per via parenterale per azione di sostanze additive (ad esempio talco, stricnina,chinino) o per utilizzo di strumenti d’iniezione infetti (HIV, epatiti B-C, endocarditi, tromboflebiti, ascessi polmonari, tetano); - le complicanze legate allo stile di vita del tossicodipendente come la malnutrizione e le lesioni traumatiche (incidenti stradali od eventi violenti in genere); - l’insorgenza e/o l’aggravamento di patologie o disfunzioni concomitanti. La totalità delle sostanze stupefacenti può determinare uno stato di intossicazione acuta la cui gravità dipende sia dal tipo di sostanza, sia dal dosaggio ed ancora dalla via di somministrazione, dal grado di tolleranza, dalle condizioni fisiche del soggetto, dall’assunzione contemporanea di altre droghe. Le sostanze che più frequentemente provocano intossicazioni sono le seguenti: gli oppiacei (oppio, morfina, eroina, metadone ecc.), gli stimolanti del S.N.C. (Sistema Nervoso Centrale) (cocaina, anfetamine ecc.), i deprimenti il S.N.C. (barbiturici, alcool, benzodiazepine ecc.), gli allucinogeni (LSD, mescalina, psilocibina ecc.), i derivati anticolinergici antistaminici (atropina, scopolamina, josciamina ecc.) ed i solventi assunti per inalazione (benzolo, toluolo, cloroformio ecc.). TRATTAMENTO D’EMERGENZA: CONSIDERAZIONI GENERALI Nella grande maggioranza dei casi viene richiesto l’intervento del Pronto Soccorso per tre tipici quadri sintomatologici che possono presentarsi isolati od in associazione: - la sindrome da overdose; - la sindrome da astinenza; - la sindrome da patologia indiretta o secondaria. Sovente non risulta semplice, per i sanitari, capire se il soggetto che ha chiesto assistenza sia un tossicodipendente; ancora più arduo è capire il suo grado di dipendenza (consumatore sperimentatore od occasionale, regolare o problematico) e la sostanza che ha causato la sintomatologia. Nella valutazione primaria del paziente possono essere di una certa utilità: - il reperto tra gli effetti personali o nelle immediate vicinanze del soggetto di siringhe, fiale, lacci, tubetti di farmaci; - il reperto di segni di venipuntura in varie sedi; il numero delle punture può indirizzare sul grado di dipendenza; - presenza di fibrosi dei vasi; - presenza di lesioni cutanee (prevalentemente discromie); - presenza di pustole; - presenza di escare. Anche una sommaria valutazione del cavo orale può essere di ausilio. Reperti frequenti negli eroinomani sono: - la mancanza di qualche elemento dentario; - la presenza di carie destruenti diffuse. L’iperemia della mucosa nasale associata o meno a perforazione del setto è spesso presente nei consumatori di cocaina per inalazione. L’iperemia congiuntivale o delle mucose orali si nota nei fumatori di cannabinoidi e nei consumatori di inalanti (solventi). La valutazione primaria discrimina, anche, i pazienti apparentemente calmi dai pazienti in stato d’agitazione psicomotoria. In caso di paziente calmo od assente ci si può orientare verso una recente assunzione di oppiacei, barbiturici od allucinogeni. Se, invece, il paziente si mostra inquieto, in stato d’agitazione, tachicardico, talora febbrile, facilmente irritabile, ostile fino all’aggressività è ipotizzabile l’uso recente di anfetamine o cocaina oppure una sindrome da astinenza. Nei pazienti calmi occorre valutare: - la progressiva depressione della coscienza che può condurre al coma; - la depressione respiratoria con cianosi; - lo shock; - la miosi serrata; - lo stato depressivo, spesso associato ad ideazione paranoide suicida; - l’apatia estrema con distacco dalla realtà; - la sensazione di stordimento, cefalea, vertigini. Nei pazienti in stato d’agitazione la valutazione riguarda prevalentemente: - l’ipertensione; - i tremori fini a riposo; - i tremori grossolani;

- i quadri psicotici; - lo stato confusionale. Oltre all’esame obiettivo, per meglio definire il tipo di intossicazione ci si avvale degli esami di laboratorio e strumentali; tali esami, purtroppo, non vengono eseguiti in tutti i laboratori. In caso di pazienti incoscienti i provvedimenti generali d’emergenza, intesi come sostegno delle funzioni vitali a prescindere dal tipo d’intossicazione, sono rappresentati dal B.L.S. (Basic Life Support). Le manovre rianimatorie di base seguono una semplice procedura primaria di valutazione/azione che gli autori anglosassoni hanno schematizzato con l’acronimo ABC: - A = airways: valutazione della pervietà, o meno, delle vie aeree. In caso di ingombro delle vie aeree per prima cosa occorre ristabilire la pervietà ed, eventualmente, mantenerla con opportuni presidi (ad esempio la cannula di Guedel); - B = breathing: valutazione della presenza, o meno, di un’attività respiratoria. In caso di arresto respiratorio occorre iniziare immediatamente le manovre rianimatorie adeguate (ad esempio l’insufflazione di aria con maschera facciale e pallone autoespandibile); - C = circulation: valutazione della presenza, o meno, del battito cardiaco. In caso di arresto cardiaco occorre iniziare il trattamento di sostegno alla funzione circolatoria (massaggio cardiaco). Le sopraelencate manovre rianimatorie, che verranno analizzate più diffusamente nel capitolo successivo, non sono di pretta pertinenza medica ma sono praticabili anche da laici che abbiano, però, ricevuto l’opportuno training. Manovre avanzate (Advanced Life Support, A.L.S.) implicanti la somministrazione di farmaci (compresa la terapia elettrica intesa come utilizzo di shock con il defribillatore) sono, invece, riservate ai sanitari. Negli ultimi anni nei grandi centri urbani si sta allargando l’uso di defibrillatori automatici (DAE) che, attraverso un controllo computerizzato, possono somministrare opportuni shock anche senza l’intervento di un operatore esperto. Provvedimenti di sostegno da considerare nell’ambito delle manovre di supporto vitale avanzato rappresentati da: - somministrazione di antidoti; - gastrolusi (lavanda gastrica); - diuresi forzata e suo monitoraggio (cateterismo vescicale); - controllo dell’ipertermia; - controllo delle crisi comiziali (generalmente tonico-cloniche). In sostanza, i cardini del trattamento primario possono essere riassunti in 3 semplici punti: terapia sintomatica di rianimazione in caso di insufficienza delle funzioni vitali; prevenzione dell’assorbimento del tossico; terapia specifica mediante antidoti e/o tecniche speciali di depurazione. RIANIMAZIONE CARDIOPOLMONARE: TECNICHE DI BASE ED AVANZATE La letteratura scientifica internazionale ha ampiamente documentato che nell'80-85% circa dei casi il ritmo di presentazione dell'Arresto Cardiaco (AC) è la Fibrillazione Ventricolare (FV) o la Tachicardia Ventricolare (TV) senza polso. Solo nel 15-20% dei casi è riscontrabile l'Asistolia o la Dissociazione Elettro - Meccanica (DEM - PEA). A differenza dell'asistolia e la PEA, la FV/TV se trattata prontamenta con la defibrillazione elettrica, può essere interrotta. La defibrillazione elettrica è l'unica terapia in grado di correggere la FV/TV, creando i presupposti per il recupero di un ritmo valido, con conseguente ripristino dell'attività contrattile del cuore. Va ricordato che la FV e la TV, se non trattate, evolvono in breve tempo verso l'asistolia, ritmo non defibrillabile e generalmente scarsamente sensibile alla terapia. L'anossia cerebrale provoca lesioni inizialmente reversibili che divengono irreversibili dopo 6 -10 min’; la prevenzione del danno cerebrale dipende principalmente dalla rapidità ed efficacia delle manovre rianimatorie e dalla precocità della defibrillazione. La catena della sopravvivenza La sopravvivenza in caso di arresto cardiaco dipende dalla realizzazione della corretta sequenza di una serie di interventi. La metafora, coniata dall'American Heart Assiociation "Catena della Sopravvivenza" esprime, in modo sintetico e facilmente memorizzabile, l'approccio universalmente riconosciuto all'AC, sottolineando l'importanza della sequenza e della precocità degli interventi. La catena della sopravvivenza è costituita da 4 anelli concatenati tra loro: la mancata attuazione di una delle fasi porta inevitabilmente all'interruzione della catena riducendo in modo drastico le possibilità di portare a termine con esito positivo il soccorso. I 4 anelli della catena sono: 1° anello = ALLARME PRECOCE ovvero l’attivazione precoce del sistema di emergenza (118); 2° anello = R.C.P. PRECOCE ovvero l’inizio precoce delle procedure di Rianimazione Cardio Polmonare; 3° anello = DEFIBRILLAZIONE PRECOCE ovvero l’utilizzo precoce del DAE o del defibrillatore manuale; 4° anello = A.L.S. PRECOCE ovvero la tempestiva applicazione delle procedure di soccorso avanzato (Advanced Life Support: supporto avanzato delle funzioni vitali). Lo scopo del BLS è quello di riconoscere prontamente la compromissione delle funzioni vitali e di sostenere la respirazione e la circolazione attraverso la ventilazione bocca a bocca o bocca-maschera ed il massaggio cardiaco

esterno fino all'arrivo di mezzi efficaci per correggere la causa che ha prodotto l'AC. In alcuni casi particolari il BLS può risolvere completamente il quadro clinico, come ad esempio nell'arresto respiratorio primitivo. L'obiettivo principale del BLS è quello di prevenire i danni anossici cerebrali attraverso le manovre di rianimazione cardiopolmonare (RCP) che consistono nel mantenere la pervietà delle vie aeree, assicurare lo scambio di ossigeno con la ventilazione e sostenere il circolo con il massaggio cardiaco esterno. La funzione del DAE consiste nel correggere direttamente la causa dell'AC, quando è causato da FV o TV senza polso; pertanto il BLS-D crea i presupposti per il ripristino di un ritmo cardiaco valido ed il recupero del soggetto in AC. La tempestività dell'intervento è fondamentale in quanto bisogna considerare che le probabilità di sopravvivenza nel soggetto colpito da AC diminuiscono del 7-10% ogni minuto dopo l'insorgenza di FV/TV. Dopo dieci minuti dall'esordio dell'AC, in assenza di RCP, le possibilità di sopravvivenza sono ridotte quasi a zero; è intuibile pertanto l'importanza della presenza di eventuali testimoni. Tecniche e sequenza del BLS-D La sequenza del BLS-D è rappresentata da una serie di azioni che, per convenzione, vengono indicate con le lettere A, B, C e D. A (Airways): apertura delle vie aeree B (Breathing) : respirazione (es. bocca a bocca) C (Circulation): circolazione D (Defibrillation): defibrillazione Ogni fase del BLS-D deve iniziare con una valutazione che condiziona le successive azioni: Fase A: valutazione coscienza = azione A Fase B: valutazione respiro = azione B Fase C: valutazione circolo = azione C Fase D: valutazione ritmo = azione D Le prime tre valutazioni sono eseguite dal soccorritore, la diagnosi del ritmo nel caso del soccorso con il DAE è eseguita dall'apparecchio.

Sicurezza della scena Prima di iniziare il soccorso, è necessario valutare la presenza di eventuali pericoli ambientali in modo da prestare il soccorso nelle migliori condizioni di sicurezza per la vittima ed il soccorritore. Con l'esclusione di un reale pericolo ambientale, il soccorso deve sempre essere effettuato sulla scena dell'evento, evitando di spostare la vittima. L'uso del defibrillatore non è sicuro se la cute del paziente è bagnata o se vi è acqua a contatto con il paziente o con il DAE. Fase A: valutazione della coscienza Per valutare lo stato di coscienza di un soggetto che si trova in terra, lo si chiama ad alta voce scuotendolo contemporaneamente per le spalle: si utilizza, quindi, sia la sollecitazione vocale che tattile. Se non risponde, si pone la vittima in posizione supina allineando gli arti parallelamente al corpo, si verifica che sia su un piano rigido e si scopre il torace. Verificato lo stato di incoscienza, è necessario chiedere subito aiuto chiedendo l’intervento del 118 (occorre scandire chiaramente i numeri e le parole per minimizzare il rischio di equivoci). Apertura delle vie aeree (azione A) - Iperestensione del capo: una mano posta a piatto sulla fronte della vittima spinge all'indietro la testa. - Sollevamento del mento: con due dita dell'altra mano si solleva la mandibola agendo sulla parte ossea del mento indirizzando la forza verso l'alto. In caso di sospetto di lesione del rachide cervicale occorre mantenere il capo in posizione neutra. - Ispezione del cavo orale e rimozione di eventuali corpi estranei mobili. La presenza di corpi estranei (protesi mobili, residui alimentari, ecc.) può essera la causa di un arresto respiratorio che, se non risolto, conduce inevitabilmente ad un arresto cardiaco. Se disponibile, in questa fase va usata la cannula di Guedel che consente la pervietà delle vie aeree durante la RCP. Il dispositivo è utilizzato mantenendo l'iperestensione del capo; la cannula va inserita nella bocca con la concavità rivolta verso il naso e poi a metà del percorso ruotata di 180° ed introdotta fino a che l'anello esterno si sovrappone all'arcata dentale.

Fase B: valutazione dell’attività respiratoria Mantenendo il capo in iperestensione, ci si dispone con la guancia molto vicino alla cavità orale della vittima e si verifica la presenza o meno dell'attività respiratoria (acronimo GAS). 1. Guardo eventuali movimenti del torace 2. Ascolto la presenza di rumori respiratori 3. Sento, sulla mia guancia, la fuoriuscita di aria calda dalla bocca della vittima. Questa manovra va effettuata per dieci secondi. In questa fase occorre non confondere l'attività respiratoria efficace con il gasping o respiro agonico (che può essere presente nelle prime fasi dell'AC) un respiro inefficace, superficiale, in assenza di scambio ventilatorio. Posizione laterale di sicurezza Nel caso in cui la persona soccorsa respiri, ma non sia cosciente, deve essere garantita la pervietà delle vie aeree ponendo il paziente in posizione laterale di sicurezza. Questa posizione permette: - di iperestendere il capo; - di far refluire fuori dalla bocca l'eventuale rigurgito gastrico, evitando l'inalazione; - di mantenere la stabilità del corpo su un fianco, consentendo il breve allontanamento del soccorritore (richiesta d’aiuto). La presenza di attività respiratoria deve essere regolarmente verificata. Se i soccorsi avanzati tardano ad arrivare bisogna cambiare il lato ogni 30 minuti. Ventilazione artificiale (Azione B) In assenza di respiro si effettuano 2 insufflazioni d'aria. Si possono utilizzare tre tecniche diverse: - ventilazione bocca a bocca. Il soccorritore inspira profondamente e, mantenendo sollevato il mento con due dita, fa aderire le labbra intorno alla bocca dell'infortunato. La mano controlaterale chiude le narici per evitare fuoriuscita di aria e mantiene il capo in iperestensione. Si insuffla lentamente aria; - ventilazione bocca – maschera. La maschera tascabile (pocket mask) offre molti vantaggi: evita il contatto diretto con la cute e le secrezioni della vittima, impedisce la commistione tra aria insufflata con quella espirata dalla vittima tramite una valvola unidirezionale, diminuisce il rischio di infezione attraverso un filtro antibatterico, permette il collegamento con una fonte di ossigeno. La tecnica prevede la completa adesione del bordo della maschera sul viso della vittima, in modo da coprire bocca e naso. Anche in questo caso il capo deve essere mantenuto in iperestensione. In considerazione dell'obbligo del soccorso, il medico dovrebbe munirsi degli adeguati mezzi di protezione, come ad esempio pocket mask e guanti; - ventilazione con pallone autoespansibile – maschera. E’ il sistema più efficace soprattutto se collegato ad una fonte di ossigeno. Alcuni modelli sono dotati di un reservoir, che permette di aumentare la concentrazione di ossigeno (percentuale di O2 con pallone = 20%; percentuale di O2 con pallone e fonte di O2 = 40-50%; percentuale di O2 con Ambu, Reservoir e fonte di O2: 80-90%). Il soccorritore, posto dietro la testa della vittima, copre con la maschera la bocca ed il naso mantenendo capo in iperestensione; con l'altra mano comprime il pallone in modo da insufflare l'aria. In tutte le tecniche di ventilazione, le insufflazioni devono essere eseguite in modo lento e progressivo in circa 2 secondi in quanto, se troppo veloci, possono provocare una distensione gastrica. Fase C: valutazione del circolo Si cerca la presenza del polso carotideo per 10 secondi, prestando attenzione all'eventuale presenza di altri segni di circolo (movimenti del corpo, atti respiratori o colpi di tosse). Nel caso il polso sia presente (arresto respiratorio), si prosegue con la sola ventilazione, mantenendo una frequenza di 12 atti respiratori al minuto (una insufflazione ogni 5 secondi). Avendo già verificato che la vittima non è cosciente e non respira, in caso di polso assente deve essere iniziata la RCP alternando 15 compressioni toraciche a 2 ventilazioni.

Supporto vitale avanzato L'Advanced Life Support (ALS) costituisce il quarto anello della Catena della Sopravvivenza. Di pertinenza medica, ha lo scopo di trattare adeguatamente l'arresto cardiopolmonare, le situazioni che possono potenzialmente evolvere verso un arresto cardiaco e la stabilizzazione dei pazienti nella fase del post-arresto. Nel soccorso avanzato per comodità mnemonica si usano sempre le prime lettere dell'alfabeto per definire la valutazione, definita in questo caso, secondaria. Valutazione secondaria: A - vie aeree: intubare al più presto possibile B - respiro: confermare il posizionamento del tubo endotracheale mediante l'auscultazione dei campi polmonari e, se possibile, misurazione della saturazione ematica di O2 e della CO2 espirata; fissare la protesi endotracheale, ventilare ed ossigenare.

C - circolo: ottenere un accesso venoso possibilmente duplice, somministrare agenti adrenergici, considerare antiaritmici ed eventuale stimolazione cardiaca elettrica temporanea; valutare i parametri vitali: temperatura corporea, pressione sanguigna, frequenza cardiaca, frequenza respiratoria. D - diagnosi differenziale: identificare la causa dell'AC e trattare gli eventuali fattori reversibili. L'ALS mira pertanto a: - proseguire il supporto vitale di base; - mantenere una ventilazione ed una circolazione efficaci anche sfruttando attrezzature avanzate (intubazione orofaringea, RCP meccanica); - monitorizzare il ritmo cardiaco e gli altri parametri vitali; - valutare l'ECG a 12 derivazioni; - stabilire e mantenere un accesso venoso, possibilmente duplice; - trattare farmacologicamente i pazienti in arresto cardiaco o respiratorio e stabilizzarli nella fase del postarresto; - trattare i pazienti con sospetta sindrome coronarica acuta (SCA), incluso l'IMA. All’arrivo dell’equipe medica occorre: - controllare la posizione degli elettrodi/placche ed il contatto con la cute; - posizionare, confermare ed assicurare la protesi per la gestione delle vie aeree; - nei pazienti con FV/TV refrattaria alle scariche iniziali somministrare Adrenalina 1 mg e.v. ogni 3 minuti; - nei pazienti con ritmo non FV/TV (asistolia e dissociazione elettromeccanica) somministrare Adrenalina 1 mg e.v. ogni 3 minuti. Occorre considerare la somministrazione di Atropina 3 mg, soluzioni tampone, antiaritmici (Amiodarone), il posizionamento di uno stimolatore elettrico (pacing) temporaneo; - cercare e correggere le cause reversibili: ipovolemia, ipossia, acidosi, iper/ipopotassemia, altri disturbi metabolici, ipotermia, farmaci e tossici (sovradosaggio, intossicazioni accidentali), tamponamento cardiaco, pneumotorace iperteso, SCA, trombosi polmonare (embolia). OPPIACEI Gli oppiacei sono una categorie di sostanze ad azione morfino-simile. L’oppio si ottiene dall’essiccamento del siero lattescente dei semi maturi del Papaver Somniferum. L’azione di tutti gli oppiacei, e soprattutto dell’eroina, è quello di esercitare una potente inibizione a livello centrale; l’euforia è spiegata dalla rapida inibizione degli interneuroni GABA-ergici con conseguente immediato rilascio di Dopamina. L’effetto soggettivo maschera, quindi, una successiva azione d’inibizione che si manifesta alla fine del picco di piacere, attorno ai 10 min’ dall’assunzione, ad opera delle deidrasi eritrocitarie che metabolizzano l’eroina in morfina, leggermente più polare (e quindi caratterizzata da una minor diffusibilità alla barriera ematoencefalica rispetto all’eroina) ma soprattutto caratterizzata da proprietà narcotiche. Le intossicazioni da oppiacei di più frequente riscontro clinico sono quelle da eroina e da metadone. La durata degli effetti degli oppiacei varia dalle 3-6 ore ed è più prolungata per il metadone (1224 ore). Gli effetti sono rappresentati principalmente da: nausea, euforia, senso di ebbrezza, depressione respiratoria, miosi. Il quadro del sovradosaggio (overdose) si manifesta in un duplice serie di segni: bradipnea (fino all’arresto respiratorio), coma, miosi serrata sono considerati segni precoci o prodromici, mentre i segni tardivi sono rappresentati da un quadro sindromico assimilabile a quello dell’edema polmonare acuto con tachipnea, dispnea, cianosi ed ipossia. Queste ultime manifestazioni sono dovute all’azione diretta degli oppiacei sull’apparato respiratorio. Spesso concomitano uno scompenso cardiaco acuto dovuto all’azione di alcuni adulteranti e/o sintomi di avvelenamento dovuti a sostanze tagliate con grosse quantità di stricnina. Il trattamento elettivo della sindrome da overdose di oppiacei si basa sull’iniezione endovenosa od intramuscolare di Naloxone cloridrato (nome commerciale Narcan). Tale manovra un tempo di pertinenza squisitamente medica, è stata, attualmente, resa accessibile anche ai paramedici dei servizi di Emergenza che intervengono a bordo delle Ambulanze (Servizio di Emergenza Territoriale 118): il protocollo di somministrazione del Naloxone viene messo in atto solo quando il quadro clinico sia grave ed inequivocabile. Il Naloxone è un antagonista recettoriale degli oppioidi che può essere somministrato per via endovenosa, sottocutanea o intramuscolare. Le indicazioni all’utilizzo riguardano principalmente le adverse reactions od i sovradosaggi di oppiacei con depressione respiratoria accompagnata da cianosi e miosi (triade diagnostica rapida) e la depressioni respiratoria del neonato causate da un uso di sostanze oppioidi fatto dalla madre tossicodipendente prima del parto (Narcan Neonatal – Sirton Pharmaceuticals). Come impieghi non codificati ricordiamo anche la riduzione del coma da alcool e da clonidina, nello shock settico e nel trattamento dell’edema polmonare da alta quota. Come effetti collaterali sono state segnalate aritmie, sbalzi pressori, convulsioni, iperventilazione, da inquadrare comunque nel contesto di una situazione in cui sono ancora attive le circostanze che avevano indotto la depressione respiratoria, fatti salvi gli oppiacei per blocco selettivo degli specifici recettori. L’effetto compare entro 1-2 minuti, con somministrazione e.v. e concomitante intramuscolo di 0,4 mg (una fiala) ogni 2 minuti. Uno scarso miglioramento dopo somministrazione di 2-3 dosi di Naloxone, potrebbe essere causato da eventuali

processi morbosi concomitanti o dalla presenza di farmaci non oppiacei. Nel caso si sospetti una contemporanea assunzione di benzodiazepine, soprattutto nella fase astinente prima dell’ultima assunzione di oppiacei responsabile dell’adverse reaction, è bene procedere con infusione lenta di Flumazenil (Anelate - Roche) per liberare i recettori GABA che limitano la risoluzione della depressione respiratoria. Dosi supplementari di Naloxone per via intramuscolare determinano, comunque, un effetto più prolungato. Dosi eccessive di Naloxone possono determinare una significativa diminuzione dell'effetto analgesico indotto dallo stupefacente ed aumentare la pressione arteriosa. Analogamente un antagonismo troppo rapido potrebbe indurre nausea, vomito, sudorazione o tachicardia. E’ consigliabile non arrivare subito alla soglia di intervento massima di 10 mg in 30 minuti per non risvegliare dal coma un paziente in astinenza decisa e drammatica. Il protocollo adottato dai paramedici (Infermieri Professionali addestrati) in corso di overdose da oppiacei, prevede l’utilizzo immediato di 2,4 mg di Naloxone (6 fiale) somministrate nella seguente sequenza: 2 fiale intramuscolo, 2 fiale sottocute e 2 fiale endovena. Tale sequenza è stata proposta al fine di minimizzare i rischi di ricaduta in stato di depressione respiratoria in caso di risveglio precoce del paziente. Infatti la durata d'azione antagonista varia dai 20 ai 45 min’ dopo somministrazione endovenosa mentre è di 2,5 - 3 ore dopo somministrazione intramuscolare e sottocutanea. Nonostante tali precauzioni, la durata dell’effetto dell’antagonista può essere inferiore a quella dell’oppiaceo responsabile dell’adverse reaction iniziale. È quindi necessario tenere in osservazione il paziente dopo l'avvenuto risveglio fino a 24 ore in caso di intossicazione acuta da eroina e fino a 48 ore in caso di intossicazione acuta da metadone o pentazocina. Sono stati segnalati casi di insufficienza respiratoria acuta (edema polmonare) fino a 36 ore dopo il risveglio indotto dall’antagonista. In caso di somministrazione a soggetti non intossicato da oppiacei, gli antagonisti non producono effetto alcuno.

Crisi d’astinenza L’esordio avviene dopo un numero di ore dell’ultima assunzione che varia in rapporto al tipo di sostanza; la sintomatologia ha un picco d’intensità nei primi tre-quattro giorni poi si attenua fino scomparire. La sintomatologia in corso d’astinenza viene divisa in 5 gradi numerati da 0 a 4. Il grado 0 è caratterizzato dall’ansia e dal pressante desiderio di assumere la sostanza; al grado 1 compaiono anche una sudorazione profusa, un’intensa lacrimazione e la rinorrea. Nel grado 2 si ha un ulteriore peggioramento dei sintomi precedentemente descritti ai quali si aggiungono midriasi, piloerezione, contrazioni muscolari, sensazione di calore od al contrario di freddo intenso, dolori ossei e muscolari, impotenza. Una sindrome da astinenza di grado 3 è caratterizzata dal peggioramento dei sintomi precedenti associati ad insonnia, ipertensione, febbre e nausea, agitazione psico-motoria. Al grado 4 il paziente appare febbricitante e dimagrito, ha vomito e diarrea, può avere eiaculazioni secondarie ad orgasmi spontanei. Il trattamento di scelta consiste nella somministrazione di narcotici: d’impiego comune in urgenza è il Midazolam (Ipnovel - Roche) con dose iniziale di 2-2,5 mg endovena eventualmente incrementabili con step successivi di 1 mg fino al raggiungimento dell’effetto atteso. Particolare attenzione deve essere posta ad evitare la concomitante assunzione di oppiacei che potrebbe esitare in una depressione respiratoria. Può essere utilizzato il Metadone a scalare prestando attenzione all’assueffazione da metadone che ha effetti ancora più gravi nel caso di astinenza. Intossicazione fetale da oppiacei Particolarmente grave è la sindrome del neonato da madre tossicodipendente. Si possono distinguere effetti da impregnazione e da sospensione. Le sostanze che deprimono il SNC (come gli oppiacei) possono essere responsabili di gravi difficoltà respiratorie al momento della nascita basate su meccanismi di accumulo: dall’insufficienza respiratoria possono conseguire danni neurologici gravi e permanenti su base anossica. Al contrario, la sindrome astinenziale del neonato si presenta come una sindrome di ipereccitabilità generalizzata dei sistemi neurali vegetativi e di relazione che dipende dalla brusca interruzione nell’assunzione di droga, introdotta nell’organismo fetale sino al momento della nascita attraverso gli scambi umorali con l’organismo materno. Essa è analoga sul piano patogenetico alla sindrome da astinenza dell’adulto, ma se ne differenzia sul piano sintomatologico in funzione dello stadio maturativi del sistema nervoso. La sindrome viene trattata mediante somministrazione a scalare di agonisti della sostanza d’abuso (Metadone). Se il dosaggio assunto dalla madre nelle ultime fasi della gestazione non era particolarmente elevato e la terapia neonatale viene eseguita correttamente in ambiente specialistico ospedaliero, la sindrome non lascia reliquati specifici.

COCAINA

La cocaina chimicamente è un derivato del tropano (eterociclico ad azione anestetica locale come la cocaina e parasimpaticolitico come la scopolamina). Si ottiene come base dalle foglie della Eritroxilon coca, tipica del sud America. Il consumo di cocaina è uno dei problemi di maggiore rilevanza sociale e medica per la diffusione, l’aumento dei consumi e le frequenti associazioni con altre sostanze psicoattive e/o gli alcoolici. Il rischio elevatissimo di complicanze cerebrovascolari è ulteriormente aggravato dalle associazioni con particolari classi di farmaci. L’impiego della cocaina (come cloridrato ma anche come base) viene effettuato prevalentemente per inalazione e più raramente per via endovenosa talvolta in associazione con l’eroina. La cocaina è un potente anestetico locale ma anche un eccitante centrale simpaticomimetico attivo sulla muscolatura liscia e sul SNC; l’azione si esplica nel blocco del reuptake delle catecolamine e nella modificazione delle pompe Na+ legate alla funzionalità dei gradienti della membrana presinaptica. La cocaina è un prodotto naturale o di raffinazione, che può essere consumata in varie forme: - foglie di Eritroxilon coca; - pasta di coca, ottenuta macerando le foglie con un alcale (un bicarbonato); - cocaina in polvere, ottenuta salificando con un acido la pasta di coca; - cocaina base, per trasformazione in base del sale cloridrico tipico della forma “polvere”; la caratteristica di avere un punto di vaporizzazione più basso rispetto al cloridrato la rende particolarmente adatta ad essere fumata. La cocaina, come base, è insolubile in acqua e quindi non verrebbe teoricamente assorbita velocemente, ma l’area totale della superficie degli alveoli polmonari fa sì che entro 20 sec. la cocaina entri in circolo raggiungendo il SNC. Le vie di assunzione della cocaina comprendono quella orale, vaginale, sublinguale, rettale, inalatoria nasale, inalatoria attraverso il fumo, parenterale con iniezione sottocutanea, intramuscolare od endovenosa. Il picco di massima concentrazione dopo assunzione per via nasale si verifica dopo 1 ora, mentre l’azione euforizzante si manifesta già dopo 15 min.’; l’assunzione per via orale sposta la curva di assorbimento di circa 1 ora, e spesso genera effetti più intensi; l’assunzione e.v. o per fumo provoca un assorbimento più rapido, circa 5 min.’, con effetti di maggiore intensità. La correlazione fra livelli ematici e quadro clinico è estremamente ambigua in caso di intossicazione acuta, in quanto l’emivita plasmatica corrisponde a circa 50’ (assunzione per via nasale), e ciò spiega come la concentrazione plasmatica possa essere ormai bassa al momento del trattamento medico di urgenza. In generale una concentrazione di 1 ng/ml dopo due o tre ore dall’assunzione indirizza verso l’ipotesi di overdose. La cocaina è estesamente idrolizzata per più del 90% dalle vie metaboliche; la principale è rappresentata dalle colinesterasi ematica ed epatica, che trasformano la cocaina in ecgonina metilestere (inattiva) e in benzoilecgonina (e questa successivamente in ecgonina). Altri importanti metaboliti della cocaina sono l’EMEG (estere metilico dell’ecgonina) e la norcocaina (in tracce). La cocaina, come estere dell’ac. benzoico, è liposolubile e, attraversando facilmente la barriera ematoencefalica, agisce sia sul Sistema Nervoso Centrale che sul Periferico. Attiva il rilascio e inibisce la ricaptazione di trasmettitori a livello dei recettori per la dopamina, la norepinefrina e la serotonina aumentandone contemporaneamente il rilascio presinaptico; nel miocardio blocca i canali per il Na con conseguente iperpolarizzazione. All’azione di blocco consegue disinibizione ed euforia, diminuzione della risposta motoria e dell’ansia ma anche della paura legata al senso critico nella valutazione dei segnali esterni. Ad alte dosi si possono avere quadri allucinatori ed episodi psicotici (microzoopsie), soprattutto in associazione ad altri psicotropi e soprattutto in associazione all’alcool etilico (formazione del metabolita epatotossico cocaetilene). L'azione antidopaminergica comporta disturbi extrapiramidali (pseudoparkinsonismo). Raramente si nota in emergenza la comparsa di stato di delirio. In gravidanza si può determinare un aborto spontaneo, od un’Abruptio Placentae, ma in generale si osserva nascita prematura, accompagnato da ritardo della crescita intrauterina, da anomalie cardiache, osteogenesi imperfetta cranica, malformazioni del tratto genito-urinario. Il quadro clinico degli effetti e dell’intossicazione acuta si possono così riassumere: - infarto (del miocardio, cerebrale, placentare), aritmie cardiache, ipertensione severa transitoria, ictus cerebri; - iperpiressia, convulsioni, rabdomiolisi,delirio, microzoopsie; - depressione per deplezione dopaminergica, iperprolattinemia, iperdiaforesi, ipertermia maligna, midriasi; - deplezione di sali e vitamine; - ischemia splancnica; - vasospasmo renale, vasocostrizione e ipotensione secondaria all’ipovolemia; - turbe del metabolismo glucidico, acidosi ed ipercaliemia; - complicanze oculistiche quali vasculiti retiniche o deficit secondari a vasculiti nell’area ottica corticale o ad occlusione dell’arteria retinica centrale; - allucinazioni tattili o visive, paranoia, delirio, psicosi tossica; - nella fase astinenziale disforia, depressione, e “craving”. Gli effetti cardiovascolari cominciano subito dopo l’uso di cocaina.

Si osserva prima di tutto un effetto effetto cronotropo positivo (tachicardia), inotropo (aumento della forza contrattile) e talora dromotropo (aumento della conducibilità sulle fibre). L'effetto finale è di aumentata resistenza periferica (ipertensione arteriosa) e di stress miocardico. La situazione è aggravata dall'aumentata domanda di ossigeno. La sintomatologia è dose - dipendente anche se per le prime assunzioni gli effetti possono essere severi anche a bassi dosaggi: sono frequenti dolori anginosi, palpitazioni, aritmie e dispnea. Tra le principali aritmie sopraventricolari ricordiamo: bradicardia sinusale, tachicardia sinusale, extrasistolia atriale, tachicardia parossistica sopra-ventricolare (TPSV), flutter/fibrillazione atriale, sindrome di Wolff-Parkinson-White. Per quanto attiene le aritmie ventricolari si annoverano: extrasistolia ventricolare (battiti ventricolari prematuri), tachicardia ventricolare (TV), fibrillazione ventricolare (FV). L’infarto del miocardio acuto (IMA) può essere una complicanza della contemporanea assunzione di metamfetamina. La causa non è chiara ma si pensa ad una iperstimolazione simpatica con vasospasmo coronarico ed abnorme aggregazione piastrinica. Registrati anche casi di aneurisma dissecante dell'aorta. La cocaina ha effetti chinidinosimili con tossicità sui miociti e può causare un ritardo della conduzione intraventricolare evidenziato dall'allungamento del QT all’ECG. Alte dosi possono causare un blocco dei canali Na rapidi a livello miocardio con allungamento della fase refrattaria e secondaria risposta inotropo - negativa, bradicardia e ipotensione a causa della diminuzione dell’inotropismo e le concomitanti turbe del ritmo. Tale processo può condurre all'asistolia. L'endotelio coronarico riduce la produzione dei fattori di rilassamento (E.D.R.F. Endothelium-Derived Relaxing Factors), prostacicline e antiaggreganti piastrinici. Sono comuni le miocarditi e le cardiomiopatie dilatative a causa dell’effetto inotropo. Inoltre i cocainomani sono maggiormente soggetti a danni dell’endotelio vascolare con precoci lesioni aterosclerotiche. Diagnosi differenziale dell’intossicazione da cocaina Un notevole numero di patologie acute e croniche, oltre a svariate sostanze d’uso terapeutico, possono simulare un’intossicazione acuta da cocaina. Il quadro di intossicazione acuta da cocaina può presentarsi simile a quello indotto da un sovradosaggio di Litio, antidepressivi triciclici, da una sindrome neurolettica maligna, da alterazioni endocrine a livello tiroideo. In caso di stati allucinatori occorre escludere: i disordini psicotici, la schizofrenia, la depressione maggiore, la mania, l’intossicazione da alcool, lo stress psicofisico, l’iperpiressia in corso di flogosi infettiva, la disidratazione, i disordini del visus ecc. Per quanto attiene le convulsioni: la meningite, l’encefalite, i traumi cerebrali, l’ictus, l’ipoglicemia, l’astinenza alcolica, lo stato di male epilettico. Gravi aritmie possono essere provocate anche da: antidepressivi triciclici, alpha-methyldopa, reserpina, fenotiazine, difenidrammina, propanololo, propossifene, amiodarone, propafenone ecc. La cardiomiopatia dilatativa può essere dovuta al trattamento cronico con: antineoplastici (antracicline), clozapina, litio, clorpromazina, flufenazina, aloperidolo, risperidone ecc. Sostanze ad uso terapeutico che possono provocare infarti del miocardio ed ictus: antinfiammatori non steroidei (COX2 inibitori), antidiabetici , fenfluramina, dexfenfluramina, fentermina, anabolizzanti steroidei, alcool etilico, nicotina, amfetamine e correlate. Nell’intossicazione acuta da cocaina l’emivita relativamente breve della sostanza (45 min.') induce la rapida cessazione degli effetti soggettivi e, permanendo una notevole concentrazione plasmatici di cocaina, aumenta il rischio di nuova assunzione e del conseguente pericoloso sovradosaggio.

Trattamento dell’intossicazione acuta da cocaina Il protocollo di trattamento dell’intossicazione acuta prevede, schematicamente e indicativamente: - valutazione ed eventuale sostegno dell’attività respiratoria (in caso di depressione respiratoria valutare la possibilità di una contemporanea assunzione di oppiacei, per la quale è indispensabile usare l’antagonista Naloxone, vedi oppiacei); - controllo dell’equilibrio acido-base; - monitoraggio ed eventuale trattamento specifico cardiologico; - controllo di un’eventuale ipoglicemia; - richiesta di un esame tossicologico (possibilmente con conferma analitica e non indiretta immunoenzimatica EMIT o RIA); - accertamento sull’eventuale terapia farmacologia seguita dal paziente;

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esclusione d’eventuali poliassunzioni (es. alcool, stupefacenti, ecc); esclusione di un eventuale stato di gravidanza; in caso di dolore toracico è indispensabile il dosaggio di LDH, AST, ALT, CK, CK-MB, Mioglobina, Troponina, tempo di protrombina e del tempo parziale di attivazione delle piastrine aPTT, CFS. La down-regulation dei recettori adrenergici alla quale vanno incontro i consumatori cronici di cocaina provoca una deplezione delle riserve di catecolamine, rendendo difficile la comprensione del quadro clinico al momento dell’ammissione in Pronto Soccorso. In caso d’insorgenza di aritmie (ad esempio bigeminismo extrasistolico o TV) è indicata la somministrazione di fenitoina o difenilidantoina (100 mg e.v. ogni 5 min.’ fino a scomparsa dell’aritmia; il dosaggio massimo è 1 grammo al fine di evitare collaterali come atassia, diplopia e vertigini). Per gli stati convulsivi sono efficaci le benzodiazepine come il diazepam od il clonazepam, da somministrarsi lentamente e in per fusione endovenosa; per il trattamento dell’ipertermia è utile la coperta refrigerante, tenendo conto che il raffreddamento deve essere lento: in caso contrario l’effetto vasocostrittivo indotto dalla perfrigerazione impedisce lo scambio di calore a livello della cute. Nell’ipertermia maligna è stata impiegata anche l’emodialisi refrigerata; l’ipertensione arteriosa va trattata principalmente con farmaci vasodilatatori: nitroprussiato o fentolamina (un antagonista dei recettori alfaadrenergici capace di antagonizzare efficacemente gli effetti cardiovascolari della cocaina) che come α-litico agisce più intensamente sul distretto venoso che su quello arterioso, β-bloccanti (labetalolo che agisce sui recettori adrenergici sia α che β); in alternativa si possono anche utilizzare i Ca antagonisti (nifedipina, nimodipina in caso di angiospasmo cerebrale, controllando i valori pressori) però più lenti nell’azione. Indispensabile il controllo della diuresi e quindi della possibile insorgenza di necrosi tubulare acuta (diagnosticabile in prima istanza da un’iperpotassiemia controllabile da diuretici dell’ansa come la furosemide). Il gold standard è il mantenimento di un corretto bilancio idrico evitando discrepanze tali da comportare il rischio di edema polmonare. La cocaina non produce dipendenza fisiologica ma l’azione su alcune aree del nucleo cerebrali provoca una intensità di desiderio potente e di difficile contenimento, che va sotto il nome di “craving”; il “craving” è un fenomeno frequente soprattutto nelle prime fasi successive alla fine dell’effetto euforizzante. Quindi, l’uso della cocaina ha aspetti compulsivi che spiegano il risultante atteggiamento di dipendenza psicologica; tale atteggiamento può sfociare nell’abuso, soprattutto in virtù del fatto che l’intensità degli effetti ottenibili è dose dipendente. La tolleranza acuta si sviluppa rapidamente, aggravando il quadro clinico dell’assuntore: egli, motivato alla ricerca della massima intensità del piacere, non tiene conto dei rischi connessi alla rilevante quantità di cocaina in circolo e dei suoi effetti sul sistema cardio-circolatorio. Ulteriore caratteristica del “craving” da cocaina è la sua irresistibile intensità dopo assunzione per via endovenosa: in questi casi il consumatore è portato ad aumentare a dismisura le quantità fino all’inevitabile sovradosaggio. La dose letale della cocaina si colloca attorno a 1,2 grammi; attualmente è stato abbandonato il suo impiego come anestetico locale. La terapia di divezzamento è sia farmacologica che psichiatrica. I farmaci di maggiore impiego sono i neurolettici, gli antagonisti della dopamina, la tirosina ed il triptofano (come compensazione della deplezione dopaminergica), il metilfenidato, la bromocriptina, l’amantadina (come agonista dopaminico postsinaptico) quest’ultimi efficaci anche contro il “craving”. Per il trattamento dell’ansia e/o della disforia sono indicate le benzodiazepine a lunga emivita associate a tirosina e triptofano per la correzione della deplezione dopaminergica. Buone possibilità sono offerte da alcuni neurolettici atipici (Risperidone, Olanzapina). Le complicanze psichiatriche prevedono l’integrazione dei farmaci con terapie psicologiche, soprattutto nei casi di sindromi allucinatorie e di delirio di persecuzione. Il trattamento è da intendersi di lunga durata, da proseguirsi anche dopo la fase acuta; per le profonde modificazioni intervenute a livello delle funzioni di controllo, delle motivazioni, della memoria, del comportamento sociale e di quello finalizzato, della relazione interpersonale. Particolarità sull’utilizzo di farmaci in corso d’intossicazione da cocaina - Adrenalina: è il farmaco d’elezione per il trattamento dell’arresto cardiaco. La cocaina antagonizza l’assorbimento dell’Adrenalina: evitare comunque una somministrazione incongrua (alte dosi). In assenza di linee guida universalmente validate ed accettate, occorre mettere in atto le usuali manovre rianimatorie utilizzando l’algoritmo ALS (Adrenalina 1 mg e.v. ogni 3 min.’). - Noradrenalina: può essere utilizzata in infusione parenterale per il trattamento dell’ipotensione. - Lidocaina: può essere utile nel trattamento delle aritmie in alternativa all’Amiodarone. In caso d’intossicazione da cocaina può risultare sovradosata in funzione della sua presenza nella dose assunta dal paziente: viene, infatti, frequentemente utilizzata come adulterante (“taglio”), potenziando gli effetti convulsivanti e le anomalie di conduzione (allungamento di QRS, PR e QT). - Bicarbonato di sodio: da utilizzare quando il blocco dei canali Na genera un QRS superiore ai 100 ms. Il pH sierico va mantenuto fra 7.50 e 7.55. E’ utile per alcalinizzare le urine in caso di rabdomiolisi. La mioglobina a pH acido è una tossina mentre l’ac. urico tende a cristallizzare. Occorre tener presente, però, che i metaboliti della cocaina vengono più

facilmente escreti a pH acido, pertanto è necessario mantenere un bilancio acido/base adeguato alle condizioni del paziente. - Betabloccanti: evitare, se possibile, la forma non selettiva in caso d’ischemia miocardia. Il Propanololo (Inderal – Astrazeneca) come antiipertensivo funziona deprimendo la pompa cardiaca piuttosto che liberando dalla resistenza vasocostrittiva vascolare. Dato che non è rara l’ipotensione già indotta dalla cocaina si può avere un effetto sinergico. Qualora disponibile è preferibile l’uso del selettivo Desmololo (non in commercio in Italia) per la rapidità d’azione e la breve durata (T/2 pari a 9 min.’). Il Nitroprussiato può essere utilizzato in sinergia con altri farmaci ma solo in caso di ipertensione severa o con complicanza di dissecazione aortica. Come terza scelta si può impiegare il Labetalolo (Ipolab – Benedetti, Trandate – Teofarma), un α-β bloccante misto (rispettivamente 1:7 in potenza). Nell’animale da esperimento può indurre stati epilettici. - Ca antagonisti: la cocaina agisce sul rilascio citosolico di Ca che dilata i tempi di depolarizzazione fino alla fibrillazione ventricolare. Ciò ha suggerito l’uso di Ca antagonisti, che risultano però più lenti e comunque pericolosamente dotati di effetto inotropo, per cui non sono raccomandati. - Benzodiazepine: l’ipertono simpatico indotto dalla stimolazione centrale della cocaina va trattato attentamente dosando la somministrazione di benzodiazepine sui risultati attesi. Si può presentare un’extrasistolia ventricolare, di solito transitoria. E’ importante assicurare una buona ossigenazione ed un monitoraggio continuo. In caso di tachicardia emodinamicamente significativa non usare la cardioversione sincronizzata perchè la tachicardia potrebbe diventare ricorrente o refrattaria. Le benziodiazepine sono utili anche per il trattamento dell’ipertensione e delle distonie. Dato che la cocaina è un GABA antagonista l’uso di Flumazenil ne potenzia l’effetto causando anche crisi epilettiche. - Difenidrammina (non commercializzata in Italia): è un anticolinergico, e pensando al fatto che dopamina e acetilcolina hanno funzioni opposte nel sistema nigrostriatale verrebbe da pensare di usare difenidrammina in caso di reazioni distoniche in casi di intossicazione acuta da cocaina. - Neurolettici butirrofenonici: Aloperidolo (farmaco generico) per il trattamento dell’ipertermia e dell’agitazione motoria, anche se non tutti concordano, come concordano invece per l’esclusione delle fenotiazine. ALLUCINOGENI E DA DERIVATI DELLA CANAPA INDIANA Gli allucinogeni sono sostanze di origine naturale, semisintetica o del tutto sintetica, caratterizzate dalla proprietà di indurre una distorsione degli elementi della realtà e della loro percezione, estesi a tutta la sfera spaziale e temporale differenziandosi, quindi, nettamente dalle restanti sostanze stupefacenti per questa peculiare caratteristica. Gli allucinogeni agiscono tutti a livello del SNC, con effetti legati anche alle condizioni psichiche dell’assuntore, nel senso che a differenza di altri stupefacenti, gli allucinogeni possono avere azione del tutto differente o addirittura contraria se l’assuntore non gode di un perfetto equilibrio psichico.

Alcaloidi a struttura indolica: - Dietilamide dell’ac.Llisergico (LSD); - Psilocina; - Psilocibina. Piperidine: - Atropina; - Fenciclidina (PCP); - Ketamina. Feniletilammine: - Mescalina; - 3,4-metilendiossimetamfetamina (MDMA); - 3,5-dimetossi-4-metillamfetamina (STP); - 2,5-dimetossi-4-metillamfetamina (DOM). Cannabinoidi: - 9-tetrahydrocannabinolo (THC). Gli allucinogeni presentano la caratteristica di indurre uno stato «psichedelico» ovvero allucinatorio che può, soprattutto per l’LSD, riprodursi a distanza di tempo dall’ultima assunzione. Molte sostanze di origine naturale sono a tutt’oggi poco note e, quindi, non rientrano negli elenchi ufficiali delle sostanze stupefacenti. E’ difficile, inoltre, operare una classificazione, stante l’estrema diversità non solo delle strutture molecolari delle sostanze ad azione allucinogena, ma anche della dose necessaria a provocare l’effetto farmacologico. Il termine psichedelico indicava in origine “il liberato dalla psiche” ma l’affioramento dei contenuti inconsci non può essere trattato solo sul piano della semplice individualità. A questo punto occorre anche ricordare come gli stati allucinatori e di illusione comprendono la distorsione di elementi oggettivi di fatto, mentre l’allucinazione vera e propria rappresenta alla coscienza dei fatti che non esistono oggettivamente in un certo contesto di spazio e di tempo. Per delirio si intende invece un errore indotto da molecole attive sul SNC nella valutazione degli elementi oggettivi di un quadro reale rappresentato normalmente alla coscienza. Sul mercato clandestino sono presenti molti derivati per analogia di struttura dalla mescalina (feniletilaminici); essi hanno un’azione simpaticomimetica - anfetamino simile ed un effetto allucinogeno di una certa intensità. Vengono denominati sotto il termine generico di Exctasy. L’analogia strutturale si basa sulla presenza sul nucleo benzenico di almeno un gruppo metossilico, o di un gruppo 3-4 metilendiossilico. Alcuni allucinogeni esplicano un’azione anticolinergica centrale bloccando i recettori muscarinici. Effetti simili possono comparire in caso di sovradosaggio di antiparkinsoniani, antidepressivi triciclici, antispastici. Gli effetti fisiologici sono quelli di iperattività del simpatico con midriasi, tachicardia, modica ipertensione, tremori e stato di allarme. Effetti da assunzione da questi stupefacenti: agitazione, tremori, midriasi, tachicardia, ipertensione, allucinazioni, flashbacks, modificazione della percezione temporo-spaziale, reazione acuta di panico. Nell’Over-dose: episodio psicotico acuto e sindrome da “mancato ritorno”. Caratteristica di questa intossicazione è la possibile insorgenza di flash-backs (viaggi), che possono manifestarsi anche molto tempo (fino a mesi) dall’ultima assunzione.

Nel caso di assunzione di dosi elevate di cannabinoli possono presentarsi: euforia, tachicardia, aumento dell’appetito, ridotta salivazione, irritazione delle prime vie aeree. Ad alte dosi si presentano: stanchezza, diminuzione dell’attenzione e della memoria di fissazione, alterato rapporto di realtà, sindrome amotivazionale, aumento della glicemia.

Trattamento È uguale a quello per intossicazione da anfetamine e cocaina, nel caso di sindrome amotivazionale è necessario l’intervento psichiatrico. Per i cannabinoli può essere sufficiente talora rassicurare il paziente e tenerlo sotto controllo per qualche ora, somministrando benzodiazepine. Se persiste la sintomatologia il caso è di pertinenza psichiatrica.

BENZODIAZEPINE

Le intossicazioni da benzodiazepine vengono trattate in questo capitolo a causa della frequenza con la quale queste sostanze sono coinvolte in stati d’intossicazione mista: infatti, è estremamente diffuso il loro utilizzo tra i tossicodipendenti al fine di minimizzare gli effetti dell’astinenza da oppiacei. Le benzodiazepine (BDZ) sono farmaci ampiamente utilizzati nella pratica clinica grazie ai molteplici effetti farmacologici (ipnotico, ansiolitico, miorilassante, anticonvulsivante) ed a un favorevole indice terapeutico. Alcune BDZ vengono estesamente impiegate anche in campo anestesiologico ed in terapia intensiva. A causa della loro grande diffusione, le BDZ risultano oggi tra le sostanze più frequentemente coinvolte nelle intossicazioni, sia accidentali che a scopo autolesivo. Diverse molecole sono state utilizzate nel passato come antidoti nel sovradosaggio da BDZ, ma dopo l’introduzione nella pratica clinica dell’antagonista recettoriale specifico Flumazenil (Anexate, dal 1989 disponibile anche in Italia) tali farmaci hanno conservato solo un interesse storico. Il Flumazenil è oggi l’antagonista di scelta delle BDZ e le sue indicazioni cliniche comprendono il trattamento del sovradosaggio e la neutralizzazione degli effetti prolungati od indesiderati di questi farmaci. Le BDZ si caratterizzano chimicamente per la presenza di un anello benzenico condensato con un anello diazepinico; la presenza di un radicale arilico in posizione 5, configura il gruppo delle 5-aril-1,4-benzodiazepine. L'inserimento di un anello imidazolico in posizione 1,2 dà origine alle imidazo-BDZ, fra le quali figurano il midazolam e il Flumazenil. L'azione farmacologica delle BDZ si realizza attraverso il legame con specifici siti recettoriali. Nel sistema nervoso centrale, a livello della membrana post-sinaptica, i recettori per le BDZ formano un complesso recettoriale con un tipo di recettore per l’acido g-aminobutirrico: il legame al sito recettoriale determina l'apertura di un canale che provoca la penetrazione nella cellula di ioni cloro con conseguente iperpolarizzazione della membrana neuronale, che diviene meno eccitabile. Gli antagonisti (Flumazenil) si oppongono al legame delle BDZ; essi sono quindi privi di effetto specifico sul recettore. Il sovradosaggio da BDZ nell’età adulta risulta sovente poli-farmacologico. In Francia, le benzodiazepine sono presenti nel 60% dei casi di intossicazione volontaria da farmaci. Le BDZ a breve emivita, in grado di provocare intensa amnesia dei fatti recenti, vengono talvolta utilizzate con intento criminoso (sottomissione farmacologica). Le benzodiazepine sono farmaci di pericolosità relativamente limitata: nelle intossicazioni pure non vi è correlazione tra dose assunta e grado di insufficienza cerebrale e i casi di morte accertata da sovradosaggio di sole BDZ sono rarissimi nonostante l’elevata frequenza di queste intossicazioni. Quadri clinici particolarmente gravi, anche letali, sono invece possibili per associazione di alte dosi di BDZ con altre sostanze o farmaci neurodepressori. L’intossicazione da BDZ può comportare complicanze pericolose ove esistano particolari fattori di rischio. Nei pazienti con patologie cardiorespiratorie di base possono verificarsi ipotensione, depressione cardiorespiratoria e apnea per effetto centrale di questi farmaci. Per un trattamento ottimale delle overdose da BDZ risulta opportuno somministrare il FMZ con il metodo della titolazione a piccoli boli successivi al fine di limitare la comparsa di effetti avversi. A tal fine il produttore e alcuni autori raccomandano la somministrazione di una dose iniziale per via endovenosa di 0,2 mg in 30 secondi, seguita da una dose di 0,3 mg dopo ulteriori 30 secondi e quindi, nel caso di assenza di risposta, da dosi successive di 0,5 mg a intervalli di un minuto una dall’altra fino ad una dose cumulativa massima di 5 mg, oltre alla quale ulteriori somministrazioni di FMZ non producono effetti rilevanti. Sintomi neurologici: - miosi; - insufficienza cerebrale di media gravità, fino al coma con riflesso vestibolo-oculare conservato; - ipotonia muscolare; - iporeflessia o areflessia osteo-tendinea. Sintomi respiratori: - insufficienza respiratoria secondaria all'ipotonia muscolare (particolarmente nei pazienti defedati). Sintomi cardiocircolatori: - bradicardia; - ipotensione. Il Flumazenil come antidoto. E’ commercializzato con il nome di Anexate in fiale per uso endovenoso da 0,5 e 1 mg (5 e 10 ml, rispettivamente) che possono essere conservate a temperatura ambiente (15-30 °C). La preparazione può essere diluita in soluzione fisiologica, glucosata al 5%, e in ringer lattato. Il Flumazenil (FMZ) si lega al recettore per le BDZ, per il quale ha elevata affinità, spiazzando da questo gli agonisti (BDZ). Tale legame non provoca importanti modificazioni e di conseguenza, a dosi terapeutiche, è sprovvisto di attività farmacologica propria. Il Flumazenil, inoltre, non interferisce con farmaci e sostanze (es. barbiturici, neurolettici) i cui effetti si esplicano attraverso l’interazione con recettori diversi da quelli benzodiazepinici. Dopo iniezione endovenosa nell'adulto, la fase di distribuzione è molto breve (inferiore a 5 minuti). Il farmaco passa velocemente nel SNC concentrandosi nella sostanza grigia prevalentemente a livello della corteccia cerebrale, con una scomparsa dal circolo pari al 90 e il 99% della dose iniettata rispettivamente dopo circa 2 e 4 ore. La comparsa dell’effetto terapeutico dopo somministrazione endovenosa si manifesta entro 1-2 min’. L’antagonismo dell’azione depressiva sul SNC, sulla funzione muscolare e su quella respiratoria causata da BDZ rappresenta la principale

indicazione clinica all’uso del FMZ. Oltre che nei casi di sovradosaggio, l’antidoto si rivela efficace nell'antagonizzare l'effetto delle BDZ assunte in dose terapeutica, qualora sedazione persista per periodi eccessivamente prolungati oppure nel trattamento di effetti paradossi da BDZ (es. agitazione psico-motoria). L’assenza di attività intrinseca, inoltre, rende il FMZ utilizzabile anche nella diagnosi differenziale delle cause di insufficienza cerebrale di origine non nota. Questa indicazione, tuttavia, non è univocamente condivisa in quanto lo spiazzamento delle BDZ potrebbe, in alcuni casi, annullarne l’effetto protettivo nei confronti di possibili fenomeni eccitatori a carico del SNC causati da condizioni misconosciute (concause tossiche o patologiche). Il FMZ viene somministrato nella pratica clinica per via endovenosa, ma può essere somministrato anche per via endotracheale o per via rettale nei bambini. Il metodo di somministrazione più idoneo consiste nel frazionamento della dose in una serie di piccoli boli da somministrare in successione fino al raggiungimento dell’effetto desiderato o della dose massima raccomandata. Come ci si deve attendere in base alle caratteristiche farmacocinetiche, la comparsa dell’effetto del FMZ è rapida ma di breve durata: ciò può determinare, nei casi di sovradosaggio da BDZ, la ricomparsa di un quadro di insufficienza cerebrale nel soggetto trattato con una singola dose dell’antidoto. Per il trattamento di tali pazienti, pertanto, si rende spesso necessaria la somministrazione di ulteriori dosi bolo frazionate o l’infusione endovenosa continua. Il trattamento di una patologia da BDZ con FMZ può portare a rapida risoluzione del quadro clinico di presentazione; ciò non deve tuttavia esimere dall’effettuare l’eventuale trattamento di decontaminazione del tratto gastroenterico, il monitoraggio clinico e gli altri trattamenti di supporto. Il FMZ è stato anche utilizzato nel trattamento della sindrome da astinenza da etanolo sulla base di un ipotetico coinvolgimento di anomalie dei recettori benzodiazepinici o di un'azione di ligandi endogeni con effetto agonista inverso in tale sindrome. Alcuni sintomi della sindrome da astinenza da etanolo (ad es. tremori, sudorazione, nausea, ansia, depressione, irrequietezza, ecc.) possono, infatti, risultare significativamente meno intensi nei pazienti che ricevono FMZ. Diagnosi e trattamento delle intossicazioni miste L'assenza di attività intrinseca, e quindi di effetti farmacologici propri, ha portato ad utilizzare il FMZ come mezzo diagnostico e terapeutico nelle intossicazioni polifarmacologiche. La somministrazione di una singola dose di FMZ risulta un test sensibile, anche se poco specifico, nella diagnosi di intossicazione da BDZ. Tale impiego, tuttavia, può spiazzare le BDZ dai recettori e, in alcuni casi, annullarne l’effetto protettivo nei confronti di possibili fenomeni eccitatori a carico del SNC causati da condizioni misconosciute. Quadri convulsivi, ad esempio, talora associati ad aritmie cardiache, sono stati descritti dopo somministrazione di FMZ nelle intossicazioni miste da BDZ ed Antidepressivi Triciclici, con esito anche letale. In altri studi, tuttavia, il FMZ si è rivelato un efficace presidio diagnostico e terapeutico nei sovradosaggi polifarmacologici. Esso si è rivelato in grado di migliorare lo stato di coscienza ed evitare l’intubazione endotracheale senza causare effetti collaterali di rilievo, anche in caso di assunzione di sostanze con azione eccitatoria sul SNC quali gli Antidepressivi Triciclici e la Carbamazepina. L’uso del FMZ nelle intossicazioni pure e miste, inoltre, riduce di circa il 30-40% l’impiego di procedure diagnostico-terapeutiche invasive e/o costose (ad es. lavanda gastrica, intubazione e ventilazione assistita, cateterismo vescicale, TAC encefalo, ecc.). Nei casi di overdose mista l'impiego del FMZ può costituire un trattamento efficace e sicuro purché la sua somministrazione venga effettuata previa un'attenta ed esperta valutazione del quadro clinico e dei dati circostanziali dell'intossicazione. Controindicazioni, effetti collaterali ed interazioni del FMZ La somministrazione di Flumazenil è controindicata nei pazienti nei pazienti in trattamento con BDZ per il controllo delle convulsioni e dell'aumento della pressione intracranica. Tra gli effetti indesiderati da somministrazione di FMZ, il rischio di convulsioni per spiazzamento delle BDZ dai loro siti di legame è sicuramente il più temuto e accomuna situazioni differenti nelle quali il farmaco deve essere utilizzato con cautela: in particolare nelle le intossicazioni miste con sostanze potenzialmente convulsivanti. Nei pazienti in trattamento cronico con BDZ, nei quali si può instaurare una dipendenza da tali farmaci, il FMZ può precipitare una sindrome da astinenza. La capacità del FMZ di precipitare sindrome d’astinenza può essere limitata se non si supera la dose di 1 mg poiché questa dose lascia liberi circa il 50% dei recettori benzodiazepinici. Il trattamento della sindrome da astinenza richiede una sedazione con BDZ o barbiturici. La sindrome da astinenza da benzodiazepine si caratterizza da un corredo sintomatologico che può essere grossolanamente suddiviso in sintomi di pertinenza psichiatrica e sintomi più prettamente somatici. Sintomi psichici: - delusione; - paranoia; - depersonalizzazione; - depressione; - agorafobia;

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insonnia; ansia; - stato confusionale; - disorientamento temporo-spaziale; - crisi di panico; - allucinazioni; - ideazione delirante; - "craving"; - anoressia. Sintomi somatici: - cefalea; - parestesie; - dolori diffusi; - scosse miocloniche; - tremori; - ipertono muscolare; - atassia; - anomalie visive; - tinniti; - nausea e vomito; - ipertermia; - convulsioni. All’Elettroencefalogramma (EEG) di frequente riscontro sono le anomalie diffuse ed un notevole aumento della fase REM. Varie molecole di sintesi, utilizzate principalmente nella ricerca preclinica, mostrano attività antagonista (reversibile o irreversibile) per il recettore benzodiapenico. Fra queste merita particolare interesse il RO 15-4513, una imidazobenzodiazepina strutturalmente analoga al Flumazenil che è stata ampiamente utilizzata negli studi di affinità al recettore delle BDZ, al quale si lega in modo reversibile. Il RO 15-4513 ha suscitato l'attenzione dei ricercatori dopo la segnalazione che la molecola era in grado di antagonizzare, sperimentalmente, alcuni effetti dell'etanolo. Tali dati fecero supporre il possibile sviluppo di una molecola con effetto specifico di "antagonista dell'alcool etilico". Il RO 15-4513 ha mostrato di possedere un'alta affinità per il recettore, e di essere in grado di antagonizzare gli effetti depressori delle BDZ e, in parte, anche di barbiturici ed etanolo. Esso tuttavia non protegge dagli effetti letali dell'etanolo negli animali di laboratorio e quindi non sembra poter essere di beneficio nel caso di intossicazioni acute con dosaggi potenzialmente letali. Oltre a ciò, non appare etico rendere disponibile un farmaco in grado di antagonizzare gli effetti comportamentali dell'etanolo inducendo una sensazione di sobrietà in soggetti intossicati. ANTIDEPRESSIVI TRICICLICI Un accenno alle intossicazioni da Antidepressivi Triciclici (ADT) appare, a questo punto, quantomeno doveroso. Infatti, questo tipo d’intossicazione (accidentale o volontaria) è al primo posto come causa di morte da overdose nei pazienti che giungono vivi all’osservazione dei Sanitari dei Dipartimenti di Emergenza - Urgenza. Gli ADT sono composti assai efficaci nel trattamento delle sindromi depressive. Vengono inoltre largamente impiegati nella terapia del disturbo ossessivo - compulsivo, delle crisi di panico e dei disturbi dell’alimentazione (anoressia e bulimia). La somministrazione può essere effettuata sia per via orale che endovenosa. L'effetto antidepressivo di questi farmaci non si manifesta prima di 15-20 giorni; un miglioramento clinico nei primi giorni di terapia è da ritenersi conseguente ad un effetto placebo o alla sedazione dell'ansia. Non tutti i farmaci del gruppo, tuttavia, hanno la stessa azione ansiolitica: questa è notevole per l'Amitriptilina (Adepril – Teofarma, Laroxyl – Roche, Triptizol – Sit Laboratorio Farmaceutico), discreta per la Clomipramina (Anafranil – Novartis Farma), scarsa per l'Imipramina (Tofranil – MDM) e la Nortriptilina (Noritren – Lundbeck Italia). Alcuni antidepressivi triciclici, quali l'Imipramina, la Desipramina (Nortimil – Chiesi Farmaceutici) e la Nortriptilina, esplicano la loro attività farmacologica agendo prevalentemente sul sistema noradrenergico; altri, tra i quali la Clomipramina e l’Amitriptilina agiscono principalmente sul sistema serotoninergico. Gli ADT, per poter esplicare la loro azione, devono essere somministrati a dosaggi efficaci. Il dosaggio terapeutico deve essere mantenuto per un periodo variabile (2-8 mesi) dopo la remissione della sintomatologia. Dopo che la remissione sintomatologia è stata ottenuta, le dosi potranno essere gradualmente ridotte. Gli effetti indesiderati sono legati prevalentemente all'attività anticolinergica (atropino-simile) propria di questi farmaci. Ricordiamo: - ritenzione urinaria, anche in assenza d' ipertrofia prostatica;

- secchezza delle fauci; - lievi turbe del visus, in particolare dell'accomodazione; - stipsi; - tachicardia; - ipotensione ortostatica; - fini tremori degli arti superiori; - iperdiaforesi e rush; - difficoltà di concentrazione; - ritardo dell'eiaculazione a bassi dosaggi, impotenza coeundi e calo della libido ad alte dosi. Le controindicazioni assolute all'uso degli ADT sono le stesse di tutti gli altri farmaci ad azione anticolinergica: - cardiopatie con particolare attenzione per le turbe del ritmo; - glaucoma ad angolo chiuso; - ipertrofia prostatica. Gli ADT non causano né dipendenza né assuefazione e sebbene provochino raramente effetti collaterali cardiovascolari (in dosi terapeutiche) causano un numero impressionante di morti da overdose. Gli effetti collaterali tossici degli antidepressivi triciclici sono dovuti all'azione combinata delle loro quattro principali proprietà farmacologiche: - inducono la liberazione di catecolamine e poi ne bloccano la ricaptazione; - hanno azione anticolinergica centrale e periferica; - hanno effetto stabilizzante di membrana chinidino-simile; - hanno un’azione alfa-bloccante diretta. I segni di allarme della tossicità da triciclici comprendono: - alterazioni dello stato mentale; - tachicardia (specialmente in associazione a un asse QRS deviato a destra); - prolungamento dell'intervallo QT; - effetti anticolinergici quali delirio, midriasi e atonia gastrica. Il coma, le crisi comiziali, l'allargamento del QRS e le aritmie ventricolari sono segni infausti e richiedono il trattamento deciso ed immediato. La maggior parte dei pazienti manifesta i segni di tossicità entro due ore dall'ingestione mentre i soggetti che restano asintomatici dopo sei ore di monitoraggio continuo possono essere considerati fuori pericolo. Trattamento Oltre all’usuale terapia di supporto, l'alcanizzazione, ottenuta con l’iperventilazione o con l’infusione endovenosa di bicarbonato di sodio, è il cardine della terapia nel trattamento dei pazienti in overdose da ADT. Nei pazienti con un prolungamento del QRS maggiore di 100 ms, con aritmie ventricolari o con ipotensione che non risponde ad un bolo endovenoso di soluzione fisiologica di 500 - 1000 ml, il pH del siero dovrebbe essere portato a 7,5-7,55. Nei pazienti particolarmente instabili il pH dovrebbe essere rapidamente elevato a 7,45 - 7,55 con 1 mEq / Kg di bicarbonato di sodio somministrato in 1-2 minuti. Il monitoraggio dell’emogasanalisi (EGA) è fondamentale per confermare l'aumento del pH. Il paziente può considerarsi stabilizzato quando il QRS ritorni ad avere una durata inferiore a 100 ms con una normalizzazione del ritmo e della pressione arteriosa. Il pH ematico deve essere mantenuto attorno a 7,45-7,55 e monitorato con valutazioni EGA seriate. I pazienti in preda a crisi comiziali assieme a quelli in arresto respiratorio dovrebbero essere precocemente iperventilati fino a raggiungere un pH ematico di 7,5-7,55. L'arresto cardiaco da overdose di ADT è dovuto, di norma, ad un’azione diretta sul miocardio che conduce ad una fibrillazione ventricolare (FV: ritmo suscettibile di trattamento elettrico) o, in casi d’estrema gravità, alla dissociazione elettro-meccanica (PEA: ritmo non defibrillabile). In assenza di linee guida universalmente accettate il protocollo per il trattamento della FV da overdose di ADT segue l’algoritmo ALS standard. Peraltro, in caso di certezza di FV secondaria ad intossicazione da ADT, alcuni autori hanno proposto un algoritmo di trattamento lievemente modificato. Tale schema comporta: - iniziale defibrillazione con livelli di energia crescenti come da algoritmo ALS; - se inefficace procedere all’intubazione, ossigenazione (100 %), somministrazione e.v. di 1 mg di adrenalina e successiva defibrillazione immediata a 360 J; - alcalinizzazione rapida con bicarbonato di sodio 1mEq/kg e.v. in infusione veloce. Qualora il bicarbonato non sia prontamente disponibile, un’adeguata alcalinizzazione può essere ottenuta attraverso l’iperventilazione del paziente con O2 al 100 % (con maschera dotata di reservoir o meglio con l’intubazione oro-tracheale e la ventilazione con pallone autoespandibile collegato ad una fonte di O2).

ASPETTI MEDICO LEGALI DEL SOCCORSO Il Pronto Soccorso è un insieme di attività sanitarie complesse (es. defibrillazione, intubazione, somministrazione di farmaci ecc.) che hanno come obiettivo il trattamento di emergenza di uno stato patologico insorto improvvisamente. Generalmente tali manovre sono di pertinenza sanitaria. Con il termine Primo Soccorso si intendono le manovre di assistenza di base (es. chiamata al 118, massaggio cardiaco, respirazione bocca a bocca ecc.) finalizzate al miglioramento delle condizioni cliniche della persona colta da malore e alla prevenzione delle complicanze; non vengono utilizzati farmaci o dispositivi medici. Il soccorso è un obbligo: morale, deontologico e medico-legale. Omissione di soccorso Art. 593 del Codice Penale (CP). Commette tale reato "Chiunque trovando [ ... ] un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l'assistenza occorrente o di darne avviso alla autorità." Sanzioni penali sono: Reclusione fino a 1 anno o multa fino a 2500 euro. Se dall'omissione del soccorso ne deriva una lesione personale la pena è aumentata. In caso di morte la pena è raddoppiata. Art. 54 CP (Stato di necessità). "Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. Questa disposizione non si attua a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo." L'unica eccezione all'obbligo del soccorso è costituita dalle cause di forza maggiore, cioè avvenimenti esterni naturali, inevitabili ed irresistibili, quali grave malattia del soccorritore, ostacoli fisici al raggiungimento della persona da soccorrere, soccorso in condizioni di reale e consistente pericolo (incendi, esalazione di gas tossici, presenza di cavi di corrente elettrica scoperti, ecc.) Se sussistono tali circostanze, il soccorritore volontario non sanitario può astenersi dal prestare il soccorso se la situazione può mettere a repentaglio la propria vita o sicurezza. Al contrario, il soccorritore sanitario, avendo "un particolare dovere giuridico ad esporsi al pericolo" anche al di fuori della propria attività lavorativa, non può esimersi dal soccorso. L'omissione di soccorso non è assolutamente giustificata dalla mancanza di specializzazione inerente la patologia della persona da soccorrere o dall'essere sprovvisto dell'attrezzatura adatta. Art.7 del Codice Deontologico. "Il medico indipendentemente dalla sua abituale attività non può mai rifiutarsi di prestare soccorso o cure d'urgenza e deve tempestivamente attivarsi per assicurare ogni specifica e adeguata assistenza" Omissione della respirazione bocca a bocca La riluttanza del soccorritore ed il timore di contrarre malattie sono le principali cause di tale omissione. La bassa probabilità di contrarre malattie, la conoscenza della letteratura in merito, l'obbligo legale e deontologico impongono al medico l'attuazione di tutte le manovre che possono contribuire a migliorare la prognosi della vittima. Conseguenze traumatiche del soccorso Nel caso dell'Arresto Cardiaco, la proporzionalità tra fatto e pericolo è rappresentata dalle possibili complicazioni della RCP (es. fratture costali) rispetto al reale pericolo della progressione da morte clinica a biologica. In questo caso, quindi lo stato di necessità trasforma il fatto "aver fratturato le coste" da reato a non reato (art. 54 CP). Quando interrompere la RCP Il soccorritore volontario non medico, espletato l'obbligo di denuncia all'autorità (118), qualora sia in grado, deve iniziare le elementari manovre di primo soccorso e continuarle fino all'esaurimento fisico o fino all'arrivo dei soccorsi sanitari, non avendo le competenze necessarie per constatare o certificare il decesso. Per quanto riguarda il medico, le indicazioni della letteratura scientifica non indicano un tempo minimo di RCP, in quanto troppe sono le variabili che possono condizionare l'esito: ad esempio la temperatura ambientale, il ritmo presente all'esordio dell'arresto o la determinazione sicura del tempo intercorso fra la comparsa dell'arresto e l'inizio della RCP possono influenzare, anche sostanzialmente, l’efficacia e la durata delle manovre rianimatorie.

La defibrillazione elettrica La defibrillazione manuale è un atto medico non delegabile in quanto necessita di peculiari conoscenze di pertinenza esclusivamente medica. Al contrario la defibrillazione cardiaca semiautomatica, in quanto il dispositivo si sostituisce all'operatore nella diagnosi del ritmo cardiaco, è attuabile anche dagli infermieri e dal personale laico, se adeguatamente addestrato. Legge 120 del 2 aprile 2001: uso del Defibrillatore Cardiaco Semiautomatico in ambiente extraospedaliero. Art. 1 – E’ consentito l'uso del Defibrillatore semiautomatico in sede extraospedaliera anche al personale sanitario non medico, nonché al personale non sanitario che abbia ricevuto una formazione specifica nelle attività di rianimazione cardiopolmonare. Art. 2 - Le regioni e le province autonome disciplinano il rilascio da parte delle ASL e delle AO dell'autorizzazione all'utilizzo extraospedaliero dei Defibrillatori da parte del personale di cui al comma 1, nell'ambito del sistema 118 competente per territorio o laddove non ancora attivato, sotto la responsabilità della ASL o AO sulla base dei criteri indicati dalle linee guida adottate dal Ministro della Sanità, con proprio decreto, entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della legge. La Legge 69 del 15 marzo 2004 modifica il comma 1 dell'Art. 1 della legge 120, estendendo l'uso del DAE alla sede intraospedaliera. La Gazzetta Uff. n°71 del 26/3/2003, riporta l'accordo fra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano, inerenti le linee guida per il rilascio dell'autorizzazione all'utilizzo extraospedaliero dei defibrillatori semiautomatici. Il testo riporta: "… l'operatore che somministra lo shock elettrico con il defibrillatore semiautomatico è responsabile non della corretta indicazione alla defibrillazione, che è decisa dall’apparecchio, ma della esecuzione di questa manovra in condizioni di sicurezza …" Addestramento BLS-D L'autorizzazione all'uso del DAE, richiesta sia per gli infermieri che per i laici, deve essere rilasciata dalle ASL, dalle Aziende Ospedaliere, dalle IRCCS, dalle sedi di U.O. di Cardiologia, Rianimazione o Medicina d'Urgenza e dalle Centrali 118; gli istituti sopra elencati possono a loro volta demandare la formazione ad Enti o Associazioni pubbliche o private. L'autorizzazione deve essere rinnovata ogni 12 mesi. Presso le Centrali Operative del 118 deve essere istituito un registro che riporti i dati identificativi e la localizzazione dei DAE presenti sul territorio, nonché l'elenco delle persone autorizzate all'uso.

Musica e SNC

L’uomo dimostra profondo interesse per la musica, con sfumature diverse, in tutte le culture conosciute. Un interesse antico che vede le sue origini nascere insieme all’uomo. Più di 30.000 anni

fa abbiamo testimonianze di uomini capaci di suonare il flauto, strumenti a percussione, l’arpa, indicando che il nostro apprezzamento per la musica sembrerebbe essere innato. I neonati a soli due mesi di vita sono attratti da suoni armonici e piacevoli e tendono invece a dimostrare fastidio ed ad allontanarsi da fonti sonore dissonanti e fastidiose. E quando un passaggio di una sinfonia ci emoziona al punto di regalarci piacevoli brividi, si accendono nel cervello le stesse aree attive quando mangiamo cioccolato, durante il sesso o l’assunzione di cocaina. Se la musica ha un ruolo potenzialmente così importante e dominante per l’uomo, è lecito cercare di rispondere al quesito biologico: perché? Dobbiamo pensare che nel corso dell’evoluzione in qualche modo abbia potuto aumentare le nostre capacità di sopravvivenza funzionando come strumento di corteggiamento?

Oppure in origine ha avuto un ruolo nel promuovere forme di

coesione sociale e nell’attirare l’attenzione e l’interesse dei nostri simili così come accade nel mondo animale per gli uccelli? Oppure ha ragione chi sostiene che la musica si può inquadrare come una sorta di accidente evolutivo capace di solleticare la fantasia del nostro cervello in modo del tutto fortuito? E’ il caso di ricordare fin da subito che nonostante l’argomento abbia attirato l’interesse e ispirato la ricerca in campo neurofisiologico da più di un secolo, ancora oggi non disponiamo di risposte definitive. Ciò che importa a noi sottolineare è invece che nell’ultima decade il nostro campo di ricerca è divenuto oggetto di studi intensi e sistematici, trattazioni e pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali al punto che oggi a chiunque intraprenda uno studio del fenomeno musicale, si aprono infinite possibilità e indirizzi di ricerca. A giustificare tale crescente intereresse, ricordo come la musica offra esclusive opportunità di studio multidisciplinare:

in campo neurofisiologico, ad esempio, per meglio comprendere

l’organizzazione funzionale del nostro cervello. Cercare di spiegare come mai solo una minoranza di individui manifesti doti musicali e attitudine a diventare musicista seguendo un idoneo percorso formativo, conferisce al nostro campo di ricerca un ruolo privilegiato nell’indagare le potenzialità e i meccanismi della plasticità cerebrale. Ancora, anormalità cerebrali funzionali o strutturali, congenite o acquisite, possono aiutare a capire a quale livello e attraverso quali processi il fenomeno musicale venga elaborato contribuendo a gettare nuova luce sui networks funzionali cerebrali dedicati al trattamento del messaggio musicale, separandoli da quelli coinvolti in altre funzioni correlate, come quella uditiva, ed in particolare il linguaggio.

Figura 1

Questi flauti sono i primi strumenti musicali di cui abbiamo testimonianza certa.

Datano 32000 anni

NEUROANATOMIA

Negli ultimi anni abbiamo cominciato a comprendere meglio “dove” e “come” la musica viene elaborata nel nostro cervello. Analizzati complessivamente, studi su pazienti con danni cerebrali localizzati e studi di diagnostica per immagini su pazienti sani, non hanno potuto dimostrare un unico centro nel nostro cervello specializzato per la musica. In realtà lo stimolo musicale e la sua elaborazione attivano numerosi networks distribuiti in diverse aree, alcune conosciute per essere coinvolte anche in altre funzioni di tipo cognitivo. Interessante è notare come le aree che si attivano cambino da soggetto a soggetto a seconda di diverse variabili tra cui l’atteggiamento individuale nei confronti della musica e l’approccio professionale alla stessa. Fino all’avvento delle moderne tecniche di diagnostica per immagini oggetto di studi erano principalmente individui colpiti da deficit cerebrali di varia eziologia, come infarti cerebrali o eventi di natura traumatica. Anche famosi musicisti divennero oggetto di interesse e di studio, come il compositore francese Maurice Ravel che nel 1933 cominciò a manifestare i sintomi di una probabile degenerazione cerebrale focale. Egli mantenne intatte le proprie capacità intellettuali, tanto che, riascoltandole, poteva riconoscere le proprie composizioni, così come suonare correttamente una scala con uno strumento musicale. Eppure non fu più capace di comporre musica. Con Ravel moriva il credo quasi unanime dei neurofisiologi del tempo che cercavano e credevano in un unico centro cerebrale per la musica. L’esperienza di un altro musicista sembrava di lì a poco confermarlo. Un compositore russo, Vissarion Shebalin, dopo esser stato colpito da infarto cerebrale, perse completamente la facoltà di parlare e comprendere il linguaggio, mentre mantenne intatta la capacità di comporre musica fino alla sua morte. Lavori più recenti pur dovendo tener conto dei fatti appena riportati, lasciano intendere che musica e linguaggio, entrambi strumenti di comunicazione, ciascuno con le proprie regole sintattiche

che governano un corretto e interpretabile susseguirsi di informazioni (le note e le parole), sono in realtà maggiormente correlati a livello di elaborazione cerebrale di quanto si ritenesse in passato. In più ci si è presto resi conto che lo studio della natura di tale correlazione può rivelare interessanti aspetti sull’architettura funzionale di entrambi i domini e contribuire a definire meglio le attuali conoscenze sul ruolo giocato dalle diverse aree cerebrali deputate all’elaborazione delle sequenze sonore complesse. A. Patel ha recentemente affrontato questa sfida cercando di appianare una contraddizione emersa da diversi lavori rivolti allo studio della sintassi nella musica e nel linguaggio, dai quali emergono dati che suggeriscono una significativa sovrapposizione (neuroimaging) ed altri che indicano invece una sostanziale dissociazione (neuropsicologia). Secondo Patel la sintassi linguistica e musicale condividono alcuni processi elaborativi iniziali (che originano in aree cerebrali frontali comuni) i quali vengono successivamente proiettati sotto forma di rappresentazioni sintattiche in diverse aree cerebrali posteriori. Dunque l’elaborazione di messaggi armonici musicali attiverebbe aree del linguaggio anteriori, da considerarsi come aree deputate all’elaborazione comune di messaggi sintattici di non importa quale natura, comuni quindi alla musica e al linguaggio, a loro volta attivatrici di rappresentazioni specifiche in aree posteriori. Ipotesi che sembra trovare conferma nell’incapacità di elaborare messaggi musicali nei pazienti con afasia di Broca, nei quali infatti i deficit di comprensione non sono esclusivi del solo messaggio linguistico, ma si estendono anche a quello di natura musicale. Le affermazioni riportate acquisiscono ancora maggiore rilievo se inquadrate nel contesto del “come” l’orecchio umano sia in grado di convogliare le informazioni sonore al nostro cervello. Come avviene per gli altri organi di senso, anche la struttura dell’apparato uditivo si avvale di un sistema complesso, di stazioni nervose organizzate gerarchicamente dalla periferia (l’orecchio) fino ai livelli più alti (la corteccia uditiva). L’elaborazione dei suoni, le note musicali ad esempio, inizia a livello dell’orecchio interno, nella coclea, dove informazioni sonore complesse, come quelle provenienti da uno strumento musicale, vengono scomposte nelle frequenze elementari che le costituiscono. Va detto che nonostante l’orecchio umano sia l’organo di senso dotato del minor numero di cellule sensoriali (3500 cellule contro i 100 milioni di fotorecettori presenti nella retina) la capacità di scomposizione delle informazioni sonore nelle componenti elementari è estremamente efficace. Dopo che il suono è stato registrato dalla coclea, il nervo acustico trasmette i dati al tronco cerebrale. Le informazioni passano attraverso almeno quattro stazioni ciascuna delle quali filtra il segnale, riconosce alcuni pattern specifici e li ritrasmette, si incarica di calcolare quanto tempo ha impiegato ad arrivare uno stimolo registrato dall’orecchio interno allo scopo di determinare da quale localizzazione spaziale il suono è stato generato. Ad esempio, nella prima stazione, il nucleo

cocleare, le cellule nervose della porzione ventrale si attivano in risposta a singoli stimoli sonori e lasciano passare le informazioni inalterate. La regione dorsale, o posteriore del nucleo, si attiva invece per informazioni di altra natura, come il punto di inizio e di fine di uno stimolo, oppure i cambiamenti nella frequenza. A livello del talamo, la stazione immediatamente successiva, le informazioni registrate possono essere sia convogliate alla corteccia oppure soppresse. Grazie a questo filtro, un cancello che si apre o si chiude, ci è possibile focalizzare la nostra attenzione su ciò che istante per istante più ci interessa nella scena sonora cui assistiamo, privilegiando ad esempio nell’ascolto il suono proveniente da un violino rispetto a quello generato dall’intera orchestra. Le fibre nervose del nervo acustico terminano a livello della corteccia uditiva primaria o giro di Heschl, posto superiormente nel lobo temporale e rappresentato in entrambi gli emisferi. A livello corticale indubbiamente il quadro diventa più complesso e di difficile interpretazione e generalizzazione. Inoltre è qui d’obbligo operare una distinzione tra l’elaborazione di un suono semplice e della musica, viste le numerose implicazioni che tale distinzione comporta. La musica è un insieme di toni, e può essere scomposta in “melodia”, “ritmo” (la lunghezza relativa tra una nota e l’altra), “armonia” (le relazioni tra due o più toni suonati contemporaneamente) e “timbro” (le differenze prodotte da due strumenti che suonano la stessa nota).

Figura 2

Quando il cervello di un musicista elabora il ritmo di una semplice melodia, cioè la differente lunghezza di determinati toni, utilizza la corteccia premotoria (preparatoria al movimento) e alcune

regioni dell’emisfero parietale sinistro. Se le variazioni ritmiche si fanno più complesse, si attivano porzioni della corteccia premotoria e frontale destra. In entrambi i casi con la partecipazione del cervelletto, unanimemente considerato struttura chiave nel controllo del movimento. Generalizzando, possiamo affermare che mentre i musicisti elaborano le informazioni relative al ritmo nell’emisfero sinistro, i profani usano invece l’emisfero destro. I toni che compongono una melodia attivano invece aree diverse rispetto a quanto detto a proposito del ritmo: il lobo frontale posteriore e il giro temporale superiore di destra. In particolare i toni vengono immagazzinati in una “memoria di lavoro” di tipo uditivo nella regione temporale dove verranno recuperati per elaborare le informazioni che di volta in volta vengono fornite. Anche qui i musicisti mostrano un comportamento diverso: il discernimento fra toni e la percezioni degli accordi avviene principalmente nell’emisfero sinistro. Forse le informazioni maggiori le possediamo a proposito di come vengano trattate le informazioni relative all’armonia di un brano musicale. Studi di diagnostica per immagini riscontrano maggiore attivazione nelle aree uditive del lobo temporale destro quando l’ascoltatore si concentra maggiormente sugli aspetti armonici del brano proposto. Lo stesso vale per le informazioni relative al timbro. Pazienti ai quali è stato asportato il lobo temporale destro per fini terapeutici mostrano deficit nel discriminare la timbrica musicale. Lo stesso non è vero per il lobo temporale sinistro. Abbiamo parlato della percezione del ritmo, dei toni, degli accordi, della timbrica, ma va detto che quando un ascoltatore si concentra su una melodia nel suo insieme il quadro cambia ancora e significativamente: oltre all’attivazione delle cortecce uditive primarie e secondarie si attivano anche le aree associative poste nel lobo temporale superiore dell’emisfero destro. Nonostante i numerosi dubbi ancora da chiarire, le attuali conoscenze ci permettono di affermare che nell’elaborazione di un messaggio musicale entrambi gli emisferi vengono attivati, anche se in modo asimmetrico. Fino agli anni ’80 si credeva in una demarcata divisione tra i compiti relativi all’elaborazione del linguaggio (nell’emisfero sinistro, lo stesso in cui si formula il ragionamento) e la musica (nell’emisfero destro, la parte del nostro cervello dedicata alla sfera emozionale). Oggi sappiamo che questa netta demarcazione di luogo e funzione non regge alle evidenze sperimentali. Più volte è stato documentato che un danno cerebrale focale in uno dei due emisferi può danneggiare anche fino ad annullarle le capacità di un individuo di ricevere e produrre musica. Ciò è vero non solo quando il danno viene documentato a livello della corteccia uditiva primaria, ma anche

nelle regioni parietali e frontali ad essa associate. Dunque con la perdita del giro di Hesch non ci dovremo aspettare una sordità totale, ma una importante e comunque variabile perdita nella capacità di distinguere i toni. Oggi sappiamo che i primi passi nella percezione musicale (distinguere la frequenza dei suoni e il volume) avvengo nelle cortecce uditive primarie e secondarie di entrambi gli emisferi. La corteccia uditiva primaria ha naturalmente attirato l’interesse di numerosi ricercatori, convinti che una migliore comprensione della sua organizzazione strutturale avrebbe potuto aiutare a chiarire non poco i meccanismi neurologici responsabili della percezione musicale. A tale proposito vanno ricordati i risultati di recenti studi di risonanza magnetica intrapresi da un gruppo di lavoro italiano. E. Formisano e collaboratori hanno concentrato le ricerche inizialmente sulle scimmie, studiando aspetti anatomici di architettura corticale e integrandole successivamente con registrazioni elettrofisiologiche in vivo. I risultati, in linea con studi precedenti, confermano l’ipotesi di una probabile suddivisione della corteccia uditiva primaria in due (AI, R) o tre (AI, R e RT) aree distinte. I neuroni di queste aree rispondono meglio a toni di frequenze specifiche e in almeno due aree (AI, R) formano delle mappe tonotopiche. Analogamente a quanto riportato per le mappe retinotopiche presenti in alcune aree della corteccia visiva, queste mappe formano una simmetria a specchio. Ad esempio nell’area denominata AI, la più caudale, il gradiente tonotopico dalle frequenze più alte a quelle più basse è orientato in senso caudo-rostrale. Nella zona R, posta sopra ad AI, il gradiente tonotopico è invertito rispetto al precedente, cosicché AI e R condividono buona parte dell’area dedicata all’elaborazione delle basse frequenze. Tale area troverebbe una corrispondenza anatomica confermata istologicamente da diversi autori e denominata “zona di confine” o “border zone” (Kaas, Hackett, 2000; Morel et al. 1993). Così come per l’organizzazione retinotopica del sistema visivo, anche l’organizzazione tonotopica non sembra essere proprietà esclusiva della corteccia primaria. Aree poste a cintura lateralmente rispetto a questa,

operano una successiva elaborazione sonora delle informazioni

uditive e presentano ancora una organizzazione tonotopica, anche se meno selettiva rispetto a quella delle aree primarie. Anche se non tutti gli studi fin qui portati a termine sono riusciti a fornire dati univoci e definitivi, Formisano (2003) avvalendosi di studi di diagnostica neurologica per immagini, sostiene che dobbiamo aspettarci una simile organizzazione funzionale anche nella corteccia uditiva primaria dell’uomo. Oltre ad una conferma della struttura tonotopica, Formisano riscontra una caduta della selettività di risposta neuronale alla frequenza di un suono con l’aumentare del livello sonoro. Allo

stesso modo stimoli di elevata intensità sembrano reclutare risposte neuronali diminuite. Per concludere va ricordato che la corteccia uditiva primaria umana dimostra una più spiccata variabilità di risposta agli stimoli rispetto a quando visto nell’ animale. Tale evidenza sembra essere confermata anche da una maggiore variabilità interindividuale dell’organizzazione anatomica della nostra corteccia e andrà meglio indagata in futuro. Le aree uditive secondarie, che si dispongono a semicerchio intorno alla corteccia primaria, elaborano informazioni musicali complesse, gli accordi armonici, la melodia e il ritmo. Si pensa che aree uditive terziarie integrino questi pattern di informazioni in una percezione completa della musica, come noi la recepiamo. Si potrebbe dunque riassumere che ad oggi si ritiene che l’emisfero sinistro si incarichi di elaborare informazioni elementari come gli intervalli fra le note, cioè il ritmo. L’emisfero destro rileverebbe invece i tempi musicali lunghi, e le sfumature melodiche, come ad esempio i “crescendo” e i “diminuendo” di una sinfonia. Se un danno colpisce l’emisfero sinistro, il paziente perde la capacità di percepire il ritmo. Se ad essere danneggiato è l’emisfero destro, il paziente non riconoscerà la melodia, i tempi (andante, adagio) e il ritmo stesso. Lo studio di soggetti dotati del cosiddetto “orecchio assoluto” ha gettato nuova luce sul nostro campo di ricerca ed in particolare sulla plasticità cerebrale. Questi soggetti possiedono la dote di poter riconoscere una nota musicale quando presentata da sola e senza l’aiuto di un’altra nota di riferimento.

Sappiamo che non tutti gli individui possiedono questa capacità, nemmeno

indispensabile per intraprendere la professione musicale. Eppure sappiamo che gli individui dotati di tale peculiarità presentano una circonvoluzione temporale superiore più ampia a carico dell’emisfero sinistro, che si manifesterà a condizione che l’esercizio musicale venga intrapreso in giovane età, entro i sette anni. Recentemente, nel 2001, C. Pantev ha dimostrato che strutture cerebrali di un suonatore di tromba saranno più reattive all’ascolto della musica, ma solo ai suoni provenienti da una tromba, e non per esempio da un pianoforte. Allo stesso modo con l’esercizio sembrano acuirsi pure le capacità individuali di localizzazione nello spazio delle sorgenti sonore. Bene vale l’esempio del direttore d’orchestra che pur dovendo prestare orecchio costantemente all’intera orchestra, può di volta in volta soffermarsi maggiormente sul suono proveniente da questa o quella sezione strumentale. Pantev ci indica anche che la plasticità cerebrale in ambito musicale può essere dimostrata già da un semplice esperimento della durata di poche ore. Fece ascoltare ad un gruppo di soggetti (non musicisti) per tre ore della musica nella quale solo alcune frequenze erano rappresentate mentre altre erano state filtrate e quindi

escluse. Al termine dell’esperienza fu possibile dimostrare che le aree corticali uditive primarie e secondarie si attivavano meno rispetto ai soggetti di controllo per l’ascolto della stessa banda di frequenze dell’ascolto precedente. I recenti studi sperimentali di E.O. Altenmuller si spingono oltre sul nostro terreno ed in ambito cognitivo, affermando che gli uomini percepiscono la musica come qualcosa di più complesso dell’insieme di semplici suoni. Altri sensi sono coinvolti. Quando assistiamo ad un concerto il nostro ascolto è condizionato dalla visione dei musicisti al lavoro. Quando le basse frequenze vengono prodotte ad alti volumi da un diffusore sonoro si creano vibrazioni che il nostro corpo percepisce come stimolo tattile. Un musicista che suona ad esempio un violino è soggetto a percezioni sensoriali quando comprime le corde dello strumento. Lo studio di uno spartito musicale comporta un processo di astrazione simbolica nel conferire un significato alla rappresentazione delle note sul pentagramma. In tutte queste situazioni si opera una rappresentazione dell’informazione musicale nel nostro cervello che viene successivamente immagazzinata in memoria. Quando suoniamo uno strumento il nostro cervello si adopera continuamente in un processo di integrazione tra informazioni sensitive uditive e sensitive motorie. Lo dimostrano studi di diagnostica neurologica per immagini in cui si vede che lo stesso brano musicale viene percepito da un musicista come suono, come movimento (proiettato ad esempio sulla tastiera di un pianoforte), come informazione simbolica (le note sullo spartito). Lo stesso non è vero per un non musicista.

GLI ASPETTI COGNITIVI

Uno degli aspetti che alimenta la complessità e l’interesse per lo studio dei meccanismi neurologici dell’elaborazione musicale risiede nel fatto che la musica è un fenomeno dinamico che si ripresenta nel tempo. Il sistema cognitivo uditivo deve basarsi su meccanismi che permettano ad uno stimolo di essere mantenuto disponibile “on line” in modo da poter relazionare un elemento presente in una sequenza musicale con un altro che si presenterà successivamente. In realtà questi processi che possiamo denominare “memoria di lavoro” sono comunemente impiegati in diverse aree del nostro cervello. Studi cognitivi applicati alla memoria di lavoro in ambito musicale, sembrano indicare (I.Peretz, R.Zatorre, 2004) l’esistenza di sistemi differenziati per il mantenimento di informazioni relative ad un tono musicale rispetto a quelli impiegati per il linguaggio. Oltre alla partecipazione della corteccia uditiva primaria la memoria di lavoro sembra avvalersi di altre strutture quali le aree corticali frontali, in particolare quelle inferiori e dorsolaterali, come documentano sia studi su lesioni focali che di neuroimaging. I ricercatori sono concordi (Zatorre, 1994) nel ritenere che la memoria di lavoro dedicata all’elaborazione dei toni si avvalga di una stretta collaborazione tra aree corticali frontali e aree temporali posteriori. Si pensa che la corteccia uditiva primaria venga maggiormente impiegata in condizioni di alto carico di lavoro in cui ad esempio un musicista deve tenere a mente una nota durante l’esecuzione di un brano. Queste ipotesi si inquadrano in una visione più ampia in cui la memoria di lavoro musicale può essere vista come un sottosistema specializzato che opera all’interno del network della memoria di lavoro globalmente intesa. L’importanza del ruolo giocato dalla memoria nell’elaborazione dei suoni non risiede unicamente nel fatto che la musica è un fenomeno dinamico nel tempo, ma anche altamente strutturato, che richiede il contributo di numerose e differenziate fonti di conoscenza. Per essere riconosciute una nota, una melodia, un ritmo devono essere mappati mediante una rappresentazione a lungo termine che contenga proprietà invarianti. Così come avviene per le parole, il meccanismo di riconoscimento delle note richiede l’accesso e la selezione di potenziali candidati all’interno di un complesso database di memoria. La memoria musicale percettiva che stiamo descrivendo dovrebbe essere intesa come uno strumento atto unicamente a rappresentare informazioni riguardanti la forma e la struttura degli eventi, e non il significato o altre proprietà associative. A differenza del linguaggio infatti, la musica non è vincolata ad un sistema semantico statico e sempre riproducibile, acquisisce invece significato attraverso altri sistemi sensoriali, l’analisi emozionale o memorie associative che ci permettono di recuperare informazioni contestuali come il titolo di un brano, il nome di un cantante o il genere di musica che ascoltiamo. E’ evidente che le memorie percettive di un brano musicale famigliare dovranno essere di natura prevalentemente astratta per poter essere riconosciute nonostante una eventuale trasposizione su un differente registro, come l’utilizzo di uno strumento diverso (uno stesso brano

suonato da un violino o da un oboe) oppure cambiamenti del ritmo (uno stesso brano suonato più o meno veloce). La rappresentazione immagazzinata deve comunque preservare alcuni aspetti come la tonalità di un brano (una chiave armonica maggiore o minore per esempio) e il ritmo originale (un “adagio” o un “prestissimo”) per essere poi ricordata. Chi ascolta un brano non ricorderà ogni dettaglio dell’immagine sonora ma seguirà il pezzo operando un processo di astrazione e organizzazione che salvato in memoria lo aiuterà a ricordare quel brano in un altro momento. Studi su lesioni focali dimostrano che la perdita permanente della capacità di riconoscere un brano musicale possono riscontrarsi in individui che presentano una capacità percettiva della musica normale o quasi normale. Quanto detto non dimostra di per se che le melodie note vengano elaborate in modo diverso ed in altre aree rispetto ai brani nuovi. Sappiamo infatti che le melodie note sono associate ad una vasta serie di eventi extra-musicali che indubbiamente ci aiutano a riconoscerle. Ad esempio è esperienza comune che l’ascolto di basi strumentali di canzoni a noi ben conosciute richiama immediatamente alla mente il testo che originariamente le completa. Come verificato sperimentalmente da Steinke (2001) sappiamo che danni cerebrali che danneggiano la capacità di riconoscere basi musicali strumentali di una canzone posso lasciare inalterata l’abilità di individuare e riconoscere i versi della stessa. Un metodo molto efficace per indagare la natura delle rappresentazioni che vengono immagazzinate in memoria è lo studio di quanto accade quando ad un soggetto viene chiesto di pensare ad una melodia conosciuta, senza ascoltarla. Halpern nel 1988 dimostrò su un paziente con lesioni focali a carico della corteccia uditiva destra che entrambi i processi (il riconoscimento e l’immaginare un brano) risultavano deficitari, indicando che anche il solo immaginare una melodia richiede l’accesso a meccanismi percettivi coinvolti nell’elaborazione di una melodia musicale. Questa esperienza pionieristica è stata più volte confermata negli anni a seguire grazie a studi funzionali di diagnostica per immagini che hanno ripetutamente dimostrato il reclutamento delle cortecce uditive secondarie nei compiti che comportano l’immaginare una melodia o durante prove d’orchestra. Allo stesso modo studi di elettrofisiologia documentano che la topografia di attivazione del nostro cervello è identica quando ad un soggetto viene proposto l’ascolto di un brano noto e quando allo stesso viene richiesto di immaginare la sua continuazione in assenza di imput musicale. Durante queste esperienze è stata rilevata pure un’attivazione delle aree motorie secondarie. Altra luce sul nostro argomento viene da recenti lavori pubblicati nel 2004 da A.Williamon e T.Egner con lo studio in vivo di potenziali evocati registrati mediante elettroencefalografia. Grazie a questi studi prende piede l’ipotesi che passaggi musicali reputati di importanza cruciale per l’immagazzinamento in memoria e il successivo recupero di un brano, siano elaborati in modo distinto rispetto ad altri di presumibile minor importanza. In un compito di esercizio mnemonico, il

riconoscimento di alcuni passaggi chiave di un brano si è dimostrato più accurato rispetto ad altri momenti musicali meno strutturati, ha richiesto una latenza di risposta minore ed ha evocato un potenziale di risposta più negativo. Queste considerazioni richiamano alla mente e richiedono un approfondimento del concetto di Memoria di Lavoro a Lungo Termine, uno strumento sul quale devono per esempio confidare i musicisti e che su questi è stato infatti particolarmente indagato. Gli Autori delineano almeno due possibili meccanismi (non incompatibili) mediante i quali i musicisti “registrerebbero” in memoria i passaggi più salienti di un brano musicale. Il primo meccanismo coinciderebbe dal punto di vista sperimentale con la registrazione di un potenziale evocato negativo “tardo”. Questo coinciderebbe col tentativo del musicista di recuperare uno stimolo semantico che ha precedentemente giocato un ruolo chiave nel creare una struttura di memorizzazione. Tale stimolo semantico per risultare utile nei processi di immagazzinamento in memoria e successivo recupero dovrebbe godere di uno status privilegiato nell’ambito delle informazioni mnemoniche registrate, poiché il potenziale evocato da tale stimolo manifesta caratteristiche di latenza e negatività peculiari e differenti rispetto a meccanismi di riconoscimento mnemonico episodico (quando cioè dobbiamo decidere se ciò che ci viene proposto è per noi qualcosa di nuovo o di già ascoltato). Quest’ultimo compito infatti di continuo confronto vecchio/nuovo troverebbe corrispondenza in un differente potenziale evocato, stavolta positivo e maggiormente rappresentato nelle regioni parietali sinistre. Più che non il continuo confronto vecchio-nuovo i nostri Autori hanno voluto paragonare stimoli tutti quanti correttamente interpretati come “vecchi”, cioè già sentiti, ma di diversa importanza nell’utilità dimostrata nel memorizzare un messaggio musicale complesso. Si è visto come stimoli ritenuti importanti (magari perché ripetuti più volte durante le prove) nel richiamare la struttura di frasi musicali conosciute siano caratterizzati da potenziali evocati sensibilmente più negativi di quelli riferibili a stimoli ritenuti meno cruciali, ed evochino un massimo di risposta in corrispondenza delle aree temporali destre. Una seconda interpretazione del potenziale evocato negativo tardo quale evento chiave nel recupero della memoria semantica potrebbe altrimenti risiedere nell’ipotesi che stimoli strutturalmente importanti potrebbero aver determinato una attenzione visiva più spiccata, essendo stati visualizzati dal musicista diverse volte in fase di apprendimento rispetto ad altri stimoli meno strutturati o rappresentati. E’ importante aggiungere che il potenziale evocato lento mostra una spiccata somiglianza (in termini di latenza e topografia cranica) al potenziale N400 scoperto e dimostrato nel corso di studi sulla comprensione del linguaggio. Tuttavia mentre il potenziale evocato N400 sembrerebbe essere originato da una violazione del contesto semantico e la sua ampiezza varierebbe a seconda della difficoltà di integrazione semantica di una parola nel contesto di una frase, il potenziale lento sembra del tutto estraneo a tale logica di inquadramento. Rimane infatti da chiarire se il potenziale lento registrato dai nostri Autori debba essere ritenuto contenuto-specifico unicamente per la memoria di natura musicale, oppure generalizzabile all’utilizzo di parole chiave nei processi di memorizzazione, ad esempio, delle poesie.

Ulteriori indizi sull’impiego della memoria a lungo termine in ambito musicale si possono ricercare nello studio dei neonati e degli anziani. Grazie ai lavori sperimentali di L.J.Trainor (2004) sappiamo che i neonati sono in grado di ricordare il ritmo e la timbrica di canzoni famigliari per elevati periodi di tempo. Modificare il ritmo o la timbrica di un brano comporterà una perdita di interesse del neonato verso la melodia. A differenza di quanto riportavo qualche riga sopra a proposito degli adulti, sembrerebbe che le rappresentazioni mnemoniche a lungo termine dei neonati non siano rappresentazioni astratte (come descritto negli adulti) ma debbano contenere anche informazioni riguardanti aspetti specifici di una data performance musicale. Ad esempio una stessa canzone viene riconosciuta se cantata dalla mamma, ed ignorata se cantata da un estraneo. Altre differenze tra neonati e adulti potrebbero esistere anche a proposito di un altro aspetto di cui si è detto nel primo capitolo: l’orecchio assoluto. Ricordavamo che la maggior parte degli adulti non possiede l’orecchio assoluto. Sebbene ci sia possibile cogliere la distanza tonale tra le note di una melodia, non siamo in grado di recuperare a distanza di tempo la precisa tonalità di una nota sentita ad esempio qualche minuto prima. I neonati sembrerebbero invece affrontare l’elaborazione musicale sfruttando più i principi dell’orecchio assoluto piuttosto che la distanza tonale relativa tra le diverse note del messaggio musicale. Gli aspetti cognitivi della memorizzazione musicale nell’anziano stanno invece fornendo risultati interessanti soprattutto grazie allo studio di pazienti affetti da demenza ed in particolare di quelli con diagnosi di Alzheimer. L Cuddy e J.Duffin dell’Università di Kingston in Canada in una pubblicazione di quest’anno (2005) affrontano estensivamente proprio questi aspetti. Certo indagini cognitive rivolte a tale categoria di pazienti presentano peculiari difficoltà di classificazione ed interpretazione. Prima di tutto perché l’estensione diffusa di tali patologie cerebrali e i deficit cognitivi estesi a varie aree rendono arduo attribuire quali danni siano realmente responsabili di funzioni danneggiate o risparmiate. Inoltre la natura progressiva della malattia concede poco tempo all’esaminatore per ricomporre un quadro preciso di una dato momento clinico. Ancora, i test e le procedure comunemente impiegati per condurre studi sulla percezione musicale richiederebbero una sostanziale integrità dei processi cognitivi e di memorizzazione, spesso invece in varia misura compromessi in questi pazienti. Eppure nonostante le evidenti difficoltà di studio, sembrano emergere sempre più dati a testimonianza che in alcuni pazienti affetti da demenza la memoria di natura musicale può essere risparmiata. A giustificare tale evidenza abbiamo ad oggi solo alcune supposizioni. Un’ipotesi è che la presenza della musica potrebbe generare un’attivazione generalizzata dell’attenzione agevolando l’attivazione motoria o quella mnemonica. Oppure la sollecitazione musicale potrebbe col tempo generare uno stato emozionale in cui si instaura un aumento del senso di benessere o si riduce l’ansia controllando meglio uno stato di stress nel contesto del quale l’aprassia verbale è più manifesta. AM Kumar e collaboratori del Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Miami nel 1999 hanno sottoposto 20 pazienti con diagnosi certa di Alzheimer a sessioni di musico terapia, quaranta minuti al giorno, cinque giorni alla settimana per un periodo continuativo di quattro settimane. Al termine dell’esperienza i ricercatori hanno potuto dimostrare modificazioni nelle concentrazioni sieriche di melatonina, noradrenalina, adrenalina e prolattina. Mentre i livelli di adrenalina e noradrenalina tornavano ai valori normali passate quattro settimane dal termine dell’esperienza, la melatonina permaneva elevata ancora sei settimane dopo il termine delle sessioni musicali. Gli Autori alla luce dei dati in loro possesso avanzano l’ipotesi che l’aumento dei livelli di melatonina seguiti alla musico terapia potrebbe aver contribuito all’instaurarsi ed al mantenimento di un umore rilassato e positivo nei pazienti in esame. Forse maggior fondamento sta nella teoria secondo la quale essendo l’elaborazione musicale un compito complesso che richiede il contributo di numerose aree e funzioni cerebrali, essa potrebbe rinforzare alcune funzioni cognitive danneggiate tramite un processo di co-attivazione di strutture cerebrali correlate.

In quest’ottica strutture sotto-corticali risparmiate dal processo degenerativo potrebbero giocare un ruolo determinante. La musica inoltre potrebbe ricoprire uno status privilegiato o almeno differente rispetto ad altre funzioni cognitive non verbali in quanto i network neuronali propri del circuito musicale vengono acquisiti senza l’obbligatorietà di una fase di apprendimento specifica. I bambini e la maggior parte di noi, se escludiamo i musicisti (sebbene non tutti) apprezziamo la musica senza dover ricorrere a specifiche conoscenze delle regole di composizione musicale. Queste ed altre considerazioni inducono i ricercatori ad affermare che in un paziente affetto da demenza la musica rappresenta la funzione cognitiva conservata più meritevole di essere ulteriormente indagata e sfruttata a scopo terapeutico. Altre informazioni sugli aspetti cognitivi della musica derivano da considerazioni riferite a soggetti non vedenti. Ben nota è la straordinaria abilità dei non vedenti nel poter camminare ed orientarsi guidati unicamente da suoni e rumori, ma non sappiamo ancora se questa dote si estenda ad altri campi della sfera uditiva, come l’ascolto della musica o delle voci. F.Lepore ed altri ricercatori del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Montréal hanno condotto studi grazie ai quali sappiamo che i non vedenti risultano più abili di un gruppo di controllo nel riconoscere i cambiamenti tonali, ma solo se la perdita della vista si è verificata in tenera età. E tanto più precoce è riferita la perdita della vista, tanto più l’abilità nel riconoscimento dei suoni risulta affinata, in linea con la teoria che la plasticità cerebrale è massima nei primi anni di vita. Numerosi lavori sono stati dedicati al tentativo di chiarire la natura della plasticità cerebrale e i complessi meccanismi che intervengono tra l’impatto negativo di una deprivazione sensoriale e la contemporanea espansione compensatoria di altre aree cerebrali. Studi di deprivazione visiva su animali dimostrano modificazioni sia sottocorticali (collicolo superiore e nucleo genicolato laterale) sia corticali. Ancora, studi funzionali dell’attività cerebrale in giovani uomini non vedenti indicano che regioni normalmente dedicate a processi di elaborazioni visive (corteccia visiva secondaria e aree parietali associative) possono essere reindirizzate verso compiti di elaborazioni di messaggi tattili oppure sonori (e musicali). Il reclutamento di tali aree negli individui rimasti ciechi precocemente può essere spiegato tenendo in considerazione i modelli competitivi che precocemente giocano un ruolo chiave nei processi di plasticità cerebrale. Nei primi anni di vita il nostro cervello può contare su un vasto numero di sinapsi che successivamente (intorno ai 6-12 anni nell’uomo) va incontro ad un progressivo esaurimento. Si pensa che il processo di selezione che determina quali sinapsi vengano mantenute e quali eliminate abbia luogo mediante meccanismi competitivi. Negli individui normali a livello delle aree extrastriate e parietali le sinapsi più forti nei primi anni di vita sono quelle tra strutture coinvolte nei processi visivi. Nei non vedenti non vengono presentati stimoli a tali aree e le connessioni a questi livelli saranno deboli perché poco o per nulla utilizzate. Altri impulsi corticali, uditivi o somatosensoriali, normalmente eliminati, troveranno terreno per proliferare e persistere anche nell’età adulta. Alcuni soggetti non vedenti, in particolare, incapaci di leggere musica sono in grado di apprendere brani musicali “a orecchio” e di memorizzarli. Alcuni sono in grado di suonare dall’inizio alla fine un brano che hanno potuto ascoltare solo una o due volte. L’eccezionale attitudine musicale di tali individui potrebbe ancora una volta derivare dal reclutamento di aree visive inutilizzate (D.Ross, 2003). Lo studio degli aspetti cognitivi della musica non può prescindere da alcune considerazioni sul ruolo da essa giocato in ambito educativo. Il “transfer learning” indica la facilitazione che un individuo acquisisce in una attività motoria o cognitiva derivante da precedenti esperienze maturate in attività non strettamente correlate. Per esempio sappiamo che imparare ad andare in bicicletta facilita l’apprendimento dello sci, del pattinaggio o di altre attività che richiedono il mantenimento

dell’equilibrio. Nell’ultima decade si è aperto un vivace dibattito in ambito educativo e scolastico, tra insegnanti di musica e ricercatori, nel cercare di chiarire se lo studio della musica possieda o meno effetti facilitanti l’apprendimento in altre materie non correlate. In letteratura non troveremo evidenze sperimentali di rilievo tale da permetterci di fornire una risposta definitiva a tale importante domanda. Rauscher e altri, Neurol Research, 1997 sostiene che lo studio del pianoforte in età prescolastica è più efficace nell’affinare le capacità di ragionamento spazio-temporali rispetto ad un gruppo di controllo dedicato a lavoro su computer. In particolare alcuni ricercatori sostengono che lo studio del pianoforte è in grado di agevolare il ragionamento di tipo matematico. Esistono anche evidenze secondo le quali ascoltare musica aiuterebbe ad imparare a leggere, forse focalizzando l’attenzione del bambino sul suono prodotto dalle parole. S. Douglas nel 1994 riportava una relazione tra l’abilità nel suonare uno strumento e quella manifestata nella lettura. Settanta ragazzi maschi e femmine dell’età media di otto anni vennero esaminati in merito alle capacità di lettura, alla ricchezza di vocabolario e alla proprietà di dizione e allo stesso tempo vennero valutate le capacità maturate in ambito musicale, ad esempio chiedendo loro di riconoscere piccoli cambiamenti del ritmo nei brani proposti. Alla fine si riscontrò una significativa correlazione tra le performances rilevate in ambito musicale e negli altri compiti. Dal momento che una semplice correlazione da sola non dimostra una relazione causale, i ricercatori si impegnarono in una successiva prova per studiare gli effetti di un programma di insegnamento musicale di sei mesi mirato a sviluppare funzioni uditive, visive e motorie; studenti di un gruppo di controllo seguirono invece corsi atti a stimolare funzioni descrittive, comparative e la fantasia. Al termine dei sei mesi gli studenti che seguirono gli insegnamenti musicali mostrarono un significativo miglioramento nella lettura rispetto al gruppo di controllo che mostrava capacità invariate. Da quanto riportato deduciamo di essere in possesso ad oggi soltanto di isolate testimonianze, molte delle quali datate e alcune non sostenute da solide basi di ricerca, che hanno però il merito, se analizzate complessivamente, di indicare l’urgenza di un approfondimento scientifico. Lo stimolo più forte che ci induce ad ascoltare musica è l’emozione che proviamo durante questa esperienza. La musica è capace di generare emozioni forti e improvvise, gioia e lacrime. Anche questo aspetto, forse il più importante, andrà quindi indagato. Uno degli approcci più recenti e riusciti lo dobbiamo a Isabelle Peretz (2002). Anche se i meccanismi mediante i quali la musica ci fa provare emozioni non sono chiari, la musica in quanto potente mezzo in grado di generare emozioni, può indurre risposte a carico del sistema nervoso simpatico, ed uno dei metodi di cui disponiamo per indagare tale attivazione è la misura delle variazioni della conduttanza cutanea. Negli studi della

Peretz condotti secondo le modalità dette, emerge che le emozioni derivate dalla musica modificano la conduttanza cutanea in modo dipendente dallo stato di attivazione del sistema simpatico. A sua volta l’attivazione del simpatico è controllata da numerose strutture sottocorticali, tra cui l’amigdala, l’ipotalamo e strutture corticali, specialmente i lobi orbito-frontali e temporali. Con più precisione tecniche di diagnostica per immagini indicano che stimoli percepiti come piacevoli attivano porzioni del lobo frontale e il giro cingolato. Stimoli dissonanti o spiacevoli verrebbero invece elaborati a livello del giro paraippocampale destro. Anche a livello corticale si creerebbe una asimmetria secondo la quale stimoli piacevoli attiverebbero preferenzialmente aree frontali e temporali di sinistra e quelli spiacevoli le corrispondenti aree destre. Nuove ricerche (Zatorre, 2001) sono state condotte mediante tecniche di tomografia a emissione di positroni (PET) per indagare la natura e le correlazioni neurologiche dei brividi che alcuni individui descrivono durante l’ascolto di brani musicali particolarmente graditi. I brividi - si è visto - sono concomitanti con un aumento di intensità della frequenza cardiaca, di misurazioni elettromiografiche, e della profondità del respiro, confermando anche in questa esperienza il coinvolgimento del sistema simpatico e di altre attività psicofisiologiche. Analisi di regressione testimoniano una correlazione tra l’aumento dell’intensità dei brividi e modificazioni del flusso sanguigno cerebrale (PET) a carico di aree coinvolte del circuito del “reward”. Vale a dire un aumento nel nucleo striato ventrale sinistro e nel mesencefalo dorsomediale, e una diminuzione nell’amigdala destra, nell’ippocampo sinistro e nella corteccia prefrontale ventro-mediale. L’incremento del flusso unitamente all’aumento dell’intensità dei brividi si osserva anche in regioni paralimbiche, in aree attivatici (“arousal”, come il talamo) e in aree motorie (cervelletto). I pattern di attivazione osservati in questo studio sono in gran parte sovrapponibili con altri emersi da indagini neuroradiologiche condotte nello studio dell’ euforia e di emozioni piacevoli. A conferma, studi sull’animale indicano il nucleo striato, diverse aree mesencefaliche, l’amigdala, l’ippocampo e la corteccia prefrontale mediale quali aree chiave del circuito cerebrale in cui vengono elaborati il piacere, la motivazione, la ricompensa. Sebbene la PET non consenta di individuare con precisione assoluta quali centri mesencefalici vengano attivati, la localizzazione dorso mediale della risposta suggerisce che le strutture coinvolte potrebbero essere la sostanza grigia periacqueduttale o il nucleo peduncolopontino. Anche la diminuzione del flusso sanguigno a livello dell’amigdala e dell’ippocampo durante l’esperienza di brividi è compatibile con il ruolo chiave giocato da queste formazioni nei processi di elaborazione di ricompensa ed emozione. L’amigdala è nota per essere coinvolta nell’elaborazione della paura e delle situazioni di potenziale pericolo così come nei

processi valutativi di aspetti emozionali di rilevante importanza sociale e biologica. Il nucleo striato ventrale media più specificamente i processi valutativi di ricompensa e motivazione di valenza comportamentale. Perciò l’attivazione del circuito della ricompensa “reward” da parte della musica potrebbe generare sensazioni piacevoli non solo attivando il sistema della ricompensa, ma diminuendo allo stesso tempo l’attivazione di aree cerebrali che mediano la trasmissione di emozioni negative. Strutture quali il talamo e il nucleo cingolato anteriore sarebbero invece coinvolti in meccanismi di attivazione generalizzata atti a sostenere l’attenzione. Va precisato che l’attivazione delle aree descritte correla con emozioni piacevoli di notevole intensità e valenza per il soggetto esaminato, mentre la correlazione viene persa se il soggetto deve valutare aspetti più generici, ad esempio l’assonanza di un brano, privi di una forte componente emozionale. Le aree e i circuiti che abbiamo visto attivarsi in seguito a stimoli musicali graditi all’ascoltatore, differiscono sostanzialmente dal quadro che si delinea quando invece vengo elaborati messaggi musicali percepiti come dissonanti o comunque spiacevoli.

I dati in nostro possesso

indicano che emozioni di natura e valenza diversa vengono elaborate nel nostro cervello in aree distinte. Ancora, abbiamo dimostrato con le testimonianze raccolte quanto riportato all’inizio di questo lavoro: l’elaborazione musicale è in grado di reclutare i circuiti del “reward”, delle emozioni e del piacere. Nel giugno del 2004 Steven Brown e M. Martinez dell’Istituto di Ricerche per Immagini dell’Università di San Antonio in Texas, hanno condotto altri studi basati sulla PET ma con premesse diverse rispetto ai lavori prima esaminati. I ricercatori hanno studiato le reazioni di un gruppo di soggetti non musicisti all’ascolto passivo di brani musicali sconosciuti. Come ci si aspettava si è potuta evidenziare un’attivazione delle cortecce uditive primarie e secondarie, in accordo con studi precedenti sull’ascolto passivo sia di melodie monofoniche che di musica armonizzata. Ma per la prima volta nelle condizioni sperimentali ricordate si è potuta evidenziare un’attivazione del lobo temporale e di numerose strutture limbiche e paralimbiche, tra cui il giro cingolato sub-calloso, l’ippocampo, l’insula anteriore e il nucleo accumbens. Questi riscontri riflettono probabilmente il fatto che gli stimoli utilizzati erano musicalmente complessi e particolarmente graditi. In accordo con l’ipotesi che le emozioni a connotazione positiva vengono elaborate dall’emisfero sinistro, sono state osservate un maggior numero di attivazioni proprio a carico di questo emisfero.

FIGURA 3. Regioni anatomiche nelle quali si evidenzia una significativa correlazione tra le variazioni del flusso sanguigno cerebrale e l’intensità dei brividi evocati nell’ascoltatore (PET). a sezione sagittale:

mostra una correlazione positiva a livello del

mesencefalo dorso mediale sinistro (Mb), talamo destro (Th), giro cingolato anteriore AC), aree motorie secondarie SMA) e cervelletto bilaterale (Cb). b sezione coronale: nucleo striato sinistro ((VStr) e l’insula bilaterale (In): c sezione coronale: corteccia orbito frontale destra (Of). d sezione sagittale: correlazione negativa in VMPF (corteccia prefrontale ventrale mediale) e corteccia visiva (VC). e sezione sagittale amigdala destra (Am). f sezione sagittale: ippocampo-amigdala di sinistra (H/Am).

© 2001 Blood and Zatorre

PNAS -VOL. 98 NO.20

Se con l’esperienza della Peretz (2002) che ricordavamo sopra, si evidenziava come il gradimento della musica ascoltata attivava il giro cingolato subcalloso sinistro e la corteccia orbito frontale destra (BA 11) e deprimeva il giro paraippocampale destro e il precuneo, anche nelle condizioni sperimentali di Brown e Martinez si testimonia un’attivazione del giro cingolato subcalloso di sinistra, in un’area pressoché identica. Ma poiché gli studi condotti da Brown e Martinez implicavano un ascolto passivo e non discriminatorio possiamo assumere con maggior certezza che aree come il giro cingolato subcalloso sono correlate all’esperienza di emozioni intercorrenti più che a processi discriminativi o interpretativi delle stesse.

Attivazione, anche se meno marcata, viene riferita anche a carico del cervelletto anteriore e soprattutto posteriore. Poiché l’esperienza non comportava attività motoria e non si evidenziava una risposta nelle aree motorie corticali, questa attivazione non deve essere collegata alla funzionalità motoria classicamente associata al cervelletto. Numerosi recenti studi hanno dimostrato l’attivazione del cervelletto a supporto di funzioni non correlate al movimento. L’attivazione durante l’ascolto di una melodia e dei processi discriminativi del riconoscimento delle note, in cui la componente motoria è assente o eliminata mediante processi di sottrazione, è stata documentata bilateralmente nelle regioni cerebellari laterali posteriori (lobuli V e VI). Tale attivazione andrebbe interpretata quale attività di supporto nella percezione musicale, mentre attività riferita al cervelletto anteriore potrebbe essere riferita all’elaborazione di aspetti affettivi o emozionali. I risultati di questi studi possono essere inquadrati in una visione più completa delle aree cerebrali al servizio dell’elaborazione di aspetti sia emotivi che strutturali dell’esperienza musicale. Si crede che il lobo temporale superiore (BA 38/22 e l’adiacente insula) fungano da stazione di biforcazione nel circuito nervoso dell’elaborazione musicale. Possiamo aspettarci che neuroni a sede in queste stazioni proiettino sia ad aree libiche e paralimbiche per l’elaborazione della componente affettivo-emozionale, sia ad aree motorie che potrebbero essere coinvolte in processi discriminativi. Queste ultime regioni potrebbero essere coinvolte nell’elaborazione della componente strutturale della musica. In questa ottica il lobo temporale potrebbe assumere il ruolo di una stazione in cui confluiscono informazioni sia di natura strutturale che emozionale. Sappiamo che il lobo temporale superiore riceve informazioni uditive elementari dalla corteccia uditiva secondaria (BA 22). Studi anatomici condotti sulle scimmie hanno dimostrato che una porzione del lobo temporale (che corrisponderebbe all’area BA 38 umana) riceve afferenze dalla corteccia associativa uditiva posteriore. Anche se una dimostrazione anatomica sull’uomo non è stata provata, studi di diagnostica per immagini hanno dimostrato che attività uditive atte ad elaborare stimoli musicali complessi attivano proprio la parte superiore del lobo temporale. Questo verrebbe dunque a ricoprire il ruolo di corteccia uditiva terziaria che riceve informazioni da regioni posteriori al lobo temporale superiore. Ulteriori evidenze derivano da studi istologici: la citoarchitettura del lobo temporale è costituita da corteccia agranulare e potrebbe in effetti costituire un’area di transizione tra l’isocortex granulare e l’allocortex agranulare. Se ora analizziamo le proiezioni che partono dal lobo temporale vedremo che esse sono dirette alla corteccia orbitofrontale, al giro del cingolo sottocalloso, all’amigdala (nucleo basolaterale) e all’ippocampo. Esiste una ben nota via nervosa, il fascicolo uncinato, che collega il lobo temporale alla corteccia orbitofrontale e al giro del cingolo: il fascicolo uncinato appare dunque

essere un buon candidato quale via nervosa impegnata a veicolare informazioni musicali emozionali tra il lobo temporale superiore e la corteccia orbitofrontale. Per finire, il lobo temporale superiore potrebbe proiettare alle aree premotorie che elaborano le informazioni strutturali dello stimolo musicale. Un costituente fondamentale di questo sistema è l’opercolo frontale. Questa struttura, non attiva nelle condizioni di ascolto passivo, è invece attivata come testimoniano studi di neuroimmagine quando un individuo canta, quando si impegna a ricordare un brano e nei processi discriminativi dei toni e del ritmo. Ad oggi non abbiamo evidenze dirette di una connessione anatomica tra il lobo temporale superiore e l’opercolo frontale. Tuttavia esistono forti evidenze, nell’uomo come nell’animale, che la parte opercolare del lobo temporale possieda connessioni reciprocanti con l’insula anteriore, un’area che abbiamo visto attivarsi nella gran parte degli esperimenti trattati. Perciò è possibile che il lobo temporale comunichi con l’opercolo frontale mediante l’intermediazione dell’insula. Se ciò fosse vero, renderebbe ancora più plausibile l’ipotesi secondo la quale il polo temporale superiore rivestirebbe un ruolo chiave nell’integrazione delle informazioni di natura musicale. I lavori di Brown e Martinez dimostrano che stimoli musicali sconosciuti ascoltati passivamente sono in grado di attivare aree libiche allo stesso modo di brani musicali noti e particolarmente graditi, indicando l’esistenza di un itinerario neurologico comune per le risposte di tipo estetico che potrebbe funzionare come struttura di base nel manifestare le proprie preferenze e giustificare il molteplice utilizzo in ambito sociale della musica, ad esempio nei film o in televisione. A questo punto è arrivato il momento di chiederci: perché amiamo certi generi di musica e non altri? In una serie di lavori portati avanti negli anni sessanta e settanta Berlyne ha studiato quali aspetti potrebbero verosimilmente essere in grado di farci apprezzare stimoli di natura artistica, compresa la musica. Berlyne ha proposto che quando ascoltiamo musica, valutiamo una serie di informazioni intrinseche quali la complessità, la famigliarità, la ridondanza. Queste variabili influenzerebbero le preferenze musicali attivando aree quali il mesencefalo, il talamo, la formazione reticolare, tutte aree implicate nel mantenimento dell’ ”arousal” (Berlyne, 1971). Ogni stimolo avrebbe un determinato potenziale di arousal e la capacità di determinare una data reazione psicobiologica. Berlyne e numerosi altri Autori hanno fornito motivate evidenze di un rapporto inversamente proporzionale tra il gradimento di uno stimolo di natura artistica e la sua capacità di innescare una reazione di arousal. Nel 1974 McMullen sosteneva che i soggetti da lui studiati manifestavano una preferenza verso quei brani musicali che presentavano un grado intermedio di ridondanza di informazioni e di tonalità impiegate. Non discordanti sono le testimonianze di Steck e Machotka (1975) che

confermano una relazione inversa tra la complessità di uno stimolo musicale e il suo livello di gradimento. Tuttavia sappiamo che il gradimento è solo uno degli aspetti dell’ascolto della musica

GRADIMENTO

nella vita di tutti i giorni.

POTENZIALE DI AROUSAL Grafico 1

Rolls e altri (1975) precisano che le

selezioni

musicali

che

operiamo sono guidate tanto dal

gradimento

quanto

dal

contenuto emozionale specifico che racchiudono. Consideriamo l’esempio di due situazioni di tipico ascolto musicale in ambiente sociale: un party e un incontro a lume di candela. Anche se la selezione che faremo ricadrà probabilmente in entrambi i casi su brani a noi graditi, è probabile che i brani scelti differiranno per le connotazioni emotive proprie delle due diverse situazioni d’ascolto. Se fossimo in grado di studiare unitamente il gradimento e gli aspetti emotivi dell’ascolto musicale, potremmo forse meglio comprendere perché amiamo ascoltare musica. Nelle ultime decadi molto si è parlato di quella che passa alla storia come la teoria circonflessa dell’emozione (Larsen & Diener, 1992). Questa contiene due dimensioni: attivazione-disattivazione (arousal-sleeping) e piacevolespiacevole. Gran parte delle esperienze emozionali di un soggetto potrebbe essere inscritta in questa circonferenza, assumendo in essa una posizione relativa lungo gli assi maggiori che ben la caratterizza. Russel, Ward e Pratt (1981) chiesero a diversi soggetti di classificare alcune situazioni emozionali secondo una scala di gradimento da 1 al 100 e con cinque aggettivi. Dall’analisi delle risposte emersero due fattori indipendenti dell’analisi affettiva: il gradimento e la stimolazione (arousing) generata. Inoltre il posizionamento di ciascun aggettivo riferito sulla circonferenza esprimeva una combinazione delle due variabili suddette. Per esempio l’aggettivo “eccitante” combinava elevalti valori sia di gradimento che di stimolo, mentre “rilassato” combinava bassi livelli

di entrambi. Riassumendo, la teoria di Berlyne sostiene che un brano musicale altamente gradito ed allo stesso tempo con un elevato potere di arousal è eccitante: sta a dire che le emozioni generate dalla musica sono inseparabili dalle proprietà di gradimento e arousing.

Grafico 2

Schema della teoria circonflessa dell’emozione. Adattata da Larsen e Diener (1992)

Rivisitando la letteratura della teoria circonflessa Larsen e Diener hanno riscoperto diversi studi a supporto di questa in campi di ricerca rivolti allo studio dell’umore, risposte a situazioni ambientali e all’anticipazione degli eventi.

Alla luce del positivo feedback riscontrato North e Hargreaves dell’Istituto di Psicologia dell’Università di Leicester, UK, hanno cercato di verificare se i medesimi principi potevano essere

applicati anche in ambito musicale. Il lavoro dei nostri Autori era inteso più allo studio delle emozioni espresse dai brani ascoltati che alle emozioni provate dagli ascoltatori. Molti (Meyer, 1956) hanno infatti cercato di dimostrare una possibile separazione tra i due aspetti. Nell’esperimento di North e Hargreaves 32 brani musicali vennero giudicati da gruppi di individui secondo una scala di apprezzamento e capacità di arousing o per la capacità di generare otto differenti stati emozionali. L’ipotesi sperimentale può essere espressa come un adattamento della teoria circonflessa come illustrato nel grafico n.3. In esso la circonferenza è suddivisa in quattro quadranti, ciascuno dei quali rappresenta una diversa combinazione dei potenziali di gradimento e di arousal. I risultati dell’esperimento indicano che le sole variabili like-dislike e elevato potenziale di arousal-basso potenziale di arousal giustificano da sole il 68,8% delle risposte emozionali fornite dai soggetti. Anche questo dato indica che le emozioni generate dalla musica dipendono strettamente dalle intrinseche capacità di gradimento e arousal. In accordo con la teoria di Berlyne anche in questa esperienza si è delineato un rapporto inversamente proporzionale tra la capacità di un brano di generare apprezzamento e di evocare arousing.

Grafico 3

Un adattamento della teoria circonflessa

I risultati sembrerebbero dunque indicare che la capacità della musica di generare emozioni potrebbe risiedere su fattori predittivi ancora una volta coincidenti coi paramentri gradito-non gradito e ad alto potenziale di arousing-basso potenziale di arousing. In particolare il rapporto inversamente proporzionale tra i due parametri sarebbe ad andamento curvilineo. Per esempio due brani ascoltati

potrebbero risultare egualmente piacevoli, ma allo stesso tempo localizzandosi uno a destra e uno a sinistra del grafico di rappresentazione: ciò comporta l’estrema difficoltà di assegnare ad un brano musicale un appropriato quadrante nel grafico 3 senza conoscere anticipatamente il suo potenziale di arousing. Allo stesso modo sebbene uno dei brani in esame potesse essere associato preventivamente ad un dato livello di potenziale di arousing, ciò di per se non anticipa quanto esso sarebbe poi risultato gradito. La relazione inversa tra il grado di apprezzamento e il potenziale di arousal implica solamente che un brano caratterizzato da un moderato potenziale di arousal verrà preferito rispetto ad uno con un potenziale molto alto o molto basso. L’apprezzamento sarà massimo quando il brano scatenerà un arousal intermedio, ma va detto che anche in questa condizione un brano potrà comunque risultato sgradito. Per esempio nell’esperimento di cui ci stiamo occupando vennero usati come stimoli sonori brani suonati da una banda di soli strumenti a fiato (probabilmente non particolarmente graditi ad un pubblico adolescente) e se è vero che quelli con potenziale di arousal intermedio venivano preferiti rispetto a quelli con uno inferiore o superiore, è altrettanto vero che non è detto che questi brani avessero suscitato un gradimento sufficiente per essere inscritti nei quadranti I e II del grafico 3. E’ dunque estremamente problematico assegnare un brano ad un determinato quadrante senza prima conoscere il suo gradimento. Se è vero che i due fattori sono collegati fra loro è altrettanto vero che entrambi sarebbero in grado di veicolare emozioni scaturite dall’ascolto dei brani musicali. E se è vero che essi possono agire indipendentemente l’uno dall’altro, sembrerebbe altrettanto vero che essi potrebbero veicolare indipendentemente preziose informazioni utili nel determinare quali emozioni un dato brano musicale sarà in grado di evocare. Quanto riportato – lo abbiamo ricordato – è applicabile alle emozioni espresse dalla musica. Un modello univoco che spieghi invece come un individuo elabori queste emozioni, ad oggi ancora non è stato delineato e sarà uno degli obiettivi di ricerca della neuropsicologia del prossimo futuro.

L’ INTERAZIONE MUSICA – ORGANISMO

Negli ultimi anni numerosi studi hanno cercato di rispondere a domande sugli effetti della musica in campo fisiologico, psicologico e comportamentale: sappiamo che la frequenza cardiaca, la profondità del respiro, la temperatura, la soglia del dolore e l’ansia sono tutti parametri in qualche modo influenzabili dalla musica. Numerose evidenze cliniche e sperimentali lasciano intendere che la musica può essere (e deve essere) considerata una strumento con potenziali applicazioni in campo medico e psicologico. In effetti conosciamo da tempo i potenziali benefici dell’uso della musica nei programmi terapeutici di malattie sia fisiche che mentali. La capacità di indurre una diminuzione della pressione arteriosa è un evento ormai universalmente accettato. Così come verificata è la possibilità di attenuare i sintomi di malattie croniche come l’epilessia, il morbo di Parkinson, la demenza senile e malattie psichiatriche come i deficit di attenzione o le iperreattività. Meno chiari sono i meccanismi che sottendono a tali indiscutibili effetti. L’indagine delle attuali conoscenze di tali meccanismi sarà argomento di questo capitolo. Cominciamo col cercare di comprendere gli effetti della musica sulla regolazione della pressione arteriosa. Già a partire dagli anni ’80 studi ‘in vitro’ avevano indicato che l’attività della tiroxina idrossilasi, enzima limitante per la sintesi delle catecolamine, è regolata dal calcio mediante un processo di fosforilazione calmodulina dipendente. Il ruolo del calcio nella sintesi della dopamina è stato confermato ‘in vivo’ grazie a nuove metodologie come l’analisi di mappature cerebrali per la distribuzione quantitativa di sostanze neuro-chimiche. Questi studi indicano che il calcio sierico è trasportato dal circolo sanguigno al cervello, dove stimolerebbe l’azione della calmodulina la quale a sua volta aumenterebbe la sintesi di dopamina in alcune specifiche aree cerebrali, come il neostriato e il nucleo accumbens. Kayo Akiyama e collaboratori dell’Istituto di Scienze Mediche dell’Università di Tsukuba in Giappone hanno pubblicato nel 2004 su Brain Research un articolo nel quale vengono ipotizzati i meccanismi mediante i quali i livelli del calcio regolano la pressione arteriosa e le implicazioni della musica a riguardo. Secondo Akiyama gli ioni calcio intervengono con due meccanismi nella regolazione della pressione arteriosa: uno centrale e uno periferico. Il calcio aumenta la pressione arteriosa attraverso un meccanismo intracellulare a livello dei vasi periferici e la riduce mediante un meccanismo centrale mediante la sintesi di dopamina guidata dal processo calmodulina dipendente. Un incremento acuto e marcato dei livelli sierici di calcio dovuto ad esempio ad una infusione di calcio, ad iperparatiroidismo, o tossicità da vitamina D porta a ipercalcemia. L’aumento del calcio stimola direttamente la muscolatura liscia vascolare e incrementa rapidamente la pressione sanguigna. Quando invece i livelli sierici del calcio risultano aumentati cronicamente e in modo blando a seguito, ad esempio, di una supplementazione dietetica, non si manifesta ipercalcemia ed il calcio in eccesso viene trasportato al cervello. Qui mediante il processo calmodulina dipendente già ricordato viene ad incrementare la sintesi di dopamina che inibisce l’attività del sistema nervoso simpatico. In questa seconda circostanza quindi il calcio diminuisce la pressione sanguigna. I bassi livelli di calcio in ratti con ipertensione non indotta potrebbe essere conseguenza di una diminuzione della disponibilità di calcio osseo, che a sua volta comporta una diminuzione della sintesi cerebrale di dopamina ed ipertensione arteriosa. Si è visto infatti che la

somministrazioni di calcio nei ventricoli cerebrali dei ratti ipertesi è in grado di ridurre l’ipertensione. Dobbiamo ora chiederci come la musica possa interagire con il meccanismo proposto. I nostri Autori per prima cosa hanno analizzato gli effetti della musica sui ratti ipertesi per trovare conferma che la musica possa influenzare le funzioni cerebrali. Essi hanno potuto verificare che la pressione sistolica diminuiva in modo significativo sia durante l’ascolto della musica che dopo la sua cessazione. L’abbassamento compariva gradualmente dopo l’inizio dell’esposizione alla musica e il nuovo valore di pressione veniva mantenuto fino a 30 minuti dopo la cessazione dell’esposizione per poi ritornare gradualmente ai valori precedenti l’esperimento. Più precisamente i valori pressori misurati nei ratti dopo 30 e 120 minuti l’inizio dello stimolo musicale e dopo 0 e 120 minuti dalla sua cessazione si erano abbassati rispettivamente di 13 e 24 mmHg (P
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