Polillo - SToria Del Jazz Scritta

February 23, 2017 | Author: Alessandro Melò | Category: N/A
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Centro Studi Nazionale sul Jazz Arrigo Polillo http://centrostudi.sienajazz.it/

Indice                             

Introduzione 1. Verso il paese delle meraviglie 2. Satchmo 3. Una primavera movimentata. BG senza occhiali 4. Duke 5. Fioriscono le «bande»; entra Norman Granz 6. Ella, Oscar & Co. 7. L'uomo di Newport 8. Sydney Bechet 9. Un tipo simpatico 10. Si decolla 11. Dieci anni a Sanremo 12. Stan e Woody 13. Mulligan 14. «Lady Day» protestata 15. Garner dal vivo 16. I grandi della batteria 17. Un uomo chiamato Thelonious 18. Tristano 19. L'impossibile Miles 20. Due giganti del sassofono 21. Mingus 22. «Fatha» Hines 23. Un viaggio in USA 24. A Newport e a New Orleans 25. Altri Festival 26. Archie Shepp 27. Incontro con Joe 28. Uno della “Austin”

Introduzione «Hai conosciuto John Coltrane?», «Sì? E che tipo era?» Non so quante volte mi sono sentito rivolgere domande simili; solo il nome variava di volta in volta. Non che i miei interlocutori volessero da me un’analisi approfondita, uno studio psicologico: si accontentavano di molto meno. Anche di sapere se il Tale è antipatico o simpatico, se è intelligente o tonto, se è gentile oppure no. Ho sempre cercato di rispondere come meglio potevo alle domande che mi venivano rivolte, ma alla fine mi sono dovuto chiedere: perché non rispondere una volta per tutte per iscritto, e cioè con un libro? Queste pagine sono nate così. In esse ho cercato di scrivere un rapido diario di quarant’anni vissuti in mezzo al jazz, e più precisamente tra le quinte de jazz. A costo di sorprendere qualche famoso jazzman in pigiama. Nello scrivere mi sono giovato di una guida: le pagine di oltre trenta annate del mensile «Musica Jazz», di cui sono stato, dal principio, e per vent’anni, il Redattore capo, e quindi il Direttore. In quelle pagine si ritrova il segreto di una memoria che altrimenti parrebbe prodigiosa; lì, io e i miei amici abbiamo annotato mese per mese tutto ciò che di rilevante accadeva nel mondo del jazz, in Italia e altrove; lì sono contenute innumerevoli recensioni, reportages, interviste che, rilette, mi hanno restituito, con la vivezza del momento, le sensazioni, le impressioni che provai quando mi trovavo coinvolto negli avvenimenti. Qualcuna delle pagine che seguono è stata ripresa pari pari di lì. In certi casi, infatti mi sarebbe sembrato di confezionare un falso se avessi tentato di riandare con la memoria, sempre un poco deformante, e con la mentalità di oggi, ad avvenimenti lontani. naturalmente, in questo libro non si parla di tutti i musicisti che contano nella storia del jazz. Con molti ho avuto solo rapporti fugaci e non significativi; altri non ho avuto l’occasione di incontrarli, per lo più perché erano già scomparsi di scena quando io cominciai a occuparmi di jazz. E mi riferisco non solo ai pionieri, come Jelly Roll Morton, King Oliver o Bix Beiderbecke, ma anche a uomini della successiva generazione come Fats Waller, Tommy Dorsey o Art Tatum, il quale ultimo fu da me scritturato quando ormai era troppo tardi: morì infatti poco prima che la sua ultima tournée europea, già fissata, potesse iniziare. Un ultimo avvertimento: con le indiscrezioni dissacratorie ci sono andato piano, come si dice. Considero gli uomini di cui si parla in queste pagine degli amici, e non intendo tradirli spettegolando sul loro conto con il cattivo gusto di certi settimanali. Mi limiterò a raccontare tutto ciò che ritengo utile alla comprensione della loro personalità. In realtà io penso, in tutta sincerità, che sia stata per me una grande fortuna conoscere tanti artisti di rilievo e avere avuto tanto spesso il privilegio di applaudirli da vicino, seminascosto tra le quinte, o dietro un fondale di teatro.

Verso il paese delle meraviglie Per entrare nel mondo del jazz pagai cinque lire. Tanto costava il biglietto d’ingresso a uno dei concerti organizzati, ogni mese, dal Circolo del Jazz Hot a Milano. Nell’ottobre 1936, per un ragazzo di diciassette anni quale io ero, quelle cinque lire d’argento erano piuttosto pesanti, ma le pagai volentieri. Non so perché, qualcosa mi diceva che stavo compiendo un dovere. Di fatto, dopo quella sera mi considerai una specie di militante: non avrei mai immaginato però, fino a che punto mi sarei trovato coinvolto nel mondo del jazz, quante migliaia di volte avrei pronunciato e scritto quello strano monosillabo, jazz, sul cui significato avrei avuto idee confuse per molto tempo ancora. Ora so che, allora, c’erano solo pochissime persone, in Europa come in America, che avessero le idee abbastanza chiare su cosa si dovesse intendere per «jazz». Dopo tutto erano passati solo pochi anni da quando era apparso sugli schermi di tutto il mondo il primo film sonoro, che si intitolava «Il cantante di jazz» e che raccontava le melodrammatiche vicende di un cantante che col jazz non c’entrava per nulla. Era Al Jolson: cantava tenendo le braccia spalancate, qualche volta semi inginocchiato, aveva una strana voce, fessa e squillante allo stesso tempo; però si esibiva con la faccia tinta di nero, le labbra pesantemente ripassate con la biacca e un parrucchino di lana in testa, come un minstrel, e poi aveva avuto a che vedere con George Gershwin, di cui aveva lanciato la prima canzone di successo, «Swanee». In quegli anni bastava meno per essere considerati cantanti o musicisti di jazz. Non va scordato che, per moltissimi, il «Re del jazz» era ancora Paul Whiteman. (Con un vice in Europa: Jack Hylton.) Quando entrai nei locali del Lyceum, in Via Filodrammatici, dove si era appena insediato il Circolo del Jazz Hot, i giovani che vi trovai riuniti sapevano qualcosa di più. Sapevano, per cominciare, che bisognava distinguere fra jazz «straight» e jazz «hot» e che solo quest’ultimo meritava considerazione. In realtà lo straight (oggi si direbbe: il «liscio») non era affatto jazz, ma orecchiabile musica da ballo eseguita senza variazioni: «commerciale», come si diceva allora. Devo ammettere che a me lo straight piaceva moltissimo: avevo più dischi di quel tipo che dischi hot. Lo confessai candidamente a un ragazzo che mi sedeva accanto quella sera, e che aveva pressappoco la mia età. Si chiamava Peregrini. «Non ti far sentire» ammonì. «io ti capisco, perché anch’io vengo dallo straight. Però qui conta solo il jazz hot.» Mi sentii molto «square» (ma la parola, con cui gli amatori del jazz bollano i profani, quelli che non capiscono niente, l’avrei imparata più tardi, leggendo le riviste americane) e fui pervaso da un grande desiderio di redimermi. Dovevo svezzarmi al più presto: e chissà che un giorno non sarei arrivato anch’io a possedere venti differenti versioni di «I’ve Found a New Baby», come quel socio del circolo della cui discoteca Peregrini mi aveva dato notizie mirabolanti. Quella sera feci la conoscenza dei due fondatori e factotum del circolo: Giancarlo Testoni e Ezio Levi. Quest’ultimo era anche un ottimo musicista dilettante; Testoni, che allora aveva ventitrè anni, era invece soprattutto un missionario del jazz, un crociato. Uno che faceva programmi, spesso molto ambiziosi, e che si dava da fare per realizzarli, con mezzi sempre inadeguati. i due avevano costituito il circolo qualche mese prima, in febbraio, e stavano scrivendo insieme un libro intitolato «Introduzione alla vera musica jazz» (il primo trattatello scritto in Italia, e uno dei primissimi apparsi al mondo). All’inizio si erano aggregati a un’associazione già esistente, il Junior Circle, costituito da giovani inglesi (pensate che follia: in quel tempo a causa delle famose sanzioni economiche, tutto ciò che era inglese era ritenuto esecrabile), poi si erano resi indipendenti, e avevano fissato la sede del neonato circolo nella sala superiore del Campari, in Galleria: una sala contigua a quella in cui, trentacinque anni dopo, avrebbe iniziato la sua difficile vita il Jazz Power, il primo locale jazzistico davvero internazionale che sia stato aperto a Milano. Avevano redatto un bellissimo statuto - e giurerei che si trattò di un parto personale di Testoni, che a queste cose era portato - e ne avevano dovuto sottoporre il testo all’approvazione della Questura, necessaria per ottenere l’autorizzazione a svolgere l’attività che si proponevano. Quando arrivò

all’art. 3, il funzionario incaricato di controllare la liceità degli scopi dell’associazione secondo l’etica fascista rimase perplesso. C’era scritto testualmente che il principale scopo dell’Associazione era quello di «Svolgere un’attività capace di servire il Jazz Hot in Italia». Mesi dopo quell'articolo di statuto fu commentato con parole sferzanti da un corsivista del «Popolo d’Italia»: era inconcepibile che degli italiani, ormai lanciati verso luminosi destini imperiali, potessero «servire» la causa di una musica straniera. La quale, poi, chi non lo sapeva?, era una «musica di selvaggi», nata, quasi non bastasse, in un paese demo-plutocratico. (Quei paladini del jazz sarebbero stati stigmatizzati anche sulle pagine di «Libro e Moschetto», il giornale dei GUF, i gruppi Universitari Fascisti: si trattava di «gagarelli» esterofili, ecco cosa erano.) Testoni e Levi non sembravano preoccuparsi troppo di certe censure. Muovendosi in una direzione opposta a quella indicata dagli uomini di regime, che predicavano l’autarchia, il nazionalismo e la xenofobia, si erano subito adoperati per stabilire dei contatti con l’estero. pochi mesi prima, nel 1935, per iniziativa di Charles Delauney - il giovane rampollo di due illustri pittori: Robert e Sonia Delauney - e di Hugues Panassié - critico precocissimo, da tempo pontificante - , era nata a Parigi la rivista mensile «Jazz Hot», che diffondeva la buona novella del jazz per chi aveva orecchie per intenderla: parve indispensabile a Testoni e a Levi prendere contatto coi correligionari d’oltralpe, che furono lieti di pubblicare sulla loro rivista i loro comunicati, spesso redatti in termini spudoratamente autolaudatori. I pionieri, evidentemente, sentivano il dovere di aiutarsi fra loro. Anche perché erano pochissimi. Oltre ai francesi, cha avevano costituito da un paio d’anni o poco più l’Hot Club de France, e agli inglesi che animavano i Rhythm Clubs e che scrivevano pezzi sul «Melody Maker» (uno di loro era Leonard Feather - un coetaneo di Testoni e di Panassié - che è rimasto l’unico critico di jazz della primissima generazione tuttora attivo), i missionari del jazz erano delle rarae aves; anche in America si contavano sulle dita, tanto che bastava a contenerli tutti il Commodore Music Shop, un negozietto di dischi sulla 42a strada di New York dove si davano regolarmente convegno. Quanto all’Italia, oltre a quelli del Circolo del Jazz Hot, si dava un gran daffare Alfredo Antonino, che aveva una discoteca invidiabile (300 dischi a 78 giri, si mormorava con invidia) e che nel gennaio del 1935 era riuscito a compiere un piccolo miracolo, dirottando verso il Teatro Chiarella di Torino nientemeno che Louis Armstrong, che da qualche mese girava per l'Europa. Anche se qualcuno li aveva preceduti, quelli del Circolo del Jazz Hot erano davvero dei pionieri. Probabilmente si dovette proprio a loro il primo concerto di jazz italiano - presentato come tale, dinanzi a un pubblico pagante - che sia mai stato organizzato. Quella volta io non c’ero, perché avrei appreso dell’esistenza del circolo solo qualche mese dopo: devo quindi accontentarmi di rievocare l’avvenimento attraverso le parole di Testoni, che, anni dopo, su «Musica e Jazz», raccontò la storia del defunto circolo. «Il primo complesso che prese coraggiosamente parte a quel primo concerto del nostro circolo era costituito da Impallomeni (tromba), Cottiglieri (sax tenore), Gallone (clarino e sax baritono), Levi (piano) e D’Elia (contrabbasso). In genere, artisti eccellenti, che da allora hanno fatto strada: ma vi assicuro che in quel lontano 14 marzo 1936 salirono sul palcoscenico del circolo «Nuova Vita» tremanti d’emozione. Ricordo che, con apparente freddezza, li avevo esortati a fare del buon jazz, solamente del buon jazz: «siate più hot che potete». In prima fila, tra gli spettatori, c’erano i più bollenti soci del circolo... «Il complessino iniziò esitante, timido: fece dello straight più che dell’hot, e comincio Gallone a «svisare», uscendo purtroppo, imperterrito fuori delle armonie del tema, con suprema disperazione dei suoi compagni. I quali, verso la fine del programma, cominciarono a scaldarsi davvero, suscitando gli applausi frenetici del pubblico.» Nei mesi successivi si ascoltarono parecchi altri musicisti. Kramer soprattutto: benché suonasse uno strumento poco adatto al jazz come la fisarmonica, era considerato, ed era, il primo della classe. E poi Franco Mojoli, Pippo Renna, Cosimo di Ceglie, Oscar De Mejo, Piero Rizza e qualche altro. Si ascoltò anche un violinista negro americano, sconosciutissimo, ma accolto come un re: si chiamava Paul Jordan, detto «Spade». Pare che, per vivere, suonasse soprattutto musica tzigana. Ne fu redatta

una breve biografia sul bollettino ciclostilato del circolo. Il circolo patrocinò pure l’incisione di qualche disco con la partecipazione di alcuni musicisti di sua fiducia. Si pensava allora che si trattasse dei primi dischi di jazz registrati in Italia, ma non era vero: c’erano stati, tra gli orchestrali professionisti, altri pionieri, meno «puristi», meno informati e consapevoli di quelli che rispondevano agli appelli di Levi e Testoni, e tuttavia meritevoli di essere ricordati: quelli che avevano militato nelle orchestre Mirador e di Sesto Carlini, tanto per fare due nomi. Ai concerti si alternavano conferenze-audizioni, che si tenevano tutte le settimane. Offrivano delle emozioni straordinarie: i dischi che si ascoltavano erano praticamente introvabili, e ogni sera si faceva la conoscenza di qualche nuovo personaggio. Ricordo distintamente la sera che appresi dell’esistenza di Bix Beiderbecke. Era un giovanotto bianco, che sapeva suonare la cornetta come un dio e che era morto alcolizzato cinque anni prima: forse se avesse continuato a vivere, avrebbe potuto superare la fama di Louis Armstrong, ci fu spiegato. Ricordo male, o chi presentò i suoi dischi ai soci fu Marcello Marchesi, un giovane giornalista umoristico assai differente dal «signore di mezza età» che avrei rivisto molti anni dopo sui teleschermi? E’ sicuro che, vincendo la pigrizia, Marchesi aveva tenuto in quel periodo, una dotta conferenza-audizione sulle «trombe hot». Nei primi mesi del 1938 il circolo morì quietamente. Gli attivisti si erano stancati perché erano troppo pochi, e del resto i tempi non erano propizi per certe cose. A un certo punto Testoni fu richiamato alle armi, e tanto bastava. I pochissimi che, a Milano, seguivano il jazz (dovevano essere giusto quattro gatti, vista la facilità con cui si riusciva a mettere le mani sui rari dischi importati dall’estero, magari in tre o quattro copie solamente) poterono continuare ad ascoltare la loro musica prediletta grazie alle trasmissioni di certe emittenti straniere e ai dischi, che per un po’ continuarono ad arrivare. Se poi si voleva sentire del jazz «dal vivo», si poteva andare alla taverna Ferrario, una «balera» sotterranea in via Meravigli, dove una grande orchestra era capace di farvi ascoltare, in una decorosa esecuzione, qualche arrangiamento preso pari pari dai dischi di Bob Crosby. Intorno al 1939-40 si faceva del jazz anche nella sala superiore del Campari, dove si era insediato il complesso di Enzo Ceragioli a cui, in quegli anni, facevamo tutti tanto di cappello. Venne la guerra e di jazz non si parlò più per qualche anno. Per quanto mi riguarda, ne risentii parlare soltanto nel 1944, quando entrò in funzione, nella Milano occupata dai tedeschi, Radio Tevere, una emittente repubblichina che trasmetteva comunicati trionfalistici sui bombardamenti di Londra e incitava i poveri romani caduti nelle mani degli alleati a tener duro, in attesa dell’immancabile ritorno dei bei tempi. («Si stava meglio quando si stava peggio», era lo slogan preferito dal radiofonico incoraggiatore, che parlava in romanesco e diceva di chiamarsi Cacini.) Sembrerà strano, ma tra un comunicato guerresco e l’altro, radio Tevere trasmetteva dischi di jazz a tutto spiano: seppi poi che li forniva e li commentava - con discreta competenza - un certo Bo Della Rocca, che avrei conosciuto anni dopo. Penso che sia stato il precedente di radio Tevere a indurre il giornalista Piero Farnè a organizzare a Milano, in quel periodo, un paio di concerti di «musica moderna» - così dicevano i manifesti - che altro non era che jazz, fatto, s’intende, da musicisti italiani. Farnè si era preoccupato solo di italianizzare, sul programma, i titoli dei pezzi americani e di alterare le generalità dei compositori: non «Stardust» di Carmichael, ma «Polvere di Stelle» di Carmelito, non Duke Ellington, ma Del Duca, e così via. Benché allora girassi per Milano sotto mentite spoglie (non avevo alcuna voglia di rispondere agli appelli dell’esercito fascista: con la naja avevo chiuso il 9 settembre 1943) assistetti a quei concerti e li recensii, persino, per un settimanale di varietà, plaudendo all’iniziativa. Io però parlai di «jazz», e Farnè mi telefonò subito allarmatissimo per le possibili conseguenze, che però non ci furono: ci doveva essere qualche jazzofilo nascosto tra nel Comando tedesco. Una cosa è certa: in mezzo a quella folla strabocchevole che assisteva a quei concerti, c’erano molti militari tedeschi in divisa, che avevano tutta l’aria di sapere di cosa si trattasse e di divertirsi molto. Mi sarei dovuto ricordare di quei concerti a guerra finita: forse una pubblicazione sul jazz avrebbe potuto avere fortuna,

pensavo. Appena la guerra terminò cercai di attuare in qualche modo il progetto che avevo accarezzato vedendo il pubblico che gremiva la platea del teatro Olimpia. Con la collaborazione di mio fratello misi insieme un fascicolo in carta patinata intitolato «I Re dello Swing» - in copertina non poteva esserci altro che Benny Goodman, anche perché non sapevo ancora che era stato da poco detronizzato da Glenn Milller - e lo feci distribuire nelle edicole. Doveva essere un «ballon d’essai». Quel fascicolo uscì contemporaneamente al primo numero di «Musica e Jazz», un quattordicinale di grande formato, che fece la sua apparizione nel luglio del 1945 assieme ai primissimi periodici dell’Italia libera: l’ava fondato, diretto, impaginato e in gran parte scritto Gian Carlo Testoni. Avevamo avuto la stessa idea, evidentemente. Visto in edicola il suo giornale, telefonai a Testoni. sarebbe stato sciocco farci concorrenza tra di noi, convenimmo subito; io avrei potuto collaborare regolarmente al nuovo periodico, e Dio sa se Testoni aveva bisogno d’aiuto. Ci demmo appuntamento presso una casa editrice, in centro. Lui era raggiante perché, in quelle euforiche settimane, tutta l’Italia cantava una canzone di cui aveva scritto il testo (era «In cerca di te»: quella che fa «Sola me ne vo per la città, passo tra la folla che non sa...») e quel successone era di ottimo augurio per la carriera che aveva già iniziato prima della guerra e a cui voleva dedicarsi completamente: quella del «paroliere». Ci mettemmo subito d’accordo, anche perché né io né lui pensavamo di ricavare un guadagno da quel giornale (poi chissà...) ed eravamo entrambi animati dal sacro fuoco. Ci accorgemmo subito però che un periodico jazzistico era un pessimo affare, anche se veniva fatto in economia come lo facevamo noi. Gli articoli e le foto che dedicavamo agli esponenti della musica leggera non jazzistica non bastavano a guadagnarci un numero decente di lettori; al contrario, ci dovemmo convincere presto che tutto ciò che non riguardava strettamente il jazz autentico (qualcuno lo chiamava ancora «hot») serviva soltanto a irritare i pochi lettori che ci seguivano. Fu così deciso di cedere la testata a un tipografo, Sergio Azzimonti; e poi di abbandonare la politica ecumenica iniziale, lasciando cadere di conseguenza la «e» fra «Musica» e «Jazz», di modificare la periodicità, che divenne mensile, e di ridurre il formato. Ma ancora prima di attuare questi provvedimenti, Testoni ebbe l’idea di varare assieme ai più stretti collaboratori della neonata rivista un Centro Studi del Jazz, che avrebbe dovuto fare da punto di riferimento e da centro di coordinamento per tutti coloro che in Italia si occupavano o intendevano occuparsi di jazz. Alla fine del 1945 lo Statuto era pronto: lo pubblicammo subito con la firma dei promotori: noi due, Roberto Nicolosi, Livio Cerri e Alessio Gurviz. Qualche mese dopo ricostituimmo un circolo del jazz a Milano. Io ero già segretario del Centro e lo divenni anche del circolo. L’Hot Club Milano prese il via alla fine del ‘46, ma non fu il primo e neanche l’ultimo ad essere costituito in Italia in quel periodo. In pochi mesi ne sorsero parecchi, tanto che nella prima metà del 1947, a seguito di un referendum indetto tra gli aderenti, il Centro Studi fu trasformato in una Federazione Italiana del Jazz. Toccò a me, in qualità di segretario, tenere la corrispondenza coi responsabili dei diversi circoli, a cui distribuivo informazioni, consigli e incoraggiamenti. Potei vedere in faccia gran parte dei miei corrispondenti quando furono invitati a Milano per il primo convegno dei rappresentanti degli Hot Club italiani. Ci fu un’assemblea, con tanto di elezioni (nel Consiglio, ai promotori si vennero ad aggiungere Giuseppe Barazzetta, Giacomo Carrara ed Ezio Levi, tornato in Italia dopo anni di esilio in America) e ci fu una lunga jam session nel pomeriggio: post prandium delectas. Fino allora nessuno di noi sapeva precisamente su quali forze potesse contare il jazz italiano: conoscevamo solo i nostri amici milanesi e i nomi degli eroi locali che venivano esaltati nei rapporti che i responsabili dei circoli jazzistici in Italia ci inviavano periodicamente. Che quegli elogi fossero meritati dubitavamo: non c’era tromba, non c’era sassofono che non fosse «eccellente»; per male che andasse si trattava di «sicure promesse». Si vide quanto i nostri amici avessero calcato la mano quando, nella primavera del 1948, indicemmo, a Firenze, il Secondo Convegno Nazionale dei Circoli del jazz, al quale ognuno fu

invitato a esibire i propri campioni. Visto che i complessi organici erano praticamente inesistenti, accettavamo anche solisti sciolti: noi poi li avremmo uniti agli altri perché suonassero in jam session. Quella specie di protofestival del jazz italiano, che si proponeva di censire le forze vive del nostro jazz, di fare il punto della situazione, dimostrò soltanto che questa era piuttosto scoraggiante. A parte qualche buon solista e un complesso (quello venuto da Roma, e che era poi la ex «0,13» che aveva fatto faville nella Roma occupata sotto la guida di Piero Piccioni) c’era il deserto. Ci dovemmo pentire di avere invitato qualche ospite di riguardo, come Charles Delaunay e due ottimi solisti francesi, Hubert Fol e Jack Diéval, che surclassarono i nostri suonando con disinvoltura quel bebop che noi avevamo conosciuto soltanto sui dischi. Coi francesi avrebbe dovuto arrivare anche Kenny Clarke, con cui c’eravamo accordati. Ma all’ultimo momento il già famoso batterista americano cambiò idea: evidentemente non sentiva le vibrazioni giuste, come dicono oggi i jazzmen. Per vedere in carne ed ossa uno di quei mitici personaggi di cui andavamo parlando e scrivendo da anni avremmo dovuto aspettare ancora qualche mese. I primi jazzisti illustri che comparvero in Italia furono Stéphane Grappelly (allora si firmava così, con la i greca) e Django Reinhardt. Ma non vennero insieme e non si riunirono mai, come invece avrebbero dovuto fare. Grappelly arrivò a Milano ai primi di dicembre e si istallò al Ciro’s, un night club allora di moda; Django si fece vedere alla vigilia di Natale e poco dopo cominciò a esibirsi all’Astoria accompagnato da alcuni musicisti milanesi fra cui l’allora giovanissimo Franco Cerri. Django era un tipo cordiale, simpatico ma irrequieto e imprevedibile come tutti gli zingari. A un certo punto scomparve Sapemmo poi che la direzione del locale non aveva apprezzato la musica sua e del complesso. Pressappoco in quel periodo Delaunay mi fece sapere di essere a buon punto con l’organizzazione di un grande festival del jazz che si sarebbe svolto nel maggio del 1949 alla Salle Pleyel, a Parigi, e che sarebbe durato una settimana. Erano previsti due concerti al giorno, con complessi americani ed europei. Sarebbero arrivati Charlie Parker, Sidney Bechet, Miles Davis, Max Roach, Tadd Dameron, «Hot Lips» Page e Dio sa quanti altri. Nel darmi queste strepitose notizie, Delaunay mi chiedeva di inviare al festival un musicista in rappresentanza del jazz italiano (uno di numero: evidentemente l’esperienza di Firenze lo aveva reso guardingo) e mi invitava a Parigi: avrei potuto scrivere una recensione dei concerti. Dovendo scegliere un solo musicista non poteva trattarsi che di un pianista: ma chi era il migliore? dopo essermi guardato attorno e avere consultato qualche amico, mi fissai sul nome di Alberto Trovajoli, un giovanotto che suonava nei night club di Roma e che godeva già di un’ottima reputazione presso gli amatori del jazz locali. Cercai anche qualche compagno di viaggio, e lo trovai. Gorni Kramer ci pilotò con la sua macchina fino a Parigi. Arrivammo che il festival era già cominciato per lo meno da un paio di giorni. Di Trovajoli nessuno seppe dirci nulla e per un po’ pensammo che non l’avremmo visto comparire affatto. Si presentò all’ultimo momento. Era arrivato da Roma con la sua 500 giardinetta e poi aveva girovagato per Parigi. Era andato, ci disse, a rendere omaggio alla tomba di Chopin. Trovai Delaunay un po’ giù di corda. «Stiamo perdendo soldi», mi confidò con un mesto sorriso. Credo che avesse perduti parecchi perché alcuni anni dopo stava ancora pagando gli ultimi debiti contratti in quei giorni di gloria e di disfatta. «E Parker?», gli chiesi subito. Parker per noi era una specie di padreterno: ero arrivato a Parigi soprattutto per ascoltare lui. «Con Charlie non si può mai sapere cosa può succedere. Appena arrivato a Parigi qualcuno gli ha fatto conoscere i vini francesi, e allora sono stai guai.» Flavio Ambrosetti, un nostro amico che militava nel sestetto svizzero di Hazy Osterwald, e che suonava, come tanti in quegli anni, in uno stile simile a quello di Parker, fu ancora più tranchant: «Parker è finito», mi disse con accento dolente: In realtà il grande Bird non era affatto finito, come si sarebbe visto negli anni successivi: era solo inebetito dall’alcool e dall’eroina.

Resterà per me sempre un mistero come sia stato possibile a un «pirata» discografico mettere insieme un long playing più che decoroso utilizzando le registrazioni effettuate, con mezzi di fortuna, durante quei concerti. Forse ha scelto pezzi eseguiti nei giorni in cui né io né Ambrosetti eravamo presenti; e forse è riuscito anche a isolare, fra le molte esecuzioni disordinate e confuse, i momenti felici, che Bird riusciva di tanto in tanto a trovare. Comunque sia, io ricordo Parker in condizioni pietose: con un sorriso stolido sulle labbra, dondolante sule gambe malferme anche sul palcoscenico. E ricordo le sue goffe presentazioni in cui cercava di essere spiritoso («Conoscete ‘Lily Pons’ Hodges...?»), e ricordo soprattutto certi suoi sgangherati assoli che venivano accolti con malumore da un pubblico sconcertato. Rammento anche il tentativo fatto da non so qual giornalista di intervistarlo, fra le quinte. Costui, che si era presentato molto compitamente, non riuscì a porgli una sola domanda. Aveva appena aperto bocca che già Charlie lo abbracciava e lo baciava sulle guance con trasporto: «My friend» ripeteva, ed è sicuro che non lo aveva mai visto prima. Quell’imbarazzante spettacolo mi fece passare definitivamente la voglia di scambiare quattro chiacchiere col sassofonista, come mi ero proposto di fare. A parte Charlie Parker, quei concerti rappresentarono per me una specie di viaggio nel Paese delle Meraviglie. Eravamo tutti intimiditi: noi appassionati di jazz perché eravamo al nostro primo incontro coi «grandi» d’oltre oceano; i musicisti europei, in quanto intimoriti dai concerti che li attendevano (trionfarono gli svedesi; nessuno in europa poteva competere con loro, in quegli anni) e infine i musicisti americani, che erano quasi tutti alla loro prima spedizione oltre atlantico e non sapevano come comportarsi davanti a un pubblico entusiasta e adorante quale non avevano mai incontrato. In patria erano dei poveracci, trattati il più delle volte con aperto disprezzo. A Parigi erano dei divi, a cui si chiedeva rispettosamente l’autografo. Il più intimidito era Miles Davis. Era un musicista ammirevole (aveva da poco inciso una parte dei suoi famosissimi dischi Capitol, e altri ne avrebbe registrati subito dopo il suo ritorno in patria) ma era poco più che un ragazzo: avrebbe compiuto ventitrè anni di lì a pochi giorni. Aveva i capelli impomatati e ondulati e la faccia impassibile di sempre, ma nei suoi occhi si leggeva una sconfinata timidezza. (In quegli stessi occhi, parecchi anni dopo, si sarebbe letta una sconfinata arroganza...) uno dei momenti emozionanti di quel lungo festival fu per noi quello in cui vedemmo salire per la prima volta sul palco in nostro campione, Trovajoli, che si misurò in un contest di pianisti. Quando il presentatore menzionò la parola «Italie» si sentirono molti fischi: dopotutto erano passati appena quattro anni dalla fine della guerra, e in Francia non avevano scordato il nostro maramaldesco intervento del 1940. Poi però l’elegante musica del nostro pianista mise a tacere i fischiatori; alla fine applaudirono tutti. Il successo si ripeté ancora quando, in un altro concerto, il nostro rappresentante tornò nuovamente sul palco, per suonare in trio, accompagnato da Gilberto Cuppini che era a Parigi per difendere i colori svizzeri nel gruppo di Osterwald - e da Kramer, che si mise al contrabbasso. La brillante carriera di Armando Trovajoli cominciò proprio in quei giorni. peccato che poi il pianista non abbia voluto più saperne del jazz. I concerti alla Salle Pleyel non costituivano le uniche jazzistiche emozioni che Parigi poteva offrire in quei giorni ai pellegrini del jazz arrivati dai quattro angoli d’Europa. A notte inoltrata ci pigiavamo nelle caves di St. Germain des Prés, dove si suonava in jam session fino al mattino. Quei locali erano divenuti famosi per l’assidua frequentazione di certi grandi sacerdoti dell’Esistenzialismo, ai tempi in cui era possibile a qualche musicista di jazz con inclinazioni letterarie di farsi fotografare insieme a Sartre. Ora però quei personaggi non c’erano più: a ricordare i tempi eroici di due o tre anni prima restavano molte ragazze dagli occhi bistrati e il maglione nero che cercavano di somigliare il più possibile alla papesse Juliette Gréco. Noi comunque non avevamo occhi e orecchi per i nostri amici jazzisti, che potevamo toccare con mano. Sul piccolo palco del Club St. Germain suonava chiunque ne avesse voglia. Ogni sconosciuto poteva misurarsi coi giganti d’oltre oceano, e magari giovarsi dell’accompagnamento di Max Roach, che in quei giorni aveva lasciato tutti allocchiti. tra quelli degli sconosciuti mi è rimasti

impresso un nome: quello di Ronnie Scott, che alcuni anni dopo avrebbe aperto a Londra un locale di jazz che, dopo incerti inizi e un trasloco, sarebbe diventato l’ombelico del mondo del jazz europeo. Rammento anche una jam session molto significativa perché diede la misura, a tutti noi spettatori, del divario che separava ormai i musicisti della nuova generazione, i boppers, dai jazzisti affermatisi prima della guerra: mi riferisco all’incontro di due trombettisti: il famoso «Hot Lips» Page, già gloria del jazz di Kansas City, e Kenny Dorham, un bopper che nessuno in Europa conosceva ancora e che era arrivato da New York col quintetto di Parker. maggiore incomprensione fra due solisti impegnati a suonare insieme non può essere immaginata: era un indisponente dialogo fra sordi. Al Club St Germain feci la conoscenza con Boris Vian: era un giovane ingegnere squattrinato, che scriveva cose che nessuno leggeva, e che per arrotondare i guadagni (o forse solo per divertimento) suonava jazz tutte le sere nelle cantine della Rive Gauche. Soffiava dentro una strana tromba con la campana rivolta in alto, trovata presso chissà quale rigattiere: lui la chiamava «trompinette». Allora scambiammo solo poche parole al tavolo di Delaunay (Vian era indaffaratissimo perché stava accordandosi con alcuni musicisti per una seduta d’incisione fissata per il giorno dopo, del cui buon andamento era responsabile, e poi voleva soffiare dentro la trompinette); anni dopo ci saremmo azzuffati a distanza. (Io avevo parlato male di un certo disco di fats Waller che a lui piaceva, e mi ero visto sfottere un po’ troppo pesantemente sulle pagine di «Jazz Hot», che ospitava una sua divertente rassegna della stampa: ci fu uno scambio di lettere, qualche battuta sulle rispettive riviste, e poi tutto finì a tarallucci e vino. «Je sais que tu es un chic type», fu la conclusione di Vian) Quella sera, in mezzo a quella calca, Vian mi fece una notevole impressione. Era chiaro che si trattava di un tipo fuori del comune; mi domandavo anzi che cosa ci stesse a fare, lì, con quella trompinette. Ora, a distanza di anni dalla sua morte improvvisa, dopo che il suo talento letterario è stato ampiamente riconosciuto, mi viene qualche volta fatto di ricordare quel nostro incontro e contemporaneamente quello, avvenuto negli stessi giorni, co un altro giovanotto che aiutava Delaunay a mandare avanti la baracca del festival: Eddie Barclay. Barclay non mi fece proprio nessuna impressione. Eppure, cominciando col jazz, avrebbe messo su a poco a poco un impero discografico che oggi vale molti miliardi. Quando tornai a casa, in Italia, avevo le orecchie piene di jazz: quello che avevo ascoltato avrebbe dovuto bastarmi per mesi. E mi bastò. Per lo meno fino a quando non arrivò a Milano Louis Armstrong coi suoi All Stars.

Satchmo Il 21 ottobre 1949, Louis Armstrong trovò una piccola folla ad attenderlo all’aeroporto della Malpensa. Per lui era uno spettacolo consueto. Era un rito che si ripeteva puntualmente dovunque andasse, al di fuori degli Stati Uniti. Spesso a dargli un sonoro benvenuto c’era una casareccia «banda New Orleans»: ce ne sarebbe stata una, di lì a pochi giorni, anche a Roma (e fu quello il debutto ufficiale della Roma New Orleans Jazz Band», il cui morale salì alle stelle proprio per gli incoraggiamenti che i suoi giovanissimi componenti ricevettero dal grande Satchmo). I «Welcome to Italy» si sprecarono, per lo meno quanto gli smaglianti sorrisi, le strette di mano e le risate dell’ospite, il quale dava proprio l’impressione di trovarsi al colmo della beatitudine, felice di ritrovarsi in mezzo ad amici perduti di vista da anni. Satchmo era un uomo dotato di un’incredibile vitalità: si aveva l’impressione di trovarsi dinanzi a una dinamo, o a una molla compressa pronta a scattare. Era intelligentissimo. era anche piuttosto prepotente, egocentrico, testardo; però per il suo pubblico era un cordialone, un sempliciotto. Recitava alla perfezione la parte di Louis Armstrong detto Satchmo, un tempo soprannominato Dippermouth, il povero ragazzo negro nato in una squallida baracca di New Orleans che poi avrebbe fatto strada. (Per quale ragione? chiedetelo al pubblico - sembrava dicesse - io non lo so. E’ il pubblico, nella sua immensa generosità, che mi ha reso importante...) Bisognava vedere l’espressione compunta che gli si disegnava sul viso ogni volta che qualcuno ne tesseva pubblicamente l’elogio. teneva gli occhi rivolti verso il basso, le labbra piegate in una smorfia dolorosa: Domine non sum dignus... E bisognava gustare il perfetto tempismi di certe sue battute, di quelle sue risate... La prima che sentii da lui - alludo a quelle fragorosissime, che si udivano a grande distanza - non fu solo una risata: fu l’entrata di un grande attore, una performance da applauso a scena aperta. Eravamo ad attenderlo nelle sale del British Institute, a Milano, dove veniva dato un piccolo ricevimento in onore suo e dei suoi uomini: Jack Teagarden, Earl Hines, Barney Bigard, Cozy Cole, fra gli altri. Sapemmo che era arrivato quando udimmo quella sua risata rabelesiana risuonare nell’anticamera. Non so come, Louis era riuscito a fare in modo che ci fosse una plausibile ragione per ridere di gusto proprio nel momento in cui attraversava la porta d’ingresso. Voleva far sapere a tutti che satchmo era arrivato e che era quel cordialone che tutti conoscevano. Come riuscisse a farsi porre le domande a cui voleva rispondere non l’ho mai compreso. Però è quanto accadeva spesso. Accadde anche con me e Testoni quando, in quei giorni di ottobre, andammo a intervistarlo in uno dei camerini del Teatro Odeon, dopo un concerto. Lo sorprendemmo nella sua abituale tenuta di riposo, dopo il lavoro: in mutande e canottiera, con un grosso fazzoletto bianco annodato attorno alla testa sudata. Fu affabilissimo. Ci trattò come fossimo gli inviati di chissà quale grande giornale. Ascoltava le nostre domande con grande attenzione, guardandoci fissamente: qualche volta ci dava delle risposte vaghe, anzi evasive; ma più spesso rispondeva con precisione, con perentoria sicurezza. Quando gli fu chiesto se fosse anche lui dell’opinione che solo i musicisti neri sentissero profondamente il jazz e potessero suonarlo nel modo «giusto», si indignò addirittura. (O meglio: fece finta di indignarsi - per lo meno così mi parve:) Si sedeva e si alzava di scatto, accalorandosi, e per farsi capire meglio, ogni tanto dava di piglio alla tromba. La appoggiò alle labbra per soffiarci dentro almeno un paio di volte: quando volle illustrarci il fraseggio jazzistico, che poteva essere tale anche se si svolgeva ad libitum, senza appoggiarsi a un tempo regolare, e poi quando volle spiegarci che cosa intendeva lui per un buon assolo, che per prima cosa doveva «raccontare una storia», e cioè avere un inizio, una fine, raggiungere un climax, e svolgersi nel modo più logico, conseguente ed espressivo. «Il jazz migliore è quello suonato nel modo in cui uno lo sente nel profondo del suo animo» ci disse, e poi aggiunse una brevissima lista di requisiti del buon jazzman: «division and phrasing», «a good time, imagination and a sense of rhythm». Allora si era in pieno periodo bop. Di fronte a Dizzy Gillespie e gli altri boppers Armstrong poteva

essere considerato un musicista superato, un uomo appartenente a un’era ormai conclusa. Sapevamo benissimo, Testoni e io, che quei giovani turchi, i boppers, erano per lui come il fumo negli occhi (a loro aveva persino dedicato uno sfottò in musica, che a qualcuno era sembrato di cattivo gusto); però volemmo ugualmente stuzzicarlo sull’argomento. «Il bebop» ci disse con aria convinta «è frutto di errori. Il musicista comincia una frase e non può svolgerla perché gli riesce difficile tecnicamente e non sa come svilupparla, e allora ripiega su una conclusione illogica, inaspettata.» Ancora: «I giovani musicisti mirano all’effetto, a raggiungere la nota più alta. Bastano pochi anni di bebop per rovinare le labbra. Il jazz è un’altra cosa, non è solo questo». Il guaio era che le labbra se le era rovinate lui, deturpandole in modo orrendo (sul tavolo del suo camerino, assieme a diverse boccette di medicinali e all’olio per i pistoni della tromba, non mancava mai un unguento per le labbra, a cui attingeva con frequenza), e se le era rovinate per via di quel suo modo di suonare la tromba, che premeva con forza sulle labbra: sui «chops», le bistecche, come diceva lui: I boppers avevano imparato a suonare con una tecnica più razionale e hanno conservato le labbra in perfette condizioni anche dopo molti anni di dura milizia jazzistica. A sessant’anni (Gillespie fa testo) suonano ancora benissimo, mentre Louis declinò dieci anni prima di loro. L’intervista fu poi riassestata da Testoni - allora i magnetofoni non erano di uso corrente e bisognava ricostruire il dialogo con l’aiuto della memoria e di pochi appunti - e fu pubblicata su «Musica Jazz». Qualche giorno dopo ci arrivò l’ultimo numero di «Jazz Hot» che recava un’intervista fatta ad Armstrong negli stessi giorni a Parigi. Ci crediate o no, molte delle risposte di Louis erano uguali a quelle che aveva dato a noi: anche in quella circostanza evidentemente era riuscito a suscitare le domande a cui gli premeva rispondere, senza che né noi né il collega francese ce ne fossimo minimamente accorti. In un’altra occasione, in quegli stessi giorni, mi capitò di vedere un’Armstrong molto diverso, quello che si trovavano dinanzi talvolta i suoi musicisti e che poteva essere molto duro. Mi ero infilato tra le quinte perché Earl Hines mi aveva promesso un’intervista subito dopo un concerto. Avevamo appena cominciato a parlare che la rauca voce di Louis (imperiosa e collerica) ci strappò dalle nostre speculazioni. Hines dovette interrompere il colloquio e raggiungere il suo leader, che gli inflisse subito una solenne lavata di capo. Si trattava di questo: durante l’esecuzione di un pezzo, colui che tutti i pianisti chiamano rispettosamente «Fatha», padre, perché era ed è tuttora un grande maestro, aveva suonato un accordo (un accordo, non due) che ad Armstrong non andava a genio: Una cosa da nulla per chiunque, ma non per Satchmo, che costrinse i suoi uomini a tornare sul palcoscenico, dinanzi alla platea ormai vuota, per ripetere più volte il chorus incriminato, guidandoli e rimproverandoli con un pedanteria e una severità che non avrei immaginato possibile in un jazzman. (Solo molti anni dopo avrei incontrato un caporchestra altrettanto severo: Buddy Rich). Quando i musicisti tornarono dietro le quinte seppi che Louis aveva strapazzato anche Barney Bigard, che aveva l’espressione afflitta e risentita di uno scolaretto rimproverato ingiustamente. «Non è vero che io non sappia tenere il tempo, io so tenere il tempo!» protestava a voce bassa: (Bigard è considerato uno dei più grandi clarinettisti della scuola di New Orleans, e allora era nel pieno delle sue forze!) Quella tournée del 1949 ebbe un esito trionfale. Quando fu terminata sul tavolo di «Musica Jazz» piovvero un’ottantina di ritagli di recensioni apparse in altrettanti giornali italiani. I commenti più imbarazzanti erano quelli dei critici «classici» che non sapevano evidentemente cosa dire, e che facevano discorsi vaghi, pigiando sul pedale del colore: Quello che ci fece più arrabbiare fu Guido Pantani, che sulla «Stampa» assicurò che «oggi il jazz non è più di scena» e che soltanto restavano le vestigia del grande chiasso che se ne fece.». Incautamente profetizzò pure che se fosse tornato in Italia di lì a cinque anni Armstrong non avrebbe più trovato ammiratori, né il più piccolo cinematografo disposto ad ospitarlo. Si sbagliava di grosso. Tre anni dopo Louis tornò e fu accolto come un re. Questa volta ad attenderlo alla Malpensa, c’erano almeno centocinquanta persone, e c’erano addirittura due «bande», montate su un camion: la Milan College Jazz Society e la Original Lambro Jazz Band, i

cui componenti, emozionatissimi, facevano del loro meglio per suonare tutti insieme un decente Muskat Ramble (il jazz italiano stava dando, da qualche tempo, confortanti segni di vitalità). E dovunque Louis si esibì, in quei giorni, si dovettero appendere agli ingressi dei teatri i cartelli del «Tutto esaurito» E sì che il suo gruppo era assai inferiore a quello precedente: lui stesso sembrava aver perso lo smalto di un tempo - ma era febbricitante, e il suo labbro tumefatto faceva impressione. Quando, quella volta, potei scambiare quattro chiacchiere con lui, gli chiesi, anzitutto, come andassero le cose, per il jazz, in America. Sapevo bene quale fosse la situazione, ma volevo la sua opinione, che prevedevo furbesca o faziosa. «Le cose stanno andando meglio (forse perché i boppers hanno fatto il loro tempo, pensai), benché oggi ci sia una cosa che chiamano cool jazz...» Nel pronunciare le parole «cool jazz» assunse un’espressione sgomenta, mentre la sua voce si arrochiva, rallentava , toccando i toni più gravi che avessi mai udito. Ma la smorfia di disgusto che fece voleva essere anche comica. E lo era. Earl Hines lo aveva piantato in asso ed era sostituito da Marty Napoleon, il nipote di Phil, leggendario pioniere del jazz a New York: come il suo più celebre zio si chiamava in realtà Napoli ed era di origine siciliana. (Peccato che pretendesse di farsi capire da me parlando in un barbaro siculo-americano pressoché incomprensibile.) Quando Hines lo aveva abbandonato, Armstrong aveva dichiarato pubblicamente che l’amico poteva andarsene all’inferno. «E' bravo, sicuro, ma possiamo fare a meno di lui», aveva concluso. Ricordandomi di quella sua uscita, volli chiedergli a mia volta spiegazioni circa quella separazione. Non per altro: perché volevo godermi una volta di più la sua impagabile mimica. Devo dire che Satchmo non mi deluse: mi lanciò un’ineffabile occhiata in tralice in cui si leggeva un furbesco ammiccare (come dire: «Ci siamo capiti...») e anche un pizzico di sospetto («Mi posso fidare di costui?»), poi di colpo assunse un’aria distaccata e mi spiegò che Hines è sempre stato direttore d’orchestra e che voleva tornare ad esserlo. Ora aveva quello che voleva e amici come prima. Senonché per Armstrong il conto non tornava, perché Napoleon non valeva un’unghia del suo predecessore. Inoltre Trummy Young non era paragonabile a Teagarden, Bigard era stato sostituito dal modesto Bob McCracken e fra i superstiti - Arvell Shaw, Cozy Cole e la cantante Velma Middleton - il solo Cole, batterista metronomico, era degno della massima considerazione. Gli chiesi allora se fosse soddisfatto del suo complesso. Mentì spudoratamente, assicurando che ne era contentissimo. Poi, quasi volesse scaricarsi ogni responsabilità aggiunse che nella scelta dei componenti il suo complesso lui non metteva il becco. «Li sceglie Joe Glaser: è come un padre per me!» (Lo ripetè per anni a tutti, e lo pensava davvero. Peccato che Glaser - un ex gangster di Chicago che per primo mise in valore Armstrong quando questi suonava nel suo locale, il Sunset, nel 1927 - ricambiò l’affetto del suo pupillo in modo assai strano, passandogli uno stipendio mensile piuttosto modesto, se raffrontato ai compensi che chiedeva per le sue prestazioni.) Che Armstrong lasciasse scegliere i suoi uomini a Glaser era vero, ed è difficile comprendere la sua acquiescenza a certe scelte: dopo Sidney Catlett e Cozy Cole tutti i suoi batteristi, dal primo all’ultimo, furono mediocri. E sì che avrebbe potuto permettersi di avere con sé i più grandi musicisti di jazz, molti dei quali, in quegli anni, se la passavano maluccio. La verità - come avremmo visto sempre più chiaramente in seguito - era che Armstrong, come artista creativo, stava imboccando proprio allora il viale del tramonto. il labbro no serviva a dovere, e lui non si preoccupava molto della musica che faceva. Sembrava che gli premesse solo di accontentare il grosso pubblico, quello cosiddetto generico. «Io suono quello che la gente vuole sentire da me», ripeteva con stizza a chi, con delicatezza gli muoveva delle critiche e lo esortava a comportarsi da quell’artista che era e non da entertainer. Fatto sta che, col passare del tempo, i suoi concerti si trasformarono sempre più in divertenti spettacoli di varietà: gli appassionati di jazz - che ricordavano con nostalgia i grandi dischi degli anni Venti - andavano su tutte le furie quando vedevano la corpulenta Velma Middleton esibirsi in una rovinosa «spaccata» che faceva tremare le assi del palcoscenico, o quando Trummy Young si metteva ad azionare la coulisse del suo trombone con un piede.

Il canto del cigno di Louis fu un long playing dedicato alle musiche di W.C. Handy, inciso nel 1954. La reazione di molti fu pressappoco questa: «Ma allora, quando vuole, quel furfante sa ancora suonare!». Però, negli anni successivi, non volle, o non poté più. Fu invece, sempre più, un personaggio del mondo dello spettacolo, un animale da palcoscenico, un irresistibile attore e un inimitabile cantante: In Italia, Armstrong compì altre tournées, nel 1955 e nel 1959. Poi tornò tutto solo per partecipare a una edizione del festival della canzone di Sanremo. Non capì bene di cosa si trattasse, cantò una canzone - piuttosto brutta - in italiano, fu eliminato dopo la prima sera, lasciò che qualcuno si servisse di lui per fare un po’ di pubblicità: «Armstrong è un vecchio e caro amico mio: guardate questa foto, guardate come mi guarda sorridendo» (questa storia si era ripetuta tante volte anche in passato e lui faceva finta di non accorgersene), e poi ripartì. A «Musica Jazz» arrivarono lettere accorate: i suoi fans delusi ci inviavano delle lettere aperte a lui indirizzate, che cominciavano con un «Caro, vecchio Louis» e dicevano in sostanza «Non lo dovevi fare. Perché ci hai tradito?» Intanto però la stella di Armstrong splendeva più viva che mai nel firmamento della musica leggera internazionale. Un suo dico, contenente una versione di Mack the Knife, aveva avuto un successone; di un altro, con Hello Dolly, si erano vendute chissà quante centinaia di migliaia di copie. Giungevano notizie dei suoi trionfi dai quattro angoli del mondo. Durante una sua tournée nei paesi dell’Europa Orientale si videro scene di entusiasmo indescrivibili. Nello stadio di Budapest si ammassarono ben 93.000 persone festanti. Se il grosso pubblico lo adorava, parecchi suoi colleghi in America gli avevano voltato le spalle. Per gran parte degli anni Sessanta divampò, negli Stati Uniti, la rivolta dei diseredati nei ghetti, ma lui non mostrò mai di voler scendere in trincea con loro: quando gli si parlava combattuta dai suoi fratelli di razza per la conquista dei diritti civili diventava evasivo: E’ uno «Zio Tom», ripetevano i negri d’America. Chi lo diceva si era dimenticato di quando, al tempo dei fattacci di Little Rock, Louis si era indignato al punto di rilasciare un’esplosiva intervista nel corso della quale mandò all’inferno nientemeno che il governo degli Stati Uniti, e mandò all’aria la tournée nell’Unione Sovietica che il Dipartimento di Stato stava preparando per lui. Intorno al 1967, Jack Higgins, un impresario inglese allora attivissimo, mi scrisse per chiedermi se mi interessasse Armstrong per un breve giro di concerti in Italia. Gli risposi di no: la sua musica attuale vale molto meno di quello che costa, scrissi. debbo pensare che anche altri abbiano dato delle risposte analoghe perché quella progettata tournée di Armstrong non fu effettuata. Ma devo confessare che quando appresi la notizia della sua morte provai rimorso per quella risposta.

Una primavera movimentata. BG senza occhiali Nella primavera del 1950 successero molte cose importanti nel piccolo mondo del jazz italiano. Non soltanto arrivarono delle formazioni celebri come quelle di Benny Goodman e di Duke Ellington, che si esibirono con grande successo in diverse città, ma i primi complessi di jazz degli di questo nome cominciarono a essere conosciuti da un pubblico non più ridottissimo e incisero i primi dischi. E’ esagerato affermare - come è stato fatto sulla copertina di diversi LP recenti - che gli anni cinquanta furono, per il jazz italiano, anni «ruggenti»; tuttavia sarebbe inadeguato parlare, a proposito di quel decennio di «vagiti» del nostro jazz, come pure è stato fatto. Si può dire che il jazz italiano sia nato proprio nei primi anni cinquanta, ma è certo che dimostrò subito di essere molto vitale e di voler camminare in fretta. Allora, ancor più di oggi, praticamente tutti i jazzisti italiani di qualche rilievo erano concentrati a Roma e a Milano; i pochissimi che risiedevano altrove erano del tutto isolati e conducevano una vita dura. tra Roma e Milano c’era però una notevole rivalità; i jazzmen locali erano visti dai fans come campioni la cui superiorità sugli altri fosse indiscutibile e si dovesse proclamare ai quattro venti in ogni occasione. Purtroppo (dico così perché sono milanese d’adozione) anche se a Milano ci si dava da fare più che altrove, le cose del jazz andavano meglio a Roma: voglio dire che nella capitale i musicisti di jazz erano più maturi,più avanti sul piano internazionale. Me ne dovetti rendere conto con chiarezza un giorno del febbraio 1950 quando assistetti, al cinema Splendore di Roma, a una rassegna delle forze jazzistiche locali organizzata dall’Hot Club. Vidi allora che la Roman New Orleans Jazz Band quella stessa che aveva dato un sonoro benvenuto ad Armstrong - era una formazione tutt’altro che trascurabile, nel suo genere, e che il trombettista Nunzio Rotondo (un «milesdavisiano», allora) non aveva rivali in Italia sul suo strumento, mentre il suo quintetto (con Marcello Boschi al sax alto e Carlo Loffredo al contrabbasso, fra gli altri) era effettivamente il miglior gruppo bebop che avessimo nel nostro paese. Constatai anche che qualche altro solista, come il pianista Umberto Cesari e il chitarrista Carlo Pes, era meritevole di qualche attenzione. Quando tornai a Milano, parlai con gli amici di ciò che avevo visto e ascoltato. Ne parlai anche con Angelo Rognoni, direttore di una delle più grandi case discografiche in quegli anni: quella che produceva i dischi Odeon e Parlophon. Non mi ci volle molto a persuaderlo di venire con me a Roma per registrare una serie di dischi coi miei patrocinati, e in particolare con Armando Trovajoli, la Roman New Orleans Jazz Band e i complessini di Nunzio Rotondo e di Umberto Cesari; dopotutto Rognoni aveva un debole per il jazz, come aveva già dimostrato incidendo, nel 1946, una serie di dischi di jazz italiano prodotti da Roberto Nicolosi. A Roma ci istallammo in uno stanzone adibito al doppiaggio dei film (non c’era alcuno studio di registrazione, a Roma, nel 1950) e incidemmo del buon jazz, come da programma. Poco dopo, in giugno, mi trovai coinvolto in una nuova jazzistica impresa: un Festival Nazionale del Jazz organizzato dalla Federazione Italiana del Jazz, da me rappresentata e dal Circolo milanese Amici del Jazz, per l’occasione fraternamente uniti. Il festival, in cui vennero presentati i migliori gruppi di Milano e di Roma, ebbe un successo assai maggiore di quello da noi riscosso qualche tempo prima a Firenze, e non solo perché i musicisti diedero una prova molto migliore, ma perché il pubblico prese d’assalto il teatro, esaurendo ogni ordine di posti in men che non si dica. Fra i jazzisti già conosciuti fece allora il suo debutto un giovane tenorsassofonista piemontese che avrebbe fatto strada: Gianni Basso. Come ho già anticipato, non furono quelli i soli avvenimenti di rilievo della primavera jazzistica del 1950. Alla fine di aprile era arrivato Benny Goodman, che aveva dato diversi concerti a Milano (al cinema Zenith, pensate un po’) e poi a Torino, Genova, Firenze, Bologna e Roma, con un complesso comprendente Roy Eldridge, Zoot Sims, Dick Hyman, Toots Thielemans, il bassista inglese Charlie Short, il batterista Eddie Shaughnessy e la cantante Nancy Reed. Un poco più tardi,

in maggio, era arrivata per la prima volta la grande orchestra di Duke Ellington, che aveva iniziato da Milano una non breve tournée lungo la penisola, con numerosi concerti al Teatro Odeon (troppi, per esser tutti affollati). Per me l’arrivo di Benny Goodman aveva rivestito un interesse del tutto particolare; ciò che mi premeva incantare non era tanto il suo clarinetto, il cui suono mi era familiare dai tempi del liceo, quanto l’uomo Benny Goodman: il Goodman vero, senza occhiali. (Già, perché i suoi proverbiali occhiali li metteva il meno possibile, e solo in pubblico. Gli servivano evidentemente per caratterizzare meglio la propria faccia, non per altro: probabilmente erano dei semplici vetri...) il concerto era parso, a me e a molti altri, piuttosto squilibrato. Come avrebbero potuto conciliarsi la tromba infuocata ed esuberante di Roy con l’accademica eleganza del clarinetto goodmaniano e col «freddo» tenore di Zoot Sims (era uno dei famosi «quattro fratelli» da poco usciti dalla sezione dei sassofoni di Woody Herman: il che è come dire che era uno dei maggiori esponenti dell’allora trionfante «cool jazz»)? Per non parlare della torrenziale ma un po’ dispersiva fantasia di Thielemans e della percussione «beboppeggiante» di Eddie Shaughnessy. Tuttavia si vide subito che Goodman non era affatto quel freddo tecnico dello strumento che la critica francese (che faceva legge, in quegli anni) additava al pubblico disprezzo, e non era neppure un musicista «commerciale», visto che della platea sembrava non importargli nulla. In realtà, nessuna delle persone con cui veniva a contatto sembrava attirare particolarmente la sua attenzione e muovere i suoi affetti. Verso i suoi musicisti ostentava un distacco del tutto inconsueto tra i jazzmen («Lui è il big boss», mi aveva confidato Thielemans, abbozzando una comica espressione tronfia, per imitarlo in qualche modo...), gli ammiratori e i giornalisti sembravano più che altro dargli fastidio, e , come ho detto, non si curava molto di chi ascoltava la sua musica, anche se con evidenza rispettava le supposte evidenze estetiche. Per questa ragione gli avevo chiesto con senso di disagio un’intervista, prima dello spettacolo pomeridiano. L’intervista mi fu concessa di buon grado - e non con un grugnito, come temevo - e non durò, come avevo appena osato sperare, tre o quattro minuti... No: dopo alcune mie domande sulla situazione del jazz in America, sui suoi possibili sviluppi, sui suoi maggiori musicisti, mi accorsi che l’uomo che mi stava dinanzi non era affatto l’inaccessibile «big boss» descrittomi da Thielemans. E i tre minuti d’intervista da me richiesti divennero venti, trenta... ma l’intervistato non era più Goodman: ero io. Perché Benny - constatai - aveva una acuta curiosità per le cose d’Europa: mi chiese della solidità della democrazia italiana, di Mussolini, della guerra, della ricostruzione... Poi mi parlò con competenza di pittura, e volle informazioni circa la possibilità di acquistare a Roma delle opere d’arte e vecchi manoscritti di musica, di cui disse di essere collezionista. La sera, in un ristorante milanese, dove volle cortesemente invitarmi (ma andò a finire che il conto lo pagai io perché lui - distratto com’era - aveva dimenticato di cambiare i dollari che aveva nel portafogli....), mi parve finalmente di capirlo. goodman non è, a differenza di tanti altri musicisti di jazz, un uomo semplice ed entusiasta. Della sua musica, il jazz, parla col distacco con cui potrebbe parlarne un compositore classico; si indovina in lui (nonostante le sue reiterate proteste di amore per il jazz) una struggente verso sfere più alte della musica. Ho capito male, o le sue frequenti scorribande nel campo della musica «dotta» tradiscono un inconfessato senso d’inferiorità? Sul jazz del momento comunque si dimostrò pessimista. Il bebop non sembrava convincerlo, e la strada del progressive jazz, di cui allora molto si parlava, non poteva portare, a suo giudizio, ad apprezzabili risultati. «Il jazz non ha nulla a che fare con la musica classica: senza beat e senza improvvisazione è finito», mi rispose con convinzione quando gli chiesi il suo parere circa certe recenti esperienze intese a gettare un ponte fra il jazz e la musica sinfonica europea. Ma il presente del jazz gli pareva oscuro per un altro motivo: troppi musicisti non fanno (o, quanto meno, allora non facevano) altro che copiare pedissequamente lo stile di pochi grandi maestri, e, in mancanza di idee personali ricorrono (o ricorrevano) a trucchi per abbagliare il pubblico. Inoltre sono (o erano) pochi i musicisti

seriamente impegnati nello studio del loro strumento. Questo fatto spiegava anche - secondo Goodman - la decadenza del suo particolare strumento, il clarinetto, il cui linguaggio è condizionato dalle sue stesse caratteristiche. «A clarinet has to sound like a clarinet» («Un clarinetto deve avere il suono di un clarinetto»), mi disse: la sua sonorità - in altre parole - non può essere modificata o deformata come è stato fatto per altri strumenti nel jazz. Per quanto riguardava l’immediato futuro, BG (le sole iniziali sono d’obbligo per i grandi del jazz) dichiarò di non avere progetti; di non avere intenzione, a ogni modo, di ricostituire una grande orchestra. Avrebbe preferito dedicarsi all’attività concertistica. del resto gli affari nel mondo del jazz non andavano bene come un tempo. Non andavano bene soprattutto per BG. Lui non sembrava rendersene del tutto conto, ma colui che era stato per anni «il Re dello Swing» non aveva più un regno a disposizione. E senza regno si sentiva a disagio.

Duke Più d’uno, in Italia, nei giorni immediatamente successivi a quelli della sua scomparsa, ha parlato o scritto di Duke Ellington come di una specie di «Zio Tom», nato benestante e restato per tutta la vita attratto, affascinato dai bianchi: indifferente, per di più, ai problemi dei suoi fratelli di razza. Più grosse sciocchezze non si potevano sire. Anche se si dimenticano i consistenti aiuti sempre dati da Ellington alla NAACP (National Association For The Advancement Of Colored People) e il suo appoggio all’azione di Martin Luther King, c’è da chiederesi come possa essere nata quella storia di Ellington «Zio Tom». Lo «ziotomismo» presuppone un complesso d’inferiorità razziale, la consapevolezza d’avere a che fare con dei «superiori» e la propensione a umiliarsi dinanzi a loro, a servirli. Non si può essere degli «Zii Tom» senza provare almeno un po’ di soggezione di fronte ai bianchi. E Duke non provava soggezione di fronte a nessuno. Accettava lauree ad honorem (né collezionò ben quindici), alte onorificenze, Oscar, trofei, targhe ed elogi con grazia divertita, senza neppure un briciolo di commozione. Alla presenza della regina d’Inghilterra o di qualche altro potente della terra si limitava a sfoggiare una cera un tantino più raggiante del solito, ma nei suoi occhi, strizzati nel sorriso, sopra quelle borse rigonfie, s’indovinava sempre un punta d’ironia. Chi ha visto il documentario del ricevimento offerto in suo onore, anni fa, alla Casa Bianca, dal presidente Nixon, sa ciò che voglio dire. Fra i due, chi sembrava farsi piccolo di fronte all’altro era Nixon, non Ellington. Altro che Zio Tom. E altro che Duca. O forse sì: Duca, ma non di quelli che fanno fatica a mantenere il castello e a pagare il salario dell’autista e le tasse: Era un duca d’altri tempi. Dovunque andasse si portava il castello con sé. Voglio dire che si portava appresso la sua corte, in cui graziosamente ammetteva anche alcuni avventizi, ai quali assegnava un preciso status fra i suoi dignitari, vassalli e valletti. Dopo che ebbi organizzato una dozzina di concerti suoi ebbi anch’io l’onore di essere ammesso alla sua corte, di passare, a più riprese, molte ore con lui, di viaggiare con lui, di cenare con lui nel suo appartamento d’albergo e di fare con lui la prima colazione («Cominciamo la giornata insieme», proponeva: ed era una sorta di rito dell’amicizia). Capii di essere stato ammesso nell’«inner circle» quando mi fu riconosciuto il diritto di essere dea lui baciato per due volte su ciascuna guancia: sinistra, destra, sinistra, destra. Un altro rito di corte: quasi l’attribuzione, e la ricorrente conferma di un’onorificenza dell’ordine di Ellingtonia. Imparai lì, fra i dignitari della sua corte, che quella di Ellington è una religione. Alla corte di re Sole non doveva essere del tutto diverso, nella sostanza, perché anche lì, in Ellingtonia, si viveva in funzione di lui, si era tutti condizionati da lui, dal suo umore, dal suo stato di maggiore o minore benessere. E il bello è che lui non chiedeva niente a nessuno, non pretendeva di essere intrattenuto o servito, e naturalmente non si preoccupava minimamente di intrattenere gli uomini di corte, neppure a tavola. Si aveva però il diritto di girar per casa - scusate, per il castello - di fargli delle domande, e di ricevere da lui delle cortesi, ma raramente impegnative, risposte. Con lui la conversazione era allentata, senza fervore, talvolta un poco sbadigliante, perché ogni cosa per lui era risolta da un pezzo. Specialmente quelli che riguardavano la musica e il jazz. Sugli altri musicisti aveva opinioni perentorie. Aveva i suoi favoriti (Sidney Bechet, Willie «The Lion» Smith, Django Reinhardt e naturalmente louis Armstrong venivano da lui citati come esempi di grandi creatori) e le sue idiosincrasie: non riusciva a prendere sul serio Jelly roll Morton, e il solo pensiero di Thelonious Monk lo divertiva. (Una volta vide un numero di «Musica Jazz» la cui copertina era dedicata a Monk, che poche settimane prima era comparso anche nella prestigiosa vetrina di «Time». Si mise a ridere di gusto: «Ah, ma allora è proprio diventato un cover boy!» fu il commento) Nutriva un profondo disprezzo per gli imitatori, che per lui erano innumerevoli («Non ci sono scuole nel jazz» ripeteva «Ci sono solo alcuni creatori e migliaia di imitatori), ed era diffidente verso gli esponenti del jazz più avanzato. Una volta che un giornalista della RAI si azzardò a chiedergli che cosa pensasse di John Coltrane, lo vidi rabbuiarsi: «Mi rifiuto di

rispondere!» dichiarò con enfasi. Non so però se quella risposta sottintendesse la sua scarsa stima per coltrane, col quale aveva registrato proprio in quei mesi un ottimo disco per la Impulse, o se fosse soltanto stanco di essere incastrato dai giornalisti su certi temi, e poi citato a sproposito. Mi sono tuttavia sempre domandato quando e come potesse ascoltare la musica altrui. certo è che conosceva poco gli altri musicisti. A Sanremo, dove venne nel 1964, dimostrò di non conoscere neppure di vista Milt Jackson, il principe dei vibrafonisti, che lo aveva abbracciato con filiale devozione, e cadde dalle nuvole quando gli presentai il chitarrista Laurindo Almeida, che si esibiva quello stesso anno assieme al Modern Jazz Quartet. («Era il chitarrista di Stan Kenton, anni fa» spiegai. «E poi, sul finire degli anni cinquanta, ha fatto dei dischi con Bud Shank, dove si ascoltava praticamente già della bossa nova.» «Negli anni cinquanta? troppo presto» rispose scettico.) Come avrebbe potuto ascoltare gli altri musicisti, del resto? dava concerti quasi ogni giorno, e quasi ogni giorno viaggiava da una città all’altra. Ciò che gli restava del suo tempo lo occupava, per quanto potei vedere, a comporre, a fare qualche rara prova con l’orchestra, e soprattutto a dormire. Dormiva moltissimo infatti, a qualsiasi ora. Un pomeriggio lo vidi sdraiato, immobile, su un nudo tavolo, nel camerino di un teatro, nell’intervallo tra un tempo e l’altro di un concerto. Un’altra volta, al termine di un frugale pasto consumato nel suo appartamento, mi affidò alla sua bionda compagna di turno per stendersi sul letto, nella camera attigua, dove dormì per mezz’ora, in attesa del momento di tornare i teatro. Questi frequenti riposi gli erano indispensabili per reggere l’infernale ritmo di vita che conduceva, e che non poteva interrompere perché per lui non c’era nulla che contasse di più della sua orchestra e della sua musica. A dire il vero, la musica veniva molto prima della sua orchestra. I suoi intimi assicuravano che teneva unita la formazione perché per mezzo di quella poteva ascoltare la sua musica - in una versione «autentica» - subito dopo averla composta. o anche mentre la stava componendo: certe sue composizioni nascevano infatti, a pezzi e bocconi, dinanzi al pubblico pagante, il quale non si rendeva conto di stare assistendo al laborioso parto di qualche suite, e magari alle prove che lui non aveva avuto il tempo di portare a termine. ( questo il caso di Freakish Lights, la cui gestazione occupò una parte dei concerti da lui dati in Europa, e in parte li rovinò...) Sta di fatto che avrebbe potuto condurre la tranquilla vita del nababbo invece di affannarsi in giro per il mondo, alla testa della sua orchestra, che era in permanenza sul suo foglio paga, suonasse o non suonasse. Verso il 1965 pagava complessivamente ai suoi uomini circa 1000 dollari al giorno (il meglio pagato era Johnny Hodges) ed è probabile che non riuscisse a recuperarli, come i suoi amici dicevano. la sua ricchezza proveniva dai diritti d’autore, che erano davvero cospicui. Con quelli riuscì ad accumulare una fortuna che al momento della sua morte fu valutata intorno ai trenta miliardi di lire (di allora...). l’orchestra era dunque una sua propaggine, aveva la funzione di una bombola di ossigeno, senza la quale si sarebbe spento. Eppure degli uomini di quell’orchestra sembrava che non gli importasse nulla, se non come musicisti. A uno solo di loro sembrava sinceramente affezionato: Billy Strayhorn, il suo braccio destro, l’uomo che aveva scritto assieme a lui e per lui tanta splendida musica, a cominciare dalla gloriosa Take the «A» Train. Se lo portava con sé in tournée non tanto perché ne aveva bisogno per consultarsi con lui sulla musica che continuamente andava rimuginando, quanto perché voleva che condividesse i suoi trionfi. D’altronde, il piccolo, intelligentissimo Billy costituiva ai suoi occhi la personificazione di una parte cospicua della sua musica, ed era il suo critico più attendibile. Con la maggior parte dei solisti invece Duke non parlava mai, o quasi. Ai vecchi tempi socializzava con loro, ricordano i più anziani dignitari della sua corte, ma da parecchi anni li incontrava solo quando se li trovava dinanzi sul podio per un concerto, o per una seduta d’incisione, o per qualche prova. A volte si sistemava in un albergo diverso dal loro. Non era puntuale. Non di rado arrivava in ritardo in modo scandaloso. quando questo accadeva, prendeva il comando dell’orchestra Harry Carney, il solista più anziano, che la faceva partire con Take the «A» Train, Rockin’ in rhythm e così via. Quando gli subentrava lui, magari venti minuti dopo l’inizio del concerto, si continuava come se nulla fossa. Non era il solo ad avere il diritto di

arrivare in ritardo. Arrivavano in ritardo quasi tutti. Quando era nell’orchestra, l’unico che fosse sempre puntuale era il «perbenissimo» della compagnia: Lawrence Brown, il trombonista. L’ultimo era Cootie Williams, il più ingrugnito, il meno socievole di tutti. il più annoiato era Johnny Hodges, che sul podi schiacciava spesso dei pisolini tra un pezzo e l’altro, e che quando si avvicinava l’ora del termine dello spettacolo mostrava con ostentazione l’orologio al suo leader. di tanto in tanto il Duca faceva a Hodges qualche dispettuccio, facendogli suonare una dopo l’altra le sue specialità, perché si svegliasse. E lui suonava splendidamente, come faceva sempre, ma io credo che in cuor suo maledicesse il suo capo per averlo disturbato. (Hodges non amava affatto Ellington, e questi lo ignorava, come ignorava molti altri suoi solisti. Non ho mai visto i due rivolgersi la parola.) il ritardo non era la sola manifestazione di indisciplina dell’orchestra. Indisciplina che Duke tollerava perché rifuggiva dalle prese di posizione, odiava le discussioni. Preferiva fingere di non vedere. Fingeva di non vedere persino Paul Gonsalves, il suo brillante tenorsassofonista, che era costantemente ubriaco e si muoveva sul palcoscenico barcollando. (Una volta, a quanto mi riferirono, Duke perse la pazienza, a Londra, e licenziò su due piedi Gonsalves, che fu colto da una crisi di disperazione. una crisi che durò soltanto qualche ora: quando venne il momento del concerto, il sassofonista si ripresentò in teatro, riprese tranquillamente il suo posto in orchestra e duke lo lasciò fare.) Sul podio i musicisti si guardavano bene dal tenere un contegno composto e silenzioso. la prima volta che vennero in Italia, nel 1950, andavano e venivano dalle quinte del palcoscenico con la massima disinvoltura. Quando l’orchestra suonava male - e ogni tanto suonava male davvero - era per via dell’indisciplina. Fra tutti i suoi concerti che mi capitò di organizzare -- poco meno di una ventina, nel giro di vari anni - il peggiore fu quello a cui assistettero alcuni ospiti illustri, a cominciare da von Karajan. Duke arrivò sul palcoscenico un quarto d’ora dopo che l’orchestra aveva cominciato a suonare con meno della metà dei suoi uomini, e la formazione non fu completa se non all’ultimo numero del primo tempo, quando comparve Cootie. E sì che Ellington era stato avvertito che il celebre direttore d’orchestra aveva preannunciato il suo arrivo: solo che la cosa non gli faceva né caldo né freddo... Nonostante certi atteggiamenti non era superbo. certo, sapeva perfettamente quanto valeva la sua musica, e nel jazz non si sentiva secondo a nessuno. Ma non si dava arie da grand’uomo, anche perché era quasi sempre sopra pensiero. Era un civettone, questo sì. sapeva di avere del fascino e ne abusava. Le presentazioni dei suoi concerti, i suoi discorsetti erano dei piccoli capolavori di affascinante istrionismo. Erano sempre uguali, ma li faceva tanto bene che anche il classico «I love you Madly» (Vi amo follemente), che rivolgeva immancabilmente alla fine di ogni concerto a tutte le platee, fosse sincero. Col tempo quell’»I love you madly» fu perfezionato. Intorno al 1970 Duke sapeva dire quelle parole in una decina di lingue, giapponese compreso. Quando compì la sua trionfale tournée nell’Unione Sovietica aggiunse la versione russa. Era un uomo di mondo. Era sempre cortese e aveva modi da galantuomo di antico stampo. Con le signore era galante fino al virtuosismo. Con gli ammiratori era sempre affabile. (Una volta che, all’uscita di un teatro, ci trovammo dinanzi un centinaio di cacciatori d’autografi, mi impedì fermamente di fendere le folla, sia pure con dolcezza, come mi accingevo a fare. «Non fare mai una cosa simile», mi redarguì sottovoce, e poi si mise pazientemente a firmare le decine di foglietti che gli venivano porti.) Come un uomo di mondo sarebbe stato perfetto se fosse stato anche un gourmet: invece mangiava sempre e soltanto una bistecca ai ferri con un po’ d’insalata, che faceva stringere il cuore. A suo modo era elegantissimo. Erano eleganti anche quei suoi pantaloni a tubicino, troppo corti, quei colletti che debordavano sul bavero della giacca, quelle sue cravatte a farfalla che parevano fettucce, quei suoi ampi cappotti stretti in vita da una cintura. Anche l’incredibile zazzeretta che negli ultimi tempi gli scendeva sul collo aveva dello stile. Tutto in lui aveva dello stile. Era uno stile che si era inventato da solo. non è vero infatti che avesse ricevuto un’ottima

educazione nei migliori colleges di Washington, come qualcuno scrisse quando dovette redigere il suo necrologio. Era figlio di un cameriere che lavorò presso un medico finché non si impiegò nel ministero della Marina. Di soldi, in casa, ce n’erano pochi, tanto che Duke aveva dovuto cominciare a lavorare presto, rinunciando a giovarsi di una borsa di studio che gli era stata assegnata. Gli inizi professionali, poi, erano stati difficili anche per lui. E tuttavia, fin dal principio, si comportò da gran signore, o meglio da grand’uomo. era appena un ragazzetto quando fu soprannominato Duca.

Duke Ellington

Thelonious Monk

John Coltrane

Stan Kenton Photos by Roberto Polillo

Fioriscono le «bande»; entra Norman Granz

Tra il 1951 e il 1952 gli appassionati del jazz (quanto meno quelli di Roma e di Milano) decisero che occorrevano dei locali disposti a ospitare la loro musica prediletta, e, poiché non ne esistevano, contribuirono ad aprirli e a mandarli avanti. Il problema delle orchestre da presentare non esisteva: senza parlare dei gruppi di stile moderno, che avendo per lo più carattere occasionale si costituivano e si disfacevano rapidamente, c’erano le formazioni tradizionali - quelle che suonavano in stile New Orleans e Dixieland - che imperversavano ovunque. Quante erano? Non lo si è mai saputo con precisione; erano comunque almeno venti, stando ai risultati di un censimento che io stesso tentai di fare in quei mesi, sulla base delle segnalazioni che pervenivano alla Federazione Italiana del Jazz. Risale a quel periodo anche la nascita delle due migliori formazioni tradizionali milanesi: la Original Lambro Jazz Band e Milan College Jazz Society, che dovevano fare i conti soprattutto con la Roman New Orleans Jazz Band e con un’altra orchestra appena nata: la Junior Dixieland Jazz Gang, animata da Francesco Forti e votata al culto di Bix Beiderbecke. Ma c’era dell’altro, come si vide chiaramente al terzo Festival nazionale del jazz organizzato dalla F.I.D.J., nel novembre 1951, col patrocinio del settimanale «Epoca», al Teatro Studio di Milano, nel quale finirono rappresentati tutti gli stili del jazz ma soprattutto quelli tradizionali. quanto ai locali, i prediletti degli aficionados erano il Mario’s Bar, in via Pinciana, a Roma, che era soprattutto animato dalla Roman, e, a Milano, l’Arethusa, a due passi da piazza Diaz, e il Santa Tecla, all’ombra del campanile di San Gottardo. L’Arethusa e il Santa Tecla erano stati aperti per iniziativa di alcuni jazzofili di talento: Roberto Leydi, da poco entrato nella redazione di «Musica Jazz», i pittori Enrico Baj e Sergio Dangelo e il designer Joe Colombo. (Per merito di questi tre - a cui si aggiunsero poi lo scultore Umberto Milani e il disegnatore Tinin Mantegazza, che diede il suo contributo alla decorazione delle pareti e assunse alla fine la direzione del locale - il Santa Tecla divenne una sorta di piccola cappella Sistina dell’arte moderna milanese, cosa di cui i suoi proprietari non furono mai consapevoli, tanto che, alla fine, i preziosi graffiti, gli affreschi e gli altorilievi di cui era stata ornata la cave milanese furono grattati via per far posto a una volgare moquette...) E’ superfluo dire che i Circoli jazzistici di Milano e di Roma la facevano da padroni in questi locali: vi sperimentavano nuove orchestre, vi presentavano concerti e vi davano persino qualche festa. Non si deve credere tuttavia che tutto andasse nel migliore dei modi, nel mondo del jazz italiano. Si litigava spesso invece, perché ormai il pubblico era diviso in due fazioni, l’una contro l’altra armata: quella dei sostenitori del jazz moderno e quella dei tradizionalisti. Io ero considerato una specie di leader dei modernisti e in quanto tale ero il bersaglio favorito dei seguaci delle «bande» tradizionali, che, nell’ambito internazionale avevano i loro idoli in Armstrong e Sidbey Bechet, per citare solo due nomi emblematici. (Per noi questi due andavano benissimo: solo reclamavamo spazio e onori analoghi anche per Charlie Parker.) Nonostante la situazione fosse enormemente migliorata rispetto agli anni precedenti, i concerti degli assi d’oltre Atlantico, in Italia, erano tuttora molto rari. nel 1952 vennero soltanto Dizzy Gillespie, con un complesso mal raffazzonato in cui l’unico altro solista di rilievo era Don Byas, e un gruppo guidato dal discusso clarinettista Mezz Mezzrow: il «dio bianco» del jazz, secondo Hugue Panassié, che lo portava alle stelle con la cocciutaggine e la faziosità per cui andava già famoso. Gillespie fece un figurone e ci divertì molto come avrebbe sempre fatto negli anni a venire; Mezzrow invece fece una figuraccia, a cui riparò solo la presenza di Zutty Singleton, i veterano batterista di New Orleans. Tuttavia il più notevole avvenimento del periodo di cui ci stiamo occupando fu rappresentato dall’arrivo a Milano di Norman Granz, a cui soprattutto si deve se l’Italia jazzistica uscì dalla situazione di emarginazione provinciale in cui, anche per ragioni economiche, si dibatteva da sempre.

Di solito, quando dico che non ho mai litigato con Norman Granz, non vengo creduto. Dagli uomini del mestiere, intendo: impresari, organizzatori di concerti, musicisti di jazz. Se qualcuno mi crede, pensa di sicuro che io sia un tipo remissivo, che si lascia vessare. Il fatto è che Norman Granz - il principe degli impresari nel mondo del jazz - ha fama di essere un uomo molto difficile, e la merita tutta; è un uomo prepotente, intollerante, spesso arrogante e qualche volta isterico, per dirla con le parole di chi non lo ama. io però sono un suo affezionato amico che con lui non ha mai litigato. posso provarlo per iscritto: il certificato di buona condotta me l’ha rilasciato proprio lui, in forma autografa, quando mi dedicò un libretto (da lui stesso pubblicato nella limitatissima tiratura del caso) che qualche anno fa regalò agli amici più stretti, quorum ego. Si tratta di una raccolta di riproduzioni a colori dei quadri di Picasso che costituiscono i pezzi forti della sua ricchissima collezione; credo che, data la ridotta tiratura, ogni copia del libro gli sia costata 100 dollari (anzi, mi pare proprio che me lo abbia detto lui). Bene, sul frontespizio, Norman Granz ha scritto: Ad Arrigo Polillo - a un amicizia che è sopravvissuta a due decenni di vicissitudini jazzistiche. Io la considero una decorazione, molto più preziosa di una commenda. Quei due decenni di «jazz vicissitudes» (così sta scritto, per l’esattezza) sono stati pieni di affanni, oltre che di jazzistiche emozioni. Tuttavia li ricordo volentieri, così come ricordo volentieri l’uomo che in modo tanto ingombrante li occupò, proprio lui, Norman Granz. lo avevo incontrato per la prima volta nel gennaio del 1951. Aveva fatto da tramite per quel nostro incontro Mario De Luigi senior, allora direttore e proprietario di «Musica e dischi», il periodico milanese dedicato all’industria discografica. Gli era capitato in redazione un giovanotto che non conosceva: «Si chiama Norman Granz; è arrivato a Milano perché vuole presentare dei concerti di jazz, e allora ho pensato di metterlo in contatto con lei», mi aveva detto per telefono De Luigi. «Entro mezz’ora sono lì», gli avevo risposto, e infatti una ventina di minuti più tardi mi trovavo a cospetto del personaggio, di cui naturalmente sapevo già quasi tutto. per lo meno che era il più potente impresario che si occupasse di jazz (concerti e dischi) e che i più grandi nomi del jazz americano erano sotto il suo controllo. I concerti che presentava da qualche anno, in America, sotto l’insegna di «Jazz at the Philarmonic», avevano avuto un successo trionfale: ora pensava di presentarne pure in Europa, e quindi in Italia, per la gioia dei jazz fans. Di questo Norman era infatti sicuro: di essere un dispensatore di jazzistica felicità. Una specie di Babbo Natale nella cui slitta si pigiavano, pensate, Dizzy Gillespie e Charlie Parker, Coleman Hawkins e Lester Young, Billie Holiday e Ella Fitzgerald, Oscar Peterson (da lui appena scoperto in Canada) e Roy Eldridge, Gene Krupa e Art tatum, e chi più ne ha più ne metta: «Tutti gli altri», insomma. Quando lo incontrai Norman era un giovanotto biondo, di taglia atletica. Aveva trentadue anni, uno più di me. Era già miliardario e sembrava ben sicuro di meritare di esserlo. Solo qualche anno più tardi capii che lo meritava davvero: fra gli uomini di affari che ho incontrato nella mia vita solo un paio mi sono sembrati abili, «soverchianti», fantasiosi e creativi quanto lui. Ogni banalissimo affare diventava nelle sue mani (e, prima, nella sua immaginazione) un’epica impresa, in cui misurare le proprie forze con quelle - sempre più deboli - degli altri, e che si concludeva inevitabilmente con la vittoria del migliore. Non migliore perché più svelto o - Dio liberi - più furbo furbo: migliore perché moralmente più temprato, perché più coraggioso, più intelligente, più serio: in una parola, più dotato. Ho ascoltato tante volte, da lui, il racconto del progetto di qualche affare in gestazione, e confesso di essere rimasto sempre incantato. Nella sua mente l’»affare», qualunque fosse, si presentava sempre nei termini di un’ordalia medievale, un duello fatale in cui vince il prediletto da Dio; un disegno di scala planetaria il cui fine ultimo la disseminazione della gioia fra le popolazioni toccate dalla grazia, ovvero amanti del jazz. Non che Norman fosse un’idealista fasullo, badate bene. Anzi, mille volte ha tenuto a dichiararmi

che il suo unico scopo è quello di far denaro; ma lo diceva perché voleva - e vuole tuttora - apparire sincero fra gli impresari, in mezzo ai quali erano troppi i falsi idealisti, quelli che fingevano di darsi da fare per amore del jazz mentre pensavano solo ai soldi. Spesso, anzi, ogni volta che gli riusciva, umiliava quegli impresari in ogni modo possibile: Norman prendeva infatti piacere a sbugiardare la gente, a rivelarne, coram populo, la meschinità e le contraddizioni. Per questo molti non lo potevano soffrire. Quella volta, nel 1951, con lui non riuscì a combinare nulla. lo accompagnai negli uffici di Remigio Paone, ma la conversazione che avemmo con il braccio destro dell’impresario napoletano si arenò miseramente quando ci dovemmo rendere conto che il compenso giornaliero chiesto da Granz per il suo Jazz at the Philarmonic (2500 dollari) era stato giudicato inaccettabile solo perché si era capito, dall’altra parte, che si trattava di un compenso settimanale. («Ha capito ‘settimana?...» mi chiese a un certo punto Granz con aria sgomenta. E io esitai a dirgli che era proprio così.) Sta di fatto che ci lasciammo con la promessa reciproca di riprovarci l’anno successivo; quanto a me, gli promisi che ci saremmo incontrati a Parigi dove avevo ormai deciso di recarmi per assistere allo spettacolo le cui meraviglie avevamo descritto negli uffici degli Spettacoli Errepì. A Parigi del resto volevo andare anche per altre ragioni. Tra la fine di marzo e i primi giorni di aprile del 1952 si sarebbero svolti alla Salle Pleyel, in concomitanza col secondo Salon du Jazz organizzato da Charles Delaunay, diversi importanti concerti in cui l’Italia era ben rappresentata: dalla Roman New Orleans jazz Band e dal sestetto dell’Hot Club di Roma diretto da Nunzio Rotondo. Oltre a loro e al Jazz at the Philarmonic (con Ella Fitzgerald, Oscar Peterson, Lester Young, Flip Phillips eccetera), avrei potuto ascoltare Sidney Bechet e la crema dei jazzisti europei.

Dizzy Gillespie

Coleman Hawkins

Ella Fitzgerald

Ella, Oscar & Co. Non so proprio quanti concerti io abbia presentato per conto di Norman Granz nel corso dei vent’anni di collaborazione con lui. Diverse decine, ad ogni modo. Salvo che ci fosse richiesto da un terzo (per la partecipazione di qualche suo artista a un festival del jazz, per esempio) non fu mai firmato alcun contratto fra noi: bastava la parola, magari sussurrata tra le quinte di un concerto quando si era in tutt’altre faccende affaccendati. Ci eravamo abituati a dirci così poche cose che in un occasione non fui sicuro, fino all’ultimo minuto, se mi ero accordato per lui per un concerto del trio di Oscar Peterson. Fu proprio quella volta che mi colarono sulla fronte i più copiosi sudori freddi, ma non fu la sola occasione in cui i concerti Granziani mi procurarono intensi affanni, che fortunatamente spartivo sempre con Pino Maffei, venuto a condividere le jazz vicissitudes di ogni tipo fin dai primi anni Cinquanta. Ora che ci penso, mi vengono in mente anche le arrabbiature che ci procurava sempre ray Charles - «divo» e uomo indisponente, prepotente e non puntuale come pochi -, nonché la tensione che regnava tra le quinte del concerto dato da Miles Davis con John Coltrane nel 1960, i ritardi degli arrivi di certi personaggi (Sonny Rollins e John Coltrane, fra gli artisti inviati da Granz, batterono ogni primato), e il contrasto che divise per la prima volta me e Maffei da lui nel corso del Festival del jazz di Sanremo del 1960, in cui noi avevamo ingenuamente preteso di ricomporre a nostro modo (per le esigenze del nostro festival e per quelle della televisione) la successione dei «numeri» in cui si articolava il Jazz at the Philarmonic. Pe lo più, comunque, l’atmosfera dei concerti presentati assieme a Norman Granz era molto serena. Tutto si svolgeva secondo un preciso, immutabile rituale: accoglimento all’aeroporto, autobus per i musicisti e macchina privata per lui, Ella Fitzgerald, Ray Charles o qualche altra superstar, corsa all’albergo - sempre quello - e cena, prima del concerto, tra me e Granz,, in cui si parlava in egual misura di jazz, di politica internazionale e di pittura, e in modo particolare di Picasso, il suo idolo. Picasso non era soltanto il pittore di cui possedeva il maggior numero di quadri; era anche un suo amico personale, che lo ospitava spesso nella sua villa di Mougins. Ricordo con quale entusiasmo mi parlava sempre dei suoi incontri con «Pablo», come lui amava dire, e l’orgoglio con cui mi mostrava i disegnini che di tanto in tanto il maestro schizzava su foglietti di fortuna per subito regalarglieli: ricordo anche gli sforzi che aveva fatto in principio, per potere entrare nella cerchia dei più intimi. Una volta fu lì lì per dare un concerto tutto per Picasso sulla Costa Azzurra. Non per nulla l’attuale etichetta discografica di Granz si chiama Pablo, ed è ornata da un caratteristico disegno del pittore. Quanto al jazz, i nomi che venivano più spesso alle labbra di Granz erano quelli di Ella e di Oscar, di cui era ed è tuttora l’accorto manager. devo dire che fu una fortuna per me che i suoi pupilli fossero loro e non altri: è difficile infatti trovare sul pianeta del jazz dei personaggi altrettanto collaborativi Non era possibile avere grane con Ella. In ogni concerto si comportava come una timida debuttante: arrivava puntualissima in teatro, si metteva buona in camerino a chiacchierare con la segretaria che la seguiva ovunque, e se si rendeva conto che tra il concerto pomeridiano e quello serale non c’era un intervallo abbastanza ampio, si adattava con buona grazia a consumare un frugalissimo pasto in camerino. E poi,, quando veniva l’ora dello spettacolo, dava tutta sé stessa, spremendosi letteralmente coi bis, per il timore di deludere il pubblico. Per chi stava ad ascoltare provava infatti un grande affetto: sembrava che tra lei e il pubblico fosse in corso da anni un misterioso love affair. Peccato che, se Ella è quanto mai conciliante, non altrettanto si può dire per Norman Granz quando si tratta della sua pupilla, per la quale prova un’ammirazione sconfinata e verso cui ha un atteggiamento paterno, pieno di bonomia e di indulgenza, ma anche molto possessivo. «Tu sa come è Ella», mi ha ripetuto chissà quante volte per giustificare qualche diniego: ma io sapevo che Ella non centrava mai con i «no». Li decideva e li diceva tutti lui, per proteggerla. Oscar Peterson è meno docile di Ella ma è sempre stato un collaboratore altrettanto piacevole, e allergico alle grane. Sempre gentile, spiritoso anche, è il commensale ideale, oltre che un pianista

formidabile. Ha poi una caratteristica che lo distingue dagli altri musicisti di jazz: dice chiaramente il suo pensiero sui colleghi che non gli piacciono, e che sono molti. I suoi bersagli favoriti sono i musicisti d’avanguardia o comunque non ortodossi: non bisogna parlare con lui di Ornette Coleman, o di John Coltrane, o di Thelonious Monk (ma l’elenco potrebbe continuare), il che si può comprendere se si considera che Peterson ha sempre messo sopra ogni cosa la maestria tecnica, il rigoroso rispetto per le «buone regole» e più in generale per le tradizioni del jazz. Dizzy Gillespie e Roy Eldridge sono altri favoriti di Norman Granz, presentati più volte al pubblico italiano nel corso della nostra collaborazione. Il suo prediletto era e resta Roy, e ne capisco la ragione. Non si tratta solo di un grande jazzman ma anche di un uomo simpatico e molto generoso, con cui non si può non andare d’accordo. «Ha quel pizzico di competitività in più che piace a me», ripete Norman, che ha sempre amato, del jazz, l’aspetto sportivo, competitivo, appunto. In un’occasione, tuttavia, il gusto per la competizione mise in crisi Roy, e fu quando Granz lo affiancò in molti concerti a Gillespie, per godersi, e far godere al pubblico, delle «battaglia di trombe» memorabili, anche per la loro dimensione «storica». A un certo punto la singolar tenzone fu tolta dal programma dei suoi concerti: «Roy ha l’impressione» mi spiegò poi Norman con aria un poco afflitta «che Dizzy suoni più tromba di lui». In effetti le sconfitte bruciano sulla pelle di Roy, che oltretutto si sente personalmente castigato se si accorge che qualche amici segue con indifferenza le sue prestazioni. («Non avevi l’aria molto soddisfatta stasera» mi ha detto più di una volta, intendendo dire: »vedo che non ti sono piaciuto...».) Altro musicista amatissimo da Norman Granz era Coleman Hawkins. Colui che fu soprannominato «l’uomo che inventò il sassofono» fu presentato solo tre volte in Italia: le prime due, nel 1958 e nel 1966, con due diverse troupe del Jazz at the Philarmonic, e la terza nel 1967, col trio di Oscar Peterson. Andò benissimo la prima volta, in cui Hawk apparve nel pieno delle sue forze e trascinò all’entusiasmo il pubblico del Teatro di via Manzoni, a Milano (quel giorno entusiasmò anche Stan Getz, che accanto a me mormorò ammirato: «Questi uomini devono avere un sangue più forte del nostro...»); andò ancora bene, anche se non benissimo, la seconda, in cui il maestro apparve incredibilmente invecchiato al pubblico del Lirico ma ebbe sprazzi di autentica grandezza (alla fine si sentì Granz che gli diceva con espressione rispettosissima: «Sei sempre il maestro». Andò infine malissimo l’ultima volta, quando Hawkins, semidistrutto dall’alcol e da certi recenti affanni si presentò al pubblico del Lirico con un’ispida barba e grandi borse sotto gli occhi, per portare a termine con enorme fatica il suo numero accanto a Peterson: «Meno male che anche stasera ce l’abbiamo fatta», mi disse quella volta, alla fine del concerto, il pianista, evidentemente provato dalle penose esperienze di quella sciagurata tournée europea. E sì che non avevo visto la scena più penosa, svoltasi in camerino prima dell’inizio del secondo tempo, quando io e un amico avevamo dovuto unire le forze per sollevare di peso dalla sedia il riluttante sassofonista, troppo ubriaco per reggersi in piedi, ma troppo orgoglioso per ammettere di aver bisogno di aiuto. Ella, Oscar, Roy, Dizzy, Hawk... Sarebbero bastati, ma c’era altro sulla slitta di Babbo natale Norman Granz. C’era, spesso, nei primi tempi, Flip Phillips, sassofonista generoso ed eccitante; c’era Bill Harris, già trombonista del «primo gregge» di Woody Herman e prima ancora camionista; c’era il sempre distintissimo Benny Carter, vecchia gloria del jazz; c’era Willie Smith; c’era Teddy Wilson (troppo amante del whisky negli ultimi anni...) E poi i batteristi: Gene Krupa e Louie Bellson, fra gli altri. Spesso, proprio come Dizzy e Roy, i solisti di uno stesso strumento venivano messi l’uno a fianco dell’altro perché si stimolassero nella competizione (anche se si trattava di tipi diversissimi come Stan Getz e John Coltrane). Granz aveva infatti l’idea fissa degli «incontri» - o meglio scontri - fra i grandi rivali. Ci pensava sempre, anche quando stava male. Una volta ricevetti una sua telefonata da Reykjavik, in islanda, dove era rimasto bloccato in ospedale da una grave forma di epatite virale: dall’altro capo del filo sentii arrivare una voce velata, proprio da moribondo, che mi chiedeva «che cosa pensi di un concerto in cui fossero uno di fronte all’altro Miles Davis e

Dizzy Gillespie? Se Miles ci sta lo facciamo». Una volta mi divertii a rigirargli la domanda: «Perché non organizzi una tournée in cui siano messe a confronto Ella Fitzgerald e Sarah Vaughan? «. «Sai com’è Ella...» mi rispose. «Si metterebbe a fare la mattatrice e farebbe a pezzetti Sarah...» Non se ne fece niente, ma io resto dell’opinione che si trattava di una buona idea.

Oscar Peterson

John Coltrane

Ornette Coleman

Photos by Roberto Polillo

L'uomo di Newport Qualche tempo dopo Norman Granz comparve in Italia quello che sarebbe divenuto il suo grande rivale: George Wein. Arrivò nel 1954, subito dopo aver varato il primo festival del Jazz di Newport, e per questo era carico di entusiasmo e di ottimismo. Fino ad allora aveva gestito soltanto un piccolo locale jazzistico a Boston, lo Storyville, ma la sua fama era stata circoscritta. Ora era venuto anche per lui il big time, e Dio sa se la cosa gli piaceva. Un tipo tutto diverso da Granz, Wein, anche se i due hanno in comune l’origine, essendo entrambi ebrei, discendenti da immigrati dell’Europa orientale (come, del resto, gran parte degli agenti e impresari americani, e dei musicisti di jazz bianchi). Mentre Granz è un uomo severo, intransigente, freddamente razionale, qualche volta crudele, Wein è un gran cordialone, che vi dà continuamente delle ideali pacche sulla schiena e ride spesso... Il primo è un perfezionista, il secondo, sotto certi aspetti, è accomodante. Granz mantiene certe distanze dai suoi uomini (salvo eccezioni ben definite: Oscar, Roy, Ella e pochi altri), Wein è cameratesco con tutti. in comune, i due hanno un indiscutibile amore per il jazz (ma Granz fa mostra di aver superato quello stadio) e un altrettanto indicibile propensione per i grandi progetti. Io ho ammirato Wein soprattutto quando l’ho visto in azione, mentre dirigeva le operazioni durante un difficile Festival del Jazz a Newport: pareva un generale d’altri tempi sul campo di battaglia. Capace di rendersi immediatamente conto delle situazioni, prendeva decisioni subitanee e sagge, e le faceva eseguire dando ordini perentori ai propri collaboratori. Granz a certi dettagli operativi non si sarebbe abbassato: avrebbe perduto la pazienza e il controllo dei nervi, e avrebbe a lungo deprecato l’imbecillità umana. («Io amo la gente, « mi disse un giorno Wein, «Norman invece la odia: questa è la differenza.») Con tutto ciò era, per lo meno per me, più facile litigare con Wein che con Granz. Anche con George Wein furono subito allacciati rapporti di lavoro: si può dire che l’80% dei gruppi di jazz venuti in Italia negli ultimi vent’anni siano stati inviati o da Wein o da Granz. All’inizio Wein pilotava personalmente i complessi che portava, poi fu sempre più assorbito dai suoi affari in America Venne, per esempio, con Thelonious Monk, e non venne invece con Charles Mingus, né con Max Roach e Abbey Lincoln. In anni più recenti, prese parte ad alcuni festival del jazz da lui programmati in america e quindi esportati in Europa (e quando veniva suonava - ahinoi - il piano coi Newport All Stars: un gruppetto di Dixielanders in cui figuravano il più delle volte Ruby Braff Pee «Wee» Russell); poi si accontentò di seguire le cose da lontano. Quando veniva non mancava mai di illustrare qualche grande progetto per l’immediato futuro. Si trattava sempre di festival del jazz: ciò che cambiava era la località, il finanziatore e magari qualche nome. Ma nei suoi progetti (a differenza che in quelli di Granz) non c’erano mai delle trovate; c’era però (e c’è ancora) una maggiore larghezza di idee, una grande disponibilità nei confronti di qualunque stile jazzistico. Solo verso l’avanguardia Wein si è sempre dimostrato restio, ma non per ragioni critiche, bensì in considerazione dell’indifferenza (per non dire l’ostilità) del pubblico americano per gli stili più avanzati. per Wein infatti chi comanda è il pubblico (sia pure quello qualificato, degli appassionati di jazz): per Granz contano invece solo i suoi gusti personali: i musicisti che piacciono a lui sono gli unici che contano; gli altri non sunt in mundo, semplicemente.

Sydney Bechet Gli anni cinquanta ebbero un nume tutelare, per quanto riguarda il jazz in Europa, e in particolare quello di tipo tradizionale: era Sidney Bechet. Era comparso - non per la prima volta - a Parigi nel 1949, quando si esibì alla Salle Pleyel, nel grande festival organizzato da Delaunay. Dire che allora ebbe un grande successo è dir poco: fu il trionfatore della manifestazione, in cui pure non mancavano jazzmen illustri, a cominciare da Parker. In quei giorni Delaunay gli propose di tornare in Europa al più presto: gli avrebbe fatto da manager e lo avrebbe fatto suonare un po’ dappertutto. Dopo che fu tornato lo si vide e lo si ascoltò spesso infatti: d’estate sulla Costa Azzurra (a Juan Les Pins c’era un ritrovo all’aperto, il Vieux Colombier, dove il suo sassofono soprano imperversava ogni sera), d’inverno nelle grandi città europee e soprattutto nelle caves della Rive Gauche, a Parigi. Comparve per la prima volta a Milano nel novembre del 1952: qui i «mammasantissima» locali del jazz lo avevano atteso con una certa trepidazione. Come avrebbe suonato? si chiedevano da tempo: forse qualcuna di quelle ignobili cose, tipo Les Onions, che lo avevano trasformato in un idolo delle folle in Francia? era possibile, e non si voleva che succedesse. a Milano i «puristi « prevalevano su gli altri. Si decise che bisognava catechizzarlo: spiegare a Bechet che noi non volevamo ascoltare Les Onions o cose del genere; che noi sapevamo benissimo che era stato uno dei pionieri del clarinetto a New Orleans e che era il maestro di tutti coloro che suonavano il sax soprano, e ci aspettavamo da lui della musica di alto livello, o almeno «non commerciale», come si diceva allora. Si assunse l’onere di persuaderlo a mantenersi all’altezza della situazione Pino Maffei, che andò a riceverlo alla stazione e conversò poi a lungo con lui, tenendolo sottobraccio. Dovette essere diplomatico e convincente, perché Bechet, che non era precisamente un bonaccione (era un tipo piuttosto burbero, invece, come avrei constatato più volte in seguito), non se la prese e si sforzò di seguirne i consigli. però il pubblico del jazz era prevenuto contro di lui e non affollò il teatro: la mattina del 16 novembre al Nuovo non c’era neppure il solito cordone di polizia, e nessuno infranse le porte di vetro all’ingresso. Chi andò ad ascoltarlo, ad ogni modo si divertì: ogni tanto si levavano dalla platea delle grida ammirate del tipo «Sei un drago»; «sei un califfo»». E gli applausi scrosciavano fitti. Poi Bechet venne ancora: nel ‘53 suonò a Torino con la Milan College Jazz Society, da poco nata ma già molto popolare; nel ‘57 apparve come vedette del secondo Festival del jazz di Sanremo. Così che quando nel 1959 si diffuse la notizia della sua morte, avvenuta nei pressi di Parigi proprio nel giorno del suo settantaduesimo compleanno, molti, anche in Italia, sentirono di avere perso un amico. Io lo ricordo come un uomo caparbio, diffidente, scarsamente tollerante e soprattutto molto sicuro di essere un grande musicista di jazz: Quando parlava sembrava che usasse il pluralis majestatis: vi guardava con un sorrisetto di superiorità, proprio dall’alto in basso, e vi faceva cadere addosso le parole, con studiata lentezza. Con lui ebbi un solo contrasto. Quando arrivò a Sanremo mi chiese in quale albergo fosse alloggiato, e io gli feci presente che il suo manager, Delaunay, mi aveva scritto (mostrai la lettera) di non preoccuparmi per l’alloggio ché avrebbe provveduto a prenotarlo lui da Parigi. Gli assicurai comunque che gli avrei trovato subito un albergo, ciò che fu fatto nel giro di pochi minuti. «Vi perdono», mi disse alla fine, dopo essersi molto arrabbiato con noi. Ora, quando capito a Juan les Pins non manco mai di passare davanti al suo monumento in bronzo, collocato su un cippo, sotto la pineta. Penso che quel monumento (somigliante, non c’è che dire) se lo sia meritato, e non solo perché si dovette a lui il lancio di Juan les Pins come spiaggia alla moda (e questa è la principale ragione del monumento), ma perché nessun altro fece per il jazz, in Europa, quanto fece lui. E gli si può perdonare quel suo sorrisetto di superiorità e quel sottinteso pluralis majestatis.

Un tipo simpatico Credo che siano ben pochi i jazzofili europei (parlo di coloro cha bazzicano i musicisti di jazz) che non custodiscano gelosamente, fra i loro ricordi, quello dell’incontro con Roy Eldridge. E il ricordo ha quasi sempre un lato ridanciano. Il fatto è che Roy è un uomo socievole, un compagnone che invoglia alla manata sulla spalla: durante i suoi più o meno lunghi soggiorni europei ha stretto amicizia con l’universo intero. il suo non è, si badi, un comportamento politico (politica era la cordialità di Armstrong, che recitava benissimo la parte del sempliciotto di New Orleans); Roy è un bonaccione per davvero, senza per questo essere affatto uno sciocco. la prima volta che lo incontrai non era proprio nella compagnia ideale. Con lui erano Benny Goodman, temuto e scostante «Principale» - anche per Roy - due ragazzi come Eddy Shaughnessy e Dick Hyman, e Toots Thielemans. Fu proprio Thielemans che invitò noi, jazzofili milanesi, a fare la conoscenza di Roy. «Questo è un tipo simpaticissimo», mi disse in un orecchio, indovinando la mia perplessità dinanzi a quella combriccola così malamente assortita. Quando poi, nella stessa sera, Eldridge fu messo a confronto con un più che rispettabile piatto di spaghetti e con un fiaschetto di Chianti, fu evidente a tutti che sapeva apprezzare le cose buone della vita. (Le volte, invece, che mi è capitato di vedere i musicisti di jazz ingurgitare insieme spaghetti e Coca Cola, per passare poi subito al gelato misto...) «Io sono stato allevato in una famiglia di italiani, che mi hanno tirato su come un figlio», mi spiegò in seguito, e tutto allora fu chiaro. Non approfondii, in quel momento, ma sono pronto a scommettere che quei tali italiani erano napoletani. Dei napoletani Roy ha la pronta intelligenza, la vitalità da scugnizzo, il gusto per lo sfottò salace, e l’amore per tutto ciò che di vivo il buon Dio ha messo su questa terra. La musica per lui è una questione d’istinto ed è inutile provarsi a ragionar con lui di stili, di scuole e di derivazioni. «I like all good music: music is good or bad» mi rispose quando cercai di interrogarlo sulle sue preferenze: «Mi piace tutta la buona musica; la musica può essere solo buona o cattiva», proprio così. Semplice, ma giusto, non c’è che dire. E quando tentai di avere da lui qualche ragguaglio sul suo stile, sui suoi ispiratori e insomma tutte quelle cosette di cui i jazzofili sono ghiotti, mi sentii rispondere con la massima tranquillità: «Well, you know how I blow my horn...». A che pro discutere infatti? io sapevo come Roy «soffia il suo corno» (i jazzmen americani dicono così) e tanto doveva bastarmi. Quando però gli chiesi che effetto gli faceva vedere che tutti i giovani trombettisti, a cominciare da Dizzy Gillespie, derivavano da lui, accettò l’implicita osservazione, e rispose, ridendo: «Be’, mi sento una specie di nonno...» Un simile personaggio, naturalmente, doveva trovarsi magnificamente in Europa, che visitava allora per la prima volta. Ne ebbi conferma quando, prima di salutarlo, gli chiesi che programmi avesse dopo il suo ritorno in America. la risposta fu rapida ed esplosiva, come una fucilata: «Come back», tornare. Seppi poi che a Parigi, pochi giorni dopo, aveva perfezionato ulteriormente il suo piano: invece di fare un inutile viaggio di andata e ritorno, salutò il suo caporchestra all’aeroporto, deciso a rimanersene in Europa fina allo scadere del passaporto. Ripartì per l’America esattamente un anno dopo, giusto alla scadenza del permesso di soggiorno. E quando sbarcò a New York ne disse di cotte e di crude contro gli americani: in Europa sì che si capisce e si scolta il jazz; laggiù gli uomini sono davvero considerati tutti uguali, non come qui, negli Stati Uniti, dove se ti capita di girare con un’orchestra bianca ti tocca dare ogni sera la buona notte ai colleghi per andartene tutto solo in un alberghetto il cui ingresso non sia vietato ai negri! Questo era il succo di una «storica» intervista rilasciata da Roy, retour de Paris, a un redattore del «Down Beat». Ma giurerei che l’intervista era stata pubblicata in edizione purgata: castigatezza di linguaggio a parte, non è possibile che Roy non abbia almeno accennato al vino e alle donne di Francia e d’Italia, le cui qualità, diciamo termiche, mi parvero da lui apprezzate nel loro giusto valore. Non so quante volte, negli anni successivi, ho incontrato Roy in Italia o in qualche festival del jazz

tenutosi oltre confine: non l’ho trovato cambiato. Se non nei capelli, che ora sono quasi del tutto bianchi. Anche la tromba è quasi immutata rispetto a ventisette anni fa, ed è tutto dire perché spesso, da quella tromba esce del fuoco.

Roy Eldridge

Dizzy Gillespie Photos by Roberto Polillo

Si decolla Se dovessi indicare l’anno in cui il jazz in Italia «decollò» non esiterei a scegliere il 1956. Fu quello l’anno in cui arrivarono nel nostro paese Chet Baker, Big Bill Broonzy, il sestetto di Gerry Mulligan, la grande orchestra di Lionel Hampton, il complesso di Kid Ory; fu l’anno in cui tornò Stan Kenton, l’anno in cui furono organizzate delle importanti manifestazioni concertistiche a Milano (con una rassegna di orchestre di stile tradizionale) e a Roma (con un festival del jazz durato addirittura quattro giorni). Fu ancora quello l’anno in cui prese il via il Festival del Jazz di Sanremo, il primo in Europa che avesse carattere continuativo: Fu infine l’anno in cui fu presentato, a Milano e poi a Torino, lo spettacolo «Birdland 1956». Quest’ultimo concerto ebbe un’importanza particolarissima per diversi motivi: perché presentò per la prima volta in Italia il Modern Jazz Quartet e solisti insigni come Miles Davis e Bud Powell e ripresentò Lester Young; poi perché fu il primo concerto organizzato, a nostro completo rischio, da me e da alcuni amici (Testoni, Maffei ed Ettore Balli), il che significò l’affrancamento definitivo dagli impresari professionisti (che col jazz perdevano irrimediabilmente denaro e poi se la prendevano con noi che li avevamo spinti in certe avventure) e infine perché, col successone che ottenne, soprattutto per merito del Modern Jazz Quartet, ci diede la prova che il jazz poteva ormai fare affidamento, anche in Italia, su un pubblico abbastanza numeroso. Io tuttavia ricordo quel concerto soprattutto per altri motivi: per le amarezze che ci procurarono alcuni artisti, in particolare per la visione delle misere condizioni di salute di Bud Powell, già completamente fuori di senno. Le prime avvisaglie che le cose non sarebbero andate proprio lisce le avemmo alla stazione di Milano, quando i due francesi che avrebbero accompagnato Powell (il bassista Pierre Michelot e il batterista Christian Garros) ci avvertirono che il celebre pianista aveva bevuto troppo e non avrebbe quindi suonato bene. Poco dopo successe il finimondo: noi avevamo prenotato le camere per i nostri ospiti in un ottimo albergo non troppo distante dalla stazione, ma ci rendemmo conto presto (vedendo i primi solisti tornarsene nella hall con la valigia in mano) che la sistemazione da noi trovata non era di loro gradimento. «Hotel Duemo», strillava come un’aquila Buttercup, l’ineffabile compagnia di Bud Powell, che evidentemente aveva sentito parlare dell’Hotel Duomo da qualche musicista venuto precedentemente a Milano; e »Hotel Duemo» fu, con immaginabile disappunto del personale dell’albergo già prenotato, con cui noi non sapevamo come scusarci. Andò avanti in questo modo, fra incidenti e contestazioni di ogni genere. Soprattutto Powell, che ancora non conoscevamo, fu protagonista di incresciosi episodi. A Milano vendette gli autografi per altrettanti bicchieri di birra (e firmò moltissimo); a Torino a un certo punto raccolse a uno a uno tutti i foglietti che i cacciatori di autografi gli porgevano e si diresse con quelli verso la toilette. E ne fece delle altre: ci fu riferito che a Milano, in via Manzoni, cadde pesantemente a terra a causa delle condizioni pietose in cui si trovava. Altri problemi ci causò Miles Davis, che si comportò con l’arroganza che avremmo ben conosciuto in seguito. Furono tanti i piccoli guai che la troupe ci procurò che il sempre compìto John Lewis, leader del Modern Jazz Quartet, volle alla fine dedicarmi una fotografia ringraziandomi per iscritto per la «pazienza» e la «gentilezza» di cui, a suo dire, avevo dato prova. A parte il MJQ, chi non ci causò alcun problema in quell’occasione fu Lester Young, di cui pure, conoscendone le bizzarrie (e l’inveterato alcolismo), diffidavamo. Lester era appena uscito da una di quelle ricorrenti crisi, psicologiche e artistiche, che hanno costellato la sua carriera; aveva trovato un buon manager, un certo Carpenter, e soprattutto la fiducia nelle sue risorse di musicista. Quel giorno infatti suonò molto bene, al punto che io sentì il dovere di complimentarmi con lui. Lo resi felice, letteralmente: andò a chiamare carpenter per fargli ascoltare, dalla mia voce, il mio positivo giudizio, che mi chiese di ripetergli, e poi si allontanò ridendo beato, camminando a rapidi passettini, come faceva sempre. Non ricordo se anche in quell’occasione avesse ripetuto la frase con cui di solito si congedava dai suoi interlocutori: «Pres goes» «Il Presidente (era lui il Presidente dei

tenorsassofonisti) se ne va». Parlava sempre, o per meno molto spesso, in terza persona, un po’ perché era veramente un uomo strano, un po’ perché voleva essere giocoso. Ancora mi domando come potesse suonare tanto bene quel giorno, perché Lester non era meno alcolizzato di Bud Powell: pasteggiava a whisky (a cui raramente aggiungeva qualcosa di solido) ed era costantemente brillo. Quelli del Modern Jazz Quartet erano diversi da tutti, sono sempre stati diversi. Forse John Lewis, oltre che beneducato e colto, è un uomo un poco snob, come qualche suo collega assicura, ma è ugualmente un grande piacere avere a che fare con lui. E’ un peccato che il Modern Jazz Quartet si sia sciolto (dopo ben vent’anni di continua attività) perché è certo che chi ne ha sofferto maggiormente è proprio lui, John, che nel quartetto aveva proiettato tutta intera la sua personalità e le proprie concezioni musicali, su cui non sembrava disposto a transigere. Non c’è molto da dire sugli altri concerti milanesi, che furono più o meno buoni, ma che non si fanno ricordare per qualche particolarità; c’è molto da dire, invece, sul festival del Jazz di Sanremo, che prese il via alla fine di gennaio di quel 1956 e che si concluse dieci anni dopo, dopo undici edizioni.

Gerry Mulligan

Lionel Hampton

Stan Kenton

Dieci anni a Sanremo Dal 1956 al 1965 il clou della stagione jazzistica italiana ebbe luogo a Sanremo, in quello stesso teatro (la Sala delle Feste e degli Spettacoli del Casinò) dove aveva luogo ogni anno, e pressappoco nello stesso periodo, il Festival della Canzone. Questa vicinanza non fu priva di conseguenze negative: dalle autorità sanremesi il festival del jazz fu sempre considerato un fratello cadetto, e in qualche modo bastardo, di quello della canzone. Non ci si capacitò mai del fatto che il nostro festival non prevedesse né vincitori né vinti, che non ci fossero interessi economici da tutelare con manovre sottobanco, che tutto si facesse alla luce del sole. Probabilmente proprio per questo fummo puniti duramente: il giorno prima dell’ultimo festival ci fu comunicato che il teatro era stato dichiarato inagibile perché non aveva uscite di sicurezza in numero sufficiente; e dovemmo ringraziare il cielo se ci fu messo a disposizione il teatrino attiguo (poi, poche settimane dopo, per il Festival della Canzone, il teatro più grande tornò miracolosamente a essere agibile, e tale è restato senza che vi fossero state apportate modifiche di sorta); quanto al denaro per compensare i musicisti (tutti ripartivano subito dopo i concerti, e dovevano essere pagati il giorno stesso, come del resto precisavano i contratti), dovemmo farcelo prestare dai vari cambiavalute cittadini in attesa di ricevere, dopo qualche settimana quello dovutoci. Eppure il festival fu importante, anche sul pino europeo. Fu infatti la prima manifestazione del genere, con carattere continuativo, che sia stata organizzata in Europa (col tempo i festival del jazz europei avrebbero superato il numero di cento l’anno), ed ebbe sempre in cartellone nomi di grande prestigio, da Duke Ellington a Ella Fitzgerald, da Oscar Peterson a Sidney Bechet, dal Modern Jazz Quartet ai Jazz Messengers, da Bud Powell a «Cannonball» Adderley, da Max Roach a Shelly Manne, a Earl Hines. Eccetera eccetera. Cominciò in tono minore, perché il finanziamento della prima edizione fu modestissimo: ci furono dati un milione e mezzo di lire, con le quali avremmo dovuto provvedere a tutto, cominciando col retribuire (ma sarebbe più giusto parlare di rimborso spese) la bellezza di tredici complessi. A parte il clarinettista americano Albert Nicholas - che suonò con la Milan College Jazz Society - e i gruppi guidati dall’altosassofonista svizzero Flavio Ambrosetti e dal sassofonista francese Barney Wilen, tutti i musicisti invitati quella prima volta erano italiani. Sui giornalisti presenti fece colpo soprattutto il nome di Romano Mussolini, che fece allora il suo esordio in pubblico, ma tutti meritavano attenzione perché rappresentavano quanto di meglio poteva offrire allora l’Italia jazzistica. Ecco come si presentava il cartellone: 1° concerto (28 gennaio): Riverside Syncopators jazz band di Lucio Capobianco, Quartetto del pianista napoletano Lucio Reale, Flavio Ambrosetti and his Swiss All Stars (il pianista era George Gruntz), i Milano All Stars (Glauco Masetti, Gianfranco Intra, Franco Cerri, Franco Pisano e Gil Cuppini), Nunzio Rotondo e il suo quintetto con Lilian Terry e il già ricordato Mussolini, la Original Lambro jazz Band; 2° concerto (29 gennaio): quintetto Basso Valdambrini, trio di gianfranco intra, trio di Giampiero Boneschi, Sestetto Italiano (con Basso, Valdambrini, Attilio Donadio, Boneschi, Berto Pisano e Rodolfo Bonetto), quartetto di Barney Wilen, duo franco Cerri e Franco pisano, Albert Nicholas e la Milan College Jazz Society. Il successo di quel primo esperimento (era quello il primo grande festival del jazz nel pieno senso del termine che venisse organizzato nel nostro Paese) fece sì che la manifestazione fosse inserita in modo permanente nel cartellone delle attrazioni invernali sanremesi. Ci furono poi delle annate eccezionali, e altre così e così. La ricchezza de cartellone dipendeva soprattutto dal caso, che poteva consentirci di scritturare degli importanti jazzisti americani in circolazione in quegli stessi giorni in Europa, o, al contrario, poteva offrirci poche possibilità di scelta. Allora infatti le tournée dei complessi americani in Europa erano assai meno frequenti di oggi, e i jazzmen immigrati permanenti si contavano sulle dita di una mano. Potemmo assicurarci la prima grande stella internazionale il secondo anno, quando scritturammo

Sidney Bechet. Allora non c’era jazzman più popolare di lui nel Vecchio Continente, e del resto si trattava di un solista formidabile: sostenuto dall’orchestra di André Rewelliotty, ipnotizzò anche quella sera il pubblico. Per il resto, nel 1957, il programma offriva un po’ di tutto. jazz tradizionale (fra gli altri: il complesso austriaco di «Fatty» George col trombettista e chitarrista Oscar Klein e l’allora sconosciuto pianista Joe Zawinul, che sarebbe divenuto famoso anni dopo come direttore del Weather Report, e poi la Roman New Orleans Jazz Band e la Original Lambro Jazz Band), jazz moderatamente moderno (il trio dell’esordiente pianista Enrico Intra, e due gruppi milanesi con Glauco Masetti, Gil Cuppini, Eraldo Volonté, Giulio Lobano e altri, e un gruppo internazionale, con Ambrosetti, Franco Cerri, Stuff Combe ecc.) e jazz d’avanguardia (presentato da un ottetto sperimentale guidato dal già audace Giorgio Gaslini). In cartellone figuravano anche tre cantanti Lilian Terry, carol Danell e Wilma de Angelis - e questo ci attirò gli strali degli immancabili censori di turno: eravamo commerciali, ecco cosa eravamo. (Non erano i giornalisti generici che ci attaccavano: erano sempre gli specialisti, i jazzofili, che non ci perdonarono mai il nostro attivismo.) Il festival crebbe ancora: nel 1959 presentò tra l’altro il Modern Jazz Quartet, allora all’apice della celebrità, e l’anno dopo offrì un ampio campionario di jazz internazionale col trio di Sonny Rollins, il quintetto di Horace Silver, il baritonsassofonista svedese Lars Gullin, il pianista spagnolo Tete Montoliu, il gruppo del giamaicano Joe Harriott, il quintetto di Barney Wilen, e molti altri ancora. Rollins era alla vigilia del ritiro sul ponte di Williamsburg, ma non aveva ancora l’aria dell’uomo in crisi, e suonò magnificamente. «Siamo tornati dal festival» scrisse poi Testoni «soprattutto con due immagini nella mente: quella di Silver ingobbito, rattrappito e concentrato sulla tastiera, con la faccia sorridente e mite di un piccolo impiegato, e l’altra di Rollins, alto e membruto, con l’aspetto malizioso di un diavolo dantesco, di quelli burloni che tutti ricordano.» Quanto a me e Maffei, che ci sobbarcammo la fatica di organizzare quei festival, ci trovammo tra le braccia Lars Gullin, che per un anno non si risolse a tornare in patria, e nel frattempo ci mise in qualche situazione imbarazzante (l’eroina, che lo avrebbe ucciso nel giro di alcuni anni, non lo rendeva precisamente una persona affidabile...). Intanto ci eravamo, per così dire, organizzati, ed eravamo soddisfatti di come la nostra equipe funzionava. Ormai non c’era imprevedibile grana che non fosse prevista; e per ognuna c’era un addetto per risolverla. Al nostro fianco avevamo chiamato Gianfranco Guastone, particolarmente adatto a tenere i rapporti con i musicisti, e avevamo trovato un ottimo direttore di scena in Attilio Rota. In più avevamo degli amici che ci davano una mano, volta per volta, con contenuti diversi: per due anni, per esempio, potemmo giovarci della collaborazione di scenografi di lusso (quanto amichevolmente gratuiti) come Gio Pomodoro e Luca Crippa. Il festival del 1960 fu uno dei migliori che avemmo la fortuna di organizzare, grazie all’apporto di Norman Granz che ci mise a disposizione Ella Fitzgerald e l’intera troupe di uno dei migliori Jazz at the Philarmonic, e per la simultanea presenza nel cartellone di alcuni dei più grandi batteristi della storia del jazz: Max Roach - che presentò quell’anno il suo magnifico sestetto coi fratelli Turrentine -, Kenny Clarke - che affiancò Bud Powell Oscar Pettiford in un trio strepitoso -, e infine Shelly Manne, che ci fece conoscere il suo quintetto. C’era anche il complessino di Jimmy Giuffre. Al pubblico piacque soprattutto Ella Fitzgerald; noi restammo invece impressionati di più dal gruppo di Roach, e più ancora dal trio di Bud powell, il quale quella sera suonò splendidamente, come in quegli anni gli capitava di rado: merito del suo manager francese, Marcel Romano, che tenendolo sempre sottobraccio nelle ore precedenti il concerto, gli impedì praticamente di bere. Se nel 1960 siamo stati fortunati, non altrettanto si può dire per l’anno successivo. Noi avevamo puntato tutto sulla presenza, che fino alla vigilia sembrava certa, di Ornette Coleman, che allora era l’uomo del giorno, poi l’altosassofonista ci fece sapere di non poter venire, e noi ci dovemmo accontentare di un paio di ospiti americani in tutto: il multistrumentista Buddy Collette, che venne apposta dagli Usa, e la cantante Helen Merrill. A costoro fece corona una larga e qualificata rappresentanza del jazz europeo: la Dutch Swing College Band, la grande orchestra tedesca di Kurt

Edelhagen, il pianista Martial Solal e altri, oltre a cinque complessi italiani. una sorte analoga ebbe il festival del 1962, che ebbe come maggiori attrazioni il sestetto vocale francese dei Double Six, il trio Mitchell-Ruff, un quartetto guidato da Herb Geller e Kenny Drew, il gruppo inglese di Tubby Hayes (che ebbe un successone), il trio dello svizzero George Gruntz e infine una grande orchestra italiana costituita per l’occasione sotto la guida di Bill Russo, uno dei migliori arrangiatori che avessero servito Stan Kenton. Poi le cose andarono a gonfie vele fino all’ultimo anno, quando la barca del festival, bersagliata dalla sfortuna e fatta segno a dispetti di ogni genere da parte di che avrebbe dovuto farla navigare, fu lasciata affondare dai due nocchieri (e cioè da me e Maffei) giunti all’esaurimento della pazienza. Tra le manifestazioni del ‘63, del ‘64 e del ‘65, io ricordo con particolare piacere le prime due. Quella del ‘63 ebbe come prima donna ella Fitzgerald, a cui faceva corteo qualche fedelissimo di Norman Granz, come Oscar Peterson, Roy Eldridge e Tommy Flanagan, ma finì per avere il suo grande momento nel concerto che contrappose, l’un contro l’altro armato, il sestetto di «Cannonball» Adderley e il gruppo dei Jazz Messengers. erano questi i due complessi di hard bop più importanti che ci fossero nel mondo, e l’hard bop attraversava allora il suo periodo di gloria; per queste ragioni l’idea di contrapporli nello stesso concerto - un tempo per ciascuno - ci era parsa buona. A cose fatte quell’idea si rivelò più che buona: i capi dei rispettivi clan («Cannonball» e Art Blakey) si erano fatti grandi feste prima dello scoppio delle ostilità, ma poi si erano dati battaglia fino all’ultimo sangue. Vinse il duello - su questo nessuno ebbe dubbi - la troupe di Blakey, che allora era ferratissima (allineava Freddie Hubbard, Wayne Shorter, Curtis Fuller, Cedar Walton e Reggie Workman, oltre a Blakey), e se ne rese conto perfettamente, a giudicare dai blandi sorrisetti di soddisfazione che i suoi uomini ostentavano a battaglia terminata. (Wayne Shorter, che incontrai alcuni mesi dopo nel gruppo di Miles Davis, mi confermò poi che lui e i suoi compagni erano molto contenti di come erano andate le cose.) Quanto ai fratelli Adderley, il loro gruppo fu battuto di misura e fu comunque brillante: non per nulla allineava allora la sua migliore formazione) con Yusef Lateef e Joe Zawinul, tra gli altri) e aveva in repertorio i suoi successoni (This Here, Dat There ecc.). A concerto finito andai a cena coi due Adderley, e allora capii la ragione per la quale il soprannome originario di «Cannonball» fosse «Cannibal»: lo vidi divorare in un baleno una montagna di spaghetti. L’anno dopo, nell’edizione del ‘64, il festival si giovò di un’altra trovata: quella di presentare un ottetto costituito coi migliori solisti di Duke Ellington. L’idea era stata mia, ma era stata per così dire necessitata: infatti il nostro budget non ci avrebbe consentito di pagare il trasporto dell’intera orchestra Ellingtoniana da e per Parigi, e allora fu giocoforza dar vacanza a poco meno della metà degli uomini di Ellington e far venire a Sanremo solo i solisti più famosi. Non ci furono prove di sorta, e il programma fu concordato a un tavolo di ristorante quella sera stessa del concerto, ma gli otto suonarono come meglio non avremmo potuto desiderare. Potemmo giudicare allora le straordinarie capacità di improvvisatori dei vari Johnny Hodges, Lawrence Brown, Paul Gonsalves, Harry Carney ecc., che il Duca chiamava di volta in volta al microfono quasi a capriccio e magari per fare qualche dispettuccio a questo o a quello (Johnny Hodges quella sera fu particolarmente preso di mira...). Quello che il complesso ci offrì fu un bel concerto anche perché Duke, in quei giorni, era di pessimo umore (tra l’altro prestava orecchio alle onde del mare: a uno dei nostri amici disse che gli sarebbe piaciuto molto inserire una traduzione musicale di quel rumore in una sua composizione, cosa che non gli era mai riuscita...). Agli ellingtoniani era stato riservato tutto intero il terzo concerto di quel festival, che eccezionalmente si svolse al Teatro Ariston; gli altri due furono animati da un gruppo diretto da Giorgio Gaslini, dal complesso tradizionale inglese di Chris Barber, dal Modern Jazz Quartet cui s’era aggiunto il chitarrista brasiliano Laurindo Almeida, e dai complessi di Giorgio Buratti, Eraldo Volonté e Flavio Ambrosetti, il quale ultimo ebbe come solista ospite Dexter Gordon. Martial Solal, i Double Six, Wes Montgomery (il grande chitarrista arrivava in Europa col suo

quartetto, per la prima e ultima volta), un America Jazz Ensemble messo insieme dal clarinettista Bill Smith, e poi il quartetto Thelonious Monk, Earl Hines solo al piano, e infine una grande orchestra costituita per l’occasione con alcuni dei migliori solisti italiani furono motivi d’attrazione del decimo festival: l’ultimo fortunato. Chi dominò fu Earl Hines, appena riscoperto in America come solista di piano (!?!); subito dopo di lui fece una gran figura Thelonious Monk, che suonò con una foga che non avevamo mai vista in lui. («Non l’ho mai sentito suonare così da secoli!», ci confidò George Wein, che era arrivato per vedere come si sarebbe comportato il suo pupillo.) In occasione dell’ultima edizione della manifestazione ne successero di tutti i colori, a cominciare dai grossi dispetti fattici dai sanremesi, dei quali si è già detto; la cosa peggiore fu però la defezione di Sonny Rollins, che avrebbe dovuto venire da Londra per suonare col trio inglese di stan Tracey, ma fu aspettato inutilmente, per ore, all’aeroporto di Nizza. Rollins sarebbe stato una delle vedettes del festival; gli altri grossi calibri in cartellone erano Oscar Peterson e Ornette Coleman, il quale presentò il suo brillante trio con David Izenzon e Charlie Moffett. C’erano ancora un sestetto francese diretto da Jef Gilson, il trio di Franco d’Andrea, il tenorsassofonista Booker Ervin, Steve Lacy col giovane Enrico Rava (non ancora emigrato in Usa) e due ritmi sudafricani, e infine il trio di Guido Manusardi, un pianista ancora del tutto sconosciuto in Italia, che mi aveva fatto arrivare dalla Svezia, dove lavorava, una registrazione su nastro tanto convincente da indurmi subito a invitarlo. Manusardi fece il viaggio più avventuroso, perché arrivò coi suoi compagni in automobile da Stoccolma (e la traversata del continente non fu senza peripezie) mentre quelli del trio di stan Tracey fecero quello più angosciato (dov’è mai Sonny Rollins? si chiedevano. E che cosa faremo noi tre, da soli? poi suonarono soli e ci impressionavamo molto). Quanto a Ornette Coleman, faceva allora una delle sue prime sortite nel Vecchio Continente ed era molto compreso del suo ruolo. Girava per Sanremo, fra lo stupore dei passanti, ostentando un bel cappello a cilindro, verde, del tipo basso e un po’ imbarcato che si usava ai tempi di Dickens. I fotografi ne erano deliziati; non così i giornalisti, che alla richiesta di un’intervista si sentivano contrapporre regolarmente una richiesta di quattrini. Ora che è finita da parecchi anni, non posso ripensare a Sanremo senza nostalgia, mescolata a un pizzico di angoscia. Mi viene sempre in mente quel clima tanto dolce in cui però potevano scoppiare grane a cui non c’era rimedio. Quanto alla musica, ricordo soprattutto gli aggettivi con cui la qualificammo subito dopo averla ascoltata.

Duke Ellington

Stan e Woody Negli anni a cavallo del 1950 Stan Kenton fu forse il più osannato bandleader d’America. Sembrava (a certi americani) che le sue orchestre dovessero causare una rivoluzione nel mondo dei suoni, fare apparire il jazz e la musica sinfonica europea cose sorpassate. In Europa si era più prudenti, e non si perdeva occasione per gettare acqua sul fuoco dell'entusiasmo dei «Kenton fans»: semmai si esagerava in senso opposto, perché Kenton veniva descritto come un blagueur un poco comico e molto presuntuoso, di cui non si dovesse tener conto. Poi Kenton arrivò, con la sua poderosa orchestra, e mise d'accordo tutti, o quasi. Anche perché la formazione che portò in Italia, nel 1953, era la migliore che avesse mai avuto, e anche la più jazzistica: c'erano Lee Konitz, Zoot Sims, Frank Rosolino, Conte Candoli e tanti altri jazzmen da tutti rispettati. Mai vista o sentita un' orchestra altrettanto impressionante per la sua precisione. Quanto a lui, Kenton, apparve subito assai diverso dal fanfarone che la pubblicità americana voleva farei credere che fosse. Non aveva certo l'aria di una viola mammola ma non sembrava affatto perduto in irrealizzabili sogni di grandezza. Sembrava che avesse i piedi ben piantati per terra, invece; per quanto poi riguardava la musica, e più in particolare il jazz, le sue idee erano perentorie ma niente affatto blasfeme. Si è parlato molto, anche da parte delle sue mogli (tutte divorziate) e dei suoi musicisti, del «carisma» di Stan Kenton, e io sono pronto a riconoscerne resistenza. Se poi dovessi cercare di analizzarne le componenti, azzarderei che quel carisma è fatto in parti uguali di fascino, di autorità, di entusiasmo (però non smodato come ci hanno fatto credere) e di «umanità». Quest'ultima è la dote che colpisce subito, a riprova di quanto poco risponda al vero la sua immagine pubblica. Nella seconda metà degli anni cinquanta, la popolarità di Kenton ebbe un tracollo, e l'uomo ne soffrì: si era assuefatto alle scene di entusiasmo che sempre avevano accompagnato le sue uscite in pubblico negli anni d'oro, ed ebbe difficoltà ad adattarsi alla nuova situazione. Tanto più che la sua vita famigliare, sempre sfortunata, non poteva offrirgli alcun compenso per ciò che aveva perduto. Cominciò nelle sue orchestre la girandola dei solisti, che da un certo momento in poi non furono più reclutati fra le stelle del jazz ma, per ragioni di economia, tra i giovanissimi usciti dalle orchestre delle università o dalle scuole musicali: tutti tecnicamente ineccepibili ma anche tutt'altro che personali. Lui ebbe il torto di non capire (o di fingere di non capire) la differenza: «Il loro unico torto» mi disse un giorno parlando dei suoi nuovi solisti è di essere giovani e quindi poco conosciuti: all'inizio erano sconosciuti anche i Lee Konitz e i Frank Rosolino che oggi vi sembrano tanto bravi». (Già, però si era capito subito che questi avevano della personalità; dei suoi. giovani si capiva esattamente il contrario. ) La cosa più singolare in Stan Kenton è che, nonostante il gran parlare che fece di «progressismo», si tratta di un tremendo conservatore. (« E difficile trovarsi d'accordo con lui» mi aveva avvertito Norman Granz «perché è sempre così ‘a destra’!) Del resto, a ben guardare, era conservatrice anche la sua musica che veniva definita «progressive». Perché non c'è nulla di più conservatore, per un musicista di jazz, che cercare di gettare un ponte - come si usa dire - verso la musica classica; cercando in questa i propri titoli di nobiltà. Come lui fece. Accanto a quello di Stan Kenton, nelle storie del jazz si fa spesso il nome di Woody Herman. Si spiega: i due hanno diretto le più rispettate orchestre di jazz bianche degli ultimi trent'anni, spesso hanno utilizzato gli stessi solisti, e in anni recenti (diciamo: dal 1955 in poi) hanno seguito strade parallele. Senza dire che sono coetanei e si sono visti intorno la stessa generazione di fans. Tuttavia i due uomini non potrebbero essere più diversi. Mentre Kenton ha il «carisma», Herman non ne ha punto: ha l'aria dell'uomo della strada, e magari del burocrate. Come conversatore è deludente, anche perché parla con una voce opaca, del tutto priva della showmanship kentoniana; e se parla di musica, ne parla come di un mestiere noioso come un altro. Non vi coinvolge, non vi fa innamorare dei suoi progetti, a cui del resto accenna senza ombra di entusiasmo. Eppure, sotto l'apparente apatia di Herman ci deve essere proprio il suo contrario, e cioè

l'entusiasmo e la forza di volontà. Tutta la sua biografia sta a dimostrarlo. Quella sua capacità di ricostruire ogni volta da zero la propria orchestra, disfatta troppe volte dalle defezioni in massa dei suoi uomini; quella sua continua attenzione per le giovani leve del jazz; la sua capacità di rinnovare radicalmente il proprio linguaggio orchestrale a intervalli più o meno lunghi; il suo fiuto per i nuovi talenti e per i mutamenti di clima nel mondo del jazz: tutte queste doti, che Woody Herman possiede in misura straordinaria, contraddicono l'aspetto dimesso e ordinato (da «funzionario» , per usare una definizione di Norman Granz) che l'uomo presenta. Forse il suo ideale di vita è quello dell'«uomo in grigio», del businessman: «lo dirigo un'orchestra per hobby» mi disse un giorno. «In realtà il mio vero mestiere è quello dell'uomo d'affari. Mando infatti avanti una fabbrica di scarpe.» (Mi ricordai, sentendogli dire questo, dell'attenzione che aveva riservato alle vetrine dei più eleganti negozi di scarpe: avevo notato che prendeva sempre buona nota dei prezzi, anche se poi non comperava nulla.) A differenza di Kenton, che vi rispetta come interlocutore e che è sempre pronto a imbarcarsi in lunghe discussioni con voi, Herman è un pessimo conversatore quando si tratta di musica, e perde la pazienza se viene contraddetto. E' strano: io amo la musica di Woody Herman assai più di quella di Kenton, però, per quanto riguarda gli uomini che la fanno, le mie predilezioni si capovolgono. Anche perché Kenton, tutto sommato, è più genuino: un giorno mi raccontò che la prima volta che incontrò Armstrong in carne e ossa fu lì lì per svenire.

Stan Kenton

Woody Herman

Lee Konitz Photos by Roberto Polillo

Mulligan Quel pomeriggio di domenica 26 febbraio 1956, al Teatro Nuovo di Torino, pareva di essere alle assise del jazz dell’Italia settentrionale. Da Milano tutti coloro che non si erano accontentati della breve esibizione del sestetto di Gerry Mulligan al Teatro della TV del giorno precedente, o della pur entusiasmante jam session notturna alla Taverna Messicana (regno di solito del gruppo di Basso e Valdambrini, ma aperto a chiunque facesse del jazz, allora) si erano trasferiti in macchina, in treno, in pullman; saranno stati oltre duecento gli appassionati e i musicisti milanesi arrivati a dar manforte ai colleghi - di passione o di professione - torinesi, e non erano davvero pochi coloro che avevano fatto un viaggio ancora più lungo. Quella volta il commento degli spettatori, ivi compresi gli esperti riconosciuti, fu unanime: «E’ il più bel concerto che abbia mai ascoltato», diceva ciascuno, senza essere contraddetto. Confesso che anch’io non mi ero aspettato tanto. Conoscevo Mulligan come un musicista geniale, e non vi era incisione che non avessi degustato e ammirato; ma non potevo prevedere che avrei ricevuto da quel giovanotto, allora ventinovenne e nel pieno della sua creatività, un impressione così forte. Il suo, anzitutto, è veramente un concerto, a dispetto della trasandata nonchalance (non priva di arguzia, però) con cui Gerry e i suoi si presentano e si muovono sul palcoscenico. Non c’è in loro nessun desiderio di dare spettacolo, nessuna tentazione di strappare l’applauso agli sprovveduti con quegli espedienti a buon mercato di cui anche i più grandi jazzmen abusano; e neppure l’ombra di quel pur legittimo dolus bonus dei musicisti che si usa chiamare effetto. Mulligan fa della musica e basta, e la fa senza sussiego, con umiltà quasi, ma con dignità. Ha una personalità molto spiccata, ma non la ostenta in uno show, come tanti altri fanno; la rivela soltanto attraverso la voce del suo strumento e di quello dei suoi collaboratori. Come tutti i grandi del jazz Gerry vive in una sua esclusiva dimensione musicale in cui imprigiona tutti coloro che gli si affiancano, le cui doti migliori sa porre mirabilmente al proprio servizio. Pur essendo un brillante solista, non si pavoneggia in lunghi monologhi, che non gli bastano: la sua voce strumentale è semplicemente il paradigma, la scarnificata espressione di un mondo musicale che si esprime compiutamente soltanto attraverso la polifonia. E tuttavia, in quel suo personalissimo modo di articolare il discorso solistico col sassofono baritono, sono già contenuti, in nuce, il sapore e le regole, lo stile insomma, delle sue composizioni e dei suoi arrangiamenti. (Che poi sono al oro volta dilatabili quasi a volontà: dal quartetto Mulligan è passato al sestetto e poi alla grande orchestra, sempre seguendo la stessa strada.) La sua musica è casta eppure frizzante, a tratti beffarda e clownesca, e talvolta invece marziale e austera, ma sempre controllata e distorta attraverso il gusto per la caricatura. E’ una musica in cui l’effetto più prezioso, prelibato, è ottenuto sempre con grande economia di mezzi espressivi. (Di questo Mulligan offre una spiegazione «Io sono un compositore, non un arrangiatore», dice.) Conoscevo già, del sestetto di Mulligan, un disco registrato alcuni mesi prima all’Università di Stockton, in California. Si trattava di un buon disco, che tuttavia non lasciava prevedere che il sestetto potesse diventare qualcosa di più di un ampliamento dei ben noti quartetti. In quel sestetto di Mulligan mi è sembrato invece di indovinare qualcosa in più: un sale nuovo, un sapore amaro e disincantato, che mi ha fatto venire in mente più di una volta lo Stravinsky di Petrouchka. Certo gusto per il clowning, che diventa arte elegante attraverso la stilizzazione, certo indulgere allo sberleffo improvviso (un esempio: la ricorrente citazione della Marcia dei gladiatori, che è poi quella tal marcetta che le bande dei circhi equestri intonano quando è l’ora dei pennacchi e delle parate…) fanno proprio venire in mente Stravinsky. Attenti però: Mulligan è un uomo del jazz, un giovanotto che si veste ai grandi magazzini e che pasteggia spesso in cafeteria a base di hamburgers, e magari beve troppo a tutte le ore. Conosce la musica classica europea, e naturalmente la rispetta, ma non la vagheggia e non la scimmiotta. A Milano fece autentiche acrobazie per assistere almeno all’ultimo dei balletti che quella sera si rappresentavano alla Scala, ma poi, ancora in smoking, si immerse nella spaventevole calca della

taverna Messicana per partecipare a una furibonda jam session con Zoot Sims e i suoi ritmi, che andò avanti tutta la notte. Se però non è e non sarà mai un musicista togato, Mulligan non è nemmeno un jazzman focoso e sudante, di quelli che «scaldano», che «soffiano» e che fanno saltare. Da quel poco che potei capire in quei giorni, osservandolo durante le prove e scambiando con lui qualche chiacchiera, ebbi l’impressione che Mulligan fosse un uomo di notevolissima intelligenza e anche di forte carattere, che sa perfettamente ciò che vuole e ciò che vale. Coi suoi uomini e con sé stesso è musicista esigentissimo, e con gli altri è estremamente scrupoloso. L’ho visto esercitarsi sul sassofono, prima di ogni concerto, per una buona mezz’ora, e la sola intonazione degli strumenti è un’operazione che prende a lui e ai suoi uomini una decina di minuti ogni volta. Non per questo Mulligan è un uomo pedante: al contrario dimostra di possedere uno spiccatissimo senso dell’humor che mai lo abbandona. Lo stesso uomo dal volto ascetico e però giovialmente rubizzo, su cui irride una chioma color oro vecchio, si ritrova sul palcoscenico. La musica si identifica così con l’uomo: lo imita e lo esprime. Il suo gusto per la battuta, più bonaria che caustica, trova ora la sua espressione più naturale attraverso il sax e i suoi arrangiamenti. La fermezza del suo carattere (forse meglio: la sua caparbietà) si rivela nella disciplina del suo sestetto, in cui Bob Brookmeyer, i butirroso trombonista che pare uscito da un’accademia militare prussiana, esercita le funzioni di comandante in seconda. Non si fanno complimenti o cerimonie sul palcoscenico, con Gerry mulligan: si apre il sipario e il leader, che non si vale neppure dell’elementare accorgimento di entrare da solo, per strappare l’applauso d’obbligo, annuncia semplicemente il titolo del primo pezzo, e il concerto comincia. A Torino, quel giorno, vengono sgranati uno dopo l’altro i pezzi più celebri del repertorio mulliganiano: salvo quattro o cinque standard (come My Funny valentine, Sweet And Lovely, Makin’ Whoopee) sono quasi tutti di sua composizione : da Soft Shoe a Walking Shoes, a Bernie’s Tune, Ontet, Westwood Walk, I Don’t Know How ecc. Si vede subito che Mulligan, anche come solista, sovrasta di parecchi cubiti i suoi pur bravi compagni, e che dopo di lui è Brookmeyer che tiene il campo. Gli altri sono Zoot Sims, Jon Eardley, trombettista, Bill Crow, contrabbassista, e Specs Bailey, batterista. Non è giudicando uno a uno i suoi solisti che si coglie il valore del sestetto di Mulligan, ad ogni modo. E’ il gioco d’assieme, sono i deliziosi contrappunti, gli impasti pieni di sapore, la grazia e l’originalità di certi passaggi e di certe soluzioni, il peculiare, prelibato gusto melodico, armonico e ritmico, il relax insinuante e l’urgenza di ogni esecuzione, la squisita musicalità di ogni arrangiamento, che incantano ed entusiasmano. Ho cavato le righe che precedono da una nota che scrissi, a caldo, dopo il concerto torinese di Mulligan. Oggi sarei più cauto, perché sono più smaliziato. Quanto alle mie supposizioni sulla fermezza di carattere dell’uomo Mulligan, che in seguito ho potuto conoscere bene, non so se ci avevo azzeccato. Forse vent’anni fa e passa il mio amico era solo più «duro», più irascibile di quanto non sia oggi. In verità, anche se come musicista pare aver perduto parte dell’originario smalto, il Mulligan degli anni settanta è un uomo assai più amabile di quanto non fosse quello del suo periodo d’oro. E’ divenuto, tanto per dirne una, più generoso e anche più «umano». Ed è diventato un conversatore piacevole ed interessante, perché è un acuto osservatore del mondo in cui viviamo. Ogni tanto però perde le staffe, diventa rosso come un tacchino e strapazza la prima persona che gli capita a tiro. Qualcuno non sa perdonargli certi scatti che, a chi conosca anche l’altro Mulligan, possono fare venire in mente il caso del dottor Jekyll e di mister Hyde.

«Lady Day» protestata Billie Holiday capitò a Milano nel novembre del 1958, e cioè verso la fine della sua tribolatissima esistenza. E qui fu umiliata come non le era capitato mai nel corso della sua carriera di cantante. Ebbe la disgrazia di essere scritturata da un impresario che trattava per lo più numeri d’attrazione per gli avanspettacoli e più in generale per lo showbusiness minore. Costui, che probabilmente non sapeva bene chi fosse, la mise nel cartellone del cinema Smeraldo (un teatrone frequentato da un pubblico popolare) insieme a giocolieri, fantasisti e così via. C’era anche Fausto Cigliano. Non so in quanti andammo ad ascoltarla la prima sera: certo eravamo in pochissimi in teatro a sapere chi fosse Billie Holiday. Gli altri del pubblico pensavano di trovarsi dinanzi a una delle tante fasulle «attrazioni internazionali» che negli spettacoli dello Smeraldo di sprecavano. Per quanto ricordo Billie cantò pressappoco come faceva sempre nei suoi ultimi dischi: non era più, beninteso, la favolosa "Lady Day" di Strange Fruit, ma era pur sempre una più che notevole cantante di jazz. Fatto sta che il pubblico non la capì affatto. Ecco come io riferii i fatti su «Musica Jazz»: «Quando è entrata in scena Billie Holiday e ha iniziato a cantare accompagnata dall’eccellente pianista Mal Waldron e da un’orchestrina di fossa su cui è persino inutile infierire, è successo il finimondo. La voce acre, le inflessioni volutamente distorte di Billie sono state scambiate per il farfugliamento di un’avvinazzata: si è capito subito che non sarebbe stato possibile giungere al termine del «numero» e men che meno della scrittura. Billie aveva appena terminato la quinta canzone che fu pregata, dal presentatore, di lasciare il palcoscenico (su cui non ricomparve più perché fu protestata): al pubblico fu detto che «non stava bene». I più accesi jazzofili milanesi non si dettero pace per quanto era accaduto. La sera dopo tre o quattro suoi ammiratori, tra i quali c’ero anch’io, si recarono all’Hotel Duomo, Billie era alloggiata, per confortarla in qualche modo e per offrirle qualche distrazione. Lei ci fu riconoscente e accettò volentieri la nostra compagnia per la serata. L’accompagnammo alla Taverna Messicana per sentire un po’ di jazz nostrano, poi andammo tutti a casa di Mario Fattori, pubblicitario innamorato del jazz, a bere qualcosa e a chiacchierare. Billie, si sa, era schiava delle droghe pesanti, e non era di grande compagnia: di tanto in tanto la sorprendevo a fissare intensamente il vuoto o qualche punto del muro. Spesso, ascoltando la musica degli altri (quella del complessino della Taverna Messicana, oppure un disco di Sinatra, che volle ascoltare a casa di Fattori), la riprendeva subito per canticchiarla a sua volta, distorcendone la melodia in quella sua inconfondibile maniera. Per il resto, rispondeva alle domande che le venivano rivolte, ma non faceva certo conversazione. Era una donna amara, risentita: non ricordo di averla mai vista sorridere. Penso che sia stata quella sera un poco lugubre a dare a Fattori l’idea di organizzare per lei, insieme a Pino Maffei, uno spettacolo riparatorio a cui potesse assistere la fine creme degli appassionati del jazz milanese. Comunque sia, pochi giorni dopo i due affittarono il Gerolamo, un minuscolo teatrino destinato per lo più - allora - agli spettacoli di marionette, e fecero passare la voce tra gli amici. Quella sera le strutture del teatrino furono messe a dura prova dalla folla che lo riempì: eppure le balconate «a prova di bambino» ressero bene. Quanto a Billie, si impegnò a fondo, e diede uno splendido, commovente, recital. Il pubblico le tributò ovazioni trionfali. In quel teatrino così piccolo ciascuno aveva l’impressione di poterla abbracciare. E sembrava che volesse farlo. Sei mesi dopo, o giù di lì, ci giunse la notizia che Billie era morta, nel letto di un ospedale di New York. C’era un poliziotto a sorvegliarla, fuori dalla sua camera.

Garner dal vivo Per ascoltare Erroll Garner, la prima volta, dovetti andare a Lugano, dove allora, nel 1966, i concerti di jazz erano abbastanza frequenti. Che cosa mi aspettavo? Non certo delle sorprese. Garner ha sempre suonato seguendo delle formule collaudatissime, familiari da almeno trent’anni a chi si occupi di jazz. Mi aspettavo dunque di incontrare quelle formule, e di passare in loro compagnia una piacevole serata. Se poi ascoltandolo dal vivo, avessi potuto, come era accaduto spesso in passato per tanti musicisti, migliorare il mio concetto su di lui, tanto meglio. Mai avrei invece immaginato che non sarei stato capace di resistere fino in fondo alla sua esibizione, e che, quando ancora il pianista imperversava facendo - tra il divertimento degli squares e le proteste degli intenditori - il clown con Rachmaninoff, mi sarei ritrovato nell’atrio del Teatro Kursaal, con altri appassionati di vecchia data, a scambiarci dei commenti disgustati e increduli. All’inizio non era sembrato che le cose sarebbero andate tanto male. Accompagnato dai fidi - ma mediocri - Eddie Calhoun, contrabbasso e Kelly Martin, batteria, che erano con lui da anni, Garner aveva cominciato a passare in rassegna delle ballads di successo, suonando con vigore nel suo stile abituale, che però era apparso subito più carico, più enfatico, più «furbo» del solito. Il tocco era un poco greve (la sinistra era addirittura martellante), ma lo swing era intenso; era chiaro che tutto era routine, che tutto era spettacolo, che le risatine del bassista e gli stupori del batterista erano finti, ma quasi tutto passava. E qualcosa si ascoltava molto volentieri. I trucchi (i gimmicks, direbbero gli americani) erano comunque molti e anche abbastanza risaputi, e certi strimpellamenti a due dita parevano destinati ai minori. Il guaio era che col passare dei minuti i trucchi s’infittivano, e diventavano più triviali, le soluzioni si ripetevano, la delusione e il fastidio degli ascoltatori non sprovveduti aumentavano, mentre aumentavano gli applausi degli altri. Si capì presto che Garner era, a ben guardare, solo un super-pianista da bar, abituato a carezzare il pubblico per il verso del pelo; uno di quei musicisti che sanno bene che una smorfia a un certo momento fra scattare una certa molla e fa scrosciare l’applauso. Poi apparve sempre più chiaro che ciò che premeva a Garner era solo il successo (il successo qui ed ora): se ne ebbe la certezza quando si mise a strapazzare, emettendo un fastidioso e altissimo muggito, dei pezzi tanto belli come Caravan o Summertime, o canzoni di grande successo come Hello Dolly, o le bosse nove. A un certo punto si sentì un terribile boogie woogie, e poi, l’ho già detto, un clownesco concertino su musica di Rachmaninoff, col batterista che fingeva di suonare il violino usando le bacchette, il bassista che faceva il «bovero negro» e così via, fino a far venire al pubblico il dubbio che il jazz non fosse una cosa seria. Fino a che punto questa scandalosa resa di Erroll Garner ai gusti del grosso pubblico si dovesse a lui oppure alla sua manager, Martha Glaser, non ho mai capito. Certo è che la Glaser aveva per lui un culto fanatico, e fece di tutto per sostenerne e accrescerne il successo popolare. Quando si trattava con lei, per scritturare il suo amministrato (io lo scritturai in seguito per un concerto al Lirico di Milano, dove le cose andarono molto meglio che a Lugano), si veniva intrattenuti a lungo sulle virtù del pianista. Il tutto nel tono confidenziale di chi sottintende: «Tu e io sappiamo benissimo queste cose». Un giorno, Norman Granz, che la conosceva bene (era stata, ai suoi tempi, sua segretaria), mi disse: «Io mi domando che cosa farebbe Martha Glaser il giorno che Garner dovesse morire. Credo che il giorno dopo si leggerebbe sui giornali che si è suicidata». Non è stato così: Garner è morto, ma Martha Glaser è viva. Ma è probabile che non sappia bene cosa fare.

I grandi della batteria Elvin Jones capitò nello stesso Teatro dell’Arte nello stesso periodo. faceva parte del quartetto di John Coltrane. Penso che Elvin abbia creato molti problemi a Coltrane, considerato che era costantemente ubriaco. A un certo punto, dovette persino essere sostituito nel quartetti da Roy Haynes, per sottoporsi a una lunga cura disintossicante da non so quale droga. Coltrane però lo lasciava fare, sia perché era tutt’altro che un caporchestra autoritario, sia perché Elvin, dopotutto, riusciva sempre a suonare splendidamente. Solo una volta, per quanto mi riguarda, fece cilecca: nel 1968, durante uno dei festival organizzati da me e Maffei al Lirico. Era arrivato assieme ad altri batteristi di fama: Max Roach, Sunny Murray e Art Blakey, i quali avrebbero dovuto animare con lui, un intero concerto, sia suonando uno dopo l’altro in una di quelle «battle of drums» che tanto piacevano al pubblico americano (lo spettacolo veniva importato così com’era), sia esibendosi, alcuni, coi propri complessi. Avevano con sé il proprio gruppo sia Elvin Jones che Art Blakey, che presentava allora, per la prima volta in Italia, i suoi nuovi Jazz Messengers. Fu un concerto disgraziatissimo, che si preannunciò come tale fin da prima che cominciasse. Il pubblico stava infatti ancora prendendo posto in teatro quando Sunny Murray mi comunicò che non avrebbe potuto suonare data la piccolezza della batteria che gli avevamo messo a disposizione. (Lui effettivamente è un uomo di statura imponente, tanto che faceva uno strano effetto vederlo seduto accanto a una batteria. Però le batterie sono tutte pressappoco di misura eguale, e sarebbe stato impossibile trovarne una su misura per lui...) La verità era - così mi dissero altri membri della troupe - che nel confronto con gli altri due batteristi, Sunny Murray faceva invariabilmente una figuraccia, e si era stancato. Si rassegnò a farne una anche quella sera dopo che io gli ebbi comunicato che avrei fatto a meno dei suoi servigi e che non gli avrei corrisposto alcun compenso. «I’m happy now!», sono felice adesso, mi disse allora, dopo cinque minuti, senza spiegarmi la ragione del suo repentini mutamento d’umore. Quando suonò, con quella sua «non tecnica», mi fece stare in apprensione: al mio fianco Max Roach che scuoteva la testa borbottando qualcosa di non precisamente lusinghiero a proposito di quel che vedeva e sentiva. La figura che fece Elvin Jones fu molto peggiore, ad ogni modo. Quando venne il turno del suo quartetto (al sax tenore c’era Joe Farrell) non riuscì minimamente a suonare. Andava al centro del palcoscenico, dov’era piazzata la batteria, dava qualche maldestro colpo sui tamburi e sui piatti, e poi tornava tra le quinte. Quel fiasco di vino che gli avevo visto sempre in mano, fin dal momento dell’arrivo a Milano, aveva fatto il suo effetto, evidentemente. Ancora mi domando come all’aeroporto lo abbiano lasciato passare per ripartire, il giorno dopo: la situazione infatti non era cambiata neppure dopo che Elvin ci aveva dormito sopra. Poi anche Elvin tornò. Si comportò quasi sempre bene; ne fece di tutti i colori soltanto a Pescara, nel 1975, e sempre per la stessa ragione. Date le sue preoccupanti condizioni di salute, quella volta fu ricoverato in ospedale. Io lo venni a sapere dal suo agente olandese mentre mi trovavo a Montreux, per assistere al Festival del jazz. Sentendo certe notizie mi vennero i brividi, visto che Elvin avrebbe dovuto suonare col suo quartetto anche per me, a Verona, qualche giorno dopo. Poi tutto si aggiustò. il nostro uomo fece indigestione di acqua minerale e si rimise in piedi. A Verona era come nuovo. Mi sono sempre domandato come facciano i musicisti di jazz a superare certe crisi e a suonare. Quasi sempre, almeno.

Un uomo chiamato Thelonious Da alcuni anni a questa parte è di rigore parlare di protesta. di rabbia, a proposito di qualsiasi jazzman nero che suoni in uno stile avanzato; attribuire impegno sociale, propositi rivoluzionari e vindici furori a chiunque faccia della musica agitata, irta di dissonanze, e magari rotta da strida e da fischi. E così, le prime volte che venni in Italia, anche Thelonious Monk fu interpretato - e presentato ai lettori dei quotidiani - in questa prospettiva eroica. In quella sua musica buia e contorta, a tratti illuminata da sinistri bagliori, era facile avvertire un luciferino odor di zolfo, un’angoscia fredda, e tanto bastava. Sennonché Monk non si spiega affatto in questo modo. Al contrario lo si tradisce, se ne impedisce la comprensione. I suoi rapporti col mondo esterno sono infatti quanto mai tenui, i suo desiderio di comunicare con il prossimo è nullo; lungi dall’essere un artista impegnato, un uomo socialmente consapevole, Thelonious è un grosso bambino, dallo sconfinato egoismo, per il quale il resto del mondo non conta nulla. In una delle rarissime interviste da lui concesse, lo dimostrò con chiarezza. nel 1964, a Valerie Wilmer, giornalista e fotografa inglese innamorata del jazz, rispose così, a proposito della lotta combattuta con grande asprezza, in America, dai suoi fratelli di razza per la conquista dei diritti civili: «Non ne so praticamente niente... Quelle faccende razziali non sono nei miei pensieri. Tutti cercano di farmici pensare ma queste cose non mi turbano. Mi disturba solo la gente che cerca di farmi pensare a queste cose». Un grosso bambino, dunque, che a un certo punto (tardi, perché dovettero passare parecchi anni prima che la sua musica fosse apprezzata) scoprì che ciò che aveva sempre fatto istintivamente, quasi per gioco, suscitava l’ammirazione degli altri, che pagavano per vederlo e ascoltarlo. Non si chiese perché, né cercò di allargare il suo uditorio; si rallegrò del successo soprattutto perché questo gli dava la possibilità di comprare dei bei vestiti e uno sterminato numero di cappelli delle più varie fogge, di alloggiare nei migliori alberghi del mondo, e di succhiare dei grossi gelati (glieli porta Nellie, sua moglie, che lui chiama imperiosamente ad ogni momento, come fanno i bambini capricciosi con la mamma). Di molte altre cose non sembra essersi curato. per parecchi anni non pensò neppure di abbandonare il modestissimo alloggio di San Juan Hill, uno dei ghetti neri di New York, dove aveva abitato fin dai tempi grami, quando riusciva giusto a sopravvivere grazie ai diritti che gli derivavano dalle scarse vendite dei suoi dischi e ai modesti guadagni di sua moglie. In Italia Thelonious Monk è arrivato diverse volte, per dare dei concerti col suo quartetto. Il primo lo diede a Milano nel 1961, e fece sensazione, soprattutto perché i dischi da lui registrati nei mesi precedenti per la Riverside, che davano la misura del suo talento, non erano ancora arrivati da noi. Su di lui si avevano idee confuse prima di quel concerto; e non ci si attendeva molto. Nello storico confronto che, quel giorno, si sarebbe svolto, sul palcoscenico del Lirico, tra lui e Bud Powell, pareva probabile che dovesse aver la meglio Bud - sempre che, questa era l’incognita, fosse stato in buone condizioni psicofisiche. Non andò così: la mente del povero Bud era perduta chissà dove, il suo passo era malfermo, e le sue dita svolazzavano sulla tastiera quasi mimando un gioco semidimenticato. Thelonious invece era in grande giornata: non per nulla la registrazione di quella esibizione, che fu realizzata a sua insaputa da Bill Grauer - arrivato a rendere solenne la riunione fra i due grandi maestri del piano jazz del dopoguerra - fu molto lodata dalla critica internazionale quando apparve in disco. Fui sorpreso quel giorno, nel constatare che Thelonious, che pure incontrava allora il suo vecchio e sfortunato amico dopo dieci anni esatti, non sembrava minimamente toccato dall’evento. Per tutto il tempo in cui potei osservarlo, rimase impassibile, apparentemente indifferente a tutto. nei successivi dieci anni, nei quali ebbi modo di presentare parecchi concerti suoi, gli avrei vista stampata sul viso quasi in permanenza quell’espressione di imperturbata disattenzione. Solo eccezionalmente l’ho visto alterarsi un poco; mai però fino al punto di cedere al sorriso. Qualche volta tuttavia gli occhi di Monk possono brillare di beatitudine: la beatitudine dei bambini, fatta di meravigli e di desiderio. gliela lessi negli occhi la volta che lo scortai nella hall dell’Hotel

Negresco, a Nizza, dove gli avevo prenotato una camera su suggerimento di George Wein, che gli faceva da agente. («Monk vuole un trattamento da star» mi aveva detto. «Mettilo nel miglior albergo che trovi, e non preoccuparti del prezzo.») In un’altra occasione fu una mia cravatta ad accendergli lo sguardo. «Che bella!», mormorò con voce carica di ammirazione, toccandola col dito. Fui tentato di sfilarmela dal colletto e di regalargliela. Ma si tratta di momenti rari, l’ho già detto. Di norma il volto di Thelonious Monk non esprime nessun sentimento; il suo sguardo, apparentemente agganciato al nulla, scoraggia chiunque si proponga di avvicinarlo per rivolgergli la parola. quel suo silenzio, perdurante e greve, contribuisce a isolarlo ancora di più: a collocarlo, si direbbe, in un’altra dimensione. Chi gli sta vicino avverte un senso di disagio; ha presto la bizzarra sensazione che Thelonious sia in sintonia con le armonie di un universo remoto, a lui solo accessibile, che conosca e senta cose che a noi sfuggono. E che, d’altra parte, il nostro mondo gli riesca incomprensibile. E’ di una ingenuità disarmante. Può fare delle domande che lasciano di stucco. Ne ricordo una: «Sono stati inventati prima i chilometri o le automobili?». Me la pose durante un viaggio sulla mia auto, dopo che gli ebbi spiegato che il tachimetro, che aveva attirato la sua curiosità, era diverso da quelli in uso in America perché indicava chilometri, non miglia. Fu quello uno dei pochissimi brandelli di conversazione in quel viaggio, che pure fu tutt’altro che breve. A salvare la situazione, a chiacchierare con me, pensò anche quella volta Nellie, una donna modesta ma viva e piena di buon senso. Fu sempre Nellie ad accollarsi il peso della conversazione durante un pranzo a cui la invitai, assieme al marito, con la vaga speranza (molto vaga, in verità) di ricavare dall’incontro qualche ghiotta notizia per un articolo. Monk rimase quasi sempre zitto, ma seguì con attenzione quello che Nellie diceva su di lui e sulla sua carriera, e ogni tanto convalidava il racconto con un cenno del capo. Ciò che appresi, di nuovo, in un paio d’ore di rade chiacchiere fu comunque così poco che rinunciai all’idea di scriverci sopra un pezzo, così che oggi, a distanza di più di dodici anni, mi riesce difficile ricordare quanto mi fu detto quel giorno. una cosa però mi è rimasta stampata nella memoria: l’enfasi con cui Nellie - in quel momento corroborata da un più convinto annuire del marito sottolineò l’originalità della musica di Thelonious. «Lui non ha mai cercato di copiare nessuno, non ha mai chiesto consiglio a nessuno. Ha sempre suonato come suona oggi.» Si parlava del periodo, tra il 1941 e il 1943, nel quale alcuni musicisti neri dell’ultima leva si ritrovavano ogni sera al Minton’s un localino jazzistico di Harlem, dove avvenne la laboriosa gestazione del bebop, la rivoluzionaria nuova musica che avrebbe mutato il corso della storia del jazz. Monk aveva lavorato al Minton’s, in modo continuativo, per mesi e mesi, a fianco di quei giovani turchi, ivi compresi i grandi, e cioè Dizzy Gillespie e Charlie Parker; e avrebbe potuto raccontarmi cose estremamente interessanti, dal momento che nessuno è mai riuscito a ricostruire con esattezza ciò che avvenne in quel misero locale in quegli anni cruciali. Ma tutto ciò che cavai dalle sue labbra fu uno stentato: «charlie Parker comparve al Minton’s molto tempo dopo di me. Io non gli ho mai chiesto niente». Non ottenni risultati sostanzialmente migliori il giorno dopo, nel corso della registrazione di uno «special» televisivo per la RAI. Dovevamo filmare e registrare mezz’ora di musica del suo quartetto, preceduta da un discorsetto introduttivo di Lelio Luttazzi, e da quattro parole scambiate tra me e Monk. Sapendo quanto poco loquace fosse il mio uomo, gli anticipai, durante il tragitto verso gli studi di corso Sempione, a Milano, le domande che gli avrei fatto, e lui, sotto l’occhio apprensivo di George Wein che veniva a vedere come sarebbe andata a finire, articolò faticosamente, ma con molto impegno, un paio di risposte. Sembrava uno scolaretto che ripassasse la lezione con i genitori. Dinanzi alle telecamere poi non fece una gran figura con quelle risposte maledettamente disadorne (e mi fece rabbia, perché nell’attesa mi aveva parlato, con discreta disinvoltura, di Cosa Nostra, confidandomi, tra l’altro, che gran parte spacciatori di droga di New York sono di origine italiana...), e io mi domando ancora se non fu questa la ragione per cui quello «special» non fu mai

trasmesso. Comunque sia, fu uno sbaglio non mandarlo in onda perché la musica era eccellente, e anche perché la registrazione della voce di Monk costituisce una vera rarità per i collezionisti. Certo per via della rarità, ma anche per la sua inverosimiglianza (tutto quello che riguarda Monk è inverosimile) qualche sua battuta ha fatto il giro dei jazz-clubs di New York. Per esempio la sua definizione del rock - «Il rock è jazz ignorante» - che meriterebbe di essere incisa sul marmo, o quella che di seguito riferisco e che fu resa di pubblico dominio da qualcuno che lo accompagnò nel 1971 nella tournée australiana dei Giants of Jazz. quella volta Monk fu trasportato in automobile da una città all’altra, ed è superfluo aggiungere che durante il viaggio non fu affatto loquace. Stette zitto a lungo invece, mentre il suo sguardo vagava per la campagna australiana che gli scorreva dinanzi agli occhi. I suoi accompagnatori avevano ormai rinunciato a udire la sua voce, quando lo sentirono borbottare tra sé: «Ma dove sono questi fottuti canguri?». Una spessa coltre di silenzio ricoprì la domanda, che non attendeva risposta. Una volta, ad ogni modo, Thelonious fu visto parlare a lungo. il fatto inconsueto accadde tra le quinte del teatro dell’Arte, a Milano. Peccato però che nessuno saprà mai con precisione cosa disse, perché quella volta regalò il suo prezioso discorso al pompiere di servizio, che, non capendo una parola d’inglese, si limitò a guardarlo con espressione allarmata. Un amico nostro, che si trovava nei pressi e che aveva potuto orecchiare qualche frase, riferì poi che Monk aveva comunicato al «collega» di essere stato anche lui pompiere in anni lontani e aveva voluto fraternizzare. (Quando e per quanto tempo sia stato pompiere non sono mai riuscito ad appurare: su questo - come su moltissimi altri momenti della sua tormentata biografia - la letteratura jazzistica tace. Per il semplice motivo che ha taciuto lui.) Quella volta, al Teatro dell’Arte, Monk fece della musica indimenticabile, benché allora sembrasse tutt’altro che interessato alle reazione del pubblico e alla felice riuscita del concerto. Era sempre così. Si aveva l’impressione che suonasse contro voglia; che salisse sul palcoscenico non già per impegnarsi in uno spettacolo, o per esprimersi, per comunicare qualcosa che gli premesse dentro, ma giusto per offrirsi alla curiosità del pubblico, per farsi rimirare, poiché così gli era stato detto di fare. Forse anche per questo motivo i suoi concerti si rassomigliavano come tante gocce d’acqua. E’ un fatto che l’intenso periodo di creatività durante il quale sfornò quasi tutte le sue composizioni più belle si concluse quando il pubblico si accorse del suo talento. Da quel momento ciò che per lui era forse stato un divertente gioco, divenne mestiere, e l’esecuzione prese il posto dell’invenzione. Da alcuni anni Monk si è praticamente ritirato dalla scena. La sua salute non è buona, e la voglia di esibirsi in pubblico gli è venuta meno. Negli ultimi anni è stato ascoltato in occasioni eccezionali, come il festival «di Newport» a New York, semel in anno, e anche meno. Ma anche in quelle solenni circostanze, a quanto so, Thelonious Monk non ha mutato di un ette il rituale a cui abbiamo tante volte assistito. Mi par di vederlo. Si avvicina al pianoforte con aria assente, con in testa un cappelluccio ami visto prima, poi si siede pesantemente sullo sgabello, butta le manone sulla tastiera, e comincia a suonare, tenendo i gomiti all’infuori: Epistrophy, blue Monk, Straight No Chaser, Rhythm-a-Ning, Crepuscule with Nellie, e così via, fino a quando, stanco di sentirsi tanti occhi addosso, attacca ancora Epistrophy, e poi se ne torna tar le quinte senza curarsi del pubblico che applaude e chiede dei bis, seguito dai suoi uomini, che sono i fedelissimi di ieri e di ier l’altro. Dopo un attimo, Thelonious ha dimenticato tutto: il pubblico, il concerto, persino il luogo in cui si trova. Se avete qualcosa da chiedergli, farete bene a rivolgervi a Nellie.

Tristano Mi erano rimaste nella memoria le fotografie di Lennie Tristano scattate intorno al 1946-47, glianni della sua prima affermazione a New York: fu quindi sorprendente per me il primo incontro con lui. Eccolo lì, Tristano, un uomo di mezz’età, di piccola statura e dall’aspetto inconfondibilmente italiano. Più specificatamente: italiano meridionale. Tristano fu uno dei tanti jazzmen illustri che riuscimmo a presentare al Teatro dell’Arte di Milano nella sua più felice stagione, a metà degli anni Sessanta. Su esibì in un concerto che aveva come altra vedette Bill Evans (nel cui trio era l’allora adolescente e poco più che esordiente, ma già bravissimo, Niels Henning Orsted Pedersen); al fianco di Tristano avrebbe dovuto esserci Lee Konitz, che noi avevamo impegnato a suonare con lui ma che poi, sfortunatamente, perse l’aereo per Milano. Come tutti i ciechi, Tristano è dolorosamente consapevole del suo stato (è una pena vederlo compiere certe operazioni, anche semplici), ma si sforza di vivere intensamente, come se nulla fosse. E’ molto intelligente, molto severo, e molto curioso. Parlando con lui si ha l’impressione di essere sottoposti a un esame: io sono stato da lui rimproverato più volte per il modo in cui svolgevo l’attività concertistica (modo che apprendeva da me). Secondo lui, io presentavo troppi musicisti che avrei fatto meglio a dimenticare, si trattasse pure di Charles Mingus dei cui recenti misfatti in Europa gli era giunta notizia. («Perché scritturi gente simile?», mi chiese, con aria di disapprovazione.) Nel giorno che passai con lui ebbi la netta sensazione che l’uomo fosse amareggiato dalla sensazione di non avere avuto il riconoscimento meritato. Ci teneva a mettere bene in chiaro che l’invenzione del free jazz (lui diceva più precisamente: free forms in jazz) si dovette a lui, quando Konitz e altri incisero lo storico Intuition. Sembrava che avesse orrore per il mondo del jazz e in particolare per il modo di vivere che il mestiere del jazzman comportava. Da tempo aveva smesso di suonare nei locali notturni: li aborriva. «Si beve e si fuma troppo. Non è un bel modo di vivere» disse. E poi non gli piaceva l’aspetto commerciale implicito nella vendita delle sue incisioni, che infatti a un certo punto non ha voluto più fare. Nei pochi giorni in cui rimase in Italia, si esibì per alcuni giorni anche in un locale notturno allora frequentato dai jazzisti (prima di entrarci era preoccupato: «Ma non vorranno mica che io faccia musica ye-ye?»), poi diede un concerto a Padova, per gli studenti. Alla fine della sua permanenza decise di tornare, ciò che poi non fece. Ricevette una strana lettera da Joe Lifton - suo amico, accompagnatore e in qualche modo manager - in cui, per conto di Lennie, mi veniva chiesto un elenco dei teatri italiani che avessero almeno duemila posti e che, per questo solo motivo dovevano essere adatti a Tristano; poi non seppi più nulla da lui (anche perché la mia risposta era stata evasiva). Ebbi invece notizie di Tristano, sia attraverso i giornali che attraverso amici comuni. Non ha più ripreso la vita del jazzman militante ma ha continuato a dedicarsi all’insegnamento, a New York. Di tanto in tanto, George Wein gli ha fatto delle allettantissime proposte per un rientro in scena, ma non è venuto a capo di nulla anche se alcune volte era riuscito a ottenere un «sì», rivelandosi poi retrattile. Non volle neppure partecipare a una solenne serata in suo onore, che Wein aveva messo in programma alla Carnegie Hall. Più tardi, a metà degli anni settanta il cieco pianista fu lì lì per accettare di compiere una tournée con Lee Konitz e alti musicisti da lui stesso selezionati (il bassita avrebbe dovuto essere Niels Henning Orsted Pedersen e il batterista Billy Higgins: Wein glieli aveva promessi impegnandosi a fare qualunque cosa per ottenerne i servigi) ma poi non se ne fece nulla. (Konitz mi aveva detto ridendo: «Pensa, sarebbe stato un ritorno più sensazionale di quello di Sonny Rollins dopo il ritiro sul ponte...».) Ora quasi nessuno si illude più di poter presentare Lennie Tristano a trent’anni di distanza dal suo debutto e dalla nascita (dovuta soprattutto a lui) del cool jazz. La verità è che Tristano ha paura del pubblico, e forse anche del successo. Perché il successo - penso io - gli impedirebbe di recriminare.

Tuttavia se la passa bene, mi dicono. E’ ingrassato, beve troppo, ma vive in una bella casa, che gran parte degli uomini del jazz, anche famosi gli possono invidiare. Chissà se rivedremo mai Tristano. E chissà come suona, oggi.

Lennie Tristano

Bill Evans

Lee Konitz

Sonny Rollins Photos by Roberto Polillo

L'impossibile Miles Gli occhi, piccoli, lucidi, «puntuti», hanno una fissità innaturale. Sembrano quelli di un ipnotizzatore. Meglio: di un rettile. la voce pare venire dall’oltretomba: ha la consistenza di un soffio. Si dice che l’abbia perduta per aver urlato al telefono contro qualcuno, mentre era ancora convalescente per un’operazione alla gola. Basterebbero quegli occhi e quella voce per mettervi in apprensione. Ma Miles Davis vi fa star male anche per il suo modo di comportarsi: perché prova gusto a vedervi soffrire, a farvi stare sui carboni accesi. Per esempio: pretende per contratto di suonare prima di ogni altro perché l’attesa lo innervosisce, assicura, ma poi può arrivare in Teatro quaranta minuti dopo l’ora fissata per l’inizio dello spettacolo, quando già il pubblico sta fischiando da un bel po’. gli deve piacere l’idea di tenere sulle spine qualche migliaio di persone mentre lui se ne sta beatamente sdraiato sul suo letto d’albergo in attesa soltanto di fare la sua tardiva entrata e costringere all’applauso la gente che ha sofferto aspettandolo. Miles è così, e anche peggio di così. pare tanto perverso che molti assicurano che non è possibile che sia fatto veramente a quel modo; ci deve essere qualcosa sotto, qualcosa che un psicologo scoprirebbe facilmente. Il fatto è che se avete a che fare con Miles per ragioni di lavoro vi infischiate delle spiegazioni che uno psicologo potrebbe dare del suo comportamento: soffrite, lo odiate, e basta. La volta che più lo odiai fu nel 1965. Era venuto a Milano per suonare, col suo allora formidabile quintetto (quello con Wayne Shorter, Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams) in un piccolo festival del jazz in programma al Teatro dell’Arte, il cui cartellone era stato messo insieme con la collaborazione di George Wein. Miles era andato a riposare in albergo nel primo pomeriggio, e ci aveva fatto sapere che non voleva essere disturbato prima del concerto; fu invece importunato da un giornalista intraprendente che aveva scoperto in quale albergo alloggiava e gli aveva chiesto un’intervista. Non lo avesse mai fatto! Miles mandò a quel paese il malcapitato, e subito ci notificò per telefono che non avrebbe suonato visto che non avevamo saputo proteggerlo dagli scocciatori. Chiamai allora in soccorso il mio amico Charlie Borgeois, il braccio destro di Wein, arrivato a Milano quale accompagnatore della troupe, e andammo insieme in albergo per ammansirlo. Charlie era nervosissimo: muoveva a scatti le braccia, e mi batteva le mani sulle ginocchia invitandomi a non preoccuparmi: «E’ qui per suonare», mi ripeteva; ma si vedeva che non ci credeva molto neppure lui. Non fui tranquillo finché non vidi il nostro uomo installato nel camerino del teatro, con la tromba sul tavolo. Lì gli avevamo fatto trovare, nella speranza di guadagnarci la sua benevolenza, una bottiglia di whisky; però quando io, poco prima del concerto, andai da lui per chiedergli, con un sorriso pacificatore, se lui e i suoi avessero bisogno di qualcosa, mi sentii rispondere con quella voce gorgogliante: «A trumpet player». Il gruppo cioè aveva bisogno di un suonatore di tromba, né più né meno. (Ma si trattava di una battuta, perché poi Miles suonò, e suonò magnificamente, come in anni successivi non sarebbe più stato capace di fare.) Il suo aspetto truce non avrebbe fatto sospettare certi aspetti infantili della sua personalità, che pure c’erano. li rivelava la sua passione per gli eroi del ring e per le automobili sportive italiane («Ho due Ferrari», ripeteva a chiunque, con un sorrisetto pieno di orgoglio). A un tavolo di ristorante attorno al quale, oltre a me e Miles, sedeva uno degli uomini di Wein, Dino Santangelo, non sentii parlare d’altro che d’automobili e di pugilatori per tutta la durata del pranzo. i suoi commenti erano sempre ammirativi: non so quante volte, quel giorno, gli ho sentito ripetere la sua favorita espressione: «Outasight!» (Fuori dalla nostra vista), che è come dire «Fantastico, irraggiungibile!». Dino Santangelo gli dava corda: non desiderava altro che compiacerlo, apparendo comprensivo e partecipe. perché anche lui aveva paura di Miles: me lo aveva confidato prima che il nostro uomo arrivasse in città. Quando eravamo andati ad accoglierlo all’aeroporto, Dino si era letteralmente

illuminato in volto quando si era reso conto che a fianco di Miles (bardato per l’occasione come un principe barbaro) c’era la sua donna di turno, un’indiana -americana dal bellissimo sorriso. «Non abbiamo più motivo di preoccuparci» Mi sussurrò Dino a quella vista. «Quando c’è lui, lui sta tranquillo e non ci son problemi.» (Non ci furono, infatti.) Ciò che non ho capito affatto è se Miles crede davvero che la musica che fa da qualche anno a questa parte, e che fece anche al Conservatorio di Milano la sera successiva al pasto a base di automobili e pugilatori. Ho appreso solo che disprezza il rock (a cui peraltro la sua musica attuale si ispira) e che ama tuttora i colleghi e i maestri di ieri. quel giorno mi costrinse ad accompagnarlo in teatro a sentire Dizzy Gillespie a costo di guastarci la digestione per via del poco tempo a disposizione. Io comunque ho una teoria a proposito di Miles Davis. Penso che i complessi di cui è carico, che certi suoi discutibili atteggiamenti trovino la spiegazione nella sua estrazione sociale. Miles apparteneva a una ricca famiglia della borghesia nera: l’abbandonò per intrupparsi coi musicisti di jazz (i boppers, per essere più precisi), divenendo subito intimo amico e compagno di camera di Charlie Parker, grande musicista di jazz ma anche grande drogato. Credo che l’equilibrio di Miles Davis sia saltato allora, per quella doccia scozzese.

Tony Williams

Dizzy Gillespie

Due giganti del sassofono Un concerto davvero strano, quello presentato da Norman Granz e da noi il 31 marzo 1960, al Teatro Lirico. In cartellone, sotto l’insegna comune del Jazz At The Philarmonic, figuravano il quintetto di Miles Davis - con John Coltrane -, il quartetto di Stan Getz, e il trio di Oscar Peterson. Pensate: un confronto tra Coltrane e Getz. Come dire: il diavolo e l’acqua santa. Ma non era strano soltanto il cartellone: era strana - e tesa - l’atmosfera, erano tesi i rapporti tra le persone, ed era scomodo stare tra le quinte, per lo meno per chi, come me, aveva a che fare con gli artisti. C’era un Miles Davis più ingrugnato che mai, non faceva un passo senza il suo avvocato (se l’era portato appresso da New York), il quale avvocato ogni tanto diffidava Granz, che a sua volta diffidava Davis, contratto alla mano. C’era un Coltrane smarrito e insicuro che parlava poco o punto, e non sorrideva mai, imbarazzato dai litigi altrui e intimidito per trovarsi in un ambiente per lui nuovo. E c’era Oscar, che sembrava divertito proprio da quell’atmosfera agitata. Quella volta, al Teatro Lirico, ci fu una gran battaglia, in platea, fra i sostenitori di Coltrane, che si ascoltava per la prima volta in Europa, e i suoi detrattori. («Ma lo senti quel pazzo, che cosa fa?» mi diceva un amico, mentre un altro subito rintuzzava: «Ma allora non avete capito niente! Questa è improvvisazione tematica!».) Quanto a Davis, sembrava anche lui fuori fase, e se ne capisce la ragione, visto che c’era l’avvocato ad attenderlo in camerino, con la borsa piena di scartoffie, per stabilire quanti milioni per danni avrebbe potuto richiedere a Granz non appena fossero tornati a casa... Suonò bene o suonò male, Coltrane, quel giorno? A me (e a molti altri) parve che i suoi assolo fossero alquanto sgangherati, e lo scrissi. Mal me ne incolse poi, perché quel giudizio negativo sulla prestazione di un musicista che sarebbe divenuto celeberrimo mi sarebbe stato rinfacciato per anni, anche nel corso di dibattiti pubblici. E il bello è che praticamente nessuno fra coloro che assicurano che si doveva capire subito di trovarsi di fronte a del grande jazz era presente quel giorno in teatro. Del resto, che qualcosa non funzionasse per davvero si può desumere anche dai fischi sonori che il sassofonista (ancora scarsamente famoso, e comunque agli inizi della sua seconda, straordinaria carriera) aveva raccolto a Parigi la settimana prima. Quel giorno comunque io mi posi i primi interrogativi a proposito di quel singolare personaggio. Me li pongo ancora, ad anni di distanza dalla sua morte e dopo aver letto ben tre libri biografici su di lui e chissà quanti articoli. Che tipo di uomo era Coltrane? questo è il punto: un punto che lui, taciturno e riservato com’era, fece di tutto per lasciare oscuro. Il mistero di quelle due carriere, intanto. Una (dagli esordi al tempo della sua milizia nel quartetto di Thelonious Monk) tutt’altro che brillante; l’altra, a dir poco stupefacente, separata dalla fase precedente da un brusco cambiamento di stile, da un’autentica esplosione di genialità. La sua vicenda umana - oggi accertata grazie ai suoi biografi - può offrire una chiave che a me sembra l’unica utilizzabile, per spiegare quel sorprendente «salto di qualità». per anni Coltrane era stato alcolizzato e schiavo dell’eroina: era stato insomma uno dei tanti sventurati junkies che popolano il mondo del jazz. (A proposito: bisognava vedere l'imitazione che Oscar Peterson faceva di un junkie, che con lo sguardo vacuo e un sorrisetto melenso sulle labbra, passandosi l’indice destro sul lato del naso, chiede all’amico un dollaro in prestito; poi, sentendosi opporre un rifiuto, si affretta a chiederne due, convinto di praticare uno sconto...) Ebbene, Coltrane non era affatto il tipo del junkie e dell’alcolizzato: anche perché era, ed era sempre stato, religiosissimo. E poi, come aveva fatto a disintossicarsi completamente, in così poco tempo? quando lo conobbi io, beveva in continuazione dei bicchieroni d’acqua calda ed era più che lucido. Era anche appena sbocciato come artista personalissimo. La sua prima incisione di My Favorite Things, che è quanto dire il suo primo capolavoro su disco, risale alla fine del 1960: non può essere una coincidenza. Sarebbe dovuto passare qualche anno prima che potessi rivedere Coltrane, e fu ancora Granz che mi

propose di presentarlo a Milano col suo già celebre quartetto. Il complessino (completato da McCoy Tyner, elvin Jones e Jimmy Garrison) venne ben due volte, per dare complessivamente quattro concerti al teatro dell’Arte, al parco. La prima volta nel dicembre 1962, il quartetto venne accompagnato da Granz, e tutto filò liscio; la seconda, nell’ottobre dell’anno dopo, venne solo, e le cose non filarono lisce per niente. Questa seconda volta le emozioni per me e per Maffei cominciarono subito, all’aeroporto, quando ci accorgemmo che tra i passeggeri appena arrivati da Amsterdam non c’era - contrariamente alle previsioni - proprio nessuno che assomigliasse a Coltrane e compagni. Avevamo purtroppo poco tempo a disposizione: l’aereo che avrebbe dovuto portare i nostri eroi era atterrato a Linate verso le due e mezzo del pomeriggio, e il primo dei due concerti sarebbe dovuto cominciare due ore dopo. Accertato che il successivo aereo da Amsterdam sarebbe arrivato verso le cinque e mezza, prendemmo le misure necessarie per fronteggiare la difficile situazione: uno di noi corse in teatro per essere pronto a comunicare al pubblico quanto gli avremmo fatto sapere per telefono: e cioè che l’inizio del concerto sarebbe stato posposto all’ora X, oppure che sarebbe stato annullato. Gli altri, fra cui io, rimasero all’aeroporto per cercare di sapere in anticipo se tra i passeggeri del successivo volo ci fossero i nostri amici, e per poi accompagnarli al teatro. Fu Barazzetta che, valendosi di sue conoscenze, riuscì ad ottenere ciò che veniva dichiarato impossibile, e cioè farsi confermare quando l’aereo era già in volo - che su di esso viaggiavano i Signori J. Coltrane e C. (Ricordo ancora chiarissimamente l’emozione con cui apprendemmo per telefono, da Amsterdam, che i quattro passeggeri da noi ricercati erano in volo verso Milano...) Come Dio volle, i nostri atterrarono a Linate. Li caricai sulla macchina e mi avviai a tutta velocità verso il teatro, dove il pubblico, tenuto al corrente di quanto stava succedendo, era in paziente attesa da un paio d’ore (nessuno aveva chiesto il rimborso del biglietto, che pure avevamo offerto: per Trane valeva la pena aspettare...). Mentre guidavo, i miei nervi erano tanto tesi che ebbi un lapsus: invece di dire che il pubblico stava aspettando da ore (hours) in teatro, dissi ai quattro che aspettava da anni (years), ottenendo come risposta una fragorosa risata che mi rivelò che, fra i cinque uomini che si pigiavano nell’automobile, l’unico veramente preoccupato ero io. Poi feci a Coltrane questo discorsetto: «Ormai non c’è tempo per un intervallo sufficientemente lungo per andare al ristorante, fra un concerto e l’altro. Al massimo possiamo fare un intervallo di mezz’ora, durante il quale potrete mangiare delle bistecche che faremo portare in camerino». Mi confortò un tranquillo «Okay»: evidentemente il nostro si immedesimava nella situazione, anche se sembrava calmissimo. Arrivato in teatro divenne ancora più calmo: si cambiò d’abito (suonava sempre in smoking) con grande lentezza, fece un po’ di toilette, e poi si rilassò alcuni minuti; e i suoi uomini fecero altrettanto. In quel modo si perse un’altra mezz’ora e si arrivò alle sette. Avrei poi imparato, in circostanze analoghe (anche Ray Charles ci fece, anni dopo, lo stesso scherzo e si comportò nello stesso identico modo), che è vano aspettarsi da un musicista di jazz americano dei movimenti affrettati prima di un concerto; alcuni minuti di relax (a base di sigarette più o meno «pesanti») prima di suonare sembrano assolutamente indispensabili. Ma torniamo a Trane e ai suoi. Quella sera ci regalarono dello splendido jazz suonando quasi senza soluzione di continuità per più di quattro ore. Ci fu il previsto intervallo di mezz’ora per la bistecchina in camerino, ma per il resto: non-stop. Se si pensa che un assolo di Coltrane poteva continuare senza interruzione per tre quarti d’ora si può avere idea del tour de force a cui i quattro si sottoposero. Eppure, alla fine dei concerti, il leggendario sassofonista sembrava fresco esattamente com’era in principio. Come allora (quanto tempo era passato dal primo My Favorite Things della giornata? a me sembrava un’eternità) rispondeva quietamente, con un dolce, paziente sorriso sulle labbra, a qualunque domanda gli fosse rivolta. Era un uomo «serafico»: questo è l’aggettivo giusto. Proprio il contrario della sua musica, tumultuosa, ubriacante. Quel sorriso mi diede il coraggio di rivolgergli alcune domande formali nella speranza di ottenere risposte sufficienti per cavarne un’intervista. Poi però troncai corto, perché provai compassione per gli altri tre uomini che, dopo aver fatto un viaggio da Amsterdam a Milano e aver dato due concerti di fila, il tutto nel giro di sei ore o giù di lì, avevano il diritto di andare a dormire. Tuttavia feci in

tempo a ottenere qualche risposta, e la ricordo bene. Tra l’altro rammento la scarsa importanza che Coltrane annetteva a un suo disco che a me pareva ottimo, Olé Coltrane, e ricordo soprattutto l’incredibile modestia di cui, con ogni sua risposta, dava prova. A un certo punto mi disse di avere un contratto con la Impulse che lo obbligava a registrare tre LP l’anno. «E’ un problema serio» mi disse a questo proposito. «Per registrare tre dischi bisogna avere inventato tanto di quella musica! Nei dischi bisogna mettere solo il meglio di quanto si è inventato e suonato durante l’anno, e io non so proprio come farò...» Rividi per l’ultima volta Coltrane, ancora coi suoi tre amici, al Festival del jazz di Juan les Pins, nel luglio del 1965. Gli sentii suonare un magnifico A Love Supreme (era la prima volta che ascoltavo da lui questo pezzo oggi famoso, perché allora il disco non era arrivato in Italia) e poi andai fra le quinte a salutarlo e a congratularmi con lui. «Guarda chi c’è» disse a Tyner, col sorrisetto serafico che gli conoscevo già. E’ inutile aggiungere che nonostante l’impegnativa impresa (A Love Supreme durava circa tre quarti d’ora), era fresco come una rosa. Non riuscii più a presentarlo in Italia, anche se ci provai. Lo avevo anzi scritturato per due concerti fissati per il novembre 1967, quando, in maggio, mi sentii chiamare al telefono da Londra. Era Alan Bates (era lui che faceva da tramite con George Wein per quei concerti) che esordiva così: «Spero che tu sia seduto perché non vorrei che cadessi» per poi comunicarmi «Coltrane non viene in Europa: non se la sente, e poi vuole stare vicino alla moglie, che è incinta... ma stai tranquillo: invece del suo quartetto ti possiamo mandare Max Roach, Sonny Rollins e Freddie Hubbard». Dopo di allora non seppi più nulla di Trane fino al luglio successivo, quando, su un giornale italiano, lessi con un brivido la notizia della sua morte improvvisa. Aveva avuto dei disturbi al fegato, e si era fatto ricoverare all’ospedale di New York: i medici avevano però detto subito che era ormai troppo tardi. Coltrane aveva da tempo un cancro al fegato; soffriva le pene d’inferno ma non diceva niente a nessuno, per non disturbare. Aveva solo diradato le apparizioni in pubblico. Quando mandò all’aria la tournée combinatagli da George Wein disse soltanto che non se la sentiva e che non voleva lasciar sola la moglie. Sono sicuro che lo disse con quel sorriso serafico che gli avevo visto tante volte sulle labbra chiuse. La sostituzione con Sonny Rollins e compagni, che sulla carta sembrava accettabile, non fu buona. Non per colpa di Max Roach, che suonò benissimo come sempre, o di Hubbard, che oltretutto costituiva una novità per l’Italia, ma per via di Rollins, che suonò male in modo imbarazzante. Rollins è un tipo bizzarro, da cui ci si può aspettare di tutto. Io l’avevo conosciuto anni prima, nel ‘59, quando era venuto col suo trio al Festival del Jazz di Sanremo, poco prima del suo ritiro sul ponte di Williamsburg (ricordate? scomparve silenziosamente dalla scena per mesi per rimettersi a studiare lo strumento; si seppe poi che andava a esercitarsi di notte sul passaggio pedonale di quel ponte, nei pressi della sua casa, a New York...). Poi l’avevamo invitato ancora a Milano, e quindi, nel 1966, per quello che sarebbe stato l’ultimo Festival del Jazz di Sanremo, ma non si è visto. Quella volta ci aveva procurato guai seri non solo perché lui avrebbe dovuto essere, con Ornette Coleman (che venne), la più grande attrazione della manifestazione, ma perché non ci preavvertì della sua defezione, che decise improvvisamente, quando aveva già in tasca il biglietto dell’aereo per Nizza, perché adescato (ci dissero) da una donnina di piccola virtù. Dopo quell’incidente avemmo uno scambio di lettere (la sua non giustificava nulla e non era neppure firmata, per dimenticanza, pur essendo tutta scritta a mano, ma accompagnava il biglietto d’aereo, che veniva così restituito): ci vedemmo giusto poco prima del concerto con Roach. Non saprei dire se fosse consapevole di trovarsi dinanzi a quel tale di Sanremo: nessuno di noi accennò al fattaccio, e poi lui aveva un fare più enigmatico del consueto. Fatto sta che suonò malissimo, come ho detto. E questo, per un tipo come Rollins, meritatamente noto nel mondo come «saxophone colossus», era stupefacente. (Chiesi poi a Roach se l’amico stesse male , ma lui rispose: «No, sta benissimo. Solo che pensa a fare della musica astratta. Sai, come quelle forme di Picasso...».) Dieci anni dopo incontrai il «saxophone colossus» a Torino, fra le quinte di un festival non

organizzato da me. Mi riconobbe immediatamente, mi salutò chiamandomi per nome e mi dedicò uno di quei suoi larghi sorrisi da satanasso. poco dopo regalò a me e agli altri uno splendido concerto. Il marpione!

John Coltrane

Oscar Peterson

Mingus Oggi, chi lo incontra prima di un concerto è tentato di scuotere la testa: «Ce la farà a suonare, ridotto com’è?». Il fatto è che Charles Mingus, da qualche anno in qua, ha sempre l’aria sofferente, molto sofferente. E sembra oppresso da un invincibile torpore. Spiccica le parole con difficoltà, e la voce è poco risonante, strascicata; quell’accento del sud, poi, rende le sue frasi quasi inintelligibili. Però, quando comincia a suonare, si sveglia di botto: rinasce, esplode. Se è in buona giornata trascina il pubblico all’entusiasmo: sempre e comunque la sua musica è eccellente. Anni fa, nell’aprile del 1964, quando compì la sua prima, burrascosissima tournée europea, era un uomo del tutto diverso, e non solo perché era magro e scattante, mentre ora è obeso e si muove con lentezza di un pachiderma. era diversa la tensione, differente la temperatura, il grado di agitazione: allora sembrava una pistola carica, pronta a sparare, che bisognava trattare con molta cautela; ora, quando è di umore normale, può far pensare a un bonario papà. Nel 1964 arrivò a Milano invitato da George Wein. Aveva un magnifico complesso in cui faceva spicco Eric Dolphy: quello stesso gruppo che a Parigi registrò la musica che finì poi in un album triplo intitolato The Great Concert Of Charles Mingus. Purtroppo quel complesso, proprio a Parigi, perse uno dei suoi uomini, perché il trombettista Johnny Coles, ammalatosi improvvisamente, dovette tornarsene in America. «Credo che avrai cinque uomini invece di sei», mi aveva avvertito Wein per telefono da Parigi, e così fu. In compenso ebbi un Mingus agitatissimo, che non sapeva rassegnarsi a suonare con un quintetto. «Il sestetto suona dieci volte meglio», mi ripeteva, e a un certo punto mi pregò di telegrafare a New York, dove Wein era nel frattempo ritornato, per chiedergli di inviarci Lonnie Hillyer. Non so per quale ragione l’impresario non lo abbia accontentato, so che il suo rifiuto rese furioso il contrabbassista, che gratificò poi Wein, anche dal palcoscenico, di ogni sorta di epiteti. Prima di suonare a Milano, i cinque dovettero andare a Bologna per esibirsi per Alberto Alberti e Antonio Foresti nel corso di un festival del jazz. Toccò a me accompagnarli con la mia automobile a Bologna, e il viaggio sarebbe andato bene se io non mi fossi lasciato convincere a cedere la guida la road manager del gruppo, un certo Anthony, il quale, una volta che ebbe in mano il volante, dichiarò di essere un pilota di auto da corsa, e probabilmente lo era davvero, a giudicare dal modo spericolato in cui guidava. Durante quell’emozionante viaggio, Mingus mi raccontò dei suoi dissapori con Bob Thiele, il produttore dei suoi dischi per la Impulse, e mi chiese tra l’altro se non sarebbe stato possibile organizzargli a Milano una seduta di registrazione: fu il Padreterno che mi ispirò a dirgli subito che non mi sarebbe stato possibile (del resto, avrebbe dovuto dare due concerti in un giorno: come avrebbe potuto anche incidere un disco?), perché alla luce di ciò che accadde dopo sarebbero stati guai seri. basta così A Bologna lo lasciai nella hall dell’albergo e gli diedi un appuntamento per il giorno successivo alle 14, davanti a un certo albergo milanese. Il giorno dopo l’aspettai invano per oltre un’ora, quindi mi trasferii al teatro dell’Arte e lo aspettai ancora, col batticuore che si può immaginare. Comparve coi suoi musicisti, in automobile, giusto quindici minuti prima dell’ora fissata per il concerto pomeridiano: il ritardo era dovuto al fatto - mi disse - che né lui né gli altri avevano toccato le lenzuola che li aspettavano, perché avevano suonato tutta la notte in jam session (ciò che avevano fatto del tutto volontariamente...). Il concerto cominciò, e fu un bellissimo concerto, anche se il nostro amico era molto agitato. A un certo punto si impelagò in un dialogo strumentale con Dolphy, in cui questi, come fa anche su un disco, gli rispondeva imitando, col sassofono la voce umana, e altrettanto faceva Mingus sul contrabbasso. La cosa andò avanti troppo e non sembrava gran che concludente, tanto che qualche spettatore, spazientito, cominciò a sibilare. Di botto, Mingus smise di suonare, appoggiò in terra il contrabbasso, e arringò il pubblico: «Né io né i miei musicisti abbiamo chiuso occhio questa notte» disse pressappoco «e finché gli impresari ci tratteranno in questa maniera questa è la musica che voi potrete avere».

Nell’intervallo del concerto serale cercai di accordarmi con lui sul da farsi per fare partire il gruppo in orario la mattina dopo. li avrei riaccompagnati subito in albergo e poi sarei andato a riprenderli verso le otto del mattino per portarli all’aeroporto, fu la mia proposta. «No, » mi rispose «Non c’è abbastanza tempo per dormire. Non andremo in albergo; ci porterai direttamente in aeroporto da qui. passeremo la notte seduti sulle poltrone dell’atrio.» Non è il caso di riferire le imprecazioni dei suoi uomini quando comunica loro questo programma: per la seconda notte di fila non si sarebbero neppure infilati nei letti che li aspettavano. ma obbedirono disciplinatamente alle disposizioni: quando il concerto fu finito, Mingus se ne andò con Giorgio Buratti, mentre Dolphy, Clifford Jordan, Jaki Byard e Dannie Richmond furono caricati sulla mia macchina, che si diresse verso Linate. Potei così constatare che i miei passeggeri avevano ancora una buona riserva di energia: durante il percorso infatti, Byard e Jordan non fecero altro che rimproverare Eric Dolphy per certe sue avventure con gli uomini della third stream music (Gunther Schuller in testa). «It’s a drag», è una gran barba, diceva Byard; e Dolphy protestava che quella musica era interessante, e rivendicava per sé il diritto di fare degli esperimenti con chiunque gli piacesse. Nei giorni successivi appresi che Mingus, in Svizzera, ne aveva fatte di tutti i colori. Pare che a un certo punto avesse anche tirato fuori un coltello per minacciare qualcuno coinvolto nell’organizzazione dei suoi concerti. Si lamentarono dei danni; la stampa specializzata deprecò il comportamento di Mingus. Poi Wein e Mingus vennero ai ferri corti: il contrabbassista mi disse in seguito che, per coprire i pretesi danni rifusi da Wein, questi si rivalse sui suoi compensi. Fatto sta che quando incontrai Mingus a New York, nel 1967 (nel frattempo Eric Dolphy, che si era stabilito in Europa, era morto), mi disse peste e corna del suo impresario, e anche del suo road manager, il «corridore» Anthony (e qui mi trovava del tutto consenziente). Poi non vidi Mingus per un po’. Lessi che era ammalato, che aveva avuto un ricovero nel reparto psichiatrico dell’Ospedale Bellevue di New York, dove si era presentato spontaneamente, dichiarando che non dormiva da giorni. (io non stentai a crederlo...) Anni dopo. nel 1970, ricomparve a Milano, pilotato ancora una volta da george Wein. Il quale era gongolante: «Non è una cosa straordinaria avere ricuperato Mingus?» diceva. Gli chiesi «Ma si può sapere cosa ha avuto?». «Be’, era semplicemente matto. Adesso però sta bene. Anzi, magari è un po’ troppo calmo, perché il medico gli ha prescritto molti tranquillanti.» Altro che calmo! Era intontito, irriconoscibile. E non riconosceva nessuno. A New York mi aveva riconosciuto immediatamente e dimostrato di ricordarsi ogni particolare della tempestosa breve tournée italiana e così avrebbe fatto in futuro: ora non ricordava nulla. Anche Buratti, il suo ammiratore numero uno a Milano, dovette convenire che il suo eroe era in crisi. Era in crisi anche come musicista: al festival del jazz che si svolse in quei giorni al Lirico, e in cui era inserito, fece soltanto dell’insipido bebop, persino fuori moda. I giornalisti, che lo avevano dipinto come un personaggio imprevedibile, sempre agitato, un vulcano in eruzione, ci rimasero male. Ma il personaggio era (ed è) davvero imprevedibile. Quando tornò a Milano, per un concerto che io e Maffei avevamo organizzato nel cortile del Castello Sforzesco, ce l’aveva col suo nuovo sassofonista, Bobby Jones. E questi aveva una paura matta, tanto che mi disse: «Vorrei che sul palco ci fosse un agente di polizia. Per la mia incolumità». Comunque non successe niente. L’unica cosa che successe fu che Mingus non si attenne alle nostre istruzioni, secondo cui avrebbe dovuto tenere il contrabbasso a brevissima distanza dal microfono: così che si percepì a fatica, perse la pazienza per le proteste del pubblico, e disinnestò il microfono in modo che non si sentì più del tutto. A concerto finito chiese a me se non fosse possibile fargli avere in America un impianto di amplificazione come quello: l’aveva trovato eccellente. negli anni successivi Mingus è tornato più volte in Italia, sempre portato da Alberti e Foresti e inviato da Wein; ha suonato quasi sempre splendidamente e, che io sappia, non ha causato problemi a nessuno. io non manco mai di andarlo a trovare dietro il palcoscenico: ci facciamo delle grandi feste.

«Fatha» Hines To stop the show, fermare lo spettacolo: secondo gli americani, che di spettacoli si intendono più di ogni altro popolo, è questa la prerogativa delle «superstars», degli «animali da palcoscenico». Costoro «fermano» lo spettacolo perché ricevono tanti applausi che non è possibile per chi lo dirige andare avanti col programma. Il pubblico non vuole il «prossimo numero», vuole la ripetizione di quello precedente... Bene, in tanti anni ho visto un solo musicista di jazz fermare letteralmente uno spettacolo, impedirne la prosecuzione: Earl Hines. Accadde a Sanremo nel 1965, poco dopo - si badi bene - il successone da lui ottenuto al Little Theater di New York, che aveva segnato il suo rientro in scena come solista di pianoforte. In realtà, prima di quei mesi, Hines non si era mai considerato in primo luogo un pianista; si era sempre sentito un caporchestra, un entertainer da locale notturno, un uomo di spettacolo tuttofare: e il guaio è che, nonostante la sua recente fortuna come concertista di pianoforte, ancora oggi non nutre sufficientemente il suo «ego» se non facendo appello a quella deteriore showmanship che deve aver messo a punto partecipando ai floor shows del Grand Terrace, il lussuoso cabaret di Chicago in cui lavorava negli anni Trenta. Eppure non ci voleva molto a capire che Hines era e resta grande solo come pianista. Dopo la tournée europea in cui il concerto di Sanremo era incluso, Hines ricevette infatti molte proposte per esibizioni quale solista. Di una di queste proposte traemmo vantaggio anche noi, in Italia. Sta di fatto che, dopo aver trascorso quasi un mese a Roma (suonando in un locale di Trastevere) e aver dato anche un concerto a Scandiano, in quel di Reggio Emilia, Earl Hines approdò a Milano e quindi a Lecco, per darvi due concerti, rispettivamente nelle sere del 5 e 6 marzo 1966, in due giorni liberi fra una tournée in Svizzera e una in Inghilterra. Il concerto milanese era semi privato: ebbe infatti luogo al Circolo della Rinascente, non nuovo a simili esperienze. Quello di Lecco era invece pubblico e solenne: inaugurava, al Don Rodrigo, una Rassegna di jazz (che poi si fermò subito...). Furono due successoni. Di più, furono due successoni significativi e, a loro modo, istruttivi. Hines, si sa, è un gigante del jazz; a mio parere, non ha rivali neppure oggi fra i pianisti, dal momento che Art Tatum, Fats Waller e Bud Powell non sono più di questo mondo, e considerato che Oscar Peterson lo supera soltanto dal punto di vista della tecnica. Ma non è solo questo (e basterebbe, per un pioniere famoso da oltre cinquant'anni); Hines costituisce anche una lezione, che non viene raccolta ma che fa riflettere. Quando suona solo, rappresenta infatti, più di qualunque altro, la vivente dimostrazione che il jazz è veramente grande quando sa essere anche entertainment, se proprio vi dà fastidio la parola spettacolo. Con la sua musica che appartiene a un'epoca lontana (l'età del jazz del Grande Gatsby, nientemeno), ma che appare straordinariamente fresca e viva, sembra voler illustrare le ragioni per le quali il jazz non ha più lo status di un tempo, sembra voler spiegare perché tanta parte del pubblico gli ha voltato le spalle, e perché da anni si parla di una sua crisi. «La musica è una cosa, e la politica è una cosa completamente diversa», gli ho sentito dire a chi lo intervistava, dopo il concerto milanese. Se glielo avessero chiesto avrebbe probabilmente aggiunto che per lui la musica è anche gioia di vivere, esperienza festosa, da trasmettere al pubblico. «Se un musicista non riesce a farsi apprezzare dal pubblico» mi disse ancora, in quei giorni «non può prendersela con nessuno. E’ colpa sua. Tu sei qui col tuo piano e lì c'è il pubblico: se questo non ti applaude con chi vuoi prendertela? A meno che il piano non sia scordato... « La musica vuol dire per lui, prima di molte altre cose, belle melodie. Melodie logiche e piacevoli: e quindi comprensibili. Richiesto di un parere circa le canzoni del passato confrontate con quelle attuali, fu eloquentissimo. Canticchiò, scandendo chiaramente le parole e sottolineandone il significato, un paio di famosi standards: These Foolish Things, Honeysuckle Rose, e poi qualche frase pescata a caso, qua e là. «Vedete, sono delle piccole storie che hanno un senso compiuto e che

si stanno ad ascoltare. Certi pezzi di oggi non raccontano proprio nessuna storia», concluse, ripetendo senza saperlo ciò che ci aveva detto anni prima il suo antico amico Louis Armstrong. In verità, ascoltando questo magnifico pianista che contraddice clamorosamente alla legge che vuole che i jazzmen siano finiti a trent'anni o poco più, non riesce facile disgiungere l'ammirazione per la sua superba tecnica strumentale, per la sua irresistibile comunicativa, per quel suo personalissimo stile, da un acuto senso di nostalgia per un tempo lontano che non tornerà più. Earl Hines però non è, a differenza di Armstrong, un nemico dei jazzisti moderni: non per nulla la sua grande orchestra del 1943 è considerata da molti la culla del bebop, non foss'altro perché vi militarono tra gli altri degli innovatori come Charlie Parker e Dizzy Gillespie. A questo proposito però Hines non vuole darsi le arie del precursore o dello scopritore di talenti. «Nessuno di noi» mi ha confessato «dava molta importanza allo stile di Parker e di Gillespie, che pure era identico a quello più tardi conosciuto dal mondo intero. Inoltre nessuno di noi aveva sentito la parola «bebop»: il nome venne dopo. «Tuttavia non sottovaluta la propria influenza sui pianisti delle generazioni successive. Quando gli chiesi se riteneva fondata l'opinione secondo cui lo stile pianistico moderno (io allora mi riferivo al bebop) deriva in gran parte dal suo, non si atteggiò a falso modesto. Mi disse uno «Yeah» molto convinto e molto risonante.

Earl Hines

Un viaggio in USA Il mio primo incontro col jazz, a New York, non avrebbe potuto essere più traumatizzante. Avvenne una sera di lunedì, il Io maggio 1967, allo Slug's, un postaccio in una delle più luride strade del Lower East Side, dove non avrei certo il coraggio di mettere piede da solo. In nessuna città del mondo avevo infatti ancora visto un così squallido locale e dei luoghi tanto sinistri: avrei imparato poi che a Manhattan ci si può trovare da un momento all'altro, se solo si imbocca una certa strada, o si svolta un angolo, o si fanno cento metri in più, in zone altrettanto miserevoli e sciagurate. Allo Slug's quella sera erano di scena Sun Ra «and his Astro Infinity Music» «Suona solo il lunedì, e non si può perdere», mi aveva detto al telefono Alan Bates, con cui dovevo comunque incontrarmi per mettere a punto qualche dettaglio del Festival del jazz di Lecco, in programma per novembre. Ci saremmo potuti vedere lì. Appena entro allo Slug's, un negro barbuto, accovacciato sullo sgabello del bar, mi agguanta un dollaro e mezzo (c'è quasi sempre da pagare un'«admission», nei locali jazzistici) e subito si disinteressa di me; posso sedermi dove voglio, magari anche vicino all'orchestra, dove sono ammassate una trentina di persone, quasi tutti negri, alcuni dei quali emettono urla belluine. Sun Ra è seduto al piano, paludato in una tunica luccicante, forse africana, forse no. Intorno a lui, sistemati dove possono (non c'è un podio per l'orchestra: giusto il fondo di quel tetro stanzone che sembra un garage smesso e che si chiama Slug's), ci sono i suoi undici musicisti: hanno in capo dei bianchi cappellacci di foggia africana, e vestono delle corte tuniche trapuntate di paillettes, buttate sopra delle camicie colorate, a bolloni bianchi, come quelle che portano i gitani di Granada. I batteristi sono due: un terzo musicista - Sir Harold - percuote furiosamente, stando in piedi, un alto tamburo africano da cui spunta a malapena la sua testa: quanto agli altri, cambiano di volta in volta strumento, che può essere un sassofono, oppure un violino cinese, o una specie di traccheballacche in versione africana, o chissà che altro. Fatto sta che l'orchestra spesso non fa altro che del ritmo: tutti percuotono tamburi o legni, magari per un quarto d'ora filato. E allora vi sembra proprio di essere nella giungla: è musica sostanzialmente africana quella che sentite, però ha uno swing indemoniato. Poi gli strumenti cambiano: ora sentite insieme tre tamburi e due contrabbassi, ora viene il momento dei sassofonisti, che urlano secondo la non grammatica del free jazz, dimostrando di essere tutti degli ammiratori di Archie Shepp: uno di loro, l'altosassofonista Danny Davis, è bravissimo. Poi viene il turno di Eddie Gale, trombettista di fuoco. Sono tutti nomi per me nuovissimi, ma ognuno meriterebbe un LP tutto per sé, mi dico. A un certo punto Sun Ra si alza, si ritira dietro una tenda, e dopo un poco ricompare: ora ha una tunica d'oro e regge in mano un sole di metallo, che tiene dinanzi alla faccia, standosene immobile, mentre i tamburi fanno un fracasso del diavolo: Chissà se Sun Ra crede veramente in ciò che fa? Quando gli parlo mi sembra un ometto mite e gentile, senza alcuna velleità di fare il Dio Sole. Comunque è chiaro che la sua orchestra esegue un rito, un cerimoniale, e che le apparizioni del Dio Sole sono importanti. Tanto è vero che Sun Ra se ne sta fermo, in piedi, in mezzo alla sua orchestra, reggendo il suo sole di metallo dinanzi alla faccia per un buon quarto d'ora; poi se ne va dietro la tenda, cambia tunica, e riappare ancora col suo sole raggiante, che manda bagliori. lo sono allibito: non ho mai sentito e visto niente del genere. Gli amici che sono con me, quasi tutti ignari di jazz, sono addirittura annichiliti, e per giorni e giorni mi rimprovereranno per non aver più saputo procurare loro uno spettacolo altrettanto sconvolgente. Però a una certa ora mi lasciano, ahimè, quasi solo: i sassofonisti free si sopportano fino a un certo punto. A ogni modo non mi pento affatto di essere rimasto: perché alla fine i fiati (sono quattro: due sassofoni, una tromba e un flauto) se ne vengono in mezzo al pubblico, dall'altro lato del locale, e improvvisano la più furibonda cacofonia che io abbia mai ascoltato: per qualche istante escono anche a suonare in strada, e la scena, in mezzo a quelle catapecchie abitate in gran parte da portoricani e da negri, sulle cui facciate pendono, come delle budella da un ventre squarciato, quelle scale di ferro che sono quasi il simbolo

della vecchia New York, quella scena, dicevo, è allucinante. E’ musica, questa? Forse si tratta di un happening: certo è che vi prende allo stomaco, vi scuote come un ciclone. Se penso all'asfittico, insensato free jazz di qualche musicista europeo desideroso di essere à la page, e lo paragono a questa musica feroce, mi viene da sorridere. A Sun Ra, che è anche un buon pianista, esterno alla fine la mia ammirazione: ma non gli dico che la sua musica è stata ottima perché onestamente non mi sembra tale; gli dico che è stata per me una straordinaria esperienza. Dopo quella sera, fui costretto per qualche giorno a ignorare il jazz: ero arrivato negli Stati Uniti con un programma fitto di impegni, in cui nella prima settimana riuscii a malapena a incuneare degli incontri con George Wein e con Nesuhi Ertegun, il proprietario dei dischi Atlantic, e dei colloqui telefonici con George Avakian, che avrei dovuto incontrare perché era desideroso di parlarmi di Charles Lloyd, che in quel tempo era la pupilla dei suoi occhi. Ma io dovevo spostarmi da New York e andare, tra l'altro, a Filadelfia. Filadelfia è una brutta città, come molte delle città degli Stati Uniti, ed è piuttosto deprimente: sarebbe stato un problema passarvi una serata (e digerire la solita bisteccona che rappresenta il non plus ultra della culinaria americana) se allo Showboat, il più noto locale jazzistico della città, non ci fosse stato un programma abbastanza interessante: Gabor Szabo e il suo quintetto. Lo Showboat è in Lombard Street, che prima della guerra era zeppa d'italiani e ora fa parte del ghetto negro: così anche in questo locale i negri sono parecchi. Dopo Sun Ra, però, il chitarrista ungherese mi appare scialbo: è bravo, bravissimo, ma è troppo pittoresco, troppo ruffiano, se mi si passa l'espressione. Il suo miglior pezzo è infatti spagnoleggiante: si intitola Los Matadores. Con lui è un altro bravo chitarrista bianco, Jimmy Stewart. Quando torno a New York, so già come passerò la prima serata 'libera': al Pookie's Pub, in Hudson Street, al Village, a sentire Charles Mingus. Il Pookie's è un altro locale scalcinato, non però sinistro come lo Slug's. È un budello buio e stretto, reso ancor più stretto dal bancone del bar, a fianco , del quale c'è il podio per l'orchestra. Dietro il podio si apre la porta di un gabinetto, sulle cui pareti mani ignote hanno tracciato (oltre ad altre cose) scritte di questo genere: «Bird lives », «Immortal Bird ». Charlie Parker è davvero un mito immortale per i frequentatori dei localetti del Village... Mingus è enormemente ingrassato e si è lasciato nuovamente crescere una corta barba: da quel che dice sembra proprio più matto che mai. Mi saluta con grande cordialità e mi racconta di tutte le angherie da lui subite: sua moglie, una bella signora bionda che parla bene l'italiano (ha vissuto a Roma a lungo), commenta malinconicamente: «Lui è molto sospettoso...». Come se non lo sapessi! Comunque Mingus è sempre Mingus, un musicista formidabile. Benché il suo complesso sia ora ridotto ai minimi termini (c'è il trombettista Lonnie Hillyer, l'altosassofonista Charlie McPherson e, naturalmente, Dannie Richmond alla batteria) la musica che ascolto è inconfondibilmente sua, così beffarda, colorita, acre. Tra un pezzo e l'altro Mingus trova modo di informare il pubblico che durante la sua ultima tournée europea e i suoi concerti fra i suoi amici italiani (quorum ego) subì gravissimi torti da George Wein. Però è bonario: quando faccio per andare, prega me e i miei amici di rimanere a sue spese (per ogni «set» bisogna ribere due whisky e quindi ripagare: in America si beve e si paga in continuazione). Alla fine riesco ad andarmene: a pochi passi dal Pookie's c'è l'Half Note e vorrei prendere due piccioni con una fava. Giunto davanti all'ingresso però cambio idea: è di scena il sestetto di Joe Henderson e io sono ormai viziato. Anche il quintetto di Donald Byrd, che tiene banco al Five Spot, non ha il potere di commuovermi. Forse però non entro perché anche l'aspetto del Five Spot è alquanto sinistro (sul tendone d'ingresso c'è uno squarcio di un buon metro con la stoffa che penzola; ve lo dico per darvi un'idea) e la zona in cui si trova è, a quell'ora di notte, ben poco rassicurante. Mi guardo in giro: un paio di barboni dormono sui marciapiedi, mentre la gente li sfiora coi piedi senza degnarli di uno sguardo. Un junkie (un drogato) dallo sguardo allucinato mi chiede farfugliando una sigaretta, un altro si appoggia inebetito a un cancello, e di poliziotti - che nel

Village non mancano quasi mai - non vedo traccia. Meglio andare a dormire: dieci minuti di taxi mi riportano nell'altra America, quella ufficiale, quella dei dollari, quella dei grattacieli, quell'America che non vuole aver niente a che fare coi musicisti di jazz, e che riesce a dormire i suoi sonni tranquilli a pochi blocchi di distanza da Harlem, e Dio solo sa come faccia. È un' America dura anche questa, badate: un'America che assomiglia ben poco a quella che i film di Hollywood ci hanno presentato. Ma forse voi volte sapere, a questo punto, qual è la musica preferita da quest'America ufficiale e asettica, che trasuda dollari e passa le sere davanti al televisore a vedere programmi che spesso fanno rimpiangere i teleromanzi girati in via Teulada. Bene, questa America ha ancora nel cuore la musica leggera degli anni Trenta e Quaranta: uno swing edulcorato e piacevole, in cui gli archi soverchiano i sassofoni, presentando le ballads che tutti noi conosciamo a memoria. Questa musica la si ascolta dappertutto: la si sente negli aeroporti, nei ristoranti, negli atri degli alberghi, negli ascensori dei grattacieli, nei grandi magazzini, e persino in qualche ufficio, Trasmessa attraverso la filodiffusione, vi accompagna per tutte le ore del giorno, facendovi sentire un personaggio da film musicale, che però non ha niente di particolarmente divertente da fare. Naturalmente anche negli Stati Uniti c'è il rock and roll: non mi pare però che lì abbia il ruolo che ha in Italia e più in generale in Europa. Tanto è vero che nei juke box lo si ascolta di rado: si ascolta invece, il più delle volte, qualche disco della Tijuana Brass di Herb Alpert, che sul finire degli anni Cinquanta è veramente l'orchestra più popolare d'America. Ma torniamo al jazz. Consentitemi quindi di presentarvi a questo punto il Village Gate, il più grande locale jazzistico di New York. Ci stanno qualche centinaio di persone, che se la cavano con cinque dollari o giù di lì se stanno ad ascoltare un solo «set»: se vogliono riascoltare le orchestre (di solito sono due per sera) devono ribere e ripagare, come vuole la regola. Il Village Gate è in Bleeker Street, a due passi dal Café au go-go e dai localini di burlesque (che è una specie di squallido e approssimativo spogliarello che lascerebbe indifferenti i marinai in libera uscita): in quella strada, come del resto in altre del Village, pascolano gli hippies locali, che non hanno affatto l'aria civettuola e sofisticata che hanno quelli che a Milano o a Roma imitano gli elegantoni di Carnaby Street: questi americani sono irsuti e selvatici, spesso hanno la faccia dei delinquenti. Non per nulla in Bleeker Street, di sera, caracollano in permanenza dei bellissimi policemen a cavallo, armati di pistoloni e sfollagente, a cui i cittadini per bene sono talvolta costretti a rivolgere le proprie lagnanze. «Officer! Officer!» implorano; e magari poi raccontano di essere stati borseggiati. Il manifesto del Village Gate è promettente: annuncia l'orchestra di Maynard Ferguson e il trio di Chico Hamilton. Sopra, al Top of the Gate, suonano Marian McPartland e Tete Montoliu. Bene: con tre dollari mi assicuro un posto a uno dei numerosissimi tavolini che ingombrano il locale, uno a ridosso dell'altro. Il pubblico è abbastanza distinto: i negri sono numerosi ma in netta minoranza. Ferguson dirige una grossa orchestra di formato standard, che ha ricostituito da poco; fra i musicisti riconosco i trombonisti Slide Hampton e Jimmy Cleveland. Però non resto affatto impressionato: sento pochi assoli, così così, e gli arrangiamenti, anche quando recano la firma di Oliver Nelson, sono abbastanza convenzionali. Quanto a Ferguson, è un tipo eccitatissimo che non sta fermo un istante (apprenderò in seguito che è caduto nella trappola degli allucinogeni): prende la maggior parte degli assoli ma non fa scintille. Non sento neppure uno di quei sovracuti che gli diedero la gloria ai tempi di Stan Kenton. Con Chico Hamilton tutto cambia. Ecco un ottimo complesso: moderno, aggressivo, scattante. Però non è un trio, come era scritto sul manifesto, ma addirittura un ottetto, praticamente inedito: il vibrafonista Roy Ayers e l'altosassofonista bianco Arnie Lawrence - due scoperte recenti, di cui si parla molto a New York - sono straordinariamente bravi. Si tratta di jazz molto avanzato, a momenti addirittura free: Hamilton mi dice che spera di tenere insieme il complesso a lungo, ma è chiaro che non è in grado di assicurare ai suoi musicisti un guadagno sufficiente. Il trombonista Slide Hampton suona anche con Ferguson, e Lawrence - con cui ho voluto complimentarmi vivamente - suona un po' con tutti. «Ho tre figli» mi dice «e se voglio dar loro da mangiare devo suonare in più orchestre

contemporaneamente.» Chico mi dà il suo indirizzo: ha una gran voglia di venire in Europa. E chissà che un giorno non si possa farlo venire davvero: è uno dei più bravi, ed è un uomo simpatico. Purtroppo quando deciderò di farlo venire in Italia, qualche anno più tardi, sarà incredibilmente decaduto (e dovrò protestarlo...). Il Village Vanguard è un'altra tappa obbligatoria per il jazzofilo a New York. Quando ci vado per la prima volta, il cartellone, scritto a penna (il jazz è povero, nella ricchissima America), reca i nomi di Coleman Hawkins e Roland Kirk. Per cinque dollari non c'è male davvero. Il locale è buio e tutt'altro che elegante, come la maggior parte degli altri: ha una forma triangolare e può contenere una cinquantina di persone alla volta. Hawkins suona col suo quartetto: al piano siede Barry Harris, al basso è Ron Carter, che ha lasciato Miles Davis e si è fatto crescere un paio di baffoni che gli conferiscono l'aspetto di un lanciere del Bengala, e alla batteria c'è Eddie Locke. Hawkins sembra in migliori condizioni di salute di quando lo vedemmo a Milano in novembre, e suona da par suo, magnificamente. Pure i suoi uomini sono eccellenti. Anche Roland Kirk capeggia un quartetto, in cui il personaggio più notevole è il pianista Lonnie Smith. Ai suoi usuali strumenti ne ha aggiunti dei nuovi: un clarinetto e uno strano zufolo di legno con appese delle nacchere; inoltre, al flauto ha applicato uno strano aggeggio amplificatore che gli consente di trarre dei suoni addirittura laceranti e un'infinità di effetti elettronici stranissimi. Kirk ne fa, come al solito, di tutti i colori, ma fa anche molto buon jazz: direi che suona meglio di quanto non abbia fatto le volte che l'ho ascoltato in Italia. Ad applaudirlo c'è anche, fra il pubblico, Gil Evans, che siede in un angolo in compagnia di sua moglie, una grossa matrona negra. Da quella sera sarebbero passati vari giorni prima che potessi ancora ascoltare del jazz: solo quando passai per Detroit guardai pieno di speranza la pagina degli spettacoli di un giornale locale. A Detroit, in verità, pensavo che avrei potuto ascoltare qualche buon complesso: è la quarta città degli Stati Uniti, e i negri son più di un milione. Macché: il giorno dopo avrei potuto andare a teatro a sentire Ray Charles, e due giorni dopo sarebbe arrivato Wes Montgomery, ma allora la capitale dell'automobile, che era anche una delle capitali del rock, non ebbe proprio niente per me. Quando tornai a New York non avevo che l'imbarazzo della scelta. E per la prima sera optai per l'Half Note, in cui si esibiva il quartetto di Jim Hall e Richie Kamuca. Purtroppo il locale è il più rumoroso fra quanti io abbia frequentato: tutti parlano ad altissima voce, forse contagiati da un pestilenziale cameriere tedesco che gira fra i tavoli con la pretesa di far da animatore, gracchiando a ogni istante: «Is everybody happy?». Però Hall suona splendidamente, come se nulla fosse, e anche Kamuca - il valoroso tenorsassofonista che diede lustro al jazz della West Coast - appare in forma eccellente. «Come fai a suonare così con tutto questo baccano?» chiedo a Jim. Ma il sorridente chitarrista mi spiega che è da poco tornato al jazz dopo essersi dedicato a lungo alla musica commerciale (si è sposato, e ha avuto bisogno di soldi) ed è quindi felice di suonare. Poi mi chiede notizie di Franco Cerri e di altri amici italiani; infine mi presenta i proprietari del locale, che sono degli italo-americani e si chiamano Canterino. A papà Canterino, che viene a salutarmi con molto calore, asciugandosi le mani nel grembiule da cuoco, devo spiegare, facendo uno schizzo su un pezzo di carta, dov'è Potenza, da dove lui si è allontanato bambino. Quando me ne vado, mi imbatto in Art Farmer: suonerà nel locale la settimana successiva, e intanto è venuto a sentire il suo amico Jim. Sono ormai passate più di due settimane da quando sono arrivato all'aeroporto Kennedy per scoprire che tutti i facchini all'aeroporto hanno la faccia dei musicisti di jazz, e comincio ad aver voglia di passare la sera in qualche locale elegante o per lo meno non miserevole: per il mio prossimo incontro col jazz, scelgo quindi il Basin Street East, nella zona-bene di Manhattan, a pochi blocchi dal Waldorf Astoria. Ma vengo punito: il pubblico elegante e il jazz non sono compatibili, evidentemente, in America. L'orchestra di turno è quella di Mel Lewis e Thad Jones, una delle migliori del momento, ma non fa nulla per dimostrare che la sua fama è meritata: ciò che sento per venti minuti è solo della musica commerciale molto ben fatta, cantata dalla prima all'ultima battuta

da Brook Benton, un cantore negro, dignitoso ma convenzionale. Apprendo poi che per sentire l'orchestra fare del jazz autentico bisogna andare ad ascoltarla al Village Gate, i lunedì sera, ma i miei programmi non me lo avrebbero consentito. Forse sarei comunque rimasto al Basin Street per compensarmi del prezzo della consumazione '(un cartellino sul tavolo avverte che si' deve bere o mangiare per il valore di almeno: dollari e mezzo) se alle dieci l’orchestra non se ne fosse andata dal podio annunziando che sarebbe tornata dopo una ora e mezza. Sospiro vedendo scomparire nel retro del locale solisti ben noti (riconosco, oltre ai leaders, il baritonsassofonista Pepper Adams, il trombettista Snooky Young, il pianista Roland Hanna, il bassista Richard Davis) e mi precipito al Village Gate per fare la conoscenza del nuovo quintetto di Horace Silver, brillante come non mai. Fra i solisti si distingue il trombettista Woody Shaw, che versa fuoco liquido dal suo strumento e che lascia su di me una profonda impressione; meno buono mi sembra invece il tenorsassofonista Tyrone Washington, che è un semplificatore di Coltrane: Quando, quella stessa sera, tornato in albergo, trovo un messaggio di un caro e vecchio amico di ritorno da un giro in Europa: Toots Thielemans, il ben noto chitarrista e fisarmonicista belga che vive a New York da una quindicina d'anni e che ora è sulla cresta dell'onda come musicista di studio e compositore (ha avuto un successone con Bluesette). Ci incontriamo il giorno dopo in uno studio d'incisione, dove ritrovo anche Arnie Lawrence; sarà Toots che mi introdurrà in quel sedicente tempio del peccato che è il Playboy Club, dove siete serviti a tavola da bellissime e asettiche donne vestite da conigliette (il «peccato» è tutto lì), sarà ancora lui che poi mi farà incontrare molti musicisti portandomi nel loro covo, il Iim and Andy, un bar sulla 483 Strada, nei pressi di Broadway. :È lì che ho reincontrato Zoot Sims, Phil Woods, Ernie Royal, Jo Jones, Louis Hayes, Pepper Adams e altri ancora. Ancora a Toots devo se ho potuto assistere a una delle periodiche riunioni del sindacato musicisti di New York (il Local 802) che si tengono nel Roseland, la grande « balera » della 523 Strada che è citata da tutte le storie del jazz. Però ai tempi di Fletcher Henderson era altrove; inoltre, ora al Roseland non si sentono più le big bands di jazz: se non erro vi si fa soltanto del rock. Per la 52a Strada, che per tanti anni fu il paradiso dei jazzmen, è addirittura una profanazione; ma tant'è: sulla «strada» c'è rimasto soltanto uno dei vecchi jazz spots, l'Hickory House (ci suona il pianista Billy Taylor), perché le case dov'erano gli altri - il Three Deuces, l'Onyx Club, lo Spotlite, lo Yacht Club, ecc. - sono state demolite per far posto a dei vertiginosi grattacieli. Al Local 802 incontro altre conoscenze, come Manny Albam, o come un paio di membri dell' orchestra di Herman, che mi informano che Woody dopo il suo ultimo giro in Europa ha perduto ancora una volta praticamente tutti i suoi uomini. Ma ora è di nuovo in piedi, e mi dicono che la sua ultima orchestra va benissimo. (Come faccia poi...) Per le ultime sere che mi restano da passare a New York non so proprio che cosa scegliere. Dopo molto pensare opto anzitutto per il Jimmy Ryan's, dove vado a riascoltarmi il buon vecchio dixieland fatto da Max Kaminsky, Tony Parenti, Marshall Brown, Zutty Singleton, e da un giovanotto che suona il piano alla Jelly Roll e si chiama Donald Coates. Il piccolo Kaminsky è un po' appassito e Zutty dormicchia, ma Sister Kate è sempre Sister Kate: senza dire che a rendere la mia serata ancor più piacevole c'è quel simpatico chiacchierone di Marshall Brown che mi illustra, con l'entusiasmo che lo distingue, i suoi recenti concerti «didattici» con Lee Konitz. Per ultimo torno al Village Vanguard dove c'è Bill Evans col suo nuovo trio: con Philly Joe Jones alla batteria, e un giovane bassista portoricano, Eddie Gomez, a me ancora sconosciuto. Bill è quel grande pianista che sapete ed è in forma brillante; chi però mi stupisce è il bassista, che è un altro La Faro: non ci vuole molto acume per predirgli un brillante avvenire. Evans del resto ne è entusiasta: mi dice che Gomez ha da poco terminato gli studi alla Juilliard School e che è proprio una sua scoperta. Conta di tenerselo stretto. Non mi pare invece che Philly Joe Jones ci stia bene, in questo entourage: sembra un batterista qualsiasi, che non sappia bene cosa fare. Quando faccio per andarmene arriva barcollando quel bel tipo di Elvin Jones: mi solleva a un metro

da terra e mi bacia con trasporto, sulle guance, come fa ogni volta che mi incontra. È davvero piccolo il mondo del jazz! Piccolo davvero: me ne dà una conferma quella grande foto di Evans che fa un figurone su una parete del Village Vanguard: l'ha scattata mio figlio pochi mesi prima. Quel piccolo mondo è ben poca cosa in quell'immenso mondo che è l'America: guai però se, in quell'immenso mondo che ha perduto la misura dell'uomo, non avessi potuto ritrovare quello piccolo, a me tanto familiare, in cui si può anche scegliere di morir di fame pur di fare la musica che si ama.

Archie Shepp

Maynard Ferguson

A Newport e a New Orleans Nel luglio del 1969 mi capitò di assistere a uno dei festival del jazz di Newport: c'ero arrivato per aver vinto una specie di scommessa con George Wein. Pochi mesi prima, a Milano, avevo presentato un concerto del quartetto di Dave Brubeck con Gerry Mulligan: poiché non ci eravamo accordati sulla cifra da corrispondere a Wein (che inviava il gruppo dagli Stati uniti), avevamo concluso in questo senso: io avrei pagato a Wein la cifra richiestami e che era quella inizialmente pattuita fra me e lui; con l'intesa, aggiunse Wein, che se fossimo riusciti a esaurire il teatro, lui mi avrebbe pagato il viaggio di andata e ritorno per Newport dove avrei potuto assistere al festival del jazz allora in preparazione. Il Teatro Lirico vendette fino all'ultimo biglietto, e io partii alla volta di Newport. Quando, alcuni giorni dopo, tornai in Italia, dopo aver compiuto una deviazione per New Orleans, stesi, a caldo, questa cronaca per la mia rivista: entrando subito in medias res: «Questo è un rito voodoo; non ha niente a che vedere con la musica» commentò a un certo punto Bob Haggart mentre, assieme ad altri musicisti della World's Greatest Jazz Band, attendeva fra le quinte che si sbloccasse la pericolosa situazione determinatasi nel corso dell'esibizione del complesso di rock negro Sly and the Family Stone. Questo era uno dei tanti gruppi rock o di rhythm and blues invitati da George Wein a partecipare alla sedicesima edizione del Festival del Jazz (ma qui un punto interrogativo si impone) di Newport, a cui la sorte ha voluto farmi assistere, e che e stato sicuramente il peggiore della serie: un festival assurdo, per il quaranta per cento del tempo addirittura insopportabile, che ha attirato a Newport una folla immensa di hippies desiderosi soltanto di baccano, pronti alla rissa, e vestiti nella stragrande maggioranza nel modo più bizzarro: come da noi - e non esagero affatto - non ci si veste neppure a carnevale. Sly and the Family Stone non facevano, al pari di vari altri complessi pop invitati a Newport, della musica; eccitavano deliberatamente quel pubblico, ingenuo e violento insieme, col più furibondo baccano che io avessi mai ascoltato, un baccano fatto a base di riff ripetuti per decine di minuti filati, mentre le chitarre elettriche, mostruosamente amplificate, abbaiavano senza posa, e i sassofoni grufolavano rabbiosamente. Il pubblico - erano ventimila persone almeno, ed erano quasi tutti giovanissimi dava in smanie: c'era chi ballava, c'erano tantissimi che si dimenavano, tantissimi che urlavano, e c'era chi - si vedeva, si capiva - aveva una gran voglia di menar le mani. una situazione esplosiva, come noi, abituati al dolce clima mediterraneo e al pacioso buon senso italico, possiamo difficilmente immaginare. A un certo momento (la cerimonia voodoo andava avanti da un'ora e nessuno sapeva bene come farla cessare, per consentire a un altro complesso di farsi avanti) si temette il peggio: alcuni fra le migliaia di hippies rimasti fuori dell'arena cominciarono a bombardare, con dei razzi, il pubblico all'interno del recinto; poi a lanciare bottiglie contro gli uomini di servizio accorsi in difesa del pubblico; poi a fare a pezzi, un'asse dopo l'altra, la staccionata che recingeva l'arena. «Stai qui dietro, questo e il posto più sicuro» mi disse a un certo punto Phil Woods, che si era arroccato assieme a molti altri dietro il grande palcoscenico, in alto, dove c'erano i camerini. Aveva, al pari di me e di molti altri, paura. Quei folli che stavano oltre il varco aperto nella staccionata sarebbero stati capaci di scatenare il finimondo, e i gorilla di Wein - una quindicina in tutto - che li stavano aspettando al di qua della breccia, armati di assi e di bastoni, il capo coperto da un elmetto, avevano tutta l'aria di essere destinati ad essere travolti in men che non si dica. Poi venne un provvidenziale acquazzone, che non fece scappare il pubblico (da noi ci sarebbe stato un fuggi fuggi di proporzioni apocalittiche) ma calmò i bollenti spiriti: e il massacro di Newport non ebbe luogo. Poté invece riprendere il concerto, che però proseguì lasciando fra le quinte l'altro gruppo rock in programma: il governatore del Rhode Island, presente alla scena, ne proibì infatti l'esibizione, per ragioni di ordine pubblico. Poté invece andare allo sbaraglio la World's Greatest Jazz Band, seguita da Stefano Grappoli, che si chiedeva e ci chiedeva sgomento: «Ma che cosa posso fare io, adesso,

con la mia piccola musica?» ecco, questo e stato il momento di maggior tensione del sedicesimo festival del jazz («Ma e un festival del jazz, questo?» ci chiedevamo l'un l'altro) organizzato a Newport, ma non e stato il peggiore. La verità e che in tanti anni da che mi occupo di jazz, mai avevo sentito tanta cattiva musica, mai avevo assistito a una manifestazione programmata in modo tanto irrazionale, con così sublime noncuranza, mai avevo sentito tanto spesso e così urgente, così perentorio, il bisogno di un po' di silenzio. Ma no: quando i chitarroni cominciavano a imperversare (ogni pizzicata di corda era un'esplosione, un tuono) si poteva andare avanti per due ore filate, perché il pubblico non mollava la presa: voleva sentire e risentire, e risentire, e risentire lo stesso riff, fino a ubriacarsi, fino a imbufalirsi. Ma e ora che io riprenda il discorso dal principio, per raccontarvi brevemente quanto ho visto e sentito al sedicesimo Festival del Jazz di Newport, dove ero approdato, nel primo pomeriggio del 3 luglio. L'inizio era stato lieto, giacche il primo concerto (a cui però avevano assistito solo pochi fans) era jazzistico al cento per cento ed era cominciato benissimo, con una esibizione del chitarrista George Benson, addirittura entusiasmante. (John Hammond, fra il pubblico, si beava: e stato lui lo scopritore di Benson, come era stato trent'anni prima lo scopritore di Charlie Christian, e ora poteva dire a tutti: («Che cosa vi avevo detto?».) Poi erano venuti altri complessi, troppi comunque, tanto da far durare quel primo concerto nientemeno che sei ore e mezzo. Il settetto di Sunny Murray fa del free jazz abbastanza ingegnoso, che il pubblico accoglie gelidamente: il leader comunque non meriterebbe di più, giacche ha confermato di essere un batterista di una mediocrità desolante. Freddie Hubbard, col suo quintetto, gli dà il cambio: fra gli altri sono con lui il tenorsassofonista Junior Cook, il pianista Harold Mabern, il batterista Louis Hayes. Fanno del jazz molto avanzato, a tratti quasi free, assai stimolante: la pungente tromba di Hubbard e più autorevole che mai. e’ ora il turno di Anita O'Day: non ha la grinta di Ella Fitzgerald o di Sarah Vaughan, si capisce, e sente il peso degli anni, però e molto brava. Quando fa dello scat come fa, fra l'altro, nel travolgente Four Brothers finale - conferma di essere una delle tre o quattro più forti jazz vocalists oggi in attività. Le dà il cambio la grande orchestra di Sun Ra, che fin dal suo apparire dimostra di avere imboccato ormai la via dello show: l'ho vista e sentita due anni prima a New York, allo Slug's, e mi ha fatto una grande impressione; ora la ritrovo radicalmente trasformata, profondamente deludente. Sarà l'aria di Newport, sarà perché Sun Ra ha deciso di accalappiare il pubblico dei gonzi, sta di fatto che oggi quella di Sun Ra non e più un'orchestra, ma una troupe di varietà. Tutti ora sono in costume; ci sono, sedute a fianco dell'orchestra, due donne che si dimenano ritmicamente e che hanno tutta l'aria di voler cantare (canteranno infatti, e saran dolori!), e Sun Ra suona l'organo, amplificato in modo così abnorme da produrre soltanto un rumore stridulo, assordante, che alla musica non assomiglia neppur da lontano. In realtà nulla di ciò che fa Sun Ra, oggi; assomiglia alla musica: e solo un bizzarro e pittoresco spettacolo la cui colonna sonora e un'assurda cacofonia senza capo ne coda. Sun Ra maneggia due soli metalli che ogni tanto sbatte uno contro l'altro con aria stolida, forse per ottenere effetti magici, prende degli assoli sull'organo che definire striduli e poco, poi qualcuno canta (le voci sono di tipo africano, ma a un certo punto sembra di sentire una tarantella napoletana), poi qualche altro sfila davanti all'orchestra esibendo dei quadri che gridano vendetta, e lo show finisce. Il pubblico fa buh!, buh!, nessuno applaude, e l'orchestra se ne va; forse ha voluto dare un saggio di musica astrale, fantascientifica (non per nulla si chiama Solar Arkestra): certo ha dato uno spettacolo molto stupido. Phil Woods, col suo solito complesso, rialza di colpo il livello del concerto, e ottiene un meritato successone; poi lascia il passo al trio Young' & Holt unlimited, che fa del jazz molto commerciale, ma con una certa dignità e comunque con notevole abilità. Il trio di Bill evans rimette ancora una volta le cose a posto: sia Bill che Eddie Gomez fanno le cose con la serietà e la bravura di sempre. Al trio si aggiunge poi il flautista Jeremy Steig, che e molto apprezzabile, anche se spesso, in omaggio alla moda, abusa degli - effetti elettrici, un poco alla Roland Kirk. Il quartetto di Kenny Burrell chiude la lunghissima serata, con un set molto professionistico ma non entusiasmante: Burrell e un chitarrista eccellente, però non molto personale, e non riesce neppur per un momento a

cancellare l'impressione lasciata (su chi se ne ricorda, visto che ormai sono passate tante ore...) da George Benson. Il pomeriggio successivo, dopo la esibizione di un irrilevante ma non turpe complesso rock, e in programma una chilometrica jam session, che mi ricorda i tempi aurei del Jazz at the Philharmonic. Sul palcoscenico, affollatissimo, ci sono molti personaggi di rilievo: trombettisti come Kenny Dorham, Howard McGhee e Jimmy Owens, trombonisti come Bennie Green e Albert Mangelsdorff, sassofonisti come Brew Moore (toh, chi si rivede: e tornato in America da poco e dimostra cent'anni), Paul Jeffrey, Charles McPherson, Cecil Payne; al piano c'è Hampton Hawes, al basso c'è il redivivo Slam Stewart (e un anziano e distinto signore coi capelli grigi e la barbetta caprina, ora, ma suona come ai suoi verdi anni, ai tempi del bop), c'è Ray Nance che suona il violino e c'è Art Blakey alla batteria; poi arrivano Jimmy Smith, che suona qualche pezzo all'organo facendo faville, ed Eddie Jefferson, che fa del vocalese così così. Sono tutti molto competenti, naturalmente; chi però mi impressiona più di tutti e Jimmy Owens, che prende degli assoli di tromba strabilianti. Per la seconda serata e in programma soltanto il rock. un po' perché voglio far due passi e non ho troppa fretta di arrivare al "festival field", un po' perché voglio godermi lo spettacolo della gente che si reca ad assistere al concerto, decido di avviarmi all'arena a piedi: sono due chilometri di strada ma il traffico e talmente lento (a Newport, nei giorni del festival, il traffico e sempre intensissimo) che le automobili vanno più piano di me. Subito però mi trovo in una situazione abbastanza imbarazzante: perché davanti, dietro, intorno a me camminano migliaia di hippies dall'aria selvaggia, in mezzo ai quali io devo fare pressappoco la figura del marziano. c'è chi ha il cappello da pirata, chi il turbante; chi la benda intorno alla fronte come gli indiani; chi ha una tunica cinese, chi una tunica orientale o africana; tantissimi hanno casacche che terminano a fettuccine, come Davy Crockett, molti hanno infilata intorno alla testa, a mo' di poncho, una coperta da caserma (serve loro per dormire, sui prati di Newport e sui cofani delle automobili). Migliaia di ragazze assomigliano a Joan Baez; hanno i pantaloni a zampa d'elefante, i capelli lunghissimi, un poncho, e spesso una benda intorno alla fronte. Tutti sono serissimi, quasi nessuno parla. Sembra un carnevale mal riuscito. Ma sono questi i nuovi americani? mi chiedo con un brivido. Be', se non matureranno presto, c'è da tremare per l'America. Pensavo di assistere a un concerto scarsamente stimolante, ma tutto sommato interessante, ma mi sbagliavo di grosso. Il cosiddetto hard rock e proprio una musica per ragazzi duri d'orecchio: tutti i musicisti sono più o meno in maschera, tutti hanno alle spalle un muro di amplificatori ad altissima potenza, e tutti fanno ricorso ai trucchi più risaputi e volgari per eccitare il pubblico. così Steve Marcus, così gli inglesi di Ten Years After, così il gruppo, pure inglese, che si chiama Jethro Tull guidato da quel bel tipo di Ian Anderson, il quale, in mancanza di meglio, ha avuto l'idea di suonare il flauto restando in difficile equilibrio su una gamba sola, mentre l'altra e ripiegata ad angolo come si vede nei disegni che illustrano la fiaba del piffero magico. I suoi capelli sono ricci, a raggera, ma questa a Newport non e davvero una stranezza: oggi quei capelli da istrice sono di moda, soprattutto fra i negri, e nessuno ci fa più caso. Anderson e solo un pagliaccio che mette malinconia, non tanta però quanta ne mette Roland Kirk, che sembra uno sguaiato clown che non si ricorda quasi mai del buon jazz. Come tanti, anche Kirk e in maschera: indossa una tuta di gomma nera, da subacqueo, che reca appiccicato sul dorso un faccione giallo; con lui suona un tale coi pantaloni a mezza gamba, sfilacciati, una casacca policroma, e in testa un lungo cilindro fatto di paglia intrecciata. A rendere lo spettacolo ancor più penoso, Kirk canta spesso e conciona ancora più spesso il pubblico: non si limita a invitare tutti all'integrazione razziale, ma dice molte stupidaggini, con piglio aggressivo. Alla fine conclude: ´Ora non dimenticherete chi e Roland Kirk!». unica cosa buona della serata e il complesso Blood Sweat and Tears, che fa della pop music abbastanza convenzionale, ma la fa con gusto. Inoltre i musicisti sono più che competenti, e prendono degli assoli degni di attenzione. Il pomeriggio del terzo giorno il programma promette jazz e rock alternati: una vera bazza.

Cominciano i Newport All Stars, che però non mi impressionano troppo: suonano piuttosto «alla fiora», come dicono i nostri orchestrali, e non combinano gran che, anche se qualche assolo di Ruby Braff, di Red Norvo e di Tal Farlow si fa ascoltare con interesse. Con loro c'è anche una brava cantante: la negra Mavis Rivers. Poi arrivano gli inglesi guidati da John Mayall. Anche loro sono in maschera; Mayall e vestito addirittura da cacciatore di frontiera: ha un giubbotto di pelle di vacca, il cinturone da cow boy, con coltellaccio e fondina per la pistola (ma dentro ci tiene le sigarette) e a tracolla ha una bellissima borsa di pelle di volpe, con tanto di pelo e con tanto di testa (di volpe, si capisce). Mayall canta il blues con voce magra, e suona l'armonica a bocca, alla Sonny Terry; fra i suoi c'è chi suona il flauto alla Kirk e il tenore alla Coltrane, e naturalmente il chitarrone ultra amplificato. Tutto sommato, la mistura e abbastanza ingegnosa e non manca di gusto, come del resto si sapeva dai dischi, molto venduti anche in Italia. A Newport, Mayall ha avuto un successo trionfale, che ha ritardato di parecchio l'uscita di Miles Davis. Anche Miles e stato contagiato dal vento di follia che sembra spirare nel mondo del jazz, e che fa crescere basettoni, barbe e baffoni a questo e a quello, e fa rizzare i capelli in testa (in senso non metaforico) a tanti, ricoprendo molti jazzmen, un tempo distintamente vestiti, di tuniche africane o di altri più civettuoli costumi. Miles e più sobrio: si e inventato un costumino azzurro, attillatissimo, tutto chiuso da stringhe, che fa pensare ai coloni spagnoli dei tempi di Zorro, e si e pitturato la tromba di giallo-arancione e di nero. però, quando comincia a suonare, lascia senza fiato: suona con violenza inusitata e su tempi velocissimi, disdegnando le ballads e le sottigliezze a cui ci aveva abituati (ma con quel pubblico che altro si può fare?), e ha chiesto al suo pianista, l'ottimo Chick Corea, di usare soltanto il piano elettrico. » lecito chiedersi se in un teatro, davanti a un pubblico competente (come sono i pubblici europei), seguirebbe la stessa politica. Del resto, non e facile giudicare il suo nuovo complesso, perché e azzoppato per l'assenza di Wayne Shorter: arriverà in ritardo (anche lui, ora, ha la barba), a concerto finito. Dopo Miles, i Mothers of Invention, un complesso bizzarro, che fa, con straordinaria abilità tecnica e con intenzioni chiaramente satiriche, della musica spettacolare in cui si mischiano, alla rinfusa, rock, free jazz, musica moderna di vario tipo (un po' di Stravinsky, un po' di Stockhausen, e così via). » musica da circo, naturalmente, e lo si capisce, ancor prima che comincino a suonare, guardando i musicisti: Frank Zappa, il leader-chitarrista, ha barba e baffi di foggia antica e i capelli che finiscono, dietro la nuca, in una crocchia, all’indiana; uno dei musicisti ostenta con orgoglio un paio di baffi tinti di verde, e si potrebbe continuare. Ascoltando questo complesso, mi e tornata alla mente l'orchestra «zany» di Spike Jones, che faceva quattrini a paIate nell'immediato dopoguerra. Se questo e il cosiddetto «progressive rock», quello che si dovrebbe prendere sul serio, non c'è da stare allegri. Il quinto concerto, serale, viene aperto dal quartetto capeggiato da Gerry Mulligan e Dave Brubeck. I due si incontrano sul palcoscenico, per la prima volta dopo parecchio tempo, solo qualche minuto prima dell'esibizione (lo so perché ero arrivato assieme a Mulligan, nella stessa automobile) ma non se ne preoccupano affatto: suonano, vergognosamente, «alla fiora», e non importa che Gerry prenda qualche assolo di gran classe. Il complesso, come tale, non vaI nulla, e Brubeck e addirittura indisponente coi suoi assoli martellanti, poveri d'idee quanto ricchi di intenzioni vellicatorie nei confronti della platea. I Jazz Messengers, che vengono dopo, mi fanno tirare un sospiro di sollievo. Finalmente del buon jazz: di quel tipo bruciante e muscoloso a cui Art Blakey e fedele da anni. Il complesso è radicalmente cambiato ora, e ha i suoi punti di forza, oltre che nel sempre fortissimo

leader, nel focoso trombettista Woody Shaw e nel tenorsassofonista Carlos Garnetto Ancora jazz di alto livello col quartetto di Gary Burton, che qui si tiene piuttosto sul versante rock (Jerry Hahn suona ora una chitarra amplificatissima, ed e vestito con panni multicolori), ma si mantiene rigorosamente entro i confini del buon gusto. Poi arriva la caciara di cui ho parlato all'inizio, con Sly and the Family Stone, che potrebbero essere citati come esempio estremo di degenerazione del jazz, e che naturalmente riscuotono un successo apocalittico. Come Dio vuole, viene poi il turno della World's Greatest Jazz . Band, che, come sapete, allinea alcuni dei più bei nomi del Dixieland: fra gli altri Billy Butterfield e Yank Lawson (tr.), Lou McGarity e Carl Fontana (trne), Bud Freeman (ten.), Bob Wilber (cl. e soprano), Ralph Sutton (p.) e Bob Haggart (cb.). E’ un'orchestra eccellente, straordinariamente professionistica, che ci riporta a una felice stagione del jazz: ma e difficile dimenticare il fracasso immondo e la cerimonia voodoo di poco prima, e pochi riescono a fare attenzione a ciò che fanno i simpatici senatori del jazz, che passano in rassegna alcuni famosi standards e alcuni classici del Dixieland, e che alla fine accompagnano in tre pezzi la cantante Maxine Sullivan. Quest'ultima e ora una donnina minuta, dai capelli molto grigi, che canta quasi come un tempo: tra l'altro riprende il suo Loch Lomond che fu il suo grande cavallo di battaglia, trent'anni fa esatti. Ma trent'anni sono tanti, nel jazz, e Maxine appare davvero «datata». Poi viene Grappelli (ora l'ipsilon e stato definitivamente sostituito dall' originaria i), che, ancora sotto lo choc di cui vi ho detto, fa del suo meglio, suonando il violino come ai tempi di Django. Ma e come mettere le perle davanti ai maiali: «E’ la prima volta che ho avuto paura, in tutta la mia vita» mi confesserà poi Grappelli, tornando in albergo. (Tal Farlow, che aveva suonato con lui, e che ci aveva poi offerto un passaggio in macchina, era, altrettanto avvilito: «Credo che lascerò definitivamente questo mestiere» mi dirà poi.) Avrebbe dovuto concludere il concerto un altro complesso rock, chiamato The Savage Rose, ma Wein non si sente di correre ulteriori rischi imbufalendo nuovamente quella folla di dervisci: in cambio, dà loro O.C. Smith, cantante di blues di grande successo, che però canta come la maggior parte degli altri, ivi compresi quelli che non hanno successo affatto. Domenica 6 luglio, pomeriggio, concerto dedicato a James Brown e al suo show. L'immensa platea rigurgita ora di negri: penso che su ventimila spettatori la metà siano di colore. Si spiega: James Brown e oggi il grande beniamino dei negri americani, e il suo e un tipico «Negro act «. Anche se si tratta di soul music abbastanza convenzionale, devo dire che comprendo e giustifico pienamente il successo di Brown e del suo show, che si svolge con una precisione cronometrica, con disciplina di tipo militare. Nello show non c'è solo Brown; c'è anche, per cominciare, la sua grande orchestra, che fa del rhythm and blues con notevole pulizia; poi c'è una cantante molto brava, che somiglia, nella voce e nello stile, ad Aretha Franklin, c'è un comico, ci sono quattro ballerine, e c'è un presentatore che da solo e uno spettacolo. Anche se la musica e di grana grossa, se gli effetti sono cerati con perseveranza e meticolosità, e a dispetto dei suoi miti di natura sociologica (e uno spettacolo, ripeto, fatto per il pubblico negro, e tagliato sulla sua misura), mi inchino di fronte al professionismo e alla personalità davvero magnetica di James Brown, che infatti e stato praticamente l’unico ad essere apprezzato dai numerosissimi critici di jazz presenti a Newport, che si squagliavano invece regolarmente, come ai jazzmen, quando appariva in scena qualche complesso rock. (Si squagliavano, devo dirlo, anche quelli di «Jazz & Pop», a cominciare dalla simpatica «paesana» Pauline Rivelli, direttrice della rivista, che a un certo punto scomparve del tutto: come scomparve uno dei redattori della rivista «ecumenica» che per adeguarsi al clima del festival andava intorno ostentando una lunga palandrana militare, con tanto di alamari d'oro, appartenente a chissà quale vecchio esercito...) ultimo concerto cominciò malissimo, col ricupero, di cui proprio non sentivo la necessità, di The Savage Rose, complesso di hard rock chiamato addirittura dalla Danimarca, in cui dispiaceva molto vedere (pittorescamente mascherato come gli altri) colui che fu il miglior batterista di danese, Alex Riel. Nel complesso c'è una cantante che sta costantemente piegata in avanti ad angolo retto, canti o

non canti, anzi urli o non urli, e se ne va attorno vestita da polinesiana sfoggiando la chioma riccia, a raggera, che va di moda (forse la «rosa selvaggia» è lei), e poi ci sono altri, vestiti da boiardi o semplicemente da matti. La musica è nefanda. Le cose vanno meglio quando entra in scena il grosso B.B. King a cantare e a suonare sulla chitarra il blues, o meglio a fare del rhythm and blues. Senonché passano i quarti d'ora e B.B. King non smette; quando poi, dopo un'ora buona, si tace per cedere il posto a Johnny Winter, si cade dalla padella nella brace. Quest'ultimo e un bianco, dalla faccia orrenda, con una lunga chioma da albino, sotto cui fa spicco una mise tutta nera, da necroforo: canta il blues in modo sguaiatissimo e stonatissimo, ma il pubblico impazzisce pure per lui e così ne abbiamo per un'altra ora sana, e poi ancora per un'altra mezz'ora perché rientra per duettare insieme con lui B.B. King. un supplizio: nel raggio di qualche miglio non si vede un solo critico, non un musicista; solo restano, a soffrire, quelli del sestetto di Herbie Hancock, che finalmente riesce ad andare in scena consentendoci di tornare ai nostri posti. Nel sestetto ci sono solisti di vaglia: Johnny Coles (tr.), Garnett Brown (trne), Joe Henderson (ten. e iL), Al Heath (batt); tuttavia i risultati sono un poco deludenti. Gli assoli sono troppo lunghi (e vero che i nostri nervi sono ancora sotto choc per le due ore e mezza precedenti), e il clima e piuttosto convenzionale. Si torna a soffrire, - ma meno di prima, perché i musicisti sono dei professionisti con Willie Bobo e il suo sestetto, che fanno una musica che si potrebbe definire rock di stile latino americano, piuttosto grossolana, ma digeribile. Poi di nuovo si respira (e una vera doccia scozzese, questo festiva!...) con l'apparizione della grande orchestra di Buddy Rich. Ritorniamo tutti in platea e ci godiamo l'orchestra, che suona molto bene, anche se non ha solisti di gran livello. Rich vi rimedia richiamando a un certo punto in scena Gerry Mulligan, che prende un lungo assolo con l'orchestra, addirittura fantastico, e per finire ci si mette lo stesso Buddy Rich, che prende il più impressionante assolo di batteria che nella mia lunga carriera di jazzofilo abbia mai visto. Alla fine, Buddy e abbracciato tra le quinte da tanti: da Mulligan, da George Wein, e non so da chi altri: l'avrei abbracciato anch'io. Poi sono ricominciati i blues, coi Led Zeppelin, ma io sono fuggito, al pari di tanti altri. Anche senza averli ascoltati, potevo ormai tranquillamente dire (ma lo dicevano tutti) di avere assistito al peggior festival del jazz a cui abbia mai presenziato. Altro che «jazz & pop»; altro che «largo al rock»: se in America si insiste su questa strada, il jazz sarà ridotto al lumicino nel giro di pochi mesi. Ma forse voi vorrete seguirmi nel pellegrinaggio che ho voluto fare nei giorni seguenti, quando, realizzando un antico sogno, me ne sono andato tutto solo a New Orleans. Da Newport, per arrivare nella «Crescent City», ho dovuto prendere tre aerei, e impiegare una giornata sana, ma ne valeva la pena, perché New Orleans e una città straordinaria, una delle più affascinanti che abbia mai visto. Ma il jazz, mi chiederete voi, che ne e del jazz? Che ne è dei «sacri luoghi» che videro le leggendarie imprese di King Oliver, di Louis Armstrong giovinetto, di Jelly Roll, di Kid Ory? Quei luoghi, ahimè, non ci sono più. Ecco, lì c'erano le case chiuse di Storyville, c'era la Mahogany Hall, c'era il locale di Tom Anderson: oggi c'è un grande spiazzo riservato al parcheggio delle auto. Imbocco, con un poco di batticuore, Basin Street, il mitico «paradiso in terra», where the white and the dark folks meet, come diceva il famoso blues: ora e una grande arteria di periferia, percorsa dalle automobili e dai camion. Basin Street incrocia la grande Canal Street (ricordate Canal Street Blues?); a pochi metri c'è la South Rampart Street, un tempo prediletta per le parate stradali; pochi passi ancora, ed eccomi sulla Perdido Street; svolto l'angolo e sono sulla Gravier Street: sono strade immortalate da altrettanti blues famosi, ma ou sont! les neiges d'antan? Tutto è cambiato a New Orleans, salvo che nel Vieux Carre, dove ancora si vedono le balaustre di ferro, a merletto, dove passano le carrozzelle, e dove, la sera, si ascolta ancora il vecchio buon jazz di New Orleans. Ma e qui che ho avuto la delusione più forte: perché a New Orleans, oggi, il jazz e solo una speculazione per i turisti, che son tanti, e che la sera si riversano a migliaia nella Bourbon Street, per assistere agli spettacoli di spogliarello (ci sono almeno tanti locali dedicati alle go-go

girls quanti ce n'è a Parigi, a Pigalle) e magari per fare un salto a sentire il jazz. Uno dei posti più frequentati e la Preservation Hall, che non fa davvero onore al suo nome: é infatti una sporca stamberga di dieci metri per sei, dove alcuni vecchi musicisti (quelli che ho sentito io mi erano tutti sconosciuti) suonano degli standards non troppo vecchi (strano: a New Orleans non ho sentito neppure un classico del jazz tradizionale), applauditi calorosissimamente da un pubblico volenteroso e divertito, evidentemente al suo primo incontro col jazz, che si contende i pochi posti disponibili sulle tre rozze panche che, con lo scordato pianino verticale all'angolo, costituiscono l'unico arredamento del locale. Chi non trova posto sulle panche, si siede per terra, o si accalca, in piedi, in fondo alla stanza. Come suona l'orchestra? Non male, ma neppure benissimo: come la maggior parte delle orchestre dilettanti europee, direi; solo con un suono più greve e spesso, e più caldo, ma anche un poco più rozzo. Non c'è da star lì molto: dopo tre pezzi ne ho abbastanza di quel jazz turistico, in cui non c'è un briciolo di fantasia creativa, e metto il naso qua e là. C'è la Dixieland Hall (la scena e simile a quella della Preservation Hall) e ci sono tanti altri localini, zeppi di turisti: i più eleganti sono quelli di Pete Fountain (nella sua orchestra suona ora il vecchio Eddie Miller) e di Al Hirt. Leggo gli annunci all'ingresso dei locali. Molti dicono pressappoco: «Qui si suona il vero jazz»; in uno leggo: «Qui suona Tizio, nato in questa città quarant'anni orsono» (capirai...). In un locale si esibisce un certo Oliver Vattelapesca: be', mi credete se vi dico che quello spudorato ha fatto scrivere sui manifesti, dopo il suo vero nome, in piccolo, quello, in grosso, di King Oliver? Per i turisti va benissimo: forse qualcuno di loro ha sentito parlare di King Oliver, e certo praticamente nessuno di coloro che affollano la Bourbon Street sa che è morto da tempo. Ou sont les neiges d'antan? Per ritrovarne le tracce vado al Museo del Jazz, nella Dumaine Street. E’ minuscolo, e contiene pochi cimeli: la cornetta di Bix, due cornette che appartennero ad Armstrong ragazzo, molte fotografie, e qualcos'altro di poco interesse. In un piccolo patio spagnolo, c'è una grossa pietra che appartenne alla demolita Mahogany Hall, il bordello diretto da Lulu White. Osservandola, provo la stessa sensazione che si ha guardando qualche autentico rudere romano: e la testimonianza di un tempo remoto, irrecuperabile. E’ tanto remoto, quel tempo, che a nulla approdano le mie affannose ricerche nei numerosi antiquari del Quartiere francese, dove fino all'ultimo mi illudo di trovare qualche oggettino autentico che mi ricordi la New Orleans di Buddy Bolden e di Storyville. Non trovo nulla. Mi devo accontentare di comprare, in uno dei tanti negozi di souvenir, un poster in cui c'è la scritta «La Nouvelle Orleans», e, in un angolo, in basso, è raffigurata una tromba. Ecco, questo scrivevo nel luglio del 1959. Rilette ora, a distanza di vari anni, queste note reggono ancora, per me almeno: solo può stupire tanta animosità verso il rock, a cui ci saremmo dovuti assuefare. Alcuni dei gruppi menzionati sopra, e che io incontravo per la prima volta, sono poi diventati celebri in tutto il mondo: così i Jethro Tull, i Blood Sweat and Tears, i Led Zeppelin, i Mothers of Invention; tuttavia i giudizi da me dati al primo impatto con la musica della maggior parte di loro non sarebbero stati rivisti, da me, col passare degli anni. Una cosa non avrei mai immaginato: che il Miles Davis «elettrico», che esordiva allora, sarebbe di lì a poco degenerato per divenire un idolo dei giovani, di là e di qua dell'oceano: Avevo sopravvalutato, evidentemente, il pubblico europeo, oltre che Miles. P.S. Tal Farlow ha mantenuto la promessa di non suonare più. Almeno, fino al momento in cui scrivo.

Altri Festival La brusca conclusione del Festival del Jazz di Sanremo non segnò affatto la fine delle grandi manifestazioni jazzistiche italiane: i tempi erano infatti ormai maturi per un trasloco in luoghi più propizi e anche per più ambiziosi progetti. Se ne aveva avuta la prova fin dall’ottobre 1964 quando, piuttosto estemporaneamente (il programma era stato concordato solo qualche settimana prima tra me e George Wein a un tavolo di un ristorante milanese), fu organizzata una «due giorni» jazzistica al Teatro dell’Arte di Milano, col quintetto di Miles Davis, un gruppo di Dixielanders («Pee Wee» Russell, Ruby Braff, Bud Freeman, ecc.), un quartetto con Roland Kirk e un complesso di boppers (Howard McGhee, J.J.Johnson, Sonny Stitt e altri), oltre a un gruppo capitanato da Franco Ambrosetti. Quel piccolo festival aveva incontrato i favori del pubblico ma non aveva prospettive di prosecuzione visto che non godeva di sovvenzioni di alcun genere. Da questo punto di vista le cose promettevano meglio a Lecco, dove, nel 1967 - e cioè un anno dopo la fine di Sanremo convocammo una nuova grande adunata dei nostri amici. Lecco, a dire il vero, si rivelò subito una sede angusta e scomoda per una grande manifestazione jazzistica, ma consentì a me e a Maffei di non interrompere quella che era già una tradizione. Anche quella volta prendemmo accordi con George Wein, che aveva ormai deciso di estendere all’Europa la sua rete di grandi festival del jazz. Come sempre, il programma venne, nei limiti del possibile, concordato con lui e altri promoters europei; poi lui scritturava i complessi e i solisti, e ce li inviava accompagnati da tre o quattro road manager. A Lecco invitammo dei pezzi grossi: ancora il quintetto di Miles Davis, allora in forma splendida, Sarah Vaughan, un gruppo di assi della chitarra - Barney Kessel, Jim Hall e l’allora giovane e ancora sconosciuto George Benson -, un gruppo di tradizionalisti guidati dallo stesso George Wein, pianista così così, ma che nessuno poteva licenziare (con lui erano Ruby Braff, Buddy Tate, Jack Lesberg e Don Lamond) e, novità delle novità, il gruppo di Archie Shepp: il primo complesso di free jazz che si fosse mai sentito in Italia. L’organizzazione quella volta presentò dei problemi particolari, perché, per varie ragioni, si dovettero alloggiare i musicisti in un albergo di Milano e poi trasportarli in automobile e in pullman a Lecco. Detto così, pare una cosa da nulla; invece ci procurò molte ansie, soprattutto a cusa del comportamento delle nostre primedonne, e cioè Miles Davis e Archie Shepp (no, non Sarah Vaughan, che è persona di buon carattere e di buon senso, senza pretese o comportamenti da diva). Quei due, Shepp e Davis, ci fecero stare sulle spine per ore: io non ho minimamente dimenticato gli affanni procuratici da Shepp e, meno che mai, il viaggio in automobile, da Milano a Lecco, con Davis e il suo allenatore di pugilato, che in quegli anni si portava sempre appresso per tenersi in allenamento (a Milano gli avevamo dovuto prenotare anche una palestra, dove però non mise mai piede). Conoscendo la fobia di Miles per le lunghe attese, e temendo come una sciagura una sua eventuale irritazione, eravamo partiti in un’ora che ci consentisse di arrivare a Lecco giusto in tempo per la cena e per un eventuale pennichella post-prandiale, in previsione della quale avevamo prenotato qualche camera anche a Lecco. Durante il viaggio però Miles mi fece sapere che avrebbe saltato il pasto («Quando mangio mangio, quando faccio l’amore faccio l’amore, quando suono suono», mi aveva soffiato in un orecchio, facendomi agghiacciare), cosicché noi saremmo arrivati in teatro almeno un’ora e mezzo prima dell’inizio del concerto. Per quanto rallentassi l’andatura per ridurre al minimo l’attesa, finii per infilarlo nel suo camerino con tanto anticipo che ritenni prudente filarmela subito, senza spiegazioni. Quanto a Shepp, in altre pagine racconto delle arrabbiature che ci procurò. Il festival ebbe un esito felicissimo, anche se l’esecuzione di Shepp suscitò reazioni contrastanti (ma in grandissima parte negative), come del resto era prevedibile. Nel recensire poi quell’esibizione per «Musica Jazz», Gian Mario Maletto scrisse poi: «Dopo l’entracte è arrivato Archie Shepp ed è stato il finimiìomdo. A far da battistrada sulla scena è

Jimmy Garrison, l’eccellente bassista del quartetto coltraniano, che ha sostituito l’annunciato Charlie Haden: il suo monologo condotto sulla falsariga di Introduction to «My Favorite Things» raccolta nel disco «Coltrane live at the Village Vanguard again!» è vibrante e colorito, ma nessuno può lontanamente immaginare quello che verrà dopo. A lui si unisce, dopo cinque minuti, il batterista Beaver Harris, ben noto per la sua milizia con Albert Ayler, che instaura un nervoso tempo di rumba, quindi entrano alla spicciolata il trombonista Grachan Moncur III, Archie Shepp, in pittoresca tunica africana, e infine l’altro trombonista, il bianco Roswell Rudd. La temperie espressiva è subito rovente, violenta, chiaramente provocatoria. «Appare fuor di dubbio che, se Davis non si cura del pubblico, Shepp addirittura lo insulta con premeditazione («Melody Maker», a proposito del concerto londinese, parla di «defecation on the audience»!). La platea infatti, investita da quella massa d’urto, ha uno scossone, alcuni si alzano e abbandonano il teatro, altri protestano, si grida «buffoni!», «vogliamo un po’ di jazz!», ecc., ma gli applausi sovrastano i dissensi. Alla fine, dopo una ventina di minuti di furibondo collettivo, Shepp sembra placarsi: egli ha sciorinato con inaudita virulenza tutti i suoi motivi di contestazione ma adesso c’è il pepe di un acuto sarcasmo, e questo prende le forme di una sdolcinata citazione di The Shadow of Your Smile, che poi ricorrerà ancora nella sua lunga esecuzione. Una parte del pubblico tira un sospiro di sollievo, qualcuno grida dalla galleria: «Così si suona, perdio!». Ma è evidente che si tratta di una parodia della musica di consumo, e infatti, subito dopo, Shepp e i suoi si tuffano nuovamente nella loro orgia sonora (omissis). Detto questo non ho ancora detto nulla di Shepp e e della sua musica. Che è panica, ferina, «totale» (come sostiene con soddisfazione l’amico Giorgio Gaslini, ascoltatore fra i più entusiasti), che ti investe e ti scuote fin nelle più riposte fibre e ti lascia esausto. Non si tratta, come molti ascoltatori superficiali hanno creduto di ravvisare, di un’ operazione astrusa. Shepp, è vero, ha calcato la mano rispetto alla più leggibile consistenza delle sue interpretazioni discografiche, ma la sua condotta era perfettamente coerente con la sua linea di artista e di uomo veramente «impegnato», socialmente e politicamente...» L’anno successivo approdammo col festival al Teatro Lirico di Milano, dove del resto avevamo dato già diversi concerti dopo che il Teatro dell’Arte aveva raddoppiato il canone d’affitto, e dove avevamo trovato comprensione e cordiale appoggio da parte di Paolo Grassi, che, finché poté, sostenne con entusiasmo le nostre iniziative. Nel 1968 facemmo, per cominciare, le cose in grande stile, come non avremmo più potuto fare in seguito: furono infatti quattro giorni filati di jazz, al termine dei quali potemmo redigere (orgogliosamente, confesso) il seguente consuntivo in cifre: «I musicisti giunti a Milano per prendere parte ai quattro giorni concerti del festival sono stati complessivamente 77, di cui 11 di razza bianca. I cantanti (o prevalentemente cantanti, come Muddy Waters e Otis Spann) erano 11. Gli artisti invitati si sono esibiti in dieci differenti complessi, prescindendo dalle esibizioni dei singoli (Max Roach, Sunny Murray e Joe Simon). «L’organizzazione del festival ha richiesto circa undici mesi di trattative e di preparative e di preparativi. Gli artisti sono giunti a Milano e ripartiti da Milano con 18 diversi aerei, nel giro di 7 giorni. Per trasportarli dall’aeroporto e in città, e a Prato, e a Reggio Emilia (dove l’orchestra di Gillespie ha dato dei concerti nel corso del festival), è stato necessario noleggiare complessivamente 18 torpedoni, oltre alle varie automobili private usate per i trasporti.» Il trionfalistico bollettino terminava con una nota sugli incassi: il più cospicuo si era registrato al secondo concerto (il teatro era tutto esaurito), con biglietti venduti per circa sei milioni di lire, che equivalgono a una quindicina di milioni di lire attuali. Non è il caso di riportare qui il troppo lungo elenco dei partecipanti. Basterà ricordare alcuni complessi: una grande orchestra costituita da Dizzy Gillespie per rievocare gli antichi fasti, la big band di Count Basie, il quintetto di Horace Silver, i Jazz Messengers di Art Blakey, un gruppo con Earl Hines, la blues band di Muddy Waters, il quartetto di Gary Burton, il trio di Elvin Jones, il trio di Red Norvo, il coro delle Stars of Faith. Fu, per tutti noi coinvolti nell’organizzazione, una sfacchinata indimenticabile, tuttavia riuscii a trovare il tempo per partecipare a una tavola rotonda organizzata per la RAI da Adriano Mazzoletti,

che volle approfittare della presenza di alcuni illustri critici stranieri: Leonard Feather, Stanley Dance e Demétre Ioakimidis. Salvo qualche episodio sgradevole dovuto ai batteristi Elvin Jones e Sunny Murray (se ne parla altrove, in queste pagine), i musicisti, quella volta, non ci procurarono grane; erano tutti ben compresi della necessità di evitarci inutili grattacapi. E ad ogni pie’ sospinto ci ripetevano un tranquillizzante «No problem!» che alle nostre orecchie aveva un dolcissimo suono. Preso coraggio (dato l’interesse del pubblico, la sovvenzione del comune, pur esigua, si era rivelata sufficiente) ci riprovammo l’anno dopo. Nel 1969 cominciammo con della musica difficile: nel primo concerto presentammo infatti il quartetto di Cecil Taylor, il quale ultimo si avventurava per la seconda volta in Italia (era venuto già due anni prima, da solo, a Bologna), e poi una grossa orchestra costituita per l’occasione da Giorgio Gaslini, che per essa aveva scritto delle composizioni impegnative, e infine l’ultimo complesso di Miles Davis. Taylor irritò il pubblico ancora di più di quanto non avesse fatto Shepp a Lecco: c’era gente che gli buttava addosso delle monetine, in segno di disprezzo, e moltissimi urlavano insulti. Però gli intenditori rimasero impressionati. Recensendo per «Musica Jazz» quell’esibizione, Pino Candini scrisse poi: «Il secondo capitolo si intitola Cecil Taylor ed è da choc. Perché il piccolo e baffuto pianista catapulta nella sua musica una vitalità esplosiva di cui non si può rimanere incontaminati. A differenza di quel che avviene con Davis, qui il fatto culturale è preminente, e talvolta anche troppo scoperto. La ricerca di Taylor affonda, com’è noto, le radici, oltre che in tutto il mondo del jazz, anche nella musica «dotta» europea di oggi (nei suoi recenti concerti ha affrontato brani Kegel e Stockhausen). Il suo discorso si svolge dunque a un livello di indubbia complessità, infarcito di ardui concetti e di sottolineature emblematiche, con frequenti richiami al concertismo accademico (preso di petto con furia devastatrice), ed è discontinuo, prolisso, talvolta delirante. Ma quanta energia creativa e quale urgenza di verità nel suo esasperato mondo sonoro! «Taylor, come Ellington e come Monk, non è un mero strumentista, né tanto meno un interprete: egli è un creatore, un «produttore» di musica, e ciò avviene indifferentemente sia tramite il suo pianoforte (che usa con tecnica vigorosamente percussiva) che attraverso i suoi strumentisti. Si tratta dei sassofonisti Jimmy Lyons e Sam Rivers e del batterista Andrew Cyrille: un gruppo che vuol porre l’accento proprio sull’unità (si chiama infatti «Unit») degli intenti e del contributo creativo...» Il trionfatore di quel concerto fu però Miles Davis, che proprio in quei mesi aveva cominciato a rasentare i confini del rock prendendo gusto all’amplificazione elettrica del suo strumento (e non solo del suo). Sentimmo in quell’occasione alcuni brani del disco «Bitches Brew», che non era stato ancora pubblicato; risentimmo qualche sua vecchia specialità, come Nefertiti e Round About Midnight, e ammirammo la sua mise di ispirazione hippie: casacca bianca, foulard rosso, catene, e pantaloni di finta pelle di serpente con tutte le tonalità dell’azzurro. Apprezzammo anche il suo nuovo complesso, in cui, dei vecchi, era rimasto il solo Wayne Shorter, ed erano entrati alcuni giovani di grande avvenire: Chick Corea, al piano, Dave Holland, al contrabbasso, e Jack DeJohnette, alla batteria. Per le sere seguenti avevamo tenuto di riserva qualche personaggio di rilievo: Duke Ellington e Lionel Hampton con le rispettive formazioni, Sarah Vaughan, gli inevitabili «Newport All Stars» capeggiati da George Wein (Red Norvo, Ruby Braff, Barney Kessel, Larry Ridley e Don Lamond) ai quali si aggiunse poi il veterano Joe Venuti, che ebbe onori trionfali, divisi in parte col collega parigino Stephane Grappelli, da noi convocato per un «vertice» violinistico. Fra gli ospiti stranieri avevamo inserito un’altra grossa orchestra italiana formata per l’occasione da Gil Cuppini. Fecero tutti del loro meglio, tranne i due più grossi personaggi: Ellington, la cui orchestra suonò controvoglia, e Lionel Hampton, che ne fece di tutti i colori per guadagnarsi la simpatie dei più ingenui fra il pubblico. (Benché facesse del circo equestre, Hampton aveva molte pretese, anche perché si portava dietro quella sorta di carro armato che era sua moglie Gladys, sempre pronta a

difendere con grande decisione le prerogative di grande star del marito...) Il 1970 fu il primo anno di boom del jazz in Italia. Per tacere dei concerti isolati, solo noi presentammo, tra l’estate e l’autunno, ben tre grossi festival - a Verona, a Nervi e a Milano -, mentre altre manifestazioni più o meno importanti venivano organizzate da altri a Pescara, Lerici, Palermo, Bergamo, Macerata e Bologna. A giudicare dal numero delle presenze nei diversi concerti, bisogna dire che quello fu l’anno di Jean Luc-Ponty, il giovane e brillante violinista normanno che più tardi avrebbe compromesso la sua reputazione presso i jazzofili amoreggiando col rock e finendo per domiciliarsi in America, patria dei quattrini. Allora, invece, Jean-Luc era un ragazzo molto serio, pieno di orgoglio professionale: a Verona lo vidi piangere sconsolatamente solo perché pensava di non essere piaciuto al pubblico... Quell’estate portammo anche, a Verona e a Nervi, Duke Ellington, impegnatissimo a celebrare e ricelebrare il suo settantesimo compleanno (in quelle occasioni ci fece anche ascoltare la sua nuova New Orleans Suite); scritturammo pure Teddy Wilson (che a Verona dovette essere trasportato a braccia fuori da una casa ospitale, per via delle troppo abbondanti libagioni) e Shelly Manne, uomo amabile quanto altri mai, che si comportò come un gentleman e suonò dovunque benissimo, fra gli applausi entusiastici del pubblico. Dell’edizione 1970 del festival milanese vorrei ricordarre anzitutto la gran battaglia svoltasi tra la grande orchestra di Kenny Clarke e Francis Boland, con Dizzie Gillespie solista ospite, e quella di Buddy Rich, poste a diretto confronto nello stesso concerto. La battaglia fu vinta, con sorpresa di tutti,, proprio da quest’ultima, che non aveva alcun solista di rilievo, oltre al leader, ma che si distingueva per la ferrea disciplina (Rich è una specie di mastino...), che si traduceva poi in una stupefacente precisione d’esecuzione. E sì che i giovanotti di Rich avevano dato a vedere di temere molto il confronto; bastava aver visto con quanta preoccupazione seguivano, tra le quinte, l’esibizione delle grandi stelle riunite da Clarke e Boland! Ricordo poi Anita O’Day, regina delle cantanti bianche: una donna sulla quale i burrascosi tascorsi (nel suo curriculum c’è anche un po’ di galera e molta droga) avevano lasciato un segno visibile. Una donna strana, anche, che faceva spesso dei discorsi «onirici» piuttosto sconcertanti. Peccato che Anita, quella volta, non fece il figurone che avrebbe meritato: forse non seppe tenere alla giusta distanza il microfono, oppure, più probabilmente, il livello di amplificazione era più basso di quanto, nel suo caso, fosse necessario. «Ringrazia Dio che io non sono Norman Granz,» mi disse Wein, osservando la calma con cui seguivo l’esibizione della sua cantante «altrimenti adesso non saresti così tranquillo.» Quell’anno facemmo anche la conoscenza con Tony Scott - appena arrivato in Italia, da dove non si sarebbe più mosso - e rivedemmo Mingus, Hines, Dave Brubeck e Gerry Mulligan, Jean-Luc Ponty, Basso e Valdambrini e Enrico Intra. La serie dei grandi festival milanesi si chiuse praticamente l’anno dopo, con dei memorabili concertoni al Conservatorio. Lì convocammo per l’ennesima volta Miles Davis, ormai definitivamente «elettrico» (aveva con sé delle tonnellate di amplificatori e altoparlanti, che nascondevano quasi il brillante pianista, Keith Jarrett: «Non mi piace il piano elettrico» mi disse allora Keith. «Il prossimo disco che farò sarà col piano acustico»), e poi Gato Barbieri, astro montante (l’avevo incontrato a luglio a Montreux e lo avevo scritturato senza pensarci un minuto: «Ora abbiamo cambiato tutto», mi ripeteva visibilmente compiaciuta Michelle, la moglie di Gato, che nell’amministrazione della carriera del marito ha sempre avuto un ruolo di primo piano), e poi un gruppo di gloriosi esponenti del bebop riuniti sotto l’insegna di «Giants of jazz» (Dizzy Gillespie, Sonny Stitt, Kai Windingg, Thelonious Monk, Al McKibbon e Art Blakey), il quartetto di Phil Woods e altri ancora. Avrebbe dovuto arrivare anche John Surman, ma non si fece vedere; aveva - come usa dire caritatevolmente nel mondo del jazz - dei «problemi personali». Credo che al Conservatorio non ci perdoneranno mai i pienoni di quelle sere: ci fu subito chiaro, ad ogni modo, che quell’austero luogo non era adatto per certe manifestazioni. Non ci rendemmo conto invece che quello sarebbe stato praticamente l’ultimo dei nostri festival a Milano: l’anno

successivo, per l’indisponibilità del Teatro Lirico e per quella (reale o solo dichiarata) del Conservatorio, dovemmo rinunciare a ripetere la nostra manifestazione quando avevamo già impegnato i solisti e le orchestre... Che furono subito dirottati a Bologna, che ereditò quindi, anche per gli anni a venire, il carrozzone di George Wein. Dal momento che, pochi mesi dopo, facemmo a Milano un paio di tonfi clamorosi con dei concerti di Oscar Peterson e di Ray Charles, non ci rimase che Verona, ultimo nostro approdo sicuro. I tempi - avevamo capito - erano irreversibilmente cambiati, soprattutto a Milano. Il pubblico non accettava più i prezzi che gli alti costi imponevano: il pericolo degli autoriduttori incombeva sempre ed era gravissimo. Senza danaro pubblico dunque non si poteva fare più nulla, era evidente, e per certe cose noi non eravamo tagliati. Del resto, gli organizzatori dei concerti di jazz - che un tempo non esistevano affatto - si erano moltiplicati in epoca recente, in Italia, e il nostro lavoro non era più necessario. Senza dire, per finire, che avevamo ormai incontrato tutti i musicisti di jazz che contassero, e sorprese ed emozioni jazzistiche non erano praticamente più possibili. A Verona continuammo ad andare avanti, giusto per rimanere sulla breccia, per non invecchiare. E ci divertimmo ancora. Ci divertimmo soprattutto una sera di luglio del 1972, quando organizzammo, all’Arena, una sorte di «notte del jazz», che cominciò alle nove precise e si concluse poco prima delle quattro del mattino. Sugli spalti c’erano almeno dodicimila persone e sul palco c’erano più musicisti di quanto fosse sensato radunarne. Fu quello l’anno in cui assistetti, per telefono, alla fine della Clarke-Boland Big Band, che avevo appena scritturato per qualche concerto, quello di Verona compreso, e che si sciolse allora definitivamente in seguito alle divergenze sorte a proposito dei compensi da richiedere. Quell’orchestra fu poi sostituita, a Verona, dalla grossa formazione di Maynard Ferguson, i cui uomini arrivarono in aereo da, Londra a Milano, quello stesso pomeriggio, suonarono all’Arena per un’ora abbondante, poi presero la ciucca e la smaltirono durante la notte in autobus, per infine ripartire in aereo all’indomani, di buon’ora. Fu ancora quello l’anno (e il luogo) in cui Ella Fitzgerald fu colpita, proprio durante la sua esibizione, a Verona, da una grave emorragia all’interno degli occhi, e fece finta di niente, continuando a cantare, semicieca, per un’ora e mezzo di fila, per poi ritirarsi dalle scene per mesi. Sul palcoscenico dell’Arena passarono ancora, in quella interminabile serata, i quartetti di Max Roach e Phil Woods, il complesso di Charles Mingus e qualche solista «sciolto» messo insieme per l’occasione: Roy Eldridge, John Lewis, Daniel Humair eccetera. Fu una tale scorpacciata di jazz che io non resistetti fino alla fine; verso le tre di notte piantai lì tutti e me ne andai a dormire, chiedendomi come facesse il pubblico a ingurgitare tanta musica senza fare indigestione. Peccato che il piacere di quel successone fu guastato una settimana dopo da un grosso fiasco da noi fatto nel cortile del Castello Sforzesco di Milano, dove avevamo fortunosamente dirottato i musicisti e i complessi che avevamo scritturato per un festival che avrebbe dovuto aver luogo, per la terza volta consecutiva, a Nervi o a Genova, e che invece saltò, all’ultim’ora. A fine luglio Milano è semivuota e del resto la «capitale del jazz» - come la chiamava orgogliosamente Paolo Grassi - da qualche tempo non stava facendo onore alla sua reputazione (avevano fatto fiasco anche dei concerti da noi presentati al Lirico con Ornette Coleman e con Bill Evans). Così, se a Verona ho visto la folla più numerosa che ci fosse mai capitata davanti a un concerto di jazz, a Milano battemmo l’opposto record: riuscimmo infatti a racimolare poco meno di 2700 persone in due sere, nonostante i prezzi popolari. E sì che c’erano i gruppi di Charles Mingus, di Gato Barbieri, di Max Roach, di Yusef Lateef, la big band di Gil Cuppini e un gruppo di solisti insigni tra cui Roy Eldrige e John Lewis. Quella sera perdemmo la fiducia di veder tornare i grandi giorni per il jazz, a Milano, e non abbiamo più avuto motivo di cambiare idea. Dopo, a parte Verona, facemmo solo poche cose. Praticamente non mi restò che andare ad ascoltare i concerti degli altri, che altrove si moltiplicarono. Altri festival furono varati, soprattutto per l’attivismo di due amici bolognesi, Alberto Alberti e Antonio Foresti, e il jazz divenne la musica favorita dei partiti e dei gruppi politici di sinistra, che fecero di Archie Shepp il loro eroe. Tuttavia

mi riuscì raramente di incontrare altre facce nuove, tra i musicisti. Forse i più lieti incontri li feci con gli old timers, gli eroi della mia prima giovinezza: come gli ex-crosbiani della World’s Greatest Jazz Band, o come Jimmy McPartland, uno dei molti Dixielanders convocati in Italia da Lino Patruno. Per non parlare di Joe Venuti, che ritornò per stare in Italia a lungo.

J.J.Johnson

Archie Shepp

Charlie Haden

Max Roach

Archie Shepp Il mio primo incontro con Archie Shepp, quando arrivò per la prima volta in Italia per partecipare al Festival del jazz di Lecco, non fu gradevole. Per cominciare ci creò dei problemi perché si rifiutò di alloggiare, insieme ai colleghi,m nel lussuoso Hotel Duomo di Milano, e non ebbe pace finché, dopo aver messo il naso nei migliori alberghi della città, non scovò quello dei nababbi, il Principe e Savoia, dove si insediò tutto solo, lontanissimo dagli altri. più tardi, nella stessa giornata si rifiutò di cenare con i compagni nel miglior ristorante di Lecco (se ne stette, ingrugnatissimo, a digiunare nell’autobus); dimenticò poi in albergo il suo sassofono (Gli prestò il suo, molto malvolentieri, Wayne Shorter) e infine scordò nell’autobus il dashiki (la variopinta tunica africana che per lui, in quegli anni, era come una bandiera) che io dovetti andare a cercare girando alla cieca per Lecco, e perdendo così gran parte el concerto di Miles Davis, a cui tenevo particolarmente. Dopo di allora Archie Shepp è tornato più volte in Italia, ma, a parte la superbia e la totale indifferenza per i problemi di chi lo scrittura, che sono rimaste immutate, non assomiglia più al noto musicista conosciuto a Lecco. Ha smesso il dashiki, optando per il doppiopetto blu, e ha smesso anche di suonare free jazz di cui era stato uno dei grandi campioni: quella musica gridante e discordante che parve voler commentare i drammatici avvenimenti che scandirono l’avanzata della Black revolution nei tumultuosi anni Sessanta, quando Malcolm X, Martin Luther King, Stokely Carmichael, e Seale e Newton (i due fondatori del partito delle Pantere Nere) conducevano la lotta contro il potere bianco. Da qualche anno Shepp suona una musica più tradizionale. Ma le tradizioni che rispetta, le uniche di cui tiene conto e che gli stanno a cuore, sono quelle afroamericane. Il resto non lo interessa, non lo tocca. «Voi avete Stravinsky, e per voi è facile parlarne, scriverne, perché di lui si sa tutto, e tutti lo rispettano» mi ha detto un shepp nel corse di un’intervista da me raccolta per «Epoca». «Noi abbiamo Duke Ellington, Charlie Parker, Lester Young, ... Ma quando io, all’Università di Amherst, nel Massachussets, dove insegno da alcuni anni teoria musicale e storia della musica afro-americana (no, non mi piace la parola «jazz»: l’hanno inventata i bianchi, implica segregazione), devo preparare una lezione per parlare, per esempio, di Lester Young, faccio fatica a trovare qualche documento o qualche studio che lo riguardi. Tutti i libri parlano di Stravinsky, di Beethoven, di Mozart, ma ignorano la nostra musica...» A proposito degli inizi della sua carriera, non ebbe molto da raccontarmi. Figlio di un oscuro suonatore di banjo, aveva trascorso l’infanzia in Florida, e la prima giovinezza a Filadelfia. «Ho imparato a suonare lì, nella black community, un po’ empiricamente, in principio. All’Università d, nel Vermont, mi sono occupato di altre cose, e ho finito per laurearmi con una tesi in arte drammatica. Ho scritto anche due commedie e parecchie poesie. Adesso, di tanto in tanto, scrivo qualche saggio di argomento musicale.» E’ un’intellettuale, infatti. la sua intelligenza è acuta e la sua cultura assai superiore a quella di in normale musicista di jazz. Non so in che misura, ma certo ha letto Marx. peccato che si dia tante arie. Ai corsi che svolge all’Università tiene molto. «Insegno» mi ha detto «in uno di quei centri istituiti per lo studio della storia, della cultura, dell’arte degli afro-americani: quei Black Studies Centers che sono una delle conquiste della Black Revolution: Ma naturalmente preferirei suonare. Anche perché mi delude il fatto che i miei corsi, come quelli di altri colleghi (Max Roach, per esempio), siano frequentati soprattutto da studenti bianchi. Questo fatto è imputabile al sistema che fa in modo che i negri vengano esclusi. guardate cosa succede nel campo della nostra musica. Quando era vivo Charlie Parker, chi aveva in mano le leve del comando fece di tutto per cercare di inventare un Parker bianco. Ora si cerca di inventare un John Coltrane bianco.»

Per Shepp la grave crisi creativa che da diversi anni affligge la musica afro-americana non ha altra spiegazione. E’ il sistema che non lascia emergere i migliori artisti neri, che li emargina, li corrompe e li sfrutta. Il rock-jazz, che in america ha dilagato, si spiega così. E’ un prodotto della macchina industriale, che tende a distruggere e sempre contamina i prodotti dell’inventiva dei neri. «La cosiddetta musica jazz è stata utilizzata come capitale di base per il rock, che è una musica bianca... si tratta di una delle tante forme di sfruttamento della comunità nera.» Anche lui, ha messo un po’ d’acqua nel suo vino; però non si è venduto. Ha solo voluto riavvicinarsi alle tradizioni della genuina musica afro-americana. Questa musica resisterà agli attacchi che le vengono mossi da più parti, su questo Shepp non ha mostrato dubbi, anche se non si è nascosto le difficoltà. «Oggi non ci sono uomini guida» mi ha detto. «I grandi leaders degli anni Sessanta sono morti: Malcolm X, Martin Luther King, John Coltrane. E’ difficile che qualcuno possa prendere il posto di Coltrane: come si fa ad andare più lontano di lui? Questo è un momento di riflessione, di approfondimento, di recupero delle tradizioni.»

Archie Shepp

Incontro con Joe Caro, vecchio Joe Venuti: era stato uno degli idoli di noi jazz-fans della prima generazione; poi, da molti anni ormai, era scomparso dalle cronache del jazz. Si sapeva che lavorava, per una parte dell’anno, a las Vegas, e che abitava a Seattle, presso il confine canadese, ma, fino al giorno in cui venne in Italia, nell’ottobre 1969, per prendere parte a uno dei nostri festival del jazz, pochi sapevano come e che cosa suonasse. Personalmente, poi, non avrei mai pensato, fino allora, che mi sarebbe capitato di presentarlo, in concerto, al pubblico milanese, e meno che mai che quel pubblico si sarebbe entusiasmato al suono del suo violino. Così è stato invece, e debbo dire che l’incontro con questo patriarca del jazz è stato uno dei più piacevoli, dei più toccanti che mi siano capitati. Avevo incontrato Venuti, come tanti altri jazzmen, nell’atrio di un aeroporto; quello della Malpensa, dove era arrivato insieme con Ruby Braff dopo un viaggio di trenta ore, proveniente dal Giappone. «Come stai, Arrigo?» mi ero sentito apostrofare, in italiano, dall’anziano signore che avevo individuato subito per joe Venuti per il fatto che si trovava a fianco di Braff. da quel momento fummo amici: ci facemmo compagnia per alcuni giorni, durante il suo soggiorno milanese precedente l’inizio della tournée europea dei suoi Newport All Stars, poi ci ritrovammo a Lugano, per un altro festival, e quindi ancora a Milano. Negli anni successivi avrebbe trascorso parecchi mesi a Milano, per suonare un po’ dovunque in Italia. Per molte ore ebbi quindi modo di sentire dalla sua voce i racconti della favolosa età del jazz, di quando Bix Beiderbecke faceva coppia fissa con Frankie Trumbauer, e lui, Venuti, si portava appresso dovunque andasse Eddie Lang, ovvero Salvatore Massaro, il primo grande chitarrista di jazz. «Quello era il vero jazz, sai? quella era la vera musica americana. Ma ora è finito tutto: se continua così, col rock mischiato al jazz e con certa musica d’avanguardia, tra poco non sarà rimasto nulla.» Appare chiaro, ascoltandolo parlare, che Venuti non si trova a suo agio nella scena attuale del jazz, che del resto non gli è gran che familiare. strappato al sereno mondo a cui era appartato da anni («Perché mi sono stabilito a Seattle? Perché è una città dove non ci sono musicisti», mi ha detto), venuti sembrava tutt’altro che contento di essere tornato nella piena luce della ribalta: era però lieto, lietissimo, di essere tornato in Italia, il suo paese d’origine, che glia aveva riservato un’accoglienza calorosissima. «Io sono nato a Lecco, non in America, come è scritto in certi libri. In America ci sono andato, quando avevo sei anni, nel 1904. I miei mi avevano lasciato a casa, con mio nonno, perché quando loro emigrarono negli Stati Uniti io ero troppo piccolo.» Quando parla di suo nonno, della sua Lecco, Venuti si intenerisce: ricorda tante cose, con fotografica recisione, di quell’angolino di un Italia povera, contadina, che non c’è più da un pezzo, e non si stanca di raccontare di quei tempi lontani. Suo nonno, al pari di suo padre, era uno scultore di statue per cimiteri (quando è andato a Lecco ha voluto fare una capatina al cimitero per vedere se ci fossero ancora statue sue), e fu per anni il suo maestro. Si deve a lui se oggi il vecchio violinista sa molte cose dell’Italia e se in grado di recitare, uno dopo l’altro, i nomi di tutti i capoluoghi della Lombardia. Il suo primo approdo negli Stati Uniti fu New Orleans, dove la sua famiglia, allietata da ben diciassette figli, si era provvisoriamente stabilita. fu lì che il piccolo Joe incontrò per la prima volta il jazz: un incontro che si sarebbe rivelato prezioso anni dopo, quando, dopo essersi trasferito a Filadelfia e avere compiuto approfonditi studi musicali accademici decise di dedicarsi alla nuova musica, che sembrava consentirgli una rapida carriera. «Suonavo in una orchestra sinfonica» mi spiegò «e finii per rendermi conto che ci sarebbero voluti molti anni per diventare primo violino: così entrai in un orchestra jazz. Ma ai miei non dissi nulla, perché sapevo che avrei dato loro un dispiacere.» Come tutti i jazzofili sanno, l’inseparabile compagno delle sue prime esperienze jazzistiche fu Eddie Lang, un giovane di origine abruzzese che aveva conosciuto sui banchi di scuola a Filadelfia. «Sai che cosa suonavamo quando facevamo del jazz? Delle mazurche, delle polche italiane. Pretty Tricks, per esempio, è la mazurca di Migliavacca. E un’altra mazurca è Beating the Dog. Ti ricordi

Sunshine? Il motivo è quello degli stornelli montanari. e poi ogni tanto usavamo delle arie di opere famose: in Doin’ Things, per esempio, si può sentire l’aria di Musetta nella Bohéme. Gli americani, che sono ignoranti, non si accorgevano di niente...» Per dimostrare questa verità, Venuti, che è una miniera di gustosissimi aneddoti, racconta un altro episodio: «Un giorno io e Eddie suonavamo in un caffè, e qualcuno del pubblico ci chiese di suonare un pezzo classico. Eddie non ne conosceva nessuno e allora decidemmo di suonare, molto lentamente, e con solennità, il Tiger Rag...». Lang poi aveva trovato il modo di ingannare il pubblico americano: si tingeva la faccia e le mani per farsi passare per un negro. lo faceva quando voleva suonare con un complesso di negri: a quel tempo vederci in mezzo una faccia bianca avrebbe fatto scandalo. Portarsi appresso Eddie Lang comportava qualche difficoltà per Venuti. Il giovanotto infatti non sapeva leggere una nota di musica; ciò che non gli impedì di farsi assumere, insieme a Venuti, nella grande orchestra di Paul Whiteman, allora sulla cresta dell’onda. «Nessuno sapeva che Eddie non conosceva la musica: aveva tanto orecchio che se la cavava benissimo» mi ha raccontato Joe con espressione divertita. «Io ad ogni modo gli stavo sempre vicino, e quando sulla partitura era indicato un passaggio di chitarra, io gli davo un colpetto col piede, e gli sussurravo: Passage!» Nell’orchestra di Paul whiteman, in cui venuti entrò dopo aver suonato in varie formazioni, fra cui quella di Jean Goldkette («Duke Ellington aveva paura di suonare dopo l’orchestra di Goldkette, sai?», assicura il violinista), militavano in quegli anni musicisti che sarebbero rimasti nella storia del jazz: tra gli altri Bix Beiderbecke, frankie Trumbauer e persino l’allora esordiente Bing Crosby, uno dei quattro Rhythm Boys. «Bing era sempre a corto di quattrini» ricorda Venuti «e per molti mesi, io, che guadagnavo bene, lo sovvenzionai. Devo dire che Bing non se n’è mai dimenticato.» (I due sono rimasti amiconi per anni: fecero anche un viaggio assieme in Italia, l’anno delle Olimpiadi di Roma, e fu un’umiliazione per bing, che constatava ogni giorno che nessuno lo riconosceva...) Ma il discorso torna ancora su Eddie Lang. Com’è morto Lang? in seguito a una banale tonsillectomia, probabilmente per l’asineria del medico che lo operò. Su questo Joe non ha dubbi: «Quando ho saputo cos’era successo sono corso dal medico, l’ho preso per la cravatta e gli ho gridato «Che cosa fatto a Eddie?» E’ finita che mi hanno arrestato». Non era la prima volta e non sarebbe stata l’ultima: ai suoi verd’anni Joe era un uomo che prendeva fuoco facilmente e che menava le mani spesso. Ed è tuttora orgoglioso di questi trascorsi. Non manca qualche aneddoto su Bix Beiderbecke. Questo, per esempio: «Durante una trasferta in treno con l’orchestra di Paul Whiteman, Bix fu accompagnato nella sua cuccetta del vagone letto: sai, era sempre un poco ubriaco, e anche quella sera lo era. Così decidemmo di fargli uno scherzo. la notte, mentre dormiva, versammo parecchia sabbia sopra e sotto il suo lettino, con l’intesa di dirgli la mattina dopo, che avevamo attraversato il deserto e che c’era stata una grande tempesta di sabbia. Bix la bevve. La mattina ci fece vedere la sua cuccetta dicendoci: «Che terribile tempesta di sabbia c’è stata!». Del resto Venuti era, ed è tuttora, famoso per i suoi scherzi. Si racconta ancora, fra i jazzmen americani, di quando Joe convocò una cinquantina di contrabbassisti (ciascuno col proprio strumento) dinanzi a uno studio d’incisione nel bel centro di New York, assicurando a ciascuno di loro che era atteso per una registrazione: andò a finire che quelli ingorgarono il traffico, o quasi. E c’è quell’altra storia di quando lui, d’accordo con altri colleghi d’orchestra, infilò una calza da donna nel trombone di Tommy Dorsey, il quale per giorni e giorni si lamentò di essere diventato sordo, e poi impazzi dalla felicità quando i burloni, sempre di nascosto a lui, ebbero tolto la calza. Gli anni ruggenti finirono abbastanza presto per Joe Venuti, che a poco a poco, negli ultimi anni trenta, si allontanò dal campo di battaglia del jazz. Si trasferì sulla Costa del Pacifico, prese parte a numerose trasmissioni radio assieme al vecchio amico Bing Crosby, suonò anche per gli spettacoli di Bob Hope, e poi, per anni, fu una delle attrazioni di Las Vegas, dove apparve spesso al fianco di Phil Harris, un cantante che aveva avuto il suo momento d’oro negli anni trenta ma che a Las Vegas riusciva a sopravvivere. Il guaio di quelle scritture era la tentazione delle molte bische per cui la città del Nevada è famosa: Joe non esita a confessare che fu vittima di quella continua seduzione. Venuti era stato riscoperto dal pubblico del jazz pochi mesi prima di venire a Milano la prima volta:

Aveva suonato al festival di Newport, poi a quello di Monterey, e ad Aspen, in uno di quei favolosi ricevimenti a suon di jazz organizzati da un ricco residente: il finanziere Dick Gibson, quello stesso che sere possibile, con le sue sovvenzioni, la nascita della World’s Greatest Jazz Band. Tanti successi non avevano commosso venuti: lo commuoveva invece l’accoglienza riservatagli dal pubblico milanese, quella sera, al Lirico. Per questo motivo ci mettemmo d’accordo, prima che partisse. Io avrei cercato di organizzargli una decina di concerti in Italia, e lui sarebbe tornato, di lì a qualche mese. Tornò, infatti, insieme al pianista Lou Stein, e non stette una ventina di giorni, come io avevo previsto e come i concerti da me allineati consentivano: rimase un anno. E suonò dappertutto. Fu lui a lanciare a Milano Il Capolinea, ritrovo dei musicisti di jazz milanesi e di molti appassionati, diretto con amore da Giorgio Vanni. Per non annoiarsi, e per stare in compagnia, Venuti si presentò infatti per parecchio tempo, ogni sera, al Capolinea, col violino sottobraccio, pronto a suonare. E suonò. Scoprì anche qualche musicista di talento che era sfuggito alla nostra attenzione: tipi come Joe Cusumano, chitarrista, e Mario Rusca, pianista.

Uno della «Austin» Avevo visto per la prima volta Jimmy McPartland a Parigi, nel 1949. Si trovava in Europa perché aveva accompagnato sua moglie Marian a far visita a la famiglia di lei, nella patria Inghilterra, ed era stato lieto di fare un’apparizione alla Salle Pleyel in quell’affollatissimo festival del jazz che portò dinanzi all’illustre ribalta parigina personaggi ormai mitici di qua dall’Atlantico come Charlie Parker e Sidney Bechet. Jimmy aveva allora 42 anni, ma il suo nome mi era familiare da un pezzo; alcuni suoi dischi sono entrati nella mia discoteca intorno al 1935. Per questo motivo sarei stato lietissimo di cambiare quattro chiacchiere con lui in quei giorni a Parigi, ma in quella calca, coi flics che prendevano furiosamente a pedate i fans che cercavano di intrufolarsi fra le quinte, non era davvero facile parlare coi musicisti. Sono dovuti trascorrere più di ventisei anni prima che potessi vederlo ancora. ventisei anni che, ahimè, sono passati in fretta, ma che hanno lasciato il segno, su di me e su di lui. Era un biondo giovanottone di taglia atletica quando lo avevo sentito suonare Singing the Blues in quei giorni a Parigi; ora mi trovavo di fronte un anziano signore di quasi 69 anni. Ma il suo Singing the Blues era rimasto immutato, ed era rimasta immutata la mia voglia di chiacchierare con lui. Dopotutto Jimmy McPartland era stato uno degli eroi della mia adolescenza, ed era stato un eroe «privato», per così dire, visto che, allora, prima del 1935, non conoscevo alcun altro appassionato del jazz né avevo mai ascoltato jazz al di fuori delle pareti di casa mia. Insomma, di fronte a tal personaggio (uno degli «inventori» del jazz bianco a Chicago, pensate un po’), valeva la pena di metter mano al registratore e porgergli il microfono per farlo parlare un po’. La prima domanda era quasi obbligatoria: Non vorresti raccontarmi qualcosa dei vecchi tempi di Chicago, quando insieme ad altri ragazzi della Austin High School cominciasi a cimentarti col jazz, che alcuni musicisti di New Orleans avevano da poco fatto conoscere al pubblico? «Eravamo quasi tutti compagni di scuola, ed eravamo molto amici. Bud Freeman abitava a due isolati di distanza da me e anche Frank Teschemacher abitava vicino a noi; quanto a Jim Lannigan, era un amico di mia sorella. Poi c’era Dave Tough, batterista, c’erano Dave North, pianista, e mio fratello Dick. Avevamo suppergiù quindici anni. Io ero il più giovane; Teschemacher, freeman e mio fratello avevano due anni più di me. Molti di noi suonavano il violino: io, Lannigan, mio fratello e Teschemacher.» Allora a quel tempo non suonavate jazz. Con tutti quei violini... «All’inizio non facevamo del jazz. Tutto cominciò quando potemmo ascoltare dei dischi dei New Orleans Rhythm Kings che avevamo comprato. Quella musica ci procurò una grande eccitazione, ci entusiasmò.» Il jazz allora era una novità, non è vero? «Sì, era una novità. Noi non avevamo mai sentito del jazz prima di ascoltare quei dischi. Del resto, i musicisti che li avevano incisi erano di New Orleans ed erano arrivati a Chicago da poco, intorno al 1921, quando noi cominciavamo a suonare. Comunque, quando noi cominciammo a suonare in giro, nel 1922-23, a Chicago c’erano anche King Oliver con Louis Armstrong, e altri, naturalmente. Poi c’erano i Wolverines, con Bix Beiderbecke, che davano concerti dappertutto, soprattutto nei colleges... peccato che noi eravamo troppo giovani, allora, per entrare nei locali notturni dove suonavano le orchestre. Dovevamo accontentarci dei dischi.» Raccontami dei tuoi inizi. Come hai imparato a suonare? «Ho studiato sotto la guida di mio padre, che era un insegnate di musica. (Era anche un pugilatore e giocatore di baseball. Un musicista e un atleta. Come sarei stato anch’io.) Passavo però molto tempo ad ascoltare i dischi. Io e mio fratello, che suonava la chitarra ed il banjo, ci mettevamo accanto al fonografo, ascoltavamo con la massima attenzione e cercavamo di rifare i diversi passaggi. Non dimenticare che a quel tempo non c’era musica stampata, che potessimo leggere: per lo meno non del tipo che piaceva a noi. Io avevo la fortuna di avere un buon orecchio, perché

suonavo il violino da un po’ di tempo.» Il vostro gruppo è passato alla storia del jazz come la «Austin High School Gang». Questo nome vi è stato dato dopo, quando ormai vi eravate dispersi, oppure qualcuno vi chiamava già così negli anni di cui stiamo parlando? «Ci chiamavamo così già allora. E la ragione è che alcuni di noi facevano spesso a pugni. Io e mio fratello soprattutto. Ogni tanto qualcuno veniva a dirci: «La vostra musica fa schifo!» (Stinks = puzza), e allora giù botte. Noi credevamo nella nostra musica e non eravamo disposti a farci insultare. Io poi ero il leader e sentivo il dovere di difendere il nostro lavoro. La gente cominciò ad avere paura di noi, perché le zuffe erano frequenti. Non erano pochi quelli che venivano a dirci che la nostra musica faceva schifo...» Dunque, eri tu li direttore d’orchestra... «Certo. Ero il leader a tutti gli effetti. Ero il direttore musicale del gruppo, ne ero il manager perché ero io che trovavo le scritture, e suonavo stando davanti all’orchestra. Suonavamo soprattutto nei sabati, per certe feste scolastiche, per i balli di varie associazioni, eccetera.» Che musica facevate in quelle occasioni? jazz? «Certo che era jazz. Era la musica che avevamo copiato dai dischi dei NORK, di King Oliver e Armstrong, dei Wolverines... pezzi come Copenhagen, Suzy, I Need Some Pettin’, Fidgety Feet. Però stai bene attento: copiavamo dai dischi tutto, tranne gli assoli. Gli assoli erano sempre originali!» A proposito di originalità. Spiegami come è successo che Bud Freeman sia riuscito a farsi uno stile tanto personale, diverso da ogni altro. «Bud Freeman non conosceva una nota di musica quando venne a suonare con noi. io cercavo di insegnargli i primi rudimenti, e così mio padre. Ma era una gran fatica perché lui era proprio digiuno. però aveva un buon senso del ritmo perché era un bravo ballerino. fatto sta che dopo sei mesi non sapeva ancora suonare decentemente. Sbagliava le note facendomi arrabbiare. Così litigavamo spesso. Gli dicevo che avrebbe dovuto studiare un po’ di armonia... Il suo problema era quello: cominciava un assolo e poi non sapeva in che direzione andare. Suonava così (fa un’improvvisazione scat, ripetendo sempre la stessa nota). Capisci, sempre la stessa nota! Quel modo di suonare faceva imbestialire Teschemacher. Però io avevo fiducia in Bud, perché aveva dello swing. e per me il jazz significa proprio questo: swing!» A proposito di swing, mi viene in mente che quando voi suonavate aq Chicago, tra il 1923 e il 1924, in città muoveva i primi passi come musicista anche Benny Goodman, che allora era sui quindici anni. Non suonava mai con voi? «Sì, ogni tanto suonava con noi. C’era lui e c’era anche un trombonista di origine italiana, Joe Quartella. Suonavamo a Cicero, il peggior quartier di Chicago, che sarebbe diventato il dominio di Al Capone.» Non avete ma avuto a che fare coi gangsters? Come no? Ricordo che una sera, proprio in ul locale di Cicero, arrivarono gli uomini di Capone e cominciarono a fare il diavolo a quattro, a spaccare bottiglie sulla testa della gente. Ma a noi non facevano nulla. Ci dicevano: «Continuate a suonare e non vi succederà niente...». E noi continuavamo a suonare...» Parlami un po’ dei dischi fatti nel 1927 sotto il nome di Eddie Condon e di red McKenzie: «Condon’s and Mckenzie’s Chicagoans». furono fra le prime incisioni di jazz che io comprai, una quarantina d’anni fa. C’eri tu, Bud Freeman, Teschemacher, gene Krupa, Joe Sullivan... «Quella era praticamente la mia orchestra, anche se qualche uomo è stato cambiato. Condon mise il suo nome sull’etichetta a fianco di McKenzie perché era stato lui a procurare la seduta... Sai Eddie Condon non era un buon musicista: era un tipo divertente. Molto spiritoso. Ci era molto simpatico, ma quanto a musica... Avevamo preso Gene Krupa perché era miglior batterista di Dave Tough; mio fratello aveva degli impegni... sai come succede...» Quando quei dischi comparvero in Europa, fecero sensazione fra i pochissimi che si interessavano al jazz allora. Si diceva che si trattava di un diverso tipo di jazz, diverso da quello arrivato da New

Orleans. Si cominciò a parlare di «stile Chicago». pensi che fosse giusto? «Certo. Comunque «stile Chicago» altro non significava in sostanza che swing.» Ma vi rendevate conto che stavate facendo una musica diversa da quella degli altri? «No. tutto quello che facevamo di nuovo era suonare in 4/4 anziché in 2/4 come facevano gli altri. Avevamo un contrabbasso che scandiva quattro battiti per misura. Insomma, quello che contava era il tempo. il 4/4 è più eccitante del 2/4, non ti pare? Lo stile Chicago è tutto qui.» (Canticchia battendo ritmicamente la mano sul tavolo, in 4/4.) Che cosa pensavate allora dei musicisti neri arrivati da New Orleans? Non pensavate che fossero i migliori? «No. Naturalmente ci piacevano King Oliver e Louis Armstrong... Vedi, dal punto di vista ritmico i musicisti neri erano i più grandi, ma dal punto di vista armonico e melodico no. del resto, chi credi che abbia dato al nero la melodia e l’armonia? L’uomo bianco! La melodia, l’armonia, il fraseggio, non sono venuti dall’Africa. il jazz americano non è altro che il miscuglio del ritmo africano con la melodia e l’armonia europee. Di conseguenza il nero non può vantarsi di avere inventato il jazz.» Sbaglio, o voi preferivate certi musicisti bianchi, come Bix Beiderbecke? «Sì, è così. Ci piaceva di più perché aveva un buon senso melodico e armonico e una bellissima sonorità. Aveva un suono molto piacevole. Bada però: mi piacevano molto anche Louis Armstrong e King Oliver. La loro musica è meravigliosa anche oggi. Comunque i miei gusti personali mi facevano propendere per Bix. Fu lui il mio modello, ed esercitò su di me un’influenza molto maggiore di Armstrong. Io mi ispiravo alla sonorità, alle belle armonie, al fraseggio di Bix, però non lo copiavo. e questo me lo disse anche lui. «Ragazzo (mi chiamava sempre così: kid), mi piace il modo in cui suoni. Il tuo suono somiglia al mio ma tu non mi copi». A proposito di Bix. So che tu hai preso il suo posto nell’orchestra dei Wolverines, nel 1924. Raccontami com’è successo. «Bix era stato chiamato a Detroit da Jean Goldkette, che lo voleva nella sua orchestra. I compagni di Bix però gli dissero che non lo avrebbero lasciato partire finché non avessero trovato chi lo potesse sostituire nei Wolverines. provarono Sharkey Bonano, il trombettista di Neo Orleans, ma non andò bene. Anche Red Nichols non poteva andar bene perché non sapeva improvvisare. Allora pensarono di chiamare me. Fu Vic moore a suggerire il mio nome. Mi aveva sentito a Chicago, dove era capitato in vacanza, sei mesi prima. Si era congratulato con me. «Ehi, ma tu suoni come Bix!» mi aveva detto. Poi mi aveva chiesto il nome, l’indirizzo e il numero di telefono. Mi raccontò dell’orchestra dei Wolverines, di come Bix fosse meraviglioso, e così via. Sei mesi più tardi ricevetti un telegramma da New York, firmato da Dick Woynow, che era il direttore dei Wolverines. Diceva pressappoco: «Puoi sostituire Bix nei Wolverines al Cinderella Ballroom per 87 dollari e 25 cents alla settimana? rispondi subito al Somerset Hotel ecc.». Guarda che erano un sacco di soldi, allora, e poi avevo appena diciassette anni. i miei amici dell’orchestra di Chicago mi incoraggiarono ad accettare l’offerta e io risposi subito chiedendo che mi anticipassero i soldi per il viaggio, che non avevo. Il giorno dopo mi arrivarono 35 dollari per il biglietto del treno. Alla stazione fui accompagnato da un sacco di gente: c’era tutta la mia famiglia e c’erano quelli della Austin High School Gang. C’era anche Benny Goodman.» Già, allora era un avvenimento... «Altro che avvenimento! era il più grande onore che un musicista potesse avere. Non dimenticare che per noi Bix era il più grande. Bix, con Louis Armstrong, King Oliver, Paul Mares. Però Bix era qualcosa di speciale, per via della melodia, del fraseggio, delle armonie, dello swing. Ti ripeto, comunque che ci piaceva moltissimo anche Armstrong.» Torniamo al tuo ingresso nei Wolverines. non c’è stato un periodo di rodaggio? «Sì, è durato cinque giorni, durante i quali io sono stato accanto a Bix. Dormivamo nella stessa stanza, e suonavamo uno a fianco dell’altro. Bix mi insegnava gli arrangiamenti dei Wolverines.» Puoi dirmi qualcosa di Bix come uomo? Se dovessi usare una sola parola poer definirlo, quale sceglieresti? «Direi che è molto istruito (very well educated). Aveva frequentato il college. I suoi genitori lo

avevano mandato all’Accademia di Lake Forest, che è a nord di Chicago, sulla riva del lago Michigan. Comunque ci restò poco, perché l’unica cosa che gli importava era suonare la cornetta. Aveva due soli interessi, Bix: la musica e l’alcool. Beveva moltissimo: aveva cominciato a bere a sei anni...» E’ vero che era un tipo schivo, timido? «Sì, era un tipo schivo. Guarda però che le ragazze gli piacevano molto. piacevano a tutti noi, come piaceva l’alcool. Eravamo molto giovani, ma non eravamo degli stinchi di santi. Ora invece non berrei un bicchiere di whisky o di birra nemmeno se mi pagassero...» «Parlami di Frank Teschemacher. ricordo che quando cominciai a interessarmi di jazz, prima della guerra, molti pensavano che Teschemacher fosse uno dei più grandi clarinettisti di jazz «Teschemacher aveva uno stile molto originale. (A proposito si pronuncia proprio Teschemacher, perché era di origine tedesca, e non Teschemacher, all’inglese.) però non era il solo ad essere originale nella nostra orchestra. Anche Bud Freeman non copiava nessuno, e neppure Dave Tough.» Ho sentito dire, o forse ho letto, che nell’incidente automobilistico in cui morì Teschemacher fu in parte responsabile «Wild Bill» Davison, che era alla guida. «Non ti posso dire niente. Io non c’ero...» A proposito di morti non chiare: quale fu la vera causa della morte di Leon Roppolo, il clarinettista dei New Orleans Rhythm Kings? So che perse il senno e che passò molti anni in manicomio. «Ti posso dire quanto mi ha detto George Brunies, che come sai suonava a fianco dei NORK. George mi ha detto che Roppolo contrasse la lue e quindi fu colpito da paralisi progressiva. Gli stupefacenti non c’entravano, dunque... Ha fatto la fine di Buddy Bolden. «No, gli stupefacenti non c’entravano. lui non usava droghe pesanti. Fumava solo marijuana. E con la marijuana non si muore.» «Dimmi un’altra cosa. Ai tempi in cui suonavi coi Wolverines la gente ballava al suono dell’orchestra: ma c’era anche qualcuno che ascoltava con attenzione la vostra musica, come accade oggi? «Sì, qualcuno c’era. Ma erano soprattutto musicisti. Il grosso pubblico non si rendeva ben conto di ciò che facevamo.» Cambiamo argomento. Puoi dirmi cosa ne pensi delle forme più moderne di jazz? Ascolti spesso i musicisti delle ultime generazioni? «No. Non li ascolto molto. Sono bravi tecnicamente e musicalmente, ma ciò che fanno non mi commuove come mi commuove la musica a cui mi dedico io, e cioè quello che io chiamo «jazz autentico». Ho sentito che Archie Shepp è molto popolare qui in Italia. Be’, la musica che fa non mi piace per niente. E’ musica brutta, piena di rabbia, sgradevole.» Ma quella è musica di protesta... «Già, ma io non sono responsabile della situazione dei neri in America. Né ho il minimo pregiudizio razziale. Per me gli uomini sono tutti eguali, bianchi, neri, gialli...» Cambiamo ancora argomento. Nella tua ultima tournée europea hai avuto modo di incontrare numerosi gruppi tradizionali locali. Tu, che hai contribuito ad inventare la musica che suonano, hai qualche critica da muovere loro, qualche consiglio da dare? Trovi che nel loro jazz manchi qualcosa del feeling che hanno i musicisti americani? «No. Comunque bisogna distinguere caso per caso. L'essenziale è suonare con grazia (gently), con facilità (easy), con leggerezza e con swing. Non si deve «forzare», suonare con durezza. Bisogna imparare a controllare le proprie emozioni. I musicisti devono ascoltarsi tra loro, non suonare per sé stessi; la sezione ritmica deve suonare «insieme». A ogni modo ho notato che le qualità tecnicomusicali sono eccellenti. Eccellenti davvero.» Parlami ora di tua moglie, Marian. Sai che ha suonato anche in Italia in alcuni festival del jazz nel luglio 1974 e che ha avuto un notevole successo? «Io penso che sia una grande musicista e una donna eccezionale. Siamo divorziati da tre anni, però siamo rimasti ottimi amici e ci rispettiamo a vicenda come musicisti. Per questo suoniamo spesso insieme. Ora abbiamo in vista delle trasmissioni televisive, a cui parteciperemo. Si tratterà di un

omaggio a Bix Beiderbecke. (A proposito: sai che non mi hanno invitato al festival che viene organizzato ogni anno a Davenport, in onore di Bix?) Marian aveva cominciato in Inghilterra, come pianista classica; poi ascoltò dei dischi di pianisti americani, come Art Tatum, Fats Waller, Teddy Wilson, e ne fu conquistata. dopo di allora ha fatto molta strada: ha progredito sempre. La verità è che è molto preparata e sa fare di tutto. E’ anche un’ottima compositrice.» Mi pare di aver letto che l’hai conosciuta in Europa, durante la guerra. E’ così? «Sì, è così. Io mi ero arruolato volontario nell’esercito degli Stati Uniti e ho anche partecipato allo sbarco in Normandia. Ho incontrato Marian in Belgio dove dava degli spettacoli per le truppe alleate in uno degli Uso Camp Shows. Lei era una civile; io ero entrato da poco nei Camp Shows come militare. Ci siamo sposati in Germania, e abbiamo girato insieme con uno degli Uso Camp Shows per circa sei mesi: in Germania, Belgio, in Francia, in Inghilterra. Questo accadeva però dopo che mi fui congedato, a Parigi. Io ero il presentatore e il direttore d’orchestra nello spettacolo di Marian. Quando Marian si è fratturata un polso e ha dovuto interrompere la tournée, siamo partiti insieme alla volta degli Stati Uniti, nel 1946.» Un’ultima domanda. Come spieghi che ci siano così poche autentiche personalità, oggi, nel mondo del jazz? Non ci sono mai stati ottimi musicisti come ora, ma tutti suonano in modo stereotipato. Non ti pare anche a te? «Ai miei tempi non c’era quasi nulla, i modelli erano pochissimi. E bisognava essere originali per forza. I musicisti di oggi invece possono scegliere fra una grande quantità di modelli ed è sempre più difficile inventare qualcosa di nuovo.» guardo l’orologio. Jimmy parla ininterrottamente da un’ora e mezza. A lasciarlo fare continuerebbe. Ma io ho il fiatone. E penso alla faticaccia che dovrò fare per trascrivere dal magnetofono tutto quello che mi ha raccontato. Continueremo ancora a parlare per ore, ma senza registratore davanti: off record, come si dice.

Teddy Wilson Photos by Roberto Polillo

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