POESIE_FATATE
Short Description
Sette ballate nonsense, dedicate a Gwyn Gwisgo, l'elfo arcicattivo della mia saga Wylo Helig....
Description
Fabio Larcher
Ballate
di Gwyn Gwisgo
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PROPRIETÀ LETTERARIA diritti di riproduzione, vendita, traduzione riservati per tutti i paesi, compresi gli stati immaginari e i Regni Fatati. Copyright Novembre © 2016 by Fabio Larcher Illustrazione di copertina: Arthur Rackham
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v i
Un tè alle Cinque
Gwyn Gwisgo, un giorno, disse: «Daremo un tè alle cinque». I suoi servi devoti cercarono dovunque, sul globo e sull’ellisse, nei luoghi più remoti; ma no, non ci fu verso; fu tutto tempo perso: non c’era neanche l’ombra delle signore Cinque in tutto l’universo di stelle onusto e ingombro. Giunse l’ora del tè. La sala era guarnita di pane al burro ed ostriche, dolcetti e piperita menta in pasticche ed aspri cetrioli in salamoia. C’era di tutto, è vero; però le ospiti assenti resero malcontenti il castellano e il clero. 3
Non si poteva offrire un tè alle cinque, senza la nobile presenza delle signore Cinque. Gwyn Gwisgo sbadigliò senza riguardi, inghiottendo, per sbaglio, un moscerino. Disse: «Le sei. Si è fatto troppo tardi. Adesso schiaccerò il mio pisolino».
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v ii
La ballata del re testardo
Un giorno un re decise di dichiarare guerra al regno delle fate, nel colmo dell’estate, e annetterne la terra ai suoi domini. Irrise Chi dichiarava, saggio: «È la peggiore impresa di cui si sia mai appreso, la più scema nel raggio di centomila miglia e nove iarde. Sarebbe come prendere in ostaggio il Diavolo in persona; avere in casa le pustole beffarde della peste; o sposarsi con la Morte». «Non sarà mai, davvero, la mia sorte» diceva il re, testardo. Così condusse in guerra un milïardo di cavalieri e fanti, con gli elmi luccicanti. Cantavano, marciando, Addio miei prati ed erano gagliardi e spensierati, 5
come gitanti a spasso per i boschi a far merenda o per funghi e castagne; ma giunsero, ben presto, ai regni foschi di Gwyn Gwisgo, signore delle fate, e l’allegria si spense in pianti e lagne. «Cantate!» li esortava il re. «Cantate!» Ma, a mano a mano, cadde in pezzettini il riso dalle labbra a tutti quanti. Tutto era nero, nero e senza stelle e l’ùlulo del vento di Ognissanti accapponò la pelle ai giovani di sangue e ai contadini, senza far conto delle distinzioni di rango o ceto. Al limite di un’erta c’era un palazzo orribile: i morioni, le tegole, i solai... tutto in rovina, Soltanto una finestra stava aperta, da cui brillava l’unica lucina minuscola, in quel mondo tetro e vuoto: la magica candela di Gwyn Gwisgo. «Adesso è troppo notte» disse il re. «Attaccheremo all’alba e sarà chiaro, intorno.» E sono ancora là, attendendo il giorno, da settecentodieci anni. Perché? Nel regno di Gwyn Gwisgo è sempre notte. 17 - 11 - 2017 6
v iii
La ghinea d’oro
«Ehi, tu! dico a te, mascalzone! Volevi pagar la pigione con quest’oro matto? stai fresco! Ti gonfio, se adesso ti pesco.» Ahi, no! L’oro matto e l’ottone ti mandano dritto in prigione. «Vi giuro, signore, è un equivoco. Non siate, pietà, così univoco nell’interpretare la cosa. Gwyn Gwisgo mi chiese una rosa e mi pagò il fiore con questa ghinea d’oro giallo, che fresca sembrava venuta dal conio. Portatemi, orsù, al manicomio: mi sono fidato dell’elfo: chi mai crederebbe ad un elfo?» Non “matto”, sei proprio minchione. Ahimè! che il denaro degli elfi ti porta follia e perdizione, se semini l’oro e l’ottone. 7
v iv
Gli Yig
Lo sanno tutti, gli Yig mangiano l’uomo e pensano che l’uomo sia il più buono tra i cibi. Che mangino l’uomo è un dato. Nessuno sa se crudo o cucinato, perché nessuno è mai tornato vivo (vivo e sano di mente, al proprio arrivo) a raccontarlo, dalla loro casa dal tetto aguzzo, dalla buia cimasa. Si sa che sono neri, senza tratti del volto, hanno dei corpi lustri, gommosi, ed ampi piedi storpi. Portano tutti un sacco sulle spalle, pieno di denti sferraglianti e gialle gengive, viscide di muco. Molti testimoniano che sono assai sciolti nei movimenti, rapidi e veloci, che hanno un linguaggio e, dalle bocche [atroci, emettono delle urla di lamiera squassata dal vento. Quasi ogni sera. Ma nonostante curino un tesoro fatto di zàffiri e monete d’oro, soltanto pochi stupidi hanno osato tentare di rubarlo, e hanno pagato 8
con la vita. Sappiamo solo questo. E l’immaginazione ha fatto il resto. Soltanto questo sapeva Urberto, benché dell’argomento fosse esperto e avesse letto, ormai, tutto il leggibile sui macabri Yig, su come fosse agibile la loro orrenda casa. Aveva letto che una scala portava sul tetto, dove spiccava un ruvido sportello di ferro arrugginito. Lo sportello portava ad un solaio. Probabilmente, diceva Urberto nella propria mente, l’oro e le gemme stavano là, altere, e l’edificio intero era un forziere. Infatti nessun Yig entrava o usciva direttamente dalla casa; usciva invece da una botola di legno posta in giardino. Nell’orrendo regno degli Yig il treno non faceva sosta: per giungervi doveva andarci apposta il viaggiatore; scendere a Maniglia; accedere al tratturo per due miglia; attraversare tutta una foresta irta di pini, chiamata Tempesta; poi sempre dritto, lungo i cimiteri di Pioppa, in cui nessuno accende ceri. Dopo trenta chilometri il viandante giungeva nel giardino orripilante, dove svettava, tetra ed angolosa, la casa degli Yig, marmaglia golosa di carne umana. E questo fece Urberto, 9
passo per passo, giungendo all’aperto giardino degli Yig. Si asciugò il sudore dal viso corrucciato. Per ore e ore i suoi stivali avevano calcato aghi di pino ed ettari di prato. Ora era stanco; stanco e senza aiuto. Le cicale pizzicavano il liuto di bronzo amaro delle loro voci, a gola piena, in pieno sole estivo. Urberto sospirò. Non ne uscì vivo.
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v v
Il giardino
«Che bel giardino avete, signor Gwyn Gwisgo! Risplende. I glicini, i narcisi, le margherite sembrano sorrisi che ubriacano — come un sorso di gin.» Così diceva un vecchio ambasciatore in visita dal re degli elfi. Il vecchio vanesio si ammirava in uno specchio, mentre parlava a Gwyn Gwisgo. Un errore piuttosto grossolano: rivelarsi narcisisti di fronte al più narciso tra i narcisi. Gwyn Gwisgo guardò in viso l’effimero, indeciso sul da farsi. «Voi dite, amico caro?» chiese in fine. Sputò in un occhio al vecchio costernato da tale affronto. Ed ecco il risultato: all’occhio leso un mondo di rovine sembrava, adesso, il regno di Gwyn Gwisgo, come un enorme, cupo cimitero; all’occhio sano, invece, il mondo intero sembrava luccicante e bello. «O Cristo!» 11
si lamentava il vecchio. «Come faccio ora a sapere qual è il vero volto del mondo?» «Amico, siete proprio stolto» sbuffò Gwyn Gwisgo, offrendogli uno [straccio. «Vi avevo regalato l’occasione di poter penetrare, a vostro comodo, la duplice realtà del nostro cosmo; ma voi siete soltanto un mascalzone e meritate solo un calcio in culo, perché siete uno sciocco senza merito. Andate via, signore, non mi pèrito di trattenervi ancora.» Il vecchio mulo scornato ritornò da quel somaro del proprio re, narrando l’accaduto: «Signore mio, non sono stato astuto? La mia stupidità è stata un riparo: Non credo, infatti, che Gwyn Gwisgo avesse messo in conto che un grosso e bel difetto protegge dall’incanto e dal suo effetto». Il re ruttò, annoiato, e un libro lesse. 18 - 11 - 2016
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v vi
I giocattoli di Gwyn Gwisgo
Gwyn Gwisgo, il gran signore degli elfi, fabbricava, a tempo perso, giocattoli a vapore del taglio più diverso, dragoni a molla e macchine mostruose. La fisica, il disegno e la metallurgia o l’arte del legno riempivano le sue giornate oziose, nel silenzioso mondo sempre matto di Feeria. Con zelo aveva fatto un drago d’oro a guardia del giardino, così autosufficiente che, al mattino, beveva l’acqua dalla sua cisterna, mangiava dalla ciotola il carbone, si manteneva vivo ed in pressione; in fine perlustrava l’area esterna. Gwyn Gwisgo creò anche un ragno in rame [e argento, che funzionava ad orologeria, simile in tutto a un vero e proprio insetto. A guardia della sua tesoreria lo pose, ed esso sparava ragnatele 13
di platino e titanio. Ed una donna che funzionava ad energia amorosa: più l’amavi, più si alzava la gonna, diceva ti amo ed era spiritosa. E un libro che si leggeva da solo, pieno e fitto di poesie elfiche rare, tutte rimanti in -ere, in -ire, in -are, di cinguettii sonante e lai di brolo. E un teatrino a vapore in cui gli attori erano automi in grado d’imparare la parte senza alcun aiuto umano. Sì, questi e altri giocattoli, signori, Gwyn Gwisgo era capace d’inventare, poiché era un elfo astruso, estroso e strano. 19 - 11 - 2016
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v vii
Il regno fatato
Il regno delle fate è un luogo molto strano, pieno di cose antiche, rotte o di terza mano. La sempiterna estate di cui si narra è un luogo comune umano. La verità è diversa: il regno delle fate somiglia a una brughiera vuota, squassata a morte dalla sferza di un vento vivo ed empio. Non c’è una casa intera; solo macerie instabili e cariate; non una chiesa o un tempio. Se voi dite altrimenti, attenti a ciò che dite! Le fate sono solo dei custodi delle anime svestite. Il loro regno ha un altro nome in sorte: il regno della morte. 15
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