Permutation City - Greg Egan

January 11, 2017 | Author: felicesei | Category: N/A
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Permutation City Greg Egan Traduzione: Giancarlo Carlotti

Titolo originale dell'opera: Permutation City © 1994 Greg Egan © 1998, ShaKe ISBN 88-86926-49-9

Into a mute crypt, I Can't pity our time Turn amity poetic Ciao, tiny trumpet! Manic piety tutor Tame purity tonic Up, meiotic tyrant! I taint my top cure To it, my true panic Put at my nice riot To trace impunity I tempt an autcry, I Pin my taut erotic Art to epic mutiny Can't you permit it To vite my apt ruin? My true icon: tap it Copy time, turn it; a Rite to cut my pain Atomic putty? Rien! — Trovato in un blocco d'appunti scartato nella sala comune della guardia psichiatrica del Blacktown Hospital, 6 giugno 2045.

PROLOGO [RIP, TIE, CUT TOY MAN]{1} Giugno 2045

Paul Durham aprì gli occhi, battendo le palpebre per l'inatteso chiarore nella stanza, poi si allungò pigramente per far scivolare la mano nella chiazza di luce al bordo del letto. Il pulviscolo galleggiava nella falda luminosa creata dalle fessure tra le tendine, e ogni granello si presentava al mondo come sollecitato ad apparire e subito scomparire, suscitando un ricordo di quando era bambino, un ricordo dell'ultima volta in cui aveva trovato tanto ipnotica quell'illusione: si trovava sulla soglia della cucina, la luce del pomeriggio tagliava lo spazio, polvere, farina e vapore mulinavano in quel piano di aria luminosa. Ancora frastornato dal sonno, mentre cercava di svegliarsi, di tornare lucido, di rimettere ordine nella sua vita, gli parve sensato affiancare quei due frammenti, ammirare i granelli di polvere accesi dal sole a quarant'anni di distanza e seguire lo scorrere ordinario del tempo da un secondo a quello successivo. Poi la confusione parve dileguarsi. Paul si sentiva del tutto riposato… e altrettanto riluttante a rinunciare a quello stato di benessere. Non riusciva a immaginare come mai s'era svegliato così tardi e non gli importava granché. Distese le dita della mano sulla coperta calda di sole, accarezzando l'idea di tornare a sprofondare nel sonno. Chiuse gli occhi, lasciando che la mente si fermasse… poi si riprese, improvvisamente inquieto, senza capire perché. Aveva commesso qualche sciocchezza, una follia, qualcosa che poi avrebbe rimpianto, e parecchio… ma i timori restavano confusi e cominciò a sospettare che fosse soltanto l'umore persistente di un sogno. Cercò di ricordare con chiarezza ma senza grandi aspettative: a meno di non essere catapultato allo stato di veglia direttamente da un incubo, di solito í suoi sogni erano così evanescenti. Eppure… Balzò fuori dal letto, accucciandosi sulla moquette, i pugni sugli occhi, il volto contro le ginocchia, le labbra che tremavano senza produrre alcun suono. Lo shock della comprensione era palpabile: una ferita rossastra dentro gli occhi, vivida di sangue, come un pollice schiacciato da un martello, colorata dalla medesima miscela di stupore, rabbia, umiliazione e confusione atona. Rieccolo bambino: stringeva tra le dita un chiodo, appoggiato sul legno, certo… ma solo per nascondere le sue vere intenzioni. Aveva osservato suo padre ferirsi in quel modo, e ora sapeva che gli serviva l'esperienza del dolore per considerarne il mistero. Era sicuro che ne sarebbe valsa la pena, sicuro fino al momento in cui aveva calato con decisione il martello. Si dondolò avanti e indietro, sul punto di scoppiare a ridere, ma intanto cercava di tenere sgombra la testa, in attesa che il panico scomparisse. E alla fine non c'era più, solo per essere sostituito da un pensiero semplice e perfettamente coerente: non voglio stare qua. Quel che aveva fatto era folle, e doveva rimediare, alla svelta e nel modo meno doloroso. Come poteva aver pensato di giungere a una conclusione diversa? Poi cominciò a ricordare i dettagli dei suoi preparativi. Era previsto che si sarebbe sentito a quel modo. L'aveva messo in conto. Per quanto male stesse, tutto faceva parte della successione prevedibile delle reazioni. Panico. Rincrescimento. Analisi. Accettazione. Due su quattro, sin qui tutto bene. Paul aprì gli occhi, cominciando a guardarsi attorno nella stanza. A parte qualche chiazza accecante di luce solare non schermata, tutto brillava soffuso nell'illuminazione d'ambiente: le pareti di mattoni bianchi opachi, i mobili di mogano in stile (imitazioni dei mobili in stile), persino i manifesti - Bosch, Dalí, Ernst e Giger - sembravano innocui, addomesticati. Dovunque guardasse, l'imitazione era del tutto convincente, perché tale la rendeva la traiettoria del suo sguardo. I raggi di luce ipotetica venivano ripercorsi a partire dai singoli coni e bastoncelli della sua retina simulata e proiettati nell'ambiente

virtuale per definire esattamente quanto doveva essere incluso: molti dettagli al centro del campo visivo, molti di meno verso l'esterno. Gli oggetti fuori campo non "svanivano" del tutto se influenzavano in qualche modo la luce ambientale, ma Paul sapeva che le elaborazioni sarebbero state attuate raramente oltre le rozze approssimazioni di primo livello: Il giardino delle delizie di Bosch ridotto a un valore di riflessione medio, a un singolo rettangolo grigio, dal momento che ogni dettaglio in più sarebbe stato uno spreco quando lui era di spalle. Tutto nella stanza era perfettamente definito, in un momento dato, quel tanto che serviva a illuderlo… nulla di più, nulla di meno. Da decenni era al corrente di quella tecnica, però provarla in prima persona era tutta un'altra faccenda. Resistette alla tentazione di girarsi di scatto nell'inutile tentativo di scoprire il processo in atto, ma per un attimo quella sensazione fu insostenibile, soltanto a sapere quel che avveniva ai margini del suo campo visivo. Il fatto che la sua visione della stanza rimanesse immacolata peggiorava ancora più le cose, era una fissazione paranoica irrefutabile: per quanto tu ruoti il capo alla svelta, non riuscirai nemmeno a cogliere di sfuggita quel che ti succede attorno. Tornò a chiudere gli occhi per qualche secondo. Quando li riaprì, quella sensazione gli parve meno opprimente. Sarebbe svanita senza dubbio, era uno stato mentale impossibile da sopportare a lungo. Di sicuro le altre Copie non avevano riferito nulla di simile, ma del resto nessuno di loro aveva mai fornito dati utili. Dopo aver recriminato contro i maltrattamenti e compianto la propria sorte, si erano terminati, il tutto entro i quindici minuti soggettivi dall'aver ripreso conoscenza. E questo? In cosa era diverso dalla Copia numero quattro? Più anziano di tre anni. Più testardo? Più determinato? Più disperato nell'intento di riuscire? Così aveva creduto. Se non si fosse sentito più coinvolto che mai, se non fosse stato convinto di essere finalmente preparato a vedere tutto da cima a fondo, non sarebbe mai andato avanti con la scansione. Ma adesso che "non era più" il Paul Durham in carne e ossa, che "non era più" quello che rimaneva seduto all'esterno a seguire l'intero esperimento a distanza di sicurezza, adesso tutta quella determinazione sembrava essere svanita. Cos'è che mi rende tanto sicuro di non essere ancora in carne e ossa? Gli rispose la sua risata fiacca, non potendo nemmeno prendere sul serio quell'evenienza. I suoi ricordi sembravano risalire a quando se ne stava sdraiato su una lettiga alla Clinica Landau, mentre í tecnici lo preparavano alla scansione (brutto segno, a prima vista). Ma si sentiva troppo teso, e aveva passato tanto tempo a prepararsi mentalmente a "questo" che forse s'era dimenticato di essere tornato a casa, ancora annebbiato per l'anestesia, sprofondato nel letto a sognare… Borbottò la password "Abulafia"… e anche l'ultima flebile speranza svanì quando spuntò dal nulla un quadrato nero su bianco, largo un metro, coperto di icone. Diede una botta irritata alla finestra di interfaccia, che gli oppose resistenza, quasi fosse solida, e quasi fosse solido anche lui. Non gli serviva altro per convincerlo, ma ugualmente si afferrò al bordo superiore per sollevarsi da terra. Se ne pentì subito: il grappolo realistico di effetti di sforzo, compresa la fitta al gomito destro, lo inchiodò al suo "corpo", lo incatenò a quel "posto". Era esattamente quel che avrebbe dovuto evitare. Si calò a terra con un grugnito. Bra la Copia. Qualunque cosa gli suggerissero i suoi ricordi ereditati, "non era più" umano, non avrebbe mai più abitato il suo corpo reale. Mai più abitato il mondo reale… a meno che il suo originale così poco generoso non raccattasse i soldi per un robot di telepresenza, nel qual caso poteva almeno passare il tempo a caracollare in giro stranito, cercando di raccapezzarsi in quell'incessante sfrecciare di attività umana. Il suo encefalomodello funzionava diciassette volte meno velocemente di quello reale. Già, certo, se teneva duro la tecnologia avrebbe fatto passi avanti, per lui diciassette volte più velocemente che non per l'originale. E intanto? Sarebbe marcito in quella prigione, saltando in mezzo ai cerchi, portando avanti le preziose ricerche di Durham mentre quell'uomo viveva nel

suo appartamento, spendeva i suoi soldi, andava a letto con Elizabeth. Paul si appoggiò alla superficie fresca dell'interfaccia, perplesso, in preda alle vertigini, le preziose ricerche di chi? L'aveva tanto desiderato, e si era fatto tutto questo con assoluta consapevolezza. Nessuno l'aveva costretto, nessuno l'aveva ingannato. Conosceva alla perfezione le controindicazioni, ma aveva sperato di possedere la forza di volontà sufficiente (almeno questa volta) per superarle: dedicarsi come un certosino allo scopo per cui era stato fatto nascere, lieto di sapere che l'altro suo sé era libero come non mai. A ripensarci adesso, quella speranza sembrava ridicola. Sì, aveva preso liberamente quella decisione, e per la quinta volta, ma adesso era impietosamente chiaro che non aveva mai considerato a sufficienza le conseguenze. Per tutto il tempo, passato a "prepararsi" a divenire una Copia, era stato spinto innanzitutto dagli esiti che sarebbero derivati all'uomo rimasto in carne e ossa. Si era convinto che in fondo erano le prove per "arrangiarsi con una libertà di seconda mano", e non c'era dubbio che avesse sinceramente lottato proprio per quello, ma traeva anche un sollievo segreto nel sapere che lui sarebbe "rimasto" sempre all'esterno, che il suo futuro comprendeva comunque una versione senza nulla da temere. E finché si fosse aggrappato a quella lieta verità, non sarebbe mai riuscito a mandar giù il destino della Copia. La gente reagiva male quando si risvegliava come Copia. Paul conosceva le statistiche. Il novantotto per cento delle Copie realizzate apparteneva a persone molto anziane e a malati terminali. Gente per cui costituiva l'estrema risorsa, e molti di loro avevano già speso milioni nell'esaurire, una dopo l'altra, tutte le alternative mediche tradizionali, e alcuni erano persino morti nel periodo che andava dalla scansione all'entrata in funzione della Copia vera e propria. Ciononostante, al risveglio il quindici per cento decideva di non farcela a sopportare quella vita, di solito nel giro di poche ore. E quelli che erano giovani e sani, ma purtroppo molto curiosi, quelli che sapevano di avere all'esterno un corpo perfettamente integro, vivo e respirante? In quel caso il tasso di rinunce era del cento per cento. Paul rimase nella stanza, imprecando sottovoce per parecchi minuti, perfettamente consapevole del corso del tempo. Non si sentiva ancora pronto, ma sapeva che più le altre Copie avevano aspettato e più era stata, o sembrata, traumatica quella decisione. Studiò l'interfaccia fluttuante. La sua definizione onirica, allucinatoria aiutava, almeno un po'. Si ricordava raramente i suoi sogni, e non si sarebbe ricordato nemmeno questo, ma non c'era da fare tante tragedie. Si accorse all'improvviso di essere ancora nudo. La consuetudine, se non il moralistico decoro, lo spingeva a mettersi qualcosa addosso, ma resistette all'impulso. Ancora un paio di azioni assolutamente innocenti, assolutamente comuni come quella, e si sarebbe ritrovato a prendersi sul serio, a credersi reale, rendendo tutto ancor più difficile. Attraversata la stanza, afferrò per un paio di volte il freddo metallo della maniglia della porta, ma riuscì a trattenersi dal girarla. Non serviva a niente iniziare a esplorare quel mondo. Però non ce la fece a non guardare dalla finestra. Il panorama della parte settentrionale di Sidney era perfetto: ogni edificio, ogni ciclista, ogni albero appariva del tutto convincente. Ma non era un gran risultato: si trattava di una registrazione, non di una simulazione. Essenzialmente fotografico - aggiungi o togli qualche ritocco e riempitivo computerizzato - e totalmente predeterminato. Per abbassare ulteriormente i costi, solo una sua piccola parte era "fisicamente" accessibile. Poteva vedere il porto in lontananza, ma sapeva che se fosse andato a fare una passeggiata sul bordo dell'acqua… Basta. Finiamola. Paul tornò all'interfaccia, premette un'icona del menu, un'utility che generò un'altra finestra davanti alla prima. La funzione che cercava era sepolta a parecchi menu di distanza ma sapeva con esattezza dove cercarla. L'aveva visto fare troppe volte dall'esterno per poterlo dimenticare. Alla fine raggiunse il menu dell'help, che prevedeva una bella icona di un personaggio da fumetto

appeso a un paracadute. Sloggiare, così lo chiamavano tutti, però lui non trovava affatto che fosse un termine nauseabondo. Non si può commettere un "suicidio" se non si è neppure umani sotto l'aspetto legale e formale. Il fatto che l'opzione di fuga fosse stata resa obbligatoria non aveva nulla a che vedere con sfumature tanto problematiche come i "diritti" della Copia: quella richiesta nasceva esclusivamente dalla ratifica di standard internazionali di programmazione chiari e puramente tecnici. Paul premette l'icona, che entrò in azione recitando una filastrocca di avvertimento. Le prestò scarsa attenzione. Poi l'icona chiese: "Sei assolutamente sicuro di voler chiudere questa Copia di Paul Durham?" Non significa nulla. Il programma A chiede al programma B di confermare la sua richiesta di terminazione regolare. È solo uno scambio di pacchetti di dati. "Sì, sono sicuro." Gli spuntò accanto ai piedi una scatola metallica dipinta di rosso. L'aprì, ne tolse il paracadute e se lo infilò. Poi chiuse gli occhi e disse: "Ascoltami. Stammi a sentire! Quante volte te lo dovrò ripetere? Io salterò l'angoscia personale. Questo l'hai già sentito dire, e l'hai già ignorato. Non conta come mi sento. Ma, quando la smetterai di perdere tempo, soldi, energie, quando la smetterai di buttar via la tua vita, in qualcosa che non hai la forza di affrontare fino in fondo?" Paul esitò, cercando di immedesimarsi nel suo originale, di ascoltare quelle frasi, e quasi pianse per la frustrazione. Non sapeva cosa poter dire che suonasse più efficace. Aveva scartato le testimonianze delle sue Copie precedenti, non potendo accettare le loro pretese di conoscere meglio di lui la sua mente. Solo perché erano crollati scegliendo di sloggiare, chi erano loro per affermare che non avrebbe mai creato una Copia che potesse compiere scelte differenti? Doveva solo rinsaldare la sua decisione, e riprovare. Scosse il capo. "Sono passati dieci anni e non è cambiato niente. Che hai di sbagliato? Sei sempre sinceramente convinto di essere abbastanza coraggioso, o abbastanza pazzo, da fare da cavia a te stesso? ho credi davvero?" Si interruppe di nuovo, ma solo per un istante. Non si aspettava una risposta. Con la prima Copia aveva litigato a lungo e con rabbia, ma in seguito non aveva più trovato il coraggio per cose del genere. "Beh, ho una notizia per te. Non lo credi." Con le palpebre ancora abbassate, afferrò la leva di sganciamento. Non sono nulla, solo un sogno, un sogno presto dimenticato. Aveva bisogno di tagliarsi le unghie, che adesso gli affondavano con dolore nel palmo della mano. Aveva mai temuto, in sogno, l'estinzione regalata dal risveglio? Forse, ma un sogno non era la vita. Se poteva "rivendicare" il suo corpo, "rivendicare" il suo mondo soltanto svegliandosi e dimenticando, se era l'unico modo… Tirò la leva. Dopo qualche secondo si lasciò sfuggire un singhiozzo soffocato, un rumore più di smarrimento che non dettato dalle emozioni, e aprì gli occhi. La leva era ancora nella sua mano. Fissò stolido questa metafora del… di cosa? Di un bug nel software di terminazione? Di un difetto dell'hardware? Sentendosi davvero all'interno di un sogno (finalmente), si slacciò il paracadute per togliersi il fagotto ripiegato con diligenza. All'interno non trovò l'illusione della seta, o del kevlar, o di quel che si dovrebbe trovare di solito. Soltanto un foglietto. Un biglietto per lui. Caro Paul,

la sera successiva al completamento della scansione ho riguardato l'intero studio preparatorio del progetto, facendo un esame di coscienza approfondito. E sono giunto alla conclusione che, fino all'ultimo momento, il mio comportamento è stato contaminato dall'ambiguità. Col senno di poi, ho capito quanto fossero sciocchi i miei scrupoli, ma per te ormai era troppo tardi. Non potevo permettermi di perderti, e farmi scansionare di nuovo. Allora che fare? Questo: ho ritardato per un po' il tuo risveglio, e intanto ho rintracciato qualcuno che potesse apportare dei cambiamenti alle funzioni dell'ambiente virtuale. So che non è del tutto legale, ma capisci quanto sia importante per me che questa volta tu ce la faccia… che noi ce la facciamo. Sono sicuro che capirai, e che accetterai questa situazione con dignità e con calma. I miei più sinceri saluti. Paul Crollò in ginocchio, stringendo tra le dita il biglietto che continuava a fissare incredulo. Non posso aver fatto una cosa del genere. Non posso essere stato tanto crudele. O no? Non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere a un altro, di questo era convinto. Non era un mostro, un torturatore, un sadico. E non avrebbe mai proseguito senza l'opzione di uscita come estrema risorsa. Tra le sue ridicole fantasie di stoicismo e la scappatoia che aiutava a restar sano di mente, cioè il riferirsi soltanto alla versione in carne e ossa, tutta la sua filosofia si riduceva a un: se butta male, posso sempre darci un taglio. Ma quanto a creare una Copia e poi sottrarle la possibilità di scappare, una volta che il futuro di quella non era più il suo futuro, e quindi niente di cui lui potesse aver timore… e razionalizzare questo dirottamento come qualcosa un pelino più grave di un gesto eccessivo di autocontrollo… Suonava così vero che piegò la testa per la vergogna. Poi lasciò cadere il biglietto e urlò con tutta la potenza dei suoi polmoni inesistenti: "Durham! Testa di cazzo! " Paul meditò se cominciare a distruggere i mobili. Invece si fece una lunga doccia calda. In parte per calmarsi, in parte come piccola ritorsione: venti minuti virtuali di calcoli idrodinamici gratuiti avrebbero scocciato oltremodo quell'avaro. Esaminò le gocce e i rivoli sulla sua pelle, cercando qualche minima ma percettibile anomalia al confine tra il corpo, elaborato fino alla risoluzione subcellulare, e il resto della simulazione, modellata in modo molto più approssimativo. Se c'erano delle discrepanze, però, erano troppo fini da scorgere. Si vestì e fece colazione decisamente in ritardo, infischiandosene di quella resa alla normalità. Che cosa doveva fare? Uno sciopero della fame? Andarsene in giro nudo, imbrattato di escrementi? Aveva una fame da lupo, essendo digiuno da prima della scansione. La cucina era fornita di una riserva letteralmente inesauribile di provviste. Il müsli sapeva esattamente di müsli, il pane tostato esattamente di pane tostato, ma era evidente che di un trucco si trattava sia per il gusto sia per l'aroma. Gli effetti dettagliati della masticazione e l'azione della saliva erano simulati da un insieme di regole empiriche, non generate da principi basilari: non c'erano molecole individuali che si staccavano dal cibo e venivano smantellate dagli enzimi, soltanto una serie approssimativa di valori di concentrazione nutritiva in evoluzione, associati a ogni "pacchetto" microscopico di saliva. Alla fine tutto ciò avrebbe portato a incrementi plausibili nel tasso di aminoacidi, di vari carboidrati e di altre sostanze fino agli umili ioni di sodio e cloro, in "pacchetti" simili di succhi gastrici, che a loro volta avrebbero agito da input per i modelli delle sue cellule dei villi intestinali. Poi, da lì, nel sangue.

La produzione di feci e urina era un optional - alcune Copie desideravano conservare ogni aspetto possibile della vita fisica - ma Paul aveva preferito farne a meno. (A proposito di imbrattarsi di escrementi.) I suoi rifiuti metabolici venivano fatti sparire per magia molto prima di poter raggiungere la vescica o il retto. Ignorati, annichiliti passivamente. In questo posto per distruggere una cosa bastava scordarsene. Il caffè lo eccitava, ma lo faceva anche sentire in qualche modo distaccato, come sempre. I neuroni erano modellati fin nei minimi particolari. Qualsiasi recettore alla caffeina e relativi metaboliti, presente in ogni singolo neurone del suo cervello al momento della scansione, era stato incorporato dal suo encefalomodello, in forma semplificata ma equivalente dal punto di vista funzionale. E la realtà fisica sottostante? Un metro cubo di cristallo ottico silente e immoto, configurato come un grappolo di oltre un miliardo di processori individuali, una tra le centinaia di unità identiche in un caveau sotterraneo… da qualche parte sul pianeta. Paul non sapeva nemmeno in che città si trovasse adesso: la scansione era stata realizzata a Sidney, ma il perfezionamento del modello doveva essere stato appaltato dal nodo locale al miglior offerente del momento. Prese dal cassetto della cucina un coltello da frutta affilato per praticarsi un taglio superficiale sull'avambraccio sinistro, poi lasciò colare qualche goccia di sangue nel lavello, domandandosi quale programma fosse in grado di rappresentare quella roba. Le emazie sarebbero "morte" lentamente? Oppure si erano già arrese al modello fisiogenerale extrasomatico, di gran lunga troppo poco sofisticato per rappresentarle, per non parlare poi del tenerle "in vita"? Se avesse provato a tagliarsi le vene dei polsi, a che punto sarebbe intervenuto Durham? Osservò il suo riflesso distorto sulla lama. Con molta probabilità, il suo originale l'avrebbe lasciato crepare, per far poi ripartire da zero l'intero modello, non includendo però il coltello da cucina. Aveva ripercorso centinaia di volte le Copie precedenti, cercando invano di scovare qualche espediente efficace, qualche distrazione che impedisse di aver voglia di sloggiare. Era un segno di testardaggine e niente di più l'aver impiegato tanto tempo ad ammettere la sua sconfitta, riscrivendo le regole. Paul posò il coltello. Non voleva tentare quell'esperimento. Non ancora. All'esterno del suo appartamento, tutto era alquanto convincente: l'architettura dell'edificio era riprodotta con discreta fedeltà, fino alle brutte piante di plastica in vaso, ma ogni corridoio era deserto, e ogni porta che dava sugli altri appartamenti sbarrata, nascondendo il nulla letterale. Diede un calcio a una porta, con tutta la forza che poteva. Il legno parve cedere appena, ma quando esaminò la superficie la vernice non sembrava nemmeno scalfita. Il modello non avrebbe ammesso nessun danno lì dentro, e le leggi della fisica potevano anche andare a farsi fottere. Per strada c'erano pedoni e ciclisti, tutte banali registrazioni. Erano più solidi che spettrali, però era uno strano genere di solidità. Inarrestabili, impossibilitati a deviare, sembravano robot infinitamente forti, infinitamente distaccati. Paul si prese un passaggio provvisorio sulla schiena di una vecchia, che se lo portò in giro noncurante. I vestiti, la pelle, persino i capelli dell'anziana offrivano la medesima sensazione: duri come metallo. Però non erano freddi. Neutri, ecco. La strada doveva servire solo come carta da parati tridimensionale. Quando le Copie interagivano tra di loro, spesso utilizzavano ambienti registrati di bassa qualità, occupati da folle puramente decorative. Piazze, parchi, caffè all'aria aperta, tutto molto rassicurante, non v'è dubbio, quando stai combattendo contro isolamento e claustrofobia. Le Copie potevano ricevere visitatori esterni realistici soltanto se avevano amici e parenti disposti a rallentare i loro processi mentali di diciassette volte. Quasi tutti i parenti ligi al dovere preferivano scambiarsi videoregistrazioni. Chi mai desiderava passare un pomeriggio col nonno, quando ti bruciava una mezza settimana di vita? Paul aveva cercato di chiamare Elizabeth dal terminale dello studio che gli doveva garantire accesso al mondo esterno tramite le reti informatiche di comunicazione. Però, come previsto, Durham aveva sabotato anche quello.

Quando raggiunse l'angolo, l'illusione ottica della città continuò in lontananza, ma non appena cercò di muoversi lungo la strada, il selciato di cemento sotto i suoi piedi iniziò a comportarsi come un tappeto rotante, facendolo scivolare all'indietro alla velocità esatta che lo manteneva fermo sul posto qualunque andatura adottasse. Indietreggiò di qualche passo per cercare di saltare oltre la zona interessata, ma la sua velocità orizzontale si dissipò, senza la minima pretesa di giustificazione "fisica", facendolo atterrare esattamente nel mezzo del tappeto rotante. Ovviamente, la gente della registrazione riusciva a varcare quel confine con naturale facilità. Un uomo puntò dritto verso di lui. Paul non si fece da parte e si trovò proiettato in una regione improvvisamente vischiosa, l'aria tutt'intorno diventò rigida in modo quasi doloroso e prima che lui riuscisse a scivolare di lato verso la libertà. Sospettava che riuscire a infrangere quella barriera lo potesse in un certo senso "liberare", ma sapeva anche che era assurdo: pur riuscendo a trovare una falla nel programma che gli permettesse di passare, avrebbe tutt'al più guadagnato dei dintorni sempre meno realistici. La registrazione poteva contenere informazioni complete solo per punti di vista interni a una zona data e definita; "evadere" era una regione in cui la città sarebbe stata gremita di distorsioni e omissioni, per finire in una dissolvenza in nero. Si ritrasse dall'angolo, scoraggiato e insieme divertito. Cosa aveva sperato di scoprire? Una porta al confine del modello, con su scritto Uscita, per accedere alla realtà? Delle scale che scendessero metaforicamente verso qualche rappresentazione sul tipo "locale delle caldaie nelle fondamenta di quel mondo", dove poter far scattare un interruttore e far saltare tutto per aria? Non aveva il diritto di lamentarsi del luogo, era esattamente quel che aveva ordinato lui. E aveva anche programmato un magnifico giorno di primavera. Paul chiuse gli occhi e rivolse il viso al sole. Nonostante tutto, era difficile non trovare conforto nel calore che gli sfiorava la pelle. Stirò i muscoli delle braccia, delle spalle, della schiena… e gli parve di estendersi da "sé", nel suo cranio virtuale, verso tutta la sua carne matematica, imprimendo significato nei dati nebulosi, legando il tutto, accampando qualche genere di diritto. Sentì il fremito di un'erezione. Quell'esistenza iniziava a sedurlo. Si permise di cedere per un attimo a una sensazione viscerale di identità che spazzò via tutte quelle pallide immagini mentali di processori ottici, tutte le sue riflessioni astratte sulle approssimazioni e le scorciatoie del programma. Questo corpo non voleva evaporare. Questo corpo non voleva fuggire. Non importava granché che altrove ci fosse un'altra sua versione, "più reale". Voleva mantenere la propria integrità. Voleva durare. E se questa era soltanto un'imitazione della vita, c'era sempre una possibilità di miglioramento. Forse sarebbe riuscito a convincere Durham a rimettere in funzione gli strumenti di comunicazione, sarebbe già stato qualcosa. E quando si fosse annoiato di librerie, sistemi d'informazione e database? E i fantasmi dei ricchi vegliardi, se mai qualcuno di loro si fosse degnato di incontrarlo? Poteva sempre farsi sospendere fino a quando la velocità di elaborazione dati fosse riuscita a eguagliare la realtà, e allora la gente sarebbe stata in grado di fargli visita senza rallentamenti, quando sarebbe valsa la pena di abitare dentro i robot di telepresenza. Aprì gli occhi, rabbrividendo nella calura. Non sapeva più quel che voleva, la possibilità di sloggiare, di dichiarare finito il brutto sogno, oppure la possibilità dell'immortalità virtuale. Però doveva accettare che c'era solo un modo per fare sua quella scelta. Disse sottovoce: "Non ti farò da cavia. Collaboratore, questo sì. Partner alla pari. Se vuoi la mia collaborazione, allora dovrai trattarmi come un collega, non come uno strumento. Mi hai sentito?" Di fronte a lui si aprì una finestra. Rimase scosso da quello spettacolo, non tanto per il suo gemello prevedibilmente pieno di sé, quanto per la stanza che gli stava alle spalle. Era solo il suo studio, e del resto s'era aggirato impassibile fino a pochi minuti prima nel suo equivalente virtuale. Però questa era la prima occhiata che riusciva a gettare sul mondo reale, in tempo reale. Si avvicinò alla finestra nella speranza di scorgere se c'era qualcun altro nella stanza. (Elizabeth?) Ma l'immagine era bidimensionale,

e la prospettiva rimase immutata mentre si accostava. Il Durham in carne e ossa emise un breve squittio stridulo, poi attese con palese impazienza mentre una seconda finestra più piccola forniva a Paul una replica rallentata, più bassa di quattro ottave. "Certo che ho capito! Siamo collaboratori. Giustissimo. Uguali. Non desidero altro. Cerchiamo le stesse cose, no? Abbiamo tutti e due bisogno di trovare delle risposte alle stesse domande." Paul stava già per ricredersi. "Forse." Ma Durham non era interessato ai suoi scrupoli. Squit. "Lo sai bene! Lo aspettiamo da dieci anni… e adesso sta finalmente per accadere. E possiamo cominciare appena sei pronto."

PARTE PRIMA LA CONFIGURAZIONE GIARDINO DELL'EDEN

1 [REMIT NOT PAUCITY] Novembre 2050

Erano sei giorni di fila che Maria Deluca passava accanto alla buca puzzolente di Pyrmont Bridge Road, ogni volta certa, mentre si avvicinava, di essere accolta dalla visione rassicurante di una squadra all'opera per riparare i danni. Sapeva bene che quell'anno non c'erano soldi per i lavori stradali e le riparazioni fognarie, ma un collettore esploso costituiva un grave rischio sanitario, non poteva credere che lo ignorassero così a lungo. Il settimo giorno il puzzo era tale, già da mezzo chilometro di distanza, da indurla a deviare per una strada laterale, decisa ad adottare un tragitto alternativo. Quella parte della Pyrmont era uno spettacolo desolante. Non tutti i magazzini erano vuoti, non tutte le fabbriche erano state abbandonate ma tutti sfoggiavano la medesima aria negletta, la stessa vernice scrostata e i mattoni scheggiati. Mezza dozzina di isolati più a ovest svoltò di nuovo, trovandosi davanti una visione di giardini in fiore, statue di marmo, fontane e boschetti di ulivi che si estendevano a perdita d'occhio sotto un cielo azzurro sgombro da nubi. Maria prese a pedalare più velocemente, senza riflettere, quasi illudendosi per qualche secondo di essersi imbattuta in una specie di parco, un segreto insperabilmente sopravvissuto in quell'angolo disastrato della città. Poi, mentre l'illusione svaniva, squarciata dalla pura e semplice implausibilità quanto dall'evidenza di alcuni dettagli, Maria continuò a pedalare ostinata, come a cercare di far sparire le imperfezioni e le contraddizioni in una macchia confusa. Frenò appena in tempo, salendo sullo stretto marciapiede in fondo al vicolo. La ruota anteriore della bicicletta si fermò a pochi centimetri dalla parete del magazzino. Da così vicino il murale era tutt'altro che impressionante, le pennellate si distinguevano con chiarezza, la prospettiva era evidentemente sfalsata. Maria fece marcia indietro, e non dovette arretrare di molto per scoprire come mai si era fatta ingannare. A una distanza di una ventina di metri il cielo dipinto sembrava fondersi di colpo con quello vero. Con uno sforzo consapevole riuscì a far riapparire il bordo, ma era dura impedire a quella minima differenza di tonalità di sfumare davanti ai suoi stessi occhi, come se qualche sottosistema sepolto nella corteccia ottica avesse deciso di dare scarso peso alla nozione improbabile di una parete azzurro cielo e stesse collaborando attivamente all'inganno. Ancora più indietro, l'erba e le statue iniziarono a perdere la loro bidimensionalità, il loro aspetto artificiale e, all'altezza dell'angolo in cui Maria aveva svoltato, ogni elemento della composizione tornava al suo posto, il vialetto centrale del murale sembrava convergere verso il medesimo punto di fuga della strada interrotta. Trovato il punto d'osservazione ottimale, Maria rimase lì per un pezzo, appoggiata alla sua bici. Il sudore sulla nuca si raffreddò nella brezza leggera, ma fu un momento, poi il sole del mattino ricominciò a picchiare. Era uno spettacolo emozionante, e la confortava pensare che gli artisti locali si fossero sforzati così tanto per ammorbidire il grigiore del quartiere. Eppure Maria non poteva fare a meno di sentirsi ingannata. Non le importava di averci creduto. Quel che le bruciava era il fatto di non potersi più ingannare. Poteva star lì ad ammirare la maestria dell'illusione per tutto il tempo che le pareva, ma nulla le avrebbe restituito quell'attimo di esaltazione provato nell'essere presa in giro. Se ne andò. A casa, Maria tolse le cibarie dalla sacca, poi sollevò la bici, agganciandola al supporto che pendeva dal soffitto del salotto. L'edificio a schiera, vecchio di centoquarant'anni, era costruito a forma di scatola: alto due piani, ma largo appena da contenere una scala. In origine faceva parte di una schiera di otto case.

Le prime quattro erano state sventrate e ristrutturate in uffici da un'équipe di architetti, le altre tre erano state demolite a cavallo dell'ultimo secolo per far spazio a una strada mai costruita. L'unico edificio sopravvissuto era stato risparmiato per volontà di una stravagante normativa sul patrimonio storico, e Maria l'aveva comprato a un quarto di quel che costavano gli appartamenti moderni più a buon mercato. Le piacevano quelle proporzioni strambe, ed era certa che con più spazio a disposizione non si sarebbe sentita altrettanto a proprio agio. Aveva ben chiara nella mente l'immagine della pianta e degli interni della casa quanto ce l'aveva del proprio corpo, e non le sembrava di aver mai lasciato fuori posto anche il più piccolo oggetto. Non voleva condividere la sua abitazione con nessuno, eppure ad averla tutta per sé le pareva di compromettere il giusto equilibrio tra bisogni territoriali e organizzativi. Era convinta che le case esistessero per essere considerate dei veicoli, statici da un punto di vista fisico ma mobili per logica. E comunque, se paragonata a una capsula spaziale monoposto, le dimensioni della sua "scatola" erano più che abbondanti. Al piano di sopra, nella camera da letto che le faceva anche da ufficio, Maria accese il terminale per dare un'occhiata al sommario dei ventuno messaggi pervenuti dall'ultima volta che aveva scaricato la posta. Tutti erano etichettati come "spazzatura", non c'era niente da persone che conosceva, e niente che somigliasse anche lontanamente a un'offerta di lavoro retribuito. Occhio di cammello, il suo programma di selezione, aveva identificato sette richieste di donazione da enti di beneficenza (tutte cause nobilissime, ma Maria aveva fortificato il proprio cuore), cinque inviti a partecipare a lotterie e competizioni, sei cataloghi al dettaglio (e tutti e sei si proponevano come soluzioni modellate sulla sua personalità e sulle sue "attuali esigenze di vita", ma Occhio di cammello ne aveva scandagliato i contenuti senza trovare niente di interessante) e tre interattivi. La posta audiovisiva "muta" era tutta in formati standard trasparenti, ma gli interattivi erano programmi eseguibili, un codice macchina con dati crittati di brutto, progettati volutamente perché fosse più facile per un umano comunicare che non esaminarli e sunteggiarli per un programma di selezione. Occhio di cammello aveva passato tutti e tre gli interattivi (su una macchina virtuale a doppio vaccino, una simulazione di computer che faceva passare una simulazione di computer) cercando di indurli a mostrarsi come avrebbero fatto dinanzi alla propria destinataria: Maria. Due programmi di vendita (fondi pensione e assicurazione sanitaria) c'erano cascati, ma il terzo era riuscito a dedurre il vero ambiente chiudendosi a riccio prima di rivelare qualsiasi cosa. In teoria, per Occhio di cammello era comunque possibile analizzare il programma e scoprire cosa contenesse, se anche fosse riuscito a eludere la selezione, ma in pratica gli ci sarebbero volute delle settimane. La scelta, perciò, consisteva nel cestinarlo alla cieca o ascoltare di persona. Maria avviò l'interattivo. Sul terminale comparve il viso di un uomo che la guardò negli occhi e sorrise cordialmente, e Maria si accorse con stupore di quanto "lui" somigliasse ad Aden. Era sufficiente a scatenare una scintilla di comprensione che poi la propria maschera preparata per Occhio di cammello avrebbe nascosto? Provò una sensazione di irritazione mista ad ammirazione sconsolata. Non aveva mai vissuto con Aden, ma di sicuro le agenzie di infoanalisi collegate all'utilizzo di carte di credito nei ristoranti o altro riuscivano a individuare anche le relazioni che non implicavano la convivenza. Da decenni, ormai, si ricercavano i collegamenti utili tra consumatori, ma usufruire dei dati in quel modo, come test di realtà, era una novità assoluta. La réclame pubblicitaria, convinta a ragione di ritrovarsi faccia a faccia con un essere umano, attaccò la solita solfa che si era rifiutata di cantilenare al suo delegato digitale. "Maria, so che il tuo tempo è prezioso, ma spero che tu abbia qualche secondo per ascoltarmi." Si interruppe per un istante, per farle comprendere che quel silenzio era il surrogato di un assenso. "So anche quanto tu sia intelligente e perspicace, una donna che non ha il minimo interesse per le superstizioni confuse e irrazionali del passato, per le favolette che hanno consolato l'umanità durante la sua infanzia." Maria si domandò a cosa volesse arrivare. L'interattivo riconobbe nella sua espressione un minimo interesse, visto che lei non

s'era premurata di nascondersi dietro alcun filtro, e si precipitò a trovare un aggancio. "Però nessuna persona realmente intelligente scarterebbe un'idea senza prendersi la briga di valutarla, con scetticismo ma anche con giustizia, e qui alla Chiesa del Dio che non fa differenze…" Maria puntò due dita contro l'interattivo, che si spense subito. Si chiese se poteva essere stata sua madre a metterle la Chiesa alle calcagna, ma era improbabile. Dovevano aver bersagliato in automatico la famiglia del nuovo membro. Se gliel'avessero chiesto direttamente, Francesca avrebbe risposto che perdevano tempo e basta. Maria chiamò Occhio di cammello per dirgli: "Aggiornami la maschera perché reagisca come ho fatto durante quello scambio di battute". Seguì una breve pausa. Maria immaginò i parametri di potenziamento sinaptico manipolati nella rete neurale della maschera, mentre l'algoritmo di addestramento andava a caccia dei valori che garantissero la risposta richiesta. Pensò: se vado avanti così, la maschera finirà per somigliarmi come una Copia in piena regola. E che senso ha risparmiarsi dal disagio di parlare con la posta pubblicitaria se non lo fai? Era un concetto assai sgradevole, ma le maschere erano meno sofisticate delle Copie di alcuni ordini di grandezza, avevano tanti neuroni quanto un pesce rosso, organizzati in maniera decisamente poco umana. Preoccuparsi della loro "esperienza" era ridicolo quanto sentirsi in colpa per l'eliminazione della posta spazzatura. Occhio di cammello comunicò: "Fatto". Erano solo le 8:15. Aveva tutta la giornata davanti, che prometteva solo bollette. Senza più un lavoro a contratto da due mesi, Maria aveva scritto una mezza dozzina di pezzi di software di consumo, più che altro degli upgrade di sorveglianza domestica, teoricamente fin troppo richiesti. Fino a quel momento non ne aveva venduto nemmeno uno. Qualche migliaio di persone aveva letto la voce in catalogo, ma nessuno s'era deciso a scaricarla. La prospettiva di imbarcarsi in un altro progetto similare non era del tutto elettrizzante, ma non aveva quasi alternative. E una volta passata la recessione, appena la gente avrebbe ricominciato a comprare, il suo sarebbe stato tempo ben speso. Però prima doveva tirarsi su di morale. Se avesse lavorato in Autoverso anche solo per una mezz'oretta, fino alle nove al massimo, dopo sarebbe stata in grado di affrontare il resto della giornata. Ma per una volta poteva tentare di affrontare il resto della giornata senza rovinarsi. L'Autoverso era solo uno spreco di denaro, oltre che di tempo, un hobby che avrebbe potuto permettersi solo se le cose le fossero andate meglio, ma adesso, così come stava, era un vizio e basta. Maria mise fine alla sua indecisione nel solito modo. Si attaccò al suo conto Joint Supercomputer Network, pagando una tassa di cinquanta dollari per il privilegio che adesso doveva mettere a profitto. Si infilò i dataguanti e premette un'icona sullo schermo piatto del terminale, una rappresentazione schematica di un cubo. Lo spazio tridimensionale di fronte allo schermo si animò e i suoi bordi furono evidenziati da una fine rete olografica. Per un secondo le parve di aver affondato la mano in una specie di gorgo invisibile: i campi magnetici afferrarono il guanto torcendolo, mentre le scariche di avvio tiravano a caso le bobine di ogni articolazione, fin quando i circuiti elettronici raggiunsero l'equilibrio e un messaggio lampeggiò nel bel mezzo dello spazio di lavoro: Adesso puoi usare i guanti. Maria premette un'altra icona, una vampata contrassegnata come Fiat. L'unico effetto visibile fu la comparsa di una piccola finestra di menu in basso, eppure, per il gruppo di programmi che aveva attivato, il cubo di aria trasparente di fronte al terminale corrispondeva a un piccolo universo vuoto. Maria richiamò una piccola molecola di nutrosio, rappresentata come un classico modellino di palle e tubi, poi le impartì una leggera rotazione con un colpo dell'indice guantato. I vertici dell'anello esagonale corrugato zigzagavano sopra e sotto il piano medio della molecola. Uno dei vertici era un atomo azzurro bivalente, legato ai suoi vicini soltanto all'interno dell'anello, gli altri cinque erano tutti dei verdi tetravalenti, a cui restavano due valenze libere per altri legami. Ogni verde era unito a un piccolo rosso monovalente, sopra se il vertice era sollevato, sotto se era abbassato, e quattro facevano spuntare anche

dei brevi aghi orizzontali, costituiti da un azzurro e da un rosso che si allontanavano dall'anello. Il quinto verde tratteneva invece un gruppo di atomi: un verde con due rossi e il proprio ago rosso-blu. Il software di visualizzazione presentava la molecola come discretamente solida, mettendo in conto anche gli effetti della luce ambientale. Maria la guardò ruotare sulla scrivania, ammirandone le forme non del tutto simmetriche, pensando che un chimico della realtà, dopo averci dato un'occhiata, avrebbe commentato: Glucosio. Il verde è il carbonio, l'azzurro l'ossigeno, il rosso l'idrogeno… no? No. Sarebbero rimasti a guardare per un po'. Si sarebbero infilati i guanti per palpare ben bene l'impostore, avrebbero arraffato un goniometro dalla scatola degli strumenti per misurare qualche angolo, invocato tavole delle energie di formazione dei legami e modi vibrazionali, forse avrebbero chiesto perfino di vedere gli spettri di risonanza magnetica nucleare (non disponibili o, per dirla in modo meno evasivo, non applicabili). Alla fine, mentre albeggiava in loro la comprensione della bestemmia, avrebbero tolto le mani dal macchinario infernale, per schizzare fuori dalla stanza urlando: "C'è solo la tavola periodica di Mendeleev! Esiste solo la tavola periodica di Mendeleev!". L'Autoverso era un universo "giocattolo", un modello computerizzato che obbediva a proprie "leggi fisiche" semplificate, leggi molto più facili da affrontare matematicamente delle equazioni della meccanica quantistica del mondo reale. In questo universo stilizzato potevano esistere gli atomi, ma erano un tantino differenti dalle loro controparti reali. L'Autoverso non era simulazione fedele del mondo reale più di quanto il gioco degli scacchi lo fosse della guerra medievale. Però, agli occhi di molti chimici della realtà, era molto più insidioso degli scacchi. La falsa chimica che conteneva era sin troppo ricca, complessa, seducente. Maria allungò di nuovo le mani nello spazio di lavoro per fermare la rotazione della molecola e staccare con destrezza sia il singolo rosso che l'ago rosso-blu da uno dei verdi, quindi li riattaccò, scambiati, in modo che adesso puntassero verso l'alto. Il feedback tattile e di forza dei guanti, l'immagine al laser della molecola e i fiochi click che potevano essere rumore di plastica su plastica mentre sistemava al loro posto gli atomi - si combinarono a creare l'impressione evidente e convincente di manipolare un oggetto tangibile costituito di sfere e bastoni solidi. Era facile lavorare col modello virtuale palla-e-tubo, ma quel comportamento placido tra le sue mani non aveva nulla a che vedere con la fisica dell'Autoverso, temporaneamente sospesa. Solo quando lei allentava la presa sulla molecola, a questa era concesso di esprimere la sua dinamica, oscillando pazzamente mentre gli scossoni indotti dall'alterazione venivano redistribuiti da atomo ad atomo, fino a trovare una nuova geometria di equilibri. Maria osservò quella risposta condizionata con una frustrazione che le era ormai familiare. Non sarebbe mai riuscita ad accettare le regole di manipolazione, per quanto comode fossero. Aveva riflettuto sulla possibilità di ideare una modalità interattiva più autentica, che offrisse la possibilità di sentire come poteva essere afferrare una molecola di Autoverso, interrompere e ricostituire i suoi legami, invece di ritrovarsi con della plastica simulata al tocco di un guanto. Il problema era: se una molecola obbedisce soltanto alla fisica dell'Autoverso, alla logica interna del modello informatico autonomo, come poteva lei interagirci al di fuori del modello? Costruendo delle minuscole protesi nell'Autoverso, che agissero da telemanipolatori? Costruirle con cosai Non esistevano molecole abbastanza minute da poter creare elementi tanto sofisticati in quella scala. I più piccoli polimeri rigidi che potessero reagire come "dita" sarebbero stati di uno spessore pari alla metà dell'anello di nutrosio. E comunque, anche se la molecola bersaglio fosse stata libera di interagire con questi surrogati di "mani" secondo la semplice fisica dell'Autoverso, non ci sarebbe stato nulla di autentico nel modo in cui le mani in sé e per sé seguivano per magia i movimenti dei guanti. Maria non intravedeva alcun piacere nel limitarsi a spostare il punto in cui rompere le regole… e da qualche parte le regole dovevano essere infrante. Manipolare i contenuti dell'Autoverso significava violare le sue leggi. Era evidente, ma era anche il motivo della sua

frustrazione. Registrò lo zucchero modificato, chiamandolo con ottimismo mutosio. Poi, aumentata la scala dimensionale nell'ordine del milione, avviò ventun piccole colture di Autobacterium lamberti in soluzioni che andavano dal nutrosio puro alla miscela al 50% fino al mutosio al 100%. Rimase a guardare una serie di terreni di coltura che galleggiavano nello spazio di lavoro. Il loro contenuto era rappresentato con colori che ritraevano e diversificavano lo stato di salute dei batteri. "Colori falsi", ma era una definizione tautologica. Ogni immagine dell'Autoverso era necessariamente stilizzata: una mappa a codice colore che mostrava gli aspetti selezionati della zona in questione. Alcuni panorami risultavano più astratti, più processati di altri, nel senso in cui una carta della Terra, con un codice colore che indica lo stato di salute delle popolazioni, sarebbe probabilmente più astratta di una che ne mostra i rilievi o le precipitazioni. L'ideale, tipico del mondo reale, di una visione a occhio nudo non adulterata era banalmente intraducibile. Qualche coltura stava già assumendo un aspetto decisamente malandato, sfumando dal blu elettrico al marrone opaco. Maria richiamò il grafico tridimensionale che rapportava la popolazione con il tempo per l'intera serie di miscele nutrienti. Come prevedibile, le colture con appena una traccia della sostanza nuova stavano crescendo al passo del campione controllo. Coll'aumentare dell'apporto di mutosio la crescita rallentava gradualmente, fino a che la popolazione rimaneva a un livello di staticità attorno alla linea dell'85%. Oltre quella, si ottenevano traiettorie sempre più ripide verso l'estinzione. In piccole dosi il mutosio provocava effetti irrilevanti, ma a concentrazione maggiore diventa pericoloso. Era abbastanza simile al nutrosio, nutrimento solito dell'A lamberti, da essere assunto mediante processo metabolico, entrando in competizione per i medesimi enzimi e legandosi a preziose fonti biochimiche, ma infine raggiungendo un punto in cui quell'unica protezione rosso-blu costituiva una barriera insormontabile alla geometria delle reazioni, lasciando al batterio soltanto un sottoprodotto inutile e una perdita netta di energia. Una coltura col 90% di mutosio era un universo in cui il 90% delle riserve alimentari non possedeva alcun valore nutritivo, ma che veniva ugualmente ingerito assieme al 10% utile. Assumerne dieci volte tanto per ottenere il medesimo risultato non era una soluzione utile. Se intendeva protrarsi nel lungo termine, l'A. lamberti doveva procurarsi i mezzi per scartare il mutosio prima di perdere energia o, ancor meglio, trovare il modo di convertirlo in nutrosio, da veleno virtuale a fonte di nutrimento. Maria aprì un istogramma delle mutazioni che si verificavano nei tre geni nutrosio-epimerasi del batterio. Gli enzimi codificati da questi geni erano quanto di più simile allo strumento con cui l'A. lamberti poteva rendere digeribile il mutosio, sebbene nessuno fosse in grado di compiere quel lavoro nella sua forma originale. Nessun mutante, fino a quel momento, era ancora riuscito a resistere per più di un paio di generazioni: tutti i cambiamenti avevano portato più danni che vantaggi. Alcune sequenze parziali dei geni mutanti sfilarono all'interno di una finestrella. Maria osservò la macchia confusa di codoni, sollecitando mentalmente il processo, se non direttamente verso il centro del bersaglio (neppure immaginando quale potesse essere), perlomeno… al suo esterno, nello spazio di tutti gli errori possibili. Pensiero gradevole. Peccato però che alcune porzioni di gene fossero costituzionalmente più propense a specifici errori di duplicazione, così che la maggior parte dei mutanti "esplorava" a ripetizione gli stessi vicoli ciechi. Era facile predisporre l'A. lamberti alla mutazione. Come un batterio del mondo reale, commetteva frequenti errori a ogni duplicazione del suo analogo di Dna. Persuaderlo a mutare in forma "utile", era tutta un'altra storia. Lo stesso Max Lambert, l'inventore dell'Autoverso, il creatore dell'A. lamberti l'idolo di un'intera generazione di fanatici dell'automazione cellulare e della vita artificiale - aveva impiegato gli ultimi quindici anni della sua esistenza a cercare di scoprire come mai le sottili differenze tra mondo reale e Autoverso rendessero tanto banale la selezione naturale in un sistema e pressoché inesistente nell'altro. Quando erano stati esposti alle sollecitazioni ambientali che un'Escherichia coli

avrebbe sfruttato nel giro di qualche decina di generazioni, i vari ceppi di A. lamberti si erano lasciati morire e basta. Soltanto qualche entusiasta immarcescibile continuava tuttora le ricerche di Lambert. Maria conosceva, sì e no, settantadue persone in tutto che potevano avere una minima idea di quel che ne sarebbe derivato, se lei ce l'avesse fatta. Al momento, il sistema della vita artificiale era dominato dallo studio delle Copie, creature composite, mosaici di decine di migliaia di differenti regole apposite, e cioè l'esatta antitesi di quel che rappresentava l'Autoverso. La biochimica del mondo reale era troppo complessa da simulare in ogni suo minimo dettaglio, anche nel caso di un'unità organica grande quanto un moscerino, figuriamoci poi di un essere umano. I computer potevano modellare tutti i processi vitali, ma non su tutte le scale, dall'atomo all'organismo, nello stesso tempo. Perciò il settore era stato ripartito in tre campi di ricerca. In uno, i biochimici molecolari tradizionali continuavano ad ampliare i loro calcoli meticolosi, risolvendo l'equazione di Schrödinger con esattezza maggiore o minore per ogni sistema superiore, avanzando fino a interi filamenti replicanti di Dna, subassemblaggi mitocondriali integrali, blocchi significativi del gigantesco reticolo di carboidrati di una parete cellulare, ma utilizzavano sempre più tempo e lavoro computer ottenendo risultati sempre minori. Al limite della scala c'erano le Copie: potenziamenti sofisticati delle simulazioni anatomiche integrali, progettate in origine per addestrare i chirurghi nelle operazioni virtuali e per sostituire gli animali di laboratorio nelle sperimentazioni di farmaci. La Copia era una specie di Tac ad alta risoluzione dotata di vita, collegata a un'enciclopedia medica - che stabiliva il comportamento di organi e tessuti - e che si muoveva all'interno di una simulazione architettonica al più lato livello di sofisticazione. Una Copia non possedeva atomi e molecole, ogni organo del suo corpo virtuale esisteva sotto forma di sottoprogramma specializzato che conosceva (con precisione enciclopedica ma non atomica) il funzionamento di un vero fegato o di un cervello, ma che non era in grado di risolvere l'equazione di Schrödinger nemmeno per una singola molecola proteica. Tutta fisiologia, niente fisica. Lambert e seguaci avevano occupato il campo intermedio, inventando una nuova fisica, abbastanza semplice da permettere a parecchie migliaia di batteri di inserirsi in una modesta simulazione al computer, con una gerarchia di dettagli solida e continua che arrivava fino alla scala subatomica. Tutto era costruito muovendo dalle basi, dal livello inferiore delle leggi della fisica, proprio come nel mondo reale. Il prezzo di tanta linearità era che un batterio di Autoverso non si comportava necessariamente come il suo corrispettivo del mondo reale. L'A. lamberti aveva il difetto di eludere le aspettative classiche in maniera bizzarra e imprevedibile, e per molti microbiologi seri questo era sufficiente a renderlo del tutto inutile. Invece per gli Autoversodipendenti costituiva l'elemento di ricerca più interessante. Maria spostò i grafici che le nascondevano i terreni di coltura, poi zummò su una coltura in buona forma, finché tutto lo spazio fu occupato da un unico batterio. La sua colorazione lo indicava come "sano", un grumo informe azzurrino che, anche utilizzando una mappa chimica standard, non mostrava strutture specifiche, a parte la membrana cellulare. Niente nucleo, niente organelli, niente ciglia. L'A. lamberti era soltanto un sacco di citoplasma. Armeggiò con la rappresentazione, facendo apparire i fili sottili dei cromosomi dipanati, evidenziando i tratti in cui avveniva la sintesi proteica, rendendo visibili i gradienti di concentrazione del nutrosio e dei suoi metaboliti immediati. Immagini costose dal punto di vista della capacità di calcolo. Si maledisse (come sempre) per il denaro che scialava, ma (come sempre) non riuscì a chiudere il software analitico essenziale (e l'Autoverso): non poteva restarsene buona, guardando per aria in attesa di un risultato. Perciò zummò, passando ai colori atomici (lasciando però invisibili le onnipresenti molecole di aqua), bloccando il tempo in via transitoria per interrompere lo scorrere indistinto del moto termico, poi

ingrandì ancora fino a quando le chiazzette sfumate - sparpagliate lungo tutto lo spazio di lavoro - si definirono nei grovigli intricati dei lipidi a lunga catena, dei polisaccaridi, dei peptoglicani. Nomi rubati senza modificazione ai loro analoghi reali, ma vaffanculo, chi aveva voglia di passare la vita a escogitare un'intera nomenclatura biochimica nuova di zecca? Maria era già abbastanza stupita che Lambert fosse riuscito a trovare colori distinguibili per tutti i trentadue atomi dell'Autoverso, correlati a nomi poco ambigui. Passò in rassegna quella distesa di molecole complicate, tutte sintetizzate dall'A. lamberti partendo esclusivamente da nutrosio, aqua, pneuma, più qualche altro elemento in tracce. Non riuscendo a trovare molecole di mutosio, richiamò il Diavoletto di Maxwell, chiedendo di trovarne una. Il ritardo percettibile nella risposta del programma le faceva immaginare la straordinaria quantità di informazione con cui si stava trastullando, e la sua struttura organizzativa. Una simulazione biochimica tradizionale sarebbe stata costretta a tener conto di ogni molecola, e le avrebbe potuto mostrare quasi all'istante l'esatta posizione del più vicino zucchero alterato. Per una simulazione tradizionale, questo catalogo di molecole sarebbe stato la "verità definitiva", non sarebbe esistito nulla se non per entrare nel Grande elenco. In contrasto, la "verità definitiva" dell'Autoverso era una vasta schiera di cellule cubiche di dimensioni subatomiche, e il software primario trattava solo queste cellule, ignorando le strutture più grandi. Gli atomi nell'Autoverso erano come gli uragani nel modello atmosferico, soltanto molto più stabili: scaturivano dalle semplici regole che governavano gli elementi più piccoli del sistema. Non c'era bisogno di calcolare esplicitamente il loro comportamento, le leggi che governavano le cellule singole guidavano tutto quel che succedeva ai livelli più alti. Ovvio, si poteva sempre usare uno stormo di diavoletti per compilare e sostenere una sorta di censimento di atomi e molecole, con grande spreco di lavoro computer, senza comunque centrare il punto. E intanto, incurante, l'Autoverso sarebbe andato avanti. Maria agganciò la visione alla molecola di mutosio, poi riavviò il tempo, e tutto divenne sfumato e traslucido, tranne l'unico anello esagonale. La molecola in sé era appena disturbata, visto che le attuali convenzioni di rappresentazione rendevano ben visibili le posizioni medie degli atomi, con le deviazioni dovute alle vibrazioni di legame appena suggerite da sbiadite strisce spettrali. Maria zummò fino a quando la molecola riempì tutto lo spazio. Non sapeva cosa si aspettava di trovare: un'epimerasi mutante riuscita che si legava di colpo all'anello per riportare in posizione orizzontale l'aberrante chiodo rosso-blu? A parte le questioni di probabilità, sarebbe finito ancor prima di accorgersi che era cominciato. Quella parte era facile da sistemare: diede istruzioni al Diavoletto di Maxwell di tenere aperta una memoria ausiliaria di qualche milione di scatti della storia della molecola, e di riproporla a velocità fruibile nel caso di un cambiamento strutturale. Incastonato in un organismo "vivente", l'anello del mutosio sembrava equivalente allo stesso prototipo che aveva maneggiato pochi minuti prima: palle di biliardo rosse, verdi e blu, collegate da bastoncelli bianchi. Sarebbe sembrato un insulto persino a un batterio ritrovarsi composto da molecole tanto fumettistiche. Il programma di visualizzazione stava ispezionando costantemente quella piccola regione dell'Autoverso, identificando i motivi ricorrenti che costituivano gli atomi, controllando le loro sovrapposizioni per stabilire quale fosse legato a quale altro, per poi mostrare un'immagine stilizzata e nitida delle sue conclusioni. Allo stesso modo delle regole di manipolazione che prendevano per oro colato questa rappresentazione, una finzione utile, certo, ma… Maria rallentò l'orologio dell'Autoverso di un fattore di dieci miliardi, poi aprì il menu di visione premendo il pulsante contrassegnato come Naturale. L'ordinato gruppo di sfere e tubi si fuse in una corona dentata di metallo liquido in movimento e policromo, con masse di colore distaccatesi dai vertici per collidere, mischiarsi, rifluire, e sbuffi che lambivano lo spazio. Rallentò un altro centinaio di volte, quasi bloccando quel tumulto, poi zummò di altrettanto. Adesso erano visibili le singole cellule cubiche costituenti l'Autoverso, che cambiavano di stato circa una volta

al secondo. Lo "stato" di una cellula, un numero intero tra 0 e 255, veniva ricalcolato a ogni ciclo dell'orologio, secondo una serie di regole semplicissime applicate al suo stato precedente e agli stati delle cellule più vicine nella griglia tridimensionale. L'automa cellulare dell'Autoverso non faceva altro che applicare uniformemente queste regole per ogni cellula, dal momento che erano proprio queste le sue "leggi fisiche" fondamentali. Qui non occorreva lottare contro equazioni spaventose di meccanica quantistica, ma solo con una manciata di ordinarie operazioni aritmetiche eseguite su integrali. Eppure, le leggi relativamente grossolane dell'Autoverso riuscivano ancora a far crescere "atomi e molecole" dotati di una chimica abbastanza ricca da permettere la vita. Maria seguì il destino di un grappolo di cellule dorate che si diffondevano nel reticolo (per definizione, le cellule non si muovono ma è la struttura ad avanzare), infiltrandosi e conquistando la regione di un blu metallico, per poi essere invase e mangiate da un'ondata magenta. Se l'Autoverso possedeva un aspetto "vero", allora era questo. La tavolozza che assegnava un colore a ogni stato era comunque "falsa", ancora del tutto arbitraria, ma questa visione almeno rivelava la complicata partita a scacchi che sottendeva tutto quanto. Tutto eccetto l'hardware, il computer vero e proprio. Maria invertì al tempo standard, e a una visione macroscopica dei ventun terreni di coltura, proprio mentre compariva in primo piano un messaggio: Jsn la informa con rincrescimento che le sue risorse sono state trasferite a un miglior offerente. Un'istantanea del suo lavoro è stata depositata in archivio, e le sarà resa disponibile al prossimo collegamento. Grazie per aver utilizzato le nostre strutture. Maria rimase immobile, imprecando con rabbia per mezzo minuto, poi si nascose il viso tra le mani. Non si sarebbe dovuta collegare. Era folle buttare via tutti i suoi soldi nei giochetti con un A. lamberti mutante, eppure non poteva farne a meno. L'Autoverso l'aveva incantata, ipnotizzata, al punto da essersi assuefatta. Chiunque fosse stato, a scaraventarla fuori dalla rete, le aveva fatto un favore, e, anzi, le aveva persino restituito la tassa d'accesso di cinquanta dollari, visto che era stata sbattuta fuori e non soltanto rallentata a passo di lumaca. Curiosa di scoprire l'identità del suo inconsapevole benefattore, si attaccò direttamente alla Borsa Qips, il mercato in cui si comprava e si vendeva potenza di elaborazione dati. Il suo collegamento col Jsn era passato attraverso la Borsa, in modo trasparente: il suo terminale era programmato per fare offerte automatiche al tasso di mercato, fino a un certo tetto. Però, contemporaneamente, un gruppo denominato Operazione farfalla stava rastrellando Qips - quadrilioni di istruzioni al secondo - a seicento volte quel tetto, accaparrandosi la totalità di potenza di elaborazione offerta su tutto il pianeta. Maria rimase esterrefatta, non aveva mai visto una cosa del genere. Il diagramma degli acquirenti, di norma un caleidoscopio composto da migliaia di fette sottili come aghi, appariva, invece, come un massiccio disco blu, stolido. Gli aerei, di sicuro, non sarebbero caduti dal cielo, il commercio non si sarebbe fermato… ma decine di migliaia di accademici e di ricercatori industriali si affidavano giornalmente alla Borsa per i lavori per cui non valeva la pena di possedere in sede la potenza necessaria. Per non pensare a qualche migliaio di Copie. Quella situazione, creata da un utente che estrometteva tutti gli altri con la forza di una maggiore offerta, era senza precedenti. Chi mai poteva aver bisogno di tanta potenza di calcolo? Multinazionali, grandi centri di ricerca, esercito? Tutti possedevano il proprio hardware privato, di solito persino eccessivo per le loro esigenze. Se mai facevano scambi, era solo per vendere quanto avevano in eccesso. Operazione farfalla? Il nome le suonava vagamente familiare. Maria entrò nel sistema di informazione

per cercare dei servizi in cui fosse menzionato quel nome. Il più recente risaliva a tre mesi prima: Kuala Lumpur - Lunedì, 8 agosto 2050: Oggi, un vertice dei ministri per l'Ambiente dell'Asean, l'associazione delle nazioni del Sudest asiatico, ha deciso di passare all'ultimo stadio dell'Operazione farfalla, un progetto assai discusso volto a limitare i danni e le perdite di vite causate dai tifoni Serra nella regione. Lo scopo a lunga gittata di questo progetto consiste nell'utilizzo del cosiddetto "Effetto farfalla" per deviare i tifoni dalle aree popolose più vulnerabili, e per prevenire direttamente la loro formazione. Maria disse: "Definire 'Effetto farfalla'". Davanti al resoconto informativo si aprì una seconda finestra: Effetto farfalla: Questo termine è stato coniato dal meteorologo Edward Lorenz alla fine degli anni Settanta del Ventesimo secolo, per evidenziare l'inutilità dei tentativi di formulare previsioni meteorologiche a lungo termine. Lorenz sottolineò che i sistemi meteorologici erano tanto sensibili alle loro condizioni iniziali, che il battito di ali di una farfalla in Brasile poteva essere sufficiente a scatenare un tornado in Texas un mese più tardi. Nessun modello informatico era in grado di includere dettagli tanto infinitesimali, perciò ogni tentativo di prevedere le condizioni del tempo con un anticipo superiore a pochi giorni era destinato allo scacco. Comunque, sul finire del XX secolo, il termine iniziò a perdere le sue originarie connotazioni negative. Alcuni ricercatori scoprirono che, per quanto gli effetti di piccoli influssi casuali rendessero imprevedibile un sistema caotico, in certe condizioni la stessa sensibilità poteva essere scientemente sfruttata per deviare il sistema in una direzione data. Lo stesso tipo di processi che amplificava il battito delle ali di una farfalla, fino a provocare un tornado, poteva anche moltiplicare gli effetti dell'intervento sistematico, permettendo un certo grado di controllo sproporzionato all'energia spesa. Oggi l'Effetto farfalla è riferito di solito al principio del controllo di un sistema caotico, mediante un potenziale minimo di forza ottenuto con la conoscenza dettagliata della sua dinamica. Questa tecnica è stata applicata a un gran numero di campi, compresi l'ingegneria chimica, le operazioni di Borsa, il volo automatico e il ventilato sistema di controllo meteo dell'Asean, l'Operazione farfalla. C'era dell'altro, ma Maria si soffermò su quell'articolo. I meteorologi prevedono di installare nelle acque tropicali del Pacifico occidentale e del Mare della Cina del Sud una rete di centinaia di migliaia di strumenti controllo meteo, macchinari a energia solare progettati per alterare la temperatura locale pompando l'acqua tra le differenti profondità. I modelli teorici suggeriscono che un numero di strumenti sufficiente, sotto il controllo di un sistema informatico sofisticato, potrebbe essere utilizzato per influenzare modelli di clima su larga scala, "spingendoli" verso gli esiti meno dannosi tra i tanti possibili infine equilibrio tra di loro. Otto differenti prototipi sono stati testati in mare aperto, ma è necessario ultimare uno studio approfondito di fattibilità prima che gli ingegneri possano selezionare un progetto per la produzione di massa. Nell'arco di tre anni, ogni tifone di potenziale pericolo verrà analizzato tramite un modello informatico alla massima risoluzione possibile, e gli effetti, dei diversi modelli

di ciascuno strumento, pur non ancora esistenti saranno compresi nella simulazione. Se l'insieme di queste simulazioni dimostrerà che un intervento poteva evitare perdite significative in vite e beni, il consiglio ministeriale dell'Asean dovrà decidere se stanziare i sessanta miliardi di dollari necessari per rendere realtà il sistema. Altre nazioni stanno seguendo con interesse questo esperimento. Sconcertata, Maria si allontanò dallo schermo. Un modello informatico alla massima risoluzione possibile. E facevano sul serio. Avevano comprato tutta la potenza di elaborazione disponibile, spendendo una piccola fortuna, ma soltanto una frazione di quel che sarebbe costato acquistare l'hardware relativo. Spingere i tifoni! Non ancora, non nella realtà, ma chi poteva negare a Operazione farfalla il suo breve monopolio, nel caso di un esperimento tanto maestoso? Maria provò un'eccitazione reale, seppure indiretta, per l'enormità del progetto, e contemporaneamente un senso di colpa misto a risentimento perché ne sarebbe stata una qualunque spettatrice. Non aveva una specializzazione in fisica dell'atmosfera o degli oceani, nessun dottorato in teoria del caos, ma in un progetto di quelle dimensioni ci dovevano essere centinaia di posti di lavoro per i semplici programmatori. Quando avevano diffuso le offerte di lavoro in rete lei doveva essere stata impegnata in qualche contratto merdoso atto a migliorare le qualità tattili della sabbia per i visitatori della Costa d'Oro virtuale. O quello, oppure si stava gingillando col genoma dell'A. lamberti, cercando di diventare la prima persona al mondo capace di convincere un batterio simulato a mostrare segni di selezione naturale. Non era chiaro quanto tempo sarebbe accorso all'Operazione farfalla per monitorare ogni tifone, ma per oggi se lo poteva scordare di rientrare in Autoverso. Riluttante, si scollegò dal sistema di informazioni, resistendo alla tentazione di restare seduta ad aspettare i primi resoconti sul tifone in questione, o la reazione degli altri utenti di supercomputer al grande rastrellamento di potenza informatica, e cominciò a riesaminare i suoi progetti per un nuovo pacchetto di sorveglianza contro gli intrusi.

2 [REMIT NOT PAUCITY] Novembre 2050

"Sto chiedendo due milioni di Ecu. Le sto offrendo l'immortalità." L'ufficio di Thomas Riemann era piccolo ma arioso, ammobiliato con intelligenza e senza ostentazione. L'unica grande finestra offriva un ampio panorama di Francoforte, verso nord, di là dal fiume, come se ci si trovasse a Sachsenhausen, verso le tre torri nere come la pece del Centro Siemens/Deutsche Bank, una veduta che Thomas riteneva onesta quanto ogni alternativa ipotizzabile. Del resto, metà degli uffici di Francoforte davano su foreste tropicali registrate, gole desertiche mozzafiato, banchise polari antartiche, oppure su paesaggi integralmente sintetici, idillico-rurali, futuristici, interplanetari o semplicemente surreali. Con la libertà di poter scegliere quel che gli pareva, Thomas aveva selezionato un paesaggio familiare sin dai tempi in azienda, forse un po' sentimentale, ma che almeno non risultava ridicolo o fuori luogo. Thomas si allontanò dalla finestra e osservò il suo ospite con scettica bonomia. Gli rispose in inglese. Avrebbe potuto utilizzare il programma d'ufficio di traduzione - questo avrebbe selezionato per lui un'identica struttura sintattica, essendo stato clonato dai suoi stessi centri nervosi del linguaggio - ma Thomas preferiva ancora usare la versione "residente" nel suo "cranio". "Due milioni? Dov'è il trucco? Lasci che indovini. Sotto la sua abile gestione, il mio capitale crescerà al più alto tasso possibile in compatibilità con il bisogno di sicurezza totale. Il prezzo delle elaborazioni scenderà in picchiata, prima o poi. Il fatto che sia in crescita da quindici anni rende soltanto più probabile questa eventualità. Perciò potranno passare uno o due decenni, o tre, o quattro, ma alla fine i proventi del mio modesto investimento basteranno a permettermi l'ultimo hardware, a tempo indefinito, naturalmente assicurando a lei una piccola commissione." Thomas scoppiò a ridere, semplicemente. "Non mi sembra che abbia cercato il suo prossimo cliente con molta attenzione. Solitamente voi disponete di informazioni infallibili, ma temo che con me abbiate mancato il bersaglio. Non corro il minimo pericolo di essere spento. L'hardware che utilizziamo in questo momento non è in concessione, è stato acquistato in solido da una fondazione che ho istituito prima della mia morte. Le mie proprietà sono gestite in modo assolutamente soddisfacente. Non ho alcun problema, finanziario, legale, di serenità mentale, che lei possa risolvere. E l'ultima cosa al mondo di cui ho bisogno è uno schifoso fondo di perpetuità da quattro soldi. Per me la sua offerta è inutile." Paul Durham decise di non mostrare segni di delusione. "Non sto parlando di un fondo di perpetuità. Non sto vendendo alcun servizio finanziario. Mi concede la possibilità di spiegarmi meglio?" Thomas annuì affabile. "Prosegua. L'ascolto." Durham si era rifiutato ostinatamente di anticipare informazioni sul suo genere d'affari, e Thomas aveva deciso di incontrarlo ugualmente, pregustando già la soddisfazione perversa di quando avrebbe trovato conferma alle sue convinzioni: la riservatezza di quell'uomo non nascondeva nulla di diverso dal solito. Thomas accettava quasi sempre di ricevere ospiti esterni, anche se l'esperienza gli aveva dimostrato che quasi tutti cercavano solo soldi, in una maniera o nell'altra. Era convinto che chiunque fosse disposto a rallentare di diciassette volte il proprio cervello esclusivamente per il privilegio di parlargli meritasse un'udienza… e comunque non era immune dalla lusinga intrinseca di quel processo, di quel sacrificio sproporzionato di tempo. Però c'era dell'altro, più delle lusinghe. Quando le Copie lo cercavano in ufficio, o gli sedevano accanto, al tavolo del consiglio d'amministrazione, tutti erano presenti esattamente nello stesso senso. Per quanto potessero risultare esoteriche le basi algoritmiche dell'incontro, era una riunione tra eguali. Non occorreva varcare alcun confine.

Al contrario, un visitatore in grado di sollevare e vuotare una tazza di caffè, di firmare un documento e stringerti la mano, ma che contemporaneamente rimaneva sdraiato, immobile su un divano, in un altro piano metafisico (superiore?), arrivava carico di troppe memorie implicite della natura delle cose per essere affrontato con la stessa equanimità. Thomas dava peso a questa situazione. Non voleva diventare compiacente, o ancora peggio. Ma i visitatori lo aiutavano a mantenere un concetto preciso di quel che era diventato. Durham disse: "Sono al corrente della sua situazione, questo è ovvio. Lei ha una delle sistemazioni più sicure che abbia mai visto. Ho letto i documenti di costituzione della Fondazione Soliton, e sono pressoché a prova di bomba. Ma per le leggi in vigore, oggi". Thomas Riemann rise di cuore. "Ma lei pensa di poter fare di meglio? La Soliton paga i suoi avvocati quasi un milione di dollari all'anno. Avrebbe fatto meglio a procurarsi qualche titolo contraffatto per chiedermi di assumerla. Le leggi in vigore oggi! Mi creda, quando le leggi cambieranno, cambieranno in meglio. Mi aspetto che lei sappia che la Soliton spende una discreta fortuna nell'attività lobbystica, e non è la sola. La tendenza è in una direzione precisa: il numero delle Copie aumenta ogni anno che passa, e quasi tutte controllano di fatto la ricchezza che possedevano da vive. Temo che il suo tempismo sia stato pessimo, nel caso abbia intenzione di utilizzare tattiche intimidatorie. Ho ricevuto proprio la settimana scorsa una relazione che prevede, per noi, il riconoscimento pieno dei diritti umani, almeno in Europa, per l'inizio del prossimo decennio. Dieci anni per me non sono un'attesa lunga, mi sono abituato al fattore attuale di rallentamento. Anche se la velocità dei processori aumentasse, potrei facilmente scegliere di continuare a vivere alla velocità a cui vivo per altri sei o sette mesi soggettivi, piuttosto che spingere ancor più nel futuro le cose che aspetto con ansia, come la cittadinanza europea". Il fantoccio di Durham piegò il capo in un gesto educato di assenso. Thomas ebbe la visione improvvisa di un secondo manichino, uno che Durham sentiva di occupare veramente, chino su di un pannello di controllo, intento a schiacciare un tasto di un sottomenu di etichetta. Era paranoia? Ma ogni postulante dotato di comprendonio si sarebbe comportato in quel modo, avrebbe condotto l'incontro a distanza piuttosto che esporre a un'analisi il linguaggio silenzioso del proprio corpo. Il pupazzo visibile disse: "Ma perché spendere una fortuna in versioni migliorate, col solo risultato di rallentare il progresso? E sono d'accordo con lei sulle prospettive di progresso, nel breve termine. Certo, la gente invidia alle Copie la loro longevità, ma le pubbliche relazioni sono state gestite alla perfezione. Qualche bambino all'ultimo stadio di malattia, scelto con dovizia, è stato scannerato e fatto risorgere ogni anno, meglio di una gita a Disneyland. C'è poi la sponsorizzazione discreta di una situation comedy su alcune Copie della classe operaia, che serve a rendere meno minaccioso il concetto. Lo statuto legale delle Copie è impostato come una questione di diritti umani, soprattutto in Europa: le Copie sono dei disabili, né più né meno, una specie di amputato radicale, e chiunque parli di immortali ricchi e decadenti che continuano a gestire la ricchezza viene messo a tacere, è subito tacciato di neonazismo. "Così lei potrebbe ottenere la cittadinanza nel giro di un decennio. E se è fortunato, la situazione potrebbe rimanere stabile per altri venti o trent'anni ancora. Però, cosa sono venti o trent'anni per lei? Crede sul serio che questo stato di cose possa essere tollerato per sempre?" "Certo che no, ma le dico cosa sarebbe tollerato: strutture di scansione e potenza di elaborazione dati così a buon mercato che tutti gli abitanti del pianeta potrebbero risorgere. Chiunque lo vorrà. E quando dico a buon mercato, intendo un costo paragonabile a una dose di vaccino all'inizio del secolo. Se l'immagina? La morte potrebbe essere sradicata come il vaiolo o la malaria. E non sto parlando di qualche incubo solipsistico. E quando accadrà, i robot di telepresenza permetteranno alle Copie di interagire con il mondo fisico con la stessa capacità piena di un essere umano. La civiltà non abbandonerà la realtà, trascenderà semplicemente la biologia." "Stiamo parlando di molto, molto in là nel futuro." "Certo, così non può rinfacciarmi di pensare a breve termine." "E intanto? La classe privilegiata delle Copie diventerà sempre più numerosa, sempre più

potente e minacciosa per la stragrande maggioranza delle persone che non saranno ancora in grado di unirsi a loro. I costi diminuiranno, ma non in modo così drastico, solo quel che basterà per adeguarsi al flusso di domanda della classe dirigente, quando ogni remora sarà abbandonata. Persino nell'Europa laica preservano un principio ben radicato secondo cui la morte è la cosa più responsabile, più morale che possa accadere. Esiste "un'etica della morte", e il primo frammento sostanziale di popolazione che l'abbandonerà innescherà una reazione a catena. Una élite potente ma abbastanza ridotta di Copie può essere accettata come un fenomeno da baraccone, è naturale che i pezzi grossi se la cavino sempre, e non ci si aspetta da loro un comportamento da persone normali. Ma aspetti soltanto che i numeri si decuplichino." Thomas aveva già sentito quelle obiezioni. "Per un po' potremo essere impopolari. Lo posso sopportare. Ma lei sa che anche adesso siamo molto meno vilipesi di quelli che si battono per l'iperlongevità organica, trapianti e ringiovanimento cellulare, perché almeno noi non aumentiamo i costi della sanità entrando in competizione per l'utilizzo di strutture mediche già sovraccariche. E nemmeno consumiamo risorse naturali al ritmo di quando eravamo in vita. Se la tecnologia progredisce a sufficienza, l'impatto ambientale della Copia più ricca potrebbe diventare inferiore a quello dell'essere umano più ascetico. Allora chi avrà ragione dal punto di vista morale? Saremo il popolo più ecologista del pianeta." Durham sorrise. L'avatar. "Certo, e se questo accadrà ne deriveranno simpatici paradossi. Ma anche il basso impatto ambientale potrebbe non apparire più tanto virtuoso quando la stessa potenza di calcolo potrebbe essere utilizzata per salvare decine di migliaia di vite col controllo del clima." "L'Operazione farfalla ha recato un disagio minimo ad alcune delle mie compagne Copie. E a me nessuno." "L'Operazione farfalla è soltanto agli inizi. È una gestione della crisi per una piccola parte del pianeta. Immagini quanta potenza di calcolo ci vorrebbe per liberare dalla siccità l'Africa subsahariana." "Perché me lo dovrei immaginare, quando i progetti più modesti sono ancora tutti da dimostrare? E anche se il controllo del clima si dimostrasse fattibile, potranno sempre costruire altri supercomputer. Non sarà una questione di Copie contro le vittime delle inondazioni." "Ma al momento esiste una quantità limitata di potenza di calcolo, o no? Ovvio che crescerà, ma la domanda da parte delle Copie e quella per il controllo del clima crescerà di sicuro più alla svelta. Molto prima che si arrivi al suo miraggio, ci incastreremo in una strozzatura, e credo proprio che a quel punto le Copie saranno dichiarate illegali. In tutto il mondo. Anche se vi avevano garantito i diritti umani, ve li toglieranno. Confischeranno i beni alle fondazioni. I supercomputer saranno messi sotto stretta sorveglianza, gli scanner e le registrazioni delle scansioni verranno distrutti. Forse ci vorranno quarant'anni perché accada, o forse meno. Ma lei dovrà farsi trovare preparato." Thomas rispose, con fare accondiscendente: "Se sta cercando un lavoro come consulente futurologo, temo di averne già parecchi alle mie dipendenze, tutta gente altamente qualificata che non fa altro che esaminare queste tendenze. Al momento tutto quel che mi dicono mi dà ragione di essere ottimista, e anche se si sbagliano la Soliton è pronta a un'ampia gamma di scenari". "Se l'intera fondazione verrà distrutta, è convinto davvero che potrà garantire a una sua istantanea di essere riposta al sicuro, per poi farla risorgere dopo cent'anni o più di disordini sociali? Una cripta piena di chip Rom, sul fondo di un pozzo di miniera, potrebbe rivelarsi un viaggio di sola andata nei tempi geologici." Thomas scoppiò a ridere. "E domani un meteorite potrebbe colpire il pianeta, distruggendo questo computer, tutti i miei back-up, il suo corpo organico… tutto e tutti. Sì, potrebbe scoppiare una rivoluzione che stacca la spina al mio mondo. Improbabile, ma non impossibile. Oppure una pestilenza, un disastro ecologico che uccida miliardi di umani organici lasciando intatte le Copie. Nessuno ha delle certezze."

"Ma le Copie hanno molto di più da perdere." Thomas era risoluto, tutto ciò faceva parte della sua litania personale. "Non ho mai frainteso quel che ho, cioè un'ottima possibilità di esistenza prolungata, per una garanzia di immortalità." Durham replicò, senza inflessioni di tono: "Giusto. Non possiede qualcosa del genere. Ed è per questo che sono venuto qui a offrirgliela". Thomas lo osservò attentamente, a disagio. Anche se si era fatto cancellare dalla registrazione finale della scansione tutti i disastri recati dagli interventi chirurgici, aveva conservato una cicatrice sull'avambraccio destro, un piccolo momento di una disavventura giovanile. Se l'accarezzò, non del tutto sovrappensiero, cosciente di quell'abitudine, consapevole dei ricordi codificati in quella cicatrice, ma addestrato a impedire a quelle memorie di calamitare il suo sguardo. Poi disse: "Offrire come? Cosa può mai fare con due milioni di Ecu che la Soliton non possa fare mille volte meglio?" "Posso avviare una sua seconda versione, interamente al di fuori di ogni pericolo. Le posso dare una specie di assicurazione contro una reazione antiCopie, o un meteorite, o qualsiasi altra cosa che possa andar storto." Thomas rimase per un attimo a corto di parole. Quel soggetto non era interamente tabù, ma non ricordava nessuno che l'avesse mai tirato in ballo in modo così crudo. Si riprese alla svelta. "Non desidero avviare alcuna seconda versione, grazie mille. E… cosa intende con 'fuori pericolo'? Dove starà il suo computer invulnerabile? In orbita? Là dove basta un meteorite grande come un sassolino a distruggerlo, invece di un macigno?" "No, non in orbita. E se non vuole una seconda versione, va bene anche così. Potrebbe soltanto spostarsi." "Spostarmi dove? Sottoterra? In fondo all'oceano? Lei non sa nemmeno dov'è implementato questo ufficio, vero? Cose le fa ritenere di avere un luogo migliore a un prezzo tanto ridicolo quando non ha nemmeno la più pallida idea di quanto io sia già al sicuro?" Thomas cominciava a sentirsi deluso, e stranamente irritabile. "La smetta di avanzare queste pretese esagerate e arrivi al punto. Cosa sta vendendo?" Durham scosse il capo come per scusarsi. "Non glielo posso dire. Non ancora. Se provassi a spiegarglielo da zero non significherebbe niente per lei. Prima deve fare qualcosa. Ed è una cosa molto semplice." "Sì? E che cosa?" "Deve condurre un piccolo esperimento." Thomas lo guardò accigliato. "Che genere di esperimento? Perché?" E Durham, il pupazzo del programma, il guscio privo di vita animato da un essere situato in un altro livello, lo guardò negli occhi e rispose: "Mi deve permettere di mostrarle esattamente cos'è lei".

3 [RIP, TIE, CUT TOY MAN] Giugno 2045

Paul, oppure l'uomo in carne e ossa del quale aveva ereditato i ricordi, aveva ripercorso la storia delle Copie fino all'inizio del secolo, quando gli scienziati avevano iniziato ad affinare i modelli informatici generici utilizzati per l'addestramento chirurgico e per la ricerca farmacologica, trasformandoli in versioni personalizzate capaci di predire i bisogni e i problemi dei singoli pazienti. Le terapie farmacologiche venivano provate in anticipo su modelli che incorporavano specifici tratti genetici e biochimici, permettendo di ottimizzare la posologia e di anticipare ed evitare gli effetti collaterali da intolleranza. Le operazioni elaborate erano testate e perfezionate nella Realtà virtuale, su corpi digitali con dettagli anatomici che arrivavano fino ai capillari più sottili, basati sulle scansioni tomografiche dei pazienti reali. Questi primi modelli comprendevano un'approssimazione grezza del cervello, perfettamente adatta per la cardiochirurgia o per l'immunoterapia, e persino utile nel caso di danni cerebrali estesi o di tumori, ma del tutto inefficace per esplorare problemi neurologici più fini. Però la tecnologia della rappresentazione non aveva cessato di progredire, e nel 2020 era possibile individuare i singoli neuroni e misurare le proprietà delle singole sinapsi senza far ricorso a tecniche invasive. Con una combinazione di scanner, ogni dettaglio del cervello psicologicamente rilevante poteva essere letto nell'organo vivente, e duplicato su un computer di buona potenza. All'inizio vennero modellati solo tracciati neuralí isolati: porzioni della corteccia visiva interessanti per i progettisti di resa visuale tramite macchina, o sezioni del sistema limbico dal ruolo controverso. Questi modelli neurologici frammentari fornivano risultati notevoli, ma una rappresentazione completa dell'intero organo dal punto di vista funzionale, inserita in un corpo intero, avrebbe permesso di testare in anticipo le imprese più sofisticate in campo neurochirurgico e psicofarmacologico. Però, per molti anni, nessuno costruì un modello del genere, in parte per via dell'apprensione non meglio formulata di fronte alla prospettiva di quel che avrebbe significato. Dinanzi a loro non si paravano delle barriere formali: gli enti governativi di supervisione e i comitati etici istituzionali temevano solo per il benessere degli uomini e degli animali, e mai attivista aveva dato alle fiamme un laboratorio per il trattamento disumano del software psicologico. Eppure qualcuno doveva decidersi a infrangere per primo tutti i tabù inespressi. Qualcuno doveva fare una Copia encefalo-integrale ad alta definizione… e farla muovere, e camminare. Nel 2024, John Vines, un neurochirurgo di Boston, avviò una propria Copia pienamente consapevole in una Realtà virtuale approssimativa. Le prime parole della Copia furono, in poco meno di tre ore di tempo reale (con pulsazioni a mille, iperventilazione e picco degli ormoni da stress): "È come essere sepolti vivi. Ho cambiato idea. Tiratemi fuori di qua". Il suo originale era tenuto a spegnerlo, ma in seguito ripeté a più riprese la dimostrazione, senza varianti, pensando fosse impossibile causare traumi aggiuntivi facendo passare la stessa simulazione più di una volta. Quando Vines rese pubblici i risultati, le eventuali prospettive di progressi nella ricerca neurologica non si meritarono alcuna menzione: nel giro di ventiquattr'ore, nonostante la testimonianza poco incoraggiante della Copia, i titoli dei giornali ruotarono tutti attorno a immortalità, migrazioni di massa nella Realtà virtuale e abbandono imminente del mondo fisico. All'epoca Paul aveva ventiquattr'anni, e non sapeva che farsene della sua vita. Suo padre era morto l'anno prima, lasciandogli un piccolo impero commerciale, costruito su una florida catena di negozi che a

lui non interessava gestire. Aveva passato sette anni a viaggiare e studiare scienza, storia e filosofia, riuscendo abbastanza bene in tutto quel che tentava, ma senza scoprire nulla che accendesse il fuoco di una vera passione intellettuale. Non dovendo lottare per avere di che vivere, stava sprofondando lentamente in uno stato di assorto autocompiacimento. Le notizie sulla Copia di John Vines avevano dissolto di colpo la sua indifferenza. Pareva quasi che venisse mantenuta, e con gli interessi, ogni vaga promessa che la tecnologia poteva aver mai formulato riguardo alla trasformazione della vita umana. La longevità poteva essere il punto di partenza, le Copie si sarebbero evolute in modo quasi impossibile per gli esseri organici, modificando la propria mente, ridefinendo gli scopi, mutando senza fine. Le infinite possibilità davano alla testa, persino quando furono appurati i costi e le controindicazioni delle prime versioni, persino quando s'innescò la reazione inevitabile. Paul era un figlio del millennio, era pronto a sposare tutto quanto. Ma più tempo passava a esaminare quel che aveva realizzato Vines, più le implicazioni sembravano sconcertanti. Il dibattito pubblico scatenato dall'esperimento fu infuocato, ma superficiale in modo deprimente. Si riaccesero dispute vecchie di decenni su quanto ci fosse di comune tra gli esseri umani e i programmi informatici (sotto l'aspetto psicologico, morale, metafisico, di teoria dell'informazione…) e, persino, quanto e se le Copie fossero realmente intelligenti e realmente coscienti. Mentre altri ricercatori replicavano i risultati di Vines, le loro Copie superavano il test di Turing: nessun comitato di esperti, interrogando un gruppo di Copie e umani con un video appositamente rallentato per mascherare la differenza cronologica, poteva capire chi era cosa. Ma alcuni filosofi e psicologi continuarono a sostenere che ciò dimostrava soltanto una "coscienza simulata", e che le Copie erano banali programmi capaci di fingere una vita interiore dettagliata che in realtà non esisteva. I sostenitori dell"'ipotesi forte" dell'Intelligenza artificiale battevano sul concetto della coscienza come proprietà di dati algoritmi, un risultato dell'informazione processata secondo certe metodiche, indipendente dalla macchina o dall'organo utilizzato per eseguire quella funzione. Un modello informatico che manipolava essenzialmente dati su se stesso e sul suo "ambiente", così come un cervello umano doveva essere provvisto essenzialmente degli stessi stati mentali. "Coscienza simulata" era un ossimoro, come "addizione simulata". Gli oppositori rispondevano che "quando si modella un uragano nessuno si bagna". Quando si modella una centrale nucleare a fusione non viene prodotta energia. Simulando digestione e metabolismo non si consuma alcun ingrediente, non avviene alcuna vera digestione. Perciò, quando si modella il cervello umano, perché mai bisognerebbe aspettarsi l'avvento del pensiero vero? Un computer che fa girare una Copia poteva, sì, essere capace di generare delle descrizioni plausibili del comportamento umano in scenari ipotetici, e persino sembrare in grado di sostenere una conversazione - prevedendo correttamente cosa avrebbe fatto un uomo nella stessa situazione - ma ciò non bastava a rendere cosciente la macchina. Paul aveva stabilito sin da subito che l'intero dibattito era solo una gran perdita di tempo. Per qualsiasi umano, la prova assoluta della capacità di intendere e volere di una Copia era impossibile. Per qualsiasi Copia, la verità era autoevidente: cogito ergo sum. Fine della discussione. Ma per ogni umano che volesse garantire alle Copie la stessa ragionevole presunzione di coscienza che garantiva al suo prossimo umano, e per ogni Copia che fosse disponibile a ricambiare, il punto era questo: esistevano domande attorno alla natura di questa condizione condivisa a cui l'esistenza delle Copie dava una riposta più netta di tutto quel che c'era stato prima di loro. Questioni che dovevano essere approfondite, prima che la razza umana si prepari fiduciosa a lasciare in eredità ai suoi successori la sua cultura, i suoi ricordi, i suoi scopi e le sue identità. Domande a cui soltanto una Copia poteva rispondere. Paul era seduto nel suo studio, nella poltrona preferita (poco convinto che la tattilità della superficie

fosse stata riprodotta con accuratezza) prendendosi il massimo agio consentito dall'assurdità del timore di fare ulteriori esperimenti su di sé. Era già sopravvissuto alla transizione dal corpo in carne e ossa al modello fisiologico computerizzato, di gran lunga lo stadio più radicale del progetto. Al confronto, sistemare qualche parametro del modello sarebbe parso banale. Durham comparve sul terminale che, eccetto per questa funzione, rimaneva ancora fuori servizio. Paul iniziava a pensare a lui come a un piccolo djinn prepotente intrappolato nello schermo, più che a una grande divinità onnipotente che percorreva i corridoi della Realtà tirando le fila. Il suo tono di voce era sufficiente a far dileguare ogni aura di potere e grandeur. Squit. "Esperimento uno, prova zero. Dati base. Soluzione temporale un millisecondo, standard di sistema. Basta contare fino a dieci, a intervalli di un secondo, meglio che ti riesce. Va bene?" "Credo di farcela." L'aveva progettato di persona, non aveva bisogno di istruzioni dettagliate. L'immagine di Durham svanì. Durante gli esperimenti non potevano arrivare indizi dal mondo reale. Paul contò fino a dieci. Il djinn ritornò. Guardando quel viso sullo schermo, Paul comprese che non era più incline a considerarlo come "suo". Forse era un lascito dell'essersi distanziato dalle Copie precedenti. O forse l'immagine mentale di se stesso non era mai stata vicina alle apparenze reali, e adesso si stava allontanando ancor di più per difendere un equilibrio mentale. Squit. "Bene. Esperimento uno, prova numero uno. Risoluzione temporale cinque millisecondi. Sei pronto?" "Sì." Il djinn svanì. Paul contò. "Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei. Sette. Otto. Nove. Dieci." Squit. "Nulla da segnalare?" "No. Cioè, non riesco a non sentirmi un po' agitato sapendo che stai armeggiando con la mia… infrastruttura. A parte questo, niente." Lo sguardo di Durham non si appannava più mentre aspettava la replica accelerata. Forse aveva raggiunto un discreto livello di autodisciplina oppure, cosa più probabile, aveva interposto un programma intelligente di editing per nascondere la noia. Squit. "Non ti preoccupare se sei in apprensione. Stiamo facendo un controllo, lo hai dimenticato?" Paul avrebbe preferito che non gli venisse ricordato. Sapeva che Durham doveva averlo clonato e che stava fornendo lo stesso identico sensorio a entrambe le Copie, mentre apportava delle modifiche nella soluzione temporale soltanto in una delle due. Era una componente essenziale dell'esperimento, ma non voleva neppure pensarci. Un terzo sé che gli offuscasse i pensieri era troppo. Squit. "Prova numero due. Soluzione temporale dieci millisecondi." Paul contò. Pensò che fosse la cosa più facile al mondo, quando si è fatti di carne, quando si è costituiti di materia organica, quando quark ed elettroni reagiscono con naturalezza. Gli esseri umani, in fin dei conti, sono vincolati ai campi delle particelle elementari, incapaci di essere altro che se stessi. Le Copie erano vincolate alla memoria del computer come grandi serie di numeri. Numeri che di sicuro potevano essere interpretati come la descrizione del corpo di un uomo seduto in una stanza… ma era difficile accettare quel significato, considerarlo necessario, quando erano state fatte decine di migliaia di scelte arbitrarie su come codificare il modello. Questo è il mio tasso ematico di glucosio… o il livello di testosterone? È il tasso di scarica di un motoneurone mentre sollevo la mano destra, oppure un segnale che proviene dalla retina mentre mi osservo nell'atto di farlo? Qualunque persona, avendo accesso ai dati grezzi ma senza essere al corrente delle convenzioni, poteva passare un'intera vita a setacciare numeri senza decifrare alcun significato. Eppure nessuna Copia sepolta in quei dati, per quanto all'oscuro dei particolari, avrebbe avuto il minimo problema a dare un senso a tutto ciò in un istante. Squit. "Prova numero tre. Soluzione temporale venti millisecondi."

"Uno. Due. Tre." Perché il tempo scorresse per una Copia, i numeri che la definivano dovevano cambiare di momento in momento. Ricalcolata di continuo, una Copia era soltanto una sequenza di istantanee, di inquadrature di un film… o di un'animazione al computer. Ma… quando, esattamente, queste istantanee facevano nascere il pensiero cosciente? Mentre venivano calcolate? Oppure nei brevi intervalli in cui restavano immutate nella memoria del computer, senza fare altro che rappresentare un momento statico della vita della Copia? Quando entrambi gli stadi si verificavano un migliaio di volte per secondo soggettivo, non sembrava importare granché, ma molto presto… Squit. "Prova numero quattro. Soluzione temporale cinquanta millisecondi." Cosa sono io? I dati? Il processo che li genera? Il rapporto tra i numeri? Tutto questo messo insieme? "Cento millisecondi." "Uno. Due. Tre." Paul ascoltò la propria voce mentre contava, quasi aspettasse di sentire il principio del silenzio, di percepire fisicamente i buchi in se stesso. "Duecento millisecondi." Un quinto di secondo. "Uno. Due." E adesso stava forse oscillando dentro e fuori l'esistenza, a cinque hertz soggettivi? Il più rozzo film in celluloide non aveva mai sfarfallato in quel modo. "Tre. Quattro." Si agitò la mano davanti al viso. Il movimento sembrava del tutto sciolto, perfettamente normale. Eccome. Non stava guardando da fuori. "Cinque. Sei. Sette." Lo attraversò un'ondata improvvisa di nausea, ma riuscì a soffocarla e continuò. "Otto. Nove. Dieci." Il djinn ricomparve lanciando un breve squittio ansioso. "Che cosa c'è che non va? Ti vuoi fermare?" "No, sto bene." Paul osservò la stanza tratteggiata dai raggi del sole, aveva un non so che di innocente che lo fece ridere. Come avrebbe fatto Durham a gestire la situazione se il controllo e il soggetto avessero dato due risposte diverse? Cercò di concentrarsi sui piani stabiliti per un'evenienza del genere, ma non riuscì a ricordarli, e poi non importava molto. Non era più un suo problema. Squit. "Prova numero sette. Soluzione temporale cinquecento millisecondi." Paul contò, e la verità era che non si sentiva diverso. Certo, un po' a disagio, ma anche applicando la tara delle ripugnanze tutto quel che provava sembrava immutato. E il conto tornava, almeno nel lungo termine, perché nel lungo termine nulla veniva tralasciato. Il suo encefalomodello era descritto in toto soltanto a intervalli di mezzo secondo (tempo del modello), ma ogni descrizione comprendeva sempre i risultati di tutto quel che "sarebbe successo" nel frattempo. Ogni mezzo secondo, il suo cervello arrivava esattamente allo stato in cui si sarebbe trovato se non fosse stato tralasciato nulla. "Mille millisecondi." Ma, che succedeva nel frattempo? Le equazioni che controllavano il modello erano troppo complesse per trovare soluzione in un singolo passo. Durante il processo di calcolo venivano generati e scartati ampi gruppi di risultati parziali. In un certo senso, questi risultati parziali implicavano, anche se non rappresentavano direttamente, gli eventi intercorsi negli intervalli tra due successive descrizioni complete. E quando l'intero modello era arbitrario, chi poteva stabilire se questi eventi implicati, nascosti un po' più a fondo nel flusso di dati, erano "meno reali" di quelli descritti direttamente? "Duemila millisecondi." "Uno. Due. Tre. Quattro." Se gli sembrava di pronunciare (e si ascoltava pronunciare) tutti i numeri, era solo perché gli effetti dell'aver detto "tre" (sentendosi nel dirlo) erano impliciti nei dettagli del calcolo di comportamento del suo cervello, dal momento in cui aveva pronunciato "due" al momento in cui aveva detto "quattro". "Cinquemila millisecondi."

"Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque." Del resto, sentirsi dire parole che non aveva mai pronunciato "realmente" non era molto più strano del fatto che una Copia potesse sentire alcunché. Persino il conteggio standard in millisecondi di questo mondo era sin troppo approssimativo per poter restituire l'intera gamma dei suoni udibili. Il suono nel modello non era rappresentato da fluttuazioni dei valori pressori dell'aria, che non potevano cambiare abbastanza velocemente ma in termini di spettro di potenze audio: profili di intensità contro frequenza. Qui venti kilohertz erano solo un numero, un'etichetta, nulla poteva oscillare davvero a quel ritmo. L'apparato uditivo reale analizzava le onde di pressione in componenti di varia intonazione. Paul sapeva che al suo cervello arrivavano direttamente i valori preesistenti dello spettro di potenza, prelevati da un'inesistente atmosfera mediante una superficie grossolana all'interno del modello. "Diecimila millisecondi." "Uno. Due. Tre." Dieci secondi in caduta libera da un'inquadratura all'altra. Mentre reprimeva un senso di vertigine, continuando a contare con ritmo uniforme, Paul si tastò il taglio superficiale che si era procurato all'avambraccio con il coltello da cucina. Bruciava in maniera convincente. Quindi da dove arrivava quell'esperienza? Una volta trascorsi i dieci secondi, il suo cervello interamente descritto si sarebbe ricordato di tutto… ma non avrebbe dato conto di quel che stava accadendo adesso. Il dolore era qualcosa di più del ricordo del dolore. Si sforzò di immaginare il groviglio di miliardi di calcoli intermedi che in qualche modo "quadravano", che colmavano il vuoto. E si domandò: Cosa succederebbe se qualcuno spegnesse il computer, se staccasse la spina, adesso? Però non capiva cosa significava. In termini che non fossero i suoi, non sapeva quando era adesso. "Otto. Nove. Dieci." Squit. "Paul, noto un abbassamento della pressione arteriosa. Stai bene? Come ti senti?" Mi gira la testa… ma invece rispose: "Come al solito". E se non era del tutto vero, non c'era dubbio che il controllo avesse dato la stessa bugia. Supponendo… "Dimmi, chi ero io? Il controllo o il soggetto?" Squit. Durham replicò: "Non posso rispondere, sto ancora comunicando con tutti e due. Però posso anticiparti questo: voi due siete tuttora identici. Ho notato alcune piccole discrepanze transitorie, che ormai sono sparite completamente, e quando vi siete trovati in rappresentazioni comparabili ogni schema di scarica di più di due neuroni risultava identico." Paul grugnì, come a qualcosa che non importasse, non aveva alcuna intenzione di far capire a Durham quanto era stato sconvolgente l'esperimento. "Che ti aspettavi? Se risolvi la stessa serie di equazioni in due modi diversi, ottieni di sicuro gli stessi risultati, più o meno qualche discrepanza marginale data da arrotondamenti raccolti per strada. Devi. È una certezza matematica." Squit. "Oh, sono d'accordo con te." Il djinn scrisse sullo schermo con un dito: (1 + 2) + 3 = 1 + (2 +3) Paul disse: "Allora perché continuare in questa fase? Lo so, ho cercato di essere rigoroso, di gettare delle basi solide. Ma la verità è che si tratta solo di uno spreco delle nostre risorse. Perché non saltiamo l'ovvio e passiamo al genere di esperimenti che non prevedono una risposta telefonata?" Squit. Durham s'accigliò in segno di riprovazione. "Non avevo ancora capito che fossi diventato così cinico. L'Intelligenza artificiale non è un ramo della matematica pura, è una scienza empirica. Gli assunti devono essere messi alla prova. Non è poi tanto disonorevole confermare il cosiddetto 'ovvio', no? E se è tutto tanto lineare, perché averne paura? " "Non ho paura, volevo solo darci un taglio. Ma… prosegui pure. Dimostra quel che credi di dover dimostrare, poi potremo procedere." Squit. "Questo è come da programma. Ma credo che una pausa farà bene a entrambi. Ti abilito le comunicazioni, ma solo per i dati in arrivo." Si girò, scomparendo dallo schermo per schiacciare i tasti

di un secondo terminale. Poi si voltò di nuovo verso la telecamera, sorridente… e Paul indovinò con esattezza quel che stava per dire. Squit. "A proposito, ho appena cancellato uno dei due. Non mi potevo permettere di farvi andare entrambi, quando non fate altro che poltrire." Paul gli restituì il sorriso, ma dentro di sé avvertiva qualcosa che urlava. "Quale hai terminato?" Squit. "Che differenza fa? Te l'ho detto che erano identiche. E tu sei ancora lì, no? Chiunque tu sia. Qualunque cosa tu sia." All'esterno erano passate tre settimane dal giorno della scansione, ma Paul non ci mise molto a rimettersi al passo col mondo. La maggior parte dei particolari più minuti era stata resa irrilevante dagli eventi successivi, e molti flussi e riflussi si erano semplicemente cancellati da soli. Israele e la Palestina erano di nuovo sul piede di guerra per presunte violazioni reciproche del trattato sulle acque, ma una manifestazione congiunta per la pace aveva portato più di un milione di persone sulla spianata vetrificata che un tempo era stata Gerusalemme, e i due governi avevano fatto marcia indietro. L'ex presidente degli Stati Uniti, Martin Sandover, si batteva ancora per evitare l'estradizione a Palau, dove avrebbe dovuto rispondere per le imputazioni relative al suo ruolo nel colpo di stato del '35. La corte suprema aveva finalmente abrogato la norma che, fino a quel momento, gli aveva garantito l'immunità rispetto a tutte le leggi straniere, e per un paio di giorni gli sviluppi erano parsi promettenti, ma poi la sua squadra di avvocati era ricorsa a un nuovo sistema di tattiche dilatorie. A Canberra si era conclusa un'altra sfida per la leadership politica, e il primo ministro era ancora in carica. In un servizio di una settimana prima, un giornalista lo definiva "un dramma", con un'espressione del viso molto compunta. Paul pensò: Dovevi essere là. L'inflazione era diminuita di un mezzo punto percentuale, mentre la disoccupazione era aumentata di altrettanto. Passò in rassegna rapidamente le notizie dei giorni precedenti, scorrendo gli articoli e mandando in avanzamento veloce sequenze che altrimenti si sarebbe studiato con scrupolo, se solo non fossero state così vecchie. Provava uno strano risentimento per aver perso tanto. Adesso avrebbe potuto recuperare, ma non era la stessa cosa. Eppure, non doveva, forse, sentirsi sollevato per non aver sprecato tempo in dettagli tanto effimeri? Il solo fatto di essersi così disinteressato, dimostrava quanto poco contasse alla lunga. Ma poi cosa era importante? La gente non viveva in tempi geologici. Abitavano le ore e i giorni, e solo di questo dovevano interessarsi: delle cose in quella scala temporale. La gente. Paul si inserì nella tv in tempo reale per guardar sfrecciare in meno di due minuti un episodio della Famiglia Pocochiara, le cui voci gli arrivavano come uno stridio incomprensibile. Un gioco a quiz. Un film di guerra. Il notiziario della sera. Pareva di essere nello spazio profondo, mentre volavi verso la Terra attraverso un mare di trasmissioni compresse dall'effetto Doppler. Quell'immagine fu stranamente consolante: in fondo la sua situazione non era tanto bizzarra se anche gli umani in carne e ossa potevano trovarsi nella sua stessa condizione rispetto al mondo. Nessuno poteva sostenere che l'effetto Doppler fosse in grado di sottrarre l'umanità di chicchessia. Sulla città registrata calò il crepuscolo. Paul mangiò una bistecca di proteine di soia cotta al microonde, chiedendosi se ci fosse una ragione ideologica o cos'altro per continuare la dieta vegetariana. Ascoltò musica fino a notte fonda. Tsang Chao, Michael Nyman, Philip Glass. Non cambiava niente se ogni nota in realtà durava diciassette volte più del dovuto, o se il Rom audio nell'impianto stereo non possedeva alcuna microstruttura reale o se il suono veniva trasmesso al suo encefalomodello per una trovata computerizzata che non somigliava affatto al normale processo uditivo. Il momento culminante del

Mishima di Glass ancora lo trafiggeva come un uncino conficcato nel cuore. E se i calcoli dietro tutto questo fossero stati eseguiti per millenni da gente che faceva scattare le palline dell'abaco, si sarebbe sentito esattamente uguale? Lo offendeva ammetterlo… ma la risposta era sì. Rimase sdraiato sul letto a chiedersi: Voglio veramente essere risvegliato da questo sogno? Era comunque una domanda retorica. Tanto non aveva scelta.

4 [REMIT NOT PAUCITY] Novembre 2050

Maria era d'accordo con Aden per incontrarsi al Nadir, un locale di Oxford Street dove ogni tanto lui suonava e più spesso andava a scrivere. Di solito Aden riusciva a farli entrare gratis tutti e due. Dopo una breve ispezione di sicurezza, la porta, un aggeggio minaccioso tipo portellone stagno di acciaio nero anodizzato fitto di nervature, la lasciò passare indisturbata. Una volta Maria aveva fatto un incubo in cui rimaneva intrappolata in quella camera stagna, e aveva inspiegabilmente un pugnale legato allo stivale destro… e ancor peggio, il suo credito era stato revocato. Quella cosa l'aveva digerita come una pianta carnivora con un insetto, mentre Aden era sul palco a cantare una delle sue canzoni d'amore in cut-up. All'interno, il locale era piuttosto affollato per essere martedì sera, e male illuminato come sempre. Alla fine, localizzò Aden seduto a un tavolino lungo la parete laterale, intento ad ascoltare un gruppo e a comporre, col viso illuminato dal riflesso del taccuino. Da quel che lei poteva capire, Aden non si lasciava influenzare da quel che ascoltava, eppure sosteneva di non essere capace di scrivere musica in silenzio, preferendo ispirarsi con concerti dal vivo, o catalizzarsi o quel che era. Lo toccò su una spalla. Lui sollevò il viso, si tolse la cuffia e si alzò per baciarla. Sapeva di succo d'arancia. Le fece segno con la cuffia. "Dovresti sentirli. I Crooked Buddhist Lawyers on Crack. Sono discreti." Maria lanciò un'occhiata in direzione del palco, anche se non c'era modo di capire a chi si riferisse. Racchiusi in cilindri insonorizzati di plastica c'erano circa dodici musicisti, quattro gruppi in tutto. Quasi tutti gli avventori erano sintonizzati, con le cuffie captavano i suoni di una band mentre gli occhiali a cristalli liquidi tremolavano in sincrono con un gruppo di cilindri per rendere invisibili gli altri musicisti. Qualcuno chiacchierava sottovoce, e fra le cinque possibili colonne sonore dell'ambiente Maria si decise per quel semisilenzio rilassante che meglio si addiceva al suo umore. Inoltre non le andava di utilizzare i neuroinduttori attuali. Per quanto non rischiassero di danneggiare fisicamente il timpano (risparmiando così alla direzione ogni rischio di grane legali), le lasciavano sempre nelle orecchie un fastidioso ronzio, indipendentemente dal volume prescelto. "Forse più tardi." Si sedette accanto ad Aden, sentendolo irrigidirsi un tantino quando le loro spalle si sfiorarono, e poi costringersi a rilassarsi. O forse no. Spesso, quando pensava di essere in grado di interpretare il linguaggio del suo corpo, Maria stava solo interpretando segnali dal nulla. Disse: "Oggi ho ricevuto una posta pubblicitaria che sembravi tu". "Che lusinga. Almeno credo. Cosa vendevano?" "La Chiesa del Dio che non fa differenze." Lui scoppiò a ridere. "Ogni volta che la sento mi vien da pensare che farebbero meglio a cambiarle nome. Un Dio che non fa differenze non si merita l'articolo determinato 'il' o il pronome 'che'." "Farò scorrere di nuovo il programma, così voi due potrete dirimere la contesa a suon di pugni." "No, grazie." Aden bevve un sorso della sua bibita. "Posta normale? Contratti?" "No." "Così… un'altra giornata di noia assoluta." "Quasi." Maria indugiò. Di solito Aden le chiedeva se c'erano novità quando era lui che doveva annunciare qualcosa, ed era curiosa di scoprire cosa fosse. Ma non le offrì il minimo indizio, perciò Maria proseguì descrivendo il suo incontro con l'Operazione farfalla. Aden disse: "Mi pare di averne già sentito parlare. Però mi sembrava fosse roba vecchia di decenni". "E in effetti lo è, però le simulazioni sono partite sul serio. E alla grande."

Lui parve addolorato. "Controllo del clima? Chi credono di prendere in giro?" Maria trattenne la sua irritazione. "La teoria deve sembrare valida, altrimenti non si sarebbero spinti tanto in là. Nessuno spende qualche milione di dollari all'ora in tempo di supercomputer se non ha buone probabilità di rifarsi." Aden ridacchiò. "Oh, certo che sì. E di solito si chiama Operazione vattelapesca. Ti ricordi l'Operazione irraggiamento?" "Certo che mi ricordo." "Volevano disseminare gli strati superiori dell'atmosfera con delle nanomacchine per monitorare la temperatura, e teoricamente farci non so cosa." "Delle particelle meccaniche che riflettevano alcune frequenze delle radiazioni solari e poi le degradavano, come richiesto." "In parole povere, volevano coprire il pianeta con una gigantesca termocoperta." "E cosa c'era di tanto tremendo?" "A parte la pura e semplice hybris tecnocratica, intendi? E a parte il fatto che liberare un qualsiasi genere di replicatore nell'ambiente è ancora illegale, grazie a Dio? Non avrebbe funzionato. C'erano delle complicazioni che nessuno aveva previsto, tipo gli strati instabili dell'atmosfera, che avrebbero contrastato gran parte dell'effetto." "Esatto. Ma come facevano a saperlo se prima non si tentava una simulazione come si deve?" "Puro buon senso. Che bell'idea scagliare la tecnologia contro i problemi creati dalla tecnologia…" Maria sentì svanire la sua pazienza. "E tu cosa faresti, invece? Ti chineresti al cospetto della natura sperando di essere premiato per questo? Credi che Madre Gaia ci perdonerà e rimetterà a posto tutto, non appena avremo rinunciato ai nostri maledetti computer, promettendo di smetterla di tentare di sistemare le cose da soli?" Altro che Madre Gaia, suor Gaia! Aden si fece serio. "No, ma il solo modo di 'sistemare' le cose è avere un minore impatto sul pianeta, non maggiore. Invece di strologare questi progetti grandiosi per rimettere tutto a posto con la forza, dovremmo smetterla, lasciare stare, dare alla natura la possibilità di guarire." Maria era stupefatta. "È troppo tardi. Se fosse cominciato cent'anni fa… d'accordo. Tutto poteva andare diversamente. Ma non basta più, sono già stati fatti troppi danni. Avanzare in punta di piedi tra le rovine, sperando che i sistemi ecologici che abbiamo compromesso si riprendano da soli come per magia, e procedere col doppio di circospezione ogni volta che la popolazione raddoppia, non serve a niente. Ormai l'intero ecosistema planetario è un artefatto, come… il microclima di una città. Credimi, vorrei tanto che fosse diverso, ma le cose stanno così, e adesso che abbiamo creato un mondo artificiale, volutamente o no, faremmo meglio a imparare a controllarlo. Perché, se adesso ci tiriamo indietro lasciando i nostri destini al caso, tutto andrà a pezzi in un modo tanto casuale che difficilmente sarà migliore dei nostri peggiori errori dettati dalla buona intenzione." Aden era orripilato. "Un mondo artificiale? Ci credi sul serio?" "Sì." "Solo perché passi tanto tempo in Realtà virtuale non riesci più a capire la differenza." Maria era indignata. "Quasi mai…" Poi si trattenne, comprendendo che Aden alludeva all'Autoverso. Lei aveva rinunciato da tempo a fargli entrare in testa la differenza. Aden a quel punto ammise: "Scusami, era un colpo basso". Fece un cenno come di rinuncia, un gesto della mano più impaziente che dispiaciuto. "Senti, lasciamo perdere queste ecofesserie deprimenti. Ho delle buone notizie, tanto per cambiare. Si va a Seul." Maria scoppiò a ridere. "Noi? Perché?" "Mi hanno offerto un lavoro. Dipartimento universitario di musicologia." Maria gli lanciò un'occhiata pungente. "Grazie per avermi avvertito che avevi fatto domanda."

Lui scrollò le spalle come se niente fosse. "Non volevo crearti delle aspettative. O crearmele. L'ho saputo solo oggi pomeriggio. Ancora non riesco a crederci. Compositore residente, per un anno. Un paio di ore alla settimana di didattica, e per il resto del tempo posso fare quel che mi pare e piace, scrivere, suonare, produrre, di tutto. E ci aggiungono anche vitto e alloggio gratis. Per due." "Ma… piano. Poche ore di didattica? Allora perché devi andare là di persona?" "Mi vogliono fisicamente. È una questione di prestigio. Qualsiasi università da operetta è capace di collegarsi in rete e procurarsi una decina di conferenzieri in giro per il mondo…" "Non si tratta di operetta, si tratta di efficienza." "Efficiente e a buon mercato. Questo posto non vuole essere a buon mercato. Vogliono un arredo culturale esotico. Smettila di ridere. Questo mese a Seul va di moda l'Australia. Capita solo una volta ogni vent'anni, perciò approfittiamone. E vogliono un compositore residente. Residente." Maria si appoggiò allo schienale per metabolizzare la novità. Aden riprese: "Non so tu, ma io ho parecchi problemi a immaginare come potremmo permetterci di passare un anno in Corea in altra maniera." "E hai risposto di sì?" "Ho detto forse, ho detto che è possibile." "Vitto e alloggio per due. Cosa dovrei fare io mentre tu sarai esotico e decorativo?" "Quel che ti pare. Tutto ciò che fai qui lo puoi fare anche laggiù. Sei tu quella che ripete in continuazione di essere collegata al mondo, un nodo in un dataspazio logico, che il tuo dislocamento fisico è del tutto irrilevante…" "Sì, e il succo del discorso è che non ho bisogno di muovermi. Mi piace qui dove sto." "In quel buco." "Un appartamento nel campus di Seul non sarà molto più spazioso." "Usciremo! È una città eccitante, laggiù è in corso un vero e proprio rinascimento culturale, non è solo il giro della musica. Potrai trovare un progetto entusiasmante su cui lavorare. Mica tutto viene trasmesso in rete." Era abbastanza vero. La Corea era membro a tutti gli effetti dell'Asean, a differenza dell'Australia, sospesa in un limbo. Se si fosse ritrovata a vivere a Seul al momento giusto, con i contatti giusti, avrebbe finito col far parte dell'Operazione farfalla. E anche se erano solo pie speranze (forse per intrecciare i contatti giusti le ci sarebbero voluti dieci anni) non poteva andare molto peggio che a Sidney. Maria rimase in silenzio. Erano delle buone notizie, un'opportunità preziosa per tutti e due, ma ancora non riusciva a spiegarsi perché Aden gliene avesse parlato solo ora. Perché non quando aveva presentato la domanda, per quanto fosse scettico sulle probabilità di farcela? Lanciò un'occhiata al palco, ai dodici musicisti sudati che ce la mettevano tutta, poi distolse lo sguardo. C'era un che di voyeuristico e sconcertante nel rimanere a guardarli senza essere collegata. Non soltanto nel vederli agitarsi senza suono, ma anche nel sapere che nessuno del gruppo poteva scorgere gli altri, nonostante lei riuscisse a seguirli tutti quanti. Aden disse: "Non c'è fretta, non devi decidere su due piedi. L'anno accademico inizia il nove gennaio. Tra due mesi". "Non devono essere informati molto prima?" "Per lunedì vogliono sapere se ho accettato il lavoro, ma non credo che la sistemazione sarà un gran problema. Voglio dire, se finisco da solo in un appartamento per due, non sarà poi la fine del mondo." La guardò con aria innocente, come per sfidarla, come per darle il tempo e il luogo per rispondere di no a una possibilità del genere, soltanto perché lei non voleva accompagnarlo. Maria disse: "No, certo che no. Che stupida che sono". A casa, Maria non resistette alla tentazione di inserirsi nella Borsa Qips, solo per vedere come

andava. L'Operazione farfalla era scomparsa dal mercato. Omniaveritas, il suo browser, non aveva trovato alcun servizio su uragani nella regione. Forse quello che era stato previsto non si era concretizzato, o forse doveva ancora formarsi, ma le simulazioni avevano già espresso il loro verdetto. Era strano pensare che tutto era finito prima che la tormenta diventasse realtà… ma poi, quando fosse successo qualcosa degno di nota, c'era da sperare che i veri dati meteorologici non fossero in relazione con quanto sarebbe accaduto se gli strumenti di controllo del clima fossero stati in funzione. Il solo dato reale necessario per la simulazione era il punto di partenza comune, un'istantanea del clima del pianeta un attimo prima dell'inizio dell'intervento. La quotazione dei Qips era ancora del 50% più alta del normale, man mano che gli utenti comuni si affannavano a completare i loro lavori ritardati. Maria esitò, aveva bisogno di tirarsi su di morale ma entrare in Autoverso adesso sarebbe stato un errore. Molto più sensato aspettare il mattino. Si inserì in Jsn, s'infilò i guanti, attivò lo spazio di lavoro. L'icona di un uomo che scivolava su una buccia di banana, bloccata a metà caduta, rappresentava l'istantanea del suo lavoro interrotto. La premette, e subito ricomparvero i terreni di coltura, l'A. lamberti che si nutriva, si divideva e moriva, come se le ultime quindici ore non fossero mai trascorse. Avrebbe potuto chiedere direttamente ad Aden: Vuoi andare a Seul da solo? Vuoi che stiamo lontani per un anno? Se è così, perché non me lo dici? Ma lui avrebbe negato, che fosse la verità o meno. E lei non gli avrebbe creduto, che stesse mentendo o meno. Perché porre la domanda, se la risposta non ti aiutava in nulla? Adesso sembrava poco importante: Seul o Sidney, benvenuta o male accetta. Avrebbe potuto raggiungere questo posto da ogni parte, dal punto di vista geografico ed emotivo. Rimase con gli occhi fissi sul dataspazio, facendo scorrere un dito guantato attorno a un disco di Petri per i terreni di coltura, affermando con tono sarcastico: "Mi chiamo Maria, e sono un'Autoversodipendente". Sotto i suoi occhi la coltura nel discoide che aveva sfiorato passò da un azzurro opaco al più puro marrone, poi cominciò a diventare trasparente, mentre il programma di visualizzazione smetteva di classificare gli A. lamberti morti, niente più che un aggregato casuale di molecole organiche. Però, man mano che la massa bruna si dissolveva, Maria si accorse che le era sfuggito un dettaglio. Una macchiolina blu elettrico. Zummò su quella, rifiutandosi di saltare subito a conclusioni affrettate. La chiazzetta era un piccolo grappolo di batteri sopravvissuti che crescevano lentamente, ma ciò non provava nulla. Qualche ceppo era durato più di altri. Per essere pedanti, c'era sempre un minimo di "selezione naturale"… ma l'onore di essere l'ultimo dinosauro non era esattamente il genere di trionfo evolutivo che lei stava cercando. Richiamò un istogramma che evidenziava la prevalenza di forme differenti di enzimi epimerasi, gli strumenti su cui aveva appuntato le sue speranze per ritrasformare il mutosio in nutrosio… ma non c'era nulla fuori dal comune, solo la solita dispersione di sfortunate mutazioni dalla vita breve. Nessun cenno su come questo ceppo poteva essere diverso dai suoi cugini estinti. E allora perché se la passava tanto bene? Maria contrassegnò una porzione di molecole di mutosio nel mezzo di coltura, assegnando a cloni multipli del Diavoletto di Maxwell l'incarico di seguire i loro movimenti e renderli visibili, l'equivalente in Autoverso della tecnica biochimica reale dell'etichettamento radioimmunologico, assieme a un qualche tipo di risonanza magnetica nucleare, dal momento che i diavoletti potevano segnalare ogni cambiamento chimico e indicare l'esatta posizione. Zummò su un A. lamberti superstite, adesso rappresentato in grigio naturale, seguendo uno sciame di puntolini verdi fosforescenti che attraversavano la cellula e sgomitavano nel citoplasma sull'onda del moto browniano. Uno per uno, una frazione di segnali passò dal verde al rosso, indicando il passaggio nel primo stadio della via metabolica: l'aggancio di un gruppo di atomi ricco di energia, più o meno l'equivalente in

Autoverso di un gruppo fosforilato. Ma non c'era niente di nuovo: per i primi tre stadi del processo, gli enzimi che lavoravano con il nutrosio avrebbero scialato energia all'impostore come fosse quello vero. In senso stretto, quei puntolini rossi non erano più mutosio, ma Maria aveva istruito i diavoletti a utilizzare un viola inconfondibile non solo in presenza del nutrosio ma anche nel caso che le molecole in esame venissero riscattate a uno stadio successivo, salvate a metà digestione. Con gli enzimi epimerasi immutati, dubitava che potesse accadere… eppure i batteri riuscivano a proliferare. Le molecole contrassegnate in rosso vagavano a caso nella cellula, quelle digerite in parte si mescolavano indifferentemente con quelle intatte. I grafici dei processi metabolici, il ciclo di EmbdenMeyerhof del mondo reale oppure il ciclo di Lambert per l'Autoverso, davano costantemente l'impressione di un nastro trasportatore molecolare ordinato, anche se, invece, la vita in entrambi i sistemi era sostenuta ai livelli profondi soltanto da una sequenza di collisioni fortuite. Qualche segnalino passò sull'arancione. Secondo stadio: un enzima riduce l'anello esagonale della molecola a un pentagono, trasformando il vertice di troppo in un grappolo sporgente, più esposto e più reattivo. Ancora niente di nuovo. E ancora nessuna traccia di viola. Poi non successe più nulla così a lungo che Maria controllò l'orologio e disse: "Globo", controllando se per la giornata si fosse inserito qualche grosso centro. Ma la visione autentica della Terra dallo spazio mostrò l'alba in pieno Pacifico. La California doveva essere in attività già da prima che lei tornasse a casa. Qualche contrassegno arancione passò al giallo. Il terzo stadio del ciclo di Lambert, come il primo, consisteva nel legare allo zucchero un gruppo energetico di atomi. Con il nutrosio c'era un vantaggio finale, dal momento che veniva "ricaricato" il doppio delle molecole di quante ne venissero "scaricate", tra quelle che fornivano energia. Però il quarto stadio, con la scissione dell'anello in due frammenti più piccoli, era il momento in cui il mutosio bloccava gli ingranaggi in modo irrecuperabile. Solo che una macchiolina gialla s'era appena scissa in due sotto i suoi occhi… ed entrambe le nuove bandierine erano colorate di viola. Sbigottita, Maria perse traccia della prova. Poi vide ripetersi lo stesso fenomeno. E una terza volta ancora. Ci mise un minuto per capire il processo, e comprenderne il significato. Il batterio non stava rovesciando il cambiamento che lei aveva apportato allo zucchero, riconvertendo il mutosio in nutrosio, o facendo altrettanto a qualche metabolita semidigerito. Doveva aver modificato, invece, l'enzima che spezzava l'anello, giungendo a una versione che operava direttamente sul metabolita del mutosio. Maria bloccò l'azione, zummò e seguì un replay in scala molecolare. L'enzima, composto di migliaia di atomi, rendeva impossibile notare le differenze a una prima occhiata, ma non c'era dubbio su cosa stesse facendo. Lo spuntone rosso-blu a due atomi che aveva riposizionato sullo zucchero non era scattato al suo solito posto. Perciò l'enzima si adattava perfettamente alla geometria alterata. Richiamò una versione nuova e una vecchia dell'enzima, evidenziò le regioni in cui la struttura terziaria era differente e le sondò con i polpastrelli, confermando al tatto che la cavità della gigantesca molecola in cui aveva avuto luogo la reazione aveva cambiato forma. E quando l'anello si rompeva? I frammenti erano uguali, che lo zucchero originario fosse nutrosio o mutosio. Il resto del ciclo di Lambert proseguiva come se non fosse successo nulla. Maria era entusiasta, e anche un po' frastornata. Erano sedici anni che si cercava di ottenere un adattamento spontaneo come quello. Non sapeva neppure lui come mai ci era riuscita. Da cinque anni manipolava i meccanismi di correzione dell'errore del batterio, cercando di costringere l'A. lamberti a mutare non in modo più veloce ma più casuale. Ogni volta era finita con un ceppo che soffriva della medesima manciata di inutili mutazioni prevedibili, ancora e ancora, come l'originale di Lambert, come

quelli di tutti i ricercatori… nemmeno ci fosse qualcosa di annidato nei meccanismi dell'Autoverso a escludere quella diversità esuberante che nella biologia del mondo reale si otteneva con tanta facilità. Calvin e altri avevano teorizzato che, considerando che la fisica dell'Autoverso ometteva l'indeterminazione insita nella meccanica quantistica del mondo reale - visto che le mancava questo flusso vitale di "vera imprevedibilità" - non ci si poteva aspettare a nessun livello un'identica ricchezza di fenomeni. Ma era soltanto un concetto assurdo, e adesso lei lo aveva dimostrato. Per un attimo pensò di telefonare ad Aden, o a Francesca, ma Aden non era in grado di capire e si sarebbe limitato ad assentire garbatamente, e sua madre non si meritava di essere svegliata a quell'ora. Si alzò, misurando a grandi passi la stanza da letto, troppo eccitata per restarsene ferma. Avrebbe inviato una lettera alla "Rivista dell'Autoverso" (numero abbonamenti: 73) contenente il genoma del ceppo che aveva creato, con una nota a margine, in modo che tutti potessero replicare l'esperimento… Si sedette per iniziare a scrivere, aprendo un word processor in primo piano nello spazio di lavoro, poi decise che era una mossa prematura, c'era ancora molto lavoro da fare per creare le basi anche di una relazione succinta. Clonò una piccola colonia del ceppo mangia-mutosio, e la osservò mentre cresceva uniforme in una coltura di mutosio allo stato puro. Nulla di sorprendente, ma valeva sempre la pena di farlo. Poi tentò altrettanto con il nutrosio puro, e la colonia morì di colpo, ovvio. L'enzima originale della rottura dell'anello si era perso, i ruoli iniziali di nutrosio e mutosio in quanto cibo e veleno si erano invertiti. Maria rifletté. L'A. lamberti si era adattato, ma non come si sarebbe aspettata. Perché non aveva trovato il modo di utilizzare entrambi gli zuccheri, invece di scambiare una dipendenza esclusiva con un'altra? Sarebbe stata una strategia di gran lunga migliore. Così si sarebbe comportato un batterio del mondo reale. Considerò la questione per un po', e scoppiò a ridere. Sedici anni trascorsi sulle tracce di un qualsiasi esempio purché convincente della selezione naturale nell'Autoverso, ed ecco che lei si angustiava perché non era il migliore degli adattamenti possibili. L'evoluzione era una passeggiata casuale su un campo minato, non era una traiettoria preordinata, sempre avanti e sempre in alto in cerca della perfezione. L'A. lamberti era inciampato in un metodo fortunato di convertire il veleno in cibo. Che disdetta che il corollario fosse: e viceversa. Maria condusse una decina di esperimenti. Perse la nozione del tempo. All'alba, il programma aumentò la luminosità delle immagini, per impedire che la luce del giorno le cancellasse. Fu solo quando sentì un calo di concentrazione e si guardò intorno che capì quanto s'era fatto tardi. Riprese a scrivere la lettera. Dopo tre stesure del primo paragrafo (che si erano guadagnate l'identico giudizio di Occhio di cammello: Quando la rileggerai ti farà schifo, fidati) ammise finalmente di non poterne più. Chiuse tutto e strisciò nel letto. Rimase immobile per un bel pezzo, inebetita, col viso sepolto nel cuscino, aspettando che svanissero le ultimi immagini dei terreni di coltura e degli enzimi. Cinque anni prima sarebbe riuscita a restare alzata tutta la notte senza patire altro che una salva di sbadigli a metà pomeriggio. Adesso le sembrava di essere stata travolta da un treno, e le conseguenze se le sarebbe trascinate per giorni e giorni. Trentun anni, vecchia, vecchia, vecchia. Le pulsavano le tempie, il corpo le doleva dappertutto. Non le importava nulla. Adesso tutto il tempo e i soldi che aveva buttato nell'Autoverso erano valsi la pena. Ogni momento passato aveva trovato la sua giustificazione. Davvero? Si girò sulla schiena, aprendo gli occhi. Cos'era cambiato, esattamente? Restava sempre un hobby privato, un gioco al computer più complicato degli altri. Sarebbe diventata famosa tra altri

settantadue patiti dell'Autoverso, un bel gruppo di ritenzionisti anali. Quante bollette ci poteva pagare? Quanti tifoni avrebbe neutralizzato? Avvolse la testa nel cuscino, sentendosi mutila, stupida, disperata, e insolentemente felice, fin quando le membra si intorpidirono, la bocca si inaridì e la stanza parve cullarla nel sonno.

5 [REMIT NOT PAUCITY] Novembre 2050

Peer appoggiò saldamente le piante dei piedi e il palmo della mano contro il vetro per prendere fiato. Inarcò il capo per osservare un'altra volta la parete argentea del grattacielo che si allungava sopra di lui verso l'infinito. Delle nuvole simili a fiocchi di cotone si spostavano più in alto di ogni parte dell'edificio, anche se il palazzo proseguiva ancora e ancora. Liberò il piede destro, lo premette contro un punto più alto della parete, poi si girò per guardare la griglia regolare della città in basso, circondata da quartieri periferici ordinati come campi arati. Lo scorcio della campagna formava un orlo verdastro per la conca emisferica della Terra. Un orizzonte azzurrino intersecava di netto il panorama. I vari aspetti del paesaggio, come le nuvole, erano "infinitamente grandi" e "infinitamente lontani". Una città compiuta, per quanto grande, si doveva restringere fino a scomparire, come la base del grattacielo. La distanza era qualcosa di più di un trucco prospettico, però. Peer sapeva che poteva continuare a scendere verso terra per quanto gli pareva senza mai raggiungerla. Ore, giorni, secoli. Non riusciva a ricordarsi di aver cominciato la discesa, anche se capiva con chiarezza (sapere delle nubi, ricordi delle nubi) il senso in cui c'era un inizio e il senso in cui non ce n'era alcuno. I suoi ricordi del grattacielo, come la sua visione dell'edificio, sembravano convergere verso un punto di fuga. A ripensarci, a partire dal momento attuale, riusciva a riportare alla mente soltanto l'atto della discesa, inframmezzato dalle pause di riposo. Anche se la sua mente aveva divagato, era sempre rimasto cosciente. Il passato pareva allungarsi senza soluzione di continuità, per sempre, eppure poteva contenerlo tutto nel suo sguardo finito, grazie a qualche legge di prospettiva mentale, a un calcolo della memoria che limitava l'apporto decrescente al suo stato mentale da parte di momenti sempre più distanti nel passato. Ma aveva anche i suoi ricordi delle nubi, ricordi di prima della discesa. Non li poteva aggiungere al presente, ma esistevano ugualmente, erano un fondale da cui provenivano notizie di sé dirette a tutto il resto. Sapeva con esattezza chi era stato e cos'aveva fatto, in quel tempo prima del tempo che adesso abitava. Quando si era fermato Peer era sfinito, ma dopo un minuto di riposo era nuovamente energico ed entusiasta come non mai. Nel tempo delle nuvole, quando si stava preparando, aveva cancellato ogni bisogno o desiderio, di cibo, bevanda, sonno, sesso, compagnia, o persino di un cambiamento di scenario, e aveva preprogrammato il suo eso-sé, il software di sorveglianza sofisticato ma privo di coscienza che poteva entrare nel modello del suo encefalo e del corpo per regolare ogni parte che ne avesse necessità, in modo da assicurarsi che queste condizioni rimanessero inalterate. Riprese la discesa soddisfatto, un Sisifo felice. Scendere lungo la liscia facciata a specchi del grattacielo era ancora la gioia più assoluta che riusciva a immaginare: il tepore del sole che gli si rifletteva addosso, le folate di vento pungente, il lieve scricchiolio di acciaio e cemento. Adrenalina e tranquillità. Il ciclo dello sforzo e del recupero perfetto. Moto perpetuo. Toccare l'infinito. L'edificio, la terra, il cielo e il suo corpo svanirono. Ridotto a vista e udito, Peer si ritrovò a osservare il suo Bunker: un gruppo di schermi fluttuanti in un vuoto nero. Su uno schermo c'era Kate, bidimensionale, in bianco e nero, solo le labbra si muovevano. Disse: "Hai predisposto una soglia bestiale. Se non ti richiamavo, ti saresti ritrovato tra un decennio". Peer grugnì, sconcertato per un istante dalla mancanza di feedback tattile dai classici organi della favella, e diede un'occhiata, tramite proponimento di movimento oculare, allo schermo accanto a Kate, un diagramma della storia recente del tempo del Bunker rispetto al tempo reale. Osservare il Bunker (dire "starci dentro" sarebbe stata un'esagerazione) era lo stato di calcolo più

efficiente che una Copia poteva adottare prima di perdere i sensi. Il corpo di Peer non era più simulato, le parti essenziali del suo encefalomodello erano state riprodotte in una rete neurale astratta, una collezione di gate digitali idealizzati senza pretese di verosimiglianza fisiologica. Non entrava molto spesso in quello stato, ma il tempo del Bunker era tuttora uno standard utile come base di raffronto. Nel migliore dei casi, nelle rare occasioni in cui c'era scarsità di domanda e poteva condividere un gruppo di processori con appena altri due o tre utenti, il suo fattore di rallentamento del tempo del Bunker crollava a circa trenta. E nel peggiore? Fino a pochi minuti prima, il peggio stava appunto succedendo: un settore del diagramma era perfettamente piatto. Per più di dieci ore in tempo reale Peer non era stato ricalcolato. Kate spiegò: "Operazione farfalla. Simulazioni di controllo meteo. Gli stronzi si sono comprati tutto". Sembrava arrabbiata e scossa. Peer replicò con calma: "Poco danno. Nazione solipsista significa creare un tuo mondo nei tuoi termini. A qualsiasi costo. Il tempo reale non conta. Che ci diano pure un calcolo all'anno. Che cambíerebbe? Nulla". Analizzò un altro schermo, comprendendo di essere rimasto nel modello del grattacielo per soli sette minuti soggettivi. I falsi ricordi si erano intrecciati alla perfezione, non avrebbe mai creduto che fosse passato così poco tempo. Precalcolare i ricordi aveva portato via del tempo, questo era chiaro, ma molto meno di quello necessario ad accumulare gli stessi risultati attraverso l'esperienza classica. Kate disse: "Ti sbagli. Tu non…" "Metti che gestiscano un istante di tempo del modello per una Copia su ogni gruppo di processori solo nel giorno in cui lo attiveranno, e poi lo dedichino ad altri utenti. Ogni Copia passerebbe da macchina a macchina, con un rallentamento di qualche miliardo… e non cambierebbe niente. I fabbricanti potrebbero tenerci in funzione gratis, trasformandolo in una specie di rituale, in una benedizione dell'hardware da parte delle anime dei morti. Allora potremmo anche abolire i fondi fiduciari e smettere di angustiarci per il denaro. Meno costiamo, meno vulnerabili siamo." "È solo una parte della verità. Più siamo al margine, più siamo a rischio." Peer cercò di sospirare. Il rumore che ne scaturì fu abbastanza plausibile, ma la mancanza di sensazioni era scocciante. "C'è qualche motivo per rimanere comunque in stato di emergenza? C'è forse qualche decisione urgente che devo prendere? Ci sono dei missili in arrivo su… " Controllò uno schermo. "…su Dallas? Dallas? Il dollaro statunitense dev'essere crollato rispetto allo yen." Kate non replicò, così Peer guardò le icone di un corpo e di una stanza, inducendole ad attivarsi. La sua coscienza disincarnata, e gli schermi fluttuanti del Bunker, si concretizzarono in un giovane scalzo in jeans e maglietta, seduto in una sala controllo priva di finestre, quello che poteva essere il centro operativo di un palazzo per uffici di media grandezza. Lo stato fisiologico del corpo riprese direttamente dagli ultimi istanti sulla parete del grattacielo, e non era male: membra sciolte, vigoria. Peer registrò un'istantanea per riottenere quella sensazione a piacer suo, poi guardò Kate implorante. Lei si addolcì e lo raggiunse, svanendo dallo schermo e comparendo su una sedia accanto a lui. Kate disse: "Io sono una Nazione solipsista. Quel che accade all'esterno non mi riguarda… però abbiamo ancora bisogno di certe garanzie, di standard minimi". Peer scoppiò a ridere. "E cosa vorresti fare? Mi diventi una lobbysta? Passerai il tempo a mandare petizioni a Bruxelles e Ginevra? I 'diritti umani' sono per la gente che si balocca a essere umana. Io so quel che sono. Non sono umano." Affondò il pugno nel petto, penetrando senza sforzo camicia, pelle e costato, e si strappò il cuore. Sentì la carne lacerarsi, e le relative conseguenze. Ma, anche se gli effetti del dolore erano realistici, le barriere preprogrammate ne isolavano il cervello, era una percezione senza conseguenze emotive, o anche metaboliche. E il cuore continuava a battergli in mano come se niente fosse, il sangue scorreva diritto tra i capi lacerati di ogni arteria recisa, ignorando la "distanza intercorsa".

Kate ricominciò: "Dieci ore sono passate in un batter d'occhio. Non è un disastro, ma come andrà a finire? Decreti di stato d'emergenza, la nazionalizzazione di tutta la potenza di calcolo di Tokyo per il controllo del clima?" "Tokyo?" "Alcuni modelli indicano che i tifoni serra raggiungeranno l'arcipelago giapponese nei prossimi trent'anni." "Vaffanculo Tokyo. Noi stiamo a Dallas." "Non più." Indicò lo schermo di status: le fluttuazioni nei tassi di scambio e la ricerca di Qips a minor prezzo li avevano nuovamente scagliati dall'altra parte del Pacifico. "Non che conti molto. Ci sono progetti in corso anche per il Golfo del Messico." Peer appoggiò a terra il suo cuore e scrollò le spalle, poi si frugò nella cavità toracica in cerca di altri organi. Così liberato, il tessuto rosa continuava a dilatarsi e a contrarsi al ritmo del respiro. Da un punto di vista funzionale rimaneva pur sempre dentro la gabbia toracica. "Se inizi a cercare la sicurezza, finirai per farti guidare dalle esigenze del vecchio mondo. Sei una Nazione solipsista o no?" Kate osservò la ferita senza sangue di Peer e rispose serena: "Nazione solipsista non significa morire di stupidità. Tu ti fai a pezzi il corpo e pensi di dimostrare di essere invulnerabile? Impianti qualche ricordo in prospettiva forzata e credi di aver già vissuto in eterno? Io non voglio delle illusioni di immortalità da quattro soldi. Io voglio quella vera". Peer aggrottò la fronte, iniziando a prestare maggiore attenzione all'ultima scelta corporea di Kate. Era comunque Kate, nonostante le più drastiche variazioni sul tema. Capelli corti, ossa spigolose, con occhi grigi penetranti, più snella che mai, vestita in modo banale con larghi abiti bianchi. Sembrava ascetica, funzionale, decisa. Kate continuò, in tono distratto e scherzoso, come se stesse cambiando argomento: "Notizia interessante: c'è un tale, un visitatore dall'esterno, che interpella le Copie più ricche per vendere a un prezzo ridicolo proprietà selezionate per seconde versioni". "A quanto?" "Due milioni di Ecu." "Cosa, al mese?" "No, per sempre." Peer sbuffò. "È una truffa." "E all'esterno sta contrattando programmatori, designer, architetti. Commissiona, pagati sull'unghia, dei lavori che avranno bisogno di almeno qualche decina di gruppi di processori per girare." "Ottima mossa. Così potrebbe convincere davvero qualche vecchia scoreggia rimbambita che lui può mantenere quel che promette. Non molti, però. Chi pagherà mai senza avere l'hardware on-line e qualche test di prova? Come farà a simularli? Gli può anche mostrare delle simulazioni di macchine fantastiche, ma se non sono concrete non macinano dati. Fine della truffa". "Sanderson ha pagato. Repetto ha pagato. Per quel che ne so; ha appena incontrato Riemann." "Non ci posso credere. Hanno tutti il loro hardware, perché preoccuparsi?" "Sono tutti personaggi in vista. La gente sa che hanno il loro hardware personale. Se le cose si mettono male, può essere confiscato. Mentre questo tale, Paul Durham, è un signor nessuno. Fa da mediatore per qualcun altro, questo è ovvio, ma chiunque siano, si comportano come se avessero accesso a più potenza di calcolo del Fujitsu, a circa un millesimo del costo. E non c'è niente sul mercato. Ufficialmente nessuno sa che esiste". "O ufficiosamente. Perché non esiste. Due milioni di Ecu!" "Sanderson ha pagato. Repetto ha pagato." "Stando alle tue fonti." "Durham trova i soldi da qualche parte. Ho parlato con Malcolm Carter. Durham gli ha commissionato

una città, migliaia di chilometri quadrati, e niente di passivo. Dettagli architettonici dappertutto fino alla risoluzione visiva, o anche meglio. Folle pseudoautonome, centinaia di migliaia di persone. Zoo e parchi naturali con i più aggiornati algoritmi comportamentali. Una cascata come non ce n'è sulla Terra." Peer si strappò un'ansa intestinale e se l'avvolse per gioco attorno al collo. "Potresti avere una città del genere tutta per te se lo volessi davvero, se scegliessi di vivere al rallentatore. Perché sei tanto interessata a quel truffatore di Durham? Anche se è sincero, non te lo puoi permettere. Ammettilo: sei inchiodata in questo ghetto assieme a me… e non conta un bel niente." Peer si lasciò andare a un breve flashback dell'ultima volta che avevano fatto l'amore. Lo sovrappose alla scena attuale, in modo da vedere entrambe le Kate, e quella nuova, magra e con gli occhi grigi, sembrava stare lì a guardare mentre lui era steso per terra, boccheggiando al ricordo tangibile di quel corpo precedente, anche se in realtà lei lo stava vedendo ancora seduto sulla seggiola, con un mezzo sorriso in faccia. Ogni ricordo è un furto, aveva scritto Daniel Lebesgue. Peer provò un'improvvisa fitta di senso di colpa postcoitale. Ma di cosa era colpevole? Di una perfetta reminiscenza, nient'altro. Kate disse: "Non mi posso permettere il prezzo di Durham, ma quello di Carter sì". Peer per un attimo si sentì preso in contropiede, poi le sorrise con fare ammirato. "Dici sul serio?" Lei annuì tranquilla. "Sì. Ci ho pensato su, quando sono rimasta a tracciato piatto per dieci ore..". "Sei sicura che Carter dica sul serio? Come fai a sapere che ha qualcosa da vendere?" Lei esitò. "Quando ero fuori l'ho ingaggiato anch'io. Passavo un sacco di tempo in Realtà virtuale come visitatore, e lui ha creato alcuni dei miei posti preferiti, quel cottage dove ti ho portato. E altri ancora. E una delle persone con cui ho parlato prima di decidermi a entrare sul serio." Peer la osservò innervosito. Kate parlava raramente del passato, e questo gli andava benone. Ma lei tornò al punto, grazie al cielo. "Con rallentamenti, filtri, maschere è difficile giudicare chiunque… ma non credo che sia cambiato molto. Mi fido ancora di lui." Peer assentì con un gesto lento del capo, mentre si faceva scivolare sovrappensiero il proprio intestino avanti e indietro sulle spalle. "Ma Durham quanto si fida di lui? Controllerà a fondo la città in cerca di clandestini?" "Carter è convinto di riuscire a nascondermi. Ha un programma che può spezzare il mio modello per nasconderlo negli algoritmi della città, come qualche miliardo di banali ridondanze e inefficienze". "Le inefficienze possono essere ottimizzate. Se Durham..". Kate lo interruppe insofferente. "Carter non è uno stupido. Sa come lavorano gli ottimizzatori, e sa come impedirgli di toccare la sua roba." "Bene. Ma… quando sarai dentro, come farai a comunicare?" "Non potrò farlo spesso. Avrò soltanto poteri limitati di origliare gli accessi degli abitanti legittimi, e non credo sarà granché, se il succo di questo posto è la segretezza. Carter mi ha dato l'impressione che stiano progettando di portar dentro tutto quel che serve e poi alzare il ponte levatoio." Peer metabolizzò il concetto, ma preferì non porre la domanda più ovvia e dimostrare così di averci pensato. "Allora cosa ti porti dietro?" "Tutto il software e gli ambienti che utilizzavo qui, che non sono poi molti dati in rapporto a me. Una volta dentro avrò accesso readonly a tutte le strutture pubbliche della città: tutte le informazioni, i divertimenti, gli ambienti condivisi. Potrò passeggiare per le strade del centro, invisibile e intangibile, e guardare i multimiliardari. Ma la mia presenza non influenzerà nulla, a parte rallentare il tutto di una quantità infinitesimale, perciò anche le verifiche più rigorose dovrebbero far passare tutto il pacchetto come libero da contaminazioni." "A che velocità andrai?" Kate sbuffò. "A questa domanda dovrei rifiutarmi di rispondere. Non sei tu il paladino di un solo calcolo all'anno'?" "Sono solo curioso."

"Dipende da quanti Qips saranno stanziati per la città." Esitò. "Carter non ha prove concrete, ma crede ci siano buone possibilità che i capi di Durham abbiano messo le mani su qualche nuovo hardware superpotente..". Peter emise un lamento. "Per favore, questa storia è già abbastanza sospetta, non cominciare a invocare la scoperta mitica. Come fa la gente a pensare che qualcuno potrebbe mantenere un segreto del genere? O che qualcuno vorrebbe?" "Forse non vogliono nel lungo termine. Ma il modo migliore di sfruttare la tecnologia è di vendere la prima generazione di processori nuovi alle Copie più ricche, prima che arrivino sul libero mercato e crolli il prezzo dei Qips." Peer rise. "Allora perché nascondersi? Se succede, non ci sarà da temere il controllo meteo." "Perché potrebbe anche non esserci stata alcuna scoperta. L'unica cosa certa è che alcune delle Copie più benestanti, e meglio informate, hanno deciso che vale la pena di entrare in questo… santuario. E io ho la possibilità di andare con loro." Peer rimase in silenzio per un po'. Ma alla fine le chiese: "Così ti trasferisci… oppure ti cloni?" "Mi clono." Lui sarebbe riuscito a nascondere facilmente il suo sollievo, ma non lo fece. "Ne sono felice. Mi saresti mancata." "E anch'io avrei sentito la tua mancanza. Voglio che tu venga con me." "Vuoi…?" Kate gli si fece più vicina. "Carter ha detto che inserirà anche te, e il tuo bagaglio, per un altro cinquanta per cento. Clonati e vieni con me. Non ti voglio perdere, nessuna di noi due lo vuole." Peer provò un'ondata di eccitazione, e di paura. Creò un'istantanea di quell'emozione, poi disse: "Non saprei, non ho mai..". "Una seconda versione, che gira nell'hardware più sicuro del pianeta. Non significa arrendersi all'esterno, è solo la conquista definitiva di una vera indipendenza." "Indipendenza? E se queste Copie si scocciano della città di Carter e decidono di buttarla nella spazzatura, di cambiarla con qualcosa di nuovo?" Kate non batté ciglio. "Non è impossibile. Ma nemmeno sulle reti pubbliche ci sono garanzie. Così almeno hai più possibilità che una versione sopravviva". Peer cercò di immaginarselo. "Clandestini. Niente comunicazioni. Solo noi, e il software che ci portiamo dietro." "Sei una Nazione solipsista, no?" "Certo. Ma, non ho mai fatto girare una seconda versione. Non so come mi sentirò, dopo la scissione." Come si sentirà chi? Kate si chinò a raccogliere il cuore. "Una seconda versione non ti darà problemi." Gli piantò gli occhi addosso. "Stiamo andando a un rallentamento di 67. Carter consegnerà a Durham la sua città tra sei mesi in tempo reale. Ma chi può sapere quando l'Operazione farfalla ci lascerà a piedi un'altra volta? Non ti resta molto tempo per decidere." Peer continuò a mostrare a Kate l'immagine del suo corpo seduto a riflettere, mentre invece era in piedi dall'altra parte della stanza, così da sfuggire a quello sguardo insostenibile. Chi sono? E questo che voglio? Non riusciva a concentrarsi. Richiamò manualmente un menu di uno schermo di controllo, una serie di dodici immagini identiche: un disegno anatomico dell'Ottocento raffigurante il cervello, con la superficie divisa in regioni identificate secondo varie emozioni e capacità. Ogni icona rappresentava un pacchetto di parametri mentali, istantanee di emozioni precedenti o combinazioni del tutto sintetiche. Peer premette l'icona Lucidità. In dodici brevi anni in tempo reale come Copia, aveva cercato di esplorare ogni possibilità, di

mappare ogni conseguenza di quel che era diventato. Aveva trasformato il suo ambiente, il corpo, la personalità. I trucchi che aveva giocato con la sua memoria avevano aggiunto, mai cancellato, e, per quanti cambiamenti avesse attraversato, alla fine c'era soltanto una persona che si assumeva le responsabilità, che raccoglieva i pezzi. Un testimone che unificava tutto. La verità era che il pensiero di arrendersi a quell' unità gli faceva girare la testa per il terrore. Era l'ultimo vestigio della sua illusione di umanità. L'ultima grande menzogna. E come aveva scritto Daniel Lebesgue, il fondatore della Nazione solipsista: "Il mio unico scopo è prendere tutto ciò che viene riverito come quintessenza dell'umanità… e ridurlo in polvere". Ritornò al suo corpo seduto, per dire: "Ci sto". Kate sorrise, si portò alle labbra il cuore pulsante e gli diede un infinito bacio lentissimo.

6 [RIP, TIE, CUT TOY MAN] Giugno 2045

Paul si svegliò senza ombre di confusione mentale. Si vestì e mangiò qualcosa, cercando di sentirsi ottimista. Aveva dimostrato la sua disponibilità a cooperare, adesso era ora di chiedere qualcosa in cambio. Si trasferì nello studio, accese il terminale e chiamò il proprio numero. Il djinn rispose immediatamente. Paul disse: "Vorrei parlare con Elizabeth". Squit. "Impossibile." "Impossibile? Perché non lo chiedi a lei? Squit. "Non posso. Non sa nemmeno che esisti." Paul gli lanciò uno sguardo glaciale. "Non mi raccontare bugie, è solo una perdita di tempo. Avevo intenzione di spiegare tutto, appena avessi disposto di una Copia sopravvissuta..". Squit. Il djinn replicò seccamente: "O almeno così credevamo". La certezza di Paul vacillò. "Mi stai dicendo che la tua grande ambizione è stata finalmente realizzata, e non lo hai nemmeno detto all'unica donna…?" Squit. Il volto di Durham si fece di pietra. "Non ho affatto voglia di parlarne. Possiamo continuare l'esperimento, per favore?" Paul spalancò la bocca per protestare, poi si accorse di non avere niente da dire. Tutta la sua rabbia e la sua gelosia si erano dissolte di colpo… nell'imbarazzo. Pareva quasi di tornare alla lucidità dopo un sogno a occhi aperti, una fantasia elaborata di una relazione con l'amante di qualcun altro. Paul ed Elizabeth, Elizabeth e Paul. Quel che era successo tra di loro non erano affari suoi. Qualunque cosa gli suggerissero i ricordi, quella vita non era più la sua. Disse allora: "Certo, proseguiamo con l'esperimento. Il tempo sta passando. Devi aver compiuto i quarantacinque… quando, ieri? Cento di questi giorni". Squit. "Tante grazie, ma ti sbagli. Mentre dormivi ho utilizzato delle scorciatoie: ho spento parte del modello, ingannando quasi tutto il resto. È solo il quattro di giugno, hai dormito sei ore in dieci ore di tempo reale. Mica male come lavoro, direi." Paul si sentì ingannato. "Non ne avevi il diritto! " Squit. Durham sospirò. "Sii realistico e domandati cos'avresti fatto tu al mio posto." "Non è uno scherzo!" Squit. "Così hai dormito senza un corpo intero. Ti ho ripulito il sangue da qualche tossina a un tasso non fisiologico." Il djinn sembrava sinceramente perplesso. "Rispetto agli esperimenti, è roba da nulla. Perché prendersela? Ti sei svegliato nelle identiche condizioni in cui ti saresti trovato dormendo in modo naturale." Paul si trattenne. Non voleva certo spiegargli quanto lo rendeva vulnerabile sapere che qualcuno poteva attraversare gli interstizi dell'universo per privarlo di organi non necessari mentre dormiva. E meno quel bastardo conosceva delle sue insicurezze e meglio era, perché se ne sarebbe solo approfittato. Disse: "Me la prendo perché gli esperimenti non servono a niente se intervieni a caso. Cambiamenti controllati e precisi, questo è il punto. Mi devi promettere che non lo farai mai più". Squit. "Sei l'unico che si è lamentato degli sprechi. Qualcuno deve pur pensare a centellinare le nostre risorse sempre più scarse". "Vuoi che continui a collaborare? O vuoi ricominciare tutto da capo?" Squit. Il djinn disse con voce gentile: "Va bene, non serve minacciarmi. Hai la mia parola, niente più interventi ad hoc".

"Grazie." Centellinare le nostre risorse sempre più scarse? Paul si era sforzato di non pensare ai soldi. Cosa avrebbe fatto il djinn se non si fosse potuto più permettere di tenerlo in funzione, se Paul decideva di non sloggiare alla fine degli esperimenti? Certo, avrebbe conservato un'istantanea del modello fino a racimolare abbastanza contante per ricominciare. Nel lungo termine avrebbe aperto un fondo fiduciario, che doveva solo guadagnare quel tanto da farlo girare a tempo parziale, all'inizio, tenerlo in contatto col mondo, evitare gli eccessivi scossoni culturali… fino a quando la tecnologia sarebbe diventata abbastanza a buon mercato da farlo vivere senza interruzioni. Chiaro che tutti questi piani rassicuranti erano stati fatti da un uomo con due futuri. Avrebbe davvero desiderato mantenere in funzione una Copia quando poteva risparmiare il suo denaro per la scansione in punto di morte, e per la "sua" immortalità? Squit. "Adesso possiamo cominciare a lavorare? " "Sono qui per questo." Stavolta il modello sarebbe stato interamente descritto alla risoluzione cronologica standard di un millisecondo, ma sarebbe variato l'ordine di calcolo degli stati. Squit. "Esperimento due, prova numero uno. Ordine inverso." Paul contò. "Uno. Due. Tre." Ordine inverso. Dopo un balzo iniziale nel futuro, adesso stava viaggiando all'indietro nel tempo reale. Sarebbe stato un tocco simpatico poter seguire sul terminale un evento esterno, un luogo comune entropico come un vaso che si rompe, sapendo che era lui, e non la scena, quello che veniva "riavvolto"… ma sapeva che non era fattibile (a parte il fatto che avrebbe rovinato l'esperimento, tradendo la differenza tra soggetto e controllo). In tempo reale, il primo elemento calcolato doveva essere lo stato cerebrale finale di tempo-modello, completo dei ricordi di tutto quel che "era successo" nei dieci secondi "precedenti". Quei ricordi non potevano comprendere l'aver visto un vaso rotto ricostituirsi a partire dai frammenti, se il vaso non era stato ancora rotto. Il trucco poteva essere attuato con una simulazione, o con una registrazione del fatto vero, ma non sarebbe stato uguale. "Otto. Nove. Dieci." Un altro balzo impercettibile nel futuro, poi ricomparve il djinn. Squit. "Prova numero due. Stati numerati dispari, poi pari." In termini esterni: poteva contare fino a dieci, saltando ogni secondo istante del tempo-modello, poi dimenticare di averlo fatto e ricontare, tornando indietro a tappare i buchi. E dal suo punto di vista? Mentre contava, una volta soltanto, il mondo esterno, anche se lui non lo vedeva, stava guizzando tra due regioni cronologiche separate, sminuzzate in porzioni di diciassette millisecondi e inserite qua e là. Così… chi aveva ragione? Paul ci pensò su, semiserio. Forse entrambe le descrizioni erano altrettanto valide: in fondo, la relatività aveva abolito il tempo assoluto. Tutti avevano diritto al loro quadro di riferimento nell'attraversare lo spazio profondo alla velocità della luce, o nello sfiorare l'orizzonte degli eventi di un buco nero. Perché l'esperienza cronologica di una Copia non poteva essere sacrosanta quanto quella di un astronauta qualsiasi? Però l'analogia non era convincente. Le trasformazioni relativistiche non erano brusche, caso mai estreme ma sempre continue. Lo spazio-tempo di un osservatore si poteva dilatare e deformare agli occhi di un altro, ma non poteva essere affettato come una pagnotta e poi rimescolato come un mazzo di carte. "Ogni decimo stato, in dieci insiemi." Paul contò, e tanto per ragionare cercò di difendere la sua prospettiva, cercò di immaginare il mondo esterno che roteava realmente tra frammenti di tempo estratti da dieci periodi distinti. Il problema era: questo universo teoricamente sussultante conteneva il computer che gestiva l'intero modello, l'infrastruttura da cui dipendeva tutto il resto. Se la sua cronologia ordinata era stata dilaniata, cosa teneva insieme lui, cosa gli permetteva di riflettere su quel problema?

"Ogni ventesimo stato, in venti insiemi." Diciannove episodi di amnesia, diciannove nuovi inizi. (A meno che non fosse lui il controllo, ovviamente.) "Ogni centesimo stato, in cento insiemi." Aveva perso il senso di quel che stava accadendo. Si limitò a contare. "Ordine stati pseudo-casuale." "Uno. Due. Tre." Adesso era… polvere. Per un osservatore esterno, questi dieci secondi erano stati triturati in diecimila momenti non correlati e poi sparpagliati nel tempo reale, e nel tempo del modello anche il mondo esterno aveva subito un destino equivalente. Eppure lo schema della sua coscienza restava intatto: in qualche maniera si era ritrovato, si era "riassemblato" da quel guazzabuglio di frammenti. Era stato smembrato come un rompicapo, ma dissezione e rimescolamento gli erano trasparenti. In qualche maniera i pezzi restavano collegati, a modo loro. "Otto. Nove. Dieci." Squit. "Stai sudando." "Tutti e due?" Squit. Il djinn si mise a ridere. "Tu cosa credi?" "Fammi un favore. L'esperimento è terminato. Spegni uno dei due me… controllo o soggetto, non m'importa." Squit. "Fatto." "Adesso non c'è più bisogno di nascondere nulla, no? Perciò ripeti su di me l'effetto pseudo-casuale, e resta collegato. Stavolta conta tu fino a dieci". Squit. Durham scosse il capo. "Paul, non è possibile. Pensaci: non puoi essere calcolato non sequenzialmente se non sono note le percezioni passate". Certo. Di nuovo il problema del vaso rotto. Paul disse: "Allora registrati e serviti di quello". Il djinn parve trovare divertente la richiesta, ma acconsentì. Rallentò persino la registrazione perché durasse dieci secondi di tempomodello. Paul osservò con attenzione le labbra e la mandibola sfumare, mentre il ronzio del rumore di fondo aumentava. Squit. "Contento?" "Hai mischiato me, e non la registrazione?" Squit. "Certo. I tuoi desideri sono ordini." "Sì? Allora rifallo." Durham fece una smorfia, ma obbedì. Paul disse: "Adesso mischia la registrazione". Pareva identica. Certo. "Ancora." Squit. "Dove vuoi arrivare?" "Fallo." Paul rimase a guardare aveva la pelle d'oca su tutto il corpo, era convinto di essere sul punto di… cosai Di scontrarsi con l'evidenza che le più incredibili permutazioni nel rapporto tra tempo del modello e tempo reale sarebbero state impercettibili per una Copia isolata? Teoricamente ne aveva sostenuto per quasi vent'anni la certezza pressoché assoluta… ma l'esperienza diretta del farsi letteralmente mescolare il cervello, senza effetto alcuno, era impressionante in un modo sconosciuto alla comprensione astratta. "Quando passiamo allo stadio successivo?" Squit. "Perché di colpo sei tanto disponibile?"

"Non è cambiato nulla. Voglio solo farla finita al più presto." Squit. "Occorrono trattative delicate per mettere in fila tutte le altre macchine. Il software di assegnazione della rete non è progettato per soddisfare tiramenti geografici. È un po' come quando vai in banca a chiedere di poter depositare dei soldi… in un certo posto di una particolare memoria di computer. Di solito la gente mi crede pazzo." Paul ebbe un moto di simpatia, ricordandosi di come aveva previsto queste difficoltà. Simpatia che confinava con l'identificazione. La ignorò. Ormai erano due persone differenti, con problemi e obiettivi diversi, e la cosa più stupida da fare sarebbe stato scordarsene. Squit. "Ti potrei sospendere mentre porto a compimento le trattative, per risparmiarti la noia, se vuoi". "Sei gentile, ma preferirei restare cosciente. Ho molte cose a cui pensare".

7 [REMIT NOT PAUCITY] Novembre 2050

"Dai dodici ai diciotto mesi? Ne sei sicura?" Francesca Deluca rispose piccata: "Che posso dirti. L'hanno elaborato loro". Maria fece del suo meglio per restare calma. "Ma è un sacco di tempo. Ti faremo scansionare. Troveremo i soldi. Posso vendere la casa, e farmi prestare qualcosa da Aden..". Francesca sorrise, ma fece un gesto di diniego col capo. "No, cara." I capelli le si erano ingrigiti dall'ultima volta che Maria l'aveva guardata sul serio, che ne aveva valutato l'aspetto, ma non mostrava segni evidenti di malattia. "A che serve? Anche se volessi, e non voglio, a che serve una scansione che non entrerà mai in funzione?" "Entrerà in funzione, eccome. La potenza di calcolo è sempre meno costosa. Tutti ci fanno assegnamento. Migliaia di persone hanno dei file di scansione in attesa..". "Quanti cadaveri ibernati sono stati risvegliati?" "Non è la stessa cosa." "Quanti?" "Fisicamente, nessuno. Ma alcuni sono stati scansionati…" "E si è visto che non erano funzionali. Tutti quelli di un certo interesse, le celebrità, i dittatori, hanno il cervello in pappa, e a nessuno importa niente degli altri." "Un file di scansione non è come un cadavere ibernato. Non sarai mai non funzionale". "No, però non sarò nemmeno degna di essere riportata in vita." Maria la fissò in preda all'ira. "Io ti riporterò in vita. Oppure non credi che troverei il denaro?" Francesca disse: "Forse lo troverai. Ma io non ho intenzione di farmi scansionare, perciò lascia perdere". Maria si chinò in avanti, sul divano, non capendo più come stare seduta, non sapendo dove mettere le mani. La luce del sole invadeva la stanza, un bagliore osceno che faceva risaltare ogni pelucchio della moquette. Si dovette trattenere per non alzarsi e accostare le imposte. Perché Francesca non glielo aveva detto al telefono? Sarebbe stato mille volte più facile. Disse: "D'accordo, non ti farai scansionare. Ci sarà pure qualcuno al mondo che produce nanomacchine per il cancro al fegato. Anche solo sperimentali". "Non per questo tipo di cellule. Non è uno degli oncogeni comuni, e nessuno è sicuro dei marker di membrana". "E allora? Li possono trovare, no? Possono guardare le cellule, identificare i marker e modificare una nanomacchina esistente. L'informazione necessaria sta tutta nel tuo corpo. " Maria s'immaginò le proteine mutanti che favorivano la metastasi sbucare dalla membrana cellulare, evidenziate in un giallo sinistro. "Con tempo e soldi e pratica sufficienti, sono sicura che sarebbe possibile… però si dà il caso che nessuno preveda di farlo nei prossimi diciotto mesi." Maria cominciò a tremare. A ondate. Non fece niente, tranne rimanere seduta aspettando che passasse. Alla fine disse: "Ci devono essere dei farmaci". Francesca annuì. "Sono già in terapia per rallentare la crescita del tumore primario e limitare altre metastasi. Un trapianto non serve a niente, ho già troppi tumori satelliti. L'insufficienza epatica è l'ultimo dei miei problemi. Posso assumere dei farmaci citotossici sistemici, e c'è comunque la radioterapia, ma non credo che i benefici valgano gli effetti collaterali". "Vuoi che venga a stare da te?" "No."

"Non sarebbe un problema. Sai che posso lavorare dappertutto." "Non ce n'è bisogno. Non diventerò un'invalida." Maria socchiuse gli occhi. Non riusciva a immaginare di sentirsi in quel modo per un'altra ora, figuriamoci un altro anno. Quando suo padre era morto d'infarto, tre anni prima, si era ripromessa di trovare entro il sedicesimo compleanno i soldi per scansionare Francesca. Non c'era andata nemmeno vicino. Ho fallito. Ho solo perso tempo. E adesso è quasi troppo tardi. Pensando ad alta voce, disse: "Forse a Seul troverò da lavorare". "Mi pareva che avessi deciso di non andarci." Maria la guardò incredula. "Perché non ti vuoi far scansionare? Di che hai paura? Ti proteggerei, farei tutto quel che serve. Se non vuoi essere rimessa in funzione fino a quando non avranno risolto il problema del rallentamento, aspetterò. Se vuoi essere risvegliata in un corpo fisico, un corpo organico, aspetterò." Francesca sorrise. "So che lo faresti, cara. Non è questo il punto." "E allora quale?" "Non voglio perdere tempo a litigare." Maria era al limite della pazienza. "Allora non litighiamo. Ma me lo puoi dire? Per favore." Francesca si addolcì. "Senti, avevo trentatré anni quando hanno realizzato la prima Copia. Tu avevi cinque anni, sei cresciuta con questo concetto, ma per me è ancora… troppo strano. È una cosa da ricchi eccentrici, come quando si facevano ibernare. Per me spendere centinaia di migliaia di dollari per avere l'occasione di farmi imitare da un computer quando sarò morta è… ridicolo. Non sono una miliardaria eccentrica, non voglio sperperare i miei soldi, o i tuoi, per erigere una specie di… monumento parlante al mio ego. Ho ancora il senso delle proporzioni." Guardò implorante Maria. "Non conta più niente?" "Non saresti imitata. Saresti tu." "Sì e no." "Cosa vorrebbe dire? Mi hai sempre detto che credevi..". "Credo che le Copie siano intelligenti. Ma non direi mai che sono o non sono 'la stessa persona' su cui si basano. Non c'è una risposta giusta o sbagliata, è una questione semantica, non di verità. Il fatto è che adesso ho il senso di chi sono, di quali sono i miei limiti, e non comprende affatto una mia Copia in funzione in un momento imprecisato del futuro. Lo capisci? Essere scansionata non mi farebbe sentire meglio rispetto all'idea della mia morte. Qualunque cosa possa pensare una mia Copia, se mai entrasse in funzione." Maria rispose infuriata: "Ma significa essere proprio ottusi. È stupido come… sostenere quando hai vent'anni che non riesci a immaginarti come sarai a cinquanta, che una donna tanto vecchia non potrà mai essere te. E poi ammazzarsi perché non si ha nulla da perdere oltre a quella donna così vecchia che non coincide con i tuoi 'confini'." "Mi pareva avessi detto che non volevi litigare." Maria distolse lo sguardo. "Non parlavi così, una volta. Sei tu quella che mi ha sempre detto che bisogna trattare le Copie esattamente come esseri umani. Se quella 'religione' non ti avesse fatto il lavaggio del cervello…" "La Chiesa del Dio che non fa differenze non prende alcun genere di posizione sulle Copie". "Non prende una posizione su niente." "Giusto. Così non può essere colpa loro se non voglio farmi scansionare, no?" Maria aveva la nausea. Si era trattenuta dal dire qualunque cosa sull'argomento per quasi un anno. Era rimasta di stucco, ma si era sforzata di rispettare la scelta della madre, e adesso capiva che proprio quello era stato folle, irresponsabile da non credersi. Non te ne rimani da parte a lasciare che una persona che ami, una persona che ti ha donato la tua visione del mondo, si faccia frullare il cervello.

Disse: "È colpa loro, perché hanno compromesso la tua capacità di giudizio. Ti hanno propinato tante stronzate che non riesci più a riflettere su nulla". Francesca le rispose soltanto con un'occhiata di rimprovero. Maria si sentì in colpa. Come fai a renderle le cose più difficili proprio in questo momento? Come puoi aggredirla, quando ti ha appena detto che sta morendo? Ma non voleva cedere proprio adesso, scegliere la scappatoia più facile, essere "comprensiva". Disse: "Dio non fa differenze… perché Dio è la ragione per cui tutto è esattamente quel che è. E questo ci dovrebbe far sentire in pace col cosmo?" Francesca scosse la testa. "In pace? No. È solo questione di sbarazzarsi una volta per tutte di idee antiquate come l'intervento divino, e della necessità di qualche specie di prova, o di fede, per credere". "Allora a che ti serve? Io non credo, perciò cosa mi perdo?" "La fede?" "E l'amore per la tautologia." "Non stroncare le tautologie. Meglio basare una religione sulla tautologia che sulle fantasie". "Ma questo è ancor peggio di una tautologia. Significa… ridefinire le parole in modo arbitrario, una cosa alla Lewis Carroll. O alla George Orwell. 'Dio è la ragione di tutto… qualunque cosa sia questa ragione.' Così quel che le persone equilibrate definirebbero leggi della fisica voi avete deciso di ribattezzarlo D-i-o… solo perché questa parola si porta dietro mille echi storici, mille connotazioni ingannevoli. Se pretendete di non aver nulla a che fare con le vecchie religioni, allora perché adoperate la loro terminologia?" "Noi non neghiamo la storia del mondo. Rompiamo col passato in tanti modi, ma riconosciamo le nostre origini. Dio è un concetto che la gente ha usato per millenni. Se abbiamo riadattato questa idea, oltre le superstizioni primitive e l'appagamento dei desideri, non significa che non facciamo parte della stessa tradizione". "Ma non avete riadattato il concetto, l'avete solo reso insignificante! E giustamente, anche se sembra che non ve ne accorgiate. Avete eliminato tutte le stupidaggini più evidenti, l'antropomorfismo, i miracoli, le grazie ricevute, ma non vi siete accorti che, fatto questo, non resta assolutamente nulla che debba essere chiamato religione. La fisica non è teologia. L'etica non è teologia. Perché fingerlo?" "Ma non capisci? Parliamo di Dio per il semplice motivo che ancora vogliamo. Esiste un impulso umano atavico a insistere nel pronunciare questa parola, questo concetto, per continuare ad affinarlo piuttosto che eliminarlo, nonostante non significhi più di quel che significava cinquemila anni fa." "E sai benissimo da dove arriva questo impulso! Non c'entra nulla con un essere divino, è solo un prodotto di cultura e neurobiologia, di qualche incidente storico ed evolutivo." "Certo che lo è. Quale carattere umano non lo è?" "E allora perché lasciarsi convincere?" Francesca rise. "Perché farsi convincere da qualsiasi cosa? L'impulso alla religione non è un virus mentale alieno. Nella sua forma più pura, ripulito da ogni contenuto, non è il prodotto di un lavaggio del cervello. Fa parte di quel che io sono." Maria si nascose il viso tra le mani. "Davvero? Quando parli così non sembri neanche tu." "Non hai mai voglia di render grazie a Dio quando le cose ti vanno per il verso giusto? Non hai mai voglia di chiedere a Dio la forza, quando ne hai bisogno?" "No." "Beh, io sì. Anche se so che Dio non fa differenze. E se Dio è la ragione di tutto, allora comprende anche la spinta a servirsi della parola Dio. Così, quando questa spinta mi restituisce forza o benessere o senso, allora Dio è la fonte stessa della mia forza. E se Dio, che pure non fa differenze, mi aiuta ad accettare quel che mi succede, perché questo dovrebbe renderti triste?"

Sul treno che la riportava a casa, Maria viaggiò seduta accanto a un bambino di circa sette anni, che per tutto il percorso si agitò ai ritmi silenziosi della VP, la videomusica partecipatoria. L'induzione neurale era stata sviluppata per la cura dell'epilessia, ma ormai veniva utilizzata comunemente per provocare quei sintomi che avrebbe dovuto eliminare. Osservandolo di nascosto, Maria notava í suoi bulbi oculari vibrare dietro gli occhiali a specchio. Man mano che lo shock della notizia andava diminuendo, Maria poté vedere le cose con maggiore chiarezza. Era solo un problema di soldi, non di religione. Vuol fare la martire per impedirmi di spendere un soldo. Tutto il resto sono solo razionalizzazioni. Deve aver ereditato dai suoi genitori un sacco di stronzate arcaiche sulla virtù del non essere di peso, del non gravare troppo sulla generazione successiva, intenta a godersi i "migliori anni della vita". Aveva lasciato la bicicletta in un armadietto alla Central Station. Tornò a casa lentamente, nel traffico languido della domenica sera, sentendosi ancora scossa e prosciugata ma più fiduciosa, ora che aveva la possibilità di riflettere. Da dodici a diciotto mesi? Avrebbe trovato i soldi in meno di un anno. In qualche modo. Avrebbe dimostrato a Francesca che poteva reggere quel peso. Dopodiché, sua madre poteva smetterla di accampare scuse. A casa, mise a bollire della verdura, poi salì al piano di sopra a controllare la posta. Sotto "Spazzatura" c'erano sei voci, quattro sotto "Autoverso", e nulla sotto "Noioso ma remunerato". Dopo la sua lettera alla "Rivista dell'Autoverso" quasi tutti gli abbonati si erano messi in contatto con lei, per complimenti, richieste di ulteriori dati, offerte di collaborazione e qualche chiamata stramba piena di lamentele e fraintendimenti. Il suo successo con l'A. lamberti era persino arrivato ai pezzi grossi, a una rivista un po' meno specializzata, "Mondo dell'automazione cellulare". Era tutto stranamente poco emozionante, e in un certo senso ne era lieta perché questo riportava le cose nella giusta prospettiva. Cestinò la posta pubblicitaria con un gesto della mano sullo schermo tattile, poi si fermò per un attimo a osservare le icone dei messaggi riguardanti l'Autoverso, meditando di fare altrettanto anche con quelli. Mi devo rimettere in riga. Mi devo concentrare a guadagnare denaro e smetterla di sprecare tempo con queste stronzate. Aprì il primo messaggio. Una ragazzina di Kansas City si lamentava perché non riusciva a ottenere i risultati di Maria, e proseguiva descrivendo la sua versione tortuosa dell'esperimento. Maria bloccò tutto, cancellando il file dopo venti secondi. Aveva già risposto lungamente a una mezza dozzina di lettere del genere, e le pareva di aver adempiuto, abbondantemente, a tutti gli obblighi nei confronti della "comunità dell'Autoverso". Mentre apriva il secondo messaggio, sentì un forte odore di bruciato provenire dal basso, e si ricordò d'un tratto che la stufa era decerebrata da venerdì, che il sistema di cottura automatica non funzionava e, in più, era impossibile spegnere le piastre elettriche col telecomando. Alzò il volume del terminale e corse in cucina. Gli spinaci erano ridotti a una poltiglia annerita. Lanciò la pentola dall'altra parte della stanzetta. Le rimbalzò quasi fino ai piedi. La raccolse, e con quella cominciò a picchiare contro la parete accanto alla stufa, finché le piastrelle iniziarono a creparsi e a staccarsi dal muro. Far danni alla casa le diede più soddisfazione del previsto, era come stracciarsi i vestiti, strapparsi i capelli, come automutilarsi. Batté sul muro fino a restare senza fiato, con le vertigini, il sudore che grondava, il volto arrossato da uno strano calore che non provava più dai tempi delle smanie infantili. Sua madre le sfiorò la guancia col dorso della mano, asciugando le lacrime di rabbia. La pelle fresca, la fede nuziale. "Sstt. Guarda in che stato ti sei ridotta. Scotti!" Dopo un po' cominciò a calmarsi, e si accorse che al piano di sopra stava ancora andando il messaggio. Il mittente doveva averlo programmato in modo che si ripetesse all'infinito, o perlomeno fino all'accettazione. Si sedette per terra ad ascoltare.

"Mi chiamo Paul Durham. Ho letto il suo articolo sulla "Rivista dell'Autoverso" e sono rimasto impressionato da quel che ha fatto con l'A. lamberti. Se crede di poter essere interessata a qualche finanziamento per andare avanti, mi chiami a questo numero così né parliamo." Maria dovette riascoltarlo altre tre volte prima di essere sicura di aver afferrato il messaggio. Finanziamenti per andare avanti. La frase sembrava volutamente evasiva e ambigua, ma in fin dei conti poteva significare soltanto una cosa. Qualche idiota le stava offrendo un lavoro. Quando Durham le chiese di incontrarla di persona, Maria ne fu troppo sbalordita per rifiutare. Durham le disse che abitava nella parte nord di Sidney, proponendole di vedersi la mattina dopo in centro, al Market Street Café. Maria accettò, incapace di inventare una scusa plausibile su due piedi, e lieta di aver effettuato la chiamata attraverso un filtro informatico che cancellava ogni traccia di ansietà dal viso e dal tono di voce. La maggior parte dei contratti di programmazione non contemplavano colloqui, nemmeno telefonici, il processo dell'offerta era totalmente automatico, basato interamente sulle referenze e sul curriculum verificato dell'offerente. Maria non aveva più dovuto affrontare un colloquio diretto da quando aveva fatto richiesta per un lavoro di pulizie part-time da studentessa. Solo dopo aver interrotto la comunicazione, comprese di non avere ancora idea di quel che Durham voleva da lei. Chissà, un vero fanatico dell'Autoverso poteva anche spendere i suoi soldi solo per la soddisfazione di collaborare con lei, probabilmente avrebbe pagato le bollette dell'utilizzo computer soltanto per condividere gli onori di ulteriori risultati. Era difficile pensare ad altre spiegazioni. Maria rimase sveglia per metà della notte, ripensando alla breve conversazione, domandandosi se stava trascurando qualcosa di lampante, se poteva trattarsi di una burla. Poco prima delle due, si alzò per una breve ricerca bibliografica sulla "Rivista dell'Autoverso" e su un numero ristretto di pubblicazioni sull'automazione cellulare. Non trovò articoli firmati da nessun Durham. Verso le tre, smise di torturarsi e si costrinse a dormire. Sognò di essere ancora sveglia, sconvolta per la notizia della malattia di sua madre, poi, accorgendosi che era un sogno, si maledisse con rabbia perché questa prova del suo amore era ancora una volta soltanto un'illusione.

8 [REMIT NOT PAUCITY] Novembre 2050

Thomas prese l'ascensore dal suo ufficio fino a casa. In vita, il viaggio significava dieci minuti sulla SBahn, ma dopo quasi quattro mesi soggettivi si stava abituando poco per volta a quella scorciatoia. Quel giorno cominciò l'ascesa senza pensarci due volte, ammirando la pannellatura di quercia, cullato dal lieve ronzio del motore, ma a metà salita, senza motivi validi, fu colto da una crisi di vertigini, come se quella bara elegante fosse partita in caduta libera. Al momento della resurrezione si era preoccupato molto per quegli aspetti del passato che doveva imitare per preservare la salute mentale e di quelli a cui doveva rinunciare per onestà. Una finestra con il panorama della città sembrava abbastanza innocua, ma camminare e andare in macchina attraverso una folla artificiale gli pareva grottesco, e le poche volte che aveva tentato gli era sembrato estremamente snervante. Era troppo simile alla vita, e troppo simile al suo sogno di ritrovarsi un giorno di nuovo tra la gente. Non dubitava di potersi desensibilizzare a quell'illusione, col tempo, ma non voleva. Quando finalmente avrebbe occupato un robot di telepresenza vitale quanto il suo corpo perduto, quando sarebbe salito su un treno vero o avrebbe passeggiato in una vera strada, non voleva che la gioia di quell'esperienza venisse offuscata da anni di imitazioni perfette. Non doveva illudersi, però, a parte rifiutarsi di ricalcare la vita corporea al limite della parodia, era difficile definire con esattezza cosa questo significasse. Non andava in sollucchero alla prospettiva della porta più vicina che si apriva per magia sulla destinazione prescelta, e non desiderava affatto schioccare le dita per teletrasportarsi. Riconoscere, e sfruttare, la plasticità illimitata della Realtà virtuale forse era stata la cosa più "onesta" che poteva fare… ma a Thomas serviva un mondo con una struttura permanente, non una città onirica che si riconfigurava a suo piacimento. Alla fine aveva trovato un compromesso. Si era costruito una geografia ausiliaria, o un'architettura, per la sua versione privata di Francoforte, una topografia alternativa della città, in cui tutti gli edifici tra cui si muoveva erano trattati come se si trovassero uno sopra l'altro, in modo da essere collegati da un singolo pozzetto d'ascensore. La sua casa di "periferia" cominciava sedici piani "più su" del suo ufficio in centro, e in mezzo c'erano le sale riunioni, i ristoranti, le gallerie e i musei. Definita quella sistemazione, la considerava immutabile, e se la vista da ogni luogo contraddiceva smaccatamente il rapporto reciproco quando ci arrivava, beh, poteva sopportare un paradosso del genere. Thomas sbucò dall'ascensore nell'atrio del pianoterra di casa sua. L'edificio a due piani, circondato da un modesto parco di dieci ettari, era tutto suo, come lo era stato l'originale del mondo reale dai tempi del divorzio sino alla malattia fatale, quando ci si era trasferita una équipe medica. All'inizio, lungo i corridoi scivolavano efficienti robot per le pulizie, mentre i robot giardinieri curavano le aiuole fiorite. Li considerava parte dell'arredamento, come le tubature, le griglie dell'aria condizionata e gli altri innumerevoli infissi inutili. Dopo la prima settimana li aveva eliminati. Le tubature erano rimaste. Il senso di vertigini era passato, ma andò ugualmente in biblioteca a versarsi un cicchetto da due caraffe di vetro lavorato, un long drink tonificante di Fiducia & Ottimismo. Poteva richiamare con una sola parola l'intero quadro controllo umore (un'apparizione che gli ricordava sempre un mixer da studio di registrazione) per regolare i parametri del suo stato mentale fino a un punto in cui non desiderava più cambiare i valori… ma si era stufato di quella metafora tecnologica nuda e cruda. Qui le "droghe" per l'umore potevano funzionare con precisione e carenza di effetti collaterali, cosa impossibile per una sostanza reale (la precisione farmacologica era possibile ma tutt'altro che imperativa) e perciò sembrava più naturale ingoiare un sorso di "liquore" per tirarsi su di morale piuttosto che smanettare su di un pannello fluttuante di potenziometri.

Anche se il risultato finale era identico. Thomas si lasciò cadere su una poltrona mentre la bevanda cominciava a fare effetto. Volutamente funzionava con lentezza, un calore gradevole si propagava dallo stomaco prima che il cervello fosse manipolato con delicatezza. Cominciò a riflettere sul suo incontro con Paul Durham. Mi deve permettere di mostrarle esattamente cos'è lei. Accanto alla poltrona c'era un terminale. Quando premette un pulsante comparve sullo schermo uno dei suoi assistenti personali, Hans Löhr. Thomas disse, con fare indifferente: "Scopri più notizie che ti riesce sul mio visitatore". Löhr rispose immediatamente di sì. Thomas aveva sei assistenti che si davano il cambio 24 ore su 24. Tutti umani in carne e ossa, ma adattati tanto bene da riuscire ad accelerare e rallentare a piacere i loro processi mentali. Thomas li teneva a distanza, comunicando con loro solo tramite terminale. La distinzione tra visitatore "in carne e ossa" e "semplice immagine" su uno schermo non comportava esami scrupolosi, ma nella pratica poteva ancora essere fatta osservare con rigore. Talvolta pensava al suo personale al lavoro a Monaco o a Berlino… "abbastanza lontano" da giustificare il fatto di non poterli incontrare di persona, eppure "abbastanza vicino" da spiegare metaforicamente la loro capacità di comportarsi da mediatori con il mondo esterno. Non si era mai premurato di scoprire dove fossero realmente, nel caso i fatti contraddicessero questa comoda immagine mentale. Sospirò mentre beveva un altro sorso di F&O. Era tutta questione di equilibrio, come camminare sulla fune tesa. Una Copia sarebbe impazzita in entrambi i casi. Interessarsi troppo alla verità poteva scatenare un'ossessione patologica per l'infrastruttura, gli algoritmi e i processori ottici, il macchinario della "illusione" che stava sotto ogni superficie. Se ti interessavi troppo poco, potevi scoprire che scivolavi pian piano in una fantasia compiacente, in cui la vita continuava come normalmente e si evitava o si spiegava tutto ciò che contraddiceva l'illusione dell'esistenza fisica normale. Erano quelle le vere intenzioni di Durham? Farlo ammattire? Prima di incontrare Durham, Thomas aveva ordinato i soliti controlli, da cui risultava che era un rappresentante della Gryphon Financial Products, un'azienda angloaustralíana di relativo successo, e che la sua fedina penale era pulita. Difficilmente occorreva applicare delle precauzioni maggiori, visto che i visitatori non potevano recar danno. I consulenti Rv di Thomas gli avevano garantito che solo la manipolazione in situ dell'hardware poteva danneggiare o compromettere il sistema. Un semplice segnale che arrivava dall'esterno per fibra ottica non poteva penetrare negli strati protetti del software. I visitatori capaci di causare disastri, introducendo virus allo schioccar delle dita, diabolici e scaltri nella modulazione binaria, erano solo roba da telefilm. Durham aveva detto: "Non le voglio raccontare bugie. Sono stato in manicomio. Dieci anni. Soffrivo di allucinazioni. Allucinazioni strane, complesse. E adesso capisco quanto ero malato. Ripensandoci riesco a capirlo. Ma riesco anche a ricordare cosa credevo stesse succedendo quando ero pazzo. Senza smettere anche solo per un istante di ammettere le mie condizioni, trovo ancora che quei ricordi fossero assai convincenti..". A Thomas venne la pelle d'oca. Sollevò il bicchiere, poi lo posò di nuovo. Sapeva che continuando a bere, nulla di quel che aveva detto quell'uomo sarebbe riuscito a turbarlo, ma non aveva ancora bevuto abbastanza per essere del tutto sicuro che fosse proprio quel che voleva. "Se non è preparato a svolgere di persona l'esperimento, almeno pensi alle ricadute. Immagini di aver modificato il modo in cui lei viene elaborato, e s'immagini le conseguenze. Un esperimento gedanken, è troppo da chiedere? In un certo senso è quel che ho sempre fatto io." Il terminale trillò. Thomas accettò la chiamata. Löhr disse: "Ho un rapporto preliminare su Paul Durham. Vuole che glielo legga?" Thomas scosse il capo. "Guarderò il file."

Lo scorse, a livello uno. Paul Kingsley Durham. Nato a Sidney il 6 giugno 2000. Genitori: Elizabeth Anne Maddox e John Arthur Durham… comproprietari di una rosticceria a Concord, città satellite di Sidney, dal 1996 al 2032… pensionati a Mackay, Queensland… attualmente deceduti entrambi per cause naturali. Ha studiato al liceo statale. 2017: Diploma liceale con punteggio aggregato al terzo percentile; materie preferite: fisica e matematica. 2018: un anno di scienze naturali all'università di Sidney, superati tutti gli esami ma interrotti gli studi. 2019-2023: viaggi in Tailandia, Birmania, India, Nepal. 2024: ritornato in Australia, diagnosticata sindrome allucinatoria organica, probabilmente congenita… patologia controllata parzialmente con i farmaci. Numerosi lavori saltuari fino al maggio 2029. Peggioramento delle condizioni… pensione di invalidità assegnata nel gennaio 2031. Ricoverato nel reparto psichiatrico dell'ospedale di Blacktown il 4 settembre 2035. Nanochirurgia correttiva all'ippocampo e alla corteccia prefrontale eseguita l'11 novembre 2045… con successo completo. Thomas passò al secondo livello per riempire lo iato di dieci anni, ma trovò poco più che un lungo elenco di farmaci, trapianti neurali e vettori di terapia genica iniettati nel cranio di Durham per tutto quel periodo, senza benefici apparenti. C'erano frequenti annotazioni sul fatto che le terapie erano state testate in precedenza su un gruppo di modelli cerebrali parziali, ma non avevano funzionato nella pratica. Thomas si domandò se a Durham gliel'avessero detto, e cosa immaginava fosse successo mentre un farmaco era valutato su quindici modelli differenti di differenti regioni del cervello, che messe assieme costituivano l'organo intero… 2046-2048: studia finanza e amministrazione alla Macquarie University. 2049: laurea col massimo dei voti, e assunzione immediata alla Gryphon come apprendista rappresentante. A tutt'oggi, 17 gennaio 2050, lavora nella divisione Intelligenza artificiale. Il che significava protezione in varie forme per le Copie che temevano di vedersi distogliere i fondi. La descrizione del lavoro di Durham avrebbe certamente citato le lunghe ore trascorse nei panni di visitatore, forse addirittura passando ad argomenti come i dettagli sul suo passato psichiatrico o il suggerire ai suoi clienti degli esperimenti gedanken. Oppure perdere tempo con Copie ovviamente troppo coperte per aver bisogno dei servigi della Gryphon. Thomas si staccò dal terminale. Era quasi troppo banale: Durham aveva fregato i medici facendogli credere che l'avevano guarito, poi, con classica ingegnosità e tenacia da paranoico, si era infilato in un posto in cui poter incontrare delle Copie per condividere la "grande verità" che gli era stata rivelata… e cercare di strappare qualche soldino, già che c'era. Se Thomas avesse contattato la Gryphon per dirgli cosa combinava il loro venditore pazzo, Durham avrebbe perso di certo il lavoro, forse sarebbe stato di nuovo ricoverato, e si sperava avrebbe tratto beneficio da una seconda nanochirurgia. Forse non faceva male a nessuno… ma accertarsi che venisse curato come si deve era di sicuro la cosa più gentile da farsi. Una persona fiduciosa e ottimista avrebbe chiamato di corsa. Thomas osservò la bibita, ma decise di aspettare ancora un po' prima di scartare le altre alternative. Durham aveva detto: "So bene che tutto quel che credo di aver vissuto era 'causato' dalla malattia, e so che non c'è un modo facile per convincerla che non sono più matto. Ma anche se fosse vero… perché dovrebbe rendere irrilevanti gli interrogativi che ho sollevato? Quasi tutti gli umani in carne e ossa vivono e muoiono senza sapere chi sono e senza che gliene importi, sbuffano alla semplice idea che conti qualcosa. Ma lei non è in carne e ossa e non si può permettere il lusso dell'ignoranza". Thomas si avvicinò allo specchio sopra il caminetto. Il suo aspetto superficiale era ancora basato largamente sulla scansione finale: aveva la stessa chioma bianca, folta e ribelle, la stessa pelle floscia, chiazzata, traslucida dell'ottantacinquenne. Però aveva il portamento di un giovanotto. Il modello costruito dal file dello scanner era stato totalmente ringiovanito all'interno, cancellando sessant'anni di

degrado in ogni giuntura, in ogni muscolo, in ogni vena e arteria. Si domandò se fosse solo questione di tempo prima che la vanità la spuntasse inducendolo a fare altrettanto con l'aspetto esteriore. Molti dei suoi soci si stavano svecchiando a tappe, ma qualcuno aveva fatto balzi indietro di venti, trenta, cinquant'anni, o si era cambiato del tutto i connotati. Cos'era più onesto? Sembrare un ottantacinquenne in carne e ossa (il che non era) o come preferiva apparire… preferiva essere… avendo la possibilità di scegliere. E quella possibilità lui ce l'aveva. Chiuse gli occhi, accostando le dita alla guancia per tastare la pelle rovinata. Se lui credeva che quelle rovine lo descrivessero, lo descrivevano eccome… e se imparava ad accettare un nuovo corpo giovane, sarebbe stato vero anche questo. Eppure non riusciva a scrollarsi di dosso la convinzione che il ringiovanimento esteriore comportava solo la costruzione di una "maschera" giovanile… mentre il "volto vero" avrebbe continuato a esistere, e a invecchiare, altrove. Puro Dorian Gray, una stupida favoletta moralistica imbottita di verità "eterne" da tempo obsolete. Ed era bello anche soltanto sentirsi in salute e in forze, essere libero dall'artrite, dai dolori e dai crampi e dagli intirizzimenti, dalla mancanza di fiato che si ricordava fin troppo bene. Tutto il di più sembrava facile e arbitrario. Ogni Copia poteva diventare in un attimo un adone hollywoodiano. E ogni Copia poteva battere in velocità una pallottola, sollevare un palazzo, deviare un pianeta dalla sua rotta. Thomas riaprì gli occhi e si allungò a sfiorare la superficie dello specchio, consapevole di non voler prendere una decisione. Ma c'era ancora una cosa che lo impensieriva. Perché Durham aveva scelto lui? Poteva essere un allucinato, ma era anche, entro certi limiti, una persona intelligente e razionale. Tra tutte le Copie di cui poteva tentare di sfruttare le insicurezze, perché sceglierne una con un hardware a prova di bomba, con un fondo fiduciario ben gestito? Perché scegliere un bersaglio che non aveva nulla da temere? Thomas sentì tornare le vertigini. Erano passati sessantacinque anni. Nessun servizio giornalistico o rapporto di polizia aveva mai citato il suo nome, nessuna ricerca di database, per quanto raffinata, poteva ricollegarlo ad Anna. Nessuna persona vivente poteva sapere quel che aveva fatto, men che meno un ex paziente psichiatrico di cinquant'anni proveniente dall'altro emisfero. Persino colui che aveva commesso il crimine era morto. Thomas l'aveva visto cremare. Credeva davvero che la proposta di protezione di Durham fosse solo un tortuoso eufemismo cifrato, un suggerimento a non andare a rovistare nel passato? Ricatto? No, ridicolo. Perché non fare qualche chiamata per controllare il poveretto? Perché non offrirgli una cura presso il miglior neurochirurgo svizzero (che avrebbe verificato in anticipo la procedura sull'insieme più sofisticato di modelli cerebrali parziali…) O credeva alla possibilità che Durham dicesse la verità? Che potesse gestire una seconda Copia in un posto che nessuno avrebbe potuto raggiungere in un miliardo di anni? Il terminale suonò. Thomas disse: "Sì?" Löhr era stato sostituito da Heinrich. Certe volte i turni sembravano darsi il cambio tanto in fretta da fargli girare la testa. "Signore, tra cinque minuti ha una riunione con il consiglio di amministrazione della Geistbank". "Grazie, arrivo subito." Thomas si controllò allo specchio. Disse: "Pettinami". I capelli erano discretamente in ordine, la pelle meno esangue, gli occhi limpidi, alcuni muscoli facciali erano rilassati e altri in tensione. L'abito non aveva bisogno di attenzioni. Come nella vita reale, era impossibile che si sgualcisse. Quasi si mise a ridere, ma la sua espressione appena pettinata lo scoraggiò. Interesse, onestà, soddisfazione, follia. Era un percorso su una fune tesa. Per un certo verso aveva novant'anni, per un altro ottantacique… e ancora non sapeva come stare al mondo. Mentre usciva raccolse il suo Fiducia & Ottimismo e lo versò sul tappeto.

9 [RIP, TIE, CUT TOY MAN] Giugno 2045

Paul scese le scale e fece il giro dell'isolato a più riprese, sperando solo di riuscire a dimenticarsi di sé per un po'. Era stanco di dover pensare chi era in ogni suo momento da sveglio. Le strade attorno al palazzo erano piuttosto familiari, non tanto da permettere di illudersi ma abbastanza da permettergli di darsi per scontato. Era difficile separare i fatti dai pettegolezzi, ma aveva sentito dire che anche i megaricchi tendevano a vivere in ambienti abbastanza prosaici, preferendo il realismo alle fantasie di onnipotenza. Si diceva anche che qualche modello di psicopatico si fosse impiantato a spadroneggiare in qualche magione opulenta, servito e riverito, ma quasi tutte le Copie puntavano all'illusione della continuità. Se volevi convincerti disperatamente di essere la stessa persona suggerita dai ricordi, la cosa peggiore da fare sarebbe stato gironzolare in un'antichità virtuale (con detenuti modellati) fingendo di essere Cleopatra o Ramsete II. Paul non credeva di "essere" il proprio originale. Sapeva di essere soltanto una nube di dati ambigui. Il miracolo consisteva nell'essere capace di credere di esistere. Cosa gli regalava quella sensazione di identità? Continuità. Consistenza. Pensiero conseguente a pensiero, secondo uno schema coerente. Ma da dove proveniva una coerenza del genere? In un umano, o in una Copia che funzionava nel solito modo, la fisica del cervello o del computer significavano che lo stato mentale di qualsiasi momento influenzava direttamente lo stato mentale susseguente. La continuità era una banale faccenda di causa ed effetto, quel che pensavi nel momento a condizionava quel che pensavi nel momento b che condizionava quel che pensavi nel momento c… Ma quando questo tempo soggettivo veniva confuso, il flusso di causa ed effetto all'interno del calcolatore non aveva più la minima relazione con il fluire dell'esperienza. Così, come poteva esserne una componente essenziale? Quando il programma compitava dbcea ma ancora sentiva esattamente come abcde… allora di sicuro lo schema era tutto, e causa ed effetto erano irrilevanti. L'intera esperienza poteva essere scaturita dal caso. Immaginati che un computer volutamente abborracciato se ne stia per un migliaio di anni e anche più a passare di stato in stato spinto soltanto da scariche elettriche. Allora incarnerebbe la coscienza? Nel tempo reale la risposta sarebbe stata: forse no, la probabilità che scaturisca una coerenza a caso è così piccola. Però il tempo reale era soltanto un quadro di riferimento possibile. E gli altri? Se gli stati attraverso cui passava la macchina potevano essere riconfigurati arbitrariamente nel tempo, allora chi poteva mai dire che genere di ordine elaborato potesse emergere dal caos? Paul si contenne. Erano pensieri frivoli? Assurdi come insistere nel voler dimostrare che una qualsiasi stanza piena di scimmie possa davvero digitare le opere complete di Shakespeare ma, casualmente, posizionando le lettere in un ordine un tantino diverso? Ridicolo come sostenere che ogni ammasso abbastanza grande di roccia possa contenere il David di Michelangelo, e ogni deposito di colori e tele ospiti le opere complete di Rembrandt e Picasso, semplicemente in virtù della ridefinizione potenziale delle coordinate spaziotemporali? Sì, per una statua o per un quadro era uno scherzetto. Dov'era l'osservatore che scorgeva la pittura in contatto con la tela, che vedeva la figura di pietra delineata nel modo giusto dall'aria? Però, se lo schema in questione non era un oggetto isolato, bensì un mondo autonomo, completo di almeno un osservatore che unisse i puntini dall'interno…

Non c'era dubbio che fosse possibile. L'aveva già fatto. Nella prova finale del secondo esperimento era riuscito ad assemblare se stesso e l'ambiente circostante, senza sforzo alcuno, dal pulviscolo di istanti sparpagliati a caso, al rumore di fondo nel tempo reale. Certo, quel che aveva fatto il computer era stato architettato, era stato garantito che contenesse i suoi pensieri e le sue percezioni, codificati in calcoli apparentemente insensati. Ma, dato un insieme abbastanza grande di numeri realmente casuali, non c'era motivo di credere che non potesse includere, per puro caso, schèmi nascosti coerenti e complessi quanto quelli che sottendevano lui. E questi schemi, per quanto potessero essere confusi nel tempo reale, non sarebbero stati coscienti di sé, proprio come lo era lui, non sarebbero riusciti a riunire il proprio mondo soggettivo, come aveva fatto lui? Paul rientrò nell'appartamento, cercando di soffocare la sensazione di vertigine e di distacco dalla realtà. Altro che scordarsi di sé, si sentiva più oberato che mai dalla verità della sua natura arcana. Voleva ancora sloggiare? No. No! Come poteva affermare di potersi risvegliare tranquillamente scordandosi di se stesso, svegliarsi e "reclamare" la sua vita, proprio adesso che stava cominciando a intravedere le domande che il suo originale non aveva mai osato porre?

10 [REMIT NOT PAUCITY] Novembre 2050

Maria si presentò al caffè con quindici minuti d'anticipo… e Durham era già lì, seduto a un tavolo accanto all'ingresso. Rimase sorpresa. Adesso che la lunga attesa che immaginava era stata cancellata di colpo, non ebbe il tempo per innervosirsi. Durham l'individuò appena Maria fece il suo ingresso. Si strinsero la mano, si scambiarono qualche frase di circostanza e ordinarono il caffè dal menu sullo schermo a contatto del tavolino. Vedere Durham di persona poté solo confermare l'impressione che le aveva fatto per telefono: mezz'età, tranquillo, vestito in modo formale, decisamente non il prototipo del drogato da Autoverso. Maria disse: "Ero convinta di essere l'unica abbonata alla "Rivista dell'Autoverso" residente a Sidney. Ho sentito un paio di volte Ian Summers di Hobart, ma non pensavo ci fosse nessun altro tanto vicino". Durham si scusò. "Non c'è motivo perché abbia già sentito parlare di me. Temo di essermi sempre limitato a leggere gli articoli, non ho mai contribuito a niente né partecipo ai convegni. Anzi, non lavoro nemmeno sull'Autoverso. Non ne ho il tempo. O le capacità, se devo esser sincero." Maria afferrò il concetto, cercando di non sembrare troppo stupita. Era come sentire qualcuno ammettere di aver studiato gli scacchi ma non aver mai giocato una partita. "Però ho seguito i progressi nel settore con molta attenzione, e ho molta stima per quello che ha fatto con l'A. lambert. Forse ancor più di qualche suo collega. Credo di poterlo vedere in un contesto più ampio." "Intende… l'automazione cellulare in senso lato?" "Automazione cellulare, vita artificiale." "Sarebbe questo il suo campo d'interesse?" "Sì." Ma non come partecipante? Maria cercò di immaginarsi quell'uomo come mecenate del giro della vita artificiale, disposto a sponsorizzare con dovizia i giovani professionisti del ramo, il Lorenzo il Magnifico per i Botticelli e i Michelangelo della teoria dell'automazione cellulare. Non filava. Anche se l'idea non era del tutto ridicola, quello lì non sembrava abbastanza ricco. Arrivò il caffè. Durham fece per pagare per tutti e due, ma alle rimostranze di Maria lasciò senza discutere che lei pagasse la sua consumazione, il che la fece sentire più a suo agio. Mentre il carrello robot si allontanava, Maria arrivò dritto al punto. "Ha detto che è interessato a finanziare la ricerca basata su quel che ho ottenuto con l'A. lamberti. Ci sono delle direttive particolari…?" "Sì, ho in mente qualcosa di molto specifico." Durham esitò un secondo. "Ancora non so come spiegarle. Però vorrei che mi aiutasse… a dimostrare qualcosa. Voglio che costruisca un seme per una biosfera". Maria non replicò. Non era nemmeno sicura di aver sentito bene. Seme di biosfera era un termine gergale di terraformazione per designare tutte le piante e tutte le specie animali necessarie a rendere ecologicamente stabile un pianeta sterile, ma in teoria abitabile. Non aveva mai incontrato quella definizione in altri contesti. Durham continuò: "Vorrei che progettasse un ambiente prebiotico, una superficie planetaria, se preferisce considerarla in questo modo, e in più un organismo semplice che secondo lei può essere capace di evolvere col tempo in una moltitudine di specie, riempiendo le nicchie ecologiche potenziali". "Un ambiente? Allora… vuole un paesaggio in Realtà virtuale?" Maria cercò di non sembrare delusa. Si aspettava sul serio di essere pagata per lavorare in Autoverso? "Con una vita microscopica primordiale? Una specie di… parco a tema precambriano, i cui utenti possano ridursi alle dimensioni di

alghe per visitare i loro antenati?" Con tutto il disgusto che provava per la Rv patchwork, Maria si stava quasi appassionando all'idea. Se Durham le stava offrendo la possibilità di sovraintendere all'intero progetto, e i fondi per affrontare il lavoro come andava fatto, sarebbe stato mille volte più interessante di tutti i tediosi contratti Rv del passato. E assai più remunerato. Ma Durham aggiunse: "La prego, si scordi la Realtà virtuale. Voglio che progetti un organismo e un ambiente - in Autoverso — che abbiano le proprietà che ho descritto. E si scordi le alghe precambriane. Non pretendo che ricrei la vita ancestrale sulla Terra tradotta in chimica dell'Autoverso, sempre che una cosa del genere sia possibile. Voglio solo che costruisca un sistema con… il medesimo potenziale". Maria adesso era nel pallone. "Quando ha accennato a una superficie planetaria, pensavo intendesse un paesaggio virtuale in scala uno a uno, qualche decina di chilometri quadrati. Ma se intende l'Autoverso… pensa forse a una fenditura in una roccia sul fondo marino, qualcosa del genere? Qualcosa di vagamente analogo a un microambiente sulla Terra preistorica? Un pelino più 'naturale' di un terreno di coltura di due zuccheri differenti?" "Mi scusi, non mi sono spiegato bene. Chiaramente vorrò provare l'organismo seme in un certo numero di microambienti, è l'unica maniera per prevedere con un minimo di sicurezza che possa realmente sopravvivere, mutare, adattarsi… prosperare. Ma una volta che avrà attecchito, voglio che lei descriva il quadro completo. Che specifichi un intero ambiente planetario che l'Autoverso possa sostenere, e in cui il seme abbia possibilità di evolvere in forme di vita superiore". Maria esitò. Cominciava a domandarsi se Durham avesse una qualche idea della scala delle cose in Autoverso. "Cosa intende esattamente con 'ambiente planetario'?" "Qualunque cosa che trovi ragionevole. Che so, trenta milioni di chilometri quadrati?" Si mise a ridere. "Non si faccia venire un infarto, non mi aspetto che modelli tutto atomo per atomo. Comprendo bene che tutti i calcolatori della Terra non potrebbero gestire molto più di una pozzanghera reflua di marea. Voglio soltanto che ne descriva i dettagli essenziali. Lo può fare in un paio di terabyte, forse anche meno. Non ci vorrà molto per ricapitolare la topografia. Non importa la descrizione specifica di ogni montagna e valle e spiaggia, le servirà solo una descrizione statistica, qualche dimensione frattale importante. La meteorologia e la geochimica, in mancanza di termini più adatti, saranno un po' più complesse. Ma credo abbia capito quel che intendo. Potrebbe sintetizzare tutto quel che conta su un pianeta prebiotico con una quantità di dati relativamente piccola. Non mi aspetto che mi consegni una gigantesca griglia di Autoverso contenente ogni atomo di ogni granello di sabbia." "No, certo che no." Diventava sempre più strano, ogni minuto che passava. "Ma… perché specificare un intero 'pianeta', sotto ogni aspetto?" "Le dimensioni dell'ambiente e i mutamenti di clima e terreno sono fattori importanti. Dettagli del genere influenzeranno la varietà di specie diverse che cresceranno in isolamento per poi migrare e interagire. Di sicuro hanno avuto peso nella storia evolutiva della Terra. Perciò, che siano cruciali o meno, non sono affatto irrilevanti." Maria soppesò bene le parole. "È vero, ma nessuno sarà mai in grado di gestire un sistema tanto grande in Autoverso, perciò che senso ha descriverlo? Sulla Terra quel sistema è veramente altrettanto grande, visto che ci stiamo dentro. L'unico modo per spiegare l'intero decorso dei fossili e l'attuale distribuzione delle specie è guardare le cosa su scala planetaria. Le migrazioni sono accadute, e dobbiamo tenerne conto. Ma nell'Autoverso non è mai successo né mai succederà". "Ipotetico? Assolutamente. Ma non significa che i risultati non si possano soppesare, immaginare, discutere. Pensi a questo progetto come a… un contributo a un esperimento teorico. L'abbozzo di una dimostrazione". "Dimostrazione di cosa?" "In teoria, questa vita in Autoverso potrebbe essere ricca e complessa quanto la vita sulla Terra". Maria scrollò il capo. "Non lo posso dimostrare. Modellare qualche migliaio di generazioni di

evoluzione batterica in qualche microambiente…" Durham agitò la mano per placare i suoi timori. "Non si preoccupi, non ho aspettative poco realistiche. Ho detto 'un abbozzo di una dimostrazione', ma forse anche così sto esagerando. Voglio solo… delle prove indicative. Voglio il miglior progetto, la miglior ricetta che mi saprà trovare per un mondo incastonato nell'Autoverso che abbia qualche possibilità di evolvere nella vita complessa. Un insieme di risultati sulla genetica evolutiva a breve termine dell'organismo-seme, più un profilo di un ambiente in cui quell'organismo possa teoricamente evolvere in forme superiori. D'accordo, è impossibile far girare un mondo su scala planetaria. Ma non c'è motivo per non riflettere su come potrebbe essere quel mondo, così da rispondere a tutte le domande a cui possiamo dare risposta, e rendere il più concreto possibile questo scenario. Voglio che mi crei un pacchetto tanto completo, tanto dettagliato che, se qualcuno glielo fornisse all'improvviso, sarebbe sufficiente non dico a dimostrare qualcosa ma a persuaderla che nell'Autoverso potrebbe sbocciare una diversità biologica genuina." Maria rise. "Ne sono già persuasa, per quel che mi riguarda. Ma dubito che ci possa essere una simile prova inconfutabile". "Allora s'immagini di dover convincere qualcuno un po' più scettico." "A chi sta pensando esattamente? Calvin e la sua ciurma?" "Se vuole." Maria si chiese d'un tratto se poteva aver già incontrato Durham, se quell'uomo poteva avere delle pubblicazioni in altre branche del ramo della vita artificiale. Perché altrimenti gli doveva interessare quel dibattito? Avrebbe dovuto fare una ricerca bibliografica più ampia. Disse: "Allora il succo del discorso è che… vuole dimostrare - in modo inattaccabile - che sistemi deterministici come l'Autoverso possano generare una biologia complessa come quella del mondo reale, che tutte le sottigliezze della fisica del mondo reale e dell'indetenninismo quantistico non sono essenziali. E per controbattere l'obiezione secondo cui una biologia complessa può sorgere solo in un ambiente complesso, pretende una descrizione di un 'pianeta' adatto che possa esistere in Autoverso, a parte il fatto che l'hardware che lo può ospitare non sarà mai costruito". "Esatto." Maria esitò. Non voleva mettersi a contestare quel progetto bizzarro, ma difficilmente poteva farsi coinvolgere finché non le erano chiari i fini. "Ma alla fine quanto aggiungerà ai risultati ottenuti con l'A. lamberti?" "In un certo senso non molto," ammise Durham. "Come ha detto lei, non potrà mai esserci una dimostrazione. La selezione naturale è la selezione naturale, e lei ha dimostrato che nell'Autoverso si può verificare, e questo forse basta. Ma non crede che un esperimento teorico progettato come si deve su un intero pianeta potrebbe essere più… suggestivo… di qualsiasi esperimento concreto con i terreni di coltura? Non sottovaluti la necessità di puntare all'immaginazione della gente. Lei è senz'altro in grado di intravedere tutte le conseguenze che deriveranno dal suo lavoro. Ma altra gente avrà bisogno di farsele specificare in dettaglio." Maria non poteva replicare. Ma chi sganciava fondi di ricerca sulla base di cos'è suggestivo? "Allora, che università…?" Durham l'interruppe. "Non sono un accademico. Si tratta solo di un mio interesse personale. Un hobby, come nel suo caso. Sono un venditore di assicurazioni, nella vita reale". "Ma come fa a trovare i fondi senza…?" "Pago di tasca mia." Durham scoppiò a ridere. "Non si preoccupi, posso permettermelo. Se accetta, non sarà una presa in giro, glielo prometto. E riconosco che è insolito che un dilettante… subappalti. Ma come le ho detto, io non lavoro in Autoverso. Ci metterei cinque anni a imparare a fare da me quel che le sto chiedendo. Sarà libera di pubblicare tutto a suo nome, ovviamente. Le chiedo solo di darmi ricevuta

del supporto finanziario." Maria non sapeva che dire. Lorenzo, l'agente delle assicurazioni? Un cittadino privato, nemmeno Autoversodipendente, le stava offrendo di pagarla per produrre il programma più astratto che si potesse immaginare: non simulare un mondo inesistente, bensì "preparare" una simulazione che non sarebbe mai stata eseguita. Non poteva permettersi di sdegnare chi gettava nelle ricerche "inutili" soldi guadagnati con sudore, ma tutto quel che l'aveva spinta a farlo ruotava attorno al principio dell'esperienza diretta. Quale che fosse il piacere intellettuale che le aveva regalato, la vera ossessione, la vera dipendenza, consisteva nell'infilarsi i guanti per frugare in quello spazio artificiale. Durham le porse un chip Rom. "Qui troverà appunti dettagliati, compresa qualche mia idea, ma non si senta obbligata a seguirle. Voglio solo quel che lei crede possa funzionare, non quel che si avvicina ai miei preconcetti. E chiaramente sarà sotto contratto. Lo faccia esaminare dal suo sistema esperto legale. Se c'è qualcosa che non la convince, sarò molto flessibile." "Grazie." Durham si alzò. "Scusi se taglio corto, ma temo di avere un altro appuntamento. La prego, legga le note, ci rifletta su. Mi chiami quando avrà preso una decisione." Quando se ne fu andato, Maria rimase seduta al tavolo a fissare il rettangolo nero di epossido che teneva in mano, cercando di trovare un senso a quel che era successo. Babbage aveva progettato la Macchina analitica senza alcuna prospettiva reale di vederla costruita finché era vivo. Gli appassionati di viaggi nello spazio avevano progettato flotte interstellari fino all'ultimo bullone a partire dagli anni Sessanta del Novecento. I paladini della terraformazione sfornavano in continuazione studi completi di fattibilità per programmi che non era probabile si varassero per almeno un altro secolo. Perché? Come contributo agli esperimenti teorici. Come schizzi di prova. E se Durham, che non aveva mai lavorato in Autoverso, avesse posseduto una visione infinitamente più grandiosa della sua riguardo alle possibilità a lunga gittata, forse perché lei c'era stata sempre troppo vicina, era troppo coinvolta nelle contingenze noiose per intravedere quel che aveva visto lui… Solo che qui non si trattava di possibilità a lunga gittata. Il computer che poteva far girare un mondo in Autoverso doveva essere molto più grande del pianeta che modellava. Se un marchingegno del genere doveva mai essere costruito, per quanto fosse in là nel tempo, sarebbe stato per ragioni molto migliori di queste. Non era un problema di visionari nati con una o due generazioni di anticipo sulla loro epoca. L'ecologia dell'Autoverso era un concetto interamente teorico, e lo sarebbe sempre stato. Quel progetto era teorico nel senso più puro del termine. Anche troppo bello per essere vero. Il contratto da favola dell'Autoversodipendente. Ma perché Durham le doveva mentire, a parte la possibilità di una burla priva di senso? Maria intascò il chip e uscì dal locale, senza sapere se sentirsi scettica e pessimista, oppure entusiasta… e colpevole. Colpevole perché Durham, se era sincero, se progettava onestamente di sganciarle dei quattrini veri per questo splendido esercizio insensato, doveva essere un poco tocco. Se accettava l'incarico, si sarebbe approfittata di lui, sfruttando la sua strana follia. Maria lasciò entrare Aden in casa controvoglia. Di solito si vedevano da lui o su terreno neutrale, quel giorno, Aden, era andato a trovare un amico da quelle parti e lei non aveva trovato una scusa decente per rimandarlo indietro. Colse alle sue spalle un barlume di tramonto rosso senza nubi, e la porta aperta fece entrare il caldo odore cementizio del crepuscolo, il ronzio del traffico serale. Dopo sette ore passate rinchiusa nella sua stanza a leggere gli appunti di Durham per il suo Paradiso terrestre in Autoverso, la strada gli sembrò strana, quasi commovente, carica dell'oceano di due miliardi di anni che separava il momento terrestre della fecondità primordiale da tutte le sue conseguenze bizzarre. Precedette Aden nell'ingresso e accese la luce in soggiorno mentre lui appoggiava la bici alle scale. Quand'era da sola, quella casa le andava alla perfezione, ma bastava una persona in più a farla sembrare

un bugigattolo. Lui la raggiunse e disse: "Ho saputo di tua madre". "Come? Chi te l'ha detto?" "Joe conosce una tua cugina a Newcastle. Angela? Si chiama così, no?" Era appoggiato allo stipite della porta, a braccia conserte. Maria gli chiese: "Perché non entri, se vuoi entrare?" "Scusa. Posso fare niente?" Lei scosse la testa. Aveva pensato di chiedergli un prestito per la scansione, ma ancora non ce la faceva ad affrontare l'argomento. Aden le avrebbe chiesto, con aria innocente, se Francesca era assolutamente convinta di voler essere scansionata, e il tutto sarebbe degenerato in una discussione sul suo diritto a una morte naturale. Come se ci fosse qualche possibilità di scelta, senza i soldi per una scansione. "L'ho vista ieri. La sta prendendo bene. Ma non ne vorrei parlare adesso." Adden annuì, poi si staccò dalla porta per andarle accanto. Si baciarono per un po', il che era in un certo senso confortante, ma a Aden gli venne subito duro e Maria non era dell'umore giusto per fare del sesso. Anche nella migliore delle occasioni le ci voleva una sospensione volontaria dell'incredulità, una decisione conscia di seppellire la consapevolezza del meccanismo biologico che guidava le sue emozioni, e in quel momento aveva la testa impegnata dal consiglio di Durham di inserire una specie di diploidismo latente nell'A. lamberti, una inclinazione a creare "per errore" delle copie extra di cromosomi che potessero alla fine spianare la strada alla riproduzione sessuata con tutti i suoi vantaggi evolutivi. Aden si staccò da lei per andare a sedersi in una poltrona. Maria disse: "Credo di aver finalmente trovato lavoro. Se non mi sono sognata tutto quanto". "Grande! Per chi?" Gli riferì dell'incontro con Durham. La commissione, il seme. "Così non sai nemmeno che se ne fa, a parte qualche oscura prova intellettuale tutt'altro che decisiva sull'evoluzione?" Rise incredulo. "Come farai a sapere se 'tutt'altro che decisivo' andrà bene? E se Durham non sarà d'accordo?" "Il contratto è tutto a mio vantaggio. Deposita i soldi in un fondo fiduciario ancor prima che cominci. Devo soltanto dimostrare di aver fatto uno tentativo credibile per completare il progetto nel giro di sei mesi, e se sorgono controversie è tenuto per legge ad accettare la decisione di un organo indipendente su quel che costituisce 'un tentativo credibile'. Il sistema esperto che ho ingaggiato ha dato i massimi voti al contratto." Aden sembrava ancora scettico. "Meglio se ti fai dare un secondo parere. In metà dei casi quelle cose non sono d'accordo nemmeno tra di loro, figuriamoci a prevedere cosa succederà in aula. Comunque, se fila tutto liscio, quanto fai? " "Trentamila dollari. Non male, per sei mesi di lavoro. E in più tempo computer fino ad altri trentamila, da addebitare direttamente a lui." "Sì, eh? Come fa a permetterselo?" "Fa l'agente assicurativo. Se dobbiamo dargli retta, può guadagnare, non so… sui duecento testoni l'anno?" "Il che significa centoventi al netto delle tasse. Ed è disposto a sganciarne sessanta per questo?" "Sì. Ti crea dei problemi? Non lo lascio esattamente sul lastrico. E per quel che ne so, ne può anche guadagnare il doppio. Per non parlare di risparmi, investimenti… evasione fiscale. Le sue finanze personali non mi riguardano. Una volta che i soldi saranno nel fondo fiduciario, per quel che m'interessa può anche fare bancarotta. Sarò comunque pagata, terminato il lavoro. A me va bene". Aden scosse il capo. "Solo che non riesco a capire perché pensi che ne valga la pena. Ci sono non so

quante migliaia di Copie esistenti, adesso, che gestiscono metà delle più grosse multinazionali al mondo, nel caso tu non l'abbia notato, e questo vuole sganciare sessantamila dollari per dimostrare che la vita artificiale può superare lo stadio dei batteri? " Maria grugnì. "Ne abbiamo già discusso. L'Autoverso non è la Realtà virtuale. Le Copie non sono l'equivalente umano dell'A. lamberti. Sono una fregatura, un casino. Fanno quel che devono, con tanta efficienza. Ma non esiste nessuna… logica sottostante. Ogni parte del loro corpo obbedisce a un insieme differente di regole ad hoc. Va bene, sarebbe folle tentare di modellare un intero corpo umano a livello molecolare, però, se sei interessato a come la fisica di base influenza la biologia, le Copie sono inutili, perché non hanno una fisica di base. Il comportamento dei neuroni di una Copia non deriva da leggi più profonde, è solo questione di qualche 'regola neuronale' basata direttamente su quel che sappiamo dei neuroni in un corpo umano. Ma nel corpo umano quel comportamento è conseguenza delle leggi della fisica che agiscono su miliardi di molecole. Con le Copie abbiamo barato per il bene dell'efficienza. Non ci sono molecole, nessuna legge fisica, abbiamo solo inserito i risultati netti disponibili, la biologia". "E ciò offende la tua sensibilità estetica?" "Non è questo il punto. Le Copie hanno un loro ruolo, e quando sarà ora preferirei essere un ibrido di software piuttosto che essere morta. Voglio soltanto dire che non sono utili a farti capire quale genere di fisica può sostenere un tale genere di vita". "Un problema scottante dei nostri tempi." Maria si sentì avvampare di rabbia, ma ribatté con voce priva di emozione: "Forse non lo sarà. Solo che io lo trovo interessante. E a quanto pare anche Paul Durham. Forse è un problema troppo astratto per essere definito scienza… forse lavorare nell'Autoverso è solo matematica pura. O filosofia. O arte. Ma non sembra che ti turbi molto passare un anno a Seul a esercitare la tua arte inutile a spese dei contribuenti coreani". "È un'università privata." "Allora a spese degli studenti coreani." "Non ho mai detto che fosse sbagliato accettare il lavoro, solo che non voglio vederti nei pasticci se poi si scopre che quell'uomo sta mentendo." "Cos'avrebbe da guadagnarci?" "Non saprei, ma ancora non capisco cosa ci guadagna a dire la verità." Scrollò le spalle. "Comunque, se tu sei contenta io sono contento. Forse andrà tutto bene. E da come stanno andando le cose so che non ti puoi permettere di essere troppo esigente." Esigente? Maria iniziò a ridere. Nei termini di Aden, era ridicolo perfino discuterne. Durham non la stava prendendo in giro, non le faceva perdere tempo, era tremendamente serio, le sue note lo dimostravano. Trecento pagine, mesi di lavoro. Aveva elaborato il progetto fin dove poteva, senza imparare le complessità dell'Autoverso. Probabilmente le sfuggivano ancora le sue intenzioni, ma forse non c'era niente da capire. Immersa in quelle note, non avvertiva alcun mistero. A modo suo, il piano di Durham era… naturale, ovvio. Un fine in se stesso, che non richiedeva tetre spiegazioni radicate nel mondo della gloria accademica e dell'interesse monetario. Aden chiese: "Che c'è di tanto buffo?" "Non importa." Lui si agitò sulla sedia, guardandola in modo strano. "Beh, almeno non dovrai passare tutto il tuo tempo a Seul in cerca di lavoro, adesso. Sarebbe stata una bella noia." "Non vengo a Seul." "Starai scherzando." Lei scosse la testa. "Qual è il problema? Puoi farlo dappertutto questo lavoro, no?"

"Immagino. Sì, solo che..". Maria provò una fitta di indecisione. Aden sembrava sinceramente scosso. Le aveva fatto capire con chiarezza che sarebbe andato senza di lei, se necessario… ma quello era comprensibile. Il compositore residente era il suo lavoro ideale, e lei non poteva obiettare nulla, anche perché non aveva nulla da perdere ad accompagnarlo. Avrebbe potuto esprimersi in modo più carino, invece di farla sentire come un bagaglio opzionale, ma non era la dimostrazione che stesse cercando di respingerla, né costituiva un crimine. Certe volte lui si dimostrava privo di tatto, ma comunque sopportabile. "Che c'è che non va? Seul ti piacerà. Lo sai." "Mi piacerebbe troppo. Ci sarebbero troppe distrazioni. Questo progetto significherà lavoro pesante, sarà la cosa più ardua che abbia mai fatto, e se non ci metto tutta l'attenzione finirà con l'essere impossibile. " Era iniziata come una scusa estemporanea, ma era tutto vero. Aveva a disposizione sei mesi, se non per costruire un mondo almeno per abbozzarne uno. Se non lo mangiava, dormiva, respirava non sarebbe mai saltato fuori, non avrebbe mai acquistato vita. Aden sbuffò. "Ridicolo! Non devi nemmeno scrivere un programma che giri. L'hai detto anche tu che quel che fornirai sarà abbastanza buono, sempre che dimostri di aver fatto uno sforzo ragionevole. Cosa ti dirà Durham? 'Spiacente, ma non credo che questa fanghiglia potrà mai inventare la ruota'?" "Importa a me se farò le cose per bene." Aden non rispose. Poi: "Se vuoi restare qua per via di tua madre, perché non lo ammetti?" Maria ci rimase male. "Perché non è vero." Lui la fissò arrabbiato. "Sai, stavo per proporti di restare qua con te. Ma non ne voglio più parlare". "È questo che eri venuto a dirmi? Che se progettavo di restare a Sidney per via di Francesca tu avresti rifiutato il lavoro a Seul?" "Sì." Lo disse come se le fosse dovuto apparire evidente sin dall'inizio. "Sta morendo. Credi che me ne andrei lasciandoti qui ad affrontare da sola questa situazione? Mi credi proprio una merda?" Non sta morendo, si farà scansionare. Ma non lo disse. "A Francesca non interessa se vado o se resto. Le ho proposto di trasferirmi da lei, ma non vuole nessuno che le badi. Men che meno la sottoscritta". "Allora vieni a Seul." "Perché, esattamente? Perché così non starai male a lasciarmi? È tutto qui, no? Si tratta della tua serenità mentale". Aden ci rifletté per un pezzo, poi disse: "Va bene. Vaffanculo. Resta pure". Si alzò, uscendo dalla stanza. Maria lo sentì che armeggiava con la bici, poi apriva la porta d'ingresso e la sbatteva. Riordinò in cucina, controllò le serrature, spense le luci. Poi salì di sopra a stendersi sul letto, lasciando la stanza al buio, cercando di raffigurarsi il corso più probabile degli eventi nelle prossime settimane. Aden le avrebbe telefonato prima della partenza, cercando di metterci una pezza, ma adesso capiva quanto sarebbe stato facile rompere definitivamente. Adesso che si era arrivati a quel punto, sembrava la cosa più ovvia da fare. Non era sconvolta né si sentiva sollevata, soltanto tranquilla. Le faceva sempre questo effetto: bruciarsi i ponti alle spalle, staccarsi dalla gente. Semplificare la sua vita. Dopo aver letto il Rom di Durham aveva lasciato il terminale acceso. Lo schermo era vuoto, e teoricamente nerissimo, eppure, mentre i suoi occhi si adattavano al buio, lo poteva scorgere come un tenue bagliore grigio. Ogni tanto si notava un breve lampeggiare in punti casuali dello schermo, un pixel attivato dalla radiazione di fondo, colpito da un raggio cosmico. Osservò quei lampi, simili a una pioggia lenta che scivola su una finestra di un altro mondo, finché si addormentò.

11 [REMIT MOT PAU CITY] Gennaio 2051

Malcolm Carter si presentava come un signore di mezz'età avanzata, alto, solido e vigoroso, e in effetti aveva cinquantott'anni, perciò il corpo del visitatore era stato adattato direttamente da quello vero con una certa facilità. Peer si ricordava di aver visto delle foto di Carter sulla trentina, quando era venuto alla ribalta come uno dei primi architetti-programmatori interessati alle esigenze delle Copie piuttosto che a quelle dei visitatori umani che utilizzavano gli ambienti virtuali solo per lavoro o svago. Però anche i visitatori avevano finito per assoldarlo, visitatori come Kate, che stavano per "entrare". E a quel tempo Kate si muoveva in un'orbita consimile, da giovane artista informatica strappata all'oscurità dell'Oregon e adottata dai modaioli di San Francisco più o meno ai tempi dell'ascesa di Carter, partendo da una piccola ditta di software in Arizona. Peer non era sicuro che sarebbe riuscito a riconoscere quel tale dalle vecchie foto di rivista, ma del resto nessuno continuava a sembrare tale e quale come quando aveva trent'anni, se ne aveva la possibilità. Carter strinse la mano a Peer e rivolse un cenno del capo a Kate. Peer si chiese, incuriosito ma per nulla geloso, se non si stessero salutando con più calore in una deviazione privata rispetto alla versione dell'incontro che lui stava vedendo. Si trovavano in un ampio locale di ricevimento ospiti, le pareti e l'alto soffitto decorati con un motivo a schiera di cerchi concentrici modellati nello stucco color panna, il pavimento piastrellato a losanghe bianconere. Era l'indirizzo ufficiale in Rv di Carter, tutti potevano chiamare quel numero ed "entrare lì". Però la stanza generava delle versioni separate per interlocutori separati. Peer e Kate avevano fatto le scale per arrivare insieme, ma senza correre alcun rischio di incappare accidentalmente in uno dei clienti danarosi di Carter… o di Durham. Carter disse: "Spero non v'importi se arriviamo subito al dunque. Non mi piace far uso di induttori per più di ventiquattr'ore di fila". Peer replicò: "È stato molto gentile a trovare il tempo per incontrarsi". Si maledisse in silenzio: stava meditando di mollare a quell'uomo una porzione sostanziosa del suo patrimonio, e affidargli il destino di una versione autonoma della propria coscienza. Aveva il diritto a un colloquio. Eppure, un rallentamento di sessanta… Carter, sempre che fosse lui e non una maschera convincente, indicò una porta in fondo alla sala. "Là dietro c'è un abbozzo preliminare della città, se dopo ci volete fare un giretto. Basta chiamare una guida, se vi occorre. Ma immagino che la città non sia il vostro pensiero più urgente. Quel che vorrete sapere è se potrete inserivi senza rischi nelle sue fessure". Peer lanciò un'occhiata a Kate, che restò in silenzio. Lei era già convinta, questo era tutto a beneficio del compagno. Carter allungò il braccio verso il centro della stanza. "Vedete quella fontana?" Apparì puntuale una torta nuziale marmorea del diametro di cinque metri, sormontata da un angioletto beato che lottava con un serpente. L'acqua scendeva a cascata da una ferita zampillante nel collo del cherubino. Carter disse: "È stata calcolata con le ridondanze nel disegno della città. Posso estrarre i risultati perché so esattamente dove cercarli, ma nessun altro avrebbe la benché minima speranza di estrapolarli". Peer si avvicinò alla fontana, accorgendosi subito che gli spruzzi erano intangibili. Quando affondò la mano nell'acqua, tutt'attorno alla base non sentì nulla, e il movimento delle sue dita lasciò inalterata la superficie spumosa. Stavano spiando i calcoli, non interagivano con essi. La fontana era un sistema chiuso. Carter disse: "Certo, nel vostro caso nessuno dovrà conoscere i risultati. Eccetto voi, e voi li saprete già perché voi sarete i calcoli".

Peer replicò, quasi senza riflettere: "Non io. Il mio clone". "Come preferisce." Quando Carter batté le mani, comparve un reticolo tridimensionale multicolore sospeso per aria sopra la fontana. "Questa è una parte schematizzata del software che gestisce l'abbozzo della città. Ogni cubo rappresenta un processo. I pacchetti di dati, quei puntini di luce colorata, ci scorrono attraverso. Non c'è nulla di approssimativo quanto un sottoinsieme di processi dedicati alla fontana. Ogni processo individuale, e ogni pacchetto individuale di dati, è implicato in qualche aspetto della città. Ma qua e là ci sono dei calcoli lievemente inefficienti, e viene scambiata qualche informazione ridondante. " I puntolini sulla superficie dei cubi lanciarono bagliori azzurrini. "Uno dei trucchi più semplici consiste nell'utilizzare un vettore quando serve solo una direzione. In questo caso l'ampiezza del vettore è irrilevante. Delle operazioni perfettamente ragionevoli sul vettore, interamente giustificate nel loro contesto, eseguono per caso operazioni aritmetiche sull'ampiezza. Ma è solo una tecnica tra tante. Ce ne sono a decine." Batté di nuovo le mani, facendo svanire tutto tranne le evidenziazioni azzurre. Il diagramma si riformò, i processi sparsi si riunirono a formare una griglia compatta. "Il fatto è che la fontana viene calcolata assieme alla città, senza che il software debba palesemente rubare tempo per un compito parassitario. Ogni riga di ogni programma trova il suo senso nel calcolo complessivo della città." Peer disse: "E se, per ridurre le inefficienze, Durham fa girare il suo codice in un ottimizzatore che riporti in scala tutti i vettori non necessari?" Carter scrollò il capo. "Non credo che metterà mai le mani sul codice, e anche in tal caso gli ottimizzatori possono risalire solo fino a questo punto. Nella versione completa della città, i risultati dei vostri calcoli si propagheranno in modo tanto ampio che un qualsiasi programma ci metterebbe mesi per dedurre che il dato non è realmente necessario, che in fin dei conti non fa alcuna differenza per i suoi abitanti legittimi." Sogghignò. "Ottimizzare qualcosa che riguardi le Copie è un affare problematico. Dovete aver sentito del miliardario recluso che voleva girare il più veloce possibile anche se non aveva mai avuto contatti con il mondo esterno, e così inserì il suo codice in un ottimizzatore. Dopo che l'ebbe analizzato per un anno, l'ottimizzatore segnalò: Questo programma non produrrà output, sputando fuori la versione ottimizzata, che per l'appunto non faceva nulla." Peer rise, anche se aveva già sentito la storiella. Carter disse: "Il fatto è che la città è così complessa, sono in funzione talmente tante cose che, anche se tutto fosse lasciato al caso, non sarei sorpreso se si instaurasse qualche elaborazione secondaria sofisticata, per puro caso. Ma non ho avviato alcuna ricerca, in questo senso, mi brucerebbe troppo tempo di processazione. E lo stesso vale per chi volesse cercare voi. Non è un proposito pratico. Perché spendere milioni di dollari per scovare chi non provoca alcun danno?" Peer studiò con scetticismo lo schema azzurro. Sembrava che Carter sapesse di cosa stesse parlando, ma qualche grafico dall'aspetto plausibile non dimostrava nulla. Carter parve leggergli nel pensiero. "Se ha ancora dei dubbi, dia un'occhiata al software da me usato." Spuntò sospeso davanti a Peer, un librone molto voluminoso. "Questo modifica il programma A per eseguire surrettiziamente il programma B, dato un A sufficientemente più complesso di B dal punto di vista algoritmico. Quel che esattamente significa lo può trovare nell'appendice tecnica. Provi, lo mostri al suo sistema esperto preferito… lo verifichi pure come le pare." Peer prese il libro e, ridottolo alle dimensioni di una carta di credito, se l'infilò nel taschino posteriore dei jeans, poi disse: "Non c'è motivo per cui lei non dovrebbe essere in grado di fare tutto quel che sostiene, portarci di peso nella città, nasconderci a ogni ricerca, proteggerci dall'ottimizzazione. Ma… perché? Che ne ricava? Quel che chiede non è niente, rispetto a quel che dovrà pagarle Durham. Perché correre il rischio? O lei frega tutti i suoi clienti per principio?" Carter preferì dimostrarsi divertito, per nulla offeso. "La pratica di scremare una percentuale di un progetto di costruzione ha una lunga tradizione onorata. Ancor più onorevole se non si compromettono

seriamente i bisogni del cliente. In questo caso è implicata anche una programmazione elegante. Vale la pena di farlo solo per puro piacere. Quanto ai soldi, le sto facendo pagare abbastanza da coprire i costi. " Scambiò un'occhiata con Kate, a uso e consumo di Peer, il quale altrimenti non l'avrebbe certo vista. "Ma alla fin dei conti sto solo facendo l'offerta come favore. Così, se temete che vi possa fregare, il vostro rifiuto sarà ben accetto". Peer cambiò tattica. "E se Durham stesse fregando i suoi, di clienti? Lei gli sta solo sottraendo qualche Qips, ma se Durham non progetta affatto la città e scompare coi soldi? Ha mai visto il suo hardware? L'ha mai usato?" "No. Ma non ha mai sostenuto di avere un proprio hardware, almeno con me. La versione che mi è stata data è che la città girerà sulle reti pubbliche. Sono stronzate, ovvio. Le Copie che lo finanziano non lo berrebbero nemmeno per un secondo. È solo un modo educato per dirmi che i problemi dell'hardware non sono affaracci miei. Quando a scappare coi soldi, da quel che posso capire della sua liquidità sarà fortunato ad andare in pari con questo progetto. Il che mi suggerisce che c'è qualcun altro che sta gestendo i veri accordi finanziari. Durham è soltanto un prestanome, mentre il vero possessore dell'hardware gli pagherà l'incomodo una volta che il tutto sarà risolto." "Il possessore di cosa? Di questa ipotetica 'macchina avanzata' che nessuno ha mai visto? " "Se ha convinto Sanderson e Repetto a pagare, allora può star tranquillo che gli ha mostrato qualcosa che a me non ha fatto vedere". Peer stava per protestare, ma l'espressione di Carter diceva: Prendere o lasciare, creda pure quel che vuole. L'ho fatto per la mia ex amante, ma la verità è che non mi frega niente se l'ho convinta o meno. Carter si scusò. Mentre attraversava la sala, coi passi che risuonavano nello spazio immenso, Peer non riusciva a convincersi che quell'uomo fosse rimasto a gingillarsi per i quindici minuti in tempo reale che gli ci volevano per raggiungere l'uscita. Non un uomo occupato come lui. In realtà, mentre parlava con loro, doveva aver condotto altri due o tre colloqui con delle Copie, entrando e uscendo dalla discussione e lasciando una maschera ad animare il viso durante la sua assenza. Kate disse: "Qual è la cosa peggiore che può succedere? Se Durham è un truffatore, se la città è una presa in giro, cosa ci perdiamo? Con i soldi possiamo acquistare solo dei Qips. E sei tu quello convinto che non conta nulla quanto siamo lenti". Peer aggrottò la fronte, sempre fissando l'uscita usata da Carter, sorpreso nel trovarsi tanto riluttante a distogliere lo sguardo. Quella porta non significava niente per lui. Disse: "Metà del fascino di questa storia risiede nel farsi una corsetta gratis. O nel corrompere Carter a rubare per noi. Non c'è tanta… dignità nel fare i clandestini in una nave che non va da nessuna parte". "Potresti decidere che non t'importa." "Non voglio. Non faccio finta di essere umano, ma ho ancora una… personalità. E non voglio la calma. La calma è la morte." "Sul grattacielo…" "Sul grattacielo mi sbarazzo delle distrazioni. Ed è confinato a quel contesto esclusivo. Quando ne emergo ho ancora delle mete. Ho ancora dei desideri." Si volse verso di lei, allungando una mano per sfiorarle la guancia con le dita. "Potresti decidere che non t'importa della sicurezza. O del tasso dei Qips, del controllo climatico, della politica di elaborazione, potresti scegliere di considerare i rumori minacciosi del mondo esterno come altrettante scoregge. Allora non avresti più bisogno, né voglia di farlo." Kate lasciò lì il corpo che lui stava toccando, e si ritrasse in un altro simile. Peer lasciò cadere il braccio lungo il fianco. Lei disse: "Appena farò parte di una città di miliardari mi dimenticherò allegramente del modo esterno. Quando avrò tutti quei soldi e quel potere impegnati nella mia sopravvivenza". "Vuoi dire che basterebbe a soddisfarti, oppure intendi prendere la decisione consapevole di essere

soddisfatta?" Lei fece un sorriso enigmatico, e Peer decise volontariamente di commuoversi a quella vista. Lei disse: "Non lo so ancora. Aspetta e vedrai". Peer non replicò. Capiva che, nonostante tutti i suoi dubbi, l'avrebbe seguita quasi certamente, e non solo per l'emozione di creare una seconda versione, non solo per il piacere di minare le sue ultime illusioni antropomorfiche. La verità era che voleva stare con lei. Tutta lei. Se lui rinunciava e lei proseguiva, sapere di aver perso l'unica opportunità di avere una propria versione accanto a Kate l'avrebbe fatto impazzire. Non capiva se fosse brama di possesso o affetto, gelosia o lealtà, ma sapeva di dover essere una parte di tutto quello che lei provava laggiù. Era una rivelazione sconcertante. Peer scattò un'istantanea del suo stato mentale. Kate indicò la porta che introduceva allo schema della città. Peer disse: "Chi se ne frega? Ci sarà un sacco di tempo per esplorare quella vera". Lei lo guardò in modo strano. "Non vuoi soddisfare la tua curiosità? Adesso e per sempre, per quello che resterà dietro di noi?" Lui ci pensò un attimo, poi scosse la testa. "Un clone vedrà la città terminata. Uno no. Entrambi condivideranno un passato in cui non avevano ancora sentito parlare di quel posto. Il clone esterno, che non la vedrà mai, cercherà di immaginare com'è. Quello dentro girerà altri ambienti, e a volte non penserà affatto alla città. Quando lo farà, forse non la ricorderà bene. E talvolta sognerà delle versioni pazzamente distorte di quel che ha visto. Io definisco tutti quei momenti parte di me. Perciò… di cosa essere curiosi?" Kate disse: "Adoro quando sei così dottrinario". Si fece avanti per baciarlo, poi, mentre lui si allungava ad afferrarla, scivolò in un altro corpo, lasciandolo ad abbracciare soltanto un peso morto. "Adesso taci e andiamo a dare un'occhiata". Peer dubitava di aver mai saputo con esattezza perché era morto. Non contavano nulla tutte le introspezioni angoscianti, le indagini tortuose in video-cartolina presso ex amici. Nemmeno le analisi dei sistemi esperti sul suo file della scansione finale l'aveva portato vicino alla verità. Era uno iato troppo ampio da superare. Per lui gli ultimi quattro anni della sua vita fisica erano andati persi, e gli eventi di quel periodo sembravano più un'escursione sfortunata in un mondo parallelo che una semplice crisi di amnesia. Il coroner aveva inviato delle conclusioni vaghe. Gli incidenti alpinistici erano rari, la migliore tecnologia era praticamente a prova di errore… ma David Hawthorne si era astenuto da tutte quelle sofisticherie da fighetti (compresi gli impianti di scatola nera che avrebbero registrato le azioni precedenti la sua morte, se non i motivi di fondo). Niente chiodi da roccia provvisti di microchip, in grado di eseguire una tomografia a ultrasuoni della superficie rocciosa calcolando la propria capacità di tenuta, nessuna imbracatura completa di air-bag intelligenti, che avrebbero attutito la caduta di sessanta metri sulle rocce taglienti, nessun robot tutore di scalata, che l'avrebbe trasportato per venti chilometri su un terreno accidentato con la schiena spezzata per consegnarlo a un reparto rianimazione come se ci fosse arrivato in volo, adagiato su una nuvola di morfina. Fino a un certo punto Peer simpatizzava con lui. A che serviva farsi scansionare se dovevi rimanere schiavo di un rispetto obsoleto per la fragilità umana? Avendo trionfato sulla mortalità, come poteva continuare a vivere come se non fosse cambiato nulla? Ogni istinto biologico, ogni idea comune sulla natura del sopravvivere, era diventato assurdo, e lui non era riuscito a resistere al bisogno di drammatizzare la trasformazione. Questo non dimostrava che avesse desiderato morire. Ma se la sua morte era stata pura disdetta, suicidio inequivocabile o l'esito di una bravata tremendamente pericolosa e sottovalutata, il David Hawthorne vecchio di quattro anni si era risvegliato

nei ghetti virtuali per capire che considerava quella prospettiva più o meno simile al risvegliarsi in purgatorio. Qualunque cosa avesse creduto in quegli anni persi, qualunque cosa avesse immaginato in quegli ultimi secondi di vita sulla "sporgenza del calcare", fino all'ultima scansione, si era sempre raffigurato la resurrezione virtuale in un futuro remoto, quando fosse stato tremendamente ricco oppure il costo dell'elaborazione dati fosse crollato completamente. Aveva quarantasei anni, era in perfetta salute, dirigente della Incite Plc, la ventiseiesima azienda europea di marketing, secondo nella scala gerarchica della divisione corrispondenza interattiva mirata. Facendo un minimo di attenzione, poteva vivere fino a centocinquant'anni, per diventare membro istantaneo dell'élite, forse a quell'epoca già trasferito in un corpo cibernetico a malapena distinguibile da quello vero. E invece, avendo pagato per il diritto di non temere la morte, a un certo livello doveva aver fatto confusione tra l'immortalità astratta letteraria, impregnata di moralità, da beniamino del fato tipica degli eroi mitici e dei virtuosi credenti in cui vita dopo la morte - e la versione altamente specifica da libero mercato per cui in realtà aveva firmato. Quale che fosse la tortuosa spiegazione psicologica della sua morte, in termini monetari il risultato era molto semplice. Era morto troppo presto. In una settimana di tempo reale, cioè qualche ora soggettiva, era passato da un modello in carne e ossa, nel lussuoso appartamento virtuale che aveva comprato all'epoca della prima scansione, alla coscienza disincarnata che osservava il suo Bunker. Anche questo non era bastato a tenerlo attaccato al suo ruolo nel mondo esterno. L'assicurazione totale sulla vita veniva preclusa a chi non era stato scansionato, tantomeno a chi si dedicava a passatempi pericolosi, e il verdetto del coroner aveva escluso il pagamento dell'unica carissima polizza surrogata all'acqua di rose che era riuscito a ottenere. A un rallentamento di trenta, il più basso fattore Bunker/tempo reale che gli introiti dei suoi investimenti potevano garantire, le comunicazioni erano problematiche, e il lavoro produttivo impossibile. Anche se avesse cominciato a bruciare i suoi capitali per garantirsi l'uso esclusivo di un gruppo di processori, la differenza cronologica l'avrebbe sempre reso un disoccupato. Le Copie i cui fondi fiduciari controllavano pacchetti azionari massicci, i dirigenti defunti che sedevano in consigli di amministrazione ufficiosi che si riunivano due volte all'anno per prendere altrettante decisioni, potevano convivere benissimo con l'economia del rallentamento. Hawthorne era morto prima di raggiungere la necessaria massa critica finanziaria, e il relativo status di megadirigente in cui l'avrebbero pagato solo per mettere il suo nome nella carta intestata della compagnia. Quando la realtà della sua situazione gli era diventata chiara, era sprofondato nella depressione più nera. Mille malattie costose e invalidanti lo potevano strappare agli agi della borghesia medio-alta, riducendolo a una miseria e a un isolamento relativi. Però morire "povero" era un colpo basso. Nella vita corporea aveva seguito tranquillamente l'opinione generale: il denaro come significato più profondo della realtà, certificati di proprietà come definizione di ciò che è vero, e intanto in molti fine settimana fuggiva nel giardino ben tenuto della campagna inglese, accampandosi sotto le nuvole, per schiarirsi la mente dalle finzioni bizantine della Città, ricordandosi di quanto tutto fosse arbitrario, artificiale. Non si era mai illuso di poter campare dalla terra, "scomparendo" in una foresta mappata due volte al giorno dall'EarthSat a scala di centimetri, sopravvivendo grazie alla carne delle specie protette, strappando a denti nudi i radiocollari dalle volpi e dai tassi, sopportando stoicamente le rare malattie e le infestazioni di parassiti da cui le vaccinazioni dell'infanzia e i richiami policlonali di linfociti T non gli avevano garantito l'immunità. La verità era che quasi certamente sarebbe morto di fame o impazzito, ma non era questo il punto. Quel che importava era quanto poco i suoi geni fossero diversi da quelli dei suoi antenati cacciatori-raccoglitori di diecimila anni prima. Quell'aria era ancora respirabile, non costava nulla, e la luce del sole baciava ancora il pianeta, sosteneva la catena alimentare e manteneva un clima in cui lui poteva sopravvivere. Immaginare la vita senza soldi non era fisicamente impossibile, non era assurdo

dal punto di vista biologico. Mentre osservava gli schermi del Bunker, ripensò a quell'idea trita e ritrita ma confortevole con un senso vertiginoso di perdita, perché non era più in suo potere distanzarsi, anche per poco, dall'allucinazione di massa del commercio come realtà, non era più possibile strappare un autoironico senso di dignità e indipendenza dalla sua ipotetica capacità di vivere nudo nei boschi. Il denaro non era più una finzione comoda da considerare con la debita ironia, perché le transazioni finanziarie informatiche - che scorrevano dai suoi investimenti ai provider di Qips della rete - adesso sottendevano ogni suo pensiero, ogni sua sensazione, tutto ciò che era. Senza amici, senza corpo, con tutto il mondo che abitava un tempo trasformato in un panorama sfocato intravisto dal finestrino di un treno in corsa, David Hawthorne si era preparato a sloggiare. Era stata Kate a bloccarlo. Era stata delegata a eseguire una "chiamata di benvenuto" da un comitato di residenti del ghetto, al quale si era aggregata con la speranza che le finanziassero un progetto. Questo prima che consapevolmente decidesse di non desiderare altro pubblico per le sue creazioni, rendendo irrilevante la quota di tempo di elaborazione relativa a tutti gli altri processi. L'unico contatto di Hawthorne dopo la morte erano stati i brevi messaggi registrati da ex amici, ex amanti, ex conoscenti e colleghi, tutti che gli dicevano più o meno addio, come se si fosse imbarcato in un viaggio di sola andata per un posto irraggiungibile dalle comunicazioni moderne. C'era anche stata un'offerta di consulenza dal sistema esperto "trauma della resurrezione" della sua clinica delle scansioni, con i primi dieci minuti soggettivi totalmente gratuiti. Quando Kate era comparsa nel display comunicazioni, sincronizzata con lui e capace di colloquiare, le aveva donato l'anima. Lei l'aveva convinto a rimandare l'uscita del tempo necessario a considerare ogni alternativa. Non aveva fatto molta fatica, la sua semplice presenza aveva migliorato immensamente le prospettive. Gli aveva detto che migliaia di Copie riuscivano a sopravvivere a fattori rallentamento di trenta, sessanta e, peggio, non giocavano un ruolo nel consesso umano, non guadagnavano un soldo oltre i redditi passivi dei loro fondi fiduciari, vivevano al proprio ritmo. Non aveva nulla da perdere a provare. E se non fosse riuscito ad accettare quell'esistenza separata? Gli restava sempre la possibilità di sospendersi, nella speranza che l'economia ontologica giocasse alla fine a suo favore, nonostante il rischio insito nello svegliarsi e scoprire di essere in un mondo molto più avanti, molto più difficile da affrontare del presente accelerato. Per uno la cui speranza più riposta era stata svegliarsi in un corpo robotico per continuare a vivere come se non fosse cambiato niente, i ghetti furono uno shock. Kate l'aveva portato in giro negli Slow Club, punti di incontro per Copie disposte a sincronizzarsi al ritmo della persona più lenta presente. Nessun miliardario in vista. Al Cabaret Andalou i musicisti avevano sassofoni e chitarre viventi, i brani erano visibili, tangibili, radiazioni psicotrope che erompevano dalla bocca dei cantanti, e in una bella serata poteva nascere una forte ondata di cameratismo, di telepatia, di sinergia per il mutuo consenso della folla, sciogliendo (per un attimo) ogni barriera personale, mentale e finto-fisica, ristrutturando pubblico e artisti in un singolo organismo: cento occhi, duecento membra, una gigantesca rete neurale che risuonava dei ricordi, sensazioni ed emozioni di tutta la gente che era stata prima. Kate gli aveva mostrato alcuni ambienti che aveva comprato, e qualcuno che s'era costruito, in cui viveva e lavorava in solitudine. Un giardino posteriore in un paesello, troppo grande e con l'erba troppo alta, all'inizio dell'estate, un ricordo d'infanzia aumentato e modificato, in cui intagliava solide sculture soltanto da una possibilità di colore, grana e forma di dieci-alla-decimillesima. Una squallida costiera grigia sotto nubi eternamente minacciose, il cielo come olio scuro sulla tela, un quadro che aveva preso vita, dove andava a tranquillizzarsi quando preferiva non prendere la decisione consapevole di essere calma. Lo aveva aiutato a riprogettare il suo appartamento, ricavandolo da un'iperrealistica scatola di cemento all'interno di un sistema percettivo che poteva essere stabile o reattivo a piacimento. Una volta,

prima di prender sonno, si era avvolto la struttura addosso come fosse un sacco a pelo, riducendola e sprimacciandola fin quando la cucina non gli aveva fatto da cuscino e le altre stanze gli drappeggiavano il corpo. Aveva mutato la topologia in modo che ogni finestra guardasse attraverso un'altra finestra, ogni parete confinasse con un'altra. L'intero oggetto si chiudeva su se stesso in ogni direzione, finito ma senza limiti, l'universo come un grembo. E Kate gli aveva fatto conoscere i drammi filosofici interattivi di Daniel Lebesgue: Lo spettatore, L'uomo sano di mente (adattamento dell'Enrico IV di Pirandello) e naturalmente Nazione solipsista. Hawthorne aveva assunto il ruolo di John Beckett, Copia riluttante, ossessionata dal desiderio di tenersi al corrente del mondo esterno, che finisce col diventare letteralmente una società e una cultura a sé stante. Il software del dramma non aveva realizzato lo stesso destino per Hawthorne. Pensato sia per Copie sia per visitatori, lavorava a livello di percezioni e metafore, non di riadattamento neurale. Le idee di Lebesgue erano ammalianti ma imprecise, e persino l'autore non aveva mai cercato di metterle in pratica, da quel che si sapeva. Si era nascosto al mondo nel 2036, diventando un recluso, "sloggiando" o sospendendosi, nessuno lo sapeva. I suoi discepoli scrivevano manifesti e ricette per utopie virtuali. Però, nel gergo più comune, essere "Nazione solipsista" significava soltanto aver cessato di rimettersi al mondo esterno. Tre settimane soggettive dopo la sua resurrezione, quasi quattro anni in tempo reale, Hawthorne era sceso dalla giostra quanto bastava per ottenere notizie dall'esterno. Non aveva trovato nulla di particolarmente drammatico o inatteso nei riepiloghi, nessun rivolgimento politico stupefacente, nessuna scoperta tecnologica abbagliante, le stesse guerre civili e carestie del passato. I titoli della Bbc della giornata: Cinquecento persone morte per il maltempo nel Sud-est dell'Inghilterra. La Federazione europea ha tagliato del quaranta per cento l'accesso di profughi ambientali. Gli investitori coreani proseguono l'embargo minacciato sui buoni di stato americani, come parte di una guerra commerciale sulle tariffe bíotecnologiche, e le aziende fornitrici hanno tagliato corrente, acqua e comunicazioni a tutti gli edifici federali. Nonostante i dettagli aggiornati, sembrava tutto familiare come una marca di merendine: stessa sensazione al tatto, stesso gusto come se lo ricordava da quattro anni prima, da otto. Con gli occhi fissi sul terminale, con le immagini generiche stranamente tranquillizzanti che lo attiravano, le tre settimane allucinate di sassofoni danzanti e di quadri abitabili erano diventate insignificanti, quasi fossero state soltanto un sogno vivido. O almeno qualcosa su un altro canale, senza rischio che lo si confondesse con il notiziario. Kate aveva detto: "Sai, puoi star qui in eterno, a guardarlo in eterno, se è quel che vuoi. Sono Copie, le chiamiamo Testimoni, e si affinano in… sistemi… che non fanno altro che monitorare i notiziari con il massimo scrupolo che gli consente il rallentamento. Niente corpo, nessuna fatica, nessuna distrazione. Puri osservatori che guardano dipanarsi la storia". "Non è questo che voglio." Però non aveva distolto gli occhi dallo schermo. Inspiegabilmente aveva iniziato a piangere, piano, struggendosi per qualcosa che non poteva nominare. Non il mondo definito dai sistemi notiziario, non aveva mai vissuto in quel luogo. Non la gente che gli aveva mandato i suoi addii registrati, all'epoca gli erano stati utili, ma per lui non volevano più dir nulla. "Ma?" "Ma per me l'esterno, anche se non ne posso far parte è ancora la realtà. Carne e ossa. Terreno stabile. Vera luce del sole. È ancora l'unico mondo che conta, in fondo. Non posso fingere di non saperlo. Qui tutto è solo una bella finzione inconseguente." Compresa te. Compreso me. "Puoi cambiarlo." "Cambiare cosa? La Realtà virtuale è la Realtà virtuale. Non puoi trasformarla in qualcos'altro." "Puoi cambiare prospettiva. Cambiare atteggiamento. Smetterla di considerare le tue esperienze meno reali."

"Facile a dirsi." "No." Lei richiamò un pannello di controllo per mostrargli il programma che poteva usare per analizzare il suo encefalo-modello, per identificare apprensioni e timori riguardo al dare le spalle al mondo e poi rimuoverli. "Una lobotomia fai-da-te." "Tutt'altro. Non c'è il minimo taglio 'fisico'. Il programma esegue un adattamento, per tentativi, delle scariche sinaptiche fino a trovare la minima alterazione possibile per ottenere la meta desiderata. Qualche miliardo di versioni ridotte e transitorie del tuo cervello saranno provate e scartate nel processo, ma non ti devi preoccupare." "L'hai provato?" Lei rise. "Sì. Per curiosità. Ma non ha trovato nulla da cambiare. Io mi ero già decisa. Anche all'esterno sapevo già che era questo che volevo." "Così… premo un bottone e qui dentro c'è seduta un'altra persona? Un cliente liofilizzato istantaneo e soddisfatto? Mi annichilisco così?" "Sei tu quello che è saltato giù da una parete di roccia." "No. Io sono quello che non l'ha fatto." "Non ti 'annichilirai'. Soltanto cambierai quanto devi. E ti chiamerai sempre David Hawthorne. Cosa puoi chiedere di più? Cos'hai mai fatto di più? " Avevano discusso per ore, dibattendo sulle sottili implicazioni filosofiche e morali: la differenza tra l'accettare "naturalmente" la sua situazione e il costringersi ad accettare. Però alla fine, quando si era deciso, era sembrata solo un'altra parte del sogno, soltanto un'altra finzione inconsequenziale. In tal senso il vecchio David Hawthorne era stato fedele alle sue idee, anche quando le faceva sparire. Kate si era sbagliata su una cosa. Nonostante la perfetta continuità dei ricordi, lui si era sentito obbligato a contrassegnare la transizione scegliendo un nome nuovo, prendendo dal nulla quel monosillabo bizzarro. La "minima alterazione possibile"? Se fosse finito a fare una Nazione solipsista meno radicale, forse sarebbe stato costretto a distorcere una parte molto maggiore della sua personalità per farsi convincere. Qualche necessario taglio drastico avrebbe fatto quadrare il cerchio, al posto di mille mutilazioni pedanti. Però quel primo cambiamento aveva spianato la strada a tanti altri, a una serie di mutilazioni autoinflitte. Peer (per sua scelta) non aveva la pazienza per nostalgie o sentimentalismi, se qualche parte della sua personalità lo disturbava la cassava. Qualche aspetto era svanito per sempre (quasi di sicuro): un battaglione di piccole gelosie, vanità, timori e ossessioni insensate, una tendenza alla depressione e al senso di colpa irrazionali. Altre andavano e venivano. Peer aveva acquisito, perso e recuperato un gran numero di talenti, predisposizioni umorali e pulsioni, brame di sapere, d'arte e di esperienze fisiche. In pochi giorni soggettivi poteva passare dallo studente ascetico e disincarnato di archeologia sumera al gourmet edonista che godeva soltanto i preparativi e il consumo di sfarzosi banchetti simulati, fino al praticante disciplinato del karate Shotokan. Restava il nocciolo: certi valori, certe risposte emotive, certe sensibilità estetiche erano riusciti a passare incolumi attraverso tutte quelle modificazioni. Come la volontà di sopravvivere. Una volta Peer si era chiesto se quel nocciolo d'invarianti, e quel filo di ricordi più o meno integro, potessero bastare. David Hawthorne aveva ottenuto sotto altro nome l'immortalità per cui aveva pagato? Oppure era morto nel tragitto? Non c'era risposta possibile. Il massimo che si poteva dire in qualsiasi momento era che esisteva qualcuno che sapeva, o credeva, che lui era stato un tempo David Hawthorne.

E così Peer aveva preso la decisione consapevole di farselo bastare.

12 [RIP, TIE, CUT TOY MAN] Giugno 2045

Paul accese il terminale, mettendosi in contatto con il suo vecchio sé organico. Il djinn sembrava stanco e affranto, tutte le corruttele e implorazioni necessarie per organizzare l'ultimo stadio dell'esperimento avevano richiesto il loro tributo. Paul si sentiva più vivo che mai, in ogni incarnazione. Avvertiva un nodo allo stomaco molto simile al panico, ma il pizzicore elettrico sulla pelle ricordava di più l'assaporare un trionfo. Il suo corpo stava per essere mutilato, smembrato, reso irriconoscibile, eppure sapeva che sarebbe sopravvissuto, senza danno, senza dolore. Squit. "Esperimento tre, prova zero. Dati base. Tutti i calcoli eseguiti dal gruppo di processori numero quattro sei due, Struttura supercomputer Hitachi, Tokyo." "Uno. Due. Tre." Era bello sentirsi dire finalmente dove si trovava. Paul non era mai stato in Giappone. "Quattro. Cinque. Sei." E in senso stretto non c'era ancora stato. Il panorama fuori dalla finestra apparteneva a Sidney, non a Tokyo. Perché rimettersi alla geografia esterna, quando non faceva differenza alcuna? "Sette. Otto. Nove. Dieci." Squit. "Prova numero uno. Modello suddiviso in cinquecento sezioni, gestite su cinquecento gruppi di processori distribuiti globalmente". Paul contò. Cinquecento gruppi. Cinque soltanto per il mondo esterno modellato in modo approssimativo, tutto il resto dedicato al suo corpo, soprattutto al cervello. Si portò la mano davanti agli occhi, e il flusso d'informazioni che garantiva il controllo motorio e la visione attraversò decine di migliaia di chilometri di cavo ottico. Non c'era sfasamento (percettibile), se necessario ogni sua parte veniva semplicemente ibernata in attesa del feedback richiesto in giro per il mondo. Ovviamente era pura follia, sotto l'aspetto economico e dell'elaborazione. Paul valutò che stesse costando almeno cento volte più del solito, non proprio cinquecento perché la capacità di ogni gruppo era utilizzata solo in parte, e il fattore di rallentamento doveva essere salito da diciassette a circa cinquanta. Un tempo si sperava che dedicare centinaia di computer a ogni Copia potesse migliorare il problema del rallentamento, non peggiorarlo, ma le strozzature nel passaggio dei dati tra gruppi di processori impedivano anche alle Copie più ricche di ridurre il fattore sotto il diciassette. Non contava quanti supercomputer possedevi, perché dividerti tra di loro portava via più tempo nelle comunicazioni di quel che risparmiavi grazie alla potenza aggiuntiva. Squit. "Prova numero due. Mille sezioni, mille gruppi". Un cervello grande quanto il pianeta… ed eccomi qua a contare fino a dieci. Paul ripensò alla paura costante, ingenua e paranoica, che tutti i computer del mondo potessero un giorno far nascere una ipermente globale. Lui era quasi certamente la prima intelligenza planetaria sulla Terra. Eppure non si sentiva affatto una Gaia digitale. Si sentiva esattamente come un comune essere umano seduto in una stanza larga pochi metri. Squit. "Prova numero tre. Modello suddiviso in cinquanta sezioni e venti set temporali, implementati su mille gruppi". "Uno. Due. Tre." Paul si sforzò di immaginare il mondo esterno nei suoi termini, ma era quasi impossibile. Non solo si trovava sparpagliato per tutto il globo, ma delle macchine ben distanziate stavano calcolando in simultanea momenti diversi del suo inquadramento temporale soggettivo. La distanza tra Tokyo e New York era adesso la lunghezza del suo corpo calloso? Il mondo si era ridotto alle dimensioni del suo cranio, svanendo anche dal tempo, tranne i cinquanta computer che contribuivano in quel momento esatto a quel che lui chiamava "il presente"? Forse no, anche se agli occhi di un ipotetico viaggiatore spaziale il pianeta intero si era virtualmente

bloccato nel tempo, ed era piatto come una frittella. La relatività affermava che quel punto di vista era perfettamente valido, ma non quello di Paul. La relatività permetteva la deformazione continua, ma nessun tipo di taglia e incolla. Perché no? Perché doveva consentire causa ed effetto. Le influenze dovevano essere localizzate, viaggiando di punto in punto a una velocità finita. Se affetti lo spazio-tempo e lo rimonti, la struttura causale casca a pezzi. E se invece fossi un osservatore privo di struttura causale? Uno schema autocosciente che appare negli scossoni casuali di una macchina del rumore, le sue coordinate temporali che rimbalzano avanti e indietro attraverso un "tempo reale" rispettabile dal punto di vista causale? Perché dichiarare che sei di seconda classe, che non hai il diritto di vedere l'universo alla tua maniera? In ultima analisi, che differenza c'è tra i cosiddetti causa ed effetto e ogni altro schema internamente coerente? Squit. "Prova numero quattro. Modello suddiviso in cinquanta sezioni e venti insiemi temporali, sezioni e stati suddivisi a caso in mille gruppi." "Uno. Due. Tre." Paul smise di contare, allargò le braccia, si alzò lentamente. Fece un giro su se stesso per esaminare la stanza, controllando che fosse ancora intatta, ancora completa. Poi sussurrò: "Questa è polvere. Tutta polvere. Questa stanza, questo istante è sparpagliato per tutto il pianeta, sparpagliato per cinquecento secondi o anche più, ma ancora sta insieme. Non capisci cosa significa?" Il djinn ricomparve, ma Paul non gli diede la possibilità di fiatare. Le parole gli uscirono inarrestabili. Comprese. "Immagina… un universo interamente privo di struttura, senza forma, senza connessioni. Una nube di eventi microscopici, come frammenti di spazio-tempo… solo che non ci sono né spazio né tempo. Cosa caratterizza un punto nello spazio per un istante? Soltanto i valori dei campi delle particelle fondamentali, solo una manciata di numeri. Adesso, elimina tutte le nozioni di posizione, sistemazione, ordine. Che rimane? Una nube di numeri casuali. Ecco. Tutto qua. Il cosmo non ha alcuna forma, nulla come tempo o distanza, nessuna legge fisica, niente causa ed effetto. Ma… se lo schema che è me potesse staccarsi da tutti gli altri eventi che si verificano su questo pianeta… perché allora lo schema che pensiamo come 'universo' non dovrebbe assemblarsi da sé, trovare da sé, esattamente nello stesso modo? Se posso comporre il mio spazio-tempo coerente servendomi di dati tanto sparpagliati da poter benissimo appartenere a qualche nube gigantesca di numeri casuali, allora cosa ti fa pensare che tu non stia facendo altrettanto?" L'espressione del djinn ondeggiava tra allarme e irritazione. Squit. "Paul… che senso ha? 'Lo spazio-tempo è un costrutto, l'universo è solo un mare di eventi scollegati…' Asserzioni del genere sono insensate. Ci puoi credere, se vuoi… ma che differenza farebbe?" "Che differenza? Percepiamo, abitiamo, una disposizione dell'insieme degli eventi. Ma perché dovrebbe essere unica? Non c'è motivo di credere che lo schema che abbiamo trovato sia l'unico modo coerente per ordinare la polvere. Ci devono essere miliardi di altri universi che coesistono con noi, costituiti della medesima sostanza, soltanto disposti in modo differente. Se io posso percepire eventi distanti migliaia di chilometri, e centinaia di secondi affiancati in simultanea, ci potrebbero essere mondi ed essenze creati da quelli che riteniamo punti nello spazio-tempo sparpagliati per la galassia, per tutto l'universo. Siamo soltanto una soluzione possibile di un gigantesco anagramma cosmico… ma sarebbe ridicolo credere di essere l'unica." Squit. Durham sbuffò. "Un anagramma cosmico? E allora dove sono le lettere rimaste? Se fosse vero, e se il brodo alfabetico primordiale fosse sul serio casuale, non trovi- che sia assai improbabile che noi potessimo strutturare tutto quanto?"

Paul ci pensò su. "Non abbiamo strutturato tutto quanto. L'universo è casuale, a livello quantistico. A livello macroscopico i motivi ricorrenti sembrano perfetti, ma a quello microscopico decadono nell'incertezza. Abbiamo spazzato i residui di casualità ai livelli più bassi." Squik. Il djinn si stava imponendo visibilmente di restare calmo. "Paul… nulla di simile potrà mai essere testato. Come faresti a osservare un pianeta le cui parti costitutive sono sparpagliate per l'universo, per non parlare delle comunicazioni con i suoi ipotetici abitanti? Quel che dici potrebbe anche avere una certa validità, puramente matematica: triti l'universo in una polvere abbastanza fine, e forse potrà essere risistemato in altri modi altrettanto sensati dell'originale. Però, se questi mondi risistemati sono inaccessibili, è tutta una questione di sesso degli angeli". "Come fai a dirlo? Io sono stato riarrangiato! Io ho visitato un altro mondo!" Squit. "Anche se fosse così, era un mondo artificiale. Creato, non scoperto." "Trovato, creato… non c'è una vera differenza." Squit. "Cosa pretendi? Qualche influsso da quest'altro mondo è passato nei computer, ha cambiato il modo di girare del modello?" "Certo che no! Il tuo schema non è stato violato, i computer hanno fatto esattamente quel che ci si aspettava da loro. Ciò non smentisce la mia prospettiva. Smettila di pensare a spiegazioni, cause ed effetti, ci sono solo schemi. Gli eventi sparsi che formavano la mia esperienza avevano una consistenza interna reale, pezzo per pezzo, quanto quella nelle azioni dei computer. E forse non era solo il computer a fornirla." Squit. "Cosa intendi?" "I buchi, nel primo esperimento. Cosa li ha riempiti? Di cos'ero fatto, quando i processori non mi stavano descrivendo? Beh… è un universo grande. C'è tanta polvere che può essere me, tra una descrizione e l'altra. Un sacco di eventi - niente a che vedere coi tuoi computer, forse nemmeno col tuo pianeta o la tua epoca - da cui costruire dieci secondi di esperienza." Squit. Il djinn adesso sembrava davvero preoccupato. "Sei una Copia in un ambiente virtuale sotto controllo computer. Niente di più, niente di meno. Questi esperimenti dimostrano che il tuo senso interiore di spazio e tempo è un'invariante. Esattamente come ci aspettavamo, non ricordi? Scendi sulla Terra. I tuoi stati sono calcolati, i tuoi ricordi devono essere quel che sarebbero stati senza manipolazioni. Non hai visitato nessun altro mondo, non ti sei creato da frammenti di galassie lontane." Paul rise. "La tua stupidità è surreale. Per cosa mi hai creato, se non stai nemmeno a sentire quello che ho da dirti? Ho scorto la verità che sta dietro… tutto quanto: spazio, tempo, le leggi della fisica. Non puoi liquidare tutto, dicendo che quel che mi è successo era inevitabile." Squit. "Controllo e soggetto sono sempre identici." "Certo! È questo il punto! Come per… gravità e accelerazione nella relatività generale, dipende tutto da quel che non puoi distinguere. È un nuovo principio di equivalenza, una nuova simmetria tra osservatori. La relatività ha abolito lo spazio e il tempo assoluti, ma non si è spinta abbastanza in là. Noi dobbiamo abolire la causa e l'effetto assoluti!" Squit. Il djinn borbottò, costernato. "Elizabeth l'aveva detto che sarebbe successo, che era solo questione di tempo prima che tu perdessi ogni remora." Paul lo fissò, riportato di colpo su di un piano di bassa speculazione. "Elizabeth? Hai detto che non le avevi nemmeno parlato." Squit. "Beh, adesso l'ho fatto. Non te l'ho detto perché non credevo che volessi sapere della sua reazione". "E qual è stata?" Squit. "Sono rimasto sveglio tutta la notte a discutere con lei. Voleva che ti disattivassi. Ha detto che ero… decisamente disturbato, anche solo a pensare di fare queste cose".

Paul era turbato. "Cosa ne sa lei? Ignorala." Squit. Durham aggrottò la fronte come per volersi scusare, un'espressione che Paul riconobbe al volo, mentre si sentiva sprofondare. "Forse dovrei metterti in pausa mentre ci rifletto su. Elizabeth ha tirato fuori qualche… problema etico valido. Mi sa che dovrei analizzare di nuovo la questione con lei." "Vaffanculo! Non sono qui perché tu mi metta in ghiaccio ogni volta che cambi idea. E se Elizabeth vuol metter becco nella mia vita, ne può discutere con me". Paul poteva prevedere con esattezza quel che sarebbe successo dopo. Se l'avesse messo in pausa, Durham non l'avrebbe mai più riavviato, sarebbe tornato al file di scansione originale per ripartire da zero, gestendo in modo diverso il prigioniero, sperando di ritrovarsi con un soggetto più collaborativo. Forse non avrebbe neppure eseguito la prima serie di esperimenti. Quelli che gli avevano permesso la sua intuizione. Quelli che lo avevano reso com'era. Squit. "Ho bisogno di tempo per pensarci. Sarà solo temporaneo. Prometto." "No! Non hai nessun diritto! " Durham esitò. Paul si sentiva stordito, incredulo. Qualcosa in lui si rifiutava di riconoscere il pericolo, si rifiutava di accettare che fosse tanto facile morire. La pausa non l'avrebbe ucciso, non gli avrebbe inflitto danni, non avrebbe avuto il minimo effetto. Quel che l'avrebbe annientato sarebbe stato il mancato riavvio. Sarebbe stato annichilito passivamente, ignorato a morte. Proprio il destino degno di lui. Durham allungò una mano fuori campo.

13 [REMIT NOT PAUCITY] Febbraio 2051

Maria disse: "Ricalcola tutto fino a epoca cinque, poi mostrami l'alba su Lambert. Latitudine zero, longitudine zero, altitudine uno". Attese con gli occhi fissi sullo spazio di lavoro vuoto, combattendo la tentazione di cambiare le istruzioni e far mostrare al software ogni stadio della simulazione, il che avrebbe rallentato notevolmente le cose. Dopo parecchi minuti, comparve una piana scura percorsa da fenditure, spazzata da una luce argentina. Il sole così basso nel cielo, gonfio, bollente e bianco in modo innaturale, trasformò una catena di vulcani spenti all'orizzonte in tante sagome nere simili a una fila di denti appuntiti. In primo piano, la superficie sembrava vetrificata, inospitale. Maria sollevò il punto di vista a mille metri, poi lo fece scivolare a oriente. Il suolo si ripeteva, gli angoscianti coni simmetrici dei vulcani morti erano l'unico rilievo in quella distesa eruttiva. Il panorama specifico, dettagliato, non era altro che una serie di "impressioni d'artista" computerizzate, fabbricate a richiesta da dati puramente statistici sulla topografia del pianeta. La simulazione non aveva a che vedere con nulla di così pignolo come i vulcani individuali. Il giro del pianeta era un modo poco utile per scoprire qualcosa, ma era difficile resistere al desiderio di giocare all'esploratore, trattando questo mondo come se i suoi segreti potessero essere dedotti scrupolosamente a partire dal suo aspetto… anche quando la verità era l'esatto contrario. Riluttante, Maria bloccò l'immagine, passando direttamente ai dati numerici sottostanti. L'atmosfera era di nuovo troppo rarefatta. E stavolta non c'era quasi aqua. Risalì la storia della simulazione per vedere quando l'aqua era andata persa, ma questa versione di Lambert non aveva mai posseduto oceani significativi, né calotte artiche o vapore atmosferico. Aveva apportato un lieve cambiamento nella composizione della nube primordiale di gas e polvere, aumentando la proporzione di atomi gialli e azzurri, nella speranza che portasse in fin dei conti a un'atmosfera più densa per Lambert. Invece aveva fatto condensare più di metà dei detriti della fascia di Kuiper in un nuovo pianeta esterno stabile. Di conseguenza, erano diminuite la comete ricche di ghiaccio che cadevano su Lambert dalla fascia, privandolo della sua massima fonte di aqua, e di gran parte dell'atmosfera. Il gas liberato dalle eruzioni vulcaniche era un surrogato modesto, la pressione era troppo bassa e la chimica tutta sbagliata. Maria stava cominciando a rimpiangere di non essersene stata zitta. Ci aveva messo quasi un'ora a persuadere al telefono Durham che valeva la pena di provare a regalare a Lambert un contesto astronomico adatto, e una storia geologica che risalisse alla nascita del suo sole. "Se presentiamo questo mondo come un fait accompli e diciamo: 'Vedi, può esistere nell'Autoverso'… la risposta più ovvia sarà: 'Certo, può esistere se ce lo metti a mano, ma non significa che ci siano state probabilità che si formasse''. Se possiamo dimostrare una gamma di condizioni di partenza che portano a sistemi planetari con mondi adatti, sarà un elemento d'incertezza in meno che potranno usare contro di noi." Alla fine Durham aveva dato il suo consenso, così lei aveva preso un programma già pronto di modellazione di sistema planetario, intitolato in modo irriverente Il Casinò di Laplace, adattandolo alla fisica e alla chimica dell'Autoverso, ma non alla fisica insita dell'automa cellulare dell'Autoverso bensì alle conseguenze macroscopiche di quelle regole. Per lo più si riduceva a specificare le proprietà di varie molecole dell'Autoverso: energie di legame, punti di fusione e di bollore contro pressione e così via. L'aqua non era solo un altro modo per definire l'acqua, e gli atomi gialli non erano identici all'azoto e, anche se alcune reazioni chimiche potevano essere tradotte come se esistesse una corrispondenza puntuale nel gigantesco alambicco frazionante di una nebulosa protostellare, delle differenze sottili nelle

densità e volatilità relative potevano indurre effetti profondi sulla composizione finale di ciascun pianeta. C'erano anche alcune differenze fondamentali. Dal momento che l'Autoverso non possedeva forze nucleari, il Sole era acceso esclusivamente dall'energia gravitazionale, dalla velocità delle sue molecole acquisita mentre la nube diffusa di gas primordiale ricadeva su se stessa. Nell'universo reale, le stelle che non riuscivano a innescare le reazioni di fusione finivano come nane brune fredde e destinate a una vita breve, ma nella fisica dell'Autoverso il calore gravitazionale poteva sostenere per miliardi di anni una stella abbastanza grande. (Le unità di spazio e di tempo non erano traducibili alla lettera, ma vi facevano caso solo i puristi. Se l'ampiezza di un atomo rosso era stabile come quella dell'idrogeno e uno spazio-griglia per unità-orologio era assunta come velocità della luce, allora emergeva una corrispondenza più o meno notevole.) Parimenti, anche se pianeta Lambert mancava di calore interno da decadimento degli isotopi, il suo calore gravitazionale di formazione sarebbe stato abbastanza elevato da indurre un'attività tettonica quasi per tutto il tempo che brillava il Sole. Senza la fusione nucleare a sintetizzare gli elementi, la loro origine restava un mistero, e occorreva fornire una comoda nube gassosa con tracce di tutti e trentadue, e la giusta massa e velocità rotazionale. Maria avrebbe gradito esplorare le possibili origini della nube, ma sapeva che non avrebbe mai completato il progetto se continuava a fare pressioni su Durham perché allargasse i termini di riferimento. Bisognava esplorare la diversità potenziale della vita dell'Autoverso, non inventare una cosmologia intera. La gravità in Autoverso si avvicinava quanto la gravità del mondo reale alla classica legge newtoniana del quadrato inverso per la gamma di condizioni che contavano, perciò vigeva tutta la solita dinamica orbitale del mondo reale. A densità estreme, la natura peculiare dell'automa cellulare l'avrebbe fatto deviare parecchio da Newton, e da Einstein, e da Chu, ma Maria non aveva intenzione di disseminare il suo universo di buchi neri o altre entità esotiche. Nei fatti, la gravità era stata considerata un effetto collaterale risibile della scelta originale di Lambert delle regole dell'automa, dal momento che era smaccatamente impossibile avviare un Autoverso abbastanza grande perché facesse la minima differenza, e in parecchi avevano tentato di rimuovere la ridondanza lasciando intatto tutto il resto. Però nessuno ce l'aveva fatta. Le loro versioni "razionalizzate" non erano mai riuscite a generare nulla che somigliasse anche alla lontana alla ricca chimica dell'originale. Un matematico peruviano, Ricardo Salazar, era riuscito a dimostrare quanto questo doveva considerarsi irrilevante: le regole dell'Autoverso erano in equilibrio tra due livelli radicalmente differenti di complessità algoritmica, e ogni ritocco nella speranza di migliorare l'efficienza era necessaria un'impresa autolesionista. La presenza o l'assenza di gravità in sé non avevano influenza sulla chimica dell'Autoverso, ma le radici di entrambi i fenomeni sembravano inestricabilmente embricate nelle semplici regole degli automi. Maria puntava a una stella con quattro pianeti. Tre piccoli mondi e uno gigante. Il mondo-seme, Lambert, era il secondo dal Sole, se possibile con una Luna di grandezza decente. Che fossero state o meno le pozze lasciate dal riflusso della marea la forza propulsiva dell'evoluzione nel mondo reale - il ponte della vita dal mare alla terraferma (e anche il Sole stesso poteva causare piccole maree, nonostante tutto) non poteva costituire un errore rendere Lambert il più terrestre possibile, visto che la Terra era ancora l'unico esempio plausibile a cui rivolgersi come modello. Con tante dispute ancora in corso sull'evoluzione terrestre, la politica più sicura era coprire ogni fattore che poteva aver rivestito un qualche significato. Gli effetti gravitazionali degli altri pianeti avrebbero assicurato un set ragionevolmente completo di cicli di Milankovitch: spostamenti relativi d'orbita e fluttuazioni sull'asse che fornivano cambiamenti climatici a lungo termine, ere glaciali e interglaciali. Una fascia di comete e altri detriti avrebbe completato il quadro non soltanto fornendo sin dall'inizio un'atmosfera ma anche offrendo la possibilità di qualche estinzione di massa per i miliardi di anni a venire. Il segreto consisteva nell'assicurarsi che tutti questi aspetti teoricamente favorevoli all'evoluzione

coincidessero con una versione di Lambert che potesse sostenere l'organismo seme. Maria aveva in mente una mezza dozzina di possibili modifiche all'A. lamberti per renderlo autosufficiente, ma prima di prendere la decisione finale aspettava di vedere quali generi di ambienti fossero disponibili. Ciò lasciava ancora senza risposta la domanda relativa alla possibilità per l'organismo seme, o la vita di qualunque tipo, di sorgere su Lambert piuttosto che esserci piazzato da mani umane. La spinta iniziale per Max Lambert, a progettare l'Autoverso, era stata la speranza di sviluppare dei sistemi molecolari autoreplicanti, una vita primitiva, da semplici miscele chimiche. L'Autoverso era nato per fornire un compromesso tra la chimica del mondo reale, difficile e costosa da manipolare e monitorare negli esperimenti in provetta e schifosamente lenta da calcolare in simulazioni fedeli, e le astrazioni seducenti della primissima vita artificiale: virus di computer, algoritmi genetici, macchine autoreplicanti inseriti in semplici mondi di automa cellulare, tutti facilissimi da calcolare, ma incapaci di fare luce sulla genesi della biologia molecolare del mondo reale. Lambert aveva passato un decennio a cercare le condizioni che potessero condurre alla comparsa spontanea della vita in Autoverso, senza successo. Aveva costruito l'A. lamberti, un progetto della durata di dodici anni, per assicurare a se stesso che la meta non era tanto assurda, per dimostrare che un organismo vivente poteva almeno funzionare in Autoverso, comunque ci fosse arrivato. L'A. lamberti l'aveva distratto definitivamente. Non era mai più tornato alle sue ricerche originali. Maria aveva sognato di imbarcarsi in un suo tentativo di abiogenesi, ma non ci aveva mai provato. Era un genere di lavoro aperto, al cui confronto ogni problema con la mutazione dell'A lamberti sembrava trattabilissimo e ben definito. E, anche se in un certo senso andava al cuore di quel che Durham stava cercando di dimostrare, era ben lieta di aver optato per un compromesso. Se lui avesse insistito ad avviare il suo esperimento teorico con un mondo totalmente sterile, le incertezze nella transizione da materia inanimata alla più semplice vita in Autoverso avrebbero travolto ogni altro aspetto del progetto. Scartò il pianeta Lambert deserto per tornare alla nube di gas primordiale. Fece scaturire un gadget gremito di potenziometri per correggere la composizione della nuvola, modificando metà degli adeguamenti che aveva apportato nelle proporzioni di azzurri e gialli. Planetologia provando e riprovando. Le condizioni di avvio dei sistemi del mondo reale con pianeti similterrestri erano state definite da parecchio, ma nessuno aveva mai fatto l'equivalente in Autoverso. Nessuno ne aveva mai avuto motivo. Maria provò una fitta di apprensione. Ogni volta che indugiava a ricordarsi che questi mondi non sarebbero mai esistiti, nemmeno nel senso in cui "esisteva" una coltura di A. lamberti, l'intero progetto sembrava cambiare di prospettiva, allontanarsi in distanza come un miraggio. In sé il lavoro era entusiasmante, non avrebbe potuto chiedere di più, ma ogni volta che si costringeva a contestualizzare tutto, non nell'Autoverso ma nel mondo reale, si ritrovava con la testa vuota, disorientata. Gli scopi di Durham in quel progetto erano molto più inconsistenti della logica a tenuta stagna della cosa in sé. Staccarsi dal lavoro era come allontanarsi da un pianeta di solida roccia, vedendolo trasformarsi in un palloncino attaccato a un filo. Si alzò per andare alla finestra, dove scostò le tendine. Giù in basso la strada era deserta, il cemento luccicava nel bagliore surreale del sole di mezzogiorno. Durham le dava dei bei soldi, soldi che servivano per la scansione di Francesca. Era una ragione più che sufficiente per insistere. E se alla fine dei conti il progetto si fosse dimostrato inutile, almeno non faceva male a nessuno, era sempre meglio che lavorare su qualche edonistico centro vacanze Rv o su qualche wargame interattivo per bambini psicopatici. Lasciò ricadere le tendine, tornando alla scrivania. La nube era sospesa in mezzo allo spazio di lavoro, vagamente sferica, visualizzata nonostante l'universo fosse privo di stelle. Era un vero peccato, significava che i futuri cittadini di Lambert erano destinati a restare da soli. Non avevano speranza di incontrare una vita aliena, a meno che non costruissero dei propri computer per modellare altri sistemi planetari, altre biosfere.

Maria disse: "Ricalcola. Poi mostrami ancora l'alba". Attese. E stavolta (colori falsi, per definizione) il disco del Sole era di un vivace rosso ciliegia sotto uno spesso banco di nubi striato di arancione e viola che si estendeva in cielo, e l'intera scena si rifletteva sotto i suoi occhi, bella in un luccichio invertito. Specchiata sulla superficie delle acque. Erano quasi le otto, e Maria stava pensando di staccare per mangiare un boccone. Era ancora su di giri, ma sentiva che proseguendo rischiava di arrivare al punto oltre il quale sarebbe stata incapace di muoversi per le prossime trentasei ore. Aveva scoperto una gamma di condizioni di partenza per la nube che facevano nascere con affidabilità delle versioni ospitali di Lambert assieme a tutti i criteri astronomici a cui puntava, tranne il grande satellite, che sarebbe stato un tocco simpatico ma non fondamentale. Domani avrebbe cominciato l'impresa di fornire all'A. lamberti i mezzi per sopravvivere in questo mondo autonomamente, procurandosi il nutrosio dall'aria, con l'aiuto della luce del Sole. Altri ricercatori avevano già progettato una serie di pigmenti che intrappolavano l'energia. La "traduzione letterale" della clorofilla era priva delle giuste caratteristiche fotochimiche, ma era stato trovato un certo numero di analoghi utili, ed era solo questione di decidere quale poteva essere integrato nella biochimica del batterio con le minori complicazioni. Portare la fotosintesi all'Autoverso sarebbe stata la parte più difficile del progetto, ma Maria era fiduciosa. Aveva studiato gli appunti di Lambert, e aveva familiarizzato con l'intera gamma di tecniche da lui sviluppate per adattare i processi biochimici ai vezzi della chimica dell'Autoverso. E, anche se il pigmento scelto per convenienza non fosse stato la molecola più efficiente per quel compito, finché l'organismo seme poteva sopravvivere e riprodursi avrebbe mantenuto il potenziale di escogitare da solo una soluzione migliore. Il potenziale, se non l'opportunità. Stava per uscire dal Casinò di Laplace quando, in primo piano nello spazio di lavoro, apparve un messaggio: Giunone: L'analisi statistica di tempi di risposta e tassi di errore indica che il tuo collegamento a Jsn viene controllato. Vuoi passare a un controllo maggiormente crittato? Maria fece segno di no col capo, divertita. Doveva essere un buco nel programma. Giunone era un programma public domaine (gratis, ma le offerte sono gradite) che aveva scaricato come semplice gesto di solidarietà coi gruppi di pressione americani di difesa della privacy. Laggiù le leggi federali mettevano al bando il software di analisi dei buchi e qualsiasi algoritmo semidecente di crittaggio per uso personale, per non recare disturbo all'Fbi, perciò Maria aveva inviato un'offerta agli autori di Giunone per aiutarli a combattere una lotta sacrosanta. Installare il programma era stato uno scherzo. L'idea che qualcuno si prendesse il disturbo di ascoltare le conversazioni con sua madre, i noiosi lavori a contratto in Rv e il vizietto delle escursioni in Autoverso era assolutamente ridicola. E comunque doveva continuare quel giochetto. Aprì un word processor in Jsn (quello locale del terminale non sarebbe apparso a uno spione che controllasse la fibra ottica) e batté: Chiunque tu sia, attento: sto per mostrare il Basilisco frattale annichilente langford, perciò Suonò il campanello. Maria controllò l'inquadratura della telecamera-spioncino. Sul gradino c'era una donna, una sconosciuta. Sulla quarantina, vestita in modo formale. Alle sue spalle era chiaramente visibile un indizio tutt'altro che ambiguo: un'auto elettrica "Avalon" Mitsubishi, una compatta a due posti.

I poliziotti del Nuovo Galles del Sud erano stati gli unici al mondo a comprare quel modello prima che la fabbrica di Bankstown chiudesse i battenti nel '46. Maria si era spesso chiesta perché non si decidessero a mettere i lampeggianti azzurri e le sirene a quelle loro auto teoricamente prive di contrassegni. Ammettere la situazione sarebbe stato molto più dignitoso che comportarsi come se nessuno lo sapesse. Scese di corsa, cercando di ricordarsi di infrazioni recenti, senza trovarne alcuna. "Maria Deluca?" "Sì." "Sono il sergente investigativo Hayden. Squadra antitruffe informatiche. Se non le dispiace, le vorrei fare qualche domanda". Maria fece un'indagine completa alla ricerca di segreti colpevoli. Ancora nessuna traccia, ma avrebbe preferito un visitatore dalla "omicidi" o dalla "rapine a mano armata", qualcuno che avesse sicuramente sbagliato indirizzo. Disse: "Sì, certo. Entri pure". Poi, mentre ritraeva dalla soglia: "Ah, quasi me lo scordavo. Immagino che dovrei controllare…" Hayden, con un sorriso tirato di approvazione, palesemente poco sincero, permise che Maria inserisse il taccuino elettronico nella presa del tesserino del Dipartimento di Polizia. Il taccuino lanciò un allegro bip. Il tesserino conosceva il codice riservato che corrispondeva all'attuale chiave pubblica trasmessa dalla centrale. Appena entrata in soggiorno, Hayden tagliò corto, mostrando un'immagine sul proprio taccuino. "Conosce quest'uomo?" Maria si schiarì la voce. "Sì. Si chiama Paul Durham. Io… lavoro per lui. Mi ha assegnato qualche appalto di programmazione." Non ne era sorpresa, soltanto turbata di essere riportata coi piedi per terra. Chiaro che la squadra antitruffe era interessata a Durham. Chiaro che l'irrealtà degli ultimi tre mesi stava bruscamente per scomparire. Aden l'aveva messa in guardia. Ma l'aveva capito anche da sola. Era un incarico da favola, troppo bello per essere vero. Un attimo dopo si pentì della sua reazione, furibonda con se stessa. Durham aveva versato i soldi nel fondo fiduciario, no? Aveva coperto i costi del suo nuovo conto Jsn. Non l'aveva presa in giro. Troppo bello per essere vero, era fatalistico e idiota. Due adulti consenzienti avevano mantenuto tutte le loro promesse reciproche, il fatto che un esterno non comprendesse la natura di quella transazione non la rendeva un crimine. E dopo quel che aveva fatto per lei, gli doveva come minimo il beneficio del dubbio. Hayden disse: "Che genere di 'appalto' di programmazione?" Maria fece del suo meglio per spiegarle senza impiegarci tutta la notte. Hayden si intendeva abbastanza di informatica, e sapeva persino cosa fosse un automa cellulare, però non aveva mai sentito parlare di Autoverso, oppure voleva che Maria glielo spiegasse daccapo. "Così è convinta che le pagherà trentamila dollari… per aiutarlo a dimostrare la sua ipotesi su un problema meramente teorico di vita artificiale?" Maria cercò di non sembrare troppo sulla difensiva. "Io stessa ho speso decine di migliaia di dollari in Autoverso. È come tanti altri hobby, è un mondo a sé stante. La gente è così stravagante, così piena di ossessioni. Non è più strano che… costruire modellini di aerei. O rivivere le battaglie della Guerra civile americana." Hayden non la contraddì, ma parve poco convinta dai raffronti. "Sapeva che Paul Durham vendeva assicurazioni alle Copie?" "So che è un agente assicurativo. Me l'ha detto lui. Il fatto che non sia un programmatore professionista non significa che non possa..". "Sapeva che stava cercando di vendere ai suoi clienti delle quote di una specie di santuario? Un posto dove andare, o spedire un clone, nel caso che il clima politico volgesse a loro sfavore?" Maria sbatté le palpebre. "No. Cosa vuol dire un santuario? Un supercomputer privato? Stava cercando di trovare i soldi per costituire un consorzio…?

Hayden l'interruppe con voce incolore. "Sta cercando di sicuro i soldi, ma dubito che ne troverà mai abbastanza per acquistare l'hardware necessario al servizio che offre". "Allora di cosa lo accusate? Di essersi imbarcato in un'avventura commerciale che non credete possa avere successo?" Hayden non rispose. "Gliene avete parlato? Potrebbe esserci una spiegazione semplicissima per quel che vi hanno detto. Qualche Copia senile potrebbe aver frainteso le sue offerte di un fondo perpetuo." Copia senile? Mah… qualche scansione post-demenza poteva aver resistito agli algoritmi di restauro cognitivo. "Certo che abbiamo parlato con Durham. Si è rifiutato di cooperare, non vuol discutere della questione. Ecco perché speriamo che ci possa aiutare lei." L'ottimismo baldanzoso di Maria vacillò. Se Durham non aveva nulla da nascondere, perché si era rifiutato di difendersi? "Non capisco proprio come potrei. Se credete che stia ingannando i suoi clienti, andate a parlare con loro. Vi serve la loro testimonianza, non la mia." Seguì un momento di silenzio imbarazzante, poi Hayden riprese: "La testimonianza di una Copia non ha alcun valore, dal punto di vista legale è soltanto un programma di computer qualunque". Maria stava per replicare, poi si rese conto che ogni scusa l'avrebbe fatta apparire più sciocca. Salvò un minimo di serietà osservando che la posizione legale delle Copie era tanto farsesca che ogni persona sana di mente avrebbe incontrato problemi a ricordarsene. Hayden proseguì: "Durham potrebbe essere incriminato per frode agli esecutori delle proprietà, avendo fornito dati ingannevoli al software utilizzato per i consigli. Esistono già dei precedenti, è come pubblicare falsi prospetti per indurre i programmi automatici di borsa a comprare le proprie azioni. Ma non abbiamo prove. Possiamo interrogare le Copie come fonte ufficiosa di informazioni per condurre un'indagine, ma nulla di quel che possono dire potrà valere in tribunale". Maria si ricordò un episodio de La famiglia Pocochiara, in cui veniva affrontato un problema del genere. Babette e Larry avevano assistito coi loro occhi a delle frodi ai conti bancari, quando la pista di dati aveva preso misteriosamente forma solida nel loro giardino ciberperiferico, a mo' di quadretto accusatore di sculture di ghiaccio. Non riusciva a ricordare il seguito. Probabilmente il decenne Leroy aveva commesso qualche piccolo reato inattaccabile dal punto di vista morale per costringere i ladri a consegnarsi alle autorità costituite… Disse: "Non so cosa si aspetti che io dica. Durham non mi ha truffato. E non so nulla sul suo progetto". "Ma ci sta lavorando assieme a lui." "Certo che no!" Harden affermò decisa: "Sta progettando un pianeta per lui. A cosa pensa che serva? " Maria la fissò per un attimo senza mostrare alcuna espressione, poi si mise quasi a ridere. "Scusi, forse non mi sono spiegata bene. Sto progettando un pianeta che 'potrebbe' esistere in Autoverso nel senso più largo del termine. È una possibilità matematica. Ma è troppo grande perché giri su un computer vero. Non è una Rv..". Hayden l'interruppe. "Lo capisco perfettamente. Però non significa che i clienti di Durham siano riusciti ad afferrare la distinzione. I dettagli tecnici dell'Autoverso non sono propriamente di pubblico dominio." Vero. Maria esitò. Ma… "Ancora non ha senso. Tanto per cominciare, quella gente ha dei consiglieri, dei ricercatori che senz'altro sanno che un pianeta in Autoverso è una balla. E perché Durham gli avrebbe offerto un pianeta coperto di melma primordiale in Autoverso, quando poteva disporre di un insieme standard di ambienti Rv mille volte più attraenti e mille volte più plausibili? " "Credo che glieli stia offrendo entrambi. Ha ingaggiato un architetto americano per lavorare sulla parte Rv."

"Ma perché entrambi? Perché non solo Rv? Non è possibile inserire una singola Copia in Autoverso, e anche in tal caso morirebbe all'istante. Ci vorranno cinquanta o sessant'anni di ricerca prima di poter tradurre la biochimica umana nei termini dell'Autoverso." "Loro non lo sanno." "Lo potrebbero scoprire in dieci secondi netti. Lasci stare i consiglieri, basterebbe una chiamata a un browser per sapere, costo totale cinque dollari. Perché allora raccontare una balla che può essere scoperta tanto facilmente? Che vantaggio ha, per una Copia, un pianeta in Autoverso rispetto a una Rv stratificata?" Hayden rimase imperturbabile. "È lei l'esperta di Autoverso. Me lo dica lei." "Non lo so." Maria si alzò. Cominciava a soffrire di claustrofobia, odiava avere estranei per casa. "Le posso offrire qualcosa da bere? Tè? Caffè?" "No. Ma faccia pure..". Maria tornò a sedere, scuotendo il capo. Aveva la sensazione che se fosse entrata in cucina non avrebbe più trovato la voglia di tornare. Non capiva perché Durham si rifiutava di parlare con la polizia, a meno che non fosse coinvolto in qualcosa di così losco da rischiare di perdere il posto, come minimo. Andasse 'affanculo. Forse non intendeva fregarla, ma l'aveva messa ugualmente nei guai. Non avrebbe visto un centesimo del lavoro che aveva completato, se Durham dichiarava bancarotta gli altri creditori non avevano diritti sul fondo fiduciario. Ma se quel soldi erano frutto di un reato… Lorenzo il Magnifico. Proprio. Il peggio, per quel che ne sapeva, era che Hayden la credeva complice consenziente. E se Durham intendeva tacere, doveva scagionarsi da sola. Come? Primo, scoprire qualcosa sulla truffa e chiarire il proprio ruolo. Disse: "Cosa sta promettendo esattamente a queste Copie?" "Un rifugio. Un posto dove saranno al riparo da ogni genere di ritorsione, perché non ci sarà collegamento col mondo esterno. Niente telecomunicazioni, nulla a cui risalire. Gli propina una tiritera sui tempi bui a venire, quando le masse straccione non si adatteranno più a farsi dominare dai ricchi immortali, e i malevoli governi socialisti confischeranno tutti i supercomputer per il controllo del clima." Hayden pareva trovare ridicola quella prospettiva. Invece, a Maria non importava, adesso era necessario capire come potevano sentirsi i clienti di Durham, quasi certamente l'Operazione farfalla aveva messo in allarme un bel po' di Copie. "Quindi mandano i loro cloni e chiudono la porta nel caso che gli originali non riescano a superare le purghe. Ma allora? Quanto dovrebbero durare questi 'secoli bui'?" Hayden si strinse nelle spalle. "Chi lo sa? Centinaia d'anni? Forse dovrà decidere lo stesso Durham, o qualche suo successore affidabile tra parecchie generazioni, quando diventerà sicuro uscire. Le due Copie i cui esecutori hanno sporto denuncia non hanno aspettato di sentire tutta la storia, l'hanno mandato via prima che potesse arrivare a dettagli del genere." "Avrà avvicinato altre Copie." "Certo. Non si è fatto vivo nessun altro, ma abbiamo una lista di nomi possibili. Tutti con proprietà oltremare, purtroppo. Non ho potuto parlare con nessuno di loro, stiamo ancora lavorando sulla burocrazia giurisdizionale. Però qualcuno ha già chiarito, tramite i propri avvocati, che non ha intenzione di discutere dell'argomento, il che probabilmente significa che hanno ingoiato l'esca di Durham con tutto il filo, e adesso non vogliono sentir fiatare contro di lui." Maria fece uno sforzo per immaginarselo: Niente comunicazioni. Tagliati fuori a tempo indefinito dalla realtà. A qualche Copia "Nazione solipsista" una prospettiva del genere doveva apparire fantastica, ma di solito non avevano abbastanza soldi per diventare il bersaglio di una truffa così

elaborata. E, anche se i clienti più ricchi e paranoici di Durham credevano sul serio che il mondo fosse in procinto di rivoltarglisi contro. Come potevano essere certi che i contatti sarebbero stati mantenuti? Gli umani che facevano la guardia al santuario potevano estinguersi, o andarsene. Come facevano le Copie, escluse le più radicali e separatiste, ad affrontare il rischio di naufragare su un computer abbandonato, sepolto nel mezzo di un deserto, senza modo di scoprire quando sarebbe valsa la pena di ritornare alla civiltà, senza poter avviare un contatto qualsiasi? Le fonti energetiche a radioisotopi potevano andare avanti migliaia di anni, l'hardware iperridondante degli standard più elevati poteva durare quasi altrettanto, in teoria. Tutto quel che queste Copie avrebbero posseduto per ricordare la realtà sarebbero state le informazioni che portavano con sé sin dall'inizio. Se si trasformava in un viaggio di sola andata, sarebbero stati come dei coloni interstellari che si portavano nel vuoto una fotografia della cultura terrestre. Solo che i coloni interstellari avrebbero dovuto affrontare al massimo uno sfasamento dei contatti via radio, non il silenzio assoluto. E, qualunque cosa si fossero lasciati alle spalle, almeno avevano qualcosa da guardare: un nuovo mondo tutto da esplorare. E la possibilità di una nuova vita. Allora, quale cura migliore per la claustrofobia, della promessa di portarsi un intero pianeta in quel rifugio, seminato con il potenziale per sviluppare una propria vita peculiare? Maria non sapeva se sentirsi più offesa o impressionata. Se aveva ragione, doveva ammirare Durham per tanta audacia. Quando le aveva chiesto un pacchetto di risultati che convincessero gli scettici sulle prospettive di una biosfera in Autoverso, non stava pensando agli accademici nell'ambiente della vita artificiale. Voleva convincere i suoi clienti che, anche nell'isolamento totale, avrebbero goduto di tutto quel che la realtà poteva offrire alla razza umana, compresa una specie di "esplorazione spaziale", comprensiva della possibilità di contatto con gli alieni. E quelli sarebbero stati alieni genuini, non le creature stilizzate dei giochi in Rv, puri costrutti della psiche umana, non quei biomorfí affusolati e poco convincenti dei modelli più avanzati di selezione dei fenotipi, l'equivalente darwiniano dell'ideale platonico. Vita che aveva superato un tragitto tortuoso, molecola dopo molecola, come quella vera. O quasi tutto il tragitto: non essendo ancora ben compresa l'abiogenesi, Durham aveva avuto abbastanza buon senso per partire da microbi "fatti a mano", altrimenti i suoi clienti non avrebbero mai creduto che il pianeta potesse sostenere la vita. Maria spiegò l'idea con una certa esitazione. "Doveva convincere quelle Copie che far girare l'Autoverso è molto più rapido che modellare la biochimica vera, cioè senza essere troppo specifici sui dati reali. E sono ancora convinta che sia un rischio pazzesco. Non ci vuole una gran fatica a scoprire la verità." Hayden ci pensò su. "Conterebbe qualcosa? Se il senso di questo mondo è soprattutto psicologico, un posto in cui 'scappare' se succede il patatrac, e se la realtà diventa inaccessibile in eterno, allora conta poco quanto è lento. Una volta che rinunciano a qualsiasi speranza di rimettersi in contatto, il rallentamento diventerebbe marginale." "Sì, ma è lento… ed è fisicamente impossibile. Certo, potrebbero portarsi dietro un abbozzo approssimativo del pianeta, che è poi quello che mi ha chiesto Durham, ma non avrebbero che una frazione della memoria necessaria per farlo vivere. E anche se trovassero una scappatoia, ci vorrebbe un miliardo di anni in tempo dell'Autoverso perché l'organismo seme possa trasformarsi in qualcosa più eccitante di un'alga verdemare. Lo moltiplichi per un rallentamento di un milione di miliardi… Immagino di aver reso l'idea." "Batterie scariche?" "Universo scarico". "Però, se non vogliono prendere in considerazione la prospettiva di finire in una trappola permanente, potrebbero non dargli troppo peso. Grazie a lei, Durham avrà una bella quantità di particolari tecnici

impressionanti da agitare in faccia, abbastanza convincenti da dileguare tutti i loro timori di sindrome claustrofobica. Forse vogliono solo quello. L'unica parte che conta, se tutto fila liscio, è la Rv convenzionale, una che sia abbastanza valida da tenerli allegri per un paio di secoli in tempo reale, e questo quadra alla perfezione." Maria pensò che sembrava un po' tutto troppo facile, ma lasciò perdere. "E l'hardware? Quello come quadra?" "Non quadra. Non ci sarà mai un hardware. Durham se la filerà molto prima di presentarlo." "Con cosa? Con denaro offerto senza fare domande, senza salvaguardie, senza garanzie?" Hayden sorrise, con fare vissuto. "Denaro quasi tutto offerto per scopi legittimi. Ha commissionato una città virtuale. Ha commissionato un pianeta in Autoverso. Ha diritto a una percentuale sulle parcelle, non c'è nessun crimine, finché non lo si scopre. Per qualche mese tutto quel che farà sarà onesto al millimetro. Poi a un certo punto chiederà ai finanziatori di pagare una consulenza, che so, uno studio su delle configurazioni di hardware sufficientemente robuste. Si chiederanno delle offerte, alcune genuine, ma le più appetitose saranno false. Poi Durham sosterrà di aver ricevuto la relazione, i 'consulenti' saranno pagati… e non lo vedremo mai più." "Sta tirando a indovinare. Non ha la minima idea del suo piano." "Non conosciamo i particolari, ma sarà qualcosa del genere." Maria si accasciò sulla sedia. "E adesso? Che faccio? Chiamo Durham per dirgli che non si fa più?" "Assolutamente no! Continui a lavorare come se nulla fosse successo, ma cerchi di sentirlo più spesso. Trovi delle scuse per parlargli. Veda se riesce a conquistare la sua fiducia, se riesce a farlo parlare del suo lavoro. Sui suoi clienti. Sul rifugio." Maria era indignata. "Non ricordo di essermi mai offerta di fare l'informatrice." Hayden replicò gelida: "Sta solo a lei, ma se non vuole collaborare, il nostro lavoro diventa più difficile…" "C'è una bella differenza tra collaborazione e fare la spia gratis! " Hayden quasi sorrise. "Se è il denaro la sua preoccupazione, avrà molte più possibilità di farsi pagare se ci aiuterà a incriminarlo." "Perché? Cosa dovrei fare, intentargli causa quando sarà già sul lastrico rifondendo quelli che ha ingannato?" "Non dovrà fargli causa. Il tribunale è convinto di poterla rifondere come vittima, soprattutto se avrà dato una mano a istruire il processo. C'è un fondo finanziato dalle contravvenzioni. Non conta niente se Durham non la può pagare direttamente." Maria metabolizzò l'informazione. Fatto sta che ancora puzzava. Voleva soltanto limitare le perdite e togliersi da tutto quel casino. Far finta che non fosse mai successo. E poi? Strisciare da Aden a chiedergli dei soldi? Non c'erano molti lavori in giro, non poteva permettersi di perdere tre mesi di sudore. Qualche migliaio di dollari non sarebbe bastato per la scansione di Francesca, ma non averli l'avrebbe costretta a vendere la casa prima di quel che avrebbe voluto. Disse: "E se lo insospettisco? Se comincio di colpo a fargli tutte quelle domande..". "Sia naturale. Chiunque al suo posto sarebbe curioso. Le ha affidato un compito strano, si deve aspettare delle domande. E capisco che sia andato bene quel che le ha raccontato all'inizio, ma non significa che non possa averci riflettuto, decidendo che c'è ancora qualche particolare che non le torna." "Va bene, ci sto." Aveva mai avuto scelta? "Ma non si aspetti che mi dica la verità. Mi ha già mentito, e non cambierà versione adesso." "Forse no. Ma potrebbe restare sorpresa. Forse ha una gran voglia di confidarsi con qualcuno, forse desidera una persona con cui vantarsi. Oppure potrebbe lasciar cadere qualche accenno obliquo. Tutto è possibile, finché continua a parlare con lui."

Quando Hayden fu andata via, Maria rimase seduta in soggiorno, troppo agitata per fare altro che ripensare all'intera discussione. Un'ora prima si sentiva esausta ma trionfante, adesso si sentiva solo stanca e stupida. Continui a lavorare come se nulla fosse successo! Il pensiero di metter mano alla fotosintesi dell'A. lamberti, adesso solo per ingraziarsi la squadra antitruffe, era tanto arcano da farle girare la testa. Era un peccato che Durham non fosse stato onesto con lei, invitandola a partecipare alla fregatura. Se avesse saputo sin dall'inizio di dover contribuire a fregare i soldini di qualche Copia danarosa, il suo lavoro avrebbe trovato quella base concreta che le era parsa mancare da sempre. Alla fine salì di sopra senza aver mangiato niente. Il collegamento con la Jsn era stato interrotto in automatico, ma il messaggio locale da Giunone era ancora sospeso nello spazio di lavoro. Mentre faceva segno al terminale di spegnersi, Maria si domandò se era il caso di chiedere a Hayden chi poteva essere che le controllava la sua linea telefonica.

14 [REMIT NOT PAUCITY] Febbraio 2051

Seduto in biblioteca, Thomas scorse il rapporto finale della selezione del browser dall'ultima settimana di notizie in tempo reale. Comparve una giornalista in cappotto bordato di pelliccia che prese a parlare verso la telecamera, in mezzo alla neve leggera di fronte all'edificio della Corte Suprema americana, anche se era più probabile che stesse seduta in uno studio al caldo a guardare un pupazzo software che mimava le sue parole. "La decisione odierna, a maggioranza di cinque a uno, decreta che il controverso statuto californiano rimarrà in vigore. Le autorità che si impossessano degli strumenti di archivio di computer per controllare le simulazioni del cervello, del corpo o della personalità di un presunto criminale, morto o vivo, non stanno violando i diritti sanciti dal Quarto emendamento né dei parenti né dei proprietari dell'hardware. Il primo giudice, Andrea Steiner, ha ricordato che la decisione non coinvolge lo status delle Copie in sé. Il software, ha affermato, può essere confiscato ed esaminato, ma non dovrà mai subire un processo." Il terminale si ridusse a un menu. Thomas si sgranchì le braccia sopra il capo, ben consapevole per un istante della differenza che passava tra il suo aspetto fragile e la forza e l'agilità che si sentiva nelle membra. Era tornato il suo giovane sé, alla fine. Diventato lui nella carne, anche se ancora non si decideva ad affrontarlo nello specchio. Ma quei pensieri non portavano da nessuna parte. Thomas stava seguendo la saga della legge californiana sin dall'inizio. Sperava che la Sanderson e i suoi colleghi sapessero quel che facevano. Se i loro tentativi gli si ritorcevano contro, ci sarebbero state delle spiacevoli ricadute per le Copie, in ogni dove. Il modello opinione pubblica di Thomas aveva scrollato le sue spalle stocastiche, dichiarando che gli effetti della legge non erano prevedibili, dipendeva tutto dai passi che sarebbero stati intrapresi, e da parecchi altri fattori, quasi tutti difficili da prevedere o da manipolare. Era chiaro che dovevano puntare a scuotere gli apatici elettori statunitensi perché sostenessero l'allargamento dei diritti umani alle Copie, altrimenti l'alternativa, nei fatti, sarebbe stata il rapimento, il saccheggio mentale e forse persino la condanna a morte, il tutto senza processo. Chi s'intendeva di computer avrebbe capito quanto sarebbe risultata inutile quella legge nella pratica, ma tanto questi personaggi erano già stati largamente sconfitti. La famiglia Pocochiara aveva i massimi ascolti tra le fasce di pubblico con minori probabilità di cogliere le implicazioni tecniche, un serbatoio di buona volontà che doveva ancora essere esplorato a fondo. Thomas ne poteva cogliere le potenzialità. Si sarebbe scoperto che, all'epoca della morte, l'operaio risorto Larry Pocochiara era sospettato di omicidio. Flashback: un equivoco in un bar porta a una discussione accalorata e ben evidenziata tra Larry e la guest-star X. Escalation comica fino alla rissa vera e propria. Approfittando della confusione, la guest-star Y sfascia una bottiglia in testa alla guest-star X, mentre Larry, come al solito simpaticamente imbranato, finisce in stato comatoso sotto un tavolo. La nuova legge imporrebbe che sia strappato in piena notte alla sua casa e alla famiglia per un interrogatorio virtuale kafkiano - in cui i suoi sogni pieni di sensi di colpa sulla propria responsabilità potrebbero essere scambiati per il ricordo di aver commesso realmente il crimine mentre la guest-star Y, ancora vivo e quindi umano, subisce un processo come si deve, mente a spada tratta e viene prosciolto. Risolverà tutto il piccolo Leroy, come sempre all'ultimo minuto. Thomas chiuse gli occhi, affondando il viso tra le mani. Gran parte della stanza smise di essere calcolata. Si raffigurò alla deriva nel mare durhamiano di numeri casuali, portando con sé solo la sedia e un frammento di pavimento, gli unici oggetti ai quali il suo contatto garantiva la solidità. Disse: "Non sono in pericolo". La stanza tornò in vita in parte con un barbaglio, modificando appena il

suono della sua voce, poi si dissolse in una scarica. Chi mai temeva che lo potesse accusare? Non restava nessuno a cui importasse della morte di Anna. Erano morti tutti prima di lui. Ma finché la consapevolezza di quel che aveva commesso continuava a esistere in lui, non sarebbe mai stato al sicuro. Dopo il crimine, aveva sognato per mesi che Anna entrava nel suo appartamento. A quel punto si svegliava, grondante, tra le urla, aspettando che lei si mostrasse. Aspettando che strappasse il velo di normalità dal mondo che lo circondava, per mostrare la prova della sua dannazione: sangue, fuoco e follia. Aveva cominciato ad alzarsi dal letto ogni volta che l'incubo lo svegliava, ad aggirarsi nudo tra le ombre, sfidandola a uscire. A desiderarlo. Entrava in ogni stanza dell'appartamento, quasi tutte tanto buie che doveva farsi strada a tentoni, in attesa che le dita di Anna s'intrecciassero d'un tratto alle sue. Notte dopo notte, lei non compariva. E pian piano la sua assenza stessa divenne l'orrore, glaciale, vertiginoso. Le ombre erano vuote, il buio indifferente. Sotto la superficie del mondo non c'era nulla. Avrebbe potuto sterminare centomila persone, che tanto la notte non sarebbe riuscita a evocare davanti ai suoi occhi una singola apparizione. Si era chiesto se quell'idea poteva farlo impazzire. Non fu così. Dopodiché i sogni erano cambiati, niente più cadaveri ambulanti. Sognava, invece, di entrare nella questura di Amburgo per rilasciare una confessione completa. Thomas si accarezzò la cicatrice sulla superficie interna dell'avambraccio destro, nel punto in cui si era ferito lanciandosi dalla finestra della stanza di Anna, durante quella goffa fuga. Nessuno gli aveva mai chiesto spiegazioni, nemmeno Ilse. Avrebbe inventato una spiegazione plausibile, ma quella menzogna era rimasta inespressa. Sapeva di poter cancellare i ricordi del crimine. Tagliarli dal file originale della scansione, dal suo attuale modello encefalico, dalle istantanee di emergenza. Non ci sarebbe stata altra prova. Era ridicolo immaginare che qualcuno potesse avere la minima ragione, per non parlare del diritto, di raccogliere ed esaminare i dati che lo comprendevano… ma perché no, se questo scatenava i suoi timori paranoici? Perché non neutralizzare la sua inquietudine per la possibilità tecnica che gli leggessero la mente come un libro o come un chip Rom, girando a proprio vantaggio la metafora, o la verità quasi letterale? Perché non riscrivere l'ultima versione del passato che lo incriminava? Le altre Copie sfruttavano con inutili eccessi sibariti quel che erano diventate. Perché non regalarsi la serenità della mente? Perché no? Perché gli avrebbe sottratto la sua identità. Per sessantacinque anni la trazione sui suoi pensieri di quella notte ad Amburgo era stata costante quanto la gravità, tutto quello che aveva fatto in seguito era stato plasmato quell'evento. Strappare quel filo aggrovigliato dalla sua psiche, rendendo così incomprensibili i ricordi restanti, significava ridursi a un estraneo della sua stessa vita. Certo, si poteva trovare rimedio anche al senso di perdita, di disorientamento, sottraendolo, ma quando sarebbe finito il processo di mutilazione? Chi sarebbe rimasto a godersi la coscienza serena che aveva realizzato? Chi avrebbe dormito il sonno del giusto nel suo letto? L'editing della memoria non era l'unica opzione. Esistevano degli algoritmi che lo potevano trasportare rapido e liscio in uno stato di accettazione illuminata: riabilitato, guarito, in pace con se stesso e con il suo intero passato privo di censure. Non aveva bisogno di falsificare alcunché: il terrore assurdo di essere incriminato con la lettura della mente sarebbe svanito di sicuro, assieme alle altre nevrosi di colpa. Ma non era preparato neppure a quello, anche se si sarebbe sentito baciato dalla sorte, una volta completata la trasformazione. Non era sicuro che ci fossero delle distinzioni significative tra redenzione e illusione di redenzione… ma qualche pezzo della sua personalità si dimostrava ancora recalcitrante di

fronte alla prospettiva della grazia istantanea, per quanto lo tacciasse di masochismo e sentimentalismo. L'assassino di Anna era morto! Aveva bruciato il cadavere di quell'uomo! Cos'altro poteva fare per lasciarsi alle spalle quel delitto? Sul suo "letto di morte", nel progredire del male, mentre civettava stordito tutte le mattine con l'idea di ordinare la scansione finale, era certo che essere testimone del destino del suo corpo sarebbe stato un dramma tanto grande da purificarlo da quel senso di colpa stantio, meccanico, inquieto. Anna era morta, nulla poteva cambiare quel fatto. Una vita di rimorsi non l'avrebbe riportata in vita. Thomas non aveva mai creduto di essersi "guadagnato" il diritto di liberarsi di lei, ma aveva compreso che non gli restava altro da offrire al piccolo metronomo di latta che aveva in testa più di un rituale stravagante di espiazione: la morte dell'assassino stesso. Ma l'omicida non era mai morto per davvero. Il cadavere consegnato alla fornace era stato solo la pelle di ricambio. Due giorni prima della scansione, Thomas aveva perso il sangue freddo, rovesciando le istruzioni precedenti: il suo io di carne e ossa non poteva tornare a riprendere coscienza dopo la scansione. Perciò l'umano agonizzante non s'era mai più risvegliato, non aveva mai saputo che doveva affrontare la morte. E non c'era mai stato un Thomas Riemann separato e mortale a portare tra le fiamme il fardello della colpa. Thomas aveva incontrato Anna ad Amburgo nell'estate del 1983, in un caffè della stazione. Lui era in città per sbrigare alcune commissioni per suo padre. Lei stava andando a Berlino Ovest per un concerto. Nick Cave e i Bad Seeds. Il locale era affollato, così sedettero allo stesso tavolino. Anna non era appariscente: capelli scuri, occhi verdi, viso piatto e tondeggiante. Thomas non l'avrebbe guardata due volte, se si fossero incrociati per strada. Ma invece lei si fece notare. Dopo un'occhiata indagatrice, gli disse: "Ammazzerei per una camicia del genere. Hai gusti costosi. Che fai per permetterteli? " Il prudente Thomas mentì. "Ero studente. Ingegneria. Fino a pochi mesi fa. Però non c'erano speranze, non me ne andava una dritta". "Così adesso che fai? " Lui fece una faccia dolente. "Mio padre ha una merchant bank. Ho tentato con l'ingegneria per staccarmi dalla professione di famiglia, però…" Lei non fu affatto comprensiva. "Ma hai fatto cilecca, e adesso ti tiene per le palle?" "E viceversa." "È molto ricco?" "Sì." "E tu lo odi?" "Certo." Lei fece un sorriso caramelloso. "Che ne dici se te lo rapisco? Tu mi dai tutte le informazioni dall'interno, poi ci spartiamo il riscatto, cinquanta e cinquanta." "Che fai per campare, rapisci banchieri?" "Non solo." "Mi sa che lavori in un negozio di dischi." "Ti sbagli." "O di vestiti usati." "Acqua, acqua." "Chi devi vedere a Berlino?" "Qualche amico."

Quando annunciarono il treno, le chiese il numero di telefono. Lei glielo scrisse sulla manica della camicia. Nei mesi seguenti, le telefonò ogni volta che andava su al Nord. Tre volte lei accampò delle scuse. Stava quasi per rinunciare, ma non riusciva a dimenticare l'espressione beffarda di quel viso, e sapeva che desiderava rivederla. Agli inizi di novembre lei finalmente disse: "Passa pure, se vuoi, non ho niente da fare". Aveva previsto di portarla in un night, ma lei aveva con sé un bambino, un lattante di pochi mesi. "Non è mio. Lo tengo per un'amica." Guardarono la tv, poi fecero sesso sul divano. Mentre si staccava da lui, Anna disse: "Sei tanto dolce". Lo baciò sulla guancia, poi scomparve in camera da letto, chiudendolo fuori. Thomas si addormentò davanti a un vecchio John Wayne. Alle due del mattino, un paio di adolescenti col mascara sbavato vennero a bussare alla porta. Anna vendette alle ragazze un sacchetto di plastica di polvere bianca. Thomas, ancora sul divano, le chiese se la polvere era eroina o cocaina. "Eroina." "Ti fai di quella merda?" "No." Lo guardò leggermente divertita. Non le interessava se le credeva o meno. Si risvegliò alle cinque e mezzo. Anna se n'era andata. Il bambino urlante era sempre nella sua culla. Thomas lo cambiò e lo nutrì. Anna gli aveva fatto vedere la disposizione di ogni cosa. Aveva voglia di farsi una doccia, ma non c'era acqua calda. Si fece la barba e se ne andò in tempo per la riunione, dicendosi che Anna sarebbe tornata dopo poco. Per tutto il mattino e anche a tavola si sentiva sulle mani l'odore acido della pelle del piccolo, chiedendosi se poteva arrivare fino a quegli immobiliaristi sorridenti. Le telefonò dall'albergo, dove pagò per la notte che non ci aveva passato, sicuro che suo padre avrebbe controllato le spese. Anna era in casa, l'aveva svegliata. Qualcuno accanto a lei emise un grugnito scocciato. Thomas non fece cenno al bambino. La volta dopo arrivò di sabato pomeriggio, senza più dover correre di fretta altrove. Si incontrarono all'Alsterpavillion, sorseggiando il caffè mentre guardavano i pagliacci nelle barche a remi sul Binnenalster, poi andarono a far compere sulla Jungfernstieg. Thomas pagò i vestiti scelti da Anna, ciarpame autentico di stilisti dark che sembrava decisamente peggiore delle più squallide imitazioni. Sembrava non ne volesse proprio sapere di vestire come lui, in fin dei conti. Passeggiarono a braccetto da un negozio all'altro, e sull'entrata della boutique più costosa si fermarono a baciarsi per parecchi minuti, bloccando la strada ai clienti che cercavano di passare, poi entrarono a spendere un sacco di soldi. Più tardi, in un locale con una pessima band che vestiva come i Beatles e faceva cover dei Sex Pistols, incontrarono Martin, un biondo alto e secco che Anna presentò come un amico. Martin era tutto cordialità ambigua da pacche sulle spalle, quasi comico nel suo tentativo di intimorirti. Tornarono insieme barcollando nell'appartamento di Anna, dove rimasero seduti per terra ad ascoltare dischi. Quando Anna andò in bagno, Martin estrasse un coltello e disse a Thomas che lo voleva ammazzare. Era parecchio alticcio. Thomas si alzò, gli tirò un calcio in faccia spaccandogli il naso, poi gli strappò il coltello e lo trascinò in corridoio mentre quello si lamentava. Lo girò su un fianco, perché non soffocasse nel sangue, poi chiuse la porta a chiave. Quando Anna uscì dal bagno, Thomas le raccontò cos'era successo. Lei uscì per controllare, e gli infilò un cuscino sotto la testa. Mentre Anna lo spogliava, Thomas disse: "Una volta ho visto in tv un soldato inglese appena tornato dall'Irlanda del Nord che raccontava che là era un inferno, ma almeno era reale. 'Almeno adesso ho vissuto'". Rise amaro. "Quel povero scemo aveva sbagliato tutto. Ammazzare la gente è reale, e vivere una vita normale sarebbe una specie di sogno, un'illusione? Povero squinternato."

Cercò segni di siringa in Anna, senza trovarne nemmeno uno. Tornato a Francoforte, quand'era solo nel suo appartamento o a tavola a casa dei genitori, Thomas ripensava ad Anna… immagini e sensazioni. Quei ricordi non lo distraevano mai: poteva sostenere una conversazione o continuare a leggere un contratto di ipoteca, mentre lei gli suonava nella testa come una musica di sottofondo. A Pasqua suo padre lo inchiodò. "Dovresti pensare a sposarti. Per me non fa una gran differenza, ma ha dei vantaggi sociali che prima o poi ti faranno comodo. E pensa quanto faresti contenta tua madre." "Ho ventiquattr'anni." "Io mi sono fidanzato a ventiquattro." "Forse sono gay. O forse soffro di una malattia venerea inguaribile." "Non vedo come potrebbe essere di ostacolo." Thomas incontrava Anna ogni due weekend. Le comprava tutto quel che voleva. Certe volte lei aveva con sé il bambino. Si chiamava Erik. Thomas le chiese: "Chi è la madre? La conosco?" "Non ti deve interessare." Certe volte era preoccupato per lei, temeva che la potessero arrestare, o che qualche drogato la picchiasse, eppure sembrava in grado di badare a se stessa. Avrebbe potuto assoldare degli investigatori privati per svelare il mistero della sua vita, e delle guardie del corpo per sorvegliarla, ma sapeva che non ne aveva il diritto. Poteva comprarle un appartamento, organizzarle degli investimenti, ma lei non gli suggeriva mai nulla del genere, e lui sospettava che sarebbe stato assai insultante offrirglieli. I suoi regali erano ricchi, ma sapeva che lei poteva benissimo farne a meno. Si sfruttavano l'un l'altro. Thomas si diceva che Anna era indipendente quanto lui. Non poteva dire di amarla. Non soffriva quando erano lontani, si sentiva solo piacevolmente intorpidito, e aspettava con ansia la prossima volta. Era geloso ma non ossessionato, e lei teneva fuori dai piedi gli altri amanti, raramente era costretto ad ammettere la loro esistenza. Non rivide mai più Martin. Anna andò con lui a New York. Si addormentarono a metà di uno spettacolo di Broadway, videro i Pixies al MuddClub, salirono a piedi fino in cima al Manhattan Chase. Thomas compì venticinque anni. Suo padre lo promosse. Sua madre disse: "Guarda quanti capelli grigi". In primavera Erik scomparve. Anna spiegò con fare indifferente: "Sua madre se n'è andata, si è trasferita". Thomas ci rimase male, gli piaceva avere il bambino tra i piedi. Disse: "Sai, pensavo potesse essere tuo". Lei si stupì. "Perché? Se ti ho detto che non lo era. Perché mai ti dovrei mentire?" Thomas faceva fatica a dormire. Continuava a immaginare il futuro. Quando suo padre sarebbe morto, lui sarebbe stato ancora lì a frequentare Anna una volta ogni quindici giorni ad Amburgo mentre spacciava eroina e scopava con magnaccia e drogati? La sola idea gli faceva venire il vomito. Non perché non volesse che le cose rimanessero così, ma perché sapeva che era impossibile. Quel sabato di giugno fu, quasi, il secondo anniversario del giorno in cui si erano incontrati. Nel pomeriggio andarono a un mercatino delle pulci, dove le comprò della bigiotteria. Lei disse: "Qualcosa di più carino significherebbe cercar guai". Mangiarono schifezze, andarono a ballare. Tornarono da Anna alle due e mezzo. Ballarono nel piccolo soggiorno, appoggiati l'uno all'altro, più stanchi che ubriachi. Thomas disse: "Dio se sei bella". Sposami. Anna disse: "Ti sto per chiedere qualcosa che non ho mai chiesto prima. È tutto il giorno che cerco di trovare il coraggio".

"Puoi chiedere tutto quello che vuoi." Sposami. "Ho un amico con un sacco di soldi. Quasi duecentomila marchi. Ha bisogno di qualcuno che..". Thomas si staccò da lei, la schiaffeggiò forte. Era orripilato. Non le aveva mai messo le mani addosso, non gli era mai venuto in mente. Lei cominciò a dargli dei pugni sul petto e sul viso. Lui rimase immobile a farla sfogare per un po', poi la afferrò per i polsi. Anna rimase senza fiato. "Lasciami andare." scusa. "Allora lasciami andare." Non obbedì. Disse invece: "Non sono una lavanderia di denaro sporco per i tuoi amici." Lei lo guardò compassionevole. "Oh, cos'ho fatto? Ho offeso i tuoi elevati principi morali? Ho solo domandato. Potevi renderti utile. Non importa. Dovevo immaginarlo che mi facevo troppe aspettative." Lui accostò il viso al suo. "Dove sarai tra dieci anni? In prigione? In fondo all'Elba?" "Vaffanculo." "Dove? Dimmelo." "Posso immaginare una sorte peggiore. Potrei finire a giocare alla famiglia felice con un banchiere di mezz'età." Thomas la scagliò contro il muro. Ancor prima di sbatterci contro, Anna scivolò. Mentre cadeva a terra, la testa colpì i mattoni. Lui le si accovacciò accanto incredulo. Sull'occipite s'era aperto un ampio squarcio. Respirava. Le diede dei buffetti sulle guance, poi cercò di aprirle gli occhi. Erano rovesciati. Era caduta quasi seduta con la schiena contro la parete. Il sangue le si stava raccogliendo attorno in una pozza. Thomas si disse: "Pensa alla svelta. Alla svelta". Le si inginocchiò sopra, a cavalcioni, le prese il viso tra le mani, poi chiuse gli occhi. Attirò il capo a sé, poi lo sbatté contro la parete. Cinque volte. Quindi le accostò le dita alle narici, senza aprire gli occhi. Non sentì segno di respiro. Si staccò da Anna, si voltò e aprì gli occhi, poi si aggirò per l'appartamentino a ripulire col fazzoletto le cose che poteva aver toccato. Evitando sempre di guardarla. Piangeva e tremava, ma non capiva perché. Aveva sangue sulle mani, sulla camicia, sui pantaloni, sulle scarpe. Trovò un sacchetto per la spazzatura in cui infilò tutti i vestiti, poi si ripulì la pelle dal sangue. Al centro del campo visivo aveva un buco nero, ma si adeguò non pensandoci. Infilò il sacchetto nella valigia, poi si mise i vestiti puliti, blue jeans e maglietta nera. Fece il giro dell'appartamento, recuperando tutto quel che gli apparteneva. Stava per prendere l'agenda di Anna, ma controllò e lui non c'era. Cercò un diario, senza trovarlo. Decine di persone li avevano visti insieme, un mese dopo l'altro. I vicini di Anna, gli amici di Anna. Decine di persone li avevano visti lasciare il locale. Non era sicuro di quanti fossero gli amici che sapevano chi era lui, da dove veniva. Aveva detto solo il nome di battesimo, quanto al resto aveva sempre mentito, ma Anna poteva aver raccontato tutto quel che sapeva. Già bastava che l'avessero visto con lei viva, ma non poteva rischiare di farsi scorgere mentre usciva dalla porta d'ingresso la notte che era stata uccisa. L'appartamento era al secondo piano. La finestra del bagno dava su un vicolo. Thomas buttò giù la valigia, che atterrò con un tonfo soffocato. Pensò se saltare, quasi convinto di poter atterrare illeso, e comunque non gliene importava niente. Ma sotto quelle illusioni allignava una lucidità sorda e grigia, e nel suo cranio operava una macchina vecchia un miliardo d'anni che voleva soltanto sopravvivere. Salì sull'intelaiatura attraverso l'apertura lasciata dal mezzo pannello scorrevole, un piede da ogni lato della corsia. Non c'era un davanzale vero e proprio, soltanto lo spessore del muro, largo quanto un paio di mattoni. Si dovette accucciare, ma scoprì che riusciva a mantenere l'equilibrio posando la mano per stabilizzarsi sulla faccia superiore dello stipite. Si girò, allungandosi sul muro esterno fino all'intelaiatura della finestra del bagno dell'appartamento

vicino. Sentiva arrivare da qualche parte rumori di traffico e anche della musica, ma dentro l'appartamento non si vedevano luci, e il vicolo era deserto. C'era sì e no un metro tra le due finestrelle, ma la seconda era chiusa, dimezzando così lo spazio disponibile. Con una mano su ciascun bordo, spostò il piede destro sulla finestra dei vicini. Poi, stringendo il muro intermedio tra gli avambracci, spostò il piede sinistro. Alla fine, sempre puntellandosi con la mano destra poggiata contro la cima dell'intelaiatura, si staccò del tutto dalla prima finestra. Strisciò sul davanzale largo quanto un solo mattone, vincendo l'impulso di borbottare delle preghiere. Prega per noi peccatori? Si accorse di aver smesso di piangere. Accanto al bordo opposto della finestra scorreva un tubo di scarico. Immaginò di squarciarsi le palme delle mani sul metallo rugginoso e frastagliato. E invece il tubo era liscio. Dovette far ricorso a tutta la sua forza per rimanere stabile, sostenendosi con gambe e ginocchia. Quando toccò terra coi piedi, le gambe gli cedettero. Ma non a lungo. Rimase nascosto tre ore in un bagno pubblico, a fissare un angolo della stanzetta. Quelle luci, quelle piastrelle potevano appartenere a una prigione o a un manicomio. Si scoprì scollegato, dal mondo, dal passato, il suo tempo si scindeva in attimi, in sussulti di attenzione, in goccioline scintillanti di mercurio, in perle di sudore. Non sono io. E qualcos'altro che crede di essere me. Ed è sbagliato, sbagliato, sbagliato. Nessuno lo disturbò. Alle sei uscì nella luce del mattino e prese un treno fino a casa.

15 [REMIT MOT PAUCITY] Aprile 2051

L'appartamento di Durham nella zona settentrionale di Sidney era piccolo e assai poco ammobiliato, ben diverso da quel che Maria si sarebbe aspettata. Non aveva visto nulla oltre la cucina-soggiorno, ma dall'esterno si capiva bene che non c'era spazio per molto altro. Durham stava al sedicesimo piano, ma l'edificio era circondato da ogni lato da brutte torri direzionali della fine degli anni venti, mostruosità in similmarmo rosa e azzurro. Lì non c'erano i costosi panorami del porto. Per essere uno che stava derubando dei miliardari creduloni, o che gli vendeva banali assicurazioni, Durham non dava l'idea di aver molto da mettere in mostra. Maria credeva improbabile che quel posto fosse stato preparato a suo esclusivo uso e consumo, per corrispondere alla storia che le aveva raccontato, per dimostrare lo stile di vita frugale che teoricamente gli permetteva di pagarla di tasca sua. L'aveva invitata di sua iniziativa, Maria non aveva motivo di insistere per andare a vedere dove viveva. Posò il taccuino sul tavolo da pranzo graffiato, girandolo in modo che Durham ne potesse leggere i diagrammi. "Sono gli ultimi risultati delle due specie più promettenti. L'A. hithophila presenta il più elevato tasso di mutazioni per generazione, ma si riproduce assai più lentamente ed è particolarmente sensibile ai cambiamenti di clima. L'A. hydrophila possiede una capacità di proliferazione maggiore, con un genoma più stabile. Non è intrinsecamente più resistente, però è protetto meglio dall'oceano." Durham domandò: "Che sensazione ha?" "E lei?" "A. litho evolve in qualche specie promettente, ma sono tutte travolte da una situazione gravemente critica. A hydro accumula lentamente un grande serbatoio di mutazioni neutrali rispetto alla sopravvivenza, alcune delle quali si dimostrano utili sulla terraferma. Le poche centinaia di migliaia di specie che sbocciano dal mare non ce la fanno, ma non importa nulla, ce ne sono sempre delle altre. O mi sto facendo deviare troppo da preconcetti terrestri?" "La gente che sta cercando di convincere la penserà alla stessa maniera". Durham si mise a ridere. "Non sarebbe un gran male avere anche ragione, oltre a essere persuasivi. Sempre che non siano ambizioni che si escludono a vicenda". Maria non rispose. Fissò il taccuino, perché non riusciva a guardare Durham dritto negli occhi. Parlargli per telefono, con i filtri software, era stato sopportabile. E il lavoro era stato fine a se stesso. Immersa nel gioco intricato della biochimica dell'Autoverso, l'aveva trovato sin troppo facile da portare avanti, come se non importasse a cosa serviva. Ma non aveva fatto praticamente nulla per entrare in confidenza con Durham. Era per questo che aveva accettato quell'incontro, e doveva approfittarne. Il problema era che si sentiva talmente a disagio, adesso che si trovava lì, da riuscire a stento a discutere i dettagli tecnici più neutri senza che le vacillasse la voce. Se lui avesse cominciato a blaterare menzogne sulle proprie speranze di controbattere gli scettici della mafia della vita artificiale in qualche numero futuro di "Mondo dell'automazione cellulare", probabilmente Maria si sarebbe messa a gridare. O più probabilmente avrebbe vomitato sul pavimento di nudo linoleum. Durham disse: "A proposito, ho firmato stamattina la liberatoria della sua parcella, ho autorizzato il fondo fiduciario a pagarla per intero. Il lavoro procede tanto bene che mi è sembrato giusto così". Maria lo guardò, sbigottita. Sembrava assolutamente sincero, ma non poteva fare a meno di chiedersi, e non per la prima volta, se lui sapeva che era stata avvicinata da Hayden, se sapeva con esattezza quel che le aveva detto. Sentì di arrossire. Aveva passato tanti anni a usare telefoni e filtri che non poteva trattenersi dal mostrare in volto i propri sentimenti. Disse: "Grazie. Ma non ha paura che possa prendere il primo aereo per le Bahamas? C'è ancora tanto

lavoro da fare". "Credo di potermi fidare di lei." Nella sua voce non traspariva traccia di ironia, ma non c'era nemmeno bisogno che ci fosse. Durham aggiunse: "A proposito di fiducia… credo che le stiano controllando il telefono. Mi dispiace, avrei dovuto dirglielo prima". Maria lo guardò interessata. "Come fa a saperlo?" "Saperlo? Vuol dire che è così? Che ne era già sicura?" "Non ne sono sicura. Ma come…?" "Il mio è sotto controllo. Intercettato. Perciò è probabile che lo sia anche il suo." Maria era sconcertata. Cosa stava per fare Durham, annunciarle che la squadra antitruffe lo stava sorvegliando? Se l'avesse detto chiaro e tondo, lei non sarebbe riuscita a fingere. Gli avrebbe confessato che già lo sapeva, e poi le sarebbe toccato raccontare tutto quel che le aveva riferito Hayden. Sfogarsi del tutto. Farla finita con quella farsa. Non era portata per quelle commedie stupide, prima la piantavano di raccontare balle l'uno con l'altro e meglio era. Disse: "E chi crede che possa essere?" Durham rimase in silenzio, come se non avesse mai riflettuto seriamente sulla questione. "Qualche unità di spionaggio delle grandi aziende? Qualche struttura di sicurezza nazionale? Non c'è modo di saperlo. Conosco molto poco sul giro dei servizi segreti, le sue ipotesi valgono quanto le mie." "Allora perché pensa che…?" Durham rispose in tono divertito. "Se stessi progettando un computer, che so, trenta volte più potente di ogni gruppo di processori esistente, non crede che gente come quella sarebbe interessata?" Maria quasi soffocava. "Ah, certo." "Ma è chiaro che non lo sto facendo, e alla fine se ne convinceranno, lasciandoci in pace. Perciò non c'è assolutamente nulla di cui preoccuparsi." "Giusto." Le sorrise. "Forse credono che, solo perché ho commissionato un pianeta in Autoverso, esiste qualche possibilità che possieda i mezzi per farlo girare davvero. Hanno già perquisito questo appartamento un paio di volte. Non so cosa si aspettassero di trovare. Una scatolina nera in un angolo? Nascosta sotto un vaso, tutta presa a decrittare codici militari, a guadagnare somme colossali in Borsa e a simulare un paio di universi, giusto per non annoiarsi. Anche un bambino capirebbe quant'è ridicolo. Forse pensano che abbia trovato la maniera di ridurre dei processori individuali alle dimensioni di un atomo. Così filerebbe". Altro che fine delle bugie. Lui non glielo voleva rendere tanto facile. Va bene. Maria si costrinse a pronunciare quelle parole in tono piatto: "E anche un bambino potrebbe spiegarle che si trattava della squadra antitruffe, quando le hanno perquisito casa". Durham continuava in quella farsa. "Perché mi dice questo?" "Perché so che la stanno sorvegliando. Sono venuti a parlare con me. Mi hanno spiegato cosa sta facendo esattamente. " A quel punto, Maria, preferiva di gran lunga affrontarlo. Era inquieta all'idea di un faccia a faccia, ma non aveva nulla di cui vergognarsi, in fondo era stato lui a cominciare con gli inganni. Lui disse: "Non crede che la squadra antitruffe abbia bisogno di un mandato, e che non possa perquisire la mia casa se non in mia presenza? " "Forse non l'hanno mai perquisita. Non è questo il punto." Lui annuì appena, quasi ammettesse un piccolo strappo all'etichetta. "No. Lei vuole sapere perché le ho mentito." "Il perché lo so già. La prego, non mi tratti come un'idiota." Rimase sorpresa della propria amarezza. Era stata costretta a nasconderla tanto a lungo. "Difficilmente avrei accettato di essere sua… complice." Durham sollevò la mano dal tavolo, un gesto per metà conciliante e dall'altra impaziente. Maria rimase

in silenzio, più per lo stupore di quella calma apparente che per dargli modo di difendersi. Durham disse: "Ho mentito perché non sapevo se avrebbe creduto alla verità. Forse sì, ma non potevo esserne sicuro. E io non posso correre rischi. Mi dispiace". "Eccome se avrei creduto alla verità, visto che mi sono bevuta tutte quelle stronzate che mi ha raccontato! Ma in un certo senso capisco che non poteva correre rischi." Durham ancora non mostrava alcun segno di pentimento. "Sa cosa sto offrendo ai miei finanziatori? Quelli che pagano per il suo lavoro?" "Un santuario. Un computer privato nascosto da qualche parte." "Quasi vero. Dipende dal senso che si dà a queste parole." Maria non trattenne una risatina sarcastica. "Sì? E quali sarebbero le parole che le creano dei problemi? 'Privato'?" "No. 'Computer' e 'da qualche parte'." "Adesso è veramente puerile." Si allungò per recuperare il taccuino elettronico, scostò la sedia e si alzò. Mentre cercava di pensare a una battuta di congedo, le venne in mente che la faccenda più frustrante era che quel bastardo l'avesse pagata. Le aveva mentito, l'aveva resa sua complice, ma non l'aveva fregata fino in fondo. Durham la guardò, sembrava tranquillo. "Non ho commesso alcun crimine. I miei finanziatori sanno esattamente perché tirano fuori i soldi. La squadra antitruffe, come i servizi d'informazione, sta saltando a conclusioni assurde. Ho detto loro tutta la verità. Hanno preferito non credermi." Maria si fermò accanto al tavolo, una mano sullo schienale della sedia. "Hanno detto che si è rifiutato di discuterne." "Beh, è una bugia. Anche se quello che gli ho detto non era certo quello che volevano sentire." "Cosa gli ha detto?" Durham le rivolse un'occhiata scettica. "Se cerco di spiegarglielo, mi sta ad ascoltare? Si siede, e rimane qui sino alla fine?" "Possibile." "Perché, se non vuole sentire tutta la storia, se ne può anche andare immediatamente. Non tutte le Copie hanno accettato la mia offerta, ma quelle poche che si sono rivolte alla polizia sono le uniche che non mi hanno ascoltato." Maria era esasperata: "Adesso che le importa di quel che penso? Ha ricevuto da me tutte le tecnofesserie di Autoverso che le potevano servire. E sulla sua truffa non so niente di più della polizia, non c'è motivo che mi chiedano di testimoniare contro di lei, se tutto quel che potrò raccontare in aula è che il detective Hayden mi ha spiegato questo, il detective Hayden mi ha detto quello. Perciò perché non ne approfitta finché è in testa?" Durham rispose semplicemente: "Perché non ha capito niente. E le devo una spiegazione". Maria lanciò un'occhiata alla porta, ma non staccò la mano dallo schienale della sedia. Il lavoro non aveva avuto alcuno scopo, ma era ancora curiosa di sapere con esattezza cosa intendeva farsene Durham dei frutti della sua fatica. Disse: "Del resto, che avevo da fare oggi pomeriggio? Modellare la sopravvivenza dell'Autobacterium hydrophyla nella spuma di mare?" Si sedette. "Parli pure, l'ascolto." "Quasi sei anni fa, all'incirca, un tipo che conosco ha creato una Copia di se stesso. Quando la Copia si è svegliata, si è fatta prendere dal panico e ha cercato di sloggiare. Ma l'originale aveva sabotato il programma, sloggiare era diventato impossibile". "E illegale." Lo so. "Chi era quell'uomo?" "Si chiamava Paul Durham." "Lei? Lei era l'originale?"

"Oh, no. Io ero la Copia."

16 [TOY MAN, PICTURE IT] Giugno 1945

Paul si sentì afferrare per un braccio. Cercò di liberarsi, ma il braccio si mosse appena, e dalla spalla gli partì una fitta terribile. Aprì gli occhi, poi li richiuse per il dolore. Ci riprovò. Al quinto o sesto tentativo riuscì a intravedere un volto attraverso quella cascata di luce e di lacrime. Elizabeth. Lei gli accostò una tazza alle labbra. Paul bevve un sorso, gli andò di traverso e sputò, poi riuscì a inghiottire un po' di quel liquido dolce. Lei disse: "Vedrai che starai meglio. Basta che resti calmo". "Perché sei qui?" Tossì, scosse la testa, se ne pentì. Era commosso, ma confuso. Perché il suo originale gli aveva mentito raccontandogli che lei lo voleva spegnere, quando in realtà teneva a lui abbastanza da fargli visita? Era sdraiato su una specie di poltrona da dentista in una stanza poco familiare. Aveva addosso un camicione da ospedale. Al braccio destro era attaccata una flebo, e l'uretra era cateterizzata. Riuscì ad adocchiare più in alto un casco di interfaccia, una mezza sfera massiccia piena di induttori magnetici di corrente assonica, sospesa a un'incastellatura poco sopra la sua testa. Pensò che era abbastanza indovinato costruire un punto d'incontro simulato che somigliasse alla stanza in cui si doveva trovare il vero corpo di Elizabeth. Però adagiarlo in quella specie di lettino e trasmettergli tutti i sintomi di un visitatore che si sveglia gli parve un po' eccessivo. Batté sul lettino con la mano sinistra. "Qual è il messaggio? Vuoi che capisca esattamente cosa stai provando? Va bene, te ne sono grato. E mi fa piacere vederti." Ebbe un brivido di sollievo e di shock ritardato. "A esser sinceri è fantastico." Fece una risata fiacca. "Credevo sul serio che mi stesse per cancellare. Quello là è un pazzo totale. Credimi, adesso stai parlando alla sua metà migliore." Elizabeth se ne stava appollaiata su uno sgabello. "Paul, sforzati di ascoltare con attenzione quel che sto per dirti. Comincerai a reintegrare i ricordi gradualmente per conto tuo, ma non provocherà alcun danno se prima ti spiego tutto. Tanto per cominciare non sei una Copia. Sei in carne e ossa". Paul tossì, sentendo un sapore acido. Durham le aveva permesso di fare qualcosa di inspiegabile al suo apparato digestivo. "Sono in carne e ossa? Che scherzo sadico sarebbe questo? Hai idea di quanto è stato duro venire a patti con la verità? " Lei proseguì con voce paziente: "Non è uno scherzo, so che ancora non ricordi, ma… dopo la scansione che doveva funzionare come Copia numero cinque, ti sei deciso a spiegarmi cosa stavi facendo. E io ti ho convinto a non metterla in funzione, non prima di aver tentato un esperimento, inserendoti al suo posto. Per scoprire direttamente come può essere passarci. E tu eri d'accordo. Sei entrato tu nell'ambiente virtuale in cui avrebbe vissuto la Copia, con i tuoi ricordi cancellati a partire dal giorno della scansione, in modo da non essere in grado di capire che eri solo un visitatore". "Io…?" "Tu non sei la Copia. Capisci? Non hai fatto che visitare l'ambiente che avevi preparato per la Copia numero cinque. E adesso sei uscito. Sei tornato nel mondo reale". Il suo viso non tradiva traccia di sotterfugi, ma il software era capace di correggere quei problemi. Paul disse: "Non ti credo. Come faccio a essere io l'originale? Io ho parlato con l'originale. Cosa dovrei credere? Che era lui la Copia? Convinta di essere l'originale?" "Certo che no. Non avrebbe risparmiato di molto la Copia, no? La quinta scansione non è mai entrata in funzione. Ero io a controllare il pupazzo che recitava il tuo 'originale'. Un programma mi forniva le

caratteristiche dei vocaboli e dei gesti, ma ero io a tirare i fili. E sei stato tu a indicarmi, prima, quel che avrei dovuto dire e fare. Presto ti tornerà in mente." "Ma… gli esperimenti?" "Gli esperimenti erano una montatura. Non potevano certo essere eseguiti su un visitatore, su un cervello fisico, no?" Paul fece segno di no col capo, poi sussurrò: "Abulafia". Non comparve alcuna finestra di interfaccia. Si aggrappò al lettino e chiuse gli occhi, poi rise. "E dici che ero d'accordo? Quale genere di autolesionista potrebbe fare una cosa del genere? Sto diventando pazzo. Non so cosa sono." Elizabeth gli afferrò di nuovo il braccio. "Sei disorientato, ma non durerà molto. E sai bene perché eri d'accordo. Eri stanco delle Copie che sloggiavano. Dovevi renderti conto delle esperienze che vivevano. Passare qualche giorno convinto di essere una Copia significava: o la va o la spacca del progetto. O ne uscivi psicologicamente preparato a far nascere finalmente una Copia in grado di accettare il suo destino, oppure avresti compreso la loro sventura, smettendo di crearne altre. "Il piano prevedeva di dirti tutto mentre eri ancora dentro, dopo il terzo esperimento. Ma quando mi sei andato giù di testa mi sono fatta prendere dal panico. Ho pensato di farti raccontare dal pupazzo che ti interpretava che stava per metterti in pausa. Non volevo spaventarti. Non credevo che l'avresti presa tanto male." Un inserviente entrò nella stanza per rimuovere flebo e catetere. Paul si tirò su a guardare fuori dalle finestrelle delle porte a vento della camera. Vide una mezza dozzina di persone in corridoio. Urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. Tutti si girarono a guardare nella sua direzione. L'inserviente disse con voce gentile: "Il pene le farà male per un'ora o due". Paul si accasciò sul lettino, girandosi verso Elizabeth. "Non tireresti mai fuori dei soldi per avere una folla reattiva. Sembra proprio che tu mi stia dicendo la verità." Gente, gente magnifica: migliaia di estranei che incrociavano il suo sguardo sospettosi o perplessi, che gli facevano largo per strada o, più spesso, si rifiutavano volutamente e palesemente di cedere il passo. La libertà della città era tanto dolce. Passeggiò per le strade di Sidney per tutto il giorno, riscoprendo ogni brutto centro commerciale, ogni parco e vicolo coperto di cartacce e puzzolente di piscia, fin quando ritornò a fatica fino a casa nell'ora di punta, con i piedi che gli facevano male, per guardare il notiziario in tempo reale. Non c'era più spazio per il dubbio: non si trovava in un ambiente virtuale. Nessuno al mondo avrebbe avuto motivo di spendere tanti soldi solo per ingannarlo. Quando Elizabeth gli chiese se gli era tornata la memoria, annuì e rispose: "Certo". Lei non lo ossessionò interrogandolo per ottenere maggiori conferme. Anzi, dopo essersi ripetuto più volte la storia che lei gli aveva raccontato, riusciva quasi a immaginarsi i vari passaggi: gli scrupoli dopo la quinta scansione, i ripetuti ritardi nella messa in funzione del modello, la confessione a Elizabeth di quel che stava progettando, l'accettazione della sfida che lei gli aveva lanciato: provare di persona quel che sopportavano le Copie. E se i ricordi soppressi non si fossero davvero reintegrati, beh, aveva già controllato la bibliografia in proposito, esisteva un rischio del 2,5% che accadesse: ogni tanto la censura elettronica dell'accesso ai ricordi poteva indebolire in permanenza le connessioni neurali in cui erano codificati. Aveva persino un resoconto del servizio di database che dimostrava che aveva già controllato i medesimi articoli. Lesse e rilesse i resoconti delle notizie cui aveva avuto accesso dall'interno, senza trovare discrepanze. Scorse i database enciclopedici, controllando qua e là dati casuali di storia, geografia, astronomia. Anche se qualche volta rimase sorpreso da dettagli che non aveva mai rivelato prima, non

esistevano contraddizioni stupefacenti. I continenti non si erano mossi. Le stelle e i pianeti non erano svaniti. Le medesime guerre erano state vinte e perse. Tutto combaciava. Tutto era spiegabile. Eppure non riusciva a smettere di interrogarsi sul destino di una Copia che è stata spenta, per non essere mai più rimessa in funzione. La morte di un essere umano era una storia a parte, così, intrecciata in un arazzo molto più vasto, era un processo che aveva un suo senso. Dal punto di vista interno di una Copia il cui modello veniva bloccato, però, non c'era spiegazione per la propria scomparsa, soltanto un bordo in cui il motivo cessava di colpo. Ma se la comprensione che aveva acquisito durante quell'esperimento era vera (che fosse successa davvero o meno), se una Copia poteva assemblarsi dalla polvere sparsa per il mondo e colmare i buchi nella propria esistenza con la polvere dell'universo… allora perché doveva arrivare a una fine incongrua? Perché lo schema non poteva continuare a ritrovarsi? O trovare uno schema più ampio in cui fondersi? La teoria del pulviscolo implicava un numero sterminato di mondi alternativi: miliardi di possibili storie diverse scaturite dal medesimo brodo primordiale alfabetico. Una storia in cui Durham metteva in funzione la Copia numero cinque, e una in cui non lo faceva, ma si lasciava persuadere, invece, a prendere il suo posto come visitatore. Ma se il visitatore fosse stato ingannato alla perfezione, provando tutto quel che la Copia provava, cosa li distingueva a quel punto? Finché l'uomo in carne e ossa non poteva conoscere la verità, era insensato parlare di "due persone differenti" in "due mondi differenti". I due schemi di pensiero e di percezione si erano fusi. Se alla Copia fosse stato concesso di rimanere in funzione dopo che il visitatore aveva appreso di essere in carne e ossa, i loro due sentieri si sarebbero allontanati di nuovo. Ma la Copia era stata disattivata, non aveva alcun futuro nel suo mondo originale, alcuna vita separata da vivere. Perciò le due storie soggettive restavano una sola. Paul era stato un visitatore convinto di essere una Copia. Ed era anche stato la Copia. Le strutture si erano fuse senza soluzione di continuità, non ci poteva essere modo di dire quale storia era vera e quale falsa. Entrambe le spiegazioni erano parimenti valide. Una volta aveva avuto due futuri, mentre si preparava alla scansione. Adesso aveva due passati. Paul si svegliò al buio, per un attimo confuso, poi sfilò il braccio sinistro da sotto il cuscino per guardare l'orologio. I sensori agli infrarossi a bassa potenza della faccia dell'orologio captarono il suo sguardo e lampeggiarono l'ora, seguita da un promemoria: Atteso a Landau ore 7. Erano appena suonate le cinque, ma non sembrava valesse la pena di cercare di riprendere sonno. I ricordi della sera prima tornarono. Finalmente Elizabeth si era decisa a parlargli per chiedergli che decisioni avesse preso: abbandonare il lavoro della sua vita oppure proseguire, adesso che sapeva per esperienza diretta cosa c'era in ballo. La sua risposta sembrava averla delusa. Non si aspettava di rivederla mai più. Come poteva mollare? Sapeva che non sarebbe mai stato sicuro di aver scoperto la verità, ma non significava che non lo potesse fare nessun altro. Se creava una Copia e la teneva in funzione qualche giorno virtuale, e poi la terminava di colpo… almeno quella Copia avrebbe saputo che il suo schema di esperienza continuava. E se un altro Paul Durham, in uno dei miliardi di mondi alternativi, poteva fornire un futuro alla Copia terminata, uno schema in cui fondersi, allora forse quel Durham in carne e ossa avrebbe ripetuto l'intero processo. E così via, sempre e sempre.

E anche se le commessure non potevano essere perfette in tutti i casi, la "spiegazione" per l'essere umano in carne e ossa, che credeva di avere un secondo passato in quanto Copia, sarebbe diventata sempre più "artefatta", sempre meno convincente… e la teoria del pulviscolo sempre più interessante. Paul rimase steso sul letto, al buio, in attesa dell'alba, a scrutare nel futuro lungo questa galleria di specchi. C'era una cosa che lo tormentava. Avrebbe giurato di aver fatto un sogno subito prima del risveglio: una favola intricata che conteneva una qualche illuminazione. Era tutto quel che sapeva, o credeva di sapere. I dettagli ondeggiavano seccanti sul ciglio del ricordo. I suoi sogni erano sempre evanescenti, e non si aspettava certo di riafferrarli.

17 [REMIT NOT PAUCITY] Aprile 2051

Maria si mosse sulla sedia per far riprendere la circolazione del sangue, poi capì che non bastava. Si alzò, zoppicando in giro per la stanza e chinandosi a massaggiare il polpaccio destro contratto da un crampo. Disse: "E pretende di essere il ventitreesimo?" Aveva quasi timore di sembrava troppo scettica, e non perché temeva che Durham se la potesse prendere, ma perché quella storia era tanto affascinante che non era sicura di volerla smontare, non ancora. Un eccesso di sarcasmo e la diga sarebbe crollata. "Lei sarebbe il ventitreesimo Paul Durham in carne e ossa, il cui passato comprende tutti quelli precedenti?" "Mi posso anche sbagliare sul numero esatto. Posso aver contato più di una volta quest'ultima versione. Se sono in grado di credere a ventitré incarnazioni, qualcuna potrebbe anche essere falsa. E la natura delle illusioni che ho subito a contribuire all'incertezza". "Contribuire. Non lo sottovaluta un tantino?" Durham rimase impassibile. "Adesso sono guarito. La nanochirurgia ha funzionato. I medici mi hanno dichiarato sano, e non ho motivo di mettere in dubbio il loro giudizio. Mi hanno scansionato il cervello, e funziona alla perfezione. Ho controllato i dati, prima e dopo. Attività della corteccia prefrontale..". "Ma non capisce quanto è assurdo? Ammette di essere stato allucinato. Adesso insiste di essere guarito. Però afferma che le illusioni non erano illusioni..". Durham proseguì con voce paziente: "L'ho ammesso sin dall'inizio: la mia condizione spiega tutto. A causa della malattia mentale, ho creduto di essere la Copia di ventitreesima generazione di un altro Paul Durham di un altro mondo". "Malattia mentale! Fine della storia." "No. Perché adesso sono riconosciuto come razionale, e la logica della teoria del pulviscolo ha più senso che mai per me. E non fa differenza se i miei ricordi sono falsi, veri o entrambe le cose". Maria sbottò. "Logica della teoria del pulviscolo! Non è una teoria. Non può essere sperimentata." "Non può essere sperimentata da chi?" "Da nessuno! Cioè… anche dando per scontato che quel che lei crede sia vero, ha 'superato' ventitré esperimenti separati e ancora non sa cos'ha provato o confutato! Come dice lei, la sua condizione spiega tutto. Ha mai sentito parlare del rasoio di Occam? Quando trovi una spiegazione perfetta e semplice per qualcosa, ne vai forse a cercare una più complicata per spiegare la medesima cosa? Non occorre alcuna teoria del pulviscolo." Le sue parole rimbombarono nella stanza semivuota. Aggiunse: "Ho bisogno di aria fresca". Durham disse con voce ferma: "Dopo ventitré risultati ambigui, so come fare, stavolta. Una Copia più un ambiente virtuale è un casino, un patchwork. Un sistema del genere non è abbastanza ricco, dettagliato o coerente da automantenersi. Se lo fosse, quando sono stato scollegato l'intero mondo Rv in cui mi trovavo sarebbe rimasto. Non è mai successo. Invece, ogni volta ho trovato un umano in carne e ossa che aveva motivo di credere di condividere il mio passato. Ciò spiegava il mio schema di esperienza molto meglio della Rv, fino al limite della follia. Quel che devo fare adesso è costruire uno schema coerente che possa avere un solo passato". Maria tirò un respiro profondo. Era quasi troppo da sopportare: l'appartamento triste di Durham, le sue visioni cosmiche, la sua logica irrequieta e meccanica che persisteva a trovare un senso nel retaggio della malattia. I medici l'avevano curato, lui era sano. Solo che non voleva disconoscere il suo passato di illusioni, perciò s'era inventato un motivo a cui aggrapparsi, logico, senza pecche, del tutto inconfutabile. Se davvero l'aveva raccontato alla polizia, perché gli stavano dando ancora la caccia? Dovevano aver

capito che era innocuo, decidendo di lasciarlo in pace e lasciando che i suoi clienti allocchi si arrangiassero da soli. Quell'uomo non era un pericolo nemmeno per se stesso. E se mai riusciva a sfruttare una frazione dell'energia e dell'intelligenza che aveva messo in questo "progetto", dirigendola verso qualcosa di valido… Durham disse: "Sa cos'è una configurazione Giardino dell'Eden?" Maria fu colta alla sprovvista, per un secondo, poi rispose: "Sì, certo. Secondo la teoria dell'automazione cellulare, è uno stato del sistema che non può essere provocato da uno stato precedente. Nessun'altra configurazione di cellule la può creare. Se vuole una configurazione Giardino dell'Eden, deve partire da quella, la deve collocare a mano nel primo stato del sistema". Durham le sorrise come se lei gli avesse appena dato ragione su tutto. Maria chiese: "Che c'è?" "Non è evidente? Un automa cellulare non è come una Rv ricucita, in ogni sua parte è coerente come un universo fisico. Non c'è un ammasso abborracciato di leggi ad alto livello, un insieme di regole vige per ogni cellula. Giusto?" "Sì, ma…" "Così, se allestissi un automa cellulare in una configurazione Giardino dell'Eden, e lo facessi funzionare per qualche trilione di unità temporali e poi lo disattivassi, la struttura continuerebbe a ritrovarsi nel pulviscolo, separata da questa versione di me, separata da questo mondo, ma ancora capace di fluire in modo non ambiguo da quello stato iniziale. Uno stato che non può essere spiegato dalle regole dell'automa, che deve essere stato costruito in un altro mondo, esattamente come lo ricordo io. Fin qui il problema è che i miei ricordi sono sempre del tutto spiegabili all'interno del nuovo mondo. Mi sono disattivato come Copia, e mi ritrovo in un corpo di carne e ossa con ricordi di carne e ossa che potrebbero essere stati prodotti dalle leggi della fisica da stati precedenti di un cervello di carne. Questo mondo mi può spiegare solo come un uomo le cui illusioni sono incredibilmente improbabili, ma non è possibile negare che io ho una storia supplementare completa che non è implausibile alla lettera, fisicamente. Perciò, qualunque cosa voglia credere, devo ammettere che il risultato dell'esperimento è ancora ambiguo. Potrei sempre sbagliarmi. Ma un automa cellulare non può fornire una 'storia supplementare' per una configurazione Giardino dell'Eden! È matematicamente impossibile! Se mi ritrovo in un universo di automa cellulare, e posso risalire nel mio passato fino a una configurazione Giardino dell'Eden, costituirebbe la prova che io ho realmente seminato l'intero universo in un'incarnazione precedente. La teoria del pulviscolo sarebbe dimostrata. E io saprò finalmente, oltre ogni dubbio, che non sono stato pazzo per tutto questo tempo." Maria si sentiva spiazzata. Da una parte, sapeva che doveva smetterla di assecondarlo, di prendere sul serio le sue idee. Dall'altra, le sembrava che, se Durham era in errore, lei avrebbe dovuto essere in grado di spiegarne le ragioni. Non poteva dargli del pazzo e rifiutarsi di ascoltare una parola in più. Disse: "Ritrovarsi in un mondo di automa cellulare? Non intenderà l'Autoverso?" "Certo che no. Non c'è possibilità di tradurre un umano nella biochimica dell'Autoverso." "Allora cosa? " "Esiste un automa cellulare chiamato Tvc. Da Turing, von Neumann e Chiang. Chiang l'ha perfezionato verso il 2010, con una versione più elegante e più efficiente del lavoro di von Neumann svolto nella metà del secolo scorso." Maria annuì interdetta. Ne aveva già sentito parlare, ma non era il suo campo. Sapeva che John von Neumann e i suoi studenti avevano sviluppato un automa cellulare bidimensionale, un universo semplice in cui poter inserire uno schema elaborato di cellule, una "macchina" stile Lego che si comportava sia come costruttore sia come computer universale. Dato il programma giusto, una stringa di cellule da interpretare come istruzioni codificate, piuttosto che come parte della macchina, poteva eseguire qualsiasi calcolo e costruire di tutto. Compresa una propria copia, che poteva costruire un'altra copia e così via. Piccoli computer giocattolo autoreplicanti potevano venire alla luce senza sosta.

Maria domandò: "La versione di Chiang era tridimensionale, vero?" "Molto meglio. N-dimensionale. Quattro, cinque, sei, quante ne preferisce. Lascia un sacco di spazio facilmente disponibile per i dati. Nelle due dimensioni, la macchina originale di von Neumann doveva estendersi sempre più in là, e attendere sempre più a lungo ogni bit successivo. In un automa Tvc esadimensionale, lei può avere una griglia tridimensionale di computer che continua a crescere indefinitamente, ognuno con la sua memoria tridimensionale, che a sua volta può accrescersi senza limiti." " E lei dove si inserisce in tutto questo? Se crede che tradurre la biochimica umana in termini di Autoverso sia difficile, come farà a descriversi in un mondo esadimensionale progettato esclusivamente per sostenere delle macchine di von Neumann?" "L'universo è un grosso gruppo di processori in espansione continua. Fa girare una mia Copia. "Credevo che il discorso fosse farla finita con le Copie! " "…in un ambiente Rv che mi permette di interagire con il livello Tvc. Sì, sarò una Copia patchwork, come sempre, non ci sono alternative, ma sarò anche collegato all'automa cellulare stesso. Sarò testimone del suo operato, farò esperienza delle sue leggi. Osservandolo, farò parte di quel che deve essere spiegato. E quando l'universo Tvc simulato, funzionante sul computer fisico, sarà spento all'improvviso, la migliore spiegazione a ciò che ho assistito sarà una continuazione di quell'universo, un'estensione creata dal pulviscolo." Maria quasi se lo immaginava: un ampio reticolo di computer, un seme di ordine in un mare di disturbi casuali che si allungava da un momento al successivo sul solo impulso della logica interna, "concrescendo" i mattoni necessari dal caos del non-spazio-tempo col semplice atto di definire spazio e tempo. Però visualizzare non significava credere. Disse: "Cos'è che la rende tanto sicuro? Perché non si convince di essere un paziente psichiatrico come tanti, che crede di esser stato per breve tempo una Copia in funzione su un automa Tvc, gestito su un gruppo di processori in un altro mondo?" "È lei che ha chiamato in causa il rasoio di Occam. Non le pare che un universo Tvc autonomo sia una spiegazione di gran lunga più semplice?" "No, è forse la cosa più complessa che riesco a immaginare." "Molto meno complessa di un'altra versione di questo universo che contiene un'altra mia versione con un altro insieme di illusioni utili." "Quanti suoi clienti ci hanno creduto? Quanti prevedono di associarsi?" "Quindici. E c'è un sedicesimo che credo sia tentato." "E hanno pagato…?" "Circa due milioni ciascuno." Sbuffò. "È piuttosto ridicolo il significato che vuole attribuirgli la polizia. Qualche grossa somma di denaro è passata da una mano all'altra per ragioni più complesse del solito, perciò presumono che sia una faccenda illegale. Insomma, si sa che dei milionari hanno fatto donazioni più cospicue alla Chiesa del Dio che non fa differenze" E si affrettò ad aggiungere: "Nessuno dei miei". Maria iniziava ad avere dei problemi con la portata che stava assumendo l'intera faccenda. "Ha trovato quindici Copie disposte a separarsi da due milioni di dollari dopo aver sentito queste stronzate? Fessi del genere si meritano di perdere i loro soldi." Durham non sembrò offeso. "Se fosse una Copia, crederebbe anche lei alla teoria del pulviscolo. Ne sentirebbe la verità fin nel profondo delle sue ossa immaginarie. Qualcuno di loro ha svolto i miei stessi esperimenti, è stato calcolato in frammenti randomizzati, ma altri non ne hanno avuto bisogno. Già sapevano di potersi disperdere nel tempo e nello spazio reali, ritrovandosi ancora. Ogni Copia dimostra a se stessa la teoria del pulviscolo un milione di volte al giorno".

A Maria venne il dubbio che Durham poteva aver inventato tutta quella storia solo per lei, mentre ai suoi clienti raccontava esattamente quel che immaginava Hayden: un racconto fraudolento ma assolutamente non-metafisico su un supercomputer nascosto. Ma non capiva cos'avesse da guadagnare a confonderle le idee… e, poi, troppi particolari assumevano un senso. Se i suoi clienti avevano accettato interamente quella visione folle, svaniva il problema di far credere a un supercomputer inesistente. O almeno, da un problema di prove diventava un problema di fede. Perciò disse: "Così ha promesso di inserire un'istantanea di ogni suo 'finanziatore' nella configurazione Giardino dell'Eden, più il software per farli girare in Tvc?" Durham annuì orgoglioso: "Questo e altro. Le più grandi biblioteche del mondo, non proprio l'intero contenuto, ma pur sempre decine di milioni di file, testo, audio, video, interattivo, su ogni materia concepibile. Database troppo numerosi da elencare, compresi i genomi mappati. Software: sistemi esperti, browser, metaprogrammatori. Migliaia di ambienti Rv confezionati: deserti, giungle, barriere coralline, Marte e la Luna. E ho commissionato, nientemeno che a Malcolm Carter, una grande città che servirà da punto d'incontro centrale: Permutation City, capitale dell'universo Tvc. E, poi, naturalmente il suo contributo: il seme per un mondo alieno. Alla fine l'umanità troverà un'altra vita in questo universo. Come possiamo rinunciare alla speranza di fare altrettanto? Certo, avremo i nostri discendenti programmati, ricreeremo gli animali della Terra, e senza dubbio anche creature mai viste, totalmente artificiali. Non saremo soli. Ma ci serve sempre una possibilità di affrontare l'Altro. Non dobbiamo rinunciare a questa possibilità. E cosa ci potrebbe essere di più alieno della vita dell'Autoverso? " Maria si sentì venire la pelle d'oca. La logica di Durham era ineccepibile, un universo Tvc in espansione infinita, con nuova potenza di calcolo costruita dal nulla in tutte le direzioni, sarebbe stato abbastanza grande da gestire un pianeta in Autoverso, o anche l'intero sistema planetario. La versione compressa di pianeta Lambert, la descrizione con i suoi riassunti topografici al posto delle montagne e dei fiumi reali, sarebbe entrata facilmente dentro la memoria di un computer del mondo reale. A quel punto per la Copia di Durham bastava aspettare che la griglia Tvc fosse abbastanza grande, o mettersi in pausa per evitare l'attesa, prima che tutta la faccenda sbocciasse. Lui aggiunse: "Ho lavorato sul programma che gestirà i primi istanti dell'universo Tvc su un computer reale. Probabilmente posso finire da solo. Ma non posso completare il lavoro in Autoverso senza di lei, Maria". Lei scoppiò in una risata secca. ''Vuole che continui a lavorare per lei? Mi sta mentendo. Mi è già costato una visita della Squadra antitruffa. Ha ammesso di aver avuto in passato dei disturbi mentali. Mi racconta di essere la ventitreesima incarnazione di un agente assicurativo milionario di un mondo parallelo..". "Comunque la pensi sulla teoria del pulviscolo, e sulla mia salute psicologica, le posso dimostrare che non sono un criminale. I miei finanziatori lo attesteranno, sanno tutti con esattezza come vengono usati i loro soldi. Nessuno è vittima di alcun raggiro." "Ammettiamolo pure. Però..". "Allora accetti il pagamento. Finisca il lavoro. Qualunque cosa le abbia detto la polizia, ha diritto a quel denaro, e io ho tutto il diritto di darglielo. Nessuno la porterà in tribunale, nessuno la manderà in prigione". Maria era turbata. " Un attimo. Mi vuol dare la possibilità di riflettere?" L'assoluta ragionevolezza di Durham stava cominciando a dimostrarsi sfibrante, almeno quanto la retorica inscalfibile di un fanatico. E nell'ultima mezz'ora erano cambiate tante cose che non aveva avuto nemmeno la possibilità di cominciare a valutare la propria situazione: dal punto di vista legale, finanziario… e morale. Disse: "Perché i suoi finanziatori non lo vanno a raccontare alla polizia? Se possono confermare la sua storia con me, perché non fanno altrettanto con gli sbirri? Rifiutandosi di parlare, gettano benzina sul fuoco dei sospetti".

"Lo viene a dire a me? Rende tutto dieci volte più difficile, ma devo farmene una ragione. Crede che vogliano correre il rischio che la verità diventi di pubblico dominio? Ci sono già state delle soffiate imbarazzanti, ma finora siamo riusciti a confondere le acque grazie all'attività di disinformazione. Le Copie che controllano imperi miliardari preferiscono avere a che fare con un venditore discutibile e il suo supercomputer avanzato, con relative dicerie che si esauriscono per mancanza di prove a sostegno, piuttosto che lasciare che il mondo sappia che progettano di inviare un clone in un universo artificiale che funziona senza hardware. I mercati azionari possono diventare estremamente instabili se la gente comincia a chiedersi se un certo consiglio d'amministrazione si diverte a giocare al Caligola virtuale nel tempo libero. Se si viene a sapere che una Copia in una posizione di vertice ha fatto qualcosa che può lasciare supporre un improvviso disinteresse per le sue responsabilità aziendali, il suo benessere personale, o il protrarsi della propria esistenza sul pianeta Terra..". Maria andò alla finestra. Era aperta, ma fuori l'aria era immobile. Stare vicino la zanzariera equivaleva a trovarsi accanto a una parete di solidi mattoni. Nell'appartamento di sopra stavano litigando. Ma se ne accorse appena. Quando Durham l'aveva contattata la prima volta, si era chiesta in modo semiserio se non si stesse approfittando di un uomo con qualche rotella fuori posto. Adesso non poteva più scartarlo come insulto ipocrita a un tizio un po' eccentrico. Non era più questione di un fanatico della vita artificiale con più soldi che sale in zucca. Un ex paziente psichiatrico progettava di spendere trenta milioni di dollari appartenenti ad altre persone per "dimostrare" la sua sanità di mente, e portare i cloni dei suoi seguaci in un paradiso cibernetico che sarebbe durato circa venti secondi. Prendere le distanze era un tantino come procurare le cibarie per il massacro di Jonestown. Durham disse: "Se lei non è d'accordo a completare il seme di biosfera, chi posso trovare al suo posto? Non c'è nessun altro che possa anche solo cominciare a capire cosa c'è in ballo". Maria gli lanciò un'occhiataccia. "Non cominci ad adularmi. E non si illuda nemmeno riguardo al seme. Ha chiesto un pacchetto di dati convincenti, ed è tutto quel che avrà, anche se termino il lavoro. Se spera che gli abitanti di pianeta Lambert si possano alzare sulle zampe posteriori per parlarle, non posso garantire che accadrà nemmeno se lo facesse andare per un miliardo di volte. Avrebbe dovuto simulare la biochimica del mondo reale. Almeno così si sarebbe dimostrato che la vita intelligente può sorgere in quel sistema… e lei dovrebbe avere sufficiente potenza di calcolo." Durham eccepì, con tono ragionevole: "L'A. lamberti sembrava più semplice, più sicuro. Ogni organismo del mondo reale modellato a livello subatomico si rivelerebbe un programma troppo esteso da testare in anticipo su un computer fisico. E, nel caso non riuscissi a farlo funzionare, sarebbe troppo tardi per cambiare idea tentando un altro approccio. Bloccato nell'universo Tvc, con tanti libri e giornali ma senza esperienza". Maria si sentì attraversare da un brivido gelido. Ogni volta che credeva di aver accettato la serietà con cui Durham prendeva la sua pazzia, lui le dava una risposta come quella, che la riportava alla casella di partenza. Disse: "Beh, la vita in Autoverso potrebbe dimostrarsi altrettanto inutile. Rischia di ritrovarsi con l'A. hydrophila che vomita generazione dopo generazione delle mutazioni inutili, senza potere far nulla per sistemarlo". Sembrava che Durham stesse per rispondere, ma non lo fece. Maria sentì tornare il brivido, in un primo momento senza sapere perché. Un secondo più tardi gli lanciò un'occhiata disgustata e furente, quasi che lui l'avesse chiesto esplicitamente. "Io non ci sarò là dentro a sistemarglielo! " Durham le fece la gentilezza di sembrare transitoriamente intimorito. Invece di negare che quel pensiero gli fosse anche solo passato per l'anticamera del cervello, disse: "Se non crede alla teoria del

pulviscolo, che differenza può fare una sua scansione nei dati del Giardino dell'Eden?" "Non voglio che una mia Copia si svegli per vivere qualche secondo soggettivo sapendo che sta per morire! " "Chi ha detto niente sul suo risveglio? Far girare una Copia in una griglia Tvc simulata è un'operazione che comporta attività di computer. Non ci possiamo permettere di svegliare più di una Copia mentre ancora giriamo in un computer fisico. La mia. Per quel che riguarda lei, il suo file di scansione non sarà mai usato per costruire una Copia, i dati rimarrebbero lì, completamente inerti. E lei potrebbe starsene fuori, davanti a un terminale, a soprintendere all'intera operazione, per assicurarsi che io sono di parola." Maria era scandalizzata, anche se ci mise un attimo a raccapezzarsi nella logica esasperante di Durham prima di trovare una falla. "E lei, sicuro che prima o poi mi sveglierò, mi farebbe salire serenamente a bordo con false lusinghe?" Durham pare sinceramente sbigottito da quell'accusa. "False lusinghe? Le ho presentato tutti i fatti, e ho discusso il mio caso meglio che potevo. Non è colpa mia se non mi crede. Dovrei sentirmi in colpa perché ho ragione?" Lei stava per replicare, ma poi le parve troppo ridicolo. Disse invece: "Non importa. Non avrà possibilità di sentirsi in alcun modo perché di sicuro non le offrirò un file di scansione". Durham piegò il capo. "Se è questa la sua decisione." Maria si strinse nelle braccia. Tremando leggermente. Pensò: lo avrei paura di sfruttare lui? Se quel che fa è davvero legale… finisci il lavoro e prendi i soldi. La sua Copia trascorrerà qualche secondo convinta di essere diretta nel Paradiso delle Copie. Ed è giusto che succeda, qualunque cosa io possa fare. I quindici cloni continueranno a dormire come se non fossero mai stati realizzati. Non è una Jonestown. Lui disse: "Il compenso sarebbe seicentomila dollari". "Non m'importa un accidente se sono seicentomila dollari." Voleva mettersi a gridare, ma le sue parole sfumarono in un sussurro. Seicentomila dollari sarebbero bastati per salvare la vita a Francesca.

18 [REMIT MOT PAUCITY] Maggio 2051

Gli sembrava di far l'amore con Kate, ma aveva qualche dubbio. Peer era steso sull'erba soffice e secca di un prato illimitato, nella dolce luce del sole. I capelli di Kate erano più lunghi del solito e gli pizzicavano la pelle nei punti in cui lei lo baciava, sfiorandolo con una precisione erotica che sembrava improbabile fosse lasciata al caso. Si sentivano il canto degli uccelli e il frinire degli insetti. Peer si ricordava di David Hawthorne che una volta si era scopato un'amante indulgente in mezzo a un prato. Stavano tornando in macchina dal funerale del padre di lei nello Yorkshire, e all'epoca era parsa un'ottima idea. Questo era diverso. Niente ramoscelli, niente pietre, niente merde di animali. Niente terra umida, niente macchie d'erba, nessun prurito. Il prato perfetto non era in sé motivo di sospetto, nessuno dei due era un fanatico della verosimiglianza, nessuno dei due era un ricreatore masochista dei dettagli più irritanti degli ambienti reali. Il buon sesso, era anche quello questione di scelta. Ma Peer si stava chiedendo se Kate fosse realmente consenziente a quell'atto. Non faceva l'amore con Peer da mesi, per quanto lui avesse riciclato i ricordi dell'ultima volta, e non poteva scartare la possibilità di aver semplicemente deciso di illudersi che lei avesse finalmente ceduto. Non si era mai spinto tanto in là, per quel che ne sapeva, ma aveva un vago ricordo di essersi deciso a fare di tutto per nasconderne le prove, casomai capitasse. Ricordava con chiarezza Kate che cominciava a flirtare mentre facevano il giro della città di Carter, e poi iniziava a spogliarlo prima ancora che fossero usciti. Lui aveva disattivato ogni limite all'accesso del proprio corpo mentre lei gli sbottonava la camicia, e aveva gridato di stupore e piacere quando, a metà dei loro preliminari fisicamente plausibili, una seconda Kate invisibile, grande venti volte Peer, l'aveva raccolto nella mano, se l'era portato alla bocca e gli aveva leccato il corpo dalle dita dei piedi fino alla fronte, come un gigante goloso che succhia la glassa da una torta a forma di uomo. Nulla gli parve particolarmente improbabile. Se Kate aveva deciso di fare l'amore, era esattamente il genere di cosa che avrebbe creato. In sé e per sé non provava nulla. Avrebbe potuto sceneggiare quella fantasticheria erotica in modo che corrispondesse a quel che sapeva di lei, oppure scegliere il soggetto e poi riscrivere la sua "conoscenza" di Kate per adattarsi all'azione. In ogni caso, il software poteva aver formato una scia di ricordi falsi, una transizione plausibile dal loro incontro con Carter, che era sicuro essere successo per davvero, fino a questo istante. Tutti i ricordi di quando programmava l'illusione sarebbero stati momentaneamente soppressi. Kate smise di muoversi. Scosse il capo, spruzzandogli viso e petto di sudore, e disse: "Ci sei, o sei da qualche altra parte?" "Stavo per chiederti la stessa cosa." Lei fece un sorriso malizioso. "Ah. Allora forse questo corpo che speri sia io, te l'ha domandato per primo solo per tenerti tranquillo." Nel cielo, sopra la spalla destra di Kate, Peer poteva vedere una nuvola in movimento che assumeva una nuova forma, una scultura insolita che mimava i corpi sull'erba giù in basso. "E poi l'ha anche ammesso?" Kate annuì mentre iniziava lentamente ad alzarsi. "Certo. Per la stessa ragione. Quanti livelli di inganno occorrono perché ti scocci e dica: 'Vaffanculo, non m'interessa più?" Si sollevò finché non si trovarono quasi separati. Lui chiuse gli occhi, violando la geometria per leccarle il sudore tra le scapole senza muovere un muscolo. Lei rispose ficcandogli la lingua in entrambe le orecchie contemporaneamente. Lui rise e aprì gli occhi. La nuvola in cielo si era adombrata. Kate si abbassò di nuovo su di lui, tremando appena.

Disse: "Non lo trovi buffo?" "Cosa?" "Dei transumani che provano piacere stimolando le copie delle vie neurali responsabili della continuazione della specie. Tra tutte le possibilità, ci teniamo stretti a questa." "No, non lo trovo buffo. Mi sono fatto asportare le ghiandole dell'ironia. Quello o la castrazione." Lei gli sorrise. "Sai che ti amo. Ma te lo direi? O saresti abbastanza stupido da fingere che te l'abbia detto?" Cominciò a cadere una pioggia tiepida, dolce. Disse: "Non m'importa, non m'importa, non m'importa". Peer era seduto sul più basso dei quattro gradini di legno che conducevano al porticato posteriore della sua fattoria, e ogni tanto abbassava lo sguardo sui piedi nudi e sulle sottili braccia scure. Un ragazzo di campagna di dieci anni al crepuscolo. Sia l'ambiente sia il corpo glieli aveva ricreati Kate, e a lui piaceva quell'atmosfera serena. Niente famiglia inventata, nessun ruolo da interpretare, era un dipinto, non una commedia. Un luogo, un momento, che durava finché sceglieva di starci dentro. Lo scenario non era del tutto fotorealista, si notavano le sottili distorsioni della forma, del colore e della grana che rendevano impossibile dimenticarsi di essere in un'opera d'arte, però non si scorgevano indizi di tecnica bruta: nessuna pennellata visibile, nessun effetto luminoso alla Van Gogh. Violando l'estetica del tutto, una finestra di interfaccia gli stava sospesa di fronte, un metro sopra il terriccio cosparso di mangime per i polli. La struttura di clonazione insisteva a seguire una sequenza complicata di conferma. Peer continuava a ripetere: "Per favore, passiamo alla domanda finale, so benissimo quel che sto facendo", ma le icone con le parruccone e le toghe avvocatizie non la smettevano di comparire davanti alla finestra per dichiarare solennemente: "Deve leggere con attenzione questo monito. Prima di passare al prossimo stadio il suo modello encefalico sarà esaminato direttamente in cerca di prove di avvenuta comprensione completa". Era mille volte più scomodo che sloggiare, lo sapeva per certo, avendolo quasi fatto, ma poi sloggiare comportava meno complicazioni legali per la gente all'esterno. Il patrimonio di Peer era controllato da un'esecutrice che aveva firmato un contratto che la obbligava ad agire in conformità a "ogni comunicazione debitamente autenticata, comprese, ma non limitandosi a, simulazioni visuali e/o acustiche di un essere umano che appaia per fornire istruzioni o consigli". Cosa significasse debitamente autenticata girava attorno a una chiave a 99 numeri "crittata" nell'encefalomodello di Peer quando la sua Copia era stata generata dal file di scansione. La poteva richiamare consciamente, se costretto, nel caso improbabile di un'emergenza, ma di solito se ne serviva con un semplice atto di volontà. Aveva registrato una videocartolina, desiderato che fosse debitamente autenticata, ed ecco fatto. A meno che non gli rubassero la chiave direttamente dalla memoria di computer che conteneva i dati rappresentanti il suo cervello, Peer era l'unico software nel pianeta capace di crittare istruzioni al suo esecutore in forma compatibile con la chiave corrispettiva. Era la cosa più simile all'identità legale che possedesse. Per legge, a ogni clone realizzato da una Copia bisognava assegnare una nuova chiave. Spettava alla Copia iniziale, precedente alla clonazione, dividere i beni mondani tra i due sé futuri, o meglio, suddividerli tra i due portafogli dell'esecutore. Peer si diede da fare con le procedure tese ad assicurare alla struttura di clonazione che davvero intendeva quel che aveva già detto. Il clone non necessitava di beni propri. Peer l'avrebbe fatto "andare" di tasca propria, pagando per il tempo che funzionava. Non prevedeva di tenerlo cosciente per più di un paio di minuti, quel tanto che bastava per accertarsi di stare facendo la mossa giusta. Adesso quasi rimpiangeva di non avere Kate con sé. Lei si era offerta, ma lui le aveva risposto di no. Sarebbe stato ben lieto del suo aiuto, ma quella era una cosa da fare da solo. Finalmente l'unità disse: "Questa è la sua ultima possibilità di cancellare. È sicuro di voler

procedere?" Peer chiuse gli occhi. Quando vedrò il mio originale seduto sotto il porticato, saprò chi sono, e l'accetterò. Disse: "Sì, ne sono sicuro". Peer non sentì alcun cambiamento. Aprì gli occhi. Il suo nuovo gemello sostava sul tratto di terreno dove prima si apriva la finestra d'interfaccia, e lo guardava a occhi sbarrati. Peer fu scosso da un brivido. Riconobbe il ragazzo come se stesso, e non solo dal punto di vista intellettuale: l'opera di Kate comprendeva dei ritocchi a ogni parte del suo cervello che avesse a che fare con l'immagine corporea, in modo da non rimanere scioccato guardandosi in uno specchio, o perlomeno non più di quanto nel sentire le proprie membra camminando. Ma l'effetto non consisteva tanto nel vedere attraverso il "camuffamento" del corpo decenne, quanto nel ritrovarsi a pensare al clone, e a se stesso, come se avessero davvero quell'età. Come faceva a esiliare quel fanciullo? Peer scartò quel concetto assurdo. "Beh?" Il clone sembrava frastornato. "Io..". Peer lo stimolò. "Sai bene cosa voglio sentire. Sei pronto? Sei contento del tuo destino? Ho preso la decisione giusta? Adesso sei l'unico a saperlo." "Ma non lo so." Guardò implorante Peer, come se cercasse una guida. "Perché sto facendo questa cosa? Ricordamelo." Peer fu colto alla sprovvista, ma un minimo di sconcerto era prevedibile. La sua voce gli suonava "normale" grazie agli adattamenti neurali, mentre il clone sembrava ancora un bambino spaventato. Disse con tono gentile: "Kate. Vogliamo stare con lei. Tutt'e due le Kate..". Il clone assentì con fervore. "Certo." Ebbe una risata nervosa. "E certo che sono pronto. Tutto a posto." Il suo sguardo scrutò l'aia, come se stesse cercando una via di fuga. Peer sentì una stretta al petto, poi riprese con voce piana: "Non sei costretto a continuare, se non vuoi. Lo sai. Puoi sloggiare subito, se lo preferisci". Il clone sembrò più allarmato che mai. "Non voglio! Voglio imboscarmi con Kate." Esitò un attimo, poi aggiunse: "Là sarà più felice, più sicura. E voglio stare con lei, voglio conoscere quel lato di lei". "Allora cosa c'è che non va?" Il clone s'inginocchiò nel terriccio. Per un secondo Peer credette che stesse singhiozzando, poi capì che era il verso di una risata. Il clone si ricompose. "Non c'è nulla che non va, ma come ti aspetti che la prenda? Noi due, tagliati fuori da tutto il resto. Non soltanto dal mondo reale, ma da tutte le altre Copie." "Se ti senti solo, puoi sempre generare nuova gente. Avrai accesso al software di ontogenesi senza bisogno di preoccuparsi del rallentamento." Il clone riprese a ridere. Le lacrime gli rigarono il volto. Stringendosi nelle braccia, crollò a terra, su un fianco. Peer lo guardò stupito. Il clone disse: "Sono qui che cerco di farmi coraggio per il matrimonio, e già tu mi minacci con dei bambini". Di scatto si allungò per afferrare Peer da una caviglia, trascinandolo giù dal gradino. Peer cadde a terra, sul sedere, con un tonfo rimbombante. La sua prima reazione fu di inibire la facoltà del clone di toccarlo, ma si trattenne. Non correva alcun pericolo, e se il suo gemello si voleva sfogare sul fratellocreatore, poteva sopportarlo. In fondo erano alla pari. Due minuti dopo, Peer era steso a faccia in giù nel terriccio, con le braccia bloccate dietro la schiena. Il clone gli s'inginocchiò sopra, a corto di fiato ma trionfante. Peer disse: "D'accordo, hai vinto tu. Adesso mollami, altrimenti raddoppio in altezza, metto su quaranta chili e mi alzo per stenderti". "Sai che dovremmo fare?" "Una stretta di mano e dirsi addio."

"Lanciare la monetina." "Per cosa?" Il clone rise. "Per cosa credi?" "Hai detto che eri contento di continuare." "Lo sono. Ma anche tu dovresti. Ho detto lanciamo la monetina. Se vinco io, ci scambiamo le chiavi numeriche." "È illegale!" "Illegale!" Il clone era sprezzante. "State a sentire la Copia Nazione solipsista che invoca le leggi del mondo! È presto fatto. Il software c'è già. Devi solo dire di sì." Era difficile parlare. Peer sputò la sabbia, ma aveva qualche seme incastrato tra i denti che non riusciva a staccare. Però provava una strana riluttanza a "barare", a rimuovere il seme dalla bocca o il clone dalla schiena. Era passato tanto tempo dall'ultima volta che era stato costretto a sopportare il minimo disagio che adesso la novità sembrava prevalere sul fastidio. Disse: "Va bene, ci sto". E se perdeva? Ma perché temere una cosa del genere? Cinque minuti prima era stato preparato da far nascere, a diventare, il clone da imboscare. Crearono insieme la moneta, l'unico modo per essere certi che non fosse sottoposta a influssi nascosti. L'editor di realtà che richiamarono insieme offrì un oggetto standard già pronto allo scopo, che rifinirono in forma di moneta da una sterlina. La fisica del lanciare una monetina reale non era coinvolta con l'oggetto. Ogni Copia avrebbe potuto calcolare ed eseguire facilmente un lancio col pollice che portasse a un risultato prefissato. Invece, così, sarebbe stato controllato da un numero casuale generato negli anfratti del sistema operativo. Peer disse: "Io lancio, tu scegli", esattamente nello stesso momento in cui lo disse il clone. Si mise a ridere. Il clone sorrise debolmente. Peer stava per annuire, poi decise di aspettare. Qualche secondo più tardi, si convinse: "Va bene lancia tu". Mentre la moneta volava, Peer si domandò se inserirla in un secondo oggetto, un guscio sottile e invisibile sotto il suo esclusivo controllo, ma la lunga lista di attributi del lancio valido probabilmente comprendeva l'annullamento se le vere facce venivano nascoste. Gridò "Testa! " un attimo prima che toccasse il suolo. I due caddero a quattro zampe, quasi cozzando il capo tra di loro. Si avvicinò una gallina, che Peer scacciò con un calcio all'indietro. Il profilo del presidente Kinnock luccicava nella polvere. Incrociò lo sguardo del clone. Peer fece tutto il possibile per non sembrare sollevato, pur senz'arrivare a tagliare i legami col proprio corpo. Cercò di interpretare l'espressione del clone, senza riuscirci. Vide soltanto un riflesso del suo crescente stordimento. Pirandello disse che è impossibile provare vere emozioni mentre si guarda in uno specchio. Peer decise di accettarlo come un segno positivo. Erano ancora una persona sola, in fondo, ed era quel che importava. Il clone si alzò in piedi, togliendosi la polvere da ginocchia e gomiti. Peer prese dal taschino di dietro dei pantaloni una tessera di biblioteca ologrammata e gliela porse. Era un'icona per una copia di tutti gli ambienti, strutture su misura, corpi, ricordi e altri dati che aveva accumulato dopo la resurrezione. Il clone disse: "Non ti preoccupare per me, o per Kate. Ci proteggeremo l'un l'altro. Saremo felici". Mentre parlava si trasformò lentamente in un corpo più maturo. "Idem come sopra." Peer strinse la mano del giovane. Poi richiamò una finestra di controllo e fermò il clone, lasciando il corpo immobile, visibile come icona per il file dell'istantanea. Lo ridusse alle dimensioni di pochi centimetri e lo appiattì a una cartolina bidimensionale su cui scrisse, sul retro:'per Malcolm Carter. Poi scese lungo la strada, per circa un chilometro per andare a uno dei piccoli tocchi di Kate, una

cassetta delle lettere recante la scritta Us Mail, in cui imbucò la cartolina.

19 [REMIT MOT PAUCITY] Giugno 2051

L'anestesiologo disse: "Conti all'indietro a partire da dieci". Maria scandì: "Dieci". Sognò di arrivare alla porta di Francesca con una valigia zeppa di soldi. Mentre percorreva il corridoio alle spalle della madre, la valigia si apriva e le banconote da cento dollari svolazzavano fuori, riempiendo l'aria come coriandoli. Francesca si girava verso di lei, radiosa e in salute, e le diceva intenerita: "Cara, non dovevi. Ma ti capisco. Non te li puoi portare appresso". Maria scoppiava a ridere. "Tu non te li puoi portare appresso." Suo padre era in soggiorno, vestito per le nozze, anche se non era tanto giovane. Le rivolse un sorriso raggiante e allargò le braccia per accoglierla. Alle sue spalle c'erano i suoi genitori, e quelli di Francesca. Mentre si avvicinava, vide dall'alto che insieme ai nonni c'erano i cugini e le zie, i bisnonni e le prozie, file su file di parenti e antenati che arrivavano fino in fondo alla casa, e tutti ridevano e chiacchieravano. Il denaro li aveva riportati in vita tutti quanti. Come poteva esser stata tanto egoista da negargli questa riunione di famiglia? Maria avanzò tra la folla, salutando persone che non aveva mai saputo fossero esistite. I suoi settimi cugini dagli occhi scuri le baciarono la mano e mormorarono complimenti in un dialetto cadenzato che non capiva. Vedove velate in eleganti abiti neri si tenevano a braccetto con i mariti risorti. I bambini correvano tra le gambe degli adulti e rubavano manciate di cibo che ingollavano mentre correvano. Si scoprì che anche la neurologa della clinica era una lontana parente. Maria le mise le mani a coppa all'orecchio, gridando sopra il baccano della festa: "Sono già stata scansionata? La mia Copia se ne ricorderà?" La neurologa spiegò che la scansione catturava soltanto i ricordi impressi in permanenza come cambiamenti nelle scariche sinaptiche, quindi l'elettrochimica fugace di quel sogno sarebbe andata perduta per sempre, e aggiunse ambiguamente: "Perduta per chiunque non ce l'abbia". Maria sentì che si stava svegliando. Temendo di colpo di poter essere la Copia, si sforzò di restare nel sogno, come se le fosse concesso di tornare ad attraversare la folla, risalire la trama e andarsene da un'uscita diversa. Ma la scena divenne via via indefinita e sempre meno convincente. Avvertiva i segni del corpo che si risvegliava, le spalle dolenti, la lingua impastata. Aprì gli occhi. Era sola nella confortevole stanza di risveglio della clinica Landau. Prima di somministrarle l'anestetico l'avevano portata a fare un giro perché sapesse esattamente cosa l'aspettava. Però trascorse qualche secondo prima che le verità del sogno svanissero. Suo padre era morto. I nonni erano morti. Non c'era stata nessuna grande riunione di famiglia. Non ci sarebbe mai stata. Quanto alla Copia… il suo file di scansione non esisteva nemmeno, per il momento, i dati tomografici grezzi ci mettevano delle ore a essere processati in una carta anatomica ad alta risoluzione. E lei poteva sempre cambiare idea per tenere lontani i risultati dalle grinfie di Durham. Aveva pagato lui la clinica per la scansione, ma se Maria si rifiutava di consegnare il file Durham non ci poteva fare nulla. La stanza era illuminata da luci indirette, decorata con fiori azzurri e arancioni, privi di odore. Maria chiuse gli occhi. Se la logica di Durham contava qualcosa, i dati tomografici grezzi potevano forse processarsi da soli, ritrovarsi dotati di coscienza, con la stessa facilità di una Copia che è stata tagliuzzata e messa in funzione a casaccio. Non c'era bisogno di un file di scansione completo. E nemmeno di essere scansionati. I medesimi dati esistevano di sicuro sparpagliati nell'universo, che fossero stati raccolti o meno dal suo cervello e assemblati in quel che lei riteneva essere un unico posto. Infatti, se Durham aveva ragione, se gli eventi che lui credeva avessero luogo nell'universo Tvc

potevano ritrovarsi nel pulviscolo, allora quegli eventi sarebbero accaduti, comunque. Non contava se lo faceva qualcuno di questo mondo. L'intero progetto Giardino dell'Eden era superfluo. Poteva riuscirci ogni permutazione del pulviscolo capace di percepirsi, di trovare un senso in sé. E tutto quel che avrebbe ottenuto rifiutando di farsi scansionare, sarebbe stato negare alla Maria di quella permutazione una storia che sembrasse sovrapporsi alla propria vita specifica. Mentre una terza donna, in un altro mondo, un'altra permutazione, avrebbe preso il suo posto in quel ruolo. Maria aprì gli occhi. Nella sua mente era appena riaffiorata la prima cosa che voleva fare al risveglio. Ogni scanner era programmato per riconoscere in tempo reale, prima di tutta la penosa elaborazione dati che seguiva, lo spettro di risonanza magnetica di quattro o cinque tinte speciali, che potevano essere utilizzate per l'allineamento e l'identificazione. Il tecnico dello scanner le aveva prestato cortesemente un pennarello "numero tre", programmando lo scanner in modo da non rispondere a quel colore particolare. Maria ritrasse le mani da sotto le lenzuola. Sul palmo sinistro c'era scritto: Non sei la copia. Si leccò le dita, cercando di cancellare le parole inutili. Maria rientrò nell'appartamento di Sidney nord alle dodici e mezzo. Sul tavolo di cucina di Durham erano affiancati due terminali, per il resto il locale era spoglio come l'ultima volta che era passata di lì. Anche se tecnicamente non era necessario, Maria aveva insistito affinché lei e Durham si trovassero nello stesso luogo fisico per tutta la fase che lui definiva "il lancio", i primi momenti di funzionamento dell'universo Tvc come software su un computer reale, l'atto che doveva teoricamente seminare un universo indipendente, autonomo, che partiva laddove cessava la versione relativa all'hardware del mondo reale. Almeno in questo modo lei poteva controllare i tasti che lui premeva e le parole che pronunciava, senza starsi a domandare se le facevano vedere quel che succedeva realmente a quel livello. Non sapeva da cosa si voleva proteggere, ma Durham era un uomo molto intelligente con qualche pallino molto strano, e non c'era motivo di credere che le avesse svelato l'intera gamma delle sue illusioni. I suoi clienti avevano confermato parte della storia, e avrebbero avuto le risorse per controllarla meglio di lei, ma Durham poteva sempre aver mentito a proposito di quel che gli frullava nel cervello. Voleva fidarsi di lui, voleva credere di aver trovato finalmente la verità, ma era difficile porre un limite alla portata dei propri errori potenziali. Le pareva di conoscerlo da troppo tempo per temere seriamente per la propria incolumità fisica, ma restava sempre la possibilità che tutto quel che credeva di aver capito su quell'uomo si rivelasse ancora una volta un fraintendimento totale. Se lui fosse tornato dal lavello brandendo un coltellaccio da cucina, annunciandole con voce incolore la sua intenzione di sacrificarla allo Spirito della Luna Nuova, Maria non avrebbe avuto alcun diritto di sentirsi tradita, o sorpresa. Non poteva pretendere di vivere alle spalle dei proventi della follia, e nello stesso tempo di dare anche per scontati i più normali parametri del comportamento civile. Il Durham in carne e ossa era soltanto metà del problema. Una volta avviato il programma che stimolava un automa cellulare Tvc, il piano prevedeva che né lei né Durham intervenissero. Ogni manipolazione esterna avrebbe violato le regole dell'automa, le leggi fondamentali del nuovo universo, trasformando l'intero sforzo in una scimmiottatura. Solo la Copia di Durham, fatta girare sui computer simulati Tvc, poteva agire in armonia con quelle leggi. Gli sarebbe sempre restata l'opzione di mandare per aria il progetto, staccando la spina, ma sotto ogni altro aspetto la Copia si sarebbe attenuta ai comandi. (Certo, annullare la simulazione se qualcosa andava storto non avrebbe impedito, agli occhi di Durham, la generazione di un universo indipendente oltre il loro controllo… ma poteva lasciare abbastanza tempo computer da spendere per un secondo tentativo.) Quasi del tutto impotente, dopo l'avvio dell'universo, il solo modo che gli restava per influenzare quel che succedeva era attraverso la configurazione Giardino dell'Eden, che comprendeva tutti i programmi

che il reticolo Tvc avrebbe fatto girare all'inizio. Maria aveva scritto personalmente parte di questo software interno del lancio, Durham aveva scritto, o commissionato, il resto, ma lei aveva controllato tutto coi suoi occhi. E aveva inserito una salvaguardia: a tutte le Copie, tranne quella di Durham, sarebbe stato impedito di funzionare fin quando i processori Tvc non avessero risolto un'equazione matematica volutamente ostica. Maria aveva considerato che le risorse di calcolo combinate di tutto il mondo non potevano venire a capo del problema in meno di dieci anni, e trenta milioni di dollari meno i costi di base non sarebbero certo bastati. Agli occhi di Durham e dei suoi seguaci non c'era nessun ostacolo: le risorse sempre crescenti del fertile universo Tvc l'avrebbero reso una sciocchezza, risolvendo l'equazione a una settimana o due dal lancio. Ma in mancanza della nascita di un universo del genere, e finché un test simile non fosse stato superato, non c'era alcuna possibilità che una seconda Maria Deluca o qualcun altro si svegliasse. Era la sua garanzia contro delle Jonestown virtuali. Un altro profeta solitario che si accendeva e si spegneva in un lampo. Durham preparò del caffè solubile. Maria osservò quella stanza spartana: "Sa, non è sufficiente. Servirebbero duecento persone con le cuffie e uno schermo gigante che occupi un'intera parete. Come una vecchia missione spaziale della Nasa". Durham alzò la voce, oltre il rumore dell'acqua che bolliva. "Non si preoccupi, utilizzeremo più potenza di calcolo al secondo di quella che usò la Nasa per l'intero programma Apollo." Potenza di calcolo. Un'altra preoccupazione. Maria s'inserì nella Borsa Qips. Il tasso era salito un tantino dall'ultima volta, ma finora non c'erano segnali di quel che temeva. Nel caso che l'Operazione farfalla piombasse ancora sul mercato, proprio quel giorno fra tutti i giorni possibili, il Giardino dell'Eden sarebbe stato bloccato, procrastinato fino a quando il tasso Qips non fosse tornato a livelli normali. Per Durham e seguaci non avrebbe fatto la minima differenza, anche se il programma di lancio fosse stato estromesso dalla rete a metà e completato solo giorni o settimane dopo. Il tempo reale era ininfluente. Maria ne poteva apprezzare la logica, ma il pensiero di un rinvio o di un rallentamento inatteso la faceva ancora star male per l'ansia. Ogni consulenza legale che aveva richiesto stabiliva che né lei né Durham avevano alcuna probabilità di essere incriminati, e, anche se li accusavano, un ricorso avrebbe avuto di sicuro successo. Non di meno, ogni giorno passato a lavorare con Durham come sua "complice" consapevole l'aveva resa più vulnerabile ai retaggi delle autorità. Hayden l'aveva trattata con una certa freddezza quando aveva confessato di aver rinunciato al suo ridicolo ruolo "di copertura". Il rischio di fastidi ulteriori non sarebbe scomparso nel momento in cui il progetto fosse giunto a compimento, ma il sollievo sarebbe stato ugualmente considerevole. Stava cominciando a rimpiangere di aver onorato la sua promessa di non cercare di registrare le dichiarazioni dei clienti di Durham mentre le garantivano di essere partecipanti pienamente informati del progetto. I messaggi autenticati che aveva visionato, su terminali pubblici, potevano anche non essere l'equivalente di una testimonianza umana, ma averli al sicuro in un chip l'avrebbe fatta sentire maggiormente tutelata. Indipendentemente dallo status legale delle Copie, non poteva essere processata per truffa, dimostrando che le "vittime del crimine" sapevano esattamente cosa stavano contrattando. Durham posò la tazza di caffè sul tavolo. Maria mugugnò un grazie mentre le si sedeva accanto. Durham disse: "Nessuno scrupolo dell'ultimo minuto? Se vuole, fa ancora in tempo a tirarsi indietro". Lei tenne gli occhi fissi sullo schermo, sul discontinuo grafico a torta della Borsa Qips. "Non mi tenti." Come se pensasse seriamente di poter buttare a mare l'unica vera possibilità di far scansionare Francesca, dopo tutto quel lavoro, tutte quelle ansie, per nessuna ragione più valida del timore risibile e microscopico che quell'universo artificiale potesse davvero volgere in un esistenza autonoma. Il terminale di Durham lanciò un segnale. Maria guardò lo schermo. Un box di messaggio indicava Priorità comunicazione. Distolse lo sguardo mentre lui esaminava il testo. "A proposito di scrupoli dell'ultimo minuto, Riemann ha cambiato idea. Vuole entrare". Maria ribatté, irritata: "Beh, gli risponda che è troppo tardi. Che ha perso il treno". Non faceva sul

serio. Da quel che lei sapeva delle finanze del progetto, Durham alla fine ci sarebbe andato sì e no in pari. Un biglietto in più avrebbe risolto del tutto i suoi problemi finanziari. "Si rilassi, ci metteremo una mezz'ora al massimo per inserirlo. E il suo pagamento coprirà ben più dell'aumento dei dati. Potremo far durare più a lungo il lancio." Maria ci mise un po' per afferrare il concetto. Poi disse: "Sta per buttar via quasi due milioni di Ecu per allungare una cosa che..". Durham sorrise. "Che cosai Che avrebbe funzionato comunque?" "Che lei ritiene avrebbe funzionato comunque! " "Più riesco a far vedere l'universo Tvc alla mia Copia, più sarò contento. Non so cosa ci vorrà per ancorare le regole dell'automa, ma se dieci esperimenti a prova di bomba suonano bene, allora undici suonano meglio." Maria scostò la sedia per allontanarsi dal terminale. Durham digitò sulla tastiera, prima richiamando i programmi per ricalcolare la configurazione Giardino dell'Eden, in modo da comprendere il nuovo passeggero e il suo bagaglio, poi deviando la manna arrivata da Riemann dritta nel conto Jsn del progetto. Lei disse: "Che ha che non funziona, lei? Due milioni di Ecu sono più di due milioni di dollari! Ci poteva campare per il resto della vita! " Durham non smise di battere, mentre faceva passare i documenti di Riemann attraverso una serie di controlli giuridici. "Me la caverò lo stesso!" "Allora li dia in beneficenza!" Durham aggrottò la fronte, poi replicò senza perdere la calma: "Mi par di capire che Thomas Riemann faccia tutti gli anni laute donazioni contro la fame nel mondo e per le ricerche alimentari. Ha deciso di investire questi soldi per un posto nel mio santuario, e non è compito mio incanalare i suoi fondi verso quella che lei o io possiamo decidere sia la causa più valida." Le lanciò un'occhiata, poi aggiunse, con finta solennità: "Signorina Deluca, si chiama truffa. Può andare in prigione per una cosa del genere". Maria era irremovibile. "Poteva tenersi qualcosa per sé. Per questa vita, per questo mondo. Non credo che i suoi clienti si aspettino che faccia tutto questo per niente". Durham concluse l'operazione al terminale prima di girarsi verso di lei. "Non mi aspetto che capisca. Lei tratta questo progetto come se fosse uno scherzo, e mi può anche andar bene. Ma non si aspetti che lo gestisca in questo modo." Maria non sapeva nemmeno per cosa fosse più arrabbiata: per il lancio ritardato, per quello spreco osceno di soldi… o per Durham seduto lì, come sempre soddisfatto di sé. Disse: "Questo progetto è uno scherzo. Trecento milioni di persone vivono in campi profughi, e lei offre un santuario a sedici miliardari! Da cosa devono essere protetti? Non ci sarà mai una rivoluzione antiCopie! Non le disattiveranno mai! Sa bene quanto me che se ne staranno sedute là ad arricchirsi per i prossimi diecimila anni! " "Possibile." "Allora lei è un truffatore, no? Anche se il suo 'santuario' può nascere sul serio, anche se dimostra l'esattezza della sua bella teoria, cosa ci guadagnano i suoi finanziatori? Ha spedito i loro cloni in un confino solitario, nient'altro. Tanto valeva sbatterli in una scatola nera in fondo a un pozzo di miniera." Durham replicò senza alzare la voce: "Non è del tutto esatto. Mi parla di Copie che possono sopravvivere diecimila anni. Che ne dice allora di dieci miliardi? Cento miliardi di anni?" Lei si fece seria. "Nulla può durare tanto. Non gliel'hanno detto? Hanno trovato abbastanza materia scura da invertire l'espansione dell'universo tra meno di quaranta miliardi di anni..". "Esatto. Questo universo non durerà tanto." Maria assentì con sarcasmo, e cercò di aggiungere qualcosa di sprezzante, ma le parole le rimasero chiuse in gola.

Durham continuò serafico: "L'universo Tvc non collasserà mai. Mai. Cento miliardi di anni, cento trilioni, non fa differenza, sarà sempre in espansione". Maria fece per ribattere debolmente: "L'entropia..". "Non è un problema. Anzi, 'espansione' è un termine errato, l'universo Tvc si accresce come un cristallo, non si espande come un palloncino. Ci rifletta. Allargare lo spazio ordinario richiede entropia, tutto si allontana, perde ordine. Costruire altro automa cellulare Tvc le dà più spazio per i dati, più potenza di calcolo, più ordine. La materia comune alla fine può decadere, ma questi computer non sono fatti di materia. Non c'è nulla nelle regole dell'automa cellulare che gli impedisca di durare in eterno." Maria non capiva più cosa si era immaginato sino a quel momento. L'universo di Durham, fatto dello stesso "pulviscolo" di quello vero, appena ricombinato, che subiva il medesimo destino? Non avrebbe potuto riflettere granché su quel problema, perché tanto la risposta era insensata. La ristrutturazione era nel tempo quanto nello spazio, l'universo di Durham poteva prendere un punto dello spazio-tempo da poco prima del Big Crunch e seguirlo per altri dieci milioni di anni a.C. E anche se esisteva solo un totale limitato di "pulviscolo" a disposizione, non c'era motivo per non riutilizzarlo in combinazioni diverse, ancora e ancora e ancora. Il destino dell'automa Tvc doveva soltanto disporre di un suo significato interno, e la faccenda non avrebbe avuto motivo di finire mai. Disse: "Così a quella gente ha promesso… l'immortalità?" "Certo." "Immortalità letterale? Vivere più dell'universo?" Durham fece una smorfia innocente, ma stava assaporando di sicuro il colpo che le aveva assestato. "Questo è quanto significa quella parola. Non: morire molto tardi. Solo: non morire, punto e basta." Maria appoggiò la schiena alla parete e rimase a braccia conserte mentre cercava di cancellare la sensazione che tutte quelle chiacchiere fossero solo un'allucinazione all'interno del reparto psichiatrico dell'ospedale di Blacktown. Pensò: Appena avranno fatto la scansione di Francesca, io me ne andrò in vacanza. Passerò a trovare Aden a Seul, se proprio devo. Tutto pur di andarmene da questa città, da quest'uomo. Disse: "Idee come le sue sono armi potenti. Uno di questi giorni farà del male a qualcuno". Durham parve ferito. "Ho cercato soltanto di essere onesto, lo so: all'inizio le ho mentito, e mi dispiace. Non avevo il diritto di farlo. Ma che dovevo fare con la verità? Tenermela rinchiusa in testa? Nasconderla al mondo? Non dare a nessun altro la possibilità di credere, o di non credere?" Le inchiodò gli occhi addosso, calmo e lucido come sempre. Lei distolse lo sguardo. Lui continuò: "Quando sono uscito dall'ospedale volevo render pubblico tutto quanto. E ci ho anche provato… ma nessuna persona di potere pareva interessata, e pubblicare nelle riviste di divulgazione scientifica sarebbe stato come ammettere che erano tutte fesserie. Cos'altro potevo fare, oltre a cercare finanziatori privati?" "Capisco. Lasci perdere. Ha fatto quel che credeva di dover fare, non la biasimo per questo. " Quei luoghi comuni quasi la facevano vomitare, ma ormai pensava soltanto a come farlo tacere. Era stanca di sentirsi ricordare che quelle idee che per lei erano soltanto un mezzo per un fine - le idee a cui lei poteva girare le spalle nel giro di otto ore, e per sempre - costituivano l'intera vita di quell'uomo. Lui la osservò attentamente, come se desiderasse sinceramente un consiglio. "Se avesse creduto a tutto quello in cui io credo, se lo sarebbe tenuto per sé? Avrebbe passato la vita a fingere davanti al mondo di esser soltanto una pazza?" Un segnale del terminale di Durham le risparmiò la risposta. La configurazione Giardino dell'Eden era stata ricalcolata, l'istantanea di Thomas Riemann adesso era inserita nell'equivalente del Big Bang per l'automa cellulare. Durham girò la sedia per trovarsi di faccia allo schermo. Propose allegro: "Tutti a bordo della nave dei folli! "

Maria gli si sedette accanto, allungandosi a toccargli la spalla, titubante. Senza guardarla, lui le strinse dolcemente la mano, poi la spostò. Secondo un'inveterata tradizione dell'automazione cellulare, il programma che avrebbe lanciato in vita l'universo Tvc si chiamava Fiat. Quando Durham premette un tasto, su entrambi gli schermi comparve un'icona fiammeggiante. Si voltò verso Maria. "A lei l'onore." Lei stava per obiettare, ma non sembrava valesse la pena di mettersi a discutere. Aveva fatto metà del lavoro, ma questa restava una creazione di Durham, chiunque fosse a tagliare il nastro. Premette l'icona, che esplose come una sgargiante pirotecnia di bassa lega, lasciando un puntaspilli di scie rosse e verdi a brillare sullo schermo. "Volgarissimo." Durham sorrise. "Speravo le piacesse." Lo svolazzo decorativo si dissolse, e comparve un cubo celeste scintillante, una rappresentazione dell'universo Tvc. Lo stato Giardino dell'Eden conteneva un miliardo di processori pronti, mille per ogni lato del cubo, ma ormai quel censimento esatto era già scaduto. Maria riusciva appena a scorgere le macchine singole in forma di minuscoli cristalli. Ogni punto comprendeva sessanta milioni di cellule automa, senza contare la memoria che si estendeva nelle tre dimensioni extra, nascosta alla vista. I dati precaricati su quasi tutti i processori erano misurati in terabyte: file di scansione, librerie, database, il seme di pianeta Lambert e il suo Sole, più i tre spogli pianeti fratelli. Tutto era stato assemblato se non su un computer fisico (l'automa Tvc era probabilmente disperso su quindici o venti gruppi di processori), almeno secondo un tutto logico. Un unico schema. Durham ridusse la scansione temporale fino a far rallentare il bagliore azzurrino a un barbaglio stroboscopico, quindi a un'alternanza fissa di colori distinti. I processori esterni stavano costruendo delle proprie copie. Secondo quella modalità visiva, blu significava processori completi e funzionanti, bianco le macchine semifinite. Ogni strato di blu faceva crescere uno strato di bianco, che di colpo passava al blu e così via. La pelle di questo universo conteneva le istruzioni per costruire un altro strato esattamente uguale (compresa una copia delle medesime istruzioni), e poi aspettare ulteriori comandi passati dal fulcro. Durham ingrandì di un fattore di duecento, rallentò ancora la cronologia e poi mutò la rappresentazione in modo da mostrare le singole cellule automa come simboli a codice colore. I processori furono trasformati da anonime scatole blu o bianche in complicati labirinti tridimensionali multicolori, una filigrana rettilinea animata da scintille di luce. Negli spasmi della riproduzione, ogni processore sembrava germogliare centinaia di paia di fini "cavi" rossi e verdi, che crescevano dritti nello spazio vuoto circostante fino a raggiungere tutti la medesima lunghezza, e a quel punto ruotavano di centottanta gradi secchi e ricominciavano a concrescere nella direzione opposta. Brillanti di striature mobili elaborate, i cavi zigzagavano tra la superficie del computer matrice e un piano di confine non segnalato, fino a riempire del tutto la regione, come una strana seta elettronica che si tesse in un bozzolo solido. In primo piano, i fili si mostravano come lunghe linee di cellule contrassegnate da punte di freccia, alcune rese in colori più brillanti a rappresentare gli stati "attivati". Strisce lucenti composte nel codice binario del buio e del brillante si spostavano da freccia a freccia lungo il cavo: i dati del progetto della macchina figlia estratti dalla memoria centrale. Con una scansione temporale ancor più rallentata era possibile seguire nei particolari tutto il processo. Nel punto in cui un impulso luminoso toccava il capo di un cavo, il "vuoto" trasparente dello stato zero si trasformava in una cellula "embrionale", mostrata come un cubo grigio anonimo. Dati successivi indicavano alla nuova cellula cosa diventare, ogni impulso, o assenza di impulso, la convertiva in uno stato di transizione specializzato, sincronizzandola sul particolare stato finale richiesto. I cavi crescevano

dal computer matrice seguendo questo principio, si allungavano accrescendosi all'estremità. Appena avevano riempito l'intera regione che doveva occupare la macchina figlia, tornavano indietro, ritraendosi un passo per volta, dipanando il loro bozzolo zigzagante e lasciandosi alle spalle quanto richiesto dalla pianta del progetto. L'intero processo appariva inefficiente al limite del grottesco, visto che si sprecava molto più tempo ad allungare e ritirare i fili che non a creare le cellule della macchina figlia, eppure manteneva le regole dell'automa alla semplicità più assoluta. Durham disse: "Mi sembra a posto. D'accordo se procediamo?" "Certo." Maria era ipnotizzata, si era dimenticata la propria premura, si era scordata di se stessa. "Avvii pure." Alle velocità a cui potevano seguire gli eventi a livello di processori individuali, per non parlare di cellule individuali, non si poteva fare nulla di utile. Quando Durham riportò la cronologia al massimo disponibile, la griglia divenne una macchia sfocata. In contrasto, lo stadio seguente sarebbe stato penosamente lento. Durham preparò caffè e panini. Tutte le spese generali del funzionamento di una Copia, su un sistema di computer che era a sua volta una simulazione, comportavano un rallentamento di circa duecentocinquanta. Più di quattro minuti di tempo reale per secondo soggettivo. Non c'era neanche da parlare di comunicazione a due vie, l'universo Tvc era ermetico, nessun dato che non fosse presente sin dall'avvio poteva influenzarlo in alcun modo, però potevano sempre spiare quel che succedeva. Ogni ora erano in grado di verificare quattordici secondi di quel che aveva combinato la Copia di Durham. Maria controllò ad altri livelli, a partire dal software che girava direttamente sulla griglia Tvc. Il "linguaggio macchina" dei computer Tvc era arcano e ridicolo più o meno quanto quello di ogni ipotetica macchina di Turing, esadimensionale o meno che fosse, ma era stato abbastanza semplice istruire un metaprogrammatore a scrivere, e convalidare rigorosamente, un programma che permettesse loro di simulare i normali computer moderni. Perciò i gruppi di processori di Tokyo o Dallas o Seul stavano simulando un automa cellulare contenente un reticolo di arcani computer immateriali, che a loro volta stavano simulando la logica (se non la fisica) degli stessi gruppi di processori. Da lì in poi, tutto procedeva esattamente come in una macchina reale, solo molto più lentamente. Maria mangiò formaggio e lattuga tra fette grosse di pane bianco. Era martedì pomeriggio, quasi tutti gli appartamenti vicini erano silenziosi e la strada sembrava morta. Gli isolati circostanti di palazzi per uffici erano sfitti, con appena qualche squatter furtivo. Nei punti in cui il sole penetrava alla giusta angolazione nell'edificio accanto, Maria poteva vedere abiti appesi ad asciugare su fili tesi tra le pareti mobili degli uffici. Durham mise su della musica, un'opera del XX secolo, Einstein on the Beach. Non avendo un impianto, richiamò il pezzo da una libreria che aveva comprato per il Giardino dell'Eden e lo fece uscire in sottofondo dagli altoparlanti del terminale. Maria domandò: "Cosa farà quando sarà finito?" "Completerò l'intera serie di cinquanta esperimenti. Avvierò il dispiegamento di pianeta Lambert. Festeggerò per una settimana. Passeggerò per il corso principale di Permutation City. Aspetterò che la sua serratura si sblocchi, Maria. Sveglierò i miei passeggeri nei loro universi privati, sperando che qualcuno sia disponibile a parlare con me, ogni tanto. Inizierò a recuperare Dostoevskij. In originale..". "Già, molto divertente. Ha detto io, non lui." "Mi piace pensare che siamo inseparabili." "Sul serio." Lui si strinse nelle spalle. "E lei che farà?" Maria posò il piatto vuoto e si stiracchiò. "Oh… dormirò fino a mezzogiorno, per una settimana. Resterò a letto a chiedermi come fare per convincere mia madre a farsi scansionare senza che sembri un'imposizione." "Neanche a pensarci! "

Maria aggiunse, senza traccia di emozione: "Sta morendo. E si può salvare, senza far del male a nessuno. Senza rubare il cibo di bocca alla prossima generazione, o quale può essere il motivo per cui ritiene che lo scanning sia un tal crimine. Lei crede davvero, sul serio, che non voglia vivere? Oppure che lo vorrebbe, se ci potesse riflettere più serenamente, senza tutto il senso di colpa e le stronzate moralistiche che sono state propinate a quelli della sua generazione?" Durham non voleva prendere posizione. "Non conoscendola non posso darle una risposta". "È una figlia degli anni Novanta. Probabilmente le sue maestre d'asilo le hanno insegnato che il massimo dell'esistenza è fertilizzare una foresta tropicale quando muori." Maria ci pensò su. "E il bello è che… lo può ancora fare. La scansioni, la fai passare per un tritacarne… e spargi i resti sul Daintree." "Lei è una donna malata." "Presto avrò i soldi. Mi posso permettere di scherzarci sopra." I loro terminali suonarono in contemporanea. I primi quattordici secondi di vita, all'interno, erano pronti per essere visionati. Maria sentì il cibo che aveva appena inghiottito solidificarsi in una massa che sembrava un pugno serrato dentro lo stomaco. Durham indicò al programma di proseguire. La Copia era seduta in una semplice sala controllo stilizzata, circondata da fluttuanti finestre di interfaccia. Una finestra mostrava la rappresentazione di una minima parte del reticolo Tvc. La Copia non poteva godere della stessa prospettiva globale del reticolo, il software che usavano loro poteva funzionare solo a un livello esterno al suo universo. Non c'era una maniera semplice per scoprire lo stato di ogni cellula automa data. In sostituzione era stato costruito un sistema di fili sensori e di cavi (tutti collegati a processori specializzati), attorno a una piccola regione al centro del reticolo. Durham aveva battezzato questo apparato "la camera". Quel che accadeva nella camera poteva essere dedotto indirettamente dai dati che finivano per fluire lungo i fili sensori. Non era complicato quanto calcolare quel che era successo in una collisione all'interno di un acceleratore di particelle basandosi sulle informazioni registrate dai detector circostanti, ma il principio era identico, e pure lo scopo. La Copia doveva condurre esperimenti per saggiare le proprie "leggi fisiche" fondamentali, le regole dell'automa Tvc. E i computer moderni (simulati) che facevano girare il suo ambiente Rv avevano una connessione (simulata) con la camera, come i computer del mondo reale collegati a un acceleratore del mondo reale. La Copia disse: "Preparo il primo esperimento". Batté con destrezza una sequenza di lettere in codice sulla tastiera. Durham aveva provato tutto prima della scansione, fino a riuscire a eseguire ognuno dei cinquanta esperimenti in dieci secondi netti, ma Maria era ancora stupita che la Copia, risvegliatasi bruscamente per ritrovarsi seduta in una sala controllo, senza essere preparata, senza possibilità di adattarsi alla sua identità e al suo destino, mantenesse la presenza di spirito di calarsi di colpo nel proprio compito. Si era cullata in visioni di questa prima versione di Durham che si svegliava dentro un computer, e finalmente comprendeva che "le precedenti ventitré volte" non erano state affatto l'esperienza reale, chiarendolo all'originale in termini espliciti. Ma non sembrava che ci fossero molte possibilità che accadesse. La Copia stava lì seduta, a battere come se ne andasse della sua vita. La messa a punto sperimentale poteva essere automatizzata. Anche il controllo dei risultati poteva essere automatizzato. La Copia avrebbe potuto trascorrere due minuti seduta a guardare un segnale verde lampeggiante che diceva: Tutto è come si aspettava, non stia a preoccuparsi di dettagli infimi. Non c'era nulla sul tipo di un insieme di percezioni, per la Copia, che potesse dimostrare che abitava un automa cellulare obbediente a tutte le regole cui sperava si attenesse. Alla fine era tutta una questione tipo "rasoio di Occam", e bisognava augurarsi che la spiegazione più semplice, per la percezione di uno schermo che mostrava i risultati corretti, fosse l'esistenza reale di risultati corretti. Maria osservò lo schermo da sopra la spalla della Copia, e la finestra d'interfaccia al suo interno. Quando la Copia digitò l'ultima lettera del codice, l'insieme di cellule che aveva costruito nella camera divenne instabile e cominciò a creare nuove cellule nel "vuoto" circostante, scatenando una cascata che alla fine si ripercosse sui fili sensori. Fatto sconcertante, la Copia stava osservando una simulazione, nel

suo senso del termine, di quel che doveva accadere nella camera e poi, un attimo dopo, una ricostruzione degli eventi "reali", basata sui dati dei sensori. Entrambe, evidentemente, combaciavano con i risultati delle simulazioni che il Durham originale aveva mandato a memoria. La Copia batté le mani con forza in un chiaro gesto di giubilo, strillò qualcosa di sconnesso, poi disse: "Messa a punto secon…" A Maria girava la testa per tutti i livelli di realtà che stavano intersecando, ma era ben decisa a sembrare impassibile come sempre. Disse: "Che ha fatto, lo ha svegliato col cervello imbottito di anfetamine?" Durham replicò, con lo stesso tono: "No, è su di giri per la sua vita. Quando ne hai visti solo due minuti, te la puoi anche godere". Aspettarono, impiegando il tempo a controllare più o meno a caso i programmi, aprendo tutto, dagli schemi di rilascio nell'encefalomodello della Copia alle statistiche sulle prestazioni dei computer Tvc. Intuitivamente, la gerarchia complicata di simulazioni entro simulazioni sembrava vulnerabile, instabile, ogni livello moltiplicava le potenzialità di disastro. Ma se la messa a punto ricordava un castello di carte, era un castello di carte simulato, perfettamente equilibrato in un universo libero da folate di vento e vibrazioni. Maria era lieta che l'architettura a tutti i livelli fosse impeccabile, finché il livello di sotto teneva. Sarebbe bastato un nonnulla, nell'hardware del mondo reale, per far crollare tutto quanto. Difficile, ma non impossibile. Seguirono la seconda rata della Copia al lavoro, poi fecero una pausa per il caffè. Einstein on the Beach stava ancora andando, ripetitivo e ipnotico. Maria non riusciva a rilassarsi, era troppo fatta di caffeina ed energia nervosa. Si sentiva sollevata che tutto filasse liscio, nessun problema di software, nessuna Operazione farfalla, nessun segno che una delle due versioni di Durham le combinasse tiri strani. Nel contempo, c'era qualcosa di profondamente inquietante nella prospettiva di quella cosa che si districava nelle sei ore seguenti esattamente come predetto, e poi banalmente cessava. Poi avrebbe avuto i soldi per Francesca e ciò avrebbe giustificato tutto… ma la futilità assoluta di quel che stavano facendo ancora la colpiva, tra una crisi e l'altra di tormenti su assurdità come il dubbio se aveva fatto il lavoro migliore riguardo alla risposta dell'A hydrophila alla disidratazione. Durham le avrebbe concesso di pubblicare tutto il lavoro in Autoverso, perciò non era stata una perdita di tempo totale, e lei poteva continuare a migliorarlo quanto le pareva prima di rivelarlo agli scettici… ma già si immaginava il rimpianto (curioso) che avrebbe provato per quei miglioramenti troppo in ritardo per essere inclusi nel pianeta Lambert: quello che al momento stavano scaricando in un gabinetto multimiliardario. Disse: "È un peccato che nessuno degli originali dei suoi passeggeri sia dotato di un corpo. Dopo aver pagato, dovrebbero esser qui a guardare". Durham assentì. "Alcuni di loro possono essere qui in spirito. Ho garantito loro il nostro stesso accesso di visualizzazione alla simulazione. E i loro revisori riceveranno un resoconto autenticato di tutto, la prova di aver ricevuto quello per cui hanno pagato. Ma ha ragione. Non è una gran festa, dovremmo fare cincin e mangiare caviale con gli altri." Lei si mise a ridere, quasi offesa. "Gli altri? Io non sono una delle sue vittime, sono soltanto la complice dell'artista della truffa, non si ricorda? E non sono qui per festeggiare, solo per assicurarmi che il suo doppelgänger non manipoli il software svegliandomi." Durham parve divertito. "Perché la dovrebbe svegliare così presto? Crede che si sentirà insopportabilmente solo nello spazio di due minuti?" "Non ho idea di cosa possa fare o perché. È questo il problema. E suonato quanto lei". Durham rimase in silenzio. Maria avrebbe voluto tanto non aver mai pronunciato quella frase. A che serviva punzecchiarlo e renderlo ridicolo di continuo, credeva forse di poterlo riportare coi piedi per terrai Era solo una questione di orgoglio, non voleva lasciar passare un secondo senza ricordargli che

non era stata incantata dalle sue idee. Computerdipendente, fanatica della vita artificiale, eppure aveva ancora i piedi ben ancorati nel mondo reale. La visione di Durham sulla biosfera dell'Autoverso l'aveva colpita, quando ancora era convinta che lui fosse consapevole che quello non poteva essere altro che un esperimento teorico. E tutto il lavoro svolto da Durham sull'universo Tvc era brillante, per quanto in fin dei conti privo di significato. In un certo senso, ammirava perfino il suo rifiuto cocciuto di cedere al senso comune accettando le sue illusioni per quel che erano. In realtà, Maria non sopportava l'idea che lui nutrisse la benché minima speranza di averla convinta a prendere sul serio l'ipotesi del pulviscolo. Alle dieci e tre minuti i soldi finirono, restava soltanto quel poco per pagare il riordino finale. L'automa Tvc fu spento da un istante all'altro, i processori e la memoria che erano stati reclutati per quell'immensa simulazione furono resi disponibili per gli altri utenti. La memoria, come sempre, fu per prima cosa ripulita a una serie zero uniformi per questione di sicurezza. L'intera struttura complessa si dissolse in pochi nanosecondi. La notte aveva trasformato le finestre dell'appartamento in altrettanti specchi. Nessuna luce faceva capolino nelle deserte torri direzionali. Se mai c'erano stati dei fuochi di falò degli squatter, dovevano essersi spenti da molto. Maria si sentiva scollegata, alla deriva nel tempo. Il viaggio verso nord, oltre il ponte, sopra il porto alla luce del sole sembrava un ricordo lontano, un sogno. I componenti individuali del Giardino dell'Eden erano ancora in archivio. Maria cancellò il suo file di scansione, controllando attentamente le registrazioni di accesso per essere sicura che i dati non fossero stati letti più spesso del dovuto. I numeri collimavano. Non c'era la certezza assoluta, ma era comunque rassicurante. Durham cancellò tutto il resto. Rimanevano le registrazioni del software spia, perciò seguirono l'ultima breve scena della Copia al lavoro, e poi ripassarono l'intera registrazione di due minuti. Maria l'osservò con una sensazione di vergogna crescente. I frammenti singoli non l'avevano colpita affatto, eppure, seguita senza interruzione, la Copia assumeva l'aspetto del leader folle di una setta alla guida di una corriera piena di miliardari ibernati, dritto verso il ciglio di un burrone, accelerando euforico nella certezza assoluta che quel coso potesse spiccare il volo, portandoli tutti in una terra oltre il tramonto. Si aggrappò alle sue razionalizzazioni: l'identità separata e limitata della Copia, la sua scomparsa gioiosa. Quando la registrazione si fermò a metà dell'esperimento, Durham chiuse gli occhi, lasciando cadere il capo in avanti. Pianse in silenzio. Maria guardò da un'altra parte. Lui disse: "Mi dispiace. La sto mettendo in imbarazzo". Lei si girò. Adesso Durham stava sorridendo, tirando su col naso. L'avrebbe voluto abbracciare, un impulso in parte fraterno, in parte sessuale. Era pallido e con la barba lunga, chiaramente sfinito, ma nei suoi occhi c'era più vita che mai, come se l'appagamento della sua ossessione l'avesse liberato in modo così totale dal suo passato da poter affrontare il mondo come un bambino appena nato. Lui disse: "Champagne?" Maria s'indispettì. Non aveva ancora motivo di fidarsi di lui. Rispose: "Prima devo controllare il mio conto in banca, potrei non avere alcun motivo per festeggiare". Durham ridacchiò, come se l'idea di averla ingannata fosse decisamente marchiana. Lei l'ignorò, e si servì del terminale. I seicentomila dollari che le aveva promesso erano stati depositati. Fissò i numeri sullo schermo, stordita dalla strana verità che il semplice schema di dati rappresentava il "benessere", l'idea che fosse comparso nel mondo vivente, doloroso e in decadenza… per poi tornare indietro, arricchito oltre misura, plasmato da tutto quello che rendeva umana Francesca. Disse: "Un bicchiere soltanto. Devo pedalare".

Svuotarono la bottiglia. Durham si aggirò per l'appartamento, sempre più iperattivo. "Ventitré Copie! Ventitré vite! S'immagini come deve sentirsi adesso il mio successore! Ha la prova, sa che aveva ragione. Io so soltanto di avergli dato quella possibilità, e anche quello è troppo." Pianse ancora, si fermò di colpo, girandosi a guardare Maria con fare implorante. "L'ho fatto a me stesso, ma è stata ugualmente una pazzia, una tortura. Crede che il giorno in cui ho iniziato, sapessi quanto dolore e quanta confusione ne sarebbero scaturiti? Crede che immaginassi cosa mi avrebbe fatto? Avrei dovuto dar retta a Elizabeth, ma qui non c'è nessuna Elizabeth. Non sono vivo. Lei crede che sia vivo? Se una Copia non è umana, allora io cosa sono? Ventitré volte distaccato?" Maria cercò di far in modo che il problema le passasse sopra la testa. Non poteva provare semplice compassione, era troppo macchiata, troppo colpevole, perciò cercò di non provare alcun sentimento. Durham aveva seguito in modo sistematico le sue convinzioni fin dove lo potevano portare. O quelle lo guarivano oppure sarebbe stato pronto per un altro giro di nanochirurgia. Lei, ormai, non poteva fare più nulla per cambiare le carte in tavola. Cominciò col dirsi che, aiutandolo in quel progetto, senza tuttavia ammetterne le premesse, forse lo aveva aiutato a esorcizzare le sue illusioni… ma non era quello il punto. L'aveva fatto per i soldi. Per Francesca. E per se stessa. Per risparmiarsi il dolore della morte di Francesca. Come osa rifiutare quella donna? Le Copie, come i funerali, erano fatte per il bene dei superstiti. Durham la stava guardando. Le si sedette accanto, scarmigliato e abbattuto. Lei non capì se si fosse calmato oppure cosa. Erano le due e mezzo, l'opera aveva finito di suonare ore prima, l'appartamento era silenzioso. Lui disse: "Mi scusi, mi sono lasciato prendere la mano". Le due poltroncine girevoli, sulle quali erano rimasti seduti per tutto il giorno, costituivano l'unico mobilio della stanza oltre al tavolo, non c'era nessun sofà su cui Maria potesse addormentarsi, e il pavimento sembrava duro e freddo. Pensò di tornare a casa. Poteva prendere un treno, e passare a recuperare la bici in seguito. Si alzò, poi, quasi sovrappensiero, si chinò a baciarlo sulla fronte. Disse: "Ci vediamo". Prima che potesse allontanarsi, lui le posò una mano sulla guancia. Aveva le dita fresche. Lei esitò, poi lo baciò sulla bocca, e poi quasi fece un balzo indietro, arrabbiata con se stessa. Mi sento in colpa, mi dispiace per lui, voglio solo farmi perdonare. Lui incrociò il suo sguardo. Non era più ubriaco. Maria si convinse che Durham intuisse quel che lei provava, quel nodo di confusione e vergogna, e che desiderasse aiutarla a scioglierlo. Si baciarono di nuovo. Maria era sicura. Si svestirono l'un l'altro andando in camera da letto. Le disse: "Dimmi quello che vuoi, quello che ti piace. È tanto che non lo faccio più". "Da quanto?" "Tante vite fa." Era abile con la lingua, e ostinato. Maria quasi venne, ma un attimo prima tutto si spezzò in sensazioni isolate, piacevoli ma insulse, leggermente assurde. Chiuse gli occhi e se lo impose, ma era come cercare di piangere senza motivo. Quando lo scostò gentilmente, lui non protestò né si scusò o le fece domande stupide. Lei gliene fu grata. Mentre si riposavano, esplorò il suo corpo. Era forse l'uomo più vecchio che avesse mai visto nudo, di sicuro il più vecchio che avesse toccato. Cinquanta. Era… molle, quasi flaccido, la muscolatura era sparita, più che trasformarsi in grasso. Era quasi impossibile immaginarsi il ventiquattrenne Aden, duro come una statua, che soccombeva allo stesso processo di disfacimento. Eppure sarebbe andata così. E il corpo di Maria già aveva iniziato. Scivolò in basso prendendogli il pene in bocca, cercando di farsi forza oltre la stranezza comica di

quell'atto, cercando di ubriacarsi al suo odore, lavorandolo di lingua e denti fin quando lui la implorò di smettere. Risistemarono goffamente i loro corpi fino a ritrovarsi affiancati. Quando la penetrò, lui venne immediatamente. Gridò, strillando per un evidente dolore, non per il piacere istrionico. Mentre si ritirava digrignò i denti, ed era terreo in volto. Lei lo tenne stretto per le spalle finché lui non si spiegò. "Ho sentito una fitta al testicolo sinistro. Capita… qualche volta. Mi sembra di avercelo stretto in una morsa." Rise mentre scacciava le lacrime ammiccando. Lei lo baciò, sfiorandogli il ventre con un dito. "Terribile. Fa ancora male?" "Sì. Non ti fermare." Dopo capì che non voleva più toccarlo. Mentre il sudore si asciugava, la pelle dell'uomo divenne appiccicosa, e quando lui si addormentò Maria si sciolse dal suo abbraccio, scivolando verso il bordo del letto. Non capiva cos'aveva fatto. Aveva complicato tutto, ficcandosi in un altro stadio della loro relazione già così complicata, oppure ne aveva soltanto segnato la fine, dicendogli addio? Un'ora di sesso disastroso non aveva risolto niente, lei si sentiva ancora in colpa per i soldi e perché "lo sfruttava". Cosa doveva fare se voleva rivederla? Non poteva affrontare la prospettiva di altri sei mesi passati ad ascoltarlo mentre fantasticava del meraviglioso futuro che aspettava il suo universo fatto in casa. Si era fatta un punto d'onore del non assecondarlo mai, del non fingere mai di accettare le sue storie, e non aveva mai incontrato una persona teoricamente sana che riuscisse a essere in disaccordo con lei con tanta bonomia. Ma sarebbe stato disonesto cercare di inventare un'amicizia durevole tra di loro, considerando lo scetticismo di Maria. E se mai lei fosse riuscita a disilluderlo… si sarebbe forse sentita altrettanto in colpa. La lunga giornata la stava avendo vinta, era troppo difficile riflettere. Le decisioni dovevano aspettare il mattino. La luce dalla cucina filtrava da sotto la porta fino al suo viso. Impartì l'ordine al gestore domestico, senza alcun effetto, così si dovette alzare per spegnere la luce. Mentre tornava a tentoni nella stanza, sentì Durham che si agitava. Si fermò sulla porta, di colpo riluttante ad andargli vicino. Lui disse: "Non so cosa pensi tu, ma io non l'avevo previsto". Rise. Cosa credeva di aver fatto? Di averla sedotta? "Nemmeno io. Da te volevo solo i soldi". Lui rimase in silenzio per qualche secondo, ma lei riuscì a vedere i suoi occhi e i denti che lampeggiavano al buio, e sembrava sorridesse. Disse: "Va bene così. Da te volevo solo l'anima".

20 [CAN'T YOU TIME TRIP?]

Mentre si riposava tra una discesa e l'altra, Peer alzò lo sguardo, capendo finalmente che cosa lo tormentava. Le nuvole sul grattacielo erano immobili, non soltanto fisse rispetto al terreno ma anche bloccate in ogni loro particolare. La parte meno consistente dei bordi, teoricamente modificabili dalla brezzolina più leggera, rimaneva tale e quale per tutto il tempo che la sorvegliò. La forma di ogni nuvola sembrava del tutto naturale, ma il dinamismo implicito in quelle forme elaborate dal vento, tanto irresistibile a una prima occhiata, era mera illusione. In cielo nulla stava cambiando. Per un attimo rimase solamente perplesso da questo dettaglio ininfluente. Poi si ricordò perché l'aveva scelto. Kate era scomparsa. Gli aveva mentito, non si era affatto clonata. Si era trasferita nella città di Carter senza lasciare altre versioni. Lasciando lui, o metà di lui, da solo. Quella rivelazione non lo turbava. Nulla poteva, sul grattacielo. Si aggrappò alla parete, riprendendosi allegramente, meravigliato per quel che aveva fatto per sanare il dolore. Là nel tempo delle nuvole, prima di cominciare la discesa. Aveva sistemato l'ambiente come al solito, la città, il cielo, il palazzo, ma le nubi erano immobili, tanto per semplicità quanto per fungere da comodo promemoria. Poi aveva mappato una serie di indizi per ricordi e cambiamenti d'umore, per l'equivalente di quindici minuti soggettivi. Aveva appena abbozzato la progressione, come un musicista ingenuo che mugola una melodia a uno scriba. Il software aveva poi calcolato la reale sequenza degli stati cerebrali. I momenti si sarebbero susseguiti "naturalmente", il suo encefalomodello non sarebbe stato costretto a far altro che seguire la propria logica interna. Sintonizzando quella logica in anticipo e caricando le memorie adatte, la sequenza richiesta di eventi mentali si sarebbe dipanata: da a a b a c… ad a. Peer guardò verso il basso, oltre la spalla. Il terreno non si avvicinava mai. Sorrise. Aveva già sognato di farlo, ma non ne aveva mai trovato il coraggio. Perdere Kate per sempre, mentre sapeva di essere con lei, lo aveva finalmente persuaso di non aver nulla da guadagnare nel rimandare. Lo schema non abbandonava mai del tutto la sua mente. Si ricordava in modo vago di aver avuto la medesima rivelazione già parecchie altre volte. Ma la sua memoria a corto raggio era stata compromessa selettivamente, per limitare la nettezza di questa falsa storia ricorrente. Poi, una volta distratto, una serie di associazioni libere lo avrebbe riportato all'esatto stato mentale in cui si trovava all'inizio del ciclo. Anche il corpo sarebbe tornato là dov'era partito, rispetto a ogni indizio visibile nell'ambiente. Il terreno e il cielo erano statici, e ogni piano dell'edificio identico, perciò le sue percezioni sarebbero state sempre uguali. E ogni muscolo e giuntura del corpo si sarebbero riprese alla perfezione, come sempre. Peer si mise a ridere per la scaltrezza del sé delle nuvole, poi riprese la discesa. Era una situazione elegante, ed era lieto di aver trovato finalmente una nefeloragione per farlo accadere. Però c'era un particolare che non riusciva a focalizzare, una scelta presa nel tempo delle nuvole che sembrava aver deciso di celarsi completamente. Aveva programmato il suo eso-sé in modo da fargli passare il ciclo un numero determinato di volte? abcabcabc… e poi un grande def roboante che trapassava il cielo come il pugno di Dio, o un fumo di cumulonembo che si muovesse davvero, ponendo fine al suo moto perpetuo? Un grappino poteva strapparlo dalla parete del palazzo, oppure un lieve cambiamento ambientale poteva allontanare i suoi pensieri dalla loro perfetta orbita circolare. Comunque fosse, attraversare un ciclo ininterrotto sarebbe stato come provarne mille, perciò, se c'era una sveglia da qualche parte, il prossimo ciclo sarebbe stato soggettivamente quello in cui scattava la suoneria.

E se non esisteva una sveglia? Poteva aver affidato la sua sorte a mani esterne. Una comunicazione casuale da un'altra Copia o qualche evento nel mondo potevano essere la valvola della sua liberazione. Oppure poteva aver scelto il solipsismo assoluto. Attraversare stolido il ciclo qualunque cosa succedesse, finché il suo esecutore non gli fregava i soldi, i terroristi facevano saltare i supercomputer, la civiltà crollava, il sole si spegneva. Peer si fermò, scrollando il capo per togliersi il sudore dagli occhi. Il senso di déjà vu innescato dall'azione era quasi di sicuro totalmente sintetico. Non gli rivelò nulla sul numero di volte in cui aveva realmente ripetuto quel gesto. All'improvviso gli venne in mente che era improbabile aver fatto qualcosa di tanto poco elegante quanto far andare il ciclo più di una volta. Il suo tempo soggettivo era chiuso in tondo, girava su se stesso, non c'era bisogno alcuno di far seguire l'ultimo istante con una ripetizione esterna del primo. Qualunque cosa succedesse, esternamente, "dopo", il cerchio era soggettivamente completo e senza soluzione di continuità. Lui poteva essersi disattivato del tutto dopo aver calcolato un singolo ciclo, e ciò non avrebbe cambiato nulla. Si sollevò una brezza leggera, raffreddandogli la pelle. Peer non si era mai sentito così sereno, tanto a suo agio fisicamente, tanto in pace. Perdere Kate doveva essere stato traumatico, ma se l'era lasciato alle spalle. Una volta e per sempre. Continuò la discesa.

21 [REMIT MOT PAUCITY] Giugno 2051

Maria si svegliò da un sogno in cui partoriva. Una levatrice la incitava: "Continui a spingere! Spinga!" Aveva urlato a denti stretti, ma aveva fatto quel che le diceva. Ma il "bambino" era solo una statua imbrattata di sangue, intagliata nel legno liscio e scuro. Le pulsavano le tempie. La stanza era immersa nel buio. Aveva tolto l'orologio da polso, ma non credeva di aver dormito a lungo, altrimenti il letto le sarebbe sembrato poco familiare, le ci sarebbe voluto del tempo per ricordarsi dov'era, e perché. Invece i fatti della notte le erano tornati in mente all'istante. Doveva essere passata da parecchio la mezzanotte, ma non era ancora giorno. Intuì l'assenza di Durham ancor prima di allungarsi nel letto, perciò rimase immobile per un po' ad ascoltare. Sentì solo tossire in lontananza, da un altro appartamento. Non c'erano luci accese. Avrebbe visto il riflesso. L'odore la colpì mentre usciva dalla camera da letto. Merda e vomito, con un nauseabondo odore dolciastro. Si immaginò Durham che reagiva male a una giornata di stress e a una serata a base di champagne, e quasi girò sui talloni per tornare in camera da letto ad aprire la finestra e nascondere la faccia nel cuscino. La porta del bagno era socchiusa, ma non si sentivano rumori da lasciar pensare che lui fosse ancora dentro, nemmeno un gemito. I suoi occhi cominciarono a lacrimare. Non poteva ancora credere di essere riuscita a dormire con quell'odore. Gridò: "Paul? Come stai?" Nessuna risposta. Se era steso privo di sensi in una pozza di vomito, l'alcol non c'entrava niente. Doveva essere malato, e molto. Avvelenamento da cibo? Aprì la porta e accese la luce. Era nella nicchia della doccia. Maria uscì di corsa dal bagno, ma i dettagli continuarono a imprimersi nella sua mente anche molto tempo dopo essere scappata via. Anse intestinali. Merda sanguinolenta. Sembrava si stesse inginocchiando e poi fosse crollato di lato. In un primo tempo era convinta di aver visto il coltello, rosso contro le piastrelle bianche, ma poi si chiese se in realtà non avesse visto che la macchia di Rorschach di una casuale traccia di sangue. Le gambe cominciarono a cedere. Riuscì ad arrivare a una sedia, con la testa che girava, imponendosi di non svenire. Non era mai svenuta in vita sua, ma per un po' fu tutto quel che poteva fare per non perdere i sensi. La prima cosa che provò con chiarezza fu lo stupore per la propria stupidità, come se avesse appena cozzato contro un muro pur stando con gli occhi bene aperti. Durham era convinto che la sua Copia avesse acquisito l'immortalità, dimostrando l'ipotesi del pulviscolo, lo scopo della sua vita era stato soddisfatto dal completamento del progetto. Cosa si aspettava che facesse, dopo? Che continuasse a vendere assicurazioni? Era Durham quello che aveva sentito gridare tra i denti serrati, mentre plasmava il suo sogno. Ed era Durham che continuava a spingere, Durham che sembrava avesse tentato di partorire. Chiamò un'ambulanza. "Si è tagliato la pancia con un coltello. La ferita è molto profonda. Non ho guardato bene, ma credo sia morto." Si accorse di riuscire a parlare con calma al pupazzo che rispondeva al centralino. Era sicura che sarebbe crollata se le fosse toccato dire le stesse cose a un essere umano. Quando riappese, i denti cominciarono a battere, e continuò a emettere versi angosciati che non sembravano appartenerle. Si voleva rivestire prima che arrivassero l'ambulanza e la polizia, ma non trovava la forza di muoversi, e il pensiero di preoccuparsi a farsi vedere nuda le sembrava incredibile. Poi qualcosa spezzò quella paralisi, si alzò e attraversò vacillante la stanza, raccogliendo i vestiti che

avevano sparpagliato per terra poche ore prima. Si ritrovò vestita, accucciata in un angolo del soggiorno a recitare mentalmente una litania di scuse. Non l'aveva mai assecondato. Aveva controbattuto in ogni occasione le sue convinzioni folli. Come faceva a salvarlo? Abbandonando il suo progetto? Non avrebbe cambiato nulla. Cercando di farlo internare? I medici l'avevano già certificato guarito. La cosa peggiore che aveva fatto era stata permettergli di chiudere la Copia mentre se ne stava lì a guardare. E c'era ancora una possibilità… Scattò in piedi, correndo al terminale più vicino per collegarsi col conto Jsn del progetto. Ma il file di scansione di Durham era sparito, cancellato con la stessa pignoleria e irreversibilità del suo. Le registrazioni di verifica non mostravano alcun indizio che i dati fossero stati salvati altrove. Come il file di Maria, era stato persino segnalato esplicitamente per l'esclusione dai back-up orari automatici della Jsn. Il solo posto in cui i dati risultavano riprodotti era dentro la configurazione Giardino dell'Eden. E ogni traccia di quella struttura era stata rimossa. Rimase seduta al terminale a guardare il file che mostrava la Copia di Durham mentre conduceva i suoi esperimenti, testava le leggi del suo universo, correva spensierata verso… cosai L'annichilimento inesplicabile e non annunciato di tutto quello che stava per stabilire come base della propria esistenza? E adesso il suo cadavere era steso per terra in bagno, morto per mano propria, come voleva lui, vittima della sua logica ferrea. Maria nascose il viso tra le mani. Voleva tanto credere che le due morti non fossero la stessa, che Durham avesse ragione sin dall'inizio. Cos'avevano significato per la Copia i computer Jsn di Tokyo e Seul? Nessun esperimento eseguito all'interno dell'universo Tvc poteva aver provato o smentito l'esistenza di quelle macchine. Erano irrilevanti, per lui, quanto il ridicolo Dio che non fa differenze di Francesca. Allora come potevano averlo distrutto? Come faceva a essere morto? All'esterno si sentirono passi pesanti, affrettati, poi si udì battere alla porta. Maria andò ad aprire. Voleva tanto credere, ma non ne era capace.

22 [REMIT MOT PAUCITY] Giugno 2051

Thomas si preparò ad assistere a una morte. L'assassino di Anna era il Riemann in carne e ossa, non la Copia che aveva ereditato i ricordi dell'omicida. E il Riemann in carne e ossa avrebbe dovuto trovare l'occasione di rifletterci su, prima di morire. Avrebbe dovuto aver modo di accettare la sua colpa, la sua mortalità. E di assolvere il suo successore. Non avevano permesso che accadesse. Ma non era troppo tardi, nemmeno ora. Lo poteva sempre fare per lui un clone di software, qualora credesse di essere fatto di carne e sangue. Rivelando quello che il sé mortale, umano, avrebbe fatto se soltanto avesse saputo che stava morendo. Thomas aveva trovato un'immagine adatta in un album di fotografie, vecchie foto chimiche su carta che aveva digitalizzato e restaurato poco dopo l'inizio della malattia finale. Natale 1985: sua madre, suo padre, sua sorella Karin e lui, riuniti all'esterno della casa di famiglia, abbagliati dal sole d'inverno. Karin, dolce e timida, era morta di linfoma prima della fine del secolo. I suoi genitori erano arrivati entrambi ai novanta, dimostrando di voler raggiungere l'immortalità solo grazie alla forza di volontà, ma erano morti prima che la tecnologia della scansione fosse perfezionata, dopo aver sdegnato il consiglio di Thomas di farsi ibernare. "Non ho la minima intenzione di infliggermi quel che hanno fatto ai loro animaletti gli Americani, quei nouveaux riches''' aveva tagliato corto suo padre. Il giovanotto nella fotografia non somigliava molto all'immagine che avrebbe evocato Thomas se avesse chiuso gli occhi sforzandosi di ricordare, ma l'espressione del suo viso, colta nella transizione dal tormento alla boria, suonava genuina. In parte temeva che l'obiettivo potesse tradire il suo segreto, in parte lo sfidava a farlo. Thomas aveva conservato fuori rete, in alcuni caveau di Ginevra e New York, delle copie della scansione sul letto di morte, senza uno scopo preciso oltre il vaghissimo concetto che se qualcosa nel suo modello andava storto, senza possibilità di riparazione, e se la fonte del problema (un virus lento, un minimo errore di programmazione) rendeva sospette tutte le sue istantanee, ricominciare a vivere senza ricordi dopo il 2045 sarebbe stato sempre meglio di niente. Dopo aver raccolto tutti gli elementi necessari, aveva scritto in anticipo l'intero copione facendolo funzionare, senza aspettare di vedere i risultati. Poi aveva bloccato il clone, spedendolo a Durham all'ultimo momento, senza darsi la possibilità di far marcia indietro o ancor peggio di decidere che il primo tentativo era andato buca e che occorreva riprovare. Adesso era pronto a scoprire quel che aveva combinato, ad assistere al fatto compiuto. Seduto in biblioteca, con l'armadietto dei liquori chiuso a chiave, fece segno al terminale di iniziare. Il vecchio nel letto aveva un aspetto molto peggiore di quel che Thomas si ricordava: occhi infossati, quasi calvo, itterico. (Altro che onestà del suo aspetto, altro che cambiamenti "minimi" che aveva apportato per rendersi presentabile.) Aveva il petto scavato da cicatrici, attraversato da una rete di elettrodi, e il cranio era avvolto in una rete simile. Una pompa sospesa accanto al letto alimentava un ago nel braccio destro. Il clone era tenuto sedato da un oppiaceo sintetico modellato in modo approssimativo, che affluiva nel suo circolo sanguigno modellato altrettanto grossolanamente, proprio come l'originale di Thomas era stato sedato da oppiacei veri dal momento della scansione fino alla morte, tre giorni dopo. Però in questo replay, il narcotico era calcolato in modo da subire un crollo improvviso di concentrazione, per alcuna ragione fisica plausibile, anche se non ne serviva nessuna. Un grafico in un angolo dello schermo rilevava il decremento. Thomas continuò a guardare, stravolto dall'ansia, febbrile di speranza. Finalmente. Questo era il rituale

che era sempre stato convinto l'avrebbe guarito. Il vecchio riprese conoscenza, senza aprire gli occhi: le onde dell'Eeg non significavano nulla per Thomas, ma il software che monitorava la simulazione aveva segnalato l'evento con un sottotitolo. Seguiva altro testo: L'anestetico non ha ancora preso. Non ne fanno mai una giusta? [Verbalizzazione confusa.] La scansione non può essere finita. Non posso essere già la Copia. La Copia si sveglierà lucida, seduta in biblioteca, preadattata per non provare disorientamento. E allora perché sono sveglio? Il vecchio aprì gli occhi. Thomas gridò: "Stop!" Stava sudando, aveva la nausea, ma non mosse un dito per eliminare i sintomi non necessari. Voleva una catarsi, no? Non era quello il succo? I sottotitoli davano appena un accenno approssimativo di quel che provava il clone. Si poteva acquisire una chiarezza molto maggiore, la registrazione conteneva tracce delle vie nervose chiave. Volendo, poteva leggere nei pensieri del clone. Disse: "Fammi sapere cosa pensa, cosa sta provando". Non successe nulla. Strinse i pugni, mormorando: "Riavvia". La biblioteca svanì. Era sdraiato di schiena sul letto d'ospedale a fissare obnubilato il soffitto. Quando abbassò lo sguardo vide accanto a sé il gruppo di monitor, i fili sul petto. Il movimento della testa e degli occhi era sbagliato, intelleggibile ma fastidiosamente sfalsato rispetto alle sue intenzioni. Si sentiva impaurito e disorientato, ma non era sicuro di quanto fosse una sua reazione e quanto appartenesse al clone. Appena Thomas scosse il capo in preda al panico, la biblioteca tornò, e anche il suo corpo. Fermò la replica, mentre rifletteva. Poteva liberarsi ogni volta che voleva. Era solo un osservatore. Non c'era nulla da temere. Combattendo contro una sensazione di soffocamento, chiuse gli occhi, arrendendosi alla registrazione. Si guardò intorno nella stanza, frastornato. Non era la Copia, di quello era pressoché sicuro. E quella non era una parte della clinica Landau. Come azionista vip e futuro cliente, aveva fatto troppe volte il giro dell'edificio per potersi sbagliare. Se la scansione era stata rinviata per qualche motivo, doveva essere di nuovo a casa, o per strada. A meno che non fosse successo qualcosa che necessitava di prestazioni mediche che la Landau non poteva garantire. La stanza era deserta, e la porta era chiusa. Chiamò con voce roca: "Infermiera! " Era troppo debole per gridare. Il controllo stanza rispose: "Al momento non c'è personale disponibile per accudirla. Posso esserle d'aiuto?" "Mi può dire dove siamo?" "Lei si trova nella camera 307 del Valhalla." "Valhalla?" Sapeva di aver fatto affari con quel posto, ma non si ricordava il motivo. Il controllo della camera disse, pieno di buona volontà: "Il Valhalla è il sanatorio di Francoforte della Health Dynamics Corporation of America". Le viscere mollarono per il terrore. Erano già svuotate. Il Valhalla era la macelleria che aveva pagato perché si prendesse cura del suo corpo comatoso dopo la scansione finché non spirava, con il minimo legale di attenzioni mediche, senza misure eroiche atte a prolungare la vita. Era già stato scansionato, ma avevano fatto casino. L'avevano lasciato risvegliare. Era un colpo duro, ma si riprese in fretta. Nessun motivo per farsi prendere dal panico. Sarebbe uscito di lì per farsi scansionare in sei ore nette, e il responsabile sarebbe stato a spasso ancor prima. Cercò di tirarsi su seduto, ma le vertigini per i postumi della droga erano troppo forti per riuscire a coordinarsi. Ricadde sui cuscini, trattenne il fiato, poi si costrinse a parlare con calma. "Voglio parlare col direttore."

"Mi spiace, il direttore non è disponibile". "Allora il membro più alto in carica del personale disponibile." Il sudore gli colava sugli occhi. Non serviva a niente mettersi a gridare con quella macchina minacciando di denunce. In effetti… poteva essere più prudente non minacciare nessuno. Un posto come quello sarebbe stato perfettamente capace di reagire facendolo ripiombare in coma a suon di droghe. Adesso aveva soltanto bisogno che qualcuno là fuori fosse informato della situazione. Disse: "Vorrei fare una telefonata. Mi può collegare in rete?" "Non sono autorizzato." "Le posso dare un numero di conto collegato alla mia impronta vocale, e autorizzarla ad addebitarmi il servizio." "Non sono autorizzato ad accettare il suo numero di conto." "Allora… faccia una chiamata a carico a Rudolf Dieterle, della Dieterle, Hollingworth e Soci". "Non sono autorizzato a fare una chiamata del genere." Si mise a ridere, incredulo. "È fisicamente capace di collegarmi alla rete?" "Non sono autorizzato a rivelare le mie specifiche tecniche." Ogni insulto sarebbe stato uno spreco di fiato. Sollevò il capo per passare in rassegna la stanza. Non c'erano mobili, niente comò, niente tavolo, nessuna sedia per i visitatori. Solo i monitor da un lato del letto, montati su carrelli d'acciaio inossidabile. E nessun terminale, nessuno strumento di comunicazione di alcun genere, nemmeno una cornetta a parete. Tastò l'ago sul braccio, poco sotto la piega del gomito. Un manicotto di gomma, stretto e senza cuciture, largo parecchi centimetri, copriva il punto d'ingresso. Gli sembrò ci volesse un'eternità a infilare i polpastrelli sotto il bordo, e anche dopo averlo fatto non servì a niente. Il manicotto era troppo stretto per farlo scivolare, e troppo elastico per essere rimboccato. Come si fa a toglierlo? Tirò il tubo della flebo. Tenuto in posizione dal manicotto, non dava segno di cedimento. L'altro capo scompariva dentro la pompa. [Thomas cominciò a chiedersi se l'ago inamovibile, oltre al controllore di camera kafkiano, non rischiasse di insospettire il clone, ma sembrava che la possibilità di un sé futuro che si risvegliava una seconda volta nel file di scansione fosse una spiegazione troppo contorta per venirgli in mente nel bel mezzo di una crisi.] Si doveva portare dietro la flebo. Era una bella scomodità, ma se gli toccava aggirarsi per l'edificio avvolto in un lenzuolo in cerca di un terminale, difficilmente avrebbe potuto dare molto più nell'occhio. Iniziò a staccarsi gli elettrodi dal petto, poi un'ondata di calore ottundente gli attraversò il braccio destro. La pompa suonò due volte. Voltandosi, vide un Led verde che pulsava brillante in mezzo alla scatola, una luce che prima non aveva notato. L'onda di paralisi si diffuse dalla spalla destra prima che riuscisse a reagire. Stringere il tubo? Cercò di rotolare fuori dal letto, ma il suo corpo non rispondeva, non lo sentiva più. Gli occhi vibrarono e si chiusero. S'impose di restare sveglio, e ci riuscì. [Il copione garantiva al clone parecchi minuti di lucidità, che non avevano nulla a che vedere con i veri effetti farmacologici dell'oppiaceo.] C'era stata una connessione di computer al suo Eeg. Qualcuno sarebbe stato informato del suo risveglio… e avrebbero capito che la sola cosa compassionevole da fare sarebbe stata rianimarlo. Ma "qualcuno" doveva essere stato allertato già nel momento in cui si svegliava. Era molto più probabile che l'avessero abbandonato a morire. [Thomas si sentiva malato. Era sadico, folle. Però era troppo tardi per fare gli schizzinosi. Tutto ciò a cui stava assistendo era già successo.] Il corpo era intorpidito, ma la mente era limpida. Senza la nebbia delle distrazioni viscerali, il terrore sembrava più puro, più netto di tutto quel che aveva mai provato.

Cercò di ripescare le verità familiari, confortevoli: la Copia sarebbe sopravvissuta, avrebbe vissuto per lui la sua vita. Questo corpo era da sempre destinato a perire, l'aveva accettato tanto tempo fa. La morte era la dissoluzione irreversibile della personalità. Questa non era la morte, era una muta di pelle. Non c'era nulla da temere. A meno di non sbagliarsi sulla morte. Su tutto. Giaceva al buio, paralizzato. Sperando nel sonno, terrorizzato dal sonno. Sperando in qualsiasi cosa lo potesse distrarre, temendo di sprecare gli ultimi minuti preziosi, temendo di non essere preparato. Preparato? Cosa poteva significare? L'estinzione non aveva necessità di preparazione. Non stava rivolgendo alcuna supplica da letto di morte a un Dio a cui aveva smesso di credere dall'età di dodici anni. Non stava per rinunciare a settant'anni di libertà e lucidità per tornare alla fede infantile. Accostati al Regno dei Cieli da fanciullo, o non potrai più entrarci. Proprio quel passo gli aveva permesso di individuare la meccanica cruda della trappola. La traduzione era sin troppo ovvia (anche per un bambino): Queste stronzate insulterebbero ogni intelligenza adulta, ma mandale giù lo stesso, altrimenti brucerai in eterno. Però aveva sempre paura. Gli uncini erano penetrati in profondità. La cosa buffa è che s'era ravveduto, abbandonando l'idea malsana di farsi svegliare, volutamente. Per confrontare la sua mortalità! Per purgare la Copia dal senso di colpa! Che schifoso scherzo patetico sarebbe stato. E adesso il supposto beneficiario di quel gesto sciocco non avrebbe nemmeno saputo che era successo comunque per caso. Le tenebre nel suo cranio parvero aprirsi, una visione invisibile che si espandeva in un panorama invisibile. Adesso era sparita ogni sensazione di trovarsi nel letto d'ospedale, cieco e intorpidito, era perso in una pianura di buio. Tanto cos'avrebbe potuto dire alla Copia? La misera verità? Sto morendo nel terrore. Ho ammazzato Anna solo per codardia ed egoismo, e adesso, nonostante tutto, ho ancora paura che possa esistere una vita dopo la vita. Un Dio. Un giudizio. Sono regredito a sufficienza da cominciare a domandarmi se ogni superstizione infantile che ho mai nutrito possa rivelarsi vera, ma non abbastanza da abbracciare la possibilità del pentimento. O qualche menzogna anodina? Sto morendo in pace, ho trovato il perdono, ho messo a dormire tutti i miei fantasmi. E adesso tu sei libero di vivere la tua vita. I peccati del padre non ricadranno sul figlio. Avrebbe funzionato, sarebbe servito? Qualche formuletta inutile come il vudù della Confessione, facile come le parole in punto di morte di qualche anima torturata che cerca una redenzione hollywoodiana? Si sentì trascinare nell'ombra. Nessuna galleria di luce, nemmeno una luce. Sogni sedativi, non allucinazioni in punto di morte. La morte era distante ore o giorni, ma per allora sarebbe scivolato di nuovo nel coma. Una piccola misericordia. Attese. Nessuna rivelazione, nessuna illuminazione, nessun lampo di fede accecante. Soltanto buio e incertezza, e terrore. Thomas rimase seduto, immobile, davanti al terminale per molto tempo dopo la fine della registrazione. Il clone aveva ragione: il rituale era stato inutile, male indirizzato. Era e sempre sarebbe stato l'assassino, nulla poteva indurlo a considerarsi l'innocente figlio informatico del fu Thomas Riemann, ingiustamente gravato del senso di colpa di un altro. Almeno finché non si ridefiniva completamente, finché non rimontava i ricordi e riscriveva la sua personalità. Finché non modellava la sua mente in qualcosa di nuovo. In altre parole: finché non moriva. Quella era la scelta. Doveva convivere con quel che era nella sua interezza, oppure creare un'altra

persona che ereditasse soltanto parte di quel che era stato. Rise amaro, scuotendo il capo. "Non sto passando attraverso la cruna di nessun ago. Ho ammazzato Anna. Ecco chi sono." Cercò la cicatrice che lo definiva, carezzandola come se fosse un talismano. Rimase seduto ancora per un po', rivivendo quella notte ad Amburgo un'altra volta, piangendo per la vergogna di quel che aveva commesso. Poi aprì l'armadietto dei liquori, provvedendo a infondersi Fiducia & Ottimismo. Il rituale era stato inutile, ma se non altro l'aveva liberato dall'illusione di poter essere diverso. Qualche tempo dopo pensò al clone. Che andava alla deriva nella narcosi. Che pativa un'estrapolazione rozzamente modellata della malattia che aveva stroncato l'originale. E poi, nel momento della morte simulata, assumeva un nuovo corpo, giovane e sano, con una faccia ripescata da una foto del Natale 1985. Resurrezione, per un istante. Poco più di una formalità. Il copione aveva bloccato il giovane assassino, senza nemmeno svegliarlo. E poi? Thomas era troppo in là per tormentarsi. Aveva fatto quel che aveva fatto per il bene del rituale. Aveva consegnato il clone nelle mani di Durham per garantirgli la remota possibilità di un'altra vita, in un mondo inconoscibile oltre la morte, come l'aveva garantito alla creatura in carne e ossa che credeva di essere. E se era stato tutto un errore, ormai non c'era modo di riparare.

PARTE SECONDA PERMUTATION CITY

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Maria si svegliò da un sonno senza sogni, lucida, tranquilla. Aprì gli occhi e si guardò intorno. Il letto e la stanza erano poco familiari, entrambi ampi e lussuosi. Tutto sembrava incorrotto in modo innaturale, non era contaminato da alcun insediamento umano, come una costosa camera d'albergo. Era perplessa, ma imperturbabile. Sembrava che una spiegazione fosse in procinto di affiorare. Indossava una camicia da notte che non aveva mai visto in vita sua. Di colpo le venne in mente la clinica Landau. Le chiacchiere con i tecnici. Il prestito del pennarello. Il giro delle camere di risveglio. L'anestesista che le chiedeva di contare. Tirò fuori le mani da sotto le lenzuola. Il palmo sinistro era pulito, il messaggio consolante che ci aveva scritto sopra era sparito. Sentì il sangue defluirle dal volto. Prima che avesse la possibilità di pensare ad altro, Durham entrò nella stanza. Per un attimo rimase troppo scossa per produrre alcun suono, poi gli gridò: "Che mi ha fatto? Sono la Copia, vero? Sta facendo funzionare la Copia!" Intrappolata nel software di lancio, con soltanto due minuti da vivere? Durham rispose con voce serena: "Sì, è la Copia". "Come? Come ha fatto? Come ha potuto farlo?" Lo guardò dritto in faccia, nell'attesa ansiosa di una risposta, furibonda più che altro per l'idea che potessero entrambi svanire prima di riuscire a sentire la spiegazione, prima di comprendere come aveva fatto lui a superare tutte le sue complicate salvaguardie. Ma Durham rimase accanto alla soglia, con un'espressione imbarazzata e assorta, quasi avesse previsto una reazione del genere, ma non riuscisse ad ammetterlo, adesso che si stava verificando. Alla fine Maria disse: "Non è il lancio, eh? È dopo. Lei è un'altra versione. Mi ha rubato, mi sta facendo funzionare dopo". "Non l'ho rubata." Esitò, poi aggiunse cauto: "Credo sappia esattamente dove si trova. E non volevo affatto svegliarla, ma ho dovuto. Qui succedono più cose di quante lei abbia voglia di vedere o a cui possa desiderare partecipare. Non la potevo far dormire per tutto quel tempo. Sarebbe stato imperdonabile." Maria non faceva caso a nulla di quel che lui le diceva. "Ha conservato il mio file di scansione dopo il lancio. E riuscito a duplicarlo." "No. L'unico posto in cui sono andati i dati del suo file è stata la configurazione Giardino dell'Eden. Come d'accordo. E adesso si trova a Permutation City. Nell'universo Tvc, ormai comunemente noto come Elisio. Che funziona solo in base alle proprie leggi." Maria si tirò su, lentamente, nel letto, portandosi le ginocchia al petto, cercando di accettare la situazione senza panico, senza crollare. Durham era pazzo, imprevedibile. Pericoloso. Quando se lo voleva ficcare in testa? Nella realtà, se costretta gli poteva spezzare quel collo di merda per difendersi. Ma se lui controllava quell'ambiente allora Maria era impotente: la poteva stuprare, torturare, farle di tutto. La stessa idea di lui che l'aggrediva sembrava ancora ridicola, ma non poteva fare affidamento sul modo in cui l'aveva trattata in passato. Era un bugiardo e un sequestratore. Non lo conosceva affatto. Eppure adesso si comportava in modo educato come sempre, sembrava impegnato a continuare la recita. Lei aveva un certo timore di mettere alla prova quella patina di ospitalità, ma si costrinse a dire con tono piatto: "Voglio usare un terminale". Durham indicò lo spazio sopra il letto, facendo spuntare un terminale. Maria si sentì salire il cuore in gola, comprendendo di essersi aggrappata fino a quel momento all'esile speranza di poter essere ancora umana. Ed era ancora possibile. Lo stesso Durham era già stato privato una volta dei suoi ricordi, indotto a credere di essere una Copia quando era solo un visitatore. O almeno sosteneva che fosse accaduto, in un altro mondo.

Tentò una mezza dozzina di numeri, a partire da quello di Francesca per finire con quello di Aden. Il terminale li dichiarò non validi. Non riusciva a indursi a provare il proprio. Durham rimase a guardarla in silenzio. Sembrava combattuto tra la simpatia sincera e una specie di fascinazione clinica, quasi che un tentativo di fare qualche telefonata gettasse dei dubbi sulla lucidità di Maria, come se fosse impegnata in un comportamento bizzarro, psicotico, degno dell'analisi più attenta, come se sbirciasse dietro uno specchio in cerca degli oggetti che vi aveva visto riflessi, come se dialogasse con un programma televisivo… o facesse delle chiamate con un telefono giocattolo. Maria scostò con un gesto di rabbia la macchina sospesa, che si mosse senza problemi ma si bloccò appena lei staccò le mani. Quella Rv a pezzi e bocconi e la sua fisica di comodo sembravano l'insulto finale. Disse: "Mi crede stupida? Cosa prova un terminale finto?" "Nulla. Allora perché non applica i suoi criteri?" Poi pronunciò le parole "Computer centrale" e il terminale aprì in un lampo un menu fitto di icone, intestato: Struttura di Calcolo Permutation City. "Questa interfaccia è utilizzata da pochissime persone, di questi giorni. È la versione originale progettata prima del lancio. Ma la connette ancora alla potenza di calcolo della sua ultima copersonalità". Mostrò a Maria un file di testo che lei riconobbe immediatamente. Era un programma che aveva scritto per risolvere una lunga serie di equazioni diofantee, volutamente complessa. L'output di questo programma era la chiave concordata per permettere l'accesso di Durham alle altre Copie, "dopo" il lancio. Lo mise in funzione, e quello sputò immediatamente i risultati: una schermata di numeri, il più piccolo lungo venti cifre. Ogni computer del mondo reale ci avrebbe impiegato anni. Maria non si fece impressionare. "Può averci bloccato mentre il programma lavorava, per far sembrare che non fosse passato il tempo. O può aver generato in anticipo le risposte." Indicò il terminale. "Mi aspetto che stia simulando tutto. Non sta parlando a un sistema operativo vero, non sta affatto facendo funzionare il programma." "Si senta pure libera di mutare qualche parametro delle equazioni, e riprovi". Lo fece. Il programma modificato "girò" altrettanto rapidamente, sfornando una nuova serie di risposte. Lei rise acida. "E adesso che dovrei fare? Verificare tutto a mente? Può aver sbattuto sullo schermo ogni cretinata che le pareva, tanto non noterei la differenza. E se scrivessi un altro programma per controllare i risultati, potrebbe falsificare anche le sue operazioni. Controlla l'intero ambiente, no? Perciò non mi posso fidare di nessuno. Tutto quel che io faccio per provare le sue affermazioni, lei può intervenire per farlo andare come le pare. È per questo che ha sempre voluto il mio file di scansione? Per potermi rinchiudere qui a bombardarmi di bugie, per 'dimostrare' finalmente a qualcuno le sue idee allucinate?" "Adesso è in preda alla mania di persecuzione." "Davvero? È lei l'esperto?" Studiò quella lussuosa cella di prigione. Le tende di velluto rosso erano agitate da un venticello. Scivolò giù dal letto per attraversare la stanza, ignorando Durham. Più discuteva con lui, più le riusciva difficile temerlo fisicamente. Lui aveva scelto la propria forma di supplizio e ci si atteneva. La finestra si apriva su una foresta di torri luccicanti, senza dubbio registrata correttamente secondo le leggi dell'ottica, ma ancora troppo fasulla… come il set di un film espressionista degli anni Venti del Ventesimo secolo. Aveva già visto gli schizzi, era Permutation City, quale che fosse l'hardware su cui girava. Guardò in basso. Erano al settantesimo o all'ottantesimo piano, la strada era pressoché invisibile, ma poco sotto la finestra, una dozzina di metri sulla destra, c'era una passerella che portava all'edificio adiacente, e su quella vedeva i cittadini pupazzo che chiacchieravano a gruppi di due o tre, mentre si dirigevano verso le loro destinazioni fittizie. Tutto aveva l'aria costosa, ma il rallentamento poteva garantire un sacco di potenza di calcolo soggettiva, se era quello lo scambio che si preferiva. Quanto tempo era passato nel mondo esterno? Anni? Decenni?

Era riuscita a salvare Francesca? Durham disse: "Crede che abbia rapito il suo file di scansione e avviato tutta questa città solo per il piacere d'ingannarla? " "È la spiegazione più semplice". "È ridicola, e lo sa. Mi dispiace, so che per lei dev'essere doloroso. Ma non l'ho fatto a cuor leggero. Sono passati settemila anni, ho avuto parecchio tempo per riflettere." Lei si girò per guardarlo in faccia. "La smetta di mentirmi!" Lui sollevò le mani in un gesto che significava pentimento… e impazienza. "Maria… si trova nell'universo Tvc. Il lancio ha funzionato, l'ipotesi del pulviscolo è stata confermata. È un dato di fatto, e farebbe meglio a farsene una ragione, perché adesso fa parte di una società che ci convive da millenni. E so bene che le ho detto che l'avrei svegliata solo se pianeta Lambert non avesse funzionato, se c'era bisogno che lavorasse sul seme della biosfera. D'accordo, in questo caso ho infranto la parola data. Ma … era la promessa a essere sbagliata. Pianeta Lambert ha funzionato, oltre i nostri sogni più ambiziosi. Come potevo lasciarla dormire?" Una finestra d'interfaccia spuntò a mezz'aria accanto a Maria, mostrando un mondo azzurrino in penombra. "Non mi aspetto che i continenti abbiano una forma familiare. Abbiamo conferito molte risorse all'Autoverso. Settemila anni, per molti di noi, sono stati circa tre miliardi di pianeta Lambert." Maria replicò con tono incolore: "Sta sprecando il suo tempo. Non mi farà cambiare idea, non conta quel che mi fa vedere". Eppure rimase a guardare impietrita il pianeta, mentre Durham avvicinava il punto di vista. Sfondarono la coltre di nubi presso la costa est di una grande isola montagnosa, parte di un arcipelago a cavallo dell'equatore. La nuda roccia superficiale delle vette era color ocra, non certo un minerale che avesse incluso nel progetto originale… ma il tempo, e la geochimica, potevano aver escogitato qualcosa di nuovo. La vegetazione che copriva quasi tutti gli altri lembi di terra, fino all'acqua, mostrava sfumature verde-mare. Mentre il punto di vista si abbassava, e la grana delle superfici si definiva, Maria vide solo "erba" e "arbusti", nulla che ricordasse anche alla lontana un albero terrestre. Durham puntò su un prato non distante dalla costa, arretrato di qualche centinaio di metri secondo la scala in fondo all'immagine, dove vide inaspettatamente confermate le ipotesi deducibili dagli indizi nel paesaggio. Quel che all'inizio sembrava una nube di polvere sollevata dal vento che soffiava sopra l'erba (qualche tipo di seme?) si precisò come uno sciame di "insetti" neri e lustri. Durham bloccò l'immagine, poi zummò su una creatura. Non era un insetto secondo la classica definizione terrestre: c'erano quattro zampe, non sei, e il corpo era chiaramente suddiviso in cinque segmenti, la testa, le sezioni con le zampe anteriori, le ali, le zampe posteriori e la coda. Durham mosse la mano per ruotare l'inquadratura. La testa era tozza, non del tutto piatta, con due grandi occhi, sempre che fossero occhi: dei lucenti dischi bluastri, privi di struttura apparente. Il resto della testa era coperto di peluzzi esili allineati secondo uno schema complesso, simmetrico, che a Maria ricordava i tatuaggi sul viso dei Maori. Sensori di vibrazione, o olfattivi? Disse: "Carino, ma ha dimenticato la bocca". "Infilano il cibo direttamente in una cavità sotto le ali." Ruotò il corpo per mostrargliela. "Aderisce a quelle setole, e viene dissolto dagli enzimi che secernono. Verrebbe da pensare che caschi, e invece non è così, almeno finché non hanno finito di digerirlo assorbendo le sostanze nutritive, e poi una proteina sulle setole muta forma per bloccare l'adesività. Il loro stomaco è solo quella gocciolina appiccicosa li appesa, all'aria aperta." "Poteva escogitare qualcosa di più plausibile". Durham rise. "Esatto." Il singolo paio d'ali era di un marrone traslucido, sembrava fatto di una sottile pellicola della stessa sostanza dell'esoscheletro. Le quattro zampe avevano una sola giuntura, e terminavano con delle strutture

piumose. Il segmento con la coda mostrava dei contrassegni marroni e neri simili a quelli di un bersaglio, ma al centro non c'era nulla. Dal fondo del margine emergeva un tubo scuro che si restringeva fino a una punta aguzza come un ago. "I lambertiani hanno dei cromosomi diploidi, ma soltanto un sesso. Ognuno dei due può iniettare il Dna, uno dopo l'altro, in certi tipi di cellule vegetali. I loro geni s'impossessano della cellula, trasformandola in un incrocio tra una cisti e un uovo. Di solito scelgono un punto preciso sullo stelo di certe specie d'arbusto. Non so se lo potremmo chiamare parassitismo, o soltanto una nidificazione a livello molecolare. La pianta nutre l'embrione e sopravvive in perfetta salute all'intero processo, e quando i giovani escono dall'uovo restituiscono il favore spargendo i semi. I loro antenati hanno rubato alcuni meccanismi di controllo da un virus delle piante un miliardo di anni fa. Ci sono parecchi scambi d'energia del genere, i 'regni' sono molto più simili dal punto di vista biochimico che non sulla Terra". Maria si staccò dallo schermo. La cosa più stupida era che lui insisteva a chiedere che facesse delle domande, che premesse per maggiori dettagli. Disse: "E poi? Fa uno zoom per mostrarmi una bella struttura anatomica, le cellule dell'insetto, le proteine, gli atomi, le cellule dell'Autoverso, e questo mi dovrebbe convincere che l'intero pianeta è inserito nell'Autoverso? Sblocca questa cosa, la fa svolazzare, e io dovrei concludere che nessun computer reale potrebbe gestire un organismo tanto complesso, modellato a livello tanto profondo? Come se potessi verificare di persona che ogni battito d'ala corrisponde a una sequenza valida di qualche milione di miliardi di stati di automa cellulare. Non è differente dai risultati dell'equazione. Non dimostra niente". Durham assentì lentamente. "D'accordo. E se le mostrassi qualche altra specie? O la storia evolutiva? I dati paleogenetici? Abbiamo conservato su file ogni mutazione sin dall'anno zero. Si vuol sedere a controllare se sembrano autentici?" "No. Voglio un terminale che funzioni. Voglio che mi lasci chiamare l'originale. Le voglio parlare. Quanto a noi, forse potremmo decidere cosa farò nel mio conto Jsn quando uscirò da questo manicomio di merda". Durham parve sconcertato, e per un attimo lei credette di potergli finalmente far abbassare la guardia. "L'ho svegliata per un motivo preciso. Stiamo per avere un contatto con i lambertiani. Poteva succedere anche prima, ma sono sopraggiunte delle complicazioni, dei ritardi politici". Adesso l'aveva disorientata del tutto. "Contatto con i lambertiani? Che significa?" Lui indicò l'insetto immobile, che gli mostrava ancora i genitali e la schiena. "Non è una specie che ho scelto a caso. È il culmine della vita in Autoverso. Sono coscienti, consapevoli di sé, molto intelligenti. Non hanno praticamente tecnologia, ma il loro sistema nervoso è circa dieci volte più complesso di quello umano, e possono andare anche più in là in qualche mansione, mettendo in funzione una specie di computer parallelo dello sciame. Conoscono la chimica, la fisica, l'astronomia. Sanno che ci sono trentadue atomi, anche se non hanno ancora compreso le regole dell'automa cellulare che li sottendono. E stanno modellando la nube primordiale. Sono creature senzienti, e vogliono sapere da dove sono venute." Maria ruotò la mano davanti allo schermo per tornare a studiare la testa del lambertiano. Stava cominciando a sospettare che Durham credesse davvero a ogni parola che diceva, nel qual caso forse non aveva inventato personalmente quegli alieni. Forse qualche altra sua versione (l'originale in carne e ossa?) li stava ingannando entrambi. Se era così, lei stava discutendo con la persona sbagliata, ma tanto che poteva fare? Iniziare a innalzare al cielo implorazioni perché la liberassero? Disse stordita: "Dieci volte più complesso di un cervello umano?" "I loro neuroni utilizzano dei polimeri di conduzione per trasmettere il segnale, invece dei potenziali d'azione di membrana. Le cellule sono paragonabili per dimensioni a quelle umane, ma ogni assone e dendrite trasporta segnali multipli." Durham spostò il punto di vista dietro l'occhio del lambertiano, e glielo mostrò. Un neurone nel nervo ottico, sotto esame ravvicinato, conteneva migliaia di molecole simili a corde dai nodi intricati che correvano lungo tutto il corpo cellulare. All'estremità, ogni polimero

si univa a una specie di vescicola, e lo stretto cavo molecolare appariva rimpicciolito rispetto al piccolo marsupio della membrana cellulare rubato al mondo esterno. "Ci sono circa tremila neurotrasmettitori distinti. Sono tutti proteici, composti da tre subunità, con quattordici possibilità per subunità. Un po' come per gli anticorpi umani, lo stesso meccanismo per generare un ampio spettro di forme. E si legano ai loro recettori con la stessa selettività di un anticorpo a un antigene. Ogni sinapsi è un centralino biochimico a tremila canali, senza interferenze. Questa è la base molecolare del pensiero lambertiano." Aggiunse in modo perentorio: "Che è più di quel che lei e io possediamo: una base molecolare. Ancora utilizziamo i vecchi modelli patchwork del corpo umano, dilatati e modificati secondo il gusto, ma sempre basati sugli stessi principi della prima Copia parlante di John Vines. Esiste un progetto a medio termine per consentire alla gente di farsi implementare a livello atomico… però, a parte le complicazioni politiche, persino gli entusiasti continuano a trovare cose più urgenti da fare". Durham spostò il punto di vista attraverso la membrana cellulare, girandolo poi verso la parte terminale del neurone. Cambiò lo schema colore da atomico a molecolare per evidenziare i neurotrasmettitori individuali con i loro colori distinti. Poi sbloccò l'immagine. Molte vescicole grigie per i lipidi di membrana si spalancarono, scaricando fiumi di puntolini dai colori vivaci. Mentre rotolavano fuori quadro, si risolsero in globuli elaborati, irregolari, con una varietà sconcertante di forme. Durham spostò di nuovo in avanti l'angolazione, puntando verso l'estremità della sinapsi. In quel modo, Maria poté distinguere i recettori a codice colore incastonati nella parete cellulare del neurone recettore: molecole a lunga catena avvolte in anelli zigzaganti, con depressioni gibbose sulla superficie esposta. Per parecchi minuti osservarono migliaia di neurotrasmettitori spaiati rimbalzare su un recettore, finché Durham si annoiò, implorando il software: "Mostraci un inserimento". L'immagine fu disturbata per un secondo, poi tornò alla velocità iniziale mentre finalmente una molecola dalla forma corretta si incastrava. Colpì il recettore e si inserì. Durham affondò il punto di vista attraverso la membrana giusto in tempo per mostrare la sezione caudale interna del recettore che cambiava in risposta la sua configurazione. Disse: "Quella adesso catalizzerà l'attivazione di un secondo messaggero, che alimenterà energia nel polimero appropriato, a meno che non ci sia già legato un messaggero inibitore che blocca l'accesso". Tornò a parlare al software, che assunse il controllo del punto di vista per mostrare loro ogni evento che Durham aveva descritto. Maria scrollò il capo confusa. "Mi dica la verità, chi ha orchestrato tutto? Tremila neurotrasmettitori, tremila recettori, tremila secondi messaggeri? Senza dubbio mi potrà mostrare le strutture individuali di ciascuno, e senza dubbio si comporteranno per davvero come sostiene lei. Persino scrivere il software per simularlo dev'essere stato un lavoro colossale. A chi l'ha commissionato? Non c'è mica tanta gente capace di fare una cosa del genere." Durham replicò gentile: "L'ho commissionato a lei. Non può essersene dimenticata. Un seme per una biosfera? Una dimostrazione che la vita nell'Autoverso potrebbe essere complessa e diversificata quanto la vita sulla Terra? " "No. Dall'A. hydrophila a questo ci vorrebbe..". "Miliardi di anni di tempo dell'Autoverso? Potenza di calcolo di parecchi ordini di grandezza superiore alle risorse della Terra del Ventunesimo secolo? Era questo che serviva a pianeta Lambert, ed è questo che ha avuto." Maria si allontanò dallo schermo finché non poté arretrare oltre, poi scivolò lungo la parete accanto alla finestra dalle tende rosse, sedendosi sulla folta moquette. Si nascose il viso tra le mani, e cercò di respirare adagio. Le pareva di essere stata sepolta viva. Gli credeva? Non sembrava più così importante. Qualunque cosa lei facesse, lui avrebbe continuato a bombardarla con "prove" simili, coerenti con le sue affermazioni. Che mentisse volutamente o meno (e che fosse stato ingannato da un'altra propria versione oppure la "ipotesi del pulviscolo" fosse in fin dei

conti quella giusta), Durham non le avrebbe mai permesso di uscire di lì per tornare nel mondo reale. Bugiardo psicopatico, vittima anche lui, oppure sereno fornitore di verità, era incapace di liberarla. L'originale di Maria era ancora là fuori, con i soldi per salvare Francesca. Era quello il senso di tutta quella scommessa pazzesca, la ricompensa per rischiare l'anima. Se riusciva a ricordarsene, ad aggrapparsi a quel concetto, forse ce la faceva a non impazzire. Durham incalzò, ignorando lo stato di disagio di Maria, oppure troppo impegnato a infliggere il colpo di grazia. "Chi poteva architettarlo? Sa bene quanto ci ha messo Max Lambert a tradurre un batterio del mondo reale. Crede sul serio che io sia riuscito a trovare qualcuno che potesse confezionare uno pseudoinsetto funzionante, e inedito, dal nulla… per non parlare di un insetto intelligente? D'accordo, non può controllare personalmente il comportamento macroscopico contro le regole dell'Autoverso. Ma può studiare tutti i cicli biochimici, risalendo alle specie ancestrali. Può guardare un embrione mentre cresce, cellula per cellula, seguendo i gradienti degli ormoni di controllo, le pliche di tessuto che si differenziano, la formazione degli organi. Il pianeta è un libro aperto, per noi. Può esaminare quel che le pare e piace, analizzarlo a qualsiasi scala, dai virus agli ecosistemi, dall'attivazione di una molecola di pigmento retinico ai cicli geochimici. Attualmente su pianeta Lambert vivono seicentonovanta milioni di specie. Tutte obbediscono alle leggi dell'Autoverso. Possiamo dimostrare che tutte discendono da un singolo organismo vissuto tre miliardi di anni fa, e le cui caratteristiche mi aspetto che lei conosca a memoria. Crede onestamente che qualcuno possa averlo progettato?" Esasperata, Maria alzò lo sguardo su Durham. "No. Certo che si è evoluto, si dev'essere evoluto. Adesso lo può disattivare. Ha vinto, le credo. Ma perché mi ha dovuto svegliare? Sto per diventare pazza". Durham si accovacciò, posandole una mano sulla spalla. Lei cominciò a singhiozzare senza lacrime mentre tentava di suddividere la sua sventura in parti che potesse cominciare a gestire. Francesca era scomparsa. Aden era scomparso. Tutti i suoi amici. Tutta la gente che aveva conosciuto, in carne o in rete. Tutta la gente di cui sapeva, musicisti e scrittori, filosofi e stelle del cinema, politici e serial killer. Non erano nemmeno morti, le loro vite non giacevano nel suo passato, integre e comprensibili. Erano sparpagliati attorno a lei come polvere, insignificanti, scollegati. Tutto quel che aveva conosciuto era stato tritato in un disturbo casuale. Durham esitò, poi l'abbracciò goffamente. Lei aveva voglia di fargli del male, eppure gli si strinse contro piangente, a denti serrati, pugni chiusi, tremante di rabbia e dolore. Lui disse: "Non impazzirà. Qui può vivere qualsiasi vita che vuole. Settemila anni non significano niente, non abbiamo perso la vecchia cultura, abbiamo ancora tutte le biblioteche, gli archivi, i database. E ci sono migliaia di persone che la vogliono conoscere, gente che la rispetta per quel che ha fatto. È un mito, un'eroina di Elisio, è la diciottesima fondatrice dormiente. Terremo una gran festa in onore del suo risveglio". "Non voglio. Non voglio niente del genere." "Va bene. Sta a lei decidere." Maria chiuse gli occhi e si rannicchiò contro il muro. Sapeva che doveva aver l'aria di una bambina capricciosa, ma non le importava. Disse con rabbia: "È sua l'ultima parola. L'ultima risata. Mi ha riportato in vita solo per farmi toccare con mano la prova delle sue preziose convinzioni. Bravo. E adesso vorrei tornare a dormire. Per sempre. Voglio che tutto questo svanisca". Durham rimase in silenzio per un pezzo, poi disse: "Può farlo, se davvero vuole. Una volta che le ho mostrato cos'ha ereditato, una volta che le ho mostrato come controllarlo, avrà la possibilità di escludersi dal resto di Elisio. Se preferisce dormire, allora nessuno la potrà svegliare. Ma non vorrebbe essere qui, su pianeta Lambert, quando avremo il primo contatto con la civiltà che deve a lei la propria esistenza?"

24 [RUT CITY]

Peer era in laboratorio a molare una gamba di tavolo sul tornio quando il suo sguardo intercettò l'ultimo messaggio di Kate: Questo lo devi proprio vedere. Ti prego! Vediamoci in Città. Guardò altrove. Stava lavorando col suo legno preferito, il pino. Aveva costruito una propria piantagione da una libreria genetica e da mappe di cellule vegetali, modellando individui di ogni tipo cellulare fino al livello atomico, poi incapsulando il loro comportamento essenziale in regole che si poteva permettere di far girare miliardi di volte, per decine di migliaia di alberi. In teoria avrebbe potuto costruire l'intera piantagione dai singoli atomi, e sarebbe stato di gran lunga il metodo più elegante, ma rallentarsi a una dimensione temporale in cui gli alberi potessero crescere abbastanza alla svelta avrebbe significato lasciare indietro Kate. Fermò il tornio e rilesse il messaggio, che era scritto su un poster puntato alla bacheca del laboratorio (l'unica parte del suo ambiente a cui le consentiva l'accesso mentre lavorava). Il poster sembrava del tutto comune, a parte la propensione vistosa delle lettere a balzare su e giù quando gli incrociavano la visione periferica. Borbottò: "Qui sono felice, non m'interessa quel che fanno in Città". Il laboratorio confinava con un magazzino pieno di gambe di tavolo, centosessantaduemilatrecentoventinove, finora. Peer non riusciva a immaginare niente di più soddisfacente del raggiungimento del limite dei duecentomila, anche se riteneva assai probabile che avrebbe cambiato idea abbandonando il laboratorio prima che ciò accadesse. Le nuove vocazioni erano imposte dal suo eso-sé a intervalli casuali, ma statisticamente la prossima era già in ritardo. Immediatamente prima di intraprendere la falegnameria, aveva divorato con passione tutti i testi di matematica superiore nella biblioteca centrale, messo in funzione tutto il software tutoriale e poi contribuito di persona ad alcuni sviluppi importanti nella teoria dei gruppi, poco interessato al fatto che nessuno dei matematici elisei si sarebbe mai accorto del suo lavoro. Prima ancora aveva scritto oltre trecento opere comiche, con libretti in italiano, francese e inglese, portandole anche quasi tutte in scena, con attori e pubblico pupazzo. Prima ancora, aveva studiato con pazienza la struttura e la biochimica del cervello umano per sessantasette anni, e verso la fine, con immensa soddisfazione, aveva compreso appieno la natura del processo della coscienza. Ognuno di questi interessi era stato all'epoca totalmente avvincente e soddisfacente. Una volta si era persino interessato agli elisi. In compenso, era sempre interessato a Kate. L'aveva scelta come una delle sue poche invarianti. E ultimamente la stava trascurando, non si vedevano da quasi dieci anni. Si guardò intorno immalinconito nel laboratorio, il suo sguardo cadde sulla catasta di legna fresca nell'angolo, poi si decise. Il piacere del tornio lo chiamava, ma l'amore significava sacrificio. Peer si tolse il grembiule, sgranchì le braccia e cadde all'indietro nel cielo sopra la Città. Kate gli si fece incontro quand'era ancora in volo, afferrandogli la mano mentre si avventava dal nulla, quasi strappandogli il braccio dall'articolazione. Strillò sopra il rumore del vento: "Allora sei ancora vivo. Stavo cominciando a temere che ti fossi disattivato. Per andare a cercare la vita seguente senza di me". Il tono era sarcastico, ma si notava una sfumatura di sollievo sincero. Dieci anni potevano essere ancora lunghi, se non t'inventavi qualcosa. Peer disse sottovoce, ma in modo da farsi sentire: "Sai quanto sono impegnato. E quando lavoro..". Lei si mise a ridere, irriverente. "Lavori? Così lo chiami? Godersi una cosa che farebbe morire di noia il più stupido robot di stabilimento?" Aveva i capelli lunghi e corvini, che le sfioravano il viso come fossero agitati a caso dal vento, ma sempre in modo da nascondere le sue espressioni. "Fai ancora…" Il vento inghiottì le parole di Peer. Kate gli aveva disattivato l'intelligibilità afisica.

Gridò: "Fai ancora la scultrice, vero? Dovresti capire. Il legno, la grana, la superficie..". "Capisco che ti servano delle protesi di interesse per aiutarti a passare il tempo, ma potresti provare a fissare i parametri con più attenzione." "Perché dovrei?" Essere costretto ad alzare la voce lo fece sentire polemico. Costrinse l'eso-sé ad aggirare l'effetto, e gridò con calma: Ogni tot decenni, a caso, scelgo nuove mete, a caso. È perfetto. Come potrei migliorare uno schema del genere? Non sono fissato su niente per sempre. Anche se pensi che stia sprecando il mio tempo, è solo per cinquanta o cent'anni. Che differenza fa, alla lunga?" "Potresti essere più selettivo." "Cos'hai in mente? Qualcosa di socialmente utile? L'impegno contro la fame nel mondo? Accudire i moribondi? O qualcosa di impegnativo dal punto di vista intellettuale? Come scoprire le leggi fondamentali dell'universo? Devo ammettere che le regole Tvc mi sono del tutto sfuggite di mente, mi ci vorranno cinque secondi per ricordarle. La ricerca di Dio? Questa sì che è difficile: Paul Durham non risponde mai alle mie chiamate. La scoperta di sé?" "Non devi essere disponibile a ogni assurdità immaginabile." "Se limitassi la gamma di opzioni, mi ripeterei in un lampo. E se trovi tanto insopportabile la fase che sto attraversando, puoi sempre farla scomparire. Ti puoi sospendere finché non cambio." Kate era indignata. "Ho altre dimensioni temporali a cui pensare oltre alla tua!" "Tanto gli elisi non vanno da nessuna parte." Non aggiunse che sapeva che si era già sospesa una decina di volte. Ogni volta per qualche anno in più della precedente. Lei si girò verso di lui, scostando i capelli per mostrare un occhio minaccioso. "Lo sai che ti stai prendendo in giro da solo. Alla fine ti ripeterai. Anche se cerchi di riprogrammarti come un disperato, alla fine il cerchio si chiuderà e scoprirai di averlo già fatto." Peer rise indulgente, e gridò: "Di questo abbiamo già discusso di sicuro, e sai che non è vero. È sempre possibile sintetizzare qualcosa di nuovo, una nuova forma d'arte, un nuovo campo di studi. Una nuova estetica, una nuova ossessione". Cadere nella fresca aria del tardo pomeriggio accanto a lei era esilarante, ma già gli mancava l'odore dei trucioli. Kate rese l'aria attorno a loro immobile e silenziosa, anche se continuavano a precipitare. Gli lasciò andare la mano, mentre diceva: "So che ne abbiamo già discusso. Mi ricordo quel che hai detto l'ultima volta: 'Nel peggiore dei casi, per i primi cento anni puoi contemplare il numero uno. Poi per i secondi cento anni il numero due. E così via, all'infinito. Quando i numeri diventano troppo grandi da riuscire a tenerli a mente, puoi sempre espandere la memoria per farceli stare'. Quod erat demonstrandum. Non finirai mai gli interessi nuovi ed eccitanti". Peer rispose con voce educata: "Dov'è finito il tuo senso dell'umorismo? È la semplice dimostrazione che l'ipotesi peggiore è sempre infinita. Non ho mai suggerito di farlo per davvero". "Ma potresti." Adesso che il viso non era più nascosto, sembrava più derelitta che arrabbiata, per scelta, se non necessariamente per stratagemma. "Perché devi trovare sempre tutto così… soddisfacente? Perché non riesci a discriminare? Perché non ti permetti di annoiarti delle cose, e passare ad altro? E riprenderle in seguito se ne senti la necessità". "Mi sembra tremendamente originale. Molto umano." "Con loro funzionava. Certe volte." "Sì. E sono sicuro che certe volte funziona anche con te. Svolazzi avanti e indietro tra la tua arte e lo spettacolo della telenovela elisia. Con in mezzo qualche decennio di depressione inconsulta. Sei quasi sempre insoddisfatta, e lasciare che succeda è una scelta consapevole, deliberata e arbitraria quanto quello che m'impongo io. Se è così che vuoi vivere non cercherò di cambiarti. Ma non aspettarti che viva allo stesso modo." Lei non replicò. Dopo un attimo, la bolla d'aria immota attorno a loro sparì, e il rombo del vento tornò

a inghiottire il silenzio. Certe volte lui si domandava se Kate fosse riuscita realmente a superare lo shock della scoperta che la clandestinità gli aveva garantito non qualche secolo in un santuario da miliardari, ma una discesa nell'abisso dell'immortalità. La Copia che aveva convinto David Hawthorne a girare le spalle al mondo fisico, la seguace sfegatata, anche prima della morte, della filosofia della Nazione solipsista, la donna che non aveva avuto bisogno di condizionamento cerebrale o di complicati espedienti esterni per accettare la sua incarnazione software… adesso si comportava sempre più come una velleitaria in carne e ossa, o meglio, come una velleitaria elisia, anno dopo anno. E non ce n'era bisogno. La loro piccola fetta d'infinito era infinita quanto il tutto, in fin dei conti non c'era nulla di quel che potevano fare gli elisi che non potesse fare anche Kate. A parte camminare tra loro quale loro pari, ed era proprio ciò che sembrava concupire di più. Certo, gli elisi si erano messi volutamente in moto per conseguire il fine logico di tutto ciò per cui lei credeva che le Copie lottassero, mentre lei aveva appena preso un passaggio per sbaglio. Il loro mondo sarebbe "sempre" stato (istante elisio comparato con istante elisio) più grande e più veloce del suo. Perciò lei, "naturalmente", secondo valori umani arcaici che non aveva avuto il buonsenso di cancellare, voleva partecipare alla partita principale. Ma Peer trovava ancora assurdo che passasse la vita a invidiarli, quando poteva generare, o persino lanciare, una sua società altrettanto complessa, altrettanto popolosa, e girare le spalle agli elisi come loro le avevano girate alla Terra. Era una sua scelta. Peer ci si adattava, assieme a tutti i loro dissapori. Se dovevano trascorrere insieme l'eternità, era convinto che alla fine avrebbero risolto i loro problemi, sempre che potessero essere risolti. Erano ancora i primi giorni. E sempre lo sarebbero stati. Si girò per guardare la Città, giù in basso, oppure la strana carta ricorrente che si erano fatti bastare, sepolti com'erano tra le pareti e le fondamenta della cosa reale. Il software parassita segreto di Malcolm Carter non era cieco al suo ospite, potevano spiare quel che accadeva ai livelli superiori del programma che li faceva funzionare surrettiziamente, anche se non potevano influenzare nulla. Riuscivano a strappare qualche breve registrazione parziale dell'attività nella Città vera, e ripeterla in un limitato ambiente duplicato. Era un po' come… essere le lettere distanti del testo dell' Ulisse che diceva: Peer e Kate lessero "Leopold Bloom vagava per Dublino". Anche se non era un sunto altrettanto spinto. Ovvio che la visione dall'alto era sempre mozzafiato. Peer doveva ammettere era indistinguibile da quella vera. Mentre scendevano, il sole calava sopra l'oceano, e le cascate Ulam scintillavano a oriente come un velo d'ambra inserito sulla parete di granito del monte Vine. Sulle colline, una dozzina d'aghi d'acciaio e prismi d'ossidiana, le aggraziate torri di guardia, captavano la luce riflettendola l'una sull'altra. Peer seguì il fiume attraverso la rigogliosa foresta tropicale, attraverso le scure praterie erbose, fino alla Città vera e propria. Gli edifici della periferia erano bassi e ampi, per diventare gradualmente più alti e stretti. Il profilo urbano saliva in una curva che imitava la sagoma del monte Vine. Più vicino al centro, mille passerelle cristalline collegavano a ogni livello le torri della Città, collegamenti tanto fitti e irraggiati da far sembrare possibile che ogni palazzo fosse unito direttamente a tutti gli altri. Non era vero, ma la sensazione era sempre irresistibile. Le folle decorative gremivano le strade, pupazzi senza cervello che obbedivano a regole semplicissime ma sembravano motivati e occupati quanto le folle umane. Forse era uno strano ornamento, ma non molto più strano della presenza di vie ed edifici. La maggior parte degli elisi visitava appena quel posto, ma l'ultima volta che Peer ci aveva pensato, già alcune centinaia, soprattutto di terza generazione, avevano cominciato ad abitare la Città a tempo pieno, adottando ogni dettaglio della sua architettura e geografia come parametri fissi, giurando fedeltà alle sue distanze euclidee. Gli altri, più che altro di prima generazione, erano rimasti sbigottiti dal comportamento di questa setta. Era strano come la "reversione" fosse il massimo tabù tra i vecchi elisi, tanto conservatori sotto molti altri aspetti. Forse

avevano paura di diventare nostalgici. Kate disse: "Municipio". La seguì nell'aria che imbruniva. Per Peer la Città sapeva sempre di dolce, dolce ma artificiale, come un giocattolo elettronico appena scartato, tutto plastica e microchip, scaturito dall'infanzia di David Hawthorne. Scesero a spirale attorno alla dorata torre centrale, la più alta della Città, facendosi strada tra le passerelle. Giocando a Peter Pan e Campanellino. Peer aveva rinunciato da tempo a discutere con Kate delle strade complicate che sceglieva per entrare nella ricostruzione. Era lei ad avere questo spioncino sulla Città nel proprio tempo, e a controllare del tutto l'accesso all'ambiente. Lui poteva adattarsi alle sue regole oppure starsene lontano. E il succo dello stare lì era compiacerla. Atterrarono sulla piazza selciata all'esterno dell'entrata principale del Municipio. Peer rimase sorpreso nel riconoscere in una delle fontane una versione ingrandita della dimostrazione di Malcolm Carter per spiegare i suoi trucchi algoritmici: un cherubino che lottava con un serpente. Doveva averla notata prima, era già passato di lì un centinaio di volte, ma in tal caso se n'era scordato. La sua memoria aveva bisogno di manutenzione, era passato un pezzo dall'ultima volta che aveva aumentato la portata delle reti attinenti, che dovevano essere prossime alla saturazione. La semplice addizione di nuovi neuroni rallentava il richiamo relativo ad altre funzioni cerebrali, rendendo certe modalità di pensiero simili a una nuotata nella melassa. Per far sentire giusta la sincronia era necessaria un'intera serie di ulteriori aggiustamenti. Gli elisi avevano scritto del software per automatizzare questo processo di sintonizzazione, ma a lui non piacevano i risultati delle versioni che si spartivano tra di loro (e quindi gli erano accessibili), perciò ne aveva scritto uno suo, che doveva ancora perfezionare. Quisquilie come le gambe da tavolo continuavano a mettersi in mezzo. La piazza non era vuota, ma quelli che si vedevano in giro sembravano pupazzi a passeggio. I proprietari della Città erano già dentro, e quindi il software di Kate che spiava la vera Città e la ricostruiva per loro due stava sostenendo da solo quasi tutto il peso di calcolare i dintorni, adesso ufficialmente non osservati. Prese Kate per mano, e lei glielo permise, anche se rese la propria pelle fredda come il marmo, poi entrarono nell'atrio. La sala enorme era mezza piena, alla riunione s'erano presentati circa ottomila elisi. Peer si concesse una breve visione a volo d'uccello della folla. Era rappresentata una gran varietà di mode, o carenza di mode, nel vestiario e nella forma corporea, che di sicuro abbracciava le generazioni, anche se quasi tutti avevano preferito presentarsi in forma più o meno classicamente umana. Le eccezioni spiccavano. Una cricca di elisi di quarta generazione si offriva allo sguardo a mo' di macchine di Babbage modificate. L'intero salone non sarebbe riuscito a contenerne una sola in scala normale, perciò alcune porzioni del meccanismo spuntavano nel posto in cui stavano seduti, proveniente da qualche dimensione nascosta. Altrettanto per quelli che s'erano presentati come "stanze cinesi di Searle", enormi folle di umani (o automi umanoidi) che eseguivano ciascuno una mansione semplice, che nel loro complesso ammontavano a un computer funzionante completo. I "componenti" seduti nella sala erano delle macchie tipo dea Kalì, che gesticolavano con le tante braccia a colleghi invisibili con movimenti manuali codificati tanto rapidi che sembravano fondersi in un'esposizione multipla statica. Peer non aveva idea di come ogni sistema potesse raccogliere suoni e immagini dall'ambiente per fornirli all'Elisio perfettamente normale che quei computer ingombranti stavano (probabilmente) simulando, come risultato finale di tutte quelle rotelle rotanti o di quei frenetici movimenti manuali, o se la gente in questione provasse nulla di molto diverso dal mostrarsi al mondo come modelli fisiologici standard. A parte gli abiti pretenziosi, era riscontrabile un'infarinatura di corpi animali che forse riflettevano i veri modelli del loro abitante. Poteva risultare assai comodo essere un leone o un serpente, se il cervello era stato adattato al mutamento come si deve. Peer aveva passato del tempo a occupare corpi di animali, sia storici sia mitologici, e se li era goduti tutti, ma quando quella fase era finita aveva scoperto che, con

un piccolo aggiustamento, poteva rendere altrettanto adatta la forma umana. Gli sembrava più elegante sentirsi comodi nella propria fisiologia ancestrale. E la maggior parte degli elisi sembrava della stessa idea. Ottomila era l'affluenza classica, ma Peer non poteva sapere quanta parte della popolazione rappresentasse. Anche lasciando fuori Callas, Shaw e Riemann, i tre fondatori rimasti nei loro mondi privati, senza mai entrare in contatto con nessuno, ci potevano essere centinaia o migliaia di membri delle generazioni successive che si tenevano fuori dalla comunità centrale senza nemmeno annunciare la loro presenza. Il cubo in perenne espansione di Elisio era stato diviso sin dall'inizio in ventiquattro piramidi oblique in continua espansione, una per ognuno dei diciotto fondatori e relativa progenie, e sei per le iniziative comuni (come Permutation City, ma soprattutto pianeta Lambert). Molti elisi, o almeno molti di quelli che usavano la Città, avevano deciso di sincronizzarsi a un tempo oggettivo comune. Il tempo standard accelerava costantemente rispetto al tempo assoluto, scandito dall'orologio dell'automa cellulare Tvc, perciò ogni elisio aveva bisogno di uno stanziamento sempre crescente di processori per tenersi al passo. Ma tanto Elisio cresceva ancor più velocemente, lasciando tutti con un sovrappiù sempre maggiore di potenza di calcolo. Il territorio di ogni fondatore era autonomo, suddiviso secondo i suoi voleri. Ormai ciascuno poteva sostenere una popolazione di parecchie migliaia di miliardi secondo il tempo standard. Ma Peer sospettava che quasi tutti i processori fossero tenuti in folle, e ogni tanto aveva fatto dei sogni a occhi aperti su elisi della quinta generazione che intraprendevano studi sulla storia della Città, insospettendosi di Malcolm Carter e costringendo uno dei fondatori a fornire la risorse di computer in surplus di una piramide semivuota per sondare la Città in cerca di clandestini. Tutto il mascheramento ingegnoso di Carter, e le probabilità da atomo nel pagliaio che erano state la loro vera garanzia contro la loro scoperta, non sarebbero serviti a un bel niente nel caso di un'analisi del genere. Una volta che la loro presenza fosse stata identificata potevano essere facilmente esumati… ammesso che gli elisi fossero abbastanza generosi da far ciò a un paio di ladruncoli. Kate era convinta che fosse inevitabile, alla lunga. A Peer poco importava se li trovavano o meno, quel che gli interessava davvero era che l'infrastruttura di calcolo della Città fosse in espansione costante, per permetterle di tenere il passo sia con la popolazione in crescita che con le esigenze sempre maggiori del tempo standard Elisio. Finché questo accadeva, cresceva anche la sua minuscola frazione di risorse. L'immortalità sarebbe stata insensata se fosse rimasto intrappolato in una "macchina" con un numero finito di stati possibili. In un tempo finito avrebbe esaurito la lista di cose possibili da fare. Soltanto la promessa della crescita eterna giustificava la vita eterna. Kate aveva sincronizzato alla perfezione il replay. Mentre si sistemavano nei sedili vuoti in fondo alla sala, Paul Durham in persona salì sul palco. Disse: "Grazie per essere venuti. Ho convocato questa assemblea per discutere una proposta importante riguardante il pianeta Lambert". Peer grugnì. "Potevo essere lì a fare gambe di tavolo, e tu mi hai portato a vedere Attacco delle api assassine. Parte millenovantatré." Kate disse: "Potresti sempre scegliere di mostrarti lieto di essere qui. Non c'è bisogno di essere sempre insoddisfatti". Peer tacque, mentre Durham, bloccato dall'interruzione, continuava. "Come molti di voi sapranno, in questi ultimi tempi i lambertiani hanno fatto progressi costanti nello studio scientifico della loro cosmologia. Un certo numero di gruppi di teorici ha proposto modelli di nube di polvere e gas per la formazione del loro sistema planetario, modelli che si avvicinano parecchio alla verità. Anche se, in senso stretto, nell'Autoverso non si è svolto nessun processo del genere, è stato simulato rozzamente prima del lancio per aiutare a progettare un sistema confezionato plausibile. Adesso i lambertiani si

stanno concentrando sui parametri di quella simulazione." Indicò lo schermo gigante che aveva alle spalle. Comparve un'immagine: parecchie migliaia di lambertiani insettoidi che sciamavano per aria sopra un folto prato verdemare. Peer era deluso. Studio scientifico della loro cosmologia suonava come l'opera di una cultura tecnologicamente sofisticata, ma in quella scena non c'erano manufatti visibili: nessun edificio, nessuna macchina, nemmeno gli utensili più semplici. Bloccò l'immagine per dilatarne un segmento. Le creature gli sembravano esattamente identiche a parecchie centinaia di migliaia di anni lambertiani prima, quando erano spuntate come la "specie più potenziale a far nascere la civiltà". I loro corpi segmentati e chitinosi erano tuttora nudi e privi di ornamenti. Che si aspettava? Insetti in camice di laboratorio? No, ma era difficile pensare che quel balzo intellettivo non avesse lasciato un segno sul loro aspetto o sul loro ambiente. Durham disse: "Stanno comunicando una versione della teoria e dimostrando attivamente la matematica relativa, come un gruppo di ricerca che invia un modello di computer a un altro, anche se i lambertiani non possiedono computer artificiali. Se la danza sembra valida è assunta da altri gruppi, e se la eseguono abbastanza a lungo ne interiorizzeranno lo schema, e saranno in grado di ricordarla anche senza continuare a eseguirla". Peer sussurrò: "Vieni in laboratorio a ballare con me qualche modello cosmologico?" Kate l'ignorò. "La teoria predominante utilizza una conoscenza accurata della chimica e della fisica dell'Autoverso, e comprende un'analisi dettagliata della composizione della nube primordiale. Non va oltre. Al momento non esistono ipotesi su come quella nube particolare possa essere nata, non esiste alcuna spiegazione per l'origine e l'abbondanza relativa degli elementi. E non ci può essere spiegazione, nessuna storia pregressa assennata. L'Autoverso non ne fornisce alcuna. Nessun Big Bang, la relatività generale non vige, il loro spazio-tempo è piatto, l'universo non è in espansione. Nessun elemento si è condensato in ammassi stellari, non ci sono forze nucleari o fusione. Le stelle bruciano per la semplice forza di gravità, e il loro Sole è l'unica stella. Perciò questi cosmologi stanno per cozzare contro un muro, senza averne colpa. Dominic Repetto ha suggerito che potrebbe essere il momento ideale per contattare i lambertiani. Per annunciare la nostra presenza. Per spiegar loro le origini del pianeta. Per avviare uno scambio culturale oculatamente moderato." Un mormorio sommesso si diffuse nella folla. Peer si girò verso Kate. "È questo? È questo che non mi potevo perdere?" Lei gli restituì uno sguardo implorante. "Stanno parlando del primo contatto con una razza aliena. Vuoi vivertelo da sonnambulo?" Peer rise. "Primo contatto? Hanno osservato quegli insetti in dettagli microscopici sin da quando erano delle alghe monocellulari. Sanno già tutto di loro, la loro biologia, la lingua, la cultura. È tutto nella biblioteca centrale. Questi 'alieni' si sono evoluti in vetrino. Non ci sono sorprese in serbo". "Tranne come reagiranno a noi." "Noi? Nessuno reagisce a noi." Kate gli lanciò uno sguardo velenoso. "Come reagiranno agli elisi." Peer ci pensò su. "Mi aspetto che qualcuno abbia previsto anche quello. Deve aver modellato la reazione della 'società' lambertiana alla scoperta di costituire solo un esperimento di vita artificiale." Un elisio in foggia di giovanotto alto e magro salì sul palco. Durham lo presentò come Dominic Repetto. Peer aveva rinunciato da tempo a seguire le varie dinastie proliferanti, ma gli pareva che quel nome fosse di un nuovo arrivato. Non si ricordava di alcun Repetto coinvolto negli studi sull'utoverso, quando si era appassionato anche lui alla materia. Repetto si rivolse all'assemblea. "Sono convinto che ormai i lambertiani possiedano la cornice concettuale necessaria per afferrare la nostra esistenza e per giustificare il nostro ruolo nella loro cosmologia. È vero che sono carenti di computer artificiali, ma il loro linguaggio astratto si basa su

rappresentazioni del mondo che li circonda in termini di modelli numerici. Questi erano in origine variazioni su qualche tema geneticamente encrittato, mappe di terreno che mostravano le fonti di cibo, algoritmi per stabilire il comportamento dei predatori, ma í lambertíaní moderni hanno sviluppato la capacità di generare e sperimentare intere nuove classi di modelli, in modo innato almeno quanto il linguaggio per i primi umani. Un gruppo di lambertiani può 'parlare' e 'giudicare' una descrizione matematica della dinamica demografica negli acari, che allevano come cibo, con la stessa facilità con cui gli umani pre-lancio potevano formulare e comprendere una semplice frase. "Non li dobbiamo giudicare secondo parametri antropomorfi. I successi tecnologici degli umani non sono importanti. I lambertiani hanno dedotto gran parte della chimica e della fisica dell"Autoverso tramite l'osservazione del loro mondo naturale, con in più un piccolo numero di esperimenti controllati. Hanno generato concetti equivalenti a temperatura e pressione, energia ed entropia, senza fuoco, metallurgia o ruota… per non parlare della macchina a vapore. Hanno calcolato i punti di fusione ed ebollizione di quasi tutti gli elementi, senza nemmeno purificarli. La loro carenza di tecnologia rende semmai più stupefacenti i loro risultati intellettuali. È come se gli antichi greci avessero lasciato degli scritti sul punto di ebollizione dell'azoto o gli egizi avessero predetto le proprietà chimiche del cloro." Peer sorrise cinico tra sé e sé. I fondatori amavano sempre sentir citare la Terra, soprattutto se i riferimenti risalivano a epoche molto anteriori alla loro nascita. Repetto fece una pausa. Aumentò distintamente di statura, e i suoi lineamenti giovanili divennero lievemente più dignitosi, più maturi. La gran parte degli elisi non avrebbe considerato quel gesto più artificioso di un cambiamento nella postura o nel tono di voce. Riprese in tono solenne: "Molti di voi sapranno della risoluzione dell'assemblea cittadina del 5 gennaio 3052 che proibiva ogni contatto con i lambertiani fin quando essi non avessero costruito computer propri eseguendo delle simulazioni, degli esperimenti di vita artificiale sofisticati quanto l'Autoverso stesso. Si riteneva che fosse il parametro più sicuro possibile… ma credo che sia chiaro che fosse fuorviante e del tutto inadeguato. I lambertiani stanno cercando risposte a domande sulle loro origini. Sappiamo che non ci sono risposte nell'Autoverso, ma credo che i lambertiani siano attrezzati intellettualmente per comprendere la verità più ampia. Propongo che questa assemblea sconfessi la risoluzione del 3052, autorizzando una squadra di studiosi dell'Autoverso ad atterrare su pianeta Lambert per informare, in maniera culturalmente adeguata, i lambertiani sulla loro storia e contesto". Il brusio crebbe d'intensità. Peer provò un'arcaica fitta d'interessamento, nonostante tutto. In un universo senza morte o penuria, la politica assumeva forme strane. Ognuno dei fondatori che fosse in disaccordo con il modo in cui era gestito pianeta Lambert era perfettamente libero di copiare l'intero Autoverso nel proprio territorio per fare quel che gli pareva alla sua versione privata. In proporzione inversa alla facilità di una mossa del genere, ogni fazione poteva avere adesso la rara occasione di dimostrare la propria "influenza" e di crescere in "prestigio" persuadendo l'assemblea a mantenere il bando sul contatto con i lambertiani senza indurre i propri avversari a clonare l'Autoverso e procedere incuranti. Quasi tutti quelli della prima generazione tenevano ancora in conto cose del genere, nel loro stesso interesse. Elaine Sanderson si alzò in piedi, splendida in un abito azzurro e in un corpo che insieme proclamavano: dal 1972 al 2045, e orgogliosa di esserlo (anche se li indossava soltanto in occasioni ufficiali). Peer si concesse per qualche secondo un viaggio a ritroso nel tempo: da adolescente, David Hawthorn aveva visto Sanderson in carne e ossa in televisione, mentre giurava come ministro della Giustizia degli Stati Uniti d'America, una nazione le cui particelle costitutive - all'epoca del giuramento potevano essere sovrapposte in quello stesso istante a qualche porzione di Elisio. Sanderson disse: "La ringrazio, signor Repetto, per averci offerto il suo punto di vista su questa importante materia. È una disdetta che così pochi tra noi si concedano il tempo per tenersi al passo con i progressi dei lambertiani. Anche se hanno percorso tanta strada, da forme di vita monocellulare fino al

loro attuale stato sofisticato, senza il nostro intervento esplicito, in fin dei conti sono sottoposti in ogni istante alle nostre cure, e tutti abbiamo il dovere di trattare con la massima serietà questa responsabilità. Ancora mi ricordo alcuni dei primi piani che stilammo per i rapporti con l'Autoverso: nasconderci volutamente i dettagli della vita su pianeta Lambert, aspettare e assistere come da lontano finché i suoi abitanti non inviavano sonde verso gli altri mondi del loro sistema, per poi sbarcare là come 'esploratori' su 'astronavi', sforzandoci di imparare la lingua e i costumi di questi 'alieni', forse arrivando fino al punto di estendere l'Autoverso per comprendere una stella lontana e invisibile, con un 'mondo patria' dal quale potessimo arrivare. Delle imitazioni pedisseque delle teoriche missioni interstellari che ci siamo lasciati alle spalle. Delle mascherate ridicole. Per fortuna abbiamo scartato da tempo quelle idee infantili. Non ci sarà una finta 'missione di scoperta', e nessuna menzogna per i lambertiani, o per noi stessi. Però in quei primi progetti risibili c'era un solo pregio che dobbiamo tenere a mente: abbiamo sempre pensato di incontrare i lambertiani da eguali. Come visitatori da un mondo lontano che allargano la loro visione dell'universo, ma senza sovvertirla, senza inghiottirla in un boccone. Ci avvicineremo a loro come fratelli, non come dei che svelano la verità divina. Chiedo a questa assemblea di valutare se queste due mete altrettanto lodevoli, mete di onestà e umiltà, non possano essere riconciliate. Se i lambertiani sono sull'orlo di una crisi durante la quale comprenderanno le loro origini, quale impulso di superiorità ci spinge a fornire loro una soluzione istantanea? Il signor Repetto ci dice che hanno già dedotto le proprietà degli elementi chimici, elementi che restano misteriosi e invisibili, manifestandosi soltanto nei fenomeni complessi del mondo naturale. Chiaramente, i lambertiani hanno un grande talento nello scoprire le strutture nascoste, le spiegazioni sepolte. Allora quanti altri secoli ci vorranno prima che indovinino la verità sulla loro cosmologia? Propongo di rinviare il contatto fino a quando sia spuntata naturalmente tra i lambertiani l'ipotesi della nostra esistenza, e sia stata sondata appieno. Fino a quando non avranno deciso autonomamente cosa possiamo significare esattamente per loro. Fin quando loro non avranno dibattuto, come dibattiamo noi ora, il modo migliore di trattare con noi. Se gli alieni avessero visitato la Terra nel momento in cui gli umani hanno alzato per la prima volta gli occhi verso il cielo vivendo qualche crisi di comprensione, sarebbero stati salutati come dei. Se fossero arrivati agli inizi del Ventunesimo secolo, quando gli umani predicevano da decenni la loro esistenza e ponderavano la logistica del contatto, sarebbero stati accettati come eguali, più esperti, più abili, più informati, ma in fin dei conti soltanto parte prevedibile di un universo educato e ben noto. Credo che dovremmo aspettare il momento equivalente nella storia lambertiana: quando saranno pronti per ottenere la prova della nostra esistenza, quando la nostra assenza protratta diventerà molto più dura da spiegare del nostro arrivo. Una volta che cominceranno a sospettare che ascoltiamo ogni conversazione che intrattengono su di noi, allora sarebbe disonesto restare nascosti. Fino a quel momento gli dobbiamo l'opportunità di trovare quante più risposte possono, e senza di noi". Sanderson si rimise a sedere. Settori del pubblico applaudirono con discrezione. Peer analizzò pigramente la reazione, correlandola con l'apparenza. Sanderson sembrava aver riscosso un certo successo con il ceto medio della terza generazione, che però era noto per fingere sempre con entusiasmo. Kate domandò: "Non ti viene voglia di unirti alla discussione?" E in parte aveva un tono sarcastico, e in parte piagnucolante". Peer rispose allegro: "No, ma se hai delle idee precise sull'argomento, ti suggerisco di copiare tutto l'Autoverso per contattare di persona i lambertiani. Altrimenti lasciali nella più pura ignoranza. Come preferisci". "Sai che non ho abbastanza spazio per farlo." "E sai che non fa la minima differenza. Nella biblioteca centrale esiste una copia del seme di biosfera originale, l'intera descrizione compressa. La potresti copiare e sospenderti fino a quando non avrai

abbastanza spazio per aprirla. La faccenda è del tutto deterministica, ogni lambertiano batterà le alucce per te nell'identica maniera in cui lo faceva per gli elisi. Fino al momento del contatto." "E credi sul serio che la Città crescerà fino a quel punto? Che dopo un miliardo di anni di tempo standard non l'avranno cestinata per costruire qualcosa di nuovo?" "Non lo so. Ma c'è sempre un'alternativa: potresti lanciare un intero universo Tvc nuovo di zecca per creare tutto lo spazio che ti serve. Se vuoi, vengo anch'io." Diceva sul serio, l'avrebbe seguita dovunque. Kate doveva solo dire una parola. Ma lei distolse lo sguardo. Peer avrebbe fatto di tutto per donarle la felicità, ma la scelta stava a lei: se voleva credere di essere stata lasciata fuori al freddo, o meglio, murata viva a guardare gli elisi al banchetto della realtà, lui non poteva far nulla per cambiare quella situazione. Seguirono trecentosette oratori. Centosessantadue appoggiarono Repetto, centoquaranta Sanderson. Cinque, una proporzione decisamente bassa, blaterarono senza scopo apparente. Peer rimase a sognare a occhi aperti il rumore della carta vetrata sul legno. Quando alla fine si votò (un suffragio per partecipante originale, non erano accettati cloni dell'ultimo minuto), Sanderson prevalse per un margine del dieci per cento. Salì sul palco per tenere un breve discorso in cui ringraziava i votanti per la loro scelta. Peer sospettava che ormai molti elisi fossero scivolati in silenzio fuori dal proprio corpo per andarsene da qualche altra parte. Anche Dominic Repetto disse qualche parola, chiaramente deluso ma nobile nella sconfitta. Fu Paul Durham, suo probabile sostenitore e mentore, a mostrare l'espressione leggermente vacua di un somatomodello con i muscoli facciali rozzamente sdoppiati dall'encefalomodello. Durham, con la sua strana storia di brevi episodi in veste di Copia in permutazioni differenti, non sembrava esser mai riuscito a mettersi in sintonia con la tecnologia pre-lancio, men che meno con quella avanzata degli elisi. Quando doveva nascondere qualcosa, appariva evidente. E la stava prendendo male, quella votazione. Kate commentò con freddezza: "Eccoci. Hai adempiuto al tuo dovere civico. Adesso te ne puoi andare". Peer passò a occhi grandi e marroni. "Torna in laboratorio con me. Possiamo fare l'amore tra i trucioli. O starcene a chiacchierare. Saremo felici, senza alcun motivo. Non sarà tanto male." Kate scosse il capo mentre si dissolveva. Peer provò una punta di delusione, ma furono pochi secondi. Ci sarebbero state altre occasioni.

25

Thomas era rannicchiato sul davanzale del bagno dell'appartamento di Anna. Sapeva già che gli spigoli dei mattoni sarebbero stati taglienti come rasoi, stavolta. Si attaccò alla finestra del vicino, ripetendo con precisione i gesti familiari, anche se le mani e gli avambracci grondavano sangue. Gli insetti strisciavano dalle ferite e scivolavano lungo le braccia, sul viso, in bocca. Ebbe un conato di vomito, ma senza vacillare. Lungo la grondaia. Dal vicolo sottostante tornò su nell'appartamento. Anna era accanto a lui sulle scale. Danzarono di nuovo. Litigarono di nuovo. Lottarono di nuovo. "Pensa alla svelta. Alla svelta." Le si inginocchiò sopra, a cavalcioni, le prese il viso tra le mani, poi chiuse gli occhi. Attirò il capo a sé e lo sbatté contro la parete. Cinque volte. Quindi le accostò le dita alle narici, senza aprire gli occhi. Non sentì segno di respiro. Thomas si trovava nel suo appartamento di Francoforte un mese dopo l'omicidio, e sognava. Anna era accanto al letto. Allungò una mano da sotto le coperte nel buio, a occhi chiusi. Lei gli prese la mano. Con l'altra mano gli accarezzò teneramente la cicatrice sull'avambraccio, poi affondò con facilità un dito nella pelle secca e nella carne in via di putrefazione. Lui si dibatté contro le coperte, ma lei non lo lasciò andare, affondando le dita fino ad afferrare l'osso scoperto. Quando gli spezzò il radio e l'ulna, lui si divincolò per il dolore ed eiaculò di colpo, tutto quello che il suo corpo corrotto conteneva l'abbandonò in un solo fiotto: sangue scuro rappreso, vermi, pus, escrementi. Thomas si trovava nella sua casa nei sobborghi, seduto nudo per terra in fondo al corridoio, sbigottito. Quando mosse la mano destra, si accorse che stava ancora impugnando un coltellino da frutta. E si ricordò perché. Sull'addome aveva sette cicatrici rosa pallido, sette cifre, ancora leggibili, disposte per il verso giusto mentre le guardava dall'alto: 1053901. Si mise all'opera per reincidere le prime sei. Non si fidava degli orologi. Gli orologi mentivano. E anche se ogni incisione che praticava sulla pelle guariva perfettamente col tempo, per un bel po' gli sembrava di aver sistemato i numeri prima che svanissero. Non sapeva cosa calcolavano, a parte la crescita uniforme, ma sembravano la pietra di paragone di una cosa assai vicina alla salute mentale. La cifra finale la reincise a forma di due, poi si leccò le dita per ripulirsi dal sangue. All'inizio continuò a uscire, ma dopo cinque o sei tentativi la ferita fresca spiccò rossa e pulita contro la pelle pallida. Pronunciò parecchie volte il numero: "Un milione, cinquantatremilanovecentodue". Thomas si rimise in piedi e attraversò il corridoio. Il suo corpo conosceva solo il tempo che ci incideva sopra. Non si sentiva mai stanco o affamato o persino sporco. Poteva dormire o non dormire, mangiare o meno, lavarsi o non lavarsi, non faceva alcuna differenza percettibile. I capelli e le unghie non crescevano. Il volto non invecchiava. Si fermò all'esterno della biblioteca. Era convinto di aver strappato metodicamente tutti i volumi a più riprese, ma in ogni occasione i resti erano stati asportati e i libri rimpiazzati in sua assenza. Entrò nella stanza, dando un'occhiata al terminale nell'angolo, l'oggetto del suo odio più profondo. Non era mai riuscito a distruggerlo, a sfondare, scheggiare, piegare o anche solo graffiare una parte di quella sagoma visibile. Indistruttibile o meno, non aveva mai funzionato. Vagò da scaffale a scaffale, ma tutti i libri li aveva letti una decina di volte o più. Erano diventati insignificanti. La libreria era ben fornita, e aveva studiato i sacri testi di tutte le fedi, e quei pochi che, per qualche licenza poetica, potevano essere definiti come descrittivi della sua condizione, non offrivano comunque prospettive per cambiarla. Nel lontano passato aveva subito un centinaio di conversioni

febbrili. Aveva sbraitato contro ogni divinità che l'umanità avesse mai postulato. Se fosse incappato nell'unica che esisteva, l'unica responsabile della sua dannazione, le sue implorazioni non sarebbero servite a nulla. L'unica cosa che non si sarebbe mai aspettato dopo la morte era l'incertezza. All'inizio l'aveva angustiato non poco: essere gettato all'Inferno, senza nemmeno un barlume di Paradiso a stuzzicarlo, e un tronfio te-l'avevo-detto-io da parte dei fedeli durante l'ascesa, e un processo formale di fronte al Dio della sua infanzia in cui ogni asserzione dottrinale di cui avesse mai dubitato veniva proclamata come "verità assoluta", e ogni dibattito teologico risolto una volta per tutte. Ma poi aveva deciso che la sua condizione era eterna e irreversibile, poco contava che il Dio che l'aveva resa tale avesse un nome. Thomas si sedette a gambe incrociate sul pavimento della biblioteca, cercando di svuotarsi la mente. "Pensa alla svelta. Alla svelta." Anna gli stava stesa di fronte, sanguinante e priva di sensi. Il tempo accostò. Il momento a cui si stava avvicinando sembrava impossibile da affrontare, impossibile da attraversare di nuovo, ma ci si accostò poco per volta, e sapeva che non aveva il potere di andarsene. Era arrivato a capire che tutte quelle visioni del suo degrado e mutilazione erano soltanto rituali elaborati di autodisprezzo. Quando la carne gli veniva strappata dal corpo era una distrazione, quasi un sollievo. La sua sofferenza non illuminava il suo crimine, annegava i suoi pensieri in uno stordimento anestetico. Era una fantasticheria di potere, di castigo. Ma qui non esisteva alcun balsamo di dolore farisaico, nessuna pretesa che le sue torture barocche stessero operando una qualche alchimia di giustizia. Si chinò su Anna, senza riuscire a piangere, senza un sussulto, senza accecarsi di fronte a quel che aveva fatto. Avrebbe potuto chiamare un'ambulanza. Salvarle la vita. Ci sarebbe voluta tanto poca forza, tanto poco coraggio, tanto poco amore che non riusciva a immaginare come fosse possibile che un essere umano non li avesse avuti tutti quanti in misura sufficiente, e potesse camminare ancora sulla Terra. Ma era successo. Era successo. Così sollevò il capo e lo sbatté contro la parete.

26

Dopo una settimana in cui fu ospite di Durham, Maria andò a cercarsi un posto tutto per sé. La rabbia era scemata, come pure lo stordimento per la sorpresa, la quinta o sesta ondata di incredulità si era finalmente dissolta. Ma si sentiva ancora quasi paralizzata dalla stranezza delle verità che era stata costretta ad accettare: l'esilio dall'universo dell'umanità in carne e ossa, l'esistenza impossibile di Elisio, la vita intelligente nell'Autoverso. Non poteva cominciare a trovarci un senso fin quando non aveva un punto fisso a cui fare riferimento. Si era rifiutata di preparare un bagaglio da accompagnare al file di scansione nella nuova vita. La minima concessione ai bisogni di una Copia che non credeva avrebbe mai funzionato sarebbe stato un po' come dar corda a Durham. Niente ambienti, niente mobili, niente vestiti, niente foto, niente diari, niente memorabilia scansionate. Nessun duplicato Rv del suo vecchio appartamentino per farla sentire come a casa. Poteva cercare di ricostruirlo dai ricordi, dettaglio su dettaglio, o fare in modo che il software architettonico le raccogliesse un'imitazione perfetta dal cervello, ma non si sentiva abbastanza forte da affrontare quelle contraddizioni emotive: l'attrazione del vecchio mondo, la contaminazione delle illusioni. Invece decise di scegliere un appartamento predefinito in Città. Durham le assicurò che nessuno le avrebbe rimproverato l'utilizzo di risorse pubbliche. "Certo, potrebbe copiare la Città nel proprio territorio per far funzionare a sue spese una versione privata, vanificando ogni protesta. Questo è l'unico ambiente in tutta Elisio che si avvicina alla natura di posto nel vecchio senso del termine. Tutti possono passeggiare per strada, tutti ci possono vivere, ma nessuno può ristrutturare a suo piacere il panorama. Ci vorrebbe un dibattito molto più acceso per alterare quaggiù i colori dei segnali stradali di quello che sarebbe stato necessario a un consiglio comunale medio per ricollocare un intero quartiere". Perciò Permutation City le offriva gratis la propria presenza falsa, sanzionata in giunta, quasi oggettiva, mentre il suo modello corporeo girava sui processori nel proprio territorio, e i due sistemi, scambiandosi i dati, inventavano la sua sensazione di passeggiare per strada, entrare nei palazzi metallici lucenti ed esplorare gli appartamenti vuoti che dovevano sapere di vernice, eppure non avevano quell'odore. Si sentiva nervosa, perciò Durham l'accompagnò, sollecito e disponibile come sempre. Il suo rammarico sembrava in un certo senso sincero, non era indifferente al dolore che le aveva causato, ma sotto sotto non sembrava esserci dubbio: si aspettava chiaramente di essere perdonato in blocco per averla risvegliata, prima o poi. Gli domandò: "Come si sta a settemila anni?" "Dipende." "Da cosa?" "Da come mi voglio sentire." Trovò un posto nel quadrante nordorientale, a metà strada tra la torre centrale e il bordo della Città. Dalla camera da letto poteva vedere le montagne a oriente, la cascata luccicante, un lembo remoto di foresta. C'erano panorami migliori a disposizione, ma questo sembrava adatto, qualcosa di più spettacolare l'avrebbe fatta sentire in imbarazzo. Durham le mostrò come chiedere la residenza, in pratica un breve colloquio con il programma dell'appartamento. Disse: "È l'unica elisia nella torre, perciò può programmare i vicini come le pare". "E se non muovo un dito?" "Comportamento default: se ne staranno fuori dalle scatole." "E gli altri elisi? Sarò una tale novità che vorranno venirmi a vedere?" Durham rifletté. "Il suo risveglio è di pubblico dominio, ma qui quasi tutti sono pazienti. Dubito che ci

sarà qualcuno tanto maleducato da attaccar bottone per strada. Il suo numero di telefono resterà riservato fino a suo parere contrario, e l'appartamento adesso è sotto il suo controllo diretto, sicuro quanto ogni ambiente privato. Il programma è stato omologato con scrupolo: entrare e intrufolarsi è matematicamente impossibile." La lasciò perché si sistemasse. Maria si aggirò per le stanze, cercando di abitarle, di rivendicarle come sue. Si costrinse a passeggiare nelle strade del vicinato, provando a sentirsi a proprio agio. L'appartamento "art déco", le torri "Fritz Lang", le strade piene di folla composta di comparse la irritavano, ma riflettendoci capì che non poteva andare altrove. Quando cercava di immaginare un suo "territorio", la sua fetta privata di Elisio, le sembrava deprimente e ingestibile come se avesse ereditato un ventiquattresimo del vecchio universo di galassie e di vuoto. Il fatto che quello nuovo fosse in genere invisibile, e costruito su un reticolo di computer autoreplicanti, creati a loro volta da caselle di automi cellulari - nulla più che sequenze di numeri - per quanto fosse facile codificarli con i colori e sistemarli in griglie ordinate, riusciva a rendere soltanto infinitamente più estraneo il pensiero di trovarsi persa nella sua vastità. Era già abbastanza negativo che il suo vero corpo fosse uno schema di calcolo che risuonava in una porzione minuscola di una piramide cristallina, altrimenti silenziosa, che si stendeva in lontananza per l'equivalente Tvc di migliaia di anni luce. L'idea di immergere i propri sensi in un mondo fasullo che era in realtà un altro angolo della medesima struttura, di ritirarsi interamente nell'ombra di quella gigantesca cripta senz'aria, arrendendosi ad allucinazioni private, le faceva venire il voltastomaco per la paura. Se la Città era altrettanto irreale, almeno era un'allucinazione condivisa dagli altri elisi, perciò, rassicurata da quel consenso, trovò il coraggio di esaminare il mondo invisibile sottostante, da una distanza di sicurezza, anche se allucinatoria. Si sedette nell'appartamento a studiare le carte di Elisio. Alla scala più grande quasi tutto il cubo appariva informe: le piramidi degli altri diciassette fondatori erano private, e la sua era pressoché inutilizzata. Il territorio pubblico poteva essere colorato a seconda del software che adoperava, i processi identificati, i flussi di dati ripercorsi, ma anche così era monocromo: cinque delle sei piramidi pubbliche erano dedicate all'Autoverso, usando il medesimo programma, semplice processore dopo processore, implementando le regole dell'automa cellulare dell'Autoverso, del tutto differenti da quelle Tvc. A questa regione era sovrapposta una leggera griglia metallica, simile a un groviglio di fili sottili immersi in una sostanza ignota per saggiare le sue proprietà. Era il software che spiava pianeta Lambert, un programma separato dall'Autoverso, non soggetto ad alcuna sua legge. Maria aveva scritto la versione originale, anche se non aveva mai avuto modo di provarla su scala planetaria. Generazioni di studiosi elisi dell'Autoverso l'avevano ampliata e migliorata, e adesso sbirciava attraverso un fantastiliardo di fessure inesistenti nello spazio, interpretando e sunteggiando tutto quel che vedeva. I risultati affluivano al fulcro di Elisio, nella biblioteca centrale, lungo un canale reso luminoso come argento incandescente dalla densità del flusso di dati. Il fulcro era un poliedro abbacinante, un grappolo di database circondato dalle strutture di comunicazione che gestivano il torrente di informazioni che scorreva da e per le piramidi. Ogni transazione tra elisi di clan differenti passava di lì, dalle telefonate alle strette di mano, dal sesso a tutte le complesse intimità postumane che avevano inventato negli ultimi settemila anni. Però la cartina non rivelava nulla, anche su scala massima e nel replay più lento i pacchetti viaggianti di dati venivano contrassegnati solo come punti luminosi indefiniti, il loro contenuto era anonimo e sicuro. Il flusso di dati appena meno luminoso collegava il fulcro alla Città, che appariva come un labirinto delicato di algoritmi aggrappati a una facciata della sesta piramide pubblica. Con il software dell'Autoverso oltre confine contrassegnato come blu notte, la Città sembrava un parco divertimenti ingombro e pieno di luci al neon, al margine di un vasto deserto, alla fine di un'autostrada luccicante. Maria zummò per osservare i pacchetti di dati responsabili della stessa cartina mentre defluivano dal fulcro.

Non c'era corrispondenza puntuale tra la sua visione e la Città dei sensi. Le folle di falsi pedoni sparpagliate per la metropoli visibile, qui potevano essere individuate come un accumulo di mattoncini lampeggianti in colori pastello, con titoli quali Comportamento di gruppo e Tropismi miscellanei. La collocazione e gli altri attributi degli individui specifici erano codificati in strutture di dati troppo piccole per essere scorte senza un ingrandimento inesorabile. L'appartamento di Maria era altrettanto microscopico, ma era il prodotto di componenti ampiamente sparpagliate, e disparate, come Ottiche di superficie, aerodinamiche, irraggiamento termico e texture moquette. Poteva visualizzare il proprio corpo come un diagramma simile di moduli funzionali, ma decise di lasciar perdere. Una vivisezione per volta. Cominciò a esplorare le risorse informative di Elisio, le reti di dati che si ritraevano come tali, e a lasciare l'appartamento un paio di volte al giorno per passeggiare da sola nella Città, per familiarizzare con i due spazi analoghi a quelli che aveva conosciuto in passato. Spulciò le biblioteche, non proprio a caso, sfogliando Omero e Joyce, osservando i Rembrandt e i Picasso e i Moore, suonando brani di Chopin e Liszt, seguendo spezzoni di Bergman e Bunuel. Soppesando il cuore della civiltà umana che gli elisi si erano portati dietro. Sembrava leggero. Gente di Dublino adesso era un'opera di fantasia, quanto l'Iliade. Guernica non era mai accaduto, e se anche fosse, il punto di vista degli elisi superava di gran lunga la potenza evocativa di un artista. Il settimo sigillo era una fiaba folle e priva di senso. Tutto quel che restava era Il fascino discreto della borghesia. Alterarsi in qualche maniera era una decisione troppo difficile da prendere, così, fedele in mancanza d'altro alla fisiologia umana, mangiava, defecava e dormiva. C'erano mille modi per evocare il cibo, dalle pietanze raffinate nel database culinario che emergevano letteralmente dallo schermo del terminale, fino all'opzione celere della sazietà al solo premere di un bottone, fornito di retrogusto piacevole. Ma i vecchi riti protestavano per rientrare in vigore, così Maria uscì a comprare gli ingredienti da bottegai pupazzo in negozi traboccanti di odori, e cucinò i propri piatti, spesso maluccio, e si stancò stranamente di rimanere a guardare la chimica imperfetta al lavoro, come se stesse eseguendo quella difficile simulazione da sé, in modo inconscio. Per tre notti sognò di essere tornata nel vecchio mondo, con discussioni indimenticabili con i genitori, coi compagni di scuola, gli altri Autoversodipendenti, coi vecchi amori. Quale che fosse la scena, l'aria era carica, brillava di un'autenticità schiva. Da quei sogni si risvegliava mutilata dal senso di perdita, e si aggrappava a quelle certezze che battevano in ritirata, convinta per dieci secondi, o anche cinque, che Durham l'avesse drogata, ipnotizzata, le avesse fatto il lavaggio del cervello per indurla a credere a Elisio, e ogni volta che si convinceva di "dormire", si risvegliava nella vita terrena che non aveva mai cessato di vivere. Poi, il cervello, inesorabilmente si schiariva dalla nebbia, e capiva che non era vero. Sognò per la prima volta la Città. Era sulla Quindicesima Avenue quando i pupazzi cominciarono a implorarla di essere trattati come creature senzienti. "Superiamo il test di Turing, no? Un'estranea nella folla è meno umana solo perché non puoi verificare la sua vita interiore?" Le si aggrapparono ai vestiti come mendicanti. Lei rispose che erano tutte assurdità, disse: "Come fate a lamentarvi? Non capite? Abbiamo abolito l'ingiustizia". Un uomo con un abito nero ben stirato le lanciò un'occhiataccia, borbottando: "Avete ancora i poveri". Ma si sbagliava. E sognò Elisio. Avanzava nella griglia Tvc lungo i varchi tra i processori, trasformata in un semplice schema autonomo di cellule, come le forme più vecchie e primitive di vita artificiale, senza disturbare nulla ma osservando tutto, ciascuno delle sei dimensioni, non una di meno. Si svegliò appena capì quant'era assurdo: l'universo Tvc non era bagnato da un analogo della luce che diffondeva l'informazione su tutte le cellule in lungo e in largo. Essere inserito nella griglia significava essere pressoché cieco ai

suoi contenuti. L'unico modo per scoprirne qualcosa era sporgersi a sondare scrupolosamente quel che si parava davanti, certe volte in modo distruttivo. Nel tardo pomeriggio, sotto la luce dorata che penetrava dalla finestra della camera da letto, dopo mille riflessi calcolati e fortuiti tra le torri, di solito piangeva. Sembrava inadeguato, disordinato, patetico e immorale. Non voleva "rimpiangere" la razza umana, ma non sapeva farsi una ragione della sua assenza. Si rifiutava di immaginare un mondo morto da tempo, come se i suoi millenni elisi di sonno l'avessero proiettata nel futuro incerto della Terra, così si sforzò di legarsi al tempo che ricordava, di seguire mentalmente la vita del suo doppione. Immaginò una riconciliazione con Aden, non impossibile. Se lo raffigurava molto vivo, tenero ed egoista e testardo come sempre. Fantasticò sui momenti passati insieme, i più banali, i meno notevoli, estirpando inesorabile tutto quel che sembrava troppo ottimistico, che esaudiva troppo i suoi desideri. Non era interessata a inventare una vita perfetta per l'altra Maria, voleva solo indovinare la verità inconoscibile. Ma doveva continuare a credere di aver salvato Francesca. Di meno sarebbe stato insopportabile. Cercò di considerarsi un'emigrante, una che attraversava l'oceano negli anni prima dell'aviazione, prima del telegrafo. Quella gente si era lasciata tutto alle spalle, ed era sopravvissuta. Aveva ammucchiato piccole fortune. Si era arricchita. Le loro vite non erano andate distrutte, avevano abbracciato l'ignoto, trasformandosi. L'ignoto? Stava vivendo in un manufatto, in un oggetto matematico che Durham aveva costruito per dei miliardari con il suo contributo. Elisio era un universo creato su ordinazione. Non conteneva meraviglie nascoste, tribù perdute. Ma conteneva l'Autoverso. Più ci pensava, più sembrava che pianeta Lambert fosse la chiave contro la pazzia. Anche dopo tre miliardi di anni di evoluzione, era l'unica cosa di Elisio che la collegasse alla vita passata, riconducendola alla notte in cui aveva assistito alla digestione del mutosio da parte dell'A. lamberti. Il filo non era spezzato: l'organismo seme, l'A. hydrophila, era scaturito dallo stesso ceppo. E se allora l'Autoverso era stato il vizio più spinto, un gioco intellettuale affinato in un mondo pieno di problemi, adesso la situazione era invertita: l'Autoverso ospitava centinaia di milioni di forme di vita, una civiltà fiorente, una cultura in procinto di compiere una rivoluzione scientifica. In un universo soggetto a capricci, interessi e un tempo infinito, sembrava l'unica base d'appoggio rimasta. E anche se non soffriva dell'illusione di aver "creato" personalmente i lambertiani (abbozzare la storia iniziale del loro pianeta e rabberciargli un antenato - adattando la traduzione altrui di un batterio terrestre - non la qualificava ad assumersi il merito dei loro sistemi nervosi plurimi e del loro apparato digerente all'aria aperta, men che meno della coscienza), non poteva ignorare il loro destino. Non aveva mai creduto che pianeta Lambert potesse venire alla luce, ma aveva lo stesso contribuito a che accadesse. Parte di lei voleva soltanto prendersela con il suo risveglio, e piangere quel che aveva perso. Abbracciare l'Autoverso sembrava un insulto al ricordo della Terra, e un segnale di aver accettato il modo in cui l'aveva trattata Durham. Ma voltare le spalle all'unica cosa che poteva dare un significato alla sua nuova vita, cominciava a sembrarle perverso al limite della follia, solo per far rabbia a Durham, solo per sbugiardare i motivi del suo risveglio. C'erano altri modi per dimostrare che non l'aveva perdonato. L'appartamento, all'inizio incredibilmente vasto, quasi inabitabile, perse lentamente la sua estraneità. Finalmente, la decima mattina si svegliò aspettandosi la vista della camera da letto proprio come la trovò. Se non era in pace con la sua situazione, almeno non era sorpresa di trovarsi esattamente lì dov'era. Telefonò a Durham per dirgli: "Voglio far parte della spedizione". Il "gruppo di contatto" occupava un piano di una torre nel quadrante sudorientale. Maria, poco

interessata al teletrasporto, coprì la distanza a piedi, muovendosi da edificio a edificio tramite le passerelle, ignorando i pupazzi e godendosi il panorama. Era più veloce che viaggiare a livello del suolo, e pian piano stava vincendo la paura dell'altezza. Qui i ponti non crollavano per vibrazioni inattese. I tubi di perspex non roteavano al suolo rovesciando cadaveri sul selciato. Non contava niente se Malcolm Carter non sapeva un accidente di ingegneria strutturale, la Città non si sarebbe premurata di modellare con grande fatica carichi e tensioni solo per accertare che nessuna sua parte avrebbe mostrato difetti, per amor di realismo. Tutto era assolutamente sicuro per decreto. Durham la stava aspettando nell'atrio. Dentro, la presentò a Dominic Repetto e Alisa Zemansky, gli altri capi del progetto. Maria non sapeva cosa aspettarsi dal suo primo contatto con gli elisi delle generazioni seguenti, ma quelli si presentarono come umani ben vestiti, maschio e femmina, entrambi "sotto i quaranta", con abiti che non sarebbero parsi inadatti in qualsiasi ufficio della Sidney del Ventunesimo secolo. Per deferenza nei suoi confronti? Sperava di no, a meno che nella loro sottocultura si usasse mostrare a tutti una forma diversa, progettata espressamente per farli sentire a loro agio. In effetti, Repetto era tanto incredibilmente bello che lei quasi inorridiva al pensiero che lui, o i suoi genitori, avessero scelto liberamente un volto del genere. Ma cosa contavano ormai i codici della vanità dell'era della chirurgia estetica e della ricombinazione genetica? Anche Zemansky era notevole, con occhi viola dalle pagliuzze scure e capelli biondi e irti. Durham, almeno ai suoi occhi, non sembrava cambiato dall'uomo che aveva conosciuto nel 2050. Maria cominciò a chiedersi come apparisse ai giovani elisi. Forse come qualcuno appena esumato. Repetto le strinse la mano a lungo. "È un grande, grande onore conoscerla. Non riesco a esprimere quanto lei ci abbia guidato tutti." Era raggiante, sembrava sincero. Maria si sentì salire il sangue al viso, e cercò di immaginarsi in una situazione analoga, a stringere la mano… a chi? Max Lambert? John von Neumann? Alan Turing? Charles Babbage? Ada Lovelace? Sapeva di non aver fatto nulla al confronto di quei pionieri, ma aveva avuto a disposizione settemila anni per migliorare la sua reputazione. E tre miliardi perché il suo lavoro producesse frutti. Il piano era suddiviso in uffici aperti, ma non sembrava ci fossero in giro altre persone. Durham, vedendo che sbirciava nei tramezzi, spiegò con tono ambiguo: "Ci sono degli altri che lavorano qui, ma vanno e vengono". Zemansky fece strada in una piccola sala riunioni. Disse a Maria: "Possiamo passare a una rappresentazione in Rv di pianeta Lambert, se preferisce, ma la devo avvertire che può essere sconcertante: ritrovarsi immersi visivamente ma intangibili, attraversare la vegetazione, e muoversi alle velocità necessarie per star dietro ai lambertiani può provocare nausea. Naturalmente ci sono dei cambiamenti neurali per controbilanciare questi problemi..". Maria non si sentiva pronta a manipolare il suo cervello, e nemmeno a scendere sulla superficie di un pianeta alieno. Disse: "Mi sembra più facile guardare uno schermo. Preferirei. Le dispiace?" Zemansky parve sollevata. Repetto rimase in piedi all'estremità della tavola, rivolgendosi agli altri tre, anche se Maria sapeva che quanto avrebbe detto era tutto per lei. "Ultimamente su Lambert sono successe così tante cose, che siamo stati costretti a rallentarlo rispetto al tempo standard per riuscire a seguire gli sviluppi." Sulla parete alle sue spalle comparve una mappa ellittica della superficie del pianeta. "Di recente, decine di gruppi indipendenti di chimici hanno cominciato a cercare un modello più semplice, unificato per l'attuale teoria atomica." Spuntarono dei segnalini disseminati sulla carta. "Sono passati trecento anni da quando hanno ampiamente accettato il modello standard, cioè trentadue atomi con modelli regolari di massa, valenza e affinità reciproca. L'equivalente lambertiano della tavola periodica degli elementi di Mendeleev." Scoccò un sorriso rivolto a Maria, come se lei fosse stata una contemporanea di Mendeleev, o forse perché andava fiero della propria magica conoscenza della storia di una scienza che non era più vera. "All'epoca gli atomi furono

accettati come entità fondamentali: senza struttura, indivisibili, non avevano bisogno di ulteriori spiegazioni. Negli ultimi vent'anni questa visione ha finalmente cominciato a incrinarsi." Maria era già confusa. Dalle letture affrettate di quegli ultimi giorni, sapeva che i lambertiani modificavano una teoria assodata solo quando si scopriva un fenomeno nuovo che la teoria non riusciva a spiegare. Repetto doveva aver notato la sua espressione, perché fece una pausa di attesa. Maria disse: "Gli atomi dell'Autoverso sono indivisibili. Non ci sono componenti che potete separare, non ci sono entità stabili più piccole. Se li fate collidere all'energia che preferite, rimbalzeranno e basta, e i lambertiani non sono in condizione di farli collidere ad alcuna energia. Perciò, di sicuro non possono aver riscontrato nulla che non possa essere spiegato alla perfezione dalla teoria in vigore". "Nulla nel loro ambiente immediato, certo. Ma il problema è la cosmologia. Già stavano reimpostando i modelli cronologici del loro sistema stellare, e adesso cercano una spiegazione per la composizione della nube primordiale." "Hanno accettato i trentadue atomi e le loro proprietà, ma non si convincono di dover fare altrettanto con le quantità arbitrarie di ciascuno all'interno della nube?" "Esatto. È difficile tradurre con precisione le loro motivazioni, ma possiedono un'estetica ben definita che stabilisce cosa possono accettare come teoria, e per loro è quasi fisicamente impossibile contraddirla. Se tentano di danzare una teoria che non riesce a entrare in risonanza con il sistema nervoso che ne stabilisce la semplicità, la danza fallisce." Ci pensò su per un secondo, poi indicò lo schermo alle sue spalle. Apparve uno sciame di lambertiani. "Ecco un esempio di qualche tempo fa. È una squadra di astronomi, tutti ben consapevoli del moto dei pianeti in cielo rispetto al Sole, impegnati a sperimentare una teoria che trovi spiegazioni a tali osservazioni, dando per scontato che pianeta Lambert sia fisso, e tutto il resto orbiti attorno." Maria osservò attentamente le creature. Avrebbe avuto qualche problema a identificare i ritmi dei loro complessi moti intrecciati, ma quando lo sciame iniziò a disgregarsi, il collasso dell'ordine fu ben chiaro. "Adesso può vedere la versione eliocentrica, di qualche anno successiva." Anche stavolta la danza era troppo complessa da analizzare, per quanto sembrasse più armoniosa, e quasi ipnotica. I punti neri che svolazzavano avanti e indietro contro il cielo bianco lasciavano delle scie sulla retina. Al di sotto, la prateria onnipresente sembrava un ambiente decisamente strano per teorizzare di astronomia. I lambertiani parevano accettare la loro condizione, in cui il pascolo degli acari rappresentava il massimo del controllo sulla natura, come se costituisse un'utopia paragonabile alla libertà totale degli elisi. Ancora dovevano affrontare i predatori. Molti di loro morivano giovani per le malattie. Però il cibo era sempre abbondante. Avevano appreso, già ai primi stadi, a modellare i loro cicli di popolazione, e a smorzare le oscillazioni. E, che amassero o meno la natura, non esistevano conflitti "ideologici" sul "controllo delle nascite". Una volta che il modello demografico si era diffuso, gli stessi rimedi erano stati adottati dalle comunità di tutto il pianeta. La diversità culturale lambertiana era limitata. La porzione del loro comportamento, determinata dai geni, era molto maggiore che negli umani. I giovani nascevano autosufficienti, con una plasticità neurale molto inferiore a quella di un neonato umano, e una variazione relativamente ridotta nei geni relativi. La teoria eliocentrica era accettabile, la danza manteneva la sua coerenza. Repetto fece riandare la scena, con una "traduzione" in una piccola finestra che mostrava la posizione dei pianeti raffigurata in ogni istante. Maria non riusciva ancora a decifrare la corrispondenza (di sicuro i lambertiani non stavano volando in un banale scimmiottamento delle orbite ipotetiche), ma i ritmi sincronizzati dei pianeti e degli insetti astronomi sembravano fondersi in un punto della corteccia visiva, innescando qualche rilevatore di ricorrenze che non sapeva che farsene di quella strana ridondanza. Disse: "Allora Tolomeo era solo scorretto, un evidente controsenso. E hanno raggiunto Copernico nel giro di pochi anni? Impressionante. Quanto ci hanno messo ad arrivare a Keplero… a Newton?" Zemansky rispose senza alzare la voce: "Questo era Newton. La teoria della gravità, e le leggi del

moto, facevano appunto parte del modello che stavano danzando. I lambertiani non avrebbero mai potuto esprimere le orbite senza aggiungere la ragione". Maria sentì i capelli rizzarsi sulla nuca. "Se questo era Newton… cosa c'è stato prima?" "Nulla. È stato il primo modello astronomico valido, il culmine di circa un decennio di tentativi delle squadre di tutto il pianeta." "Ma devono aver avuto qualcosa. Miti primordiali. Pile di tartarughe. Divinità solari sul carro." Zemansky si mise a ridere. "Niente tartarughe né carri, è chiaro. No, non c'è stata nessuna cosmologia ingenua. Il loro primissimo linguaggio è derivato dalle cose che potevano osservare e modellare con facilità, relazioni ecologiche, dinamiche demografiche. Quando la cosmologia superava le loro possibilità, non tentavano nemmeno di affrontarla, era un non-argomento." "Niente miti della creazione?" "No. Per i lambertiani, credere a qualsiasi forma di 'mito', a un genere di vaga pseudospiegazione non verificabile, sarebbe stato come… soffrire di allucinazioni, vedere dei miraggi, sentire le voci. Li metterebbe del tutto fuori fase". Maria si schiarì la voce. "Allora, verrebbe da domandarsi come reagiranno a noi." Intervenne Durham. "In questo momento, i creatori sono un nonargomento. I lambertiani non hanno bisogno di una simile ipotesi. Comprendono l'evoluzione: mutazione, selezione naturale. Hanno persino postulato una specie di gene macromolecolare. Ma l'origine della vita resta una domanda aperta, troppo difficile da affrontare, e ci vorranno forse dei secoli prima che comprendano che il loro estremo antenato è stato seminato 'a mano', sempre che ci sia una prova a dimostrarlo, una ragione logica per cui l'A. hydrophila non possa nascere in qualche immaginaria storia prebiotica. Ma non si arriverà a tanto. Dopo qualche altro decennio passato a sbattere la testa contro il problema della nube primordiale, mi sa che indovineranno come stanno le cose. Un'idea matura può fare il giro del pianeta in pochi mesi, per quanto sia arcana. Quelle creature non sono tradizionaliste. E una volta che la teoria sulle radici del loro mondo sarà sorta nel giusto contesto scientifico, non li scombussolerà più di tanto. Quel che voleva dire Alisa era che le superstizioni primitive a cui credevano gli umani non avrebbero avuto senso per i primi lambertiani." Maria disse: "Allora… aspetteremo che i 'creatori' non siano più non-argomenti prima di intervenire per annunciare cosa siamo?" Durham le rispose: "Assolutamente. Abbiamo l'autorizzazione ad attuare il contatto soltanto dopo che i lambertiani abbiano postulato autonomamente la nostra esistenza, non prima". Rise, poi aggiunse con evidente soddisfazione: "L'abbiamo ottenuto chiedendo molto di più". Maria si sentiva ancora inquieta, ma non voleva creare ritardi, mentre lei era alle prese con le sottigliezze della cultura lambertiana. Disse: "Va bene. La cosmologia è l'innesco, ma loro stanno cercando delle spiegazioni più profonde per la loro chimica. Hanno avuto successo?" Repetto richiamò la carta di pianeta Lambert. I segnalini che mostravano le postazioni delle squadre di teorici erano stati sostituiti da piccoli grafici a barra. "Ecco i tempi di danza sostenuti per vari modelli subatomici studiati negli ultimi cinque anni. Qualche teoria sembra promettente, migliora di qualcosa a ogni aggiustamento. Altri gruppi ottengono risultati abbastanza a caso. Nessuno ha escogitato qualcosa che sia capace di comunicare a distanza. Queste danze sono troppo brevi per essere ricordate da squadre di messaggeri." Maria si sentì di nuovo venire la pelle d'oca. I messaggi falsi muoiono per strada. C'era qualcosa di agghiacciante in tanta efficienza, in questa spietata ricerca della verità. O forse era solo questione di orgoglio ferito. Trattare alcuni dei progressi intellettuali più sudati dell'umanità come virtualmente lapalissiani, non era la caratteristica più piacevole di una specie aliena.

Disse: "Così non c'è una squadra in procinto di scoprire la verità?" Repetto scrollò il capo. "Non ancora. Ma le regole dell'Autoverso sono la spiegazione più semplice per i trentadue atomi, quasi sotto ogni criterio." "Le più semplici per noi. Non c'è nulla nell'ambiente dei lambertiani che gli possa far venire in mente un automa cellulare." Zemansky replicò: "Non c'era nulla nel loro ambiente che li inducesse a pensare agli atomi". "Beh, no, ma gli antichi greci pensarono agli atomi… anche se non scoprirono la meccanica quantistica. " Maria non riusciva a immaginare un umano preindustriale che inventava l'automa cellulare, persino come astrazione matematica, per non parlare poi di ipotizzare che l'universo stesso fosse una cosa sola. Le cosmologie meccaniche erano arrivate dopo gli orologi fisici, le cosmologie informatiche erano venute dopo i computer fisici. Però la storia umana non era chiaramente una guida utile alla scienza lambertiana. Avevano già ottenuto il loro modello planetario newtoniano, "meccanico". Non avevano bisogno di manufatti che spianassero la strada. Domandò: "Questa 'estetica' che governa l'accettabilità delle teorie, siete riusciti a tracciare le strutture nervose implicate? Potete riprodurne i criteri? " Repetto rispose: "Sì. E credo di sapere cosa sta per chiedere". "Avete concepito una vostra versione delle possibili teorie lambertiane dell'automa cellulare? E le avete provate sull'estetica lambertiana? " Lui chinò il capo con modestia. "Sì. Certo, non modelliamo interi cervelli, sarebbe palesemente poco etico, ma possiamo condurre delle simulazioni di danze di prova con modelli neurali lambertiani non coscienti." Modellare i lambertiani che modellano l'Autoverso? "E com'è andata?" Repetto era esitante. "Fin qui i risultati non sono conclusivi. Nessuna delle teorie che ho elaborato ha funzionato, ma è una faccenda delicata. È difficile capire se sto davvero formulando l'ipotesi come farebbero i lambertiani, o se ho proprio colto tutte le sottigliezze del comportamento relativo in un modello non cosciente." "Ma non sembra promettente?" "Non è conclusivo." Maria ci pensò su. "Da sole, le regole dell'Autoverso non spiegheranno le abbondanze relative degli elementi, che poi è il problema più grosso che stanno cercando di risolvere i lambertiani. Allora che succede se non imbroccano l'idea dell'automa cellulare e saltano fuori con una teoria del tutto diversa, qualcosa di completamente fuorviante… che però combaci lo stesso con i dati? Lo so, hanno compreso tutto il resto sul loro mondo, con molto maggiore facilità degli umani, ma ciò non li rende perfetti. E, se non possiedono alcuna tradizione di rinuncia a risolvere le questioni difficili invocando la mano di un creatore, potrebbero sempre mettere insieme qualcosa che spieghi sia la nube primordiale che le proprietà chimiche degli elementi, senza arrivare nemmeno vicini alla verità. Non è impossibile, no?" Ci fu un momento di silenzio imbarazzato. Maria si domandò se non avesse commesso un passo falso nel suggerire che non si potessero mai realizzare i criteri per il contatto, ma era assolutamente impensabile che stesse rivelando a quella gente cose che non avevano già preso in considerazione. Poi Durham disse soltanto: "No, non è impossibile. Allora dovremo soltanto stare ad aspettare per vedere dove la logica dei lambertiani li sta portando".

27 [RUT CITY]

Peer sentì che il cambiamento cominciava, perciò spense il tornio. Si guardò intorno impotente, i suoi occhi si posarono su oggetti e ancora oggetti senza i quali non poteva nemmeno pensare di vivere: la levigatrice a nastro, lo scaffale pieno di strumenti per incidere al tornio, latte d'olio, barattoli di smalto. La stessa catasta di legna appena tagliata. Abbandonare quelle cose, o peggio, abbandonare il suo amore per esse, sembrava sinonimo di annichilimento. Poi iniziò a considerare la situazione in modo diverso. Si sentì mentre si ritirava dalla propria vita da falegname nel più ampio schema delle cose, o non schema: il saltellare casuale da un pretesto all'altro che garantiva i vari significati alla sua esistenza. Il senso di perdita divenne impossibile da sopportare, l'entusiasmo per tutto ciò a cui era stato devoto negli ultimi settantasei anni evaporò come un sogno. Non era schifato o sconcertato dalla fase che si stava lasciando alle spalle, ma non aveva alcun desiderio di prolungarla o ripeterla. I suoi utensili, i vestiti, lo stesso laboratorio si liquefecero, lasciandosi dietro una pianura grigia e anonima, che si stendeva all'infinito sotto un cielo azzurro accecante, privo di sole eppure luminosissimo. Aspettò con calma di scoprire la sua nuova vocazione, ricordandosi l'ultima transizione, e pensando: Da soli, questi brevi momenti intermedi costituiscono una vita. Pensò di raccogliere quelle stesse riflessioni per approfondirle, la prossima volta. Poi dal terreno vuoto, spuntò attorno una stanza enorme, che si allungava in tutte le direzioni per centinaia di metri, piena di file e file di cassetti di legno giallo. Un alto soffitto con lucernari polverosi si condensò sulla sua testa, completando la scena. Peer ammiccò nella penombra. Indossava pesanti pantaloni neri e un gilè sopra una camicia bianca inamidata. Il suo eso-sé, avendo scelto un'ossessione che sarebbe stata insensata in un mondo di computer avanzati, l'aveva vestito come un naturalista vittoriano. Sapeva che i cassetti erano pieni di coleotteri. Centinaia di migliaia di coleotteri. Adesso era libero di non fare altro che studiarli, esemplare dopo esemplare, decennio dopo decennio. Era una prospettiva tanto deliziosa che quasi si lasciò cadere a terra per la gioia. Mentre si avvicinava alla fila più vicina di cassetti, dove già lo aspettava una risma di carta protocollo con una matita, indugiò per cercare di chiarire i propri sentimenti. Sapeva perché era felice lì dentro: il suo eso-sé gli aveva reimpostato un'altra volta il cervello, come era stato programmato a fare. Che altro senso gli serviva? Osservò la stanza piena di muffa, cercando di individuare la fonte della sua insoddisfazione. Tutto era perfetto, qui e adesso, ma il passato era sempre con lui: la pianura grigia della transizione, i decenni al tornio, le volte che era stato con Kate, le ossessioni precedenti. Il David Hawthorne da tempo scomparso, invincibile, aggrappato a una parete rocciosa. Nulla di tutto questo aveva il minimo rapporto con i suoi attuali interessi, con l'ambiente presente, ma i dettagli aleggiavano tuttora al margine dei suoi pensieri: distrazioni superflue, anacronistiche. Era vestito per una parte, allora perché non completare l'illusione? Aveva già manipolato i falsi ricordi. Perché non costruire un passato virtuale che "spiegasse" la sua situazione e il suo entusiasmo per il compito che lo aspettava, in termini confacenti all'ambiente? Perché non creare una persona senza ricordo alcuno di Peer, che potesse sprofondare davvero nel piacere di smarrirsi in quella collezione inestimabile? Aprì una finestra sul suo eso-sé, e insieme cominciarono a inventare la biografia di un entomologo. Peer osservò indifferente la lampadina lampeggiante in un angolo della stanza, poi si avvicinò per

leggere l'appunto scarabocchiato sul tavolo sottostante. Parliamone. C'è qualcosa che non funziona. Esitò, poi creò una porta accanto alla lampada. Kate la varcò. Era terrea. Disse: "Passo la metà del mio tempo a cercare di raggiungerti. Quando finirà?" Il tono di voce era piatto, come se volesse apparire arrabbiata ma non ne avesse la forza. Peer sollevò una mano verso la sua guancia, ma Kate la scostò. Lui disse: "Qualche problema?" "Problema? Sei scomparso per quattro settimane." Quattro settimane? Peer quasi scoppiò a ridere, ma lei pareva tanto turbata che si trattenne. "Sai che mi lascio prendere da quel che faccio. Per me è importante. Però mi dispiace che sia stata in pensiero…" Lei non sembrava averlo ascoltato. "Sei scomparso. Non ho detto: non hai risposto alle mie chiamate. L'ambiente in cui ci troviamo, e il suo proprietario, non esistevano." "Come mai ne sei convinta?" "Il software di comunicazione ha annunciato che non c'era nessun dato di accettazione elaborazione indirizzato al tuo nodo personale. Il sistema ti ha perso". Peer rimase sorpreso. Non si era mai fidato di Malcolm Carter, ma dopo tutto quel tempo sembrava improbabile che saltassero fuori grossi problemi con l'infrastruttura che aveva ideato per loro nella Città. Disse: "Forse ha perso il contatto. Per quanto?" "Ventinove giorni." "Era mai successo prima?" Kate fece una risata amara. ''No. Credi che me lo sarei tenuto tutto per me? Non ho mai incontrato un problema basilare di software di alcun genere. E ci sono delle registrazioni automatiche che lo confermano. È la prima volta." Peer si grattò sotto il colletto inamidato. Quell'interruzione l'aveva disorientato, non riusciva a ricordare cosa stava facendo quando la lampadina intermittente aveva catturato la sua attenzione, la sua memoria aveva bisogno di lavori di manutenzione. Disse: "È preoccupante, ma non vedo cosa ci possiamo fare, a parte qualche controllo per cercare di individuare il problema". "Ho già eseguito i controlli diagnostici quando il problema era in corso." "E…?" "Di sicuro, nel software di comunicazione non c'era niente che non andasse. Ma nessuno dei sistemi coinvolti nel tuo funzionamento era visibile alla diagnostica." "Impossibile." "Ti sei sospeso?" "Certo che no. E non spiegherebbe niente. Anche se fosse così, i sistemi responsabili del mio funzionamento sarebbero stati ancora attivi." "Allora cosa stavi facendo?" Peer osservò la stanza, il punto in cui si trovava prima. Su una scrivania era appoggiato un cassetto per campioni, con accanto un grosso brogliaccio. Si avvicinò, seguito da Kate. "A quanto pare disegnavo coleotteri." Circa un centinaio di pagine del brogliaccio erano già state utilizzate. Si notava uno schizzo incompleto di un esemplare. Peer era sicuro di non averlo mai visto prima. Kate raccolse il blocco per studiare il disegno, poi sfogliò le pagine precedenti. Disse: "Perché uno pseudonimo? Non sono già un'affettazione sufficiente quegli abiti? " "Quale pseudonimo?" Lei gli porse il quaderno, indicando una firma. "Sir William Baxter, membro della Royal Society". Peer si appoggiò alla scrivania, sforzandosi di colmare il vuoto. Stava giocando a qualche esercizio di

memoria, questo era chiaro, ma doveva aver combinato le cose in modo da poter capire, alla fine, cos'era successo. Quando Kate aveva attuato il contatto, spezzando l'incantesimo, il suo eso-sé gli avrebbe dovuto garantire una spiegazione esaustiva. Evocò mentalmente i dati: l'ultimo evento evidenziato era la recentissima transizione casuale. Di quel che aveva fatto in seguito non appariva alcuna traccia. Disse, sconsolato: "Quel nome non mi dice niente". Fatto ancor più strano, l'idea di aver passato ventinove giorni a disegnare coleotteri lo lasciava freddino. Ogni passione che poteva aver provato per la tassonomia degli insetti era scomparsa assieme ai suoi ricordi, come se l'intero pacchetto fosse appartenuto a qualcun altro, che adesso, dopo averlo reclamato per sé, se n'era andato.

28

Mentre la Città le si imprimeva lentamente nel cervello (ogni tramonto abbacinante lasciava la sua dorata immagine persistente a bruciare la sua retina inesistente, ogni viaggio che compiva tracciava mappe delle strade inesistenti nelle sue sinapsi inesistenti), Maria sentì di scrollarsi dai ricordi del vecchio mondo. I dettagli erano nitidi come sempre, ma la storia stava perdendo la sua efficacia, il suo significato. Dopo che aveva escluso l'idea di piangere per persone che non erano morte, e che non l'avevano affatto persa, tutto quel che sembrava le fosse rimasto da provare era la nostalgia… e persino quella era minata da contraddizioni. Le mancavano le strade, gli spazi, gli odori. Certe volte faceva un male tale da essere quasi comico. Restava sveglia a pensare ai più derelitti edifici abbandonati della Pyrmont, o al puzzo di cartone di finto popcorn che si spandeva dai saloni Rv di George Street. E sapeva di poter ricostruire la sua vecchia casa, tutti i dintorni, tutta Sidney, e altro ancora, con tutti i dettagli che desiderava, sapeva che ogni residuo dolore idiota che provava per il suo passato amputato poteva essere curato in un istante. Capire esattamente fin dove si poteva spingere era più che sufficiente a liberarla di ogni desiderio di fare anche un solo passo in quella direzione. Ma aver scelto di non compiere alcuno sforzo per alleviare le fitte della nostalgia sembrava averla anche privata del diritto alle emozioni. Come poteva pretendere di anelare a qualcosa di tanto facile ottenimento, mentre continuava a negarselo? Così tentò di mettere da parte il passato. Studiò con diligenza i lambertiani, preparandosi al giorno in cui avrebbero concesso il contatto. Tentò di immergersi nel ruolo della leggendaria diciottesima fondatrice, svegliata dal sonno millenario per condividere il momento del trionfo, quando la gente di Elisio si sarebbe finalmente ritrovata faccia a faccia con una cultura aliena. Le comunità lambertiane, nonostante qualche somiglianza con quelle degli insetti sociali terrestri, erano di gran lunga più complesse, e molto meno gerarchiche, dei formicai o degli alveari. Tanto per cominciare, tutti i lambertiani erano parimenti fertili, non c'erano regine, operaie o fuchi. I giovani venivano concepiti all'interno di piante alla periferia del territorio locale e, alla schiusa, di solito migravano per centinaia di chilometri diventando membri di comunità lontane. Lì si univano a una squadra per imparare una specializzazione, che fosse la pastorizia degli acari, la difesa dai predatori o il modellare la formazione di sistemi planetari. Generalmente, la specializzazione valeva per tutta la vita, ma i membri di una squadra cambiavano ogni tanto professione, in caso di necessità. Il comportamento di gruppo lambertiano aveva una lunga storia evolutiva, e restava la forza propulsiva del loro sviluppo culturale, perché i singoli lambertiani erano fisicamente incapaci di inventare, provare o comunicare i modelli tramite i quali venivano espresse le idee più sofisticate. Mentre prendeva parte a una danza riuscita, un individuo poteva imparare abbastanza su un modello da potersi scambiare di ruolo con ogni altro individuo, nella cerimonia successiva, ma non poteva mai soppesare le implicazioni del concetto da sé, in solitudine. Il linguaggio della danza era come la scrittura umana, come la logica formale, come il calcolo e la notazione matematica, tutti in uno, ma le capacità basali erano innate, non culturali. Ed era tanto riuscito, e tanto sintonizzato con gli altri aspetti del loro comportamento sociale, che i lambertiani non avevano motivo di sviluppare un'alternativa autonoma. Però gli individui erano ben lungi dall'essere delle componenti prive di cervello. Erano totalmente consci. I gruppi coprivano molti ruoli, ma non comprendevano delle "menti comunitarie". Il linguaggio di suoni, movimenti e odori utilizzato dagli individui era molto, ma molto, più semplice del linguaggio di gruppo della danza, ma poteva sempre esprimere gran parte dei concetti gestiti dagli umani prima dell'invenzione della scrittura: intenzioni, esperienze passate, le vite degli altri.

E i singoli lambertiani parlavano di morte singola. Sapevano che sarebbero morti. Maria scandagliò la bibliografia in cerca di qualche indizio su come trattavano la loro mortalità. I cadaveri erano lasciati dove cadevano, non esisteva un rituale a segnare l'evento, e nessuna prova di qualcosa che ricordasse il lutto. Non c'erano evidenti analogie lambertiane con le emozioni umane, nemmeno con il dolore fisico. Quando erano feriti, ne erano intensamente consapevoli e si davano da fare per minimizzare il danno, ma era solo questione di specifiche risposte innate che entravano in ballo, piuttosto che dei mutamenti biochimici diffusi coinvolti nei cambiamenti di umore degli umani. Il sistema nervoso lambertiano era più "chiuso" di quello umano, non esisteva nessuna inondazione delle regioni del cervello tramite dosi generose di stimolanti o calmanti endogeni, tutto era mediato entro le sinapsi. Niente lutto. Niente dolore. Niente felicità? Maria indietreggiò davanti a quella domanda. I lambertiani possedevano la loro gamma di pensieri e comportamenti, ogni tentativo di renderlo in termini umani sarebbe stato falso come i colori degli atomi dell'Autoverso. Più cose imparava, più il ruolo che aveva recitato nel portare alla nascita dei lambertiani sembrava perdere di significato. L'allestimento del loro antenato monocellulare era parso questione della massima importanza, all'epoca, non foss'altro che per convincere gli scettici che poteva svilupparsi una vita nell'Autoverso. Adesso, anche se qualche suo trucchetto biochimico s'era conservato per tre miliardi di anni di evoluzione, era difficile attribuire un significato reale alle scelte che aveva adottato. Sebbene l'intera biosfera lambertiana avrebbe potuto essere radicalmente diversa qualora si fosse scelta una forma differente per un singolo enzima nell'A. hydrophila, non poteva dedurne che i lambertiani fossero dipendenti dalle sue azioni. Le decisioni che aveva preso controllavano quel che vedeva nel terminale, null'altro. Se avesse compiuto altre scelte, lei avrebbe visto un'altra biosfera, un'altra civiltà, ma non poteva credere che i lambertiani non sarebbero riusciti a vivere le medesime vite senza di lei. Avrebbero trovato il modo per assemblarsi dal pulviscolo. Però, se era vero, se la logica interna della loro esperienza sarebbe stata sufficiente a portare alla loro esistenza, allora non c'era motivo di credere che sarebbero mai stati costretti a concludere che il loro universo necessitava di un creatore. Cercò di conciliare questa convinzione crescente con l'ottimismo del gruppo di contatto. Avevano studiato i lambertiani per migliaia di anni, chi era lei per dubitare della loro competenza? Poi le venne in mente che Durham e i suoi colleghi potevano aver deciso di fingere soddisfazione per le restrizioni politiche impostegli fin quando non fossero stati sicuri che lei li appoggiava. Fin quando non giungeva indipendentemente alle stesse conclusioni? Durham poteva aver indovinato che avrebbe opposto resistenza a qualunque pressione da parte loro. Sarebbe stato molto più diplomatico lasciare che si formasse le sue opinioni, persino applicando un tantino di psicologia opposta per indirizzarla nella giusta direzione. O era paranoia pura e semplice? Dopo cinque giorni di studio sui lambertiani, ripercorrendo la storia dei tentativi sempre più fortunati di spiegare il proprio mondo, e dopo cinque notti passate a convincersi che presto sarebbero crollati riconoscendo il loro status di vita artificiale, non riusciva più a tenere in testa tante contraddizioni tutte assieme. Telefonò a Durham. Erano le tre di notte, ma doveva essere fuori città. Il tempo standard fissava un ritmo, ma nessun ciclo diurno, e alle sue spalle si vedeva una stanza illuminata da un sole abbacinante. Maria esordì brusca: "Mi sa che adesso vorrei conoscere la verità. Perché mi ha svegliato?" Lui non parve sorpreso, ma replicò guardingo: "Cosa crede?" "Lei cerca il mio appoggio per una spedizione prematura su pianeta Lambert. Vuole che dichiari, con tutta la mia dubbia autorità di 'madre' dei lambertiani, che non ha senso aspettare che inventino il concetto della nostra presenza. Perché sappiamo entrambi che non accadrà mai. Non fin quando non ci avranno

visto coi loro occhi." "Ha ragione riguardo ai lambertiani, ma lasci perdere la politica. L'ho svegliata perché il suo territorio confina con la regione in cui gira l'Autoverso. Voglio che mi permetta di usarlo per penetrare su pianeta Lambert." Sembrava un bambino che confessa solennemente un crimine infantile. "L'accesso tramite il fulcro è strettamente sorvegliato e visibile a tutti. C'è un sacco di spazio inutilizzato nel sesto spicchio pubblico, perciò potrei cercare di entrare da lì, ma anche in questo caso è potenzialmente visibile. Il suo territorio invece è privato." Maria ebbe un moto di rabbia. Non riusciva a credere di essersi bevuta la scusa del risveglio per condividere la gloria del contatto. Che Durham la usasse non era una gran sorpresa, le ricordava i bei tempi andati, ma essere riportata in vita non per le sue competenze, non per il suo status, bensì perché lui potesse scavare una galleria nel suo cortile… Disse amareggiata: "Perché deve intrufolarsi nell'Autoverso? C'è una competizione della quale nessuno s'è preso il disturbo di informarmi? Pochi stronzissimi immortali annoiati si battono per attuare il primo contatto non autorizzato con i lambertiani? Ha trasformato la xenobiologia in una nuova disciplina olimpionica?" "Tutt'altro." "No? Allora cosa? Muoio dalla voglia di saperlo." Maria cercò di leggerglielo in volto, per quel che poteva servire. Lui si concesse un'espressione contrita, ma sembrava anche determinato e risoluto, come se credesse davvero di non avere più scelta. Le venne in mente di colpo. "Crede… che l'Autoverso sia un rischio per Elisio?" "Sì." "Capisco. Allora mi ha svegliato per condividere il pericolo? Che pensiero gentile." "Maria, mi dispiace. Se ci fosse stata un'altra maniera l'avrei lasciata dormire per sempre..". Lei iniziò a ridere e tremare nello stesso tempo. Durham appoggiò un palmo della mano sullo schermo. Era ancora arrabbiata con lui, ma lasciò che si sporgesse attraverso il terminale dalla sua stanza per posarle una mano sulle sue. Maria chiese: "Perché deve agire di nascosto? Non può convincere gli altri a consentirle di fermare l'Autoverso? Devono capire che non farà alcun danno ai lambertiani. Li lancerà come ha lanciato Elisio. Non c'è alcun rischio di genocidio. Vabbè, sarebbe una perdita per gli studiosi dell'Autoverso, ma quanti possono essere? Cosa significa pianeta Lambert per l'elisio medio? È solo un'altra forma di divertimento tra le tante". "Ho già tentato di disattivarlo. Sono autorizzato a definire la velocità di funzionamento rispetto al tempo standard, e a bloccare temporaneamente l'intero Autoverso, se ritenessi necessario bloccare il flusso di informazione per rimetterci al passo con degli sviluppi rapidi." "E allora cos'è successo? L'hanno costretta a riavviarlo?" "No. Non sono mai riuscito a fermarlo. Non sarà più possibile. Il ritmo temporale non può essere rallentato oltre un certo punto, il software ignora le istruzioni. Non succede nulla." Maria sentì un brivido diffondersi alla base della colonna vertebrale. "Ignorarle come? È impossibile." "Sarebbe impossibile se tutto funzionasse, perciò è chiaro che c'è qualcosa che crea dei problemi. La domanda da farsi è: a che livello? Non posso credere che il software di controllo stia tradendo di colpo un buco nascosto dopo tutto questo tempo. Se non risponde come dovrebbe, allora sono i processori di funzionamento che non si comportano come dovrebbero. Perciò, o sono danneggiati, oppure è l'automa cellulare che è cambiato. Credo che le regole Tvc siano compromesse, o assorbite in qualcosa di più grande". "Ha qualche prova concreta?"

"No. Ho rifatto i vecchi esperimenti di convalida, quelli che ho eseguito durante il lancio, e funzionano ancora dovunque li ho testati, ma non posso istruire i processori che fanno girare l'Autoverso ad autodiagnosticarsi, per non parlare di sondare cosa accade a un livello più profondo. Non so nemmeno se il problema sia confinato alla regione o se si stia diffondendo pian piano… o se stia già succedendo dappertutto, ma con effetti troppo sfumati per poterli cogliere. Lei sa che l'unico modo per convalidare le regole è con un apparato speciale. Allora che faccio? Smonto metà dei processori di Elisio per costruire al loro posto delle camere di prova? E anche se potessi dimostrare che le regole sono state disattese, a che servirebbe?" "Chi altro lo sa?" "Solo Repetto e Zemansky. Se diventasse di dominio pubblico, non so cosa succederebbe." Maria si sentiva offesa. "Cosa vi dà il diritto di tenervelo per voi? Qualcuno potrebbe anche perdere la testa… ma di cosa avete paura? Sommosse? Saccheggi? Più gente è al corrente del problema, più è probabile che qualcuno possa trovare una soluzione." "Forse. O forse il semplice fatto che lo sappia altra gente potrebbe peggiorare le cose." Maria metabolizzò il concetto in silenzio. La luce del sole che filtrava dal terminale le proiettava attorno ombre radiali. La stanza sembrava una xilografia medievale raffigurante un alchimista che ha appena scoperto la pietra filosofale. Durham disse: "Sa perché ho scelto l'Autoverso, invece della fisica del mondo reale?" "Meno calcoli. Più facile seminare la vita. Il mio lavoro brillante con l'A. lamberti". "Nessun processo nucleare. Nessuna spiegazione per le origini degli elementi. Pensavo che, nel caso improbabile che i pianeti ospitassero vita intelligente, sarebbero riusciti a capirsi soltanto secondo i nostri parametri. Sembrava tutto tanto remoto e improbabile, allora. Non mi è mai venuto di pensare che potessero non comprendere le leggi che sappiamo essere leggi, aggirando l'intero problema." "Non hanno ancora scelto nessuna teoria. Potrebbero sempre escogitare un modello di automa cellulare, corredato della necessità di un creatore." "Possibile. Ma se non succede?" Maria aveva la gola secca. Quelle astrazioni stordenti stavano perdendo il loro potere ipnotico. Stava cominciando a sentirsi sin troppo reale, troppo corporea e vulnerabile. Perfetto tempismo: sposare finalmente l'illusione di possedere un corpo solido proprio mentre le fondamenta del suo universo sembravano pronte a trasformarsi in sabbie mobili. Disse: "Mi racconti. Sono stanca di tirare a indovinare cosa le passa per la testa". "Non li possiamo disattivare. Credo che dimostri che stanno già influenzando Elisio. Se riescono a spiegare con successo le loro origini in un modo che contraddica le regole dell'Autoverso, questo può distorcere le regole Tvc. Forse soltanto nella regione in cui gira l'Autoverso, o forse dappertutto. E se ci sottraggono le regole Tvc..". Maria esitò. "È… come sostenere che un ambiente Rv potrebbe alterare le leggi fisiche del mondo reale per assicurarsi la propria coerenza interna. Anche con migliaia di Copie in ambienti Rv, sulla Terra non è mai successo". "No, ma cos'è che somiglia di più al mondo reale, Elisio o l'Autoverso?" Durham rise senza traccia d'amarezza. "Siamo sempre delle Copie abborracciate, molti di noi stanno in territori privati fantastici. I nostri corpi sono delle approssimazioni ad hoc. Le nostre città carta da parati indistruttibile. Le leggi della fisica' di tutti gli ambienti di Elisio si contraddicono tra di loro, e se stesse, un miliardo di volte al giorno. In fin dei conti tutto gira sui processori Tvc, certo, è tutto coerente con le regole Tvc, ma livello dopo livello viene sigillato, reso invisibile al successivo, irrilevante. Su pianeta Lambert, tutto quel che avviene è intrinsecamente legato a un insieme di leggi fisiche, applicate in modo uniforme, dappertutto. E hanno già avuto tre miliardi di anni come questi. Possiamo anche non sapere quali sono le leggi più nascoste, ma ogni evento vissuto dai lambertiani fa parte di un

tutto coerente. Se c'è in corso un conflitto tra le due versioni della realtà, non possiamo fidarci che sia la nostra versione a prevalere." Nemmeno Maria poteva sostenere che la Rv patchwork potesse controbattere la logica profonda dell'Autoverso. Disse: "Allora la cosa più sicura sarebbe garantire che non ci sia alcun conflitto. Smettere di osservare l'Autoverso. Abbandonare ogni progetto di contatto. Isolare le due spiegazioni. Impedirgli di collidere". Durham replicò con voce piatta: "No, siamo già in conflitto. In caso contrario, perché non riusciamo a disattivarli?" "Non so." Maria distolse lo sguardo. "Se si arriva al peggio… non possiamo ricominciare? Costruire una nuova configurazione Giardino dell'Eden? Rilanciarci senza l'Autoverso?" "Se proprio dobbiamo." Poi Durham aggiunse: "Se crediamo di poterci fidare che l'universo Tvc faccia tutto quel che è stato programmato a fare, senza alterare il processo di lancio, senza farlo fallire… o persino trasferirgli le leggi modificate cui crediamo di sfuggire". Maria osservò la Città. Gli edifici non stavano crollando, l'illusione non si degradava. Disse: "Se non ci possiamo fidare, cosa rimane?" Durham rispose torvo: "Nulla. Se non sappiamo più come funziona questo universo, siamo impotenti". Lei liberò la propria mano. "Allora cosa vorrebbe fare? Crede che, avendo accesso a più Autoverso rispetto ai canali di dati che escono dal fulcro, potrà far rispettare le regole Tvc? Un'intera faccia della piramide che grida stop ai processori vicini avrà più peso della normale sequenza di comando?" "No. Ma potrebbe valer la pena di tentare. Non credo funzionerà." "Allora… cosa?" Durham si chinò in avanti, come se avesse qualcosa di molto importante da dire. "Dobbiamo riconquistare le leggi. Dobbiamo entrare in Autoverso per convincere i lambertiani ad accettare la nostra spiegazione della loro storia, prima che abbiano un'alternativa chiara. Dobbiamo convincerli che li abbiamo creati noi, prima che non sia più la verità."

29

Thomas era seduto in giardino a guardare i robot che curavano le aiuole. Le loro membra argentee scintillavano al sole mentre si aggiravano tra gli abbacinanti fiori bianchi. Ogni movimento compiuto era preciso, ergonomico, non c'era indugio o sosta. Facevano quel che dovevano, e poi proseguivano. Quando se ne furono andati, rimase seduto in attesa. L'erba era tenera, il cielo luminoso, l'aria calma. Non si fece ingannare. C'erano già stati momenti del genere, momenti che sfioravano la serenità. Non significavano nulla, non preannunciavano nulla, non cambiavano nulla. Ci sarebbe sempre stata un'immagine del degrado, un altro incubo di mutilazioni. E un altro ritorno ad Amburgo. Si grattò la pelle liscia della pancia. L'ultimo numero che aveva inciso si era riemarginato da tempo, dopodiché si era perforato il corpo in mille punti, tagliato polsi e gola, bucato i polmoni, squarciato l'arteria femorale. O almeno così credeva, visto che non restava traccia delle ferite. L'immobilità del giardino cominciava a snervarlo. In quella scena c'era una vacuità che non riusciva a penetrare, come se stesse guardando un grafico incomprensibile, o un dipinto astratto che non poteva decifrare. Mentre il suo sguardo correva sul prato, i colori e le superfici che lo sommergevano si dissociarono di colpo in campiture di luce insignificanti. Nulla s'era mosso, nulla era cambiato, ma la sua capacità di interpretare la disposizione di luci e sfumature era svanita, il giardino aveva cessato di esistere. Preso dalla paura, Thomas cercò alla cieca la cicatrice sull'avambraccio. Appena le dita la sfiorarono, l'effetto fu immediato: il mondo attorno a lui si ricompose. Si sedette ad aspettare cosa sarebbe venuto dopo, irrigidito per un istante, ma la distesa verde scuro sulla coda dell'occhio restava un'ombra proiettata da una fontana, la distesa azzurra rimaneva il cielo. Si rannicchiò sull'erba, carezzando la pelle morta, cullandosi. Era convinto di aver asportato la cicatrice, e la ferita che si era praticato era guarita senza lasciar traccia, ma la riga bianca appena percettibile era ricomparsa in quel punto esatto. Adesso era l'unico contrassegno della sua identità. Il volto era ormai irriconoscibile quando l'ispezionava negli specchi della casa. Il suo nome era un garbuglio di suoni incomprensibile. Ma quando cominciava a perdere la cognizione di sé, gli bastava toccare la cicatrice per ricordare tutto ciò che lo definiva. Chiuse gli occhi. Danzò nell'appartamento con Anna. Lei puzzava di alcol, sudore e profumo. Era pronto a chiederle se lo voleva sposare, sentiva il momento avvicinarsi, e stava quasi soffocando per il terrore, e la speranza. Disse: "Dio se sei bella". Mettimi in ordine la vita. Senza di te non sono niente: frammenti di tempo, frammenti di parole e sensazioni. Dammi un senso. Rendimi integro. Anna disse: "Ti sto per chiedere qualcosa che non ho mai chiesto prima. È tutto il giorno che cerco di trovare il coraggio". "Puoi chiedere tutto quel che vuoi." Lascia che ti capisca. Lascia che ti raccolga e ti ricomponga. Lascia che ti aiuti a spiegarti a te stessa. "Ho un amico con un sacco di soldi. Quasi duecentomila marchi. Ha bisogno di qualcuno che..". Thomas si staccò da lei, la schiaffeggiò forte. Era orripilato. Non le aveva mai messo le mani addosso, non gli era mai venuto in mente. Lei cominciò a dargli dei pugni sul petto e sul viso. Lui rimase immobile a farla sfogare per un po', poi la afferrò per i polsi. Anna rimase senza fiato. "Lasciami andare." "Scusa."

"Allora lasciami andare." Non obbedì. Disse invece: "Non sono una lavanderia di denaro sporco per i tuoi amici". Lei lo guardò compassionevole. "Oh, cos'ho fatto? Ho offeso i tuoi elevati principi morali? Ho solo chiesto. Potevi renderti utile. Non importa. Dovevo immaginarlo che mi facevo troppe aspettative". Lui accostò il viso al suo. "Dove sarai tra dieci anni? In prigione? In fondo all'Elba?" "Vaffanculo." "Dove? Dimmelo." "Posso immaginare sorte peggiore. Potrei finire a giocare alla famiglia felice con un banchiere di mezz'età". Thomas la scagliò contro il muro. Ancor prima di sbatterci contro, Anna scivolò. Mentre cadeva, la testa colpì i mattoni. Lui le si accovacciò accanto incredulo. Sull'occipite si era aperto un ampio squarcio. Respirava. Le diede dei buffetti sulle guance, poi cercò di aprirle gli occhi. Erano rovesciati. Era caduta quasi seduta con la schiena contro la parete, le gambe stese, la testa ciondoloni contro il muro. Il sangue le si stava raccogliendo attorno in una pozza. Thomas si disse: "Pensa alla svelta. Alla svelta". Il tempo rallentò. Ogni particolare della stanza reclamava attenzione. La luce di una lampadina fioca sul soffitto era quasi accecante, ogni margine di ogni ombra era affilato come un rasoio. Thomas si spostò sul prato, sentendosi sfiorare dall'erba. Sarebbero bastati tanto poca forza, tanto poco coraggio, tanto poco amore. Non era una cosa che superava l'immaginazione… Il viso di Anna gli bruciava gli occhi, dolce e terribile. Non aveva mai avuto tanta paura. Sapeva che se non fosse riuscito a ucciderla non sarebbe più stato nulla, non sarebbe rimasta alcuna parte di lui. Soltanto la sua morte giustificava quel che era diventato, gli restavano solo vergogna e follia. Credere di averle salvato la vita sarebbe equivalso a scordarsi per sempre di sé. A morire. Si costrinse a restare immobile sull'erba. Ondate di torpore gli attraversarono il corpo. Tremante, telefonò per chiamare un'ambulanza. La sua voce lo sorprese: sembrava calma, controllata. Poi s'inginocchiò accanto ad Anna, infilandole una mano sotto la testa. Il sangue caldo gli scivolò lungo il braccio, sotto la manica della camicia. Se lei sopravviveva, lui poteva anche non finire in galera, ma lo scandalo lo avrebbe distrutto. Si maledisse, poi le accostò l'orecchio alla bocca. Non aveva smesso di respirare. Suo padre l'avrebbe diseredato. Fissò assente il futuro, mentre carezzava la guancia di Anna. Sentì i portantini sulle scale. La porta era chiusa a chiave, dovette alzarsi per farli entrare. Rimase immobile sullo sfondo, mentre l'esaminavano e poi la issavano sulla barella. Li seguì attraverso la porta d'ingresso. Un uomo l'osservava con occhi gelidi mentre manovravano la lettiga sul pianerottolo. "Un extra per poterle anche picchiare, eh?" Thomas scosse il capo, con fare confuso. "Non è come sembra." Riluttanti, lo lasciarono montare sul retro. Thomas sentì l'autista avvertire la polizia. Stringeva la mano di Anna e la guardava. Lei aveva le dita gelide, il volto bianchissimo. Quando l'ambulanza svoltò l'angolo, Thomas si dovette sorreggere con la mano libera. Senza alzare lo sguardo, chiese: "Se la caverà?" "Non lo può dire nessuno prima delle radiografie." "È stato un incidente. Stavamo ballando. È scivolata." "Come preferisce." Sfrecciarono lungo le strade, attraverso un universo di neon e fanali, zittito dal lamento della sirena. Thomas tenne gli occhi fissi su Anna. Le strinse forte la mano, e sperò con tutte le sue forze che se la cavasse, ma resistette all'impulso di mettersi a pregare.

30

I capi del "gruppo di contatto" si riunirono nell'appartamento di Maria. Si erano appena seduti, quando Durham esordì: "Credo che ci dovremmo trasferire nel mio territorio prima di procedere oltre. Mi trovo dalla parte opposta del fulcro rispetto alla regione dell'Autoverso, per quel che serve. Se la distanza ha un qualche significato, dovremmo almeno cercare di far girare i nostri modelli in un punto affidabile". Maria avvertiva una senso di nausea. La Città era giusto accanto all'Autoverso: Il luna park al confine del deserto. Ma in quello spazio pubblico non veniva computato alcun elisio, soltanto edifici e pupazzi di pedoni. Disse: "Sei altri fondatori hanno delle piramidi confinanti con l'Autoverso. Se crede che ci sia una possibilità che gli effetti si riversino oltre confine… non può trovare un pretesto perché spostino la loro gente il più lontano possibile? Non deve rivelare nulla, non gli deve raccontare niente che possa aumentare il rischio". Durham replicò con voce stanca: "Ho già avuto abbastanza problemi a convincere trentasette studiosi dediti all'Autoverso a occuparsi di progetti che li terranno fuori dai piedi. Se cominciassi a suggerire a Elaine Sanderson, ad Angelo Repetto e a Tetsuo Tsukamoto che devono riconfigurare la geometria delle loro risorse di calcolo, impiegherebbero circa dieci secondi a mettere sotto esame l'intero Autoverso per cercare di capire cosa succede. E le altre tre piramidi sono occupate da eremiti che non hanno più messo il naso fuori dopo il lancio, non li potremmo avvertire nemmeno volendo. La cosa migliore da fare è gestire il problema nel modo più svelto, e meno vistoso, possibile". Maria diede un'occhiata a Dominic Repetto, ma questo sembrava rassegnato alla necessità di tenere all'oscuro la sua famiglia. "Mi sento una vigliacca a volare dalla parte opposta dell'universo mentre stuzzichiamo un nido di vespe col telecomando". Repetto replicò seccamente: "Non si preoccupi. Per quel che ne sappiamo, la geometria Tvc può essere ininfluente. La connessione logica tra noi e l'Autoverso può mettere a repentaglio più noi che i vicini fisici". Maria scelse ancora di fare tutto a mano, con il terminale "solido", senza finestre d'interfaccia che fluttuavano a mezz'aria, senza contatti telepatici con il suo eso-sé. Zemansky le mostrò come usare l'oscuro programma di utility che l'avrebbe trasportata dritto fuori dal suo territorio. Sulla Terra le Copie meno ricche sfrecciavano da continente a continente in cerca dei Qips più a buon mercato, ma a Elisio non c'era mai stato motivo di spostarsi in quel modo. Mentre dava il benestare all'ultima richiesta del terminale, si raffigurò il suo modello che veniva bloccato, fatto a pezzi e infilato attraverso il fulcro nella piramide di Durham, senza dubbio con un miliardo di verifiche scrupolose lungo il tragitto… ma era impossibile sapere quanto valessero anche le più pignole procedure di verifica dell'errore, adesso che venivano messe in questione le regole basilari a cui si affidavano. Come ultimo tocco, Durham clonò l'appartamento, così passarono, impercettibilmente, alla versione duplicata. Maria guardò fuori dalla finestra. "Ha copiato anche tutta la Città?" "No. Quello che sta vedendo è l'originale. Ho inserito un panorama genuino." Zemansky creò una serie di finestre di interfaccia sulla parete del soggiorno. Una mostrava la regione che faceva girare l'Autoverso, con davanti la facciata triangolare confinante con la piramide di Maria. In cima alla mappa del software, il blu notte del programma di automazione cellulare dell'Autoverso, screziato finemente dall'argenteo software spia, sovrappose una schematizzazione del sistema planetario lambertiano, con le orbite curiosamente ridotte a fette e risistemate in modo da inserirsi nelle cinque piramidi adiacenti. Lo spazio che veniva modellato era, a modo suo, un disco relativamente sottile, largo soltanto qualche centinaio di migliaia di chilometri, ma che si stendeva circa del cinquanta per cento oltre l'orbita del pianeta esterno. Per la maggior parte era vuoto, o pieno soltanto della luce che scaturiva dal

sole, ma non c'erano scorciatoie: ogni chilometro cubo, anche se privo di caratteristiche, veniva modellato fino al livello delle cellule dell'Autoverso. Tanta prodigalità faceva restare senza fiato. Maria non riusciva a guardare la carta geografica senza pensare alle tecniche per approssimare i calcoli in funzione in tutto quel semivuoto. Quando si costrinse a fermarsi per accettare la cosa per quel che era, comprese che fino a quel momento non aveva mai afferrato completamente la scala di Elisio. Aveva fatto il giro della biosfera lambertiana dal livello planetario fino a quello molecolare, ma non era nulla a confronto di quel sistema solare di calcoli subatomici. Durham le sfiorò il gomito. "Mi serve la sua autorizzazione." Lo accompagnò al terminale che lui stesso si era creato in un angolo della stanza e digitò il numero di codice che era stato inserito nel file di scansione già sulla Terra. I novantanove numeri le fluirono senza sforzo dalle dita, come se avesse provato mille volte quella sequenza. Il codice che sulla Terra le avrebbe garantito l'accesso al suo patrimonio estinto, qui apriva i processori della sua piramide. Disse: "Adesso sono davvero sua complice. Chi va in prigione quando lei commetterà un crimine utilizzando la mia carta d'identità?" "Non abbiamo prigioni." "Allora gli altri elisi cosa ci faranno esattamente, quando scopriranno cos'abbiamo combinato?" "Esprimeranno la gratitudine di dovere." Zemansky ingrandì sulla carta per mostrare i singoli processori Tvc lungo il confine, poi ingrandì ulteriormente il campo per rivelare la loro struttura complessa. Sembrava una schematizzazione a colori falsi di una serie di circuiti tridimensionali, ma era troppo rettilinea, troppo perfetta per essere una micrografia di un oggetto reale. Adesso la carta era in gran parte congetturale, una simulazione guidata da dati limitati che arrivavano dalla stessa griglia. C'erano validi motivi per supporre una sua correttezza, ma non potevano esistere prove inscalfibili che quel che vedevano esistesse realmente. Zemansky manipolò il campo visivo fino a quando si ritrovarono a sbirciare lungo la parte mediana dello strato sottile di trasparenti cellule "zero" che separavano la regione dell'Autoverso dal territorio di Maria, rendendo visibili per la prima volta i suoi processori. Una freccia in un piccolo diagramma chiave, in alto, mostrava l'orientamento. Stavano guardando dritto verso il fulcro lontano. Tutti i processori erano strutturalmente identici, ma quelli nell'Autoverso pullulavano delle correnti codificate di stati attivati che contrassegnavano i flussi di dati, mentre quelli di Maria erano quasi inerti. Poi Durham collegò il suo territorio col software che stava usando, e dal fulcro si rovesciò una marea di dati, simile alla sequenza della porta stellare di 2001, Odissea nello spazio, mentre i processori venivano riprogrammati. La vera ondata sarebbe passata in uno psicosecondo di tempo standard. La mappa era abbastanza intelligente da mostrare l'evento al rallentatore. I processori riprogrammati guizzarono di dati, poi iniziarono a far germogliare dei cavi, i fili di costruzione. Ogni processore nella griglia Tvc era una macchina di von Neumann oltre che di Turing, un costruttore universale oltre che un computer universale. L'unico compito costruttivo che avevano eseguito in passato era stato un atto personalizzato di autoreplicazione, ma ancora mantenevano il potenziale per costruire di tutto, dato il progetto relativo. I cavi colmarono il vuoto, andando a toccare la superficie dei processori di Autoverso. Maria trattenne il fiato, quasi aspettandosi di assistere a una reazione difensiva, a un contrattacco. Durham aveva analizzato in anticipo le varie possibilità: se le regole Tvc continuavano a restare in vigore, ogni "guerra" tra quelle macchine sarebbe presto sfociata in uno scacco perpetuo. Potevano fronteggiarsi in eterno, annichilendo le "armi" rispettive man mano che crescevano, e nessuna strategia sarebbe mai riuscita a interrompere l'impasse. Però, se le regole Tvc non vigevano, non c'era modo di predire l'esito. Non ci fu alcun contrattacco, almeno rilevabile. I cavi si ritirarono, lasciandosi dietro link di dati a colmare i vuoti tra le piramidi. Dal momento che la mappa mostrava i legami intatti, il software doveva

aver ricevuto delle prove che funzionavano realmente: i processori dell'Autoverso stavano almeno reagendo come dovevano ai semplici test sull'integrità delle connessioni. Durham disse: "Beh, è già qualcosa. Non sono riusciti a metterci del tutto fuori gioco ". Repetto fece una smorfia. "Lo fa suonare come se i lambertiani avessero assunto il controllo dei processori, come se stessero decidendo loro cosa sta succedendo là dentro. Ma se non sanno nemmeno che esiste questo livello." Durham non staccò gli occhi dallo schermo. "Certo che no. Ma si ha lo stesso la sensazione di arrivare di soppiatto alle spalle di qualche… avversario senziente. Gli angeli custodi dei lambertiani, consci di tutti i livelli ma che difendono gelosamente la versione della realtà della loro gente." Colse lo sguardo preoccupato di Maria, e le sorrise. "Stavo solo scherzando." Maria li guardò, mentre Durham e Zemansky eseguivano una serie di test per verificare di essersi veramente inseriti nella regione dell'Autoverso. Tutto quadrava, ma del resto i medesimi test avevano funzionato quando erano stati condotti tramite il collegamento autorizzato giù nel fulcro. I processori sospetti si stavano semplicemente comportando come messaggeri, passando dei dati in un loop gigantesco che confermava che ancora si potevano parlare tra di loro, che la struttura di base della griglia non era andata in mille pezzi. Durham disse: "Adesso cerchiamo di fermare l'orologio". Premette qualche tasto. Maria guardò i suoi comandi filare tra i link. Pensò: Forse c'era qualcosa di sbagliato giù nel fulcro. Forse tutta questa crisi si rivelerà soltanto un buchetto localizzato. Perfettamente spiegabile. Che si può riparare come niente. Durham disse: "Niente da fare. Cercherò di ridurre la velocità". E ancora una volta i suoi comandi furono ignorati. Dopodiché aumentò la scansione temporale dell'Autoverso del cinquanta per cento, con successo, e quindi l'abbassò a successive modificazioni, fino a tornare al valore originale. Maria era stordita: "Che senso ha? Lo possiamo far andare veloce quanto ci pare, all'interno della nostra possibilità di fornirgli risorse di calcolo, ma se cerchiamo di rallentarlo andiamo a sbattere contro un muro. È… contorto". Zemansky cercò di spiegarle: "Lo consideri dal punto di vista dell'Autoverso. Il rallentamento dell'Autoverso è l'accelerazione di Elisio. Pare che ci sia un limite a quanto veloce ci può far andare, un limite alle risorse computer che ci può riservare" Maria impallidì. "Che sta suggerendo? Che adesso Elisio è un programma di computer utilizzato da qualche parte nell'Autoverso?" "No, ma esiste una certa simmetria. Un principio di relatività. Elisio era considerato una cornice fissa di riferimento, una pietra miliare della realtà, rispetto alla quale l'Autoverso poteva essere solo una banale simulazione. Si è poi scoperto che la verità è molto più sfumata: non ci sono punti fissi, oggetti inamovibili, leggi assolute." Zemansky non tradiva la minima paura, mentre parlava sorrideva beata, quasi che quelle ipotesi la ammaliassero. Maria aveva una gran voglia di sapere se stava soltanto nascondendo le sue emozioni o se aveva davvero optato per quella condizione di serenità di fronte alla detronizzazione del suo mondo. Durham parlò, e la sua voce era priva d'emozione: "Le simmetrie sono state fatte per essere spezzate. E abbiamo ancora un vantaggio: su Elisio, e sull'Autoverso, ne sappiamo ancora molto di più dei lambertiani. Non c'è motivo per cui la nostra versione della verità non possa avere senso per loro quanto per noi. Dobbiamo soltanto fornirgli un contesto adatto alle loro idee". Repetto aveva creato una squadra di pupazzi di lambertiani soprannominata Microfono: uno sciame di robottini simili ai lambertiani, in grado di funzionare in Autoverso, anche se in ultima istanza era controllato da segnali provenienti dall'esterno. Aveva anche creato dei "robot di telepresenza" in forma umana per loro quattro. Con Microfono come traduttore, si potevano "rivelare" ai lambertiani avviando il

difficile processo dell'instaurare un contatto. Restava da vedere se l'Autoverso li avrebbe lasciati entrare. Zemansky mostrò il punto di entrata prefissato: un tratto deserto di savana su una delle isole equatoriali di pianeta Lambert. Repetto osservava una squadra di scienziati di una comunità vicina. La gamma di idee che stavano esplorando era più ampia di quella di altre squadre, e credeva che ci fosse qualche possibilità che si dimostrassero recettivi alle teorie elisie. Durham disse: "È ora di mettere un piedino in acqua". Su una seconda finestra duplicò il paesaggio di savana, poi zummò a una velocità da far girare la testa su un punto a mezz'aria, fino a far apparire un alone di molecole rotanti, e poi le singole cellule dell'Autoverso. Il vuoto tra le molecole era evidenziato come trasparente, mentre il reticolo era delineato da lievi righe. Disse: "Un atomo rosso. Un piccolo miracolo. Era troppo da chiedere?" Maria seguì i comandi che scorrevano nella mappa Tvc: erano le istruzioni a un processore singolo perché riscrivesse i dati che rappresentavano questa porzione microscopica dell'Autoverso. Non successe nulla. Il vuoto rimase vuoto. Durham imprecò sottovoce. Maria si girò verso la finestra. La Città c'era ancora, Elisio non si stava sfaldando come un sogno sconfessato. Ma sentì un velo di sudore, avvertì il suo corpo trascinarla sul ciglio del panico. Non aveva mai condiviso realmente la pretesa di Durham che esistesse un pericolo a condividere quel che sapevano con gli altri elisi, ma adesso voleva soltanto scappare da quella stanza, girare le spalle all'evidenza, per il timore di contribuire ad accrescere il peso dell'incredulità. Durham ci riprovò, ma l'Autoverso si stava aggrappando alle sue leggi. Gli atomi rossi non potevano apparire spontaneamente dal nulla, significava violare le regole dell'automazione cellulare. E se quelle regole un tempo non erano state altro che qualche riga in un programma di computer, un programma che si poteva sempre fermare e riscrivere, interrompere e revocare, soggiogare a leggi superiori, beh, adesso non era più vero. Zemansky aveva ragione: non esisteva più una gerarchia rigida tra realtà e simulazione. La catena di causa ed effetto adesso era un anello, o un nodo dalla topologia sconosciuta. Durham concluse in tono piatto: "Va bene. Piano B". Si girò verso Maria. "Si ricorda quando abbiamo discusso di escludere l'Autoverso? Renderlo finito, ma privo di confini… la superficie di una ciambella tetradimensionale?" "Sì, ma era troppo piccolo." Era preoccupata dal cambiamento di argomento, ma accolse bene quella distrazione. Parlare dei tempi andati la rasserenò, un poco. "La luce del sole avrebbe circumnavigato l'universo riversandosi nel sistema nel giro di poche ore. Pianeta Lambert si sarebbe scaldato troppo, e troppo a lungo. Ho tentato tutte le scappatoie per mutare l'equilibrio termico, ma nulla di plausibile ha funzionato. Così ho lasciato il confine. La luce del sole e il vento solare sarebbero spariti attraverso, uscendo dal modello. Ed entra soltanto…" Si fermò di colpo. Adesso sapeva cosa stava per tentare Durham. Durham completò la frase per lei. "Entra soltanto la radiazione termica fredda, più un piccolo flusso di atomi, come un apporto casuale di gas interstellare. Una ragionevole condizione di confine, meglio che ritrovarsi il sistema incastonato per magia nel vuoto assoluto. Ma non esiste una logica stringente, non c'è nessun modello, a livello di Autoverso, di quel che ci dovrebbe essere esattamente. Potrebbe anche non esserci nulla." Richiamò una visione del bordo dell'Autoverso. Gli atomi che entravano erano tanto radi che gli toccò spedire un Diavoletto di Maxwell alla loro ricerca. Il software che mimava la presenza di un medium interstellare plausibile creava atomi in un ristretto strato di cellule, "accanto" al confine. Questo strato non era soggetto alle regole dell'Autoverso, altrimenti non ci sarebbe stata creazione di atomi, ma i suoi contenuti influenzavano le cellule vicine dell'Autoverso nella maniera classica, suscitando i piccoli uragani su cui fluttuavano gli atomi per superare il confine. Durham inviò un semplice comando al sottoprocesso di creazione atomi, un'istruzione progettata in

modo da fondersi con il flusso di richieste casuali che stava già ricevendo: inserisci un atomo rosso in un punto dato, a una certa velocità. Funzionò. L'atomo fu evocato nello strato di confine, poi si spostò nell'Autoverso vero e proprio, al momento giusto. Durham inviò una sequenza di mille comandi simili. Mille altri atomi seguirono, tutti spostandosi con vettori identici. "L'apporto casuale" non era più tanto casuale. Elisio stava influenzando l'Autoverso, erano passati. Repetto applaudì. Zemansky sorrise enigmatica. Maria provava un senso di nausea ancora più forte. Sperava che l'Autoverso si dimostrasse inattaccabile, di modo che, per simmetria, anche Elisio sarebbe stata altrettanto immune alle interferenze. I due mondi, che fossero o meno reciprocamente contraddittori, avrebbero potuto procedere su strade separate. Disse: "Come ci può essere utile? Anche se riesce a fare in modo che questo programma inserisca i pupazzi nello spazio profondo, come spera di farli atterrare su pianeta Lambert? E come fa a controllare il loro comportamento una volta che sono là? Non possiamo ancora entrare per manipolarli, perché violerebbe le regole dell'Autoverso". Durham aveva pensato a tutto. "Primo, li mettiamo in un'astronave, e facciamo atterrare quella. Secondo, saranno radiocomandati, e noi gli spediremo un segnale dal confine del modello. Se riusciamo a convincere il software dell'afflusso di gas a far entrare un'astronave, potremo anche persuadere il software della radiazione termica fredda a inviare un raggio maser". "Ha intenzione di progettare un'astronave che possa funzionare in Autoverso?" "Non ce n'è bisogno, è già stata fatta. Uno dei vecchi piani di contatto prevedeva un camuffamento da "alieni" giunti da un altro punto dell'Autoverso, in modo da limitare lo shock culturale per i lambertiani. Gli dovevamo raccontare che c'erano miliardi di altre stelle nascoste da nubi di pulviscolo che avvolgevano il loro sistema. L'idea era immorale, ovvio, e fu scartata migliaia di anni fa, molto prima che esistessero lambertiani senzienti, ma il lavoro tecnico era già stato completato e archiviato. Si trova ancora lì, nella biblioteca centrale, ci metteremo un'ora per assemblare i componenti in una spedizione funzionante." Suonava bizzarro, ma Maria non riuscì a scorgere pecche nel piano, al principio. Disse: "Così… alla fine attraversiamo lo spazio per incontrare gli alieni?" "Sembra proprio che andrà così." Repetto fece eco a quella frase. "Attraversiamo lo spazio per incontrare gli alieni. Ai vecchi tempi dovevate avere delle strane idee. Certe volte rimpiango di non esserci stato." Maria cedette, e imparò come utilizzare un pannello di controllo mentale per passare dal suo corpo elisio al robot di telepresenza in Autoverso. Sgranchì le braccia del robot e si guardò intorno sul ponte di volo luccicante dell'Ambassador. Era sdraiata su un lettino di accelerazione, accanto agli altri tre membri dell'equipaggio. Stando al piano di volo, adesso il robot era quasi in assenza di peso, ma lei aveva deciso di filtrare gli effetti della gravità abnorme, alta o bassa che fosse. Il robot sapeva come muoversi in risposta ai suoi desideri, in ogni condizione. Sarebbe stato assurdo infliggersi il mal d'aria solo per amor di "realismo". Non era in Autoverso, in fin dei conti, non era diventata questo robot. Il suo intero somatomodello girava ancora a Elisio, il robot era collegato a quel modello in maniera non tanto diversa dal collegamento di induzione neurale tra un visitatore in carne e ossa di un ambiente Rv e il relativo pupazzo software. Fece scattare un pulsante mentale per tornare nell'appartamento clonato. Durham, Repetto e Zemansky erano seduti in poltrona con lo sguardo perso nel vuoto, poco più che dei segnalini di posizione. Tornò all'Ambassador, ma aprì in un angolo del campo visivo una finestrella che le mostrasse l'appartamento attraverso i suoi occhi elisi. Se stava soltanto facendo funzionare un pupazzo in Autoverso, voleva far

chiarezza sulla localizzazione teorica del suo corpo "vero". Non le bastava sapere che c'era un manichino inosservato e insensato a occupare una sedia per suo conto. Dalla cuccetta di accelerazione osservò uno schermo (solido), posto in alto sulla parete opposta del ponte di volo, che mostrava la traiettoria prevista allungandosi su un piatto tragitto elicoidale verso pianeta Lambert. Avevano iniettato l'astronave oltre il confine nel punto più vicino possibile, centocinquantamila chilometri sopra il piano orbitale, con una velocità pregressa adeguata. Ci sarebbe voluto pochissimo carburante per arrivare a destinazione e atterrare. Disse: "Qualcuno sa se si sono preoccupati di provare un atterraggio reale con questo coso?" Il suo apparato vocale, dovunque fosse, le dava sensazioni perfettamente normali mentre parlava, ma il timbro della voce suonava strano attraverso le orecchie robotiche. Il trucco attuato sul suo encefalomodello, per tagliare lo sfasamento temporale crescente tra le sue intenzioni e le reazioni del robot, non sopportava le riflessioni. Durham disse: "Tutto è già stato testato. Per i voli di prova hanno ricreato l'intero sistema planetario prebiotico. L'unica differenza, tra allora e adesso, è che potevano materializzare la navicella nel vuoto dove più gli piaceva, e controllare direttamente l'equipaggio fantoccio". Violare le leggi dell'Autoverso dappertutto. Era snervante sentirlo ripetere chiaro e tondo: l'Autoverso privo di vita, in tutti i suoi dettagli subatomici, era stato una banale simulazione, la presenza dei lambertiani aveva creato la differenza. Un secondo schermo mostrava il pianeta, un'immagine da una telecamera all'esterno dello scafo, non diversa da quella che le aveva mostrato mille volte il software spia. Anche se la telecamera e gli occhi robotici erano soggetti alla pura fisica dell'Autoverso, una volta che l'immagine veniva pompata nel suo cervello non-Autoverso entravano in vigore le solite combinazioni di colori convenzionali. Maria osservò con una stretta allo stomaco il disco azzurrino che si avvicinava. Caduta libera con l'illusione del peso. Scendere e star fermi. Disse: "Perché mostrarsi subito ai lambertiani? Perché non mandiamo avanti Microfono a preparare il terreno, per assicurarsi che siano pronti ad affrontarci? Laggiù non ci sono animali più grossi di una vespa, nessuno dotato di scheletro interno che cammini sulle zampe di dietro". Rispose Repetto: "Per i lambertiani gli stimoli inediti non sono un fattore negativo. Non subiranno uno shock. E così attireremo di sicuro la loro attenzione". Durham aggiunse: "Siamo venuti per rivelarci come i creatori del loro universo. Non serve a niente fare i ritrosi". Toccarono gli strati superiori dell'atmosfera dalla parte in ombra. La terra e l'oceano erano immersi in una tenebra quasi perfetta: niente chiaro di luna, niente luce delle stelle, nessuna illuminazione artificiale. L'astronave cominciò a vibrare, i pannelli di comando sul ponte ronzarono, e la superficie di uno schermo si crepò, facendosi sentire da tutti. Poi il contatto radio fu interrotto dal cono di gas ionizzato attorno allo scafo, e non restava che tornare all'appartamento per superare la parte peggiore. Maria osservò le torri clorate della Città, soppesando il potere della loro maestosa invulnerabilità autodichiarata contro la logica inattaccabile dello scossone di cui era appena stata testimone. Tornarono in tempo per gli ultimi secondi di discesa, dopo che si erano già aperti i paracadute. L'impatto in sé le parve relativamente morbido, o forse era solo il suo filtro di gravità che la trattava troppo bene. Lasciarono i lettini di accelerazione, in attesa che lo scafo si raffreddasse. Le telecamere mostravano l'erba annerita attorno alla navicella, ma il fuoco si era estinto quasi subito, come previsto. Repetto liberò Microfono, rovesciando il barattolo pieno di insetti robotici e lanciandoli per aria. Maria ebbe un sussulto quando lo sciame svolazzò senza una meta per parecchi secondi prima di riuscire a disporsi in formazione serrata in un angolo del ponte. Durham aprì i portelloni stagni, prima quelli esterni, poi quelli interni. I robot non avevano bisogno di alcun genere di pneuma, ma i progettisti dell'Ambassador si dovevano essere trastullati con la possibilità

di inserire la biochimica umana nell'Autoverso, creando davvero degli "alieni" che potessero incontrare da uguali i lambertiani, invece di perdere tempo con maschere complicate. Uscirono sul terreno bruciacchiato. Era mattino presto. Maria ammiccò alla luce del sole, al cielo bianco e trasparente. Il calore arrivava forte e chiaro alla sua pelle robotica. Il prato verdemare si stendeva a perdita d'occhio. Si staccò dalla nave, un cono di ceramica tozzo e tronco, il cui scudo antitermico bianco era annerito dal fumo in strie disordinate. Le alture a sud spuntarono da dietro lo scafo. La vegetazione rigogliosa copriva i declivi, ma le vette erano spoglie, rugginose. Un coro di ronzii e cinguettìi flebili riempiva l'aria. Lanciò un'occhiata a Microfono, che però rimaneva sospeso quasi in silenzio accanto a Repetto. Quei rumori arrivavano da ogni direzione. Riconobbe qualche richiamo. Aveva già udito delle specie non senzienti durante un breve giro della storia evolutiva che portava alla comunicazione lambertiana. Non c'era nulla di particolarmente strano, era come sentire delle cicale, vespe, api, zanzare. Però, quando arrivò una brezzolina da est portando qualcosa che l'apparato olfattivo del robot riconobbe come odore di acqua salmastra, Maria fu talmente sopraffatta da quel modesto groviglio di sensazioni che le parve di non sentire più le gambe. Ma non successe. Non avendo fatto alcun tentativo conscio di svenire, il robot rimase impalato come una statua. Durham le si avvicinò. "Non è mai stata su Lambert, vero?" Maria aggrottò la fronte. "E come?" "Passivamente. Quasi tutti gli studiosi dell'Autoverso ci sono stati." Maria si ricordò l'offerta di Zemansky, una rappresentazione in Rv, quando aveva incontrato per la prima volta il gruppo di contatto. Durham si chinò a cogliere una manciata d'erba, poi ne sparse le foglie. "Ma questo non lo potevamo ancora fare." "Alleluja, gli dei sono atterrati. Ma che fa se i lambertiani pretendono un miracolo? Raccoglie qualche fogliolina per dimostrare la sua onnipotenza". Lui fece spallucce. "Possiamo sempre fargli vedere la nave." "Non sono stupidi. L'astronave non dimostra un bel niente. Perché dovrebbero credere che facciamo funzionare l'Autoverso, quando non riusciamo nemmeno a infrangerne le leggi?" "Cosmologia. La nube primordiale. Le quantità giuste di ciascun elemento." Lei non poté fare a meno di sembrare scettica. Lui allora aggiunse: "Da che parte sta? Ha progettato lei la nube primordiale! Ha abbozzato lei la topografia originaria! Ha creato lei l'antenato della biosfera lambertiana! Voglio semplicemente che lo sappiano. E la verità, e la devono affrontare". Maria si guardò intorno, a corto di parole. Sembrava più evidente che mai che questo mondo non era una sua creazione, che esisteva per conto suo. Disse: "Non è un po' come dire… che il suo originale in carne e ossa era solo un folle con delle strane allucinazioni? E che ogni altra spiegazione migliore che ha inventato per la sua vita doveva essere necessariamente sbagliata?" Durham rimase in silenzio per un po'. Poi disse: "C'è Elisio in ballo. Che vuole che facciamo? Che ci inscriviamo nella biochimica dell'Autoverso per venire a vivere qui?" "Ho visto posti peggiori di questo." "Il Sole si spegnerà tra qualche miliardo di anni. Ho promesso l'immortalità a quella gente." Repetto li chiamò. "Siete pronti? Ho individuato la squadra, non è lontana. Circa tre chilometri a ovest. " Maria rimase interdetta per un istante, poi si ricordò che aveva ancora accesso a tutte le risorse del software spia. Erano ancora fuori dall'Autoverso, a guardar dentro. Durham rispose gridando: "Dieci secondi". Poi si rivolse a Maria. "Ci sta o no? Dev'essere fatto come l'ho previsto, perciò può adeguarsi o tornare indietro." Lei stava per replicare con rabbia che non aveva alcun diritto di lanciarle degli ultimatum, quando notò la finestrella con la visuale dell'appartamento ancora sospesa sulla coda dell'occhio. C'era in ballo Elisio. Centinaia di migliaia di persone. I lambertiani potevano sopravvivere al trauma

della scoperta della loro "vera" cosmologia. Elisio forse non sarebbe arrivato fino alla scoperta di un'alternativa. Disse: "Ha ragione, dobbiamo farlo. Andiamo a diffondere il verbo". La squadriglia svolazzava in formazione aperta sul prato. Maria s'immaginò un attacco, ma i lambertiani non parvero notare la loro presenza. Si fermarono a una ventina di metri dallo sciame, mentre Microfono si faceva avanti. Repetto disse: "È la danza che indica che portiamo un messaggio". Microfono si fermò disposto in uno stretto piano verticale, poi i singoli robot iniziarono a intrecciare delle figure a otto. I lambertiani risposero immediatamente, allineandosi su un piano simile. Maria lanciò un'occhiata a Repetto che era raggiante, come un bambino per una radio a onde corte fatta in casa che ha appena iniziato a emettere dei crepitii promettenti. Maria sussurrò: "Sembra che ci ignorino del tutto… ma credono di parlare con dei lambertiani o hanno notato la differenza?" "Impossibile dirlo. Però finora come gruppo reagiscono in modo normale." Zemansky disse: "Se un robot la salutasse nel suo linguaggio lei non risponderebbe?" Repetto annuì. "E l'istinto va anche più in là, con i lambertiani. Non credo che… discriminino. Se hanno notato qualche differenza, alla fine la vorranno comprendere, ma la priorità sarà sempre la ricezione del messaggio. E la sua valutazione." Microfono cominciò a fluttuare in formazione più complessa. Maria capiva ben poco, ma poteva notare che i lambertiani iniziavano a mimare timidamente il cambiamento. Eccolo, il pacchetto cosmologico di Durham e Repetto. Una spiegazione della nube primordiale, e delle regole soggiacenti alla chimica dell'Autoverso: un automa cellulare creato con la nube già pronta cinque miliardi di anni prima. Due miliardi di anni di formazione planetaria che in senso stretto non si erano mai verificati sembravano, per il momento, una menzogna perdonabile. Dettagli confusionari del genere potevano essere precisati più avanti, se si accettava l'idea di base. Durham disse: "Di solito i messaggi negativi non possono essere veicolati molto in là. Forse il fatto che Microfono non sia chiaramente una squadra di una comunità vicina aggiungerà credibilità alla sua teoria". Nessuno rispose. Zemansky sorrideva molto allegra. Maria osservò gli sciami danzanti, ipnotizzata. Adesso i lambertiani sembravano imitare Microfono quasi alla perfezione, ma questo provava soltanto che avevano "letto" il messaggio, non significava ancora che ci credessero. Maria si volse, e vide dei puntini neri contro il cielo. La persistenza dell'immagine risaliva a Elisio, al suo encefalomodello. Si ricordava ancora la sua insoddisfazione quando manipolava le molecole dell'Autoverso con mani e guanti del mondo reale. Aveva forse compiuto qualche passo avanti verso la conoscenza dell'Autoverso, di com'era realmente? Repetto disse: "Stanno chiedendo qualcosa. Vogliono… chiarimenti". Maria tornò a girarsi. I lambertiani avevano perso il passo di Microfono, e lo sciame si era riconfigurato come una specie di ondulato tappeto volante nerastro. "Vogliono 'il resto del messaggio', il resto della teoria. Vogliono una descrizione dell'universo in cui è stato creato l'automa cellulare." Durham annuì. Sembrava frastornato, ma felice. "Gli risponda. Gli dia le regole Tvc". Repetto rimase di stucco. "Ne è sicuro? Non era previsto..". "Che facciamo? Gli raccontiamo che non sono affari loro?" "Tradurrò le regole. Mi dia solo cinque secondi." Microfono iniziò una nuova danza. Il tappeto ondulato si disperse, poi cominciò a prendere il ritmo. Durham si rivolse a Maria. "Meglio di quanto sperassimo. In questa maniera ci rinforzano. Non si fermeranno a mettere in discussione la nostra versione, ci aiuteranno a sostenerla".

Zemansky disse: "Non l'hanno ancora accettata. Hanno solo osservato che la prima parte di quel che gli abbiamo rivelato non ha senso così com'è. Poi chiederanno della fisica del mondo reale". Durham chiuse gli occhi, sorridente. Disse sottovoce: "Lasci pure che chiedano. Gli spiegheremo tutto, fino al Big Bang, se necessario". Repetto fece, perplesso: "Non credo che tenga". Durham guardò lo sciame. "Gli dia una possibilità. Hanno appena fatto un tentativo." "Ha ragione. Ma stanno già inviando un… un rifiuto." Il nuovo motivo ricorrente dello sciame era forte e semplice: una sfera mossa da onde che sembravano cerchi di latitudine da polo a polo. Repetto disse: "Il software non riesce a interpretare la loro risposta. Gli chiederò di fissare i vecchi dati. Ci possono essere dei casi in cui è già stata osservata questa danza, ma troppo pochi perché siano giudicati significativi dal punto di vista statistico". Maria disse: "Forse abbiamo commesso un errore di grammatica. Abbiamo pasticciato con la sintassi, così ci stanno ridendo in faccia, senza preoccuparsi del senso del messaggio". Repetto disse: "Non è esatto". Si accigliò come uno che sta cercando di visualizzare qualcosa di ingannevole. Microfono cominciò a echeggiare lo schema sferico. Maria sentì contrarsi le sue viscere elisie. Durham chiese in tono secco: "Che sta facendo?" "Sono soltanto educato. Do riscontro del loro messaggio." "Che sarebbe?" "Non credo che abbia voglia di sentirlo." "Posso scoprirlo da solo, nel caso." Fece un passo verso Repetto, più un segnale di impazienza che una minaccia. Una nube di creaturine azzurre simili a moscerini si sollevò dall'erba, frinendo forte. Repetto guardò Zemansky, tra i due passò una scarica elettrica. Maria era confusa. Erano senza dubbio amanti, ma non se n'era mai accorta. Forse prima i segnali passavano per altri canali a lei nascosti. Soltanto adesso… Repetto disse: "La loro risposta è che le regole Tvc sono false, perché il sistema che descrivono durerebbe per sempre. Ricusano tutto quel che gli abbiamo detto, dal momento che sfocia in quella che ritengono un'assurdità". Durham si fece serio. "Lei sta dicendo delle assurdità. Possiedono la matematica transfinita da mille anni." "Come formalismo, come strumento, come passo intermedio all'interno di certi calcoli. Nessuno dei loro modelli porta a risultati infiniti. Molte squadre non arriverebbero nemmeno a comunicare un modello del genere. Ecco perché abbiamo visto raramente questa risposta." Durham rimase in silenzio per un pezzo, poi asserì: "Ci serve tempo per decidere come gestire la situazione. Torniamo indietro, studiamo la storia dell'infinito nella cultura lambertiana, troviamo la maniera per aggirare il problema e poi ci ripresentiamo qua". Maria era distratta da qualcosa di luminoso che pulsava sulla coda dell'occhio. Girò il capo, ma qualunque cosa fosse sembrava svolazzarle attorno mentre la seguiva. Poi capì che era una finestra a Elisio. L'aveva praticamente esclusa dall'attenzione, etichettandola come un punto cieco. Cercò di metterla a fuoco, ma ebbe dei problemi a comprendere l'immagine. Centrò su quella e la dilatò. Le torri dorate di Permutation City stavano scorrendo davanti alla finestra dell'appartamento. Gridò per lo stupore e sollevò le mani, cercando di richiamare gli altri. I palazzi non si stavano soltanto spostando, si stavano ammorbidendo, liquefacendo, deformando. Cadde in ginocchio, combattuta tra il desiderio di tornare al proprio corpo vero, per proteggerlo, e il terrore di quel che sarebbe successo nel caso l'avesse fatto. Affondò una mano nel suolo lambertiano. Sembrava reale, solido e affidabile. Durham l'afferrò per una spalla. "Torniamo. Stia calma. È solo una visione, noi non facciamo parte della Città."

Maria annuì e si fece forza, combattendo ogni istinto primordiale relativo alla fonte del pericolo e alla direzione verso cui doveva fuggire. L'appartamento clonato pareva più solido che mai… e in ogni caso la sua fine non l'avrebbe danneggiata, in sé. Il corpo che doveva difendere era invisibile, era il modello in funzione all'estremità del territorio di Durham. Non sarebbe stata più al sicuro fingendo di trovarsi su pianeta Lambert che fingendo di stare nell'appartamento clonato. Tornò. I quattro rimasero accanto alla finestra, ammutoliti, mentre la Città, veloce e silenziosa… implodeva. I palazzi fuggivano, abbandonando contorni e dettagli, convergendo verso un punto centrale. Seguirono poi i sobborghi, i campi e i parchi affluirono verso la sfera dorata che era tutto ciò che rimaneva delle mille torri. La foresta tropicale passò in una macchia confusa verdeggiante. Poi la scena si tinse di nero, mentre si ammassavano le colline, affondando la visuale in una parete rocciosa. Maria si rivolse a Durham. "La gente che c'era dentro…?" "Sono tutti partiti. Scossi ma incolumi. Dentro non c'era nessuno, dentro il software, più di quanto ci fossimo noi. " Era sconvolto, ma sembrava convinto di quel che diceva. "E i fondatori dei territori limitrofi?" "Li avvertirò. Tutti possono venire qui, tutti si possono spostare. Qui saremo al sicuro. La griglia Tvc è in costante crescita, possiamo continuare a spostarci mentre programmiamo il prossimo passo." Zemansky affermò con voce sicura: "La griglia Tvc si sta degradando. L'unica maniera sicura è riavviare. Infilare tutto in una configurazione Giardino dell'Eden e rilanciare Elisio". Repetto disse: "Se è possibile. Se l'infinito è possibile". Nato in un universo senza limiti, senza morte, sembrava annichilito dal verdetto dei lambertiani. Un bagliore rosso apparve in lontananza. Sembrava una sfera gigantesca di pietrisco luminescente. Sotto gli occhi di Maria s'illuminò, poi si frantumò in uno spettacolo di luci, collegate da fini fili d'argento. Un labirinto al neon. Un luna park di notte, visto dall'alto. I colori erano sfalsati, ma la forma inconfondibile: era una mappa software della Città. L'unica cosa mancante era l'autostrada, il link di dati con il fulcro. Prima che Maria potesse pronunciare una qualsiasi parola, lo schema continuò a ristrutturarsi. Dei puntolini accecanti di luce comparvero in un sottoinsieme apparentemente casuale dei processi, poi si mossero all'unisono, ammassandosi in un nocciolo strettamente connesso. Attorno a loro, un guscio più opaco formato dal software restante si posizionò in una configurazione simmetrica. Il sistema pareva chiuso, autosufficiente. Lo videro allontanarsi, in silenzio.

31

Peer si girò per guardarsi alle spalle. Kate si era bloccata nel bel mezzo della passerella. Svuotata di ogni energia, affondò la faccia nelle mani, poi cadde in ginocchio. Disse con voce atona: "Se ne sono andati, vero? Ci devono aver scoperti… e questa è la loro punizione. Hanno lasciato la Città in funzione… ma l'hanno abbandonata". "Non possiamo saperlo." Kate scosse la testa, insofferente. "Avranno fatto un'altra versione, incontaminata, a loro uso e consumo. E non li rivedremo mai più." Un terzetto di pupazzi elegantemente abbigliati si avvicinò, puntando dritto verso di lei. Sorridevano parlottando. Peer le si portò accanto, mettendosi a sedere di fianco a lei a gambe incrociate. Aveva già inviato delle sonde informatiche in cerca di tracce degli elisi, senza successo, ma Kate aveva insistito a perlustrare a piedi una ricostruzione della Città, come se i loro occhi potessero rivelare per magia qualche segno di insediamento che il software si era lasciato sfuggire. Peer disse gentilmente: "Ci sono altre mille spiegazioni. Forse qualcuno… non so… ha creato un nuovo ambiente tanto sconvolgente che se ne sono andati tutti quanti a esplorarlo. Le mode devastano Elisio come fossero pestilenze, ma questo è il loro punto d'incontro, la loro capitale, l'unico tratto di terra solida. Torneranno". Kate scostò le mani dal viso per lanciargli un'occhiata impietosita. "Che moda potrebbe mai attirare tutti gli elisi fuori città in pochi secondi? E dove avranno saputo di questo grande capolavoro da correre subito là a provarlo? Io sorveglio tutte le reti pubbliche, e non c'era nulla di speciale che potesse spiegare questo esodo. Ma se ci hanno scoperto, se sapevano che eravamo in ascolto, allora non avrebbero utilizzato i canali pubblici per annunciare il fatto, no?" Peer non riusciva a capire perché no. Se gli elisi li avevano scoperti, sapevano anche che lui e Kate non avevano il potere di influenzare la Città, per non parlare dei suoi abitanti. Non c'era motivo di mettere in atto un'evacuazione segreta. Trovava già arduo credere che qualcuno potesse aver voglia di punire due clandestini innocui, ma era ancora più difficile accettare di essere stati "esiliati" senza essere trascinati attraverso un elaborato rituale giudiziario, o come minimo redarguiti in pubblico per il loro crimine prima di una condanna formale. Gli elisi non si lasciavano mai scappare l'occasione di uno spettacolino. Una punizione tanto svelta e silenziosa non gli suonava giusta. Disse: "Se il collegamento con il fulcro si fosse interrotto involontariamente…" Kate gli rispose sprezzante: "Ormai l'avrebbero aggiustato". "Forse. Dipende dalla natura del problema." Esitò un attimo. "Quelle quattro settimane che mi sono perso… ancora non sappiamo se sono stato tagliato fuori da un problema di programmazione al nostro livello, oppure se era un guaio più profondo. Se sono saltati fuori degli errori nella Città, un bug potrebbe aver tranciato i collegamenti col resto di Elisio. E forse ci vorrà del tempo per identificarlo. Potremmo scoprire che un problema che ha impiegato settemila anni a rivelarsi è assai sfuggente." Kate rimase in silenzio per un po', poi disse: "C'è un modo semplice per scoprire se hai ragione. Aumenta il rallentamento, e continua ad aumentarlo, e vediamo quel che succede. Programma i nostri esosé perché ci vengano a riportare al tasso normale appena c'è segno degli elisi… ma se non succede, continuiamo a procedere nel futuro finché non saremo convinti che abbiamo aspettato abbastanza". Peer rimase sorpreso. L'idea gli piaceva, ma si era immaginato che Kate avrebbe preferito prolungare il periodo d'incertezza. Non era sicuro che fosse un buon segno. Significava che lei voleva staccarsi di netto dagli elisi? Abbandonare il più rapidamente possibile ogni speranza residua del loro ritorno? O era solo una prova della disperazione con cui lo desiderava?

Disse: "Sei sicura?" "Ne sono sicura. Mi aiuti a programmarlo? Sei tu l'esperto." "Qui e subito?" "Perché no? Il senso della faccenda è risparmiarci l'attesa." Peer creò di fronte a loro un pannello di controllo, sul quale allestirono una semplice macchina del tempo. Kate premette il pulsante. Rallentamento cento. I pupazzi sulla passerella accelerarono fino a ridursi a scie invisibili. Rallentamento diecimila. La notte e il giorno si alternarono, poi lampeggiarono, poi guizzarono, rallentamento un milione, quindi si fusero l'una nell'altro. Quando Peer alzò gli occhi, vide l'arco tracciato dal percorso del Sole scivolare, in su e in giù, in cielo assieme alle false stagioni della Città, sempre più svelto, fino a smaltirsi in una banda di luce offuscata. Rallentamento un miliardo. Adesso la visione era del tutto statica. Nel cielo virtuale non c'erano più falsi cicli astronomici di lunga gittata. Nessun palazzo sorgeva o crollava. La Città vuota e invulnerabile non aveva altro da fare che ripetersi: esistere, ed esistere, ed esistere. Rallentamento un milione di miliardi. Peer si girò verso Kate, che era seduta attenta, a testa alta, lo sguardo nel vuoto, come se fosse in ascolto. Della voce di un'iperintelligenza elisia, del termine di un miliardo di anni di mutazione autodiretta che arrivava ad avvolgere l'intera griglia Tvc? A scoprire il loro destino? A giudicarli, a perdonarli e rimetterli in libertà? Peer disse: "Credo che tu abbia vinto la scommessa. Non torneranno". Guardò il pannello di controllo, provando un senso di capogiro. Erano passati più di cento trilioni di anni di tempo standard. Se gli elisi avevano tagliato ogni legame con loro, il tempo standard non significava più nulla. Peer si allungò a fermare l'accelerazione, ma Kate lo trattenne con la mano. Disse sottovoce: "Perché porsi il problema? Lascia che cresca all'infinito. Ormai è solo un numero". "Sì." Si chinò a baciarla sulla fronte. "Un'istruzione al secolo. Un'istruzione al millennio. E non cambia nulla. Finalmente è come volevi." Cullò Kate tra le braccia, mentre gli eoni elisi scorrevano. Le carezzò i capelli, mentre seguiva attento il pannello di controllo. Cresceva solo un numero, tutto restava esattamente uguale tranne la strana finzione del tempo standard trascorso. Non più legata alla crescita degli elisi, la Città rimase invariata, a tutti i livelli. E a sua volta, questo significava che l'infrastruttura che Carter aveva inserito per loro nella Città aveva cessato di espandersi. Il "computer" simulato che li faceva girare, formato dalle ridondanze sparse della Città, adesso era una "macchina" finita, con un numero finito di stati possibili. Erano tornati mortali. Era una sensazione strana. Peer guardò la passerella vuota, abbassò gli occhi sulla donna tra le sue braccia, sentendosi come se si fosse risvegliato da un lungo sogno. Ma quando si scrutò in cerca di qualche indizio di vita, in stato di veglia per inquadrarlo, non trovò nulla. David Hawthorne era un estraneo assoluto. La Copia che aveva fatto il giro degli Slow Club con Kate era remota come il falegname, il matematico, il librettista. Chi sono io? Senza disturbare Kate, creò uno schermo privato coperto di centinaia d'identici disegni anatomici del cervello, il suo menu di parametri mentali. Premette l'icona chiamata Lucidità. Aveva generato un migliaio di ragioni arbitrarie per vivere. Aveva spinto la sua filosofia sin quasi ai limiti. Ma c'era un ultimo passo da compiere. Disse: "Lasceremo questo posto. Lanceremo un nostro universo. Lo dovevamo fare già tanto tempo fa". Kate emise un lamento angosciato. "Quanto vivrò senza gli elisi? Io non riesco a sopravvivere come te, riprogrammandomi, imponendomi la felicità. Non ci riesco."

"Non dovrai." "Sono stati settemila anni. Voglio tornare a vivere tra la gente." "Allora vivrai tra la gente." Lei lo guardò speranzosa. "Li creeremo? Apriremo il software di ontogenesi? Faremo Adamo ed Eva in un nostro nuovo mondo?" "No. Diventerò loro. Mille, un milione. Quanti ne vuoi. Diventerò la Nazione solipsista." Kate si scostò da Peer. "Diventerai? Che significa? Non devi diventare una nazione. La puoi costruire con me, poi ti siedi a guardarla crescere". Peer scosse il capo. "Cosa sono già diventato? Una serie infinita di persone, tutte felici per loro motivi privati. Collegate da un esile filo di ricordi. Perché tenerle sgranate nel tempo? Perché continuare a far finta che sia "una" persona reale che subisce tutti quei cambiamenti arbitrari?" "Tu ricordi te stesso. Credi di essere una persona sola. Perché la chiami una finzione? È la verità." "Ma non ci credo più. Ogni persona che creo è marchiata dall'illusione di essere sempre quest'entità immaginaria chiamata 'me', ma non è una parte reale della loro identità. È una distrazione, una fonte di confusione. Non c'è motivo di continuare a farlo, o di indurre queste persone separate a seguirsi l'una con l'altra nel tempo. Facciamo in modo che vivano tutte insieme, che s'incontrino, che ti tengano compagnia". Kate lo abbracciò, guardandolo negli occhi. "Non puoi diventare la Nazione solipsista. È insensato. È tutta retorica uscita da una vecchia commedia. Significherebbe solo… morire. La gente creata dal software quando te ne sarai andato non sarà mai te". "Saranno felici, no? Di tanto in tanto? Per loro strani motivi?" sì, ma… "È quel che sono adesso. È tutto quel che mi definisce. Perciò, quando saranno felici, saranno me".

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"Diciassette scaricati, ne manca uno." Durham si era imposto di restare calmo ed efficiente per gestire l'evacuazione. Maria, tuttora non modificata, rimase a guardarlo, ancora turbata per il pericolo appena corso, mentre impacchettava finalmente Irene Shaw, i suoi settecento milioni di rampolli e i quattro pianeti di ambienti nel Giardino dell'Eden in crescita. Un'istantanea compressa dell'intera civiltà defluì lungo i sentieri di dati che Durham aveva creato per cortocircuitare il fulcro sospetto, seguendo una decina di strade indipendenti, verificate e riverificate a ogni passo, fino a superare la barriera della regione in cui veniva plasmato il nuovo Elisio. Fin qui non c'era stato segno che il degrado della griglia si stesse allargando, ma l'ultimo meeting cittadino aveva concesso a Durham appena sei ore di tempo standard per assemblare e lanciare il nuovo seme. Maria era stupefatta che gli avessero dato l'incarico di eseguire il lavoro, dato che era stata proprio la sua visita clandestina a pianeta Lambert a innescare il disastro (e avevano lasciato un software di guardia inconscio a monitorare le sue azioni, per assumere il compito nel caso lui non fosse all'altezza) … ma era pur sempre l'uomo che aveva costruito l'Elisio, che l'aveva lanciato, e a quanto pareva confidavano nel fatto che Durham, più di chiunque altro, li potesse trarre in salvo dal loro universo in via di disintegrazione, proprio come aveva salvato i fondatori dalla leggendaria Terra che sprofondava. Due di questi tre "eremiti", Irene Shaw e Pedro Callas, avevano risposto ai segnali di emergenza inviati dal fulcro alle loro piramidi. Nonostante i millenni di silenzio, non avevano sigillato del tutto i loro mondi alle informazioni provenienti dal resto di Elisio. Invece sembrava che Thomas Riemann l'avesse fatto. Maria controllò l'orologio sulla finestra d'interfaccia. Gli restavano quattordici minuti. Ore prima Durham aveva aperto un programma per cercare di entrare nella piramide di Riemann. Era riuscito a formare nuovi collegamenti coi processori, ma senza il codice personale di Riemann ogni istruzione inserita sarebbe stata ignorata, e la scansione temporale innescata da ogni tentativo sbagliato rendeva impossibile vagliare tutte le combinazioni di novantanove numeri. Perciò Durham aveva istruito un metaprogrammatore a costruire una "macchina" Tvc per isolare e sezionare uno dei processori di Riemann in modo da analizzare i contenuti della sua memoria e dedurre il codice dai testi pesantemente crittati al suo interno. Mentre il programma si avvicinava al risultato finale, Maria chiese piccata: "Lo poteva fare anche per la mia piramide, vero? E lasciarmi dormire?" Durham scosse il capo, senza guardarla. "Da dove? Non avevo accesso al confine. Questo è possibile solo perché gli altri fondatori mi hanno garantito carta bianca." "Credo che potesse passare in qualche maniera, se solo ci si fosse messo d'impegno." Lui rimase zitto per un po', poi ammise: "Forse. Volevo che vedesse pianeta Lambert. Credevo sul serio di non avere il diritto di lasciarla dormire durante il contatto". Lei cercò una risposta adatta, poi lasciò perdere e disse con voce stanca: "Non aveva il diritto di svegliarmi, ma sono contenta di aver visto i lambertiani". Il programma di decrittazione del codice comunicò: "Entrato". Non c'era tempo per i convenevoli, per spiegare la crisi e giustificare l'evacuazione. Durham inviò una sequenza di comandi per bloccare tutto il software in azione nella piramide, analizzarlo, estrarre i dati essenziali e affastellarlo nel nuovo Giardino dell'Eden. Riemann e i suoi bambini non avrebbero mai avuto bisogno di accorgersi della differenza. Il programma aveva idee differenti. Riconobbe il codice d'accesso, ma rifiutò di fermarsi.

Maria era sul punto di vomitare. Quanta gente c'era là dentro? Migliaia? Milioni? Non c'era modo di saperlo. Cosa sarebbe successo se i cambiamenti nella griglia li avessero sopraffatti? I mondi che abitavano sarebbero implosi, scomparendo, come la Città inanimata? Quando riuscì a indursi di nuovo a guardare, Durham aveva cambiato tattica, come se niente fosse. Disse: "Sto cercando di rompere il blocco sulle comunicazioni. Vediamo se riesco ad attuarle ad alcuni livelli, almeno per parlare con qualcuno. Forse dall'interno avremo un controllo maggiore. Non possiamo fermare il loro software e scaricarlo in massa, ma forse loro ci riescono". "Ha undici minuti." "Lo so." Esitò. "Dovendo, posso restare a lanciare queste persone separatamente. Non credo che gli interessi stare nel medesimo universo degli altri elisi." "Restare? Vuol dire clonarsi e lanciare una versione col resto di noialtri?" "No. Zemansky ha organizzato un centinaio di persone per verificare il lancio dall'interno. Non dovrò essere là." Maria era orripilata. "Ma… perché restare fuori, allora? Perché rischiare? " Lui si girò verso di lei, rispondendo sereno: "Non mi dividerò più, non lo farò un'altra volta. Ne ho già avuto abbastanza su ventiquattro Terre. Voglio una vita, una storia. Una spiegazione. Anche se deve finire". Il programma che stava usando lanciò un bip di trionfo, lampeggiando un messaggio. "C'è un port dati che garantisce l'interazione fisica con un solo ambiente, e sembra intatto." "Mandi qualche migliaio di robot a setacciare il posto in cerca di segni di vita." Durham ci stava già provando. Aggrottò la fronte. "Poca fortuna. Ma mi domando se…" Creò una porta pochi metri alla sua destra. Sembrava aprirsi su un corridoio riccamente arredato. Impaziente, Maria chiese: "Ha sette minuti. Il port non funziona: se un robot non può materializzare..". Durham si alzò per avvicinarsi alla porta, poi si mise a correre. Maria lo seguì con lo sguardo. Ma "là dentro" non c'era alcun pericolo, nessun rischio ulteriore. Il software che gestiva i loro modelli era altrettanto sicuro, dovunque fingessero di trovarsi i loro corpi. Raggiunse Durham, proprio mentre arrivava a uno scalone ricurvo arzigogolato. Erano al piano di sopra di una grande villa a due piani. Lui le batté la mano sulla spalla. "Grazie. Controlli giù da basso, io continuo di sopra." Maria rimpianse di non aver disattivato tutte le sue limitazioni metaboliche umane, ma adesso era troppo agitata per provare a innescare i mutamenti, troppo carica di adrenalina per far altro che correre lungo i corridoi urlando: "C'è nessuno in casa?" Alla fine di un rettilineo infilò una porta, ritrovandosi in giardino. Si guardò intorno disperata. I terreni erano sterminati, e apparentemente deserti. Si fermò a prendere fiato, in ascolto per cogliere segni di vita. In lontananza sentì il canto degli uccelli, nient'altro. Poi individuò una forma bianca nell'erba, presso un'aiuola di tulipani. Strillò: "Laggiù! ", e si mise a correre. Era un ragazzo, completamente nudo, allungato sul prato con la testa tra le mani. Alle sue spalle Maria sentì rumore di vetri infranti, poi un tonfo pesante sul terreno. Quando si voltò, vide Durham rimettersi in piedi e avanzare zoppicante verso di lei. S'inginocchiò vicino allo sconosciuto, cercando di svegliarlo a schiaffi. Arrivò anche Durham, atterrito, chiaramente a secco della sua tranquillità artificiale. Disse: "Temo di essermi storto una caviglia. Mi potevo rompere l'osso del collo. Non corra rischi, alla nostra fisiologia sta succedendo qualcosa di strano. Non riesco a eliminare le limitazioni del vecchio mondo". Maria afferrò l'uomo per le spalle, scrollandolo con forza, senza risultato. "Inutile!" Durham la scostò. "Lo sveglio io. Lei torni indietro." Maria cercò di richiamare un pannello di controllo occhio-interiore per farsi sparire d'incanto. Non

successe nulla. "Non riesco a collegarmi con il mio eso-sé. Non riesco a passare." "Usi la porta, allora. Scappi!" Lei esitò, ma non aveva alcuna intenzione di seguire Durham nel martirio. Si voltò, cominciando a correre verso la casa. Salì le scale due gradini per volta, cercando di tenere sgombra la mente, poi filò lungo il corridoio. La porta per la sala di controllo evacuazione c'era ancora, o per lo meno era ancora visibile. Mentre correva, già si vedeva schiantarsi contro una barriera invisibile, ma quando la raggiunse ci passò attraverso. L'orologio sulla finestra d'interfaccia indicava venti secondi al lancio. Quando aveva insistito per restare, Durham le aveva fatto piazzare un programma che l'avrebbe spedita in un lampo nel nuovo Giardino dell'Eden. La sua icona, un'Alice tridimensionale che entra in un'illustrazione piatta da libro di favole, era mostrata chiaramente in un angolo della finestra. Si allungò a toccarla, poi lanciò un'occhiata attraverso la porta sul mondo di Riemann. Il corridoio si stava muovendo, si allontanava lentamente. Scivolava via, come i palazzi della Città. Gridò: "Durham! Idiota! Sta per implodere!" Le tremò la mano. Le dita sfiorarono appena l'icona di Alice, senza la forza necessaria per segnalare l'assenso. Cinque secondi al lancio. Si poteva clonare. Inviare una versione col resto di Elisio, spedire una versione ad avvertirlo. Ma non sapeva come. E non c'era tempo per imparare. Due secondi. Uno. Serrò il pugno accanto all'icona, ed emise un gemito. La mappa del cubo gigantesco guizzò azzurrina: il nuovo reticolo aveva cominciato a crescere, i processori esterni si stavano riproducendo. Era ancora parte di Elisio, una nuova griglia simulata dai processori del vecchio, ma lei sapeva che il software di salvaguardia non le avrebbe dato una seconda possibilità. Non le avrebbe permesso di bloccare il lancio per poi ripartire. Tornò a guardare attraverso la soglia. Il corridoio stava ancora scivolando dolcemente, qualche centimetro al secondo. Quanto in là poteva andare prima che la porta sbattesse contro un muro, lasciando definitivamente a terra Durham? Imprecando, fece un passo in quella direzione, allungando una mano. Il confine invisibile tra gli ambienti la lasciò passare. Si rannicchiò contro il bordo, abbassandosi per toccare il pavimento. Il suo palmo fu a contatto con il pavimento che scivolava. Tremante di paura, si alzò, superando la soglia. Si fermò per guardare oltre la porta. Il corridoio terminava a fondo cieco a una decina di metri nella direzione in cui era inclinata la porta. Al massimo le restavano quattro o cinque minuti. Durham era ancora in giardino, e ancora stava tentando di rianimare quell'uomo. La guardò esasperato. "Che ci fa qui?" Lei trattenne il respiro. "Ho mancato il lancio. E tutto… si sta separando. Come la Città. Deve uscire." Durham tornò a voltarsi verso lo sconosciuto. "Sembra un Thomas Riemann ringiovanito, ma potrebbe anche essere un discendente. Uno delle centinaia. Uno dei milioni, per quel che ne sappiamo." "Milioni? Dove? Sembra che qui sia solo, e non c'è segno di altri ambienti. Ha scoperto solo un unico port di comunicazione, no?" "Non sappiamo cosa significhi. L'unico modo per essere sicuri che sia solo è svegliarlo e chiederglielo. E non riesco a svegliarlo" "E se… lo portassimo fuori di qua? Lo so: non c'è motivo di credere che in questo modo sposteremmo il suo modello in un territorio più sicuro, ma se i nostri modelli sono stati influenzati da questo posto, costretti a obbedire alla fisiologia umana… allora tutta la logica che lo sorregge è già stata compromessa". "E se ce ne sono altri? Non li posso lasciare qui! "

"Non c'è tempo! Cosa può fare per loro, se resta intrappolato qua dentro? Se questo mondo viene distrutto, assolutamente nulla. Se invece riesce a sopravvivere, sarà anche senza di lei." Durham era sconvolto, e annuì confuso. Maria disse: "Si muova. Lei è messo male, porto io la 'bella addormentata'". Si chinò, cercando di caricarsi in spalla Riemann, Thomas o chi altri. Quando lo facevano i pompieri sembrava molto più semplice. Durham, che si era fermato a controllare, tornò indietro ad aiutarla. Una volta in piedi, camminare non fu troppo duro. Per i primi metri. Durham le caracollava a fianco. Iniziò a maltrattarlo, cercando con poca sincerità di convincerlo ad andare avanti. Poi si arrese all'assurdità della loro situazione. Rossa in viso e a corto di fiato, disse: "Non avrei mai pensato di assistere coi miei occhi… alla disintegrazione di un universo… mentre porto in spalla un finanziere nudo… " Fece una pausa. "Crede che se chiudiamo gli occhi e diciamo… non crediamo nelle scale, forse..". Salì di sopra quasi crollando sotto il peso, non vedendo l'ora di appoggiarlo per riposarsi un po', certa che se l'avesse fatto non se la sarebbero cavata. Quando arrivarono al corridoio, la porta era sempre visibile, e sempre si spostava con moto uniforme. Maria disse: "Corra in avanti e… la tenga aperta". "Come?" "Non lo so. Si metta in mezzo..". Durham sembrava dubbioso, ma zoppicò in avanti, arrivando alla porta molto prima di lei. Ci passò attraverso, poi si fermò con un piede da ogni lato della soglia, allungando una mano verso di lei, pronto a tirarla sul treno in partenza. Maria ebbe la visione di Durham tranciato in due, con una metà che crollava insanguinata in ciascun mondo. Disse: "Spero che questo… bastardo sia stato un grande… filantropo. Sarà meglio… che sia stato un… santo della madonna". Guardò dal lato della porta. Il fondo del corridoio era a pochi centimetri. Durham doveva aver capito dall'espressione del suo viso, perché rientrò in sala controllo. La porta toccò la parete, poi svanì. Maria urlò tutta la sua disperazione mentre lasciava cadere Riemann sulla moquette. Corse verso la parete, cominciando a batterci contro, poi crollò in ginocchio. Stava per morire lì, dentro la fantasia implodente di uno sconosciuto. Premette il viso contro l'intonaco fresco. C'era un'altra Maria, nel vecchio mondo, e comunque aveva salvato Francesca. Se questo sogno folle finiva, che finisse pure. Qualcuno le posò una mano sulla spalla. Si girò spaventata, stirandosi un muscolo del collo. Era Durham. "Di qua. Facciamo il giro. Presto." Durham raccolse Riemann (doveva essersi messo a posto la caviglia a Elisio, aumentando anche la potenza fisica) e guidò Maria per un breve tratto lungo il corridoio, attraverso un'ampia biblioteca e in uno sgabuzzino sul fondo. Lì trovarono la porta, a qualche metro dal muro. Durham cercò di varcarla, tenendo Riemann a testa in avanti. Il capo di Riemann scomparve quando attraversò il piano della soglia. Durham gridò per lo spavento, facendo un passo indietro. La decapitazione fu rovesciata. Maria li raggiunse nel momento stesso in cui Durham si voltava per cercare di superare la soglia all'indietro, trascinando Riemann. E ancora una volta la porzione del corpo di Riemann che era passata parve svanire. Quando scomparvero le ascelle, il punto da cui Durham lo sorreggeva, il resto del corpo crollò al suolo. Maria si chinò dietro la porta… e vide Riemann, intero, riverso sulla soglia. Non potevano salvarlo. Questo mondo li aveva lasciati entrare e uscire, a modo suo, ma per Riemann l'uscita che avevano creato non significava nulla, era un'intelaiatura vuota. Tornò indietro e lo scavalcò, verso Elisio. Mentre la porta si allontanava, si girarono a scorgere le

spalle di Riemann. Durham, che singhiozzava per la frustrazione, si allungò per trascinare il dormiente per un metro, poi la testa invisibile colpì una parete invisibile, e non fu più possibile smuoverlo. Durham si ritirò dentro Elisio, mentre la porta si opacizzava. Un secondo più tardi videro la parete esterna della casa. L'implosione, o la separazione, accelerò mentre la porta volava per aria sopra i prati, e poi l'intera scena fu avvolta dall'oscurità, come un modellino in un fermacarte di vetro, mentre fluttuava nello spazio profondo. Maria rimase a guardare la bolla di luce che si rimpiccioliva, le sagome all'interno che si fondevano e si riplasmavano in qualcosa di nuovo, troppo lontano da riuscire a decifrarlo. Adesso Riemann era morto? O era solo irraggiungibile? Disse: "Non capisco. Però, qualsiasi cosa ci stiano facendo i lambertiani, non è solo un degrado casuale… non è solo la distruzione delle regole Tvc. Quel mondo era coeso. Come se la sua logica avesse assunto la precedenza su quella di Elisio. E come se non avesse più bisogno di noi". Durham replicò con voce incolore: "Non ci credo". Si rannicchiò accanto alla porta, schiacciato dalla sconfitta. Maria gli accarezzò la spalla. Lui si divincolò. Le disse: "Farebbe meglio a fare in fretta a lanciarsi. Gli altri elisi saranno stati rimossi dal seme, ma tutto il resto, tutta l'infrastruttura, ci sarà ancora. Se ne serva". "Da sola?" "Faccia dei bambini, se preferisce. È facile, i programmi di utility sono tutti nella biblioteca centrale". "E… cosa? Lei farà altrettanto?" "No." Durham sollevò il capo, aggiungendo serio: "Ne ho abbastanza. Venticinque vite. Pensavo di aver trovato finalmente la terraferma, ma adesso tutto sta crollando in un mucchio di illusioni e contraddizioni. Mi ammazzerò prima che tutto finisca a rotoli, morirò come mi pare, senza lasciare niente da spiegare in un'altra permutazione". Maria non sapeva cosa replicare. Si avvicinò alla finestra d'interfaccia per controllare cosa funzionasse ancora. Dopo qualche secondo, disse: "Il software che spia l'Autoverso si è fermato, e l'intero fulcro è morto, ma nella copia della biblioteca centrale che lei ha creato per il seme ci sono dei dati di resumé dell'ultimo minuto". Stava cercando i sistemi di analisi e traduzione di Repetto. Durham andò a sedersi accanto, indicando un'icona evidenziata, un'immagine stilizzata di uno sciame di lambertiani. Disse: "Attivi quella". Lessero insieme l'analisi. Una squadra di lambertiani aveva trovato un insieme di equazioni di campo, nulla a che vedere con l'automa cellulare dell'Autoverso, con trentadue soluzioni stabili. Una per ogni loro atomo. A temperature abbastanza alte, le stesse equazioni predicevano la generazione spontanea della materia, alle proporzioni precise che potevano spiegare la nube primordiale. La danza era stata giudicata riuscita. La teoria prendeva piede. Maria era combattuta tra risentimento e orgoglio. "Molto astuto, ma come faranno a spiegare quattro robot umanoidi abbandonati in mezzo a un prato?" Durham parve divertito, con una sfumatura tetra. "Sono arrivati su un'astronave, no? Li devono aver mandati degli alieni come emissari. Là fuori ci devono essere altre stelle, nascoste dietro una comoda nube di pulviscolo." "Perché mai degli alieni proverebbero a spiegare ai lambertiani l'automa cellulare Tvc?" "Forse ci credevano sul serio. Probabilmente hanno scoperto le regole dell'Autoverso… ma visto che non potevano spiegarsi l'origine degli elementi hanno deciso di inserire il tutto in un sistema più ampio, un altro automa cellulare, completo di esseri immortali per creare l'Autoverso, la nube primordiale e il resto. Però i lambertiani sistemeranno tutto, non c'è bisogno di una teoria tanto contorta." "E adesso l'Autoverso si sta staccando come pelle morta." Maria osservò le equazioni di campo

lambertiane, molto più complesse delle regole dell'Autoverso, eppure dotate di una strana eleganza. Lei non le avrebbe mai potute inventare, ne era certa. Disse: "Non è solo che i lambertiani superano la nostra spiegazione. Sta crollando l'intera idea di un creatore. Un universo con esseri senzienti o si ritrova nel pulviscolo… oppure no. O si comprende a modo suo, come un tutto autonomo… oppure no. Non ci saranno mai degli dei, né mai ci saranno". Aprì una carta di Elisio. La macchia scura che indicava i processori interrotti si era allargata dalle sei piramidi pubbliche fino a inghiottire quasi tutti i territori di Riemann, Callas, Shaw, Sanderson, Repetto e Tsukamoto. Ingrandì sul confine del buio. Stava ancora crescendo. Si girò verso Durham per implorarlo: "Venga con me! " "No. Che cos'ho da fare laggiù? Piombare di nuovo nell'angoscia? Svegliarmi chiedendomi se sono davvero soltanto un mito decaduto dei visitatori alieni umanoidi di pianeta Lambert?" Maria replicò con rabbia: "Mi può far compagnia. Aiutarmi a restare sana di mente. Dopo tutto quel che mi ha fatto, me lo deve". Durham era inamovibile. "Non ha bisogno di me per quello. Troverà maniere migliori". Lei tornò alla carta, con la mente svuotata per un attimo dal terrore, poi indicò il vuoto crescente. "Le regole Tvc si stanno dissolvendo, i lambertiani stanno distruggendo Elisio, ma cosa controlla quel processo? Ci devono essere regole più profonde che governano lo scontro delle teorie, che decidono quale spiegazione regge e quale crolla. Possiamo cercarle. Possiamo cercare di capire cos'è successo laggiù." Durham rispose sardonico: "Sempre avanti? In cerca di un ordine superiore?" Maria era vicina alla disperazione. Costituiva il suo unico legame col vecchio mondo, senza di lui i suoi ricordi avrebbero perso ogni significato. "Per favore! Possiamo discuterne nella nuova Elisio. Adesso non c'è tempo." Lui scosse tristemente la testa. "Maria, mi dispiace ma non la posso seguire. Ho settemila anni. Tutto quel che mi sono sforzato di costruire è andato in rovina. Tutte le mie certezze sono svanite. Sa come ci si sente? " Maria incrociò il suo sguardo, cercando di capire, cercando di sondare la profondità della sua spossatezza. Avrebbe resistito altrettanto, se fosse stata costretta? Forse arrivava per tutti il momento in cui non c'è più strada da percorrere, non resta altra scelta oltre la morte. I lambertiani avevano ragione, forse "l'infinito" non significava niente… e "l'immortalità" era un miraggio a cui non doveva aspirare alcun umano. Alcun umano… Maria gli si rivolse furibonda. "Se so come ci si sente? Comunque lei si vuole sentire. Non è così che mi ha detto? Ha il potere di scegliere esattamente chi è. I vecchi ceppi umani sono spariti. Se non vuole che il peso del suo passato la schiacci… non lo permetta! Se davvero vuol morire, non la posso fermare, ma non mi venga a dire che non ha scelta? Per un istante Durham parve ferito, come se lei fosse solo riuscita ad accentuare la sua disperazione, ma poi qualcosa delle parole di Maria parve far breccia. Disse con voce dolce: "Ha davvero bisogno di qualcuno che conosce il vecchio mondo? " "Sì." Maria ricacciò indietro le lacrime. L'espressione di Durham si irrigidì di colpo, come se si fosse distaccato dal proprio corpo. L'aveva abbandonata? Maria quasi si divincolò dalla sua presa, ma poi il viso di cera tornò ad animarsi. Disse: "Verrò con lei". "Cosa…?" Lui le fece un sorrisone, come un idiota, come un bambino. "Ho solo apportato qualche ritocco al mio stato mentale. E accetto il suo invito. Sempre avanti".

Maria era a corto di parole, le girava la testa dal sollievo. Gli strinse le braccia al collo, e lui restituì l'abbraccio. L'aveva fatto per lei? Si era ricomposto, ricostruito… Non c'era tempo da perdere. Andò al pannello di controllo, affrettandosi a preparare il lancio. Durham rimase a guardarla, sempre sorridente. Sembrava affascinato dallo schermo sfarfallante, come se non l'avesse mai visto prima. Maria si bloccò. Se si era ricostruito, reinventato… allora quanto restava dell'uomo che aveva conosciuto? Si era solo concesso la capacità di recupero umana, guarendo dalla sua disperazione terminale… oppure era morto in silenzio, lontano da sguardi altrui, dando alla luce un suo compagno, un figlio informatico che aveva soltanto ereditato i ricordi del padre? Dov'era il confine? Tra una trasformazione tanto profonda da mutare il desiderio di morire in uno stupore infantile… e la morte stessa, e il porgere a un nuovo essere le gioie e i gravami che non poteva più reggere? Cercò nel suo viso una risposta, ma non riuscì a decifrarlo. Disse: "Mi deve dire cos'ha fatto. Devo capire". Durham le promise: "Lo farò, ma nella prossima vita".

EPILOGO [REMIT MOT PAUCITY] Novembre 2052

Maria lasciò tre ghirlande contro il murale "delle illusioni" in fondo al vicolo. Non era l'anniversario di alcuna morte, ma lei lasciava dei fiori in quel punto ogni volta che si sentiva di quell'umore. Non doveva adornare delle tombe, entrambi i suoi genitori erano stati cremati. Anche Paul Durham. Si staccò lentamente dal muro, e osservò il giardino dipinto rozzamente, con le sue colonne corinzie e i boschetti di ulivi, mentre prendeva quasi vita. Quando raggiunse il punto in cui la prospettiva del viale immaginario si confondeva con quella della strada, qualcuno la chiamò. Girò su se stessa. Era Stephen Chew, un altro membro della squadra di volontari, che si trascinava dietro un martello pneumatico su un carriolino. Maria lo salutò, poi raccolse la pala. La conduttura fognaria di Pyrmont Bridge Road era scoppiata un'altra volta. Stephen ammirò il murale. "Bello, vero? Non ti vien voglia di entrarci dentro?" Maria non rispose. Si avviarono assieme in silenzio. Dopo qualche secondo, gli occhi cominciarono a lacrimarle per la puzza.

{1}

[I titoli dei capitoli, come anche la poesia all'inizio del volume, sono in realtà degli anagrammi del titolo del volume, Permutation City.

Vista l'intraducibilità di questi giochi di parole, si è preferito lasciare l'originale; N.d.T.].

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