Per Scrivere Un Film Ugo Pirro

June 17, 2018 | Author: aronchi67 | Category: Cinematography, Screenplay, Cinema Of Italy, Idea, Homo Sapiens
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farneticazioni di un comunista...

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Ugo Pirro Per scrivere un film

© Rizzoli Editore, Milano 1982 Prima edizione: ottobre 1982

NOTE DI COPERTINA

Scritto soprattutto per lo spettatore, questo libro svela i segreti del mestiere di un soggettista e sceneggiatore fra i più apprezzati ed esperti del cinema italiano. Autore di film che appartengono ormai alla storia del cinema, Pirro introduce il lettore nel suo laboratorio e lo fa assistere e partecipare alle fasi principali della creazione cinematografica: come si scrive un soggetto, come si organizza il materiale fantastico intorno a un’idea, come si individua e si usa la trovata; come infine si costruisce e si scrive un film affrontando e illustrando, con innumerevoli esempi tratti sia dalla sua biografia sia della filmografia dei più celebrati autori, i problemi centrali della narrazione cinematografica. Per scrivere un film, oltre a un’appassionata difesa del cinema italiano, vuole essere anche una rivalutazione del ruolo essenziale e spesso misconosciuto dello scrittore di cinema. UGO PIRRO, nato a Salerno, ha collaborato alla s ceneggiatura di film che hanno ottenuto vasti riconoscimenti tra cui due Oscar per il miglior film straniero e due «nomination» dell’Accademia di Hollywood per la sceneggiatura (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Il giardino dei Finzi Contini); i l “Palmarès” al festival di Cannes (La classe operaia va in Paradiso); il premio per la miglior sceneggiatura ancora al festival di Cannes (A ciascuno il suo) e molti altri, tra i quali il premio Poe per la miglior sceneggiatura poliziesca. Anche Metello, Delitto d’amore, Il processo di Verona, Achtung banditi, Ogro appartengono alla sua filmografia. Insegna

sceneggiatura al Centro sperimentale di cinematografia di Roma. Nel 1981 ha scritto un libro, Mio figlio non sa l eggere, che ha ottenuto un notevole successo di pubblico e di critica.

NOTA DELL’AUTORE

Questo libro è un rapporto sulle mie esperienze di scrittore di cinema, e insieme un tentativo di analizzare, dall’interno, il lavoro dello sceneggiatore, la sua funzione sconosciuta ai più, nonché di illustrare un possibile metodo di lavoro. Naturalmente esso non si rivolge ai professionisti, non intende, cioè, svelare a chi li conosce i segreti di un mestiere invidiato e oltraggiato, ma piuttosto agli spettatori. E fra gli spettatori io comprendo i critici cinematografici che, alla pari degli spettatori paganti, mostrano quotidianamente una consistente disinformazione circa i metodi di comporre un intreccio cinematografico e i problemi che esso comporta. Ma se lo spettatore pagante, non assume nessun obbligo verso gli autori di un film, così non è per chi ha il compito di orientare il pubblico e di studiare il cinema. L’attenzione dei critici limitata com’è, il più delle volte, al film finito fa loro ignorare, per scelta metodologica, il processo creativo che precede le riprese, il suo momento iniziale, il tortuoso svolgimento e gli stravolgimenti che subisce all’insaputa, se non contro, gli sceneggiatori, un copione. E’ una critica, in altri termini, che lavora senza analizzare il testo, che valuta non la sceneggiatura, ma la regia come testo. Nessun critico teatrale può permettersi tanto. Questa disattenzione dei critici, che spesso coincide con una scelta estetica e ideologica, ha come conseguenza immediata non solo l’addebito spesso gratuito, agli autori della sceneggiatura di ogni fallimento, ma soprattutto una valutazione critica scarsamente motivata a dir poco. Si assiste, così, al curioso fenomeno secondo cui i films riusciti accreditano un regista nominandolo unico autore e quelli sbagliati sono attribuiti, il più delle volte, allo sceneggiatore senza nessuna verifica attendibile. Non mi sfiora certo l’ambizione di modificare questo stato di cose, quanto di avvertire lo spettatore pagante e in generale di sollevare il problema, di provocare altri interventi, sia di critici che di sceneggiatori, oltre che di contribuire a spostare gli studi e le ricerche in direzione della scrittura cinematografica. Ma il disinteresse di cui dicevo ha conseguenze più estese di quanto comunemente si crede. Poco grave sarebbe, del resto, se non provocasse altro che

la cancellazione di qualche autore rispettabile. Intanto impedisce lo studio di una fase della creazione cinematografica in chiunque abbia interessi specifici e permanenti verso il cinema, ma soprattutto ferisce quella coscienza critica dello spettatore, di cui tanto si parla il più delle volte con insopportabile demagogia e concreto disprezzo. Vieta, cioè, l’assunzione di strumenti conoscitivi che, se non altro, allargherebbero la sfera di interesse dello spettatore, giacché questa disinformazione preconcetta non lo pone in condizione di valutare un film nella sua interezza, di individuare gli inganni che patisce, il come e il quando, se li patisce; e di spiegarsi l’emozione che prova, se la prova. Ma la conseguenza è grave anche per chi si dedica alla scrittura cinematografica, al mestiere, alla professione o all’arte del cinema, in quanto ognuno è costretto ad affidare alla sola esperienza individuale, a uno sforzo autodidatta l’appropriazione della tecnica del racconto cinematografico, così che ogni suo possibile aggiornamento avviene con ritardo, faticosamente, occasionalmente e disordinatamente; mancanti, appunto, gli strumenti conoscitivi che dovrebbero essere approntati, al di fuori della pratica professionale, attraverso ricerche e studi non occasionali o episodici, come può essere considerato questo libro. E’ significativa, fra l’altro, la scarsa circolazione che hanno testi di teoria e tecnica della sceneggiatura. Praticamente si è fermi ad alcuni testi classici abbondantemente superati dall’impetuosa crescita del fenomeno cinema, proprio mentre la pubblicistica cinematografica ha un’improvvisa fioritura e l’interesse per il cinema scritto cresce in misura inversamente proporzionale al «cinema girato», alla chiusura delle sale, allo scadimento della produzione nazionale. E dire che si era a lungo teorizzato che soltanto una riduzione della produzione avrebbe garantito un miglioramento della qualità, mentre è accaduto esattamente il contrario. La stessa scarsa attenzione che gli istituti cinematografici, le scuole di cinema, e le stesse università, dedicano a questo fondamentale momento del cinema, prova l’arretratezza di cui soffre il nostro cinema. Assegnare, fra l’altro, la responsabilità della crisi del cinema nazionale soltanto alle sue obsolete strutture istituzionali, alle televisioni, addirittura all’immaturità degli spettatori, equivale a produrre degli alibi, a rifiutarsi di affrontare i problemi della crisi in modo nuovo e nella sua totalità. Tutto certamente è invecchiato nel nostro cinema, ma uno dei ringiovanimenti possibili può essere affidato proprio alla conoscenza delle strutture narrative. Il comune spettatore che accetta il rischio di convivere con gli altri un’esperienza al buio, impegna la sua immaginazione, lavora con i suoi autori,

partecipa alla rielaborazione del film che visiona. E tanto più e meglio lo spettatore contribuirà all’opera cinematografica, a definirla, quanto più conoscerà le macchine dello spettacolo, il gioco che ogni autore instaura con il suo futuro acquirente. Ed è appunto questa l’aspirazione, se non lo scopo, che mi sono prefisso: fornire regole per il gioco, strategie e tattiche per eseguirlo con gioia, ovvero per trasgredire. Montaigne dice che se in un libro incontra un passo difficile lo salta, perché vede nella lettura un momento di felicità. E anche Emerson concorda sul fatto che bisogna leggere ciò che ci piace. Anche un bel film ha passi difficili, ma le difficoltà di lettura possono essere limitate se si riconosce allo spettatore anche il diritto di penetrare nella bottega del cinema, di utilizzare nel corso di una proiezione gli utensili che si usano più comunemente. Portarlo dietro lo «schermo», addestrarlo a smascherare il prestigiatore significa favorire la sua consapevolezza, difenderlo dai vecchi inganni, apprezzare i nuovi. Montaigne, Borges, Sklvoskij, Poe, Rabelais, Hawthorne e altri scrittori immortali sono citati più volte in questo libro accanto a critici, teorici, a cineasti che probabilmente immortali non sono, ma ho tralasciato spesso di citare la fonte, di annotarla a piè di pagina proprio perché non ho inteso scrivere una tesi di laurea, ma appunto rivolgermi agli spettatori. Ho citato il più delle volte, a memoria, oppure saccheggiando saggi che ho letto nello stesso periodo in cui scrivevo questo libro. Spesso, infine, ho citato autori citati da altri. Ho tralasciato senz’altro libri importanti, ma non è stato per disistima o per disprezzo, ho soltanto inteso adottare lo stesso metodo che seguo quando scrivo un soggetto o sono chiamato a elaborare un trattamento; ho raccolto, cioè, le informazioni indispensabili a svolgere il compito che mi ero prefisso, anche nell’intento di verificare, in un’occasione tanto diversa, e nuova per me, la mia stessa pratica professionale.

PARTE PRIMA - IL SOGGETTO

L’IDEA CINEMATOGRAFICA

Ogni film nasce da un’idea. Per scrivere un film, dunque, è necessario appropriarsi di un’idea, essere capaci di individuarla e di fissarla. L’idea cinematografica, rispetto al film, alla pellicola impressionata e montata, ha la stessa funzione che ha la testa nel corpo di un uomo. Non capiterà, cioè, mai che un film si realizzi senza che vi sia, quanto meno, la convinzione che un’idea esista. Che sia significativa ognuno sa che è raro, ma a parte il fatto che non sempre la qualità di un’idea si lascia individuare all’istante, le manipolazioni necessarie che ogni idea subisce fino a quando si conclude l’elaborazione della sceneggiatura, ultimo atto scritto su carta di un film, spesso la deturpano al punto che non è più rintracciabile nel film realizzato. La sua eventuale scomparsa non prova quindi che si possa realizzare un film senza un’idea capace di convogliare molteplici interessi, ma soltanto indica come il suo corretto utilizzo presenti difficoltà e, dunque, pretenda una tecnica di utilizzazione, di costruzione della narrazione a partire da un’idea. Così pure un’idea che vale può essere meglio rintracciabile proprio nel corso dell’elaborazione del soggetto che è, per così dire, l’atto secondo del film. Sul dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia la voce «idea» occupa nove colonne in corpo 6. A chi possiede pazienza superiore al corpo 6 vengono offerte numerose definizioni e ognuna è corredata da innumerevoli esempi d’uso, tratti dalle opere letterarie e filosofiche, da poemi e da trattati. Fra tante definizioni due soltanto si avvicinano con un’approssimazione per difetto a un’interpretazione possibile di una «cosa» tanto usata e richiesta qual è l’idea cinematografica. E non si tratta soltanto di difficoltà reale determinata dall’estensione che nell’uso quotidiano ha assunto il termine: c’è in questa omissione la confessione involontaria della scarsa considerazione che la cultura accademica ancora concede al cinema. Sarebbe bastato consultare il libro di Umberto Barbaro Soggetto e sceneggiatura, Edizione Bianco-Nero, Roma, oppure il saggio di Pudovkin sul soggetto e la sceneggiatura per aggiungere qualche altra riga di corpo 6. I professori vanno al cinema, discutono con gli amici del film che hanno visto, ma il loro interesse è considerato un passatempo, un momento di riposo che non merita un’attenzione professionale. Vero è che in anni recenti la storia del cinema ha i suoi docenti in ogni

università, ma essi hanno la stessa considerazione che nei licei hanno i professori di educazione fisica da parte degli altri docenti. Ma la storia del cinema non è tutto il cinema. Pochi fenomeni più del cinema contribuiscono a trasformare i linguaggi, a modificare i costumi o, quanto meno, a notificare i cambiamenti, a fornire incessantemente nuove costruzioni di sensi, a imporre gerghi e neologismi. La curiosità esclusivamente salottiera che provoca uno spettacolo cinematografico non è soltanto la prova di una bassa considerazione di cui soffre il cinema, di una cancellazione ostinata e immotivata del fenomeno «baraccone», quale divertimento preferito dai ceti incolti, cui i professori si degnano di accedere quale peccaminosa concessione all’effimero, ma piuttosto un banale atto di negazione della complessità del cinema, della sua artisticità. E se Rossellini, che Dio mi salvi, fosse più importante del Carducci e Zavattini del Pascoli? Ma un così malaccorto disprezzo, di cui certo non è prova soltanto l’omissione citata dei compilatori di dizionari, finisce col rappresentare il suo contrario: una paura del cinema, un modo inefficace e colpevole di difendersi dalla sua invadente presenza nella nostra vita, anche di chi il cinema non lo frequenta e non lo considera. Insomma questo sotterraneo, sfuggente e tenace processo di esclusione perpetrato dalle accademie, afferma, per così dire di rovescio, la presenza opprimente del cinema nella cultura bassa e alta, nella società, nel pubblico, nel privato. L’artisticità, in verità, non è la sola pretesa del cinema, ma non gli si può togliere nulla senza perdere la capacità di capire il mondo qual è. A pagina 204 del 7° volume del citato dizionario, precisamente al paragrafo 13, l’«idea» è così definita: «Motivo ispiratore di un’opera letteraria ed artistica. Anche filo conduttore». Ciò che comunemente s’intende per filo conduttore, soprattutto se ci proviamo a riferirlo a un’opera cinematografica, suggerisce uno sviluppo narrativo, un processo di conoscenza reso possibile proprio da un’idea fissata. Se, infatti, ci soffermiamo sull’espressione letterale «filo conduttore» possiamo paragonare, per piacevole esercitazione dialettica, l’idea alla quantità di energia che può attraversare un cavo elettrico, che è appunto il contenitore e la corsia preferenziale di un’energia fluida, misurabile e regolabile in partenza e in arrivo. E’ difficile, dunque, immaginare la nascita simultanea di una forza e il suo veicolo ed è, quindi, improponibile la fusione di un unico concetto di due così diversi elementi della creazione, giacché uno appartiene all’immaginazione, al suo uso spontaneo e ingovernabile, e l’altro prevalentemente alla metodologia espressiva. Il possesso di una qualunque metodologia favorisce, nel nostro caso,

l’individuazione dell’idea, ne determina la scelta e l’accettazione. Niente altro. Nell’idea, in altri termini, non è contenuto e fissato il suo uso, ma al contrario un ventaglio di usi possibili. Ancora nella stessa pagina, al paragrafo 15 così viene definita l’«idea musicale»: «Frase che continua il motivo dominante di tutta la composizione e che si presta a successivi svil uppi e variazioni». Definizione già più accettabile, ma ancora inapplicabile all’idea cinematografica. L’idea cinematografica, cioè, è sì paragonabile a un motivo dominante che deve percorrere tutto il film, purtuttavia essa non contiene la ripetitività e l’eloquenza della frase musicale, giacché l’idea cinematografica agisce e avanza nel film a un livello più sotterraneo, meno rintracciabile, paragonabile a un fiume di natura carsica di cui si può localizzare soltanto la fonte e lo sbocco conclusivo. Resta, comunque, ancora del tutto indefinito, l’atto primario e soprattutto il modo del suo formarsi, la circostanza produttrice di un dato processo fantastico. Più singolare è l’omissione di un qualsiasi tentativo di definizione nell’Enciclopedia dello Spettacolo. Agli eminenti compilatori, agli specialisti è un problema che non interessa. Chiedetegli pure quando è nata Francesca Bertini e in quanti metri di pellicola compare la sua immagine, ma non importunateli sul processo creativo di un film. Ma allora a che cosa, in conclusione si riferiscono i cineasti quando parlano di «idea cinematografica»? Cosa dirà mai Michelangelo Antonioni quando ha un’idea per un film? Penserà che ha partorito qualcosa di inesistente, di non codificato e codificabile? Invece Antonioni ha descritto dettagliatamente, con assoluta precisione, almeno in un’occasione, la nascita dell’idea ed ha nello stesso tempo, implicitamente offerto una definizione possibile all’idea cinematografica. «Qualche anno fa» egli scriveva su «Il Corriere della Sera» «mi trovavo a Roma per caso e non sapevo che fare. Quando non so che fare, incomincio a guardare. C’è una tecnica in questo, o meglio, ce ne sono tante. Io ho la mia che consiste nel risalire da una serie di immagini a uno stato di cose. L’esperienza m’insegna che quando l’intuizione è bella, è anche giusta. Non so perché, Wittgenstein lo sapeva.» Per il Battaglia l’«intuizione» è: 1) visione, concezione del mondo e della vita; 2) disposizione naturale a comprendere con prontezza e perspicacia un fatto, una situazione; sagacia, acume, grande capacità di penetrazione intellettuale o biologica, anche immaginazione, inventiva, estro; 3) comprensione istintiva di un fatto, di una situazione, visione irriflessiva, immediata; 4) in senso concreto: idea nuova e geniale, trovata, scoperta, rappresentazione mentale improvvisa,

repentina, brillante, opinione, convinzione istintiva e personale. Soffermiamoci sul 4° paragrafo che più da vicino tratteggia un’affinità tra intuizione e idea cinematografica, fino a confonderle, mentre l’intuizione è un atto soggettivo, non visibile, l’idea cinematografica è un altro momento, prossimo ma non contemporaneo all’intuizione, giacché l’idea si presenta come un’immagine fissa capace di scatenare un processo creativo finalizzato. Un’idea cinematografica non è sempre nuova e geniale, può essere vecchia e produrre novità o viceversa. Non ha, cioè, ancora un destino fissato nel momento in cui insorge. «Ero dunque a Roma» continua Antonioni «fermo con la macchina sul Lungotevere che fiancheggia la zona dove sorge il Villaggio Olimpico. Cercavo qualcosa che avevo perduto (io passo gran parte del mio tempo a cercare). Alzando gli occhi vidi un uomo uscire dall’edificio dove si gioca il bowling. Il suo modo di raggiungere la macchina, di aspettare prima di aprire lo sportello, di salirvi, erano insoliti. E così lo seguii. Quello che segue è il racconto del mio fantasticare su di lui, cioè un soggetto cinematografico.» Antonioni non avrebbe potuto spiegare più semplicemente e con maggior chiarezza la sua maniera di ideare un film, di trasformare un’immagine quotidiana, consueta, banale in un’idea cinematografica, sincronizzata con il suo mondo poetico e con il suo stile. Il suo processo fantastico è spontaneo, ma non gratuito. Gli basta una sola immagine, una fotografia dal vero per risalire dal particolare al generale, per inoltrarsi nel labirinto dell’immaginazione pedinando uno sconosciuto a cui egli presta un passato e un futuro, che è in realtà la scomposizione e la ricomposizione del no stesso passato come dell’oggi o del domani del mondo così come egli lo ha codificato. Non è casuale che “Blow up” e “Professione reporter” siano appunto costruiti partendo da una fotografia, da un fotogramma. Le sue trame, così, esprimono nello stesso tempo il suo mondo e il processo che egli compie per rappresentarlo. Per Antonioni, in conclusione, in un’immagine singola, isolala c’è l’idea del film. Se invece lo si chiede a Federico Fellini come nasce l’idea di un film, di un suo film in particolare, esprimerà perplessità, imbarazzo, pudore, userà il condizionale, ma finirà col non distaccarsi gran che dalle affermazioni di Antonioni. «Se ho detto per esempio» scrive su Fare un film rivolgendosi a un amico «che un film può nascere da un dettaglio insignificante, come può essere l’impressione di un colore, il ricordo di uno sguardo o di un motivo musicale che ti torna all’orecchio della memoria, ossessivo e sfuggente per giornate intere,

oppure come ricordi tu che “La dolce vita” mi si sarebbe presentata nell’apparizione di una donna che cammina in una mattina luminosa in via Veneto, infilata in un vestito che la faceva somigliare a un ortaggio, se dico queste cose non sono sicuro di essere completamente sincero e quando un amico giornalista me lo ripropone mi sento ridicolo.» Non ridicolo, ma sincero! Quella donna vestita come un ortaggio appena intravista in via Veneto è l’idea scatenante di un processo fantastico che altro non è che l’idea cinematografica. La donna che passa per via Veneto per Fellini, un uomo che esce dal bowling e si dirige verso l’auto per Antonioni: il procedimento è identico, ma il luogo e il momento in cui ognuno fissa la sua idea già dichiara una diversità fondamentale, rivelatrice non solo di un diverso modo di osservare il mondo, ma di un altro processo di formazione dell’immaginario. Diverso è ancora il procedimento teorizzato da Cesare Zavattini: in quel bosco fittissimo e disordinato delle sue intuizioni per prudenza conviene soffermarsi alle sue affermazioni più resistenti, con il rischio di ridurre proditoriamente la sua poetica. Per Zavattini tutta la realtà è un’idea cinematografica, ma il mare della realtà va osservato attraverso un buco, ciò serve a delimitare la sua visione, a circoscrivere il campo, a ingabbiare addirittura l’immaginazione, a rendere il mondo microscopico, benché egli ne avverta l’immensità. Ma il foro in cui Zavattini pone l’occhio non deve essere scelto, non ce n’è bisogno. Quale che sia la parete che si buca, al di là di quel foro vi sarà sempre un’idea cinematografica in attesa, personaggi che non aspettano di essere rivelati, che non sono in posa, proprio perché sono spiati e dunque colti nel loro quotidiano. Per Zavattini il paesaggio senza uomini non è guardabile, non esiste addirittura. Tutti i processi creativi intentati da Zavattini discendono da questa posizione di principio. Il carattere politico del suo metodo è evidente, egli buca il muro per reclamare giustizia, per denunciare senza gridare, per mostrare al mondo la verità. Accanto agli uomini Zavattini pone le cose della vita, gli oggetti. Se il paesaggio che egli vede è fatto di uomini è impossibile veder vivere creature senza un rapporto stretto con gli oggetti. Oggetti poveri e quotidiani, emblematici di una condizione umana, come la bicicletta di Lamberto Maggiorana, il protagonista di “Ladri di biciclette”, o il vestito bianco di “Prima comunione”. Intorno a un oggetto di poco prezzo c’è la verità della vita, il territorio della microstoria, si direbbe oggi. Per Zavattini anche gli animali sono oggetti. Ma il poeta del piccolo piccolo, il raccoglitore di oggetti minuscoli, vede gli animali enormi, come se li trovasse

tutti ugualmente ingombranti, tutti appartenenti a una zoologia fantastica, per quanto comune sia la loro specie. In “Buongiorno elefante” questo grosso oggetto vivente, questo pachiderma dalle movenze infantili, penetra in un appartamento che ha quasi le sue stesse dimensioni. Il suo volume e il suo peso, i suoi bisogni corporei non soltanto creano rapporti difficili con gli inquilini, ma anche con gli oggetti presenti in uno spazio tanto angusto. E sembra proprio che Zavattini abbia praticato un buco nella vita quotidiana, che per essere svelata attendeva soltanto di entrare in un fotogramma. Cacciatore in agguato, che non attende la balena bianca, ma una qualsiasi preda, giacché ogni cacciagione ha la sua carne, i suoi sapori: l’elefante come l’uccellino. Ma nell’ottica di Zavattini il pachiderma ha lo stesso peso e dimensione di un topo, o almeno la stessa graziosa smania di vivere. E’ il mondo circostante che è gigantesco. Ogni soggettista cinematografico, del resto, vive in perenne agguato. Mezzo cacciatore e mezzo voyeur, cerca la preda o insegue un caso di trasgressione e, nello stesso tempo, accumula senza tornaconto immediato dati, oggetti, visioni senza un ordine. Ma tutto ciò che ruba o trova viene collocato all’interno del suo vissuto, lo deposita per essere, chissà quando, prelevato, allorché altri materiali si aggiungeranno e renderanno possibile la loro utilizzazione. Gli oggetti, in altri termini, sono parti di una macchina complessa che si può montare solo quando tutti i pezzi sono disponibili. E non si sa quando ciò possa avvenire. L’imprevedibilità è la condizione perpetua sulla quale vive il procacciatore d’idee, questo cacciatore di farfalle. L’eterogeneità, inoltre, del materiale meraviglioso e scadente, vecchio e nuovo, antico e superfluo che il soggettista stiva dentro di sé, fa sì che ognuno di questi magazzini fantastici somigli a un deposito di rigattiere, al nascondiglio di un ricettatore. Parole incontrate per caso, articoli di giornale, ricordi personali e menzogne altrui, confidenze e segreti, pagine di libri mediocri e trame sottratte ai classici, lotte sociali e inquadrature cavate da un film, vi si ammucchiano secondo un ordine incontrollabile e un percorso preferenziale che si riesce a tracciare soltanto a posteriori e l’idea cinematografica è il prodotto di un incontro fra il proprio mondo interno, del dialogo che ognuno conduce con se stesso, con ciò che gli occhi acquistano in un dato momento: è la sovraimpressione su una fotografia istantanea di un cumulo di materiali «a fuoco». Un esempio concreto può venirmi in aiuto. Mi affido all’esperienza personale, nel tentativo non tanto di avvicinarmi a una definizione esauriente e accettabile dell’idea cinematografica, quanto di individuare uno dei procedimenti possibili attraverso cui si afferra l’idea cinematografica che passa, che si muove, che si offre soltanto apparentemente per caso. In realtà l’idea si presenta quando il

proprio magazzino immaginario è pieno come un uovo. Il caso, dunque, che mi provo a illustrare è strettamente personale e per dare all’esposizione quel tanto di autenticità che è possibile farò riferimento al primo soggetto che ho scritto, alla prima idea cinematografica che è diventata successivamente soggetto, così che l’ideazione possa apparire quale era, semplice e ingenua, ma pure all’altezza dei tempi. In sostanza ho rubato un’idea cinematografica a un amico che non la vedeva. E’ un furto tipico e comunissimo. Ma ogni idea cinematografica appartiene in una certa misura a qualche altro. Anzi non gli appartiene perché spesso il derubato nemmeno sa di possederla. Il mio amico e io camminavamo sotto una pioggia che sembrava non bagnarci chiacchierando senza meta. Forse era il 1948, forse il 1949. E chissà se vi fosse stato il sole di che altro avremmo parlato. L’amico non si occupava di cinema, anzi nutriva disprezzo per quelli che il cinema lo facevano. Uno dei tanti. Forse eravamo amici proprio perché non avevo niente a che fare con il cinema che vedevo come un mondo esclusivo e irraggiungibile, ma verso cui non nutrivo rancore o invidia. Tornava dalle Puglie, mi raccontò qualcosa che aveva sentito dalla viva voce del protagonista, ciò dava alle sue parole verità e avvertivo nella sua voce un tremolio che era emozione. Ci si entusiasmava allora di tutto, scoprivamo il nostro paese soffrendo di meraviglia e indignazione. A quell’epoca il protagonista del suo racconto viveva ed era il segretario generale della Confederazione Generale del Lavoro. Parlo di Giuseppe Di Vittorio, un uomo che ho visto sempre da lontano e che a vederlo dava l’impressione di essere appena uscito dalla terra. Oggi esistono diverse biografie di Di Vittorio, allora no. L’episodio di una vita movimentata e pellegrina come quella di Di Vittorio, per conoscerla bisognava andarla a raccogliere sulla bocca dei vecchi braccianti pugliesi di Cerignola e dintorni, o rubarla direttamente a lui, magari durante un lungo viaggio in treno, come era capitato appunto al mio amico. Di Vittorio fu autodidatta, imparò a leggere e a scrivere in un’epoca in cui riusciva a guadagnarsi il pane e niente altro. E non sempre. Il tempo per la scuola, se pure ne esistevano nella sua contrada, non lo aveva, ma voleva imparare a scrivere. Non poteva permettersi spese voluttuarie e nella miseria i quaderni, la penna, l’inchiostro rappresentavano non il superfluo, ma il proibito. Chi aveva quaderno e penna, chi entrava a scuola perdeva il lavoro. Il lavoro lo si attendeva ogni giorno all’alba sulla piazza e spesso inutilmente. Trovavano

lavoro coloro che erano disposti e costretti ad accettare il salario più basso. La giornata si comprava all’asta: il lavoro l’otteneva chi si offriva per meno, e si offriva per meno chi non poteva più tenere spenti i fornelli e vuoto lo stomaco dei figli. Esistevano allora miserie così estese che divoravano ogni umiliazione, ma vi erano giovani armati di una volontà irriducibile. Insomma Di Vittorio non andò a scuola e non comprò quaderno e penna, ma usò per quaderno i muri calcinati della sua unica stanza. Per imbrattare quei muri si servì di carbonella che sottraeva al braciere domestico, al fornello. Sporcando i muri, imbiancandoli con la calce che trafugava ai cantieri e sporcandoli di nuovo Di Vittorio si impossessò di uno strumento di comunicazione e di lotta: di un linguaggio di cui avvertiva la necessità e l’urgenza per se stesso e per gli altri braccianti. Più che un processo di apprendimento la sua fu una lotta di emancipazione. Ed è difficile supporre che egli avrebbe sentito insorgere dentro di sé con tanto accanimento e determinazione il bisogno di alfabetizzarsi se non fosse già stato istruito dalle prime lotte bracciantili alle quali aveva partecipato. Egli insomma possedeva una cultura non grafica, non ufficiale e aveva bisogno di uno strumento di comunicazione non verbale. Ecco ciò che mi colpì, che immisi immediatamente nel mio magazzino: un muro bianco su cui un giovane scrive le lettere dell’alfabeto, «o» grandi come piatti, «p» enormi come zappe. Sul muro, dunque egli fa i compiti che nessun maestro gli ha assegnato. Nell’epoca dell’alfabetizzazione di massa questo fotogramma è patetico e ci rimanda a una narrativa edificante, carica di buoni sentimenti, tipica del socialismo primitivo, e della letteratura che produsse, benché quella connessione fra lotta sociale ed alfabetizzazione lo spogli di ogni alone ottocentesco. Ma nel dopoguerra il populismo si respirava. Eravamo tutti dei muri bianchi in cui ogni segno rosso diveniva indelebile. Il magazzino dell’immaginario era in allestimento dopo lo sfratto precipitoso. Insomma era ancora lontana l’epoca della consapevolezza critica di massa, ancora in incubazione quell’accanimento ipercritico secondo cui nel nostro tempo presente ogni ingenuità indigna e il positivo è diventato fonte di sospetto per una caduta verticale dell’eroico e per la nuova leggibilità del negativo. Gli eroi di oggi sono, tutt’al più, occasioni di gioco, strumenti di divertimento, balocchi per bambini, essi cioè raramente producono processi di identificazione. Lo spettatore li guarda senza passione, li osserva senza amarli, godendo del disprezzo che il cinema gli scaraventa addosso. Il fotogramma che mostra Di Vittorio mentre scrive sillabe che sembrano alberi e parole che somigliano a solchi tracciati su un campo coperto di neve conteneva ai miei occhi — questo organo che si illumina di emozione — la sete

di sapere, la rabbia insorgente degli sfruttati nei primi decenni del secolo, ma giacché mi capitava di fissarlo in quel dato momento storico mi offriva l’indizio dell’esistenza di un’altra storia, quella, per intenderci, che non lascia documenti nelle biblioteche e negli archivi notarili e diocesani perché è segnata nelle case, nelle strade, nel quotidiano, ma trascritta con la pedanteria che solo il tempo perdona, esclusivamente nei verbali della polizia, destinati ai forzieri dello stato, alla banca dei segreti. Che cosa aggiunse a quel fotogramma il mio magazzino personale? Perché quell’informazione gratuita e occasionale mise in moto un processo fantastico? Non è un catalogo semplice da compilarsi. Non lo è per nessuno. Victor Boris Sklovskji ha ricordato nel corso di un’intervista rilasciata a Serena Vitali che una tale impresa la tentò Tolstoi nella sua prima opera, in Storia del giorno di ieri, la meno conosciuta. Tolstoi dice di voler annotare alla lettera ogni suo pensiero e insieme i pensieri di coloro che lo circondano. «Ma per un libro del genere» scrive «non basterebbe tutto l’inchiostro del mondo.» Almeno in quell’occasione agì la mia capacità, chissà dove e quando acquisita, di vedere i fatti, di ridurre i fatti in immagini, predisposizione che evidentemente il mio amico non possedeva ed io non immaginavo di avere. Il cinema allora per me era un sogno pericoloso; rincorrevo altre aspirazioni che mi sembravano meno audaci e pretenziose. Ed anche questo atteggiamento di rinuncia contò in quel momento. Paradossalmente, cioè, fu proprio la mia condizione che mi pose in grado di fissare quell’idea, di coglierla. Giacché non speravo nel cinema avevo in quell’attimo il massimo della libertà, potevo scrivere un soggetto destinato, cioè, soltanto a me. Non pensavo che un’idea potesse trasformarsi in merce. Ma non basta. L’episodio in sé non poteva sopportare altro che la trasformazione in idea cinematografica, non in frase musicale e nemmeno in opera letteraria. Il furto aveva una sua specificità e il ladro non doveva essere un ladro abilitato dall’esercizio professionale. Un ladro esperto, sia pure fornito della mia stessa vista, forse non avrebbe potuto vedere quell’oggetto di valore. Il riferimento a La lettera rubata di Poe è d’obbligo. Non potevo vederlo cioè, altro che io, se non altro perché quell’idea cinematografica che il fotogramma fissava era fuori delle tendenze dominanti, dagli scenari preferenziali, anche se possedeva quella semplicità e linearità che era stile ed era principalmente «lo stile di Zavattini». Il neo-realismo pretendeva la rappresentazione della vita quotidiana, la trasformazione del melodramma, ovvero il suo azzeramento, la svestizione dei personaggi, l’abbattimento dei palazzi, la scoperta degli appartamenti monocamere, il linguaggio della strada, i gesti maleducati, il sotterramento delle

sciabole e dei cappelli piumati, la fine dei tendaggi, la scoperta dell’immondizia, dello scarico del bagno. E tutto ciò era da poco in deposito nella memoria, archiviato, peraltro, insieme alle cianfrusaglie del romanzo popolare, agli scenari magniloquenti del teatro operistico che avevo frequentato da adolescente, il tutto legato da migliaia di metri di pellicola passati davanti ai miei occhi insieme alle declinazioni latine. Ma avevo anche visto “Roma città aperta”, “Ladri di biciclette”, “Sciuscià”, “Riso amaro” e “Serenata a Vallechiara”. Ma i films neo-realisti erano «cittadini», coglievano anche toccanti avventure contadine, ma con occhio cittadino. Basta pensare a “Quattro passi fra le nuvole” e anche a “Riso amaro”. I films avevano dunque protagonisti senza gradi, straccioni consapevoli, ma di città. E se non possedevano questa qualità cittadina, i films fotografavano le montagne dei partigiani. I contadini erano come abbandonati alla loro storia oscura, la grande storia dei contadini italiani era ancora nascosta dietro gli schermi. I pescatori annegavano nel mare dell’indifferenza, nonostante l’attenzione amorosa di Giuseppe De Santis per i contadini e di Luchino Visconti per i pescatori. Ciò che i cineasti del neo-realismo non riuscivano a vedere erano le mani, il loro articolarsi intorno agli attrezzi da lavoro. Milioni di anni aveva impiegato la specie per articolare il pollice, fare della zampa una mano, cominciare a costruire la cultura, la bassa cultura degli oggetti che fu la prima dell’uomo, e ancora la macchina da presa, che pure esisteva proprio per quel pollice prensile, non inquadrava le mani. “La mano della morta” sì, ma niente altro. Possiamo nominare, affidandoci ai ricordi, “Ladri di biciclette”, “Il sole sorge ancora”, “Riso amaro”, “La terra trema” tra i films che vedevano le mani, ma mai furono protagoniste loro, le mani dell’uomo. I films «cittadini» poi si occupavano del privato dei personaggi, la cinepresa — per usare la terminologia zavattiniana — pedinava gli individui nel loro viaggio attraverso la collettività, nella realtà sociale denudata dalla guerra e dall’occupazione nazista. Ma quanta timidezza, quanto pudore, quanta inconscia paura dell a libertà! I films di «montagna» invece partivano dal collettivo per isolare, secondo processi narrativi di successiva esclusione, il privato dei personaggi per accompagnare gli uomini in città. È il caso, ad esempio, di “Achtung banditi”, il primo film che ho scritto e firmato e mai mi sarebbe capitato se non avessi sentito parlare di Di Vittorio. L’idea cinematografica provocata da quell’approccio casuale alla biografia di Di Vittorio apriva un altro scenario: il Mezzogiorno, il territorio cioè che non si

può immaginare se non si riescono a vedere le mani, mani di vecchi, di braccianti, di bambini e di preti, mani rosse e gonfie di lavandaie o mani bianche di morti. Un cineasta avveduto, sicché, non aveva ancora né occhi, né memorie per le mani perché era il tempo delle facce. Ma a me mancava quel condizionamento professionale e così dovette accadere che proprio chi non si era prima accorto delle altre mani, ma che pure era nato e cresciuto nel Mezzogiorno, riuscì ad afferrare un fotogramma in cui quelle mani scrivevano sui muri spendendo la forza acquistata dall’uso quotidiano del piccone. E non c’era bisogno d’altro. Le lotte bracciantili, i tumulti distruttori, le reazioni rabbiose dei ceti moderati erano dentro quel giovane bracciante che scriveva sul muro. E ciononostante non fu un processo esclusivamente casuale. Tutto, del resto, è casuale, eppure nulla lo è. Spesso affidiamo al caso gli avvenimenti della vita che scorre, che non riusciamo a spiegarci immediatamente, ciò che non investe il nostro dialogo interno e che tuttavia riesce a rappresentare all’esterno di noi stessi quella parte del mondo che ci nascondiamo, quegli incontri che definiamo coincidenze. Suppongo che in quella circostanza preparata dal mio passato e dalle mie srcini fu decisivo trovarmi inserito in quel processo democratico provocato dalla liberazione che investiva il paese a dispetto dei santi. I giornali che leggevo, unici libri quotidiani accessibili, fornivano cronache minuziose e forse troppo trionfanti delle lotte contadine e bracciantili del Mezzogiorno. Le masse contadine erano i protagonisti del risveglio nazionale in atto. Nella fase storica in cui la ricostruzione industriale del Nord non era ancora compiuta, l’operaio non aveva ancora assunto quel ruolo dominante che avrebbe occupato anni più tardi. L’operaio, insomma, non era ancora personaggio da film, ed era dunque dal meridione che proveniva in massima parte il materiale rozzo e incompleto che andava a collocarsi nel magazzino dell’immaginario. Magazzino, deposito, archivio, fabbrica, questa nomenclatura da spedizioniere per indicare l’alto luogo in cui si formano le parole e i concetti, le immagini, i sogni nasce dal proposito di denunciare la scarsa conoscenza che ho della struttura del cervello, del suo funzionamento, nella convinzione che i modelli di costruzione delle idee più si presterebbero a un processo indiziario da affidare ai neurologi. Ma per tracciare l’anamnesi di un’idea bisogna fornire altri materiali, sfiorare la confessione, andare assai più indietro nel ricercare le prove della propria colpa, fino a confessare l’infanzia. I primissimi anni miei li ho vissuti fra Salerno e Battipaglia. II nonno materno era un uomo di campagna: possedeva aranci, tabacco e frumento, un calesse e un cavallo, una masseria e una stalla. Politicamente era

stato un moderato. L’srcine della sua proprietà mi è ignoto, ma era politicante e di tradizione unitaria, come posso desumere dalla lotta ventennale che condusse contro il parroco del luogo che non fu priva di episodi cruenti. Un mio zio, fra l’altro, ferì il parroco proprio per motivi politici e restò a lungo latitante. Quella rissa paesana di cui ignoro il contesto suppongo si accese proprio all’interno di quel contrasto che lungo tutto il processo risorgimentale oppose gli unitari ai clericali. E chissà che quello scontro non affondasse le sue radici proprio nell’epoca dell’espropriazione dei beni ecclesiastici di cui beneficiarono i ceti che avevano appoggiato il processo unitario. Può darsi che occupandomi di un bracciante analfabeta io volessi risarcirlo dell’appropriazione dei miei bisnonni o che volessi, nello stesso tempo, onorare il mio nonno paterno. Nonno Francesco, infatti, non possedeva nulla. Era stato da giovane ciabattino e fino a novant’anni risuolò le scarpe dei figli. Era, per chissà quale fortuna, diventato sorvegliante delle ferrovie. Suo padre, il mio bisnonno, secondo vaghi racconti familiari pare avesse avuto un orecchio tagliato dai briganti. I sorveglianti come lui abitavano nelle case cantoniere disperse lungo le linee ferroviarie. La famiglia di mio padre, dunque, viveva abbandonata nei vuoti territori malarici e il nonno, i figli, la moglie alternavano le attività del servizio alla coltivazione dell’orto, all’allevamento delle galline, dei maiali, che il fumo delle locomotive in transito affumicava a orario fisso. Insomma mio padre e i suoi fratelli vissero in campagna; la vita della gente che passava nei treni senza mai fermarsi li spingeva verso la città dove poi vissero. A scuola, lontana chilometri dalla loro casa andavano a piedi. A sera intorno al lume a petrolio facevano i compiti sotto gli occhi metallici della nonna. La nonna paterna era analfabeta. La ricordo viva ed energica, immobilizzata nel letto da un’artrite deformante che l’aveva ridotta a un mucchio di ossa ricoperte da una pelle azzurrina. La scoperta dell’analfabetismo della nonna fu un avvenimento straordinario. A lungo credetti fosse una bugia che mi veniva ripetuta dai miei per godersi la mia meraviglia e incredulità. Mi sembrava impossibile che una donna così vecchia e malata, incapace di leggere e scrivere potesse conservare nei confronti dei figli alfabetizzati e tutti impiegati delle Ferrovie dello Stato un’autorità così grande, pretendere e ottenere un rispetto così assoluto. Tanta autorità e forza di carattere, man mano che procedevo negli studi, le considerai doni compensativi che la natura le aveva concesso per risarcirla del suo analfabetismo, che per la sua intelligenza non aveva meritato dalla sorte. Così nel bracciante analfabeta Di Vittorio io ritrovai l’indomabile carattere della nonna, accoppiato a una diversa storia personale tutta maschile, scritta sulle mani nel corso dell’accesa e furiosa partecipazione di Di Vittorio alle lotte di

riscatto dei braccianti pugliesi. I discorsi, i racconti intorno al braciere, i costumi, le abitudini, i cibi, la morale della mia famiglia erano, dunque, doppiamente contadini da parte di madre e di padre. Mia madre aveva trascorso l’infanzia e la giovinezza nella masseria del nonno, sotto gli occhi dei bufali allo stato brado. Questi animali neri che sembravano immigrati da un continente perduto, andavano ad abbeverarsi nel ruscello che confinava con gli orti del nonno. La loro presenza rendeva il paesaggio selvaggio e antichissimo, arcaica la vita dei «bufalari» che marciavano tutto il giorno fra i pantani affollati dalle anofele. Nelle case di Battipaglia non c’era acqua. Fino agli ultimi anni dell’anteguerra, in un territorio piovoso, pieno di fiumi, torrenti, l’acqua arrivava dove la portavano le donne. A tutte le ore passavano con i secchi in testa. Nelle strade polverose del paese, al tramonto passavano le bufale di ritorno dagli acquitrini, con le mammelle gonfie di latte, dirette ai caseifici e alle stalle. Le donne con le sottane o le camicette rosse scappavano a nascondersi, inseguite dai cupi muggiti. II latte appena munto si buttava nelle caldaie di rame a cagliare sul fuoco. Durante la notte poi i casari lavoravano la pasta di latte, prima la frantumavano fra le dita e poi la rendevano gommosa e filante, immergendo quella poltiglia bianca nell’acqua bollente. E a questo punto toccava alle mani. Mani enormi, rosse, bollite, gonfie si tuffavano nelle acque infuocate e facevano le mozzarelle. D’estate, infine, prima di sera passavano i carretti carichi di donne che tornavano dalle raccolte di pomodori o dai tabacchifici. Affacciato al balcone della casa del nonno materno ascoltavo le loro canzoni a dispetto, gli stornelli irriverenti. Le portatrici d’acqua, le tabacchine, i bufali non avrebbero trovato posto in quel soggetto provocato da un’immagine fissa rubata all’amico che più avanti avrei intitolato «Ti scrivo questa lettera», ma senza di loro Di Vittorio non avrebbe riscritto per me sui muri calcinati di casa sua la sua alfabetizzazione. I ricordi di ognuno, del resto, si trasformano, sbiadiscono e si frantumano, si ridisegnano e si combinano quando si scontrano con il vissuto immediato a seconda delle filosofie che si abbracciano, delle esperienze ed emozioni che hanno scolpito il proprio modello interpretativo dell’esistenza. Così ciò che oggi ci colpisce, domani può nascondersi, magari sopraffatto da altri dati registrati dall’immaginazione, per poi ricomparire inatteso fra un giorno, un mese, fra un anno. Il tempo della fantasia, insomma, è sempre un altro, sfugge alle cronologie, si affida al disordine. Ma ogni perdita è sempre riempita tanto più celermente quanto più ci esercitiamo a cercare in questo magazzino a struttura labirintica che,

come direbbe Borges, è privo di una stanza centrale, di un punto di convergenza da cui partire per qualsiasi misurazione. «Si farà l’arte» scriveva Umberto Barbaro «solo partendo da un’idea e sarà la presenza di questa idea, di questa concezione del mondo che qualificherà i frutti della fantasia umana, artistici o meno. E poiché le idee sono frutti della realtà e ne accelerano il corso, l’arte, da una parte è condizionata e determinata dalla realtà e dall’altra è proiettata verso il futuro, anticipazione e contributo alla creazione di un’epoca nuova.» Barbaro, dunque, pur all’interno di una visione manichea dà una grande importanza all’idea. Non la definisce cinematografica; ma all’interno della sua ricerca teorica è all’ideazione cinematografica che fa riferimento. Certo la sua affermazione secondo cui l’arte, e specificatamente quella cinematografica è «anticipazione e contributo alla creazione di un’epoca nuova» appare fortemente limitativa, preconcetta, meramente ideologica, finalizzata a un progetto del mondo storicamente e filosoficamente determinato, compromessa in anticipo dalla verifica dell a storia. Ma non di meno assume particolare rilievo proprio per il momento storicopolitico in cui Barbaro formò la sua convinzione secondo cui è «l’idea che qualifica i frutti della fantasia umana, artistici o meno». Artistici o meno! Cioè a dire che il procedimento di individuazione delle idee è talmente libero che può servirsi del banale, nessuna artisticità è imposta o garantita da quell’atto mentale iniziale, che in ogni caso contiene tutte le potenzialità alla pari. E’ una questione grossa. Barbaro, del resto, ammetteva implicitamente che l’arte non è un prodotto di un atto di volontà. Paradossalmente si potrebbe sostenere che l’idea non ha ideali. Insomma rischiando di contraddirsi smaltiva ogni precauzione manichea, ogni condizionamento politico. Cionondimeno conviene ammettere, accettandone i rischi, che nel processo di individuazione dell’idea cinematografica è il fatto, l’avvenimento, la fotografia dell’epoca l’elemento scatenante, non unico, ma dominante. E se è così si tratta pur sempre di un atto politico, in un certo senso di un voto segreto. Ed è un dato che si presenta sempre più ingombrante, anche quale conseguenza dello sviluppo tecnologico del cinema, dei suoi sistemi di diffusione. Inoltre l’ideazione non è sganciata dal momento in cui sorge, dall’uso cui è destinata, ma anche dal macchinario, dalle strumentazioni disponibili, dalle illusioni ottiche realizzabili. Il film più di qualsiasi altro mezzo di informazione e di conoscenza è destinato a cadere ovunque e simultaneamente sugli spettatori, in misura sempre maggiore, tanto più che alla diminuzione del pubblico di sala corrisponde una diffusione a tappeto attraverso i mezzi elettronici in tumultuoso sviluppo.

Né il libro, né l’opera pittorica hanno un impatto della stessa ampiezza con i loro destinatari. E’ la natura stessa del cinema, il suo stesso cerimoniale che crea il pubblico, una comunità provvisoria, cioè, di spettatori non selezionata a priori, dal livello culturale, dal ceto, dalla cl asse o dalla collocazione geografica. Il film in altri termini, non subisce un processo di diffusione lento e tortuoso, come avviene per il libro e per l’opera pittorica. Anzi esso tende sempre più a diffondersi in un ristretto periodo di tempo, a raggiungere al più presto e ovunque il destinatario. Questa accelerazione appare dettata da convenienza commerciale soprattutto, ma non solo, giacché si manifesta in maniera sempre crescente la tendenza a partecipare all’avvenimento nel momento in cui esso si verifica e non a distanza. Un film produce possibilità di discussione, di scambio di informazioni che si esaurisce in breve e nessun interessato a parteciparvi può esserne escluso aspettando che il film arrivi a lui, quando nuovi avvenimenti suscitano altri interessi. E, dunque, il destino stesso di un film, la sua ragione d’essere, la sua capacità di suscitare scambi, contatti, acquisizioni di informazioni tempestivamente che impone all’idea cinematografica di inglobare ogni attualità e pertinenza, anche in senso giornalistico. La cronaca contiene nel suo quotidiano rinnovarsi un catalogo mobile dello stato della società, l’allarmante e cifrato annuncio dei cambiamenti in arrivo, il verbale, per così dire, notarile dei nessi comuni codificati ed emergenti, in mancanza dei quali il progressivo e indispensabile trasferimento dei significati ai destinatari che ogni film intende effettuare, avverrebbe con una velocità inadeguata e deludente, priva di sincrono. Questo non vuol dire, certo, che ogni spettatore debba acquisire le informazioni del quotidiano e carpire il sistema interno mediante il quale vengono diffuse, perché possa essere partecipe e consapevole dello spettacolo cinematografico. Nemmeno che la sola cronaca è fonte di immaginazione plausibile, ma semplicemente che il modello di informazioni giornalistiche a volte circostanziate, a volte elusive e incomplete, dedotto da altre informazioni e privo di accertamento diretto (si dice che…) suggerisce un sistema di sintesi, un modello narrativo in cui, appunto, la circostanza dettagliata si alterna con un insieme di informazioni sommarie. È questo il sistema che più si avvicina al modello narrativo cinematografico, proprio per la concretezza che l’immagine in movimento pretende al pari dell’articolo di giornale, con una differenza ulteriore nel senso che il fatto di cronaca è nudo e tanto più «passa» quanto più si ricopre di considerazioni. Cioè esso vale tanto quanto più è privo di suggestioni aggiuntive; mentre il racconto cinematografico, magari dettato dallo stesso fatto di cronaca raccolto da un giornale, proprio perché è visto come se accadesse in

quell’attimo, pretende più passato, una somma maggiore di chiarimenti e di allusioni. Ma spesso è la stessa immagine in movimento, per sua forza naturale, a riempire un’azione, un gesto, uno sguardo di altre dimensioni. Il fatto di cronaca ha sempre un destino breve, il giornale lo rende effimero, può distruggerlo nel momento stesso in cui lo rende noto. Altri fatti lo seppelliscono, lo fanno dimenticare se un dato avvenimento non ha in sé la forza di volare, di uscire dalle pagine delle gazzette, di diffondersi in ogni spazio e tempo fino a incontrare lo storico o il poeta, il suo cacciatore infallibile. Omero, Eschilo, Sofocle, gli estensori dei Vangeli si servivano, per così dire, dei «giornali parlati». Cantavano, narravano, rappresentavano, trasformavano le informazioni che rotolavano di bocca in bocca. Nel corso di questo viaggio sospinto dai fiati il nudo avvenimento diveniva romanzo epico, tragedia, mito. Il cinema non aspira a tanto, o quanto meno, a causa della sua giovinezza, ignora se ne sarà capace, ma è certo che l’immagine fissata sulla pellicola è pi conservabile della parola detta e del giornale scritto, giacché essa impegna pi facoltà sensoriali . Sklovskij ha notato che la tradizione dello stile di Gogol, cioè il succedersi di momenti smorzati e patetici, proviene direttamente dalla lettura dei giornali e delle riviste dell’epoca. Non diverso era il materiale che usava Hawthorne per annotare gli avvenimenti che coincidevano con il suo mondo orale. Se ogni avvenimento di cronaca ha comunque, nel modo in cui viene riferito, una sua ideologia, chi se ne appropria non è tenuto a caricarsi anche di quell’ideologia, ogni fatto appare nudo all’immaginazione e così viene acquisito. Nel periodo poi del neorealismo italiano la cronaca funzionava spesso direttamente da soggettista, per così dire, di complemento, ma era il momento storico che l’imponeva. La libertà di stampa appena conquistata rendeva avidi, increduli i soggettisti cinematografici. La capacità di alcuni di leggere e vedere i fatti di cronaca, di collocarli nel loro tempo bastò perché si formasse tutta una schiera di soggettisti provenienti dalle professioni più diverse. Pasolini (in calce al Cinema di poesia) osservava che l’immagine è meno significativa della parola. Per Pasolini la parola è una trinità: grafema, fonema, cinema. L’immagine, cioè non sarebbe che un elemento di quella trinità della parola. Ma proprio perché l’immagine è priva degli altri due elementi costitutivi della parola ha bisogno di concretezza ed è sempre concreta, verosimile. Ma ogni immagine per essere riferita a voce o per iscritto ha bisogno di molte parole. L’idea cinematografica, al contrario, è un’immagine che sottintende più parole, più concetti.

Ma quale che sia l’atto di nascita di un’idea cinematografica essa non è legata alla realtà, non impone il realismo. Si è parlato, infatti, di immagini, ma anche di visioni. E la visione è sogno e il sogno è una scomposizione della realtà. Né si vuol dire che l’idea cinematografica, giacché è un’immagine, è anche la prima inquadratura del film, tutt’altro. Essa scatena l’energia combinatoria in tutte le direzioni. Addirittura può scomparire, perdersi nel corso della formazione di un soggetto una volta assolto il suo compito. La donna vestita come un ortaggio che passeggia per via Veneto, come racconta Fellini a proposito della prima ideazione de “La dolce vita”, forse nel film non c’è, forse si è trasformata in una fragola, ma l’immaginazione di Fellini è rimasta a via Veneto, vista come zoo fantastico, come giardino antropomorfico. Vi sono in quel film apparizioni, personaggi di un attimo che sembrano giungere da Greenville e automobili che sembrano rinoceronti, eppure quella donna era vera: passò per via Veneto.

IL TEMA

Superman isolato in quel fotogramma ipotetico che è l’idea cinematografica non vola: è sospeso nel vuoto, inchiodato nel cielo. La prima immagine che colpisce è sempre ferma, perché l’immaginazione è «in posa». Ma conviene ripeterlo, un singolo fotogramma suggerisce un movimento in ogni direzione, per qualsiasi destinazione e non può identificarsi con il «tema» del film, così come intende Pudovkin. Un’idea in potenza contiene tante tematiche quanti sono i neuroni del cervello umano, essa è capace di attivare infiniti circuiti, di riprodurre processi associativi incalcolabili. Ma per chi ha «fissato» una data immagine quelle infinite possibilità teoricamente esistenti non sono sfruttabili se non nella misura che la cultura, l’esperienza, la capacità emozionale di ognuno autorizza. Il «tema» in altri termini, viene dettato dal volo di Superman, dal racconto per immagini del percorso che compie, dalla destinazione che si dà al volo: dove va, a fare che cosa, perché? La destinazione è il motivo del suo viaggio, dunque non solo determina gli incontri che Superman farà, ma definisce il significato dei suoi atti, passo dopo passo; scena dopo scena esprime la filosofia del film. Un tema che non si cala nell’intreccio, che non si combina con l’azione e non si fonde con i materiali prescelti è soltanto un estraneo fastidioso che mina la credibilità del soggetto. E se Superman resta fermo nel vuoto o invece di volare cammina, il tema è un altro. Si direbbe che il «tema» è la conclusione di un processo di ricerca, una selezione progressiva di sensi, determinata sia dalla propria concezione della vita, sia dall’accumulo di dati, di oggetti e di sogni. Paradossalmente è un «tema» anche non aver un tema. Abbandonarsi all’automatismo dell’immaginazione, evitare l’ordine logico, scegliere l’irreale e l’irrazionale equivale ad avere un «tema». A volte il «tema» agisce nei sotterranei mentali del soggettista ed emerge con ritardo, per mero capriccio, magari è presagito nell’idea cinematografica, ma si lascia individuare dal suo possessore a distanza dal momento iniziale. Indicare il «tema» prima di aver carpito l’idea, così come qui è intesa, rappresenterebbe un atto di volontà ingombrante, un uso dell’immaginazione non libero e tale da compromettere l’autenticità dell’impresa.

Per Umberto Barbaro (U.B. Soggetto e sceneggiatura e Bianco e nero) «la formulazione di una tematica “a priori” non va in nessun modo intesa come la fredda, schematica composizione di una tesi che dimostra con tutti i mezzi possibili come un teorema di matematica. Altrimenti i films di propaganda, quelli che per definizione fissano prima il tema, sarebbero gli unici films possibili». Sono parole scritte durante il fascismo ed il bersaglio è chiaro. Ma nello stesso tempo Barbaro annota, quasi a nascondere la sua audacia, che «lo statuire, dunque, la precedente formulazione di un tema non è che un suggerimento pratico per facilitare la creazione di un clima umano, umanistico, si direbbe con il Romans». Ciò si giustifica in parte con la visione tutta politica di Barbaro, il quale vede il film, dal soggetto alla copia campione, come opera di collaborazione, così che il tema sia l’indispensabile coagulante perché si verifichi l’aggregazione di uomini dediti a competenze diverse per raggiungere un fine comune. In realtà una programmazione «a priori» di fasi diverse di elaborazione che pretendono competenze distinte, livellerebbe gli interventi creativi, impedirebbe apporti srcinali e imprevisti. Tuttavia è innegabile che il film sia opera di collaborazione in cui, però, ogni contributo è fornito in modo autonomo e l’unico punto di riferimento è il soggetto. Il tema si enuclea in poche frasi. Si può addirittura sostenere che un soggetto può dirsi riuscito quando il tema possa essere riferito con poche frasi, se non con una soltanto. Proprio la raggiunta epigrammicità garantirà la presenza attiva del tema. Pudovkin tende a non fare alcuna distinzione fra idea cinematografica e tema: unisce, cioè, due momenti creativi fino a confonderli. Uno, infatti, è meramente fantastico, improvviso e imprevedibile, benché non possa insorgere che nell’attimo in cui effettivamente insorge: né prima, né dopo. Inoltre l’idea è sempre atto individuale. Il tema, proprio perché può essere definito dopo, da un’elaborazione non solitaria, è da considerarsi già un atto pubblico e cosciente, riferibile a terzi perché storicamente determinato in quanto intende fotografare lo stato dell’autore o degli autori in rapporto al momento in cui la sua individuazione si effettua. Per Pudovkin nel saggio suII soggetto cinematografico il «tema» è concetto che va oltre l’arte. «Giacché ogni pensiero umano può essere assunto come “tema” e il film, come ogni altra arte, non può stabilire limiti alla propria scelta di un tema, di esso si può soltanto discutere l’efficacia e la maggiore o minore rispondenza allo scopo.» L’idea non è considerata. Pudovkin la nasconde nel «pensiero umano». Egli,

infatti, così suddivide il lavoro di creazione cinematografica: a) tema, b) soggetto (azione), c) elaborazione cinematografica del soggetto. Ma subito dopo, nello stesso saggio, l’idea spunta solitaria e distinta dal tema, si direbbe suo malgrado. «Si aggiunge» scrive ancora «che per la chiara espressione filmica di un’idea occorre più spazio che per un’espressione verbale. Spesso una sola parola contiene un intero complesso di pensieri.» L’espressione filmica di un’idea non è altro che il tema e, dunque, l’idea è un avvenimento precedente, distinto e diverso. È anche difficile ammettere che una sola parola contenga un intero complesso di pensieri. Oggi noi sappiamo che la parola contiene un intero complesso di informazioni ricevute dal cervello per mezzo della vista, dell’udito e delle attività sensoriali. Piuttosto è proprio l’idea a contenere più pensieri in quanto è l’espressione conclusiva e sintetica di elaborazione individuale, di un dialogo interno. Comunque Pudovkin non va oltre: l’idea cinematografica non la definisce, non la isola. Nemmeno il tema, peraltro, è riferibile con una sola parola, per quanto possa rappresentare il risultato di processi selettivi avvenuti in epoche diverse e per molteplici stimoli. Se diciamo analfabeta, ad esempio, non abbiamo definito il tema, ma soltanto l’argomento. Non è nemmeno un’idea. Un bracciante che scrive sul muro di casa sua con caratteri tremolanti ed enormi le vocali è senz’altro un’idea, perché contiene una serie di informazioni trasformabili in pensieri, azioni, giudizi. E non ancora è un tema, ma ha la forza di indirizzare la ricerca, di delimitarla. Partendo da un fotogramma che contiene un uomo e un muro scarabocchiato, si fa già una scelta. Non si può, non si riuscirebbe, anche se ve ne fosse l’intenzione, scrivere un soggetto in cui il tema sia, ad esempio, l’impossibilità di un bracciante di imparare a leggere, o l’inutilità dell’apprendimento. Per sostenere la dannosità dell’istruzione per i poveri bisognerebbe situare in quel primo fotogramma che è l’idea, magari, l’arcigna figura di Monaldo Leopardi. L’impegno di Pudovkin a sistematizzare i materiali maturi che compongono un film, la sua forte capacità di estrarre una sintassi cinematografica dalla nuova «parlata», da quel caotico e prepotente farsi del cinema ancora privo di suoni, di voci, di profondità di campo, è diventata storia del cinema, ma resta carente di previsioni attendibili, di leggi intoccabili. Egli stesso ci autorizza a tanto quando dichiara a proposito di “Intolerance”: «Il cinema è un’arte troppo giovane per assumersi temi così vasti».

Il saggio di Pudovkin è del 1926 e codifica appunto la giovinezza del cinema. È ormai insopportabile, fra l’altro, l’affermazione secondo cui il «tema» del fil non possa abbracciare un campo straordinariamente esteso, sia nello spazio che nel tempo. Nemmeno Umberto Barbaro, che pure è stato il mallevadore in Italia delle teorie pudovkiniane, se la sente di acconsentire. Comunque ha già trionfato il sonoro allorché Barbaro osserva: «Quando Pudovkin dichiara che temi di enorme vastità non si prestano, allo stato attuale del cinema, alla creazione di film, sbaglia». Ciò che in ogni caso appare insostenibile è che si debba limitare il cinema a una rappresentazione fisica della realtà, inchiodarla cioè al livello dell’occhio, troppo vicino, viene da dire, perché il campo visivo non venga ristretto e la stessa realtà non ne esca falsata. Il cinema ha l’illimitato spazio e il caotico tempo dell’immaginazione. Qualche esempio per intenderci, ammettendo il paradosso e l’estemporaneità fra le es ercitazioni possibili, fra le dimostrazioni pericolose e banali. Per cominciare ecco un «tema» in cui il tempo e lo spazio potrebbero avere quell’estensione che Pudovkin disapprova. Non sarò epigrammatico come converrebbe. E’ soltanto un esempio calzante. Cristoforo Colombo raggiunge e scopre l’America, incontra gli Amerindi che chiama indiani; ad essi il viaggiatore genovese nel segno della tradizione ligure cede oggetti inutili, ornamenti non costosi, ma vistosi e ne riceve in cambio pepite d’oro. Oggi si direbbe che li ha truffati. Se ci fermassimo a questo punto avremmo raccontato una truffa, ma se uniamo in alternativa uno squarcio di storia dell’emigrazione di massa verso l’America del principio del secolo, la storia di una truffa diventa una denuncia di due condizioni umane parallele. Gli emigranti, infatti, cedevano non agli indiani, ma ai pronipoti di Colombo la loro forza lavoro. Da conquistatori a sfruttati, dunque. Nella sua schematicità manichea l’esempio illustra come l’unità di luogo possa sopportare un’estensione epocale nella storia. Colombo e gli emigranti compiono, infatti, lo stesso viaggio, agiscono negli stessi luoghi, ma in epoche diverse. E il luogo dell’azione è vasto come l’Atlantico e le Americhe. Ne “I giovani leoni” di Dmytryk, tornando agli esempi, Marlon Brando è un soldato tedesco, Montgomery Clift è un soldato americano; vivono in due opposti continenti all’inizio del film. Le loro vicende avanzano in parallelo, a grande distanza, ma le due avventure umane finiscono per incontrarsi e somigliarsi, mentre lo spazio in cui agiscono si restringe progressivamente. L’unità di tempo è garantita dalla guerra, un avvenimento a cui nessuno è sfuggito, che nessuno ignora; anche l’unità di spazio è rispettata, ma la sua estensione è continentale.

Il «tema» così ha una forza unificante e determina il tempo cinematografico secondo una misurazione che è soltanto filmica e di quel solo film. Ogni film, infatti, costruisce il suo tempo immaginario. I due protagonisti de “I giovani leoni” sono lontani fra loro, ma le loro azioni ne avvicinano i destini subito, così che lo spazio è vasto eppure è circoscritto. Il vero spazio del film è il fotogramma e il suo tempo è frutto di una convenzione che il procedimento narrativo rende accettabile. E ancora. Un uomo è sbarcato sulla luna. Guardatelo questo nostro coinquilino terrestre chiuso in uno scafandro che gli conserva il tempo della terra, mentre l’altro tempo scorre in un angolo della terra, nel cuore dell’atmosfera, dove si vive senza scafandri. Un altro uomo, in maniche di camicia, cioè, è tenuto in piedi sulla terra dalla forza gravitazionale. Le trame possibili sono infinite; il «tema» è a scelta, ma quale che sia dimostrerà comunque che l’unità di tempo è ipotetica, il tempo dell’astronauta cioè è un altro, non soltanto perché egli è altrove, fuori dell’orbita terrestre, ma anche perché lo spazio è un altro, la sua concezione è un’altra. Ed ancora è un altro lo spazio, un altro il tempo, al di là di ogni recinzione teorica, quello che instaura un paradosso sublime di Coleridge, che Borges cita per attuare un modesto proposito: la storia dell’evoluzione di un’idea. Ha lasciato scritto Coleridge: «Se un uomo attraversasse il Paradiso in sogno e gli dessero un fiore come prova di essere stato lì e se destandosi si trovasse quel fiore… E all ora?» Si tratta di un film possibile. E allora? Certamente l’esemplificazione poteva essere effettuata servendosi soltanto di films esistenti, stimati e conosciuti, ma osservava Sklovskij, nel suo tempo che era poi lo stesso di Pudovkin e di Eisenstein, che «per scrivere un’opera seria sulla teoria del cinema sarebbe stato indispensabile catalogare tutti i films, o per lo meno, alcune migliaia di films che, una volta classificati, mi avrebbero messo a disposizione un materiale ampio su cui poter stabilire alcune leggi assolutamente esatte». Sklovskij usa il paradosso per dare forza polemica alle sue convinzioni e così agendo indica la complessità e l a difficoltà dell’ impresa, il pericolo di arrivare a legiferare partendo da un campione troppo ristretto. E’ un’assoluzione data generosamente a tutti per il presente e per il futuro. Certo è che ogni anno di più questo archivio generale, questa biblioteca zeppa di tesori sconosciuti, di incunaboli dimenticati, di films sopravvalutati e sottovalutati si dimostra impossibile a farsi, ogni ricercatore rischia di annegare, di perdersi in un labirinto.

Il materiale che aveva a disposizione Pudovkin era minimo, minore di quello possibile in quel momento in ogni altro paese, ma in compenso agiva in un microuniverso cinematografico investito da una straordinaria ventata creativa e da una riflessione troppo calda per non essere provvisoria. Pudovkin, insomma, non poteva far altro che indagare partendo principalmente dai suoi materiali, studiando il cinema che aveva sottomano, che faceva. Questo metodo, imposto da una condizione storica eccezionale conteneva una qualità: una ricerca che parta dal cinema che si fa, dall’azione materiale che si compie giornalmente, fornisce un metodo di lavoro, permette una conoscenza senza mediazione. E si paga con un’approssimazione per difetto. Ma la ricerca di Pudovkin, anche se si è valso di pratiche artigianali, se teorizza su quello che ha e che fa ha dignità scientifica. E ciò spiega anche perché Pudovkin abbia dato il suo maggiore contributo teorico nei suoi studi sul montaggio, proprio perché era quello il suo campo di ricerca. Del resto, al contrario di Eisenstein, il nesso fra cinema e letteratura non l’affliggeva minimamente. Pudovkin porta a sostegno del «tema», come egli lo intendeva l’esempio di “Intolerance” per rimproverare appunto a Griffith «una forte discrepanza fra la profondità del motivo fondamentale e la superficialità della realizzazione». Il tema di “Intolerance” Pudovkin lo presenta così: «In tutti i tempi e presso tutti i popoli delle lontanissime epoche, fino ai giorni nostri, è regnata l’intolleranza e l’intolleranza ha una conseguenza immediata: il delitto». L’ampiezza del «tema» che investe tutti i tempi e tutti i popoli e l’eccessiva quantità di materiale sarebbero, secondo il teorico russo, la causa del fallimento artistico del film. E vale la pena notare che Umberto Barbaro, che pure giudicò sbagliata la tesi di Pudovkin, sostiene subito dopo che l’errore di “Intolerance” non è costituito dall’ampiezza tematica, ma dalla disarmonica, strabocchevole sovrabbondanza di visioni particolari, scelte per incarnare il «tema». L’errore sarebbe dipeso, sempre secondo Barbaro, dall’aver voluto attingere universalità dalla quantità. Affermazione quest’ultima altrettanto preconcetta di quella di Pudovkin. “Intolerance” è del 1916, un anno prima della rivoluzione di ottobre, dieci anni prima che Pudovkin pubblichi il suo saggio sulla sceneggiatura cinematografica. E sono date che contano. Durante uno sciopero di alcuni anni prima furono uccisi 19 operai. Griffith da questo eccidio ricavò un film “The mother and the law”. Nel 1915 Griffith decise di trasformare il film in un affresco sull’intolleranza umana. Dunque si tratta di un

tema suggerito da uno sciopero, da un caso di repressione antioperaia. La storia di Cristo, la caduta di Babilonia, la notte di S. Bartolomeo, uno sciopero soffocato nel sangue vennero intrecciati fra loro. Il passato e il presente creavano facili analogie violando consequenzialità temporali, ma rispettando la logica del discorso che Griffith intendeva svolgere. Dimostrazioni effettuate servendosi di associazioni semplici, ma che pure stravolgevano il modello narrativo cinematografico fino ad allora in uso. Il cinema, insomma, imparò a saltare nei secoli con quella sfacciata disinvoltura che solo il cinema poteva rischiare. Nasceva così una diversa cognizione del tempo: il tempo cinematografico. I quattro momenti, inoltre, erano collocati in uno spazio vastissimo e ciononostante il film fu leggibile e bastò l’immagine di una madre che dondola una culla per omologare i significati di quattro occasioni storiche disperse nello spazio e nel tempo. Quando Pudovkin pubblica il suo saggio, Lenin è morto, Majakowskij si è suicidato, Stalin è già salito al potere, la grande stagione della creatività rivoluzionaria è finita. Ed è forse il mutato clima in cui fino allora era vissuto il cinema sovietico che contribuì a determinare la posizione fortemente critica e manichea, in contrasto con il giudizio positivo che Eisenstein, solo qualche anno prima, aveva dato di “Intolerance”. Eisenstein studiò attentamente “Intolerance,” non gli sfuggì che Griffith si era servito di una tecnica rivoluzionaria che gli era servita per rispondere alle ansiose domande degli uomini e delle donne — scrive Lawson — che sfilavano in lunghi cortei dinanzi ai cinema affollati. In realtà il successo, almeno in America, non fu così strepitoso, non bastò anzi a evitare la rovina economica di Griffith che aveva impegnato nell’impresa un’ingente fortuna, né certo bastò a risarcirlo il grande successo che ottenne in Unione Sovietica, certo facilitato da quell’autorevole «imprimatur» che Lenin gli concesse benché, secondo Lawson, Griffith non seppe emergere dalla confusione in cui era sorta la sua difesa della tolleranza. Egli finì per sostenere che erano intolleranti i negri che protestavano contro la propaganda di supremazia bianca, così come lo erano i padroni che facevano sparare contro gli operai. Lenin, insomma, fu meno manicheo dell’americano Lawson: tralasciò di stigmatizzare quell’«errore» ideologico e politico di Griffith, limitandosi a cogliere e a sfruttare il messaggio pacifista che “Intolerance” conteneva. Gli Stati Uniti avevano respinto le tendenze pacifiste della società americana proprio nel momento in cui il film di Griffith compariva sugli schermi: “Intolerance” raggiunse la Russia dopo l’esito vittorioso della rivoluzione, ma perdurando la minaccia militare ai confini del nuovo stato. La psicosi

dell’accerchiamento capitalistico diventava una sofferenza cronica della classe dirigente sovietica, ma intanto Lenin puntava ancora sulle tendenze pacifiste, per evitare uno scontro militare fra gli stati capitalistici e l’Unione Sovietica, prostrata dalla guerra e dalla rivoluzione. Lenin, in sostanza, dette di “Intolerance” una valutazione esclusivamente politica. Scoprì probabilmente, anche per merito di Griffith, la forza propagandistica del cinema, la sua capacità di parlare alle masse. Pudovkin, invece, criticava di “Intolerance” la forma, la composizione, ma anche il suo, in definitiva, era un giudizio politico, anche se non aggrediva il contenuto del film. Benché i tempi fossero cambiati, il formalismo russo esercitava una grande influenza nella cultura sovietica, Sklovskij lavorava nel cinema e Pudovkin criticava Griffith da formalista. Nel 1926, quando Pudovkin pubblicò il suo saggio, il pacifismo era sospettato di disarmare il paese dei Soviet, l’accerchiamento economico dell’URSS continuava ma era mutata, con Stalin, la risposta: cominciava a nascere lo stato militare. La critica di Pudovkin a Griffith parte dal montaggio, applica un metodo deduttivo, il momento grafico-letterario della creazione cinematografica non è valutato, è considerato di irrilevante influenza ai fini della costruzione filmica. Né si staccherà in seguito da questa concezione che rovescia il processo creativo per negare il momento individuale in cui l’idea cinematografica insorge. La conseguenza è che insieme al momento individuale vengono di fatto declassati i materiali letterari ed è, dunque, il primo giorno della creazione che viene negato, almeno non viene preso in esame. Il compito, invece, che si assunse nello stesso periodo Sklovskij f diametralmente opposto: egli fece, cioè, ben altro uso del formalismo; partì proprio dai materiali letterari per ristabilire un altro ordine di precedenza secondo cui la scrittura del film costituisce il momento letterario del film. «L’artista» scriveva Sklovskij ne “I cinque Feuilletons su Eisenstein” «dispone di parecchie libertà nei confronti del materiale offertogli dalla vita: la libertà di scelta, di cambiamento, di rifiuto. Chi ha messo in scena “9 gennaio” non ha adoperato nessuna di queste libertà.» “9 gennaio” è un film di Viskovskj del 1925. E ancora a proposito di “La fine di San Pietroburgo” Sklovskij osservava: «Nel film di Pudovkin, a causa della mancata costruzione del soggetto, hanno assunto un’importanza tutta particolare i problemi di montaggio del cinema poetico e del depouillement dell’inquadratura». Per tornare, infine a “Intolerance”, si può concludere con Tullio Kezich che il film di Griffith «fu il primo sorprendente segno di come si potesse arrivare

all’espressione artistica più adulta con un mezzo fino a pochi anni prima legato ai rudimentali nickelodeous». La vastità del tema, l’uso verticale e orizzontale del tempo e dello spazio non impedirono di raggiungere l’espressione artistica più adulta. Il tema non c’entra: esso è senza qualità dal momento che annuncia la filosofia del film e non riferisce di tutti gli usi possibili del materiale, né impone un linguaggio, non garantisce la qualità, né l’artisticità. E non sempre le due attribuzioni coincidono. Vi può essere, cioè, qualità senza arte? Forse che la professionalità non è una qualità? Ed è proprio l’ostinazione della critica militante italiana a considerare la qualità sinonimo di artisticità che ha provocato i più madornali errori di valutazione, in quanto un giudizio estetico totalizzante non prende in esame parallelamente l’uso dei mezzi tecnici necessari a esprimere un dato linguaggio al punto che gli sfuggono le innovazioni e le conseguenze che esse hanno sullo stile. I nuovi procedimenti tecnici, al loro apparire, modificano il linguaggio cinematografico per il solo fatto che se ne è fatto uso, provocando successivamente una nuova codificazione di tutto il cinema preesistente. Nuove possibilità espressive insorgono man mano che il loro uso si affina. La grammatica e la sintassi si aggiornano. Un romanzo si può scrivere con la penna o con la macchina da scrivere, ma non è la qualità del mezzo prescelto che modifica le parole, la struttura della narrazione. Il carattere della stampa, quale che sia, non aggiunge e non toglie nulla al lettore. «Fa piacere avere un libro ben stampato, ma chi è che lo legge per questo?» conclude Goethe dopo che ne Le confessioni di un’anima bella ha fatto dire all’eroina che «la bellezza di un libro va valutata unitamente alla bellezza dei caratteri tipografici.» Diverso è per il cinema: la macchina da presa è un’altra penna, scrive a seconda degli obiettivi, della pellicola e dei tanti altri mezzi tecnici che si rendono via via disponibili. E il loro uso, la loro diversità non incide sulla «bellezza tipografica», ma direttamente sulla narrazione. Come la capacità di produrre colori sempre più resistenti e brillanti muta progressivamente la materia pittorica rinnovando successivamente le arti plastiche proprio attraverso la ricerca materica, così il cinema mediante l’acquisizione di nuovi materiali ottici conquista non solo una diversa qualità dell’immagine e un’altra luce, ma anche un’espressività adeguata e funzionale allo sviluppo dei mezzi e, dunque, accresce i modi di formare il racconto, di disporre le figure all’altezza delle disponibilità tecniche sopraggiunte. Un nuovo procedimento di ripresa, sia ottico che sonoro, fisico, chimico, o

elettronico preannuncia altri stili, smuove la ricerca espressiva, introduce approfondimenti concettuali compatibili con la parallela crescita dei livelli di comprensione dello spettatore. Ma c’è di più: la comprensione, la corretta lettura dei modelli narrativi emergenti da parte dello spettatore rincorre i processi tecnici del cinema. André Bazin nel suo saggio dedicato a “Quarto potere” di Orson Welles interpreta la profondità di campo realizzata per la prima volta nel film citato come un’innovazione tecnica, densa di conseguenze nello stile e nella costruzione narrativa, costretti entrambi ad assumere in proprio la stessa luminosità dei nuovi obiettivi. Una visione nitida, non sfumata in profondità rende il fotogramma, per così dire, più grande, capace di inglobare un’altra immaginazione, una concettualità più matura, un sistema di sintesi più efficace. Michael Wood (L’America e il cinema, Ed. Garzanti) ha notato che l’uso generalizzato della profondità di campo ha cambiato quel gigantesco fotogramma che è Hollywood. «I films» scrive «cominciano ad apparire differenti perché al montaggio rapido e alle figure che riempiono il fotogramma si sostituiscono immagini composte, con gruppi di figure a distanze diverse dalla macchina da presa.» Distinguere il volto, gli occhi di un personaggio che agisce sul fondo, oppure la sagoma di un albero posto sulla linea dell’orizzonte mentre in primo piano una persona parla, agisce, diventa personaggio, significa acquistare la possibilità di raddoppiare la narrazione, produrre più movimenti paralleli, contraddirsi per chissà quale intenzione dialettica, di fotogramma in fotogramma, problematizzare la narrazione, consentire altre tematiche, prima negate, senza peraltro scacciare le forme già sperimentate. Fare, in altri termini, avanzare la scienza cinematografica in modo circolare: dalla fabbrica all’ideazione, dal soggettista al montatore. Questa crescita continua delle possibilità tecnico-artistiche, questo matrimonio indissolubile genera a sua volta una moltiplicazione del modo di fare cinema e anche di concepirlo, di studiarlo. Ed anche il concetto di «tema» perde ogni valore dogmatico, sfugge a una classificazione definita una volta per sempre. Le teorizzazioni dell’epoca del muto invecchiano, schierarsi a difesa non serve. Innumerevoli, incalcolabili addirittura sono i films hollywoodiani costruiti in un territorio che proprio lo sviluppo del mezzo espressivo ha reso libero, in cui fra l’altro è del tutto legittimo e affascinante affidare ogni giudizio sul mondo e sulla vita, cioè il tema, sempre a un prossimo film, o magari a un’intera cinematografia. Il tema, insomma, ha facoltà di nascondersi o di estendersi nell’insieme di una produzione di un decennio o di una stagione. La caccia al tema di un film spesso rischia di far smarrire proprio ciò che si

cerca o di saltare la collocazione storica in cui un dato film è riuscito a esistere, in definitiva a non cogliere la sua capacità di durata nel tempo. Il telespettatore, investito nel nostro tempo da migliaia di films di ogni epoca e di ogni nazione, lo sa. Il recupero critico di films stroncati ormai è affannoso, tanto precipitoso che si pecca ormai per eccesso. Si scopre, cioè, che le valutazioni critiche furono niente altro che delle sentenze ingiuste emesse dai veri tribunali del gusto, della moda, delle ideologie. E spesso le ingiustizie furono ai danni della stessa ideologia che si intendeva riaffermare. Secondo McLuhan, nell’ultimo suo scritto rimasto incompiuto, «la televisione ha cambiato il cinema trasformandolo in una forma archetipica di arte in cui oggi giorno il film underground o il film d’arte è un anacronismo, poiché tutte le rappresentazioni cinematografiche sono una forma d’arte. Uno dei segni di tale cambiamento si è verificato quando, un decennio dopo che la televisione aveva raggiunto la maggiore età, il cinema ha cessato di essere criticato e definito rozzo, commerciale e volgare ed ha iniziato ad essere oggetto di dotta attenzione anche nelle università». Per Hollywood il tema è stato e resta l’America, intesa come territorio, come nazione e come impero, come popolo e come insieme di popolazioni: un paradiso terrestre, cioè, dove ognuno poteva, e può ancora, rincorrere il successo con qualsiasi morale purché ne abbia una, con qualsiasi mezzo purché ne possieda qualcuno: è il sogno americano. E Hollywood non fa del cinema americano, ma il cinema del sogno americano. Un poliziotto onesto che diventa disonesto, o un disonesto che scopre il piacere dell’onestà, non accusano in ogni caso l’America: la cantano. E le canzoni si fermano nella memoria con tante maggiori probabilità quante più volte si ascoltano. Il tema Hollywood, ugualmente, non soffre la ripetitività, anzi, paradossalmente, affida proprio a un’arma tanto rozza la capacità di crescere, modificarsi, diffondersi. Il suo maggiore veicolo di penetrazione, dunque, non è la lingua, ma la sua sfrontata capacità di plagiare ininterrottamente se stesso. Autentica coazione a ripetere che contagia lo spettatore non con la qualità delle sue copie, ma con la quantità. Ma, anche il film che si presenta ornato di un tema riconoscibile, coniugato al singolare, contribuisce nello stesso tempo a produrre il tema superiore, espressione di un dato periodo cinematografico, testimone di parte di una società. Che senso ha, allora, dissertare, come si fa, se “Due soldi di speranza”, “Riso amaro”, “Miracolo a Milano”, “Guardie e ladri” possono essere considerati dei film neorealistici o meno? Quanto più si riduce il numero dei film neo-realistici in nome di un rigore

critico e di una pedanteria sospetta perché interessata oltre ogni ragionevole dubbio, tanto più si restringe il significato del neo-realismo, si nega il tema superiore che unificò tutta la cinematografia italiana. Ma bisogna tentare ancora di individuare il momento in cui nel processo di fabbricazione «il tema» si presenta, si espone, rivela l’intenzione dell’autore. E’ nella costruzione dell’intreccio, quando il momento letterario prevale, che la sua definizione compare. E’ quello il momento in cui avvenimenti e significati, intenzioni di principio e fattibilità, materiali di vita e materiali letterari producono l’energia fantastica necessaria all’assolvimento del compito. Accade a volte che nell’elaborazione del soggetto, il tema resti contraddittorio e ambiguo, vago o confuso nonostante ogni perentorietà della rappresentazione, ma ciononostante un film può contenere emozioni, scoperte, provocazioni, suggestioni che lo fissano a lungo nella memoria. Sono i casi in cui, paradossalmente, si può sospettare che il tema è stato affidato alla memoria collettiva, rinviata al domani la sua attendibilità. Il soggettista, in altri termini, è autorizzato anche a esporre la sua problematicità, l’ambiguità in cui si contorce, il suo essere contraddittorio. Ciò che importa è che il materiale funzioni anche se il tema è fuori, in parte o in tutto, anche se la sua esposizione definitiva viene affidata alla cinematografia in cui si colloca, oppure alla filmografia di un autore, oppure al momento storico in cui cade la sua fattibilità. Perché ogni film abbia un «tema» bisogna che la società abbia un «tema», sia carica di certezze, di una finalità visibile, conclamata, credibile. Per Pudovkin e tutti i maestri del cinema sovietico del periodo postrivoluzionario era così. Nell’epoca storica in cui nacque e prosperò il neorealismo italiano è stato così. Allo stesso modo la crisi del cinema italiano di questi anni ‘80 è anche la crisi del «tema» della società nazionale. Non soltanto il cinema italiano ha speso tutta la sua riserva che aveva accumulato a partire dal dopoguerra, ma la società nel suo insieme. Lo sperpero è stato generale e in nessun’altra attività umana, più che nel cinema, si rispecchia la crisi d’identità di un paese, giacché il cinema non vive distante, ma dentro la società, si infetta di ogni malattia che colpisce il corpo sociale. E non esiste nessuno storico più agguerrito del cinema per provarlo e documentarlo con l’insieme dei films che mette al mondo. E ancora una volta ciò che più conta è la quantità dei film. La moltiplicazione dei sensi, la maturazione di nuovi talenti, la scoperta di altre tematiche è assicurata da una produzione numericamente significativa. Una cinematografia che riduce i suoi spazi produttivi rispetto alla sua storia, il più delle volte finisce per ridurre proporzionalmente le sue possibilità espressive.

E’ proprio in questi casi, infatti, che si pretende il massimo delle garanzie industriali e che viene legittimato il rifiuto di ogni tentativo diverso, di ogni avventura. La storia del cinema italiano prova che soltanto una vasta base produttiva consente fughe in avanti, apertura di spazi alla ricerca, possibilità per una scuola di affermarsi, di costruirsi in quanto tale. La riduzione della base produttiva è sì determinata dall’andamento del mercato, ma finisce anche col provocare la riduzione del pubblico cinematografico. La diminuzione delle presenze, cioè, si accompagna a una selezione in negativo, contraddicendo coloro che hanno preteso di accusare la quantità di ogni caduta della qualità. Ma anche la crisi di una società nazionale in cui la caduta verticale dei valori si accompagna a una stasi dell’economia può essere tema superiore di una cinematografia, occasione straordinaria per un’analisi filmata dei malesseri pubblici e privati. Si tratta di assumere lo stato di crisi come tema. E quando ciò accade è il segno che il malato reagisce finalmente, che la malattia regredisce; allo stesso modo, per ragioni diverse eppure parallele, sarebbe stato, a suo tempo, impossibile immaginare film come “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, come “La classe operaia va in paradiso”, come “I pugni in tasca”, “Ladri di biciclette”, “L’avventura” al di fuori del contesto storico in cui la loro realizzazione fu possibile. “La classe operaia va in paradiso” nacque pressappoco così. Da principio esisteva in Petri e in me la voglia di realizzare un film sul mondo operaio. Era il nostro argomento ed era la nostra aspirazione, quanto bastava cioè a definire i materiali da ricercare, a iniziare un dialogo fra noi e con noi stessi. Non eravamo fuori e non eravamo dentro l’universo della fabbrica, stavamo, per così dire, sui cancelli con il nostro passato politico, resi febbricitanti da quanto accadeva, aggrediti dall’impazienza. Da troppi anni svolgevamo la precaria funzione di alleati della classe operaia. La fabbrica era per noi niente altro che una galleria di figure e di oggetti, di voci che sentivamo distanti, irraggiungibili come avviene a volte nei sogni che non si riesce ad afferrare nella loro interezza. Eppure l’operaio e lo studente — questa guardia rossa inattesa — erano i protagonisti assoluti dello scenario fiammeggiante di quegli anni. L’uno immerso nel suo universo rumoroso e stressante, schiavo del suo orgoglio muto, così indecifrabile; l’altro fuori, in posa, davanti ai cancelli della fabbrica, sudato, offeso dallo sfruttamento che gli altri dentro subivano e accettavano. Ed era già un’idea cinematografica, il primo fotogramma, ma il «tema» non c’era. Il materiale che andavamo accumulando rischiava di allontanarci dal soggetto operaio, ci inoltravamo nelle tecniche di organizzazione del lavoro e l’uomo che ne era la vittima spariva, diventava uno dei tanti oggetti, una

macchina. Era come se lavorassimo inquadrando gli operai in campo lungo. Bisognava avvicinarsi di più. L’obiettivo ipotetico che avevamo adoperato fino a quel momento non inquadrava le mani. Dovevamo non soltanto avvicinarci al soggetto fabbrica-operaio-studente, ma tentare un diretto coinvolgimento nostro e nello stesso tempo indagare senza sollevare sospetti, giacché chiunque indaghi per qualsiasi scopo provoca diffidenza, silenzi, menzogne: occorreva, cioè, riassicurare tutti, partecipando ai rischi che ogni lotta comporta, vivendo, in altre parole, da militanti. Sperimentavamo così una tecnica d’approccio che era stata largamente usata nel periodo neo-realistico, caduta in disuso man mano che lo sviluppo economico, l’euforia che provocò, mutò anche il modo di fare cinema. A noi interessava individuare e descrivere il modello di sfruttamento esistente in fabbrica, la distribuzione dei carichi di alienazione all’interno dell’universofabbrica partendo dalle vittime. Non avevamo nemmeno un titolo da dare al film in progettazione. Quando finalmente arrivò, ci aggiravamo già intorno al «tema» come due corsari, perché eravamo in due e la scrittura di un film a quattro mani è un altro problema. Ma andiamo avanti. Cominciammo a presentarci assiduamente davanti ai cancelli di una fabbrica metalmeccanica. Lo stabilimento era situato sulla via Anagnina, nel punto in cui la città brutta e nuova finiva. A qualche chilometro c’era Cinecittà, minacciata di chiusura e smantellamento, ma ignorata dagli studenti. Fuori della fabbrica gli studenti urlavano con i megafoni verso gli operai asserragliati nei recinti, nelle officine, nel palazzo degli uffici, la grande utopia ugualitaria. Li spingevano alla lotta con linguaggio ardente e ardito, colto e agitatorio, nuovissimo e disorientante. I sindacalisti legati al vecchio lessico sindacale erano scavalcati da quei proclami incendiari, zeppi di neologismi. C’era in piedi una lotta, gli incitamenti degli studenti pagavano, per usare il termine dell’epoca, ma facevano anche qualche vittima. L’azienda aveva effettuato qualche licenziamento per ritorsione. Gli operai erano spinti a manifestare all’interno della fabbrica, a formare cortei, attraversare in massa i capannoni, i cortili, gli uffici affinché quelli che continuavano a lavorare intimoriti dalla direzione, fossero spinti a unirsi ai manifestanti. E sempre battendo l’aria nociva con i pugni chiusi, urlando promesse minacciose, ritmando slogans fra il patetico e il pubblicitario. All’uscita, mentre la sirena ancora fischiava, studenti e operai si affollavano davanti alla sezione sindacale, situata al di là della strada che sfiorava il muro di cinta della fabbrica. Le auto, ferme a distanza, della polizia sembravano testuggini in letargo, cariche di impotenza e vergogna. Le discussioni si accendevano e si spegnevano, brevi, urlate, rabbiose. Tutto era cinema e i materiali si

accatastavano davanti ai nostri occhi. I sindacalisti inseguivano quelle lotte, gli obiettivi fuggivano continuamente in avanti, spiazzandoli. Operai e studenti parlavano due linguaggi, ma insieme spingevano perché la lotta diventasse più dura, perché i tempi di lavorazione diventassero più lunghi. E i marcatempo in camice bianco che giravano da un reparto all’altro erano i primi nemici da battere, da umiliare e colpevolizzare. I servi dei padroni erano più odiati degli stessi padroni. In quella selva di facce tese e allarmate, fra quegli occhi febbricitanti di passione e paura inquadrammo una figura intera, un operaio combattivo, un’avanguardia della classe operaia, come dicevano gli studenti. Si chiamava Timperi. Era lui che, spinto dagli studenti, unitosi a loro, aveva iniziato la pratica dei cortei interni, che aveva per primo interrotto il lavoro alla catena, inveito contro i pavidi, minacciato i marcatempo. Ed era stato licenziato. Si lottava per farlo rientrare in fabbrica; dall’esterno della fabbrica, arrampicati sui cancelli, studenti e operai licenziati urlavano nel megafono per incitare i compagni di lavoro a scioperare senza abbandonare la fabbrica. Scontento e disperato, indomabile e impaurito dalla sua stessa audacia, Timperi era l’ultimo prototipo prodotto dalla classe operaia. Divenne il nostro protagonista, si chiamò Lulù Massa. Il primo fotogramma così si riempì della sua figura: equivaleva, proporzioni storiche e qualitative a parte, alla donna che culla il bambino in “Intolerance”. Ma quel primo fotogramma, che il montaggio definitivo chissà dove avrebbe collocato, non era stato scattato senza intenzione, era uscito dall’immaginazione nel momento giusto, a conclusione di una ricerca e di un coinvolgimento. Vi fu, infatti, all’inizio un atto di volontà, c’era un debito da pagare agli operai. Li sentivamo protagonisti della nostra vita, figure della nostra storia personale e piazzammo gli obiettivi affinché invadessero l’inquadratura. Dal momento in cui ci appropriammo di Lulù Massa il soggetto poteva essere tentato: cominciava a scriversi da sé. Discutevamo fra noi senza scrivere, senza fissare nulla. Avevamo fretta e andavamo a rilento. Nel frattempo continuava in ogni direzione l’accumulazione di materiale: parte lo trovavamo discutendo, parte cercandolo altrove. Conoscere, capire dal di dentro e nei dettagli il funzionamento e la filosofia aziendale sottintesa nell’organizzazione di fabbrica, nel cottimo, nel sistema M.T.M. non era più un atto professionale, funzionale al nostro progetto di film, ma un tentativo di risarcimento nei confronti nostri e della classe, perché scoprivamo di esserci schierati per sentimento, per fedeltà alle srcini familiari di ognuno di noi e senza sapienza. Prima di allora l’operaio di fabbrica che conoscevo era scritto sui libri, sui giornali, nei comizi. O lo frequentavamo altrove, lontano dal suo posto di lavoro,

distante dalla fabbrica. Insomma conoscevamo operai dimezzati, uomini senza mani. Bisognava, appunto, vederli agire, lavorare. Cercammo di entrare nelle fabbriche come visitatori interessati più alle macchine che agli uomini. Passavamo fra i reparti sentendo l’odio e il disprezzo degli operai ferirci alle spalle e fingevamo, arrossendo, di essere semplici turisti pieni di curiosità. Una sola esperienza, da parte mia, mi soccorreva: anni prima avevo lavorato prima con Rossellini, poi con Comencini a un progetto suggerito dal libro di Ottiero Ottieri Donnarumma all’assalto, storia di disoccupati napoletani che vogliono a tutti i costi diventare operai e che rifiutano i metodi di selezione dell’azienda in nome del loro diritto al lavoro. Ma intanto i tempi e le aspirazioni erano cambiati, eppure l’esperienza tornava ancora utile. In quell’occasione era stata l’Olivetti di Pozzuoli, lo scenario possibile del film da fare. Ero entrato in fabbrica per la prima volta senza sentirmi odiare dagli operai alla catena. Li avevo osservati a lungo, senza imbarazzo. Gli operai ripetevano movimenti brevi e sempre uguali infinite volte. Il cronometro dava il tempo alle loro dita, ai piedi, agli occhi. Al populista si stringeva il cuore come davanti a una massa di bambini affamati. Il racconto di un vecchio operaio che ricevette Comencini e me nella sua casa linda in collina, divenne materiale in attesa di impiego, perché ben presto il progetto di fil tramontò. L’Italia cinematografica si godeva il suo miracolo economico e le storie di disoccupati in cerca di lavoro apparivano inverosimili. Quel gentile operaio dai capelli bianchi e dagli occhi celesti mi disse che dopo tanti anni di lavoro alla catena tutte le volte che si sedeva al tavolo per il pranzo insieme ai suoi familiari non riusciva a mangiare, a restare seduto se una sola forchetta, un qualunque coltello o bicchiere situato sulla tavola imbandita era fuori posto di un solo centimetro, se, cioè, non rispettava la simmetria. Era costretto, allora, a raddrizzare, a ordinare i pezzi, ad irregimentarli, affinché il gesto per afferrarli potesse essere compiuto nel tempo più breve possibile. Ormai egli considerava il pasto come una fase della lavorazione e si sentiva inconsciamente obbligato a rispettare la tabella oraria. Questo materiale servì a scrivere sette anni dopo una scena de “La classe operaia”. Ma sarebbe rimasto inutilizzato se non fosse stato attivato da una serie di associazioni provocate da molteplici informazioni raccolte in quel ‘68 «maledetto». I rapporti fra Lulù Massa e la moglie di professione parrucchiera non politicizzata li costruimmo dall’intreccio di passate esperienze con acquisizioni fresche, di giornata, all’altezza dei tempi in cui progettavamo il film. Ma ancora il «tema» non era in vista, Lulù Massa si aggirava fra i materiali senza meta.

Quando finalmente immaginammo che un cambiamento profondo, un «rovesciamento» intervenisse nei comportamenti pubblici di Lulù e precisamente allorché egli restava vittima di un incidente sul lavoro, di una mutilazione minima a un dito, avvistammo il tema. II personaggio Lulù ingoiò molte delle nostre confuse intenzioni, eppure ancora il «tema» non ce l’avevamo chiaro, era dentro e non usciva, ma ce ne infischiavamo. Quando finalmente trovammo il titolo del film, nel momento cioè in cui pensammo di intitolarlo “La classe operaia va in Paradiso” afferrammo il «tema». Capimmo che Lulù Massa e gli altri come lui lottavano per un paradiso che si presentava come uno spazio vuoto, delimitato da un muro che gli operai dovevano e volevano abbattere, che il paradiso consistesse appunto nella fatica lunga, forse perpetua, necessaria ad abbattere quel muro che nascondeva niente altro che loro stessi. Tutto ciò divenne il sogno di Lulù rientrato in fabbrica, alla catena, a conclusione della lotta che aveva costretto la direzione a ritirare il licenziamento e un uomo a tornare ad essere macchina, bullone, pompa. Lulù quel sogno sospeso nelle utopie lo racconta ai suoi compagni di lavoro nel frastuono assordante delle macchine che copre la sua voce e trasforma alle orecchie degli altri il senso delle sue parole. E se Lulù Massa fosse tornato da quel sogno con un fiore?

LA TROVATA

Un soggetto cinematografico si scrive con la penna e con la cinepresa. La penna è stretta fra le dita, la cinepresa è situata accanto all’occhio, alla stessa altezza, se non addirittura incorporata nella pupilla dell’occhio dominante. Lo spazio inquadrabile con l’obiettivo, quale che sia la lente, non ha mai l’ampiezza del campo visivo la cui profondità è determinata dall’occhio dominante e la sua larghezza e altezza dall’occhio sub-dominante. Per inquadrare la realtà che ci è davanti ci serviamo di entrambi gli occhi e l’inquadratura che registriamo è più vasta di un fotogramma di cinemascope, anzi è semicircolare, comprende, per restare alla terminologia cinematografica, il campo lunghissimo e il totale. Ogni sguardo in sostanza è un piano-sequenza. Al contrario l’obiettivo delimita l’inquadratura nella misura del fotogramma, cioè circoscritto sia ai lati, sia in alto che in basso. Questa delimitazione del campo, che è propria dell’obiettivo fotografico, deve modellare l’immaginazione del soggettista, imporgli la collocazione all’interno del territorio disponibile dei materiali essenziali in quell’istante della narrazione. I movimenti panoramici possibili con la macchina da presa simulano la mobilità dello sguardo, ma non la raggiungono mai. Lo sguardo ha la stessa ricchezza e complessità della parola, l’obiettivo, proprio perché è strumento di selezione che individua le «cose» da inquadrare, ha capacità analitica e forza discriminatoria, scompone il campo visivo, lo trasforma, rimonta secondo le intenzioni il materiale disponibile. Ma in ogni caso la realtà resta quadrata, circoscritta alle dimensioni del fotogramma. Allo scrittore di soggetti, quindi, la presenza ipotetica della cinepresa incorporata nell’occhio serve a selezionare i materiali letterari, a costringerli nell’inquadratura, a «iniziare» in altri termini quella trasformazione di materiali di qualsiasi provenienza in linguaggio cinematografico. È un processo lungo che non può dirsi terminato che in fase di montaggio. Nel soggetto debbono coesistere materiali letterari e materiali cinematografici, cioè a dire oggetti pensabili e oggetti visibili. Nel soggetto il materiale letterario è prevalente e il soggettista è uno scrittore che vede, che scrive ciò che ha pensato e che ricorda, soltanto se riesce a vederlo sistemato all’interno dell’inquadratura. Nella sceneggiatura, invece, fase successiva dell’elaborazione grafica del

film, prevale l’atto cinematografico. Nel film, nella cosiddetta copia campione, la letterarietà del soggetto deve liquefarsi, distendersi sulla pellicola come un liquido permeabile, trasparente, deve essere percepibile, ma non visibile a occhio nudo. Perché ciò avvenga, il processo «chimico» non può tardare, deve avere inizio subito, dal momento della prima scelta del materiale che si intende usare. Un soggetto si scrive come un racconto: è un racconto in cui lo scrittore non denuncia la sua presenza, si rende invisibile e muto, non azzarda commenti, se usa forme di rallentamento non divaga, invade campi lontani, impertinenti, collegati alla storia che si intende narrare per associazioni multiple. La sua posizione è simile a quella dello spettatore. Il soggettista, in altri termini, anche se parla di se stesso è come se parlasse di altro, dal momento che nelle immagini che saranno filmate egli non ci sarà. Lascia, insomma, parlare i fatti e rende esplicito che si tratta di fatti destinati ad essere trasformati in immagini. Ed è ancora letteratura. La difficoltà assai comune di ridurre a sceneggiatura cinematografica un’opera letteraria deriva proprio dal fatto che un romanzo, a parte l’estensione concettuale e la sua dimensione, non è scritto con la cinepresa infilata in un occhio. Hitchcock dichiarò a Truffaut che egli non avrebbe mai filmato un romanzo come Delitto e castigo perché vi erano troppe parole e tutte con un significato preciso. Generalmente la riduzione cinematografica di un romanzo presenta difficoltà che non sono contabilizzabili in modo uniforme a seconda dell’epoca della sua prima pubblicazione. Intanto perché le difficoltà mutano, si direbbe, in misura inversamente proporzionale alla crescita espressiva del cinema. Un romanzo greco referente di un mondo mitologico è certo più traducibile in immagini oggi che nella più antica epoca del muto. Ancora una volta, cioè, lo sviluppo tecnologico del cinema promuove la sua maturazione espressiva. Prima del cinema il lettore poteva «vedere» gli avvenimenti narrati, imparava a collocarli nel tempo e nello spazio ipotetico del romanzo, quasi che la nascita del cinema ancora inesistente fosse già prevedibile e che la letteratura ne fosse in attesa. I romanzi dell’Ottocento, ad esempio, sono più riducibili in immagini mobili dei romanzi settecenteschi, o ancora più antichi, che in genere presentano difficoltà di sintesi maggiori. Gargantua meno de La Certosa di Parma, I promessi sposi più che Don Chisciotte.

Diverse sono le difficoltà cui si va incontro, se si affronta la riduzione di un

romanzo contemporaneo. Se si escludono i romanzi popolari e di consumo che conservano un andamento ottocentesco, oppure si rifanno apertamente al modello narrativo del cinema più diffuso, il nuovo romanzo sfida il cinema costringendolo a una rincorsa dei modi espressivi che sono propri del romanzo contemporaneo. Ma se quanto esposto può essere assunto con un’accettabile approssimazione, come tendenza di fondo, ogni riduzione cinematografica, peraltro, presenta problemi diversi, suoi propri, che, come ho detto, sono tanto più numerosi a seconda che il romanzo prescelto sia stato creato in epoca più o meno distante dallo sviluppo del cinema, ovvero che sia stato scritto in un periodo in cui il cinema acquisiva sempre nuove possibilità di espressione. II carattere concorrenziale di questa sfida è innegabile. I romanzi di tutte le epoche affidano la loro sopravvivenza nel tempo e la loro diffusione nello spazio a una tecnica che mira per così dire a iscrivere nella memoria collettiva alcune immagini sonore e visive intorno a cui è possibile aggregare i concetti. Dante per La Divina Commedia certamente affida al ritmo del verso, alla sua sonorità la sopravvivenza nei secoli dell’opera. I notai trascrivevano nei loro strumenti a memoria interi canti o parte di essi. Nel romanzo in prosa ci si serve, fra l’altro, dei rallentamenti e così fa anche il cinema. Ma i rallentamenti che Sklovskij cita ne La teoria della prosa a proposito di Don Chisciotte, non sono riducibili in immagini, eppure Don Chisciotte e Sancho Panza come figure, in molti episodi in cui essi vengono coinvolti, sono immagini. Già nelle pagine del romanzo. Ma giacché i rallentamenti «cervantini» sfuggono all’inquadratura per la loro concettualità, il Don Chisciotte al cinema sarà sempre un’altra opera. Non monca, diversa. Ciò che resta è il soggetto, è la trovata ridotta a mera immagine. Prendiamo il “Don Chisciotte” di Pabst a testimone. Un altro Pabst oggi farebbe un altro “Don Chisciotte”, forse più aderente al pensiero e al mondo morale di Don Chisciotte. O forse no. Senza rallentamenti non c’è racconto. Nel cinema cambia la natura del rallentamento ma il procedimento è lo stesso. Ed è significativo che sia toccato proprio agli scrittori formalisti avvertire l’invadenza del cinema e tentare di analizzare e fissare il sotterraneo rapporto esistente fra cinema e letteratura. Valga per tutto non solo l’interesse che il cinema sollevò fra i formalisti russi, ma anche gli intricati rapporti che intercorsero fra le avanguardie letterarie e artistiche contemporanee alla prima età del cinema. Sklovskij allorché si avventura alla ricerca o alla definizione della semantica cinematografica fa opera letteraria, i suoi saggi sul soggetto e su altri momenti del cinema allargano il campo della ricerca, danno dignità al «baraccone», favoriscono la crescita del cinema proprio ponendo al centro dei suoi interessi la

scrittura cinematografica. Sklovskij, in altri termini, dà al cinema un avallo letterario e svela ai letterati l’importanza che il cinema può avere per la letteratura. «Per soggetto» scrive in un saggio significativamente intitolatoLa poesia e la rosa nel cinema «io intendo la costruzione di momenti semantici quasi sempre tratti dalla vita quotidiana, montati in maniera che da principio viene accentuata la loro disuguaglianza per poi essere riequilibrata e viceversa.» Dove la disuguaglianza, è da credere, non sia altro che la «trovata»: un procedimento letterario che il cinema esaspera e denuda con la sua volgarità spontanea ed ineliminabile, con la selvaggia eloquenza delle immagini, con il silenzio della parola che sullo schermo diviene «parlata». Lautréamont proponeva di depositare un ombrello su un tavolo operatorio, proponeva, cioè, un’associazione paradossale fra un uomo e una cosa, determinando in conclusione una disuguaglianza scandalosa. Su questa disuguaglianza ogni intreccio è possibile ed è per chiunque facile verificarlo. Se i chirurghi, impassibili, operano l’ombrello, se i chirurghi strepitano scandalizzati per quell’atto vandalico e demistificante della loro professione ecc. ecc. Un pazzo che gestisce un manicomio, un teatro in cui attori muti recitano per un pubblico di ciechi, uno scassinatore che apre una cassaforte per non rubare nulla, ma solo per vedere cosa contiene come un bambino che squarta un giocattolo, un ateo che si introduce in un confessionale e accetta confessioni da credenti ignari, un poliziotto che uccide la sua amante e lascia infinite tracce per essere individuato, sono materiali sottratti dalla pattumiera della banalità, ma che se vengono lavati alla fonte della genialità, o semplicemente manipolati con accortezza artigiana diventano disuguaglianze cariche di energia combinatoria in grado di produrre innumerevoli temi rispettabili. E ogni disuguaglianza determina una serie di situazioni, incatenate fra loro. Ma anche la figura umana, il corpo, può offrire trovate per lo più nefaste, così orribili da produrre pietà in chi le vede trasformare in immagini e, prima ancora, un vergognoso piacere in colui che rende verosimile il mostruoso con la forza dell’immaginazione. Cito Frankenstein di cui non riusciremo mai a enumerare tutti i rifacimenti realizzati e quelli ancora possibil i. Vi sono trovate che hanno il curioso potere di consentire la progettazione di labirinti senza uscita, di contaminare di angoscia lo spettatore o di farlo emigrare momentaneamente nel passato, nel futuro, nella gioia e nei pensieri senza uscita. Ma anche l’orrore che può suscitare la figura umana è inesauribile. Omero ebbe la somma improntitudine di narrare in un poema di Polifemo, e un

gigante con un solo occhio sulla fronte da allora abita nella memoria collettiva. Che cosa pensare di Dalton Trumbo, scrittore e sceneggiatore famoso di Hollywood, che osò seppellire in un letto un soldato senza braccia, senza gambe, senza udito e senza vista? E che cosa pensare di chi scrive se confessa che ha osato immaginare una donna dal viso sublime, dal seno dolce e misurato, dai fianchi finemente modellati, ma privi di sesso come una bambola? E quale pietosa considerazione bisogna nutrire per Marco Ferreri — il nome dell’eventuale soggettista per tradizione critica è orribilmente cancellato dalla storia del cinema — che sfida lo spettatore servendosi di una donna scimmia? La trovata, in conclusione, potrebbe essere giudicata un pensiero immondo, uno di quei peccati della mente che l’Inquisizione puniva con il rogo. Se fosse vissuto in quei tempi Zavattini, che pure non ha creato mostri, sarebbe stato dato alle fiamme assai prima di “Ladri di biciclette”. Chi, cioè avrebbe mai testimoniato a favore di colui che aveva osato immaginare di essere il diavolo? L’inferno potrebbe essere popolato di scrittori. Dalle fiamme non si salverebbe nemmeno il religiosissimo autore di Wakefield. Hawthorne partiva da situazioni. Borges ha osservato che Hawthorne prima immaginava una situazione e poi cercava i caratteri che le dessero vita (Borges, ltre inquisizioni).

I personaggi li trovava dopo! Per Borges si tratta di un procedimento letterario possibile che può «produrre e permettere invidiabili racconti perché in essi, a causa della loro brevità, la trama è più visibile degli attori, ma non mirabili romanzi nei quali la forma generale (se ve n’è una) è visibile solo alla fine, e dove un solo personaggio male inventato può contaminare di irrealtà chi gli fa compagnia». La misura del soggetto cinematografico è appunto il racconto. Hawthorne ha lasciato nei suoi quaderni di appunti un’enorme mole di situazioni, così come l’immaginava sul momento, ed è un procedimento assai usato dagli scrittori di cinema. Non c’era ancora il cinema, ma lo spunto per un racconto è un fatto nudo, uno schema e il soggettista si serve di schemi. Un fatto è comunque «visibile». In assenza del cinema il racconto «vedeva»; Hawthorne, in un certo senso, prevedeva l’avvento delle immagini in movimento ed era già l’epoca dei dagherrotipi. In una nota del 1838 Hawthorne ha segnato «che si verifichino avvenimenti strani, misteriosi e atroci, che distruggono la felicità di una persona, che questa persona li imputi a nemici segreti per scoprire alla fine che lui è l’unico colpevole e l a causa».

Non potremmo sintetizzare così un film appena visto? La trovata c’è: un uomo suppone che la sua infelicità è attribuibile ad altri, può tentare di individuare questi suoi nemici sconosciuti, ma alla fine della sua ricerca constata che egli è l’unico autore della sua sofferenza. Non è l’ombrello sul tavolo operatorio, non è l’ateo che confessa i fedeli ignari, ma sospettare di altri mentre dovrebbe sospettare soltanto di se stesso è pur sempre una disuguaglianza che produce un movimento. La letteratura ha, dunque, le sue trovate, sunteggiate in poche righe si lasciano vedere anche dai miopi ed è materiale trafugabile senza rischio. Il debito che il cinema deve alla letteratura è incalcolabile, ma nessuna ricerca lo può quantificare. Il cinema paradossalmente cambia la letteratura in un’altra letteratura. Ancora da Hawthorne: «Un uomo ricco lascia nel testamento la sua casa a una coppia povera. Questa si trasferisce nella sua casa, vi trova un losco servitore che il testamento proibisce di scacciare. Questi li tormenta, si scopre alla fine che è l’uomo che ha lasciato loro la sua casa». Hawthorne generalmente compone cerchi: la sua geometria è monotona ed efficace, gli consente intrecci che esprimono dettagliatamente il suo mondo morale. Non è il solo. Una caratteristica molto comune delle situazioni narrative è infatti proprio quella di creare uno schema narrativo circolare. Il rovesciamento si conclude alla fine, si raggiunge la situazione di partenza attraverso una corsa in circuito chiuso. Il traguardo coincide con il nastro di partenza, ma i protagonisti vi giungono esausti, diversi, irriconoscibili a volte. Le situazioni regine hanno forma geometrica, oltre il cerchio c’è il triangolo. Il teatro, la letteratura, il cinema ne consumano senza risparmio: un uomo e una donna si amano, interviene un altro uomo o un’altra donna e si ha un triangolo e s ogni lato si possono costruire teoremi comici, grotteschi, drammatici. A volte questa figura geometrica determina avvenimenti sanguinosi, oppure felicità, ovvero lieto fine. Nella finzione, la vita è sicuramente degna di essere vissuta. Si può immaginare la vita finta e quella reale senza lieto fine? Sopportarla senza un lieto fine, senza questa immaginazione ottimistica? E perché allora dovrebbe essere proibito al cinema ricorrervi? Quale moralista ne può fare a meno per sempre? La morte stessa è una tragedia necessaria e inevitabile, il lieto fine non è che una morte lieta: è una tragedia ottimistica. Morire anche nella finzione è orribile, ma un cadavere può far ridere, diventare un pacco ingombrante, un fantasma in carne e ossa. Troppo macabro equivale ad allegro. I cattivi, i cretini, i pavidi, gli sfortunati, gli sconosciuti al cinema muoiono: ne uccide più dell’atomica, il

cinema. E quando muoiono i buoni, gli eroi, si ha un lieto fine nascosto, un invito a sopravvivere. La narratività, ha fatto del lieto fine un momento di liberazione. Nella commedia, infine, il lieto fine è situato all’inizio della rappresentazione e basta rendere credibile ogni paradosso. La cosiddetta commedia degli equivoci è il paradosso più angoscioso e insieme visibile che si conosca. E in quel sistema che un vivo può essere scambiato per un altro vivo e un morto per un vivo o viceversa. E si ride comunque. L’omicidio è la più comune delle trovate, ma non la si può abolire. Più viene usata, più si moltiplicano le sue possibilità d’uso. Un uomo assassinato nella prima sequenza di un film crea il poliziesco, il racconto analitico. Situato nella parte finale, la vittima determina uno scioglimento dell’intreccio. E’ una pessima fine per i personaggi, ma per lo spettatore è lieto. Più morti promuovono il riso o il ridicolo, insieme a un disinteresse che riduce la morte a mero accidente. Disuguaglianze si hanno ancora se si scontrano per poi abbracciarsi, ovvero scambiarsi i ruoli, un assassino e un poliziotto, un ladro e il suo contrario, un accattone e un ricco sfondato, un pigro e un robot. Basta, dunque, affidare a un personaggio il compito che gli è negato in virt della professione che esercita per scatenare un intreccio: se un prete si trasforma, ad esempio, in poliziotto, se un poliziotto ha una crisi mistica, se un assassino, o un macellaio, si trasformano in chirurgo, all’insaputa del malato. Ma può bastare anche meno: se un uomo, in seguito a un incidente, è immobilizzato in una stanza, purché sia solo, davanti magari a una finestra che si affaccia in un cortile e oltre il cortile, oltre un’altra finestra, un uomo viene assassinato. E’ il caso de “La finestra sul cortile” di Hitchcock. L’omicidio cinematografico spinge lo spettatore a porre una domanda: «Chi l’ha ucciso?» La risposta non può mancare e deve risolvere un indovinello, la pi antica forma narrativa che si conosca. Ma per Hitchcock il «Who do it», come viene in gergo chiamato, la domanda «chi l’ha ucciso?» genera una curiosità priva di emozione. Un uomo assassinato produce infinite varietà di intreccio, in quantità non ancora computerizzabile. Gli fa concorrenza soltanto l’amore. Un rapporto amoroso può generare drammi, commedie, grotteschi, comiche insensate e precipitose, straordinarie aperture e chiusure di porte, sparizioni e arrivi imprevisti. Le combinazioni, però, non sono infinite, ma incalcolabili sono i sistemi di comportamento e relazionali che si possono comporre e scomporre. Ma esistono scambi anche più scandalosi: se una donna prende il posto di un cane, come in Melampus di Ennio Flaiano. Curiosa è l’srcine del nome dato al cane cui, del resto, anche Collodi aveva

fatto ricorso in Pinocchio. Secondo Erodoto si chiamava Melampo colui che fece conoscere ai Greci le «falloferie», le feste del fallo che si svolgevano in Egitto per onorare Dioniso. Flaiano affibbia il nome Melampo a un cane. Il protagonista del romanzoMelampus e del film “La cagna” di Marco Ferreri lascia la sua casa e si rifugia in un’isola deserta in compagnia di Melampo. Vorrebbe vivere come un selvaggio, ripetere l’esperienza di Robinson Crusoe, ma inganna se stesso. Ha con sé gli oggetti della solitudine: una barca, un cane, un giradischi a manovella, carta e matita. E’ un disegnatore di fumetti e dall’isola spedisce regolarmente al suo editore i suoi «cartoons». Come Robinson Crusoe vale poco, soprattutto perché egli ha portato con sé un oggetto che mina la sua solitudine: la nostalgia di una donna. La femmina è un oggetto tanto indispensabile per il protagonista che il suo desiderio si materializza: una donna arriva nell’isola, la popola. E’ Liza. Con lei questo Crusoe fallito instaura un rapporto di coppia. Presto Melampo, questo divulgatore dei riti fallici trasformato in cane, diventa una presenza ingombrante, un essere che sembra impedire alla donna sia di distruggere il suo compagno sia di cadere in uno stato di soggezione animale verso l’uomo, al solo scopo, appunto, di porre in atto i suoi propositi cannibaleschi. Liza così uccide Melampo, diventa la cagna del protagonista e ingoierà l’uomo. Scrive Flaiano: «Si amano, ma soltanto distruggendosi e degradandosi potrebbero ess ere l’uno dell ’altro, forse…». Una donna nemica dell’uomo, al posto di un cane amico. Ecco la trovata letteraria e cinematografica, la scandalosa disuguaglianza, il rovesciamento prodotto dall’immaginario. Ne La promessa di Durrenmatt, invece, torna il procedimento circolare, solo che al traguardo previsto il protagonista, uno stanco commissario, attende invano sulla linea del traguardo il suo antagonista: l’assassino, ma il cerchio si spezza, l’atteso è sì l’assassino, ma non arriva. La promessa è sicuramente nata come soggetto cinematografico, addirittura s commissione, ma è diventato libro, almeno venti anni prima che diventasse film. Ma qui ogni riferimento è al libro. Cito a memoria. Un venditore ambulante si uccide in carcere perché accusato di aver ucciso una bambina. Lo scenario è la placida Svizzera, ma lo svizzero Durrenmatt trova il paese degli orologi a cucù insopportabilmente tragico. E’ proprio perché la Svizzera si presenta amena, salubre, ricca e soddisfatta, ne fa una denigrazione totale. Il cinema non ama la Svizzera, la disprezza quando capita, basti citare il caso di “Pane e cioccolata” di Franco Brusati. Confesso che appunto in “Pane e cioccolata” ho contribuito a fornire della Svizzera un’immagine senza stima.

Il commissario Matthal crede nella conclamata innocenza del suicida e si impegna a scoprire il vero assassino. Il commissario onesto e scrupoloso ai giorni nostri è una singolare disuguaglianza. Ben presto di fronte ad altri tentativi di omicidi di innocenti il commissario intuisce che il colpevole è un automobilista. Non conosce il suo volto e il suo nome, ma sa che si avvicinerà ancora alle possibili vittime in automobile. Il suo anonimato, tutelato con proditoria costanza, è l’emblema di una Svizzera che nasconde con perfidia e arte il suo vero volto. Matthal quel volto vuol vederlo e non ha fretta. La sua pazienza è svizzera. Si convincerà che l’assassino arriverà dove egli l’attende da tempo. Insidierà una bambina; Matthal segue la bambina, spia lei, indaga sui suoi movimenti. Agisce come l’assassino. Ma pure quel volto non lo vedrà mai, eppure esiste, eppure non si è sbagliato, ha scoperto un assassino pedinando una possibile vittima. Tutto è pronto, invece l’automobilista evita di farsi conoscere per puro caso. Mentre si reca sul luogo in cui dovrà perpetrare un altro delitto, dove ora Matthal l’attende, l’assassino ha un incidente automobilistico e muore. La Svizzera non si lascerà vedere mai così come realmente è. Fin qui il romanzo, il lettore sa chi è l’assassino, ma il commissario non saprà mai se la sua indagine valeva. La chiave del giallo è completamente rivoltata, offesa, spezzata nella sua serratura. Cesare Cases in un saggio compreso in Romanzo tedesco nel Novecento afferma che un produttore non avrebbe mai accettato, pena il fallimento, di fare un film che non si risolvesse in quel cambio di moralità e commercialità garantiti dalla scoperta del colpevole. Invece no. Se il poliziotto vede il colpevole, che in realtà ha scoperto, la trovata sarebbe decapitata, l’ovvietà vincerebbe. La commercialità non sarebbe affatto garantita. Uno schema troppo ripetuto viene respinto, consuma la sua spettacolarità. E lo spettatore non ha bisogno di garanzie morali per applaudire. Ma si tratta di un altro discorso: la tecnica del successo non è stata ancora codificata, la misurazione della commercialità non ha ancora il suo metro depositato a Greenwich. Se lo fosse il cinema vivrebbe senza sorprese e senza rischi. Ma nel caso de “La promessa” il colpevole c’è, non viene visto, non viene catturato, ma c’è. Non sfugge al castigo, muore per mancare all’appuntamento con la legge. Subisce cioè un altro castigo. Il caso diventa vendicatore e beffardo, perché nega alla giustizia degli uomini e a uno dei suoi gestori il premio. E’ letteratura o cinema? La divisione in due emisferi non è rintracciabile nemmeno nella scrittura.

Durrenmatt fa letteratura e fa cinema. La parola e l’immagine lavorano insieme. Si direbbe che esista una tendenza superiore che va oltre le tecniche specifiche, secondo cui racconto letterario e soggetto cinematografico corrono verso la loro unificazione, al punto che non saranno più distinguibili, se non per il tipo di stampa cui si ricorrerà per diffonderli. Ma intanto una differenza sussiste. Se scriviamo «Mario si avvicinò a Lucia con il cuore in tumulto» cadendo in una banalità che solo l’intenzione di esemplificazione giustifica, «il cuore in tumulto» non si vede, ma nemmeno possiamo cancellare il fatto che qualcosa accade a Mario e che è convenzione attribuire al cuore la proprietà di registrare i turbamenti. Comunque la cinepresa non può entrare nel corpo di Mario, ma può investigare sulla sua superficie corporea per scoprire e fissare le conseguenze visibili di quel «turbamento, stilare una diagnosi senza ricorrere all’elettrocardiogramma. Se però scriviamo «Mario si avvicinò a Lucia. Il suo passo era lento e goffo. Si guardò un attimo le scarpe, sospirò a bocca chiusa, alzò con pudore gli occhi verso di lei» abbiamo quanto meno indicati dei gesti che possono suggerirci un qualche turbamento di Mario. E’ stata, insomma, usata la penna e la cinepresa, e la letterarietà si presenta cinematografabile. La penna corre sul foglio, usa in questo caso troppe parole, ma la macchina da presa funziona in sincrono e gira. Per scrivere un soggetto è necessaria un’idea e una trovata. Tutto il cinema è segnato da questa duplicità oggettuale, ma anche lo scrittore di cinema si doppia e si sdoppia. Pensa da letterato, scrive da regista. E il rischio è di restare per sempre un fallito, un’eminenza grigia del cinema, un creatore anonimo giacché egli non scrive per affidare al tipografo le sue pagine, ma per affidarle a un traduttore che trasformerà un cumulo di parole magari in una sola immagine, in un’inquadratura che può essere più breve del periodo scritto che l’ha suggerita. Ma guai a lamentarsene! Infelice chi invidia il regista invece di odiarlo per le manomissioni che il suo lavoro subirà. Importante è che il soggettista sia un trasgressore. Quel primo fotogramma di cui si è detto e che è l’idea cinematografica, è il primo indizio che un reato è stato commesso, che la trasgressione è possibile e sarà perpetrata dall a trovata. Né è necessario che la trovata entri nel secondo fotogramma. Indispensabile è che l’idea consenta il suo uso, la sua esposizione, lo sfruttamento spietato e calcolato. All’inizio, a metà, alla fine o in qualunque momento, ma il soggettista deve averla, deve farla scorrere insieme all’inchiostro attraverso la penna, affinché il materiale a disposizione possa essere sistemato in funzione del suo progressivo smascheramento che presumibilmente avverrà allorché la quantità di indizi diverrà allarmante e superfluo ed errato sarà

comunque continuare a nasconderla. Si rischierebbe di ucciderla. Si sente dire «Questo soggetto è una bomba», per indicare l’interesse che una storia suscita. E’ un’espressione del lessico cinematografico che dà plasticamente il carattere deflagrante della trovata. Ma proprio come ogni bomba ha bisogno di una miccia, di un detonatore o di un timer. Un soggetto con due «bombe» è un soggetto sbagliato. Lo spettatore va, per così dire, colpito, ma non bombardato. La «bomba» può essere circondata da una batteria di petardi disseminati con fredda tecnica «terroristica» nelle singole scene o situazioni, questi petardi di vario colore e tonalità, rumorosi o sibilanti sono destinati a scoppiare a giusta distanza fra loro, fino a provocare per «simpatia» le scoppio dell’ordigno collocato nel soggetto. Il soggettista, in altri termini, è un terrorista che usa come arma del suo proposito eversivo esagerazioni, materiali socialmente intimidatori, offese al buonsenso e al senso comune, alla logica corrente, spappolamento dei tabù, confessioni pubbliche, denigrazioni allarmanti, riflessioni sconcertanti, ecc. Si tratta, infatti, di rompere l’ordine dei materiali disponibili così come si presentano, farli saltare per frantumarli, ma anche per moltiplicarli, polverizzando nello stesso tempo il superfluo, il ciarpame che ogni immaginazione tende a svendere, allo scopo di tentare non una restaurazione rassicurante, ma un intreccio capace di produrre insieme allo scandalo la verosimiglianza degli accadimenti, quale che sia la loro irrealtà. Qualche dizionario della lingua definisce brevemente la «trovata» un espediente, un termine che ha assunto ormai una qualità negativa, improponibile nel nostro caso per tutto ciò che si è detto fin qui. Questa disattenzione dei linguisti per le parole del cinema porta a caricare il cineasta di un compito non suo, a vivere nel suo vocabolario, asserragliato nella cultura cinematografica, privo di rifornimenti che pure si attenderebbe da altri tecnici. Questa mancanza di contributi spiega in parte la tendenza dei teorici del cinema a occuparsi prevalentemente del dopo, di ciò che si proietta, trascurando tutte le fasi che precedono quella prima proiezione di un film. La cultura cinematografica, in special modo la critica, sembra soffrire di difficoltà psicomotorie che le impediscono di analizzare, conoscere il «prima» di ciascun film. Quelle rare volte in cui i critici si occupano della sceneggiatura di un film il loro balbettio è imbarazzante. I disturbi psicomotori sono comuni fra i bambini e non è qui il caso di dettagliarne l’eziologia. Esistono bambini che confondono spazio e tempo, cosicché se avanzano in uno spazio dato, ritengono di camminare nel tempo e giacché il corpo non va

indietro nel tempo, lo spazio percorso essi lo vivono come tempo passato, irrecuperabile e intransitabile. Così che tutto ciò che hanno lasciato indietro nello spazio è come perduto nel tempo. Invece se il nostro corpo non può tornare indietro nel tempo, e di ciò che è passato non ci resta che la memoria, può comunque recuperare lo spazio solido ed eterno com’è. Così per chi studia il cinema il film non ha un suo passato, è come se fosse nato, per così dire, da madre ignota. La conseguenza è che si raffina la tecnica critica e non si analizza la fattografia. Anzi la si ignora, la si dichiara di fatto inesistente. Prova ne sia che provoca scarse ricerche, che, per di più, restano seppellite nelle biblioteche universitarie. Torniamo ai bambini affetti da disturbi psicomotori per parlare ancora una volta della trovata e per tentare anche qualche verifica. Se uno di quei bambini, che ancora confonde spazio e tempo, andando, ad esempio, dalla casa alla scuola perde una scarpa, quella scarpa la sente irrecuperabile, non si volta, non torna indietro a raccoglierla e avanza verso la scuola con un piede scalzo. E’ come se avesse abbandonata quella scarpa nel tempo, anziché sulla strada che è tracciata in uno spazio: ecco una trovata suggerita da un comportamento tanto anomalo. Al contrario, se un altro bambino, privo di difficoltà psicomotorie così accentuate perde una scarpa per strada, egli torna a riprenderla, egli sa e sente che può tornare a riprenderla. E ci va: è un gesto naturale. Il suo atto si ascrive in quella quotidianità senza storia e nemmeno scatena una qualsiasi energia combinatoria. E’ cinematografabile perché tutto lo è, può entrare in una sequenza che tende ad altro, è un dettaglio, ma quel gesto comune, logico, produce una rappresentazione priva di immaginazione in potenza. Per distinguere l’immaginazione dalla rappresentazione Eisenstein ricorre ad un esempio dimostrativo, secondo cui un orologio con le lancette ferme una sulle 12 e una sulle 3 rappresenta una figura geometrica, un triangolo ritagliato in un cerchio in cui sono disseminati dei numeri, ma quando un meccanismo muove le lancette, o si ode il tic-tac, che segnala l’impassibile movimento delle lancette, si ha l’immagine del tempo. Il bambino, dunque, che raccoglie la scarpa perduta rappresenta un atto che non tocca l’immaginazione. Non ci comunica nulla di lui, se non che ha una scarpa troppo larga o slacciata. Ciò che possiamo supporre da quel suo atto consueto è poco. Nulla ci allarma, la nostra attenzione riposa. Se al contrario il bambino perde una scarpa e prosegue indifferente e spedito, felice e distratto, la nostra attenzione non può riposare: siamo spinti ad avanzare

congetture, a porci in situazione di attesa; consapevoli che una spiegazione arriverà prima o poi, ché ci è dovuta. Insomma abbiamo l’obbligo di agire da spettatori e l’impegno che ci è stato richiesto non dovrà deluderci. Ma proseguiamo: il bambino si presenta a scuola con un piede scalzo e subito dopo, in aula, lo vediamo afferrare la penna e mostrarci la difficoltà che incontra nello scrivere, gli errori che compie, errori sospetti, come posporre la «a» alla «elle», se intende scrivere l’articolo singolare femminile «la». «Al», cioè, invece di «la». Tutto ciò mentre i suoi compagni di classe scrivono speditamente e correttamente ciò che il maestro detta. L’incapacità di quel bambino ci allarma, anche se non abbiamo nessuna cognizione della dislessia, inoltre siamo gratificati dall’aver constatato che la nostra attenzione non è stata richiesta invano, mentre siamo spinti a intrecciare le due situazioni: scarpa perduta e difficoltà di scrittura e ad avanzare nuove ipotesi, che si accavallano e attendono di essere incatenate fra loro. Situazione chiama situazione, immagine chiama immagine e così via, fino a quando la forza combinatoria della trovata non si esaurisce. La trovata, insomma, non è un espediente, ma un oggetto che calamita i materiali disponibili, selezionandoli, se non ce la fa il suo uso è improduttivo perché incapace di provocare l’aggregazione di tutti i materiali necessari a costruire l’arco completo di una storia da film. E non si tratta di un’operazione esclusivamente meccanica, né tanto meno di un esercizio di sola agilità: ogni rappresentazione ha bisogno di una carica emozionale, ogni avvenimento va rivissuto nel momento in cui diventa trama, sentito come fatto personale, creduto vero, giudicato nostro, come sarà considerato suo dallo spettatore più tardi. Ma andiamo avanti. Il maestro osserva il bambino che non riesce a scrivere, a seguire la dettatura. Evidentemente non è la prima volta che egli constata la difficoltà che il suo scolaro manifesta, lo si deduce dal fatto che nulla è stato descritto per segnalare che si tratti del primo giorno di scuola. Eppure il maestro non è allarmato, non lo aiuta, la sua indifferenza ci avverte che egli considera il suo alunno svogliato, se non addirittura affetto da una menomazione incurabile che, comunque, non tocca a lui intervenire. Non si sforza, dunque, di incoraggiarlo, di capirlo, di risarcirlo con un gesto di tenerezza. Al contrario ne ignora la presenza, se addirittura non lo sgrida, lo umilia o lo esclude dalla sua lezione. Di fronte a tanto disinteresse il bambino è portato a reagire: diventa aggressivo, si fa notare perché tutti si accorgano che egli esiste e nello stesso tempo per nascondere a tutti la sua difficoltà. Così per dimostrare che egli esiste e, per avanzare una protesta, agisce perché venga espulso dall’aula. Ma altri materiali premono, si impongono. Espulso da scuola il bambino torna a casa, tace,

qualcuno avverte la madre e il padre che il figlio è stato punito, escluso dalle lezioni. Il bambino riceve un’altra punizione che egli sente ingiusta. La scoperta poi che è tornato a casa privo di una scarpa provoca interrogatori, e altre angherie. E così di seguito. Altri materiali possono essere aggiunti, entrare nel soggetto, assumere la giusta collocazione. Ma quale che sia la forma definitiva del soggetto, il rovesciamento introdotto dalla trovata denuderà lo stato della scuola, l’impreparazione e l’ottusità dei genitori, il dramma di un bambino che vuole imparare a leggere e a scrivere, essere come gli altri, amato, considerato, visto, perché sa di essere come gli altri ed ha il diritto di essere visto come una persona. L’uso di questa trovata, sommariamente esposta e che peraltro potrebbe provocare altre forme di racconto con diverso assunto, pone in evidenza la trasgressione che è insita nel procedimento di rovesciamento. Rovesciato rispetto alla norma è l’atteggiamento del bambino quando perde la scarpa, così come è rovesciato il comportamento del maestro, dal momento che la norma impone che egli si occupi degli alunni che presentano difficoltà, rovesciato è anche il comportamento dei genitori, il cui modello è rappresentato da San Giuseppe, la Madonna e il Bambino Gesù. Un caso di trasgressione totale che sconvolge più sensi comuni è quello presente nel soggetto “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”. Un uomo che il potere ha delegato a prevenire i delitti e a perseguire gli assassini, fornendolo dell’autorità indispensabile, uccide la sua amante intenzionata proprio durante i cerimoniali intimi, a ridicolizzare il potere. Così agendo quest’uomo del potere trasgredisce la legge morale e la norma del potere, ma, come si vedrà, le due trasgressioni da lui compiute si elidono a vicenda e legge del potere manifesterà maggior forza della legge morale. Ma anche nelle sole vesti dell’assassino egli viola un’altra legge non scritta ma ugualmente operante, secondo cui chi uccide ha il dovere di sfuggire alla punizione e di operare, dunque, affinché non sia individuato. Se ciò avviene la legge criminale afferma la sua superiorità. Il nostro uomo di potere, invece, anziché cancellare gli indizi e le impronte per far sparire le prove, le moltiplica volontariamente, ne cura l’evidenza, spoglia ogni indizio di qualsiasi possibilità di interpretazione ambivalente affinché l’autore del delitto possa essere individuato con assoluta certezza. Questo ultimo rovesciamento del senso comune conferma il ruolo dell’uomo del potere, la legittimità della sua appartenenza che nemmeno una trasgressione può negare, ciò che in compenso diventa esplicito è la natura perversa del potere, l’uso strumentale che può farne chiunque vi appartenga. La polizia, infatti, chiamata a indagare sul delitto, non riconosce attraverso

l’interpretazione degli indizi l’autore del delitto; essendo un uomo del potere è innocente per antonomasia, anzi, questa cecità istituzionale di cui gli investigatori soffrono li spinge a gettare gli indizi a carico di un altro, che, non possedendo la garanzia che il potere dà ai suoi uomini, è perseguibile. La ricerca di un responsabile fuori dell’area del potere consolida l’invulnerabilità complessiva degli organi del potere, perché importante è che ogni delitto sia attribuito a qualcuno e l’onere delle prove compete a chi del potere non fa parte. Né muta l’atteggiamento degli investigatori allorché il vero assassino, l’uomo del potere, per provare fino in fondo la sua immunità, espone sempre nuove circostanze sospette. Lo spettatore che segue l’intreccio, essendo a conoscenza di tutti gli atti dell’assassino, inorridisce di fronte a tanta cecità, ne ha paura, teme addirittura di poter presto cadere vittima di un raggiro altrettanto perverso, ma nello stesso tempo viene a conoscenza della natura del potere. Eppure il rovesciamento che promette la trovata non è ancora totale. L’assassino confessa per lettera finalmente il suo delitto, offre le prove del suo atto criminoso, descrive il movente. I poliziotti non gli credono, lo considerano uno dei tanti mentitori che circolano nella loro istituzione, affermando così che un uomo del potere mente se si dichiara assassino. Affinché egli ritratti la sua confessione e dica la menzogna perché possa essere usata come verità che nessuno può porre in dubbio, lo torturano, allo stesso modo come vengono torturati i presunti assassini reticenti. Finalmente, piegato, l’uomo del potere confessa la sua innocenza, affinché ogni istituto del potere non sia investito da una insopportabile incredibilità. Alla fine del film la vera natura del potere, così come gli autori la vedono, è completamente smascherata. La trovata ha calamitato tutto. Nessun materiale risulta superfluo. In La lettera rubata di Poe una lettera di capitale importanza è carpita in un ufficio; tutti la cercano spasmodicamente e invano, eppure la lettera è sotto gli occhi di tutti. Si tratta di raffinatezza criminale, di un espediente che si basa sul rovesciamento del comportamento ladresco. I ladri nascondono la refurtiva, infatti, e il derubato, forte di questa consuetudine, ricerca la refurtiva nei luoghi più astrusi e imprevedibili. Ciò lo rende incapace di vedere davanti a sé, a pochi centimetri dai suoi occhi. Ci vorrà alla fine la perspicacia dell’agente Dupin per concludere che la lettera rubata non è lontana, ma vicinissima al derubato. E un rovesciamento classico.

Anche in “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” gli indizi vengono esposti perché siano visti e infatti chi deve li vede e li raccoglie, ma rifiuta di leggerli correttamente, anzi è incapace di farlo, giacché essi potrebbero accusare un innocente per antonomasia. Anche la trovata de “La classe operaia va in paradiso” è basata su un rovesciamento, ma secondo un meccanismo diverso, opposto, affidato non a una sequela di indizi inequivocabili, ma ad un accidente minuscolo. In una grande fabbrica in cui la grandezza delle macchine in azione è uguale al rischio che l’operaio manovratore affronta, un incidente di lavoro può provocare vittime e scioperi, indagini giudiziarie ed altro materiale generico, atto a descrivere le condizioni di lavoro di una fabbrica, a fornire informazioni che si presentano come semplici constatazioni, ma che non scatenano l’immaginario. Perché ciò avvenga deve sempre essere introdotta una «trovata», che per la forza del rovesciamento in suo possesso possa rendere possibile il processo combinatorio e lo scoperchiamento dei significati o delle implicazioni. In un incidente di fabbrica se il numero delle vittime è proporzionale all’immensità della fabbrica e all’anonimato della massa di occupati, le vittime non sono altro che un mucchio di manichini senza volto e senza passato e, dunque, costituiscono un materiale ingovernabile, da adoperare come scenario, come reportage, ma che non cattura un soggetto, giacché sullo schermo non tutti i morti riescono a recitare il ruolo di cadavere. I morti e i vivi sono ombre se non vengono riempiti della carne e del sangue di una narrazione efficace e i personaggi restano senza carne e sangue. Ma c’è un’altra regola dello spettacolo cinematografico che impedisce a un gruppo di vittime del lavoro di calamitare i materiali intorno a un progetto di storia. Se l’interesse dello spettatore deve dividersi fra troppe vittime, difficile diventa rivivere, o solo immaginare, le sofferenze di una sola fra le tante. L’indignazione dello spettatore, se è indignazione che si vuole ottenere, non trova un punto focale: è come se l’immagine si presentasse sfocata, ed egli cade nell’indifferenza, non partecipa allo spettacolo cinematografico, diventa un passante costretto a sostare in un luogo qualsiasi. Si sentirà persino defraudato, ingannato, giacché ha visto morire persone che non conosce, nelle quali non intende riconoscersi o verso cui non ha maturato un qualsiasi giudizio. La fabbrica in conclusione, ne uscirebbe assolta, la fatalità trionferebbe, nessuno potrebbe essere colpevolizzato. Tutto ciò si è tentato di evitarlo, infliggendo all’operaio Massa una piccola ferita a un dito. Alla grandezza della fabbrica fa, dunque, riscontro un incidente che non

dovrebbe avere conseguenza alcuna. E invece ce l’ha: è il rovescio. Billy Wilder in “Big Carneval” aveva spiegato che venti uomini in pericolo, sepolti in una cava, non fanno spettacolo. Lo spettacolo ha bisogno di un solo uomo in pericolo di vita. Nulla si dimentica più facilmente che i migliaia di morti di un’alluvione o di un terremoto, tanto più celermente quanto più lontano da noi è accaduto. Ma un bambino che cade in un pozzo, se viene offerto a un pubblico immenso di assistere ai tentativi di salvataggio e al loro fallimento, è indimenticabile, segna un’epoca, perché è stato visto, non è rimasta una disgrazia privata ed esclusiva. Si può convenire con Borges quando afferma che «Le clamorose catastrofi generali — incendi, guerre, epidemie — sono solo dolore, illusoriamente moltiplicato in molti specchi». Ma nulla si può imputare al cinismo dell’uomo, le sue dimenticanze sono l’unico cibo che gli assicura l’esistenza. Bernard Shaw in Guida al socialismo ci ha lasciato una spiegazione liberatoria: «Ciò che tu puoi patire è il massimo che si possa patire sulla terra. Se muori d’inedia soffrirai tutta l’inedia che c’è stata e che ci sarà. Se diecimila persone muoiono con te, la loro partecipazione alla tua sorte non farà sì che tu abbia diecimila volte più paura, né moltiplicherà per diecimila il tempo della tua agonia. Non lasciarti schiacciare dall’orrenda somma dei patimenti umani, tale somma non esiste. Né la povertà, né il dolore sono accumulabili». Le leggi dello spettacolo non solo codificano che la morte è uno spettacolo, a patto che sia al singolare, ma ci pongono di fronte alla conclusione unica e immancabile del nostro futuro. Nessuno è in grado di leggere il proprio destino al cospetto di una catastrofe, gli basta l’orrore, la pietà per gli altri, tutti sentimenti apprezzabili e fuggevoli. Billy Wilder lo prova proprio sbattendo sullo schermo la storia di un giornalista assetato di scandali e di successo che si lancia nell’impresa di trarre in salvo un uomo sepolto in una cava. In quest’opera di salvataggio, in cui il fine è di salvare se stesso più che la vittima, Kirk Douglas vuole essere solo, non vuole aiuti, inganna anzi i soccorritori, perché il successo deve essere esclusivamente suo, la notizia sensazionale deve arrivare soltanto al suo giornale. Il suo comportamento è abominevole, in quanto viola ogni norma di solidarietà umana, ma non è punibile perché permette a ognuno di giustificare la sua personale corsa al successo. La sorte di quell’uomo sepolto nella polvere, che lotta per la sopravvivenza, spalma la vicenda di un cupo umanesimo: egli è doppiamente vittima, sia del lavoro che fa per vivere, sia della sete di successo di Kirk Douglas. La vittima, dunque, è una; ognuno potrà riconoscersi in lui, ognuno potrà anche

riconoscersi nel giornalista, provarne orrore, ma anche giustificarlo se riconosce come sua la sete di successo del giornalista. Il film, insomma, accusa e giustifica alla pari, e il mito del successo americano resta in prima pagina giacché nessuno può sottrarsi alla possibilità di successo che gli viene offerta, che poi tale «dovere» imposto da un modello di vita in generale e di giornalismo in particolare, provochi una vittima condanna quel giornalista, ma non la società che lo produce. I giornali hanno il diritto e il dovere di avere le notizie in esclusiva, gli americani debbono lottare per il successo. In fondo se l’uomo sepolto nella cava si fosse salvato proprio per merito di quel giornalista che invece ne ha favorito la morte, avrebbe avuto il suo successo, sarebbe uscito dall’anonimato, sarebbe stato scambiato per un eroe. Ed è ancora a favore del mito americano che intorno a questo luogo di dolore, di successo, di cinismo e pietà, si celebra la fiera del consumismo. La gente richiamata sul posto dell’accidente ha diritto di bere Coca-cola, di acquistare souvenirs. Non ha cuore, ma non ha colpa se gli è stato strappato. La «trovata» usata da Wilder è carica di spietatezza e di ambiguità, accusa ed esalta. Gli autori non si compromettono, espongono con distacco lo stato del paese in cui vivono. Non denunciano e non si indignano e perché dovrebbero dal momento che essi partecipano ai benefici di quel sistema? Eppure il documento è indimenticabile ed eloquente; lo spettatore lo conserva nella memoria, fuori dal cinema, lontano dal film, confrontato con altri casi della vita propria o di altri è spinto alla riflessione. Certo il ritratto che dell’America fa “Big Carneval” è quello di un paese trionfante, che può mostrarsi qual è senza rimetterci nulla. Ed anche se è un ritratto eseguito da un europeo invidioso, resta un monumento all’America costruita col fango, anziché col marmo, e proprio per questo è credibile e affascinante, memorabile. Ma per chi? Per l’americano? Per l’italiano? Per entrambi. Le reazioni emotive, in questo caso dello spettatore italiano e di quello americano, non sono paragonabili. Possono essere opposte, determinate da differenti sistemi di giudizio e ciononostante la trovata funziona, conserva ovunque la sua indomabile efficacia, quale che sia la composizione della platea. Vi sono, cioè, trovate universali e trovate regionali, meccanismi morali condividibili ovunque e da tutti e altre che si impongono in un territorio ristretto capaci di provocare una reazione opposta, comunque imprevedibile se mostrate in un’altra platea, in cui domina un’altra cultura e si è imposto un altro modello sociale. E’ cronaca di ieri: nei pressi di Roma un bambino cade in un pozzo. Tutta l’Italia assiste ai tentativi per salvarlo, in diretta, per televisione, la gente accorre intorno al pozzo maledetto, una ciurma di nani si offre di infilarsi nello strettissimo pozzo per salvare il bambino. Tutto è inutile. Ma l’avvenimento così

simile alla «trovata» di “Big Carneval” mostra un altro paese, non migliore e non peggiore dell’America, ma diverso. Tornando a “La classe operaia va in paradiso” la «trovata» del soggetto è addirittura un dito. Nella fabbrica popolata di uomini scontenti, ciò che trasforma Lulù Massa, l’avvenimento che rovescia il personaggio è appunto una ferita a un dito. Lulù Massa è un operaio dedito al crumiraggio nei giorni di lotta, sempre pronto ad aumentare i ritmi di lavoro che i «capetti» gli dettano; isolato dagli altri, ne subisce il disprezzo e le beffe, ma allorché si ferisce il dito, tutta la sua morale, il suo corpo, la sua vita familiare entrano in crisi: la ferita al dito gli rovescia la vita. E il fatto che sia bastato un avvenimento così comune e privo di conseguenze lunghe, svela la debolezza delle sue posizioni politiche, la superflua testardaggine con la quale le sosteneva per sentirsi diverso dagli altri, il costo umano del suo isolamento. Senza quella ferita-trovata Lulù Massa non avrebbe mai scoperto il disprezzo di cui godeva presso i suoi compagni di lavoro, il suo errore quotidiano, i suoi dolori privati. Avrebbe continuato ad accontentarsi degli elogi dei capetti di fabbrica e a non vedere, a morire nella massa, a sentirsi un bullone. E come, al contrario, il soggetto avrebbe grondato lacrime e sangue, retorica e inverosimiglianza, realismo zdanovista e populismo ottocentesco, se il povero Lulù Massa, cui il lavoro alla catena distorce anche la virilità, avesse ritrovato la coscienza di classe e la conoscenza di sé in seguito a un incidente di lavoro che gli avesse fatto perdere le gambe o le braccia. Avrebbe in questo caso ritrovato pure la coscienza di classe, ma avrebbe perso… la testa e con lui il suo autore. E’, dunque, proprio la dimensione di quella ferita che rende il personaggio umano e vero, all’altezza dei tempi in cui la vicenda si colloca. Ma Lulù Massa diventa, per caso, un operaio cosciente e obbediente? Sposa la politica che il sindacato porta avanti? Sarebbe certo piaciuto ai burocrati della sinistra, ma Lulù sarebbe restato un manichino, un burattino consenziente e muto. Invece diventa carne, il rovescio lo salva proprio perché tradisce l’attesa dei nipotini di Zdanov. Lulù, infatti, come a recuperare tutto ciò che ha perduto, la falange del dito e il suo passato di operaio, quasi a risarcire i compagni di lavoro della sua lunga diserzione, entra in crisi. Tutta la sua moralità, il suo corpo, la stessa vita familiare vengono investiti dall’urgenza di essere, ma non sa misurarsi, diventa un ribelle, un agitatore, abbraccia l’utopia degli studenti, si unisce a loro, sceglie la lotta dura, vede la fabbrica con altri occhi e la mostra agli spettatori finalmente

qual è, ma, nello stesso tempo, esperimenta a sue spese il distacco ancora esistente fra chi il socialismo lo sogna e chi lo deve costruire. La ferita è piccola, eppure tanto profonda da raggiungere la coscienza, il suo occhio entra in se stesso e finalmente può vedere tutto: la vita dell’operaio nella società, nella famiglia, l’invivibilità dell’esistenza, la fatica che si fa a inseguire un sogno di riscatto. In “Delitto d’amore” di Luigi Comencini la «trovata» si serve di due rovesciamenti uguali e contrari. Lui, un operaio del Nord professionalizzato, di famiglia operaia, si innamora di un’operaia del Sud da poco immigrata. Entrambi lavorano nella stessa fabbrica, nel corso della vicenda amorosa ognuno tenta di appropriarsi dei costumi, dei pregiudizi, del moralismo dell’altro, di tutti i rituali antropologici codificati in una realtà diversa. Ed è l’amore proletario. Mentre lei, per farsi accettare, tenta di mostrarsi diversa, spregiudicata secondo il modello di quei paesi e di quell’ambiente, a sua volta lui vuole accettare i costumi tradizionali e i comportamenti della ragazza che ama. Assistiamo, dunque, a uno scambio delle rispettive strutture antropologiche e culturali e sappiamo che non è solo la forza dell’amore a spingerli a tanto, ma una latente insoddisfazione che ognuno avverte per il proprio modello culturale. Ma questo progetto di felicità concepita come sposalizio di due culture, come rifiuto di una separatezza disumana che la fabbrica pretende in nome della produzione e del profitto, diventa luogo di tragedia. La fabbrica viene indicata come il luogo in cui gli uomini, sia pure facendo lo stesso lavoro, subendo uguale sfruttamento, disperdono e ritrovano quotidianamente la loro coscienza di classe. Ben presto lei è colpita da un male incurabile contratto in fabbrica. Lui è disperato, vuole viverle vicino il tempo che le resta da vivere e giacché l’ha posseduta, vuole che muoia onorata, come ogni ragazza del Sud. Vuole sposarla, ma la sua adattabilità non arriva al punto di rinunciare ai suoi principi. Per quanto l’ami non può sposarla religiosamente e lei si rende conto che deve accettare questo rifiuto che in punto di morte le pesa e la condanna all’inferno dei padri, ma che ormai è l’unica prova d’amore che può offrirgli, giacché lei non muore d’amore, ma di sfruttamento, all’uomo che ama non può donare che l’anima di cristiana. Così il matrimonio è celebrato dal sindaco accorso al letto della morente, in una stanza affollata di facce meridionali. Ma quando lei muore fra le braccia del marito, il settentrionale vuole vendicarla, perché è stata offesa, disonorata dalla fabbrica e non da lui e può farlo soltanto ricorrendo a un atto di rivolta individuale: armato della pistola che

lei portava nella borsa, con un gesto contadino che dichiara l’impotenza della classe in un momento storico che pure si presenta gonfio di tutte le speranze, uccide il padrone della fabbrica, che egli individua come l’uomo del disonore. Il suo atto si carica così di tutta la cultura contadina meridionale, ne ripete i rituali: la sua pistola non viene puntata contro un uomo che ha offeso la sua donna, che le ha mancato di rispetto o che l’ha desiderata, bensì contro colui che, creando la fabbrica, ha imposto le condizioni atte a produrre merce e morte. Ma gli esempi fin qui citati non saprebbero che farsene delle «trovate» usate se fossero stati scritti in un contesto storico diverso. “Big Carneval” girato oggi offrirebbe un’America falsa, troppo sicura e trionfante per non apparire anacronistica. “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” risulterebbe largamente al di sotto dell’arroganza che oggi il potere esercita. “La classe operaia va in paradiso” suonerebbe come mistificazione dell’attuale livello di scontro; e così vi a. Perché la pertinenza di un soggetto, la sua capacità magnetica di aggregare materiali si misura davanti a un’ipotetica gigantografia della società, sistemata sullo sfondo in tempo utile. Se la gigantografia è coperta, o ingiallita dal tempo, consumata dagli avvenimenti, anche la «trovata» concepita in un altro tempo ingiallisce ed il rovesciamento non ha più la forza di essere eversivo e scoperchiante. Prendiamo ancora il caso del bambino che perde la scarpa e ha difficoltà di lettura e di scrittura: si tratta di un progetto di soggetto che ha il suo tempo ed il suo tempo è questo momento. Non il dopoguerra, né gli anni ‘50, né il ‘68. L’attenzione ai problemi della scolarizzazione è proprio di questi anni recenti, l’educazione scolastica è uscita dal segreto, di scuola si parla sui giornali, una vasta pubblicistica si dedica a denunciarla, a conoscerla, a preventivarne lo sviluppo e la decadenza. Inoltre siamo nell’epoca della scolarizzazione di massa, in condizioni cioè di constatare che fra le tante disfunzioni della scuola c’è la difficoltà dell’inserimento dei disadattati. Affrontare di conseguenza in un film o in dieci films tutta la problematica che il tema comporta, significa intervenire non solo in funzione sociale, non solo favorire la conoscenza e l’approccio al problema, ma soprattutto creare personaggi, raccogliere indizi sui delitti impuniti dell’uomo, scoprire gli altarini della società, carpire nuove immagini della vita che ci assedia. E’ la funzione dello spettacolo. Ogni epoca, dunque, ha i suoi soggetti ed essi invecchiano perché hanno la stessa longevità della generazione cui appartengono.

Se un soggetto è scritto e realizzato quando è il suo momento, il film che ha suggerito diventa testimone di un’epoca. Solo ciò che resta nei cassetti muore e in ciò un soggetto cinematografico denuncia la sua caducità, la dipendenza dal mezzo tecnico. Proviamo ad immaginare che soltanto oggi il soggetto di “Ladri di biciclette” fosse estratto da un cassetto: quei fogli ci apparirebbero lettere senza mittente, un produttore potrebbe chiedere sarcasticamente: «Dov’è la “trovata”?» «Non c’è» risponderebbe lui stesso e a ragione. Perché la «trovata» di “Ladri di bici clette” è l’aria, l’aria di quel tempo. Il film si svolge all’aria, dopo migliaia di films senza aria, soffocati nel chiuso dei teatri di posa, nella cartapesta e fra i mobili puzzolenti di deposito. “Ladri di biciclette” esce all’aria, rovescia, innanzi tutto, il modo di fare cinema. Un uomo che ha la faccia di tutti noi, se cerca una bicicletta che gli è stata rubata e che pure gli è indispensabile per lavorare, è un personaggio che distrugge mille personaggi del cinema che l’anno preceduto, capovolge agli occhi di tutti il senso dell a vita. Che basti il furto di una bicicletta, questo arnese da diporto, per cambiare il giorno e la notte di un umile, fa di quel velocipede l’emblema di una condizione umana, l’oggetto del dopoguerra, e il derubato e suo figlio pedalano nella storia. È, insomma, una «trovata» che non si vede, che si è come sciolta nel film. Che cosa esce nello stesso periodo dalla fabbrica di Hollywood? I suoi teatri di posa sono monumenti imponenti, alla pari della statua della libertà. Non si rubano biciclette in quei teatri, non avrebbe senso. Nei films non c’è aria, gli oggetti di uso comune, il fabbisogno di scena sono le pistole, i mitragliatori, le automobili spyder appesantite di piombo e gangster, le belle case, la gente in smoking e i reduci dell’Europa si lamentano, ma l’oscuro protagonista sempre nascosto è il benessere. I soldi sono soldi, ma nello stesso tempo la richiesta di prestigio è altissima in ogni sfera sociale. Comunque non si recita a soggetto, gli attori non vengono presi dalla strada, sarebbe troppo uno smacco, sarebbe dichiararsi perdenti o miserabili. Ma l’atmosfera è spesso tenebrosa, oppure allegra, luminosa, ma è una luce che non ha niente di solare, la diffonde senza parsimonia il parco lampade. “Mildred Pierce” di Michael Curtiz è del 1945. Segnerà il ritorno di Joan Crawford, ma non è più una donna fatale: è una madre. E’ il primo rovescio: da donna fatale a madre incompresa. La diva dalle grandi labbra indossa il grembiule da cameriera, ma per poco, perché in America si cade e si risorge e i tempi dell a rival sa sono stretti.

Joan Crawford ha educato la figlia Ann Blyth dal volto levigato, le labbra sottili, l’espressi one spietata, al l usso. Tutto ciò coincide con la fine di una relazione matrimoniale. Mildred si separa dal marito e per continuare a fornire alla figlia il lusso a cui l’ha educata, deve lavorare, si trova un posto di cameriera. Non un lavoro d’ufficio, qualcosa insomma che possa rappresentare una continuità sia pure apparente con il prestigio e il denaro che le forniva il marito. No: deve fare la cameriera, la caduta deve essere verticale, la sua posizione deve essere rovesciata, eppure il dramma non è lacrimevole, il melodramma resta, per così dire, sotto i divani della casa. Dirà la Crawford: «Una sola cosa mi preoccupa, che un giorno mia figlia scopra che faccio la cameriera». Sembra che tutto avvenga in Europa, ma è questione di un attimo. Ann Blyth scopre l’attività materna e non si commuove, al contrario afferra il grembiule di sua madre e lo regala alla cameriera che ancora può permettersi. Per ringraziarla, in sostanza, la figlia non trova di meglio che umiliarla. Questa figlia non usa la pistola, non le serve, e Dillinger si aggira come uno spettro nella casa di Mildred. Ma l’America è grande. Una cameriera sgobba e diventa proprietaria di un ristorante e giacché insiste con successo ne mette su addirittura una catena. Insomma diventa tanto ricca, come non era mai stata. Ann Blyth può avere tutti i vestiti che vuole, li accetta, ma odorano troppo di cucina, di margarina, di hamburger, di cipolla e per lei sua madre porta sempre il grembiule ed è una visione insopportabile per la Blyth. I figli, insomma, cresciuti durante la guerra vittoriosa, sono diventati snob. Le srcini sociali in un paese di pionieri, se sono modeste, non rappresentano più un vanto, ma una menomazione, una ferita che non si rimargina. Ma l’energia combinatoria che produce la «trovata» non si esaurisce qui. Mildred ha una relazione con Zachary Scott. Era indispensabile, del resto, che la Crawford, abbandonata dal marito, avesse la sua rivincita. È una diva, ha due labbra carnose che resistono e sono fotogeniche nonostante gli anni: debbono, dunque, essere stampate su una bocca d’uomo. Cosi le esigenze commerciali sposano il romanzo americano di genere. Scott, infatti, non è povero e non lavora: è ricco e i pregiudizi di Ann Blyth sembrano trasferirsi a carico dell’amante della madre, e non c’è nulla di dozzinale in questo nodo dell’intreccio. «Tu mi disprezzi perché lavoro per vivere, vero?» dice Mildred al suo amante: ed ha fatto centro. Ma l’America è di chi lavora per aver successo, gli altri sono dei falsi

europei, dei vittoriani in ritardo. Lo spettatore non ha dubbi, sta con Mildred, ma siamo ancora in un’epoca in cui il lavoro si santifica se porta al successo, se produce prestigio e benessere, non sicurezza, ma abbondanza di beni materiali. E gli europei invidiano questo mondo senza biciclette. E Anny Blyth è sconfitta, ma è disperata perché ha confuso la scalata sociale con la ricchezza senza sudore, quella che gli americani non possono avere perché le loro radici sono fresche e delicate come quelle di una pianta di granturco. Lo spettatore europeo che esce dal cinema dopo aver visto Mildred, se entra in un altro locale per vedere “Ladri di biciclette” interrompe il sogno, soffre, ma è in famiglia, a casa sua. A New York l’americano che si siede in poltrona in un cinema semivuoto per assistere alle vicende di un attacchino che viene da lontano, non rivive, non si identifica con la dura sorte di Lamberto Maggiorani: egli è sorpreso, incredulo, come di fronte a un incubo. Sarebbe spinto a gridare: «Non è vero!», ma tace, perché sa che è vero. Ed è una regola fondamentale dello spettacolo cinematografico la sorpresa. In “Mildred” lo spettatore americano, invece, rivede se stesso, il suo paese, lo riconosce ed è un’altra regola fondamentale: sbattere sullo schermo ciò che è risaputo, oppure ciò che non si immagina possa esistere, perché è «al di fuori» del magazzino dell’immaginario dello spettatore. Eppure fra Mildred e “Ladri di biciclette” c’è qualcosa di comune: è l’etica del lavoro. Mildred vuol lavorare; Lamberto Maggiorani deve lavorare: è disposto a rubare pur di non perdere il lavoro, così come Mildred non si vergogna di indossare il grembiule di cameriera. Ma sarebbe del tutto vano attendere che Hollywood ci invii oggi qualcosa che contenga tutti i materiali di Mildred: altra cosa è diventata l’America. E giacché altra cosa è diventata Roma, scenario di “Ladri di biciclette”, ridotta a pezzi l’etica del lavoro al di qua e al di là dell’Atlantico, anche il soggettista è cambiato: è un altro. Lo spettatore non ha tempo di guardare dentro di sé. Come il bambino dislessico di cui si è detto, se perde, invece della scarpa, un fotogramma del dopoguerra, non può fermarsi a raccoglierlo, ma sa che quel fotogramma continua ad esistere, è anzi posseduto da tutti, solo che egli non ne ha l’esclusiva.

LA SCALETTA

«Niente è più evidente del fatto che ogni intreccio degno del nome deve essere elaborato fino al suo “denouément” prima che si tenti la stesura da qualche parte. Solo tenendo presente il “denouément” si può dare a un intreccio il suo necessario aspetto di connessioni causali, facendo in modo che in ogni punto gli avvenimenti, e soprattutto il tono, segnino lo sviluppo del disegno» ha scritto Poe nel suo saggio Filosofia della composizione. Secondo Dickens, Godwin scrisse a ritroso il suo Caleb Williams: «Egli dapprima imbrogliò il suo eroe in un groviglio di difficoltà, formando il secondo volume e poi, nel primo, si sforzò di trovare delle giustificazioni di quanto aveva fatto». Julien Green, invece, aveva un metodo opposto, almeno stando a quanto riferisce Arbasino nel corso di una lunga intervista a Borges. Green, insomma, procedeva così: «Quando sono di fronte alla prima pagina di un nuovo romanzo, a un’immagine, per esempio un ragazzo dai capelli rossi, che forse è un assassino e a un certo momento esce di casa e io non so assolutamente che cosa succederà alla pagina due, alla pagina tre, allora mi lascio andare seguendo questa immaginazione». E Borges ribatte a proposito di Green: «E’ molto coraggioso. Io no, io conosco sempre l’inizio e la fine dei miei racconti e delle mie poesie e di qualunque cosa scriva. Non so quello che succede “in mezzo”, fra le due parti e allora devo scoprirlo. Come se fosse un’isola». Si tratta di tecniche letterarie espresse con civetteria, ma tutte ugualmente legittime. Nessuno più di Poe — all’altezza dei suoi tempi e oltre — ha messo in piazza la sua scienza della costruzione letteraria, allorché ha analizzato e descritto il processo creativo de II Corvo. Anche per scrivere un soggetto cinematografico occorre possedere una tecnica della composizione e una metodologia suggerita dall’esperienza e dalle proprie attitudini. Il quadretto patetico dello scrittore che, afferrata al volo l’ispirazione, scrive di getto il romanzo, la poesia, è stato ormai schiodato da molte pareti ed è finito in soffitta. Qualsiasi creazione ha, per così dire, un suo indimenticabile passato e non basta nasconderlo o ignorarlo. E’ in questo passato che inizia a costruirsi la trama dei fatti e delle emozioni e

la loro reciproca compenetrazione, così che l’atto materiale di scrivere è soprattutto lavaggio delle decalcomanie che l’immaginazione spedisce in superficie, processo aggregativo dei materiali e loro ordinamento ritmato, dosaggio degli effetti principali, ricerca di una struttura atta a esprimere le intenzioni. Per uno scrittore di cinema il problema della forma espositiva di un soggetto presenta difficoltà di esclusiva peculiarità del mezzo di espressione cinema. La tecnica della composizione, cioè, serve a individuare le immagini da includere in quella visione rettangolare imposta dalla macchina da presa situata ipoteticamente nell’occhio. Questa delimitazione di campo dell’immaginazione impone tecniche adeguate, certamente fuori da ogni rigidità, ma pur sempre atte alla costruzione progressiva delle immagini, al loro fissaggio logico all’interno di un arco narrativo. Più che nel racconto destinato alla stampa, dunque, si impone uno schema che consenta tutte le verifiche, in quanto lo scrittore di cinema opera in vista di una trasformazione della parola scritta in sequenze d’immagini. Il letterato, invece, non lavora in vista di una trasformazione e, quindi, il suo schema più facilmente può essere soltanto mentale, interno alla sua immaginazione. Scrivere per lui è un atto conclusivo, per il soggettista è un mezzo che deve consentire un’altra rappresentazione, il più delle volte affidata a terzi. Lo spettatore, del resto, rispetto a chi scrive è più distante del lettore; più numerose sono le mediazioni che intercorrono fra i vari momenti. Questa diversità delle finalità suggerisce procedimenti concorrenziali, non cancella la letterarietà del soggetto cinematografico, ne fa, invece, un genere letterario. Spesso un film non rassomiglia affatto al soggetto che l’ha suggerito, ma resta il fatto che un film esiste perché è stato scritto un soggetto e che da esso si è partiti per effettuare una trasformazione. Vi sono, cioè, soggetti che altra funzione non riescono ad avere se non quella di scatenare altre immaginazioni, di suggerire magari una manipolazione diversa della trovata in essi contenuta. Prendiamo “Ti scrivo questa lettera”, il soggetto di cui ho già parlato. Un bracciante analfabeta, attivo nelle lotte di emancipazione del dopoguerra, impara a leggere e a scrivere usando come quaderno un muro di casa, come libro i manifesti affissi nelle strade. Nel corso di questa sua solitaria opera di apprendimento incontra una contadina che ha la sua stessa febbre di sapere, la stessa urgenza di imparare a leggere e a scrivere. Decidono di proseguire insieme in quella loro fatica che non li libera dalle altre fatiche. Man mano che imparano a leggere e a scrivere i due si innamorano, il bracciante scopre il valore dei sentimenti, la contadina la necessità dell’impegno politico. Finalmente un giorno il bracciante innamorato, timido per quanto è

estroverso nei momenti di lotta, può dichiarare alla ragazza il suo amore scrivendo per la prima volta una lettera che inizia appunto con una frase tipica e semplice che svela i suoi progressi e i limiti che gli restano. «Ti scrivo questa lettera per farti sapere che ti voglio bene.» Ma questa lettera d’amore il bracciante la scrive su un muro in caratteri cubitali, così che non solo possa dimostrare la grandezza del suo amore, ma anche vincere ogni timidezza e comunicare a tutti il suo sentimento per lei. Questo soggetto qui riassunto in poche righe può avere, come qualunque altro, molteplici trasformazioni, la trovata iniziale può subire ogni tipo di camuffamento. Basterà che resti quel muro perché la trovata sia trafugata interamente e perché si possa affermare che l’idea cinematografica che l’ha scatenata non è stata rifiutata. Basterà, ad esempio, collocare il personaggio analfabeta in un diverso contesto storico e sociale. Se il bracciante diventa un brigante, se l’analfabeta è una donna che vive in una baracca alla periferia della città, oggi: in entrambi i casi avremo fìlms che modificano il soggetto senza rinnegarlo. Se poi collochiamo il nostro bracciante, magari trasformandolo in operaio senza qualifica, conservando comunque il muro-quaderno, avremo ancora un altro film e la trovata del soggetto srcinale avrà svolta interamente la sua funzione provocatrice e combinatoria. Tuttavia ognuna delle scelte ipotizzate indicherebbe una propria singolarità, l’appartenenza, cioè, a distinte aree culturali del soggettista e del manipolatore, le grandi modifiche che, di conseguenza, verrebbero apportate al soggetto srcinale ne cambierebbero il tono, l’intento, lo stile, senza peraltro che l’idea iniziatrice e la trovata spariscano. Hitchcock, trasformazioni tanto radicali del soggetto srcinale, che nel suo caso generalmente erano desunte da un’opera letteraria, ne ha commesse spesso. Una per tutte: “Gli uccelli”. Stenterebbe chiunque a riconoscere che il film è stato tratto da un racconto di Dafne Du Maurier. Ciò che di quel racconto interessò Hitchcock fu soltanto l’improvvisa e imprevista aggressione da parte di uno stormo di uccelli a un essere umano. Esemplare rovescio di un senso comune secondo cui sono gli uomini ad aggredire gli uccelli. «Ho letto il racconto e mi son detto:» ha confessato Hitchcock a Truffaut «ecco un trucco che faremo. Facciamolo. Ma non avrei girato il film se si fosse trattato di avvoltoi o di uccelli da preda. Quello che mi è piaciuto è che si trattava di uccelli comuni, di uccelli di tutti i giorni. Fin dal 1945, quando si parla della fine del mondo, si pensa evidentemente alla bomba atomica. Non ci si aspetta che

al posto della bomba atomica ci siano migliaia di uccelli.» Perché, c’è da chiedersi, gli uccelli comuni e non gli avvoltoi? Evidentemente vi era bisogno di uccelli rassicuranti, notoriamente innocui perché il rovescio fosse esem plare. L’avvoltoio è un uccello predatore, aggressivo: si racconta che aggredisce gli uomini e, dunque, vederlo fare in un film non avrebbe costituito una gran sorpresa e non avrebbe avuto lo stesso significato che Hitchcock ha voluto dare con uccelli più familiari e docili. Il fatto che l’aggressione di una donna venisse eseguita da gabbiani dava l’idea di un cambiamento catastrofico delle leggi della natura, come lo è anche l’esplosione di una bomba atomica. Nel periodo del neo-realismo, proprio nei suoi anni confusi e trionfali accadeva frequentemente che il soggetto subiva travestimenti, rovesciamenti salutari o maldestri, ma era la stessa natura del neo-realismo, il suo turbinoso insorgere ad autorizzare quei tradimenti non punibili. Carlo Lizzani ha notato, in una testimonianza compresa inL’avventurosa storia del cinema italiano, che «Intorno ai capolavori del neo-realismo lavorano crepuscolari e verghiani, proustiani raffinatissimi e surrealisti, marxisti e idealisti, partigiani di De Santis e di Sainte-Beuve, apostoli del decadentismo e neo-veristi ri gorosi, r iscopritori di Belli e del Porta, come appassionati lettori di Ungaretti e di Cardarelli, joyciani e steinbeckiani, seguaci di Hemingway come di James e di Kafka». Lizzani, dunque, cita le sole preferenze letterarie di coloro che scrissero il neorealismo, quasi che la passione letteraria sorpassasse l’interesse per il cinema. In realtà nel periodo fascista era arduo coltivare la passione per il cinema, difficile allargare le informazioni: i films stranieri non circolavano nemmeno negli istituti di cultura. Qualche film sovietico era stato visto clandestinamente da pochi eletti; assai più conosciuto era il cinema francese del famoso decennio. Se si aggiunge che alla sceneggiatura di un film partecipavano in media quattro fra cineasti e scrittori, sarà facile arguire che ogni soggetto era, innanzi tutto, fonte di disaccordo, proprio perché si scontravano personalità di varie estrazioni culturali. Ma non solo noti letterati si nominarono soggettisti e sceneggiatori; il caotico crescere della produzione nazionale, la mancanza di nuovi quadri favorirono i pi diversi inserimenti. In una stessa équipe di sceneggiatori si potevano riunire letterati e illetterati, scrittori e giornalisti, medici e architetti, militanti politici ed elzeviristi, umoristi provenienti dai giornali umoristici ed ex partigiani superstiti di esperienze straordinarie. E ugualmente caotica ed estemporanea era la scelta dei soggetti, la loro

stesura. Vi erano cineasti più esperti ed introdotti che in una stessa giornata riuscivano a partecipare alle riunioni anche di quattro sceneggiature. A volte per scrivere un soggetto si partiva dall’individuazione di un ambiente eccentrico e inedito, come fu il caso di “Riso amaro”. Altre volte da un personaggio singolare, realmente esistente, di cui si aveva notizia. Ma il grande soggettista era il giornale: circolavano a questo proposito vari aneddoti a carico di questo o quello scrittore. Si racconta, ad esempio, delle corse che alcuni facevano quotidianamente all’Ufficio deposito soggetti della S.I.A.E. per depositare per primi addirittura intere pagine di giornale. Più paradossali ancora erano le accuse di plagio che spesso accendevano lunghe controversie intorno alla priorità di un’idea che poi era una notizia di cronaca. Esemplare il caso di un film realizzato da Luigi Zampa “Campane a martello”. Il soggetto desunto da un articolo di giornale era stato scritto da un soggettista molto prolifico e ricercato: Pietro Tellini. Un giornalista autore dell’articolo l’accusò di plagio. Tellini si difese sostenendo che non vi poteva essere plagio dal momento che l’aveva ispirato la realtà, un fatto realmente accaduto che non poteva essere proprietà di nessuno, proprio perché era stato pubblicato sul giornale. Il giornalista ribatté che quella notizia l’aveva inventata di sana pianta e, quindi, egli ne possedeva tutti i diritti. Ma Tellini lo ignorava, un fatto è vero quando viene incluso nella cronaca di un giornale e non spettava a lui scoprire se si trattava di un’invenzione. La cronaca, in conclusione, non poteva essere invenzione. Questa attenzione alla cronaca, la diffusa tendenza a saccheggiarla tanto frettolosamente si spiega con la lunga assenza dai giornali della cronaca nera che, come si sa, durante il fascismo era proibita. Sopraggiunta la libertà, benché lo spazio fosse limitato, i fatti di cronaca facevano esplodere una realtà troppo a lungo ignorata. Ogni notizia così acquistava una forza dirompente, che ai cineasti non sfuggiva. La gente, come il cinema, sembrava affamata di notizie e ogni giornale traboccava dunque di idee cinematografiche. In questo clima straordinario soggettisti erano tutti. Ognuno era in grado di riferire una circostanza, di indicare e descrivere un luogo, di incontrare un uomo che meritava di diventare cinema. Tutto era talmente nuovo e non esisteva una scala di valori e di competenze dal momento che tutta una generazione di cineasti, che avevano operato nel vecchio cinema, era tagliata fuori culturalmente e socialmente. I soggetti, allora veramente si scrivevano in poche pagine. «Basta una paginetta» affermava Zavattini e nessuno meglio di lui riusciva a definire in una pagina un clima, una trovata, un personaggio, un tema, a far udire un grido di dolore o una risata luciferina. Lo soccorreva la sua letteratura, il suo stile di

scrittore, la sua caparbia fedeltà ai fatti più quotidiani, al piccolo piccolo. Ogni paginetta di Zavattini era una folgorazione, aveva l’immediatezza, l’attualità, l’eloquenza di una fotografia scattata al millesimo di secondo. Ma come da una pagina, poi, si riusciva a scrivere una sceneggiatura di trecento pagine? Ho già detto che si era minimo in quattro, aggregati secondo criteri sfuggenti, irrecuperabili, capricciosi. Ci si riuniva nei caffè, raramente in casa di qualcuno. Poche case erano disponibili e accoglienti. Inoltre a Roma il caffè è stato sempre un luogo di incontro degli intellettuali. Ogni gruppo d’amici frequentava un certo caffè. Ci si riconosceva per il caffè che si frequentava piuttosto che per il partito di appartenenza. Altri tempi. Ma prima ancora di queste caotiche e interminabili riunioni di lavoro al caffè, spesso tutta una équipe incaricata di scrivere un qualsiasi film si recava sui luoghi in cui la vicenda si intendeva farla svolgere, si interrogava la gente, si indagava su tutto. Era, si capisce, un lavoro senza silenzio. Le discussioni che si accendevano erano interminabili e frettolose nello stesso tempo. E chissà che proprio quegli scambi di opinione e di idee così irregolari, quegli accoppiamenti tanto capricciosi non abbiano finito col dare al neo-realismo quella vivezza e sveltezza, quel tono vero vero che ebbe. E fu presumibilmente proprio quel non metodo dettato da un’urgenza che era nelle cose a rendere ogni film comunque scandaloso, irregolare, sgrammaticato e sorprendente, così affascinante e accettabile da ogni cultura nazionale, anzi prima dalle altre culture che dalla nostra. Si poteva addirittura vendere e vedere realizzato un soggetto senza scriverlo, bastava raccontarlo e vi erano narratori straordinari e scribacchini solerti che mettevano in riga fiumi di parole. E vi erano anche soggettisti e sceneggiatori che trovavano da vivere correndo in automobile da una riunione all’altra senza mai lasciare un loro autografo, ma che pure si rendevano indispensabili, forse perché le cose da dire erano tante e si aveva paura che potessero andar perdute, divorate da altri pezzi di realtà, da altre biografie. Ed è proprio quella fretta dilettantesca, quella paura di trovarsi da un giorno all’altro il paese cambiato, reso irriconoscibile da avvenimenti che si temevano e si auspicavano, a spiegare, in parte, l’uso dei cosiddetti attori presi dalla strada. Le scene, infatti, erano generalmente brevi, i dialoghi essenziali, raccolti nei tram, nelle strade, nelle osterie, al caffè, e ciò favoriva l’impiego di attori non professionisti. La tecnica naturalmente era elementare, dalla scrittura alle riprese, proprio perché ogni personaggio, ogni inquadratura parlava da sé. I significati si offrivano spontaneamente, si imponevano senza troppe mediazioni, scritti com’erano sullo schermo da una realtà scoperchiata con quella rapidità e perentorietà che è

propria dei grandi mutamenti. E chi era un cultore di Proust se ne dimenticava perché il tempo non andava perduto. Ma poi come si procedeva in concreto per fissare opinioni tanto disparate e costruire l’arco narrativo? Si tracciava una scaletta degli avvenimenti. Ogni sequenza occupava poche righe e quelle poche righe compendiavano la scelta s cui tutti si erano accordati. E così di seguito, fino alla conclusione. E soltanto dopo la stesura della scaletta si passava a scrivere il soggetto, diciamo così, definitivo in cui spesso la paginetta iniziale diventava irriconoscibile. Pudovkin ha affermato che «il soggettista dà soltanto un’idea al regista, un astratto contenuto dell’immagine, ma non la concreta forma». Si tratta di una verità assai parziale, certamente accettabile se si riferisce, appunto, a un soggetto breve, alla cruda esposizione dell’idea cinematografica e della trovata. Ma Pudovkin ha anche scritto: «Si vuol sostenere che il soggettista debba dare solo il primitivo e semplice schema e che il lavoro complessivo della realizzazione cinematografica sia compito del regista. Ma questa idea è del tutto errata. In nessun’arte, infatti, se ben si riflette, si può suddividere la creazione in stadi singoli e reciprocamente indipendenti. Quando si elabora un soggetto, naturalmente la forma definitiva del film appare solo con i contorni indefiniti. Ma anche lo schema più generale che prevede future rielaborazioni contiene, di fatto, accenni a particolari e dettagli». La contraddizione fra le due citazioni si chiarisce se si considera che Pudovkin quando parla del soggettista intende lo sceneggiatore. Nella tradizione del cinema sovietico, nel metodo imperante, in realtà il soggetto e la sceneggiatura sono considerati la stessa cosa: un autore presenta un soggetto che è stato già strutturato dal punto di vista cinematografico, ma che assolutamente non può essere considerato una sceneggiatura allo stesso modo che viene considerata nel cinema italiano o americano. E quindi compito del regista sovietico scrivere una vera e propria sceneggiatura, così che in realtà è il regista l’unico sceneggiatore del suo fil anche se così non appaia nei titoli di testa. Questa metodologia ha finito con l’assegnare scarsa importanza allo scrittore di cinema e a far prevalere la funzione del regista fino al punto che la sceneggiatura per lunghi decenni ha goduto di scarsa considerazione anche in Italia, in cui il cinema sovietico ha avuto una grande importanza quale punto di riferimento teorico. «In Italia lo sceneggiatore» ha detto Tonino Guerra «non viene mai nominato. Persino nelle conferenze stampa i critici chiedono al regista dei contenuti del film, quando questi sono stati determinati dallo sceneggiatore.» Povero soggettista! In ogni caso è considerato un tecnico, un avvitatore di

bulloni, anche se come nel caso di Tonino Guerra si tratta di un letterato. Basterebbe far ricorso al metodo indiziario usato dal falso russo Ivan Lermolieff, ovvero dell’autentico italiano Giovanni Morelli, per l’attribuzione dei quadri antichi, per estrarre da ogni film, da quella «forma concreta» l’ingombrante presenza del soggettista, per quantificare la qualità dell’apporto, il peso della scrittura, appunto raccogliendo gli indizi disseminati nelle sequenze. Lemorlieff sostenne e provò che i musei erano pieni di quadri attribuiti a questo e quel pittore raffrontando esclusivamente i caratteri più appariscenti, che sono poi quelli più facilmente imitabili. La sua investigazione, invece, riguardava i particolari più trascurabili e meno influenzati dalla caratteristica della scuola a cui l’artista apparteneva. Ottimo allievo, sebbene degenere, giacché non si occupò di delitti, di Sherlock Holmes, Lemorlieff scopriva il vero autore di un dipinto osservando particolari insignificanti, i più sfuggenti e nascosti, quelli cioè che nessun allievo falsario badava a copiare dal suo maestro. I lobi delle orecchie, le unghie, la forma delle dita di una figura sistemata nel quadro in primo piano o nel fondo erano per lui indizi sicuri per attribuire un’opera a Botticelli o a un suo allievo di bottega, per distinguere cioè i dipinti di scuola, da quelli dei maestri. Con tale metodo Lemorlieff propose decine di nuove attribuzioni in alcuni dei maggiori musei d’Europa. Carlo Ginzburg ha proposto di estendere questi metodi indiziari alla ricerca storica, nel senso di abbandonare i grandi protagonisti per indagare sui loro contemporanei sempre allo scopo di delineare un quadro storico, un’epoca, un avvenimento decisivo proprio studiando «i lobi delle orecchie». Seguendo questo paradigma indiziario proposto da Ginzburg bisognerebbe finalmente scendere nelle caverne delle cineteche e ricercare gli indizi, indagando su ogni singolo fotogramma, su ogni metro della colonna sonora di questo e quel film proprio per accertare in che misura la «concreta forma» di un film sia priva o invece carica di altri apporti, altrettanto concreti e assolutamente non attribuibili al regista del film. E non si tratta di una rivendicazione corporativa, che pure avrebbe la sua legittimità, quanto piuttosto di avviare ricerche esaurienti sui processi creativi che si sviluppano a partire dal soggetto e ancora prima dall’idea, accettando in questa ricerca anche l’apporto di psicologi cognitivisti, non potendo più oltre trascurare le connessioni fra creatività e percezioni. Ma è anche auspicabile che semmai ricerche in tal senso si avvieranno se ne assumano l’onere anche gli storici. Non gli storici del cinema, viziati dalla lunga attenzione all’opera cinematografica proiettabile, all’iconografia filmica, alle

diatribe critiche fra contenutisti e formalisti, ma gli storici tout court, che per formazione e interessi di studio possono orientare le ricerche proprio inseguendo gli indizi nascosti nei fotogrammi, nelle colonne sonore, nei dialoghi. Servendosi, in altri termini, di un’altra metodologia, la datazione di un film, tanto per fare un esempio concreto, non può riguardare soltanto l’inizio delle riprese, il suo svolgimento o la presentazione della copia campione, ma va estesa all’inizio di altre lavorazioni, dall’ideazione alla scrittura, anche per risalire al momento politico e sociale in cui un’idea, un soggetto incontra il suo committente. Del resto i films, indipendentemente dal loro valore artistico, così come oggi viene determinato, cominciano ad essere oggetto di ricerche proprio da parte degli storiografi, non certo per datare i processi creativi e attribuire paternità — che non è poi un compito che spetta loro — ma proprio per l’esigenza che si va manifestando di usare i films come fonte di ricerca storica. Questo recente interesse degli storici per le fonti cinematografiche è destinato nel tempo a mutare lo stesso corso degli studi di storia del cinema. E’, insomma, presumibile che se un dato film fornirà fonti consistenti per la ricostruzione di un periodo storico — e sarà una fonte anche la misura del consenso del pubblico — le tradizionali classificazioni di qualità che dominano le storie del cinema alla fine risulteranno con larghe probabilità insufficienti e datate. Il telespettatore dei nostri giorni ha già avuto occasione di constatarlo. Il saccheggio da parte delle stazioni televisive dei depositi di pellicole ovunque collocati e di qualsiasi dimensione sta, di fatto, proponendo nuovi metodi di giudizio e altre classificazioni del repertorio cinematografico che non è mai stato considerato nemmeno degno di conservazione se non dal compianto Langlois. Bisogna cominciare ad ammettere che le storie del cinema si sono scritte e riscritte basandosi su una ristrettissima quantità di fonti. L’interesse che oggi certi vecchi films, esclusi appunto dalle varie storie del cinema o recuperati dalla bassa cultura dell’industria televisiva, investe aspetti del cinema ostinatamente trascurati dalla critica militante nel passato. Sera dopo sera, non solo si ha l’impressione di essere ammessi a visitare un museo del cinema a lungo chiuso per restauro, ma anche di essere progressivamente introdotti in un’esposizione permanente dei costumi sociali, dei modelli di vita, delle idee ricorrenti di ogni epoca. A distanza di tempo, inoltre, diviene possibile verificare attraverso l’intreccio e i comportamenti dei personaggi, e il loro uso nell’interno della composizione, l’aderenza o meno di ciascun film riscoperto alla realtà del suo tempo e la misura dell’adesione al modello culturale dominante. Questo nuovo punto di osservazione, permettendo una più ragionata collocazione nel contesto storico di ciascun film e delle varie cinematografie, muta tutti i termini di valutazione al

punto che si ripropone l’esigenza di una vasta revisione critica e storica. Sklovskij aveva lamentato l’impossibilità di effettuare una ricerca esauriente proprio per l’impossibilità di analizzare l’insieme della produzione filmica; oggi questa difficoltà si è grandemente ridotta e bisogna prenderne atto e adeguare i metodi di ricerca che non potrà dirsi esauriente fino a quando non si potrà accedere alle fonti scritte, alle sceneggiature. Nell’attesa che questa esigenza venga accolta, che le cineteche raccolgano accanto ai filmati i copioni relativi, e che si salvi il salvabile di questo immenso patrimonio, non si può fare altro che far riferimento a quel poco che esiste e all’esperienza di quanti i films li scrivono, per sostenere che il soggetto cinematografico offre al film il contenuto inteso nel senso più vasto. Nell’intreccio, nel montaggio «a priori» deve essere già ipotizzabile la forma del film che sarà inequivocabilmente definita nel corso della ripresa, fissata dal montaggio «a posteriori». Il soggetto indica anche il ventaglio delle scelte stilistiche possibili a rappresentare i materiali aggregati. Le opzioni che un soggetto offre attraverso le verifiche che si effettueranno successivamente nel corso dell’elaborazione della sceneggiatura si riducono o si moltiplicano fino a raggiungere una loro definitiva sistemazione. Se poi si fa riferimento al metodo comunemente seguito in Italia nell’elaborazione di una sceneggiatura, a partire dal soggetto, si ha un’ulteriore conferma di come sia errato considerare il «girato» un momento superiore della realizzazione del film, che poco deve alle fasi precedenti, in quanto l’intervento del regista non è mai limitato alle riprese, ma inizia proprio nel momento in cui si inizia l’analisi del soggetto. E a partire dal soggetto, infatti, che scrittori e registi si confrontano e si accordano stendendo, man mano che le scelte si concretizzano, una serie di scalette, in cui vengono allineati i concetti e calati negli avvenimenti secondo un ordine che tende a definire l’arco del racconto, il ritmo, le intenzioni. È un lungo lavoro di montaggio eseguito con le parole che sebbene sia destinato a raggiungere la forma definitiva in sala montaggio, fissa a priori la composizione e guida le fasi successive della lavorazione. E’ certamente un metodo di lavoro che si presenta meccanico e rischioso, come lo è ogni tecnica dell’arte. Eppure senza tecnica non si fa pittura, non si scrive teatro, non si fa cinema; senza la sua tecnica Poe non scrive II corvo, Borges non forma i suoi racconti. Egli ha bisogno di un principio e della fine del racconto per iniziare a scrivere, dal punto di partenza e di arrivo di un arco narrativo. Solo allora egli si ritiene in grado di riempire lo spazio fra i due punti. E può bastargli perché la sua finalità è la stampa, non una trasposizione di un altro

linguaggio. Il regista che finalmente grida «Motore. Silenzio. Si gira» ha nelle mani una sceneggiatura che è stata preceduta da un soggetto, da un trattamento, momenti creativi che la tecnica fissa e dosa. Come ho già detto, la critica cinematografica, escluse rare eccezioni, se si occupa della tecnica fa riferimento all’opera compiuta, ne ignora la genesi, l’organizzazione del materiale, la scienza della costruzione narrativa. La stessa pubblicazione delle sceneggiature dei films più noti, se dimostra un crescente interesse per la genesi del film da parte dei lettori, non offre, nella maggior parte dei casi, nessuna possibilità di servirsene per avviare una ricerca sistematica sui copioni, desunte come sono alla moviola dalla copia definitiva del film, e non già dalla sceneggiatura scritta originale. Non solo da questi testi mancano le sequenze scritte e non girate e quelle girate e tagliate al montaggio, ma anche tutte quelle pezze di appoggio come scalette, variazioni, dialoghi aggiunti, dialoghi srcinali da confrontare con quelli definitivi. Le stesse didascalie, desunte come sono dal girato, riassunte con disinvoltura badando esclusivamente a fornire indicazioni sui piani, sulle carrellate e le panoramiche, finiscono per espropriare gli sceneggiatori del loro effettivo apporto e con l’impedire, appunto, una conoscenza dei metodi di lavoro, un confronto fra sceneggiatura e films. Tutto ciò è al servizio di una tendenza critica che riconosce nel regista il solo autore del film. Posizione più che legittima, ma che in ogni caso potrebbe essere con maggiore credibilità sostenuta se si potesse far ricorso allo studio delle sceneggiature srcinali e ai vari elaborati precedenti. Eppure tutti, ma proprio tutti, i grandi films italiani hanno avuto la loro scaletta. Soggettisti, sceneggiatori, registi in veste di sceneggiatori, vi hanno lavorato per mesi prima di spedire la sceneggiatura in copisteria. I casi di improvvisazione sono rari e non documentabili. “Roma città aperta” così chiacchierato, ha avuto la sua scaletta e la sua sceneggiatura tutta scritta, tutta battuta a macchina. La creazione istantanea, quando avviene, è all’interno delle sequenze, ma l’arco narrativo non si improvvisa sul «set» senza affrontare rischi incalcolabili. E allora come si costruisce una scaletta? Ognuno ha il suo metodo, essendo la scienza della costruzione letterariacinematografica inesatta e mobile, ma quale che sia il sistema di intreccio che si sperimenta, essa è determinata dalla disponibilità dei materiali accumulati nel magazzino dell’immaginario e delle aggregazioni provvisorie, che la nascita dell’idea cinematografica ha naturalmente provocato.

Si comincia col mettere in fila tutto il materiale che si è deciso di utilizzare, cominciando dalla prima scena o dalla prima sequenza espresse in modo conciso, telegrafico, quanto basta cioè a catalogare tutto ciò che deve essere compreso nella stesura letteraria del soggetto. E’ un momento di ricerca libera che non elimina ciò che, al momento, può apparire superfluo e peccaminoso, illogico e blasfemo, inopportuno e offensivo. Si butta la rete e non si sa che pesci vi resteranno dentro, benché non tutte le reti siano uguali. Si tratta, in altri termini, di catturare fotografie mentali scattate chissà dove e chissà quando. Così accade che l’apparente disordine esistente nel magazzino dell’immaginario si ricompone in un altro disordine che già promette un ordine, una consequenzialità prossima ventura. Si fissano, cioè, i materiali che si presentano accettandone, sia pure momentaneamente, le concatenazioni che sorgono dal loro semplice accostamento «inconsciamente automatico», come direbbe Sklovskij. Ciò che va compilato è un vero e proprio registro della prima nota, in cui fatti, figure, oggetti, complicità segretissime, intenzioni banali e provvisorie o irrinunciabili, memorie sparse in varie e distanti epoche del proprio vissuto vengono continuamente segnati in entrata e in uscita. Questa merce liquida o polverosa e senza prezzo, man mano che viene registrata richiama altri oggetti, altri ricordi, tutti in grado di ostentare la loro forza combinatoria, di produrre effetti di varia intensità e di diversa importanza che, a seconda del significato che sono in grado di esprimere, assumano la stessa differenza esistente fra arcani maggiori e arcani minori. Perché il gioco degli intrecci che si scatena in virtù, appunto, della sola presenza dei materiali, sembra proprio seguire le arcane regole della cartomanzia, scienza inesatta in cui il destino umano è preannunciato non solo dai segni significativi dei tarocchi, ma proprio dal loro accostamento casuale, eppure oscuramente logico. Ma nella successiva compilazione della scaletta del soggetto entreranno soltanto gli arcani maggiori, gli arcani minori hanno terminato la loro funzione sollecitatrice. Gli arcani minori, comunque, restano a disposizione della scaletta, della sceneggiatura, allorché ogni effetto maggiore per rivelarsi, illuminare la trama, dovrà circondarsi di effetti minori. La «gag», ad esempio, può essere considerata un arcano minore, un effetto necessario. «Quando gli uomini parlano di bellezza non intendono precisamente una qualità, ma un effetto» afferma Poe nel già citato saggio suLa filosofia della composizione.

Ma l’addizione degli effetti e di ogni altro materiale non si arresterà mai. E non si tratta di una norma sintattica, ma di una constatazione.

Ogni macchina è costruita da tanti pezzi quanti ne occorrono, il meccanico li allinea tutti, né uno in più, né uno in meno, quando si appresta al montaggio. Intorno alla macchina narrativa si lavora a un motore che non ha i pezzi preventivati, stabiliti una volta per sempre, né una forma prestabilita. Al contrario, si pone mano a un congegno che si disegna mentre si costruisce. I circuiti che diffonderanno l’energia, gli ingranaggi che ne permetteranno il movimento, non vengono bullonati o saldati se non nella fase finale del montaggio filmico. Quella che va garantita è esclusivamente la progressiva crescita del racconto, senza fretta e a tempo debito; quando cioè tutto congiura a favore della scaletta e si avverte la necessità di iniziare la composizione è preferibile servirsi con giusta economia dei materiali disponibili, effettuando tentativi molteplici, evitando sprechi al fine di ottenere la quadratura dei conti, un saldo attivo. Cito Spencer de La filosofia dello stile. «Alla base di tutte le norme che determinano la scelta e l’uso delle parole troviamo la stessa esigenza fondamentale, il risparmio di attenzione; condurre l’intelletto per il cammino pi facile al concetto desiderato è in molti casi l’unica meta e comunque la principale.» Si tratta di una concezione ampiamente applicabile al cinema. Ma niente impone di ricorrere ai principi classici della economia narrativa, al contrario ogni eresia teorica, ogni violazione o evasione dall’universalmente accettato può, infatti, produrre una diversità stilistica e concettuale, una forma nuova. Ciò che sta perentoriamente davanti ai nostri occhi lo si vede sempre meno e sono appunto i mutamenti, gli spostamenti imprevisti a rendere nuovamente visibili gli oggetti che ci hanno accecato con la loro troppo lunga presenza e immobilità. Persino l’errore sintattico, smaccato e urtante, rosselliniano, se ordito allo scopo di esprimere un’intenzione ancora sfuggente, se si presenta come ribellione a caldo al sistema combinatorio e al modello di rappresentazione deformato dall’uso va considerato corretto, necessario. Allora ogni sgrammaticatura contribuisce a scrivere una nuova grammatica, aperta a ogni consultazione e ad altre sgrammaticature innovative. Le violazioni sintattiche e grammaticali, è ovvio, non si vedono nella scaletta, restano nascoste nella materia che si ordina perché si tratta di una criptoscrittura, di un codice personale, decifrabile soltanto da chi partecipa a comporlo. A volte la «scaletta» non è nemmeno scritta, è trattenuta nella mente, ma è una fatica che allunga i tempi di elaborazione. La scaletta, in altri termini, è un interlocutore che il soggettista crea e col quale dialoga. Il termine «scaletta», infine, sta anche a segnalare che ogni soggetto, come

ogni trattamento, ogni sceneggiatura deve gradatamente salire i gradini che portano al finale, all’attico dell’edificio narrativo che si intende costruire. Ma le scale si possono salire a diverse velocità, come saltellando, eseguendo movimenti continui, uniformi e fluidi, ma quale che sia il modo di salirle, si avrà un’azione ritmata. Mi compete l’onere della prova. Ne offrirò una meschinamente parziale e mi affiderò, cioè, a uno dei più bei racconti mai scritti, secondo il drastico giudizio di Borges: a Wakefield di Hawthorne. Né intendo rispettarlo più di tanto, mi approprio dell’idea per una fedeltà alla presunzione secondo cui un soggetto vive di furti non punibili. Comincerò da lontano. Hawthorne scrisse a Longfellow: «Mi sono rinchiuso, senza alcuna intenzione di farlo, senza sospettare neppure ciò che mi sarebbe capitato. Mi sono mutato in prigioniero, mi sono chiuso in carcere e ora non trovo più la chiave, e se anche la porta fosse aperta, avrei quasi paura di uscire». E’ una lettera a un amico, ma è anche una situazione. Soltanto l’impossibilità di Lumiere di essere contemporaneo di Hawthorne, impedisce di dichiararla una prima immagine, un’idea cinematografica. Gli esuli generalmente soffrono lontani dalla casa e dalla patria, almeno fino a quando ognuno aveva bisogno di avere l’una e l’altra. Hawthorne rovesciò questa norma, a suo modo: visse, cioè, vicinissimo a se stesso e a tutte le cose e le persone che lo circondavano da sempre, il suo esilio, assai più pauroso e struggente di quello sopportato da Orazio. Senza quell’allontanamento da Roma di un poeta latino dedito irragionevolmente all’amore, non avremmo avuto i suoi poemi della lontananza, quel meraviglioso primo verso che si lascia apprezzare anche da chi del latino non ha che scarsi e umilianti ricordi scolastici: «Cum subit illius tristissima noctis imago…» Senza quell’esilio nella sua stanza, di cui non ci lasciò le dimensioni quel severo e sofferente uomo che fu Hawthorne, non avremmo avutoWakefield. Al di là della banalità dell’ipotesi sono circostanze inquietanti che danno eccessivo credito letterario all ’infelicità. Come agì Hawthorne? Innanzi tutto tramutò là sua astrusa esperienza che f giustamente dolorosa, in un fatto di cronaca. O forse effettivamente lesse con i propri occhi su una gazzetta un avvenimento che aveva immaginato di vivere mentre consumava il suo esilio ravvicinato. Un uomo si era allontanato da casa e dalla moglie per intraprendere un breve e innocuo viaggio in diligenza; persuaso di tornare, ma assalito da oscuri propositi tanto più neri, perché improvvisi e privi di una giustificazione sopportabile, ridusse il percorso del suo viaggio al punto di terminarlo a pochi metri dalla sua casa e dalla moglie. Allungò, in compenso, il periodo della

lontananza, non senza propositi ricorrenti di abbreviarlo al punto di restare assente, si direbbe innanzi tutto da se stesso, venti incomprensibili anni. Per tutti e due i decenni vide la sua casa, spiò la moglie, e dunque la sua stessa esistenza, con una tenacia che ogni eroe non può che invidiargli. Attese così che fosse dato per morto, a sua insaputa era già poco più di uno scheletro, ma osservò la vedovanza di sua moglie. Godette di essere considerato morto anche dagli altri, eppure ne restò pazzamente deluso. Finalmente un giorno, per una decisione capricciosa ma tragica tornò, bussò alla porta di una casa che non era in realtà più sua e ritrovò la moglie. Tutto il resto lo aggiungerà Hawthorne. Questa notizia che egli riporta all’inizio del racconto è un enigma, così come lo sconvolgimento che egli osa immaginare. Ciò che più colpisce è la conclusione di questa storia tenebrosa. È una fine che è un altro principio, è un caso di racconto circolare, un filo che si avvita. Se il principio è come la fine, nulla vieta di immaginare la fine prima del principio. Del resto lo stesso Hawthorne anticipò la conclusione citando un fatto di cronaca che probabilmente non ha mai letto, nonché azzardare una conclusione che in Wakefield, non c’è. Si può far ricorso al repertorio zavattiniano, a quella biblioteca scritta da un solo individuo. In uno dei suoi racconti brevissimi, quasi scritti sulla capocchia di uno spillo, Zavattini bussa alla porta di casa sua, ma è un ritorno dopo una assenza minuscola. Va ad aprire la moglie. Zavattini — Wakefield per noi — chiese: «C’è il signor Zavattini?». La moglie impallidisce, ma si sforza di credere che suo marito si prenda gioco di lei e di se stesso, lo supplica di smettere, di ammettere di essere lui e non un altro, ma il marito insiste: non è lui, è un altro che porta la sua faccia, ignorando di avere un doppio. Giacché la moglie insiste nel credere che non sia un altro, ma lui, egli chiede scusa e se ne va. Ha torto la moglie, dopo tutto: è un altro. Ma chi è? Il diavolo? E’ una conclusione possibile per un altro Wakefield. A scelta potrebbe essere il primo gradino di una scaletta e l’ultimo. E’ una facoltà che concede il racconto circolare, ma è anche un’insidia. Hawthorne non si avvita nel cerchio narrativo: inizia cacciando Wakefield da casa, si arresta quando vi fa ritorno, fissando il suo sorriso astuto e perverso. Forse Antonioni e pochi altri avrebbero la forza morale di privarsi di un seguito, nessuno spettatore pagante lascerebbe la sua poltrona senza rimpianti per non aver assistito a quell’ultimo incontro dopo venti anni di lontananza di un marito e di una moglie. Dopo tutto ognuno aspira ad avere la stessa follia di Wakefield, a commettere

la stessa ignominia. E forse l’immortalità di Wakefield è assicurata proprio da questa coincidenza fra il suo gesto e le cupe intenzioni dei mariti. Il materiale esposto fin qui è sufficiente per azzardare la stesura di una scaletta, di questa orditura senza qualità. Ancora due parole per conoscere Wakefield e i mariti. «Un uomo tranquillo, timidamente vanitoso, egoista, propenso a misteri puerili, a serbare segreti insignificanti, un uomo fiacco di grande fertilità immaginativa e mentale, ma capace di lunghe e oziose, inconcludenti e vaghe meditazioni, un marito costante, difeso dalla pigrizia.» È la descrizione che ne dà Borges, ma è incompleta, e potrebbe entrare nella prima didascalia di una sceneggiatura, servirsene per presentare il nostro personaggio. Ma chi scrive una sceneggiatura può disporre di più carta e di pi inchiostro. Per la stesura di una scaletta, invece, bastano poche gocce. Tutto dovrebbe essere incluso in pochi moduli per telegrammi, giacché la scaletta non è altro che il racconto di un film trascritto in linguaggio telegrafico. Mr. Wakefield ha una moglie. Sappiamo che la moglie, dopo una lunga attesa, si dichiara vedova, ma poi lo vedrà comparire dopo vent’anni. Ci prepariamo a scalettare il soggetto seguendo la vita di lui e osservando con gli occhi di Wakefield la moglie. La vedremo da vicino nei primi gradini della scaletta e negli ultimi, per il resto dell’arco narrativo ci sarà lontano. È, dunque, in questa fase che bisogna disegnare Wakefield a tutto tondo perché è Wakefield a svolgere la funzione di spiedo, è lui che infilza la situazione; la sua signora subisce, dipende dall’azione del marito. In ogni caso conviene comporre i «telegramma». 1) Wakefield saluta la moglie: va a prendere la diligenza. Tornerà fra qualche giorno. Nessuna domanda della moglie. Lo sa dedito a misteri superflui. Prima di andarsene sorride. Bisognerà ricordarsi di questo sorriso, perché lo ricorderà sua moglie, la presunta vedova. 2) Wakefield dopo alcuni giri tortuosi giunge all’alloggio che tiene a pochi passi da casa, dalla moglie. Il suo viaggio è finito. 3) Il giorno dopo Wakefield si sveglia. Faticosamente definisce il suo proposito: accertare che impressione produrrà in sua moglie una settimana di vedovanza. Poi tornerà a casa. Intanto la curiosità lo spinge in strada. Senza accorgersene si ritrova davanti a casa sua. L’osserva: gli sembra un’altra. In realtà è cambiato lui: è un altro. Impaurito fugge. Impaurito di che? Di essere un altro? Di essere scoperto dalla moglie? 4) Wakefield compra una parrucca per essere un altro anche nell’aspetto. Cambia le sue attitudini. Così travestito continua a spiare la moglie. Ormai è deciso a spaventarla con un’assenza di anni. Problema da rinviare alla

sceneggiatura: come esternare i labirinti mentali di Wakefield? 5) Wakefield vede entrare in casa della moglie il farmacista, un altro giorno il medico. Si affligge, ma si rende conto che un improvviso ritorno rischierebbe di aggravare la malattia della moglie. 6) Dominato dalla sua ossessione, Wakefield sposta continuamente il giorno del suo rientro. Passano così dieci anni. Soffre perché si rende conto che sua moglie lo sta dimenticando. 7) Una domenica Wakefield e sua moglie si incontrano per strada, nella folla di Londra. La donna è ingrassata. La vedovanza, dunque, le giova. Faccia a faccia i due si guardano negli occhi, lei non lo riconosce: ormai è un altro, anzi per lei il marito è morto. Wakefield fugge nella sua casa, scoppia in singhiozzi. Si sente prossimo alla pazzia. 8) Sono trascorsi 20 anni. Wakefield spia la sua casa, vede la moglie davanti al fuoco. Piove. Wakefield ha un brivido. Torna. Sale le scale, apre la porta. Sul viso ha lo stesso sorriso del giorno della partenza. Ecco tutto. In questa scaletta il racconto di Hawthorne ha perso la carne e il sangue: è uno scheletro. L’intreccio è ridotto in codice, ma è pieno di «buchi», per usare un’espressione del lessico cinematografico. Hawthorne manca, il racconto è ridotto a una serie di situazioni dipendenti l’una dall’altra. È la scaletta di un soggetto cinematografico da completare e scrivere. Approfittandone per gioco e per dimostrazione, si può giungere a un’altra conclusione. In letteratura un finale sospeso è sempre sopportabile, il cinema tende a conclusioni più dichiarate. Wakefield potrebbe chiedere come Zavattini: «C’è Mr. Wakefield?». Ma sono passati 20 anni. Se lei è riconoscibile, sia pure mutata com’è dagli anni, dal momento che il marito non ha mai cessato di spiarla, la signora Wakefield si trova, invece, di fronte a un marito che non vede da venti anni, inoltre ogni somiglianza residua con l’uomo che è stato nel suo letto è come cancellata dalla convinzione di essere vedova. Potrà, dunque, rispondere all’inquietante domanda: «Mio marito non è più». Wakefield insiste, vuol sapere con precisione il giorno della sua morte; la moglie non può essere precisa, balbetta, si sente in colpa, come se l’avesse ucciso smettendo di attenderlo. Wakefield ammette finalmente di essere Wakefield, la convince che è morto per lei, che sebbene può dirsi vivo, deve considerarlo morto. A sua volta la moglie si convince ben presto che ha di fronte il marito che ha considerato morto, ma rovescia il gioco, lo tratta come un impostore, gli chiude la

porta in faccia. Ma il racconto di Hawthorne è sparito: è stata usata una situazione, resta lo scheletro. Fra questa scaletta e il film copia campione potrà esserci la stessa differenza che si riscontra fra la scaletta e il racconto di Hawthorne. Ma Mr. Wakefield chi lo cancellerà mai? Questo per dire che lungo è il percorso da compiere, le verifiche da effettuare, le precisazioni da aggiungere, i «buchi» da riempire, i cambiamenti da praticare fino a defin ire l’ordine dei materiali disponibili. Ed è proprio man mano che ci si avvicina alla stesura finale che si va continuamente precisando il rapporto con l’ipotetico spettatore. È lui l’oscuro giudice che bisogna convincere come tutto ciò che gli sarà mostrato non è vero, ma verosimile. In un certo senso lo spettatore entra in sala come giudice, ma bisogna che ne esca acquirente di una specie singolare, giacché compra un prodotto che non conosce e di cui deve mostrarsi soddisfatto quando ha consumato ciò che ha acquistato. L’acquirente. È una definizione provocatoria dello spettatore. I critici cinematografici italiani non sono mai acquirenti, non conoscono il sottile disappunto che si prova allorché si acquista il biglietto di entrata, quel disappunto che si muta a volte in piacere, a volte in indignazione. Chi non acquista il biglietto, in realtà, non è mai frodato, ma è anche privato della soddisfazione eventuale di avere ben speso il suo tempo. È come affidarsi alle cure di un analista e non retribuirlo. I critici, invece, frequentano con superflua assiduità le piccole sale private in cui i fìlms vengono proiettati esclusivamente per loro e in anticipo sulla pubblica programmazione. Ignorano, cioè, di fatto l’esistenza degli spettatori. Al plurale. Si direbbe che la particolare posizione di privilegio di cui godono, ma anche soffrono, li rende più lettori che spettatori. Il lettore di un libro è sempre solo. Se lo spettatore cinematografico si ritrova solo in platea, come capita quotidianamente al critico, il film diventa «altro». Così il critico cinematografico diventa lo spettatore unico ed è come privato di metà del suo udito e di metà della sua vista. La funzionalità totale dei suoi sensi è garantita proprio dalle altre presenze degli spettatori. Ma nemmeno il romanziere scrive per un solo lettore. In quel caso basterebbe il dattiloscritto o una fotocopia. Egli sa che il suo lettore ideale è uno, lo immagina chino sulla pagina, vuole che il lettore sia solo con il suo libro, ma debbono essere tanti, ognuno di loro in una sala di lettura. In polemica con il critico letterario Angelo Guglielmi, Italo Calvino ha scritto

in occasione della pubblicazione del romanzo Se una notte d’inverno un narratore: «Né mi dimentico neanche per un minuto (dato che vivo di diritti d’autore) che il lettore è acquirente, che il libro è un oggetto che si vende sul mercato. Chi crede di poter prescindere dall’economicità dell’esistenza e da tutto ciò che essa comporta, non ha mai avuto il mio rispetto». La tecnica, dunque, della scrittura cinematografica riconosce l’esistenza e il ruolo dell’acquirente. È lui l’interlocutore permanente e inafferrabile a causa del suo aspetto prismatico. Ciò che va «saltato» invece è il committente diretto, il produttore che parla senza delega, in nome degli spettatori, falsificandone le richieste. Ma torniamo alla «scaletta», non si può abusare dei rallentamenti. Nel suo saggio sul «soggetto» Sklovskij scrive: «Il rallentamento del romanzo, il rinvio della soluzione del soggetto si ottengono molto spesso non passando ad un tema parallelo nel momento critico, bensì utilizzando del materiale estraneo al soggetto». Dostoievski predilige soprattutto i discorsi dei personaggi sui vari temi filosofici. Nel soggetto e nella sceneggiatura, il rallentamento si ottiene senza letteratura, ma usando materiale nuovo, apparentemente estraneo e disinteressato, momentaneamente oscuro, ma destinato a scoppiare via via che si snoda l’intreccio. Basta tornare a Wakefield, oltraggiando ancora Hawthorne. Può bastare un uovo fresco di giornata. Wakefield una mattina abbandona il suo nascondiglio, gira per la città, la folla anonima nasconde la sua identità. Se le strade fossero vuote egli non saprebbe dove nascondersi. Compra un uovo, torna nel suo rifugio, lo buca con uno spillo e lo succhia accanitamente. L’atto del succhiare muta la sua fisionomia, il volto si affina e si allunga, somiglia ad un topo, il suo gesticolare in quel frangente è da topo, anche gli occhi hanno quella mobilità. Se Wakefield ripetesse la stessa azione due volte di seguito farebbe ridere. La ripetizione ravvicinata provoca il riso al cinema. Quest’uovo, nel momento in cui egli l’acquista, incuriosisce il lettorespettatore. Allorché Wakefield lo succhia si verifica un rallentamento: l’attenzione dello spettatore viene sollecitata, ma lo sfiora anche l’indignazione. E insopportabile che pensi a nutrirsi con gesti così animaleschi. Ma il gesto che compie Wakefield è verosimile: si può stare venti anni lontano dalla moglie, beffarsi con tanta crudeltà di se stesso e degli altri, eppure bisogna nutrirsi; ciononostante quell’atto naturale appare superfluo. Ma egli non mangia per dire che si nutre, la sua azione fotografa il suo egoismo terrificante. Lo si vorrebbe cattivo e senza

necessità corporali . Nella scaletta che fissa i movimenti principali dell’intreccio questa notazione di un accadimento minore può essere utile più tardi. Può accadere che in seguito ci si liberi di un movimento grosso e che resti l’uovo. Ci si può servire di un avvenimento che rallenta, che appaia introdotto nell’intreccio per puro capriccio, anche per mettere il lettore-spettatore di fronte a un fatto compiuto: che cioè è trascorso un certo tempo, e fargli così accettare l’idea che non tutto il tempo trascorso gli è stato notificato. Può bastare descrivere il suo rifugio, scoprire che il pavimento è cosparso di bucce d’uova, di vecchie scarpe, di cartaccia. È il superfluo necessario; il solito lettore-spettatore ha fretta, si aspetta ben altro, non ha bisogno di particolari, conosce quell’uomo, presume di sapere tutto di lui, ma quelle bucce d’uovo glielo fanno odiare, l’indignazione si rivolge anche verso l’autore. È inspiegabile, ma è così. Intanto, senza che ne parli con se stesso, egli ha accettato che è passato del tempo, anche se non sa come e nemmeno quanto di preciso. In letteratura, come nel cinema, il tempo è un altro, gli orologi hanno meccanismi pressoché sconosciuti. Insomma un uovo e tante bucce bianche solo per rallentare, per ingannare. Miseria del cinema! Cervantes rallenta con gli alti discorsi che don Chisciotte pronuncia a nome del suo personaggio, ma anche dello stesso autore. Wakefield ridotto per il cinema inganna l’attesa di chi lo insegue con un uovo, alcune bucce. Questi rallentamenti, se si raddoppiano continuamente, formano una «suspence», a patto che nel corso del loro progressivo moltiplicarsi producano un senso di liberazione nel momento dello scioglimento conclusivo. Vi sono naturalmente rallentamenti più consistenti di un uovo. Se si raccontano due storie incrociate fra loro, l’una fa da rallentamento all’altra e viceversa. È il caso, tanto per citare un film già nominato per altre ragioni, de “I giovani leoni” di Irvin Shaw e Dmytryk. Quando si racconta del nazista Marion Brando gli avvenimenti che si espongono rallentano nei confronti delle vicissitudini dell’americano Montgomery Clift, e viceversa. Il rallentamento è maggiore all’inizio del film quando i due personaggi sono lontani, divisi da un grande spazio, si attenua man mano che si avvicinano. Si può tentare una regola generale: il rallentamento frena la narrazione e accelera l’interesse. Anche la cosiddetta «controstoria» è una forma di rallentamento, la sua funzionalità, il sistema narrativo che lo contempla è meglio analizzabile nella sceneggiatura e in quell’occasione bisognerà parlarne senza

fretta. Se ne può accennare per il momento citando un film che la controstoria avrebbe potuto averla, e riferire perché non l’ebbe. È il caso di “Ladri di biciclette”. Basterà ricordare che soltanto nelle prime scene del film compare la moglie del derubato, che era Lamberto Maggiorani, questo attore preso dalla strada e lasciato sul marciapiede. Durante il lavoro di scaletta che precedette la sceneggiatura di “Ladri di biciclette”, proprio la parte del personaggio della moglie dell’attacchino ciclista provocò una lunga controversia fra Zavattini e Amidei, che ebbe come risultato l’uscita di quest’ultimo dal gruppo di sceneggiatori raccolti intorno a De Sica. La sceneggiatura di “Ladri di biciclette” porta diverse firme e manca una ricerca per accertare i contributi di ognuno. Amidei sosteneva che la moglie del derubato non poteva essere abbandonata, cancellata dal film, dopo essere entrata in qualità di moglie e di madre dei due protagonisti nelle prime sequenze del film. Secondo Amidei la donna aveva diritto a restare nel film fino alla sua conclusione, a partecipare alla ricerca del ladro, comunque a vivere nell’intreccio fino in fondo. La posizione di Amidei sottintendeva una diversa concezione stilistica che, se fosse stata accettata, avrebbe prodotto un altro “Ladri di biciclette”. Il contenuto e la forma, questi fratelli siamesi che inutilmente si tenterà di dividere, sarebbero stati assoggettati a un movimento a fisarmonica contrario al modello di racconto sempre perseguito da Zavattini. Il sistema di rapporti fra i personaggi si sarebbe organizzato in una frequente alternanza fra la casa e la strada, fra il marito e la moglie, fra il figlio e la madre. Oppure la moglie avrebbe dovuto seguire il marito e il figlio nelle loro peregrinazioni alla ricerca della bicicletta rubata, producendo un rapporto a tre, presumibilmente ingombrante, e la città osservata e descritta con un’ottica diversa avrebbe sofferto di un ridimensionamento non solo topografico, ma di senso. In “Domenica d’agosto” i materiali, le figure si intrecciano infinite volte, le scene sono brevissime, tutte affollate di personaggi e di caratteri che ritornano secondo un’orologeria continuamente modificata, eppure sempre precisa, puntuale. Nell’intreccio convivono personaggi che occupano lo spazio di una sola scena ed altri che ritornano periodicamente, tutti ugualmente indimenticabili. Lo spettatore, cioè, riusciva a seguire quella girandola di personaggi e di accadimenti minuscoli senza mai smarrirsi, tenuti insieme, assemblati com’erano dall’unità di spazio e di tempo assai circoscritta. Tutto avviene fra Roma e Ostia, in una domenica estiva. Un’intera cittadinanza si muove verso il mare. Le figure che compongono il grande murale risultano singolarmente riconoscibili e memorizzabili, mentre tutti insieme diventano quella

folla accaldata, assetata, gonfia di spaghetti e di voglia di vivere, irrequieta e tracotante che riempiva Roma negli anni ‘50. Così allorché questa folla non anonima occupa lo spiazzo che tappezza di carne e allegramente si tuffa in mare, ogni figura è disegnata e il ritratto di un’umanità semplice, bonacciona e chiassosa è compiuto. Hitchcock a metà di ogni suo film ricorre a un espediente elementare: fa ripetere a qualcuno dei personaggi di cui dispone ciò che è avvenuto fino a quel momento, così che ogni spettatore è richiamato ai suoi doveri. L’acquirente, cioè, è autorizzato a riguardare i conti, a controllare la spesa, per essere pronto non a subire nuovi inganni, ma a risolvere finalmente il cruciverba finale. Amidei in “Domenica d’agosto” non sosteneva l’intreccio con nessuna «suspence»: la folla dei personaggi, vestita di semplicità, di bisogni elementari, correva verso il mare senza trascinare misteri e senza covare propositi sanguinosi. Si godevano tutti la loro legalità. E ciò certamente facilitò il suo compito, purtuttavia non ricorse al metodo caro a Hitchcock. Rischiò. Ma mai come in “Domenica d’agosto” il film nacque sulla scaletta: tutto dovette essere deciso in quella fase e pochi cambiamenti certo furono possibili nelle elaborazioni successive. Di ogni cambiamento, se fu imposto per una qualsiasi evenienza, fu necessario verificarne la fattibilità ridiscutendo la scaletta, magari rifacendola. Ma al di là di ogni espediente, per ogni tecnica, per tutte le ragioni ideologiche o stilistiche, le prime scene di un film hanno un’importanza superiore alla stessa scena conclusiva. È in quelle prime immagini che si fissa lo spazio e il tempo del film, si presentano le figure, si stabilisce il rapporto diretto con lo spettatore. Wakefield saluta la moglie, esce di scena, torna furtivamente indietro e va a nascondersi in un rifugio da cui è in grado di spiare la sua casa, la moglie che vi ha lasciato. E un inizio folgorante e conciso in cui tutti i materiali che circolano nel soggetto sono presenti. I due protagonisti, le due case, la città in cui abitano, lo stretto perimetro in cui tutto accadrà. La casa, i vestiti parlano della loro condizione sociale, i loro gesti della vita passata, dei mali presenti.

PARTE SECONDA - IL TRATTAMENTO

IL PATTO CON IL DIAVOLO

Il trattamento è una fase della scrittura cinematografica che si colloca nel processo di trasformazione della parola in immagini, a cavallo tra il soggetto e la sceneggiatura. E la fase elaborativa che pretende che il film da farsi sia descritto per esteso, capitolo per capitolo. Ogni capitolo, se non ha ancora la forma sequenza, esclusivamente cinematografica deve contenere i materiali che gli sono destinati, ma in abbondanza. Un rigo del soggetto può diventare un capitolo e un altro rigo sparire, ma si possono aggiungere righe, periodi, pagine che il soggetto non ha accolto, giacché il trattamento è il momento largo del film: qui ogni misura è un rischio e la selezione dei materiali sarebbe prematura. I significati, o almeno le intenzioni, si esplicitano senza quella reticenza che il gusto suggerisce. Tutto può essere eccessivo. Nel trattamento i personaggi vengono presentati sfacciatamente, totalmente detti, denunciano se stessi. Nel soggetto, generalmente, non vi è dialogo se non qualche battuta che l’autore ritiene necessaria per chiarire le intenzioni, per bollare un personaggio. Come nel racconto letterario, lo scrittore pone i fatti lontani da sé, li vede dall’alto: ciò gli consente di effettuare una serie di dissolvenze, cioè a dire dei rapidi passaggi di tempo e di luogo, che dovranno rendere accettabili omissioni e ritardi dell’immaginazione. Inoltre questa misura, che già simula la distanza fra lo schermo e lo spettatore, conferisce alla narrazione un tono evocativo. Spesso si ha l’impressione che il soggettista riferisca fatti ascoltati da altri, o capitati ad altre persone e, dunque, mai largamente inventati. Questa distanza ideale non sparisce se nella narrazione si ricorre alla prima persona, né tanto meno se si usa il tempo presente come a dare la sensazione che si narra ciò che sta accadendo in quello stesso momento. Nel trattamento, invece, lo scrittore tenta di avvicinarsi allo schermo, di osservare i fatti e di analizzarli dal di dentro: è come se cambiasse obiettivo a quella cinepresa ipotetica che porta nascosta nella pupilla dell’occhio dominante. In questa fase nessun materiale letterario e di vita contenuto nel soggetto o soltanto suggerito dovrebbe andare escluso precipitosamente dal trattamento. Non è, cioè, il trattamento la fase conclusiva dell’elaborazione della

sceneggiatura in cui ogni parola deve equivalere a un’immagine pertinente e ogni personaggio ha l’obbligo di limitarsi a dire di sé e degli altri lo stretto necessario. Ma è già il film da fare. Il trattamento non avrebbe ragione d’essere se dovesse presentare tutti i problemi risolti. Ciò che si deve perseguire, infatti, è il raggiungimento di un solido arco narrativo in cui siano risolti i problemi di costruzione e non quelli di ritmo e di misura. I processi di sintesi, di prosciugamento di materiale, la fattura del dialogo appartengono alla fase immediatamente successiva dell’elaborazione. Mario Monicelli raccomanda agli sceneggiatori di scrivere il trattamento proprio come un romanzo, di scrivere molto, di abbandonarsi alla scrittura. Qualunque fiume in piena, si sa, trascina anche oggetti utili. Il metodo che ho adottato mi è stato, appunto, suggerito dalle mie prime esperienze di sceneggiatore, vissute con Mario Monicelli e Steno, allora entrambi soltanto sceneggiatori. In altri termini, preferisco scrivere trattamenti corposi, in cui un’approssimativa tecnica dal romanzo si associa alle esigenze propriamente cinematografiche. I trattamenti di Sergio Amidei, invece, erano composti con diverso criterio. Si tratta più che di trattamenti, di pre-sceneggiature; tutto cioè, è definito, compreso il dialogo, al punto che basta semplicemente scrivere le didascalie di scena a sinistra e il dialogo sulla destra della pagina per avere una prima sceneggiatura. Ciò che comunque è comune a tutti gli scrittori di cinema, anche per il trattamento, è la scaletta. A volte tuttavia, quando si possiede una pratica adeguata si può saltare anche la fase della scaletta, purché si abbia in mente una scaletta sommaria, in cui sono già presenti i nodi narrativi più consistenti, che appunto si tenta di sciogliere nel corso dell a stesura. Ciò porta a scrivere molto, quasi che scrivendo, dilungandosi, insorga la soluzione di una scena, di una situazione per la naturale forza combinatoria della trovata. Quando ciò capita la parte del diavolo, dell’impietoso corruttore, dell’oppositore onnipotente deve recitarla lo stesso sceneggiatore. Si tratta di immaginare le future obiezioni e prevenirle, oppure di sfuggirle. Spesso la scaletta, proprio perché dà sicurezza e prefigura uno schema, viene, per così dire, a castigare l’immaginazione, induce a una sua osservanza troppo rigorosa. Ci si può sentire ingabbiati in una struttura metallica che, anche se a costruirla siamo stati noi stessi, ci pone nella condizione di considerarla saldata da altri, cosicché si ha la sensazione che non sia possibile evadere senza violare un patto con il diavolo o con noi stessi.

A volte, quando ci si è a lungo esauriti nell’elaborazione della scaletta, affrontando lunghe discussioni, proprio scrivendo il trattamento, ci si accorge che qualcosa non funziona. Si stenta, allora, a scoprire dove si nasconde il difetto e nulla pi dell’accanimento acceca. A volte l’errore è sottile come un filo d’erba. Cercarlo diventa un esercizio estenuante, ma provvidenziale, perché offre l’occasione di verificare il proprio lavoro come se fosse stato eseguito da un estraneo. È una vera e propria operazione di montaggio cui fanno seguito vari tentativi di procedere a un montaggio diverso, seguendo, cioè, un altro ordine di precedenza delle scene. A volte la modifica dell’ordine di alcune situazioni denuda l’ostacolo che impedisce di procedere e suggerisce soluzioni nuove non previste dalla scaletta concordata col regista. Ma qualsiasi cambiamento comporta sempre degli aggiustamenti in avanti e indietro. Spesso, anzi, la fedeltà cieca alla scaletta è prova di pigrizia, è spia di un disaccordo che cova fra regista e sceneggiatore. Non è raro, poi, il caso che si arrivi alla stesura della sceneggiatura partendo, anziché dal trattamento, direttamente dalla scaletta che in questo caso è pi corposa, più dettagliata e viene in gergo chiamata «scalettone». A tanto si ricorre quando per esigenze produttive l’inizio delle riprese sia stato già fissato e occorre al più presto avere la sceneggiatura per tutti gli adempimenti contrattuali previsti dal piano di lavorazione. Oppure quando il materiale ha già raggiunto una tale compattezza che si ritiene non abbia bisogno della verifica del trattamento. È il caso de “Il processo di Verona”, realizzato da Carlo Lizzani. Esisteva una sceneggiatura che lasciava perplessi sia il regista che il produttore e ciò non perché fosse scadente e priva di professionalità. Al contrario, portava una firma prestigiosa, ma era l’angolazione scelta dall’autore che non convinceva. Come spesso capita la sceneggiatura entrò in crisi, fui chiamato a intervenire, ma non mi fu commissionato né un nuovo trattamento, né una nuova sceneggiatura, soltanto una scaletta. Si trattava cioè, di fare una proposta di costruzione diversa usando il materiale già presente nella sceneggiatura in crisi. Fra l’altro il film in progetto presentava dei rischi legali. Si prevedeva che i parenti dei processati e qualcuno dei protagonisti ancora viventi avrebbero reagito ricorrendo alle vie legali per impedire che il film circolasse. Tentativi in tal senso, a film finito, ne furono puntualmente effettuati dalla contessa Ciano, dagli altri familiari di Mussolini, dai Farinacci, ecc. e se non ebbero un esito a loro favorevole lo si dovette oltre che all’astuzia del produttore e all’abilità degli

avvocati, all’essere ricorso a una vasta raccolta di testimonianze sparse sui giornali, libri, ecc, cosicché manipolando i documenti a fini drammatici, cercai di rispettare la verità storica, lasciando all’immaginazione ciò che non poteva essere contraddetto dai querelanti. Ovviamente l’incarico limitato alla sola stesura di uno «scalettone» non diminuiva né la difficoltà, né i rischi, ma li mostrava, per così dire, visibili a occhio nudo. Si trattava, oltre tutto, di costruire uno scheletro del film ponendo in evidenza tutte le possibilità drammatiche che il materiale disponibile offriva, fornendo nello stesso tempo gli abbozzi delle scene più importanti per valutare in anticipo sia i rischi legali sia la loro efficacia spettacolare, badando a non sacrificare questa o quelli. Scrissi, dunque, uno «scalettone» di una cinquantina di cartelle, apportando alla prima sceneggiatura dei cambiamenti radicali, sebbene le fonti fossero in gran parte le stesse a cui aveva fatto ricorso il mio predecessore, ma tutto adoperato per una struttura narrativa assai diversa, in cui i personaggi principali acquistavano all’interno dell’intreccio ognuno una funzione rapportata alla vicenda familiare di Mussolini, di sua figlia, di sua moglie, di suo genero. Prevaleva, insomma, il dramma familiare sulla vicenda politica. Benché Clara Petacci, l’amante del duce, non fosse compresa fra i personaggi che animavano il racconto, la sua presenza, per così dire, fuori dallo schermo, risultava in un momento cruciale, determinante nei riguardi della vicenda privata dei Mussolini, che naturalmente affluiva nella vicenda politica ogni qualvolta il privato era provocato dal politico e viceversa. Il film si apriva, però, sullo scenario politico, sull’avvenimento, cioè, che avrebbe dovuto determinare il dramma. Mi sembrò cioè importante che la storia avesse inizio rappresentando l’occasione storica che aveva permesso il compimento del «reato». In tal modo, mentre si riferiva sommariamente — e più avanti se ne capirà il perché — quanto era accaduto durante la seduta che doveva portare alla caduta di Mussolini, si presentavano alcuni fra i maggiori protagonisti del film, si delineavano i rapporti che erano intercorsi fra loro prima della riunione e il diverso atteggiamento che ognuno assumeva nei confronti della congiura e della votazione sfavorevole a Mussolini, avvenuta nel corso della seduta del Gran Consiglio del fascismo. Ciano veniva colpito fin dal suo primo apparire dall’accusa di tradimento politico e familiare. Egli ne restava, come in realtà avvenne, sorpreso ancora pi che spaventato. Ma giacché si era convenuto che Mussolini non dovesse comparire fra i personaggi del film, troppo nota ancora la sua fisionomia perché potesse essere usata un’altra faccia, lo scalettone iniziava appunto descrivendo la

fine della seduta del Gran Consiglio del fascismo, dal momento in cui gli sciagurati protagonisti lasciavano frettolosi e pallidi Palazzo Venezia. Costruii così una serie di scontri fra quelli che avevano votato a favore e coloro — fra cui Ciano — che avevano congiurato contro Mussolini, così da fornire insieme informazioni su quanto era accaduto durante la riunione del Gran Consiglio del fascismo e sui personaggi che avrebbero animato il processo di Verona. La protagonista, Edda Ciano, figlia di Mussolini e moglie del «traditore» entrava nella sequenza successiva: il conte Ciano, il genero che il duce aveva innalzato ai più alti gradi della gerarchia, divenuto uno dei fautori del complotto che aveva determinato la fine del fascismo, si incontrava con Edda, mentre dalla radio e dalla strada si diffondeva il clamore dell’avvenimento inaspettato eppure inevitabile. La miseria morale, la pavidità di Ciano acquistavano rilievo dal fatto che proprio chi, come lui, era stato partecipe della caduta di Mussolini, era chiamato a fornire una spiegazione convincente, un’autodifesa credibile alla figlia del tradito. Edda, così, doveva scegliere a caldo se agire da moglie o da figlia, o ancora da madre. In due scene, dunque, si chiarivano i rapporti politici e familiari dei protagonisti, si presentavano i materiali del dramma. Mussolini compariva in un film di repertorio brevissimo. Lo si vedeva in mezzo ai paracadutisti tedeschi salire in un elicottero, avvolto in un cappotto dal bavero alzato che non copriva la sua vergogna e la paura. Questa sua rapida comparsa era necessaria. Non si poteva continuamente parlare di Mussolini senza che almeno un istante egli comparisse. La scommessa era di scrivere un film in cui il vero protagonista, Mussolini, fosse ostinatamente assente. Alla fuga di Mussolini dalla sua prigione seguiva la fuga della famiglia Ciano in Germania. Due fughe per un uguale, tragico destino. I Ciano fidando stupidamente sui tedeschi tentavano di raggiungere la Spagna neutrale, partivano a bordo di un aereo tedesco per quella destinazione, ma atterravano in Germania, nelle mani dei nazisti. Oltraggiati dai fascisti anche essi rifugiati in Germania, si accorgevano presto di essere caduti nelle mani dei nazisti e dei fascisti. Sarebbero gli uni e gli altri rientrati in Italia, ma Ciano sarebbe finito in prigione a Verona e gli altri avrebbero dato vita alla tragica Repubblica di Salò. Finalmente descritto questo universo di vipere e il fangoso intrecciarsi delle vendette e delle illusioni, il diario che Ciano aveva tenuto negli anni della sua onnipotenza, in cui segnava le nefandezze del regime e, dunque, le sue stesse iniquità, diveniva materia di un possibile scambio fra i tedeschi e la contessa Ciano, quale prezzo per la fuga del marito Galeazzo dalle carceri.

Nel corso delle trattative ognuna delle parti insegue il suo progetto di inganno. Edda, che ormai si considera una Ciano ma vuole beneficiare dei privilegi di essere la figlia del duce, non esita a scagliarsi contro suo padre e sua madre. Nel tentativo orgoglioso e disperato di salvare suo marito, ma anche di mostrarsi la più forte, Edda offende sua madre, l’aggredisce, accusandola di subire l’invadenza malefica dell’amante di suo marito, al punto che sta spingendo lei, sua figlia, a rivolgersi a Claretta per ottenere la liberazione di Galeazzo. Rachele Mussolini, sopraffatta dall’irruenza della figlia, non può che ammettere la sua impotenza, ma anche quella di suo marito che lei sa alla mercé dei tedeschi. Lo scontro, invece, fra Edda e suo padre avviene al telefono. Edda ricatterà e supplicherà inutilmente il dittatore di salvare il genero. Riceverà risposte laconiche più adatte a un prigioniero che a un capo di stato. Ciano, come è arcinoto, non sfuggirà alla fucilazione e dunque nessuna «suspence» era possibile sulla sua sorte. Si trattava di ricostruire la vicenda in maniera che l’attesa dello spettatore fosse indirizzata sul come sul perché, nonostante gli interessi in gioco, l’intreccio delle parentele e l’impegno della moglie, fallisse il piano di fuga di Ciano e i diari restassero nelle mani di Edda, nonostante la caccia spietata che ne facevano i nazisti. Il «clou» del film doveva essere, naturalmente, il processo, ma la vicenda dei diari, storicamente vera, dava al film il carattere di rivelazione esclusiva. Durante il processo il pubblico ministero, nel corso della sua requisitoria, imponeva agli imputati di sedersi intorno a un tavolo, lì nell’emiciclo dell’aula, ordinando a ciascun imputato di occupare lo stesso posto che aveva prescelto la sera del tradimento, cosicché ciò che all’inizio del film non era stato rappresentato proprio per evitare la figura di Mussolini, veniva ora ricostruito in tribunale attraverso lo scontro fra il testimone d’accusa Farinacci e gli imputati. Per coloro che di quelle vicende poco sanno aggiungerò che Farinacci, uomo arrogante e potente, infido e ambizioso, si era schierato con Mussolini durante la riunione che doveva segnare la fine del fascismo ed era stato fra i primi a schierarsi con i tedeschi, sicché nel processo egli in un certo senso rappresentava l’avvocato di parte civile dei tedeschi. In altri termini, gli avvenimenti reali venivano raccontati sempre sulla base di una documentazione inattaccabile da un punto di vista legale, ma sistemati secondo un crescendo drammatico. Altra scelta che feci riguardò l’uso del materiale documentario disponibile, nel tentativo di rendere l’intreccio aderente alla verità storica, facendo salve le esigenze di sintesi e di drammatizzazione. Tra la verità storica e il suo uso spettacolare esiste un’incompatibilità insanabile, ma che va sopportata. Per “Il processo di Verona” l’impossibilità di mettere in scena Mussolini

spingeva ad accumulare in un unico movimento scenico accadimenti verificatisi in momenti diversi e che proprio in seguito alla loro aggregazione provocavano una falsificazione inevitabile, se valutata nel dettaglio, ma aderente alla verità storica nell’insieme della rappresentazione. A tali criteri mi attenni nell’usare alcune dichiarazioni polemiche rilasciate da Edda Ciano contro suo padre, che trasformai appunto in una telefonata durante la quale la figlia chiedeva al padre la salvezza del marito, nella persuasione errata che egli ne avesse il potere. Edda, in altri termini, agiva nella disperata presunzione che proprio chi era stato oggetto del tradimento aveva il diritto di gestire la vendetta o il perdono. Il mio «scalettone» fu accettato e così fui chiamato a scrivere la sceneggiatura direttamente, saltando la fase di «trattamento». Il film che fu realizzato è quello che si conosce, molti tagli e modifiche dei dialoghi srcinali furono imposti dai legali del produttore, ma il tempo trascorso sembra accreditare al film meriti che al momento della rappresentazione in pubblico gli furono negati dalla critica e dai politici. Ma ho commesso nefandezze peggiori che solo il successo ha in parte cancellato. Voglio dire che non sempre ho seguito ciò che qui propongo. Spesso la fretta, imposta da necessità produttive, ha bruciato i dubbi in cambio di quella eccitazione che esaltando l’immaginazione autorizza l’improntitudine. Debbo ammettere, cioè, che ho scritto fìlms senza seguire ordinatamente la scaletta, saltando fasi importanti dell’elaborazione, sceneggiando situazioni disordinatamente, obbedendo alla necessità della produzione, tradendo la metodologia corrente, trasformando il copione sia durante le riprese — e ciò accadde per “Metello” — sia riscrivendo totalmente sulla base di una scaletta nel corso delle riprese la sceneggiatura srcinale. È il caso de “Il giardino dei Finzi Contini” che pure ha ottenuto un Oscar e riconoscimenti di critica e di pubblico. Dire come e perché una sceneggiatura entra in crisi quando la troupe è stata già scritturata, le costruzioni in teatro già pronte, le date degli attori e i sopralluoghi già definiti, è un’illustrazione che va collocata altrove. Basterà dire che la sceneggiatura scritta dallo stesso autore del romanzo gettò, troppo tardi, nella costernazione il produttore e il regista, che pure aveva il prestigio di Vittorio De Sica. Mancava una settimana alla data fissata improrogabilmente per l’inizio delle riprese, quando De Sica e io cominciammo a lavorare a una nuova scaletta. Fummo disinvoltamente irrispettosi nei confronti della sceneggiatura esistente, ma non del romanzo omonimo. Il rispetto di un’opera letteraria non si misura nella trascrizione pedissequa del romanzo, che oltre tutto è impossibile, ma dalla

capacità di sintetizzarlo, trasformando in immagini il materiale del romanzo, ordinandolo secondo esigenze che sono proprie del mezzo cinematografico, distruggendo l’ordine letterario per estrarne i sensi generali, i momenti di centralità narrativa. L’ira che questo procedimento provocò nell’autore del romanzo, e della sceneggiatura che egli stesso ne aveva dedotto, appartiene all’aneddotica del cinema, a quel brulicare di chiacchiere e di dichiarazioni offese che nutrono i giornali. Ogni scrittore, del resto, che vende i diritti cinematografici, approva le manipolazioni irriverenti che il cinema impone; ciò che soprattutto lo indigna e lo disorienta, più che il film finito, è la lettura della sceneggiatura tratta dal suo romanzo. Leonardo Sciascia quando lesse la sceneggiatura tratta dal suo romanzo A ciascuno il suo disse che tanto valeva ambientare il film in Puglia, così lontano dalla sicilianità del romanzo era secondo lui la riduzione cinematografica di Petri e mia. Anche se resto del parere che si trattò di un giudizio azzardato e prematuro, ciò non toglie che il più delle volte le lamentele dei romanzieri siano pienamente giustificate. Ma vi sono forme di rispetto che il cinema non è in grado di garantire, dal momento che i romanzi non sono scritti nascondendo nella pupilla quella ipotetica cinepresa. Per dare un’idea plastica dell’elaborazione del film e mostrare il volume che il trattamento vi occupa, lo si potrebbe paragonare a una figura geometrica, a un solido composto da due forme coniche, unite fra loro alla base e sistemate in posizione orizzontale, assegnando a ogni segmento, a ogni parte del solido una fase della lavorazione. A un’estremità, al vertice del primo cono c’è l’idea, all’altro c’è la copia campione del film. Le due basi unificate del cono rappresentano appunto il trattamento. Tutto ciò per chiarire che il processo di costruzione e trasformazione della visione letteraria in specifico filmico, parte dall’idea, va crescendo allargandosi ad imbuto, passando per la prima scaletta e il soggetto, fino al trattamento che è di solito preceduto da un’altra scaletta, più vasta della prima; per poi cominciare progressivamente a decrescere passando per la sceneggiatura, le riprese, il montaggio. Non ho mai capito che cosa s’intende per «sceneggiatura di ferro», espressione cara ai pudovkiniani, tanto più ne sono disorientato se valuto l’importanza creativa che essi danno al montaggio, in quanto una sceneggiatura riuscita ha sempre bisogno di scarsi interventi al montaggio e mai creativi, ma semplicemente tecnici.

Ma per tornare al trattamento è nella fase che intercorre fra soggetto scritto e l’inizio dell’elaborazione del trattamento che si stipula il patto con i diavoli. Infatti sono più di uno. Ed è proprio questa loro presenza al plurale che rende il rapporto scarsamente demoniaco: ognuno di questi angeli del male è armato da un interesse diverso e ugualmente legittimo, ma tutti sono mossi da un satanismo bonario e prevaricatore, accattivante e stimolante, uguale e contrario. Ogni scrittore di cinema, del resto, si è conquistato il diritto di sparlare dei suoi interlocutori abituali e di prestare loro qualità luciferine. Il regista è il primo dei diavoli che tenta di corrompere lo sceneggiatore. La sua aria decente, il suo aspetto rassicurante, il suo tono autorevole e insieme accomodante sono come macchiati da un sorriso beffardo e impenetrabile che sembra strappato dal volto di Wakefield allorché tornerà a casa, dopo un’assenza tanto ingiustificata quanto diabolica. Il regista, se è conscio del suo ruolo, partecipa alle discussioni con il suo sceneggiatore di fiducia tentando di assumere la funzione di giudice, fedele al segreto istruttorio, tanto egli cela le sue intenzioni, mentre ti spinge a confessare le tue. Egli rinvia ad esporre le prove di cui si crede in possesso, al momento delle riprese, quando sarà solo e ciò per affermare che egli sa scrivere e discutere soltanto con la macchina da presa. A volte è una pretesa fondata, ma la verifica contraria arriva in ogni caso con ritardo. Lo scrittore di cinema gioca in questo disinvolto mercato la sua anima, ma soprattutto la sua tenuta nervosa, l’impareggiabile piacere di vedere stampata sulla pellicola la sua immaginazione. Insomma il regista è l’antagonista dello scrittore di cinema, ognuno dei due è nello stesso tempo alleato e nemico, spia e confidente. Si tratta, in concreto, di affrontare questo arguto diavolo seduti di fronte in comode poltrone, in un salotto confortevole, di offrire a un divoratore insaziabile ed esigente, argomenti, figure, situazioni, scenari, casi personali. È questo lo scenario immutabile, il teatro privo di platea in cui si inizia la discussione sul film senza alcuna possibilità di ipotizzare la conclusione. E non mancano le fiamme, che non hanno nulla di infernale e non lampeggiano, se non nella fantasia dello sceneggiatore. Comunque è attraverso queste discussioni dispendiose che si arriva alla scaletta particolareggiata, al patto che i duellanti sottoscrivono con ottimistica malafede. Particolareggiata non nel senso che si cominciano a individuare le inquadrature o a definire la posizione della macchina da presa o i dialoghi, giacché ciò che è preminente in questa fase è definire l’arco del film, tracciarlo una volta per sempre, risolvendo man mano che si presentano i problemi della costruzione narrativa, annodando i fili dell’intreccio, o snodandoli quando la tramatura, a causa della loro complessità, rasenta la confusione. Durante la discussione che si intreccia, appunto, nel corso della scaletta, il

regista avanza le sue richieste, si abitua a vedere il film, a immaginarselo finito. Man mano che questo processo di acquisizione si verifica, il regista si appropria anche nominalmente delle suggestioni, delle idee che gli sono state fornite da questa innocua eminenza grigia che è lo sceneggiatore. E non basta. Il regista rifiuta quelle proposte che non «vede», oppure si innamora di qualche sequenza impertinente, assolutamente improponibile nel contesto della discussione. Rinnegando, cioè il pensiero logico tenta di piegare il racconto, di modellarlo a seconda di questa sua visione laterale, affinché possa girare un giorno ciò che vede e immagina incurante di ogni obiezione di merito. È il momento degli urli, volano parole grosse, ma le offese sono innocue, anzi benefiche, in quanto stimolano i contendenti a procurarsi sempre nuove motivazioni. E a volte capita che da questi scontri insorga una proposta che crea un accordo, un abbraccio, un senso di soddisfazione. Nel corso di questo torneo impietoso e incruento lo sceneggiatore ribatte, rifiuta, propone, accetta le proposte del regista, cambia opinione non per una volubilità opportunistica, ma piuttosto per una disponibilità al dubbio, per la consapevolezza che le ostinazioni caratteriali spesso rendono meschina ogni difesa del proprio punto di vista. In ogni caso si tratta di controversie legittime, giacché sono di fronte due personalità diverse, che solo l’eventuale abitudine a un lavoro comune avvicina e mette in sincrono. Regista e sceneggiatore assomigliano, in questo caso, a due coniugi che la lunga convivenza rende, loro malgrado, somiglianti. La convivenza di queste strane coppie che non coabitano e nulla unisce se non quella scaletta su cui si incontrano e si scontrano, è difficile e ardita proprio perché ognuno dei contendenti è in possesso di una diversa concezione del film che hanno in progetto, se non del cinema. È un lavoro in progresso, che serve a entrambi per formulare e verbalizzare la loro personale visione del film da fare, ovvero per fonderla. Nella iconografia popolare i diavoli sono di colore rosso fuoco, il cinema generalmente li rappresenta in tight, con barbetta pungente, occhi sfavillanti. Il produttore somiglia più a Luchino Visconti che a Satana è, insomma, un diavolo scomunicato, fragoroso, immaginifico, ardimentoso, dagli occhi privi di bagliori sinistri, generoso e avaro, ingordo e bisognoso di prestigio e di comprensione. Si crede infallibile, ma ha paura, teme l’immaginazione dello sceneggiatore e le stroncature della critica, gli scarsi incassi e la perdita di prestigio. Anche per il regista il produttore è un diavolo, così come il produttore teme le arti maligne del regista che ha scritturato. Ma al di sopra di loro, o forse al di sotto, c’è un altro demonio, pi

inafferrabile e potente, il distributore del film e, ancora più in profondità, l’attende l’ultimo Lucifero: l’esercente. Egli minaccia ora i produttori, ora gli spettatori, dal profondo buio della sala vuota. Ma vedere l’universo cinematografico come un inferno popolato di diavoli in tight o scamiciati non è per caso un’idea cinematografica? Un film da scrivere? Non è l’esempio che scelgo per tornare a parlare del trattamento. Comunque l’intenzione imperdonabile è di scrivere un trattamento su come si scrive un trattamento. Scelgo un soggetto comico. Il riso, soprattutto se espressione della cultura popolare, non ha mai goduto di soverchia considerazione da parte della critica militante e nemmeno degli studiosi di cinema. È un disprezzo molto radicato in tutta la cultura italiana, non soltanto cinematografica. Sembra proprio che il comico, quale espressione del basso sapere, non possa essere accettato nell’istante in cui si produce. In genere il film comico provoca sdegno dei vari circoli culturali e soltanto nel tempo se ne esalta il recupero critico. Il caso di Totò è esemplare. Chi si è accorto a suo tempo, della grandezza di Stan Laurel e di Oliver Hardy? È doveroso, d’altra parte, segnalare che, forse proprio in seguito ai disinganni patiti, la critica si è fatta più benevola nei confronti dei films, che altro scopo non si prefiggono se non di muovere il riso. Ma il più delle volte è una benevolenza inautentica, una concessione al gusto corrente, un’evasione momentanea, magari giustificata da un sorriso astuto, dal dominio dell’alta cultura. È, infatti, proprio l’alta cultura che ha sempre negato valore all ’espressioni del basso sapere, al riso scatenato dalle scurrilità e da tutte quelle manifestazioni che si servono di ciò che Bachtin chiama «il basso materiale corporeo». Tanto per scomodare i capolavori, clamoroso è il caso di Gargantua e Pantagruele. Per secoli a Rabelais — a Totò, tutto sommato, è andata meglio — sono mancati riconoscimenti autorevoli, almeno fino a quando l’esplosione rinascimentale non travolse le concezioni proprie della cultura religiosa e feudale del VII, VIII e IX secolo. Eppure in quegli stessi secoli la cultura popolare aveva una sua vasta circolazione, al punto che i ceti alti erano obbligati a usare alcuni elementi della comicità popolare a scopo di propaganda. Addirittura la chiesa faceva coincidere le feste cristiane e le feste pagane locali, durante le quali la rappresentazione comica della vita era immancabile, così che rito e trasgressione del rito davano luogo a un’empia rappresentazione. Tutto ciò fu possibile fin quando il regime feudale riuscì a mantenere legami quotidiani e spontanei con le tradizioni popolari. Quando, infine, la chiusura

feudale si manifestò in tutta la sua violenza, progressivamente sparì ogni tolleranza almeno fino agli albori del rinascimento. Solo allora fu riconosciuto al riso il valore di forma universale della concezione del mondo. Ma già nel secolo XVII ritornò l’autunno. Bachtin su L’opera di Rabelais e la cultura popolare documenta che «il modo di concepire il riso nel XVII secolo e nei secoli seguenti si può considerare così: il riso non può essere una forma universale di visioni del mondo, può riferirsi soltanto ad alcuni fenomeni parziali, tipici della vita sociale, ad alcuni aspetti di ordine negativo, ciò che è sostanzialmente importante non può essere comico». Eppure c’era stato Rabelais. Ma il Montaigne in un brano degli Essais affermava: «Io personalmente amo i libri divertenti e leggeri, che rallegrano, oppure quelli che mi danno conforto e mi suggeriscono come orientare la mia vita e la mia morte».

IL CAVALIERE CHE FACEVA PARLARE LE FICHE

Il soggetto che scelgo per questo trattamento da fare, indicando via via le fonti, accumulando i materiali, le proposte, valutando soluzioni alternative e sollevando obiezioni, è un poemetto erotico, presumibilmente del secolo XII, tratto da una raccolta di «fabliaux» (cfr. Il falcone desiderato, poemetti erotici francesi, a cura di Charmain, ed. Bompiani 1980). Secondo Per Nykrog citato nell’introduzione de Il falcone desiderato i «fabliaux» erano considerati parodie della letteratura cortese e, dunque, pur sempre destinati a un pubblico aristocratico e non borghese. Ma II cavaliere che faceva parlare le fiche sembra piuttosto una parodia della letteratura cortese, nata all’interno dei ceti senza privilegi e destinata proprio a coloro che irridevano al mondo aristocratico, alla cavalleria, al clero. La carica oltraggiosa, il significato di innocua rivalsa semmai è mitigato dal carattere parodico del poema. Ciò non escluderebbe una diffusione anche fra i ceti «cortesi». Già il titolo è scandaloso, indegno persino della cosiddetta commedia all’italiana, così perbene e castigata e ciononostante accettata con tanto ritardo, non certo dagli acquirenti. Il ritardo della critica cinematografica, del resto, è segnato da fragorosi infortuni. Persino la valutazione critica del neo-realismo è dovuta alla critica francese e americana. A distanza di anni rileggendo certe recensioni dedicate a “Roma città aperta” non si sa se ridere o indignarsi. Eppure non era un fil comico. Umberto Barbaro (“L’Unità”, 26 settembre 1944) rese omaggio al valore politico del film «che merita indubbiamente il plauso di tutti gli onesti», ma il suo non fu un giudizio positivo. Così infatti concluse la sua recensione: «Valendosi intelligentemente dell’abilità di due attori popolari come la Magnani e Fabrizi, il regista ha sorretto la semplicità della trama drammatica su sequenze alternanti abilmente scene nate comiche o addirittura grottesche alle scene più forti e strazianti, secondo quella che tutti conoscono per buona regola psicologica e ragionevole previsione delle reazioni emotive del pubblico». «Insomma un abile prodotto commerciale, apprezzabile soltanto perché affronta il tema dell’occupazione nazista di Roma. In altre parole a noi non pare che il film sappia svolgere un tema (ad un particolare tema cui altri subordina),

ma al contrario accenni a parecchi temi, rimanendo, però, nel limbo e non riuscendo, per conseguenza, a convincerci» scriveva Alberto Vecchietti nell’“Avanti” del 28 settembre 1945. «Là dove non andiamo d’accordo con Rossellini è nella seconda parte dove uno spietato verismo oltrepassa i limiti dell’estetica. La verità riprodotta in cera nel museo Grevin non è mai arte» scriveva Fabrizio Sarazani su “Il tempo” del 28 settembre 1945. Per Antonio Pietrangeli, autorevole critico prima che noto regista, “Roma città aperta” aveva «una sceneggiatura frammentaria e imprecisa, e gli attori, che tutt’al più erano capaci di lasciarsi fotografare, salvo Anna Magnani che comincia a darci una prima riprova delle sue qualità, non hanno certo aiutato molto il regista nel suo difficile e pericoloso tentativo. Infine vorremmo invitare Rossellini, giovane regista che per sua fortuna non è venuto al cinema dalla produzione commerciale, ad affidarsi con più coraggiosa fedeltà al suo temperamento e ad avere meno paura di quel fantasma vendicativo che è il pubblico, in modo da evitare di perdersi nelle gagliofferie di genere americanistico: quel genere che lo ha spinto a far diventare buffi coloro che avrebbero potuto consumare in silenzio i loro drammi, solo perché è stabilito che nei drammi deve esserci un momento di sollievo, perché è stabilito che la povera gente deve anche essere buffa». E chissà che senza quelle buffonerie qualche critico non sarebbe stato pi benevolo, peccato che senza quelle buffonerie “Roma città aperta” avrebbe ignorato lo spiritaccio del popolino romano, sarebbe sparito quel senso di toccante verità; quella sensazione di una storia vissuta collettivamente e sarebbe affogato nella retorica. Senza dire che tutto il cinema di Zavattini è sempre attraversato da un umorismo ora iperbolico, ora sottile. Né è azzardato sospettare che l’ostracismo che ha subito Zavattini, ancora più che alla sua limpidezza ideologica, sia dovuto proprio a quella mancanza di «serietà», di piagnucolamenti vari, di manicheismo asfissiante. Chi sorride di se stesso e degli altri, chi scaglia accuse lubrificandole con un sorriso, chi produce risate e sberleffi non avrà mai il contemporaneo consenso della critica dabbene e dello spettatore. O l’uno o l’altro. Peggior sorte è poi riservata al temerario cineasta che accoppia il comico a quella che per brevità chiamerò anch’io «oscenità». In questo caso singolare suggerito da un testo che i secoli trascorsi hanno vestito di dignità letteraria, non solo il titolo è destinato a scandalizzare congiuntamente la chiesa e i chierici della critica. È tutto il materiale che rischia di offendere ancora oggi per la sua audacia verbale e per la disarmante blasfemia

più di quanto indignò i signori timorati di Dio nell’epoca in cui si diffuse. L’anonimo verseggiatore, prima di iniziare la sua narrazione in versi, esordisce emettendo una dichiarazione di intenti che sembra destinata ai suoi posteri. «Si fanno ora “fabliaux” in quantità/ e chi li racconta e li diffonde/ si è ben arricchito/ perché recano grande conforto/ agli uomini allegri e spensierati./ Ovunque la gente non sia scontrosa/ e persino chi è in preda all’ira/ se ascolta dei buoni “fabliaux”/ ne trae grande sollievo/ dimentica sofferenze e pene/ malvagità e preoccupazioni.» L’anonimo autore, dunque, non teme di fare azione scandalosa, né teme ritorsioni punitive, scomuniche, egli sa di usare un argomento e un linguaggio che non lo danneggiano, anzi che potranno arricchirlo, proprio in virtù del sollievo che egli spera diffonderà fra gli umili e del divertimento che provocherà ai signori che pure sono presi di mira. Grande teorico del riso, come medicina indispensabile, fu proprio Ippocrate. Nei suoi trattati si accenna più volte e in più testi alla necessità superiore che sia il medico che il malato abbiano uno stato d’animo allegro e vivace quale medicina essenziale per ogni guarigione. Argomenti tradizionali, anzi storici, di riso, seppure non i soli, sono il basso ventre maschile e femminile. Paradossalmente il riso, la facile comicità che scatena la rappresentazione degli atti «impuri», come delle scurrilità più ricorrenti, non provoca nessun interesse di studio, di ricerca e di interpretazione se insorge prepotentemente come tendenza generale e si impone al di fuori degli schemi, per così dire, ufficiali. Qui non si vuol certo sostenere che il ricorso a peti, a escrementi, a situazioni blasfeme e grasse, diplomi qualsiasi filmato; al contrario, il tentativo è condotto nella direzione opposta; con l’intento, cioè, di dare dignità ad alcune elementari forme di eversione verbale e gestuali, appunto ai danni dell’uso gratuito, proditorio, bassamente finalizzato. Nel presente è questo l’unico uso che se ne fa. Ma se il ricorso alla scurrilità verbale e gestuale mostra nei singoli prodotti la sua gratuità culturale e il suo scopo fruttuoso, altra attenzione meriterebbe l’insieme del fenomeno, la sua ossessionante e allarmante ripetitività e l’accettazione acritica del suo vasto pubblico. L’indignazione non serve; gli indizi sullo stato della società che questi films forniscono non serve che siano raccolti da un giudice privo di potere reale, come lo è ogni moralista, servirebbe invece una riflessione approfondita, una ricerca che ne evidenziasse la cupa srcine e ne disegnasse una mappa particolareggiata. Né è compito dei cineasti impedire questa proliferazione eloquente più che

riprovevole, a loro semmai si richiede altro: una capacità d’intervento che espropri chi si serve, per fini esclusivamente privati, della carica eversiva che pure viaggia per vie sotterranee nel nostro quotidiano. Si tratta, grosso modo, di fotografare l’altra faccia di questa protesta di massa che, se si distingue per la sua passività e inadeguatezza, purtuttavia mostra di esistere. Non è, in definitiva, allarmante, ma significativo sì, che questa tendenza perversa della produzione nazionale celebri il suo trionfo nel momento in cui il pubblico cinematografico muta, nella stagione in cui nelle sale irrompono i giovani e che sempre più rari diventano gli spettatori dai capelli grigi. D’altra parte altrettanto utile potrebbe essere rovesciare l’uso di questi materiali, ancorarli, cioè, all e forme classi che della comicità popolare. Una manipolazione che partendo dalla stato dei fatti contribuisse, nella misura del possibile, a modificare la tendenza generale senza demonizzarla, restituendo al «basso materiale corporeo» di cui parla Bachtin, il valore di conoscenza, di individuazione di quelle forme di trasgressioni sotterranee e capillari che verbalizzano un malessere sociale ancora incapace di trasformarsi in una posizione politica, andrebbe comunque tentata. Propositi così pesanti forse il nostro eroe non li sopporta, ma tant’è, nel deserto della ricerca ogni apporto ha soprattutto il valore di testimonianza. Un cavaliere giovane, ma squattrinato, viaggia in compagnia del suo scudiero tutto fare di nome Huet. Il cavaliere non ha nome, la sua qualifica lo preserva da questa necessità. Entrambi viaggiano in cerca di tornei cavallereschi dai quali sperano di trarre qualche guadagno. Il loro è un viaggio che non rispetta date e orari, percorsi. Si direbbe che è una ricerca senza meta. L’accostamento di don Chisciotte e a Sancho Panza viene spontaneo. Borges ha osservato che un grande scrittore crea egli stesso i suoi precursori. E Kafka che ha fatto di Hawthorne il suo precursore. Usando l’ipotesi di Borges si può immaginare che don Chisciotte sia nato prima deII cavaliere che faceva parlare le fiche.

Ciò che rende, infatti, ognuno dei due cavalieri predecessore dell’altro è l’esistenza al loro fianco di uno scudiero insieme al carattere itinerante delle loro diverse avventure, ma anche il fallimento che entrambi celebrano delle loro ambizioni guerriere e il grottesco che spargono sulla cavalleria quale istituzione dell’epoca. Niente altro in comune hanno i due nobiluomini, entrambi offesi dalla loro indigenza. Ciononostante riesce difficile immaginare questo nostro cavaliere assoldato, dalla bassa cultura, con un volto, un aspetto, un’armatura diversa da quella di don Chisciotte. Così come l’onesta figura di Sancho Panza va a coprire,

con i suoi contorni adiposi, qualsiasi altra raffigurazione di Huet, popolano pi scaltro e interessante del suo successore o predecessore. Per muovere il riso, d’altronde, le due figure destinate a cavalcare nel nostro trattamento hanno bisogno di una marcata caratterizzazione fisica e comportamentale. Ciascuno portatore di un diverso destino sociale e di un’identica finalità. L’srcine di quest’accoppiamento che determina il grottesco è antichissima: un guerriero vanaglorioso e il suo scudiero si trovano dipinti sui vasi corinzi. Secondo Bachtin la somiglianza fra le due figure corinzie e i personaggi cervantini è impressionante. Una differenza, tuttavia, sta nel fatto che le due figure corinzie hanno entrambe un fallo gigantesco, mentre Cervantes non si occupa del «basso materiale corporeo». Nulla spinge il nostro cavaliere ad affrettarsi verso i tornei. Sicché tocca al suo cosciente e preoccupato scudiero di sospingerlo insistentemente, di supplicarlo a riprendere il viaggio, a restare fedele ai suoi propositi prima che il costo dei divertimenti non lo costringa a svendere ciò che gli resta dell’armatura, compreso lo stesso addestrato cavallo. Aveva già perduto, per queste sue intemperanze, il manto d’ermellino e la cappa imbottita, simboli del suo rango. Purtroppo per il nostro cavaliere non era epoca di guerre sacrosante e scarseggiavano i tornei. La notizia che un torneo degno di lui era stato bandito a La Haye, in Turenna, rinnova i suoi propositi: è pronto a spronare la bestia scacciando ogni tentazione. Ma tocca a Huet, questo spietato contabile, ricordargli che non può sperare di partecipare a un torneo che vale la sua fama, dal momento che ha impegnato nelle mani di un oste la sua armatura. Né si affronta un lungo viaggio senza adeguati mezzi di sostentamento. Il cavaliere ha in grande considerazione l’abilità giudiziosa del suo scudiero: «Tu mi hai sempre saputo consigliare/ e a darti retta ci avrei guadagnato./ Pensa un po’ tu a riavere/ la mia armatura al più presto/ cerca di fare qualche buon affare/ meglio che puoi». Huet obbedì, vendette il palafreno del suo signore e riuscì a pagare ogni debito, a disimpegnare l’armatura così che finalmente si rimisero in viaggio. Ancora una volta Cervantes ci spinge a immaginare il nostro cavaliere in marcia non più in sella al suo palafreno, al cavallo bardato, solenne e degno, addestrato alle tenzoni e alle parate, ma a cavalcioni di un ronzino rassegnato, così come lo scudiero non possiamo che vederlo in groppa a un asino. Nel poemetto dal quale questo soggetto è desunto non si fa cenno alla cavalcatura di Huet, né l’anonimo autore dedica versi alla bestia che sopporta il peso del cavaliere e della sua armatura, ma il soggettista ha l’obbligo di «vedere»

le loro bestie e se la sua immaginazione vale il «fabliau» troverà occasioni comiche che disseminate nell’arco narrativo spingeranno allegramente la vicenda verso la sua conclusione. Per Bachtin l’asino ha nello stesso tempo un valore abbassante (di mortificazione) e rigenerante. Anche il ragliare dell’asino è un’ antica macchina della risata, ma il suo suono è lacerante, così sgraziato che diviene insopportabile se non lo si usa con misura, nel momento giusto, allorché lo spettatore ha bisogno di una rottura violenta dei suoni e delle immagini. Questa rude bestia che le orecchie condannano a un inguaribile ridicolo e a un’ignoranza colpevole e misurabile, è elemento farsesco sfruttato senza parsimonia specialmente in quegli spettacoli di strada che sono le feste paesane in onore del santo protettore. Ma tornando al soggetto, va aggiunto che il cavaliere non soffrì affatto per la perdita della bestia, né si sentì menomato nel prestigio, o si preoccupò di sapere come lo scudiero fosse ri uscito a r isolvere le loro necessità. «Del resto» concluse «a noi non serve un cavallo da parata.» In compenso egli poté disporre di dodici denari. Si misero, dunque, in marcia e dopo un breve tratto di cammino si imbatterono in un ruscello circondato da alberi verdeggianti e da folto fogliame. Nelle acque del ruscello tre fanciulle, che sembravano ed erano fate, si bagnavano nude in attesa di essere viste. La bellezza e il colore tenero della pelle garantivano della loro giovinezza, ma forse questa qualità non era altro che magia. Le loro vesti sgargianti, trapuntate di oro zecchino, erano un tesoro incustodito, valevano certamente assai di più dei dodici denari che il cavaliere possedeva. Quando Huet vide le tre damigelle nude scherzare nell’acqua, non si incantò: il suo sguardo avido si posò a lungo sulle vesti che, raccolte sotto un albero, sembravano attendere un ladro. A spron battuto Huet corse in direzione di quel tesoro abbandonato. Si può immaginare che cosa sia capace di fare un asino se viene pungolato e spinto a galoppare. E una bestia in cui la forza è sottomessa all’infingardaggine e solo il dolore del bastone e degli speroni lo costringe a obbedire. Dunque, per il momento, Huet cavalca un asino. Basta. Huet si impossessò al volo delle vesti e si allontanò con il suo trofeo. Forse è a questo punto che l’asino dovrebbe ragliare per festeggiare la conquista e allarmare le fate. La maggiore delle tre fu la prima a disperarsi, ma Huet cavalcava di gran carriera incurante e soddisfatto. Le fanciulle depredate dei loro abiti piansero, gridarono, invocarono pietà e considerazione, ma pure non si servirono dei loro poteri magici. Avrebbero

potuto fulminare scudiero e bestia, se non lo fecero fu perché esse sapevano ciò che sarebbe accaduto fra poco. Tanto fu repentino il gesto del suo scudiero che il cavaliere nulla poté contro quell’oltraggio perpetrato ai danni di tre damigelle e a disprezzo della sua onorabilità. Quando giunse nei pressi delle tre fanciulle si mostrò quello che era: un cavaliere. Ma certo non chiuse gli occhi, mentre una delle tre fate gli raccontava la loro disavventura ed egli galantemente prometteva di restituire loro le vesti. Finalmente il cavaliere doppiamente turbato nei sensi e nell’onore, spronò il suo malandato cavallo. Non gli fu difficile raggiungere Huet, nessun asino può competere, del resto, con il galoppo di un cavallo, quale che sia la qualità dei suoi garretti e la purezza del suo sangue. A Huet il cavaliere ingiunse di restituire subito le tre vesti, giacché sarebbe stata «villania troppo grossa far onta a queste fanciulle». Invano Huet lo indusse a considerare che dalla vendita delle vesti avrebbero potuto ricevere cento libbre. «Ma un cavaliere è tale anche nella miseria». «Allora è giusto che siate un miserabile!» concluse Huet con stizza. L’irrispettoso linguaggio di Huet bene esprime come la differenza di rango non basti a mantenere le distanze, il rispetto e il timore allorché la borsa di un cavaliere è vuota quanto quella del suo scudiero. Resta l’obbligo della obbedienza. Senza fatica di gesti e di parole il cavaliere si fece consegnare il maltolto. Baldanzoso come un vincitore tornò dalle fanciulle e restituì loro i preziosi drappi aggiungendo toccanti parole di scusa. Le tre damigelle si rivestirono in fretta davanti agli occhi socchiusi del cavaliere impertinente. Egli, in verità, aveva conquistato almeno il diritto di ammirarle mentre si vestivano. Solo quando non restò esposta altro che la bellezza dei tre visi, il cavaliere prese congedo e si allontanò, senza fretta come a volersi godere il suo trionfo senza vederlo. Ma le fate sono generose: quando le tre donne, che i vestiti rendevano dame, si resero conto che sarebbe stata un’imperdonabile villanìa se a un atto di cortesia tanto sofferta non avessero offerto in cambio una ricompensa adeguata, a prova della loro gratitudine, decisero all’istante di rendere ricco chi era tanto galante benché in miseria. Nulla, del resto, è più difficile che coniugare la povertà con la galanteria. Chiamarono il cavaliere e lo indussero a tornare sui suoi passi, e con parole gentili le tre fate dettero al cavaliere doni preziosi e rari.

«E sappiate che mai lo perderete/ mai non andrete in nessun luogo/ senza che siate bene accolti da tutti/ e vi si faccia gran festa/ e senza che ognuno vi elargisca/ tutto quello che possiede/ Mai più sarete povero.» Il cavaliere ringraziò per quel ricco compenso promesso, benché non ne conoscesse ancora l’entità e la qualità. «Ovunque andiate» finalmente gli rivelò un’altra delle tre fanciulle «non ci sarà donna o bestia che incontriate/ benché abbia due occhi nella testa/ che non vi risponderà con la sua fica/ se rivolgerete ad essa la parola./ Questo vi toccherà in sorte e siate certo/ che nessuno, né re, né conte/ ha avuto mai qualcosa di simile.» Il cavaliere restò perplesso: gli sfuggiva il valore di quel dono, come cioè fosse possibile trarne un vantaggio materiale tuttavia non espresse né meraviglia, né incredulità. Si mostrò infine sconcertato quando la terza damigella, la più avvenente e prosperosa, con la voce più dolce della terra volle dedicargli un terzo dono: aggiunse, cioè, che se il cavaliere per caso si fosse trovato al cospetto di una fica che per qualche sua segreta ragione o per un inganno non avesse potuto far udire la sua voce, sarebbe toccat o al culo di dire ci ò che la fica si rifiutava di r ivelare. «Poco importa se a qualcuno non piaccia/ voi non avete che da chiamarla» concluse la terza fata. Huet non era presente, si teneva a giusta distanza, ma quando il cavaliere lo raggiunse e gli enumerò gli straordinari doni ricevuti, lo scudiero si mostrò subito dubbioso al punto che lo stesso cavaliere sposò gli stessi dubbi. Eppure non poteva credere che in cambio di un atto galante che a lui era costato tanto, si potesse ricevere un inganno così clamoroso e bizzarro. Il loro viaggio continuava, dunque, nel pentimento per quanto avevano così scioccamente perduto, quando accadde di fare un incontro strano e rivelatore. A cavallo di una giumenta si avvicinò un prete. Ricco, potente e avaro. Appena fu di fronte al cavaliere, il prete lo salutò calorosamente e umilmente; subito si offrì di porsi ai suoi ordini e dichiarò persino che quanto possedeva era a sua disposizione. Certamente la prodigalità di un prete, sia pure espressa a parole, dovette apparire ai due viaggiatori più inverosimile che i magici doni promessi dalle fate. Le fate, si sa, sono prodighe dopotutto per tradizione, ma i preti che esercitavano un potere spirituale ed economico, che possedevano beni e imponevano servitù, sottraevano anziché dividere con il prossimo, non potevano avere fra loro un uomo dalla generosità gratuita. L’offerta, insomma, del reverendo era così rara e imprevista che sia il cavaliere che lo scudiero si persuasero all’istante che le tre fate non avevano donato tre inganni.

Se un prete poteva, cioè, mostrarsi denudato della sua avarizia, la fica di una femmina poteva bene avere il dono della parola. Il diffidente Huet si arrese all’evidenza, smarrì i suoi dubbi, sollecitò il suo padrone a interrogare la fica della giumenta del prete, sicuro che avrebbe parlato in rispetto della promessa delle fate. Interrogare una fica e udirne distintamente le risposte, trovare il tono adatto a un cavaliere, e che nello stesso sia comico senza essere ridicolo, sia pure nei secoli bui del Medioevo, non è certo impresa da poco. Il cinema è assai pi impietoso della letteratura, l’immagine più spietata della parola. E poi che cosa mai chiedere a una fica di una giumenta cavalcata da un prete? Il cavaliere si fece animo e disse: «Madonna fica dove va il vostro padrone?/ Ditelo a me, non me lo nascondete.» Si tratterà, certo, di stabilire in un’altra fase del nostro lavoro a quale distanza e in quale posizione il cavaliere si pose perché la fica potesse ascoltare, affinché sia chiaro allo spettatore chi parla e chi risponde. Fra l’altro la fica di una giumenta dovrebbe nitrire. Ma siamo in un mondo favoloso, la verosimiglianza è garantita dalla circostanza in cui la donazione è stata elargita e dallo stesso carattere parodico dei doni. «In fede mia lui va dalla sua amante/ e le porta danaro sonante./ Venti libbre di buone monete/ che tiene nascoste nella sua cintura/ per comprarle un vestito martedì.» Ecco ciò che disse la giumenta senza servirsi della bocca. Il prete quando udì la fica della bestia parlare così bene e con tanta verità fuggì per il terrore, abbandonando la cappa, la giumenta e la cintura con il denaro. Il cavaliere e Huet si impossessarono di tutto e si allontanarono felici e soddisfatti. Che tanto nobile cavaliere si impossessi di denaro, giumenta e cappa di altri appare del tutto conveniente. Se era evidentemente disonorevole impossessarsi dei vestiti delle tre dame, era del tutto legittimo, al contrario, impossessarsi degli averi di un prete che si recava dalla sua amante. Disonorevole era, dunque, impossessarsi delle vesti di fanciulle che si bagnano nude in libertà, ma non l’era impossessarsi degli averi di chi, avendo fatto voto di castità, si apprestava a godere i favori di una donna e ricoprirla di vestiti costosi. In altri termini la trasgressione della legge morale imperante è accettata a patto che si tratti di un precetto imposto, al contrario è condannata se il trasgressore ha accettato volontariamente la norma, anzi se ne è divenuto il custode e il giudice. Questa scala di valori morali è tradizionalmente fatta propria dagli

umili, dagli uomini senza privilegi. Il «fabliau» nulla riferisce del viaggio fino al prossimo castello in compagnia della giumenta del prete. Ma come perdersi lo spasso di un lungo dialogo fra la fica della giumenta e il cavaliere? La fica della giumenta certo ne racconterebbe di cotte e di crude sul suo padrone, un vero campionario di tutti i vizi segreti dei poveri preti e, dunque, di tutte le amene dicerie, di quegli sfoghi consolatori e innocui che nel popolino avevano larga diffusione. Sia pure in un’epoca così severa, nessun anatema, o minaccia di punizione terrestre o divina poteva frenare quel mare di maldicenza che da sempre meritano, quale rivalsa insufficiente, i curati di campagna, i monaci e il basso clero in genere. Ad altri ceti più potenti e con altro linguaggio spettava criticare le alte gerarchie ecclesiastiche. Altre avventure di viaggio, altri incontri seducenti e bizzarri il «fabliau» non narra, come nel romanzo greco il tempo e lo spazio si piegano alla narrazione e non questi a quelli. Lo spazio e il tempo si mescolano e creano un tempo illusorio, uno spazio senza estensione, ipotetico. Il tempo-spazio cinematografico ha la stessa elasticità, una legittimità che lo spettatore non contesta se l’azione avviene all’interno di un sistema di conoscenze e di misurazioni depositate nella sua memoria. La distanza, dunque, esistente tra il luogo in cui il cavaliere incontra il prete e il castello in cui deve avvenire il torneo si percorre senza percorrerl a. Gli eroi arrivano sempre dove sono attesi, e il viaggio si compie nel tempo desiderato dall’autore, lo spettatore è in attesa di quell’arrivo fin da quando ha appreso quale è la meta, ma essa può mutare, spostarsi in avanti o indietro nello spazio filmico producendo un altro tempo cinematografico che lo spettatore accetta sempre. Ma torniamo al «fabliau». Nel castello, dunque, viveva un conte e la contessa sua moglie, circondati da cavalieri, cortigiani, damigelle, servi e stallieri . Al suo arrivo il cavaliere ebbe accoglienze assai dignitose ed entusiastiche, quasi che egli non fosse un forestiero sconosciuto, ma un amico di ritorno da un altro torneo. Queste accoglienze calorose e colorite erano dovute oltre che alla magia delle tre fate, al mutato aspetto del nostro cavaliere. La sua armatura è lucente, la giumenta che cavalca ha il collo diritto, il pelo fresco, la criniera pettinata, la fica silenziosa. Dove è avvenuta la trasformazione non ha importanza, tutto è stato reso possibile dal denaro del prete, superfluo sarebbe precisare il dove e il quando. Il conte che fremeva per stringere e abbracciare l’ospite sconosciuto, è da credere per l’arcano potere delle fate, allorché l’ebbe di fronte, lo baciò sulla

bocca. E’ difficile accertare se un gesto così intimo appartenesse alle fiere usanze dei castellani o non fosse un’espansività eccessiva e maliziosa del nostro castellano; in ogni caso il cavaliere non indietreggiò, né mostro meraviglia o schifo. Di che cosa poteva mai turbarsi chi aveva rivolto la parola alla fica di una giumenta? Ma l’intento canzonatorio di tutto il «fabliau» è tanto lieve che tutto acquista normalità, ogni bizzarria acquista una credibilità quotidiana che invita al sorriso con grazia. La contessa, quando si trovò al cospetto del cavaliere, non lo baciò né sulla bocca, né altrove, ma l’avrebbe stretto a sé «con più gioia che l’andare a messa/ e venti baci in fila gli avrebbe dati/ se il conte non fosse stato lì presente». Il calore di questa castellana non poteva essere descritto con più sobrietà, la malizia dell’anonimo verseggiatore è frenata dal rango del personaggio. Sembra quasi che abbia bisogno di tempo per prendere coraggio e scatenare la sua lingua. Senza indugi dopo tanti saluti festosi, i cavalieri e i castellani presero posto al tavolo imbandito. La contessa, naturalmente, fu prodiga di attenzioni verso il cavaliere. Non trascurò nulla. Chiamò la più brava e la più graziosa delle sue damigelle e sottovoce le disse di coricarsi accanto al cavaliere che con il suo arrivo aveva tanto rallegrato tutti, allorché ognuno si fosse ritirato nella sua stanza. Le ordinò di stendersi nuda al fianco dell’ospite e, per incoraggiarla a essere pronta ad accontentarlo, non solo le magnificò la bellezza del cavaliere, ma non esitò a confessarle che avrebbe voluto prendere lei stessa il posto che offriva alla sua damigella. Se tanto non osava, ciò era dovuto soprattutto al timore di essere scoperta dal marito troppo lontano da lui in ore tanto adatte alle trasgressioni coniugali. La damigella obbedì, ma di malavoglia. Che damigella sarebbe stata se avesse acconsentito con entusiasmo? Tremante, infine, l’obbediente giovane penetrò nella camera in cui il cavaliere dormiva, si spogliò in fretta e si distese accanto a lui. Il cavaliere, che pure era stanco, nel sentirla vicino si svegliò. Si stupì. Chiunque si sarebbe stupito perché quello di svegliarsi e di trovarsi accanto una donna disposta e piacente è uno degli avvenimenti favolosi che tutti gli uomini sognano ad occhi aperti e che pure raramente capitano. Lo stupore reciproco, le parole di scusa, di giustificazione superflua e in ogni caso inadeguata della damigella, non impedirono al cavaliere, ora senza altra armatura, di baciarla, di accarezzarle il seno grazioso e fresco, infine di poggiare la mano sulla fica. Altro non osò. Ma la scarsa irruenza, più che a una caduta della virilità, va

addebitata alla curiosità invadente di provare il suo potere, la qualità del dono ricevuto. «Signora fica, ora parlate a me./ Voglio chiedervi perché mai/ la vostra signora è venuta qui.» «Signore» rispose la fica della damigella «pietà»./ Mi manda la contessa per darvi gioia e piacere.» In questa sobria richiesta di pietà è espresso tutto il passato virtuoso della damigella e inoltre è nascosta la curiosità e la sorpresa per la carnosa armatura del cavaliere di cui pure non si osa far cenno. Al sentir parlare la sua fica, anche se il cavaliere le si era rivolto tanto cortesemente, anche se più cavalleresco sarebbe stato chiamarla signorina fica anziché signora, la damigella fu colta da terrore, balzò nuda dal letto com’era e fuggì nella camera della sua padrona. Nel vederla, nuda e tremante, la contessa f sorpresa e contrariata; del conte nulla si dice. Quando finalmente la damigella riuscì a parlare, riferì che l’ospite poteva far parlare una fica, dare la voce dei cristiani a una bocca muta da sempre. La contessa si stupì, si dichiarò incredula, ma giacché la damigella giurava e insisteva che tutto era vero, la contessa decise di risolvere il mistero l’indomani mattina. Il cavaliere si alzò di buonora, deciso a riprendere il viaggio, e ordinò a Huet di sellare la giumenta. La contessa, che moriva di curiosità, informata di quella repentina partenza, corse a pregare il cavaliere affinché rinviasse la sua partenza almeno fino all’ora di pranzo. Le insistenze cortesi della contessa furono così allettanti che infine il cavaliere si decise ad accontentarla. Il pranzo fu abbondante e saporito. Si passò alle chiacchiere, ai racconti delle imprese di cavalieri presenti. La contessa non poté trattenere a lungo il suo segreto e la curiosità che il racconto della damigella aveva acceso; così rivelò che fra le tante avventure ascoltate, nessuna poteva paragonarsi a quella del cavaliere ospite, che ora sedeva al suo fianco. Secondo quanto aveva appreso, quell’ospite così impaziente di partire possedeva una qualità unica che gli consentiva imprese straordinarie. Il cavaliere si schernì, ma la contessa non tacque e rivelò al marito e ai presenti che il cavaliere poteva parlare alle fiche delle donne e persino ottenere risposte. E non valeva questa facoltà ogni impresa cavalleresca? I commenti si intrecciarono con lo stupore degli invitati. Il conte ne rise senza misura e si unì alle facezie dei commensali increduli. Non mancò chi ipotizzò le

domande che avrebbe voluto rivolgere a varie fiche di sua conoscenza, se effettivamente avesse avuto un tale potere. Ma la contessa aveva propositi dettagliati e audaci: ella voleva mettere alla prova il cavaliere; benché fosse donna non villana e apprezzata per la sua msrceratezza, moriva dalla curiosità di udire la voce della sua fica, ma più forte era il proposito di prendersi gioco di un ospite tanto dotato. Scommise, dunque, ben quaranta libbre che in ogni caso la sua fica non sarebbe stata tanto stupida e così avventatamente ciarliera da dare a quella parte di sé che possedeva i suoi segreti più intimi la facoltà di svelare ogni verità. II cavaliere si disse pronto ad accettare la scommessa, ma avvertì che non possedendo le quaranta libbre, era disposto a scommettere la sua giumenta e l’armatura. La contessa accettò, ma prima che il cavaliere potesse rivolgersi alla sua fica, chiese di ritirarsi per qualche istante nella sua stanza. Nessuno ebbe obiezioni, l’attesa divertita dei presenti e dello stesso conte, nonostante l’incredulità serpeggiante, crebbe velocemente. Una volta raggiunta la sua camera la contessa raccolse un’abbondante quantità di fiocchi di cotone, si sollevò le vesti, allargò le gambe e si imbottì la fica, bloccando quella bocca baffuta perché potesse continuare a tacere. Vi entrò almeno una libbra di cotone, evidentemente era una bocca molto spaziosa e profonda. Finalmente si presentò al cavaliere e lo invitò a dare prova della sua magica virtù. Non senza emozione il cavaliere si accinse a rischiare il suo prestigio e i suoi scarsi beni di fortuna. «Madonna fica» disse «ditemi cosa ha fatto la vostra signora nella sua camera.» La fica non poté rispondergli, impedita com’era da quell’enorme tampone che la contessa le aveva appli cato. Constatando che non riceveva nessuna risposta, il cavaliere ripeté la domanda, ma ancora non ricevette risposta. Il cavaliere nascose la sua disperazione, perse la sua sicurezza e già stava per darsi vinto, quando lo soccorse il suo fido scudiero. Huet gli ricordò che la più giovane delle graziose fate sorprese nude nel ruscello, gli aveva regalato la facoltà di far parlare il culo, proprio nel caso che una fica si fosse rifiutata di far udire la sua voce. Il cavaliere si rianimò, bloccò l’allegria trionfante della contessa pregandola di voltarsi, di mostrargli la schiena. La contessa acconsentì, il cavaliere si avvicinò più che poté al deretano della nobildonna. L’interesse misto allo sdegno animò i cavalieri presenti, mentre il conte

arrossiva per l’imbarazzo; l’attenzione del cavaliere per il culo della sua signora riempì il conte di raccapriccio. Ma uomo di mondo quale era non osò esprimere il suo sdegno nemmeno quando la distanza fra la bocca del cavaliere e l’altero deretano della contessa si ridusse a pochi centimetri. Dante non esitò a trasformare il culo in strumento musicale, ma all’inferno. Né esitò Mario Monicelli in “Camera d’albergo” a far suonare il culo di una donna. In questo caso la risata arriva, ma il suono è lugubre: è la prima nota di una marcia funebre che annuncia la fine della commedia all’italiana. Il cavaliere con la voce tremante si risolve al culo della contessa, lo supplicò di spiegargli perché la fica non rispondesse alle sue domande. In quell’ottusa attesa si udì distintamente la risposta. «Perché non può: ha la gola piena di lana e cotone. La mia signora ce l’ha messa poco fa, nella sua camera. Ma se il cotone fosse tolto anche la sua fica parlerebbe, così come parlo io, che mi trovo in prossimità.» Superata la sorpresa e l’imbarazzo tutti convennero che lo stratagemma della contessa non rendeva legittima la sua vittoria e subito le fu ingiunto di liberare la fica da ogni impedimento. La contessa non osò rifiutarsi a lungo, si appartò per svuotare la fica: con l’aiuto di un uncinetto estrasse tutto il cotone che aveva immagazzinato in se stessa. Tornata la contessa fra i commensali, il cavaliere si rivolse alla fica della nobildonna per conoscere quale artificio era stato usato per ridurla al silenzio. «E’ che non potevo/, me lo impediva il cotone/ di cui la mia signora mi aveva riempita/.» Allorché il conte udì parlare la fica della moglie, uscì dal suo contenuto imbarazzo e scoppiò a ridere e con lui il suo seguito. Così il cavaliere vinse la scommessa, la contessa versò le quaranta libbre pattuite. Ora sì che il cavaliere può ripartire. Riprendendo il suo vagabondaggio in cerca di tornei. Egli è un cavaliere errante come don Chisciotte. Uno va in cerca di tornei che non sembra mai incontrare, l’altro ingaggia tenzoni con i mulini a vento. Ma il romanzo cervantino nella sua imponenza è una satira colta in cui il cavaliere dalla triste figura gioca fra la pazzia e la saggezza. Il cavaliere che faceva parlare le fiche al contrario è una parodia «bassa» della società feudale. L’aristocrazia, la cavalleria, il clero, i villani che Huet rappresenta, sono criticati e accettati nello stesso tempo servendosi di un paradosso. Ciò che le bocche dicono non vale: è come non detto, mentre vale e determina il corso degli avvenimenti l’«altra bocca»: il sesso vissuto come fiaba e come inferno. Ciò produce una visione della vita e del mondo che ha la virulenza

deformante del grottesco. La vita quotidiana di quanti si situano nei gradini pi alti nella scala dei valori morali e sociali è come abbassata, privata di ogni potere, situato allo stesso livello dei ceti esclusi dalla storia, al livello, in definitiva del «basso materiale corporeo», ove ogni distinzione di classe sparisce. Protagonista di questo livellamento eseguito in versi è un cavaliere. La cavalleria era un’istituzione politica e sociale che dominava, con la sua consistente presenza e con le funzioni che le erano attribuite, la società feudale, francese soprattutto. Era detto cavaliere chi aveva abilità nel cavalcare e destrezza nelle armi, possedeva cavalli e armature, qualità e quantità che i villani non possedevano. Nel corso dell’alto Medioevo l’uso delle armi veniva riservato a coloro che possedevano l’equipaggiamento necessario, quale segno tangibile di privilegi acquisiti per nascita o conquistati. Addestrati all’arte equestre, i cavalieri costituivano le milizie armate dei principi, la forza di dissuasione, l’emblema del loro prestigio e dei privilegi. Gli obblighi dei cavalieri comprendevano una serie di divieti tesi a frenare la loro turbolenza, ma anche doveri onerosi sebbene altamente morali e prestigiosi: fra l’altro difendere e vendicare i deboli, i monaci, i poveri, le donne, gli orfani, punire i malvagi, estendere il regno di Dio partecipando alle crociate. A poco a poco nel corso del secolo XII, principalmente in Francia, si sviluppò un’ideologia cavalleresca, che aveva la sua espressione soprattutto nei tornei che impegnavano i cavalieri in competizioni brutali, di cui divennero giudici le donne. Al cavaliere veniva richiesto ardimento, negato il ricorso agli stratagemmi che le regole del gioco della guerra condannavano. La generosità, il disinteresse per la ricchezza, l’obbligo di sperperare, la cortesia verso le dame erano qualità che determinavano il rango del cavaliere. Chi violava questo complesso di leggi morali, perdeva l ’onore, rischiava di essere escl uso dalla cavall eria. Il cavaliere che faceva parlare le fiche non merita, dunque, di perdere l’onore e di essere escluso dalla cavalleria, né il cinema può assumersi tale onere senza perdere il suo onore. I diavoli sono avvertiti.

I DUELLANTI

Lo sceneggiatore e il regista sono finalmente di fronte. Duellanti seduti in poltrona, decentemente vestiti. Sul tavolo sigarette, caffè, biro, una risma di carta extra strong, una macchina da scrivere, giornali e alcuni libri. Fra gli altri II falcone desiderato che contiene tre «fabliaux», la lussuosa raccolta di «fabliaux» pubblicata da Einaudi e inoltre Bachtin, Rabelais, Don Chisciotte, Les bijoux indiscrets di Diderot, I dialoghi di Ruzante e ancora manuali vari sulla vita quotidiana del Medioevo, saggi sulle tradizioni medioevali come L’allegoria d’amore di Lewis e II tempo della chiesa e il tempo dei mercanti di Le Goff, i saggi di Block e di Braudel. Sono libri che attendono di essere saccheggiati, manipolati con quell’irriverenza di cui i cineasti non guariranno mai. Senza la loro improntitudine ogni film richiederebbe un'equipe di professori, gli anni necessari a conseguire una laurea. Invece il cinema è frettoloso, impaziente, ha una sua forza selvaggia che lo fa sopravvivere a tutti i massacri che intraprende. Che cosa sarebbe il cinema senza l’improntitudine di Pastrone e di Cecil de Mille, di Lubitsch e di Matarazzo? Si può essere colti e raffinati come Visconti, ma senza quell’improntitudine che la macchina da presa conferisce ai registi e la credulità volontaria che lo schermo conferisce allo spettatore non esisterebbe un solo metro di pellicola di “Senso” o de “Il gattopardo”. Nessun professore avrebbe mai la sfacciataggine di far parlare Mosè, di immaginare la sua voce, a meno che quel professore non entri in un cinema e si segga comodamente. Quando ne “I dieci comandamenti” Anne Baxter osa dire affettuosamente al grande patriarca: «Mosè, Mosè, splendido testardo, adorabile sciocco», ogni spettatore sa che è il cinema a parlare per tutti, a rendere meravigliose battute tanto catastrofiche. E’ sempre il cinema che infila nella testa dell’attore Charles Boyer, che altra giustificazione non ha se non di essere, come Napoleone, francese la feluca nera di generale. E il risultato è sorprendente: un divo della storia avrà per milioni di uomini la faccia e le movenze di un divo del cinema. Ma come è potuto accadere? Semplice. Boyer ha visto il “Napoleone” di Abel Gance. E Abel Gance? Ha letto dei libri: li ha visti. Il produttore Dino De Laurentiis non ha letto nemmeno quelli per decidere di

realizzare “La Bibbia”. Aveva notato che in America in ogni stanza di albergo c’era una copia della Bibbia; andando a New York in aereo per la presentazione di un altro colosso dell’improntitudine, “Guerra e pace”, trova nella sacca del sedile che è davanti a lui una Bibbia, comincia a leggerla per la prima volta e quando atterra a New York annunzia che girerà “La Bibbia”. Ecco come i Vangeli possono diventare un soggetto cinematografico, e magari alcuni sceneggiatori di srcine ebraica possono trasformare la vita di Gesù in un «musical» e il figlio del Signore in una superstar. Liz Taylor in “Cleopatra” infine, (ma si potrebbe continuare all’infinito), al termine di un costosissimo ingresso trionfale a Roma, può strizzare l’occhio a Rex Harrison, che di romano antico non ha niente, senza che lo spettatore colto pretenda la restituzione della somma pagata per l’acquisto del biglietto. Ecco perché non si commette un crimine e non si fa sfoggio di una temerarietà onerosa se ci si inoltra nel mondo medievale agguerriti soltanto di un nozionismo scolastico. «Il cinema,» insomma, «ha la stessa materia dei sogni» diceva Nathanael West, e nei sogni l’improbabilità finisce con l’acquistare una sua fisicità, così come le ombre sullo schermo lo spessore della carne: perché lo spettatore non dimentica mai che quanto vede proiettato sul telone è stato fatto, è stato detto da esseri viventi ed è trascurabile la circostanza che i protagonisti vivono ancora, oppure non vivono più. È, dunque, questo passato clamoroso e incolto del cinema, questa violenza perpetrata alla storia che autorizza i due duellanti a trasferirsi nel Medioevo con un bagaglio leggero, ma sufficiente a provocare litigi, discussioni superflue, scoperte casuali, assemblaggi provocatori, associazioni bizzarre e inopportune, divagazioni riposanti. E’ il momento in cui il cinema è solo parole. «Quella frase che viene sempre citata: “verba volant, scripta manent”, ha osservato Borges «non significa che la parola orale sia effimera, ma che la parola scritta è qualcosa di permanente e di morto. Al contrario, la parola orale possiede qualcosa di alato, di lieve.» Lieve e fuggevole si potrebbe aggiungere come l’immagine cinematografica. Uno strano cavaliere è fra i due contendenti, guerriero sospettato di millanteria ancora senza volto, attende di essere manipolato. E’ lui, in definitiva, che autorizza ogni sfregio all’epoca dalla quale proviene. Sappiamo che il cavaliere farà parlare le fiche delle donne e delle giumente, ma ignoriamo dove, quando e quante volte. Il soggetto, infatti, rinvia questa scelta al trattamento. Finalmente quella fase del lavoro in comune che si esaurirà con il

completamento della sceneggiatura può avere inizio. E’ uno scontro, come ho detto, con lunghe tregue, con scambi di fendenti e di cortesie, affollato di polemiche stizzose, di ostinazioni superflue, di ravvedimenti repentini. E spesso combattono soltanto i foderi sulle sciabole. La discussione generale sul soggetto precede la stesura di una scaletta. La sua definizione coinciderà con un accordo fra i due duellanti. O non si avrà conclusione, e in questo caso i contendenti cambiano, uno dei due abbandona. Il film entra in crisi. La prima controversia non potrà aprirsi che sulla struttura da dare al film. Prima di seguire l’arco narrativo suggerito dal «fabliau» dal quale è stato tratto il soggetto, vale sempre la pena di fare altri tentativi, rimescolare la materia, ricercare un altro ordine. Iniziare, ad esempio, dal furto degli abiti delle tre damigelle per poi recuperare nel corso del racconto il passato del cavaliere, le intenzioni. O ancora fare delle fate le protagoniste. Ciò che comunque dovrebbe apparire chiaro assai presto è che l’arco esistente possiede una solidità che non si può impunemente frantumare. E’ anche certo che il soggetto va rimpolpato, ingrassato e disteso. Su questi punti un disaccordo fra sceneggiatore e regista non durerebbe a lungo: i cambiamenti profondi di un soggetto, sempre frequenti, in questo caso rappresenterebbero un rischio. Comunque è buona norma attenersi alla struttura del soggetto disponibile, almeno fino a quando non si è constatato, alla fine di un esame approfondito, che il soggetto pone problemi di racconto irrisolvibili. Nel soggetto, fra l’altro, vi sono passi che possono già essere considerati situazioni che attendono solo di essere sceneggiate e altre in cui la sommarietà del racconto impone uno sviluppo adeguato, la distribuzione calcolata degli effetti. Ma intanto una domanda cade fra i due duellanti e li rende incerti e pensosi: che cosa si vuol dire con questo film? Ovvero è indispensabile che esso contenga un messaggio da spedire al mondo? Sono discussioni che spesso provocano diverbi e raramente raggiungono la concretezza, eppure non sono inutili perché stimolano l’immaginazione, forniscono ai duellanti argomenti dialettici pro e contro una qualsiasi scelta. Inoltre è proprio attraverso queste discussioni senza conclusione che si finisce con l’acquisire la consapevolezza delle difficoltà da superare. Non vi è soggetto, d’altronde, che nel processo di trasformazione in trattamento non riveli difficoltà che l’abilità dell’esposizione letteraria ha sapientemente nascosto… Senza aver risolto questi insiemi di problemi il tema del film non ha pace, rischia o di perdersi o di mutare, di adattarsi all’intreccio, invece che provocarlo. Già si è detto che, spesso, il tema si riesce a definirlo «a posteriori» o nel

corso della definizione della scaletta, proprio perché il tema galleggia nelle discussioni dei duellanti, e non si può pretendere che esso emerga a comando, all’inizio del film. Ma vi sono scrittori di cinema che lavorano partendo da un tema e che da esso fanno dipendere l’intreccio. Per John Huston «ci deve essere un intreccio, io credo che l’intreccio sia una cosa molto nobile. E’ creare una formula geometrica, se volete, per astrarla. Ridurre un tema in una formula». Ma che senso avrebbe addossare un tema al cavaliere che faceva parlare le fiche? Si rischierebbe soltanto di stringere il racconto in una gabbia, rinunciare alla forza magnetica della trovata, precostituirsi un alibi culturale, insomma temere il soggetto. Paradossalmente si potrebbe sostenere che la scelta di questo soggetto esprime l’ideologia dei due duellanti. Quello che sono, quanto vogliono l’hanno detto nel momento in cui hanno riconosciuto alla trovata un’energia motrice, una forza d’attrazione dei materiali. E sono queste le qualità che vanno salvaguardate. La bizzarra singolarità di queste trovate, la sua disarmante semplicità, la temeraria oscenità, la disinvolta eleganza, la freschezza dell’intreccio sono qualità che vanno difese da opzioni ideologiche perentorie e tendenziose, da gesti volontaristici. Il soggetto suggerisce uno stile che se ci si rifiuta di rispettare si compie un tradimento premeditato, si rischia di distruggere quella verosimiglianza, quella sensazione di assistere ad avvenimenti reali, benché determinati dall’azione di tre fanciulle fatate. Il suo andamento leggero, arioso, la scioltezza con la quale le situazioni si snodano è la vera magia. Ma chiediamoci, ancora una volta, perché proprio in questo momento siamo stati afferrati dalla convinzione che è questo il tempo di sceneggiare un poema erotico medievale. Che cos’è? Una fuga dalla realtà che ci circonda? Una dichiarazione d’impotenza creativa? L’adeguamento a una moda? O non piuttosto il proposito di intervenire nel cinema che si fa, nelle tendenze produttive imperanti, incuneandosi con un film che pretende di affermare una sua dignità letteraria e storica servendosi proprio dell’ oscenità e delle scurrilità. E ancora chiediamoci da che cosa è stato attratto chi ha deciso di produrre questo ipotetico film, non per adeguarci fin d’ora alle esigenze mercantili della produzione, ma per lavorare in concreto a un film che si deve fare, attrezzandoci subito per difendere il film da pretese produttive troppo caotiche e selvagge, in ogni caso assai diverse dalle ragioni e gli scopi di chi il film deve scriverlo e di chi deve realizzarlo, firmarlo. Al nostro committente, che è lo spettatore, interessa poco il valore terapeutico del riso teorizzato da Ippocrate. Il produttore, in realtà, aderisce a questi valori

ma traducendoli in termini commerciali. «La gente vuol ridere» afferma «e io la voglio accontentare, voi avete il compito di far ridere.» Scandalizzarsi e indignarsi serve a poco. Il produttore non è un mecenate, investe e rischia denaro, è suo diritto pretendere di non perderlo. Egli vuole arricchire, ma anche acquistare prestigio. E in questa contraddizione che scrittore e regista debbono incunearsi e trovare lo spazio per esprimersi liberamente, il pi liberamente possibile. E’ il bisogno di prestigio, l’invidia per il prestigio altrui che spinge il produttore a scegliere autori di prestigio. Vuole miliardi di incassi e l’Oscar. Molteplici, dunque, sono i motivi che impegnano gli autori a porsi il problema del riso, a capire la comicità, la sua natura e la sua peculiarità nell’epoca in cui la vicenda è ambientata, senza perdere di vista il carattere della comicità cinematografica, il suo turbinoso sviluppo. Si tratta di un’operazione complessa, perché ogni comicità è datata, ha un suo linguaggio, macchinari, sonorità e occasioni che sono propri di un’epoca, di un paese, di una lingua. E non esiste alcuna garanzia che le occasioni di riso del Medioevo provochino nello spettatore contemporaneo la stessa ilarità. Si dovrà, dunque, tentare di adattare meccanismi comici collaudati dalle pratiche più recenti al materiale che il «fabliau» ci offre, attingendo nello stesso tempo ad altri «fabliaux» ed appropriandoci altresì del repertorio comico trasmessoci dalle tradizioni popolari, da quelle feste profane e religiose in cui il popolo, la gente senza potere, irrideva ai potenti e al suo stesso magro destino. In nessuna epoca, per quanto oscura, il popolo è rimasto serio e muto di fronte alle proprie miserie, alle abitudini, alle concezioni economiche, ai costumi codificati, ai privilegi degli agiati. La fede in Dio, il timore del castigo divino, da scontare prima che all’inferno nel corso della vita terrena, non ha mai impedito l’esplosione del riso, l’irrisione demistificatrice ed oscena sia degli avvenimenti mondani sia delle manifestazioni religiose. Durante il Carnevale e la Pasqua lo sberleffo, il lazzo, il rovesciamento comico dei riti, la risata sguaiata e licenziosa, il travestimento sacrilego, le prediche licenziose acquistavano legittimità. Queste isole di permissività garantivano in genere la pace sociale, ma vi sono tanti carnevali in cui il comico si è fatto tragedia, lo spettacolo ribellione, il riso atto di accusa. Anche i «fabliaux» è da supporre che svolgessero questa loro funzione liberatoria e pacificatrice nelle stagioni dell’anno dedite ai culti inverecondi. Eppure la cultura ufficiale del Medioevo è caratterizzata da una severità arcigna e la vita sociale da un rigore minaccioso ed empio. Il diffuso ascetismo, l’oscuro potere attribuito alla Provvidenza, la paura del peccato, la speranza della redenzione, la soggezione verso la sofferenza e il

sopruso, la rassegnazione quale unica possibilità di una ricompensa ultraterrena e tutto l’insieme dei valori che la Chiesa gestiva, resero necessaria la legalizzazione del riso. La deviazione comica, in altri termini, offriva un duplice vantaggio: lasciava indenni i principi, i ruoli, le istituzioni, ma nello stesso tempo consentiva la circolazione e l’arricchimento della cultura bassa che, proprio perché espressione di ceti senza storia e senza domani, era considerata, erroneamente, incapace di sopravvivere e di produrre modificazioni sociali. La forza eversiva del riso, del resto, si manifesta a distanza, la sua pericolosità non viene avvertita nel momento in cui si manifesta. Ed è proprio questa sottovalutazione storica, il disinteresse della cultura ufficiale, dell’alto sapere verso il comico popolare che impedisce la sua sepoltura. Le dispersioni sono immense, un grande patrimonio è andato perduto, ma ciò che resiste, ciò che viene dissepolto mostra una sua qualità ineccepibile, il legame indissolubile ed essenziale con la libertà. In questa interpretazione tendenziosa del comico popolare, nella lettura sia pure approssimativa del quotidiano medievale, che certamente ha bisogno di una ricerca più puntuale ed estesa, è contenuto non solo il tema, ma le ragioni che mi fanno considerare attuale il soggetto prescelto per questa esercitazione. Il traballante cavali ere sempre sul punto di essere espulso dal la cavall eria e il suo scudiero rappresentante della gente senza storia, sono portatori di uno spirito libero, di una diffusa indifferenza verso le leggi morali dominanti che non diventa mai indignazione. Il carattere gioioso della trovata regge la narrazione poetica, rende verosimile l’aspetto umano delle fate e le loro virtù magiche; dissacrante e grazioso, pulito e beffardo il dono che elargiscono quale ricompensa a un gesto galante. Huet non potrebbe mai ottenere di far parlare le fiche, ne è impedito proprio dal suo ruolo sociale. Egli può rubare i vestiti per compiacere il suo padrone, ma non può avere sussulti di onore. Diamo a Huet le facoltà che il cavaliere ottiene dalle fate e tutto acquisterebbe una virulenza incompatibile con l’epoca in cui il «fabliau» prescelto si diffuse. Ma un altro aspetto del riso medievale va citato e tenuto presente: il riso, infatti, rappresenta la vittoria sulla paura. Si gioca, cioè, con ciò che spaventa e si ride della propria paura. La satira agisce in due direzioni, verso la società alta e verso i ceti bassi che la producono. «Il terribile sulla terra» osserva Bachtin «è rappresentato dagli organi genitali, la tomba corporea, ma essa si adorna di elementi di piacere e di nuove nascite.» Quando, dunque, il cavaliere fa parlare gli organi genitali femminili, egli fa

parlare l’inferno, ed è ancora l’inferno che svela la verità attraverso l’ano, ma è un inferno che ognuno porta in sé. La figura umana è così rovesciata, è messa a testa in giù, il basso materiale corporeo sale all’altezza delle orecchie, acquista la parola e la ragione, proclama la verità. Ma tutta la vita medievale celebra la funzione vitale del sesso, scopre ed esalta la bellezza del diavolo, l’attrazione che esercita l’inferno, il suo impareggiabile calore. In un’epoca come la nostra, in cui i desideri e i bisogni si intrecciano senza arte fino a confondersi, stravolgendo ogni sistema narrativo della società, in anni senza ruggiti, riempiti da carnevali ininterrotti che trasformano ogni giorno, ogni notte in uno spettacolo senza sipario, i poemi erotici medievali rappresentano per l’uomo di spettacolo, per questo assetato mistificatore, una fonte da prosciugare. Nessuna nostalgia si alimenta se si prova a reinventare il Medioevo, a trasferire l’immaginazione in un territorio sconsacrato. La sua lontananza mette al riparo da qualsiasi esercizio malinconico della memoria, giacché ogni rimpianto per esistere non può precipitare in un tempo senza dagherrotipi. Il tempo in cui la società del nostro presente ci spingerà a conoscerla, a pretendere un cinema invaso dall’uomo della strada, forse è vicino. Si cambieranno allora le lenti a quella cinepresa sistemata nell’occhio e una nuova luminosità farà fissare dettagli inesplorati del quotidiano, le miniature diventeranno gigantografie. Allora anche il cinema festeggerà la vittoria sulla paura, su questa sfuggente paura mai annunciata di cui il cinema italiano soffre in questi anni Ottanta. Nel frattempo lo sceneggiatore e il regista che sono di fronte, questi due duellanti disarmati, questi cavalieri senza paura, ma macchiati di insolenza, improntitudine e immaginazione, seduti in poltrona, possono occuparsi, senza sentirsi in colpa, de II cavaliere che faceva parlare le fiche. A questa sommaria esposizione dei materiali, può seguire la stesura della scaletta. La discussione continua.

IL TRATTAMENTO SPIEGATO AGLI SPETTATORI

L’operazione scaletta del trattamento si può paragonare alla stesura degli articoli di un contratto. Il primo articolo tratta naturalmente dell’inizio del film. E’ un momento decisivo, la sua importanza è pari al finale, se non di più. Si tratta di fornire le prime informazioni, collocare la vicenda in uno spazio ipotetico, completamente inventato, eppure riconoscibile come possibile. E’ in questa topografia che vanno collocati i personaggi principali. La loro entrata in campo raramente è simultanea: preferibile è che avvenga a ondate successive, a una distanza tale fra loro che ne faciliti la memorizzazione. Un accumulo eccessivo di informazioni in questa prima fase provoca il disinteresse dello spettatore, che pure è al massimo della sua disponibilità. Egli è sorpreso, ma non confuso, sta entrando in un territorio sconosciuto che deve essere illuminato dalla chiarezza, disegnato con disinvoltura. Un inizio troppo teso ed eccezionale, se ha un’indubbia efficacia presenta il rischio di deludere in seguito, se non si riesce a rispondere all’attesa che un grande inizio produce. Vi sono films, infatti, che a un primo tempo incalzante e avvincente fanno seguire una seconda parte densa di ripetizioni, in cui i personaggi sembrano rincorrersi senza trovarsi e con loro lo spettatore. Difficile è in questa fase fissare l’ambientazione definitiva, i luoghi in cui la vicenda è destinata a snodarsi. Sarebbe, cioè, soltanto velleitario definire una volta per sempre la topografia reale del film, dal momento che sconosciuti, nella maggior parte dei casi, sono gli ambienti che verranno prescelti dal regista e dalla produzione. Ciò che importa, per il momento, è che il trattamento abbia una topografia immaginaria. Lo spazio di un film è convenzionale, ma i termini della convenzione per essere rispettati debbono offrire varie possibilità di adattamento al momento delle riprese, se non si vuole rischiare che una costruzione narrativa, risolta sulla carta non possa essere rispettata nel corso della realizzazione. Fondamentale è anche l’entrata in campo del protagonista, giacché determina il modello narrativo, lo stile addirittura del film. E’ un problema di struttura narrativa, cui ho già fatto cenno, ma che ora va affrontato valutandolo concretamente. Se è, insomma, il cavaliere il primo personaggio a presentarsi all’apertura del film, lo spettatore si attende di essere guidato da lui nell’intreccio

e tanto più egli radica questa convinzione quanto più sarà continua la sua presenza. Nel nostro caso il racconto segue il cavaliere e lo scudiero, il soggetto suggerisce questo andamento, e tentare una costruzione diversa comporta modifiche sostanziali. Raccontare il film, ad esempio, partendo dalle tre fanciulle, cioè a dire iniziare descrivendo l’arrivo delle tre al ruscello, la loro svestizione, il bagno, per poi far apparire il solo Huet, di cui in questo caso lo spettatore ignora ancora tutto significherebbe cambiare tutta la struttura narrativa, ridisegnare i personaggi, scoprire i ruoli di ognuno secondo un diverso sistema di informazione, imprimere un altro ritmo al film, impegnarsi, in definitiva, a modellare il racconto secondo un’angolazione diversa da quella suggerita dal soggetto. Diversi ancora sarebbero i problemi di scaletta, le difficoltà di costruzione, se provassimo a iniziare il racconto incrociando continuamente la storia del cavaliere e dello scudiero e la storia delle tre damigelle, dando agli uni e alle altre azioni continuamente intrecciate, tali che il ruolo del cavaliere andrebbe quotidianamente ridotto a beneficio di un maggior spazio che pretenderebbero le tre damigelle. Più o meno spazio assegnato a un dato personaggio significa minori o maggiori azioni, tutte di una qualità diversa rispetto a quanto suggerisce il soggetto. Così operando ogni sequenza si contrapporrebbe alla seguente, ogni azione del cavaliere rimanderebbe a un’azione delle fate e viceversa, intrecciando via via sempre più le storie parallele destinate a congiungersi chissà dove. Anche in questa ipotesi il soggetto srcinale subirebbe cambiamenti tali da imporre tutto un diverso ordine dei materiali. Lo spettatore, poi, assisterebbe allo spettacolo da una posizione privilegiata, cioè verrebbe a trovarsi al di sopra degli avvenimenti, in condizione di vedere e sapere tutto in anticipo su questo o quel personaggio. Adottando inoltre questo sistema di intrecci paragonabile al movimento di una bilancia e all’oscillazione dei piatti a seconda della disposizione dei pesi, dei fatti, in ciascuna scena si rischierebbe il disorientamento dello spettatore, egli riscontrerebbe troppa difficoltà a collocare i personaggi nello spazio e nel tempo, in più si avrebbe una monotona ripetizione dei movimenti che rischierebbe di saziare o distrarre, a meno che non si producano variazioni tali da essere considerate dallo spettatore impreviste e affascinanti. Ma ciò è più facile nel fil d’azione e nel film storico. Si può anche ottenere che le azioni dei personaggi collocati in spazi diversi, anche distanti fra loro, risultino come accadute contemporaneamente, nonostante che le scene siano montate all’interno del film in tempi diversi.

Se, ad esempio, A decide di uccidere B e nella scena seguente B decide di uccidere A, i due avvenimenti possono essere valutati dallo spettatore come se fossero accaduti nel medesimo tempo. È l’inganno che il tempo cinematografico commette frequentemente sempre accettato dallo spettatore, il quale non è affatto disorientato, quasi godesse del dono dell’ubiquità ogni qual volta partecipa al cerimoniale cinematografico. Nel romanzo di parole per dichiarare la contemporaneità delle azioni basta scrivere «intanto», nel romanzo d’immagine nessuna parola o accorgimento tecnico è necessario, importante non è quando un avvenimento si verifica, ma dove. Lo spazio diventa tempo e questa singolare trasformazione viene accettata senza scandalo. Non è cosa da poco e meriterebbe ben altra riflessione di quanto è possibile qui. Si tratta di una capacità percettiva paragonabile alla ineducata concezione del tempo e dello spazio che è propria di un bambino nel suo primo anno di vita. Si potrebbe sospettare, salvo verifiche, che la narrazione cinematografica consente il recupero di tutte le età dell’uomo, e forse proprio in questa poderosa facoltà consiste la sua forza penetrativa, la sua attrazione indomabile. Seguendo, invece, il cavaliere, rispettando lo schema del soggetto, la posizione dello spettatore è un’altra, entra nello schermo, è portato, cioè, a identificarsi con il protagonista fin dal primo momento. Le sue emozioni sono altre, il dialogo che intraprende con se stesso mentre le immagini sfilano sullo schermo è privo degli interrogativi che invece impone il racconto a indovinello, il poliziesco tradizionale. Ma la scelta del ruolo da affidare allo spettatore non è frutto di un capriccio, anche se tale può apparire, piuttosto è determinato, imposto dalla natura del soggetto. Un film d’azione, ad esempio, rende difficile un racconto in soggettiva, cioè basato sul pedinamento assillante del protagonista e, dunque, una più estesa possibilità analitica. La «soggettiva» allunga lo spazio-tempo del racconto, quello che Bachtin, analizzando il romanzo greco e il romanzo cavalleresco e quello rabelaisiano, chiama il «cronotopo». Inoltre il racconto soggettivo facilita il «viaggio» del protagonista, permette l’entrata temporanea in campo di altri personaggi e la loro sparizione capricciosa, ovvero la loro ricomparsa a distanza senza che lo spettatore ne sia disorientato, giacché ciò che gli preme è restare accanto al protagonista. Egli è da questi guidato nella vicenda e si illude di essere lui il guidatore. Senza una totale disponibilità all’illusione, paradossalmente, lo spettatore cinematografico non esisterebbe: è come se egli assistesse a una proiezione in una sala illuminata a giorno. E’ il buio che rende l’illusorio vero,

che permette di vivere un sogno, e come nel sogno si ride, si soffre, si piange, si ha paura, si rivede il passato e ci si proietta nel futuro. Seguendo il cavaliere passo passo, l’intreccio è più lineare, egli viaggia e il viaggio possiede un suo intramontabile fascino spettacolare. Ma perché? Forse perché lo spettatore è sedentario e soffre per questa condizione? Oppure perché conserva nella sua memoria gli antichi nomadismi dell’uomo, l’inconfessabile attrazione per l’ignoto? Una scienza del cinema che si nega questo inesplorato territorio di caccia, di indagini ammette i suoi limiti, sfugge un confronto con le scienze umane. Ma il racconto in soggettiva permette altre libertà, gli si può imprimere qualsiasi velocità, cambiare marcia più volte con disinvoltura, una qualsiasi distanza può essere coperta in un attimo, oppure percorsa in un tempo doppio di quello reale. Il tempo e lo spazio diventano elementi creativi. Il pericolo è di perdersi in una frammentarietà, in un’episodica che costringe lo spettatore a modificare continuamente la sua organizzazione conoscitiva. Perché ciò non accada è necessario che le avventure di questo dotato cavaliere non siano indipendenti l’una dall’altra, che abbiano, cioè, una loro conseguenzialità nascosta, un legame invisibile eppure consistente. Ogni avventura, in altri termini, deve determinare i successivi incontri del nostro affabile protagonista, così scapestrato e fortunato, tanto invidiabile e riprovevole. Sia nella narrazione letteraria che cinematografica gli incontri determinano la scansione del tempo narrativo, chiudono o aprono gli spazi in cui l’intreccio va a comporsi. Ma anche gli incontri attesi e mancati svolgono la stessa funzione. Secondo Bachtin «l’incontro è uno dei più antichi eventi formativi dell’intreccio dell’epos, in particolare del romanzo. Il motivo dell’incontro è uno dei più universali non soltanto nella letteratura (è difficile trovare un’opera che ne sia priva) ma anche in altri campi della cultura, nonché in varie sfere della vita sociale e quotidiana». Un incontro può determinare l’inizio di un dramma e di una commedia, può essere l’avvenimento che annoda i personaggi o che li divide, così come può avere funzione di scioglimento dell’intreccio. Un’importanza maggiore assumono gli incontri nell’opera cinematografica. L’immagine fissa il luogo d’incontro con assoluta precisione, la sua forza di novità non ha bisogno di essere descritta, parla da sé: se l’incontro sorprende, se dispiace, se è atteso subito è chiaro. Una funzione uguale e contraria svolge l’incontro mancato. La delusione che provoca nei personaggi e nello spettatore è compensata da un’accelerazione del racconto, dall’immediato insorgere di nuovi interrogativi. Un incontro preparato e mancato allarga lo spazio filmico, impone ai personaggi una ricerca e una

spiegazione, determina la necessità di altri incontri. Un incontro mancato insomma non può non produrre nulla e dunque ha la stessa funzione compositiva di un incontro avvenuto. Quando dico che il nostro racconto deve inseguire il cavaliere e il suo scudiero indico una presenza di almeno uno di loro nella maggior parte delle inquadrature. Da nessuna sequenza possono essere esclusi entrambi, o, se ciò è necessario, deve accadere in uno spazio circoscritto. Certamente, allorché la contessa imbottisce di cotone la sua fica, il cavaliere non può essere presente, ma deve essere chiaro che è vicino. Lo spettatore sa che è fuori e in un certo senso egli sostituisce il cavaliere, vede con i suoi occhi ed è gratificato da questo privilegio. Ma ciò non esclude che si possano tentare trasgressioni più ampie, se l’intreccio è costruito per sostenerle. Ogni regola, del resto, ha la sua eccezione. L’inizio del soggetto è sommario, l’antefatto è contenuto nella presentazione del personaggio, nella sua illustrazione. Veniamo a sapere che il cavaliere è amante dei bagordi, è scialacquone, che cerca un torneo per guadagnare di che sperperare. Ma è giunto il momento che alle parole, ai versi, seguano i fatti, si scelga il teatro delle sue azioni, si assista alle sue perdizioni disinvolte e innocue. Se è tanto malridotto che il suo scudiero ne è allarmato, non basterà certo il dialogo perché lo spettatore apprenda le abitudini goderecce, gli appetiti di questo eroe senza pregiudizi. Ciò che i personaggi dicono conta, resta nella memoria, ma senza l’azione, senza che le informazioni principali vengano rappresentate si scivola nel teatrale nel migliore dei casi, nella banalità e nel didascalico i l più delle volte. La prima proposta è, dunque, di arretrare, rispetto al soggetto, l’inizio del racconto, sorprendere cioè il cavaliere ancora in possesso di cavallo e di armatura. Scalcagnato, ma non in rovina. Necessario è sapere che egli è in cerca di un torneo, che è in viaggio, ma sarebbe superfluo mostrarlo mentre partecipa a una tenzone. Il suo valore guerriero non determina nessuna fase dell’intreccio, è il motivo che lo fa muovere che rende necessario il possesso di un cavallo e di un’armatura, ma non il loro uso. Potrò eventualmente narrare passate imprese cavalleresche, immaginare vittorie, ma non un metro di pellicola conviene dedicare a tutto ciò, basta il dialogo, proprio perché le sue qualità cavalleresche sono pretestuose. Ciò che, insomma, è urgente è che egli possa perdersi e perdere i suoi arnesi, il suo patrimonio mobile nel gioco, nel vino, nella crapula, nel divertimento con le donne. Più sarà dedito alle emozioni e ai piaceri licenziosi, più il suo incontro con le fate avrà rilievo e determinerà il carattere paradossale della sua avventura. Il regista che vuol farne di questo personaggio? Lo vuole probo? Carico di virtù? Che non sia aggredito dal desiderio e dalle tentazioni al cospetto di tre

bellissime fanciulle nude? Oppure un personaggio facile alla perdizione, in continua contraddizione fra i doveri di un cavaliere e i suoi appetiti? In entrambi i casi il comico della situazione resisterebbe. Il suggerimento che ci viene dal «fabliau» è che il cavaliere non è dedito all’astinenza sessuale. Se lo fosse trovarsi in un letto con una donna nuda al fianco, come accadrà, e rivolgersi alla fica della sua ospite offrirebbe scarse occasioni comiche, si rinuncerebbe a una serie di effetti facili, ma di sicura efficacia. Né questa forzatura stravolge il soggetto o lo involgarisce, purché si rispetti la misura, purché si attinga al materiale folclorico dell’epoca e se ne conservi la sua arcaici tà. Il fallo, ad esempio, grande, capriccioso, mostruoso, bello a vedersi, considerato amuleto, portafortuna, venerato dalle donne è un elemento ricorrente e antico della letteratura grottesca, motivo dominante di molte manifestazioni cavalleresche e reli giose. Sir William Hamilton, ambasciatore di S.M. britannica alla corte di Napoli, intorno al 1780 riferì che «in una provincia distante cinquanta miglia dalla capitale era ancora in uso — benché sotto altra denominazione — un culto all’antica divinità Priapo». «Il culto aveva la sua manifestazione pubblica nella festa del “moderno Priapo” san Cosmo, che insieme al fratello Damiano è uno dei santi medici. Durante i festeggiamenti al santo cristiano si vendevano “ex voto” in cera rappresentanti “la parte generante virile”. «Lo scopo finale che si intendeva raggiungere tramite questa festa consisteva nel “ritornare gravide molte donne sterili maritate, a profitto della popolazione della provincia”». Del resto la virilità e il modo plastico di simboleggiarla sono sempre state rappresentate con naturalezza, senza cognizione del peccato nelle civiltà contadine. Bisogna attendere la Controriforma, la carica repressiva che innestò perché ogni riferimento visivo e verbale agli organi sessuali, alla nudità in generale, alle funzioni corporali acquisti significato di trasgressione. Da qui, grosso modo, nasce la legittimità culturale di usare questi materiali oggi compromettenti nonostante il largo uso e la permissività conquistata. Oltre tutto il cavaliere è animato da una visione esclusivamente materiale dell’esistenza e, dunque, un fallo esigente e vistoso non gli viene assegnato per mero capriccio d’autore, piuttosto per moltiplicare le connessioni d’intreccio oltre che per aderire a quella simbologia bassa che trionfa nei poemi erotici medievali. Né mancano «fabliaux» in cui il fallo maschile si moltiplica magicamente, ed altri in cui le donne acquistano nelle fiere paesane falli di ogni grandezza. Improduttivo, viceversa, ai fini dell’economicità del racconto cinematografico sarebbe concedere a Huet lo stesso carnoso privilegio. Meglio è che lo scudiero

soffra di un diverso appetito. Egli che è di basso ceto deve prediligere le soddisfazioni del ventre: un villano non era certo l’astinenza sessuale a dover temere. La promiscuità della vita contadina, il contatto con la natura e con il mondo animale lo pongono in condizione, appunto, di sfamare con assiduità il basso ventre e non di riempire il ventre. Innumerevoli, in altri termini, sono le fonti che ci autorizzano a regalare al cavaliere un fallo di buon appetito e di proporzioni accattivanti, e a negarlo allo scudiero. Se dunque, per il cavaliere le dame sono occasione per soddisfare la sua ingorda virilità, le sue sbadataggini, le sue perdizioni, il costo che sopporta per vietarsi di soddisfare questo basso appetito non sarà mai eccessivo o scandaloso e soprattutto esterno alla storia che vogliamo raccontare. Il regista potrebbe obiettare che se dessimo al nostro personaggio un attributo così vistoso ed esigente difficilmente potrebbe essere soltanto galante con le tre damigelle nude. Ma qualora egli agisse secondo queste sue tendenze al primo incontro con le fate, egli violerebbe le regole della cavalleria e insieme il cavaliere smarrirebbe la sua carica comica srcinale, magari per acquistarne un’altra che il soggetto ci impedisce di individuare. Al contrario, del tutto congruo e motivato è affidare al cavaliere la capacità di frenare i suoi istinti quando ciò implica il rispetto del suo rango, mentre egli può assumere gli atteggiamenti propri dei villani quando ha bevuto, molto mangiato, allorché si immerge in un clima di baccanale inserendosi in un mondo popolare in cui le regole della cavalleria nulla contano. Comunque sia è evidente che il personaggio del cavaliere va arricchito, arrotondato, fornito di motivi che favoriscono la marcia in avanti dell’intreccio e che lo spingono a commettere una serie di trasgressioni maggiori di quanto il «fabliau» prescelto contenga. Il soggetto, del resto, ci fa appena assaggiare i sapori della vita medievale, tutta la vicenda si snoda in un paesaggio spoglio, disabitato, che, se fosse trasformato in immagini così com’è, risulterebbe ripetitivo, troppo esile per non spingerci a calarlo in un universo popolato e degno della trovata che II cavaliere che faceva parlare le fiche espone con dolce misura e pacato ardimento. Inoltre il materiale contenuto nel soggetto non pare sufficiente a realizzare un film di metraggio tradizionale. Oltre tutto se il finale restasse qual è sarebbe deludente, provocherebbe una caduta verticale dell’interesse dello spettatore nella seconda parte del suo svolgimento. Almeno così lo giudica lo sceneggiatore, ed è un problema che bisogna porsi fin d’ora, proprio per costruire il personaggio del cavaliere. In questa fase la dilatazione del soggetto è assai frequente. Una prima proposta si può fare per il finale, tanto per avere un punto di riferimento: supponiamo, cioè, che il cavaliere possa perdere il potere di far

parlare le fiche per qualche suo errore, per la violazione di una condizione che le fate hanno posto perché egli possa godere del privilegio donatogli. Si potrebbe immaginare che le fate l’abbiano avvertito che egli avrà la facoltà di far parlare le fiche fino a quando egli riuscirà a non usare il suo pene. Giacché l’abbiamo immaginato ben dotato, avido e impaziente di sfamarsi, questa condizione limitativa ingrosserebbe la carica grottesca e moltiplicherebbe le occasioni comiche. Ma torniamo all’inizio. Il regista di fronte alle proposte fin qui esposte si mostra perplesso, teme in genere il carattere eversivo dell’immaginazione, ogni proposta lo pone di fronte a uno schermo scuro che tocca poi a lui illuminare. Per sua natura, per mestiere, egli tende a conservare l’esistente, a garantirsi difendendosi da ogni novità che possa mutare il quadro d’insieme che gli si è dipinto nel momento in cui ha accettato di fare un certo film, ma per ora è pronto a tentare. Le sue riserve, se resisteranno alle innovazioni proposte, rispunteranno. Diamo, dunque, pure al cavaliere un fallo esuberante in misura e bisogni e vediamo cosa succede. L’elaborazione della scaletta porta spesso a fare salti in avanti, a procedere nella costruzione narrativa saggiando e verificando quali possono essere gli sviluppi che si impongono in conseguenza di quanto è già stato elaborato e fissato. Scalettiamo allora esponendo le proposte di scaletta e nello stesso tempo le ragioni delle scelte, le obiezioni del regista; è come se lo sceneggiatore giocasse a scacchi con se stesso. Il cavaliere sul dorso del suo palafreno appesantito dalla armatura lucente, innervosito dall’astinenza di vino, di cibo, di donne, affiancato dal suo scudiero Huet, avanza su un sentiero di collina. E’ un uomo magro e alto, non pi giovanissimo, ma aitante. I personaggi troppo giovani con più difficoltà producono comicità. Un bambino può provocare una fresca ilarità, un ventenne, se ha un volto regolare, una figura prestante è un eroe per antonomasia. La comicità, del resto, ha sempre bisogno di un’esagerazione, di un dato che viola la norma. Huet potrebbe essere grasso, ma sarebbe una caratteristica che l’accosterebbe troppo a Sancho Panza e inoltre se fosse di bell’aspetto, le sue birichinate rischierebbero di essere giudicate improbabili. La comicità ha bisogno di una maschera di carne. Un uomo grasso, inoltre, è sempre in stato di soggezione di fronte a un padrone aitante, a meno che la sua buffoneria non nasca, ad esempio, da una forza eccezionale, che gli consente imprese iperboliche. Huet, però, svolge funzioni di consulente e di provocatore: il cavaliere accetta questa sua doppia funzione e, dunque, il suo aspetto non deve essere sgradevole, ma singolare e così il suo modo di fare, il suo parlare.

Un uomo grasso tende ad agire in modo sornione, si serve del suo peso per nascondere la furberia, la malizia, espone invece la sua bontà, la rassegnazione, l’obbedienza. Un grasso che mangia sia pure avidamente, non ci farà mai credere di essere affamato, la sua ingordigia indispettisce, oppure ce lo fa odiare e la comicità ne soffre. E’ il magro affamato che più facilmente può creare occasioni di riso. Se è troppo magro fa pena, se è troppo grasso muove lo schifo. La fame in genere è motivo di riso. Basti pensare a Charlot ne “La febbre dell’oro”, oppure a quel memorabile primo atto di “Miseria e nobiltà” di Eduardo Scarpetta. Nel nostro progetto di film la fame potrebbe appunto essere usata quale provocatrice di riso. Anche un cavaliere affamato è un soggetto comico. Il cavaliere avrà due appetiti: il gastronomico e il sessuale e anche Huet avrà gli stessi appetiti, ma il loro diverso ruolo sociale differenzierà le occasioni comiche dei due. Huet, pur non possedendo le qualità virili del suo padrone, è spinto a imitare il cavali ere. Huet è saggio per quanto è scapestrato e imprevidente il cavaliere, ma nella corsa all’imitazione la sua prudenza non gli basta. È uomo di poco conto, di forte buonsenso e scarsa fedeltà ai principi. E’ un villano, perché dovrebbe rispettare all’infinito le regole che non riguardano il suo ceto di appartenenza? Huet, si batte perché, per il suo tornaconto soprattutto, il cavaliere partecipi ai tornei, ma non si preoccupa che il cavaliere acquisti gloria, spera soltanto che partecipando ai tornei, rischiandovi l’osso del collo, assicuri a entrambi i giusti mezzi di sostentamento. E’ pronto a commettere ogni furfanteria per garantire al suo cavaliere il raggiungimento dei propositi nobili e degli interessi pratici. Ma qualche vizio, esclusivamente suo, Huet deve averlo. Che sia un affamato è pacifico, la sua fame è villana, mangia anche se sazio, nel timore di non potersi sfamare in seguito: è un mangiatore di quantità, nel mangiare impiega tutto il suo corpo e i suoi sensi, se non mangia con la bocca mangia con gli occhi, a differenza del suo cavaliere che è mangiatore di qualità, che considera il cibo soprattutto produttore di piacere. Ma se Huet mangia quantità porcine è anche spesso afferrato da impellenti bisogni di defecare. Le sue defecazioni possono essere pantagrueliche. Nel comico popolare gli escrementi, soprattutto in grande quantità, sono motivo di ilarità e indicano una buona salute corporea. I cavalieri, al contrario, non hanno ano, se defecano producono una comicità repellente. Il villano se defeca riceve approvazione, è sempre giustificato. Il regista protesta, obietta? Allora che cosa propone per caratterizzare i due viandanti sulla base di tutto il materiale disponibile? Per facilitare questa dimostrazione, immagino per questa volta che lo sceneggiatore la spunti spesso e che soprattutto il lavoro in comune prosegua

senza troppi contrasti. Diamo per accettate, dunque, le qualità attribuite ai due. Il cavaliere e Huet avanzano per un sentiero di collina. Tutto è brullo e nessuna casa o persona è in vista. Arrivano a un bivio. Questo bivio è la rappresentazione topografica di due diversi propositi che alloggiano nei due. La strada che volge a sinistra porta a un villaggio conosciuto e vicino. Quella che si apre sulla destra conduce a un castello in cui Huet ha sentito dire che si svolgerà presto un torneo, che è poi lo scopo del loro viaggio. Ma il castello è lontano, per raggiungerlo dovrebbero cavalcare giorno e notte. C’è anche il rischio che se si attardano finiranno col raggiungere il castello a torneo concluso, e sarebbe la peggiore delle disgrazie per entrambi. Dunque bisogna far presto. Huet spinge per imboccare la strada che porta al castello, ma ha anche fame e le sue perorazioni sono poco convincenti. Il cavaliere ha invece desiderio di raggiungere il villaggio, il suo appetito è un altro. Il suo stomaco può sopportare ciò che il pene non può. Comunque la decisione di dirigersi verso il villaggio è presa di comune accordo allorché il cavaliere chiede a Huet se si ricorda da quanto tempo non mangiano, sia loro due che le loro bestie. Son due giorni che i cavalli nitriscono chiedendo biada o erba fresca e due giorni che i loro intestini gorgogliano perché vuoti. Ho appena scritto che ciascuno dei due è in sella a un cavallo, mentre in precedenza avevo avanzato la proposta che Huet montasse un asino ed avevo illustrato la potenza comica del ragliare. Ora, invece, mi accorgo che se Huet viaggia sulla groppa di un somaro, si accumulano sui due personaggi troppi materiali a effetto e l’abbondanza impedisce che ognuno venga usato convenientemente e in progressione. Gli effetti hanno bisogno di un loro spazio e di un loro tempo di svolgimento prima di potersi intrecciare tra di loro, se non si vuole rallentare inutilmente l’azione e fermare pericolosamente il racconto, rompere il suo ritmo. Capita spesso che una scelta fatta con troppo anticipo, proseguendo nel lavoro di costruzione, vada cambiata. La stesura del trattamento serve anche a questo, a provare e a ricredersi in ogni momento. Più difficile sarebbe farlo quando il fil è stato girato, allora tutto è affidato alle forbici del montatore. Metto, dunque, Huet a cavallo senza imbarazzo, pronto, se più avanti ne dovessi verificare l’utilità, a restituirgli l ’asino. Due personaggi che hanno fame e fretta di soddisfarla è bene che cavalchino speditamente e uno accanto all’altro. E’ un’immagine che rende di più. Se Huet, a causa della sua cavalcatura restasse indietro, si avrebbe, oltretutto, un effetto di breve durata e di incerta resa. Come ho detto, la fame del cavaliere, quella che meno sopporta, è un’altra:

l’inferno chiama il suo fallo e l’inferno è la natura femminile, organo che genera la vita e spinge al peccato, alle trasgressioni e condanna alla dannazione. Ma il raffigurare il ventre femminile come l’inferno, lungi dal creare spavento, crea eccitazione. Le trasgressioni che suggerisce, sono premiate sia dal piacere che dal benessere fisico che procurano, sia dalla soddisfazione superiore che dona la facoltà procreativa. La morte e la nascita, la perdizione e la felicità, dunque, convivono nel basso ventre femminile, i due atti si escludono vicendevolmente e il piacere quale soddisfazione degli istinti, conservazione della specie, trionfa sul male. In questa prima sequenza sono state date varie informazioni sugli scopi del vagabondaggio del cavaliere e di Huet, sulle loro attitudini, sui bisogni che li spingono ora in una direzione ora nell’altra. Questo insieme di elementi dà una prima definizione dello spazio cinematografico che si presenta vasto in rapporto alla cognizione del tempo che i due posseggono. Il tempo è dato dai loro vizi, dai loro bisogni. I vizi, i desideri, gli appetiti rallentano; ma è un rallentamento che acuisce l’attesa dello spettatore, mentre l’obiettivo principale, cioè la partecipazione al torneo, accelera. Il cavaliere e Huet, dunque, si dirigono verso il villaggio più prossimo. Che situazione troveranno nel borgo che non conoscono e dove sono sconosciuti? Come saranno accolti? Che faranno per rappresentare un comportamento all’al tezza dei loro ruoli? E’ ovvio che il cavaliere perderà la sua armatura e sarà costretto a cedere il suo palafreno, a perdere cioè l’emblema del suo stato sociale. Huet naturalmente ha poco da perdere, tutto ciò che usa non è suo, persino il suo corpo, in un certo senso è dato in fitto al padrone. Soprattutto riusciranno a soddisfare i loro appetiti? Lo spettatore lo spera, ma lo si può tranquillamente deludere. Sono, comunque, questi i primi interrogativi ai quali va data risposta. Non una qualsiasi risposta, ma quella capace di produrre altre situazioni, altri incontri. Immaginazione e verità storica devono mescolarsi con tale accorta disinvoltura che il falso deve sembrare vero, e perché ciò avvenga il mondo medievale deve essere reinventato sulla base di dati storici facilmente accessibili. Una più attenta e vasta indagine sarà affidata allo scenografo in una fase successiva. La verosimiglianza dei luoghi, dei costumi, la loro qualità favoriranno la manipolazione, l’adattamento. Alcune informazioni preliminari si possono attingere dalla Vita del Medioevo di Eilen Power (Einaudi ed., P.B.). In generale le informazioni sulla vita quotidiana restano scarse, nonostante il recente interesse degli studiosi per la microstoria. Le nuove tendenze dei

ricercatori, del resto, parcheggiano ancora in settori specialistici, la loro divulgazione è impedita dalle furiose polemiche in atto fra gli storici. Complessivamente si può dire che la situazione per quanto attiene alla ricerca della vita quotidiana del Medioevo sembra ancora riferibile usando un giudizio di Carlyle, che appunto manifestava l’inadeguatezza della ricerca storica. «Ciò che importa» ha scritto Carlyle, anticipando le polemiche degli storici contemporanei «non sono gli annuari araldici, i calendari di corte e i registri del parlamento, ma la vita dell’uomo in Inghilterra: ciò che gli uomini fecero, pensarono, godettero. È mortificante vedere ancora oggi in questi tempi così illuminati e civili che cosa intendiamo per “storia”. Non se ne può ricavare, anche leggendo fino a perdere gli occhi, il più piccolo accenno di una risposta a questa domanda: come vivevano e come erano gli uomini? Ad esempio, anche solo dal punto di vista economico, che cosa guadagnavano e che cosa compravano con i loro guadagni? Non c’è risposta purtroppo. La storia finché se ne sta tutta chiusa in volumi dorati è poco più istruttiva delle pedine di una partita di tric-trac.» Protetto da questo severo giudizio di Carlyle, il cineasta che non è un professore di storia e non ha tempo per diventarlo, si sente autorizzato a essere approssimativo. A ogni modo Eilen Power ci fornisce quanto per il momento può bastarci a salvarci da papere madornali, ma è ovvio che una ricerca bibliografica e iconografica più approfondita andrebbe compiuta. Prendiamo, dunque, a modello del villaggio verso cui si dirigono il cavaliere e Huet i territori dell’abbazia di Saint-Germain, il cumulo di case e attività economiche e sociali che si svolgevano intorno a quella ricca abbazia, nella speranza che il regista, e chi ne volesse di più, abbia tempo e voglia di leggere il libro. Limitiamoci, intanto, a riferire l’essenziale. Le terre di quell’abbazia erano divise in un certo numero di fondi, ciascuno di grandezza tale da poter essere amministrato da un fattore; ogni fondo, a sua volta, era diviso in terre signorili e terre tributarie. Le prime erano amministrate e sfruttate direttamente dai monaci, le seconde venivano gestite dai coloni. Le terre tributarie erano suddivise in tante piccole fattorie chiamate «mansi», ognuna occupata da una o più famiglie. Vi erano anche «mansi» gestiti direttamente dai monaci che vivevano nella stessa terra occupando una casa di pietra non grande, ma solida, accogliente. Non altrettanto accoglienti dovevano essere le case occupate dai coloni dislocati nei «mansi». Le stanze di queste case accoglienti e solide, infatti, affacciavano in un cortile delimitato e recintato dove vivevano e lavoravano le serve dei monaci-fattori. Sparse qua e là sorgevano piccole case di legno adibite a case dei servi, a granai,

ad essiccatoi, a stalle. Questa sistemazione logistica e topografica definiva i rapporti economici e gerarchici, ma non c’è chi non intravede anche l’intreccio di sudditanze sessuali, di trasgressioni che l’ordinamento istituzionalizzava dal tramonto all’alba e la risposta parodica che provocava fra i villani, vittime e nello stesso tempo cantori delle foie monacali. Per coltivare le terre del «manso» signorile i monaci si servivano dei servi, ma il lavoro da compiere era tanto e tale che le sole braccia dei servi erano insufficienti; a completarlo, quindi, erano chiamati i coloni dei «mansi» tributari, i quali avevano l’obbligo di lavorare per i monaci tre giorni alla settimana. Inoltre i coloni dovevano ai monaci bestie, uova, grano, miele e altro, mentre le donne dei coloni tessevano stoffe per i sai dei monaci, per i paramenti sacri e per tutti gli altri bisogni e impegni dell’abbazia. Gli artigiani, invece, pagavano i loro tributi con il prodotto delle loro mani o dei mestieri: un fabbro, ad esempio, aveva l’obbligo di fabbricare lance e armature per gli uomini che l’abbazia aveva, a sua volta, l’obbligo di fornire al re, quale tributo al sovrano. Questa struttura sociale fortemente gerarchizzata e assai rigida rendeva per primi i monaci e i fattori per secondi, i padroni assoluti della vita dei servi, delle serve, dei coloni, ognuno soggetto com’era a fornire tali e tante prestazioni e mercanzie da porli in balia di ogni prepotenza. Per svolgere i loro obblighi e assicurarsi il sostentamento i villani si svegliavano con le galline e con le galline si addormentavano. Ma non sempre. La loro vita sociale e quella privata si svolgeva al buio. La vita, d’altra parte, che i monaci conducevano li rendeva disponibili alle veglie, più carichi di energie e desideri nelle ore tenebrose. E quella dei villani era un’oscurità che si poteva vincere di rado. Le candele erano un lusso, ognuno pregava Dio che permettesse alle api di restare nei loro cespugli, unica possibilità di procurarsi della cera che, in ogni caso, non potevano trattenere tutta per i loro bisogni, perché anche cera e miele spettavano ai frati: la chiesa doveva essere sempre convenientemente illuminata e il miele è un seducente afrodisiaco. L’oscurità, dunque, favoriva le trasgressioni, ma sempre a danno dei villani, dei mariti. L’organizzazione economica e sociale aveva la doppia funzione di istituzionalizzare le opere del giorno e i peccati della notte. Il carico di lavoro che veniva poi assegnato agli uomini debilitandoli autorizzava di fatto le trasgressioni delle donne, così che nell’oscurità i principi morali decadevano senza scandalo e senza proteste. Soggetti per i «fabliaux» non ne mancavano davvero, il loro carattere gioioso, d’altra parte, rivela un’accettazione da parte dei ceti subalterni dell’ordinamento notturno.

Nei giorni di festa i coloni, le serve, gli artigiani si scatenavano, recuperavano senza misura: ballavano, si ubriacavano, irridevano alle loro sventure, ascoltavano senza indignazione i «fabliaux» che i più eccentrici recitavano. I «fabliaux» in genere, narravano proprio ciò che avveniva al buio, alludevano ai fatti accaduti mimetizzandoli dietro un vago anonimato. Oppure riferivano fatti lontani nel tempo e nello spazio, ma in cui l’ascoltatore poteva riconoscere vicende conosciute, persone a lui vicine. E tanto più era alto il loro divertimento se riconoscevano fra i personaggi dei «fabliaux» i loro padroni storici: gli aristocratici, il clero. Nei poemi erotici medievali la cronaca e la finzione vengono abilmente mescolati, ma è stato osservato che non c’è finzione che non esprima la moralità. L’immoralità notturna che imperava nei borghi medievali è costantemente descritta nei «fabliaux» che si conoscono. I materiali che li formano sono sempre piccanti, iperbolici, paradossali, bizzarri, di carattere erotico: è il «basso materiale corporeo» di cui parla Bachtin. In genere la trama di un «fabliau» contiene fatti eccezionali, favolosi fino alla mostruosità, ma presentati come quotidiani. Ciò che vi traspare è la fisicità della vita degli umili, insieme alla soddisfazione che diffonde per i tradimenti e le beffe che le mogli fanno ai mariti ricchi o agli uomini che, sopraffatti dalle fatiche del giorno, trascurano i doveri coniugali. Ma ciò che si pretendeva non era che i mariti risparmiassero le loro forze e contravvenissero ai loro obblighi verso i fattori e i frati, ma che si conservassero intatti i loro desideri, considerati più forti di ogni affaticamento. Le donne sono presentate sempre come vogliose e disponibili. Altrettanto frequenti sono i soggetti che hanno per protagonisti frati e preti sempre colti nei loro vizi, infoiati, avari, approfittatori delle serve, delle mogli, anche se spesso finiscono beffati. In altri «fabliaux» è il mondo dei cavalieri e dei castellani che viene aggredito dall’immaginazione parodica dei villani, mascherandosi dietro il linguaggio cortese, come è il caso de II cavaliere che faceva parlare le fiche. Il cavaliere e Huet, dunque, si dirigono verso un borgo che presenta le caratteristiche descritte e vanno incontro ad avventure che possono essere desunte e adattate da vari «fabliaux». Questa scelta serve anche a definire lo stile del film e gli interessi culturali che si intendono investire, oltre che a rendere il materiale compatto, unitario, tale cioè da ambire a tentare la realizzazione di un «fabliau» filmato. Ed è a tale fine che vanno sottratti e adattati da pometti erotici scene, situazioni, personaggi e argomenti per i dialoghi cercando di raggiungere un’armonia compositiva che non

alteri il carattere proprio dei «fabliaux». La stessa licenziosità dei dialoghi che nasceranno dai vari adattamenti è, del resto, in un certo senso obbligata dal soggetto prescelto. Il viaggio del cavaliere e di Huet avrà un’accelerazione dal momento in cui il villaggio verso cui sono diretti sarà in vista. Il galoppo delle loro bestie scandirà la forza dei loro desideri, l’urgenza di soddisfarli e solleciterà l’attesa dello spettatore. Se i cavalli corrono, il film corre con loro. È il tramonto: fra poco con il sopraggiungere del buio il lavoro avrà termine; le galline e gli uomini andranno a dormire. Chi può inizierà a vivere in libertà, vincerà momentaneamente la paura per trasgredire, per soddisfare i suoi vari e vasti appetiti. Nel villaggio conviene che lo spettatore penetri insieme al cavaliere per i motivi già esposti. Il cavaliere e Huet sono accolti con diffidenza e curiosità. Sono degli sconosciuti e un cavaliere provoca diffidenza. Inutilmente essi chiedono da mangiare e da bere per loro stessi e per le bestie, ma essi sanno anche che quando calerà la notte, l’ospitalità non mancherà; l’oscurità aumenta la permissività. Nel loro vagare una giovane pallidissima e tremebonda li spia da dietro una porta socchiusa, essa sembra attratta e impaurita da quelle presenze maschili e forestiere. Il forestiero di passaggio, infatti, gode delle stesse prerogative di un frate. L’uno riparte, se ne andrà presto e dunque garantisce la segretezza, appunto, sparendo; l’altro è rassicurante in virtù del suo voto di castità, che proprio perché lo vincola al segreto, gli vieta di diffondere le sue gesta erotiche. Non appena il cavaliere si accorge di lei, la fanciulla sparisce, ma al cavaliere non è sfuggito nulla, attenderà la notte per bussare proprio a quella porta: il suo appetito è doppio, le bocche da sfamare sono due, una è nascosta nella calzamaglia aderente e i sussulti della macchina del desiderio sono visibili. Finalmente quando il buio è profondo il cavaliere bussa a quella porta. Viene ad aprire il padre della giovane: è un padre che ha appena spento la fucina, è ancora nero di carbone, le mani penzolano come batocchi di campana. Il cavaliere chiede con modi gentili ospitalità per la notte, da bere e da mangiare per sé e per il suo scudiero, ma si premura di assicurare che sarà in ogni caso costretto a lasciare i l villaggio all’alba. Il fabbro rassicurato da quella promessa, accetta di ospitare il cavaliere, che naturalmente si ripromette di ricompensare lautamente, ma rifiuta l’ospitalità a Huet. Come il cavaliere ricompenserà il fabbro, Huet non se lo chiede nemmeno, sa che è in pericolo l’armatura, altro non ha per pagare. Non è, infatti, sfuggito al saggio e attento scudiero che il fabbro è stato attratto dall’armatura del suo

padrone, visibilmente ne apprezza la fattura, inoltre egli è rassicurato dai modi gentili del cavaliere, dal suo parlar cortese che assai bene nasconde la vera natura del cavaliere, la sua gaglioffaggine, le intenzioni licenziose, i suoi appetiti segreti. Dopotutto ospitare un cavaliere è un onore per un fabbro: un cavaliere è un uomo d’onore e nulla può il fabbro temere per la sua figliola, né che gli venga negata la ricompensa promessa. Huet è contrariato, ma è pronto a obbedire, allorché il cavaliere lo esorta a cercare ricovero altrove per sé e per le cavalcature. Del denaro necessario è inutile far cenno. Huet non ne possiede e che si arrangi. Al nostro villaggio si può aggiungere un’altra caratteristica che potrà essere riutilizzata in seguito: un grande diffuso e piccante odore di formaggio domina case, vie e aria della notte del borgo. Sembra proprio che nell’abbazia e nelle adiacenze non si produca altro che formaggio. Huet è ghiotto di formaggio, il cavaliere non ha le stesse preferenze del suo scudiero, piuttosto non può fare a meno di paragonare o di confondere l’odore acre e pungente del formaggio al buon odore che esce da sotto le vesti delle donne quando il vento le agita. E’ inutile nasconderlo oltre: il cavaliere è uno sporcaccione, ma è il nostro igienismo di contemporanei che ce lo fa giudicare tale. L’attitudine alla sporcizia se misurata e priva di gratuità può servire a costruire macchine comiche, ma ogni materiale comico, se usato in modo sbagliato, fuori ritmo, in un contesto che non lo regge, produce ribrezzo, schifo, indignazione. Ogni effetto comico, del resto, è garantito dalla sua giusta collocazione, dal carattere della trovata che produce la narrazione. Che al cavaliere e a Huet venga dato in pasto solo formaggio potrebbe essere giustificato, oltre che dalla sovrapproduzione, dal fatto di trovarsi nel periodo quaresimale, che vieta la carne e prescrive altre forme di astinenza. Ciò, oltretutto, collocherebbe lo svolgimento della vicenda in periodi precisi dell’anno e ci permetterebbe, in seguito, di introdurre i nostri personaggi nelle feste pasquali. La tradizione antica medievale, infatti, permetteva durante i giorni di Pasqua il riso gioioso e gli scherzi licenziosi persino in chiesa. In quei giorni dal pulpito il predicatore si abbandonava a un’oratoria licenziosa e ridanciana, proprio per suscitare nei suoi parrocchiani, dopo una lunga penitenza, il riso gioioso. Era chiamato «risus pascalis». In altri termini la resurrezione di Cristo, lo scioglimento delle campane coincidevano con un’esplosione di libertà, con una permissività così estesa che non escludeva nemmeno la casa di Dio e i suoi sacerdoti. L’intreccio fra antichi riti pagani e riti cristiani meriterebbe un’altra attenzione, ma nell’elaborazione di una scaletta spesso si è tentati di allargare

l’investigazione in misura tale che se giova alla conoscenza di chi li intraprende, rischia di introdurre nell’intreccio materiali che non possono poi avere una trattazione adeguata e pertinente. Purtuttavia una disponibilità lanciata in ogni direzione è fruttuosa per l’immediato e apre l’immaginazione ad altre avventure immaginarie, giacché lo scrittore di cinema lavora per il film che sta scrivendo e per quelli che scriverà. Niente, insomma, va perduto, il deposito ha una capienza illimitata, così vasta che spesso i materiali vi si perdono per anni. Il cavaliere e Huet, dunque, si dividono. Seguiamo, per il momento, il cavaliere che è il nostro protagonista. La scaletta del trattamento, s’intende, è assai più sommaria di quanto fin qui è stato delineato, ma sarebbe incomprensibile a quell’ipotetico lettore-spettatore cui è dedicata se non fosse illustrata. Ciò che si segna sulla carta è la decisione che scaturisce dalla discussione su ogni singolo punto. In questa esemplificazione, del resto, l’intenzione è di «scalettare» un trattamento descrivendo parallelamente sia l’accumulazione e la progressiva selezione dei materiali, sia un possibile metodo di costruzione dell’intreccio, simulando le più probabili obiezioni di un interlocutore, nonché l’articolazione logica degli argomenti di sostegno a ogni singola scelta. Riassumendo: al primo numero della scaletta, ovvero nel primo capitolo, è segnato il carattere, l’aspetto, l’approssimativo passato del cavaliere e del suo scudiero, lo scopo del loro viaggio, le differenze sociali che esistono fra i due, gli interessi opposti e quelli convergenti che li tengono insieme. Nel secondo capitolo si narra l’arrivo al villaggio dei due forestieri, la diffidenza dei villani nei loro confronti, la scoperta della fanciulla da parte del cavaliere. A ogni capitolo, dunque, corrisponde un movimento narrativo, l’ordinamento dei materiali che si prescelgono. Nel terzo capitolo ci aspettano gli avvenimenti in casa del fabbro, che sono già in corso: la figlia si nasconde, Huet è altrove, il cavaliere e il fabbro siedono a tavola, mangiano formaggio e tracannano vino. La bella giovane appena intravista non si lascia vedere. Il cavaliere ne avverte la presenza, si sente spiato, ma il suo contegno è irreprensibile: più è contegnoso e affettato, più godremo della beffa che farà al fabbro e che successivamente subirà egli stesso. Il fabbro si siede rispettosamente di fronte al cavaliere; un mozzicone di candela illumina i loro volti. E’ il cavaliere che introduce la conversazione mentre mangia e beve con grande avidità, ma usando correttamente e speditamente forchetta, coltello, tovagliolo. E’ un vero numero di abilità. Il fabbro non sa dove fissare il suo

sguardo: è affascinato dall’armatura, ma è anche colpito dall’alta tecnica nell’uso della sua rozza posateria. E più beve e mangia, più diventa ciarliero, narra di avventure cavalleresche, di armature, di pranzi, di piatti prelibati. E del fabbro apprezza tutto. Ma il vino l’accalora, l’armatura gli pesa, se la toglie e finalmente il fabbro può accarezzarla come fosse un cucciolo. Il discorso cade sul formaggio, di cui il cavaliere fa un alto elogio: in realtà egli parla per la fanciulla che non vede. A sua volta il fabbro racconta di quella volta in cui il re visitò l’abbazia e per loro disgrazia provò il formaggio che si produceva nei «mansi» e ne richiese un contributo immenso che impoverì la contrada, così che ormai tutto il contado è costretto a fare formaggio per il re. L’episodio è riferito dalla Power, naturalmente in un altro contesto. Il discorso cade anche sull’armatura del cavaliere, il fabbro la comprerebbe volentieri se il prezzo fosse conveniente. Il fabbro non è uno stolto, ha quella furberia villana, che è propria dei contadini al cospetto dei signori. Il cavaliere, che non ha un soldo e nello stesso tempo vuol acquistare la fiducia del fabbro per poter insidiare la figlia, non si dichiara alieno alla vendita, sempre che l’offerta sia degna di un cavaliere. Il vino e il formaggio e l’uso di un letto non può certo bastare. Il fabbro sospira, altro non può offrire, se non aggiungere un’armatura più dozzinale uscita dalla sua bottega. E’ un dialogo allusivo che lascia supporre che entrambi sono ben consapevoli dei reciproci interessi. La posta è la figlia. Finalmente il cavaliere accenna alla giovane che ha intravisto al suo arrivo. E’ stato colpito soprattutto dalla sua espressione sofferente. Il fabbro sospira come per approvare e finalmente si confida. La scena e i dialoghi che seguono sono tratti da un «fabliau» dal titolo promettente La giovinetta che non poteva sentir parlare di fottere senza averne mal di cuore.

«Il male di mia figlia è oscuro» sospira il fabbro. Benché il cavaliere non abbia esperienza medica, ha molto viaggiato e frequentato dotti uomini di scienza. Lo invita, dunque, a confidarsi e chissà che non possa aiutare la graziosa malata. Il fabbro è rassicurato. «La mia figliola» ammette «non può sentir parlare di fottere e di dissolutezza senza avere una stretta al cuore, mancamenti e tremori.» Il cavaliere si mostra esageratamente scandalizzato; il carattere parodico del dialogo spinge all’accesso di tono. «Non si parla d’altro, per caso, in quest’abbazia?» Il fabbro deve ammettere che così è. La sola vista di un uomo, ormai, spaventa la figlia tanto che a malincuore deve tenerla chiusa in casa anche di giorno;

nemmeno può avere in bottega un garzone che lo aiuti, se non vuole che la fanciulla soffra. «Eppure ne avrei gran bisogno, messere… Allora sì che saprei forgiare un’armatura lucente e rifinita come la vostra!… Invece lavoro tanto e sono mal ripagato sia in denaro che in soddisfazione. Saprei fare una spada bella come quella dell’Angelo Michele!» «E chi è mai così duro di cuore da non ripagare come conviene un maestro fabbro tanto valente?» «E’ il destino dei villani, cavaliere… I frati della nostra abbazia hanno bisogno di armature e così io pago i miei tributi…» «Vogliono dedicarsi, per caso, alla cavalleria senza avere le qualità che io ho? Non mi sono addestrato alla preghiera e alla penitenza io, ma all’arte delle armi!» risponde risentito il cavaliere, questa volta sinceramente. E il fabbro paziente, grato per la comprensione che l’ospite gli concede, umilmente spiega che a loro volta i frati debbono al re quale tributo cinque carri di armi e tocca ai maestri fabbri di forgiarle e fornirle, così che i debiti dell’abbazia verso il r e, tocca ai villani paga rle. «Allora voi, cavaliere» conclude il fabbro «ben potete vedere che se potessi avere un garzone capace di usare il martello e l’incudine, e di arroventare il metallo, ma capace di tacere, privo di appetiti immondi, oppure una figlia senza una malattia tanto misteriosa, ben diversa sarebbe la mia vita e la mia bottega.» Il cavaliere obietta che non tutti gli uomini usano parlare di fottere o attentare alla virtù di fanciulle così delicate e, dunque, il fabbro gli fa torto se lo crede tanto volgare e impetuoso da nascondergli la figlia. Per carità, l’onesto artigiano, il premuroso padre non vuole certo offendere un cavaliere così onorato e sensibile, così rispettoso, e soprattutto dal linguaggio e dalle intenzioni tanto caste! E dunque, come farsi perdonare, se non concedendogli fiducia e convincendo la figlia a presentarsi al cospetto di un forestiero così nobile e disinteressato, che certo nemmeno si permetterà di guardarla? Insomma, senza esserlo, egli si comporterà come un cieco. Ma qualsiasi altro argomento, sia pure più debole, avrebbe di certo convinto la giovane a obbedire a suo padre. E così, pallida, con gli occhi bassi, ma mobilissimi, ella si inchina davanti al cavaliere che cieco non è, anzi egli freme all’istante, vorrebbe più che parlare fottere, fotterla subito: il gonfiore delle sue brache parla per lui. Eppure assai diverse sono le parole che pronuncia, insiste nell’usare un linguaggio rassicurante e nell’esprimere disprezzo per coloro che vedono la vita come una sequela di atti innominabili. Intanto il cavaliere continua a mangiare e bere: la sua avidità è cresciuta,

sembra che stia mangiando la figlia del fabbro, che ora serve l’ospite con grazia e tremore. Il fabbro invece sbadiglia per sonno e stanchezza, ma pure non smette di accarezzare la bella armatura del cavaliere. Si è fatto tardi. Sono sazi; il sonno sembra incombere anche sul cavaliere, ma egli mente, in verità è sveglissimo. Il fabbro raccomanda alla figlia di preparare un degno letto per un ospite tanto onorevole e cade nel sonno. Il letto più degno della casa è quello della giovane: vergognosa ella deve ammettere che non può offrirne un altro, né di meglio. Al buio si infilano nello stesso letto. Il cavaliere chiede graziosamente se ella avverte una stretta al cuore e la giovane risponde che sì, benché si accompagni a un dolce piacere. Spesso, del resto, il piacere e il dolore si confondono. Ben presto le mani dure del cavaliere raggiungono le piccole poppe della giovane e con voce artatamente meravigliata e innocente chiede che cosa mai ha fra le mani. «Ma sono i miei seni bianchissimi e belli.» Sono le sue prime parole. Il cavaliere fa scendere la mano «dritta nel pertugio sotto il ventre, là dove l’uccello entra nel corpo» e le chiede con uguale tono incantato che cosa mai sia. «In fede è il mio prato, cavaliere, quello che voi toccate, ma non è ancora fiorito.» «In fede mia non vi è stata piantata ancora l’erba. E in mezzo a questo prato cos’è questa fossa bagnata e piena?» «La mia sorgente, che ora non sgorga tutta.» «E qui sotto questo riparo che cosa c’è?» «Il suonatore di corno che la sorveglia. In verità, se una bestia entrasse nel mio prato per bere alla mia chiara sorgente, lui suonerebbe subito il corno per fargli paura e vergogna.» Ed ora tocca alla fanciulla accontentare le sue curiosità, ma ella non mente: è la prima volta che può allungare le mani sul membro di un uomo. «Cos’è, cavaliere, di tanto diritto e tanto duro che potrebbe forare un muro?» «È il mio puledro, signora. Sanissimo e aitante, ma è digiuno da ieri mattina.» La fanciulla fa scendere ancora la mano, trova le palle villose, le tasta e le rimuove. «Messere» domanda al cavaliere «cosa c’è qui, in questo sacchetto?» «Signora, sono due stallieri a guardia del mio cavallo, quando pascola insieme ad altri gli stanno sempre fianco a fianco, dettano legge sul mio puledro.» «Fallo pascolare nel mio prato, il tuo bel puledro, e che Dio lo protegga.» «Ma il mio puledro muore anche di sete… è stremato.» «Va’… abbeveralo alla mia sorgente, peggio per te se avrai paura.»

«Temo che il tuo suonatore di corno lo rimprovererà se il puledro entrasse dentro.» «Se ha qualcosa in contrario, gli stallieri lo battono bene.» «Ben detto!» risponde il cavaliere e le mette dentro l’arnese e ne gode. La sequenza è stata dettagliatamente descritta. Stendendo il trattamento, una volta completata la scaletta, vi sarebbe poco da aggiungere. Nella discussione fra regista e sceneggiatore, del resto, spesso capita che si renda necessario raccontare per filo e per segno la sequenza, azzardando i dialoghi proprio per provarne l’efficacia, per far lavorare l’immaginazione, anche se poi nella scaletta si segneranno soltanto i punti salienti. E’ probabile e augurabile che il regista sia soddisfatto e preoccupato nello stesso tempo per questo incontro, tutto giocato sull’ironia e sull’astuzia. Ma come girerà la scena nel letto? Sarà pudico o sfacciato? Seguirà il movimento delle mani del nobiluomo in foja, illuminando nel contempo il corpo della fanciulla con luci soffuse e morbide, oppure si avventerà — s’intende con la macchina da presa — sui due corpi nudi con la baldanza di un fotografo di “Penthouse”? Ma la leggerezza e la grazia del dialogo dovrebbero evitargli una caduta di gusto. Anche in questo caso eccedere negli effetti presenta vasti pericoli. Qui non è il riso grasso, provocato da un lubrificato congegno a orologeria che bisogna ottenere, ma un divertimento pungente che progressivamente deve sprigionare la sua carica erotica, tanto più efficace se la macchina da presa avrà il caldo pudore di una vergine. Lubitsch ha ammonito «Vi sono tanti modi di piazzare la macchina da presa, ma in realtà ce n’è uno solo». E c’è una sola angolazione, un solo punto di vista, un’unica impostazione fotografica capace di colpire la fantasia dello spettatore. La fantasia e non lo stomaco o il basso ventre. Togliendo alla scena tra i due le lenzuola, illuminando a giorno i due corpi, il dialogo che è estratto da un «fabliau» diventerebbe insopportabile. E’ la qualità del dialogo che, mai come in questo caso, deve condizionare le immagini. Inquadrature che tendessero all’osceno, che si appropriassero della virulenza provocatoria che distingue la rappresentazione dei rapporti sessuali ai giorni nostri, distruggerebbero l’srcinalità del dialogo e avrebbero una funzione abbassante sia nei confronti dell’episodio sia del protagonista. Il regista ascolta queste raccomandazioni e sorride, la sua immaginazione rincorre il produttore che, certo, non si accontenterà delle suggestioni del dialogo, della sua grazia erotica. Il sorriso ambiguo e vagamente luciferino che il regista rivolge allo sceneggiatore lasciano presagire che forte sarà la tentazione di schierarsi a favore delle richieste del produttore, preoccupato come sarà di

mancare un effetto comico in una situazione che, in realtà, non lo pretende. E intanto che ne facciamo di Huet? Conviene raccontare a seguire anche la sua notte, oppure ritrovare il mattino dopo sulla strada il cavaliere rivestito di un’armatura arrugginita e in sella a un ronzino dal pelo vecchio, mentre lo scudiero lo segue in groppa a un asino piagato e recalcitrante. Ancora una volta compare l’asino. La bestia, simbolo di miseria e di pazienza, approfitta della circostanza per riproporsi, per tentare di imporci la sua presenza, a riprova che certi materiali narrativi sopravvivono alle obiezioni. Sì, insomma, il cavaliere monta un cavallo senza prestigio e dal galoppo offensivo, tale da rivelare come il vero beffato alla fine non sia stato il fabbro, ma appunto il cavaliere dal fallo impaziente. A Huet gioverebbe una cavalcatura abbassante che non solo denoti la sudditanza cui, in ogni evento, è condannato, ma che in più possa comunicare allo spettatore come le imprese dello scudiero abbiano ottenuto peggior sorte di quelle del suo cavaliere. Questo cambio di cavalcatura e di armatura del cavaliere basta, dunque, a riferire ciò che è avvenuto in casa del fabbro nel proseguimento della notte e, giacché Huet ricompare su un asino, a dedurne che anche la notte dello scudiero non è stata meno disgraziata. Purtuttavia qualche battuta di dialogo fra i due può avere varie utilità, intanto serve a facilitare il recupero dell’informazioni disseminate in tutta la sequenza precedente, come l’attenzione che il fabbro dedica alla bella armatura del cavaliere, ma anche a lanciare suggestioni «in avanti», in preparazione degli svolgimenti successivi del racconto. Ma nessun dialogo, per quanto necessario e carico di informazioni, si giustifica se oltre a stimolare l’attesa dello spettatore per l’immediato futuro della vicenda, non fosse anche occasione di divertimento in sé. Nessuna informazione raggiunge lo spettatore se viene fornita nuda, secca, se cioè la sua funzione è scoperta ed esplicitamente detta. Ma se è vero che Huet comparendo dopo quella notte, deve portare i segni visibili della sua sventura, è proprio producente che egli avanzi su un asino? Qualche considerazione prima della decisione sarà utile. Ogni ripensamento è legittimo come ogni proposito. Lo scudiero in groppa a un somaro malridotto, piagato, che segue il cavaliere su un cavallo incapace di galoppare con altezzosa baldanza ricordano insieme troppo don Chisciotte e Sancho Panza, un accostamento che, ripetuto troppo, sarebbe fuorviante, suggerirebbe paragoni che non sono sostenibili. Inoltre Huet sull’asino, con le possibilità che sarebbero offerte dai suoi ragli, dalla tendenza a sferrare calci a coppie, offrirebbe certamente vaste possibilità di riso; ma è altrettanto vero che si rischierebbe, ancora una volta, di caricare molte

scene future di troppi effetti, al punto di complicare il racconto in più di un’occasione, facendo occupare allo scudiero uno spazio sproporzionato, non producente ai fini del racconto che affida, per così dire, il motore della storia al cavaliere e non a Huet. E’ il cavaliere che riceve il bizzarro dono dalla fata e lo spettatore segue il cavaliere ed elegge nello scudiero la naturale «spalla» del protagonista. In conclusione, conviene ancora una volta far scendere Huet dall’asino e rimetterlo in sella a un cavallo, che naturalmente non deve essere più aitante di quello che ora possiede il suo padrone. Ma deve essere ugualmente visibile che la disavventura cui è incorso vale quella del cavaliere e che ha avuto, al confronto, conseguenze più disastrose. Forse è stato impietosamente bastonato e ne deve portare i segni e lamentarsene. E ancora non basta. Huet, è stato detto, è l’eterno affamato e questo può essere una prima occasione per informare indirettamente lo spettatore. Si ricorderà che nel villaggio che i nostri eroi hanno appena abbandonato si produce formaggio in quantità. Considerato che Huet è un affamato, la prima ipotesi che viene da fare è che egli non sia riuscito a soddisfare nessuno dei due appetiti. Ma se non fosse riuscito a sfamarsi, non ci aiuterebbe a creare nuove situazioni. Meglio è, dunque, che egli, ingordo com’è abbia mangiato troppo formaggio, in quantità tale che ora è affetto da lancinanti dolori di stomaco e se ne lamenta vistosamente non solo con la bocca.

L’ANIMA ESCE DAL CULO, LA VOCE UMANA DALLA FICA

La scaletta finalmente può continuare. Le ipotesi maggiori sono state valutate, la scelta definitiva è dettata soprattutto dalla forza combinatoria insita nello stesso materiale. Il nuovo capitolo inizia con una immagine dolcemente incantevole. Il cielo è sereno. Un sentiero spacca la collina verdeggiante che sale placidamente verso la linea dell’orizzonte. Il cavaliere si annuncia con un allegro fracasso di ferraglie. E canta: la sua voce non è incantevole, guasta anzi l’armonia della natura. Finalmente compare in cima alla collina, ma la sua armatura non è lucente come quella dei cavalieri di “Excalibur”, anzi è arrugginita, è tenuta insieme sul corpo oblungo del nostro eroe dal fil di ferro, da spaghi. Al suo fianco è Huet. Il suo aspetto è dimesso, il suo volto è stravolto. Se ciò che è capitato al cavaliere è denunciato dalla sua armatura e dal cavallo che monta, l’espressione dello scudiero narra altre disavventure, su cui lo spettatore attende di essere informato; ma non deve essere il suo un resoconto puntuale, la sua disavventura deve essere calata nei fatti, in quel momento. Il dialogo, ad esempio, potrebbe avere un avvio rumoroso e sconcertante, assolutamente inatteso, ma accettabile perché è stato preparato nella scena precedente, allorché si è parlato di formaggio. Ogni sorpresa, in altri termini, deve consentire allo spettatore di recuperare le informazioni precedenti, affinché egli non giudichi gratuito il nuovo accidente. Huet, dunque, ha quell’espressione stravolta perché è afflitto da lancinanti dolori di ventre. Per quanto lo tenti, alla fine non riesce a trattenere un peto sonoro; il cavaliere interrompe il suo canto sconnesso: è insomma, scandalizzato, ma non irato. Lo disturba soprattutto il fetore che raggiunge le sue narici, lo stesso ronzino ha uno scarto ribelle, nitrisce per protesta. Il cavaliere si limita ad ordinare al suo scudiero di cavalcare lontano dalle sue narici. Huet si scusa e obbedisce. Intanto i dolori di pancia si sono fatti più acuti e per quanto si sforzi di trattenerli, emette altri peti, sempre più rumorosi. Questo susseguirsi di rumori vergognosi, se distribuiti con giusto tempismo, dovrebbero muovere il riso, anche in chi se ne scandalizza per abitudine. Le macchine comiche, se messe in funzione con misura e secondo un crescendo efficace, producono il riso indipendentemente dal giudizio di merito e di gusto che si dà sull’avvenimento.

I due marciano, come si è detto, a una certa distanza. Huet ad alta voce, affinché possa essere udito, chiede se per disgrazia il suo signore è stato raggiunto da altri rumori molesti. Il cavaliere ammette che ha udito un vago frastuono, come se da molto lontano si annunciasse un temporale. Eppure il cielo sopra di lui è limpido. «Forse» aggiunge «è il diavolo che ha rantolato.» Il fetore dei peti che lo raggiunge in ritardo, lo conferma nella sua ipotesi che è il diavolo a far sentire la sua presenza. E intanto avanzano verso il fondo valle appaiati e a rispettosa distanza, mentre in lontananza si intravede un folto boschetto che circonda da un lato un ruscello. «Se almeno potessi andare di corpo!» si lamenta ancora lo scudiero. «Libererei me dei dolori e vostra signoria dei fetori!» Huet, insomma, non raccoglie le allusioni all’inferno, ai diavoli, all’anima. È povero ed è stato educato a considerarsi privo di anima. A questo punto la disavventura di Huet è stata in parte illustrata allo spettatore. Probabilmente non ne è ancora soddisfatto e giacché egli era in attesa, ha memorizzato anche le nuove informazioni. La sua attesa così si sposta in avanti, attende di saperne di più delle disavventure passate da Huet, ma ora soprattutto intende sapere che cosa l’autore ne farà del diavolo e dei peti. Va anche osservato che mescolando gli effetti comici determinati dai peti e gli accenni al diavolo e all’anima del villano, la scurrilità della scena è andata dispersa. Niente meno si tratta dell’anima, dell’inferno! Anche lo spettatore che era pronto alle rimostranze ne è, quanto meno, incuriosito: l’inferno è cosa sua! Ma l’introduzione di materiali così alti e dannati, che avranno certamente una trattazione scherzosa, impone un loro uso adeguato. Procedendo verso il castello in cui li attende un torneo — e se ne dovrà far cenno affinché lo spettatore si ricordi qual è la loro meta e lo scopo — il cavaliere può istruire Huet sunteggiando un «fabliau» compreso nella raccolta pubblicata da Einaudi, a cura di Rosanna Bensegoni, precisamenteII peto del villano. Mentre il cavaliere recita i versi, Huet per meglio udire, si avvicina progressivamente al suo padrone così che ben presto i due cavalcano affiancati. L’espressione dello scudiero è sempre sofferente, ma il culo tace. Huet non scorreggia più, ma lo spettatore non se ne lamenterà. E uno dei momenti in cui l’autorità degli autori è totale. Essi possono giocare con il tempo, come con i peti. «Gesù Cristo non permetterà mai/ che un villano sia accolto/ con il figlio di Santa Maria./ Il paradiso non lo può avere/ né per denaro né per altri beni/ e nemmeno l’inferno gli spetta/ per questo il Maligno è a bocca asciutta./ Un giorno un villano si ammalò/ l’Inferno era già predisposto/ per accogliere la sua anima/ Sul posto si reca un diavolo/ per far rispettare la legge./ Appena scesi là dentro il diavolo/ gli appende al culo un sacco di cuoio/ perché il Diavolo è convinto/ che

è dal culo che esce l’anima in grande quantità./ Ma per guarire, quella sera/ il villano aveva preso una pozione:/ aveva mangiato tanto buon manzo/ all’aglio e brodo grasso e bollente/ che la pancia non era cadente/ ma tesa come una corda di chitarra./ Non sospetta di essere morto:/ se riesce a fare un peto è guarito./ A prendere forza si sforza con forza/ tanto si sforza, tanto si rinforza/ tanto si gira, tanto si rigira/ che ne viene fuori un peto potente./ L’altro riempie il sacco e lo lega/ perché il diavolo per penitenza/ gli aveva pestato coi piedi/ la pancia e, dice bene il proverbio:/ chi troppo stringe, stringe cacca./ A forza di camminare il villano/ arrivò alla porta col peto dentro al sacco./ Gettò sacco e tutto in Inferno/ ma ecco che il peto erompe di botto/ ecco tutti quanti i Demoni/ furibondi fanno fuoco e fiamme/ e maledicono l’anima villana./ L’indomani tennero capitolo/ si accordarono su questo punto: che nessuno vi porti mai l’anima/ uscita dal culo di un villano./ Quest’anima non può non puzzare./ Su questo si accordarono un tempo,/ che sia in Inferno che in Paradiso/ venga vietato l’ingresso al villano.» Qual è, dopo questo bizzarro e allarmante apologo la reazione di Huet? Non gli si può concedere molto spazio senza abusare dell’attenzione dello spettatore. Un lamento generico, d’altra parte non aggiungerebbe nulla, un ennesimo peto, poi, ripeterebbe un effetto che ha già svolto la sua funzione. Avrebbe bisogno, in ogni caso, di essere rovesciato. Come? Un rovescio potrebbe essere un sonoro rutto, ma oltre a non risolvere la scena, sarebbe una forzatura troppo facile per non essere scopertamente meccanica e gratuita. Durante la recita del cavaliere, giacché egli dovrà declamare i versi con enfasi, quasi si trattasse di un poema eroico, Huet ha ascoltato con raccapriccio, contorcendosi per i dolori ventrali che lo assillano nonché per il suo infame destino di villano. Eppure occorre dare alla scena una conclusione che faciliti il proseguimento del racconto e che renda la sequenza che segue il meno casuale possibile. Soprattutto sarebbe utile una conclusione che rimescoli i materiali usati e che prepari la deflagrazione degli effetti concentrati fin qui. L’immaginazione popolare medievale non solo si compiaceva di considerare l’anima alla stregua di un peto, ma collocava anche l’Inferno nel corpo femminile. Nella fica, quale luogo di peccato e di piacere, di dannazione e di gioia paradisiaca, verso cui l’uomo sente un’attrazione più forte della paura, che pure gli è stata inculcata, per la dannazione eterna. Il cavaliere, dunque, potrebbe concludere avvertendo che se l’anima del villano è indegna dell’Inferno, egli non può nemmeno pretendere di penetrarvi attraverso la fica di una donna. «Ma che giustizia è mai questa che fa della fica la porta dell’Inferno per un villano e il Paradiso per un cavaliere? Tanto vale allora rischiare la morte, la perdita dell’anima in cambio di quel piacere impagabile che si prova vuotando

l’intestino, liberando il corpo e così godere, sia pure per un attimo, di quel refrigerio che vale il possesso di una donna, che appunto, si prova defecando dopo una lunga e tormentata stitichezza.» Chi meglio del Ruzante saprebbe suggerire a Huet le parole adatte, le espressioni colorite e caustiche? Ma riuscirà poi Huet a regalarsi questa soddisfazione? Con noi se lo dovrebbe chiedere lo spettatore, se il gioco dei materiali è stato condotto con giudizio e misura. Ma intanto a Huet il ventre duole, la sua faccia lo dovrà descrivere con buffa eloquenza. Disperato e incapace, dunque, di trattenersi oltre, sprona il cavallo e galoppa verso il boschetto ormai vicino; lì in solitudine, si potrà finalmente calare i calzoni, mettere il culo all’aria, al riparo da ogni occhio indiscreto. Il cavaliere sorride e si ferma ad attendere. E la scena cambia. Nell’inizio del capitolo seguente, il quarto, ha termine ogni riferimento meramente escatologico, quel dualismo protervo fra Dio e diavolo, quell’associazione blasfema fra feci e anima, fra Inferno e sesso, ma non senza che prima si attui quell’esplosione di escrementi che il capitolo precedente ha preparata. Si entra nel favoloso, ma si gioca sempre con il basso materiale corporeo. In compenso il paesaggio sarà illuminato e pulito dalla bellezza femminile. Gli accadimenti che ci attendono saranno tanto più godibili proprio perché sono stati preceduti da materiali «grassi», da scurrilità invereconde. Ne II cavaliere che faceva parlare le fiche il furto degli abiti delle tre fanciulle da parte di Huet è descritto sommariamente. Non basta più: tutto l’impianto narrativo realizzato fin qui, impone un arricchimento dell’intreccio, un rimescolamento dei materiali già usati e di altri nuovi, più freschi e inediti. Huet, dunque, raggiunge il boschetto, scende da cavallo, si nasconde fra le frasche, volgendo la schiena al ruscello che lo attraversa, si cala le brache, si accuccia ponendo al cospetto del cielo e delle acque il suo deretano. Egli non si avvede, per la fretta che i suoi bisogni gli impongono, che tre fanciulle si bagnano nude, trasportate dalla dolce corrente verso l’argine boscoso. Huet comincia a sforzarsi nel tentativo di defecare. Le fanciulle scorgono il culo nudo di Huet, ma le frasche che lo inghirlandano nascondono il resto del corpo, il colore fra il roseo e il giallastro lo fanno somigliare a una zucca formosa ma rinsecchita dal sole. Questione di attimi, s’intende, perché avvicinandosi le tre languide bagnanti lo riconoscono per quello che è in realtà. Emettono gridi di spavento e di vergogna. Non è bello, del resto, da vedersi il culo di un uomo, specialmente in

certi frangenti. Le voci allarmate delle fanciulle giungono a Huet quando è così rosso e gonfio per lo sforzo che il suo volto è mostruoso. Nonostante tutto non può fare a meno di voltarsi, moltiplicando così la paura vergognosa delle fanciulle, che non possono far altro che raggiungere la riva, tentare di acciuffare i vestiti e nascondere così le loro graziose nudità. La sorpresa, unitamente alla vergogna di essere stato colto in un atteggiamento tanto imbarazzante, è tale che Huet finalmente defeca con grande abbondanza e precipitazione, e soprattutto con tale fragore tempestoso che, insieme alla sensazione di aver versato nel sacco del diavolo le budella insieme all’anima, prova un sollievo meraviglioso, paradisiaco. S’intende, gli escrementi di un villano non dovrebbero interessare la macchina da presa. Ma poi chi lo sa quali immagini cova il regista. Comunque può bastare un tuono esageratamente alto, che provochi un’eco rotolante nella vallata. Questa esagerazione sonora dovrebbe provocare il riso. Basta. Huet ha appena il tempo di coprirsi le natiche (potrebbe pulirsi con le ortiche) prima di avvedersi che le tre fanciulle ora corrono sull’erba verso il mucchio dei loro abiti, ansiose di coprirsi e fuggire il mostro. Ma lo smarrimento dello scudiero è breve: egli, memore dei bisogni del cavaliere e suoi, si precipita verso i vestiti, se ne impossessa e fugge. Trionfante, Huet galoppa sul suo cavallo ansimante, agitando la sua magnifica refurtiva, raggiunge il cavaliere, sicuro di aver risolto gli assillanti bisogni del cavaliere e dunque anche i suoi, felice per avere finalmente liberato gli intestini. Ecco che ora è chiaro a cosa tendevano gli avvenimenti precedentemente catalogati e ordinati, a rendere, appunto, efficace, paradossale, sorprendente il furto dei vestiti delle tre fanciulle. Ora Huet si attende la gratitudine e gli elogi del padrone, invece il cavaliere è cavaliere sempre, appartiene a un altro ceto, ha altre norme da rispettare e se nel passato se ne è dimenticato, ora rientra nel suo ruolo perché la trasgressione s cui Huet chiede connivenza non è sopportabile nemmeno da un cavaliere squattrinato. Intende, insomma, restituire lui stesso le vesti alle fanciulle. Certo la difesa della sua onorabilità si accoppia alla curiosità di vedere le tre fanciulle nude, ma il proposito principale è nobile. Invano Huet gli ricorda le loro disastrate condizioni e gli urgenti bisogni, la loro destinazione. Il cavaliere è inflessibile. Huet deve arrendersi, consegnare le vesti al cavaliere, sospirare melanconicamente su quel tesoro perduto e magari aggiungere con amara preoccupazione: «E dire che ci ho rimesso anche l’anima e chissà che non abbia perduto anche le budella!»

La paura di perdere le budella defecando è un altro motivo ricorrente dell’antico repertorio comico popolare. Il cavaliere si dirige verso il boschetto per compiere il nobile gesto: restituire le vesti alle fanciulle. Cosa mai penserà il regista di questo capitolo in cui la bellezza femminea si intreccia con il più basso materiale corporeo? Lo troverà di cattivo gusto? Scarsamente spettacolare? Poco motivato? Ma proviamo a tagliare II peto del villano, la cacata liberatoria di Huet di fronte alle fanciulle nude. Che cosa resta? Se ci atteniamo al «fabliau» che ha suggerito il soggetto l’episodio ha una sua linearità, ma trasformato in immagine perderebbe ogni colore e calore, si rinuncerebbe a un’occasione comica, soprattutto si rischierebbe di rendere il motivo decisivo deludente. Se le tre damigelle fanno un dono tanto eccentrico e sorprendente, esso sarà tanto verosimile quanto più sarà paradossale e bizzarro il contesto in cui verrà elargito. La credibilità, infatti, spesso si ottiene proprio accoppiando materiali fra loro nemici, deformando il reale o ingrandendo i dettagli fino a renderli esagerati. E’ l’esasperazione della realtà, l’esagerazione oggettuale, l’incrocio insistito di paradossi inavvicinabili fra loro a creare il grottesco, cioè quella categoria del comico che tende, appunto, a muovere il riso attraverso l’esasperazione dei caratteri si a fisici che morali, s ia dei padroni che dei servi , sia dei vil lani che dei nobili, come dei mariti e degli amanti. Non solo. Gli animali, gli oggetti possono ugualmente essere sottoposti a tale processo deformante; così come le situazioni più consunte, osservate attraverso uno specchio deformante possono essere riproposte quale critica al modello srcinario. Ma la risata grottesca non è ilare, è amara, secca, quasi un sostituto del pianto perché sottintende un’etica, addirittura una visione del mondo, insieme a un pessimismo fra il banale e il grandioso, un amore controverso con la vita. Molte di queste qualità difettose si ritrovano nei «fabliaux». Il diavolo, l’inferno se accoppiati agli escrementi perdono la loro terribilità, diventano materiali grotteschi chiamati a discreditare la vita ultraterrena, la paura del dopo. La frequenza con la quale nei «fabliaux» e in tutta la letteratura comico medioevale, oltre che nella tradizione della stessa epoca, il diavolo e l’inferno rispettivamente l’uno espressione di un potere inafferrabile, capriccioso e crudele, e l’altro di un destino che si presume scritto per l’eternità, quasi ci impediscono di escluderli dal gioco verbale dei nostri personaggi, senza tradire una paura e un rispetto retrodatato, addirittura maggiore di quello che professavano i villani medioevali. Senza contare che se si rinunziasse a spalmare il film di quell’odore di zolfo, di quel tanto di demoniaco e, dunque, di attraente e di ributtante che certi simboli esercitano sul disorientato uomo del presente, si

perderebbe almeno un’occasione per penetrare in quel magma irrazionale in cui lo spettatore contemporaneo sembra navigare, non certo per accettarlo e condividerlo con lui, ma per tentare almeno di ormeggiarlo all’antica cultura. Non c’è forse altro modo di esorcizzare le sotterranee e inconfessabili paure di cui lo spettatore potrebbe soffrire che riderne allo stesso modo che se ne prendeva beffa tutta la cultura comico-popolare del medioevo. Senza la forza e l’esercizio dell’irrisione di cui l’uomo medioevale dava prova, la sua vita sarebbe stata invivibile, rassegnata com’era a vivere in un mondo che riteneva immutabile. Semmai il pericolo esistente fin qui è un altro: che la narrazione possa essere appesantita da troppi dialoghi, ma in fase di trattamento è una preoccupazione prematura, giacché, vale ripeterlo, è il momento largo della costruzione narrativa. Quello di raggiungere un arco narrativo misurato, teso è compito da svolgere in sede di sceneggiatura. Conterà in ogni caso la qualità dell’interpretazione delle immagini per definire la misura definitiva del dialogo e la sua estrosità. Naturalmente quella percorsa fin qui non è l’unica strada percorribile per realizzare un adattamento cinematografico dei «fabliaux» prescelti. Si potrebbe, in realtà, giocare all’inifinito sia aggregando materiali diversi sia disponendo diversamente quelli fin qui usati, sia infine, senza nulla aggiungere o togliere al «fabliau» ma oltre che la semplificazione di un possibile metodo, questa scaletta ragionata di un trattamento ha, come ho detto, anche una motivazione polemica. Finalmente siamo all’incontro fra il cavaliere e le tre fanciulle. La trovata si mostra finalmente: è arrivato il momento di dichiararla. Se si confronta il soggetto e la scaletta, svolta fin qui, si può constatare che la trovata è collocata assai pi avanti rispetto al soggetto. Questo spostamento è stato operato proprio per evitare che il suo effetto si esaurisca troppo presto. E’ una trovata, infatti, che non determina intrecci complessi, ma situazioni interdipendenti l’una dell’altra; classico racconto di incontri sulla strada, che spinge i protagonisti a viaggiare. In questo progetto di film l’intreccio segue la strada, il suo percorso, sinuoso e comico. La strada è il tipico luogo d’incontri, sulla strada i protagonisti possono incontrare qualsiasi personaggio e non c’è bisogno che vengano preannunciati. Ormai i due protagonisti sono stati delineati, si conosce lo scopo, la meta, il carattere delle loro avventure e, dunque, il racconto ha bisogno di un’accelerazione che dovrà imprimergli proprio la trovata. Ma giacché il cavaliere, lo scudiero sono stati forniti di altre qualità, è facile previsione che nel prossimo svolgimento la trovata godrà di qualche rovescio, cioè a dire di un movimento contrario: un rovescio già esiste nel soggetto, precisamente nella parte finale, allorché il cavaliere interroga la fica della contessa e giacché la fica non è in grado di rispondere si rivolge al culo. Altri se ne possono aggiungere, purché

non si anticipi il silenzio della fica della contessa. In questo caso si avrebbe una ripetizione che toglierebbe efficacia proprio allo snodo conclusivo del racconto. Non è, nemmeno da escludere che altre fiche debbano prendere la parola in occasioni diverse e con conseguenze inattese. Esiste, del resto, del materiale che potrà esserci d’aiuto. Il pene del cavaliere, così affamato e inquietante, servirà pure a qualcosa nel finale. E che scopo altrimenti gli sarebbe stato concesso? Non si può dare un attributo tanto singolare a un personaggio e poi non adoperarlo al momento giusto. Torniamo intanto alle tre fanciulle. Le abbiamo lasciate nude e così le ritroverà il cavaliere, ed egli ne sarebbe delu so se avvicinandosi a l oro scoprisse che hanno nascosto le loro fiche con tre magnifiche foglie di fico. Ma, in ogni caso, è abbondante la carne che resta scoperta. Il cavaliere è un manigoldo astuto: si avvicina alle fanciulle, strette fra loro dalla vergogna, coprendosi cavallerescamente gli occhi con la sua mano guantata, solo che la curiosità è più forte della sua cavalleria. Furbescamente, infatti, di tanto in tanto allarga le dita così che i suoi occhi possono vedere, come attraverso il buco di una serratura, quelle nudità appetitose. Giunto di fronte a loro, il cavaliere getta con gesto largo e galante i vestiti ai loro piedi. E giacché le tre fanciulle non possono muoversi per afferrare i vestiti, proprio per non mostrare tutta la loro pelle bianca e fresca, il cavaliere volta il suo cavallo e si allontana. Vorrebbe avere gli occhi sulla nuca e il suo disappunto è maggiore della soddisfazione che prova per aver compiuto un gesto tanto costoso. Certo non si allontana al galoppo, ma lentamente: gli piace sentire i fruscio delle vesti, avvertire la precipitazione con la quale le indossano, immaginare la progressiva sparizione sotto le vesti dei loro corpi. Generalmente nei films raramente si dà importanza ai rumori, ai suoni. Difficilmente entrano nel racconto e determinano momenti narrativi. Il più delle volte servono a creare atmosfera, ad ambientare, a commentare l’azione dall’esterno, quando, specialmente la musica, non è usata esclusivamente come rinforzo emotivo assolutamente gratuito. Si direbbe che si stenta ad ammettere che la nostra è anche civiltà dei suoni. E’ come se l’immagine potesse essere danneggiata dai suoni, il cinema restarne offeso, mentre è esattamente il contrario: senza un impasto suono-immagine il cinema è muto e non se ne avvede. A questo punto conviene trascrivere integralmente i versi del «fabliau». «Ma una delle tre fanciulle/ si rivolse alle altre:/ “Damigelle, se Dio mi aiuta/ quel cavaliere è ben cortese./ Ne conosciamo molti che a caro prezzo/ avrebbero venduto le nostre robe/ piuttosto che restituircele./ Ne avrebbero fatto un buon guadagno./ E sappiate che se il cavaliere/ ci ha mostrato grande cortesia,/ noi

abbiamo commesso villanìa./ Chiamiamolo e ripaghiamolo degnamente./ E’ così povero che non possiede niente./ Non mostriamoci avare con lui/ ma rendiamolo ricco che è povero.» Singolare è quella invocazione a Dio da parte di fate che si preparano a ricompensare il cavaliere assegnandogli il potere di far parlare fica e culo delle donne e delle bestie. All’orecchio del cavaliere che si allontana lentamente le parole delle tre damigelle sono percepite come un fraseggio di flauto. Egli si gonfia come se tornasse verso il palco del re dopo aver vinto un furente tenzone. Le damigelle lo chiamano, che torni indietro. E il cavaliere obbedisce con una precipitazione che tradisce le sue speranze e la prepotente crescita dei suoi desideri. Parla la più formosa delle tre: «Signor cavaliere, in fede mia/ noi non vogliamo e non sarebbe giusto/ che voi ve ne andiate così./ Ci avete ridato la vita/ assai bene ci avete servito/ avete agito da uomo di valore./ Perciò vi darò un dono prezioso e sappiate che mai lo perderete./ Mai non andrete in nessun luogo/ senza che siate accolto da tutti/ che vi si faccia una gran festa/ e senza che ognuno elargisca tutto quanto possiede./ Mai più sarete povero.» Questo dono così grande e senza limiti, privo di condizioni limitative non mi soddisfa. Più conveniente mi sembra porre una «conditio sine qua non» per disporre di un più vasto ventaglio di ipotesi narrative. Lo stesso cavaliere, del resto, mi autorizza a tanto dal momento che si meraviglia di tanta prodigalità. «Signora, questo è un ricco compenso!» esclama compiacendosi e mostrandosi grato. Ed ora tocca alla seconda fanciulla. «Il mio dono non è da poco./ Ovunque andiate, vicino o lontano/ non vi sarà bestia che incontriate/ purché abbia due occhi sulla testa/ che non vi risponderà con la sua fica/ se rivolgete ad essa la parola./ Questo vi toccherà in sorte/ e siate certo/ che nessuno, né re, né conte, ha avuto mai qualcosa di simile.» Sacrosanta verità: proprio mai nessuno al mondo ha avuto questa bizzarra facoltà, tanto più straordinaria perché non solo affida alla fica la parola, ma predice che quella voce darà al cavaliere vantaggi materiali. Secoli dopo questa stessa trovata sarà usata da Diderot ne I gioielli indiscreti. Sarà un anello a conferire a chi lo possi ede la facoltà di dare voce alle fiche. Il cavaliere accoglie il dono con disinvoltura, come se gli si regalasse qualcosa cui aveva diritto. Il fatto è che il cavaliere frena la sua sorpresa perché suppone che la fanciulla sia fuori di senno, che gli stia cioè donando qualcosa di impossibile. Più che un gesto qualsiasi di meraviglia conviene dare al cavaliere

un’espressione assorta, pensosa, preoccupata. La sua incredulità si mescola allo sforzo di immaginare quale uso potrà mai fare del dono. Ma a distoglierlo da pensieri così inquietanti è la terza damigella. «Bel signore, sapete quello che dico?/ Che è ragionevole e giusto che la fica per caso fosse impedita in qualche modo/ e non potesse dare una pronta risposta/ risponderebbe il culo in vece sua.» E qui possiamo allontanarci dal «fabliau» e tentare subito di ottenere un effetto comico. Il cavaliere aggrotta la fronte, si gratta allegramente i coglioni, vorrebbe dire qualcosa, ma indugia, una delle tre damigelle lo incoraggia a parlare. «Posso, per vostra grazia, provare all’istante la bontà di questi privilegi che la vostra magnanimità mi ha concesso?» La risposta è affermativa, non senza che prima le tre fanciulle si siano scambiate occhiate allusive e risatine di circostanza. Il cavaliere si rivolge alla fanciulla che gli ha fatto il dono di far parlare le fiche. «Vorrei che fosse la vostra fica a darmi la prova del piacere di questo dono. Sarebbe da parte mia grave mancanza se me ne andassi senza aver udito la voce di almeno una delle tre fiche. In fede mia, ardo dal desiderio di sentir parlare il vostro meraviglioso inferno, che io considero un paradiso buio e attraente.» Questa innovazione rispetto al soggetto non solo è «dentro» il personaggio così come è andato configurandosi, ma tende a soddisfare immediatamente la perplessità dello spettatore, ad evitare che si insinui in lui un’incredulità fastidiosa, oppure la convinzione di un inganno ai suoi danni, data la bizzarria del dono che il cavaliere riceve. Giocare, in questo caso, nell’attesa, rinviare cioè il momento in cui la fica farà udire la sua voce, non ripagherebbe dell’occasione perduta. La trovata, del resto, è così carica di energia che può reggere molte ripetizioni, naturalmente in situazioni sempre diverse e con conseguenze sempre sorprendenti. «Chiedete e vi sarà risposto» risponde una delle tre. Il cavaliere si schiarisce la voce: non sa proprio cosa chiedere, o meglio teme di essere sconveniente e di perdere troppo presto il dono che gli è stato fatto. O quanto meno di provare una grande delusione, se dovesse constatare che il dono ricevuto è falso. Finalmente si decide. «Ditemi, signora fica, avete mai accolto un’asta diritta e dura?» Le tre dame arrossiscono. «No» risponde la fica della fanciulla. Che sia proprio la fica a parlare può essere reso chiaro inquadrando le

bocche chiuse delle tre fanciulle, ma lasciando scivolare l’obiettivo verso il basso ventre delle tre; ma soltanto una delle tre vesti dovrebbe leggermente muoversi, come agitata da un venticello. Ma se questo è compito del regista, c’è qualcosa che si può fin d’ora proporre. Nella scena successiva, cioè, il cavaliere può spiegare a Huet di fronte all’incredulità che egli manifesta, come abbia potuto accertare che a parlare sia stata proprio una fica e non una bocca. Oltre tutto per il suo contenuto bizzarro è un’informazione che va ripetuta affinché lo spettatore possa in seguito stabilire quando è la fica a parlare. Ma torniamo all’incontro con le fanciulle. Il cavaliere che, in realtà, è un erotomane camuffato da gentiluomo, si crede vicino a ottenere il premio più desiderato, la sua voce si fa più suadente riconoscendo alla fica, alla quale ancora si rivolge, lo stesso rispetto e gentilezza che si deve a una donna tutta intera. «Meravigliosa è la voce, ma assai amara è la risposta. E vi garberebbe che fosse questo vostro umile cavaliere ad abbeverare presso la vostra calda sorgente il suo membro assetato e affamato, rispettoso e impaziente?» «No, amabile cavaliere, e assai me ne duole. Soltanto il diavolo potrebbe, perché è nella mia gola che comincia l’inferno» risponde ancora la fica. «Chiunque altro tentasse non ne riceverebbe che disgrazia e dannazione.» «Badate, cavaliere,» aggiunge un’altra delle fanciulle, questa volta muovendo le labbra «che i doni che avete meritato, potreste perderli se voi vorrete abbeverare il vostro puledro in una qualsiasi sorgente di donna o di animale.» Il cavaliere è contrariato, ma non perde la calma, non muta il suo tono riguardoso, anche se la sua voce trema per la delusione e il dispetto. «In fede mia questo dono è come una rosa: è pieno di spine. Vogliate, damigelle, perdonarmi. Vi sarà facile se pensate che un cavaliere senza fortuna viaggia da giorni e giorni in cerca di un torneo in cui battersi con onore, le fatiche sono tante, e tanti sono i bisogni che debbo soddisfare, ma se nel suo peregrinare è costretto a lasciare digiuna quella parte di sé che più avverte i morsi della fame, poca gioia gli concedono i vostri doni.» «Tre vestiti ci avete restituiti e tre doni avete avuto… Accontentatevi perché quello che ora a voi sembra una punizione diventerà un piacere allorché potrete fare a meno dei privilegi che vi abbiamo donato.» Il cavaliere sospira con tanto dolore e forza che le fronde degli alberi intorno stormiscono come attraversate da una folata di vento. Il suo saluto è triste, china il capo come ad accettare un destino duro. I vantaggi che si ottengono accettando questa soluzione, modificando il soggetto e servendosi dei materiali di cui si è detto, sono molteplici e dovrebbero

essere già chiari, ma soprattutto è producente che lo spettatore sia spinto a porsi un interrogativo doppio che lo legherà alla scelta del cavaliere oltre all’uso che egli farà dei doni ricevuti, sempre combattuto, come il cavaliere sarà, fra il soddisfare l’appetito suo e quello del cavaliere, fra la gloria e i compensi del torneo e la progressiva cr escita dei desideri . Un membro esigente solleciterà costantemente il cavaliere a violare la «conditio sine qua non» posta dalle fate, che essendo in contraddizione con i doni, determinerà un’attesa carica di speranza nello spettatore che desidera la trasgressione quale effimero compenso all’impossibilità sua di trasgredire. Così pure se aggiungendo la richiesta di verifica immediata del dono da parte del cavaliere si è rinunciato ai vantaggi di un’attesa, ma l’uso appropriato della «conditio sine qua non» ha creato un’altra attesa, a mio avviso, assai pi consistente e veramente graduabile. Ma vi è ancora un elemento che va valutato. Mi riferisco a quel momento in cui la fica di una delle tre damigelle che ha ottenuto la parola, paragona nella risposta che dà alla domanda del cavaliere «se stessa all’antro dell’inferno». Se, infatti, il cavaliere ha potuto avvertire Huet che l’anima di un villano è indegna dell’inferno, ora è il cavaliere ad essere avvertito che l’organo femminile altro non è che l’inferno. Ed è un inferno in cui al cavaliere è vietato entrare, come è proibito all’anima del villano. Questa proibizione duplice e incrociata non sollecita alcun intreccio, ma semplicemente cala la vicenda all’interno del mondo morale di un’epoca, così che credenze religiose, regole di costume, paure ultraterrene, impedimenti sociali vengono beffati e temuti nello stesso tempo. In realtà nella cultura comica del Medioevo queste similitudini non sono rare e stanno a esprimere l’attrazione che esercitava il peccato, anche in un’epoca severa, ma anche la credenza ancora oggi resistente soprattutto nel mondo contadino, secondo cui le donne posseggono una forza diabolica che l’uomo è spinto a sfidare. Tornando, invece, ad analizzare la struttura del racconto così come si viene configurando, dopo le ultime modifiche del soggetto c’è una riflessione da fare di carattere generale circa la sorpresa che si ha nel momento in cui al cavaliere vengono elargiti i doni ed egli può verificare la loro attendibilità, mentre contestualmente gli viene imposta una proibizione fortemente limitativa. C’è in questo episodio narrativo, infatti, un caso, sia pure non esemplare di sorpresa e di «suspence», in cui per di più è proprio la sorpresa a innescare una «suspence». La sorpresa è costituita, come ho detto, dal dono e dalle modalità del suo uso, ma si tratta, appunto, di una sorpresa che innesca una «suspence», cioè un’attesa. La «suspence», è tanto più efficace quanto più è spasmodica e angosciosa. E quanto viene richiesto in un film poliziesco o d’azione. Nel nostro caso non vi è

nulla di angoscioso, al contrario se tutto verrà predisposto correttamente, non vi sarà ansia, piuttosto una speranza di riso, di desiderio che la trasgressione ricambia. Hitchcock ha così stigmatizzato la differenza: «La sorpresa si ha, ad esempio, se una bomba esplode sotto il tavolo intorno al quale sono seduti dei gangster, ma anche degli uomini senza peccati e lo spettatore ignora che qualcuno in precedenza ha situato l’ordigno in quel dato luogo. La “suspence” invece si ottiene allorché lo spettatore sa che la bomba è stata collocata e che da un momento all’altro scoppierà». «Se la situazione della bomba» osservava Hitchcock «è esposta come si deve, intorno al tavolo (sempre che lo spettatore sia stato preavvisato) potete metterci anche una banda intera di gangster, un bel mucchio di malviventi e nessuno del pubblico dirà “benone, li togliamo tutti di mezzo con un colpo solo!” ma ognuno dirà: “Attenti c’è una bomba!”. Che significa? Che l’ansia per la bomba è pi forte dell’atteggiamento di simpatia e antipatia di fronte ai personaggi.» Ma ciò vuole dire forse che lo spettatore è privo di senso morale? Non lo credo affatto. Piuttosto si può sostenere che una meccanica narrativa ha la forza di sospendere le capacità di giudizio morale. Ma è poi veramente privo di senso morale chi desidera che nessuno sia punito con la morte decretata da qualcuno, come nel caso citato da Hitchcock che, in quanto a istinti criminali, gareggia con i gangsters che egli immagina seduti intorno al tavolo.

COSA ACCADE QUANDO LA FICA DI UNA

GIUMENTA PRENDE LA PAROLA

La scaletta prosegue. Il cavaliere si unisce a Huet. Egli è ancora indignato e deluso per quella gradasseria del suo padrone, tanto più che è persuaso che, ancora una volta toccherà a lui sopportare i maggiori sacrifici. Egli conosce già il dono che il cavaliere ha ricevuto, lo rivela la sua espressione incredula e nello stesso tempo spaventata. Lo spettatore, poi, è stato informato direttamente: ha visto. Sono passati pochi fotogrammi ed è inutile ricordarglielo, ne sarebbe ancora una volta offeso per tanta disistima degli autori e in più la narrazione stagnerebbe senza profitto. Basterà riprendere i due in marcia e lo spettatore capirà che Huet è stato informato di tutto. Ciò che invece urge comunicare è l’incredulità di Huet di fronte alle rivelazioni del cavaliere. Nel soggetto, si ricorderà, sono entrambi increduli, il cavaliere non chiede alla fica di una delle damigelle di parlare e le loro ragioni non si differenziano, mentre in questa ipotesi il cavaliere ha udito parlare una fica ed è, dunque, certo del dono. Il cavaliere, ora, ha un aspetto altezzoso, la sua armatura fa ancora fracasso, non ha un soldo in tasca, ma è sicuro che presto avrà quanto necessario al suo rango. Ciò che soprattutto rende incredulo Huet è che un culo possa parlare, esprimere pensieri. A meno che non siano i peti il suo linguaggio. Così ci si aggancia a quanto è avvenuto fra loro. «In verità» esclama «più di sentir parlare una fica, ardo dal desiderio di udire la voce di un culo. Di che cosa può parlare, se non di merda?» Un duro sguardo del cavaliere frena quella sconveniente loquacità. «Spero che questa occasione si presenti il più tardi possibile, anzi fin d’ora prometto a me stesso di non far ricorso a questo dono così poco adatto al mio prestigio. Mi preme invece vedere come e quando io trarrò giusto profitto da questo dono.» Ma il cavaliere ha proprio riferito tutto a Huet? E’ preferibile che proprio il suo prestigio gli abbia taciuto la condizione che gli è stata imposta per godere dei vantaggi concessi. Ma riuscirà a tenere a lungo per sé un tale segreto che già gli avvelena la mente? E’ sempre sul punto di rivelare il segreto, ma si frena

scivolando nei discorsi insensati che sorprendono e insospettiscono Huet. Ma è ovvio che dovrà anche arrivare il momento in cui Huet saprà tutto. Se Huet ignorasse per sempre la «conditio sine qua non» verrebbe meno un’occasione di divertimento, ma soprattutto si ridurrebbe il movimento interno dei due personaggi principali. Si tratta, in questa occasione, di un dialogo breve: lo scopo non è ripetere informazioni fornite troppo di recente, perché possono essere già state dimenticate, piuttosto si tratta di vincere le residue perplessità dello spettatore di fronte all’impossibilità del dono, e tanto più si otterrà l’accettazione di un’ipotesi manifestamente inverosimile, quanto più la qualità del dialogo, la differenza di tono e di linguaggio che i due adopereranno sarà motivo di divertimento. Se riderà accetterà tutto. La risata in sala è sempre consenso, così come lo sono le lacrime. Le incredulità di Huet sono le incredulità dello spettatore che più si identifica con lo scudiero anziché con il cavaliere. Huet rappresenta il buonsenso e lo spettatore si diverte alle avventure, al linguaggio solenne del cavaliere, ma ha bisogno che il suo rappresentante, Huet, lo aiuti a trovare verosimile la fabula. A tale scopo le obiezioni, l’incredulità di Huet debbono essere contenute e debbono sciogliersi con un risvolto scherzoso del dialogo. Nessuna spiegazione logica è possibile. «C’è qualcosa» osservava Hitchcock «più importante della logica: l’immaginazione. Se si pensa subito alla logica non si può immaginare niente.» La scena descritta fin qui potrebbe anche essere tagliata. Farli procedere, cioè, in silenzio avvicinando l’incontro con il prete a cavallo di una giumenta; la perdita non sarebbe grave, ma è sempre sbagliato provocare due incontri, entrambi assai bizzarri in un tempo troppo ristretto, si rischierebbe un indebito accavallamento degli effetti e il loro sommarsi ne diminuirebbe l’efficacia. Il carattere riposante di questa scena intermedia delineata nelle sue grandi linee, oltre tutto ha il compito di porre lo spettatore in favorevole attesa di altri avvenimenti singolari, pronti a recepirli sprovveduto di ogni obiezione. E qui nasce un altro problema, forse il più grosso che questa scaletta ragionata presenta: la giumenta del prete. Non è possibile, d’altra parte, rinunziare all’incontro del prete senza togliere alla storia qualcosa che vale. Nell’episodio del prete e della giumenta c’è in più una sarcastica critica dell’avarizia del clero, altrettanto leggendaria quanto la sua erotomania. Lo storico Jacques Le Goff in un saggio sull’usura ha documentato che «l’usuraio si trova accumulato ai peggiori malfattori, ai peggiori mestieri, ai peggiori peccati, ai peggiori vizi, malfattore lui stesso di più alto livello si trova

in compagnia dei predoni e dei ladri». E ancora: «Personaggio diabolico, infernale, l’usurario mostra ancora la sua natura, in tre ambiti nei quali gli uomini del Medioevo sono stati maggiormente soggetti a ossessione, che in un’epoca di incitamenti e di reazione come quella tra il XII e il XIII secolo attraversano una fase di recrudescenza: il denaro, il corpo, gli animali». Anche secondo le ricerche di Le Goff «il corpo è ricettacolo, strumento di peccato, specialmente il corpo delle donne, di cui già il sesso è diabolico». Se dunque un prete ama il denaro egli non è degno di commiserazione e di rispetto, ed è forse questa concezione del denaro che contraddistingue l’epoca medievale, che fornisce agli anonimi verseggiatori dei «fabliaux» l’insolente diritto di parodiare apertamente i vizi del clero. San Francesco d’Assisi supplicava i suoi frati di non curarsi del denaro pi delle pietre e nella Divina Commedia non ci sono usurai in Purgatorio, sono tutti all’Inferno, alla fine del settimo girone, sotto una pioggia di fuoco. L’incontro, dunque, fra il cavaliere e il prete che si reca dalla sua amante, carico di diabolico denaro, con l’intento di darlo in pagamento per impossessarsi del diabolico sesso della donna, contribuisce a disegnare la mappa delle idee correnti nel Medioevo. Il fatto poi che egli sarà costretto a cedere tutto ciò che ha con sé suona come punizione per così immondi peccati e quale risarcimento per lo sfruttamento che il clero opera nei riguardi dei servi e delle serve. Significativo è che la virulenza parodica che assume la rappresentazione di queste trasgressioni commesse dal clero viene meno quando la parodia investe gli aristocratici, i re. Gli aristocratici, i potenti in generale sono risparmiati proprio in quanto essi esercitano un controllo territoriale, mentre è la Chiesa e le sue istituzioni collaterali che esercitano il controllo sociale sia pure per delega del re. Ma a parte ciò resta difficile dare la parola alla fica della giumenta. Che fare? La perplessità del regista è legittima. Ma questa giumenta attraverso la quale il magico è raddoppiato giacché gli equini non parlano nemmeno con la bocca, allarga la perplessità del regista a tutto il lavoro svolto finora. Egli si chiede: «Ma fa ridere questo film? Non è piuttosto ridicolo che comico far parlare non solo la fica delle donne, ma anche quella di una giumenta? E che accadrà quando dovrà parlare il culo di una donna? Il pubblico “non beccherà”?» E’ questa un’altra espressione ricorrente del gergo cinematografico: è una preoccupazione, un dubbio che accompagna regista, sceneggiatore, attori, produttore fino all’uscita del film. Quando il pubblico «becca» significa che il film non funziona, che il pubblico lo rifiuta fino al punto di esprimersi rumorosamente nella sala in cui il film si proietta.

Insomma la tentazione di far tacere la fica della giumenta è grande, ma è possibile costruire l’episodio tagliando il momento paradossale, la sorpresa? Tagliare poi del tutto l’incontro del prete comporterebbe un’omissione di significati, uno stravolgimento del «fabliau» dettato soltanto da quella che può essere definita una difficoltà tecnica. Qualcosa va detta anche a favore della giumenta e della funzione che ella gioca nella narrazione. Che in questa grassa parodia in cui il basso materiale corporeo si intreccia con il materiale magico, con allusioni demoniache, con la satira educata del mondo cavalleresco e aristocratico, intervenga anche un animale a dire la sua, sia pure con la parte meno adatta ad avere la parola, non si può dire che contraddica lo stile che si sta cercando di assegnare al copione. Che parli, dunque, anche la fica della giumenta! Ma chiediamoci anche se questa giumenta, destinata a passare nelle mani del cavaliere giacché il prete fuggirà abbandonando tutto quando udrà una voce uscire da un organo tanto diabolico, debba parlare solo in questa circostanza, oppure altre volte, in situazioni nuove. Avrebbe certamente molto da dire sulla vita del clero e sui suoi costumi, ma se accettassimo di compiere questo tentativo si porrebbe il problema di introdurre di nuovo il personaggio del prete nel racconto mentre il racconto è strutturato in una serie di incontri che non provocano ritorni. Se, insomma, fossimo indotti a far parlare più volte la giumenta, lo spettatore attenderebbe la ricomparsa del prete, e il suo ritorno nella storia dovrebbe essere tanto pi determinante quanto più la giumenta ha parlato di lui e delle sue imprese. Forse più tentante sarebbe immaginare che il privilegio concesso al cavaliere illuda Huet al punto di credere che egli possa far parlare se non la fica delle donne, almeno la fica della giumenta o di altri animali. Accettando questa ipotesi creeremmo un parallelo fra le bestie e i villani. Ma la fica della giumenta a Huet non può rispondere: egli è il ladro dei vestiti delle tre fatine, ci può provare, questo sì, ma il silenzio che accoglie le sue domande suonerebbe conferma dell’ingiustizia di cui ogni villano soffre. Queste considerazioni e proposte in ogni caso potrebbero essere motivo di dialogo. Ma se la fica della giumenta deve parlare bisogna effettuare una «rimonta», fare un passo indietro, rivedere il primo capitolo. Nella sequenza che apre il racconto, cioè, sarà necessario introdurre un dialogo in cui Huet narri di aver sentito dire che in un villaggio esiste un cavallo che invece di nitrire parla per raccontare tutte le malefatte di chi lo cavalca. Il cavaliere riderà e si dichiarerà incredulo, e lo spettatore con lui, ma l’atteggiamento di entrambi muterà man mano che entreranno nell’intreccio dei materiali previsti.

Il cavaliere obietterà che non ha mai sentito parlare una bestia e Huet insisterà affermando che egli ha sentito parlare cani, pappagalli e fantasmi. «Ma forse» aggiungerà «è un privilegio negato ai cavalieri, ai signori udir parlare gli animali, i quali animali sentendosi più simili ai villani che ai cavalieri, soltanto ai primi confidano i loro pensieri.» Che cosa si ottiene informando lo spettatore in apertura che esiste al mondo un cavallo parlante? Lo si avverte che l’attendono, appunto, animali parlanti, che dunque sta per essere introdotto, seguendo l’itinerario del personaggio guida che è il cavaliere, in un mondo rovesciato rispetto alla realtà. Come ho già detto, gli avvenimenti situati nelle prime sequenze di un film per irreali che siano sono sempre credibili, accettati, per così dire, «a scatola chiusa», proprio perché è quello il momento in cui gli autori pattuiscono con lo spettatore ciò che sarà verosimile e ciò che non lo sarà. Esempio calzante: l’americano “Francis il mulo parlante”. Nel film di Artur Lubin che si ricorda proprio per la singolarità della trovata e il successo di pubblico che ottenne nel 1950, è un mulo a parlare, il meno favoloso dei quadrupedi, certo il più dimenticato dalla letteratura fantastica, dalla favolistica di tutti i tempi e, dunque, il meno credibile. Nel nostro soggetto non c’è solo un mulo a parlare. La parola viene data alle fiche delle donne, delle giumente, al culo di un’aristocratica nel corso di un attacco bestiale al castello medievale dei pregiudizi, delle virtù e delle credenze. Forse lo spettatore, questa entità pirandelliana che è «uno, nessuno, centomila», non si meraviglierebbe in questo caso nemmeno se il castello verso cui il cavaliere è diretto apparisse in seguito a queste esplosioni dei sensi comuni rivoltati, con le torri merlate, cioè, affondate nel terreno e le fondamenta, il ponte levatoio, rivolti verso le nuvole. L’aggiunta nella prima scena, quindi, di un dialogo in cui Huet riferisce dell’esistenza di un cavallo parlante, serve a preparare il grottesco protagonismo della giumenta, esorcizzando il pericolo di un rifiuto, di una «beccata», giacché lo spettatore è stato informato in anticipo che ci aggiriamo in un mondo in cui le bestie prendono la parola. Allorché poi vedrà offrire in dono al cavaliere la facoltà di far parlare le fiche e subito dopo udrà la voce umana uscire dal basso, quasi che la figura umana si fosse rovesciata, si sentirà ricompensato dell’attesa di avvenimenti eccezionali in cui è stato posto fin dall’inizio e si renderà disponibile a sopportare ogni altra trasgressione dal reale. Ascoltato che avrà la voce della giumenta, lo spettatore si porrà in una nuova attesa, si domanderà quando e in quale occasione udrà parlare un culo di donna; e porsi in situazioni di attesa significa già essere pronto ad accettarla. Ecco finalmente che spunta in fondo al sentiero di polvere che taglia i campi

verdeggianti per la primavera in arrivo (sta infatti per finire la quaresima) il prete con la giumenta. Vediamolo da vicino questo personaggio. Il prete ha un’aria maliziosa, falsamente bonaria, ma il suo volto è come invaso da un cactus, da un gran naso, segno che è ben dotato nelle brache secondo un’antica diceria che ancora resiste. Il naso di questo untuoso personaggio deve avere qualcosa fra l’osceno e il mostruoso. E non è un capriccio, una proposta per infierire, è un’esigenza. Un prete che cavalca una giumenta destinata a prendere la parola da dove sappiamo, non può essere un bel giovane, dai lineamenti regolari. O tutto l’episodio perderà la sua credibilità. Un bel prete che va a visitare la sua amante non fa ridere, piuttosto provoca dispetto, antipatia, riprovazione. E’ la giumenta, invece, che deve avere una linea elegante, un pelo che brilli di giovinezza. Fin dal loro apparire la simpatia deve essere addossata alla bella bestia costretta a trasportare un essere tanto sgradevole nell’aspetto. Se il prete cavalcasse una vecchia cavalla insorgerebbe la pena per la bestia, la sua voce produrrebbe una sensazione di schifo. Insomma che la fica di una giumenta giovane e nervosa sparli di un padrone sgradevole e mostruoso può soltanto far piacere. Mi piace immaginare, e ritengo che sia utile, che il prete abbia l’abitudine di parlare, di confidarsi con la sua giumenta durante il suo viaggio verso il peccato, come a frenare la sua ansia e a nascondere il rimorso. E’ ovvio che la giumenta non può rispondere né con la bocca, né con la fica alle domande retoriche del prete proprio per non anticipare la sorpresa. Anzi il prete parla, interroga la sua bestia proprio perché sa che non potrà mai fargli il torto di contraddirlo e di rivelare ad altri i suoi segreti pensieri. Con il silenzio cui il creatore l’ha condannata la giumenta darà al prete l’illusione di trovarsi nel giusto, qualunque cosa abbia in animo di fare; di ricevere, cioè, approvazione. Ed anche questo monologo preparerà il momento in cui la fica della giumenta rivelerà le malefatte del suo padrone. Lo spettatore, cioè, saprà prima del cavaliere chi è, dove va il prete e si godrà il privilegio, e giacché la sua attenzione sarà rivolta alla meraviglia di Huet e del cavaliere, alla reazione del prete, il suo senso critico sarà dimezzato e avrà poco da obiettare di fronte alla sorpresa di una fica di giumenta ciarliera. Nel monologo il prete si lamenta per la disgraziata condizione che lo obbliga a spendere tanto denaro, a ricorrere a tanti umilianti sotterfugi per ingroppare una donna. Come è dunque disgraziata la sua esistenza in confronto a quella di un villano, che sì, lavorerà come una bestia, ma che se deve montare una donna basta che si sposi e, con la benedizione di Dio, può farlo tutte le volte che ne ha voglia senza spendere un soldo purché non dia scandalo.

«Sì» si lamenta il prelato, come a rispondere alle obiezioni della giumenta «sarò un peccatore, ma Dio non è stato generoso con me. Se almeno mi avesse dato un piccolo cazzo senza troppe pretese, la castità sarebbe stata quasi un piacere sopportarla. Invece mi ritrovo con una proboscide così lunga fra le gambe, che nemmeno il tuo stallone preferito può vantarla.» E il prete ride. Dirà: «Non ti illudere che io possa soddisfare i tuoi desideri. Peccatore sì, ma non contro natura». Le informazioni che questo monologo contiene sono tante e non vale enumerarle, basterà notare che lo spettatore apprenderà che un prete dall’aspetto goffo cavalca una giumenta piacevole, che il prete si rivolge alla bestia perché sa che non può contraddirlo, oltre a fornire le notizie sullo scopo e la destinazione del suo viaggio. C’è anche da rilevare che, secondo questa soluzione, il prete è fornito di un pene abbondante e ciò rappresenta un doppione giacché lo stesso attributo è stato concesso al cavaliere, proprio in sede di trattamento. Ma a mio avviso, si tratta di una ripetizione non dannosa, se non addirittura capace di produrre effetti che proprio da questo raddoppio acquistano efficacia. Tanto più che la presenza del prete è passeggera e il suo pene non determina avvenimenti nella storia. E’, infatti, una caratterizzazione che altro scopo non ha se non quello di rafforzare l’aspetto grottesco del personaggio, il carattere burlesco di tutto l’incontro fra personaggi con destini tanto diversi e falli ugualmente ingombranti. Ma la scena appena descritta, ha ancora un’altra particolarità. Il cavaliere e Huet non sono presenti, nonostante si tratti di un racconto in soggettiva. Ma non si tratta di una sgrammaticatura, in quanto la scena pretegiumenta prepara un incontro con il cavaliere e, dunque, non fa racconto a sé. Inoltre il cavaliere e Huet sono nello spazio del prete e lo spettatore è in grado di avvertire la loro presenza. E il prete, invece, che non deve sospettare di essere spiato da qualcuno nel momento in cui si confessa ad alta voce a una giumenta. Il cavaliere e Huet spuntano all’improvviso, spaventando l’oscuro uomo di chiesa, che in quanto a coraggio ricorda Don Abbondio, ma in niente altro. Per fortuna il cavaliere e lo scudiero non sono due «bravacci», hanno modi cortesi e lo riveriscono con molta effusione, eppure il prete non si tranquillizza perché si sa in torto, in procinto di commettere un peccato mortale. Si ricorderà che una delle tre fate travestita, o meglio denudata da fanciulla, ha promesso al cavaliere che chiunque egli incontrerà gli farà dono di tutto ciò di cui avrà necessità. Bisognerà fare un passo indietro per tagliare del tutto il primo dono, oppure aggiungere una condizione secondo cui soltanto gli uomini di Chiesa

non mostreranno verso di lui generosità, giacché nemmeno le fate posseggono il potere di vincere l’avarizia dei preti e dei frati. Una modifica in tal senso risponderebbe a una caratteristica che si ritrova in tutti i «fabliaux», secondo cui i preti sono sempre puniti per la loro avarizia e le loro trasgressioni sessuali. Ne avremo conferma più avanti quando saccheggeremo un altro «fabliau», che per l’appunto ha per protagonista un frate. Ma tornando al nostro prete, se gli concedessimo di mostrarsi spontaneamente prodigo, sia pure per merito delle fate, insorgerebbe una contraddizione con il monologo appena accennato. Preferibile è, dunque, che il prete nel vedersi davanti il cavaliere e Huet così malridotti e poveri, si insospettisca proprio perché si sente in colpa e perché è appesantito dal denaro che non può non far gola a due vagabondi da chissà dove spuntati e con quali perverse intenzioni. Tenta dunque di allontanarsi, sprona la giumenta, ma la bestia è sbarazzina, scuote il capo, agita la criniera, nitrisce come per dire «no» e non si muove. Anche il nitrito della giumenta è utile: aiuterà a capire che non è con la bocca che risponderà alle domande del cavaliere. «Reverendo,» comincia il cavaliere «non avreste di grazia dell’acqua fresca per dissetare due poveri cristiani in cammino da molte ore, in terre così desolate e arse?» «Ne ho tanta poca per me che nemmeno posso dare da bere alla mia giumenta ed ho ancora molto cammino anch’io da fare.» «Andate, dunque, tanto lontano?» insiste il cavaliere. «Per opere di bene… per opere di bene» risponde impaziente il prete. «E non sarebbe opera di bene dissetare gli assetati, come ci ha insegnato nostro Signore?» osa aggiungere Huet con un tono più irritato che polemico. Il prete sospira ma non cede. «Siete uomini d’armi… Più di me siete abituati alle privazioni… Io ho ben altre privazioni alle quali sono obbligato, che se anche esistesse al mondo una creatura di buon cuore che volesse evitarmele, nemmeno potrei accettare in virt dei voti che ho fatto per tenere lontano da me per sempre le tentazioni del diavolo, che in verità non mancano e sono assillanti, smuovono il sangue. Che il Signore vi accompagni e vi faccia incontrare presto una sorgente» conclude il prete che tenta ancora di proseguire. Huet ha veramente sete ed è meno credulone e paziente del suo cavaliere, perché è un villano e conosce il mondo. «In fede mia, cavaliere, se fossi in voi, se possedessi quei doni che dite di aver avuto, domanderei alla fica della giumenta se è verità ciò che il reverendo dice. Per conto mio conosco le bassezze dei preti e non credo a una loro parola.» Il prete non afferra il significato del discorso di Huet, ma ne annusa la

minaccia che contiene. Il cavaliere sorride, s cende dal suo stracco cavallo, accarezz a la groppa della giumenta, solleva la coda della bestia con grazia. «Madonna fica dove va il vostro padrone? Ditelo a me. Non nascondetemelo e avrete biada in quantità.» C’è un attimo di attesa in cui il prete è frastornato. Finalmente si ode la voce della fica. E’ dolce come quella di una fanciulla. E’ preferibile, infatti, che quella voce sia dolce e giovanile. Oltre tutto il fatto che nella scena non sia presente alcuna donna aiuta a capire chi è che parla e con quale organo. Magari potrebbe essere opportuno che la voce sembri venire da lontano, somigliante a un’eco. «In fede» risponde la fica della giumenta «va dalla sua amante e porta denaro sonante.» La meraviglia è di tutti e quattro, anche della giumenta che sorpresa volge il capo verso la sua coda. Ma nel prete il terrore supera la sorpresa. Huet e il cavaliere se la ridono, hanno provato la bontà del dono. Il prete ne approfitta per scendere da cavallo e fuggire. «Lasciateci l’acqua e il denaro!» urla il pratico Huet. E il prete obbedisce e corre, corre. Mentre la giumenta ora nitrisce come a festeggiare la sua liberazione, a unirsi all’allegria rumorosa di Huet che prontamente si è impossessato della borsa e vi ha affondato dentro voluttuosamente le mani. Il cavaliere più dignitosamente afferra la borraccia dell’acqua e beve di gran gusto, ma il suo sguardo è fissato sul denaro che Huet va estraendo dalla borsa.

IL RISO DELLA FESTA

È caduto nelle mani del cavaliere molto denaro ed è tanto scatenato l’appetito di Huet che non è più possibile farlo giungere al castello, come pure prevede il soggetto, con le tasche piene. Tutti, persino gli stessi protagonisti, si aspettano di partecipare a nuove strabilianti avventure. Nel soggetto, dopo l’incontro con il prete, si passa alle scene conclusive. Ma se così agissimo, mancheremmo di una delle tante occasioni che la trovata ancora rende possibili . Un film non ha una lunghezza prestabilita, il suo metraggio non è fissato per legge, né per contratto, anche se le lungaggini preoccupano più del rigore di qualsiasi legge di mercato. Conta che l’arco narrativo conservi la necessaria tensione e gli accadimenti non siano ripetitivi e che avvicinandosi al finale vi sia un’accelerazione del ritmo tale da non essere frenata dal necessario scioglimento di tutti i nodi che sono stati intrecciati nel corso della narrazione. Si tratta, dunque, di costruire un’avventura non compresa nel soggetto, ma che non sia una divagazione superflua, al contrario sia ricca di molteplici agganci col passato e col futuro dei personaggi e che rispetti il tono assunto dalla narrazione. Né è necessario che l’intreccio delle connessioni risponda a una rigida meccanica narrativa. Basterà che il nuovo materiale non contraddica le intenzioni già espresse, che ne rappresenti uno sviluppo logico. Questi allargamenti producono sempre momenti di riflessione fra gli autori. Una troppo lunga e accanita manipolazione del materiale previsto dal soggetto spesso provoca stanchezza, spinge, cioè, a insistere su soluzioni che ne ripetono altre già usate. È questa anche l’occasione perché si aggiorni la documentazione, si riprenda la ricerca di materiali dell’epoca. Non si tratta tanto di saccheggiare questo o quel libro, che certo sarebbe legittimo, quanto di nutrire l’immaginazione, di cercare nuove sollecitazioni nei libri disponibili. Nel caso nostro sarà utile non solo indagare su avvenimenti dell’epoca, ma anche rileggere tutti i «fabliaux» disponibili affinché la soluzione che si va cercando sia all’altezza di quanto già è stato scalettato. Quando la ricerca si prolunga, senza che insorgano nuovi materiali narrativi, sopravviene assai spesso la tentazione di attenersi al soggetto, di accontentarsi

dell’esistente, di saltare il problema ponendo immediatamente il cavaliere e il suo scudiero in marcia verso il castello evitando ogni altro incontro. Ma è una tentazione che conviene scacciare, per evitare che lo spazio che occuperà la conclusiva avventura nel castello non sia troppo vasto rispetto alle altre avventure narrate fin qui. Potrebbe, infatti, accadere che una storia itinerante improvvisamente termini e che invece della meta agognata diventi un altro film, si insabbi fra le stanze del castello e smarrisca il suo ritmo srcinario. E’ un film, insomma, che racconta un viaggio e un troppo affrettato arrivo a destinazione dei personaggi viaggianti; se al primo istante gratifica lo spettatore, presto lo delude, giacché egli è ormai legato a quel peregrinare del cavaliere e stenterà ad abituarsi a una permanenza del protagonista in uno stesso luogo. Nel castello sono previsti avvenimenti che certo non si possono contrarre, ma nemmeno si possono dilatare senza preoccupazione, semmai bisogna badare a comporre un sistema di rovesci che crei un movimento martellante. Ogni effetto ha la sua giusta misura e quella deve essere rispettata. Dopo la pausa di riflessione, dopo aver esplorato le convenienze e i pericoli che presenta un arrivo precipitoso del cavaliere al castello, bisogna finalmente correre l’azzardo di introdurre un’avventura non compresa nel soggetto. Siamo ancora una volta lungo un ruscello, un altro ruscello, in un paesaggio tutto diverso dal precedente, affinché nemmeno per un istante lo spettatore ritenga che il cavaliere sia tornato indietro e si trovi nello stesso punto in cui ha incontrato le tre fanciulle così generose. Un gruppo di lavandaie in ginocchio sull’argine basso lava i panni nell’acqua che scorre. Altre donne stendono le lenzuola ad asciugare sui prati vicini. Il cavaliere in sella alla giumenta si avvicina al ruscello, Huet lo segue in groppa al vecchio ronzino che già cavalcò il suo padrone. Visto che si sono appropriati della giumenta i cavalli dovrebbero essere tre, invece sono due, ma non è necessario raccontare dove l’hanno lasciato e a chi. Il cambio di paesaggio contiene, infatti, un salto di tempo e in quel salto di tempo un cavallo è stato perduto. Basta. Lo spettatore non se ne cura: è troppo acutamente in attesa della nuova avventura che si aspetta molto salace, dal momento che lo scenario è popolato di donne. Alla vista delle lavandaie che volgono verso di lui i deretani che il movimento del lavare fa dolcemente dondolare, il cavaliere sprona la giumenta: l’astinenza comincia a pesargli e quel colpo di sprone lo ricorda. Le lavandaie nel vederlo apparire, prima hanno un moto di preoccupata curiosità, poi allorché il cavaliere tira le redini e frena il cavallo che per un attimo si impenna, sorridono maliziosamente. Lo sguardo del cavaliere lecca le schiene delle

lavandaie. Maliziosi sguardi si intrecciano. Ma c’è anche fra le donne chi si adonta. Sarà un caso, ma la più permalosa è secca come un palo, priva di seno e sgraziata nell’aspetto. Huet avrà un’espressione di disappunto, teme che il suo cavaliere commetta quella trasgressione che costerebbe cara a entrambi. Il cavaliere non può fare a meno di servirsi dei suoi poteri. Si rivolge a tutte le fiche presenti. «Ditemi, madame fiche, le vostre padrone hanno mai tradito i loro uomini?» La risposta è un coro di sì, che anziché allarmare diverte le donne. Solo la bruttina appare offesa e scandalizzata: il «no» della sua fica arriva in ritardo ed è così forte che provoca risate e sorpresa fra le altre lavandaie. Il cavaliere incoraggiato da quella buona accoglienza rivolge una nuova domanda alle fiche delle lavandaie. «Madame fiche, visto che vi piace accettare visite estranee, non accettereste di accogliere il mio membro, s’intende una alla volta?» Il coro dei «no» è potente, ma vi è anche un «sì» della lavandaia senza grazia e poco in carne. E’ un «sì» isolato, sospirato, stridulo. Il cavaliere deluso sprona la giumenta e scappa via. Huet stenta a stargli dietro. Le varianti possibili possono essere molte, anzi quella prescelta ha il difetto di essere troppo facile. Un’altra soluzione potrebbe essere che alla richiesta del cavaliere di possederle tutte, la risposta delle lavandaie sia affermativa, ma a condizione che egli veramente sia capace di possederle senza concedersi alcuna pausa, pena un castigo troppo costoso. Ciò che è necessario comunque è che questo incontro sia breve, l’episodio ha la semplice funzione di colorare la vicenda, di aggiungere un colore diverso, riposante e che, nello stesso tempo, rinnovi alcune informazioni, ricordi le condizioni che limitano il godimento dei vantaggi del dono ricevuto. Allontanandosi dalle lavandaie il cavaliere confida al suo scudiero: «In fede mia, questo dono equivale a un cilicio che mi entra nelle carni». Huet è spaventato. Nella lamentela del cavaliere egli avverte il proposito sempre più fermo di rinunciare al privilegio maggiore per godere, sia pure nella miseria, dei piaceri quotidiani, come a dire «poco ma subito». Huet lo supplica di resistere almeno fino a quando non avranno migliorato la loro condizione. Basterà raggiungere il castello, trionfare nel torneo, mangiare a crepapelle e poi fottere a sazietà. Il cavaliere non promette nulla: resisterà fino a quando gli riuscirà di sopportare quel cilicio. Tanto meglio se il castello è vicino. Di fronte ai propositi di rinuncia del cavaliere di abbandonarsi al più presto

alla crapula più scatenata, Huet ricorda all’impaziente padrone che ancora dura la quaresima, tempo di tutte le astinenze, che ogni cavaliere degno della tradizione rispetta. Così dicendo Huet ricorda anche allo spettatore che è quaresima. Ed è una ripetizione necessaria che prepara gli avvenimenti prossimi che, appunto, dovranno svolgersi nel corso delle feste pasquali. «Finisce stanotte» obietta altezzosamente il cavaliere. «Oggi è venerdì santo… domani il Signore risorge… è il caso che anch’io risorga perché è verso la cima del Golgota che sto galoppando… E poi, giuraddio, che in queste contrade la quaresima la rispetta soltanto il mio cazzo.» «E la mia pancia!» aggiunge Huet. «Frati, preti, villani magari rispettano il digiuno, mangiano erba e bevono brodo, ma di notte escono ed entrano dall’inferno. Se la spassano perché nella quaresima la pancia vuota fa galoppare gli altri desideri.» Ma il racconto, ormai, deve rispondere ad alcune esigenze, sistemare alcuni materiali. Il cavaliere ha una buona cavalcatura ma, si ricorderà, è ancora privo di un’armatura decente, nonché di una spada pari alla sua nobiltà e al suo ruolo. Huet, poi, aspetta di sfamarsi. Inoltre ancora bisogna insistere nel porre il cavaliere in una situazione che lo spinga a interrompere l’astinenza sessuale. Questi elementi enumerati certo non sono sufficienti a dare nuove corposità all’intreccio, a rinnovare il viaggio; è necessario pertanto che i nostri protagonisti siano scaraventati in una situazione che non solo soddisfi le esigenze premeditate, ma crei altre esigenze da soddisfare in seguito, così che ogni episodio non risulti un racconto a se stesso, ma che tutto il materiale lavori di concerto e faccia avanzare il cavaliere verso il castello, accentuando l’attesa dello spettatore. E intanto la quaresima è finita. Può cominciare un altro capitolo, salire un altro gradino della scaletta. Suonano le campane a gloria, è finito il digiuno, l’astinenza. E’ scoppiata la festa, è il tempo della baldoria. L’uomo festeggia l’uomo e si fa autorizzare dalla chiesa. Fino all’undicesimo secolo viveva il tempo della chiesa, erano i rituali religiosi che misuravano il tempo che le campane scandivano. Altre misurazioni del tempo non esistevano. «Più ancora per esigenze pratiche» scrive Le Goff nel saggio Tempo della Chiesa e tempi dei mercanti «che per ragioni teologiche, che d’altronde ne sono alla base, il tempo concreto della Chiesa è adattato dall’antichità, il tempo dei chierici è ritmato dagli uffici religiosi, dalle campane che li preannunciano.» Siamo in un grosso villaggio: i villani sono tutti per le strade, affollano il mercato, si preparano a onorare Cristo risorto mangiando a crepapelle, fottendo più che si è capaci.

Ancora Bachtin riferisce che in occasione della Pasqua si scatenava il «riso della festa», il «risus pascalis». La tradizione antica permetteva il riso e gli scherzi licenziosi persino in chiesa. In quei giorni dal pulpito il prete si permetteva racconti a scherzi di ogni genere, allo scopo di suscitare nei fedeli, dopo un lungo digiuno, riso gioioso. Gli scherzi e i racconti allegri e sboccati facevano riferimento soprattutto alla vita materiale corporea: erano scherzi di tipo carnevalesco, l’autorizzazione al riso che la Chiesa concedeva si estendeva ai peccati di gola e alle soddisfazioni sessuali. «Da qualche fonte» scrive C.L. Lewis inL’allegria d’amore, saggio sulla tradizione medievale (ed. Einaudi) «dovremmo dedurre che il cristianesimo medievale per una sorta di manicheismo è condito di libidine, mentre da altre riceviamo l’immagine di un carnevale, in cui avevano parte tutti gli aspetti pi festosi del paganesimo, debitamente battezzato, senza tuttavia perdere nulla dello loro giocosità.» Torniamo allora al cavaliere, ora che le campane della chiesa sono state sciolte. Lo sorprendiamo al centro del mercato, fra la folla che compra e vende. Sta indossando un nuovo farsetto, scegliendo una nuova armatura o provando il filo di una spada, assistito e incoraggiato dal mercante che elogia la merce e sputa prezzi che fanno impallidire Huet. Il cavaliere paga senza trattare, glielo impone la sua dignità e inoltre il denaro è del prete. Huet vede con raccapriccio la borsa del suo padrone afflosciarsi e sbadiglia per fame; improvvisamente posa gli occhi su una donna bella e formosa che sta affacciata alla finestra. Huet se la mangerebbe in tutti i sensi. La fame non mortifica la libido e il desiderio non gli riempie lo stomaco, anzi i due desideri si intrecciano, si sposano in questo villano che non ha gli obblighi morali dettati dalla cavalleria. Quella donna formosa con il gran seno che sporge dal davanzale, gli sorride nascostamente. Proprio sotto la finestra si apre la bottega artigiana del marito. Casa e bottega di falegname intagliatore. Devoto e muscoloso egli scolpisce Ges inchiodato sulla croce a grandezza naturale, Madonne in lacrime distrutte dal dolore, «Cristi» deposti con tutte le piaghe aperte. Quasi un artista. Come sempre nei giorni di mercato il marito artigiano espone le sue opere davanti alla bottega. I monaci e i curati del circondario sono i suoi clienti, ma anche i signori dediti alle donazioni. Questi «Cristi» crocifissi che sembrano veri, che si vanno allineando contro il muro ai lati della bottega, sono uno spettacolo che lascia a bocca aperta i villani, i passanti. Anche il cavaliere si ferma ad ammirare, è sconvolto al punto che non si accorge che la donna alla finestra sorride a Huet e ne riceve in cambio sospiri e sguardi eloquenti. E quando finalmente il cavaliere solleva lo sguardo verso la finestra sospira

anche lui, ma è un’altra cosa; per scacciare il desiderio, i cattivi propositi si allontana: forse una buona mangiata servirà a consolarlo. L’osteria è laggiù; strada facendo fra i due vi è uno scambio di opinioni, affinché lo spettatore senta confermare ciò che ha già immaginato. Che il dialogo sia breve. Troppe parole costringono lo spettatore a un’attenzione totale, a staccare il dialogo dal contesto della narrazione, dalla descrizione ambientale. In questa occasione, infatti, il cavaliere e Huet dialogano e avanzano verso l’osteria confondendosi alla folla del mercato e giacché i momenti in cui i due protagonisti si immergono nella vita degli altri sono pochi, non bisogna trascurare di fornire un’immagine sia pure fuggevole e sintetica della vita medievale, del tempo dei mercanti, in questo caso. Il dialogo che segue è naturalmente indicativo, come del resto tutti gli altri. «Se anch’io potessi far parlare la fica» si lamenta lo scudiero «avrei chiesto alla moglie del mastro quanto voi avete domandato alle lavandaie.» «A mio parere la risposta sarebbe sì, perché la donna è vogliosa, ma il marito è uomo nerboruto… ci vogliono delle grandi braccia per scolpire quegli enormi “Cristi”… E’ d’uopo che tu valuti il piacere che ne potrai ricavare e insieme i pericoli… Ma non sarebbe rispettoso da parte tua fare ciò che io non faccio, proprio per assicurarti un giusto sostentamento…» Vale la pena di sottolineare che con questo dialogo il cavaliere ricorda la proibizione che gli è stata imposta, ma avverte anche Huet che il marito della donna è uomo forte. Questa informazione prepara all’avventura che coinvolgerà fra breve Huet. Giacché i due avanzano fra la folla, bisognerà caratterizzarla e richiamare l’attenzione dello spettatore. Una soluzione possibile potrebbe consistere nel descrivere, come visti dai nostri eroi, i seni delle donne che passano, così che i desideri del cavaliere e di Huet vengono esasperati. E’ chiaramente una scena di riposo. Il cavaliere e Huet, finalmente, entrano nell’osteria. Fumo, chiasso. Sul fuoco, infilzato in uno spiedo gira un intero maiale. Le donne accudiscono alla cucina e servono i clienti. Mi piacerebbe che le serve fossero tutte nane, che il possente padrone le avesse scelte per evitare il peggio, ma anche per dare ai clienti occasioni di burle, di scherzi. Anzi queste serve alte un metro e dalla faccia rugosa potrebbero essere proposte dal regista che io immagino eternamente tentato dall’orrido, e nello stesso tempo preoccupato delle reazioni negative dello spettatore. Il cavaliere e il suo scudiero si siedono, ordinano il vino. Huet vorrebbe subito qualcosa di più solido purché non sia formaggio, ma il cavaliere lo esorta a mangiare lentamente, a frenare la sua scatenata ingordigia se non vuole saziarsi troppo presto e non gustare i cibi come meritano.

Dalla cucina arriva, del resto, un odore promettente. Ma Huet è impaziente, non solo perché è ingordo, ma anche perché ha fretta di sfamarsi, intenzionato com’è a insidiare la moglie dell’artigiano. E a stomaco vuoto non è capace di nulla. Le serve nane servono il vino. «Come sarà la voce delle fiche di queste serve?» chiede Huet. «Stridula, come quella delle rane, ma non ho intenzione di parlare con loro.» Anche queste due battute hanno funzione di rimonta: gli effetti comici hanno, del resto, bisogno di ripetitività per scattare. In questo caso per sfruttare adeguatamente gli effetti comici della trovata è stato finora attuato il seguente procedimento. Dono della facoltà di far parlare le fiche e i culi delle femmine elargito dalle fate. Primo uso: parla la fica della donatrice. Secondo uso: parla la fica della giumenta con la voce di donna. Terzo uso: parlano le fiche delle lavandaie in coro e subito dopo una sola fica, ma rispondendo sì dopo un coro di no. Si ha quindi un rovescio all’interno di questo terzo uso. Quarto caso: il cavaliere si rifiuta di interrogare le fiche delle serve nane. Altri usi previsti: parlerà la fica della damigella che entrerà nel letto del cavaliere al castello. Non parlerà la fica della contessa perché otturata ed è un altro rovescio. Finalmente parlerà il culo della contessa: è la prima e unica volta che accade. Questa serie di gags si concluderà quando la fica della contessa potrà rispondere alle domande. Allorché il cavaliere chiaverà una delle tre fate la trovata avrà esaurito la sua forza motrice. Ma è una proposta di finale di cui parlerò al momento opportuno. Ho parlato di gag e di trovata: in questo caso, infatti, la trovata si articola in una serie di gags. Ma che cos’è una gag? A quanto emerge dagli esempi fin qui esposti, si può aggiungere la definizione che ne ha dato Pasinetti, secondo cui la «gag» si attua allorché in una scena la situazione viene improvvisamente capovolta. Ma io direi non solo «improvvisamente», in un momento inatteso, ma anche in modo imprevisto, tale da sorprendere. Più esauriente è la definizione che ne dà Grazzini (cfr.Le mille parole del cinema, ed. Laterza, 1980): «Invenzione visiva e verbale di breve durata che nel corso del film, da sola o collegata ad altre, genera sorpresa, ilarità… E’ la fonte più ricca del comico, nascendo spesso, o sembrando nascere, dall’accidentale, provoca lo scatto fantastico e sbocca nell’assurdo». La scena in osteria è appena all’inizio. Il maiale continua a rosolarsi. Il cavaliere e Huet bevono e mangiano in disparte. Intorno a loro l’euforia cresce, si afferrano pezzi di dialogo fra gli avventori. E’ il momento di saccheggiare Rabelais, usando alcune battute estratte dal quinto capitolo di Gargantua e

Pantagruele.

«Io bevo soltanto alle mie ore; come la mula del papa.» «Che cos’è venuto prima: la sete o il bere?» «La sete, perché chi mai avrebbe bevuto senza sete ai tempi dell’innocenza?» «Ma noi, poveri innocenti, beviamo anche troppo senza sete…» «Bevo per la sete a venire…» «Bevo eternamente, per me è un’eternità di bevute e una bevuta d’eternità.» «Io invece bevo soltanto per paura di morire…» «Basta continuare a bere sempre e uno non muore mai.» Questa battuta potrebbe essere detta dal cavaliere nel tentativo di inserirsi nelle chiacchiere e nella compagnia, che è sempre più euforica. «Se io andassi su così bene come mando giù a quest’ora sarei in aria…» «Dì, se il mio cazzo pisciasse di questa buona roba, tu lo succhieresti?» chiede uno degli avventori alla serva nana. Tutti ridono. La nana va via sculettando e offesa. Si fa il segno della croce. Finalmente il cavaliere si unisce agli altri proclamando: «Offro da bere a tutti!… E da mangiare… Oste, quel maiale è mio… mangiamolo subito… Ecco il denaro». Huet si copre gli occhi con le mani per non vedere tanta prodigalità. Soffre. Il cavaliere ormai è della combriccola. Tutti insieme cominciano a spolpare il maiale. Ne tagliano grandi pezzi, lo mangiano con le mani. Huet non partecipa all’euforia generale; mangia, ma la sua mente è altrove. Nell’osteria entra il fabbricante di crocefissi, il marito della donna formosa. Huet si accende di speranza. Un avventore si rivolge al nuovo venuto. «Perché non hai portato il tuo Cristo crocifisso? Si può bere anche stando inchiodati a una croce… Bevi… bevi tu intanto… E ricordati anche di fare a Nostro Signore l’uccello…» Questa battuta ricorda allo spettatore l’attività del marito della donna formosa, prepara lo sviluppo di una scena che avrà Huet protagonista. Si ride. L’artigiano ride, beve. Huet lo spia, ma non si decide a tentare di raggiungere la donna formosa. È qui vi è la possibilità di inserire un «fabliau». Qualcuno deve recitarlo. Un avventore solleva una serva nana sul tavolo e tutti la invitano a recitare un «fabliau». Così dopo averli sunteggiati, ora possiamo ascoltarne uno. Che sia recitato da una serva nana accresce il grottesco, rientra nel clima ubriaco che si va diffondendo. Prendiamo un «fabliau» contenuto nella raccolta pubblicata da Einaudi; tagliandolo adeguatamente, affinché non sia troppo lungo e finisca col rompere il

ritmo crescente della scena. Intanto si mangia, si commenta pesantemente la recita. Il «fabliau» prescelto si presta a tanto. Si intitola Il folle sogno. «Di un’avventura che conosco e ho sentito narrare a Douai, vi racconterò brevemente il succo. Cosa accadde a una donna e a un uomo. Un giorno il bravuomo ebbe da sbrigare una faccenda fuori del paese. Mancò ben tre mesi dalla sua terra. Se ne tornò felice e contento a Douai un giovedì notte. Non crediate che la sposa se ne dispiacesse quando lo vide; fece tante di quelle feste al marito. La donna desiderava molto offrirgli un po’ dei suoi favori perché aspettava i suoi in cambio. Ma lui non si curò della sposa che per il desiderio e l a voglia si arrovellò ancora per un pezzo. Non crediate che lei fosse contenta quando trovò il marito addormentato. «Ah,» esclamò «come ora si dimostra il villano sporco e fetente che è. Dovrebbe star sveglio, invece dorme. Sono i diavoli che l’hanno addormentato ora, ma vada pure al diavolo!» Per questa ragione la donna per la r abbia e il dispiacere si addormentò. E nel sonno, ve lo dico per davvero, la dama fece un sogno: era una fiera annuale ma non c’erano logge, né botteghe, c’erano solo cazzi e coglioni ma di questi ce n’erano a profusione tutti i giorni venivano carrettieri carichi di cazzi da ogni parte. Per trenta soldi ne avevi uno pregiato

e per venti uno bello e ben fatto e c’erano cazzi per la povera gente; vendevano al dettaglio e all’ingrosso. La dama mise il naso dappertutto. Durante la recita la serva nana provoca con arte l’eccitazione degli avventori, man mano che il racconto si fa più spinto: il marito della bruna formosa è uno di quelli che più beve e più lancia lazzi. Huet lo spia e lentamente se la svigna, nemmeno il cavaliere se ne avvede. La recita del «fabliau» continua: gli avventori e la nana si alternano nel recitare il «fabliau». Nonostante l’oscenità dell’argomento sembra che recitano il Rosario. Il coro è così articolato: un verso lo dice la serva nana, il verso seguente gli avventori e ciò deve dare proprio l’idea di un rosario blasfemo. La tendenza a parodiare preghiere, vangeli, rituali sacri, processioni era diffusa e permette questa forzatura. Come i bestemmiatori non fanno altro che affermare l’esistenza di Dio, dei santi e del martirio del Figlio del Signore, così queste parodie oscene del sacro finivano per riaffermare il carattere preminente della vita religiosa, la sua insopprimibili tà. E si continua con il «fabliau» Il folle sogno. La serva nana declama: «La donna mise il naso dappertutto. Tanto ha fatto e tanto ha penato che si fa strada fino a un banco: ne ha visto uno grosso e lungo.» E il coro degli avventori risponde: «È grosso dietro e grosso dappertutto ha il muso grande e gagliardo». E continua la serva nana: «A dirvi proprio la verità uno potrebbe lanciargli nell’occhio una ciliegia in pieno volo». Coro degli avventori: «Senza fermarsi arriverebbe al sacco delle palle che erano simili alla paletta di un badile». Serva nana: «La dama contrattò il cazzo domandò il prezzo a quegli». Coro degli avventori: «Se ora voi foste una moglie non paghereste meno di due maschi». Il «rosario» può continuare, ma intanto il cavaliere sazio, si è disteso a terra in un angolo. Le altre serve nane, strette fra loro, impaurite e scandalizzate, recitano il rosario. Si potrebbe altern are la r ecita al rosari o. Un avventore si rivolge al cavaliere: si meraviglia che lui non partecipi, che si sia estraniato. Forse non gli piace il «fabliau»? E il cavaliere risponde che spera di fare anche lui un folle sogno, ma il rovescio di quello che sta ascoltando: arrivare, cioè, a un mercato in cui si vendono fiche e che egli possa comperarne una calda, profonda, accogliente. E

chiude gli occhi. Dov’è andato Huet? Quale spettatore non è in grado di immaginare che egli ha raggiunto la donna formosa? Anzi, a questo punto ciò che avviene in osteria funziona da attesa. Il «fabliau» recitato, dunque, ha anche una funzione di rallentamento. La lunghezza, il ritmo della scena è un problema che potrà essere deciso addirittura in fase di montaggio. Ma il rallentamento prima fa insorgere l’attesa, poi la fa crescere e bisogna trovare la misura affinché l’attesa non finisca per esasperare lo spettatore, indignarlo, renderlo impaziente. Affinché il ritmo non decresca è necessario che Huet sia già in azione. Se volessimo descrivere come Huet raggiunge la casa della donna formosa e vi entra, il ritmo cadrebbe: vi sarebbe una rottura che deluderebbe e creerebbe un rallentamento inutile, non funzionale. Nel racconto allegro certi passaggi sono superflui, diventano lungaggini, ritardi senza scopo. E’ nel racconto di azione, dove si pretende una «suspence» che esasperi ogni attesa, che un trasferimento va descritto, seguito pedantemente, affinché una volta raggiunga la meta il personaggio venga immerso in una situazione di pericolo. Huet, dunque, è già addosso alla donna formosa, nel letto del fabbricante di crocefissi giganti. Questa scena «a parte» dello scudiero contraddice di fatto la costruzione in soggettiva del racconto, in quanto il cavaliere viene escluso, mentre è lui che trascina in avanti l’azione. Fin qui è l’unica violazione allo schema prescelto, ma è sopportabile, nel senso che il disorientamento dello spettatore è bilanciato sia dall’eccezionalità della situazione sia dall’inattesa iniziativa di Huet, verso cui vanno le maggiori simpatie. Ma se ne ricava anche un altro vantaggio consistente, in quanto il racconto si rinnova senza modificare la caratteristica dell’intreccio e inoltre concede riposo al cavaliere. La sua presenza continua, infatti, può provocare nello spettatore un senso di stanchezza. Semmai il difetto maggiore che presenta questa soluzione è un altro. L’incontro fra Huet e la donna, cioè, resta episodico, in quanto non determina novità nelle azioni successive del cavaliere, né muta il rapporto fra i due. L’unico legame che si produce fra i due personaggi consiste nelle associazioni che si verificano fra ciò che fa Huet e ciò che farà il cavaliere: useremo naturalmente un «fabliau» adattandolo alla circostanza ed anche questa scelta, se non favorisce lo svolgimento meccanico, dà coerenza al racconto. Il «fabliau» in cui immetteremo Huet deve subire, però, una modifica

riduttiva. Nel «fabliau» è un prete a montare la donna e ciò dà al racconto una violenza blasfema, liberatoria e vendicativa. Ma l’adattamento, oltre a dare un’azione a Huet, conserva pur sempre un carattere blasfemo e di beffa del tutto coerente rispetto a quanto sta avvenendo in osteria. Inoltre viene effettuato un rovescio: il cavaliere che per la sua galanteria ha ricevuto il dono, ma anche la proibizione di servirsi del suo membro, esasperato dall’atmosfera erotica e peccaminosa che si è creata intorno a lui, tenta di dormire per vincere il desiderio, per trasferirlo nel sogno. Huet, invece, che è sempre dominato da altri appetiti, ora ha la possibilità di fare ciò che il suo padrone non può fare. E’ la vendetta del villano nei confronti di chi gode di privilegi negati a gente del suo rango. Mentre Huet è sopra la donna formosa, il marito annuncia il suo ritorno cantando. È ubriaco e sazio: deve esserlo, affinché la vendetta che tenterà di perpetrare sia verosimile, del resto anche Huet si è recato dalla donna sazio e bevuto. Huet è a petto nudo, ma in mutande: appare assai magro, si possono contare le costole. La donna allarmata spinge lontano da sé Huet. Che cosa fare? La decisione è rapida: bisogna innanzi tutto che Huet si denudi, si tolga quei mutandoni; la donna glieli toglie con forza. Non si è denudato per fare l’amore, deve denudarsi per nascondersi. Huet trema, non comprende. Non c’è tempo per chiedere spiegazioni. La donna lo spinge verso la bottega: bisogna, insomma che Huet si nasconda fra i crocifissi ammucchiati nella bottega. Huet non ha scampo: obbedisce, ma non può fingersi in croce, si stende su un tavolaccio; la donna gli infila in testa una corona di spine che toglierà a un altro Cristo, gli copre il pube con un panno: insomma deve sembrare un Cristo deposto. Devo restare immobile come un morto, spiega. «Lo sono quasi» osserva Huet. La donna torna a letto, finge di dormire. Il marito entra e si guarda intorno, sospetta qualcosa, come se annusasse l’odore di un altro uomo, la sua presenza; infine scopre le scarpe di Huet malamente nascoste. Ma non fa scandali: finge di niente. Afferra i ferri del mestiere, gli scalpelli, la pialla, il martello mentre la moglie dal letto lo spia e trema. Con la voce bugiardamente impastata di sonno e di desiderio invita il marito a mettersi a letto, a fare l’amore perché deve essere festa anche per lei. Ma il marito si scusa e si duole che un lavoro urgente gli impedisca di accontentare lei e se stesso. Il buio denso a stento gli fa trovare la porta della bottega. Alla donna non resta altro che pregare che il Signore la salvi da ogni

punizione. Il marito entra nella bottega, accende una candela che diffonde bagliori sepolcrali sulle sue opere. Si guarda intorno, vede un Cristo che non è uscito dalle sue mani, è disteso su un tavolaccio: è Huet. La penombra lo nasconde malamente. La sua vendetta sarà fredda ed esemplare. Il cuore di Huet batte con tanta forza che potrebbe uscirgli da un momento all’altro dalla bocca. Il mastro impugna lo scalpello e il martello, si avvicina a quel povero cristo di carne e ossa. La sua donna dall’uscio trema e spia. Il marito afferra lo scalpello e il martello per cominciare a lavorare. «Che vuoi fare, marito mio?» La sua voce è un lamento, il suo volto è pallido come quello della Madonna Addolorata. «Questo Cristo deposto non è finito: gli ho lasciato l’uccello. L’abate non vuole che il Signore abbia l’uccello, debbo scalpell arlo…» Huet è morto dentro, anche il cuore si ferma, la sua pelle ha il colore vero di Cristo deposto. «Sembra vivo!» esclama il marito con comica solennità, mentre si prepara a scalpellare il membro di Huet «Non ho mai scolpito un povero Cristo tanto vero… Vuoi vedere che adesso che gli taglio il cazzo esce sangue e si mette a gridare? Sarebbe un miracolo!» La moglie fugge per l’orrore: è così femminile che non sopporterebbe uno spettacolo di sangue. Huet lancia un urlo. Si alza, spinge l’artigiano lontano, afferra un crocifisso, lo usa come una clava, assesta una botta in testa al marito che cade tramortito fra i suoi crocifissi. Huet, nudo, riesce a guadagnare la strada e la salvezza. Ora Huet e il cavaliere possono cavalcare verso il castello lontano dal villaggio. Il tempo è passato, si è fatto giorno. Non ci interessa conoscere come Huet sia riuscito a ricoprirsi. Basterà che i vestiti siano altri, più larghi o pi stretti. Un’altra conclusione dell’episodio sarebbe possibile. Invece di riprendere il cavaliere e Huet nella strada in marcia potremmo ritrovare il cavaliere in chiesa, dove Huet ancora pallido per lo scampato pericolo, potrebbe inginocchiarsi e pregare in segno di ringraziamento ai piedi di Cristo deposto. Ma questa soluzione che non trovo attraente rischierebbe di essere un rallentamento azzardato, una dilazione che troppo allontanerebbe i due eroi dal loro obiettivo che ora comincia a diventare urgente raggiungere. Eppure non sarebbe privo di suggestione portare il cavaliere e Huet in chiesa, proprio per dare un’immagine più pertinente e vasta del «risus pascalis», attingendo ancora al vasto materiale che Bacthin ha raccolto. Si tratterebbe di farli assistere a una predica in cui l’oscenità verbale del predicatore abbia una

blasfema funzione catartica fino a indurre i fedeli alla msrceratezza sessuale, alla fedeltà coniugale, la donna alla sottomissione. Per questa predica si potrebbe usare un altro «fabliau» opportunamente adattato: «I quattro desideri». Eccolo in breve: Un villano invoca spesso a sua protezione San Martino. Un giorno finalmente questo santo burlone e filosofo si fa carne e ossa e per ricompensarlo delle troppe sfortune di cui si lamenta gli dà la facoltà di esprimere quattro desideri e promette di soddisfarli. Il villano torna a casa soddisfatto e ben presto si lascia convincere dalla moglie a cederle uno dei quattro desideri. Si sa come sono convincenti le donne e come i loro desideri siano conosciuti poco anche dai più affettuosi mariti. Fatto è che la moglie altro desiderio non ha se non che il marito si riempia di cazzi: che gli escano dalle orecchie, dalle ginocchia, dagli occhi, dai capelli e che siano duri, affinché sia risarcita finalmente dagli scarsi desideri dell’uomo che dorme al suo fianco. E subito accade ciò che la moglie ha desiderato. Prontamente il villano chiede al suo benefattore che sta nei cieli che alla moglie spuntino tante fiche quanti cazzi lei ha desiderato. La loro mostruosità è tale che nessuno dei due può godere di tanta abbondanza e così non resta altro che spendere i due desideri che restano affinché sia il villano che sua moglie tornino quali erano. Che il marito, cioè, continui a dormire tutta la notte e la moglie a desiderarlo invano. La donna così torna al suo ruolo storico: la sua liberazione è rinviata di secoli. Il predicatore si è servito di materiale osceno per giustificare e imporre la sua morale. L’apologo si serve di materiali blasfemi che il luogo dove vengono usati moltiplica con la sua violenza disgregatrice per recuperare con uguale violenza la legge morale della chiesa. «Da questo “fabliau”» conclude «potete sapere che agisce proprio da stolto chi crede alla moglie più che a se stesso. Spesso gliene viene solo vergogna.» Questa predica potrebbe essere pronunciata fra una folla di fedeli ridenti, divertiti, fra donne vergognose e scandalizzate. Alla fine della predica i nostri eroi dovrebbero prendere la comunione dalle mani dello stesso predicatore. A meno che non si voglia addirittura scoprire che a dare la comunione al cavaliere e a Huet non sia il prete incontrato in sella alla giumenta. Ma se questa scena in chiesa non si presta a essere collocata dopo la fuga di Huet dalla casa della donna formosa, si potrebbe tentare di sistemarla prima della scena in osteria, rivedendo tutto l’episodio. Fra l’altro, in questo caso, si imporrebbe una scelta fra il «fabliau» che recita in osteria la serva nana e la predica in chiesa di cui si è detto. Allineare, cioè, in uno spazio narrativo ristretto argomenti e figure denudate di ogni preoccupazione

moralistica, di tutte le convenienze sociali ancora imperanti, creerebbe nello spettatore una sazietà che gli impedirebbe di accettare il gioco e nessuna dotta giustificazione sarebbe sufficiente a vincere i pregiudizi. Il turpiloquio, le scurrilità, il linguaggio di strada, se usati senza misura, rischiano sempre di diventare esibizioni gratuite, quale che sia l’alta intenzione degli autori. Un uso controllato, al contrario, del «basso materiale corporeo» moltiplica la sua efficacia eversiva e spettacolare. Ma sarebbe altrettanto errato commettere queste scelte spinti da preoccupazioni censorie. Non si può scrivere un soggetto, un trattamento, una sceneggiatura appellandosi al buonsenso o evocando in ogni occasione rischiosa il fantasma del censore, temendo le conseguenze giudiziarie. Purtuttavia è questa una forma di condizionamento segreto dal quale pochi autori riescono a sottrarsi durante l’elaborazione della sceneggiatura. La minaccia di una punizione censoria amministrativa o penale e dello stesso mercato, se la si subisce a qualsiasi livello, equivale a nominare il censore uno degli autori del film, un autore muto e mai presente, e ciononostante il più autorevole e il meno dotato di immaginazione. Si finisce così con l’attribuire a questo giudice senza volto un potere superiore persino a quello che gli assegnano le leggi. La conseguenza è il progressivo allontanamento di ogni proposta rischiosa, la sicura caduta nel consueto, un errato rispetto per i tabù sociali e politici. Ma soltanto chi si libera di questa paura latente, chi anela a ottenere la vittoria sulla paura riesce ad esprimere la propria personalità e a liberare l’immaginazione. Nel nostro caso non si può essere più prudenti di quanto lo furono gli uomini del Medioevo.

ECCO A VOI IL LIETO FINE

Ormai rimettere i nostri eroi in cammino verso il castello è urgente. Abbiamo lasciato Huet seminudo in fuga nella notte, mentre il cavaliere continuava a gozzovigliare nella bettola insieme ai villani. Li ritroviamo che marciano sotto il sole, qualche nuvola macchia con grazia l’azzurro. Per carità, che non si immagini un cielo scuro che minacci tempesta: questa storia ha bisogno di solarità. Ciò che non è stato visto può essere recuperato in modo approssimativo e fuggevole attraverso un dialogo pertinente ed asciutto, ma anche dal loro aspetto. Ma potrebbe essere sufficiente anche una marcia silenziosa. Ormai lo spettatore conosce bene i suoi personaggi, sa immaginare ciò che gli viene vietato di vedere. Si ricorderà che, dopo la sosta al primo villaggio, Huet scorreggiava senza misura e il cavaliere lo rimproverava per quel fetore di formaggio rancido che il suo scudiero spandeva intorno a sé. Ora la situazione si può rovesciare. E’ il cavaliere che avendo mangiato e bevuto senza rimorsi e senza limiti, ha lo stomaco in subbuglio, ma non scorreggia, rutta fragorosamente. Tocca, dunque, a Huet lamentarsi dei rumori indecenti che il cavaliere fa, ma non ne ha il diritto perché è un villano. Sarà anzi il cavaliere a prevenire i possibili rilievi dello scudiero e a comandargli di non scandalizzarsi, perché non ne ha il diritto. Oltre tutto rumoreggiare con la bocca è sempre più dignitoso che farlo con il culo. Ed è un altro segno della differenza sociale esistente fra loro. Ma ecco che compare il castello. Il cavaliere e Huet spronano le loro cavalcature, galoppano, una musica festosa li accompagna. Sulle torri merlate del castello le bandiere garriscono al dolce vento primaverile per annunziare il prossimo inizio del torneo. Ma prima di introdurre il cavaliere nei saloni del castello fra dame e cavalieri e Huet fra quadrupedi e servi, c’è una domanda alla quale conviene rispondere fin d’ora. Il cavaliere dovrà partecipare al torneo e si dovrà assistere al suo svolgimento? Il torneo è lo scopo del viaggio, ripetutamente è stato ricordato e lo spettatore attende una risposta, anche se sa che non sta leggendo un romanzo di cappa e spada e, dunque, non attende affascinanti e crudeli combattimenti. Purtuttavia la sua attesa merita una risposta soddisfacente, che magari contraddica la sua aspettativa, che lo sorprenda, ma che non lo deluda e soprattutto sciolga i nodi

narrativi che sono stati via via intrecciati. Va, in altri termini, ingannato, ma concedendogli il piacere dell’inganno, non provocando cioè il suo dispetto. Le soluzioni per tutta la parte finale possono essere di vario genere e di diversa efficacia. La forza combinatoria della trovata non è stata spesa che in parte e se ciò è vero vuol dire che è stata amministrata correttamente. In ogni caso una sola è la soluzione vincente e si tratta di individuarla. E’ il momento in cui cadere in errore è assai facile, è l’occasione che viene offerta ai diavoli e ai dannati, escono dall’inferno e baruffano senza complimenti. Durante questa rissa verbale in cui ogni contendente è alternativamente in lotta contro questo o quello, le ipotesi di finale si accavallano, si alternano e si scontrano. Ogni diavolo (il regista, il produttore, il distributore) getta lo scompiglio su tutta la costruzione messa in piedi fino a questo punto ed è lo sceneggiatore l’unico a dover sostenere l’attacco dal quale riuscirà a difendersi se troverà un alleato. Insomma è un vero e proprio torneo cavalleresco che si accende. Brutalità commerciale e maestria professionale, alte motivazioni e bassi interessi magari ricoperti sontuosamente da motivazioni artistiche, da progetti politici, da intenzioni culturali sono le armi di questi cavalieri che spesso il solo sceneggiatore deve tentare di disarcionare dai loro palafreni. Mai come in questa occasione il produttore parla d’arte e di cultura e pensa esclusivamente ai risultati commerciali con speranza e preoccupazione. E il bello è che ognuno è legittimato a sostenere i propri interessi senza temere di cadere nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni da quei moralisti che negano l’economicità» dell’esistenza, di cui parla Italo Calvino. Nel corso di questa disfida spesso finisce col prevalere l’intrigo che magari coinvolge il divo scritturato oppure la logica di potere che finisce per estrarre il vincitore del torneo, per così dire, a sorte, giacché chiunque ottiene la vittoria nella sceneggiatura non è certo che sarà ricompensato con il successo del film. Se fra sceneggiatore e regista c’è accordo, la lotta può avere un esito a loro favore, e non sempre questo accade. Il regista spesso è portato a svolgere azione mediatrice fra i vari interessi che si scontrano e certo ognuno ha la sua armatura. Piacerebbe forse ad Alessandro Blasetti questa disfida verbale fra uno sceneggiatore travestito da Ettore Fieramosca e un mucchio di commercianti di pellicola mascherati da autori impegnati in un’altra disfida di Barletta il cui trofeo è rappresentato dal finale da scegliere per un film da fare. Blasetti, infatti, è il regista che con più insistenza ha riconosciuto allo sceneggiatore il titolo di autore principale del film. È lo sceneggiatore, insomma, il suo secondo Ettore Fieramosca. Questa sua posizione apertamente polemica è l’unico risarcimento autorevole che gli sceneggiatori del nostro cinema hanno ottenuto. Ma almeno in

questa occasione, continuando il facile gioco delle similitudini, chi scrive è tentato piuttosto a porsi sulla testa la bacinella del barbiere e affrontare un combattimento contro i mulini a vento. Una prima costruzione possibile di tutta la parte finale di questo «cavaliere che faceva parlare le fiche» può essere così riassunta. Il cavaliere giunge al castello, il ponte levatoio non si abbassa al suo arrivo perché il suo aspetto non lo fa riconoscere per un cavaliere, egli minaccerà i serventi, implorerà che lo annuncino al conte, al padrone del castello. Altri cavalieri, tutti ospitati nel castello, sono già giunti e attendono l’inizio del torneo. Le loro armature brillano, i costumi sfarzosi fanno apparire miserabile l’armatura del cavaliere. Il suo aspetto di nobile decaduto non lo mette in soggezione, anzi ha un atteggiamento altezzoso e spaccone che i suoi pari beffeggiano educatamente. Per giustificare il suo stato miserando, quell’armatura senza bagliori, quegli abiti consunti di cui pure egli si mostra fiero, racconterà una panzana, avventure mirabolanti che noi sappiamo inventate di sana pianta. Ma quale che sia la giustificazione che userà il cavaliere si dovrà dire certo che anche con un’armatura così indegna del suo passato e del suo nome sarà in grado di mostrare il suo valore, di conquistare il trofeo in palio. Né l’irrisione velata degli ospiti e dello stesso conte lo indurrà alla modestia. La sua spacconeria, del resto, è motivata dalla consapevolezza che le fate del ruscello gli hanno garantito la fine della miseria. L’entrata in scena della castellana piacente e formosa, maliziosa e scaltra, ferma l’ironia dei messeri, ella attira s di sé l’interesse del cavaliere, egli diventa galante e ben presto la castellana mostra di gradire quell’attenzione. Ne è anche divertita. Alla fine si dice sicura che sarà il cavaliere a guadagnare l’armatura d’oro che lei mette in palio e, fra la meraviglia dei presenti, lo invita nella sala dove l’armatura riluce. Segue la cena. La tavola è imbandita riccamente. Un profumo invitante stordisce Huet, che è pronto a servire i cavalieri insieme ai servi del castello. Ma il cavaliere non ha occhi e desideri che per le bellissime damigelle che onoreranno con la loro presenza il pranzo. I cavalieri mangiano fra i sospiri dei servi mentre il conte annunzia le regole del torneo che avrà inizio l’indomani. I cavalieri esaltano le loro gesta passate, descrivono le loro tecniche di combattimento. Racconti iperbolici in cui l’eroismo si sposa con la galanteria. Evidentemente la presenza di tante donne, i loro atteggiamenti deliziosamente provocanti, eccitano i convitati, li rendono sbruffoni. II nostro protagonista, che già per giustificare la sua scarsa eleganza ne ha dette di grosse, non è da meno: è un torneo di sole parole in cui egli ha la meglio,

nessuno è ascoltato con più attenzione di lui, quasi che le dame presenti vogliano aizzare i suoi desi deri. La contessa, che ha voluto il cavaliere seduto al suo fianco, lo incoraggia con la sua esuberante attenzione. I desideri arretrati di cui egli soffre e la predilezione che mostra per lui lo spingono a galanterie audaci: le sue mani non sanno star ferme e la contessa sembra gradire i suoi furtivi palpeggiamenti. Le allusioni sono eleganti eppure trasparenti. La contessa approfittando che il conte suo marito beve, mangia, chiacchiera e si disinteressa di lei, lascia persino intendere al nostro eroe che le piacerebbe accoglierlo nel suo letto quella stessa notte. Glielo impedisce la diffidenza del marito, la sua gelosia che sa dimenticare soltanto quando è a tavola. Ma se tanto le è impossibile non di meno il desiderio che aggredisce il cavaliere va esaudito e, dunque, per mostrargli la sua benevolenza provvederà a fargli scaldare convenientemente il letto della sua damigella preferita. E gliela indica. Il cavaliere ringrazia sfoderando un forbito parlar cortese. Questo dialogo permette di sopprimere la scena che il soggetto prevede, fra la contessa e la damigella destinata a infilarsi nelle lenzuola del cavaliere e, inoltre, prepara gli avvenimenti successivi senza peraltro scoprirli con anticipo. E’ finalmente notte. Il cavaliere entra nella stanza che gli è stata assegnata ed è deluso di non trovare la compagna promessa. Huet è bene che sia con lui, mentre l’aiuta a liberarsi dei suoi panni ed è felice di quell’assenza, lo consola ricordandogli che una corazza tutta d’oro l’attende, che potranno ben presto venderla e godersi il domani. Guai, anzi, se la contessa mantenesse la sua promessa! Il cavaliere rassicura Huet: quella corazza d’oro non intende perderla, costi quel che costi. Il torneo, insomma, ci sarà, non si è tentato di liberarsi dell’attesa dello spettatore, anzi l’insistenza con la quale lo si è promesso determina il sospetto che non vi assisterà e si prepara a conoscere quale diavoleria degli autori lo sostituirà. Un’informazione, cioè, insistentemente ripetuta diventa disinformazione, perde la sua credibilità. Il cavaliere è sazio, è stanco e non c’è che il sonno per affogare la delusione, se si riesce ad abbandonarvisi. Anche Huet sbadiglia ma per fame, il suo giaciglio è altrove, nella stalla, e placherà la fame sottraendo le carrube ai cavalli. Una variante possibile sarebbe che Huet decidesse di restare nella stanza del padrone per vegliare sul suo riposo e la sua castità. Si nasconderà sotto il letto quando sentirà dei passi avvicinarsi alla porta. Ma la decisione può essere rimandata.

Questa scena della stanza ricorda le condizioni poste dalle fate, la voglia arretrata del cavaliere, l’interesse dello scudiero, l’importanza economica che ha per entrambi la partecipazione e la vittoria del torneo, ma nello stesso tempo autorizza lo spettatore a supporre che sarà proprio la contessa a raggiungere il letto del cavalier e. A tale scopo il cavaliere non dovrà mancare di esprimere il desiderio che sia proprio la contessa, nonostante le difficoltà, a fargli visita. Una scena, come ho già detto, funziona se ha più di uno scopo, se è determinata dalle vicende passate e preannuncia il futuro prossimo. E’ una regola che vale soprattutto nella fase conclusiva del film. Ogni scena, a questo punto, deve offrire un ventaglio di possibilità che in questo caso sono: l’arrivo della contessa e della damigella, ovvero il mancato mantenimento della promessa, il dilemma del cavaliere una volta che si troverà una donna nel letto. Se darà sfogo ai suoi desideri perderà le sue facoltà e la corazza d’oro, se saprà trattenersi verrà convenientemente ricompensato. Lo spettatore si lancerà su ognuna di queste ipotesi ben ricordando che la voce della fica in ogni caso dovrà essere ancora ascoltata e che soprattutto dovrà udire parlare un culo. Ma quando? Come? Andiamo avanti. Il cavaliere dorme. Una dama avanza come un fantasma bianco nei lunghi e bui corridoi del castello. Un momento di «suspence» non guasta nemmeno in una struttura di commedia. La dama entra nella stanza del cavaliere, si spoglia mostrando la schiena. Ancora non si è certi che non sia la contessa, lo spettatore già ne dubita, ma non è un espediente del quale ci si possa servire a lungo, è già troppo facile e desueto. Ma se il regista vuole rinunziare a questi espedienti tradizionali lo faccia pure. Oltre tutto non è su questi dettagli che si gioca l’efficacia della scena. Mentre la dama si spoglia il cavaliere potrebbe parlare nel sonno. Forse sogna una scena che ha vissuto, sta sognando di trovarsi ancora nel letto della figlia del fabbro e ripete quel dialogo. Oppure sogna e descrive scene orgiastiche in cui la sua virilità trionfa. La damigella, comunque, si infila nel letto. A questo punto, in ogni caso, deve essere chiaro che non è la contessa. Ma contriaramente a quanto suggerisce il soggetto la damigella non trema. Il tremore in cinema non è emozione, è paura. Perché dovrebbe allora avere paura se è decisa a entrare in quel letto? L’emozione in questo caso, si dà rallentando i gesti della damigella, alternandoli a sospiri che esprimeranno l’urgenza del desiderio e l’imbarazzo di doversi infilare nel letto di uno sconosciuto. Se tremasse, oltre tutto, darebbe l’idea di essere sul punto di fare qualcosa di proibito. Invece sta facendo ciò che

avrebbe voluto fare la contessa, il peccato è autorizzato dalla contessa e inoltre il cavaliere è attraente. Infine se in questo inizio di scena ella mostrasse paura, allorché sentirà parlare la sua fica, il suo comportamento non subirebbe rovesciamento, meno, insomma, mostrerà paura ora, più sarà comicamente efficace lo spavento che proverà allora, tanto più che ben altro ella si attendeva. Ciò che in questo caso provoca divertimento è dato dal fatto che la damigella non sa ciò che l’attende, mentre lo spettatore lo sa e prova a immaginare la reazione della damigella. Si tratta ora di stabilire come il cavaliere scoprirà la damigella accanto a sé, quale reazione avrà al momento del risveglio. Potrebbe svegliarsi di soprassalto, come se fosse stato sorpreso dal fabbro nel letto della figlia e provare a fuggire. Il suo coraggio e il suo valore è un altro e non si può pretendere che lo possieda anche mentre dorme o nell’attimo del risveglio. Oppure potrebbe svegliarsi e non credersi sveglio e allorché si rende conto che è desto, fingere di sognare, o soltanto di dormire. La damigella comincia con grazia e cautela ad accarezzarlo, quasi volesse farsi possedere senza che il cavali ere si accorga di farlo. Il cavaliere, comunque non è un pezzo di marmo e quando le carezze scendono verso il basso, si sveglia, ma spia la dama e finge di dormire: il buio favorisce l’inganno. Se si procede su questa strada è difficile poi frenare il cavaliere e fargli rispettare la condizione negativa del dono e dunque perderebbe la facoltà di far parlare le fiche troppo prematuramente. Se poi Huet si trova sotto il letto e in qualche modo interviene per impedire al padrone di fottere la damigella, la scena rischia di complicarsi troppo, di avere troppo materiale e di accavallare troppi effetti, dimezzandone l’efficacia. Ma una soluzione che aggiunga effetti e non li comprometta si può sempre trovare. Ciò che sembra innegabile è che non bisogna udire la voce di Huet. Almeno non ora. Ognuna di queste soluzioni possibili è destinata a scatenare discussioni, incertezze, ripensamenti, ma anche a far insorgere nuove soluzioni, magari rendendo più difficile la scelta. Ciò su cui è prevedibile l’unanimità è che la fica della damigella parli. C’è inoltre da decidere che cosa il cavaliere chiede alla fica della damigella e che cosa risponde. La felicità del dialogo applicata alla scena fra il cavaliere e la figlia del fabbro è difficile ritrovarla. Oltre tutto dovrà essere un dialogo breve, bruciante perché la damigella spaventata dovrà fuggire. Non mi provo a immaginarlo, rimando il problema alla sceneggiatura. La damigella fugge nuda? Raccoglie frettolosamente i vestiti o nella precipitazione li abbandona? Forse è preferibile che li abbandoni nelle mani del

cavaliere: potranno tornargli utili. E se tale utilità non capiterà, potremo sempre restituirli alla damigella. Sulla carta ogni aggiunta o soppressione è possibile in ogni momento. E’ quando la scena è girata che diventa difficile tornare indietro. Dove fugge nuda o vestita la damigella, se non dalla contessa? Trasferiamoci allora nella stanza del conte e della contessa. E’ un’altra scena che è priva del cavaliere, ma si giustifica: 1’) perché è del cavaliere che dovrà parlare, è lui il soggetto; 2’) perché è nello stesso castello che avviene e a poca distanza dal cavaliere, vi è, dunque, unità di luogo e di tempo. Il conte dorme profondamente, la contessa è sveglissima: è impaziente. Sente picchiare cautamente alla porta. Si alza lentamente, va alla porta, la socchiude, vede la damigella. E’ nuda? Se lo fosse è preferibile. La contessa esce nel corridoio per sapere che cosa mai è successo da averla tanto spaventata. La damigella piena di vergogna, le riferisce che ha obbedito, ma non ha potuto assolvere tutto il suo dovere; il cavaliere possiede una qualità rara e diabolica: ella ha sentito una voce che nessuno al mondo ha mai udito prima, era con certezza la sua fica a parlare e a parlare di lei sfacciatamente. La contessa è incredula, ma è anche incuriosita, vuol constatare di persona se la damigella non le ha mentito. Oltre tutto ha una vaga scusante, recuperare le vesti della damigella per evitare uno scandalo e di ciò la damigella le è grata. Lei non oserebbe varcare ancora quella soglia. Ma affinché il conte non si accorga che la moglie è assente, la contessa impone alla sua damigella di infilarsi nel letto accanto al conte; si metta di schiena e attenda immobile fino al suo ritorno. Ora sì che la damigella ha paura, ne ha ben donde, ma la contessa la rassicura: suo marito ha il sonno pesante e di notte preferisce il sonno al piacere, inoltre non può sentirsi solo nel letto, nulla lo sveglia come non avvertire accanto una presenza femminile. Insomma come il conte trascura la contessa, trascurerà in ogni caso la damigella e chi veramente rischia tutto è soltanto lei, la contessa. Non c’è tempo, la damigella è costretta ad accettare: entra nel letto del conte, mentre la contessa si avvia verso la stanza del cavaliere. Che l’affabile truculenza boccaccesca ci aiuti e ci eviti eccessi. Torniamo nella stanza del cavaliere. Il cavaliere non dorme, e come potrebbe ormai dormire? Può fingerlo. La contessa si infila nel letto del cavaliere. Ma non è questo il tempo e il luogo in cui deve parlare la fica della contessa. E’ fuori discussione che, questa volta, il cavaliere salti addosso alla contessa:

egli è obbligato a non ripetere il comportamento che ha tenuto con la damigella; inoltre l’incontro deve avere un rivolgimento più concitato, più mosso affinché avvicinandosi alla conclusione il ritmo riceva un’accelerazione. E non basta. Dopo le aggiunte fatte, i cambiamenti apportati al soggetto nel corso dell’elaborazione di questa scaletta larga del trattamento, è necessario che la contessa opponga resistenza all’aggressione grottesca del cavaliere, perché se la contessa è piena di desiderio e le garba il suo ospite, è pur vero che in questa circostanza più conta la curiosità: deve accertare, cioè, se è vero che il cavaliere possa far parlare le fiche e che voce ha la sua. Ma la temperatura del cavaliere è ormai così alta che egli, mentendo sapendo di mentire, pretende prima di fottere la contessa e poi provare le sue facoltà, invece la contessa vuole esattamente il contrario. Anzi promette di concedersi a patto che prima le faccia udire la voce della sua fica. E il cavaliere ribatte, inventandosi sull’istante una condizione che non gli è stata imposta: sosterrà che soltanto se la contessa si concederà, egli avrà il potere di far parlare la fica. Intanto l’eccitazione e l’aggressività cresce e la contessa si appella alle regole della cavalleria, ma ormai il cavaliere se ne infischia, il desiderio lo cancella dalla cavalleria. Intestardita, la contessa che non è abituata essere contraddetta e che ha pur sempre il suo orgoglio da far valere, se ne va delusa e incattivita, inutilmente il cavaliere cerca di trattenerla. E le vesti della damigella? Che se le porti pure la contessa. Una variante si potrebbe avere se Huet fosse nascosto sotto il letto. In questo caso sì che Huet potrebbe far udire la sua voce, al fine di richiamare il cavaliere ai suoi impegni. Il suo intervento sarebbe risolutore, darebbe un drastico e gioioso taglio alla scena che, a causa della sua articolazione, avrebbe proprio bisogno di un’altra voce. La contessa, infatti, sorpresa da quella voce che viene dal basso, può interrompere la ben strana contesa e fuggire. E chissà che non sospetti addirittura che sia il cazzo del cavaliere ad aver parlato. L’equivoco produrrebbe un altro rovesciamento, il prodigio cambierebbe sesso, almeno nell’interpretazione della contessa. Qualunque sia la soluzione che si adotterà per chiudere questa scena sia pure in via provvisoria, bisognerà subito occuparsi del conte e della damigella che abbiamo lasciato nello stesso letto. L’elasticità propria del tempo cinematografico permette agevolmente di descrivere l’approccio del conte verso la damigella, purché la durata sia contenuta in proporzione alla sua efficacia e il contenuto non sia deludente per lo

spettatore, che certamente è in attesa che fra il conte e la damigella accada ciò che egli ha previsto. Vi sono, infatti, situazioni che, una volta impostate, pretendono uno sviluppo obbligato. Nessuno, insomma, potrà mai attendersi che il conte non tenti di approfittare della presenza della damigella. Ma il cavaliere è assente e ciò contraddice il racconto soggettivo ancora una volta, ma soltanto apparentemente. Non c’è la presenza fisica del cavaliere, ma egli è là, ciò che avviene a poca distanza dalla sua stanza è determinato da lui. Inoltre benché la scena conte-damigella accada in un luogo diverso da quello in cui il cavaliere è, ed è successiva alla scena cavaliere-contessa, lo spettatore la collocherebbe nello stesso tempo, quasi che il fotogramma fosse tagliato a metà e mostrasse in parallelo lo svolgimento delle due scene. L’unità di luogo in questi casi è data dall’unità di tempo. Ma vi sono obiezioni a sorprendere il conte addosso alla damigella? Naturalmente sentendo sopraggiungere la moglie egli si ricompone e fingerà di dormire e uguale atteggiamento assumerà la damigella. Certamente si rischia l’ovvietà, ma in una storia tanto bizzarra queste situazioni convenzionali sono di appoggio, aiutano lo spettatore a ritrovarsi. La contessa, dunque, entra, nella sua camera matrimoniale, si avvicina in punta di piedi al letto, scuote la damigella per svegliarla ed ella finge di svegliarsi ed esce precipitosamente dal letto, afferra la sua veste e la contessa riprende il suo posto. Ma qualcosa di quanto è avvenuto fra la contessa e il cavaliere bisognerà pure dire. Tempo per un lungo dialogo non ce n’è, e la circostanza in ogni caso non lo consentirebbe: ci vorrebbe una battuta bruciante. La contessa potrebbe sussurrare all’orecchio della damigella che lei ha sentito parlare un cazzo. Non ci sarebbe bisogno d’altro. Ma dopo questa notte movimentata trascorsa fra camera da letto e corridoi deserti, il film ha bisogno di un’apertura ampia, di una bella boccata d’aria, di un rinnovo dello scenario. Davanti al castello fervono i preparativi del torneo ormai prossimo. I carpentieri allestiscono il palco dove prenderanno posto i dignitari, il conte, la contessa, le damigelle. S’innalzano i gonfaloni, gli scudieri strigliano i cavalli, lucidano gli scudi e le corazze, affilano le lance e le spade. Huet striglia la giumenta e guarda con invidia i cavalli e le armature dei cavalieri concorrenti. Si passa all’interno del castello, gli inservienti addobbano la tavola, le damigelle si fanno belle, si scambiano gli ultimi pettegolezzi. Si insinua, fra l’altro, che uno dei cavalieri ospiti abbia la magica facoltà di dare la parola alla fica. Qualcuno più informato degli altri sussurrerà che è invece certo che non la

fica ma è il pene del cavaliere a parl are. Incredulità, meraviglia hanno breve durata, le damigelle avanzano sconce congetture. Cresce così l’attesa di queste donne di conoscere il cavaliere, di sentire quella voce, costi quel che costi. E’ sempre del cavaliere, dunque, che si parla in queste scene descrittive, in cui dopo aver recuperato Huet con le sue preoccupazioni e aver enunciato come prossimo il torneo, si passa a diffondere fra le dame le informazioni che fino a questo punto sono state privilegio dello spettatore e di pochi personaggi. Così si accresce l’interesse per quanto dovrà avvenire e si moltiplicano le congetture dello spettatore. Nella stanza della contessa, intanto, avviene qualcosa di insolito. Quell’«intanto» sta ad indicare che la scena delle damigelle e quella in camera della castellana avvengono contemporaneamente ed è stato sottolineato come sia semplice ottenere la contemporaneità degli avvenimenti. Che cosa avviene nella camera della contessa è già descritto nel «fabliau» prescelto. Con l’aiuto della damigella, sua complice, la contessa sta eseguendo il tamponamento della sua fica con pacchi di cotone e di lana. Mostriamo questa operazione mentre sta per terminare, quanto basta perché sia chiaro cosa sta accadendo. Non conviene, infatti, anticipare l’effetto che si dovrà avere più tardi quando la contessa sarà obbligata a vuotare la sua vagina. E’ utile, invece, a preparare la scena dello svuotamento una battuta della sua aiutante: «E’ veramente profondo il vostro inferno!» potrebbe esclamare la damigella per esprimere meraviglia e sgomento. Il motivo che spinge la contessa all’osceno tamponamento è diverso da quello contenuto nel soggetto, anzi più che diverso direi che è più ricco. La contessa, infatti, non solo ha paura di ciò che la fica può dire, non solo vuol vincere la scommessa che sarà indotta a proporre al cavaliere, ma vuole anche una rivincita, giacché questi si è rifiutato di esaudire la sua impellente curiosità al punto di rinunziare a fotterla. La contessa naturalmente ignora i motivi dell’offensivo comportamento del suo ospite, che invece lo spettatore conosce. Il più delle volte l’andamento di commedia è determinato proprio dalle diverse informazioni che protagonisti e spettatori posseggono. Per tre scene consecutive il cavaliere non è stato presente fisicamente, ma è stato ugualmente protagonista indiscusso. Tuttavia, a conti fatti, un disorientamento dello spettatore di fronte a questa insistita trasgressione a una regola che lo stesso autore gli ha imposto, potrebbe verificarsi e proprio nel momento cruciale. Per diminuire questa eventualità, pi

che altro per prudenza, nella scena prevista davanti al castello di preparazione al torneo, si potrebbe introdurre il cavaliere, ma dovrebbe trattarsi, per così dire, di una presenza-assenza. Se il cavaliere interviene deve introdurre una novità, un movimento, e se a questo punto con i tanti nodi che si debbono sciogliere non si possono aggiungere materiali completamente nuovi, nemmeno può essere perdonata qualche ripetizione che non abbia una sua pressante funzionalità. C’è da dire che a questa assenza del cavaliere si è giunti progressivamente e secondo modi sempre diversi, in maniera che non vi è rischio di aver tracciato una storia senza il cavaliere, né si è comunicato erroneamente allo spettatore l’inesistente intenzione di perseguire un procedimento parallelo. In questa trama, insomma, non c’è controstoria. In realtà in questa parte finale, progressivamente il racconto si è aperto non solo per necessità dell’intrigo che non sopportava un racconto ostinatamente in soggettiva, anzi non era materialmente attuabile senza manipolare assai pi largamente di quanto già è stato fatto il «fabliau», con il rischio di compromettere l’efficacia spettacolare e magari stravolgerne il senso. Senza dire che il racconto in soggettiva, quando non c’è, e non deve esserci, tensione drammatica, può facilmente divenire stucchevole. In occasioni del genere, quindi, è conveniente rischiare delle sgrammaticature. Non vi è nulla, del resto, di più mobile di una grammatica dell’immaginazione. Ma anche le deviazioni delle regole fissate dall’uso debbono avere un’utilizzazione proporzionata alla linea narrativa di base. Nel gran pranzo dove tutto si concluderà, il cavaliere c’è, il racconto in soggettiva riprende. Fra i convitati egli è fatto oggetto di grande attenzione. Ormai sono persuasi che è lui il fanfarone che sostiene di far palare le fiche e ognuno aspetta che sia sbugiardato ed espulso dal torneo, tanto più che una certa fama di valentìa potrebbe averla. Tocca al conte provocare la discussione. «In fede mia» dichiara «c’è fra noi un cavaliere che afferma di avere il potere di far parlare le fiche delle donne. Se veramente ne fosse capace, egli meriterebbe l’armatura d’oro ancora prima di partecipare al torneo.» Tutti ridono. Anche la contessa, ma non la damigella che è poi l’unica che ha udito la voce della sua fica. In coro dichiarano che è impossibile che ciò avvenga, perché se le fiche parlassero, tutti i segreti delle dame verrebbero scoperti e la vita non avrebbe più attrattive, priva come sarebbe di illusioni, di inganni e di menzogne necessarie. Dunque il cavaliere che afferma di possedere una tale demoniaca capacità è certamente un millantatore indegno della cavalleria. E se non lo è che lo provi subito, in presenza di tutti! Il nostro cavaliere tace, indeciso, come attanagliato dal timore di essere

incapace, di cadere in chissà quale inganno. Huet che è dietro di lui e lo serve, lo scongiura di dichiararsi. E finalmente il cavaliere si alza in piedi e proclama che è lui il cavaliere che può far parlare le fiche. La contessa ne approfitta per lanciare la sua sfida. «Se voi saprete far parlare la mia fica, come sostenete, in fede mia vi spetterà l’armatura d’oro.» E il conte, per non essere da meno, aggiunge: «E in fede mia se mi farete udire quella voce, io vi cederò per una notte il mio posto nel letto. Ma se fallirete la prova, come pagherete la vostra menzogna?» Il cavaliere ha poco da offrire in cambio; vuota avidamente il bicchiere e offre quello che può: «Mi lascerò evirar e!» Raccapriccio e ilarità si incrociano, mentre il cavaliere vorrebbe intanto tagliarsi la lingua. «Credo proprio che stasera dormirò accanto al mio amato sposo» dichiara la contessa con meravigliosa improntitudine. «E quanto ai vostri propositi, ritirateli… sarebbe un sacrificio troppo grande per un cavaliere valente come voi.» «Non sono abituato a rimangiarmi le promesse… Un mio avo si arrostì un braccio per punire un errore della sua mano.» La contessa si rivolge con aria di sfida al cavaliere. «Fate quanto di peggio potete… mancatemi pure di rispetto, tanto la mia fica non parlerà, né vi darà notizie di me… E vi posso assicurare che se fosse vero ciò che affermate, i nostri nobili cavalieri conoscerebbero le sconosciute valentie segrete del mio signore…» Il gioco, la malizia, l’ironia che si nascondono nelle parole della contessa non hanno, una volta tanto, bisogno di essere illustrate. Il cavaliere pallido si avvicina alla contessa, fissa il ventre della contessa, si inchina per salutare il «basso materiale corporeo» della sua interlocutrice, che le vesti di broccato nascondono. Il silenzio è assoluto. «Ditemi, signora fica, chi fra i cavalieri presenti stanotte avete desiderato e perché il vostro desiderio di essere invasa da un puledro scalpitante è stato frustrato?» Silenzio. Si alza un borbottio soddisfatto. «Ho dormito con il conte mio marito» risponde con la bocca la contessa «e se anche parlasse per me la mia fica, uguale sarebbe la risposta. Ma ella non parla, non può e voi non siete capace di dare la parola nemmeno alla fica di una vacca!»

Un cavaliere è oggetto dell’irrisione dei presenti. Il conte bacia la contessa. Il cavaliere è disperato, si rifugia fra le braccia del suo fido scudiero. Ma Huet gli ricorda che può sempre interrogare il culo della contessa per sapere il perché di quel silenzio della fica, che è certamente frutto di un inganno. Il cavaliere si rianima: ottiene il silenzio. «D’accordo, mi dichiaro perdente, ma io, non avendo altro, scommetto oltre ai miei anche i coglioni del mio scudiero che farò parlare il culo della contessa con rispetto parlando, e saprò dal culo ciò che impedisce alla fica di urlare la verità.» «E io scommetto duecento libbre che è sempre un prezzo ottimo per i coglioni di un villano» rilancia il conte, «che nemmeno il culo della mia contessa parlerà.» Altri cavalieri buttano sul tavolo le loro borse per accrescere la scommessa. Ma la contessa è pallida, sconvolta. «Vi proibisco!» urla furente. «Avete perso la scommessa, questo è certo, e non c’è altra scommessa che valga! Ho già troppo accettato il gioco e compromesso la mia dignità.» Come darle torto? Il cavaliere allora si rivolge alla damigella che è stata nel suo letto, alla sua fica. Ha le lacrime agli occhi, e anche Huet lacrima. «Vi supplico damigella fica, non permettete che un nobile cavaliere venga dileggiato, che si privi dei suoi attributi che gli sono cari più della stessa armatura d’oro, se per caso lo meritassi. Ditemi voi, insomma, dove siete stata stanotte dopo aver lasciato il mio letto… Salvate la mia reputazione con la vostra sincerità!» Si ode la voce della fica dell a damigella: «Sono stata nel letto del conte ed ho apprezzato la sua bravura: ha un’asta non grossa, ma dura». L’imbarazzo, la sorpresa è forte. La contessa si nasconde il volto fra le mani. Il conte urla: «Quella fica mente!» «In verità» dichiara finalmente il più vecchio e rispettato dei cavalieri presenti «a questo punto giustizia vuole che il cavaliere che ha dato prova di possedere la facoltà di cui si è vantato, interroghi il culo della contessa… se gli sarà negato egli dovrà essere considerato a tutti gli effetti vincitore…» Si discute, ma alla fine la contessa deve cedere. Il cavaliere si porta alle spalle della contessa; il conte è furente, ma ormai non può non accettare la prova. «Messer culo» chiede il cavaliere con voce tremante «volete spiegarmi perché la fica della contessa tace?» C’è silenzio. Si ode una voce cavernosa, rauca. «Perché non può… ha la gola piena di cotone e di lana.»

La sorpresa si incrocia con la costernazione del conte e della contessa. «Non è stato il culo di mia moglie. C’è qualcuno che parla per lui, forse uno spirito folletto, forse il maligno… se non il cazzo del cavaliere…» «Interrogatelo» risponde il cavaliere «e vedrete che egli non vi risponderà. Ditemi, cavalieri» prosegue il nostro eroe «se mi si può negare il diritto che la contessa liberi la sua fica da ogni impedimento innaturale, dal momento che alta è la posta della scommessa?» I dialoghi sono, s’intende, del tutto indicativi. Non si è badato alla misura, né alla loro efficacia. Ho cercato di ammucchiare del materiale, di indicare le possibilità che certe situazioni offrono. Né tanto meno mi sono posto il problema del linguaggio verbale, o di differenziare il parlar cortese dalla parlata volgare. Tutte questioni che meglio potranno essere affrontate durante la sceneggiatura, impegnandosi anche a una ricerca sui testi d’epoca. II conte di fronte alle richieste del cavaliere, soffre, sbuffa, si carica di ira, ma deve ammettere che la richiesta è legittima: la contessa deve liberare da ogni impedimento la sua fica e se per caso sostenesse che nulla impedisce alla fica di parlare, i l cavali ere avrebbe il dovere di constatare con i suoi occhi. La contessa piange per il dispetto e la vergogna, avverte la silenziosa irrisione dei convitati e teme ciò che l’attende, ma obbedisce, dopo tutto in parte la consola il sapere che non sarà soltanto lei a perdere la scommessa, ma anche il marito e la sconfitta del consorte dimezzerà il suo disappunto. Accompagnata dalla sua fida damigella, torna a rinchiudersi nella sua camera. Si tira su le innumerevoli sottane, spalanca le gambe come se stesse per partorire e la damigella di fiducia inizia a vuotare la fica della contessa. Nella scena in cui l’imbottiva, si ricorderà, si descriveva il completamento dell’operazione, cioè non si sottolineava l’immensa quantità di lana e di cotone che poteva contenere un nobile utero, proprio per sfruttare l’effetto comico a questo punto. E’, dunque, il momento: la damigella estrarrà una tale quantità di fiocchi di lana e cotone da riempire la stanza. Più grande sarà la quantità che si ammucchierà intorno alla contessa più si produrrà comicità e si rispetterà il carattere favoloso e paradossale di tutta la vicenda. Nel salone, intanto, l’attesa è nervosa, e dunque buffa. Il cavaliere appare sereno, addirittura fischietta, mentre accarezza l’armatura d’oro che considera già sua. Finalmente la contessa appare, è dolorante, cammina a fatica, ma cerca di essere altera; il conte, invece, è rosso d’ira. Il cavaliere con il soli to rituale cortese chiede: «Ditemi, madonna fica, quale avventura vi è capitata stanotte?»

«Sono stata nel letto di un cavaliere che si è rifiutato di fottermi benché io lo desiderassi.» Il brusio si alza fino ad assumere la forza rotolante di un tuono. Il conte freme e accarezza la spada, dovrebbe prendersela con la moglie, ma anche nel Medioevo l’onore si lavava uccidendo l’innocente. La contessa tenta di sparire, ma il cavaliere le sbarra la strada: devo porre alla fica un’altra domanda, ne va del suo onore. «Ditemi, madama fica, e perché mai mi sarei rifiutato di fottervi?» «Perché la mia padrona pretendeva prima di ascoltare la mia voce e poi di aprirvi le gambe.» «E come era il mio cazzo?» «In guardia.» Ed ora la contessa può fuggire. «In guardia!» urla il conte sfoderando la spada. Il cavaliere è pronto a battersi, ma vuole prima che sia pagata la scommessa, vuole l’armatura e fottere la contessa. «Prendetevi l’armatura… è vostra, ma prima deve essere lavata l’offesa che mi avete fatta e solo dopo, se ne sarete capace, vi cederò il mio letto.» In un attimo, aiutato dal fido Huet, il cavaliere indossa la corazza d’oro, agguanta la spada lucente dal manico tempestato di pietre. Si inizia un concitato duello, al termine del quale un fendente del conte colpisce il cavaliere al pube. La patta si imbratta di sangue. Il cavaliere lancia un urlo, il conte riceve le congratulazioni degli ospiti. «Addio torneo» sospira Huet. «Addio cazzo!» sospira il cavaliere e sviene fra le braccia dello scudiero. Ed ecco che è risolto il problema del torneo. Dovrebbe essere chiaro che con questa costruzione narrativa è divenuto superfluo rappresentarlo: non solo perché il cavaliere ha ottenuto il premio senza parteciparvi, ma anche perché è ferito al punto che il suo avvenire di guerriero e di uomo è compromesso. Non è stato offerto allo spettatore ciò che gli è stato promesso più volte, ma ha ricevuto un adeguato compenso: un duello si è svolto, il torneo, in conclusione, è venuto altrove, nella sala del castello. Ed ormai è ora di correre verso il finale, «correre» è la parola giusta, giacché la conclusione della lunga sequenza della scommessa e del duello può indurre lo spettatore ad alzarsi dalla poltrona che occupa, ritenere cioè il film finito, nonostante che ancora manchino alcune conclusioni. Ad ingannarlo potrebbe essere proprio il susseguirsi degli avvenimenti tutti risolutori. Per evitare questo rischio è necessario riprendere il racconto sulla strada ancora una volta: il ritorno sulla strada dei due protagonisti equivale a un

passaggio di tempo. Se il cavaliere cavalca a spron battuto, avvolto nell’armatura lucente, vuol dire che la ferita si è rimarginata, anche se non ha riconquistato la virilità. E se invece che a galoppo sfrenato il nostro eroe non più povero, ma mutilato, ricomparisse sulla strada procedendo al passo? Lo spettatore riterrebbe il fil concluso, si alzerebbe dalla sedia certo che ormai sta per comparire la parola «fine». Il galoppo, cioè, indica che il cavaliere ha ancora un’impresa da compiere. Dopo le tante avventure straordinarie l’impresa non potrà non avere un’importanza capitale nella vita del nostro eroe. La sua fretta è un messaggio promettente e lo spettatore resterà seduto ad attendere. A queste domande bisogna dare una pronta risposta. Mentre galoppano, improvvisamente il cavaliere tira le redini, frena la corsa della giumenta, costringendo Huet a fare altrettanto. Egli, sconvolto da un improvviso dubbio, chiede: «Sei sicuro che le fate mi daranno ciò che ho perduto?» «Sentirebbe pietà e rimorso anche una strega, perché è sempre a causa del loro dono che avete perduto il vostro arnese e dunque tocca a loro, che ne hanno il potere, restituirvelo.» Rassicurato il cavaliere sprona nuovamente il cavallo e riparte al gran galoppo. La ricomparsa delle fate è stata preannunciata; e apparirà del tutto naturale e verosimile sorprendere le tre fate nude bagnarsi nel loro ruscello. Gli abiti delle tre fanciulle sono ammucchiati al solito posto. Una mano, coperta di un guanto di metallo prezioso, entra in campo. E il cavaliere che si impossessa dei vestiti, ma non fugge, anzi li sventola verso le fanciulle che si bagnano. Alla loro meraviglia offesa il cavaliere risponde inginocchiandosi. In lacrime chiede di avere in dono per restituire gli abiti soltanto il suo arnese, che egli ha perduto a causa della malvagità delle donne e della gelosia dei mariti. Quanto chiede gli viene immediatamente concesso e sul come rendere ciò visibile affidiamo la soluzione al regista. Ma il recupero della virilità restituisce al cavaliere gli appetiti che l’astinenza volontaria e la lunga malattia hanno moltiplicato. Ha bisogno, insomma, di sfogarsi, di sincerarsi che è tornato uomo. E chi può subito rassicurarlo e soddisfarlo se non le tre damigelle? Che se una volta si rifiutarono di concedersi, ora, se non altro per pietà e risarcimento, dovranno accontentarlo. «Scegliete una di noi tre e potrete provare subito che vi è stata resa giustizia.» Il cavaliere sorride. «Se scegliessi farei torto a due di voi e io non posso offendervi dopo tanta

munificenza… Giustizia e galanteria vogliono che ognuna di voi abbia ciò che merita.» E così sarà. La parola «fine» può comparire. Tutto torna: ogni indizio disseminato è diventato una prova, un tassello di un mosaico ormai compiuto. Il cavaliere e Huet al termine di questa avventura favolosa e licenziosa sono ancora quelli che erano all’inizio, in più c’è solo un’armatura d’oro che il cavaliere s i venderà per godere d’altri bagordi. Ciò che è andato perduto, a causa dell’esasperato gioco combinatorio, è quell’ingenuità felice del «fabliau» ispiratore, quella linearità del racconto. I cambiamenti sono stati radicali ma i materiali usati per la contaminazione sono stati carpiti o da altri «fabliaux» oppure sono stati suggeriti da fonti dell’epoca. L’elaborazione breve e semplice del soggetto è sempre possibile, ma in questo caso l’intento maggiore era svelare i meccanismi elementari di una narrazione cinematografica, scandagliare le possibilità che aveva il soggetto prescelto, mostrare le trasformazioni che si possono tentare passando dal soggetto al trattamento. Le riprese del film, intanto, sono ancora lontane, prima che si batta il primo «ciak» la costruzione del film sarà sottoposta a molteplici verifiche e i cambiamenti saranno altrettanto molteplici, ma quale che sia il destino di questo trattamento, nessuna operazione cancellerà il soggetto. Nel corso della sceneggiatura, fase successiva al trattamento, sarà anche possibile rivoltare la storia come un guanto, cominciare dove qui finisce e dare tutto un altro ordine al materiale, come aggiungerne e toglierne. E anche dopo le riprese, in fase di montaggio, esiste ancora la possibilità di strutturare in modo del tutto diverso. Ciò che importa è che nel trattamento i problemi narrativi di un soggetto siano tutti risolti. Quando un trattamento è riuscito così è. La fase successiva, il cosiddetto «decoupage», cioè la stesura della sceneggiatura propriamente detta, ovvero l’elaborazione esclusivamente tecnica del racconto, ha una funzione selettiva del materiale soprattutto in funzione del ritmo. Ed anche i dialoghi sono ritmo, la loro essenzialità è legata alla qualità della immagine e dei personaggi. Inoltre il dialogo pretende una sua musicalità che si accordi con il carattere del film. Come ho detto, ciò che nel trattamento può essere abbondante, nella nuova fase deve essere sottoposto a un prosciugamento rigoroso, spietato, nella persuasione che se le informazioni sono necessarie e sono efficacemente intrecciate fra loro giungeranno con immediatezza allo spettatore, tanto più quanto

più sono sintetizzate in poche immagini e scarse battute di dialogo. Anche la suddivisione delle scene in inquadrature, in piani, in movimenti di macchine tende a favorire i processi di sintesi, a preordinarli per tempo, oltre, si intende, a dare plasticità alle immagini, stile al film. Ma in ogni caso, al di là di questo catologo sommario, i problemi che pone la stesura della sceneggiatura, proprio perché sono di tutt’altra natura, capovolgono i rapporti fra sceneggiatore e regista. È il momento in cui lo scrittore deve tenere nel massimo conto le esigenze e il gusto del regista. Di tutto ciò mi occuperò la prossima volta, nel caso che a qualcuno interessi.

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