Penso quindi gioco - Pirlo Andrea, Alciato Alessandr.pdf

August 16, 2017 | Author: Marcocestmoi | Category: A.C. Milan, Association Football, Fc Barcelona, Real Madrid C.F., Evil
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Andrea Pirlo con Alessandro Alciato

PENSO QUINDI GIOCO

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L'editore ha ricercato con ogni mezzo i titolari dei diritti di riproduzione delle fotografie dell'inserto senza riuscire a reperirli tutti: è ovviamente a piena disposizione per l'assolvimento di quanto occorra nei loro confronti.

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Prefazione di Cesare Prandelli Andrea Pirlo appartiene a una categoria da proteggere: è il calciatore di tutti. Ogni stadio è il suo stadio, i tifosi lo guardano e vedono un campione trasversale, capace di portarli oltre il concetto di tifo per una sola squadra di club. Vedono l'Italia. Non mi stupirei se la notte dormisse indossando un pigiama azzurro, cioè dello stesso colore della maglia della Nazionale, verso la quale nutre un amore smisurato, senza confini. Prima di parlare di Andrea oggi (e domani, e sempre) è necessario fare un passo indietro, tornando a quando allenavo le formazioni giovanili dell'Atalanta, a Bergamo. La mia squadra era quella degli Allievi, durante la settimana si parlava molto degli avversari più forti che avremmo dovuto affrontare nel corso della stagione, oppure dei talenti più interessanti in prospettiva futura. Pensavamo all'Inter, al Milan, ma soprattutto al Brescia, per motivi di campo e di campanile. Un giorno, prima di un allenamento, si presentò nello spogliatoio un mio collaboratore, era trafelato: "Cesare, ho visto un ragazzo ricco di talento, una cosa pazzesca. Gioca nei Giovanissimi del Brescia, purtroppo...". Non mi ha colpito tanto la frase che avevo appena sentito, quanto l'espressione stupita del mio interlocutore, uno che in vita sua aveva seguito dal vivo centinaia di partite. Caso vuole che la settimana successiva, nella categoria Giovanissimi, l'Atalanta ospitasse proprio il Brescia, squadra in cui zompettava un ragazzino mingherlino di due o tre anni più giovane rispetto ai suoi compagni. Era Pirlo. Sono rimasto senza parole, come forse mai mi era accaduto prima. Avevo la sensazione che tutti gli spettatori presenti in tribuna guardassero solo lui e pensassero la stessa cosa: "Questo è il nuovo giocatore". Agli occhi degli altri non è mai stato bambino. Unisce perché è il calcio, è il giocatore più tecnico, uno che non ha mai fatto niente di clamorosamente negativo, è l'essenza del pallone. Per quello viene riconosciuto come un calciatore globale, che a ogni tocco di palla lancia un messaggio positivo: anche uno troppo normale può essere troppo bravo. Noi fortunati, quel giorno a Bergamo, avevamo visto il talento. Sul campo fa le cose con una naturalezza disarmante, lui e pochi altri sono in grado anche solo di pensarle, e infatti alla fine delle partite dell'Italia fuori dallo spogliatoio c'è la fila degli avversari che vogliono scambiare le proprie maglie con la sua. Piace anche a loro. Il vero fatto straordinario è che Andrea è un leader silenzioso e nel mondo del calcio non è facile trovarne. Prima di diventare allenatore, nella mia carriera da calciatore ho conosciuto un personaggio meraviglioso, Gaetano Scirea, e Pirlo 4

me lo ricorda in maniera incredibile: gli assomiglia, il loro modo di essere è identico, e davanti a questi leader silenziosi - le rare volte in cui decidono di intervenire nello spogliatoio per dire qualcosa - si zittiscono tutti. In un paio di occasioni ho assistito dal vivo a scene del genere, da compagno di squadra con Gaetano e da commissario tecnico della Nazionale con Andrea, e non me le potrò mai dimenticare. Nel primo caso ero in soggezione, nel secondo ammirato. L'insegnamento è chiaro: chi riesce ad abbassare i toni poi riceve di più, compreso il rispetto incondizionato di chi gli sta intorno. In questo libro Andrea dice testualmente: "Dopo il Mondiale del 2014 in Brasile smetterò di giocare con l'Italia, appenderò il cuore al chiodo, però fino ad allora nessuno - se non Cesare Prandelli per scelta tecnica - dovrà permettersi di chiedermi di abbandonare". Io rispondo che di sicuro questa responsabilità non me la prenderò, la cosa più difficile per un allenatore è dire basta a un talento, una scelta del genere andrebbe eventualmente concordata con il diretto interessato, ma in fondo stiamo parlando del nulla. Non riesco a pensare a un solo motivo per cui lasciare fuori Andrea dalla Nazionale da qui al 2014. Persone come lui e Gigi Buffon incarnano il vero spirito dell'Italia, se tutti portassero il loro stesso rispetto alla maglia azzurra il nostro sarebbe un mondo migliore. Dopo tante battaglie le loro motivazioni sono rimaste intatte, identiche a quelle del primo giorno. Andrea è nato sognando e per farci sognare. A pensarci bene, è rimasto lo stesso di quel giorno in cui, bambino, l'ho visto indossare una maglia del Brescia più grande di lui. E c'è stato un momento in cui le formazioni giovanili dell'Atalanta avrebbero potuto prenderlo, ma sarebbe stato uno sgarbo clamoroso proprio nei confronti del Brescia. A Bergamo è stata indetta una riunione per discutere di questa eventualità e il presidente Percassi, un dirigente illuminato, ha capito che si sarebbe potuto creare un caso diplomatico. Non dimenticherò mai le sue parole: "Pirlo resta dov'è perché uno così non va messo in difficoltà. Deve continuare a giocare con felicità, divertendosi, non voglio che subisca pressioni di alcun genere. Semplicemente, deve rimanere il calciatore di tutti". Percassi aveva capito tutto. Percassi aveva capito Pirlo.

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Penso quindi gioco

Alla mia famiglia, a mia moglie, ai miei figli. Una dedica semplice per gente speciale Andrea A Niccolò, perché ogni giorno è Natale Alessandro

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Una penna. Bella eh, ma pur sempre una penna. Di Cartier, luccicante, più pesante di una Bic, con lo stemma del Milan. Eppure una penna. Con un ripieno di inchiostro blu, banalmente blu. La guardavo, me la rigiravo tra le mani, ci giochicchiavo incuriosito, come fa un neonato con il suo primo peluche. Tentavo di studiarne il profilo da diverse angolazioni, di coglierne il senso più profondo, di portarne in superficie il significato più nascosto. Di capire. Mi è venuto il mal di testa a forza di pensare, credo sia scesa anche qualche gocciolina di sudore, però alla fine l'illuminazione è arrivata. Mistero risolto: il lato B non esisteva, il suo inventore non l'aveva previsto. Volutamente? Chissà. "E mi raccomando, non usarla per firmare il nuovo contratto con la Juventus." Almeno, Adriano Galliani aveva azzeccato la battuta. Come regalo d'addio mi sarei aspettato qualcosina di più di quel tempo comico perfetto. Dieci anni di Milan andati così. Comunque, ho sorriso. Perché io so ridere, tanto e bene. "E grazie di tutto, Andrea." Mentre parlava, al sicuro dietro la sua scrivania, io davo un'occhiata in giro. Conoscevo a memoria il suo ufficio, un caveau dentro al quartier generale di via Turati: ci avevo trascorso momenti felici, fatti di altri contratti e di altre penne, eppure certe foto alle pareti - con il peso dei loro anni e con la leggerezza del loro prestigio - non le avevo mai notate, se non in modo distratto. Ce n'era di ogni tipo, soprattutto ricordi di giorni unici e a quanto pare irripetibili, di coppe alzate al cielo e di nuvole spostate sempre un metro più in là. Mi stavano tirando giù dalla cornice, ma non a forza. La noia da Milan era il rischio che non volevo correre, ecco perché alla fine di quell'ultimo incontro ero dispiaciuto, ma il giusto. Come me, Galliani. Come noi, il mio procuratore Tullio Tinti. Ci siamo lasciati senza rimorso. In mezz'ora, arrotondando per eccesso, ero fuori da lì. Quando si ama serve tempo, quando il sentimento muore può aiutare una scusa. "Andrea, il nostro allenatore Allegri pensa che se resti non potrai più giocare davanti alla difesa. Per te avrebbe pensato a un altro ruolo: sempre a centrocampo, ma sulla parte sinistra." Piccolo particolare: davanti alla difesa pensavo di poter dare ancora il meglio di me. Un pesce quando il mare è profondo respira, se lo spostano sotto il pelo dell'acqua si arrangia, ma non è la stessa cosa. "Anche con te in panchina o in tribuna abbiamo vinto lo scudetto. E poi, Andrea, da quest'anno la politica della società è cambiata. A chi ha più di trent'anni, proponiamo il rinnovo di contratto solo per dodici mesi." Altro piccolo particolare: non mi è mai capitato di sentirmi vecchio, neppure in quel preciso momento. Solo a tratti ho avuto la sensazione che qualcuno

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volesse farmi passare per bollito, più che altro erano le premesse a lasciarmi perplesso. "Grazie, ma davvero non posso accettare. E poi la Juventus mi ha proposto un accordo triennale." Ho declinato. Senza mai parlare di soldi, quel pomeriggio della primavera del 2011. Mai. Discorsi economici con Galliani, in quei trenta minuti, non ne sono stati affrontati. Volevo essere considerato importante, al centro del progetto, non un giocatore in lista per la rottamazione. Il ciclo, a quanto pare, era finito e io sentivo il bisogno di qualcos'altro. L'allarme era suonato il giorno in cui, arrivando a Milanello per allenarmi, nel bel mezzo di una stagione (l'ultima da quelle parti) rovinata da due infortuni, mi ero accorto di non aver voglia di scendere nello spogliatoio. Di cambiarmi. Di lavorare. Andavo d'accordo con tutti, con Allegri avevo un rapporto normale, il problema era l'aria. Riconoscevo i muri che negli anni mi avevano riparato e protetto, però incominciavo a intravederne le crepe, a percepire la corrente che tentava di farmi ammalare. La richiesta interiore di spostarmi, di andare a respirare altrove si faceva presente e pressante, sempre più intensa. La poesia che mi aveva sempre circondato stava diventando routine, e questa non era una novità da sottovalutare. Pure i tifosi, dopo avermi applaudito per tanti anni a San Siro la domenica (e il sabato, e il martedì, e il mercoledì), magari avevano voglia di distrarsi un po'. Di appiccicare sull'album Panini altre facce, di sentirsi raccontare altre storie. Si erano abituati alle cose che facevo, ai miei movimenti, alle mie invenzioni, non si stupivano più, ai loro occhi lo straordinario degradava pericolosamente verso la normalità. "Non puoi più fare il Pirlo", per me, era un concetto duro da accettare. Profondamente ingiusto, a pensarci bene. Mi creava un principio di mal di pancia, alla ricerca dello stimolo perduto. Mi sono subito confrontato con Alessandro Nesta, amico e fratello, compagno di squadra e di merende, di mille avventure, da sempre compagno di stanza. Tra il primo e il secondo tempo di una delle nostre infinite partite alla Playstation, mi sono confessato: "Sandrino, io me ne andrei". Non si è stupito: "Mi dispiace tanto, però è la scelta più giusta". E stato il primo a sapere, dopo la mia famiglia. L'ho aggiornato su tutto, passo dopo passo, pianto dopo pianto. Certe settimane erano più dure di altre, dentro di me era partito il conto alla rovescia, però non è mai facile dover abbandonare un posto di cui conosci tutto, segreti compresi. Un piccolo mondo a parte, che mi ha dato più di ciò che mi ha tolto, che senza ombra di dubbio mi ha emozionato. Alcune volte era sconforto misto a tristezza, altre sentimento puro, in ogni caso una lezione di vita da imparare: le lacrime fanno bene, sono la spiegazione visibile di chi sei, una verità incontrovertibile. Non mi trattenevo. Piangevo e non mi vergognavo. Con la carta d'imbarco in testa più che in mano, lo stato d'animo era quello di chi si trova all'aeroporto, un secondo prima di voltarsi e salutare amici, parenti e nemici. Che sia tanto o poco, qualcosa indietro si lascia sempre. 8

Telefonavo al mio procuratore ogni giorno, soprattutto nel periodo in cui dovevo recuperare dall'infortunio, ma la voglia di mettercela tutta mancava. Quantomeno non era la stessa di un tempo. Ambrosini e poi Van Bommel giocavano davanti alla difesa, la mia casa era stata violata (da amici e a fin di bene) e io sfrattato dal mio amato giardinetto di erba spelacchiata. "Tullio, ci sono novità?" Ce n'erano sempre, di buone e di ottime. Il mio disagio aumentava la forza contrattuale, strana regola del calcio. Assomigliavo molto alla X sulla mappa del tesoro. Si sono fatti avanti tutti, anche l'Inter. Prove di terremoto a Milano, fosse successo si sarebbe rotto il sismografo. Hanno chiamato Tinti, ponendo una semplice domanda, "Andrea tornerebbe da noi?", che mi è stata girata pari pari. "Andrea, torneresti da loro?" Non scartavamo nulla a priori. In ogni caso, era prevista una risposta per tutti. "Senti bene cosa vogliono." Volevano me. Però sono stati lenti (bravi ma lenti), nel senso che prima di iniziare a trattare seriamente avevano bisogno di capire come sarebbe finito il campionato, chi sarebbe stato l'allenatore nella stagione successiva, quali sarebbero stati i programmi e gli obiettivi della società. Io, direttamente, sono stato contattato solo una volta. Me la ricordo bene, era un lunedì mattina, a stagione appena terminata. "Pronto, Andrea, sono Leo." Dall'altra parte della cornetta c'era Leonardo, in quel momento allenatore dell'Inter. "Ciao Leo." "Senti, finalmente è tutto a posto. Ho il via libera del presidente Moratti. Possiamo iniziare a trattare." Tra l'altro, mi raccontava grandi cose dell'Inter, di come si sentisse carico e si trovasse bene. Poteva essere una bella sfida, affascinante: tornare dove ero già stato. Passare sull'altra sponda dopo dieci anni consecutivi al Milan, di cui nove straordinari. Pure in questo Leonardo avrebbe potuto aiutarmi, non fosse stato che dopo poche settimane si è trasferito al Paris Saint-Germain degli sceicchi. "Andrea, nella nuova Inter avrai un ruolo fonda- mentale." Sì, a un certo punto ci ho pensato, ma non ne sarei stato capace. Sarebbe stato davvero troppo, un affronto che i tifosi del Milan non avrebbero meritato. "Ti ringrazio Leo, ma non posso. Anche perché ieri sera ho firmato con la Juventus..." Con quale penna, non lo dirò mai.

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Scaricato. Buttato via. Rottamato. Oppure cancellato, demolito, disinnescato. Forse archiviato, abbandonato, seppellito. Gettato. Se il progetto di qualcuno al Milan era davvero quello di farmi fare una fine del genere, è naufragato. Un piccolo Titanic. Lo smog al posto degli iceberg. Però, un grazie a chi ha sbagliato i conti lo voglio dire. Se la calcolatrice non fosse impazzita, se la palla che predice il futuro non fosse stata interpretata da mani troppo rugose, io non mi sarei mai sentito uno come gli altri. Una persona normale. Un calciatore da sei in pagella. Per un breve periodo ho vissuto proiettato dentro una realtà virtuale, ero l'altro Andrea Pirlo, quello per cui volevano farmi passare, ciò che avrei potuto essere ma che invece non sono diventato. Mi hanno trattato come uno dei tanti, facendomi tirare il fiato, ottenendo però l'effetto contrario, alimentando la convinzione esterna che io fossi qualcosa di più. Da bambino, e poi da ragazzo, ho tentato di combattere contro un concetto declinato in diverse definizioni: unico, speciale, predestinato. Poi ho imparato a conviverci, a sfruttarlo a mio favore. Non è stato facile, né per me né per chi mi vuole bene. Fin da piccolo sapevo di essere più forte degli altri, e per questo hanno iniziato presto a parlare tutti di me. Troppo. E non necessariamente bene, tanto che mio padre Luigi più di una volta ha abbandonato la tribuna da cui mi stava guardando per fuggire dall'altra parte del campo, da solo, per non sentire i commenti cattivi degli altri genitori. Scappava per non reagire, o forse per non diventare troppo triste. Non aveva niente di cui vergognarsi, quindi li ignorava camminando, sempre più veloce, come Forrest Gump, fermandosi solo nel momento in cui trovava un posto più silenzioso. Più sicuro e riparato. Purtroppo, dalle iniezioni di nervosismo non è stata risparmiata neppure mia mamma Lidia. "Ma quello chi si crede di essere, Maradona?" era la domanda retorica più utilizzata, la facevano ad alta voce e con l'intento di provocare, spinti dall'invidia, senza sapere che in realtà mi stavano regalando il più grande dei complimenti. Cazzo, Maradona. Come dare del Chechi a un ginnasta o del Jordan a un cestista o della Campbell a una top model o del Watusso a Berlusconi. Adulti contro un marmocchio, la sfida per definizione era impari e sbagliata, non potevo che difendermi stupendo. Facendo esattamente quello di cui venivo accusato. Segnato da una colpa inesistente. Protetto da un'armatura invisibile, che ogni tanto lasciava passare qualche coltellata, troppe frecce di archi avvelenati. Tutte insieme mi hanno colpito quando avevo quattordici anni, durante una partita del campionato Allievi. Giocavo nel Brescia, ma quella volta era il Brescia a giocare contro di me. "Passatemi la palla." Silenzio. Eppure avevo urlato forte, e parlavo un italiano piuttosto corretto. 10

"Ragazzi, passatemi la palla." Altro silenzio, talmente opprimente da sentire l'eco delle mie parole. "Oh, allora?" Ancora silenzio, tutti sordi. Il pallone non me lo passava nessuno. I miei compagni giocavano tra di loro, senza considerarmi. C'ero ma non mi vedevano, o meglio mi vedevano ma si comportavano come se non ci fossi. Mi escludevano come un lebbroso, solo perché ero più bravo di loro. Vagavo come un fantasma, mi sentivo morire. Si stavano ammutinando contro di me. Neanche mi parlavano. Neppure uno sguardo nella mia direzione. Niente. "Allora, me la date o no?" Di nuovo silenzio. Mi sono saltati i nervi, sono scoppiato a piangere. Sul campo, senza ritegno, davanti a ventuno avversari, undici dell'altra squadra e dieci della mia. Non riuscivo più a smettere. Correvo e piangevo. Scattavo e piangevo. Mi fermavo e piangevo. Abbattuto, depresso, soprattutto ancora adolescente. E a un adolescente queste cose non dovrebbero capitare. A quell'età si dovrebbe fare gol ed esultare, ma il fatto che ne segnassi troppi dava fastidio a un sacco di gente. È stato quello il momento preciso in cui la mia carriera ancora all'inizio ha svoltato, prendendo la direzione giusta. Le possibilità erano due: incazzarmi e smettere, oppure incazzarmi e continuare, ma a modo mio. La seconda ipotesi mi sembrava più intelligente della prima, realizzabile in tempi rapidi. Sono andato a prendermi il pallone. Una, dieci, cento volte. Io contro il resto del mondo, io contro i resti del mio mondo. Assomigliavo a un crociato buono. Non volevano giocare con me? E allora io giocavo da solo, tanto avevo le armi per farlo. In dieci non riuscivano a segnare, io da solo sì. Li dribblavo tutti, compresi quelli che vestivano la mia stessa maglia. Su una cosa erano completamente fuori strada: non avevo la minima intenzione di fare il fenomeno, la verità era molto più semplice, io ero proprio fatto così. Agivo d'istinto, non si trattava di fantasia costruita. Mi venivano in mente una giocata, un passaggio, un gol, e a quel punto li avevo già fatti: correvo più veloce di me stesso, in particolare quando pensavo. Già allora ero costretto a vivere come uno che doveva sempre dimostrare qualcosa, obbligato a standard comunque alti, per tutti una partita normale era accettabile, se la giocavo io veniva percepita come una sconfitta. Che fossi stanco, che non ce la facessi più lo dicevano fin dall'inizio, sviati dal mio modo di muovermi, ciondolante, fatto di piccoli passi (piccoli passi per me, grandi passi per l'umanità...). Quello sfogo è stata la molla: se noto troppe persone intorno tendo a non parlare, a emozionarmi, nel bene o nel male, senza darlo a vedere, però quel pomeriggio le cose sono andate diversamente. E ho incominciato un discorso lunghissimo, interiore e quindi silenzioso, privato, al limite del folle: "Andrea, avere un pregio non può essere vissuto come un peso, è vero, sei di un livello superiore e di questo vanne orgoglioso. Madre Natura con te è stata generosa, quando sei nato era in buona, ti ha regalato il tocco magico: sfruttalo. Vuoi diventare un calciatore? Questo è il sogno che ti si è appiccicato addosso? Gli 11

altri vogliono fare gli astronauti ma a te di volare non frega un cazzo? Ecco, allora vatti a prendere quel pallone. Accarezzalo. Ti appartiene, deve essere tuo, gli invidiosi non lo meritano. Loro sono ladri di emozioni, toma in possesso di quella parte di te. Sorridi. Sii felice. Rendi magnifico questo momento, poi aggiungine altri. Salta anche tu dall'altra parte della staccionata, idealmente insieme a tuo padre, intanto gli inseguitori perderanno terreno, questo è scritto. Vai, Andrea. Vai". Il fatto è che ancora oggi non sono del tutto convinto di essere unico, o insostituibile, ma non riesco a spiegarlo a chi mi circonda, a coloro che sono abituati a studiarmi con estrema superficialità. Però sono giunto a una conclusione, credo di aver capito: un segreto in effetti c'è, vedo il gioco in maniera diversa. È una questione di punti di vista, un'osservazione ad ampio raggio, una specie di visione d'insieme. Un centrocampista classico guarda avanti e vede gli attaccanti, io invece mi concentro sullo spazio tra me e loro per far passare il pallone. Più geometria che tattica. E quello spazio lo vedo più largo, più semplice da oltrepassare, un cancello facile da abbattere. Mi hanno paragonato a Gianni Rivera, dicono che sotto questo aspetto potrei ricordarlo, ma non l'ho mai visto giocare, neanche in videocassetta. Non ho gli elementi per giudicare. E mai mi è capitato di riconoscermi in qualche altro calciatore, del passato o del presente, anche se per questo c'è ancora tempo. Non sono alla ricerca di cloni, non mi interessa, d'altronde Dolly non potrà mai essere uguale alle altre pecore. E poi non sento la pressione, la schivo, me ne sbatto. Il pomeriggio del 9 luglio 2006 a Berlino ho dormito, poi ho giocato alla Playstation. La sera ho vinto il Mondiale. Dal punto di vista mentale, il mio maestro involontario - ma non inconsapevole - è stato Mircea Lucescu, l'allenatore che a quindici anni mi ha preso dagli Allievi del Brescia e mi ha portato direttamente in prima squadra, nel mondo dei grandi. Mi sono trovato ad allenarmi con trentenni piuttosto seccati di avermi tra i piedi, con il doppio della mia età, certi giorni con il doppio della mia cattiveria. "Andrea, continua a giocare come negli Allievi" è stata la prima frase che mi ha sussurrato Lucescu, e da buon soldatino ho eseguito. Non tutti l'hanno presa bene, a partire dai senatori dello spogliatoio, tra i più ascoltati in campo, rispetto a me dei vecchietti: un giorno ho dribblato per tre volte consecutive uno di loro, la quarta mi è stata fatale. Mi ha tirato una legnata senza precedenti, ha pianificato e messo in pratica un'entrata assassina sulla mia caviglia. Sarebbe stato superfluo raccontare che non l'aveva fatto apposta, non ci avrebbe creduto nessuno. Anche lui pensava volessi fare il fenomeno, in realtà stavo semplicemente dando retta a Lucescu, che mi ha fatto l'occhiolino: "Tutto a posto, va bene così. E riprovaci, per favore". Mi trattava con dolcezza, poi alzava la voce rivolgendosi alla squadra: "Date la palla a Pirlo, lui sa come trattarla". Storia di una strana amicizia, tra un oggetto e una persona. Sapevo fare certe cose anche senza averle mai provate. Il primo vero trionfo è stato quando il numero di calci presi dai compagni è diventato 12

inferiore a quello dei palloni che mi passavano. I primi giorni il rapporto era dieci a uno (dieci tentati omicidi contro una palla arrivata dalle mie parti, ma quasi sempre per sbaglio). Con il trascorrere del tempo lo spread è migliorato, assestandosi intorno a valori accettabili. Fino al sorpasso. Ne sono stato felice, in particolare per mio papà, che allo stadio avrebbe finalmente potuto fare l'abbonamento in tribuna centrale, nel posto più comodo, con le poltroncine in pelle, senza la necessità di portarsi dietro i tappi per le orecchie. Gli invidiosi erano rimasti al campo degli Allievi.

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Non erano cattivi ragazzi quelli che giocavano con me negli Allievi del Brescia, però si trovavano a combattere (e sistematicamente a perdere) contro un problema serissimo: avevano paura dei propri sogni, ne subivano l'enormità del peso fino a rimanerne schiacciati. Mi consideravano l'Uomo Nero, l'assassino del loro futuro, tendevo la mano per accompagnarli ma in cambio ricevevo un rifiuto, tanto che alla fine sono rimasti indietro, fino a ritirarsi dalla corsa verso il professionismo. Meglio pattinare inseguendo il più veloce, e magari arrivare secondi, piuttosto che frenare e non ripartire: peccato, non l'hanno mai capito. Comunque, so quello che pensavano nel momento esatto in cui sono finiti dentro le sabbie mobili, corrosi e imprigionati dal tarlo della gelosia. È come se li sentissi ancora oggi, tutti in coro, urlare una speranza che proprio in quell'istante stava morendo: "Vogliamo giocare nel Barcellona o nel Reai Madrid". Lo so perché me lo dicevano. Lo so perché io lo dicevo a loro. Diventare un calciatore è solo la prima parte della richiesta silenziosa che un bambino affida al cielo, oppure del segreto che racconta alla maestra scrivendolo in un tema alle elementari, subito dopo viene il nome della squadra in cui vorrebbe finire. La Spagna era il paese dominante nei nostri discorsi, una monarchia assoluta che ci possedeva, una voglia, un pensiero, una fuga, un progetto ambizioso costruito a parole mentre facevamo merenda. Trasformare il succo di frutta in sangría, o in cerveza: il miracolo mi è quasi riuscito due volte. Ero ubriaco di me soprattutto nell'estate del 2006, quella della passeggiata trionfale su Berlino e del Mondiale vinto. Viaggiavo in bicicletta per le stradine interne di Forte dei Marmi, e poi sul lungomare, la gente mi fermava, mi dava pacche sulle spalle, i tifosi mi salutavano e io facevo altrettanto, c'era un cenno di assenso per ognuno di loro. "Buongiorno, Andrea." "Buenos días." "Che bel pomeriggio, Andrea." "Buenas tardes." "Sogni d'oro, Andrea." "Buenas noches." "Ciao, Andrea." "Hola." "Noi torniamo a Milano, ci vediamo presto Andrea." "Adiós." "Aperitivo tra poco al solito posto, Andrea?" "Hasta ahora."

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Pensavano che aver battuto la Francia in finale, ai calci di rigore, mi avesse fritto il cervello, ma non sapevano una cosa. A tutti mancava un passaggio fondamentale del racconto: in quel momento non ero più un giocatore del Milan, ma del Reai Madrid. Nella testa, nel cuore, nell'anima, soprattutto con un contratto di cinque anni già pronto e uno stipendio al di là del bene e del male. Sembrava che al Milan qualcuno avesse combinato qualche casino di troppo, o almeno così si raccontava. Calciopoli era il secondo argomento di conversazione dopo il trionfo dell'Italia in Germania, un giorno si leggeva che ci avrebbero retrocessi in serie B, quello successivo che avremmo avuto quindici punti di penalizzazione in classifica, quello dopo ancora si discuteva addirittura di premi da restituire e scudetti da annullare. A un certo punto ho iniziato ad avere un sospetto: forse John Lennon non era stato ucciso da Mark David Chapman, ma da qualche dirigente del Milan. Un puttanaio mai visto, non si capiva nulla, il vero destino del club non lo conosceva nessuno, tantomeno io, che però ero sicuro di una cosa: non sarei mai sceso in serie B. E se me ne fossi andato non mi sarei sentito un traditore perché uno vuole sempre puntare in alto, giocare per obiettivi nobili, e poi non avrei certo avuto voglia di pagare eventuali colpe di altri. Chi rompe paga, i cocci sono suoi e le conseguenze pure. Telefonava Fabio Capello, allenatore del Real Madrid. E poi Franco Baldini, il direttore sportivo. Chiamavano tutti, io ricevevo e mi confrontavo con il mio procuratore: "Tullio, senti il Milan cosa dice". Intanto sarei dovuto rientrare a Milanello, perché si era capito che la squadra per essere ammessa alla Champions League avrebbe dovuto affrontare il turno preliminare contro la Stella Rossa di Belgrado. Prendere la rincorsa dalla panchina per tentare di toccare la punta del grattacielo. Noi reduci dai trionfi della Nazionale avremmo avuto solo dieci giorni di vacanza prima di ricominciare ad allenarci, ma a quel punto Tinti mi ha fermato: "Aspetta a tornare, sento ancora una volta il Reai, se proprio vuoi andartene da Forte dei Marmi fermati a casa tua a Brescia. E tieni il cellulare acceso, tra poco squillerà". Detto, fatto. Previsione azzeccata, Nostradamus in confronto era un dilettante. "Pronto Andrea, sono Fabio Capello." Cioè uno degli allenatori più vincenti della storia del calcio. "Buongiorno mister, sta bene?" "Alla grande, e tu stai ancora meglio. Vieni da noi. Devi giocare a centrocampo vicino a Emerson che abbiamo appena preso dalla Juventus." "Va bene." Non è che abbia impiegato troppo tempo per convincermi. Meno di un minuto, credo. Anche perché avevo già visto il contratto. Soprattutto l'aveva studiato per bene il mio agente, che nel frattempo si era catapultato a Madrid. Sembravamo due innamorati, io e Tinti, due adolescenti con l'opzione "You and Me" sul telefonino. Le linee erano roventi. "Andrea ci siamo." "Sono emozionato, Tullio." 15

Mi immaginavo con la maglia bianca, immacolata e allo stesso tempo aggressiva, cattiva nel suo candore atipico. Pensavo spesso al Santiago Bernabeu, il Tempio, uno stadio in grado di terrorizzare gli avversari, servitori maltrattati alla cena dei re. "E adesso, Tullio, cosa dobbiamo fare?" "Ci vediamo a pranzo tra qualche giorno." "Da Txistu, in plaza de Angel Carbajo?" "No Andrea, a Milanello." "Come a Milanello? Ma sei scemo?" "Sì, a Milanello, perché manca l'assenso di Galliani." L'uomo delle penne. E così sia. Antipasto, primo, secondo e poi il mitico gelato al croccante, il menu lo conoscevo a memoria. Ci siamo incontrati nella sala in cui mangia di solito la squadra, equidistante dalle cucine e dal salone del Camino (dove Berlusconi strimpellava al pianoforte e raccontava barzellette di vario tipo), a metà strada tra la zona più povera del centro sportivo e quella più ricca, tra un simbolo di umiltà ritrovata e uno di potere esibito, tra il posto in cui si suda guadagnando relativamente poco e quello in cui si guadagna uno sproposito sudando il giusto. Stavo galleggiando tra il Milan e il Reai Madrid, anche in senso figurato. Ha parlato prima Tullio: "Andrea va al Reai". Poi io: "Sì...". Poi Galliani, fissandomi: "No, caro, tu non vai da nessuna parte". Quindi ha tirato fuori una valigetta da sotto il tavolo, facendomi sorridere perché ho pensato che l'avesse nascosta tanto bene quanto lo era Monica Lewinsky sotto la scrivania di Bill Clinton nello Studio Ovale (ogni tanto vengo travolto da queste folli associazioni di idee). Dalla valigetta è spuntato un contratto, il Signor Bic ha aggiunto: "Non te ne vai perché devi firmare questo. La durata è di cinque anni, la cifra non c'è, l'abbiamo lasciato in bianco, scrivi quello che vuoi". Tullio me l'ha quasi strappato di mano: "Questo lo tengo io". Ha preso tempo, se l'è portato a casa, l'ha letto e riletto, io sono partito per Coverciano, ero stato convocato in Nazionale. Per qualche giorno non ho saputo più nulla, davo tutto per scontato, pensavo in spagnolo, sognavo in spagnolo, volavo con la fantasia atterrando tra Plaza Mayor e la Puerta del Sol. Poi il mio agente si è rifatto vivo: "Firma per il Milan, per il momento non ti lasciano andare via". "No..." "Sì." "Ok, va bene." La gente magari pensa che certe decisioni portino via un sacco di ore, intere giornate o addirittura mesi, energie fisiche e mentali, ma non è quasi mai vero, perché spesso l'istinto dice una cosa ma le clausole di un contratto già esistente ti obbligano a farne un'altra. E allora a dire di no ci impieghi pochissimo, a malincuore. E sei costretto a raccontare palle ai giornalisti - sempre che ti facciano la domanda giusta - perché se ti chiedono se è vero che avevi 16

praticamente firmato per il Madrid, devi rispondere nascondendoti dietro a frasi fatte e finte, già sentite, recitare uno scialbo copione studiato da uffici stampa privi di guizzo e di talento: "Non è vero, sto bene al Milan". Ma vaffanculo. Peccato sia finita così, al Reai ci sarei andato di corsa. Ha più fascino del Milan, più futuro, più appeal, più tutto, incute timore negli avversari a prescindere. Comunque, al termine di quella stagione mi sono consolato vincendo la Champions League. Poteva andare molto peggio. Capello e Baldini non erano esattamente felici quando Tullio ha comunicato che non sarei emigrato. A Baldini però il pallino - Pirlo è rimasto, e tutte le volte che mi incontra si avvicina, sorride e parte in quarta: "Non sono mai riuscito a portarti nel club per cui lavoro, ma prima o poi...". Ha provato a prendermi anche alla Roma, sempre prima che andassi alla Juventus, però non mi sono fidato della situazione e delle circostanze (di lui sì, è un grande dirigente, ha stile). In particolare, non mi convinceva la nuova proprietà. "Faremo una grande Roma" continuava a ripetermi Baldini, ma degli americani che avevano acquistato il pacchetto di maggioranza mi diceva poco e niente. Mi sono insospettito. Se in quel momento la società ci fosse stata, se fosse stata vera e non presunta, viva sulla carta e non solo a parole, magari ci sarei anche andato. La città è bella, la gente speciale, il clima splendido, il fatto è che in quel periodo il futuro presidente, Thomas DiBenedetto, nessuno l'aveva ancora visto. E l'ipotetico terzetto dirigenziale di cui si parlava, Pallotta - D'Amore - Ruane, mi faceva venire in mente più che altro il trio di autori di una canzone del Festival di Sanremo. "Di Pallotta - D'Amore - Ruane, dirige il maestro Vince Tempera": circondato dai fiori del Teatro Ariston, il conduttore avrebbe tranquillamente potuto introdurre così il cantante di turno. Titolo del pezzo: Grazie (comunque) Roma. E grazie alla Spagna, siempre. Perché oltre al Reai Madrid mi ha corteggiato il Barcellona. L'altra metà del sogno.

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Dopo la ruota, è la Playstation la migliore invenzione della storia. E da quando esiste la Playstation io sono il Barcellona (a parte un piccolo deragliamento iniziale, quando sceglievo il Milan). Non saprei dire con esattezza quante partite virtuali abbia giocato negli ultimi anni, ma a grandi linee sono almeno il quadruplo rispetto a quelle vere. Io contro Nesta era un classico ai tempi di Milanello: arrivavamo presto, alle nove facevamo colazione, ci chiudevamo in camera fino alle undici a sfidarci, allenamento, pranzo e poi di nuovo in stanza fino alle quattro del pomeriggio. Una vita di sacrifici. Le nostre battaglie erano adrenalina pura. Io sceglievo il Barcellona, Sandrino anche. Barça contro Barça, il primo giocatore che prendevo era Samuel Eto'o, il più veloce di tutti, eppure spesso perdevo. Mi incazzavo, lanciavo il joystick, chiedevo la rivincita e riperdevo, ma non potevo usare la scusa che l'allenatore della sua squadra fosse più bravo di quello della mia: Pep Guardiola per lui e Pep Guardiola per me, almeno a livello di panchina partivamo alla pari. Abbiamo anche pensato di rapirlo - quello vero, in carne e ossa - il 25 agosto 2010, quando con il Milan abbiamo giocato al Camp Nou per il Trofeo Gamper, poi abbiamo desistito: per evitare di litigare, al nostro ritorno avremmo dovuto segarlo a metà, e non sarebbe stata una mossa felice. Avrebbe sofferto, poverino. E poi, l'idea del sequestro di persona è venuta prima a lui che a noi, nel senso che è stato Guardiola a rapire me, proprio quella notte. Mi ha strappato all'affetto delle persone vicine, che forse poi così vicine non erano. A fine partita tutti inseguivano Zlatan Ibrahimovič, un matto a orologeria caricato come una molla dal suo procuratore (il mitico Mino Raiola), in rotta di collisione con i catalani e in procinto di trasferirsi proprio al Milan. Qualche mio compagno lo cercava per motivarlo alla fuga, certi suoi amici del posto per dissuaderlo, i giornalisti per estorcergli qualche frase che non è tardata ad arrivare: "Sarebbe bello giocare a San Siro nella stessa squadra di Ronaldinho. E poi qui l'allenatore non mi parla, negli ultimi sei mesi con me ha aperto bocca due sole volte". Nessun mistero, Guardiola le parole le aveva tenute per me. In tutto quel marasma, approfittando della caccia all'uomo in atto e del fatto che l'attenzione su di lui si fosse per un attimo allentata, mi aveva invitato nel suo ufficio. Stavo uscendo dallo spogliatoio e ho trovato ad aspettarmi un suo uomo di fiducia nonché amico d'infanzia, uno 007 in ciabatte: Manuel Estiarte, che nella sua precedente vita sportiva era stato il più grande giocatore di pallanuoto di tutti i tempi, in pratica il secondo uomo al mondo in grado di camminare sulle acque. "Andrea, vieni con me. C'è il mister che ti vuole incontrare." Senza cuffia in testa faticavo a riconoscerlo, comunque lo guardavo e sentivo il profumo di cloro. 18

"Va bene, vamos." Non mi sono fatto pregare e sono entrato, l'arredamento era sobrio, sul tavolo c'era del vino rosso. "Iniziamo bene" ho sussurrato, e per fortuna l'allenatore più invidiato dell'universo non mi ha sentito. Il suo tono era molto simile al mio, non da tenore, per intenderci. "Accomodati Andrea" ha detto in italiano perfetto. Non mi sono concentrato troppo su ciò che mi circondava, ma solo su chi mi aveva invitato. Guardiola era seduto in poltrona. Ha incominciato a parlarmi del Barcellona, raccontando che è un mondo a parte, un meccanismo perfetto che si è autoinventato. Indossava un paio di pantaloni scuri della stessa tonalità della cravatta, e poi una camicia bianca. Era molto elegante, esattamente come i suoi discorsi. "Grazie per aver accettato di incontrarmi." "Grazie per avermelo proposto." "Da queste parti abbiamo bisogno di te." Ecco, c'è da dire che i giri di parole non facevano parte del suo repertorio. Dopo un paio di minuti era già arrivato al dunque. Da calciatore impostava il gioco, da allenatore aveva imparato ad attaccare. Sempre con estremo stile. "Siamo fortissimi, di meglio non potrei chiedere, però tu saresti la ciliegina. Stiamo cercando un centrocampista da alternare a Xavi, Iniesta e Busquests e quel centrocampista sei tu. Hai tutte le caratteristiche giuste per giocare nel Barcellona e una in particolare: sei un fuoriclasse." Sono rimasto spesso in silenzio durante quella mezz'ora, lasciavo parlare lui. Ascoltavo, al limite annuivo. Ero talmente sorpreso da quella chiamata e da quell'incontro che i riflessi erano rallentati, più intontito che eccitato. Scosso dalla situazione, cotto a puntino, in maniera brusca ma positiva. "Sai, Andrea, ci siamo portati avanti perché qui le cose vanno così, non si perde tempo. Ti vogliamo acquistare subito, con il Milan abbiamo già parlato, ci hanno detto di no. Ma non ci abbattiamo, siamo il Barcellona. Siamo abituati a certe risposte, però alla fine le cose quasi sempre cambiano. Ci proveremo ancora, intanto inizia a muoverti anche tu con la tua società." Fino a quel momento nessuno aveva spifferato nulla. Nemmeno a me. Ero al centro di una clamorosa trattativa di mercato - del calcio e del lusso - senza saperlo. "Se dovessi arrivare da noi, ti ritroveresti in un posto unico. Il nostro gioiello è la Masia, il settore giovanile, un orgoglio che nessun altro club può vantare. È un orologio svizzero, un'orchestra filarmonica dove le stecche non sono ammesse né previste, ogni anno da lì arrivano calciatori già pronti per indossare la nostra maglia. I campioni ce li creiamo in casa, a parte te. È tutto molto bello, allo stesso tempo tutto molto faticoso. Anche le vittorie ti possono prosciugare." No, proprio non me lo sarei aspettato. A forza di giocarci, ero finito dentro la Playstation, risucchiato dal mio hobby preferito, in balia di un burattinaio con la 19

mano fatata."Devi venire qui, Andrea. Come giocatore mi sei sempre piaciuto, ti voglio allenare." Ho subito pensato a Sandrino, sarebbe morto d'invidia quando gliel'avrei raccontato. Mi stavo riprendendo il cinquanta per cento di Guardiola che gli apparteneva. "Anche se il Milan per il momento ha detto di no, noi non molliamo e vediamo cosa succede." Come al Reai Madrid, più che al Reai Madrid, anche al Barcellona ci sarei andato camminando a quattro zampe. In quel momento era la squadra più forte del mondo, devo aggiungere altro? È riuscito a esprimere un gioco mai visto negli ultimi anni, fatto di passaggi di prima e di un possesso palla forsennato. Filosofia da oratorio ("Il pallone è nostro e ce lo teniamo noi") abbinata a sincronismi orchestrati da Dio in persona, una specie di Rolex con le batterie di uno Swatch. Raffinato e di lunghissima durata. "Ci sentiamo presto. Buon ritorno a Milano, e speriamo sia per poco." "Grazie ancora, è stata una chiacchierata molto interessante." Sono uscito dal suo ufficio frastornato. Sul pullman del Milan sono salito quasi per ultimo, nessuno ci ha fatto caso. Dai finestrini, con il naso appiccicato al vetro, molti stavano sbirciando ciò che stava accadendo fuori. Studiavano, curiosi e compiaciuti, il sottilissimo confine su cui Ibrahimovič stava facendo equilibrismo: da una parte la fiamma del Barcellona che si stava spegnendo, dall'altra la scintilla del Milan che si faceva incendio. Viaggiavamo in direzioni opposte, di lui il mondo sapeva, di me no. Se le avance fossero diventate un amore torrido sarei finito in una grandissima società, proiettato all'interno di un'esperienza diversa, e mi sarebbe piaciuto parecchio. I discorsi sono andati avanti per un po', alla fine il Milan non ha ceduto, ed era scontato che l'epilogo fosse quello. In quel periodo mi consideravano ancora in grado di intendere e di volere, per cui mi hanno tenuto, senza mai imbastire una trattativa vera e propria con il Barcellona. Parole, discorsi, ipotesi soffuse: nulla di più. Sarei stato fortunato a essere allenato da Guardiola, perché sulle sue squadre ci mette l'impronta. Le costruisce, le plasma, le guida, le sgrida, le coccola. Le rende grandi. Le porta a un livello superiore, dove oltre al calcio c'è di più. Ibrahimovič, credendo di insultarlo, lo chiamava "Il filosofo", ma riflettendoci bene è un bel complimento. Essere filosofi significa pensare, ricercare la sapienza, avere un'idea di fondo che ti muove e ti guida, dare un senso alle cose, orientarsi nel mondo, credere che alla fine, in ogni caso, il bene prevarrà sul male, anche se con un pizzico di sofferenza. Guardiola ha preso tutto questo e l'ha applicato al calcio, cioè a una scienza imperfetta. Spremendo le meningi ha diradato la nebbia, più con la forza del lavoro che con quella del pensiero, non è stato un miracolo bensì una dolce programmazione. Una crema molto catalana, facilmente digeribile. Il virtuale che si tuffa nel reale, una nuotata tra il palco e la realtà, al fianco di Estiarte. 20

In una parola: Playstation.

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Guardiola abita nell'angolo zen della Playstation, la parte bianca dell'hard disk, la stanzina segreta e in penombra dentro cui il 9 luglio 2006 avevo bivaccato anch'io. Strano luogo, poco frequentato, ci si capita per caso. La mia è stata un'incursione rapida, però indimenticabile, più difficile da capire che da raccontare. Ti prende totalmente, ti senti prigioniero ma anche a tuo agio, un secondo prima soffochi e un attimo dopo respiri aria di montagna, chiudi gli occhi e vedi tante cose, li riapri e i colori del dipinto che ti circonda si sciolgono rimescolandosi in nuove forme, il disegno perde i contorni, la testa parte, vola, diventa una mongolfiera gonfiata da mille pensieri, pericolosamente pesanti. Di chilometri ne ho messi tanti, nelle gambe, ma sono le distanze brevi quelle che mi sfiniscono, prove di resistenza mentale, mica di velocità. Neil Armstrong ha passeggiato sulla Luna, io a Berlino sul prato verdissimo dell'Olympiastadion. C'è un momento che sento molto mio, se penso alla finale del Mondiale contro la Francia. Quando Marcello Lippi, commissario tecnico dell'Italia, alla fine dei tempi supplementari si è avvicinato a me, ho sentito le campane suonare. Se il volume fosse stato più alto avrei preferito. Il rumore non era abbastanza forte, quindi le due parole di quel magnifico allenatore sono filtrate, raggiungendo il mio orecchio senza particolari distorsioni: "Inizi tu". Sottinteso: a tirare i rigori. E andare sul dischetto subito, inaugurare quella tortura a tempo nella partita più incredibile che un calciatore possa giocare o immaginare in tutta la sua vita, non è necessariamente una buona notizia. Significa che ti considerano il migliore, ma anche che se sbagli sei il primo dei coglioni. "Tiro a destra; no, a sinistra perché è la parte debole del portiere. Anzi, calcio il pallone alto, nell'angolo, così sicuramente faccio gol. E se invece colpisco male e il pallone vola in tribuna?" Avevo i pensieri incasinati, idee ciucche sull'autoscontro. Non sapevo bene cosa inventare, però il peggio doveva ancora venire. Quando una partita di calcio si decide in quel modo (simbolicamente uno contro parecchi milioni), con il portiere costretto a parare un'intera nazione, c'è un rituale sadico e di massa che ti introduce verso ciò che verrà, una carovana sacrificale pronta a farti salire, che aspetta proprio te. Le due squadre si radunano nel cerchio di centrocampo, e a turno chi deve battere il rigore si alza e va verso la porta. Un momento che non auguro a nessuno. Sono cinquanta metri scarsi da percorrere, in realtà una camminata terribile attraverso le proprie paure. Il paragone con il condannato a morte che si trascina lungo il miglio verde - l'ultimo, per sempre - è esagerato e fuori luogo, però in qualche modo credo renda l'idea. Mi sono alzato, toccava a me, ho deciso d'istinto: "Lo tiro centrale, un po' alto, tanto Barthez si tuffa e di sicuro non riesce a fermarla neppure con i piedi". 22

Il tormento. E la tormenta. La tempesta dentro, e intorno. Quel tragitto era farcito con emozioni violente. Ho scelto un'andatura lenta, a livello inconscio non volevo perdermi nulla, volevo raccogliere il più possibile, non dimenticare mai quella scampagnata che andava al di là di tutto, che trasformava i secondi in ore e ogni passo in una storia comunque drammatica. Non ci sono riuscito fino in fondo, molte cose mi sono scappate, nella memoria sono rimasti solo alcuni spezzoni. Fissavo il campo sotto i miei piedi, come se non fosse uguale a tutti gli altri, come se i miei tacchetti si stessero aggrappando a qualcosa di più morbido rispetto alle solite zolle. Sulle scarpe avevo fatto stampare i nomi dei miei figli, e forse eccolo il motivo per cui tentavo di muovermi con il massimo della delicatezza, per cullarli senza strattoni. Ogni tanto alzavo lo sguardo, fissavo un punto indefinito all'orizzonte, al capolinea di quel percorso, e invece di vedere Barthez venivo distratto dai flash dei fotografi, appostati dietro la porta. "Speriamo che non mi accechino, che non mi diano troppo fastidio." Ero in area, in apnea. Ho preso la palla, pesava quanto la pressione che mi stava schiacciando. Non ho trovato lo sguardo di Buffon, ho cercato di incrociarlo, mi sarebbe servito un suo cenno, un gesto, un consiglio volante, ma Gigi in quel momento non aveva tempo per i miei problemi, era concentrato sui suoi. Accarezzare il pallone è stato un gesto dovuto, alzare gli occhi al cielo una richiesta di aiuto, perché se Dio esiste non può essere francese. Ho sospirato. Un sospiro lungo, intenso. Quel respiro profondo era il mio, ma poteva essere dell'operaio che fatica ad arrivare alla fine del mese o dell'imprenditore ricchissimo e un po' stronzo o dell'insegnante o dello studente o dei vecchi emigranti che in Germania non ci hanno lasciati soli o della sciura milanese o della puttana all'angolo della strada. Ero tutti loro. Sembra incredibile, ma esattamente in quell'istante ho capito quanto fosse bello essere italiano, un privilegio senza prezzo. Non me l'hanno mai insegnato i discorsi vuoti dei politici, che parlano senza sapere cosa dicono, che arraffano senza ritegno, né i libri su cui ho studiato storia, forse perché li ho tenuti troppo chiusi, sommersi dalla polvere (avevano ragione i miei genitori, è stato un grave errore). Mai avrei pensato che l'attimo prima di un rigore mi potesse aprire così tanto la mente, rendendomi partecipe di un fremito superiore, facendomi sentire l'ingranaggio neanche troppo grande di una macchina assolutamente imperfetta, zeppa di difetti, mal guidata, vecchiotta, eppure incredibilmente unica. L'Italia è un paese che ami proprio perché è così. Ho fatto gol. Ma anche se avessi sbagliato, l'insegnamento sarebbe rimasto, addirittura amplificato dalla disperazione. È incredibile percepire che quello che provi tu attraversa milioni di persone, nello stesso modo, nello stesso attimo, per lo stesso motivo, in città diverse che magari fino a un minuto prima erano rivali o comunque troppo dissimili per trovare un solo punto di incontro. Quel brivido tiepido, un secondo prima di buttarla dentro, è la sensazione più vera che mi sia capitato di provare. Nei mesi successivi, tra compagni, ne abbiamo discusso

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spesso nello spogliatoio e ho scoperto che non ero stato l'unico a essere tornato dalla Germania con argomenti così alti di cui chiacchierare. Quel rigore serve anche a definirmi. Come al solito nessuno ci crede, però io mi sento più il Pirlo del pallone calciato centrale al Mondiale del 2006 che il Pirlo geniale del cucchiaio agli Europei del 2012 contro l'Inghilterra. Anche se poi il fine era lo stesso in entrambi i casi: scegliere la soluzione migliore per ridurre al minimo la possibilità di errore. Per capirci: non ho fatto come Francesco Totti che, agli Europei del 2000 contro l'Olanda, prima di andare a calciare disse a Di Biagio e a Maldini la mitica frase: "Mo je faccio er cucchiaio". Io ho deciso all'ultimo, e cioè quando ho visto il portiere inglese Hart fare un sacco di sceneggiate sulla linea di porta. Ho preso la rincorsa e ancora non avevo ben chiaro come mi sarei comportato, lui si è mosso e quello è stato il momento della decisione. Estemporanea, non premeditata, mi è sembrata l'unica via utile per assicurarmi una percentuale di riuscita molto vicina al cento per cento. Zero esibizionismo, non fa parte di me. In quel gesto tanti presunti esperti hanno voluto leggere significati nascosti, voglie recondite di rivincita, parlando addirittura di qualcosa provato e riprovato sul campo tra una partita e l'altra. A parte che negli ultimi giorni di quell'Europeo, in pratica, non ci siamo allenati (i continui viaggi tra la Polonia e l'Ucraina ci avevano tolto tempo ed energie), ma poi si può pianificare con largo anticipo una situazione del genere? O sei Totti o sei un veggente o sei uno stupido. Che quel pallone l'avrei tirato così non lo sapeva nessuno, per il semplice motivo che non lo sapevo neppure io. Mi rendo conto che con questa spiegazione scontento qualcuno e sbugiardo altri, il fatto è che la verità è molto meno romantica dell'apparenza: ho calciato con quel tocco da sotto per puro calcolo, in quell'istante era la cosa meno pericolosa da fare. La più sicura, di maggior produttività, per dirla come quelli che parlano bene. Poi è vero, nell'immaginario collettivo è stato un bel modo di vincere contro avversari che partivano favoriti, di ribaltare il risultato trasformando la sconfitta in vittoria, la quasi eliminazione in una qualificazione alla semifinale, ma tutto è nato e morto in un lasso di tempo brevissimo. Almeno per me, mentre i miei compagni si sono detti sbalorditi e hanno voluto approfondire. Prima mi hanno fatto i complimenti aggiungendo subito dopo una domanda, pensata tutti insieme, un coro dell'Antoniano di adulti fuori di testa come bambini. Avevano un solo dubbio da sciogliere, esistenziale aggiungerei: "Andrea, ma sei scemo?". Si erano stupiti, io no. Sapevo perché l'avevo fatto. E per quante persone.

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Non è una coincidenza, né un caso, che passioni così travolgenti vengano vissute indossando la maglia della Nazionale. L'azzurro è il colore del cielo, e il cielo è di tutti. Può essere coperto dalle nuvole e quindi solo immaginato, ma sai che c'è. Dopo il Mondiale del 2014 in Brasile smetterò di giocare con l'Italia, appenderò il cuore al chiodo, però fino ad allora nessuno - se non Cesare Prandelli per scelta tecnica - dovrà permettersi di chiedermi di abbandonare. Allora avrò trentacinque anni, l'età per poter lasciare spazio agli altri, probabilmente non mi sentirò più utile come in passato o come adesso, ma in ogni caso quel giorno non è ancora giunto. Far parte della squadra di tutti mi fa sentire bene, in pace con me stesso, mi rilassa. E molte volte è meglio del sesso: dura di più, e se ti capita di fare cilecca non può essere solo colpa tua. Volendo portare un esempio, uno come Cassano racconta di aver avuto in vita sua settecento donne, ma a un certo punto ha smesso di essere convocato dal commissario tecnico: può essere felice fino in fondo? Io non lo sarei, perché quella seconda pelle, del colore dei puffi, ti regala un'immagine diversa in tutto il mondo. Ti rende migliore, ti accompagna a un livello superiore. Meglio soldatini sul campo che a letto. Parte l'inno di Mameli e rappresenti tutti, il solista diventa orchestra. E in linea teorica alla Nazionale non si dovrebbe mai dare l'addio, dovrebbe essere sempre un allenatore a scegliere per te, renderebbe tutto meno complicato, un pizzico più dolce. Se non per saltare qualche amichevole, nessuno dei club in cui ho giocato ha mai fatto pressione perché io rinunciassi a una convocazione. Non me l'hanno chiesto perché partivano da una certezza: avrebbero incassato una risposta poco gentile. Credo che se mai dovesse accadere, agirei d'istinto, andando contro la volontà dei dirigenti. Semplicemente, l'Italia vale di più. Dell'Inter, del Milan, della Juventus. Di qualunque società. È la scossa più profonda che ci sia. Generalizzando il discorso, provo fastidio - tantissimo - quando sono in ritiro a Coverciano e mi accorgo che i club pensano ai fatti loro. Che dell'Italia si ricordano solo quando si giocano Mondiali ed Europei, eventi che si possono trascinare dietro carri (dei vincitori dicono, allegorici aggiungo io) su cui salire in extremis. Contano il campionato, la Coppa Italia, la Champions League, di tutto il resto non frega nulla a nessuno, se non per un mese ogni due anni. Questo orgoglio a tempo mi fa contorcere le budella, ferendomi più di quanto la gente possa immaginare. I calciatori sanno che se si fanno male disputando una partita con la maglia azzurra, al loro ritorno a casa avranno dei problemi con la società di appartenenza, eppure io non mi risparmierò e non mi tirerò mai indietro, significherebbe macchiarsi di un atto di alto tradimento.

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Ho iniziato a bazzicare in Nazionale nella squadra Under 15, da adolescente, e non ho più smesso. Ho fatto tutta la trafila, la immagino come una scala di cui non si vede la fine, ma con una targa ben piantata sul gradino più basso: prego, per il paradiso su di qua. E a dir la verità quell'Under 15 la prima volta l'ho vissuta da abusivo, ero troppo piccolo per giocarci (per partecipare ai tornei devi avere un'età minima) ma il selezionatore Sergio Vatta mi ha chiamato lo stesso, per uno stage. Falsificare i documenti poteva essere una soluzione, però non è corretto, anche se per farmi giocare nella Primavera del Brescia, qualche tempo dopo, avrebbero studiato un escamotage del genere. Le donne si abbassano l'età, a me la alzavano. E se arrivava la convocazione ero contento perché saltavo tre giorni di scuola: diciamo che le priorità erano diverse rispetto a oggi. Ho recuperato più avanti, con corsi di sostegno accelerati, ad personam, girando il mondo con l'Italia (geografia), vincendo (storia), correndo (educazione fisica), conoscendo Guardiola (filosofia, storia dell'arte, spagnolo no, ma catalano sì). Sono un ragazzo fortunato, la mia maglia è di una marca rara, quella per cui ho sempre fatto il tifo, e da ultrà della Nazionale mi ricordo a malapena il Mondiale del 1986, mentre di Italia '90 conservo tutto. Una cosa in particolare: Un'estate italiana, cantata da Edoardo Bennato e Gianna Nannini ("Forse non sarà una canzone/a cambiare le regole del gioco/ma voglio viverla così quest'avventura/senza frontiere e con il cuore in gola..."). Per i calciatori della mia generazione è stato un inno alla gioia e alla battaglia, e infatti in Germania nel 2006 ce l'avevamo tutti nell'iPod. Qualcuno lo ascoltava ancora durante l'Europeo del 2012; è sempre attuale, anche dopo ventidue anni, come le canzoni di Lucio Battisti. Immortale lui, immortali le sue emozioni. E senza tempo sono certi rapporti che si sono creati in ritiro, di amicizia vera, purissima. La stanza numero 205 di Coverciano, spartana, fatta di due letti singoli, un bagnetto e un terrazzino è stata la camera dei segreti, prima da condividere con Nesta e poi con De Rossi, i due estremi della romanità. Laziale Sandrino, romanista Daniele, in Germania uniti da una sofferenza interiore difficile da gestire. Ci abbiamo provato insieme, noi tre e basta. Nesta si è infortunato subito, contro la Repubblica Ceca nel girone eliminatorio. Quanti pianti, quante tensioni, era mezzo esaurito e si rifiutava di parlare con chiunque, a parte noi. Lippi ogni tanto ci lasciava la serata libera, lo portavamo fuori a cena, tentavamo in tutti i modi di farlo distrarre, eppure lui continuava a ripetere una frase: "Non mi sento parte di questa squadra, mi faccio sempre male". Una volta dovevamo tornare in macchina da Düsseldorf, la prima città nelle vicinanze del nostro ritiro di Duisburg, guidava lui (c'era anche Barzagli). In autostrada prima io e poi Daniele, dal nulla, abbiamo urlato la stessa cosa: "Stai sbagliando strada, devi uscire qui, ad Ausfahrt". "Ma..." "Ma cosa? Esci Sandrino. Esci." "Siete sicuri?" 26

"Certo che lo siamo. Esci, esci subito, sennò torniamo in ritardo e ci tocca pagare una multa." Con una mossa spericolata, tipo passando da cento all'ora a zero in cinque secondi, con frenata secca seguita da una sterzata verso una curva a gomito, ha seguito le nostre indicazioni. Ovviamente ci siamo ritrovati in un posto spettrale, senza luci, con campi tutto intorno, tipo quelli di Grano rosso sangue, il peggior film che abbia mai visto. Ci eravamo persi. Io e Daniele ridevamo, Nesta si preoccupava: "Ma cosa cazzo c'avrete mai da ridere, e adesso come torniamo indietro?". "Sandrino..." "Porca puttana, già leggo sui giornali tutti i giorni che perdo i pezzi, ora scriveranno anche che sono il primo calciatore italiano disperso nella storia del Mondiale." "Sandrino..." "Aò, ma 'ndo cazzo siamo finiti?" "Sandrino..." "Ma la smettete di ridere? Cosa volete?" "Sandrino, ausfahrt in tedesco vuol dire uscita..." Non ci ha menati altrimenti si sarebbe fatto male anche al braccio, però la voglia c'era. Non pensavo che un essere umano potesse imprecare tanto quanto lui quella notte, però avevamo raggiunto lo scopo: per qualche ora aveva pensato ad altro, si era divertito. Sandrino ha retto piuttosto bene fino a pochi giorni prima della semifinale contro la Germania, a Dortmund. In allenamento ha sostenuto un provino per capire quali fossero le sue condizioni: se fosse realmente guarito, esisteva la possibilità concreta che potesse tornare in campo. A un certo punto ha alzato la gamba, in maniera quasi impercettibile, e ha avuto subito la sensazione netta, terribile, di essersi procurato uno stiramento. Si è sentito morire lui, ma non stavamo tanto meglio noi, che avevamo vissuto da vicino la rincorsa verso quella speranza ormai vana. Davanti a Lippi e al resto della squadra si è trattenuto, in camera no: tante lacrime così, tutte insieme, forse non le aveva mai piante nessuno. Non voleva farsi vedere in quello stato, e conoscendolo credo abbia sostenuto uno sforzo sovrumano per evitare quel crollo in pubblico, però quando un sogno se ne va, davvero, non esistono contromosse. Incassi il pugno e ne paghi le conseguenze, fisiche certo, ma soprattutto psicologiche. Non è che Daniele abbia attraversato momenti migliori: la gomitata rifilata a McBride contro gli Stati Uniti se la ricordano tutti, ciò che i tifosi non sanno - a parte pochi, i colpevoli - è che in ritiro ha iniziato a ricevere lettere minatorie, insulti, minacce riferite anche ai suoi famigliari. Parole pesantissime contro i genitori, che sono due persone d'oro. Al campanello suonavano sempre due volte, ogni giorno c'era posta per lui, aspettavamo Maria De Filippi e si presentava Hannibal Lecter. Pacchi di corrispondenza al veleno.

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Ha vissuto tutto malissimo, mi ricordo lunghi periodi, giornate intere, durante le quali non voleva incontrare anima viva. Chi lo conosce sa che ha un cuore grande così, e questo quando stai male complica le cose. Altre volte si avvicinava sussurrando: "Sandro, Andrea, come state?". Una domanda buttata lì per farci capire che stava per impazzire, che la voglia di confrontarsi aumentava a dismisura. Quattro giornate di squalifica da scontare sono tante già normalmente, in un Campionato del Mondo assomigliano a un ergastolo: capisci che rischi di non uscirne mai. Anche perché noi compagni in un primo momento non siamo stati troppo teneri, una cosa gliel'abbiamo chiesta: "Daniele, ma che cazzo hai fatto?". Ci eravamo resi conto che stavamo perdendo uno dei nostri pezzi migliori. Quasi subito, però, l'amicizia ha preso il sopravvento, e un amico si cura, si coccola, non si discute. Si ama a prescindere. Le lettere non hanno smesso di arrivare, però inquinavano sempre meno. De Rossi è tornato e ha calciato uno dei rigori della finale, una bella raccomandata con ricevuta di ritorno per quegli scribacchini senza dignità (e decisamente ignoranti, considerati gli errori di ortografia e di grammatica che comparivano qua e là, tra gli insulti). L'ho aiutato volentieri, ora tocca a lui rendermi il favore, starmi vicino, anche sul campo. Glielo dico tutte le volte che ci vediamo: "Dero, dopo Brasile 2014 lascio la Nazionale. E di quel Mondiale voglio giocare la finale". Peccato che non ci possa essere Sandrino. Lui è uscito ad Ausfahrt.

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José Mourinho, alla sua prima conferenza stampa da allenatore dell'Inter, sorprese tutti presentandosi in perfetto italiano: "Io non sono pirla". Io invece sì. Pirla e Pirlo, femminile e maschile, giusto per non farmi mancare niente. Un "cazzaro", come direbbero i miei due amichetti romani. Mi frega la faccia, con l'espressione sempre uguale, ma il bello sta proprio lì. Invento discorsi strampalati, prendo per il culo i miei compagni però tutti pensano che stia dicendo cose serie. Non se ne accorgono e mi diverto un mondo. Sorrido dentro, resto impassibile fuori, pianifico scherzi. E ogni tanto prendo qualche schiaffo, come quelli che mi dava Gattuso al Milan o in Nazionale. Non essendo un letterato, un fine oratore né un membro dell'Accademia della Crusca, quando Rino apriva bocca lo spogliatoio si trasformava nel Carnevale di Rio. Pernacchie, trombette, trenini: le reazioni erano quelle, non gli lasciavamo finire le frasi, gli facevamo il verso. Il Maracanà a Milanello o a Coverciano, e lui parlava il portoghese senza saperlo. Parlava anche l'italiano senza saperlo. Lo chiamavo "terrone" e lui mi picchiava, allora per vendicarmi gli rubavo il cellulare e con il suo numero mandavo un sacco di SMS a Braida, il nostro direttore sportivo. Un giorno, nel periodo in cui anche Rino de Janeiro aspettava che il contratto gli venisse rinnovato, ho condotto la trattativa al suo posto. Con un solo messaggi- no: "Caro Ariedo, se mi dai quello che voglio io ti do mia sorella". Lui se n'è accorto, mi ha riempito di botte, ha chiamato Braida: "È uno di quegli stupidi scherzi di Pirlo". Mi è sempre rimasto il dubbio che si sia sentito rispondere: "Peccato". De Rossi, prima delle partite dell'Italia lo aspettava in camera, anche per mezz'ora, nascosto sotto il letto. Gattuso arrivava, si lavava i denti, indossava il pigiama leopardato, si coricava, prendeva un libro e guardava le figure. Quando stava per addormentarsi, Daniele allungava le braccia da sotto il letto e gliele metteva sui fianchi. Io invece uscivo all'improvviso dall'armadio, come il peggiore degli amanti, facendo versi terrificanti. Rino la prendeva benissimo, dopo aver rischiato un collasso cardiocircolatorio: le dava prima a lui e poi a me, per par condicio. Come quella volta che l'abbiamo innaffiato con un estintore. Pareggiando in Irlanda ci eravamo qualificati per il Mondiale del 2010 in Sudafrica, quindi l'ultima fatica del girone contro Cipro - in programma a Parma quattro giorni dopo - era diventata una specie di amichevole. Di fatto inutile e come tale l'abbiamo preparata. Tra un impegno e l'altro Lippi ci ha concesso una serata libera, a Firenze, siamo andati a cena quasi tutti insieme, Gattuso no, è rimasto in 29

ritiro. Quando siamo tornati eravamo abbastanza ubriachi, anzi molto ubriachi, abbiamo chiacchierato nella hall, non avevamo sonno, dovevamo trovare qualcosa da fare per passare il tempo e l'idea è stata la stessa per tutti: "Andiamo a rompere i coglioni a Rino". Che stava già dormendo, con la papalina in testa. Mentre salivamo le scale per raggiungerlo in stanza, De Rossi ha trovato un estintore e l'ha preso: "Vado a spegnere Gattuso". Abbiamo bussato, lui ha aperto, con gli occhi stropicciati, Daniele gli ha scaricato addosso tutto quello che c'era là dentro ed è scappato a nascondersi nella sua camera, che poi era anche la mia. Mi ha lasciato in balia di quel mostro in mutande e pieno di schiuma, che gridava concetti sconnessi; ascoltandolo però avevo capito che si era risvegliato completamente. Che aveva ritrovato una certa lucidità. Ho tentato di scappare, ma ero spacciato in partenza, lo sapevo. Quando alle tue spalle c'è Gattuso che ti vuol fare del male, puoi correre finché vuoi, ma alla fine in qualche modo riuscirà a prenderti. Che tu sia gazzella o leone. De Rossi, con la serratura ben chiusa, faceva lo spiritoso: "Cosa sono questi rumori? Li ho già sentiti nei film di Bud Spencer e Terence Hill...". Era Rino che mi stava facendo vedere la sua collezione di schiaffi. Ha salutato ed è ritornato nei suoi appartamenti, perché è fatto così, o gioca o resta in ritiro, non si dà alla pazza gioia, non vuole cali di concentrazione, non sopporta la sensazione di aver lasciato qualcosa di intentato per provare a vincere una partita. E poi è scaramantico da far schifo, tanto che in Germania nel 2006, siccome le cose stavano andando piuttosto bene, ha tenuto per più di un mese la stessa tuta. C'erano quaranta gradi, andava in giro vestito come un palombaro e dai quarti di finale in avanti ha incominciato anche a puzzare. Più che un estintore, sarebbe servito un bidone di lavanda. È da sempre il mio bersaglio preferito, primo in classifica per distacco, nonostante in diverse occasioni abbia tentato di uccidermi impugnando una forchetta. A tavola, a Milanello, gliene combinavamo di tutti i colori, lo mettevamo in difficoltà, quando sbagliava i verbi (praticamente sempre) glielo facevamo notare, quando li coniugava con i tempi giusti gli facevamo credere che li avesse comunque sbagliati, e lui si innervosiva. Io, Ambrosini, Nesta, Inzaghi, Abbiati, Oddo: il gruppo dei bastardi era composto così. "Rino, come stai?" "Male, ieri abbiamo perso. Stavo meglio se avevamo vinto." "Rino, riprovaci. Si dice starei meglio se avessimo vinto." "Ma è uguale." "Non esattamente, Rino." "Allora ok. Starei meglio se avessimo vinto." "Rino, ma sei proprio ignorante. Stavo meglio se avevamo vinto, si dice così." "Ma l'ho detto prima." "Cosa, Rino?" "Quella storia della vittoria." "Quale Rino? Ce la ripeti?" 30

Gli saliva il sangue al cervello, si vedeva, non riusciva a mascherare. Tutti insieme capivamo e requisivamo i coltelli, Gattuso si arrangiava come poteva, prendeva una forchetta e tentava di infilzarci. In più di un'occasione i suoi colpi sono andati a segno, hanno raggiunto il bersaglio, affondando nella pelle. Eravamo morbidi come il tonno, quello che si taglia con un grissino. È capitato anche che qualcuno di noi saltasse una partita causa forchettata, anche se i comunicati ufficiali della società recitavano "fuori per affaticamento muscolare". Scappavamo quando impazziva, lui si calmava e si chiudeva in camera, allora noi tornavamo e gli bloccavamo la porta con i divani, così restava prigioniero senza poter uscire. "Liberatemi, tra poco inizia l'allenamento." "Arrangiati, terrone." Andava di nuovo fuori di testa, spaccava tutto, ma anche da arrabbiato restava un buono. L'ho sempre visto come un personaggio di Woody Alien, il regista che in assoluto mi piace di più. Me lo immagino con la bava alla bocca, con la maglia numero 8, mentre tenta di recitare battute tipo: "Non mangio mai ostriche, il cibo mi piace morto. Non malato, né ferito. Morto". Oppure: "Non c'è niente di sbagliato in te che tu non possa curare con un po' di Prozac e una mazza da polo". Tra le altre cose l'ho visto catturare e mangiare lumache vive, per scommessa. È uno da film, e siccome pure io sono regista - sul campo, nella vita - un attore della sua razza non me lo sarei mai lasciato scappare. Dentro uno spogliatoio ci vogliono pilastri del genere, perché il fisico invecchia ma il carisma no, si corre di meno e si conta di più, a livello di personalità. Ogni sua parola era un ordine, chi arrivava al Milan e sbagliava nei comportamenti, sapeva che come prima cosa sarebbe dovuto passare da Rino per dargli una spiegazione, per giustificarsi, e questo faceva diminuire sensibilmente la possibilità di commettere cazzate. Una volta le cose funzionavano così, e neppure il vecchio Woody avrebbe potuto cambiare più di tanto il finale. Una volta nelle squadre c'erano le bandiere, e delle bandiere si teneva tutto: l'asta, la corda, la stoffa, il prestigio, la capacità di catturare il vento e in casi eccezionali di fame cambiare intensità e direzione, mentre adesso conta solo risparmiare, tagliare stipendi che gli stessi club avevano accordato ai giocatori. La gente, quando una società inizia a fare i capricci mettendo fuori squadra un suo calciatore che non accetta di abbassarsi l'ingaggio, spesso reagisce d'istinto, dando giudizi, sputando sentenze: ecco il solito riccone che non intende mollare niente. Le persone normali fanno la fame e quelli si vogliono tenere tutti i loro milioni. Peggio dei politici, sono loro la vera casta. Che tirchi maledetti, più ne hanno e più ne vogliono. Davanti a certe comprensibili reazioni di pancia, mi vengono in mente tante domande, in ordine sparso, non so quanto intelligenti: i dirigenti della società avevano la pistola puntata alla tempia quando si sono accordati con il giocatore per uno stipendio multimilionario? Non è che prima 31

hanno sbagliato i calcoli e poi, quando se ne sono accorti, hanno scaricato tutto sul calciatore, a cui è sempre comodo far indossare la maschera del capro espiatorio? Che ne sanno fuori dallo spogliatoio se un portiere, un difensore, un centrocampista o un attaccante deve mantenere una famiglia molto numerosa, o magari rendere con gli interessi ai propri genitori i sacrifici fatti in passato, o pagare debiti di amici e parenti? Per portarlo nella loro squadra i grandi capi hanno organizzato cene clandestine e appuntamenti segreti, l'hanno ricoperto d'oro, e poi perché quell'oro lo pretendono indietro? Non sono forse loro i bugiardi, quelli che alla fine non sono stati in grado di mantenere la parola data? Perché il datore di lavoro può cambiare quando vuole i termini di un contratto che lui stesso ha ideato? Siamo una categoria fortunata, è innegabile, ma con una dignità. E almeno da questo punto di vista non siamo dei pirla.

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Tra i fortunati, io lo sono particolarmente: ho conosciuto Antonio Conte. Mi sono dovuto confrontare con tanti allenatori e lui è quello che mi ha sorpreso di più. Gli è bastato un discorso, con tante parole semplici, per conquistare me e tutta la Juventus, pianeta su cui siamo sbarcati insieme. Il primo giorno di ritiro, in montagna, a Bardonecchia, ha convocato la squadra in palestra e si è presentato. Aveva già il veleno addosso. Si muoveva bene ad alta quota, perché le vipere sono fatte così. "In questa squadra, cari ragazzi, si viene da due settimi posti consecutivi in campionato. Roba da pazzi. Agghiacciante. Io non sono qui per questo, è ora di smetterla di fare schifo." Dopo pochi minuti i segreti da scoprire si erano ridotti a zero. Una cosa in particolare era chiarissima: aveva un diavolo per capello, e il se il capello era finto, il diavolo no, era verissimo, di un materiale non riproducibile. "Nelle ultime stagioni qui hanno fatto tutti male, quindi dobbiamo inventarci qualsiasi cosa per riprenderci, per tornare a essere la Juve. Invertire la rotta non è una richiesta gentile, è un ordine, un obbligo morale. Voi dovete compiere un solo passo, che è relativamente semplice: seguire me." La prima impressione è stata quella giusta: quando parla, i concetti ti aggrediscono, entrano, spesso con violenza. Si intrufolano dentro di te, sfondano la porta. Cazzo, anche oggi Conte ha detto una cosa sensata: quante volte me lo sono ripetuto. "E state attenti, perché non ho ancora finito. Mettetevi bene in testa che si deve ritornare ai livelli che ci competono, quelli che sono scritti nella storia di questo club. Non arrivare tra le prime tre della classifica sarebbe un delitto." Ovviamente abbiamo vinto lo scudetto al primo tentativo, un successo tutto suo. Maledettamente suo, oltre ogni previsione. Non sarebbe potuta finire in maniera diversa, avendo come esempio, giorno dopo giorno, quell'indemoniato con la juventinità marchiata a fuoco. "Dovete avere la rabbia che ho io. Stop." Un po' cor- tino come telegramma, ma di sicuro il più convincente che abbia mai ricevuto. Non è un guru, Conte, né un mago, anche se tira fuori dal cilindro discorsi pazzeschi. O fai quello che dice lui oppure non giochi. Rende il tempo eterno, e dentro a questo sempre ci sguazza. Cura ogni minimo particolare, lo sfrutta a suo favore, quando si concentra sulla parte tattica ci inchioda per ore davanti al video, spiegando e rispiegando i movimenti sbagliati. Ha una chiara allergia all'errore, forse all'orrore, e prego ogni giorno perché la cura non venga trovata. Sul campo di Vinovo, in allenamento, spesso vinciamo, per il semplice motivo che giochiamo contro nessuno. Non ci sono gli avversari, dal lunedì al venerdì 33

non esistono. Ci obbliga ad affrontare partitelle undici contro zero, spingendoci a ripetere per quaranta- cinque minuti gli stessi movimenti, fino a quando non vede che riescono bene, fino alla nausea. Ecco perché poi trionfiamo anche undici contro undici. Se Arrigo Sacchi era un genio, allora lui cos'è? Mi aspettavo uno bravo, ma non così bravo. Pensavo a un allenatore con tanta grinta e altrettanto carisma, invece ho scoperto che anche tatticamente e tecnicamente ha da insegnare a molti suoi colleghi. Tornassi indietro, solo una cosa non rifarei: scegliere il posto vicino a Buffon dentro il nostro spogliatoio allo Juventus Stadium, esattamente davanti alla porta d'ingresso. È il punto più pericoloso di tutta Torino, soprattutto tra il primo e il secondo tempo delle partite. Nell'intervallo Conte entra e, anche quando stiamo vincendo, lancia contro il muro - e quindi contro il mio angolino - tutto quello che trova, quasi sempre delle bottigliette di plastica, piene d'acqua. Frizzante. Molto frizzante. Diventa una bestia. Non si accontenta mai, c'è sempre un dettaglio che non gli va a genio, vede in anticipo ciò che può succedere nei successivi quarantacinque minuti. Una volta, ad esempio, perdevamo contro il Milan e non riusciva a farsene una ragione: "Contro quelli! Non capisco come non riusciamo a vincere contro quelli! E giocano pure male". Alla fine degli incontri invece sparisce, al limite entra per un saluto veloce, solo in caso di nostro successo. Il peggio arriva quando resta solo con se stesso, la notte. Butta giù orrendi intrugli per dormire, come se avesse giocato. Come quando giocava. Non prende sonno, rimugina, ripensa a tutto quanto è accaduto in campo, spinge sul tasto rewind della sua memoria e ricomincia daccapo. Vive un tormento interiore senza inizio né fine, canta una canzone circolare, in cui non si capisce quale sia la prima strofa e quale l'ultima, si intuisce solo il ritornello. Vive a trecentosessanta gradi il suo lavoro, che è anche il suo piacere, non ho mai capito se in panchina vada l'allenatore o il tifoso, in ogni caso si tratta di uno che fa la differenza. Ci è riuscito anche nel periodo della sua lunga squalifica per la strana vicenda del Calcioscommesse, riferita a quando guidava il Siena. Si vedeva che soffriva il mercoledì, il sabato, la domenica, in pratica sempre in occasione degli impegni ufficiali ai quali non poteva avvicinarsi, e poi lo mandava al manicomio non poter mettere la testa dentro lo spogliatoio (ogni tanto diciamo che per sbaglio ci capitava...). La sua mancanza tra il primo e il secondo tempo si sentiva, era evidente, i sostituti Angelo Alessio e Massimo Carrera facevano semplicemente quello che diceva lui, non è che avessero molto altro da inventarsi. Neppure nelle interviste post partita potevano godere di particolari margini di libertà: loro ci mettevano la faccia e Conte i concetti. In quel periodo non l'ho mai visto piangere o disperarsi. Poco prima della sentenza eravamo in ritiro in Cina, aveva la tensione dipinta sul viso, passava le giornate al telefono con i suoi avvocati. Con i giocatori non è mai sceso nello specifico, è stato bravo a tenerci lontani dai suoi turbamenti, come se non fosse 34

cambiato nulla. Solo in un'occasione, appena prima che esplodesse la bomba, ha chiesto aiuto ai leader della squadra, c'ero anch'io, e con me Buffon, Chiellini, Marchisio: "Questo è un momento un po' così, dovete darmi una mano, più del solito. Date tutto in allenamento e in partita, senza di me nello spogliatoio trasmettete la scossa ai vostri compagni, non mollate, non fate andare a puttane tutto quello che siamo riusciti a creare insieme". Ci è dispiaciuto tanto per lui e anche per il suo collaboratore Cristian Stellini, che a un certo punto ha lasciato la Juventus: era parte del gruppo, trascorreva un sacco di tempo con noi calciatori. Sul campo seguiva la parte difensiva, quando se n'è andato la sua assenza ci è sembrata parecchio pesante. Dopo un'amichevole giocata a Salerno, si è presentato in camera mia, nell'hotel che ci ospitava. Erano le tre del mattino: "Andrea, non posso più stare qui. Me ne vado e lo faccio solo perché voglio bene alla Juve, per far calmare le acque". In generale, ho capito una cosa. Il problema vero sta nelle scommesse, quelle ufficiali, autorizzate. Da quando sono state legalizzate e liberalizzate hanno amplificato il casino, fornito un trampolino pericoloso a chi voleva combinare inciuci poco chiari, a quei personaggi con un'evidente propensione all'esagerazione. Per quanto riguarda la serie B e la serie C le istituzioni dovrebbero prendere una decisione drastica: rendere impossibili le puntate sulle partite di quei campionati. Soprattutto in C - anzi, in Lega Pro, perché si chiama così anche se nessuno se ne ricorda - ci sono giocatori che non percepiscono lo stipendio da parecchie settimane, si mettono d'accordo tra di loro, pilotano il risultato delle partite, scommettono in agenzia e così tirano a campare fino alla fine del mese. E poi fino alla fine dell'anno. E poi fino a chissà quando. In B non va tanto meglio. Qualcuno potrebbe obiettare che se non ci fossero le scommesse ufficiali magari il loro posto verrebbe preso da quelle organizzate dalla mafia o dalla camorra o da quelle schifezze lì: possibile, ma intanto pensiamo a eliminare un problema e poi dedichiamoci al successivo. La mancanza del primo passo rende impossibile anche il secondo. Personalmente, penso che i giocatori pescati con le mani nel sacco vadano radiati. Zero perdono per chi ruba e gioca a nascondino contemporaneamente. Non so cosa possa scattare nella testa di certa gente, compresa quella di presunti campioni: credo che il fatto di voler sempre più soldi, pur avendone già un'infinità, sia una malattia. A me mai nessuno ha proposto qualcosa del genere, e in tal senso aver giocato per tantissimi anni nel Milan ha rappresentato una fortuna: lì la sconfitta e il pareggio non contavano, si andava in campo solo per vincere. E se qualcuno avesse anche solo tentato di coinvolgermi in merdate del genere, l'avrei appeso al muro. Non sono un violento ma lo posso diventare. E poi, dài, sembravamo e sembriamo tutti ciechi e muti. In serie B si vedono delle cose pazzesche, soprattutto a fine campionato: partite surreali davanti alle quali nessuno dice mai niente. Nessun giocatore si è mai alzato per parlare. Si 35

sussurra, si vocifera che anche in serie A ci siano squadre che ogni tanto, diciamo così, si fanno un po' prendere la mano. Il passaggio veramente difficile per un giocatore è denunciare un compagno che gli propone una "combine". Ma come fai? Soprattutto se gioca con te o se, peggio ancora, è un tuo amico. Gli dici di no, lo maltratti, accadesse a me probabilmente gli metterei le mani addosso, però poi con che faccia vai a raccontare alla procura federale che lui, proprio lui, stava per commettere un errore madornale? A quel punto mettono in mezzo te, che non c'entri nulla, e paghi le conseguenze per tentate frodi di cui non sei direttamente colpevole. Ecco perché considero la responsabilità oggettiva una regola aberrante: tu sbagli, mi coinvolgi, ti dico di no, ti insulto, non ti denuncio e sono comunque perseguibile. I conti non tornano. Per ovviare al problema, oltre all'abolizione delle scommesse, si dovrebbero mettere in palio dei premi a vincere. Funziona così, e faccio un esempio generico per spiegare meglio: la squadra B è seconda in classifica e gioca contro la squadra C, che non ha nessuna velleità particolare. Se la squadra B perde, la squadra A che è prima in classifica vince il campionato. Quindi, la squadra A dice alla squadra C: "Qui ci sono dei soldi. Sono vostri se battete la squadra B". Con questi incentivi positivi tutti giocherebbero senza risparmiarsi e senza trucchi, fino alla fine. All'estero succede, ma temo che in Italia non si arriverà mai a una soluzione del genere. Ci sono troppi interessi in ballo. Sono pronto a scommetterci.

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Non punterei nemmeno un centesimo su un mio futuro da allenatore. È un lavoro che non mi entusiasma, prevede troppi pensieri e uno stile di vita esageratamente simile a quello dei calciatori. Ho già dato. Rivoglio indietro, almeno in parte, una parvenza di vita privata. Di Conte ne esiste uno solo e va bene così. Anche se Lippi, quando si incazzava, non era poi così dissimile. In Germania siamo diventati campioni del Mondo grazie al gruppo, di cui però a un certo punto il commissario tecnico pensava, questo: "Siete delle merde, mi fate schifo". Prima degli ottavi di finale contro l'Australia, la partita che abbiamo vinto con un rigore (inesistente) di Totti, ci ha chiamati tutti in una saletta riunioni, in ritiro, e ci ha fatto un culo così: "Parlate troppo con i giornalisti, siete delle spie, non riuscite a tenervi neppure un segreto, sanno sempre la formazione in tempo reale. Ma dove volete andare? Non posso neanche fidarmi di voi". Non ci lasciava fiatare, il suo era un monologo. Con la faccia deformata dalla rabbia, con la vena del collo al limite della deflagrazione, non riusciva a contenersi. Gli avevano manomesso i freni: "Andate affanculo, con voi non voglio aver più nulla a che fare. Gruppo di stronzi. Stronzi e spie". Il tutto è durato cinque minuti e alla fine, con la coda dell'occhio, molti di noi hanno controllato la reazione di Pippo Inzaghi. Lippi è il portatore sano di un'emozione che nessuno potrà mai strapparci di dosso, ma anche, per quanto mi riguarda, di un pensiero che a volte mi toglie un pizzico di serenità. Quando lo incontro, mi viene in mente questo: se fosse rimasto ad allenare l'Inter, probabilmente sarei diventato una bandiera di quella squadra. Un Beppe Bergomi con meno baffi, un Esteban Cambiasso con più capelli. La mia carriera avrebbe preso una direzione ben precisa. Con lui in panchina sarei rimasto a vita in quel club, di cui ero tifoso da bambino. Un ultrà con il ciuccio. Il mio idolo incontrastato era Lothar Matthäus, giocava con il numero 10, faceva gol, trascinava i compagni, per me non esisteva nessuno migliore di lui. Il giorno in cui, a Viareggio, in vacanza, l'ho incontrato e mi ha fatto un autografo, è stato per lungo tempo il più bello e importante della mia vita. Dopo il tedesco è arrivato Roberto Baggio, e per fortuna che la mia cameretta era grande: sulla parete due poster vicini ci stavano, non era necessario scegliere quale staccare, quale dio tirare giù dall'Olimpo. Quando giocavo nel Brescia tifavo ancora per l'Inter, poi all'Inter ci sono stato e ho cambiato idea. Alla fine della stagione 1997/98 ero in ritiro con la Nazionale Under 21, mi ha chiamato il mio procuratore: "Andrea, devi traslocare. Abbiamo fatto tutto con il Parma, sei un loro giocatore. Quando tomi devi solo firmare il contratto". Mi sono lasciato andare, trasportare dalla corrente della felicità, ho condensato tutto il mio proverbiale entusiasmo in questa risposta: "Ok". Il 37

mattino seguente, tornato a casa dopo la partita, le cose sono cambiate. Un altro squillo del telefonino, più vivo del solito, più intenso: "Ciao Andrea, sono di nuovo Tullio. Guarda, stanotte il presidente dell'Inter Moratti ha chiamato quello del Brescia Corioni, hanno parlato di te. Si sono messi d'accordo direttamente tra di loro, in meno di dieci minuti si sono stretti la mano. Insomma, vai a giocare nella tua squadra del cuore. Sei dell'Inter, ce l'hai fatta. Preparati, andiamo a fare le visite mediche ad Appiano Gentile". Altra esplosione di gioia, più travolgente della precedente: "Ok, va bene". Non sembrava ma ero l'uomo più contento del mondo, orgoglioso di essermi tuffato dentro i miei poster. Volevo appendermi anch'io al muro. Avrei raggiunto Ronaldo, Baggio, Djorkaeff, proprio io che ogni tanto mi mischiavo ai tifosi di San Siro con la sciarpa nerazzurra al collo, sempre io che quando avevo sedici anni ero stato invitato dai vertici della società Sandro Mazzola in primis - a Eindhoven, in Olanda, per una partita di prova. Durante la mia prima stagione all'Inter giocavo molto. Il precampionato è andato benissimo, poi Gigi Si- moni dal primo minuto o partendo dalla panchina mi faceva stare tanto in campo, poi Mircea Lucescu ha dato più spazio ai veterani, poi Luciano Castellini mi considerava abbastanza, poi l'inglese Roy Hodgson storpiava il mio cognome, diventavo Pirla, forse perché era la persona che aveva capito più degli altri la mia vera indole. Il fatto è che in quella stagione Moratti aveva cambiato quattro allenatori, ed è proprio in quel periodo che ho iniziato a soffrire di forti emicranie, a tratti di profondi vuoti di memoria. Mi svegliavo al mattino e non ricordavo chi fosse il mio allenatore. Ero comunque sorridente, beata incoscienza. Frastornato ma sorridente. L'anno dopo hanno preso Lippi, ho fatto tutto il ritiro estivo alle sue dipendenze ma poi mi ha chiamato in disparte dicendomi cose molto sincere: "Andrea, per il tuo bene sarebbe meglio che andassi a giocare altrove, almeno per una stagione. Devi accumulare esperienza, vedrai, ti servirà". Sono finito alla Reggina e in effetti ho imparato molto, in particolare a prendermi più responsabilità del solito e a lottare in mezzo al fango. All'inizio della stagione 2000/01 sono tornato a Milano, c'era sempre Lippi ma è durato pochissimo, una giornata di campionato appena. Famosissima la sua conferenza stampa dopo la trasferta dell'Inter a Reggio Calabria, alla quale non ho preso parte per infortunio: "Fossi il presidente Moratti caccerei l'allenatore e prenderei i giocatori a calci nel culo". È stato accontentato, almeno nella prima metà del discorso, per il resto le chiappe sono rimaste di un candore che faceva quasi tenerezza. Peccato, perché noi due avevamo una sintonia speciale, ci capivamo al volo pur conoscendoci pochissimo, era sufficiente uno sguardo, mi fidavo ciecamente, sentivo il piacere di lavorare con lui. Al suo posto è arrivato Marco lardelli, l'ex allenatore della Nazionale Under 21 con cui avevo vinto gli Europei. Forse non mi ha riconosciuto, fatto sta che non mi ha mai fatto giocare. Stavo male, soffrivo. Quante volte avrei voluto dirgli: "Sai dove te lo puoi mettere quell'urlo che ti ha reso famoso?", ma essendo una persona educata mi sono sempre fermato in tempo. Con lui e con quella 38

squadra non ci volevo più stare, mi ha fatto passare tutto, ha cancellato un amore potenzialmente infinito. Volevo scappare, e l'ho fatto, grazie alla solita telefonata a Tinti: "Portami via da questo manicomio, mai più all'Inter, mai più. Trovami un'altra squadra, una qualsiasi". Sono tornato al Brescia, in prestito per sei mesi, poi sono andato al Milan, per dodici miliardi di lire più Guglielminpietro. Indovinate chi ha fatto l'affare? Non mi piace parlare male di nessuno, quindi neanche di Tardelli, che però non mi ha mai dato l'opportunità di giocare. Ogni tanto buttava lì un "Lo faccio per te, per non bruciarti" ma aveva tanto la puzza di una scusa. Nell'Under 21 diceva che i giovani erano il futuro. Fosse rimasto Lippi, starei raccontando un'altra storia, la stessa che ogni tanto in estate, al Bagno Piero di Forte dei Marmi, tira fuori il mio vicino di ombrellone: "Andrea, lo sai che se tornassi indietro...". Lo so, mi incatenerebbe allo spogliatoio di Appiano Gentile, perché il mio vicino di ombrellone è Moratti. L'unica punta di tristezza, quando ho lasciato l'Inter, è stata provocata proprio dal distacco da lui. È una bravissima persona, esattamente come si vede in televisione. Un padre di famiglia, un lord fuori contesto, un pezzo di pane in un mondo di squali. E poi è tifoso, tifosissimo, e anche se questa passione sfrenata spesso l'ha portato a sbagliare certe scelte non può essere considerata una colpa. Averne di presidenti come lui. Cerca di fare il possibile per rendere grande il suo club, che prima era del padre Angelo: la loro è la dinastia dei poeti, dei romantici, di quelli che se vincono lo fanno comunque ricordandosi di avere un cuore. Non lo dimenticano neppure quando perdono. Io gli voglio ancora bene, sempre gliene vorrò e so per certo che l'affetto è ricambiato. Tutte le volte che mi vede mi fa mille complimenti, sinceri e quindi apprezzati. È grazie a lui se sia con la maglia del Milan sia con quella della Juventus non sono mai riuscito a considerare l'Inter una squadra nemica. Semplicemente, quella nerazzurra è un'avventura che non è iniziata né finita come avrei voluto. Nei lunghi periodi in cui mi sembrava che il mondo girasse al contrario, gli amici mi avevano dato un suggerimento straordinario: "Quando non ce la fai più, pensa a qualcosa che per te significa relax". Consiglio preziosissimo, nel senso che l'esperimento è riuscito alla perfezione. Finivo in panchina o, peggio, in tribuna e allora chiudevo gli occhi per una manciata di secondi e mi immaginavo con i piedi nudi (senza tacchetti, senza calzettoni, senza parastinchi e soprattutto senza pressioni) immersi in una enorme bacinella di legno. Schiacciavo l'uva, la calpestavo, ci ballavo sopra. Tiravo giù le viti, trasformavo la frutta in vino. Pensavo a quando da bambino vendemmiavo nella cascina di mia nonna Maria, nel minuscolo borgo di Coler, frazione di Fiero. Combattevo contro le bucce, salvavo il succo ed è la prima metafora che riaffiora se devo spiegare visivamente la differenza tra il bene e il male, tra l'utile e l'inutile. Erano le riunioni di una famiglia scalza, perché con me c'era sempre un numero imprecisato di parenti. Forse è proprio durante quei viaggi con la fantasia, quelle fughe da fermo, necessarie per continuare a sentirmi vivo, che ho imparato ad apprezzare certe 39

gradazioni alcoliche. Ancora oggi, dopo gli allenamenti, capita che tomi a casa, accenda il camino e mi versi un bicchiere di vino. Oppure, nei giorni di riposo, indosso la tuta della Juventus e faccio una corsettina tra i filari. Dove una volta c'era la cascina, adesso c'è la Pratum Coller, l'azienda agricola di mio padre. Specialità della casa: bianco, rosso e rosé. Ci stiamo lanciando anche nella produzione di "bollicine", e il risparmio vero sarà sull'assaggiatore: ci penserò io, e non solo perché il "pirlo", oltre a me, è anche il più famoso aperitivo bresciano. Gli ingredienti sono semplici: vino bianco frizzante, campari e seltz. Dicono che io abbia iniziato a berlo quando giocavo nell'Inter. Dicono.

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Qualche bella ubriacatura me la sono concessa, di quelle pesanti, che quasi ti viene voglia di riesumare la sciarpa dell'Inter o la penna del Milan, di guardarti allo specchio e vederti alto e bello, biondo con gli occhi azzurri. Di solito il momento perfetto per esagerare è quello che segue i trionfi, perché le sconfitte meritano altro, qualcosa meno di una bevuta in compagnia, molto meno di un brindisi collettivo. Quindi, in linea di massima capita che io sia più lucido nella cattiva piuttosto che nella buona sorte: nel primo caso si pensa, nel secondo si rutta. La cerimonia di consegna del Pallone d'Oro (il più prestigioso riconoscimento individuale che un calciatore possa portarsi a casa) fa storia a sé, è un ibrido nella scala delle certezze e volendo anche dei valori, non lo vinco mai eppure non riesco a essere triste. Premiano sempre altri, e io me ne frego. Nel 2012, ad esempio, cioè appena dopo essere arrivato secondo agli Europei con l'Italia e aver vinto lo scudetto con la Juventus, mi sono classificato settimo con il 2,66 per cento dei voti totali. In pratica: niente. Ha vinto Messi, con il 41,60 per cento delle preferenze, dietro a Ronaldo (l'altro...), Iniesta, Xavi, Falcao e Casillas. Va bene così, Messi è il numero uno e questo è un dato certo, incontrovertibile. Risultato giusto, e poi ormai ho capito che la giuria intemazionale composta da allenatori delle Nazionali, capitani e giornalisti ha un debole per chi sa fare gol. Di conseguenza ha un occhio di riguardo per gli attaccanti, che vengono considerati più decisivi dei loro compagni di squadra, salvo rare eccezioni, compresa quella del 2006 con Cannavaro re. L'importante è svegliarsi al posto giusto nel momento giusto, con il pallone tra i piedi. L'assist è un'appendice. Senza l'ultimo passaggio non ci sarebbe il gol, ma non mi arrabbio quando chi deve scrivere un nome sulla scheda se lo dimentica. Prandelli e Buffon hanno votato per me, però anch'io, come la maggioranza, avrei scelto Messi. Restare ai suoi livelli per così tanti anni è impossibile per qualsiasi essere umano che non sia lui, certo è che alle spalle ha gente che corre e suda al suo posto, che si mette al servizio di chi riconosce superiore. Finché esisteranno lui e Cristiano Ronaldo sarà una lotta a due, anche se in realtà è una corsa solitaria, perché Cristiano Ronaldo arriva sempre secondo. Ora ho la certezza che il Pallone d'Oro sia un pensiero troppo grande per me, un traguardo che non potrò mai raggiungere e me ne sono fatto una ragione. Non seguo neanche la cerimonia di premiazione in televisione, anche se una volta all'anno lo sforzo lo potrei fare. O meglio, lascio Sky Sport 1 acceso in sottofondo e intanto mi occupo d'altro. Restando all'edizione del mio settimo posto, ascoltavo in lontananza gli sproloqui di Blatter, il presidente della Federazione internazionale del calcio, quello che nel 2006 si era rifiutato di 41

consegnarci la Coppa del Mondo per conclamata antipatia verso l'Italia, delegando ad altri l'orribile - dal suo punto di vista - incombenza. Parlava dal palco della Kongresshaus di Zurigo, intanto io giocavo a calcio con mio figlio Nicolò, a Torino. "Papi, vieni, stanno per dire chi ha vinto." "Sì." Non smettevamo di rincorrere la palla. Il fatidico momento si avvicinava. "Dài papi, andiamo a vedere la TV". "Ok." "Veloce, veloce." "Va bene." Perdevamo tempo, e davvero non m'interessava nulla di qualunque segreto stessero per svelare. Fosse il quarto di Fatima o il primo di Blatter. Non ci siamo seduti ad aspettare l'esito, siamo rimasti in piedi, vero è che Nicolò ha prestato molta più attenzione di quanto abbia fatto io, prendendo il telecomando e alzando il volume. "Ha vinto Messi, è arrivato primo." "Sai che novità." Risultato scontato e incontestabile. Ho pensato che la Coppa del Mondo e la Champions League valgono molto più del Pallone d'Oro, però questo ad alta voce non l'ho detto. Altrimenti avrei anche dovuto aggiungere che io le ho vinte tutte e due mentre a Messi il Mondiale manca. Sarei passato per uno snob presuntuoso, e non lo sono. "Ronaldo secondo." "Strano..." "Anche Iniesta sul podio." A Iniesta qualche mese prima era stata consegnata la targa destinata al miglior calciatore dei Campionati Europei. A questo proposito gli organizzatori della UEFA qualcosa mi avevano spifferato a Kiev, prima della finale contro la sua Spagna: "Andrea, il migliore sei tu, però il premio te lo diamo solo se vince l'Italia". Inutile ricordare il risultato: quattro a zero per loro. "Papi, papi, Falcao quinto, Casillas sesto. E Pirlo. Pirlo! Sei tu papà!" "Confermo." "Sei arrivato settimo, davanti a Drogba, Van Persie e pure Ibrahimovič." "Dài, continuiamo a giocare." Siccome è la notizia che conta, eccola: ai primi due posti abitavano altrettanti attaccanti. Tutto nella norma, nelle graduatorie individuali è legge. L'errore clamoroso lo commettono invece i presidenti delle società quando non si accorgono che nella costruzione delle squadre conta altro. Le figurine fanno vendere abbonamenti, la colla che hanno dietro permette di vincere le partite. È la difesa il reparto che pesa di più, perché alla fine i grandi successi nascono dalle retrovie. Trionfa chi prende meno gol. Tecnicamente Ronaldo (quello vero...) è stato il compagno più forte con cui mi sia capitato di giocare, una macchina da 42

guerra, ma in un'ottica più complessiva il migliore è stato Maldini. Difensore. Difensorissimo. Superlativo assoluto. Superlativo e basta. Fisicamente, mentalmente, era completo in tutto, la voglia di divertirsi che aveva quando sono arrivato al Milan era la stessa che dimostrava in campo a quarant'anni. La sua passione era il mio esempio, una bussola che mi accompagnerà non solo per tutta la carriera, ma per l'intera mia vita. Niente punti cardinali, solo punti in classifica. Mi ha insegnato come si fa. A vincere, a perdere, a inventare un gol, a confezionare un assist, a sedermi in panchina, a soffrire, a gioire, a giocare, a comportarmi, ad arrabbiarmi, a perdonare, a porgere l'altra guancia, a dare il primo schiaffo, a essere me stesso e a volte qualcun altro. A stare zitto, parlare, decidere, fidarmi, chiudere un occhio, aprirli tutti e due, valutare il momento, affidarmi all'istinto, sentirmi isola e porto, essere egoista e timoniere, cambiare rotta e indicare la via. Tutto e il contrario di tutto. Maldini è se stesso ma anche un pezzo di me. E non vederlo più al Milan dopo il suo ritiro, magari con un ruolo da dirigente, mi ha fatto molto male. Com'è possibile non trattenere un patrimonio del genere, metterlo sul mercato rischiando di perderlo? Non ho la risposta perché una risposta non esiste. Siamo rimasti amici e quindi ne abbiamo parlato spesso. Non è un segreto che non ci fosse buon feeling tra lui e Galliani, a partire da quando erano sorti certi problemi nella trattativa per il rinnovo di un contratto: il Signor Bic gli proponeva un accordo di un solo anno e Paolo non lo sopportava, si sentiva sminuito, maltrattato. Non offrendogli un ruolo all'altezza, una scrivania che non necessariamente doveva essere dorata, gli hanno strappato a morsi una parte della sua vita. Come Tyson contro Holyfield e infatti alla fine è sempre l'uomo senza capelli quello che vince. Sia che addenti, sia che venga addentato. Anche con Costacurta avevo e ho un grandissimo rapporto, in loro due vedevamo tutti un doppio punto di riferimento per qualsiasi cosa, anche per le cazzate. Che scarpe devo mettere? Lo chiedo a Costacurta. Che cravatta sta meglio? Lo chiedo a Maldini. Qual è la posizione migliore per me in campo? Lo chiedo a Costacurta e Maldini. Come ci si comporta a tavola? Lo chiedo a Maldini e Costacurta. Certe volte, soprattutto i primi tempi, noi compagni ci rivolgevamo a entrambi per il puro gusto di essere considerati, di ricevere un minimo di attenzione. Parlavano e noi vincevamo, si creava un'atmosfera magica che caricava chiunque si avvicinasse. Come a Natale, periodo in cui è sufficiente ascoltare Jingle Bells e vedere un vecchio qualunque vestito da Babbo Natale per venirne coinvolti: il Natale diventa anche tuo. Il Milan negli anni ha avuto in difesa Baresi, Tassotti, Nesta, Thiago Silva, calciatori di un livello eccellente, scudi umani a protezione degli errori altrui. Se un attaccante sbaglia ci può riprovare, se poi fa gol si prende il Pallone d'Oro. Quando invece è il difensore a scivolare, la questione si fa più delicata. In percentuale chi gioca dietro commette meno errori di chi bivacca davanti, così non fosse le partite finirebbero cinque a quattro, o sei a cinque, o giù di lì (squadre allenate da Zeman a parte, perché in quei casi siamo ai confini della 43

realtà). Restando al Milan: finché ha avuto quel tipo di difensori ha fatto quello che ha voluto, e in posizione più avanzata poteva davvero mettere chiunque. Una figurina valeva l'altra. Fossi un presidente, non allestirei mai una squadra con i campioni in attacco e gli scarsi in difesa. E pubblicità ingannevole per i tifosi.

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"Andrea, abbiamo preso questo Huntelaar, quindi devi rimanere." Silvio Berlusconi sorrideva, mentre mi porgeva un foglio appena estratto dalla sua valigetta ventiquattr'ore. Pieno zeppo di numeri e con la fotografia di un ragazzo biondo. Erano le statistiche del nuovo attaccante che aveva appena comprato. Vicino a lui, l'Uomo delle Penne mi scrutava, alla ricerca di un'espressione positiva sul mio volto, tentava di studiarmi, di capire la reazione. C'eravamo noi tre soli nella sala del Camino a Milanello, anche se fuori tutti sapevano che fossimo lì. Ecco, Huntelaar è un ottimo giocatore, sa fare gol, tanti gol, in quel momento arrivava dal Reai Madrid, però non è uno di quelli che possono vincere il Pallone d'Oro. "Allora, Andremo?" Aveva un compito quel giorno il nostro presidente: convincermi a rimanere, riaprire una valigia già posata sul nastro del check-in, pronta per essere prima pesata e poi spedita. Era l'agosto del 2009, avevo trovato un accordo con il Chelsea che come allenatore si era regalato Ancelotti, cioè un papà, un maestro, divertente, simpatico, la persona con cui ho passato gli anni più belli della mia carriera, il massimo degli incontri per un giocatore che abbia voglia di stare bene e dare tutto ciò che ha (meglio anche di Mazzone ai tempi di Brescia, che fino al giovedì lasciava dirigere gli allenamenti al suo vice perché aveva freddo e voleva restare nello spogliatoio infagottato dentro a un cappotto pesantissimo). Lui era la mia motivazione per volare a Londra. Berlusconi, nel frattempo, stringeva nella mano un secondo foglio, una lista con tanti nomi spuntati e uno cerchiato. "Resta, abbiamo preso Huntelaar." Huntelaar... "Potevamo acquistarne altri, c'era anche Claudio Pizarro, ma abbiamo scelto lui." Huntelaar... "Senti, Andrea, non si può fare, cribbio. Sei il simbolo del Milan, una bandiera di questa squadra e abbiamo già venduto Kakà. Non te ne puoi andare pure tu, sarebbe un brutto colpo, anche d'immagine. Non se ne possono andare tutti." Durante la Confederations Cup che avevo appena finito di giocare con la Nazionale in Sudafrica, io e Ancelotti ci sentivamo spesso al telefono, anche perché il fuso orario da quelle parti del mondo era più o meno lo stesso dell'Inghilterra. Non c'era bisogno di alcuna levataccia per ascoltare una serenata. Voleva portarmi a Londra a tutti i costi, e proprio il costo è stato l'ultimo e unico ostacolo. Insormontabile. Il Milan chiedeva troppo, inoltre avrebbe voluto inserire nella trattativa contropartite tecniche come Ivanovič, un difensore di cui il Chelsea non aveva la minima intenzione di privarsi. 61

"Presidente, questo discorso della bandiera mi piace. Però qui il mio contratto sta per scadere e di là me ne offrono uno di quattro anni." A cinque milioni di euro a stagione, ma non erano i soldi a fare la differenza. La durata sì, perché la durata ha sempre la sua importanza. "Ma che problema c'è, Andrea? Di questo parlerai sicuramente con Galliani, ne sono certo. Dallo per scontato." "Siamo sicuri?" "Sicurissimi." Sull'ultima "i" di sicurissimi, il presidente era schizzato fuori dalla stanza e stava dando l'annuncio alla stampa. Con queste parole: "Andrea Pirlo viene tolto dal mercato, resterà con noi e finirà la sua carriera nel Milan". Infatti sono poi andato alla Juventus. È fatto così, Berlusconi. È teatrale e sa esattamente ciò che vuole, quindi è un grandissimo presidente, amante ai massimi livelli del bel calcio. Vincere non gli bastava. Nel momento del suo maggior impegno in politica si è visto poco a Milanello e anche allo stadio, dove si presentava solo per le partite da tutto esaurito. Il derby, le sfide contro il Barcellona, Milan - Juventus. Ha trascorso anni senza passare da noi, e ci accorgevamo della sua assenza, ma in ogni caso tutto veniva spazzato via dalle rare apparizioni al nostro centro di allenamento. È forse difficile da capire, ancora di più da spiegare, però quando sentivamo il rumore del suo elicottero che si avvicinava, dentro di noi scattava qualcosa di positivo. È la sindrome del cane abbandonato: quando il padrone torna, ricomincia a scodinzolare. Una volta sceso a terra, parlava a tutta la squadra, ci caricava come delle molle (da questo punto di vista resterà sempre il più bravo di tutti, un Conte alla presidenza) e poi ci convocava a uno a uno dentro lo stanzino vicino agli spogliatoi, a pochi metri dal campo principale. Amava i colloqui individuali, di solito si intratteneva un po' di più con Inzaghi, che qualche volta chiamava anche al telefono. Avevano molti argomenti di cui discutere. Io, invece, di telefonate da Berlusconi non ne ho mai ricevute. In passato l'ho votato, anche se non ci ha mai chiesto direttamente una preferenza, spesso definiva il pallone sacro e la politica profana. Certo, ci faceva capire che il suo programma era il più completo per fare grande l'Italia, paragonava i successi della squadra alla floridità delle sue aziende, l'abbiamo sentito parlare anche della creazione di un milione di posti di lavoro. Meno uno, il mio. Ci aggiornava ogni tanto sui dati e sulle statistiche, ben diverse da quelle di Huntelaar. Huntelaar... Andava nel profondo della questione se ci vedeva interessati, come accadeva in televisione da Bruno Vespa. Un contratto con gli italiani, ma esposto nei dettagli a Milanello. Poi, all'improvviso, con la coda dell'occhio notava che Ancelotti stava per passare e si bloccava, cambiava discorso: "Carletto, ricordatelo, voglio vedere la squadra giocare con due attaccanti". Come dimenticarlo, gliel'avrà ripetuto un miliardo di volte. A lui e a chiunque altro. "Ancora una cosa Carlo, dobbiamo essere padroni del campo e del giuoco. In 62

Italia, in Europa, nel mondo." Discutevano di questioni tattiche, ma l'ultima decisione è sempre spettata al nostro allenatore, che, per dirla in francese, aveva due coglioni così. Una grande personalità. Nonostante qualche divergenza di opinione, in particolare sul finire della loro esperienza insieme, si sono voluti bene a lungo. La stessa cosa non si può dire per altri tecnici, come ad esempio Terim il turco, di cui proprio Ancelotti sarebbe poi diventato il sostituto e successore. Un personaggio incredibile e strano, allergico alle regole. Si capiva che non sarebbe durato a lungo con noi e infatti è stato esonerato. Veniva da esperienze maturate in società un po' alla buona, dove gli avevano permesso di fare ciò che voleva. Al Milan l'ambiente era diverso. Arrivava a pranzo in ritardo, agli appuntamenti ufficiali senza la divisa, mollava il Signor Bic da solo a tavola per correre a guardare il "Grande Fratello", certe volte girava per Milanello con indumenti di colore sgargiante. Pareva John Travolta. E poi si faceva accompagnare da un intreprete pazzo, che lo seguiva come un'ombra, che a un certo punto gli aveva consigliato di entrare in un silenzio stampa senza fine. Al Milan. Nella società della comunicazione per eccellenza. E negli spogliatoi il traduttore aveva qualche problemino a riportarci esattamente le parole di Terim. Il nostro allenatore, gesticolando, in turco: "Ragazzi, stiamo per giocare una delle partite più importanti della stagione. In molti ci criticano, però io credo in voi e continuerò a crederci. Non possiamo mollare adesso, ci sono delle aspettative su di noi, forti, e abbiamo l'obbligo morale di non deludere nessuno. Facciamolo per noi stessi, per la società, per il presidente, per i tifosi. Ci sono momenti nella vita di un uomo in cui rialzare la testa diventa la prima cosa da fare, e credo che quel momento sia arrivato. Forza ragazzi. Forza". Il traduttore, fermo come un palo, in italiano: "Domani arriva la Juventus, dobbiamo vincere". Uno parlava per cinque minuti, l'altro per cinque secondi. Terim: "Andrea, da te passeranno tutti i palloni più importanti, allarga il gioco, senza fretta. Valuta la situazione e poi dai la palla al tuo compagno libero, a quello che ha meno avversari intorno. Dipendiamo molto dalla tua prestazione, sei fondamentale per questo Milan e per il suo tipo di gioco. Te lo ripeto però: niente fretta, ci vogliono calma e sangue freddo. Prima ragiona e poi passa il pallone, solo così potremo fare una grande partita, dimostrare a tutta l'Italia che siamo ancora vivi. Che venderemo cara la pelle. E adesso tutti in campo, voglio un allenamento straordinario, di intensità. Uno dei migliori dell'anno". Il traduttore: "Pirlo passa il pallone. E adesso andiamo ad allenarci". Trionfali certe riunioni tecniche, in particolare le primissime. Terim si piazzava davanti alla lavagna nello spogliatoio, prendeva il gessetto e disegnava undici cerchietti. Ogni cerchietto rappresentava un calciatore. Solo che a un certo punto c'erano talmente tante scritte, faceva un casino tale che non si ricordava più quali fossero i difensori, i centrocampisti e gli attaccanti. Solo sul portiere 63

non si sbagliava. Indicava un cerchio e diceva: "Allora Costacurta, tu devi fare questo movimento". Rispondevo al suo posto: "Mister, ma quello sono io". Quando scambiava i difensori per gli attaccanti però era il massimo, e ho iniziato a sospettare che lo facesse apposta. Quattro attaccanti in campo e due soli difensori: esattamente il sogno proibito di Berlusconi. Ma anche Terim sapeva benissimo che senza il presidente, quel tipo di presidente, il Milan sarebbe stato nulla, sia a livello economico che di potere. Senza i suoi soldi e il suo impegno la società avrebbe fatto la fine di tante altre. Berlusconi è uno che dopo le vittorie in campo europeo e mondiale, impazziva. Letteralmente. Cantava, strimpellava con il fido Apicella, raccontava barzellette. Il Milan a un certo punto è diventato il club più titolato al mondo, come aveva fatto scrivere anche sulle divise da gioco. Di conseguenza, lui, il presidente più vincente. E ha preso Huntelaar.

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Un bel giorno ho pensato di smettere con il pallone, ma non per colpa di Huntelaar. Non ne volevo più sapere, mi veniva la nausea. Ne avevo mangiato troppo, rischiavo di vomitare. Neanche per colpa di Ibrahimovič e Onyewu, miei compagni al Milan, unico svedese cattivo il primo e unico americano che preferisce il calcio al baseball, al basket, al football, all'hockey e addirittura agli hamburger di McDonald's il secondo. Li ho visti picchiarsi come neanche due bulli della peggiore periferia, durante un allenamento sul campo di Milanello, farsi del male, rompersi le costole, tentare di uccidersi, nonostante i trombettieri del re smentissero o restassero in silenzio. "È stato solo un confronto un po' acceso" dicevano, mentre a noi che abbiamo assistito ha ricordato più un regolamento di conti mafioso, alla Highlander. Ne resterà solo uno. Mi hanno fatto paura, eppure non sono stati loro ad assassinare la mia voglia di futuro (erano troppo concentrati ad annientarsi a vicenda). Ho pensato di smettere perché, vista Istanbul, nulla aveva più senso. La finale di Champions League del 2005, quella vinta dal Liverpool contro il Milan dopo essere stato in svantaggio per zero a tre, mi ha soffocato. In sei minuti ci hanno rifilato tre gol, ai rigori abbiamo perso all'apparenza per colpa di Dudek, quell'asino ballerino, il portiere che prima di parare ci prendeva in giro a passo di danza, ma la vera condanna, nel tempo, è stato capire che la responsabilità era esclusivamente nostra. Come sia potuto accadere non lo so, fatto sta che quando l'impossibile diventa realtà, qualcuno ha combinato una cazzata di troppo. Nel caso specifico la squadra al gran completo, un suicidio di gruppo, tutti per mano giù dal ponte tra il Bosforo e il Dardanelli. Il famoso Stretto, talmente stretto che dopo essere entrata, la supposta è rimasta prigioniera. Ogni tanto la sento ancora dentro che si muove, reclamando il suo spazio e manifestando la sua presenza. Mi chiama per nome, mi prende per il culo nel vero senso della parola. Nello spogliatoio dello stadio Atatürk, appena finito quel supplizio di partita, sembravamo degli ebeti, tanti zombie assetati di sangue, alle prese con un dramma non previsto: il sangue era il nostro e ce l'avevano succhiato fino all'ultima goccia. Non parlavamo, non ci muovevamo, ci avevano cancellati, annientati mentalmente. Il danno, già evidente in quei minuti, nelle ore successive è apparso chiaro in tutta la sua gravità. Insonnia, rabbia, depressione, senso di vuoto: avevamo inventato una nuova malattia dai sintomi multipli, la sindrome di Istanbul. Non mi sentivo più un giocatore, e già questo era devastante, ma neanche un uomo, e questo era peggio. Di colpo il calcio era diventato l'ultimo dei miei pensieri, proprio perché si trattava del primo: un controsenso dolorosissimo.

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Non mi specchiavo, avevo paura che l'immagine riflessa rispedisse indietro uno sputo. L'unica soluzione possibile mi sembrava il ritiro, un ritiro disonorevole. Neanche a "Zelig" mi avrebbero preso, talmente era apparsa penosa - nella sua comicità - l'ultima recita. Intravedevo il capolinea: finita la storia, finita la strada, finito io. Camminavo con gli occhi bassi anche nei luoghi a me più cari, mica per non incrociare sguardi compassionevoli (il minimo che potesse capitarmi), ma perché quando la meta si fa sconosciuta guardare avanti provoca fatica e ansia. L'ansia da non prestazione, perfetta per noi che in Turchia a un certo punto eravamo spariti dal campo. Avevamo giocato il 25 maggio, però in Italia il campionato doveva ancora finire, quindi siamo stati costretti a tornare a Milanello per allenarci, trascinando la croce per quattro giorni ancora. Fino al 29, fino all'ultima giornata di serie A contro l'Udinese a San Siro, e la passerella della vergogna dentro casa nostra è stata la punizione più dura, la sfilata dello scandalo. Modello numero zero: noi. Un breve e intenso periodo di merda, nel senso che non potendo scappare né staccare la spina da quel mondo rovesciato, e dovendo per forza frequentare gli altri complici dell'autofurto (ci siamo rubati la dignità), i discorsi finivano sempre lì. Ci facevamo domande e non davamo risposte, tanti Gigi Marzullo chiamati a una psicanalisi collettiva, con un intoppo non da poco: mancava il dottore. C'erano solo i matti. Uno pensava di essere Shevchenko, l'altro Crespo, un altro ancora Gattuso o Seedorf o Nesta o Kakà. Io, Pirlo. Un ritrovo di impostori, troppi per pensare di farla franca. Dormivo poco e male, e quando mi svegliavo il buongiorno me lo dava un pensiero pesante: "Faccio schifo, non gioco più". Andavo a letto con Dudek e con tutti i suoi compagni del Liverpool, uno stupro calcistico senza fine. Contro l'Udinese è finita zero a zero, il gol questo sconosciuto, e dato che l'incubo è tale perché sai che inizia quando chiudi gli occhi ma non finisce nell'istante in cui li riapri, il tormento è proseguito. Il calendario per noi milanisti prevedeva ancora gli impegni con la Nazionale da (dis)onorare, e Lippi a Coverciano ci ha impiegato un attimo per capire: "Ragazzi miei, siete a pezzi". Complimenti per l'intuito. Se ne sarebbe accorto anche un cieco, la nostra devastazione era leggibile pure in braille. "Grazie comunque per essere venuti." Non capivamo niente. Non connettevamo. Io salutavo i dipendenti del centro tecnico della federazione come se li stessi vedendo per l'ultima volta, perché nella mia testa quella era davvero l'ultima volta. Piuttosto di sentirmi così, era giusto che andassi a fare altro nella vita. Le vacanze, con una lentezza esasperante, hanno aggiustato le cose, ma non fino in fondo. Il primo giorno avrei voluto buttarmi in una piscina vuota, il secondo in una con l'acqua ma senza riemergere, il terzo annegare in quella per i bambini, il quarto soffocare facendo la respirazione bocca a bocca alla paperella. Miglioravo, ma impercettibilmente. Quel senso di assoluta impotenza davanti al destino non mi abbandonerà mai del tutto, un pezzettino resterà per l'eternità aggrappato ai miei piedi, tentando di tirarmi giù. Se ancora oggi sbaglio un 66

passaggio, è possibile che dipenda da quella forza maligna. La stessa che mi tiene lontano dal lettore DVD, perché Milan - Liverpool è un nemico che non mi deve ferire una seconda volta. Ha già fatto abbastanza danni, più nascosti che evidenti. Non la rivedrò quella partita, l'ho già giocata e rigiocata, una volta dal vivo e le altre alla ricerca di un perché che forse neanche esiste. Tifando per un epilogo diverso, come nei film che riguardi sperando di aver capito male l'ultima scena, perché no, il protagonista buono non può morire così. Siamo risorti due anni dopo, nel 2007, sempre contro gli inglesi, sempre in una finale di Champions League. Ad Atene li abbiamo battuti con doppietta di Inzaghi - uno dei due gol l'ha segnato perché gli è sbattuto addosso il pallone calciato da me - eppure l'intensità della gioia è stata inferiore rispetto a quella del tonfo delle armi che cadevano, una dopo l'altra, sul prato della città sconsacrata. La vendetta è un piatto che va servito freddo, dicono. In Grecia il cadavere era ancora tiepidino, quindi abbiamo esultato ma non dimenticato. Avremmo voluto, non ne siamo stati capaci. La macchia resta, tanto che qualcuno aveva proposto di aggiungere nei corridoi di Milanello, proprio di fianco alle immagini dei trionfi, un drappo nero, a imperitura memoria. Un messaggio ai posteri, un modo per raccontare che sentirsi invincibili è il primo passo verso il punto di non ritorno. Io il risultato di quella partitacela lo aggiungerei all'albo d'oro della società, lo scriverei nel bel mezzo dell'elenco di coppe e scudetti, con un inchiostro diverso, con un carattere riconoscibile, per sottolinearne la presenza stridente. Sarebbe imbarazzante, ma allo stesso tempo accrescerebbe il valore della lista dei successi. È il segreto delle massaie, che vanno al supermercato e nel carrello della spesa ci buttano il prosciutto San Daniele, l'acqua Panna, il parmigiano DOC, il barolo e uno yogurt bianco, magro, triste. Una volta a casa il marito e i figli lo notano, per nessuno di loro è la prima scelta, trovano il coraggio e in coro dicono: "Mamma, amore, lo yogurt bianco mai più". Lo individuano per quello che è: un errore madornale, una caduta di stile, un'eccezione che rafforza la regola. Grazie all'alimento intruso il resto emerge e sta qui l'intelligenza sottile della casalinga, che aveva previsto tutto. Un piano perfetto per esaltare certi gusti sacrificandone un altro. Lo yogurt incolore, nel frigorifero, i famigliari non lo troveranno mai più, esattamente come io spero di non vivere mai più una serata come quella del 25 maggio 2005. Non sarei in grado di sopportarla, neanche fossi un gatto alla settima e ultima vita. Piuttosto, mi suiciderei gettandomi in una vasca piena d'acqua oppure facendo una passeggiata dentro una gabbia di dobermann famelici. Dai momenti bui ci si deve sforzare di trarre un insegnamento. Scavare in profondità è un obbligo morale, per trovare un barlume di speranza, una perla di saggezza, una frase elegante che resti e ti renda il percorso meno amaro. Io l'ho fatto e non riesco ad andare oltre a questo: porca puttana.

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Sì, porca puttana. Porchissima. Come Istanbul, capitale del male e della maleducazione indotta. Non essendo scaramantico, a qualcosa mi devo pur appigliare, e allora mi scarico così, dicendo qualche parolaccia. È il massimo che mi possa concedere per difendermi dal destino, quando aggredisce senza pietà. Altri passano a cose pesanti, si dedicano direttamente alla stregoneria, come Alberto Gilardino, mio compagno di squadra al Milan e in Nazionale. Nella sua sacca, oltre al corredo del perfetto calciatore - accappatoio di Dolce & Gabbana, ciabatte di Dolce & Gabbana, completo di Dolce & Gabbana, mutande di Dolce & Gabbana, occhiali di Dolce & Gabbana, profumo di Dolce & Gabbana e gel dell'Oreal, solo perché Dolce & Gabbana non lo prevedono in catalogo - infilava sempre un paio di scarpe da calcio vecchie, brutte, rotte, con i tacchetti svitati e la pelle che puzzava. Un reperto archeologico. Però erano pulitissime, tenute come un tesoro. Le lucidava, le accarezzava, a volte ci parlava e le baciava. Roba da manicomio. Lo sponsor tecnico gli vietava di usarle per le partite ufficiali (il modello era quello che calzava Attila, re degli Unni), spiegandogli che ormai le televisioni in bianco e nero erano fuori produzione, che Sandro Pertini aveva smesso da un bel pezzo di giocare a carte sugli aerei e che John Fitzgerald Kennedy era stato assassinato. Soprattutto davanti a quest'ultima notizia restava sempre un po' sbigottito, non se ne faceva una ragione ("Dici sul serio?"), ma quando si riprendeva tirava di nuovo fuori l'orgoglio: "Io non le butto". "Gila, ma perché? Hanno i buchi come l'emmental." "Perché con queste ho segnato una valanga di gol: se le inserisco dentro la borsa da portare al campo, trasmettono il fluido alle scarpe nuove." "Gila..." "Il fluido magico." "Gila..." "Te lo giuro. E più le schiaccio tra gli altri indumenti, maggiori sono le probabilità che il fluido fuoriesca dalle suole e si propaghi fino ad arrivare al nuovo paio. Che agisca in fretta provocando l'effetto desiderato." "Vanno spremute come un limone, insomma, per poi spargerne il succo." "Bravo Andrea, finalmente qualcuno che lo capisce. Non è che ci voglia un genio." "Su questo hai ragione, non ci vuole un genio..." Credo risalissero ai tempi in cui giocava nella Biellese o giù di lì. Davanti a quei ruderi con le stringhe sfilacciate gli partiva il cervello, regrediva, erano il suo amuleto, senza si sentiva perso: "Se me le porto dietro faccio gol, se invece le dimentico a casa chiedo al mister di mandarmi in panchina, tanto non riuscirei a combinare nulla di buono". 68

Sempre meglio di Inzaghi comunque, perché il suo rito era decisamente più invasivo. Cagava. Cagava tantissimo, e questo di per sé è un bene, il fatto però che la facesse allo stadio, nel nostro spogliatoio, poco prima di giocare, ci rendeva alquanto nervosi. In particolare se lo spogliatoio era piccolo, perché tanta puzza in poco spazio tende a comprimersi. Andava in bagno anche tre o quattro volte nel giro di dieci minuti. "Ragazzi, mi porta bene." A pestarla mi avevano raccontato, non a produrla o annusarla. "Pippo, a noi no. Ma cos'hai mangiato, un cadavere?" "I bambini, comunista!" avrebbe urlato Berlusconi, mentre Inzaghi si limitava ad ammettere: "I Plasmon". In effetti la domanda era mal posta. Lui i Plasmon li mangiava per davvero, tutti i giorni, a tutte le ore, e noi lo sapevamo. Un neonato di quasi quarant'anni. Alla fine ne doveva per forza avanzare due e lasciarli sul fondo della confezione, non uno di più e non uno di meno: "In questo modo la congiuntura astrale sta dalla mia parte". Il famoso allineamento dei pianeti e dei biscotti. "E per carità, non toccate quei due che restano, altrimenti cambia l'equilibrio." Intestinale, probabilmente. Abbiamo tentato di rubarglieli in tutti i modi, senza successo. Li custodiva gelosamente, egoista nel passare la palla e nel condividere la merenda: "Lo faccio per il vostro bene, i miei gol vi servono". Al di là del dessert per poppanti, vigeva una monotonia assoluta anche nella scelta degli altri suoi piatti: pasta in bianco con un pizzico di sugo rosso e bresaola a pranzo, pasta in bianco con un pizzico di sugo rosso e bresaola a cena. Un menu lungo una vita. A tavola si comportava come quando si trovava davanti al portiere avversario: faceva sempre la stessa cosa, senza fantasia ma con il massimo dell'efficacia. Durante i pasti stava seduto ad aspettare che il cameriere gli portasse le pietanze e quasi lo imboccasse, durante le partite che una palla in qualche modo gli carambolasse addosso e finisse in rete. Con ai piedi due scarpe che non cambiavano mai, buone per tutte le stagioni, coccolate con un amore sospetto (con il passare degli anni ho realizzato che gli attaccanti sono feticisti). Senza fluido magico, ma con mille rattoppi. Come quelle di Gilardino risalivano all'antichità, però c'era una differenza sostanziale nell'atteggiamento del proprietario: "Io, nonostante siano distrutte, continuo a usarle, nessuno potrà mai farmi cambiare idea. Solo queste sono morbide". "Cosa stai dicendo, Pippo? Tutte le scarpe dei calciatori professionisti sono morbide." "No, ti sbagli. Solo queste lo sono." Un pazzo totale, ma un pazzo buono. Molto simpatico. Non era messo meglio - o peggio - Sebastiano Rossi, portiere, un omone di due metri, un armadio con una mania inspiegabile: prima delle partite, durante la fase di riscaldamento, nessuno poteva passargli dietro. Vietatissimo dal suo regolamento: "Porta male, farlo sarebbe come segnarmi un autogol". Noi al Milan conoscevamo tutti questa sua debolezza, di certo non andavamo a spifferarla agli avversari. Quindi 69

neanche ad Angelo Peruzzi, altro portiere che un giorno transitò dal nostro stadio. A San Siro c'era una palestrina dove si riscaldavano le due squadre, insieme. Rossi stava facendo un esercizio con il nostro preparatore, con la schiena appiccicata al muro, da cui non si spostava mai. Gli è caduto dalle mani il pallone, ha fatto due passi in avanti per raccoglierlo e proprio in quel momento ha visto Peruzzi avvicinarsi. Stava camminando tranquillamente, puntava proprio verso di lui. Rossi si è completamente disinteressato di tutto il resto e, per sbarrargli la strada, l'ha colpito con una schienata tremenda. Si è sentito il rumore, poi si sono ascoltate queste parole: "Vattene da un'altra parte, questa è proprietà privata. Dietro di me non passa nessuno". Come se avesse appeso un cartello con la scritta io non posso entrare, con il suo muso al posto di quello del cane. La reazione non c'è stata solo perché Peruzzi ha capito che i folli vanno assecondati, non aggrediti. "Seba, hai rischiato di fargli male." "Peccato non esserci riuscito." Nello spogliatoio requisiva tutte le forbici, utilizzate soprattutto per tagliare il nastro adesivo necessario per tenere bloccata la calza sui parastinchi. Doveva infatti essere lui il primo a usarle, solo in un secondo momento noi compagni avevamo il permesso di prenderle: "Se cambiamo questa abitudine, sento che la sfiga ci travolgerà". Quando lo diceva io mi toccavo le palle, sia mai che una volta nella vita anche lui avesse ragione. Alla Reggina l'uomo da studiare era invece Paolo Foglio, un difensore che non andava a dormire fino a quando non era riuscito a mettere le sue scarpe da ginnastica in piedi, in bilico contro il muro, una sopra l'altra. Esercizio di rara geometria. Era divertente osservarli alle prese con i loro improbabili esorcismi, che dal mio punto di vista avevano l'aspetto di pure e semplici perdite di tempo. Di solito una scaramanzia inizia dopo che qualcosa è andato storto: troppi gol presi per un portiere, l'incapacità momentanea di segnare per un attaccante, un improvviso sciopero alla Plasmon per Inzaghi. Io resto lucido anche nei momenti difficili, che per fortuna sono stati pochissimi, e credo che anche gli altri, dall'esterno, siano contenti di notare in me i comportamenti di una persona normale, senza troppi eccessi. Mi piace quando sento qualche genitore rivolgersi così ai propri figli: "Pirlo è uno a posto, prendete esempio da lui". Si può essere forti, molto forti, anche senza eccessi sul campo. Si può essere un punto di riferimento anche senza la cresta sulla testa. Non mi piacciono neppure i tatuaggi, pur avendone tre piccoli e ben nascosti: il nome di mio figlio Nicolò in caratteri cinesi sul collo, la A di sua sorella Angela appena sotto, il nome di mia moglie Debora sull'anulare, coperto dalla fede. Sono invisibili agli altri, certi sentimenti devono appartenere solo a me. Li sento sulla pelle, li voglio sulla pelle. Alla Juventus gli scaramantici sono pochissimi rispetto a tutte le altre squadre in cui ho giocato: essendo Conte molto religioso (prima di entrare in campo bacia santini e crocifissi, madonne e rosari), certe scene tribali non le tollererebbe. Un'eccezione in realtà esiste: il presidente Andrea Agnelli. 70

Durante la mia prima stagione bianconera ha saltato tutte le trasferte: "Mi sento sicuro della vittoria solo a Torino, fuori le vibrazioni potrebbero essere negative". Abbiamo vinto lo scudetto, battendo il Cagliari allo stadio Rocco di Trieste: lui non c'era, ma non si discute. Chi mi paga lo stipendio ha sempre ragione.

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Suo zio era l'Avvocato, suo padre il Dottore, lui Andrea. Un semplice tra gli speciali, tutti Agnelli allo stesso modo. Di nome, ma di fatto leoni. Mai in gabbia, liberi di mischiarsi alla gente comune, perché Andrea è uno di noi, uno di loro, un tifoso privilegiato, nel senso che le sue parole hanno la forza di far scattare in piedi i giocatori. Che sono suoi e di tutti, è una condivisione comunista dentro un feudo capitalista. Lui paga, gli altri esultano e poi esulta anche lui. La Juventus non è il suo giocattolo, è un'entità più grande, superiore, una passione di famiglia, una proprietà privata eppure pubblica. Ereditata, coltivata, ingigantita. Un presidente. Il presidente. Viene dal passato e costruisce il futuro, il presente esiste e resiste, è un punto cruciale sulla linea del tempo bianconero, eppure di passaggio. Il suo motto è: "Lavorare, lavorare". Potrebbe farne a meno, ma ne sente il bisogno: "Solo così si possono raggiungere gli obiettivi più ambiziosi e vincere". Tiene alla sua società in maniera quasi morbosa, gli amici sono i benvenuti e i nemici persone da fermare, il prima possibile. Davanti a loro diventa cattivo, lui che cattivo non è. Li maltratta, risponde a tono, ogni mancanza di rispetto verso la Juventus è un pugno in faccia ad Andrea, che reagisce. Ruggisce. Si dimena e picchia, con parole che sono sentenze. Con la squadra è un presidente dolcissimo, non alza mai la voce, nella buona e nella cattiva sorte, finché morte non ci separi, perché ci ha sposati, prima pensa a noi e poi a se stesso. Ci vuole bene e ce ne siamo accorti. Come Conte, sa scegliere il momento giusto per dire le cose che servono. Con un tono più basso, all'apparenza quasi dimesso. Potrebbe parlare di Gianni Agnelli, di Umberto Agnelli ma non lo fa. Potrebbe parlare di Michel Platini, di Roberto Baggio, forse addirittura di Alessandro Del Piero, ma non fa neanche questo. Non scende nei particolari della storia di una dinastia, di una squadra, non ama fare paragoni, rischierebbe di creare imbarazzo. Non sarebbe elegante. Però tante volte gli ho sentito ripetere questo: "Giocare qui dev'essere un privilegio, una cosa bella, un destino per pochi e per il quale ringraziare il cielo. E tutti quelli che hanno vestito la maglia della Juventus, prima o poi, hanno vinto. Uno, dieci, cento trofei. Questo club è tutto, ma lo deve essere anche per voi. Dovete sentirvi juventini dentro, rendere la vostra avventura sempre più grande, amplificarne la gloria a dismisura. Prendete esempio da chi vi ha preceduti, siate esempio per chi verrà dopo". Un mattone dopo l'altro: la felicità deriva da un progetto relativamente semplice. Anche quando parla di altro, l'argomento rimane in realtà la Juventus. Nel nostro spogliatoio viene sempre, ma non necessariamente per dire qualcosa. Durante un periodo di flessione, nella stagione successiva a quella dello scudetto vinto a Trieste, è capitato che tirasse in ballo la Ryder Cup di golf, altro sport che 72

adora: "Ragazzi, esiste una competizione che si gioca ogni due anni e che mette di fronte le selezioni dei più forti giocatori di Europa e Stati Uniti. È il meglio, il punto più nobile che un golfista possa toccare, il paradiso che non può attendere". Nel 2012 è stata ospitata dal Medinah Country Club, non troppo distante da Chicago. "Al termine delle prime due giornate di gara gli americani erano avanti di dieci a sei, a un passo dalla vittoria, dal sogno, da tutto. Servivano solo quattro punti e mezzo per vincere, e per chi non lo sapesse, sono davvero pochi. Gli europei avevano invece bisogno di otto singoli su dodici per pareggiare e quindi per mantenere il trofeo, di cui erano detentori." Stava sostanzialmente parlando di persone con un cappellino dotato di visiera in testa, una mazza in mano e scarpe lucide ai piedi, quindi di due mandrie di lord a passeggio su prati perfetti. Eppure era riuscito a catturare la nostra attenzione. Ci stavamo emozionando, stava toccando le corde giuste. Il silenzio era totale, proprio come se stessimo respirando piano anche noi ai bordi di quel green in Illinois. "Durante l'ultima giornata di gara, la squadra europea ha costruito un miracolo. Non solo ha pareggiato, ma addirittura ha vinto. Con la forza della volontà, perché la volontà può tutto. Abbatte i muri, azzera le differenze, permette di volare. Gli Stati Uniti, impotenti, hanno assistito alla più grande rimonta nella storia della Ryder Cup. L'hanno subita, ne sono stati travolti, coinvolti loro malgrado. Pensate che i giornali, da quelle parti, hanno parlato di 'The Miracle of Medinah', il miracolo di Medinah. Ragazzi, avanti tutta, non molliamo nulla." Sarò fuori di testa, ma mi sono venuti i brividi. Per un momento Andrea mi ha ricordato Al Pacino nella straordinaria intrepretazione di Ogni maledetta domenica, film di culto in cui interpretava l'allenatore di una squadra di football. Parole indimenticabili, il cinema che ti fa battere il cuore. Guardavo il nostro presidente e vedevo l'attore americano, mentre con una voce roca impartiva la sua lezione: "Ora noi o risorgiamo come squadra o cederemo. Un centimetro alla volta, uno schema dopo l'altro, fino alla disfatta. Siamo all'inferno adesso, signori miei. Credetemi. E possiamo rimanerci, farci prendere a schiaffi, oppure aprirci la strada lottando, verso la luce. Possiamo scalare le pareti dell'inferno, un centimetro alla volta. Io però non posso farlo per voi". Quindi, l'abbiamo fatto noi per lui. E poi sono tornato a casa, ho acceso il computer e la ricerca sulla Ryder Cup è partita. Ne volevo sapere di più, Andrea mi aveva caricato e anche incuriosito. Ho imparato i nomi dei protagonisti. José Maria Olazabal, capitano non giocatore. E poi Rory McIlroy, Justin Rose, Paul Lawrie, Graeme McDowell, Francesco Molinari, Luke Donald, Lee Westwood, Sergio García, Peter Hanson, Martin Kaymer, Nicolas Colsaerts e Ian Poulter. Sono dodici, esattamente come in dodici siamo abituati a vincere noi juventini: la versione dei detrattori è che ci 73

aiuta l'arbitro, quella vera è che il pubblico scende in campo al nostro fianco. Sempre, in casa e in trasferta. Loro, noi, Andrea, tutti per uno e Andrea per tutti. Io e lui ci siamo piaciuti dal primo minuto. L'incontro che ha rotto il ghiaccio è avvenuto nella sede della Juventus, in corso Galileo Ferraris a Torino, il giorno in cui ho firmato il contratto, davanti ai fotografi e alle telecamere. "Sono felice che tu sia qui, Andrea" ha detto lui. "Sono qui per vincere, Andrea" ho risposto io. "Con questa dichiarazione mi fai sentire bene." Mi ha fatto una bellissima impressione fin da subito, e credo che lui pensi la stessa cosa di me. Quasi un colpo di fulmine sportivo, e non era scontato che accadesse, considerata la mia provenienza. Dal Milan con furore. Conoscendolo, ho poi scoperto un altro aspetto che ci rende molto simili: appena ha vinto una cosa, ne vuole subito vincere un'altra. Non si accontenta, ha imparato (in fretta) come si battono i titani. Ha ridato alla Juventus la mentalità di un tempo, che da avversario mi aveva sempre provocato enorme fastidio: giocavi contro di loro e sapevi che combattevano all'ultimo sangue, fino all'ultima goccia di sudore, senza risparmiarsi, prendevano botte e si rialzavano, segnavano un gol e dopo pochi minuti ne segnavano un altro, li intimidivi e loro si arrabbiavano, e arrabbiati sembravano ancora più forti. Calciopoli avrà anche dato una mano a quella Juventus, però resterò convinto per tutta la vita che avrebbe comunque vinto le stesse cose basandosi semplicemente sulle proprie forze. Senza aiutini esterni. Ecco perché, pur provenendo da un mondo che per un certo periodo ha criticato gli juventini e ha fatto loro guerra, dopo quello scudetto conquistato a Trieste ho indossato la maglia con la scritta 30 SUL CAMPO. Uno scudetto tolto, non assegnato o regalato ad altri, in fondo in fondo resta uno scudetto vinto. Se non sei bianconero, o comunque se non lo diventi, non lo potrai mai capire. È stato un ritorno alla normalità, un atterraggio morbido che la turbolenza ha ritardato di qualche anno. Il fatto che Andrea sia un presidente combattivo dentro il corpo di una persona che non se la tira, che vive come qualsiasi uomo della sua età, è stato d'aiuto. Gira tranquillamente per Torino, in jeans e camicia, e si ferma con chiunque abbia voglia di parlare. Risponde alle domande dei tifosi, raccoglie i consigli, ascolta le critiche, spiega il suo punto di vista senza nascondersi. Vive la città, respira l'umore della gente, in futuro lo vedrei bene come sindaco. Dopo il suo primo scudetto ha festeggiato insieme a noi, alla discoteca Cacao, al Parco del Valentino. Si è scatenato, ha ballato, ha bevuto, addirittura si è lanciato nel karaoke. Non mi ricordo se la canzone scelta era Vaffanculo di Marco Masini (pur essendo lui un tifoso della Fiorentina), ma mi piace pensare che le cose siano andate così. Dedicato a tutti quelli che non ci credevano. Ci ha detto grazie: "Siete il mio orgoglio. Sono presidente da poco tempo, mi avete fatto un regalo straordinario. Sapevo che saremmo diventati i migliori in Italia, però pensavo che avremmo impiegato più tempo. Ah, adesso l'Italia non mi basta più". 74

Nella testa, ho sentito la musichetta della Champions. Andrea mi ha fatto l'occhiolino. Andrea Agnelli. Cento per cento Agnelli.

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Andrea, al primo scudetto acquisito, mi aveva inquadrato nel suo mirino. Guardava verso di me, sparava fiori al posto dei proiettili, fate l'amore e dimenticate la guerra, se vi avanza tempo fate anche un gol e dedicatemelo. Incredulo, leggero come il sogno che stava vivendo, era al settimo cielo, felice. Zero nuvole, trenta raggi di sole sul campo, e poi la voglia poco ortodossa di fissarli, di bruciarsi la retina, perché quando osservi il paradiso gli occhiali scuri non servono, anzi, macchiano un volto che sorride, lo rendono opaco, ruvido, poco definito nei suoi spigoli arrotondati. Nulla però in confronto agli sguardi languidi che mi ha lanciato André Schembri, centrocampista di Malta, in una notte emiliana come tante. Si era invaghito di me, ne sono sicuro. Gliel'ho letto negli occhi, a forma di cuoricino. Me li ha appiccicati addosso al primo minuto della partita che l'Italia ha giocato a Modena contro la sua Nazionale, se li è ripresi negli spogliatoi alla fine, senza pagare alcun tipo di riscatto. Era il 2012, soprattutto era l'11 settembre: lui un kamikaze del calcio, forse dell'amore. Il pallone non gli interessava, come se fosse stato sgonfio e quindi un accessorio senza alcuna utilità, contava solo la mia presenza al suo fianco, o meglio la sua al mio. Rotolavamo insieme, io e la mia ombra imperfetta, mi muovevo e mi inseguiva, abbassavo il ritmo e tirava il freno a mano, ero vittima di un incontro ravvicinato del terzo tipo. Avrei chiamato i carabinieri se fossimo stati soli in un vicolo buio e non su un campo da calcio, davanti a ventimila persone. Travolto da una passione violenta, perché mi ha anche picchiato. "Oh, ma che cazzo fai?" "Scusa?" "Cosa stai facendo? Mi fissi, talmente tanto che ormai conosci a memoria la mia faccia, mi prendi a calci e non hai ancora toccato un pallone. Ma pensa a giocare, non a scodinzolarmi intorno." "Impossibile, il nostro allenatore mi ha detto che devo pensare solo a marcarti, a quello e a nient'altro. La mia missione è fermarti." "Sì, ma il pallone è là in fondo, è lontano da noi, lasciami respirare, non stare a dieci centimetri da me." "E chissenefrega del pallone, io devo guardare solo te, te e basta." Avesse avuto l'anello, si sarebbe dichiarato. Mi avrebbe fatto la proposta: "Io, André, prendo te Andrea come mio legittimo bersaglio per scalciarti, seguirti, sgambettarti tutti i giorni della mia vita, finché arbitro non ci separi". Quel comportamento mi ha innervosito parecchio, ogni volta spero che le sanguisughe siano una specie in via di estinzione, non una categoria di animali in calore, e

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rimango deluso. Malta giocava contro l'Italia, Schembri contro di me. Da andare fuori di testa, snervante. "Ti diverti così? Mi dispiace per te..." "Che io mi stia divertendo non l'ho mai detto, è una tua supposizione, sto semplicemente eseguendo gli ordini del mio allenatore." "Così non ti godi la partita." "Neanche tu però." Aveva perfettamente ragione. Neanch'io, e non era la prima volta. Un tempo gli allenatori avversari obbligavano il loro uomo migliore a marcare il trequartista, cioè l'avversario con più classe e raffinatezza. L'obiettivo era chiaro: impedirgli di toccare la palla. Poi la situazione è cambiata, il calcio si è evoluto, adesso le attenzioni maggiori le dirottano verso i centrocampisti centrali che pensano e che costruiscono il gioco, cioè verso i calciatori come me, a cui mettono alle calcagna il loro uomo peggiore. Finisce sempre allo stesso modo, esco dal campo con i lividi, addirittura in una partita contro la Roma ad aggredirmi ci si è messo Francesco Totti, uno che ogni tanto scatti del genere li ha, ma dopo mi ha chiesto scusa e va bene così. Ha commesso un fallo non da lui, sono sicuro non l'abbia fatto apposta. Non è facile addomesticare per novanta minuti un mastino che ti rincorre, lui cane e io osso: è diventata la prassi ma non mi abituerò mai. È una mossa che avvicina il calcio al wrestling e non mi piace. I miei inseguitori di solito sono persone con cui alla fine scambio la maglia l'ho data anche a Schembri - perché a forza di sentirmi osservato, al termine delle partite è come se li conoscessi da una vita. Vorrei seminarli, cerco di muovermi, di trovare delle soluzioni per riuscire a prendere la palla e fare il mio solito gioco, impostare i miei movimenti anche con le catene alle caviglie, però ci sono giorni in cui è davvero difficile. Chi non ha classe ha comunque gambe e fiato, è un robot senza cervello ma con il fisico di un palestrato invasato, quindi se lo salto in dribbling non mi prende più ma se ci sbatto contro mi faccio male. Gli allenatori delle altre squadre hanno paura di me, altrimenti non si affiderebbero a tattiche del genere, però saperlo rappresenta una magra consolazione. Quasi tutti quelli che mi pedinano si occupano solo un po' della fase offensiva, attaccano proprio se sono obbligati, ma quando perdono la palla ritornano da me e si dimenticano di tutto il resto. Vogliono abbattermi. Addirittura sir Alex Ferguson, il manager paonazzo che ha rinforzato il Manchester United rendendolo una corazzata, l'uomo senza macchia, quando mi ha visto è caduto in tentazione, rovinando per un attimo la pulizia e la sobrietà lineare del proprio passato. Uno squallore passeggero ne ha intaccato il mito. In uno dei tanti nostri incroci, quando giocavo nel Milan, sulle mie tracce ha sguinzagliato Park Ji-Sung, il primo coreano della storia a scherzare con il nucleare, nel senso che sul campo viaggiava alla velocità dell'elettrone. Andava avanti, tornava indietro, provava ad attaccare e se non ci riusciva si fiondava da me, mi metteva le mani sulla schiena, faceva sentire la sua presenza, mi intimidiva, guardava il pallone e non ne riconosceva il significato. Un oggetto 77

rotante non identificato. L'avevano programmato per fermare me e a quello, solo a quello, si è dedicato con una dedizione commovente. Nonostante fosse già famosissimo, si è prestato a giocare una partita come un cane da guardia, autolimitando le proprie potenzialità. Vivo tutto come un'enorme ingiustizia, e non di rado mi è capitato di provare pena per il mio controllore di giornata, un calciatore, prima di tutto un uomo, a cui è stato chiesto di scendere in campo senza dignità, per distruggere e non per costruire, disposto a fare una pessima figura purché riuscisse a farla fare anche a me. Sono uno zingaro errante sul campo, un centrocampista alla continua ricerca di un angolo non inquinato, dove potermi muovere libero, almeno per un attimo, senza marcatori asfissianti o maltesi assatanati alle co- stole. Pochi metri quadrati in cui essere me stesso, continuando a professare il mio credo: prendo la palla, la do a un compagno e quel compagno fa gol. Si chiama assist, è una felicità indotta. Sarà per questo affannoso spostarsi da una zona all'altra del prato, comunque a piedi e senza roulotte, che a un certo punto si è sparsa la voce che io venissi da una famiglia Rom, anzi, per la precisione Sinti. Prima di Italia - Romania, agli Europei del 2008 in Austria e Svizzera, l'ha scritto un giornale, dando ampio risalto al servizio. All'inizio ho lasciato stare, ho sorriso davanti ai titoloni, poi il bombardamento mediati- co si è fatto insostenibile, sono uscite cose pesanti, non vere, dettagli relativi alla mia famiglia. Sono andati a vedere tutto quello che facevamo e l'hanno scritto, diffondendo notizie sulle nostre abitudini, sui luoghi che frequentavamo, sulle persone che incontravamo, invadendo in maniera fastidiosa e pericolosa la nostra privacy e quella delle persone vicine a noi. Mi sono fatto un'idea precisa di come possa essere nata una voce del genere. Oltre che della produzione del vino, mio padre Luigi si occupa anche di siderurgia, attraverso la Elg Steel, un'azienda in cui lavora tra gli altri mio fratello. Siccome il commercio e la lavorazione dei metalli rappresentano tradizionalmente il lavoro più diffuso tra i Sinti, qualcuno ha voluto fare uno più uno e dal risultato, da un due molto sporco, è nata quella serie di articoli strampalati. Se avessi fatto una rettifica utilizzando toni forti, se avessi negato in maniera evidente, avrei rischiato di offendere qualcuno. Sarebbe sembrata una presa di distanza da una comunità, una presa di posizione contro tante persone, qualcuno avrebbe potuto interpretare male la mia voglia di riaffermare la verità, scambiandola per un atto di razzismo. Questo è un rischio che non volevo assolutamente correre, per il semplice motivo che i razzisti mi fanno schifo. Io non sono Sinti, ma raccontarlo pubblicamente avrebbe potuto creare una serie di contrattempi, più a loro che a me, a quel punto sarebbe stata la loro privacy a essere invasa e fatta a pezzi. Sarebbe partita comunque la caccia all'intervista, per

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raccontare il mondo che Andrea Pirlo aveva citato, conosco i rischi di certe situazioni mediati- che e ho preferito evitarli. Le persone appartenenti a quell'etnia fanno semplicemente parte di un'altra cultura, sono un altro popolo, loro sono fatti in un modo e noi in un altro, due storie ugualmente belle, pezzi di uno stesso puzzle. Non l'ho fatto allora, rimedio adesso, dicendo ciò che avrei voluto raccontare: la mia famiglia è sempre stata lombarda, sono bresciano, sono italiano non di origine Sinti e soprattutto contro i Sinti non ho nulla. Sarebbe grave il contrario.

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Sono anche un po' brasiliano. Pirlinho. Quando calcio le punizioni penso in portoghese, poi al limite esulto in italiano. Le tiro alla Pirlo, sono palloni che viaggiano con l'effetto, racchiusi dentro una definizione che non mi dispiace, dentro una parabola quasi biblica. Portano il mio nome, come se fossero tutte figlie mie. Si assomigliano ma non sono gemelle, pur avendo tutte una matrice sudamericana, in particolare una stessa fonte d'ispirazione: il centrocampista Antônio Augusto Ribeiro Reis Junior, passato alla storia come Juninho Pernambucano. Quando giocava nel Lione sapeva inventare traiettorie straordinarie, posava la palla in terra, si contorceva rapito da movimenti non convenzionali, prendeva la rincorsa e faceva gol. Non sbagliava mai, ho guardato le statistiche e ho capito che non poteva essere un caso. Un direttore d'orchestra montato al contrario, con la bacchetta tra i piedi, uno che il segno di "Ok" lo faceva con l'alluce, non con il pollice. Uno scherzo ben riuscito dell'Ikea. L'ho studiato, ho raccolto CD, DVD, addirittura vecchie fotografie delle sue partite, e alla lunga ho capito. Non è stata una scoperta immediata, ci sono volute pazienza e costanza. Calciava in maniera particolare, e questo era evidente, mi era chiaro il modo ma non il metodo. Quindi andavo al campo e provavo a imitarlo, all'inizio senza alcun risultato. Le prime volte il pallone finiva due metri sopra la traversa, o tre metri sopra il cielo - senza Ponte Milvio né lucchetti - o al di là delle recinzioni di Milanello, e allora mentivo, portavo i tifosi appostati all'esterno a credere che l'avessi fatto apposta: "Ragazzi, questo è per voi, un regalo da parte mia", sorvolando sul fatto che l'allenamento fosse a porte chiuse, di conseguenza vietato agli estranei, e che quelle persone stessero spiando da un posto non consentito. Quindi, raccontando bugie a dei fuorilegge, non commettevo peccato né reato. Dopo tre giorni così, stavo nettamente sui maroni al magazziniere del Milan, a cui giravano palle e palloni. Gli esperimenti sono proseguiti per settimane e, siccome i pensieri migliori nascono nei momenti di massima concentrazione, e la massima concentrazione, come insegna Inzaghi, si raggiunge anche cagando, l'illuminazione è arrivata mentre mi trovavo in bagno. Sarà poco romantico, ma è andata esattamente così. La ricerca della verità non mi abbandonava mai, pensavo sempre a quello e nell'istante dello sforzo massimo hanno ceduto gli argini, in tutti i sensi: la ricetta della magia che stavo inseguendo non dipendeva dal punto in cui veniva colpita la palla, ma dal come. Juninho non la prendeva con tutto il piede, bensì con sole tre dita. Il giorno dopo sono partito prestissimo da casa, addirittura ho saltato la classica sfida alla Playstation con Nesta e mi sono fiondato sul campo di Milanello. Con i mocassini, non servivano le scarpe con i tacchetti per dimostrare una teoria esatta. Il magazziniere era già lì. 80

"Mi passi un pallone per favore?" "Ma vaffanculo" detto con voce bassissima, quasi sibilando. "Come?" "Ho visto un mulo..." "Ah ecco. Dài, scemo, passami il pallone." A malincuore l'ha fatto, mentalmente si stava già preparando ad andare a recuperarlo nel bosco. E invece l'ho calciato nell'angolino tra il palo e la traversa, all'incrocio. Un'applicazione geometrica perfetta. Sarebbe stato gol anche con il portiere, che per fortuna sua in quel momento non c'era. "Andrea, prova a rifarlo." La provocazione mi è piombata addosso, immediata. Ormai era una sfida due contro uno: io da una parte, il magazziniere e il fantasma di Juninho Pernambucano dall'altra. "Ok, stai a guardare menagramo." Mi è uscita una punizione fotocopia di quella precedente. Ineccepibile, stilisticamente impeccabile. Replicata per altre cinque volte su altrettanti tentativi. Ufficiale: ce l'avevo fatta. Il segreto non era più tale. La palla andava calciata da sotto, usando le prime tre dita del piede. E il piede andava tenuto il più dritto possibile e poi rilasciato con un colpo secco. In quel modo la palla in aria restava ferma e, a un certo punto, scendeva velocemente verso la porta, girando con l'effetto. Senza saperlo, eccola, la "maledetta", come qualcuno avrebbe poi ribattezzato quel tipo di tiro. E quando mi esce esattamente come vorrei, non c'è barriera che tenga, perché è una punizione studiata apposta per passare sopra ai giocatori avversari disposti a scudo davanti al proprio portiere, prima di prendere una direzione che non si può prevedere. Per me, il massimo della vita è fare gol dopo aver visto il pallone volare pochissimi centimetri sopra la testa dei difensori, che lo sfiorano ma non lo prendono, che ne leggono la marca ma non lo fermano, perché certe volte una punta di sadismo è l'ingrediente che rende più saporita la vittoria. Più lontano mi trovo dalla porta e meglio è, infatti la distanza da cui si tira è direttamente proporzionale all'effetto che si riesce a imprimere. Meno si è vicini e più il pallone si abbasserà velocemente. Esistono anche delle varianti, dei piccoli accorgimenti per rendere ogni punizione unica, però il concetto di partenza non cambia. E il gol segnato in quel modo è in assoluto quello che mi dà maggiori soddisfazioni, perché in me molti colleghi vedono un esempio da seguire, copiare e magari spodestare, per loro sono un Juninho Pernambucano 2.0, un brasiliano con l'accento di Brescia. Non l'ho mai raccontato a nessuno: il mio obiettivo è diventare il giocatore che nella storia ha segnato più gol su punizione in serie A, rincorro i numeri e gli almanacchi, da qualche anno lavoro anche per quello. Da bambino, in salotto, mettevo un divano davanti alla finestra e mi esercitavo con una palla di spugna, che nove volte su dieci finiva tra il vetro e il muro, cioè nel punto esatto in cui avevo programmato di mandarla. Scavalcando il divano, ovvio. Compravo la "Gazzetta dello Sport" solo per avere le videocassette (che vendevano in allegato) con tutte le migliori punizioni dei più grandi numeri 10. Schiacciavo play e 81

partivano Baggio, Zico, Platini. Grande intuizione il telecomando: pigiando un tasto si liberava la fantasia, cioè una forza pari solo a quella interiore. La classica frase "Contano solo i successi della squadra e ai miei non ci penso" è il noiosissimo lamento di chi non ha traguardi personali da tagliare, per penuria di classe o per mancanza di carattere. Per me il gruppo conta tantissimo, ma se mi dimenticassi di me stesso toglierei forza proprio ai miei compagni: tanti singoli fanno una squadra, tanti sogni fanno un trionfo. La storia, se si è particolarmente fortunati. Nonostante questa mia passione, nei contratti non ho mai avuto o preteso bonus legati al numero di gol segnati su calcio di punizione. Sarebbe stato esagerato, probabilmente sarebbero stati soldi extra troppo facili da guadagnare. E se anche li avessi avuti non ci avrei pensato più di tanto, al contrario di quanto di solito fanno gli attaccanti. Loro, tutti, hanno bonus che scattano dopo un tot di gol, per questo a volte diventano molto egoisti, una loro indole che viene amplificata da certi accordi, da cifre scritte nero su bianco. Va bene così, sarebbe clamoroso accadesse il contrario. Li sopporto anche se sono capricciosi, spesso li adoro. La parte del mio lavoro che invece non imparerò mai ad amare è il riscaldamento prima delle partite. Lo odio profondamente, con tutto me stesso. Mi fa schifo. È una masturbazione per preparatori atletici, il loro modo di godere alla faccia nostra. Sarà anche utile per non farsi male, ma resta il momento peggiore della settimana di un calciatore, un fastidio lungo un quarto d'ora. Quindici minuti sprecati, in cui io spesso penso ad altro. Lo affronto in maniera molto blanda, quasi camminando, è il mio modo per esprimere dissenso, per protestare contro quella passerella insopportabile. E se sei in trasferta prendi pure gli insulti. Non mi frega assolutamente nulla di corricchiare per scaldare i muscoli, tanto quello che conta di più è il cuore, che nel mio caso tocca sempre i cento gradi. Brucia di energia positiva. Ne ho parlato con i vari allenatori che ho avuto, nessuno mi ha dato retta. Mi hanno guardato come se fossi un marziano, in particolare quando ho avuto il coraggio di chiedere di abolirlo anche prima degli allenamenti. Fosse per me giocherei subito, durante la settimana così come il sabato e la domenica. In campionato, Coppa Italia, Champions League. Anche ai Mondiali, che ho vinto nonostante abbia camminato durante quei novecento secondi che hanno preceduto le sfide contro Ghana, Stati Uniti, Repubblica Ceca, Australia, Ucraina, Germania e Francia. Rischio davvero di intristirmi, e allora mentalmente faccio il conto alla rovescia, mi ripeto continuamente che devo stare tranquillo, che nel giro di pochi minuti quella tortura finirà. Può darsi che sia una fobia, personalmente la vivo come un'ingiustizia nei confronti del bello. Se hai Bar Rafaeli nuda davanti a te, non puoi farle l'occhiolino e dirle: "Resta lì, ripasso tra un quarto d'ora", perché in quel lasso di tempo penserai comunque a lei, esclusivamente a lei, e il tuo passo ne risentirà, tratterrai il fiato, ti preserverai per scatenarti solo quando l'avrai tra le tue braccia. Così se hai di fronte il Reai 82

Madrid o il Barcellona o qualunque corazzata conosciuta nel mondo: hai voglia di affondarla, subito, senza aspettare. Te la mangi con gli occhi, ti scende la bava, diventi cattivo, poi pensi a quello che stai facendo e diventi ancora più cattivo. Ti accorgi che stai perdendo tempo.

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Alessandro può capirmi. Solo su Del Piero ho notato un'espressione paragonabile a quella che mi deturpa il volto durante il riscaldamento. Il suo ultimo anno alla Juventus lo ricordo come un'agonia sportiva, come la morte annunciata di un amore intenso destinato a sparire, secondo dopo secondo, riducendosi a un sentimento unilaterale, quindi inefficace. Non giocava e stava male, si macerava dentro, il disagio era evidente anche fuori. Avrebbe spaccato il mondo e non solo quello, la sua faccia era tutta un programma (dell'orrore). Mascherava i suoi veri sentimenti senza riuscirci fino in fondo, perché o si è uomini veri o si è attori, non esiste una via di mezzo. La sua recitazione era pessima, quindi il suo essere unico un esempio senza confini. Come se Torino e l'Australia, dove poi sarebbe andato a giocare, fossero distanti una manciata di battiti, non un giorno di volo. Soffriva come un matto in panchina: togliergli il pallone è stato vissuto come un castigo evidente, una stagione trascorsa andando a letto senza cena e senza maglia numero 10, con un pigiama a righe bianche e nere privo del nome sulla schiena, ma quello è l'abbigliamento distintivo dei carcerati. Non giustiziato, però esiliato. Fine della pena: mai. Non si è lamentato neppure una volta di fronte agli altri, vivendo il momento con estrema dignità. Nel nostro spogliatoio, durante la settimana, si vedeva poco; rispetto a noi aveva un altro preparatore atletico, un personal trainer che ne curava il lavoro dal punto di vista fisico. Una macchina perfetta merita una manutenzione mirata, un'attenzione particolare. Arrivava prima degli altri, si cambiava e poi si rifugiava in una piccola palestra all'interno del centro sportivo di Vinovo, a pochi metri da quella utilizzata da tutti i suoi compagni, me compreso. Raggiungeva il resto del gruppo solo sul campo, quando spuntavano i palloni e ci si allenava sulla parte tattica. Nel momento del bisogno c'era e la sua presenza si sentiva. Ci è dispiaciuto che un campione così andasse via, soprattutto perché la squadra era appena tornata a vincere. La sua squadra. Pur sapendo che sarebbe finita in quel modo, ci siamo rimasti male. Stiamo parlando di una bandiera storica, per carisma innanzitutto e solo marginalmente per età. Non ho mai capito con esattezza cosa sia accaduto tra lui e il presidente Agnelli, quale meccanismo interiore abbia smesso di funzionare, quale baco perverso abbia corroso il sistema, né mi sono permesso di chiederlo. Nutro un profondo rispetto per tutti e due, e se la storia è giunta al capolinea un motivo valido ci dev'essere. Sono fatti privati, affari loro, di sicuro tutto è partito da una differente visione di un rinnovo di contratto rimasto poi solo teorico. Peccato, perché Del Piero alla Juventus avrebbe fatto ancora comodo, uno come lui toma

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sempre utile. Una brava persona la vorrei al mio fianco ventiquattrore al giorno, un professionista esemplare anche: Alessandro è entrambe le cose. La sua carriera è stata di livello mondiale non per caso. Vederlo in campo, le rare volte che ci andava, negli ultimi tempi era comunque uno spettacolo di immutata nobiltà, la rappresentazione del Bello condensata in un Bignami. Poche pagine, un paio di sguardi e imparavi la lezione. Tornava bambino pur viaggiando verso i quaranta e in quanto bambino, almeno una volta, ha pianto. Senza trattenersi, davanti a tutti. Alla sua penultima apparizione da juventino, dopo la partita allo Juventus Stadium contro l'Atalanta, è stato travolto da tutto ciò che, fino a quel momento, era riuscito a domare e a tenere in gabbia. Il suo ego, la voglia di esserci, il bisogno di sentirsi bianconero. Nello spogliatoio ci ha inondati di lacrime e noi abbiamo fatto lo stesso con lui, per lui. L'abbiamo salutato così, prima che partisse per Sydney. Ha scelto i margini del pianeta per ricominciare a giocare, anzi per continuare, e non poteva essere altrimenti. In Italia, in Europa e in un qualsiasi altro posto geograficamente troppo vicino avrebbe sentito forte la nostalgia di casa, un'attrazione quasi fisica. Da calamita a calamita. Per via del mio attaccamento morboso alla Nazionale, dicono che io sia il calciatore di tutti, e capita che venga applaudito anche in stadi teoricamente avversari. Del Piero andava oltre, nel senso che anche lui veniva sistematicamente messo su un piedistallo dai tifosi delle altre squadre, per il semplice fatto di non aver mai cambiato colori. Gli riconoscevano la coerenza di aver sposato una causa senza più abbandonarla, di essere qualcosa di diverso rispetto a un semplice giocatore di calcio, pur rimanendo tra i più forti della storia. Sta qui il vero miracolo, la felicità contagiosa al di là del tifo in un periodo storico particolare, quello in cui la Juventus è tornata a vincere e quindi a essere considerata antipatica. Il problema fastidioso è che troppe volte la rivalità sportiva sfocia nell'odio più becero, in una profonda ignoranza, spalancando le porte all'inciviltà. All'estero vedere le squadre che arrivano con il proprio pullman allo stadio è una festa, passi tra due ali di folla, i bambini sono felici, emozionati, e noi anche, quasi mai nascosti dietro a vetri scuri. In Italia le partite in trasferta assomigliano a un incubo, il tragitto tra l'albergo che ospita il ritiro e il campo diventa un percorso di guerra. Sono stufo della scorta, delle macchine delle forze dell'ordine che aprono e chiudono il corteo con le sirene e i lampeggianti: dovrebbero occuparsi di cose più serie e invece poliziotti e carabinieri sono costretti a pensare a noi. Un magistrato che lotta contro la mafia merita di avere degli angeli custodi intorno, una squadra di calcio potrebbe fame a meno, questo in un mondo ideale, non certo in serie A. Siamo indietro e non ci accorgiamo che a forza di cadere il pozzo si fa troppo profondo e stretto. Fumogeni, lacrimogeni, bastoni, pietre, bulloni, piatti... nel tempo ci hanno tirato addosso di tutto. 85

A Napoli, al mio secondo anno alla Juventus, ho avuto paura di finire male. Raramente mi aveva inghiottito un inferno del genere. Centinaia di persone sono venute ad aspettarci già fuori dall'hotel, hanno iniziato a insultarci nel momento in cui siamo saliti sul pullman (ci sta), a tirarci le uova (anche questo, volendo, ci sta), ma poi la situazione è degenerata. Man mano che ci avvicinavamo al San Paolo l'intensità dei lanci aumentava, eravamo diventati il bersaglio di un gioco perverso: il tiro allo juventino. Qualcuno di noi si è coricato lungo il corridoio, soprattutto quando un mattone ha colpito il vetro in corrispondenza del posto occupato da Asamoah. Per fortuna i pezzi del finestrino sono caduti all'esterno, altrimenti avremmo rischiato la tragedia. C'era un silenzio irreale, ci siamo accorti che non stavamo viaggiando gratis e il rischio di pagare prima o poi il biglietto con la vita è un'eventualità che mi toglie il sonno. Chi me lo assicura che un giorno, al posto del mattone, qualcuno non decida di tirare fuori la pistola? Come si controllano migliaia di esagitati ai bordi delle strade, il cui unico obiettivo è quello di farci del male? Chi è pronto a scommettere che tra tanti pazzi non ce ne sia uno più cattivo degli altri? Quando ci allontaniamo da Torino con noi partono alcune guardie del corpo, gli agenti della DIGOS sono presenze fisse, ma basteranno? Sono pensieri terribili, ma se dicessi che non mi abbiano mai sfiorato sarei un bugiardo. E poi parlarne fa bene, è giusto che la gente sappia che c'è del marcio ai bordi del nostro mondo. Al Nord, al Centro e al Sud allo stesso modo, dappertutto, chi ne fa una distinzione geografica sbaglia di grosso. Durante le partite, invece, la Juventus viene vista come una Banda Bassotti con la refurtiva ancora addosso, ci chiamano ladri, un'accusa proveniente dal passato, ma nel passato recente della società c'è stata anche la serie B, un'espiazione pesantissima, e in tanti fanno finta di dimenticarsene. Così è troppo comodo. I "cori contro" sono una specialità tutta italiana, il primo comandamento è insultare l'avversario, poi se avanza del tempo si incita anche la propria squadra. Escludendo le città in cui si ricordano che sono un centrocampista della Nazionale, a seconda del posto in cui andiamo a giocare sono un pezzo di merda, un figlio di puttana oppure devo morire quando subisco un fallo. Attenzione, il baratro è vicino, il rischio di violenza sempre più alto. Basta poco per andare oltre, senza accorgersene. La quasi totalità degli stadi in Italia viene considerata dagli ultras come una zona franca, in cui fare di tutto e dire qualsiasi cosa passi loro per la testa. Se fermo per strada un uomo e lo chiamo coglione, come minimo mi denuncia, mentre in curva o in tribuna lo fanno migliaia di persone contemporaneamente e non succede nulla. Manca la cultura sportiva e su questo si può lentamente lavorare, da parte nostra non esagerando con certe dichiarazioni, ma si sente anche la mancanza di leggi e soprattutto di stadi di proprietà dei club. Lo Juventus Stadium è un gioiellino (in classifica vale almeno dieci punti a stagione, considerato il clima 86

positivo che contribuisce a creare), a ogni posto corrispondono il nome e il cognome di un tifoso, ci sono gli steward, le telecamere a circuito chiuso e in un contesto del genere se combini qualcosa di sbagliato lo si scopre in tempo reale, ti vedono e ti vengono a cercare. L'ideale sarebbe essere educati a prescindere, però in certi casi va bene anche esserlo per paura di finire nell'occhio del ciclone. È quantomeno un inizio. Fossi un politico - ma grazie a Dio non è così - lotterei per mettere le celle negli stadi, per costruire delle piccole prigioni direttamente al loro interno, come in Inghilterra. Prendere chi sgarra e metterlo dentro anziché riempirlo di botte e poi lasciarlo subito andare: il mio rimedio per quelli che sbandano in curva sarebbe questo. Poi spalancherei le finestre. C'è bisogno di aria pura.

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C'è bisogno di Balotelli, poi. Non credo che l'abbia capito fino in fondo, ma lui è la medicina, l'antidoto a un veleno all'apparenza letale, perché negli stadi italiani ci sono anche i razzisti. Categoria orrenda, una mandria di frustrati che dalla storia ha preso il peggio. Sono più di una minoranza, al contrario di quanto vorrebbe farci credere qualche democristiano della comunicazione, pompieri che spegnerebbero un fiammifero con l'estintore. Quando vedo Mario in occasione dei raduni della Nazionale mi scappa sempre un sorriso, è il mio modo di dirgli che gli sono vicino, che non deve mollare. Un grazie a livello espressivo. Spesso i tifosi avversari lo prendono di mira, lo insultano. Diciamo che i suoi atteggiamenti forse non lo aiutano a farsi volere bene, però sono convinto che se avesse la pelle bianca lo lascerebbero in pace, più di quanto accada adesso. "Se saltelli muore Balotelli" è un coro insopportabile, che purtroppo ho sentito anche allo Juventus Stadium, e ancora peggio sono i "buuu", che ho ascoltato dappertutto. Invece di deprimersi, davanti a certe manifestazioni becere, lui si carica, non la dà vinta a quei rifiuti umani, ed è la risposta più intelligente, perché se dai retta a uno stupido lo elevi al ruolo di interlocutore, ma se lo ignori (facendo comunque notare che sfortunatamente esiste) contribuisci a lasciarlo a mollo nel suo mare inquinato, senza sponde, senza amici. La buona notizia è che sul lungo periodo anche gli squali possono morire di solitudine. Prandelli in Nazionale ci ha dato un indirizzo preciso: "Se sentite che dalle tribune gli mancano di rispetto, correte ad abbracciarlo". L'odio va cancellato con l'affetto, in dose pari e contraria. Scelta controcorrente, idea efficace. A livello teorico non sarei invece disposto a lasciare il campo in segno di protesta, come ha fatto Boateng - trascinandosi dietro tutto il Milan - durante un'amichevole contro la Pro Patria. Non è il modo migliore per contrastare il razzismo, mi sembra una resa più che una reazione. In ogni caso, se un mio compagno di squadra venisse travolto dall'intolleranza e poi si rifiutasse di continuare a giocare, mi adeguerei alla sua volontà e a quella dei compagni. Toccherebbe a lui raccontare cosa prova e quindi prendere la decisione finale. Abbandonerei la partita solo se tutta la squadra fosse d'accordo. Sono situazioni che andrebbero vissute prima di essere commentate, troppo delicate per prevedere una pianificazione a tavolino. Sono contento che Mario abbia un carattere del genere, che magari reagisca a una provocazione sul campo (sbagliando) restando però impassibile di fronte a quelle della curva. Se segna è possibile che si porti il dito davanti alla bocca in segno di scherno verso i tifosi avversari, irridendoli e facendoli infuriare, ma se 88

sono loro a dirgli che il colore della sua pelle è sbagliato, si mette a ridere. Li prende in giro e stravince. Può diventare un simbolo della lotta al razzismo, in Italia e nel mondo. Come calciatore, a livello di classe, non si discute, per questo l'avrei visto molto bene con la maglia della Juventus. Un top player parte da una posizione di vantaggio, può scegliersi la squadra, il problema è che Mario ne ha avuta in mente sempre e solo una. "Ragazzi, prima o poi andrò al Milan" è il ritornello che tutti abbiamo sentito, e infatti il suo sogno si è avverato. Gli avrei passato volentieri il pallone a Torino e dintorni, contribuendo in parte al suo successo, come accade in Nazionale. Solo una volta ho pensato che la cosa fosse possibile, quando in un'intervista a Sky ha detto: "Mi piacerebbe far cambiare idea sul mio conto ai tifosi bianconeri". Magari in futuro accadrà, ci incontreremo davvero nella stessa squadra, e lo dico pensando al fatto che il suo procuratore, un fuoriclasse, pur di chiudere un affare venderebbe anche il proprio cognome, nel vero senso della parola. In pratica, una volta lo ammise parlando con il coautore di questo libro. "Mino, toglimi una curiosità. Come si pronuncia il tuo cognome? Dove va l'accento? Ràiola o Raiòla?" "Come vuoi tu, basta che mi paghi." Applausi. Per Balotelli la Juventus sarebbe stata una camera iperbarica, un luogo di sfogo in cui mantenere la pressione costante, a livello ideale. Buffon, Chiellini, Marchisio: guardandoli capisci dove sei finito, hanno sempre lo sguardo felice e ti coinvolgono, ti contagiano, quando serve ti fanno cambiare idea. Avrebbe ricevuto coccole da uno spogliatoio che lavora tanto, dove lo spirito di sacrificio è una condizione indispensabile, non una richiesta davanti alla quale è possibile scuotere la testa e dire di no. Non si lamenta mai nessuno e soprattutto ci sono tanti azzurri della Nazionale, eccola la forza più preziosa. Conoscono la storia del club, ne sanno a memoria i picchi e le cadute, non hanno bisogno di suggerimenti per capire quali siano i nomi dei protagonisti buoni e quelli su cui mettere una croce. Sono il vero traino, la locomotiva della felicità. Accadeva al Milan, non accadeva all'Inter, accade alla Juventus, lo sa bene Prandelli che di solito ci convoca in blocco in Nazionale. Non esiste uno che comanda, le cose alla fine funzionano grazie alla democrazia che vige tra i giocatori. Buffon, volendo, potrebbe alzarsi e dire: "Ora qui decido io, sono il capitano, ho giocato in serie B con questa maglia", ma non lo farà mai. È troppo intelligente, troppo forte, troppo tutto. Adesso esprimo un punto di vista che farà infuriare molti tifosi, di cui però sono convinto: certi successi recenti sono nati proprio da quella retrocessione a tavolino. È servita per amplificare a livello esponenziale il senso di appartenenza, che ne è uscito rafforzato. Il ritorno in serie A è stato duro, però con il passare degli anni la rabbia pura si è evoluta in qualcosa di positivo, ora 89

non c'è più spazio per la vergogna: essere juventini significa portarsi dietro un carico di orgoglio e dignità. Fino alla fine, come direbbe il presidente Agnelli, anzi come direbbe Andrea. Quando l'ambiente si è depurato delle sensazioni negative, l'esplosione ha fatto nascere qualcosa di evidente. È stato il Big Bang bianconero, la creazione di un nuovo mondo, molto simile a quello vecchio, e la buona notizia sta proprio qui: la Juventus discende da se stessa. Facciamo paura, di nuovo, sempre di più. Ce lo ricordano quotidianamente molte persone, in particolare ce lo ricorda Antonio Conte quando attacca sulla porta dello spogliatoio gli articoli dei giornali in cui gli avversari parlano di noi. Interviste e commenti ritagliati con cura maniacale, appiccicati con lo scotch all'ingresso della stanza più segreta. I passaggi da non perdere, quelli che vanno letti per forza vengono sottolineati con un pennarello rosso. C'era il presidente operaio, noi abbiamo l'allenatore edicolante. Almeno una volta a settimana viene il momento della rassegna stampa. Il messaggio è chiaro: contro la Juventus tutti si trasformano, compresi i disperati che dalla stagione non hanno più nulla da pretendere. Provano il colpaccio, almeno a parole. Tentano la via della provocazione. "Ragazzi, avete visto cosa dice questo? Che abbiamo dei punti deboli." "È una cazzata, mister." "Sarà anche una cazzata, ma se siamo uomini dobbiamo dimostrare sul campo che si sta sbagliando. E quest'altro? È pronto a giurare che anche per noi arriverà un momento di flessione." "Altra cazzata, mister." "Non cadiamo in questo tranello. Abbiamo solo un modo per sbugiardarlo: vincere. A proposito, avete letto l'ultima riga, quella che ho cerchiato?" "Sì mister, quel cretino ha detto che siamo la squadra più antipatica del mondo, che lo sanno tutti." "Su questo ha ragione, quando lo vedremo sul campo lo dovremo anche ringraziare, ci ha fatto un complimento, significa che siamo tornati. Che facciamo paura, che stiamo onorando il nome che portiamo. Ricordatevelo: solo chi non vince, per gli avversari, è il massimo della simpatia." "Mister, sostiene anche che tu sia un matto..." "Ecco, l'avete notato? Anche lui, tra le mille idiozie che ha detto, ha avuto un lampo di lucidità. Ah, mi dovete un euro e venti." "E perché?" "Per il giornale..."

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Paga Matri. Paga sempre Matri, anche in senso figurato. Nesta è emigrato in Canada, De Rossi lo vedo solo in Nazionale, non resta che lui. Il mio ultimo compagno di stanza è sempre la mia prima vittima, per regolamento non scritto. Certe volte è come sparare sulla Croce Rossa, anche se Alessandro preferirebbe bombardare direttamente un ospedale. È ipocondriaco, si sente addosso tutte le malattie del mondo senza averne una, certe volte addirittura pensa di essere un giocatore del Torino. Starnutisce: "Lo sapevo, mi è venuta la polmonite. Dottore...". Gli spunta un brufolo: "Ecco, è una reazione allergica a quello che ho mangiato, aiuto, sto per morire. Dottore...". Si gratta il naso: "No, l'herpes no. Dottore...". In campo si trova da solo davanti al portiere, calcia il pallone da tutt'altra parte, non prende neanche la porta: "Mamma mia, colpa della congiuntivite". A quel punto intervengo io, lo tranquillizzo: "Sei sanissimo, il problema è che sei una pippa". Ride, ma gli viene mal di denti. Smette di ridere, e gli brucia l'orecchio. Lo conosco, gli voglio bene, quindi mi invento cose che non esistono: "Ale, stai perdendo sangue dal naso". "È un'epistassi." "Una che?" "Un'epistassi, una piccolissima emorragia." "Ce l'hai nel cervello l'emorragia." "Ho un'emorragia cerebrale?" "Mi arrendo." Se avverte qualche piccolo dolore si fa visitare. Se pensa di aver la febbre la prova cinquanta volte; mi è anche venuto il dubbio che gli piaccia usare il termometro, che provi piacere, per questo una notte ci ho pensato e gli ho fatto uno scherzo. Quando si è addormentato sono andato a cercare un poster di Barzagli, uno di quelli che regalano con "Hurrà Juventus", e l'ho appeso sopra il suo letto. Ho scattato una fotografia con il BlackBerry inviandola a un bel po' di amici, con tre parole di accompagnamento: "Questo è amore". Una storia inventata, come i suoi acciacchi. Quando è in bagno per lavarsi i denti o per radersi o per farsi bello con tutte quelle cremine che usa lui, entro a tradimento urlando come un invasato. "Andrea, e che cazzo, così mi viene un infarto." "Ecco, ci risiamo."

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Matri è molto ansioso, ha paura di tutto, il dottore lo odia. Io lo adoro, quasi come lui ama Barzagli, perché ha un pregio enorme: quando gioca, tocca un pallone e fa gol. Ne tocca un altro e segna di nuovo. La sua media è impressionante, spesso penso che sia un giocatore troppo sottovalutato, fossi il presidente di una squadra uno così sarebbe in cima alla lista dei miei desideri. Una garanzia valida un miliardo di anni. Ogni tanto glielo dico: "Ale, sai che secondo me tu potresti far venire mal di testa a qualunque difensore del campionato italiano?". "Mal di testa?" "Stai tranquillo, è un modo di dire." Prima o poi giro un video a tradimento e lo carico su YouTube, diventerebbe un cult. Da vedere solo una volta, poi si autodistruggerebbe, perché nel calcio Paganini è morto prima di essere nato. Il pallone non ripete. Le azioni dei calciatori non si possono riguardare al rallentatore, a costo di commettere errori di valutazione madornali: farsi aiutare dalla tecnologia non è consentito dalle regole attuali. Gli arbitri vengono criticati perché chi comanda è rimasto ancorato a tradizioni più stupide che vecchie: non vuole la moviola in campo, cioè uno strumento che risolverebbe almeno il cinquanta per cento dei problemi e annienterebbe le polemiche; grazie a quella avremmo una vita (professionale) meno movimentata. Zidane nella finale del Mondiale del 2006 è stato espulso per aver colpito Materazzi con una testata: lo sanno tutti che il direttore di gara Elizondo ha preso quella decisione dopo che i suoi collaboratori - anche se non avrebbero potuto - hanno visionato le immagini televisive. E per nostra fortuna non erano esperti di lettura del labiale. Un aiuto esterno sarebbe fondamentale, oggi. Gli arbitri non sono robot, è matematico che sbaglino qualcosa, e non ho mai capito come facciano i guardalinee a vedere la palla nel momento in cui viene calciata e allo stesso tempo capire se il giocatore che la riceve è in linea con gli altri oppure no. Neanche un mostro con quattro occhi sarebbe in grado di farlo. Il no alla tecnologia è da Terzo Mondo dello sport. Basterebbe dotare di un piccolo schermo la postazione del quarto uomo (sembra una definizione da agente segreto, in realtà indica uno degli assistenti dell'arbitro) per dirimere praticamente in tempo reale le questioni più complicate. Pallone oltre la linea di porta oppure no, fallo commesso in area oppure fuori, fuorigioco sì o fuorigioco no: in cinque secondi, il dubbio amletico verrebbe derubricato a semplice certezza. Al direttore di gara, invece, continuerebbero a competere le decisioni più soggettive, tipo se un'azione di gioco è stata fallosa o regolare, perché quella non è una cosa su cui le immagini ti possono fornire sicurezze. Vorrei un calcio più moderno, ma chi abita sulla punta della piramide decisionale, dove i cervelli fumano e i portafogli contano, si nasconde dietro alla tradizione, alla voglia di preservare certe regole degli inizi, facendo finta di non 92

ricordarsi che una volta si giocava con il pallone pesante un chilo, con i tacchetti a punta e soprattutto senza telecamere. Non dico che John Wayne debba girare un film di fantascienza, però è anche vero che Steven Spielberg senza effetti speciali avrebbe qualche problemino in più, anche nell'essere se stesso. Il prossimo passo è obbligato, si deve sconfiggere una mentalità ormai sorpassata e controproducente, che non si rende conto non solo dei cambiamenti che avvengono sul campo di gioco, ma neanche di quelli che coinvolgono la società. Per i soloni del pallone è giunto il momento di svegliarsi, sarebbe sufficiente che aprissero un solo occhio, o tutti e due almeno un po'. Non capiscono che con il loro modo di pensare antiquato creano un danno enorme all'arbitro, lo lasciano solo e sotto il tiro dei cecchini, perché quello che magari lui non riesce a cogliere in una frazione di secondo - l'ho detto, è un essere umano e in quanto tale imperfetto - lo vedono milioni di persone alla televisione che pensano: "Ha fatto una cazzata, è un idiota". Per essere nel giusto, a tutti loro dovrebbe venire invece in mente questo: "Poverino, lo costringono a vivere in un'epoca ormai spazzata via dal passare del tempo". Non esiste più la TV in bianco e nero, ma già rendersi conto che la TV è stata inventata sarebbe una presa di coscienza fondamentale. Sarebbero contenti anche tutti coloro che potrebbero finalmente cancellare dal loro telefonino un'immagine a cui tengono molto, quella del gol - non gol di Muntari in un Milan - Juventus passato per certi versi alla storia. Alla fine di ogni partita, più in serie A che in Champions League, molti allenatori e dirigenti parlano dell'operato dell'arbitro, delle cose che non sono andate bene, degli abbagli che gli hanno fatto perdere l'equilibrio. Ore trascorse a "operare", a fare una dolorosissima vivisezione delle immagini e delle azioni più controverse, paragonando la decisione ideale a quella che al contrario è stata presa sul campo. E passa sempre il solito messaggio ingeneroso: i direttori di gara hanno sbagliato, ancora una volta, sono una categoria inaffidabile. Ci vorrebbe più correttezza di giudizio, ricordando anche che io ho sbagliato un passaggio, l'allenatore la formazione, il dirigente un acquisto, il tifoso un coro e Matri la scatola delle medicine. Guardarsi intorno è sempre bello, guardarsi dentro un po' più complicato. Tuffiamoci nel futuro non può essere uno slogan elettorale o la pubblicità di una piscina di Nyon o di Zurigo, sarebbe meglio se si trasformasse in un modo sincero di pensare, nella voglia di cambiare per davvero, migliorando. Altre discipline sportive l'hanno fatto, prima e bene, senza subire contraccolpi negativi. Se Nadal serve per il match agli Australian Open, il giudice di sedia decide che la palla è dentro e concede un ace e quindi la vittoria, mentre l'occhio di falco (il sistema elettronico comunemente utilizzato sui campi da tennis) lo sbugiarda, ha vinto la verità, perché Nadal va di nuovo al servizio senza lamentarsi, il match continua, il suo avversario non polemizzerà all'infinito, l'arbitro con la mano fa un cenno di scuse e i tifosi dimenticano subito l'accaduto, concentrandosi sul punto successivo. Non ci sono sconfitti né polemiche. 93

O iniziamo a giocare anche noi su un campo di cemento blu o ci portiamo la tecnologia in casa a prescindere dal torneo che stiamo disputando: delle due, l'una.

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So pensare, non vorrei che qualcuno guardandomi cadesse nel tranello della banalità: calciatore uguale uomo con l'elettroencefalogramma piatto. Ci sono giocatori più o meno stupidi (ne conosco qualcuno...), come ci sono geometri, architetti, professori, musicisti, giornalisti (ne conosco parecchi...), farmacisti, macellai con il quoziente intellettivo di un sasso; io, in linea di massima, penso di essere mediamente sveglio. Ho un'opinione su tutto e non mi vergogno non solo di dirla, ma anche di difenderla e, se serve, di diffonderla. E poi mi accorgo se qualcuno mi vuole fregare, o quantomeno mi viene il dubbio. Magari a scoppio ritardato. Senza prove mi affido alle sensazioni, come quella volta a La Coruna, nel 2004. Giocavo nel Milan, affrontavamo il Deportivo in Spagna nel ritorno dei quarti di finale di Champions League, all'andata a San Siro avevamo vinto quattro a uno. Le probabilità che non riuscissimo a passare il turno erano pari a quelle di vedere, prima o poi, Gattuso laureato in lettere. Già pensavamo alla semifinale, come se ce l'avessero cucita addosso prima di salire sull'aereo per la Galizia. Una passeggiata confezionata su misura per noi. Non avevamo considerato un paio di altre possibilità: che il sarto impazzisse ma soprattutto che i giocatori della nostra squadra fossero colpiti da una grave amnesia, tutti insieme nello stesso momento. È accaduto l'impensabile, ci siamo dimenticati di giocare, è finita quattro a zero per gli altri. Ci hanno ridicolizzati. Eravamo Fantozzi in sala video, prima leoni che prendono in ostaggio Guidobaldo Maria Riccardelli al grido di "La Corazzata Potemkin è una cagata pazzesca", poi disperati calpestati nella propria dignità e costretti, per punizione, a recitare ogni sabato pomeriggio uno spezzone della pellicola andata distrutta. Fino all'età pensionabile. E i vecchi decrepiti avevano le nostre sembianze, quella notte allo stadio Riazor. Ci siamo fatti male da soli, e questa è la premessa necessaria, però ripensandoci a qualche anno di distanza c'è qualcosa che non mi torna. I nostri avversari andavano a mille all'ora, compresi giocatori un po' in là con l'età, che non avevano mai fatto della velocità abbinata alla resistenza fisica il loro punto di forza. La scena che più mi ha colpito è stata vederli correre, tutti, nessuno escluso, anche nell'intervallo. Quando l'arbitro Maier ha fischiato la fine del primo tempo, sono schizzati nello spogliatoio, l'andatura era quella di Usain Bolt. Non riuscivano a fermarsi neppure in quel quarto d'ora di riposo teorico, inventato apposta per tirare il fiato, quantomeno per camminare. Fulmini imprendibili, schegge impazzite. Non sono in possesso di prove, per cui la mia non è un'accusa, mai mi permetterei di formularla. Semplicemente è un pensiero cattivo che mi sono concesso, però per la prima e unica volta nella vita mi è venuto il dubbio che qualcuno sul mio stesso campo potesse essersi dopato. Forse 95

è solo la rabbia di un momento non ancora riassorbita. I calciatori del Deportivo erano assatanati, galoppavano verso un traguardo che solo loro intuivano (ciechi noi, che infatti siamo stati brutalizzati). In semifinale hanno incontrato il Porto e sono stati eliminati, nel giro di qualche tempo sono spariti da tutte le competizioni che contano. Rido, invece, quando sento qualcuno accostare il concetto di doping al sacro nome del Barcellona, un circolo d'élite che si tramanda il segreto: per vincere con il minimo sforzo è indispensabile far girare il pallone. I padroni del Camp Nou corrono bene, non li vedi mai sobbarcarsi uno scatto di settanta o ottanta metri, al massimo di quindici, puntano sempre in avanti e fanno poca fatica. In Italia immagino che il problema droga nel calcio sia marginale, siamo sotto osservazione continua e prolungata. Spesso e volentieri riceviamo le visite degli incaricati del CONI e della UEFA, che ci sottopongono a controlli a sorpresa. Non solo esame delle urine, ma anche prelievo del sangue. Arrivano durante gli allenamenti, si presentano, ci fanno smettere di lavorare e ci intimano di seguirli. Ci portano nello spogliatoio o in palestra o in infermeria marcandoci a uomo mentre effettuiamo i test. Non ci lamentiamo e ci mancherebbe altro, ben vengano le provette limpide e le siringhe sincere. Sarebbe da stupidi assumere sostanze proibite, sia per problemi di coscienza, sia perché verremmo subito smascherati. All'inizio dell'anno lo staff medico della squadra ha l'abitudine di fornire ai giocatori l'elenco dei medicinali da non usare, io chiamo il dottore anche se devo prendere un'aspirina, l'idea di poter commettere una leggerezza mi aiuta a tenere alta l'attenzione. Sembro Matri, è una malattia che non prenderò mai eppure mi fa paura. Mi arrabbio quando qualche ciclista rilascia interviste accusando i calciatori di essere dei privilegiati, troppo ricchi, troppo sotto i riflettori, troppo primedonne, dimenticandosi però di ricordare che il nostro è un mondo indubbiamente pulito. Le notizie che stanno uscendo sul loro conto non mi sorprendono, gli ex corridori che ammettono di aver assunto aiuti sintetici non entrano nemmeno più nei titoli dei telegiornali, viene dato per scontato che sia da troppi anni una prassi consolidata. Che tristezza. Sembra che lo facciano tutti, anche perché per una persona normale sarebbe disumano pensare di pedalare per trecento chilometri al giorno, magari a quaranta chilometri orari, e ventiquattrore più tardi fare lo stesso, e quarantottore dopo anche. Tour de France, Giro d'Italia e Vuelta richiedono di essere al top per diverse settimane, su certe salite di montagna si fonderebbero i motori eppure i ciclisti non si sciolgono. Liberalizzare il doping mi sembrerebbe una porcheria, molto meglio accorciare le tappe. Ho provato immenso fastidio quando Lance Armstrong, e a cascata una lunga serie di gregari e comprimari, hanno ammesso di aver fregato il prossimo, di essersi prostituiti davanti a certi santoni pur di salire sul podio. Il fastidio non deriva dalla confessione, quella è la parte sacrosanta del discorso, ma dalle centinaia di occasioni in cui avevano negato le accuse, sdegnati, minacciando 96

ritorsioni o querele nei confronti di chi ormai li stava smascherando. Al ciclista americano hanno tolto sette Tour de France dopo aver dimostrato che aveva scalato la Torre Eiffel in elicottero, non grazie agli allenamenti. Zero sul campo. Spero solo che ai ragazzini che iniziano a pedalare insegnino a non barare, magari scrivendo su un foglio bianco la lista di tutti quelli che ci hanno fregato, o addirittura di chi se n'è andato via troppo presto, causa morte sospetta. È necessaria una terapia d'urto, sui pacchetti di sigarette stampano a caratteri cubitali nuoce gravemente alla salute, e a quel punto la responsabilità di farsi male è tutta del fumatore; sul telaio delle biciclette lo slogan potrebbe invece essere niente merda nella borraccia. Se mi guardo allo specchio, al mattino quando mi alzo o la sera prima di andare a letto, vedo un uomo mediamente brutto, con la barba da fare, la criniera spettinata, il naso fuori asse, le orecchie un po' a sventola e le occhiaie, ma vedo un uomo felice dell'immagine che toma indietro, orgoglioso di ogni singolo secondo del proprio passato. Gino Bolsieri al Fiero e poi Roberto Clerici alla Voluntas non solo sono stati i primi allenatori a capire che il mio ruolo ideale in campo fosse quello davanti alla difesa, ma anche le prime persone - papà Luigi e mamma Lidia a parte - a ricordarmi che, magari, se prendi una scorciatoia arrivi prima, però poi verrà il giorno in cui ti troverai a tu per tu con i demoni, e perderai. Brucerai in un inferno che hai contribuito a creare. Io qualcosa che arde in realtà ce l'ho, una fiaccola olimpica dentro, un incendio impetuoso, fatto di fiamme e passione, alimentato dal puro piacere. Per spegnerlo, per spegnermi, devono innaffiarmi l'anima. In linea di massima, distratti a parte, il concetto è più o meno chiaro a tutti. Anche ai dirigenti dell'Al Sadd, società araba che nel 2011 si è qualificata per il Mondiale per Club. "Andrea, ti vogliono quelli del Qatar." Quando il mio procuratore Tinti telefona, non saluta e va subito al dunque significa che sta facendo sul serio. "Come scusa?" "Vai a giocare in Qatar." "Ma tu sei matto. Neanche per sogno." "Cosa stai dicendo?" "Dico che è troppo presto." La mia ultima stagione con il Milan era in dirittura d'arrivo e non avevo la minima intenzione di emigrare. "Ma anche Guardiola ha giocato da quelle parti." "Era a fine carriera." "Vabbè, per educazione devi andarli a incontrare." "Ok, quando arrivano?" "Sono già a Milano. Mettiti una cravatta, ti passo a prendere tra un'ora." Mi aspettavano al Principe di Savoia, hotel extralusso vicino alla stazione Centrale, lo stesso in cui abitava Beckham durante la sua esperienza al Milan. 97

Avevano prenotato una suite immensa. C'erano il proprietario del club e alcuni dirigenti, più una schiera di avvocati. "Ciao, il contratto è pronto." "Buongiorno anche a voi, è un onore conoscervi..." "Starai bene con la nostra divisa da gioco." "Piacere, mi chiamo Andrea Pirlo." "Non devi decidere in fretta, qualche minuto per pensarci ce l'hai." "In realtà sono venuto solo a capire chi siete." C'era una sorta di incompatibilità linguistica, una frattura spazio-temporale, loro viaggiavano nel futuro e io mi concentravo sul presente, però mi hanno fatto una buona impressione. Quella volta ho capito che Babbo Natale esiste. "Andrea, quanti figli hai?" "Due." "Abbiamo un'ottima scuola in lingua inglese, in Qatar." "Ma a me piace sentirli parlare in italiano." "Allora ne costruiamo una nuova e prendiamo solo professori italiani. Sei un appassionato della guida?" "Sì." "Saremmo grati se tu volessi accettare in regalo qualche Ferrari." "Qualche?" "E se ti manca l'Italia, avrai sempre un aereo privato a disposizione sulla pista." "Ma..." "Il contratto è pronto, è di quattro anni." "Grazie ma..." "A quaranta milioni di euro." A quel punto Tinti ha avuto un mancamento. "Quaranta milioni spalmati su quattro anni, non a stagione. Sai, non possiamo esagerare, c'è la crisi." "Eh, capisco." "Ma se dieci all'anno non ti bastano, tranquillo, possiamo parlarne." Era troppo, se avessi chiesto di bonificare il deserto magari avrebbero accettato, quindi prima di cadere in tentazione mi sono imposto di chiudere il discorso: "Grazie davvero, ma non posso. Venire da voi significherebbe finire la carriera, e io penso di poter dare ancora molto in Europa, in Italia. Nel caso cambiassi idea, mi rifaccio vivo tra un paio d'anni". "Undici milioni..." "Tullio andiamo." "Dodici..." "Tullio..." "Tredici..." Ho praticamente preso in braccio il mio procuratore, in evidente stato di estasi, e sono scappato. Guardando l'orologio mi sono accorto che erano le 21.21. 98

Due volte il mio numero preferito, il destino che mi sussurrava dolcemente all'orecchio: "Hai fatto bene". Il 21 è il giorno in cui è nato mio padre, in cui mi sono sposato, in cui ho esordito in serie A. È diventato presto il mio numero di maglia e non l'ho più abbandonato. Mi porta fortuna, ecco il motivo per cui questo libro si ferma a venti capitoli. Mi piace pensare che il prossimo sia fatto solo di pagine bianche, da riempire con altre emozioni, ancora da scrivere. La penna ce l'ho.

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Ringraziamenti Grazie ad Andrea Pirlo, intanto perché ho trovato un amico, e poi perché quando inizia a parlare non smette più, e questa è la scoperta del secolo. A mia moglie Eleonora, che parla più di Andrea ma va bene così: lei è la scoperta di una vita. A Cesare Prandelli, per la prefazione scritta con il cuore e riletta il giorno di una partita. Stava pensando al Mondiale e un po' ha pensato anche a noi. A Martina Maestri, che ha letto tutto prima. È il Pirlo dell'amicizia. A Daniele De Rossi, per la consulenza sugli scherzi e sul cazzeggio. A Marco Nosotti e a Veronica Baldaccini, per tutto il tempo che mi hanno regalato. Sono la mia Nazionale. A Massimo Ambrosini, per avermi spiegato il personaggio. A Paola, perché lo so, lassù una biblioteca ci dovrà pur essere, altrimenti che Paradiso sarebbe? A tutti gli amici di Coverciano, in particolare a Simone Orati, che hanno fatto finta di non vedermi quando mi intrufolavo nelle segrete stanze fuori orario. Ad Andrea Delmonte, perché ci ha creduto (e l'uomo Delmonte disse sì...). A Ciacia Guzzetti, che Samuel Eto'o chiamava mamma. Ovviamente a papà Mario, mamma Carola, a mia sorella Benedetta, alla nonna Sandra e alla mia famiglia in genere. Tutti loro giocano sempre titolari. Alessandro Alciato

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