Paolo Cagnan - Marco Bergamo (Tutta La Verità Sui Delitti Di Bolzano)

March 9, 2017 | Author: Gennariello | Category: N/A
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ra dal 1985 che un mostro terrorizzava la città di B olzan o con una serie

di sp ietati om icid i di gio v a n i donne. Nel 1992 viene catturato

un g iovan e dall'aria innocua, Marco Bergamo, che con fessa sotto il peso delle prove. Paolo Cagnan, cronista del quotidiano bolzanino Alto Adige, ha raccolto testimonianze inedite e atti giu­ d iziari ed ha ricostruito la vicenda per intero, fornendoci la prima analisi della personalità di un serial killer italiano.

PAOLO CAGNAN 2 6 a n n i, vive e lav o ra a B olzano. G io rn alista p ro fe ssio n ista d a ll'e tà di 23 a n n i, la v o ra p resso il q u o tid ia n o A lto A d ig e oc! ò s p e c ia liz z a to in c ro n a c a n e ra e g iu d iziaria. H a c o lla ­ b o ra to c o n n u m e ro si p ro g ram m i d e lla Rai, fra cui "P arte c i­ v ile", "D e tto tra n o i" e "U ltim o m in u to ".

"MARCO BERGAMO" è la n a rra z io n e a v v in c e n te e d ettag liata, b asata su d o c u ­ m en ti riservati e su te stim o n ia n z e in e d ite , dei delitti e d e lla c a ttu ra del "m o stro di B o lzan o ", c h e tra il 1985 e il 19 9 2 h a te rro riz z a to il c a p o lu o g o a lto a te sin o con u n a serie di o m ic id i c ru e n ti e d insensati.

Paolo Cagnan

MARCO BERGAMO

Copyright © 1994 by I LIBRI NERI Tutti i diritti riservati

Copertina: Arenula Disegno Grafico I LIBRI NERI periodico mensile anno II, numero 6 Redazione: V.le Mazzini, 11 7, ROMA Direttore Responsabile: D om itilla Marchi Reg. Trib. Roma n. 236 del 2/6/1993

S tam p a: A llestim enti G rafici Sud, V. C a n c e llie ra 46, A riccia (RM)

Indice Prologo: anatomia di un serial k ille r..........................................vii 1. Luci rosse a Dodiciville........................................................... 1 2. Il m aniaco................................................................................ 13 3. La piccola ribelle....................................................................31 4. Un mezzo uom o...................................................................... 47 5. Il mostro in vetrina.................................................................59 6. Tre gialli senza finale............................................................. 81 7. La sv o lta..................................................................................95 8. Morte a dom icilio................................................................ 115 9. Vuoti di m em oria................................................................. 133 10. Il m alato.................................................................................151 11. Delitti in fotocopia............................................................... 163 12. Il processo............................................................................. 177 Illustrazioni........................................................................... 221

“ Spesso, di notte, sogno di uccidere una donna; questa notte, p e r esem pio, le ho dovuto m ettere una bom ba in bocca p er ucciderla: due caricatori non sono bastati. La donna è un essere potente, che può fa re del male e che è difficile fermare. (...) Nei sogni, quando colpisco le donne, lo faccio al cuore e alla testa, perché così si uccidono me­ glio, si colpiscono gli organi vitali. ”

Marco Bergamo, 29 novembre 1993

Prologo

Anatomia di un serial killer “Papà è serio, mamma è timida” - Preciso, non pignolo - 11 trenino nell’armadio

M arcella Casagrande, 15 anni, studentessa al primo anno dell’istituto magistrale. Trovata dalla madre di un lago di san­ gue, riversa sul pavimento nel corridoio della sua abitazione. Tre gennaio 1985. Annamaria Cipolletti, 41 anni, insegnante di scuola media dalla doppia vita. Assassinata nel monolocale che utilizzava per i suoi incontri d ’amore a pagamento con i numerosi clienti. Ventisei giugno 1985. Renate Rauch, 24 anni. Una vita sul marciapiede, siringa e laccio em ostatico nella borsetta. Vittima dell’ultimo cliente, forse in macchina, forse nel parcheggio dove il suo corpo è sta­ to ritrovato. Sette gennaio 1992. Renate Troger, 18 anni. Una sbandata, figlia della notte. Strangolata, sgozzata, massacrata a coltellate e abbandonata in un piazzale dal suo carnefice, forse un automobilista di passag­ gio. Ventuno marzo 1992. Marika Zorzi, 18 anni, tossicomane. Prostituta per necessità. Uccisa verosimilmente all’interno di un’auto, scaricata agoniz­ zante sul ciglio della strada. Ventisei coltellate. Sei agosto 1992. Marco Bergamo, 26 anni, operaio. Attaccatissimo al papà ed alla mamma. Timido e solitario. Sospettato di avere massacrato a coltellate almeno cinque donne. vii

Dalla perizia psichiatrica d ’ufficio, effettuata dal direttore dell’istituto di medicina legale dell’università di Padova, Fran­ cesco Introna: B ergam o M arco, nato a B olzano il 6 agosto 1966, ivi residente in via V isitazione 72. P adre settantenne, già artigiano fabbro, poi m agazziniere presso le o f­ ficine del gas di B olzano, pensionato dal 1982. M adre sessantenne, casalinga. Entram bi godono di norm ali condizioni di salute. Un fratel­ lo, L uigi, 36 anni, è sposato da circa dieci anni; lavora com e agente di zona p er le Pagine G ialle della Sip; ora a Padova. N on ricorda m alattie m entali in ascendenti e collaterali. H a frequenta­ to le scuole elem entari e ram m enta qualche difficoltà d ’inserim ento nel gruppo dei coetanei e con il m aestro, perché è di carattere chiuso e tim ido. D opo la terza m edia frequentò una scuola tecnica statale per un corso triennale di elettricista. Trascorsi due anni, si rese conto che quel tipo di studio non gli era congeniale; così, passò ad una scuola di avviam ento professionale per congegnatori m eccanici, conseguendo il d i' p lo m a all’età di diciotto anni. D ice che il lavoro di congegnatore m e c­ ca n ico gli piace p erché rich ied e accuratezza, attenzio n e, ab ilità di m ani. N el m aggio del 1985 iniziò a lavorare com e saldatore, e nel luglio di quello stesso anno venne arruolato per il servizio m ilitare negli alpini. H a fatto il C ar a B elluno per un m ese, poi è stato aggregato al batta­ glione “B assano” di stanza a San Candido (...) D urante il servizio mi­ litare si aggravò una psoriasi (che aveva sin da ragazzo); il capitano lo accusò di autolesionism o, m a la diagnosi fu conferm ata d alla divi­ sione derm atologica d ell’ospedale di B olzano. T erm inò il servizio mi­ litare nel luglio del 1986, e già l’anno ^opo la psoriasi dim inuì forte­ m ente. Nel settem bre di quell’anno trovò lavoro presso una fabbrica di oggetti d ’ottone con la qualifica di m anovale. Poco tem po dopo, l’azienda iniziò una lavorazione per affilatura di lam e destinate a ta­ gliare m ateriale ferroso, e B ergam o venne im piegato in questo settore. Presso tale ditta lavorò per un paio di anni, poi abbandonò il posto dopo un diverbio con il capo officina per problem i di salario, e perché le m acchine che doveva usare - secondo quanto sosteneva - erano vecchie e poco efficienti. D opo un paio di settim ane venne assunto

presso u n ’im presa di costruzioni edili dove rim ase un paio di anni. T rovò poi lavoro (leggendo un ’inserzione pubblicitaria) presso una ditta che fabbricava botti in acciaio per vino.

B ergam o descrive il padre com e adeguato ai com piti, interessato alla m oglie e ai figli, sollecito nei problem i fam iliari, serio nel lavoro. D e­ scrive la m adre com e una donna tim ida, accom odante, m olto dedita alla casa. N on ha nulla da rim proverare ai genitori, e norm ali sono stati - a suo dire - i rapporti con il fratello. I suoi genitori sono stati forse un p o ’ protettivi, m a certo non gli hanno mai fatto m ancare nul­ la. F orse non hanno saputo educarlo sessualm ente, ma non sa precisa­ re com e avrebbero dovuto farlo. Il fratello è m olto diverso: aperto, di com pagnia, correva sem pre dietro alle ragazze, si. è sposato ed ha un figlio. N on io invidia per questo. Con lui va d ’acccordo.

Fin da ragazzo era un p o ’ solidario, m a non rifiutava l’iniziativa di svaghi e giochi proposti dai coetanei. D ice di essere una via di m ezzo fra il chiuso e il tim ido. Non g.i piacciono le com pagnie num erose e rum orose, e il rum ore in generale. Gli piace andare in m ontagna (le gite le faceva spesso con i g e s to ri) per appartarsi nel silenzio dei bo­ schi. È abbastanza nervoso, nel senso che si irrita e si arrabbia per le ingiu­ stizie. A J esem pio, sul lavora, pur im pegnandosi coine gli altri, i capi 10 trattavano peggio dei com pagni, e ciò lo indisponeva. N ell’ultim o posto di lavoro gli hanno dato addirittura del sovversivo e del rom pi­ balle. T alvolta i capi operai erano troppo pignoli. Lui non è “pignolo” , m a preciso e ordinato'. ' 11 suo arm adio è perfetto. Sugli scaffali e nei cassetti m ette le scatole, e dentro ciascuna scatola gli oggetti dello stesso tipo. C onserva tutti i gio cattoli che aveva da^bam bino, c o m p re sa un trenino. I binari de! trenino li ha regalati al nipote. T iene bene i suoi vestiti; gli piace essere in ordine, ma non pretende indum enti ed oggetti personali m olto eleganti ò alla m oda e firm ati. T iene bene la sua auto, ma non esagera. Nei rapporti con l’autom obile vi sono tre tipi diversi di persone: quello che se ne frega e la lascia de­ teriorare; quello che è fissato e continua a lucidarla; quello che la con­ trolla p er m antenerla efficiente. Egli è di quest’ultim o tipo. ix

H a letto m olti fum etti (in particolare quelli di Tex W iller) dai dieci ai diciotto anni. G ià prim a del servizio m ilitare ha com inciato a leggere riviste pornografiche, ed ha poi continuato, ma senza eccedere. In to r­ no ai quindici anni ha iniziato a leggere libri storici sui castelli. D im o­ stra una discreta conoscenza della loro storia e della loro ubicazione.

Ringraziamenti Questo libro è stato realizzato sulla base della documentazio­ ne dell’inchiesta giudiziaria a carico di M arco Bergamo, di molte testimonianze e della mia conoscenza diretta dei fatti in esso descritti. Fra le tante persone che mi hanno aiutato, inco­ raggiato e consigliato, desidero ringraziare: Guido Rispoli, Mauro Valentini e Alexander Zelger, che sono stati disposti a ricostruire il quadro delle indagini; Giuseppe Macrì e Vittorio Lo Cicero, che mi hanno ricordato vecchi episodi ormai dimen­ ticati, tralasciati o sottovalutati dai mass media in relazione ai delitti Casagrande e Cipolletti; Giuseppe Piccoli, che mi ha il­ lustrate la linea di difesa adottata nei confronti di Bergamo, ri­ cordandomi la tragedia di cui lo stesso pluriomicida e i suoi ge­ nitori sono rimasti vittime; Carlo Martinelli, che mi ha fornito un valido supporto soprattutto nelle ricerche bibliografiche; Stefania Pezza del Centro di documentazione elettronica della Arnoldo Mondadori Editore, presso il quale ho potuto rintrac­ ciare materiale giornalistico molto interessante; il quotidiano Alto Adige, che mi ha permesso di occuparmi in prima persona dell’inchiesta e del processo; Lucia Filippi, Oreste Persico, An­ tonella Mattioli, Roberto Marino, Grazia Bizzarini e Alessandra Paolini, che hanno avuto la pazienza di leggere ciò che ho scrit­ to, dai primi approcci sino a questa versione finale, frutto anche delle loro annotazioni, rilievi e suggerimenti. Bolzano, febbraio 1994.

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Luci rosse a Dodiciville La crociata dell’assessore - “Schedate i clienti” - Per soldi o per vo­ cazione - L ’ultimo incontro di Renate

Dodici ottobre 1991. Un giorno come tanti altri, per una Bolzano placidamente immersa nei suoi mille colori autunnali. C ’era un titolo a quattro colonne, su\YAlto Adige, che attirò senza difficoltà l’attenzione di molti lettori: S t o p a l t r a f f ic o a l u c i r o s s e , proclamava con tono stentoreo. E sotto: “Dodicivil­ le, cinquecento firme contro la presenza delle prostitute.” “Il quartiere di Dodiciville è in rivolta contro il traffico,” scriveva il giornale, “sia quello diurno che ormai assilla indi­ scriminatamente tutta la città, sia quello notturno, prerogativa a quanto pare esclusiva della zona a luci rosse della città.” Gli abitanti del quartiere avevano un diavolo per capello. Uno di loro, autonominatosi caporivolta, scrisse al sindaco una petizione di fuoco che grondava esasperazione, insofferenza, ri­ bellione collettiva. Avevano firmato molte centinaia di abitanti. Chiedevano al Comune di fare qualcosa. Erano stufi del traffico a luci rosse. Sotto casa loro stazionavano non meno di una doz­ zina di prostitute, e ogni sera si ripeteva instancabilmente il lungo, continuo carosello di auto che si fermavano, caricavano e scaricavano carne umana sulle banchine del porto dell’amore mercenario con prolungate clacsonate, stereo da luna park e stridio di freni. Un vero tormento per le orecchie, dicevano.

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Non ce la facevano proprio più, gli abitanti di Dodiciville. Così, avevano chiesto l’intervento del sindaco e dell’assessore al traffico. Avevano anche deciso di dare loro qualche consi­ glio: tanto per cominciare, avrebbero potuto chiedere alla que­ stura di piazzare ogni sera due pattuglie in zona, dalle dieci alle quattro del mattino, quando il carosello si sarebbe finalmente concluso. Le prostitute a Bolzano? Una ventina, o forse più. Una fauna variopinta, volgare ma pittoresca. Composta da qualche luccio­ la vicina agli “anta” con la Porsche e diversi appartamenti, e da una nutrita pattuglia di giovani drogate a caccia di soldi per ar­ ricchire gli spacciatori in cambio d ’eroina tagliata male, con il rischio d’overdose compreso nel prezzo. Non usano il “guanto” - così chiamano il preservativo - ma i clienti che le scelgono non vanno tanto per il sottile. Sarà per le tariffe basse, o forse perché la sieropositività non fa paura a tutti, e a maggior ragio­ ne a chi sa di avere già contratto il virus. Le lucciole bolzanine non hanno il magnaccia. Niente protet­ tori in città. Ognuna lavora per conto proprio, ma ci sono alcu­ ne regole non scritte, che tutte sono tenute ad osservare. Cia­ scuna ha la sua zona. C ’è un perimetro invisibile, segnato dai caroselli delle auto costrette a zigzagare fra sensi unici e altre macchine in doppia fila, con i blinker perennemente accesi nel­ l’attesa di un contatto. Per le novità non c ’è proprio spazio. Niente travestiti, niente bisessuali, niente straniere. Sono le inflessibili leggi del merca­ to: un vero e proprio monopolio. Le tariffe non sono mai state fisse, il prezzo dipende da di­ versi fattori. C ’è cliente e cliente. Quelli bolzanini, solitamente, emigrano a Trento, così come quelli trentini trasmigrano a Ve­ rona. A Bolzano calano invece i contadini delle vallate, uniti ai camionisti e a qualche rappresentante di passaggio. Nessuno corre rischi inutili, il giorno dopo, tutti saprebbero. Mogli com­ 2

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prese. Molto meglio una piccola ma salutare trasferta, lontani da occhi indiscreti. Dodiciville, il regno del peccato. Un labirinto di perdizione, fra la stazione ferroviaria e i rioni dei Piani e di Rendo. Un dedalo di viuzze, sensi unici, passi car­ rai e oscuri cortiletti interni. Una zona a pochi passi dal centro storico. Il duomo, Piazza Walter, i portici, vero vanto turistico della città, sono tutt’altro che distanti. Anzi, si può dire che Do­ diciville faccia parte a pieno titolo del centro storico. Un po ’ ovunque, palazzi di sette o otto piani, accanto ad alberghi un tempo rinomati, oggi un po’ decaduti. Poco verde, tanto traffico. Un ingorgo continuo, dalla mattina alla sera. Quando le saraci­ nesche si abbassano entrano in azione loro, le regine della notte. Non tutte, però, hanno eletto Dodiciville a proprio domicilio notturno. Le vecchie del mestiere, fedeli alla tradizione e alla clientela storica che da molti lustri ormai sa dove trovarle, sta­ zionano qualche centinaia di metri più in là, in via Garibaldi, sotto il portone di un condominio posto di fronte al parcheggio della stazione ferroviaria. Non sono molte, per la verità. Hanno fatto i soldi, possiedono parecchi appartamenti, battono anche la mattina e il pomeriggio, si considerano delle vere professioniste e non sopportano le tossiche, le ragazzine che si prostitui­ scono solo per potersi drogare, e che causano un sacco di pro­ blemi con la questura. Già, le tossiche. Sono piccole, vestite di jeans, la testa ciondolante e lo sguardo sempre perso nel vuoto. Non sorridono quasi mai, anche perché sono sdentate. L’eroina non aggredisce solo il cervello, ma anche il fisico. Chiedono 50 mila lire per un rapporto completo, e non costringono i clienti a mettersi il “guanto”: un’opportunità tanto perversa quanto sti­ molante. Molte di loro sono sieropositive. Camminano avanti e indietro per le buie stradine di Dodiciville, aspettano che qualcuno si fermi, tirano sul prezzo e sulla gamma di prestazioni, poi salgono in macchina, si allontanano 3

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e tornano solitamente dopo una m ezz’oretta. Non fanno mai troppe discussioni, né sono molto schizzinose: hanno un conti­ nuo bisogno di soldi, non se lo possono permettere. Vanno con tutti, dove capita. Il più delle volte s’imboscano in macchina; ogni tanto i clienti le portano in qualche altro posto, ma accade raramente, perché gli affari sono affari e le tossiche hanno sem­ pre fretta di concludere, per cercare nuovi clienti. Si sono con­ quistate i loro posti fissi: parcheggi nella penombra, stradine deserte, invisibili passi carrai. Pertugi squallidi ma sicuri. Così, almeno, credevano. Venticinque ottobre 1991. L’assessore comunale al traffico Roland Atz si aggiustò sen­ za troppo entusiasmo la cravatta. “Non mi passi nessuna telefonata,” ordinò alla segretaria con un tono che non ammetteva repliche. Rilesse gli articoli riguardanti la sua clamorosa iniziativa e si chiese se gli avrebbe fruttato qualche voto in più. Certo, di co­ raggio ne aveva da vendere. Del resto, non era proprio il politi­ co per antonomasia. La diplomazia? Non sapeva proprio cosa fosse. Era abituato a partire lancia in resta, come un ariete con­ tro il portone da sfondare. Quarantasette anni portati con suffi­ ciente disinvoltura, eletto nelle file della Volkspartei, il partito di lingua tedesca che dettava legge in tutto l’Alto Adige, in giunta gli era stato affidato l’assessorato al traffico ed alla poli­ zia urbana, con delega per il commercio. Dodiciville era uno dei suoi principali serbatoi elettorali. Gli abitanti del rione avevano bussato infuriati alla sua porta, per consegnargli la petizione e chiedergli di fare qualcosa. “Paghiamo le tasse,” protestavano, “avremo pure qualche di­ ritto come cittadini.” E poi minacciavano: “Votiamo, non se lo dimentichi.” 4

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Atz aveva promesso il suo personale interessamento. “Vedre­ te, farò qualcosa.” Li aveva liquidati così, con la solita frase di generiche assicurazioni che non ingannava più nessuno. Poi, però, ci aveva ripensato. Si era consultato con i vigili urbani. Qualcuno gli aveva ricordato l’esistenza di una vecchia ordi­ nanza che riguardava la “circolazione oziosa.” Così, aveva de­ ciso di passare all’azione: di lì a poco, i clienti delle prostitute sarebbero stati tutti sistemati per le feste. Elaborò un vero e proprio piano di battaglia, l’assessore. Sapeva che la stampa si sarebbe scatenata, ed aveva già deciso come si sarebbe regola­ to: non avrebbe fatto l’eroe, tutt’altro. Avrebbe scrollato il ca­ po, sostenendo di avere semplicemente applicato la legge. Dopo tutto, cosa c’era di tanto strano? In realtà, si trattò di un’iniziativa unica nel suo genere, ed Atz recitò alla perfezione il suo ruolo. “Gli abitanti hanno ragione a protestare. Hanno diritto di dormire, come tutti. E io non farò altro che mettere in atto alcu­ ne misure per scoraggiare i clienti delle prostitute.” Come prima cosa, l’assessore piazzò le pattuglie della polizia municipale nel cuore di Dodiciville, in seduta permanente. I vi­ gili fermavano ogni sera decine di automobilisti, ne controllava­ no i documenti, poi passavano puntigliosamente in rassegna le luci, le frecce, e tutto il resto. Se trovavano qualcosa fuori posto, zàcchete, fioccavano le multe, con il rischio estremo del ritiro della patente. I cacciatori di lucciole, che giravano anche dieci o venti volte attorno all’isolato prima di sceglierne una, scompar­ vero ben presto, messi in fuga da uno stillicido del genere. “Circolazione oziosa,” recitava la vecchia ordinanza che Atz aveva tirato fuori da un cassetto. Diceva in pratica che nessuno poteva girare in continuazione per le stesse strade, senza uno scopo preciso. Sembrava fatta apposta per Dodiciville, pensò l’assessore. E giù multe. M a c ’era di più. La schedatura. 5

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Tutti gli automobilisti che caricavano le prostitute, o che ma­ gari continuavano imperterriti a girare per le strade del quartie­ re, vennero schedati. I vigili iniziarono a chiedere patente e li­ bretto, per poi annotare le generalità dei fermati su un bloc notes. L’assessore Atz dimostrò di essere deciso ad andare fino in fondo. Quel viavai doveva finire. M inacciò a ll’indirizzo dei clienti delle lucciole: “Se non la smettono, riveleremo pubblica­ mente i loro nomi.” Apriti cielo. Le prime, vibrate proteste arrivarono proprio dalle dirette in­ teressate. A mobilitarsi furono le prostitute organizzate, le vec­ chie del mestiere. Poi fu la volta dei vigili urbani. Il loro sinda­ cato insorse contro il comandante: “Quello che vuole farci fare è illegale, noi non possimo schedare nessuno, non rientra nei nostri compiti come ufficiali di polizia giudiziaria. Anzi, d ’ora in poi ci rifiuteremo di farlo.” L’assessore si accontentò del plauso tributatogli dagli abitanti di Dodiciville. Già, perché il provvedimento aveva davvero funzionato: nel giro di un paio di giorni appena, le prostitute erano rimaste quasi senza clienti, e la notte era tornata silenziosa. Poi, però, quando l’assessore iniziò a convincersi di aver vinto la guerra, puntuali arrivarono i primi siluri. I clienti delle prostitute si rivolsero ad un avvocato, che a sua volta chiese il deciso e immediato intervento della magistratura: i suoi assistiti temevano che i loro nominativi potessero finire sui giornali, e sarebbe stata una tragedia. Mariti modello, ragazzini a caccia di avventure proibite, rispettabili professionisti e persino qualche politico poco discreto, tutti uniti dallo stesso, sacro terrore di essere smascherati. Era in pericolo la tranquillità di oltre tre ­ cento famiglie. Il comandante dei vigili, poveraccio, non sape­ va più che pesci pigliare. Disse che la schedatura era stata un’invenzione, una sorta di ricatto psicologico, ma nessuno gli credette. Qualche giorno dopo, il Msi recapitò ai giornali una prima lista di clienti delie lucciole, fornita probabilmente da 6

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una talpa intenzionata a silurare l’assessore. Quell’elenco par­ ziale, i giornali non lo pubblicarono mai: tutela della privacy e rischio di querele ebbero la meglio. Nella lista delle categorie più indispettite - per usare un eufemismo - i clienti venivano però solo al secondo posto. Il primo era occupato stabilmente dalle prostitute, che lavoravano sempre meno. Avevano ormai perso quasi tre quarti dei clienti. Un disastro. Renate Rauch aveva 24 anni. Qualche cliente lo trovava sem­ pre. Era esile, alta poco meno di un metro e sessanta, mora con gli occhi neri. Il sorriso perso dopo il decimo buco, lo sguardo spento di chi ne aveva già viste troppe. Un volto da bambina, una bambina mai cresciuta, o forse cresciuta troppo in fretta. Fi­ nita sulla strada a sedici anni, persa per un uomo che le aveva procurato solo un mare di guai. Sua mamma, Maria Luise, ave­ va 56 anni e faceva la casalinga. Suo padre Franz, 68 anni, era in pensione. Chissà cosa sognavano per la loro bambina. Chissà cosa avevano pensato quando lei se ne era andata di casa. Aveva sedici anni, o poco più. Dopo la terza media si era iscritta alla scuola professionale, ma aveva abbandonato gli studi quasi subito. Per un po’ aveva lavorato come commessa in una drogheria. Poi si era invaghita di un uomo, Bruno Magagna, più vecchio di lei di otto anni. Uno sbandato costretto a vivere alla giornata. Un drogato, parte integrante di quella m icrocrim inalità che si alim entava con qualche furtarello utilizzarne il bottino come merce di scambio, quando mancava la “grana.” Bruno aveva fatto subito colpo su Renate, che aveva lasciato tutto ed era fuggita con lui. Aveva abbandonato la sua stanza con i pupazzetti di peluche, e i genitori in lacrime che proprio non riuscivano a capire cosa potesse essere successo alla loro bambina. Si era lasciata alle spalle quella vita che non la soddisfava per andare a vivere con lui. “Non prendetevela con me,” aveva scritto sul biglietto indirizzato a mamma e papà. 7

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Bruno si bucava tutti i giorni. Renate lo aveva ben presto seguito su quella strada. Una spi­ rale senza fine. I primi tempi, i due avevano convissuto in un miniapparta­ mento; poi erano stati costretti a lasciarlo, e così la loro nuova casa era diventata una roulotte, acquistata dalla famiglia Rauch. Meglio una casa su quattro ruote che la strada, avevano pensato mamma e papà. Ma la notte non dormivano quasi mai, e neppu­ re i tranquillanti facevano effetto. Nessuno poteva perdere una figlia così, senza battere ciglio. E quando qualcuno aveva dato fuoco alla roulotte, forse per una bustina d’eroina non pagata, i Rauch ne avevano subito comprata un’altra. Così, Renate era finita a battere a Dodiciville, come tante al­ tre ragazze. Guadagnava parecchio, alle volte anche un milione e mezzo a sera. I soldi finivano invariabilmente nelle tasche di Bruno, che comprava la droga. Era lui il suo personalissimo magnaccia. Sempre lui, dicevano i genitori di Renate, lui l’ave­ va rovinata. Ma non potevano farci niente. Troppo tardi. Ogni tanto davano a Renate qualche soldo, perché non fosse costretta a prostituirsi, ma sapendo bene dove sarebbe finito il denaro. Glielo lasciavano nascosto in un mobiletto sul pianerot­ tolo del loro appartamento. La figlia poteva passare quando vo­ leva, senza neppure l’imbarazzo di guardarli negli occhi. Sette gennaio 1992, ore 18. Valles, frazione di Rio Pusteria. Un piccolo paese di montagna, situato a quasi 1400 metri d’altitudine, circondato da prati e montagne. Impossibile arrivarci per caso: la strada che saliva ripida e si­ nuosa dalla trafficatissima statale della Pusteria raggiungeva il paese e si fermava lì. Valles soffriva della concorrenza della vicina Maranza, sta­ zione sciistica più rinomata.

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Chissà perché quel giovanotto baffuto dall’aria un po’ addor­ mentata aveva scelto proprio quel posto per la sua solitaria set­ timana bianca. Forse perché aveva iniziato a sciare da pochi anni, e non sognava ancora i caroselli della Sella Ronda, spetta­ colari ma inadatti alle sue gambe, incerte e traballanti sugli sci. O forse perché era il periodo natalizio, e tutte le altre località più rinomate erano stracolme di turisti, che avevano prenotato molti mesi prima. Forse perché cercava la pace e la tranquillità, e a Valles sapeva che le avrebbe trovate. Era arrivato tre giorni dopo Capodanno, il 4 gennaio. Vi sa­ rebbe rimasto sino al dieci del mese. Sei giorni di mezza pen­ sione, al prezzo complessivo di 277.400 lire. L’albergo l’aveva prenotato papà: una pensioncina gestita da Konrad Fischnaller e dalla moglie, aiutati solo da una ragazza che faceva le pulizie. La pensione Schònwald era piccola ma accogliente. Papà Rena­ to e mamma Maria erano curiosi di vedere come fosse il posto scelto dal figlio per le sue ferie. Del resto, erano abituati a por­ tarlo sempre con sé, anche in vacanza. Marco aveva ormai 26 anni, ma per loro era come se fosse rimasto un bambino. Per questo, il giorno dopo il suo arrivo a Valles, aveva ricevuto la loro visita. Era domenica, il 5 gennaio del nuovo anno: il 1992. Tre giorni dopo, il sette gennaio, l’amato figlioletto mai cre­ sciuto aveva cenato in albergo, si era messo in tasca le chiavi del­ la stanza ed era poi salito sulla sua Seat Ibiza rossa fiammante. A Bolzano aveva un appuntamento. Un incontro segreto. Bolzano, 7 gennaio 1992, ore 23. Ventiquattro coltellate. Povera Renate. Un lago di sangue, e il suo corpo minuto straziato da un col­ tello assassino accanitosi su di lei con indicibile violenza. Dov’è finito quel viso da bambina? Lorena urlò a squarciagola. 9

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Aveva appena agganciato un cliente, era salita in macchina con lui, lo aveva portato nel parcheggio interno dell’area di ser­ vizio di via Renon, un posto isolato dove le lucciole di Dodiciville erano solite appartarsi con i clienti. Una serata come tante, per Lorena. O così almeno credeva. Non sapeva neppure lei perché si fosse guardata attorno. Forse per vedere se c’era qualche altra collega, imboscata poco lontano. Faceva freddo, in via Renon. Un freddo pungente. Non a ca­ so, il vicino deposito locomotori della stazione ferroviaria era stato ribattezzato “parco Siberia.” Macchine e moto passavano velocemente, incuranti della vi­ cina oscurità. Il parcheggio, buio come sempre. A terra, poco lontano dalla rete di recinzione, il corpo di una donna. Renate, la piccola Renate. Lorena corse al bar più vicino per dare l’allarme. Erano le undici di sera. Il cliente, impaurito, scappò. Il medico scrollò la testa. Troppo tardi. Una furia maniacale si era abbattuta sulla prostituta con il volto da bambina. Il professor Carlo Crestani dell’istituto di medicina legale di Padova contò ventiquattro coltellate. L’auto­ psia fornì alcune indicazioni precise sulla ferocia dell’assassi­ no. Il primo fendente era stato vibrato al collo. Renate voltava le spalle al suo carnefice. Una seconda coltellata, poi una terza, una quarta e tutte le altre. Una sequenza impressionante. Il col­ tello provocò subito una fortissima emorragia, La ragazza sven­ ne, mentre l’omicida infieriva su di lei. Ventiquattro coltellate, ma nessuna traccia di violenza ses­ suale: i tamponi vaginali, anali e orali diedero tutti esito negati­ vo all’esame per gli spermatozoi. Inutili risultarono i posti di blocco, i primi interrogatori, le ri­ cerche dell’auto sulla quale si era dileguato l’ultimo cliente di Renate. Il suo assassino. 10

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Lorena era arrivata troppo tardi, le altre prostitute erano trop­ po sconvolte per poter aiutare polizia e carabinieri. Una di loro disse di aver visto una Citroën Visa, un’altra riferì di una Golf, ma sarebbe stato come cercare un ago in un pagliaio. Il delitto avvenne alle 22.15. Lorena lanciò l’allarme alle 23. L’assassino era già al sicuro, ma la sua macchina portava si­ curamente con sé le tracce indelebili di quella follia omicida di cui era stata muta testimone. Ancora troppo presto per stabilire se Renate fosse stata ucci­ sa nell’area di servizio, o se il suo carnefice l’avesse scaricata lì per poi fuggire. Una cosa apparve subito chiara: il delitto era stato compiuto in macchina. Forse in un’altra stradina, in un al­ tro parcheggio, ma all’interno dell’auto del cliente. Un cliente che non aveva consumato il rapporto, non aveva compiuto vio­ lenza carnale, né aveva messo in atto riti feticisti, almeno al­ l’apparenza. Un cliente, ma neppure questo era sicuro. Valles, 8 gennaio 1992, ore 8.15. Marco si alzò di buon’ora. Si vestì, fece colazione, andò a comprare i giornali. In prima pagina, titoli a sei colonne sul de­ litto di via Renon. Anche in paese non si parlava d ’altro, la no­ tizia si era sparsa in un batter d ’occhio. Lesse con avidità gli ar­ ticoli sul gravissimo fatto di sangue. Le indagini, spiegavano i quotidiani, erano subito apparse molto difficili, ma qualche traccia c’era. Polizia e carabinier lavano la caccia ad un bion­ dino con i baffi. Qualcuno, poi, aveva riferito di avere visto l’auto dell’omicida, una Citroën Visa di colore rosso. Forse c ’era un testim one chiave. Per un attimo, M arco si sentì di ghiaccio. M a durò ben poco. Calzò gli scarponi, si mis', gli sci in spalla e si avviò verso le piste. Non è successo niente, si disse. È tutto passato.

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Il maniaco Anna Maria, la regina di Trento - I depravati della notte - Il diario che non c ’è - Una taglia sull’assassino - Funerali con l’omicida

Trento, 8 gennaio 1992, ore 23. E arrivata la neve. Cinque gradi sopra lo zero. Una testimone c ’è, ma non può parlare. È “Bimba,” una fem­ mina di barboncino. Ha abbaiato per tutta la notte, sul muso ha ancora una chiazza di sangue. La sua padroncina è morta. È sta­ ta uccisa. La fulgida carriera di Anna Maria Ropele, 38 anni, la reginetta delle prostitute, è finita. Finita sulla lama di un’arma bianca, forse un pugnale. Rena­ te Rauch è morta neppure ventiquattr’ore prima, a Bolzano. A soli cinquanta chilometri di distanza. Corso Michelangelo Buonarroti 49, interno 31. Sul campa­ nello c’è solo un nome, “Anna.” L’abitazione, in realtà, ha due ingressi: al civico 31 c ’è l’appartamento vero e proprio, al civi­ co 35 il pied-à-terre, dove la donna riceveva i clienti: 150 metri quadrati originariamente divisi in due alloggi distinti e separati, che Anna M aria aveva acquistato, trasformandoli poi in un’uni­ ca abitazione. Il corpo senza vita della donna è riverso a terra fra il secondo ingresso e la stanza da letto tutta rosa, dai tendag­ gi sino al grande letto rotondo: un’alcova spettacolare. Il suo aggressore la tramortisce alla testa prima di colpirla. Un solo fendente, calibrato, preciso, che la raggiunge al fianco destro, sotto l’ascella, trafiggendole il torace. Anna Maria non c’è più. 13

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Aveva iniziato a battere quando aveva diciassette anni. Una bella donna, un corpo che si faceva guardare. 1 capelli lisci e lunghi dietro le spalle, la sigaretta sempre in bocca, i delicati li­ neamenti del viso ritoccati dalla sapiente mano di un chirurgo. “Si prostituiva per passione, anzi, per vocazione,” scrisse un giornale all’indomani. Una lucciola d ’alto bordo, lontana dal mondo delle tossicodipendenti. Era ricca, Anna Maria, e non avendo problemi di denaro poteva scegliersi i clienti. Gli ubria­ chi, i volgari, i violenti restavano fuori dalla porta. Ma sul gran­ de letto rosa e rotondo, Anna Maria riceveva solo di pomerig­ gio. La sera scendeva in strada, sul m arciapiede, con la sua minigonna bianca e gli stivali di pelle color rosso fiamma. Non aveva saputo rinunciare al marciapiede. Viaggiava sulla sua lussuosa Mercedes ascoltando Pavarotti. Chi è stato? Mistero fitto. A scoprire il cadavere, alle 5.15 di giovedì 9 gennaio, è Ma­ rio Romani, l’ex marito. Dopo la separazione consensuale, dis­ se, lui e Anna Maria erano rimasti in ottimi rapporti. Si sentiva­ no ogni giorno per telefono, almeno sette o otto volte. Anna Maria non si separava mai da quel cellulare che era ormai di­ ventato il suo cane da guardia. E l’ex marito cinquantaduenne, che viveva a Rimini, aveva fiutato qualcosa di strano, quando per ore aveva inutilmente cercato di parlare con Anna Maria. Aveva intuito che poteva essere accaduto ciò che da tempo di­ ceva di temere. Era salito in macchina e via, come un razzo, verso Trento. È lui a dare l’allarme. Ed è anche il primo ad essere interro­ gato. E l’unico vero testimone, il solo che potrebbe fornire la chiave del delitto. Non sa darsi pace. I carabinieri gli chiedono se sospettasse qualcosa, se fosse per caso divenuto il protettore di Anna Maria. Vogliono sapere perché si sia precipitato a Tren­ to così preoccupato. Solo un presagio? 14

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“C ’è un mostro in circolazione.” Il mostro. Quel sostantivo maschile comparve su tutti i giornali, l’indo­ mani. Con molti condizionali ed altrettanti punti interrogativi, come sempre facevano i mass media quando fingevano ipocri­ tamente un certo pudore. Ormai, la psicosi del maniaco era in agguato. Due prostitute uccise a coltellate nel giro di neppure ventiquattr’ore, ad una cinquantina di chilometri di distanza. Una coincidenza? Sin troppo facile dubitarne anche se, in verità, le analogie fra i due delitti non erano molte. Diversa era l’arma utilizzata: un coltello a Bolzano, un pugnale a Trento. Diverso, nonostante le semplificazioni, l’ambiente nel quale gli omicidi erano matura­ ti: battere in strada non è certo come ricevere i clienti in un ap­ partamento. Solo le prostitute di serie A hanno un’alcova. Di­ versa era anche la tecnica omicida, il modus operandi. L’ipotesi del mostro, inutile negarlo, fece facile presa sull’opinione pub­ blica e l’atterrì. La gente aveva un bisogno inconscio di sentire oscuri brividi lungo la schiena. Dopotutto, era sempre stato co­ sì. E poi, non sarebbe stato certo più rassicurante supporre che i maniaci assassini fossero almeno due. A meno che qualcuno non avesse voluto gettare fumo negli occhi degli inquirenti. Anna M aria era stata uccisa con una sola coltellata. Al contra­ rio, il maniaco che Renate aveva avuto la sfortuna d ’incontrare si era accanito su di lei con un’inaudita efferatezza. La tesi del mostro cadde quasi subito, malgrado le suggestio­ ni collettive. Chi aveva giustiziato Renate non poteva essersi concesso il macabro bis a Trento, poche ore dopo. Decine di coltellate in un caso, una sola nell’altro. “Ventiquattro coltellate non equivalgono in alcun caso ad una sola,” spiegò il professor Tullio Bonaretti, noto psichiatra milanese. “La coazione a ripetere indica il desiderio di annulla­ re in modo definitivo, e non solo fisicamente, la persona con la quale si ha a che fare. L’assassino, in questo caso, deve aver ac­ 15

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cumulato nel corso della sua infanzia un tasso notevolissimo di frustrazioni.” Già, l’infanzia difficile. Quanto sangue innocente era stato versato in nome dell’infanzia difficile? Quanti delitti erano stati indirettamente causati da padri ubriaconi e madri indifferenti? La mente umana è regolata da meccanismi ben precisi, ma il professor Bonaretti ammonì: non esistono spiegazioni semplici di fatti complessi. Ma perché Renate? E perché Anna Maria? N ell’immaginario maschile, la prostituta è sempre stata la donna che non si rifiuta, che non può farlo perché pagata per soddisfare ogni possibile voglia. Il raptus omicida, però, non scatta mai a caso. Ci vuole una molla. L’evento scatenante. “Si possono fare alcune ipotesi,” disse Bonaretti. “La ragaz­ za, ad esempio, potrebbe aver ricordato all’assassino quel qual­ cuno dal quale lui ha subito, sempre nell’infanzia, dei torti. Op­ pure la sua aggressività potrebbe anche essere stata scatenata da una frase che per la ragazza non deve aver avuto un significato particolare, ma che in lui ha risvegliato istinti sopiti. Infine, l’assassino potrebbe anche essere un impotente assillato dal bi­ sogno di affermare, sia pure in modo estremo e deviato, la sua virilità.” Tre tracce. L’infanzia difficile. La frase scatenante. L’impotenza. Tre ipotesi che non aiutarono più di tanto gli investigatori. Dagli archivi impolverati saltarono fuori decine di vecchi fasci­ coli. Stupri, violenze sessuali d ’ogni genere, molestie ed esibi­ zionismi vari. Si aprì la caccia al maniaco. Ogni pista avrebbe potuto essere quella buona. 16

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Rileggere le denunce, interrogare chi poteva sapere, control­ larne l’alibi. Tappe forzate, ma che non portarono ad alcun ri­ sultato. La verità era che di persone con problemi sessuali ve n’erano sin troppe. Un popolo di depravati, e per ogni esibizio­ nista c’erano dieci frustrati in doppiopetto, insospettabili ed inafferrabili. Sarebbe bastato parlare con le prostitute per rendersene imme­ diatamente conto. Ed è in effetti quello che fecero i giornalisti. “Un giorno scriverò la storia della mia vita. E andrà a ruba, perché nessuno immagina quello che ci accade ogni sera. E poi arrivano qui i poliziotti e ci chiedono se nei giorni precedenti l’omicidio di Renate abbiamo notato dei clienti strani. Clienti con desideri particolari, o magari col coltello in tasca. Ridicoli. Sono ridicoli. Questi non sanno proprio cosa ci tocca subire.” Così parlò una lucciola. Una che batte da una vita, che ha fatto del marciapiede il suo ufficio. Un ufficio aperto al pubbli­ co 24 ore al giorno, o quasi. Johanna ha i capelli di un biondo innaturale. Un viso dai lineamenti duri, le labbra sottili, il fisico di una donna vicina ai quaranta che va ogni giorno in palestra sperando che la cellulite resti compressa nei fuseaux e nelle tu­ tine superaderenti. “Questa volta aiuteremo i giudici,” disse pochi giorni dopo i delitti di Bolzano e Trento, “è nel nostro interesse trovare quel porco. La polizia e i carabinieri non ci sono mai piaciuti, ma cercheremo di aiutarli. È che ci fanno un mucchio di domande imbecilli. Qualcuno crede che l’assassino giri con la bava alla boccn. e il coltello in mano. No, guarda, qui è un gran casino. Di gente ruori di testa ce n’è un mare. Ma sai quanti girano con il coltello? Non immagini neanche lontanamente quanti sadoma­ so ci siano in circolazione.” “Una volta ho trovato uno che aveva sette o otto coltelli, tutti nascosti nell’impermeabile. Da non crederci. Mi ha fatto indos­ sare un camice bianco, di quelli da macellai. Sotto, ovviamente, ero nuda. Poi mi ha chiesto di tagliuzzarlo. Sì, proprio così. 17

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Voleva che lo ferissi, gli piaceva vedere il suo sangue. Oh, la cosa non mi piaceva per niente. Gli ho chiesto un milione. Ci penserà su due volte, mi sono detta. E lui invece sai cosa ha fat­ to? Ha staccato un assegno, senza fare una piega. E allora io l’ho accontentato. “Se proprio ti diverte...,” gli ho detto. Solo che a un certo punto io gli ho avvicinato la lama a un braccio, e lui ha spinto, per farsi infilzare dalla lama. Si è ferito, un taglio profondo. Madonna, che spavento! Da quella volta non ho più voluto vederlo. Ma di tipi come lui ce ne sono tanti altri. Hanno delle fantasie allucinanti. Schifose. Tutta colpa delle loro mo­ gli, che non li fanno scopare. E questi vengono da noi, e credo­ no di poterci fare di tutto. Stronzi.” Polizia e carabinieri? “Brancolano nel buio,” scrissero i giornali una volta sfumata la pista di un unico omicida per i due delitti. Sarà un luogo comune, ma rende bene l’idea. Gli inquirenti, espressione questa che fa molto chic e che dà un tocco di mistero e imperscrutabilità a tutti, dal panciuto ap­ puntato dei carabinieri «1. ¿iovane vicecommissario che fa sem­ pre il saputello, interrogarono le prostitute, rispolverarono tutti i vecchi casi di reati a sfondo sessuale, intensificarono i control­ li, scavarono nella vita di Renate. Non riuscivano proprio a trovare il bandolo della matassa, polizia e carabinieri. Ma qualche speranza c ’era. Guai se non fosse stato così... I giornali parlarono ad esempio di alcuni ca­ pelli chiari trovati sotto le unghie delle dita di Renate. I capelli dell’assassino: una traccia importante, almeno sino a quando non si scoprì che si trattava soltanto di uno specchietto per le allodole. Una trappola tesa all’omicida attraverso le pagine dei giornali. L’inconsapevole complicità della stampa, però, non diede alcun frutto. Restava la pista del diario. Sempre ammesso che fosse mai esistito. 18

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“Come no? Certo che c’è. Lo so per certo. Renate annotava tutto: nomi, cognomi, targhe, abitudini, disavventure e incontri strani. Lo portava sempre con sé, nella borsetta. Era un quader­ netto piuttosto comune. Fra un cliente e l’altro andava al bar, prendeva un caffè, si fumava una sigaretta e annotava.” Parola di Stefania, una collega. Diverse altre prostitute, interpellate, sostennero il contrario. Non credevano che tenesse un diario, non era proprio il tipo. Anzi, lei dei numeri di targa e dei nomi dei suoi clienti se ne fregava altamente. Purché pagassero. M a quel diario forse esi­ steva davvero, e poteva anche contenere la chiave del delitto. Perquisire da cima a fondo la roulotte dove Renate viveva con Bruno Magagna non servì a nulla. Del resto, se la storia era vera, il diario si trovava nella borsetta, quella borsetta che l’as­ sassino aveva fatto sparire. Le indagini vennero affidate al sostituto procuratore della re­ pubblica Paul Ranzi. Alto, lunghi capelli neri con la frangia in mezzo, baffi ben curati e occhialetti tondi alla moda che incor­ niciavano uno sguardo accattivante, Ranzi cercò innanzitutto di coordinare l’azione di polizia e carabinieri perché la solita, con­ troproducente concorrenza non vanificasse ogni sforzo. Il magi­ strato fece istituire una speciale linea verde. Una segreteria te­ lefonica collegata alla centrale dei carabinieri, in funzione 24 ore su 24, a disposizione di chiunque avesse voluto segnalare nomi, fatti o circostanze. Ci sarà pure qualcuno che avrà visto o sentito qualcosa, pen­ sò Ranzi. Le prostitute, intanto, lanciavano uno spunto nuovo ogni ora. “Nel cortile dell’area di servizio di via Renon ci ap­ partavamo quasi tutte, ogni sera. E la gente dei palazzi vicini lo sapeva. Qualche volta era anche volato un secchio d ’acqua nel bel mezzo della notte. E poi c ’era un maniaco, uno che abita al quarto piano, e che ogni sera si metteva al balcone e ci spiava con un binocolo. Quello non faceva altro dalla mattina alla se­ ra, figurarsi se non ha visto qualcosa...” 19

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Tante telefonate, e ad ogni squillo il cuore dell’appuntato in­ caricato di raccogliere le anonime confidenze aveva un sussul­ to. Si ricordava di Stefano Spilotros, il sedicente “mostro di Fo­ ligno.” Il mitomane che aveva tenuto in scacco il meglio degli investigatori italiani, riversando le sue elucubrazioni incredibil­ mente verosimili proprio su una linea verde come quella di Bolzano. L’appuntato registrò solo un ricco ma inutile campionario di umanità varia. La Sip era tenuta costantemente in preallarme, pronta a realizzare il blocco di chiamata che avrebbe consentito di individuare l’utenza telefonica dalla quale proveniva la te­ lefonata. Qualcuno urlava astiosamente “prendetelo” e riattacca­ va subito dopo, altri inveivano contro le prostitute. Un paio di mitomani, all’apparenza credibili anche se fornirono solo parti­ colari che potevano facilmente essere stati appresi dai media, fe­ cero perdere un mucchio di tempo prezioso agli investigatori. E intanto, il diario restava un oggetto misterioso. Forse esi­ steva, forse no. Ma non si poteva rischiare. Così, quando uno sconosciuto telefonò alla redazione di una televisione privata affermando di avere visto un tizio gettare dal ponte di Chiusa una borsetta, carabinieri e pompieri si precipitarono sul posto e batterono un lungo tratto del fiume Isarco centimetro per centimetro. Tutto inutile. Non restava che sperare in un miracolo. Del delitto si sareb­ be occupata anche la Rai, nel corso di una trasmissione molto popolare. Forse, qualcosa si sarebbe mosso. Donatella Raffai mostrò lo sguardo severo di una madre preoccupata per i propri figli, che stavano prendendo una brutta piega. Avrebbe voluto sgridarli, ma anche far loro capire che stavano sbagliando. “Non pensate che ci siano strumenti più civili per fare giusti­ zia?” chiese. 20

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No, rispose la lucciola. Anzi, saremmo anche disposte ad au­ mentare la taglia, se questo potesse servire a smuovere le inda­ gini. Parte civile, su Rai Tre, la sera del 15 gennaio 1992, una set­ timana dopo l’omicidio di Renate. Donatella Raffai aveva la­ sciato il fortunatissimo Chi l ’ha visto? per il suo nuovo pro­ gramma in prima serata tivù. Parte civile stava dalla parte degli sconfitti. Quella sera era dalla parte di Renate. La Raffai aspettò che la telecamera la inquadrasse, staccando un primo piano sulle sue mani che reggevano l’assegno da dieci milioni. La taglia delle prostitute bolzanine sulla testa dell’as­ sassino. Poi lo stracciò. Mi spiace, sembrò dire, non è questo il modo di fare. Le sue ospiti, inquadrate, non fecero una piega. Erano due lucciole bolzanine, entrambe drogate. Una era Lo­ rena, che per prima aveva scoperto il corpo di Renate. L’altra era una sua collega. Non volevano farsi riconoscere, la teleca­ mera le inquadrò solo di spalle e la Raffai le chiamò con due nomi di comodo: M arisa e Sonia. Da Bolzano, in collegamento diretto, intervennero due altre prostitute. Due bionde, che al pari di Marisa e Sonia non vollero farsi riconoscere, ma che si consideravano un gradino più in su perché non si drogavano, giravano su auto di grossa cilindrata e prendevano appuntamen­ ti con il telefono cellulare. E odiavano le tossiche, perché non usavano mai il “guanto” . Erano lì perché le avevano pagate bene, un milioncino a testa. Ma anche perché avevano una di­ screta paura. Il mostro era il comune nemico. Per questo avevano deciso di mettere una taglia sulla sua te­ sta: dieci milioni a chiunque avesse fornito indicazioni utili a consentirne la cattura. Le lucciole badavano al sodo. La loro vita non era fatta di chiacchiere al vento. Avevano accettato un solo compromesso, quello con se stesse. E quella sera erano lì, davanti ai teleschermi, per dimostrare di voler vendicare Rena­ te, ma soprattutto per cacciare dalla testa i cattivi pensieri. 21

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Donatella Raffai misurò ogni parola, sua e delle sue ospiti. Severa, attenta, distaccata. Squillò il telefono. Era la linea del numero verde che poco prima era comparso in sovraimpressione. Dall’altro capo del filo c ’era Giusy, così almeno diceva di chiamarsi. Telefonava da Bolzano, e aveva parecchie cose da riferire. Conosceva bene Renate. Anzi, era addirittura la sua migliore amica. “L’ho vista per la prima volta sei anni fa,” raccontò. “Stavo prendendo il sole sui prati del torrente Talvera quan­ do l’ho vista arrivare: voleva suicidarsi. ‘Qui l’acqua è troppo bassa, vai più in là,’ le ho detto per provocarla. Poco dopo è tomata, mi ha chiesto una sigaretta, siamo andate al bar e ci sia­ mo messe a parlare. Siamo diventate subito amiche.” La Raffai incalzò. Voleva sapere di più. Giusy l’accontentò. Aveva chiamato apposta. “Avete parlato di un fantomatico diario. Beh, posso assicu­ rarvi che esiste. Gliel’ho regalato proprio io, e posso anche de­ scriverlo. Era un libretto blu con i fiorellini. E l ’assassino, ora, sta cercando di cancellare le prove. La sera dopo il delitto ho ri­ cevuto una telefonata anonima. Era un uomo. Mi ha minaccia­ ta: ‘Tu sai del diario. Non parlare.’ ” Storie incrociate, vite spezzate, drammi paralleli, destini di­ versi si diedero appuntamento il 12 gennaio 1992 in occasione dell’ultimo saluto a Renate. Faceva freddo, al cimitero di Oltrisarco. Il corteo procedette lentamente, verso quel lembo di terra strappato ai vigneti. Era l’ultimo spazio disponibile, in un camposanto che soffocava e che era costretto ad allargare di continuo i suoi confini. Zolle di terra appena arate si stagliavano sul muro di cinta, tra le corone e i mazzi di fiori gettati quasi a casaccio sulle tombe ancora senza nome. Un vento gelido faceva lacrimare gli occhi già ar­ rossati dal pianto di papà Franz e di mamma M aria Luise. 22

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C ’erano i parenti, gli amici di famiglia. E le lucciole. Non molte, a dire il vero. La maggior parte di loro aveva pre­ ferito rimanere a casa. Per rispetto del dolore della famiglia di Renate, per scaramanzia. Quelle presenti si notavano per il loro sguardo perso nel vuo­ to, o per la loro eccentricità. Mamma Lina, la “regina delle pro­ stitute bolzanine” come si autodefiniva suscitando le ire di mol­ te sue colleghe, aveva grossi anelli su tutte le dita, la pelliccia e un trucco pesante. Era oscena, a ben vedere. Si avvicinò a Maria Luise. “Posso solo dirle che faremo di tutto per prenderlo,” le disse, “glielo giuro solennemente. Rena­ te non resterà impunita.” I fotografi, impietosi per professione più che per vocazione, non persero l’occasione di immortalare il dolore. Una foto, la più significativa, ritraeva i genitori distrutti dal dolore davanti alla bara di Renate, ricoperta di garofani rosa e bianchi. Fra la piccola folla anonima, forse c’era anche l’assassino. I carabinieri in borghese, che con la divisa si sarebbero forse no­ tati di meno, filmarono tutto e tutti con le loro cineprese. Sem­ bravano i giapponesi davanti al Colosseo. Soffiava un vento gelido sul cimitero di Oltrisarco. Marco era al lavoro, come sempre. Come sempre tranquillo e assente. Gli investigatori le studiarono tutte. Notti insonni, rari momenti di euforia e di speranza alternati a ben più frequenti angosce e frustrazioni. Ma l ’assassino di Renate Rauch restava sempre nell’ombra. Un volto senza espressione, assolutamente anonimo, di cui non era possibile immaginare i connotati, neppure lontanamente. “Non lo prenderemo mai.” II capitano Mauro Valentini, comandante della compagnia di Bolzano, trascorse ore ed ore a riflettere, a scambiare pareri con i colleghi, a cercare d ’inventarsi qualcosa per stanare l’assassino. 23

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Quando giunse sul luogo del delitto, si ricordò dell’esame di criminologia sostenuto alla Scuola ufficiali di Roma. Non era puro nozionismo. Sapeva che, prima o poi, quelle lezioni gli sa­ rebbero servite a qualcosa. Lo scenario del delitto. Importante. Anzi, fondamentale. Il sopralluogo subito dopo la scoperta del cadavere poteva ri­ velarsi decisivo. L’ambiente, la posizione della salma, le im­ pronte, le macchie. Elementi primari. Renate era stata ritrovata nel piazzale del distributore di via Renon. Una strada molto frequentata, nel cuore del quartiere a luci rosse. Bisognava innanzitutto stabilire se l’omicidio fosse realmen­ te avvenuto lì. Da un rapido esame delle ferite inferte si capì subito che la vittima aveve perso molto sangue. Sicuramente più di quanto non ne fosse stato trovato accanto al corpo stra­ ziato. Una prima conclusione. Renate era stata uccisa altrove, e trasportata in quel luogo dopo il delitto. Ma a ben guardare non avrebbe avuto molto senso. L’omicida, infatti, si sarebbe preso troppi rischi; avrebbe potuto incappare in qualche altra coppietta, e se fosse stato un cliente abituale delle prostitute avrebbe dovuto sapere che quel luogo era uno dei loro nascondigli abituali. Più probabile che Renate fosse stata uccisa ili macchina, lì o magari altrove, e poi scaricata ormai priva di vita nel piazzale. Le ore successive al ritrovamento del cadavere trascorsero febbrilmente fra la vaga speranza di incappare casualmente neL l’assassino e il tentativo di ricostruire la personalità della vitti­ ma, le sue ultime ore di vita, il cerchio delle sue conoscenze. I primi sospetti si appuntarono sul ragazzo drogato che con­ viveva con lei, Bruno Magagna. Uno sbandato, che polizia e carabinieri conoscevano da tempo. 24

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Un protettore non si priverebbe mai della sua gallina dalle uova d’oro, disse fra sé e sé il capitano. Ma le prostitute, inter­ rogate subito dopo la scoperta del cadavere, riferirono che i rapporti fra i due si erano incrinati. Lui si era messo con un’al­ tra donna, ma non per questo aveva smesso di sfruttare Renate, di chiederle soldi. Ne guadagnava parecchi, ma l’eroina costava cara, e nelle tasche restava ben poco. Lei poi, si era innamorata di un altro. Per questo, avevano ri­ ferito le altre prostitute, da qualche tempo non faceva più l’a­ more con i suoi clienti. Solo rapporti orali. Per rispetto del suo uomo. Per amore. Nella lista dei sospettati delle prime ore, Magagna era il nu­ mero uno. Sarebbe stato grandioso, riuscire a incastrarlo in quattro e quattr’otto. La soluzione più facile. Ma non andò così. Poche ore dopo il delitto di via Renon, verso l’una di notte, i carabinieri si erano precipitati sotto il ponte di Sant’Antonio e avevano circondato la roulotte dove il giovane viveva da tempo assieme a Renate. Magagna dormiva un sonno profondo, sotto l’effetto dell’ultima dose. I militari erano stati costretti a sfon­ dare la porta, lui non li aveva neppure sentiti. Non stava fingen­ do, chiunque se ne sarebbe reso conto. E così, la pista più facile era sfumata. Si ricominciò da zero. La vita di Renate era divisa fra Bruno e il marciapiede. Se Bruno non c’entrava, bisognava tornare a Dodiciville. Il delitto era maturato nell’ambiente della prostituzione, era lì che si do­ veva cercare. Sulle prime, sembrò prendere corpo la tesi di un regolamento di conti per storie di droga. Era già capitato, in passato, che la ragazza si fosse fatta consegnare l’eroina senza poi pagarla. Aveva diversi debiti con gli spacciatori, per lo più extracomuni­ tari. Forse era anche stata minacciata di morte. Nessuno poteva dirlo con certezza. Di tunisini capaci di uccidere per qualche milione non ancora riscosso, in città, ve n’erano diversi. E poi 25

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il coltello era l’arma preferita dalla criminalità nordafricana. Da sempre. Il capitano ricordava quel tunisino che aveva rischiato la vita dopo essere stato impalato da due connazionali per aver dormito nella loro roulotte senza chiedere il permesso. Ma se davvero qualcuno avesse avuto dei crediti da riscuotere, non l’avrebbe certo giustiziata con la furia di un maniaco nel pieno di un raptus omicida. L’avrebbe picchiata a sangue. Per dare l’esempio alle altre, per lanciare un messaggio chiarissimo che nessuna avrebbe mai potuto fraintendere. Renate sarebbe stata terrorizzata, e non sarebbe certo andata in questura a denuncia­ re i suoi aggressori. Poteva essere stato un cliente, per vendicarsi. Ogni tanto, Re­ nate rubava i portafogli dei suoi partner occasionali. Lo faceva con quelli più ingenui, oppure con quelli ricattabili. Proprio tre giorni prima di essere uccisa, era stata denunciata da un cliente rapinato. E questo sembrava confermare indirettamente la pista della vendetta. Ma era come cercare un ago in un pagliaio. Con Renate andavano un po’ tutti: extracomunitari, contadini, rap­ presentanti di passaggio. Lo stesso Magagna aveva segnalato un tizio biondo, alto cir­ ca un metro e ottanta. Girava su una Ford Fiesta, e da qualche tempo scocciava Renate. Altri avevano detto di avere visto una macchina rossa. Forse una Fiat Tipo, ma non ne erano sicuri. Erano stati fatti dei controlli, ma il compito si era subito rivela­ to del tutto improbo. Poteva trattarsi di una Fiat Tipo, ma anche di una Fiat Uno, una Citroën Ax, una Seat Ibiza, una Peugeot. Troppo vaghe, come indicazioni. Anche i controlli al terminale sugli elenchi della Motorizzazione civile e del Pra, il pubblico registro automobilistico, avevano confermato l’impossibilità di sfruttare quella segnalazione. Di auto rosse, in provincia di Bol ­ zano, ce ri’erano alcune decine di migliaia. Tutto inutile. La pista della vendetta non diede alcun risultato. Così si de­ cise di concentrare l ’attenzione su ll’altro filone d ’indagini, 26

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quello della depravazione quotidiana. Si aprì così la caccia al maniaco. Le prostitute, che della materia s’intendevano, fornirono un lungo elenco di altoatesini con strani vizietti. Tutti loro clienti. Pervertiti, sadomaso, depravati, feticisti, esibizionisti. Ce n’erano un sacco. 1 carabinieri scoprirono con disappunto che soltan­ to a Bolzano esistevano almeno venti clienti abituali ai quali piaceva giocare, durante il rapporto sessuale o in sua sostituzio­ ne, con coltelli e altre armi affilatissime. Aggiunti ad altri ma­ niaci che in un passato non troppo lontano avevano avuto a che fare con la giustizia, contribuirono a formare un elenco davvero lungo. Troppo lungo. Restringere il campo delle ricerche, e quindi dei sospetti, non sarebbe certo stato facile. Il capitano, però, non si perse d ’animo. Iniziò dal primo della lista, a scalare. Vennero controllati gli alibi, furono perquisiti molti appartam enti ed anche alcune macchine. Non si approdò a nulla. I depravati hanno una mente instabile, pensò il capitano Valentini. Se avessimo a che fare con uno di loro, prima o poi fini­ rebbe per confessare a qualcuno l’omicidio. Invece, non si era mossa foglia. Qualcuno si ricordò dei famosi elenchi dell’assessore Atz. Quelli contenenti i numeri di targa delle auto che scorrazzavano nelle notti a luci rosse di Dodiciville. Ma quegli elenchi, uffi­ cialmente, non esistevano. E se anche polizia e carabinieri li avessero trovati, avrebbero dovuto denunciare l’assessore, per­ ché la cosa era palesemente illegale. Sarebbe stata una grossa rogna, e di problemi ve n ’erano già a sufficienza. Una settim ana dopo il delitto Rauch, il questore ebbe una trovata che sembrava presa di peso da qualche telefilm polizie­ sco americano. Non gli piaceva l ’idea di avere un mostro in casa. I giornali, anche quelli nazionali, parlavano dei delitti di Bolzano, e degli esiti pressocché nulli delle indagini. Bisognava fare qualcosa. A mali estremi, estremi rimedi. 27

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Serviva un’operazione esca. Pensò così di prendere due giovani poliziotte, di travestirle da prostitute e di mandarle a battere a Dodiciville, assieme alle prostitute vere, che ne erano state informate ed aveva scelto di collaborare per il bene comune. Si sentivano minacciate, non c’era altra scelta. I clienti avrebbero subito notato le due nuove ragazze. E magari si sarebbe scoperto qualcosa d ’interessante. Visto che non si poteva rischiare la loro incolumità, si decise di affiancarle ad altrettanti poliziotti in borghese, che a loro volta si sarebbero finti protettori. Per evitare che le due “volontarie” riscuotessero i favori dei clienti perennemente affamati di novità, il questore decise di adottare un piccolo stratagemma: le due avrebbero chiesto mez­ zo m ilione per ogni rapporto. La cifra avrebbe scoraggiato chiunque, visto che le altre prostitute pretendevano solitamente cinquanta o centomila lire al massimo. Ma anche questo piccolo accorgimento non servì a molto, perché arrivarono clienti dana­ rosi che sarebbero stati disposti a spendere anche mezzo milio­ ne, e la cosa si sarebbe fatta rischiosa. Si decise così di rinun­ ciare, anche perché l’iniziativa non diede i frutti sperati, come del resto a nulla servì l’istituzione della speciale linea anonima creata dai carabinieri. Il telefono verde squillò centinaia di voi te, in quei giorni. Agli atti del fascicolo contro ignoti vennero allegati non meno di cinquanta nastri magnetici di un’ora. Molti si scagliavano contro le prostitute: “Ha fatto bene, spe­ ro che ne uccida delle altre.” E poi i soliti mitomani, che si autoattribuivano nefandezze d’ogni genere e che fecero perdere molto tempo agli investigatori, depistandoli in continuazione. Non si poteva certo rischiare di avere l ’assassino al telefono e di farselo scappare. Bisognava controllare ogni cosa. Chiama­ rono anche diversi cittadini estranei al mondo della prostituzio­ ne, ma le loro segnalazioni si rivelarono imprecise, frammenta­ rie e comunque sempre inutili. Quanto al famigerato diario di cui i giornali avevano parlato a profusione, non se ne trovava traccia. Doveva essere contenu­ 28

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to nella borsetta. Solo che, come si scoprì in seguito, Renate non ne aveva mai avuta una. Girava sempre con una sacca, poi trovata nella roulotte. La borsetta non le serviva. In tasca tene­ va qualche spicciolo ed una siringa con la solita bustina di dro­ ga. Non aveva neppure i documenti, perché in quel giro tutti or­ mai la conoscevano. Poliziotti e carabinieri compresi. L’ultimo diario di Renate, il capitano lo aveva trovato a casa dei genitori, in quella sua stanza che nessuno aveva avuto il co­ raggio di toccare da quando lei se n ’era andata. R isaliva a quando era una bambina, quando ancora non sapeva quali insi­ die si nascondessero fuori dal suo mondo. C ’erano frasi inno­ centi e pensierini delle amichette. Altro che targhe delle auto dei clienti, registrazione degli incassi e annotazioni varie. “Gli inquirenti brancolano nel buio,” lesse il capitano sul gior­ nale. Il suo viso si contrasse involontariamente in una smorfia di disappunto. Era maledettamente vero.

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La piccola ribelle Una vita sulla strada - “Inquietanti analogie” - La psicosi in aggua­ to - 1 delitti di Sanremo

Valles, 20 marzo 1992. “Ciao, scusa. Sono senza soldi. Mi offriresti una Coca Cola? O magari anche solo una cicca, dài...” Reni ,e Troger girava per i tavolini della discoteca “Gloria” di Vali s, in vai Pusteria. Era lì quasi ogni sera. La conosceva­ no un jo ’ tutti, in quel locale, l ’unico che nori facesse pagare il biglietto d ’ingresso, e lei del resto ci andava proprio per quel moti ve. Renate era una specie d ’istituzione della zona compre­ sa fra ..Bressanone e Brunico, fra la vai d ’Isarco e la vai Puste­ ria, do /e i turisti trascorrevano vacanze indimenticabili e i gio­ vani del posto si annoiavano terribilmente, trovando conforto solo nell’alcol e nelle sfrenate corse in macchina. Era anche un involontario punto di riferimento per tutti i frequentatori dei lo­ cali notturni, per chi viveva solo dopo la mezzanotte e andava a dormire all’alba. Aveva diciotto anni. Compiuti il 7 agosto. Ma non era stato un compleanno speciale, l ’ultimo. Con il raggiungimento della fatidica maggiore età non era cambiato poi molto, nella sua vi­ ta: dopo tutto, aveva sempre fatto ciò che voleva, anche quando era più piccola. Mamma Rosa aveva tentato di farla lavorare, di convincerla a mettere la testa a posto. Niente da fare. Non l’a­ veva mai ascoltata. Neppure quando, un anno e mezzo prima, papà era morto suicida, e mamma Rosa si era inaspettatamente ritrovata a tirare avanti, sola con i suoi quattro figli. 31

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Una sbandata, Renate. Piccola ma proporzionata, occhi e ca­ pelli castani, un bel profilo, vestita sempre in jeans. Abitava a Millan, lindo sobborgo di Bressanone. Mamma Rosa, 45 anni, una donna che tutti in paese definivano onesta e laboriosa, face­ va la domestica a ore. Il fratello Markus lavorava come cuoco in un albergo di Ortisei, in Valgardena, e anche Brigitte e Marti­ na, le due sorelle di Renate, avevano un lavoro fisso. Tutti in fa­ miglia si davano da fare, perché la vita non è facile. Ma la pic­ cola ribelle, lei no. Aveva abbandonato la scuola media, perché già allora aveva deciso di distinguersi dagli altri. Era stanca, di tutto e di tutti. Voleva rompere le regole. Aveva anche provato a lavorare, ma non era andata molto meglio. A quindici anni si era fatta assumere in un albergo di Castelrotto, ma qualche set­ timana dopo era di nuovo disoccupata. E proprio in quel luogo da favola, all’ombra dello Sciliar, aveva incontrato qualcuno che le aveva messo strane idee per la testa. Le classiche “cattive compagnie,” autentico terrore di ogni genitore apprensivo. Poi era stata assunta nella prestigiosa casa di cura del profes­ sor von Guggemberg a Bressanone, come aiutante in cucina. Mamma Rosa aveva finalmente tirato un sospiro di sollievo, ma la speranza che Renate si fosse sistemata era durata appena due settimane, dopo di che era arrivato il licenziamento in tronco. Nemmeno i rapporti con i fratelli e con la madre erano mai stati idilliaci. La piccola ribelle faceva sempre quello che vole­ va, rientrava a casa molto tardi e, anzi, molto spesso non torna­ va neppure. Pare anche che ogni tanto si drogasse. La zia ne era sicura: “Abbiamo anche cercato di farla entrare in una comu­ nità terapeutica, ma non c ’è stato niente da fare.” A Renate pia­ ceva girare, girare in continuazione, senza meta, forse solo per non pensare, o per restare fuori di casa. U n’anim a inquieta, come tante altre adolescenti che però, a differenza sua, non fini­ vano sulla strada. Non aveva neppure un motorino, così si era ben presto abituata a fare l’autostop. Trovare un passaggio, an­ che a notte fonda, per spostarsi da un locale all’altro, non era 32

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poi così difficile: ormai tutti la conoscevano, e si sarebbero sor­ presi se per una sera non l’avessero vista. Qualcuno, a dire la verità, la guardava un po ’ di sottecchi quando la vedeva girare nei bar e nelle discoteche da sola, sem­ pre da sola, avvicinando tutti e chiedendo una sigaretta, o una Coca Cola. Ma non importunava, non insisteva. 1 gestori dei lo­ cali non l’avevano mai buttata fuori e anzi, al “Gloria” Renate era praticamente di casa. Saliva in pedana e ballava da sola, per ore. Chissà cosa pensavano gli altri... ma lei non li vedeva nep­ pure. Era lontana, molto lontana. Parlava da sola mentre ballava. Non aveva amici, ma conosceva tutti. E si fidava di tutti. La vita di strada è fatta così. Campodazzo, 21 marzo 1992, ore 6.40. Michael Renzler ebbe un sussulto. Sgranò gli occhi, poi pi­ giò istintivamente il piede destro sul freno. Le ruote anteriori del suo furgoncino slittarono sotto la ghiaia. Renzler tese le mani sul volante per non finire con la testa contro il parabrezza. “Oh Cristo, ma questo qui è morto!” Statale 12, in direzione del Brennero. Venti minuti alle sette del mattino. Un freddo cane. Renzler, di professione piastrellista, guardò atterrito nello specchietto retrovisore prima di ingranare la retromarcia. Vide di nuovo sul bordo della strada quel corpo avvolto in un liquido mantello rosso sangue, si lasciò alle spalle il piazzale e ritornò sulla stradina laterale dalla quale proveniva per immettersi sulla statale. Raggiunse la casa più vicina, quella della fam iglia Volgger, e bussò con il cuore in gola. “Presto, chiamate un ’ambulanza, nel piazzale davanti alla statale c’è un uomo morto.” 33

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“Questa proprio non ci voleva!” Trattenne a stento un’imprecazione il tenente colonnello dei carabinieri Mario Basile, irriguardosamente buttato giù dal letto poco dopo le sette. Impiegò poco a capire il significato della telefonata. Impiegò ancor meno a vestirsi, salutare frettolosamente la moglie che non gli chiese neppure cosa fosse successo e rag­ giungere Campodazzo su una Fiat Uno azzurra guidata da un giovane appuntato in borghese. Il corpo era lì a pochi passi, avvolto in un’unica, scura chiaz­ za di sangue, poco lontano dai cespugli, riverso supino nel piazzale a lato della statale. Non era un uomo, come pensava Renzler, che non si era neppure avvicinato. No, quella era la sa­ goma di una donna. Di una piccola ribelle. “Una ferocia brutale,” sentenziò il medico della croce bianca fatto accorrere sul posto. Quella povera ragazza distesa a terra era stata sgozzata. Il suo assassino aveva provato a strangolarla, con una corda o qualcosa di simile. Poi le aveva tagliato la go­ la, prima di massacrarla a coltellate. Si era accanito con una cieca violenza sul suo corpo minuto. Quindici fendenti, tanti ne contò il medico. Poliziotti e carabinieri dovettero distogliere lo sguardo da quello spettacolo raccapricciante. La ragazza era di­ stesa sul fianco sinistro, con le gambe leggermente inclinate. Era completamente vestita, portava i jeans, una maglietta bian­ ca e una felpa dello stesso colore, sopra una camicia. In testa aveva ancora un fiocco rosso, con un grande fiore. Poveretta. Con sé non aveva nulla. Non una borsa, un documento, una lira. Niente di niente. “La prima coltellata le ha reciso la gola,” spiegò dopo aver eseguito l’autopsia il professor Giovanni Bonan dell’istituto di medicina legale delFuniversità di Padova. “Poi, l’assassino ha 34

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inferito sul corpo, probabilmente già privo di vita. Quattordici coltellate, tutte al torace e aH’addome.” Sul collo erano evidenti i segui di un tentativo di strangolamento con una fune, una corda o qualcosa di simile. Renate, per una frazione di secondo, aveva cercato di resistere all’omicida, che aveva allora estratto il col­ tello e l’aveva sgozzata. Infine, con la poveretta distesa a terra ormai priva di vita, aveva compiuto il suo macabro rituale sadi­ co. E l’ora del delitto? L’arma utilizzata? La possibile dinamica? “Probabilmente è stato utilizzato un coltello comune, forse da cucina,” ipotizzò Bonan. “Un coltello appuntito, con una lama liscia e sottile. Sull’ora del delitto non mi sbilancio, almeno per ora. Quanto alla dinamica, la ragazza dovrebbe essere stata ag­ gredita di spalle, all’improvviso. Il colpo alla gola le è stato vi­ brato da sinistra verso destra, la morte è stata quasi istantanea.” Nessuna possibilità di reazione, nessun tentativo di fuga. Niente di niente. La ragazza col fiocco rosso non sospettava. Si fidava. O forse era stata assalita da qualcuno che non aveva neppure visto. Già, ma chi? Polizia e carabinieri cercarono di organizzarsi. Per la ragazza non c’era più nulla da fare, ma bisognava pur sempre identifi­ carla. Non sarebbe stato facile, il colonnello e il capo della squadra mobile lo intuirono subito. La vittima non aveva con sé documenti, il luogo era isolato. Non c’erano testimoni e neppu­ re il Ced, il Centro Elaborazione Dati della questura, segnalava la scomparsa di una ragazza con le sue caratteristiche. Forse veniva da fuori provincia, ipotizzò qualcuno. O forse era una prostituta, o una sbandata. Una senza casa, insomma. Le ricerche presero il via: chi abitava o lavorava da quelle parti avrebbe potuto conoscerla. E uno spiraglio, in effetti, sem­ brò aprirsi. Un uomo disse che forse si trattava di una ragazza di Chiusa, ma era una falsa segnalazione. Tutto da rifare. 35

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Due improvvisi squilli di telefono anticiparono di qualche minuto la suoneria della sveglia piazzata sul comodino della ca­ mera da letto di casa Ranzi. “Pronto, dottore? Buongiorno, sono il tenente colonnello. Mi scusi se la disturbo, ma c’è un problema. Un bel guaio, a dire la verità. Una ragazza massacrata a coltellate. Come la Rauch. L’ha trovata m ezz’ora fa un piastrellista a Campodazzo. Era senza documenti, non sappiamo ancora chi sia. Noi siamo qui, l’aspettiamo.” Clic. Paul Ranzi, sostituto procuratore, era il magistrato di turno anche quella settimana. Prima il sopralluogo, poi il nulla osta per la rimozione della salma. E le indagini, che si preannuncia­ vano molto difficili. Il pensiero corse subito all’omicidio Ra­ uch, e si fece tremendo sospetto, dubbio inquietante. Sì, poteva­ no essere state uccise dalla stessa persona. Oddio, ma allora il maniaco esisteva davvero... Alle volte, nelle indagini ci vuole un po’ di fortuna. Bisogna battere tutte le piste, anche le più assurde. E sentire cento per­ sone, nella speranza che ve ne sia almeno una che sappia qual­ cosa. All’identificazione della ragazza con il fiocco rosso, la cui unica colpa era stata probabilmente quella di chiedere un pas­ saggio alla persona sbagliata, i carabinieri arrivarono per il fiuto di un appuntato. La sera prima, mentre si trovava in perlu­ strazione a bordo di una gazzella, aveva notato un’Audi 80 fer­ ma davanti alla discoteca “Papillon” di San Pietro Mezzomon­ te, a metà strada fra Chiusa e Bressanone, nel cuore della vai d ’Isarco. Sulla macchina c ’erano due ragazzi e una giovane. Niente di strano, all’apparenza. L’appuntato non sapeva bene perché, ma aveva preso il nu­ mero di targa di quell’auto. Chissà, forse pensava ad uno stu­ pro, o magari ad una storia di droga. Quando sentì via radio dell’omicidio di Campodazzo, lì per lì non collegò i due avve­ 36

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nimenti, ma poi ci ripensò. Qualche ricerca, poi i due ragazzi dell’Audi vennero scovati. Era ormai pomeriggio, dalla scoperta del cadavere erano pas­ sate molte ore. “Sì, quella ragazza era con noi la scorsa notte,” raccontarono i due senza manifestare alcuna emozione. “Si chiama Renate Troger. L’abbiamo trovata verso l’una e mezzo di notte alla discoteca “Gloria” di Valles. La conosceva­ mo di vista, lei ha notato che stavamo uscendo e ci ha chiesto un passaggio per tornare a casa. Ha detto che abitava a Millan. Noi l’abbiamo fatta salire. Poi, lungo la strada, ci siamo fermati a mangiare qualcosa alla paninoteca “Kaktus”, vicino al Papil­ lon.” Lì, in effetti, li aveva visti l’appuntato. “Poi l’abbiamo portata fin sotto casa. Erano le tre di notte, o giù di lì.” “M aledizione.” Chiusa. La porta era chiusa. Renate non aveva neppure le chiavi di casa. Mai avute. Suo­ nava, e mamma Rosa le apriva. Sì, ma solo quando tornava, e non è che capitasse ogni sera. La porta era chiusa. Che fare? Sono le tre di notte, pensò. E fa freddo. A casa, ormai, non sarebbe più riuscita ad entrare. Ma c ’era u n ’altra possibilità. R estava pur sem pre quella soffitta che m am ma Rosa lasciava aperta, per consentirle di dorm ire lì quando tornava alle prime luci dell’alba. Anche la soffitta era chiusa a chiave. “Vaffanculo!” Il movente? Non c ’era. 37

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Renate non era né una drogata, né una prostituta. Sì, ogni tanto si bucava, ma sul corpo non era stato trovato alcun segno di punture. Omicidio a sfondo sessuale? Tutto era possibile, ma pareva piuttosto improbabile. La vittima era completamente ve­ stita, e non erano stati trovati segni di violenza carnale. Né trac­ ce di una colluttazione. Nessuna rissa, niente percosse. Già, e allora? Forse una spiegazione c’era. Ed era la più tremenda, quella a cui tutti pensavano, ma che nessuno aveva avuto il coraggio di dire. Quella che i quotidiani del giorno dopo fecero scivolare fra le righe, e che il magistrato, molto diplomaticamente, “non confermò né smentì.” L’ipotesi di un maniaco. Forse, lo stesso che aveva ucciso Renate Rauch. Il mostro. “Assassino consegnati,” tuonò don Haspinger ai funerali di Renate il 26 marzo, cinque giorni dopo il ritrovamento del cor­ po orrendamente seviziato. Nel piccolo cimitero di Millan, col volto distrutto dal dolore, c’erano mamma Rosa e i fratelli. Molti temevano che, prima o poi, qualcosa di tremendo sa­ rebbe accaduto. La piccola ribelle sembrava fatta apposta per andare a caccia di guai. E le indagini erano ad un punto morto. Ad una settimana dal delitto, non c’era uno straccio di pista sulla quale lavorare. Un elemento che avrebbe potuto rivelarsi importante, se non addirittura decisivo, lanciò gli inquirenti verso una pista che non diede alcun risultato. In una tasca dei blue jeans di Renate venne trovata una piastrellina di ceramica rossa. Era quadrata, misura­ va un centimetro di lato per quattro millimetri di spessore. Cosa diavolo poteva essere? Un rivestimento, ma di che tipo? 38

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Quel minuscolo e misterioso oggetto non venne mai identifi­ cato. Si pensò che potesse provenire dal bagno di una discote­ ca, o di uno dei tanti locali pubblici che Renate frequentava. Furono disposti controlli a tappeto, ma non servì a nulla. Lo scoramento prese ancora una volta il sopravvento, e così anche il più tenace degli investigatori si convinse che quel piccolo og­ getto non avrebbe mai e poi mai fornito l’indizio risolutore. I carabinieri interrogarono decine di persone. Molti conosce­ vano Renate, ma solo di vista. Tutte amicizie occasionali. Non aveva amici, ma solo tanti compagni della notte, che cambiava­ no ogni sera e che condividevano con lei una Coca Cola, un ballo al “Gloria” o un breve tratto di strada in macchina. No, nessuno sapeva cosa fosse realmente accaduto. Quella ragazza faceva una vita sregolata, d ’accordo, ma non aveva mai fatto del male a nessuno. Il fatto che non avesse documenti né soldi non doveva stupire nessuno. Chissà dov’era finita la sua carta d ’identità, se mai l’aveva avuta. Quanto ai soldi, era già tanto se riusciva a racimolarne a sufficienza per farsi un panino e una bibita. Quando le andava proprio bene, poteva concedersi il lusso di prendere il pullman o il treno locale per andare a Bolzano, e poi tornare a Bressanone. Tassisti, camionisti, panettieri, baristi, commercianti ambu­ lanti, gestori e frequentatori dei locali della zona: vennero sen­ titi tutti, come possibili testimoni. I carabinieri si procurarono persino gli elenchi dei pendolari che lavoravano come operai nelle fabbriche della zona industriale di Bolzano, e che si alza­ vano all’alba per andare al lavoro transitando obbligatoriamen­ te lungo la statale del Brennero. Vennero tutti interrogati, ma non furono in grado di rilanciare le indagini. Una nuova pista giunse invece da Bolzano, inaspettatamente: un ragazzo rivelò alla polizia di avere visto la Troger a Bolzano poche ore prima del delitto. Erano le cinque e mezzo del mattino di quel 21 marzo. Rena­ te girava per Piazza Verdi, poco lontano da Dodiciville. Non batteva, cercava semplicemente un passaggio. M agari, dopo 39

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avere trovato chiusa la porta di casa, era riuscita in qualche modo a raggiungere il capoluogo, ed ora stava cercando un al­ tro automobilista che la riportasse indietro. La presenza di Renate in città nelle ore immediatamente pre­ cedenti la sua uccisione era un elemento importante. L’inquie­ tudine di chi lavorava al caso aumentò. Sembravano distanti e scollegati, i delitti Rauch e Troger. Invece, anche l’omicidio di Campodazzo riportava in qualche modo al “rione della perdi­ zione” dove si muoveva Renate Rauch. Forse, la ragazza col fiocco rosso era stata caricata in macchina da uno sconosciuto proprio a poche centinaia di metri dal piazzale dove due mesi prima era stata ritrovata la Rauch. L’ipotesi del mostro divenne sempre più credibile. I delitti Rauch e Ropele non andavano messi in relazione: la prostituta di Trento era stata uccisa da una mano diversa. Ma le analogie fra l’omicidio di Renate Rauch e quello di Renate Tro­ ger esistevano, eccome. I giornali fecero ipotesi su ipotesi, una al giorno. II ragazzo che disse di avere visto Renate poche ore prima della sua morte si era presentato spontaneamente in questura. Lavorava per una ditta incaricata della distribuzione dei giorna­ li. Aveva visto in tivù la foto della ragazza e l’aveva riconosciu­ ta senza ombra di dubbio. Anche se ancora non lo sapeva, era stato il penultimo a vedere Renate Troger prima che venisse uc­ cisa. L’ultimo, ovviamente, era stato l’assassino. “Saranno state le cinque e mezzo del mattino del 21 marzo,” raccontò, “ed io ero fermo fra piazza Verdi e ponte Loreto, da­ vanti all’edicola. Stavo scaricando i pacchi dei giornali dal pul­ mino, quando l’ho vista. Anzi, è stata lei a vedermi per prima. Era ferma davanti al distributore. E venuta da me, per scroccare una sigaretta. Gliel’ho data. Poi mi ha chiesto un passaggio. Voleva tornare a casa, dalle parti di Bressanone. Ma io le ho ri­ sposto che non potevo, dovevo completare le consegne ed ero diretto da un’altra parte. Lei allora se ne è andata in direzione di piazza Verdi. Quando mi sono voltato, l’ho vista vicino ad 40

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una macchina ferma, ma non ci ho fatto molto caso. Tutto qui.” La squadra mobile cercò di saperne di più. “Si sforzi, cerchi di ricordare, è importante...” Il ragazzo fornì qualche altro particolare. La macchina, ad esempio. Poteva essere una Renault, anche se non ne era sicuro. Credeva anche di avere visto che era targata Bolzano. Se ne ri­ cordava perché era una targa del vecchio tipo, con la sigla BZ di colore arancione su sfondo nero. Non se ne vedevano più molte, in giro. Disse anche che gli era sembrato di aver visto una luce rossa sul cruscotto, ma anche di questo non era certo. Soprattutto, non era in grado di dire se la ragazza fosse salita su quella macchina, o se si fosse allontanata a piedi. La Mobile si mise al lavoro. La luce rossa poteva essere la spia di un freno a mano tirato, o magari la luce ad intermittenza di un antifurto. Quanto alla targa con la sigla di colore arancione, valeva la pena di fare qualche accertamento, perché poteva trattarsi di un elemento importante. In realtà, come si accertò da un controllo al terminale della Motorizzazione civile, con una targa del ge­ nere erano state immatricolate 170.000 autovetture. E per di più il testimone non aveva fornito alcuna indicazione sulle cifre. Bisognava cercare tutte le Renault con la vecchia targa. Un la­ voro mastodontico, ma gli investigatori non si persero d’animo. Dopo m olte ore di snervante lavoro al computer, trovarono quello che cercavano: alcune centinaia di Renault con quella caratteristica. I proprietari vennero rintracciati e interrogati co­ me “persone informate sui fatti.” Nessuno, però, era passato per piazza Verdi quella mattina. Nessuno aveva visto Renate. I giornali locali misero in evidenza le analogie fra gli omicidi Rauch e Troger. Erano davvero molte. La giovane età e le caratteristiche fisi­ che delle vittime: esili, graziose, brune; i tipi di vita che faceva­ no: entrambe in rotta con la famiglia, trascorrevano le notti per strada e salivano spesso sulle automobili di sconosciuti; la man­ 41

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canza di un plausibile movente; Tanna usata: un coltello, che non era stato trovato; la dinamica degli omicidi: le vittime era­ no state assalite di schiena, in modo da non potersi difendere, con un primo fendente alla gola e un gran numero di colpi suc­ cessivi; i luoghi in cui i corpi erano stati trovati: due spiazzi in cui si appartavano di solito le coppiette; la vicinanza di quegli spiazzi a strade trafficate, che aveva permesso di scoprire i de­ litti poco tempo dopo, come se l’assassino non si fosse preoc­ cupato del rischio di essere colto sul fatto; l’incertezza sul fatto che i delitti fossero effettivamente avvenuti nei luoghi dove giacevano i cadaveri: scarso infatti era il sangue rinvenuto; l’a­ bilità dell’omicida nel far perdere le proprie tracce, nonostante il poco tempo avuto per allontanarci; infine, il nome delle due vittime: Renate. Dunque, la Rauch e la Troger avevano lo stesso nome di bat­ tesimo. Una coincidenza? Spinti dall’angoscia di dover spezzare in due un capello per venire a capo di un’indagine senza sboc­ chi e confortati indirettamente dai manuali di criminologia che sostenevano la ripetitività delle scelte e delle mosse dei serial killer, i carabinieri decisero di verificare anche quel particolare. Si procurarono gli elenchi degli uomini che negli ultimi tem­ pi si erano separati legalmente dalle loro mogli, o che magari avevano già ottenuto il d'vorzio. Controllarono se ve ne fosse uno o più che avesse una moglie di nome Renate. Poteva essere una traccia. Poi, sapendo quanto un forte complesso edipico po­ tesse rappresentare l’elemento scatenante della follia omicida, cercarono non solo le mogli, ma anche le madri che si chiama­ vano Renate. Partirò; o dai separati e dai divorziati per arrivare ai maniaci sessuali schedati. Non trovarono milla d’interessante. Al capitano Valentini sembrò che persino il computer colle­ gato con l’anagrafe centrale scrollasse il capo con evidente di­ sappunto. 42

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Le analogie non erano poche. Alcune forse del tutto casuali, altre decisamente più sospette. E comunque, sotto il profilo del­ la criminalità, la provincia di Bolzano era notoriamente una delle più tranquille d’Italia, terrorismo a parte. I delitti non era­ no certo frequenti, quelli attribuibili ad un maniaco ancor me­ no. Davvero difficile pensare ad una serie di incredibili coinci­ denze. Del resto, anche ricollegare i due omicidi alla stessa matrice non giovò agli inquirenti, visto che sulla morte di Re­ nate Rauch, avvenuta ormai da tre mesi, le indagini si erano di fatto arenate, né s’intravvedevano nuovi impulsi alle indagini. E che dire del maniaco, del mostro? Circolavano tante voci. Voci strane, malevole e maldicenti, spesso incredibili, quasi sempre molto fantasiose. Scrisse un giornale locale: “Gli investigatori, nell’ambito delle indagini sul delitto della giovane Renate Troger, stanno esaminando una segnalazione giunta ai carabinieri di Collalbo, sul Renon. Sembra infatti che una signora residente sull’altopiano sia rim asta vittim a, tre giorni fa, di un’avventura piuttosto inquietante e misteriosa. Scendendo verso Bolzano al volante della propria auto, infatti, la donna avrebbe incontrato un’anziana che, sul ciglio della strada, faceva autostop. Dopo essersi fermata, aveva spalancato la porta anteriore, invitando l’autostoppista a salire. L’anziana “ospite,” però, aveva chiesto di poter salire dietro, ma proprio a quel punto la donna al volante dell’auto si era accorta di un par­ ticolare che le aveva fatto accapponare la pelle. Le mani di quella vecchina, infatti, erano robuste e pelose. Mani e polsi da uomo, insomma. Spaventata, la donna aveva bruscamente acce­ lerato, quasi travolgendo l’anziana che stata salendo. L’improv­ visa mossa aveva sorpreso l’autostoppista, che era riuscita ad evitare di essere travolta, abbandonando però sul sedile la pro­ pria borsetta. In quella borsetta, a quanto sembra, la donna avrebbe poi trovato un coltello e una corda bianca.” 43

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Sembrava una storiella inventata di sana pianta. Ma il mondo dei balordi, della prostituzione, della devianza era fatto anche di storie come questa. Come se non bastasse, poi, qualcuno aveva lanciato nuovi, pesantissimi sospetti. A Sanremo, poche settimane prima, erano state uccise due prostitute. Wanda Rovatti, 47 anni, aveva visto il suo ultimo cliente il 14 febbraio, prima che questi la massacrasse. Due giorni dopo la stessa, tragica sorte era toccata ad Annie Desitter, 49 anni. Uccise dalla stessa mano, ottanta coltellate in due. Assalite sen­ za poter sospettare nulla, tramortite e poi giustiziate. Due vitti­ me, due case a soqquadro e due album di fotografie dai quali erano sparite alcune istantanee. La caccia al mostro si era subi­ to scatenata, i giudici liguri erano al lavoro. Si poteva astrattamente ipotizzare un collegamento tra Sanremo e Bolzano? Le indagini, inizialmente parallele o quasi, s’incrociarono su un punto ben preciso. La traccia era quella di un camionista di Brunico che aveva rapporti di lavoro anche con alcune ditte li­ guri. Un autotrasportatore che si trovava spesso dalle parti di Sanremo. Uno a cui piacevano le donne, un cliente delle luccio­ le conosciuto anche dalle prostitute bolzanine di Dodiciville. L’uomo, però, riuscì a dimostrare la propria estraneità. Per i delitti di Bolzano aveva un solido alibi, per quelli di Sanremo anche i residui sospetti su di lui svanirono poche settimane più tardi, dopo una brusca impennata. Il 22 marzo, ad Arma di Taggia venne uccisa una domestica di 37 anni, Giuliana Beghello, colpita con una mazza da base­ ball o qualcosa di simile. Ancora il mostro di Sanremo? Anche dall’appartamento della donna - il cadavere era stato scoperto dalla figlia quindicenne - erano sparite alcune fotografie, ma non sembravano esservi altri punti di contatto con gli altri due omicidi. Il giorno dopo il delitto, un uomo si suicidò iniettandosi nelle vene quattro dosi d’eroina. Si chiamava Paolo Savini, aveva trentanove anni, era sposato e padre di una graziosa bimba di due anni. Alle spalle, tanti la­ 44

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voretti e un passato d ’estremista di sinistra. “Paolone,” robusto e alto un metro e novanta, faceva contemporanemente il custo­ de e il becchino del cimitero di Sanremo. Accanto al suo cada­ vere, i carabinieri trovarono un biglietto destinato ai familiari: “So che non mi capirete, ma spero che mi perdonerete.” Nella sua macchina, una Fiat Uno, venne rinvenuta una maz­ za sporca di sangue. Da un armadio saltò fuori l’accappatoio di Annie Desitter, mentre a casa di Wanda Rovatti commise il du­ plice errore di lasciare gli occhiali da sole e un pacchetto delle sue sigarette preferite. Quanto all’omicidio di Giuliana Beghello, era stato compiuto dalla figlia quindicenne e dal suo fidanza­ to, un giostralo piemontese di 24 anni. L’avevano ripetutamente colpita al capo con un martello, staccandole quasi la testa, e tut­ to perché la donna non vedeva di buon occhio la loro relazione. Avevano anche sperato - anzi, ne erano certi - che la psicosi del mostro avrebbe allontanato da loro ogni sospetto. Dai laboratori di Pavia, dove venne eseguito l ’esam e del Dna, arrivò l’ultima certezza: Paolo Savini, il becchino di San­ remo, aveva ucciso le due prostitute e si era suicidato dopo aver appreso del delitto di Arma di Taggia: il “mostro” era lui, ma qualcuno aveva pensato di sfruttare la sua firma. Sino a spin­ gerlo al suicidio, non per gli orrendi crimini commessi, ma per quelli che gli sarebbero stati ingiustamente attribuiti.

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Un mezzo uomo Marika, una frase di troppo - “Questa volta lo prendiamo” - Trap­ pola a colazione

“M i ha preso in giro, ha detto che ero un m ezzo uomo. Per questo l ’ho uccisa. M a non ricordo più nulla”

Bolzano, 6 agosto 1992, ore 0.30. “Presto, chiami un’ambulanza! Hanno investito una donna. È lì, sul ciglio della strada del Colle, al secondo tornante. Faccia presto, maledizione!” Floriano Gander, sorpreso e un po’ stordito, afferrò la cornet­ ta del telefono e premette per cinque volte consecutive l’indice della mano destra sul quattro. Mezzanotte e mezzo. Si era coricato poco prima, il custode della stazione a valle della funivia che dal quartiere dei Piani porta al Colle, classica meta per una gita nel fine settimana. Nel buio piazzale che cir­ conda la sua casetta, drogati e prostitute fanno ormai parte del paesaggio. La croce bianca arrivò in pochi minuti. Ad una cinquantina di metri a monte del secondo tornante, sul ciglio della strada a pochi passi del guardrail, c ’era il corpo di una ragazza, in una pozza di sangue. Addosso aveva soltanto una maglietta bianca, una cintura nera in vita e una scarpa al piede destro. Era stata massacrata a coltellate. 47

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“II corpo della donna - scriverà il capopattuglia della Volante nella sua relazione - presentava evidenti ferite da arma da ta­ glio sparse tra gli arti superiori e in misura minore sugli arti in­ feriori; profonde ferite venivano notate sulla parte destra del collo e sulla parte superiori in cartilagine dell’orecchio destro.” La stessa, orrenda fine di Renate Rauch e di Renate Troger. Forse, anche la stessa firma. Accanto al cadavere, una felpa bianca imbrattata di sangue, un braccialetto d ’oro, un fermacapelli di plastica arancione e la borsa di tela della donna. Al suo interno un astuccio portatrucchi, le sigarette, i fazzoletti di carta e un tubetto di pomata; na­ scosta nella tasca laterale interna, una siringa da insulina, un cucchiaino e un accendino. Nessun documento. La vittima venne identificata quasi subito: si chiamava Marika Zorzi, aveva 19 anni ed abitava a Laives, alla periferia del capoluogo. L’arma del delitto era scomparsa. Mezzanotte e venti. Una calda notte d’estate, illuminata da tante stelle che pro­ mettevano bel tempo anche per l’indomani. Notte stellata, di sogni e di promesse. Ma non per tutti. Sonia Mauroner salutò Gander, salì in macchina e imboccò la strada del Colle per tornare a casa. Non vide nulla. Pochi minuti più tardi passò un’altra auto. A bordo, un uomo e una donna incinta. Videro entrambi una sagoma, riversa sul ciglio della strada, e pensarono che si trattasse di un pedone in­ vestito da un’auto pirata. Scesero a valle per chiamare aiuto, bussarono alla porta di Floriano Gander. Poi, fu tutto un via vai di ambulanze, carabinieri e poliziotti. Marika era stata uccisa da poco, il corpo era ancora caldo. La posizione della salma e la quantità di sangue trovato sull’asfal­ to, posto in relazione al numero e alla profondità delle coltellate 48

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presumibilmente inferte, consentirono agli investigatori di trar­ re una prima conclusione: l’omicida aveva compiuto altrove il delitto, era salito sulla strada del Colle sperando di non essere notato e aveva scaricato il corpo della donna dalla sua macchi­ na, sulla strada. Non aveva incrociato nessuno, aveva avuto davvero tanta fortuna. Il delitto era avvenuto poco dopo la mez­ zanotte, proprio quando in questura la pattuglia notturna della polizia dava il cambio a quella serale, smontante. Il linguaggio freddo e burocratico tipico dei verbali d’inter­ rogatorio rese ancora più agghiacciante il racconto. Dichiarò Marco: “Dopo aver cenato a casa, da solo, in quanto i miei genitori che con me convivono, si trovavano a trascorrere un periodo di ferie all’isola Verde in località Chioggia, sono uscito di casa prendendo la mia autovettura per fare un giro. Sono uscito in­ torno alle ore 22. Mi sono dapprima recato a Merano, in mac­ china, e poi sono tornato a Bolzano facendo qualche altro giro in macchina. Intorno alle ore 24 ho fatto salire, nella zona della concessionaria Renault di via Renon in Bolzano, una prostituta di nome Marika Zorzi. Faccio presente che non conoscevo pri­ ma il nome della ragazza, ma l’ho appreso quando, poi, ho vi­ sto i suoi documenti. Dopo aver fatto salire la ragazza in mac­ china, mi sono recato insiem e a lei nella zona dei M ercati Generali (deposito Opel) in quanto avevo pattuito con la ragaz­ za di avere con lei un rapporto sessuale per l’importo di lire 50 mila, che le ho fornito anticipatamente. Mi sono recato nella zona da me indicata in quanto è stata la prostituta a portarmi in quel posto, dicendomi che era una zona tranquilla.” Una ferocia brutale. Ventisei coltellate. E una fine orrenda. La morte sopravvenne per dissanguamento progressivo inter­ no, dopo m ezz’ora di agonia. M arika era morta dopo una furi­ 49

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bonda lotta con il suo assassino. Aveva tentato sino all’ultimo di resistergli, con tutte le sue forze, ma alla fine lui aveva avuto la meglio. Il dottor Edoardo Egarter, autore dell’autopsia, non ebbe dubbi: al momento di essere gettata fuori dall’auto, sulla strada del Colle, Marika era ancora viva, anche se agonizzante. “Ho riscontrato ventisei ferite da taglio su tutto il corpo. Sei colpi sono stati portati al tronco, al capo e al collo. Gli altri so­ no colpi da difesa, che hanno raggiunto le braccia e il dorso delle mani della vittima. Ciò significa evidentemente che fra l’omicida e la ragazza c’è stata una violenta colluttazione, che si è protratta per alcuni minuti. Le coltellate sono state inferte con diversa violenza. Quella più profonda, di diciotto centime­ tri, ha sfiorato un polmone.” Marco continuò a dettare la sua confessione. “Giunti sul posto abbiamo dapprima parlato un po’ del più e del meno e, quindi, io mi sono spogliato per consumare con lei il rapporto che avevamo pattuito. Le ho fatto presente il proble­ ma che avevo e, cioè, che nel mese di giugno di quest’anno mi era stato asportato un testicolo per un seminoma e che, quindi, avevo un solo testicolo. La ragazza non appena ha visto ciò, ha iniziato a prendermi in giro dicendomi che non le era mai capi­ tata una situazione simile e che io ero un mezzo uomo. Io allora le ho detto di smetterla, perché ognuno ha i suoi problemi e di­ sgrazie del genere possono capitare a tutti. La ragazza, però, non ha smesso di sfottermi. Per essere preciso, ha addirittura rincarato la dose, iniziando ad insultarmi e dandomi anche del figlio di puttana. Io allora l’ho mandata a quel paese ed allora la donna si è arrabbiata ancora di più e mi è saltata addosso.” “Io ho cercato in un primo tempo di tenere ferme le mani, ma poi visto che la ragazza continuava non ci ho più visto o, anzi, meglio, mi è esplosa fuori una rabbia interiore ed ho pre­ so, da dietro il mio posto macchina, un coltello che era messo sul tappetino posteriore ed ho iniziato a colpirla con il coltello. 50

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Questo coltello me lo ero portato in macchina quella sera stessa e non è quello che ogni tanto porto con me, e cioè un coltello a serramanico che mio padre mi ha portato via per utilizzarlo in vacanza per tagliare i panini sulla spiaggia. Voglio far presente che a partire dal momento in cui ho preso il coltello in mano, non ho più ricordi precisi, ricordo soltanto di averla colpita una prima volta in una parte del corpo che non so specificare e, poi, non ricordo più quante volte ancora l’ho colpita con il coltello.” Marika batteva perché aveva bisogno di se Idi. Si drogava, e l’eroina costa cara. Non era un’eccezione, tutt’altro. Molte, nel­ la zona di Dodiciville, si prostituivano come lei, saltuariamente, quando dovevano procurarsi centomila lire per il “quartino.” “Vi prego, non scrivete che M arika era una prostituta,” sup­ plicò il padre Fioravante rivolgendosi in lacrim e ai cronisti. “Perché è una falsità. Non lo era. Attraversava un periodo diffi­ cile, d ’accordo. Ma non sarebbe mai salita in macchina con uno sconosciuto. Mai.” La verità, per quanto difficile da accettare, era un’altra. Ave­ va avuto clienti d ’ogni genere, Marika, e ne aveva certo viste di tutti i colori. M a quando M arco le aveva parlato di quel suo problemino, si era messa a ridere. Questa è bella, aveva pensato tra sé e sé. E non lo aveva solo pensato. Glielo aveva detto. Non sapendo che sotto il sedile c’era un coltello, pronto per un nuovo bagno di sangue. Alle volte, il confine fra vita e morte è molto sottile. Una lucciola, collega di Marika, scosse la testa. “Forse potevamo salvarla. Io l’ho sentita urlare, ma non sono riuscita a individuare il luogo dal quale provenivano le grida. Sono corsa dalle altre ragazze per avvisarle, ma quando sono tornata ho trovato la polizia. Marika era già stata uccisa, il cor­ po era stato trovato pochi minuti prima. Sono certa che l’omici­ dio è avvenuto in via Macello, nei pressi del garage ‘Mille Mi­ 51

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glia.’ Ci appartiamo spesso in quella stradina, buia e isolata. È un posto tranquillo. Io sono arrivata lì sull’auto di un cliente. Dopo un po’ abbiamo sentito urlare. Una voce di donna. Sulle prime ho pensato a una lite. Poi, però, mi sono insospettita. Quelle grida erano troppo acute. Stava accadendo qualcosa, ne ero certa. Allora ho convinto il cliente a fare un giro in macchi­ na, per dare un’occhiata intorno. Ma le urla sono cessate, e poi non abbiamo trovato nessuna auto. Il cliente si è spazientito, e ha deciso di lasciare perdere. Mi ha scaricato, io allora sono corsa in via Renon per avvisare le altre, ma quando sono torna­ ta era troppo tardi.” Quella testimonianza, comunque, si rivelò molto utile. La stradina venne battuta palmo a palmo. Sull’asfalto, ben visibili, i segni di una fresca sgommata. E un paravento di plastica, poco distante. Per la precisione, il deflettore frangivento ante­ riore destro. Forse lo aveva perso l’assassino nella fuga. Forse era solo un abbaglio. Ma avrebbe anche potuto costituire la chiave di volta per scovare l’omicida. Guido Rispoli, il magistrato di turno, non perse tempo. Chia­ mò il capo della squadra mobile, Alexander Zelger, fresco di nomina, e gli disse di radunare tutte le volanti sul posto. “Porta­ te in questura le prostitute e interrogatele. Vediamo se ci posso­ no aiutare.” Alcune protestarono, altre acconsentirono senza la­ mentarsi. Le loro indicazioni, però, risultarono subito piuttosto confuse, e soprattutto discordanti. Una lucciola giurò di aver vi­ sto Marika salire a bordo di una Volkswagen Golf grigia, guida­ ta da un tizio biondo e piuttosto corpulento. Nel frattempo, la coppia che aveva lanciato l’allarme aveva raccontato a polizia e carabinieri un dettaglio tutt’altro che se­ condario: scendendo verso Bolzano, prima d ’imbattersi nel ca­ davere, aveva incrociato una A l 12 bianca che stava salendo. I coniugi non furono però in grado di ricordare chi si trovasse alla guida, né se vi fossero anche dei passeggeri. Sulle prime, tutti pensarono all’auto dell5omicida. Dopo tutto, i tempi combacia­ vano. Gazzelle e volanti batterono la zona per un’ora. Vennero 52

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scovate un paio di A l 12 bianche, ma avevano entrambe il mo­ tore freddo. Poi, cinque minuti prima delle due di notte, l’auto fu rintracciata. Era parcheggiata nei pressi di un maso a Cam­ piglio, poco distante dalla strada dove era stata trovata Marika. Bastarono pochi minuti, però, per capire che al volante di quella macchina non si era messo l’omicida, ma una preziosis­ sima testimone. Barbara Staffler - proprietaria dell’auto - e sua sorella gemella Anna avevano una cosa molto importante da ri­ ferire. Sì, è vero. Avevano incrociato l’auto con i coniugi. Ave­ vano anche visto il cadavere riverso sul ciglio della strada, e si erano fermate alla prima casa per telefonare alla croce bianca, circostanza che venne poi riscontrata. Ma quella non era l’unica macchina che avevano visto. Ce n ’era anche un’altra. Una Seat Ibiza di colore rosso. Erano anche riuscite a intravvedeme la targa. Cominciava per “BZ4,” di questo erano entrambe certe. La seconda cifra, molto probabilmente, era un “6.” E ancora non era finita. “Abbiamo anche visto chi guidava quell’auto. Era un uomo dell’apparente età di venticinque o trent’anni, con capelli bion­ di o castano chiari, con i baffi e la carnagione chiara.” No, questa volta l’assassino non poteva scappare. Il deflettore trovato lungo la stradina dove il delitto era stato consumato risultò perfettamente applicabile ad una Seat Ibiza. Tutto sembrava quadrare. Polizia e carabinieri avevano in mano una precisa descrizione del presunto omicida, del tipo di macchina, e persino due cifre della targa. Posti di blocco ovunque. L’assassino avrebbe cercato di scappare, di uscire dalla città. M a non ci sarebbe riuscito. Non questa volta. M itra spianati all’imbocco della valle Sarentina, all’altezza della zona industriale, lungo la statale del Brennero nei pressi della galleria del Virgolo, ai caselli autostradali di Bolzano nord e Bolzano sud, e sulla stradina che taglia per Laives dopo avere superato l’inceneritore. Vennero anche create due pattuglie “jolly”, una dei carabinieri e l’altra della polizia. Giravano per 53

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la città a casaccio, senza seguire un itinerario prefissato. Sperare d ’incappare nell’assassino, però, non bastava. Oc­ correva mettersi al terminale, richiedere il collegamento con la banca dati della Motorizzazione civile e il Pubblico registro au­ tomobilistico, riuscire a scoprire chi era il proprietario di quella maledetta Seat Ibiza targata Bolzano, con un quattro e un sei. Ma intanto il tempo passava. “Chissà dov’è l’assassino...” Un black out. Marco ebbe un black out. “Non ho ricordi precisi. So di essere andato lungo la strada del Colle, so anche che successivamente sono andato nella zona del depuratore. Non ricordo nulla di quello che ho fatto da quando sono andato sulla strada del Colle a quando mi sono di­ retto verso il depuratore. So però che quando sono sceso dalla macchina sono andato a sedermi, o meglio ad appoggiarmi al muretto che delimita il greto del fiume Isarco. Sono rimasto lì un po’ di tempo, non so quanto di preciso. Dopo essermi cal­ mato, sono risalito in macchina e sono andato a casa mia, in via Visitazione. Ho parcheggiato la macchina nel cortile interno e, quindi, ho tirato su dal tappetino anteriore tutta la roba che era per terra, e cioè il supporto del bloc notes che porto in macchi­ na, lo specchietto retrovisore, il coltello ed un pezzo dell’anten­ na interna dell’autoradio che si era spezzata.” “Poi sono salito in casa e ho rimesso il coltello nell’armadio senza ripulirlo. Sono andato in bagno e mi sono completamente spogliato, lasciando addosso soltanto le mutande. Mi sono lava­ to, sciacquandomi tutto il corpo. Ho lasciato i pantaloni in casa, perché erano un po’ macchiati di sangue, e ho invece preso la camicia a mezze maniche azzurra a righe bianche, che era mol­ to macchiata di sangue, riponendola in un sacchetto che ho poi portato con me. Faccio presente che sono rimasto a casa alcune ore e che sono uscito, con quel sacchetto, verso le cinque e mezzo del mattino.” 54

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“Per il periodo che sono rimasto a casa ero molto agitato e non sono riuscito a riposare. Dopo essere uscito sono salito in macchina e mi sono recato al piazzale del campo sportivo di Maso Ronco (Monticolo), perché ho pensato che si trattava di una zona non frequentata, e quindi tranquilla. Nel piazzale ho interamente smontato il sedile anteriore destro, dove si era se­ duta la ragazza, e che era impregnato di sangue, e l’ho riposto nel baule posteriore dove già c’era il sacchetto contenente la camicia. Volevo buttare via tutto da qualche parte, anche se non sapevo bene dove.” Venti minuti alle sette. Gli agenti e i militari erano ancora tutti lì, ai loro posti. Le stelle avevano promesso un’altra gior­ nata d ’afa insopportabile, l’alba era arrivata prima del solito ma nessuno se ne era accorto. Ogni tanto la radio lanciava i suoi messaggi gracchianti. Una pattuglia aveva fermato dall’altra parte della città una persona sospetta. Però no, non c ’entrava. Un altro buco nell’acqua. L’au­ to non era una Seat Ibiza rossa, e per di più l’alibi dell’uomo era stato rapidamente verificato. Via Volta, fra la zona industriale di Bolzano e il popoloso quartiere di Oltrisarco, dove abitavano i vecchi presi di peso dalle regioni d ’origine e fatti em igrare dal fascism o in Alto Adige, per favorire l’italianizzazione di quella terra da sempre tedesca. Poco distante c’era il cimitero. Dall’altra parte, le sagome in­ confondibili dei grigi muri della zona industriale, e in fondo il casello autostradale. La salvezza. Pochi minuti alle sette. Gli agenti della pattuglia “jolly” della Volante decisero di an­ dare a fare colazione. Erano stanchi e “smontanti,” come si diceva in gergc. Il loro turno, oramai, era finito. 55

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Questione di attimi. Dal sottopassaggio sbucò una macchina. Era proprio una Seat Ibiza, ed era rossa, come quella della segnalazione. Ma c ’era dell’altro. La targa era BZ 446047. Poteva corrispondere. Ed aveva il parabrezza sfondato. “Oh cazzo, forse ci siamo!” L’auto venne fermata. Al volante c’era un giovane con i baf­ fi. Indossava una polo azzurrina e un paio di calzoncini corti di color m arrone. Non fece una piega quando vide gli agenti. Eppure la sua fine era ormai vicina, e lui doveva saperlo perfet­ tamente. “Buon giorno. Patente e libretto, per cortesia.” Dal sedile anteriore destro mancavano sia l’imbottitura, sia la tappezzeria originale. E vicino alla portiera erano ben visibili delle macchie, forse di sangue. “Può mostrarmi il bagagliaio? Grazie...” AH’interno c’erano le prove inoppugnabili: gli abiti ancora imbrattati di sangue, il sedile anteriore destro, i documenti di Marika incollati al rivestimento interno del baule con lo scotch da pacchi. Marco si sentì perduto. “Dopo essere stato a Monticolo, sono risalito in macchina e mi sono diretto verso via Volta, in quanto volevo prendere la statale che porta da Bolzano a Trento, poiché oggi, alle ore 8 e 30, dovevo recarmi all’ospedale Santa Chiara di Trento per sot­ topormi ad una cura a base di radiazioni. Una volta giunto, pe­ rò, all’altezza del sottopassaggio di via Volta, sono stato ferma­ to da una pattuglia della polizia e, quindi, successivam ente condotto presso gli uffici della questura.” Alla confessione di Marco avevano assistito il sostituto pro­ curatore Guido Rispoli, il capo della squadra mobile Alexander Zelger, il viceispettore Ugo Lazzara e il sovrintendente Antonio 56

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De Gennaro, l’avvocato d ’ufficio Alessio Cuccurullo e, ovvia­ mente, l’agente verbalizzante. Zelger rilesse attentamente il suo rapporto prima di firmarlo a piè di pagina. “Fortemente indiziato del delitto il conducente dell’autovettu­ ra, identificato per Bergamo Marco, veniva accompagnato in questi uffici dove, in presenza del dottor Guido Rispoli e del di­ fensore designato d ’ufficio avvocato Alessio Cuccurullo, am­ metteva le proprie responsabilità in ordine all’omicidio perpetra­ to in danno della Zorzi Marika, rendendone ampia confessione a seguito della quale il magistrato emetteva nei suoi confronti il provvedimento di fermo di polizia giudiziaria.” Non riportò, il capo della squadra mobile, la risposta che Marco diede al giudice quando questi, a interrogatorio ormai concluso, gli chiese se davvero non avesse com m esso altre sciocchezze. “Sono sicuro al novantanove per cento,” disse. Tutti si meravigliarono di quell’ambigua risposta. Sei agosto 1992. La vita di Marika si era spezzata. Anche quella di Marco. E proprio nel giorno del suo compleanno. Il ventiseiesimo, per la precisione. Forse aveva voluto farsi un regalo, per festeggiare a suo modo. Marika.

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li mostro in vetrina Quel timido esibizionista - La macchina, i coltelli, le fotografie “Mio figlio? Un bravo ragazzo” - La sfida

Sei agosto 1992, ore 11.30. Telecamere, macchine fotografiche e taccuini. Una grande ressa, neH’atrio dell’edificio centrale della questura. Erano tutti lì, ad attendere lui. Il mostro. Non aveva ancora un nome, né un volto, almeno per la mag­ gioranza dei presenti. Un cronista, se non altro, era riuscito a scoprire che si chiamava Marco Bergamo e che aveva 26 anni. Due dati essenziali per altrettante curiosità: la prima, relativa al nome, perché in una piccola città si conoscono molte persone; la seconda, che riguardava l’età, investiva solo l’immaginario. L’idea che ciascuno poteva avere di un maniaco sessuale che uccide donne forse non sole, ma sicuramente indifese. Fotografi e cameramen si spintonavano a vicenda. La polizia aveva promesso che avrebbe trasferito l’om icida dagli uffici della squadra mobile, situati al pianterreno, sino al gabinetto fo­ tografico, posto al secondo piano. Doveva essere fotosegnalato. E poi c ’erano le impronte. Quella mano che aveva stretto un coltello vibrandolo all’impazzata per decine di volte sarebbe presto stata imbrattata d ’inchiostro nero. L’assassino sarebbe stato scortato dagli agenti. Questione di attimi. La ressa era davvero grande. Nessuno poteva permetter­ si di fare cilecca. 59

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I giornalisti apparivano un po’ più tranquilli di fotografi e cameramen. 11 procuratore capo, Mario Martin, aveva promesso una conferenza stampa. Presto si sarebbe saputo tutto. Non re­ stava che aspettare. Arrivò il capo della squadra mobile, Alexander Zelger. Ave­ va l’aria di un gitante della domenica costretto per chissà quali motivi a ritornare frettolosamente a casa. Era stanco ma soddi­ sfatto. Vestiva jeans e maglietta. Niente giacca e cravatta, que­ sta volta. “Ora lo portiamo fuori.” La cerimonia stava per avere inizio. Marco fece capolino dagli uffici della Mobile. Ammanettato e stretto fra due agenti in divisa. Per un attimo socchiuse gli oc­ chi. I fari delle telecamere e i flash delle macchine fotografiche lo accecarono. “Tutta questa gente è qui solo per me.” Forse lo pensò, di certo non lo disse. Camminò speditamente, con i poliziotti ai lati. II suo volto non fece una piega. Freddo e impassibile. Non sembrava confuso, né irritato o curioso. Soltanto assente. Pochi secondi. Poi sparì sulle scale che portavano al primo piano. Lo show era già finito. Anche i giornalisti avevano avuto quello che vo­ levano. “Lo hai visto? Io non ci sono riuscito. Che faccia aveva? Co­ me era vestito?” “Altezza media, corporatura normale. Capelli color castano scuro, con la riga a sinistra. Faccia inespressiva, con un gran paio di baffi. Sembra molto più vecchio di quanto non sia. Sia­ mo sicuri che abbia solo 26 anni?” “E i vestiti?” “Pantaloncini corti color marrone e una maglietta polo azzur­ 60

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ra. Niente di originale. Sembrava un turista alla vigilia della partenza. Pazzesco.” “Perché pazzesco? Non ci trovo niente di speciale.” “Cosa intendi?” “Beh, insomma... Voglio dire, che impressione ti ha fatto? Che te ne pare?” “Mah, non so. Non ho notato nulla di particolare. Nulla che faccia pensare ad un maniaco.” “Ecco, appunto. Hanno ragione gli psichiatri. Una persona banale, apparentem ente senza tratti distintivi, assolutam ente anonima. Uno qualunque, insomma. Guarda, quelli non sba­ gliano mai.” Via Visitazione 72. Un pi/azzo a cinque piani con la facciata color fango, i muri in parte scrostati da pioggia e umidità, le tapparelle in plastica tutte ugi ali, le tende verdi.sui balconi disadorni. Qua e là spun­ ta qualche pianta di geranio, ma non basta a vivacizzare un condon imo grigio e anonimo, come del resto quelli che lo cir­ condane1. /~ re j^ /e C 'f - h /? 8 /J d o o

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