Oscar e La Dama in Rosa

March 26, 2020 | Author: Anonymous | Category: il male, Albert Einstein, Religione E Credenza, Scienze filosofiche, Scienza
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Oscar e la dama in rosa Eric-Emmanuel Schmitt

Caro Dio, mi chiamo Oscar, ho dieci anni, ho appiccato il fuoco al gatto, al cane, alla casa (credo persino di aver arrostito i pesci rossi) ed è la prima lettera che ti mando perché finora, a causa dei miei studi, non ho avuto tempo. Ti avverto subito: detesto scrivere. Bisogna davvero che ci sia obbligato. Perché scrivere è soltanto una bugia che abbellisce la realtà. Una cosa da adulti. La prova? Per esempio, prendi l'inizio della mia lettera: “Mi chiamo Oscar, ho dieci anni, ho appiccato il fuoco al gatto, al cane, alla casa (credo persino di aver arrostito i pesci rossi) ed è la prima lettera che ti mando perché finora, a causa dei miei studi, non ho avuto tempo” Avrei potuto esordire dicendo: “Mi chiamano Testa d’uovo, dimostro sette anni, vivo all’ospedale a causa del cancro e non ti ho mai rivolto la parola perché non credo nemmeno che tu esista”. Ma se ti scrivo una roba del genere, fa un brutto effetto e ti interesseresti meno a me. E io ho bisogno che t’interessi. Inoltre mi farebbe comodo che tu avessi il tempo di farmi due o tre piaceri. Ti spiego. L'ospedale è un posto strasimpatico, con un sacco di adulti di buon umore che parlano forte, con un mucchio di giocattoli e di signore in rosa che vogliono divertirsi con i bambini, con amichetti sempre disponibili come Bacon, Einstein o Pop Corn, insomma. L'ospedale è molto gradevole se sei un malato gradito. Io non faccio più piacere. Da quando sono stato sottoposto al trapianto di midollo osseo, sento proprio che non faccio più piacere. Quando il dottor Düsseldorf mi visita, la mattina, lo fa di malavoglia, lo deludo. Mi guarda senza dire nulla, come se avessi commesso un errore. Eppure ho affrontato con impegno l'operazione; sono stato bravo, mi sono lasciato addormentare, ho avuto male senza gridare, ho preso tutte le medicine. Certi giorni ho voglia di insultarlo, di dirgli che è stato forse lui, il dottor Düsseldorf, con le sue sopracciglia nere, a sbagliarla, l'operazione. Ma ha un'aria talmente infelice che gli insulti mi restano in gola. Più il dottor Düsseldorf tace con il suo sguardo sconsolato, più mi sento colpevole. Ho capito che sono diventato un cattivo malato, un malato che impedisce di credere che la medicina sia straordinaria. Il pensiero di un medico è contagioso. Adesso tutto il piano, le infermiere, gli interni e le donne delle pulizie mi guardano nello stesso modo. Hanno l'aria triste quando sono di buon umore; si sforzano di ridere quando racconto una storiella. È vero, non ridono più come prima. Solo Nonna Rosa non è cambiata. Secondo me, è comunque troppa vecchia per cambiare. E poi è anche troppo Nonna Rosa. Nonna Rosa non te la presento, Dio, è una tua buona amica, visto che è stata lei a dirmi di scriverti. Il problema è che sono l'unico a chiamarla Nonna Rosa. Dunque, devi fare uno sforzo per capire di chi parlo: fra le signore in camice rosa che vengono da fuori a passare del tempo con i bambini malati, è la più vecchia di tutte. “Quanti anni ha, Nonna Rosa?” “Riesci a tenere a mente i numeri con tredici cifre, Oscar?” “Oh! Lei esagera!” “No. Qui non devono assolutamente sapere la mia età, altrimenti mi cacciano e non ci vedremo più” “Perché?” “Sono qui di contrabbando. C'è un'età limite per essere una signora in rosa. E io l'ho superata abbondantemente.” “È scaduta?” “Sì”

“Come uno yogurt?” “Sss!” “O.K.! Non dirò nulla.” È stato davvero coraggiosa a confessarmi li suo segreto. Ma con me ha avuto fortuna. Sarò muto anche se trovo strano, viste tutte le rughe simili a raggi di sole che ha attorno agli occhi, che a nessuno sia venuto il sospetto. Un'altra volta sono venuto a conoscenza di un altro suo segreto e così sono sicuro, Dio, che potrai identificarla. Passeggiavamo nel parco dell'ospedale e lei ha pestato una cacca. “Merda!” “Nonna Rosa, ma che brutte parole dice!” “Oh, ragazzino, lasciami in pace! Parlo come voglio.” “Oh, Nonna Rosa!” “E muovi le chiappe. Stiamo passeggiando, non facendo una corsa di lumache.” Quando ci siamo seduti su una panchina per succhiare una caramella, le ho chiesto: “Com'è che parla così male?” “Deformazione professionale, piccolo mio. Nel mio mestiere ero fottuta se avevo un vocabolario troppo delicato.” “E che mestiere faceva?” “Non mi crederai...” “Le giuro di sì.” “Lottatrice di catch.” “Non le credo!” “Lottatrice di catch! Mi avevano soprannominata la Strangolatrice del Languedoc.” Da quel momento, quando ho una botta di tristezza e Nonna Rosa è sicura che nessuno può sentirci, mi racconta i suoi grandi tornei: la Strangolatrice del Languedoc contro la Macellaia del Limousin; la sua lotta per vent'anni contro la Diabolica Sinclair, un'olandese che aveva delle granate al posto delle tette; e sopratutto la vittoria della coppa del mondo contro Ulla-Ulla, detta la Cagna di Büchenwald, che non era mai stata battuta, nemmeno da Cosce di Acciaio, il grande modello di Nonna Rosa quando era lottatrice. I suoi combattimenti mi fanno sognare, perché immagino la mia amica sul ring com'è adesso, una vecchietta in camice rosa un po' traballante, intenta a dare un sacco di botte a delle orchesse in costume da bagno. Ho l'impressione di essere io. Divento il più forte. Mi vendico. Dio, se con tutti questi indizi non indovini chi è Nonna Rosa, o la Strangolatrice del Languedoc, allora deve smettere di essere Dio e andare in pensione. Sono stato chiaro? Torno ai fatti miei. Insomma, il mio trapianto ha molto deluso qui. Anche la mia chemio deludeva, ma era meno grave finché c'era la speranza del trapianto. Adesso ho l'impressione che i medici non sappiano più che cosa proporre, e che mi considerino un caso pietoso. Il dottor Düsseldorf, che la mamma trova così bello, anche se per me è un po' forte si sopracciglia, ha l'aria sconsolata di un Babbo Natale che non abbia più regali nella sua gerla. L'atmosfera si deteriora. Ne ho parlato al mio amico Bacon. Per la verità non si chiama Bacon, ma Yves. Lo abbiamo chiamato Bacon perché gli si addice molto di più, visto che è un grande ustionato. “Bacon, ho l'impressione che gli medici non mi vogliono più bene. Li deprimo.” “Figurati, Testa d'uovo! I medici sono tosti. Progettano sempre un sacco di operazioni da farti. Io ho calcolato che me ne hanno promesse almeno sei.” “Forse li ispiri.” “Probabilmente.” “Ma perché non mi dicono semplicemente che morirò?”

Allora Bacon ha fatto come tutti all'ospedale: è diventato sordo. Se dici “morire” in un ospedale, nessuno sente. Puoi star sicuro che ci sarà un vuoto d'aria e che si parlerà d'altro. Ho fatto la prova con tutti. Tranne con Nonna Rosa. Allora stamattina ho voluto vedere se anche lei in quel momento diventava dura d'orecchi. “Nonna Rosa, ho l'impressione che nessuno mi dica che morirò.” Mi ha guardato. Avrebbe reagito come gli altri? Per favore, Strangolatrice del Languedoc, resisti e conserva l'udito! “Perché vuoi che te lo dicano se lo sai già, Oscar?” Uffa, ha sentito. “Ho l'impressione, Nonna Rosa, che abbiano inventato un ospedale diverso da quello che esiste veramente. Fanno come se si venisse all'ospedale solo per guarire. Mentre ci si viene anche per morire.” “Hai ragione, Oscar. E credo che si commetta lo stesso errore per la vita. Dimentichiamo che la vita è fragile, friabile, effimera. Facciamo tutti finta di essere immortali.” “È fallita la mia operazione, Nonna Rosa?” Nonna Rosa non ha risposto. Era il suo modo di dire di sì. Quando è stata sicura che avevo capito, si è avvicinata e mi ha chiesto, in tono supplichevole: “Non ti ho detto nulla, naturalmente. Me lo giuri?”. “Giuro.” Abbiamo taciuto un momentino per riflettere un po'. “E se scrivessi a Dio, Oscar?” “Ah no, non lei, Nonna Rosa!” “Cosa, non io?” “Non lei! Credevo che non fosse bugiarda.” “Ma non ti dico bugie...” “Allora perché mi parla di Dio? Mi hanno già raccontato la frottola di Babbo Natale. Una volta basta!” “Oscar, non c'è alcun rapporto fra Dio e Babbo Natale.” “Sì. È la stessa cosa. Ti riempiono la testa di tutt'e due!” “Immagini che io, una ex lottatrice di catch con centosessanta tornei vinti su centosessantacinque, di cui quarantatré per K.O., la Strangolatrice del Languedoc, possa credere per un attimo a Babbo Natale?” “No.” “Beh, io non credo a Babbo Natale ma credo in Dio. Ecco.” Ovviamente, detto così, cambiava tutto. “E perché dovrei scrivere a Dio?” “Ti sentiresti meno solo.” “Meno solo con qualcuno che non esiste?” “Fallo esistere.” Si è chinata verso di me. “Ogni volta che crederai in lui, esisterà un po' di più. Se persisti, esisterà completamente. Allora, ti farà del bene.” “Che cosa posso scrivergli?” “Confidagli i tuoi pensieri. I pensieri che non dici sono pensieri che pesano, che si incrostano, che ti opprimono, che ti immobilizzano, che prendono il posto delle idee nuove e che ti infettano. Diventerai una discarica di vecchi pensieri che puzzano, se non parli.” “O.K.” “E poi, a Dio puoi domandare una cosa al giorno. Attenzione! Una sola.” “È una nullità, il suo Dio, Nonna Rosa. Aladino aveva diritto a tre desideri con il genio della lampada.”

“Un desiderio al giorno è meglio di tre in una vita, no?” “O.K. Allora posso ordinargli tutto? Giocattoli, caramelle, un'auto...” “No, Oscar. Dio non è Babbo Natale. Puoi chiedere solo cose dello spirito.” “Esempio?” “Esempio: del coraggio, della pazienza, dei chiarimenti.” “O.K. Capisco.” “E puoi anche, Oscar, suggerirgli dei favori per gli altri.” “Non esageriamo, Nonna Rosa, un desiderio al giorno me lo tengo per me!” Ecco. Allora Dio, in occasione di questa prima lettera, ti ho mostrato un po' il genere di vita che conduco qui, all'ospedale, dove adesso mi considerano come un ostacolo alla medicina, e mi piacerebbe chiederti un chiarimento: guarirò? Rispondi di sì o di no. Non è molto complicato. Sì o no. Ti basta cancellare la menzione inutile. A domani, baci, Oscar. P.S. Non ho il tuo indirizzo: come faccio?

Caro Dio, bravo! Sei fortissimo. Addirittura prima che abbia impostato la lettera, mi hai dato la risposta. Come fai? Stamattina giocavo a scacchi con Einstein nella sala di ricreazione quando Pop Corn è venuto ad avvertirmi: “Ci sono i tuoi genitori”. “I miei genitori? Non è possibile. Vengono solo la domenica.” “Ho visto l’auto, la jeep rossa con il tettuccio bianco.” “Non è possibile.” Ho alzato le spalle e ho continuato a giocare con Einstein. Ma siccome ero preoccupato, Einstein si fregava tutti i miei pezzi e la cosa mi ha innervosito ancora di più. Se lo chiamiamo Einstein non e perché sia più intelligente degli altri, ma perché ha la testa molto più grossa. Sembra che dentro ci sia dell’acqua. Peccato, se ci fosse stato del cervello, avrebbe potuto fare grandi cose, Einstein. Quando ho visto che stavo per perdere, ho smesso di giocare e ho seguito Pop Corn, la cui camera da sul parcheggio. Aveva ragione: i miei genitori erano arrivati. Devo dirti, Dio, che abitiamo lontano, i miei genitori e io. Non me ne rendevo conto quando ci abitavo, ma adesso che non ci abito più trovo che è veramente lontano. Perciò i miei genitori possono venirmi a trovare solo una volta alla settimana, la domenica, perché la domenica non lavorano e io nemmeno. “Vedi che avevo ragione” ha detto Pop Corn. “Cosa mi dai per averti avvertito?” “Ho dei cioccolatini alle nocciole.” “Non hai più delle fragole Tagada?” “No.” “O.K., vada per i cioccolatini.” Ovviamente non si ha il diritto di dar da mangiare a Pop Corn, visto che si trova qui per dimagrire. Novantotto chili a nove anni, un metro e dieci di altezza per un metro e dieci di larghezza! Il solo indumento in cui entri completamente è una tuta sportiva americana, le cui righe sembrano avere il mal di mare. Francamente, siccome siamo convinti che non potrà mai smettere di essere grasso e ci fa pietà tanto la fame lo tormenta, gli diamo sempre i nostri avanzi. Un cioccolatino è minuscolo rispetto a una tale massa di lardo! Se abbiamo torto, allora anche le infermiere smettano di infilargli delle supposte. Sono ritornato nella mia stanza ad aspettare i miei genitori. All’inizio non ho visto passare i minuti perché ero senza fiato, poi mi sono reso conto che avevano avuto quindici volte il tempo di arrivare da me. A un tratto, ho capito dov’erano. Mi sono infilato nel corridoio e, di nascosto, sono sceso dalle scale; poi ho camminato nella penombra fino allo studio del dottor Düsseldorf. Bingo! Erano la. Le voci mi arrivavano da dietro la porta. Siccome ero sfinito per la discesa, mi sono fermato alcuni secondi per rimettermi il cuore a posto e allora tutto si e guastato. Ho sentito quello che non avrei dovuto sentire. Mia madre singhiozzava, il dottor Düsseldorf ripeteva: “Abbiamo provato di tutto, credetemi, le abbiamo tentate tutte” e mio padre rispondeva con voce soffocata: “Ne sono sicuro, dottore, ne sono sicuro”. Sono rimasto con l’orecchio incollato alla porta di ferro. Non sapevo più che cosa fosse più freddo, se il metallo o io. Poi il dottor Düsseldorf ha detto: “Volete abbracciarlo?”. “Non ne avrò mai il coraggio» ha detto mia madre. “Non deve vederci in questo stato» ha aggiunto mio padre. Ed è stato allora che ho capito che i miei genitori erano due vigliacchi. Peggio: due vigliacchi che mi prendevano per un vigliacco! Siccome dallo studio arrivava il rumore di sedie che si spostavano, ho intuito che

stavano per uscire e ho aperto la prima porta che mi sono trovato davanti. È così che mi sono ritrovato nel ripostiglio delle scope dove ho passato il resto della mattinata perché, forse non lo sai, Dio, ma i ripostigli delle scope si aprono dall’esterno, non dall’interno... come se avessero paura che di notte le scope, i secchi e gli strofinacci tagliassero la corda! A ogni modo, non mi dava fastidio trovarmi rinchiuso al buio, perché non avevo più voglia di vedere nessuno e perché le gambe e le braccia non mi rispondevano più tanto bene, dopo il colpo che avevo ricevuto sentendo quello che avevo sentito. Verso mezzogiorno, ho udito un gran trambusto al piano di sopra. Ascoltavo i passi, le corse. Poi si sono messi a gridare il mio nome dappertutto: “Oscar! Oscar!”. Mi faceva bene sentirmi chiamare e non rispondere. Avevo voglia di scocciare il mondo intero. Dopo, credo di aver dormito un po’, poi ho percepito il ciabattare della signora N’da, la donna delle pulizie. Ha aperto la porta e ci siamo fatti paura l’un l’altra e abbiamo urlato fortissimo: lei perché non si aspettava di trovarmi la dentro, io perché non mi ricordavo che fosse così nera. Né che gridasse cosi forte. Dopo c’è stata una bella confusione. Sono venuti tutti: il dottor Düsseldorf, la capoinfermiera, le infermiere di servizio, le altre donne delle pulizie. Invece di sgridarmi, come avrei creduto, sembravano sentirsi tutti in colpa e ho capito che bisognava approfittare in fretta della situazione. “Voglio vedere Nonna Rosa.” “Ma dove ti eri cacciato, Oscar? Come ti senti?” “Voglio vedere Nonna Rosa.” “Come sei finito in quel ripostiglio? Hai seguito qualcuno? Hai sentito qualcosa?” “Voglio vedere Nonna Rosa.” “Bevi un bicchiere d’acqua.” “No. Voglio vedere Nonna Rosa.” “Prendi una boccata di...” “No. Voglio vedere Nonna Rosa.” Un pezzo di granito. Una roccia. Una lastra di cemento. Niente da fare. Non ascoltavo nemmeno più quello che mi dicevano. Volevo vedere Nonna Rosa. Davanti ai suoi colleghi, il dottor Düsseldorf appariva piuttosto seccato di non avere alcuna autorità su di me. Ha finito col cedere. “Chiamate quella signora!” Allora ho acconsentito a riposarmi e ho dormito un po’ nella mia stanza. Quando mi sono svegliato, Nonna Rosa era lì. Sorrideva. “Bravo, Oscar, ce l’hai fatta. E stato un bello schiaffo per loro. Ma il risultato e che adesso mi invidiano.” “Ce ne freghiamo.” “Sono brave persone, Oscar. Bravissime.” “Me ne sbatto.” “Che cosa c’è che non va?” “Il dottor Düsseldorf ha detto ai miei genitori che sarei morto e loro sono scappati. Li detesto.” Le ho raccontato tutto nei particolari, come a te, Dio. “Mmm” ha fatto Nonna Rosa “mi ricorda il mio torneo a Béthune contro Sarah Youp La Boum, la lottatrice dal corpo unto d’olio, l'anguilla dei ring, un’acrobata che si batteva quasi nuda e che ti sgusciava fra le mam quando cercavi di farle una presa. Combatteva solo a Béthune dove vinceva ogni anno la coppa di Béthune. Beh, io la volevo, la coppa di Béthune!” “Che cos’ha fatto, Nonna Rosa?” “Dei miei amici le hanno gettato addosso della farina quando e salita sul ring. Olio

più farina, era pronta da friggere. In tre croci e due movimenti, l’ho spedita al tappeto, Sarah Youp La Boum. Dopo di me, non la chiamavano più l’anguilla dei ring, ma il merluzzo impanato” “Mi scuserà, Nonna Rosa, ma non riesco proprio a capire il paragone.” “Ma è lampante! C’è sempre una soluzione, Oscar, c’è sempre un sacco di farina da qualche parte. Dovresti scrivere a Dio. È più forte di me.” “Anche per il catch?” “Sì. Anche per il catch, Dio sa il fatto suo. Prova, Oscar. Che cos’è che ti fa più male?” “Detesto i miei genitori.” “Allora detestali moltissimo.” “È lei a dirmelo, Nonna Rosa?” “Sì. Detestali moltissimo. Quando ti sarai sfogato, ti accorgerai che non era il caso. Racconta tutto a Dio e, nella tua lettera, chiedigli di venirti a trovare.” “Lui si sposta?” “A modo suo. Non spesso. Addirittura di rado.” “Perché? È malato anche lui?” Allora ho capito dal sospiro di Nonna Rosa che non voleva confessarmi che anche tu, Dio, sei messo male. “l tuoi genitori non ti hanno mai parlato di Dio, Oscar?” “Lasci perdere. I miei genitori sono dei cretini.” “Certo. Ma non ti hanno mai parlato di Dio?” “Sì. Solo una volta. Per dire che non ci credevano. Loro credono giusto a Babbo Natale.” “Sono proprio così cretini, Oscar?” “Non se lo immagina! Il giorno in cui sono tornato da scuola dicendo loro che dovevano finirla di raccontare fesserie, che sapevo, come tutti i miei compagni, che Babbo Natale non esisteva, avevano l'aria di cadere dalle nuvole. Siccome ero piuttosto furioso di essere passato per un idiota nel cortile della ricreazione, mi hanno giurato che non avevano mai voluto ingannarmi e che avevano creduto sinceramente che Babbo Natale esistesse, e che erano molto delusi, ma davvero molto delusi nell’apprendere che non era vero! Due autentici deficienti, le dico, Nonna Rosa!” “Dunque non credono in Dio?” “No.” “E la cosa non ti ha incuriosito?” “Se mi interesso a quello che pensano i cretini, non avrò più tempo per quello che pensano le persone intelligenti.” “Hai ragione. Ma il fatto che i tuoi genitori che, secondo te, sono dei cretini...” “Sì. Dei veri cretini, Nonna Rosa!” “Dunque, se i tuoi genitori che si sbagliano non ci credono, perché non dovresti crederci tu e chiedergli una visita?” “D’accordo. Ma non mi ha detto che è infermo?” “No. Ha un modo molto speciale di far visita. Ti viene a trovare con il pensiero. Nel tuo spirito.” Questo mi è piaciuto, l’ho trovato fortissimo. Nonna Rosa ha aggiunto “Vedrai: le sue visite fanno un gran bene”. “O.K., gliene parlerò. Per il momento, le visite che mi fanno più bene sono le sue.” Nonna Rosa ha sorriso e, quasi timidamente, si è chinata per darmi un bacio sulla guancia. Non osava andare fino in fondo. Chiedeva il permesso con lo sguardo. “Su. Mi baci. Non lo dirò agli altri. Non voglio rovinarle la reputazione di ex lottatrice.”

Le sue labbra si sono posate sulla mia guancia e la cosa mi ha fatto piacere, ho sentito un calore, un solletico, un profumo di cipria e di sapone. “Quando torna?” “Ho il diritto di venire solo due volte alla settimana.” “Non è possibile, Nonna Rosa! Non aspetterò tre giorni!” “È il regolamento.” “Chi lo fa il regolamento?” “Il dottor Düsseldorf.” “Il dottor Düsseldorf, in questo momento, se la fa addosso quando mi vede. Vada a chiedergli il permesso, Nonna Rosa. Non scherzo.” Mi ha guardato esitante. “Non scherzo. Se non viene a trovarmi tutti i giorni, io non scrivo a Dio.” “Proverò.” Nonna Rosa è uscita e mi sono messo a piangere. Prima non mi ero reso conto di quanto avessi bisogno di aiuto. Non mi ero reso conto, prima, di quanto fossi veramente malato. All’idea di non vedere più Nonna Rosa, capivo tutto e mi scioglievo in lacrime che mi bruciavano le guance. Per fortuna ho avuto un po’ di tempo per riprendermi prima che rientrasse. “È tutto sistemato: ho il permesso. Per dodici giorni posso venire a trovarti ogni giorno.” “Me e me soltanto?” “Te e te soltanto, Oscar. Dodici giorni.” Allora non so che cosa mi ha preso, ho ricominciato a singhiozzare. Eppure so che i ragazzi non devono piangere, soprattutto io, con la mia testa d’uovo, che non somiglio né a un ragazzo né a una ragazza, ma piuttosto a un marziano. Niente da fare. Non riuscivo a fermarmi. “Dodici giorni? Va davvero così male, Nonna Rosa?” Anche lei aveva voglia di piangere. Si tratteneva a fatica. L’ex lottatrice impediva alla ragazza di un tempo di lasciarsi andare. Era bello da vedere e mi ha distratto un po’. “Che giorno è oggi, Oscar?” “Diamine! Non vede il mio calendario? È il 20 dicembre.” “Nel mio paese, Oscar, c’è una leggenda che sostiene che, durante gli ultimi dodici giorni dell’anno, si può indovinare che tempo farà nei dodici mesi dell’anno seguente. Basta osservare ogni giornata per avere, in miniatura, il quadro del mese. Il 20 dicembre rappresenta gennaio, il 21 dicembre febbraio, e così via, fino al 31 dicembre che prefigura il dicembre seguente.” “È vero?” “È una leggenda. La leggenda dei dodici giorni divinatori. Vorrei che ci giocassimo, tu e io. Soprattutto tu. A partire da oggi, osserverai ogni giorno come se ciascuno contasse per dieci anni.” “Dieci anni?” “Sì. Un giorno: dieci anni.” “Allora, fra dodici giorni, avrò centovent’anni!” “Sì. Te ne rendi conto?” Nonna Rosa mi ha baciato, ci prende gusto, lo sento, e poi se n’è andata. Allora ecco, Dio: stamattina sono nato e non me ne sono reso conto bene; è diventato più chiaro verso mezzogiorno, quando avevo cinque anni, ho guadagnato in coscienza ma non è stato per apprendere delle buone notizie; stasera ho dieci anni ed e l’età della ragione. Ne approfitto per chiederti una cosa: quando hai qualcosa da annunciarmi, come a mezzogiorno per i miei cinque anni, sii meno brutale. Grazie.

A domani, baci, Oscar. P. S. Ho una cosa da chiederti. So che ho diritto a un solo desiderio, ma il mio desiderio di un attimo fa più che un desiderio era un consiglio. Sarei d’accordo per una visitina. Una visita in spirito. Trovo la cosa fortissima. Mi piacerebbe molto che me ne facessi una. Sono disponibile dalle otto del mattino alle nove di sera. Il resto del tempo dormo. Talvolta schiaccio dei pisolini anche durante la giornata, a causa delle cure. Ma se mi trovi così, non esitare a svegliarmi. Sarebbe stupido mancare all'appuntamento per così poco, no?

Caro Dio, oggi ho vissuto la mia adolescenza e non è andato tutto liscio. Che roba! Ho avuto un sacco di noie con i miei amici, con i miei genitori e tutto a causa delle ragazze. Stasera non sono scontento di avere vent’anni perché mi dico che, uffa, il peggio è alle spalle. La pubertà, grazie tante! Una volta sola può bastare! In primo luogo, Dio, ti faccio notare che non sei venuto. Oggi ho dormito pochissimo, visti i problemi di pubertà che ho avuto. Dunque mi sarei accorto se ti fossi presentato. E poi, te lo ripeto: so sonnecchio, scuotimi. Al risveglio Nonna Rosa c’era già. Durante la colazione mi ha raccontato i suoi combattimenti contro Tetta Reale, una lottatrice belga, che ingurgitava tre chili di carne cruda al giorno, annaffiata da ettolitri di birra; sembra che l’arma più potente di Tetta Reale fosse l’alito, a causa della fermentazione carne-birra, e che solo quello bastasse a mandare al tappeto le sue avversarie. Per sconfiggerla, Nonna Rosa aveva dovuto improvvisare una nuova tattica: mettere un passamontagna, impregnarlo di lavanda e farsi chiamare la Giustiziera di Carpentras. Il catch, dice sempre, richiede anche dei muscoli nel cervello. “Chi ti piace di più, Oscar?” “Qui? All’ospedale?” “Sì.” “Bacon, Einstein, Pop Corn.” “E fra le ragazze?” La domanda mi ha bloccato. Non avevo voglia di rispondere. Ma Nonna Rosa aspettava e, davanti a una lottatrice a livello internazionale, non si può tergiversare più di tanto. “Peggy Blue.” Peggy Blue è la bambina blu. Sta nella penultima stanza in fondo al corridoio. Sorride gentilmente ma non parla quasi mai. Si direbbe una fata che si riposi un po’ all’ospedale. Ha una malattia complicata, la sindrome del bambino blu, un problema di sangue che dovrebbe andare ai polmoni e che non ci va, rendendo tutta la pelle azzurrognola. È in attesa di un’operazione che la renderà rosa. Io trovo che sia un peccato. La trovo bellissima in blu, Peggy Blue. C’è un sacco di luce e di silenzio attorno a lei, si ha l’impressione di entrare in una cappella quando ci si avvicina. “Glielo hai detto?” “Non mi pianterò davanti a lei per dirle .” “Sì. Perché non lo fai?” “Non so nemmeno se sa che esisto.” “Ragione di più.” “Ha visto la testa che ho? Dovrebbe apprezzare gli extraterrestri, e di questo non sono sicuro.” “Io ti trovo molto bello, Oscar.” Allora Nonna Rosa ha frenato un po’ la conversazione. È piacevole sentire questo genere di cose, fa drizzare i peli, ma non si sa più cosa rispondere esattamente. “Non voglio sedurre solo con il mio corpo, Nonna Rosa.” “Che cosa provi per lei?” “Ho voglia di proteggerla dai fantasmi.” “Cosa? Ci sono dei fantasmi, qui?” “Sì. Tutte le notti. Ci svegliano e non si sa perché. Si ha male perché pizzicano. Si ha paura perché non si vedono. Si fa fatica a riaddormentarsi” “Ne percepisci spesso, tu, di fantasmi?” “No. Io ho un sonno molto profondo. Ma Peggy Blue la sento spesso gridare la notte. Mi piacerebbe molto proteggerla.”

“Vaglielo a dire.” “A ogni modo, non potrei farlo veramente perché, la notte, non si ha il permesso di lasciare la propria stanza. È il regolamento.” “I fantasmi conoscono il regolamento? No. Sicuramente no. Sii furbo: se ti sentono annunciare a Peggy Blue che monterai di guardia per proteggerla da loro, non oseranno venire stasera.” “Ma... ma...” “Quanti anni hai, Oscar?” “Non lo so. Che ore sono?” “Le dieci. Vai per i quindici anni. Non credi che sia ora di avere il coraggio dei tuoi sentimenti?” Alle dieci e mezzo mi sono deciso e sono andato fino alla porta della sua stanza, che era aperta. “Ciao, Peggy, sono Oscar.” Era sdraiata sul suo letto, sembrava Biancaneve quando aspetta il principe, quando quei coglioni di nani credono che sia morta, Biancaneve come le foto di neve in cui la neve è azzurra e non bianca. Si è girata verso di me e allora mi sono chiesto se mi avrebbe scambiato per il principe o per uno dei nani. Io avrei detto “nano” a causa della mia testa d’uovo, ma lei non ha aperto bocca ed è questo il bello con Peggy Blue, che non dice mai niente e che tutto resta misterioso. “Sono venuto ad annunciarti che stasera e tutte le sere a venire, se vuoi, monterò di guardia davanti alla tua stanza per proteggerti dai fantasmi.” Mi ha guardato, ha battuto le ciglia e ho avuto l'impressione che il film andasse al rallentatore, che l’aria diventasse più rarefatta, il silenzio più silenzioso, che camminassi come nell’acqua e che tutto cambiasse avvicinandomi al suo letto, illuminato da una luce che scendeva da chissà dove. “Ehi, vacci piano, Testa d’uovo: sarò io a montar di guardia a Peggy!” Pop Corn stava nel vano della porta, o piuttosto riempiva il vano della porta. Ho tremato. Certo che, se avesse fatto lui la guardia, nessun fantasma sarebbe più riuscito a passare. Pop Corn ha strizzato l’occhio a Peggy. “Eh, Peggy? Tu e io siamo amici, no?” Peggy ha guardato il soffitto. Pop Corn ha ritenuto fosse una conferma e mi ha trascinato fuori. “Se vuoi una ragazza, prendi Sandrine. Peggy è zona proibita.” “Con quale diritto?” “Con il diritto che ero qui prima di te. Se non sei contento, possiamo batterci.” “In realtà sono supercontento.” Ero un po’ stanco e sono andato a sedermi nella sala dei giochi, dove, per l’appunto, c’era Sandrine. È leucemica come me, ma la sua cura sembra riuscire. La chiamano la Cinese perché porta una parrucca nera, lucida, dai capelli dritti, con una frangia, che la fa somigliare a una cinese. Mi guarda e fa scoppiare una bolla di gomma americana. “Puoi baciarmi, se vuoi.” “Perché? La gomma non ti basta?” “Non sei nemmeno capace, scemo. Sono sicura che non lo hai mai fatto.” “Questa poi, mi fai proprio ridere! A quindici anni l’ho già fatto parecchie volte, posso assicurartelo.” “Hai quindici anni?” mi fa lei, sorpresa. Controllo il mio orologio. “Sì. Quindici anni passati.”

“Ho sempre sognato di essere baciata da un grande di quindici anni.” “Certo, è allettante.” E allora mi fa una smorfia impossibile con le labbra che spinge in avanti, simili a una ventosa che si schiacci su un vetro e capisco che aspetta un bacio. Voltandomi, vedo tutti i compagni che mi osservano. Non ho modo di tirarmi indietro. Devo essere un uomo. È il momento. Mi avvicino e la bacio. Mi afferra con le braccia, non riesco più a staccarmi, sento del bagnato e, tutt’a un tratto, senza avvertimenti, mi rifila la sua gomma. Per la sorpresa, l’ho mandata giù. Ero furioso. È in quel momento che una mano mi ha battuto sulla schiena. Le disgrazie non arrivano mai sole: i miei genitori. Era domenica e lo avevo scordato! “Ci presenti la tua amica, Oscar?” “Non è mia amica.” “Ce la presenti lo stesso?” “Sandrine. I miei genitori. Sandrine.” “Sono lietissima di conoscervi” dice la Cinese assumendo un’aria sdolcinata. L'avrei strozzata. “Vuoi che Sandrine venga con noi nella tua stanza?” “No. Sandrine resta qui.” Tornato a letto, mi sono reso conto che ero stanco e ho dormito un po’. A ogni modo, non volevo parlare con loro. Quando mi sono svegliato, ho visto che naturalmente mi avevano portato dei regali. Da quando sono ricoverato in permanenza all’ospedale, i miei genitori hanno qualche difficoltà con la conversazione; allora mi portano dei regali e trascorrono dei pomeriggi schifosi a leggere le regole del gioco e le istruzioni per l’uso. Mio padre si accanisce nello studio dei foglietti illustrativi: anche quando sono in turco o in giapponese, non si scoraggia. È campione del mondo del pomeriggio domenicale sciupato. Oggi mi ha portato un lettore di compact. Non l’ho potuto criticare anche se ne avevo voglia. “Non siete venuti ieri?” “Ieri? Perché mai? Possiamo solo la domenica. Che cosa te lo fa pensare?” “Qualcuno ha visto la vostra auto nel parcheggio.” “Non c’è una sola jeep rossa al mondo. Le macchine sono intercambiabili.” “Sì. Non sono come i genitori. Peccato.” Sono rimasti impietriti. Allora ho preso il lettore e ho ascoltato per due volte Lo schiaccianoci, senza fermarmi, davanti a loro. Due ore senza che potessero dire una parola. Sistemati. “Ti piace?” “Sì. Ho sonno.” Hanno capito che dovevano andarsene. Erano a disagio in modo evidente. Non riuscivano a decidersi. Sentivo che volevano dirmi delle cose e che non ce la facevano. Era bello vederli soffrire a loro volta. Poi mia madre si è precipitata contro di me, mi ha stretto molto forte, troppo forte, e ha detto con voce scossa: “Ti voglio bene, mio piccolo Oscar, ti voglio tanto bene”. Avrei voluto resistere, ma all’ultimo momento l’ho lasciata fare, mi ricordava il tempo passato, il tempo delle coccole pure e semplici, il tempo in cui non aveva un tono angosciato per dirmi che mi voleva bene. Dopo credo di essermi addormentato un po’. Nonna Rosa è la campionessa del risveglio. Arriva sempre al traguardo, nel momento in cui apro gli occhi. E in quel momento ha sempre un sorriso. “Allora, i tuoi genitori?” “Nulli come al solito. Beh, mi hanno regalato Lo schiaccianoci.”

“Lo schiaccianoci? Questa è bella. Avevo un’amica che si chiamava così. Una campionessa formidabile. Spezzava il collo delle sue avversarie fra le cosce. E Peggy Blue, sei andato a trovarla?” “Non me ne parli. È fidanzata con Pop Corn.” “Te lo ha detto lei?” “No, è stato lui.” “Un bluff!” “Non credo. Sono sicuro che le piace più di me. E più forte, più rassicurante.” “Un bluff, ti dico! Io, che sembravo un topo sul ring, ne ho battute tante di lottatrici che somigliavano a balene o a ippopotami. Per esempio, Plum Pudding, l’irlandese, centocinquanta chili a digiuno in slip prima della sua Guinness, avambraccia come cosce, bicipiti come prosciutti, gambe come colonne. Niente vita, impossibili le prese. Imbattibile!” “Come ha fatto?” “Quando non è possibile la presa, vuol dire che una è rotonda e che rotola. L’ho fatta correre, per stancarla, e poi l’ho atterrata, Plum Pudding. Ci è voluto un argano per rialzarla. Tu, Oscar, hai l’ossatura leggera e poca ciccia, questo è certo, ma la seduzione non dipende solo dall’osso e dalla carne, dipende anche dalle qualità del cuore. E di qualità del cuore tu ne hai in abbondanza.” “Io?” “Va’ a trovare Peggy Blue e dille quello che hai sullo stomaco.” “Sono un po’ stanco.” “Stanco? Che età hai a quest’ora? Diciott’anni? A diciott’anni non si e mai stanchi.” Nonna Rosa ha un modo di parlare che da energia. La motte era scesa, i rumori risuonavano più forti nella penombra, il linoleum del corridoio rifletteva la luna. Sono entrato da Peggy e le ho allungato il mio lettore di compact. “Tieni. Ascolta Il valzer dei fiocchi di neve. È talmente bello che mi fa pensare a te.” Peggy ha ascoltato Il valzer dei fiocchi di neve. Sorrideva come se il valzer fosse un vecchio amico che le raccontava cose buffe all’orecchio. Mi ha restituito l'apparecchio e mi ha detto: “È bello”. Era la sua prima parola. È carina, no, come prima parola? “Peggy Blue, volevo dirti: non voglio che ti faccia operare. Sei bella così. Sei bella in blu.” Ho visto bene che le mie parole le facevano piacere. Non lo avevo detto per questo, ma era chiaro che le faceva piacere. “Voglio che sia tu, Oscar, a proteggermi dai fantasmi.” “Conta su di me, Peggy.” Ero fiero da matti. Alla fine, ero stato io a vincere! “Baciami.” È veramente una cosa da ragazze il bacio, come se per loro fosse davvero un bisogno. Ma Peggy a differenza della Cinese, non è una viziosa, mi ha teso la guancia e darle un bacio è piaciuto anche a me, per davvero. “Buonanotte, Peggy” “Buonanotte, Oscar.” Ecco, Dio, questa è stata la mia giornata. Capisco che l’adolescenza venga definita l’età ingrata. È dura. Ma alla fine, a vent’anni suonati, le cose si aggiustano. Allora ti rivolgo la mia richiesta del giorno: vorrei che Peggy e io ci sposassimo. Non sono certo che il matrimonio appartenga alle cose dello spirito, se è questo il tuo settore. Esaudisci questo genere di desiderio, il desiderio da agenzia matrimoniale? Se non è di tua competenza, dimmelo al più presto affinché ossa rivolgermi alla persona giusta. Senza voler metterti fretta, ti segnalo che non ho molto temo. Dunque: matrimonio di Oscar e

Peggy Blue. Sì o no. Vedi se ce la fai, la cosa mi andrebbe proprio. A domani, baci, Oscar. P.S. A proposito: qual è, insomma, il tuo indirizzo?

Caro Dio, ecco fatto, sono sposato. È il 22 dicembre, mi avvicino ai trent’anni e mi sono sposato. Per i figli, Peggy Blue e io abbiamo deciso di rimandare a più avanti. In effetti, credo che non sia pronta. È successo stanotte. Verso l’una del mattino ho sentito i lamenti di Peggy Blue che mi hanno fatto saltar su a sedere sul letto. l fantasmi! Peggy Blue era tormentata dai fantasmi mentre le avevo promesso di montare di guardia. Si sarebbe resa conto che ero un incapace, non mi avrebbe più rivolto la parola e avrebbe avuto ragione. Mi sono alzato e ho camminato fino alle urla. Arrivando alla stanza di Peggy, l’ho vista seduta sul letto che mi guardava venire, sorpresa. Anch’io dovevo avere un’aria stupita, poiché all’improvviso avevo Peggy Blue di fronte a me intenta a fissarmi con la bocca chiusa, eppure continuavo a sentire le grida. Allora ho proseguito fino alla porta seguente e ho capito che era Bacon che si torceva nel letto a causa delle sue ustioni. Per un attimo mi sono sentito la coscienza sporca, ho ripensato al giorno in cui avevo appiccato il fuoco alla casa, al gatto, al cane, quando avevo persino arrostito i pesci rossi (beh, credo che più che altro siano bolliti). Ho pensato a quello che dovevano aver vissuto e mi sono detto che, dopotutto, era meglio che ci fossero rimasti piuttosto che avere continuamente a che fare con i ricordi e le ustioni, come Bacon, malgrado gli innesti e le creme. Bacon si è raggomitolato e ha smesso di gemere. Sono ritornato da Peggy Blue. “Allora non eri tu, Peggy? Ho sempre immaginato che fossi tu a gridare la notte.” “E io credevo che fossi tu...” Stentavamo a credere a ciò che succedeva e a ciò che ci dicevamo: in realtà ciascuno pensava all’altro da un pezzo. Peggy Blue è diventata ancora più blu, il che significava che era molto imbarazzata. “Che cosa fai, adesso, Oscar?” “E tu, Peggy?” È pazzesco quanti punti in comune abbiamo, le stesse idee, le stesse domande. “Vuoi dormire con me?” Le ragazze sono incredibili. Io, una frase così, ci avrei messo delle ore, delle settimane, dei mesi a rimuginarla nella mia testa prima di pronunciarla. Lei, invece, me l’ha detta così, con naturalezza e semplicità. “O.K.” E sono salito sul suo letto. Si stava un poco stretti ma abbiamo passato una notte straordinaria. Peggy Blue profuma di nocciola e ha la pelle morbida come la mia all’interno delle braccia, ma lei e morbida dappertutto. Abbiamo dormito molto, sognato molto, ci siamo tenuti stretti, ci siamo raccontati le nostre vite. Certo che al mattino, quando la signora Gommette, la capoinfermiera, ci ha trovati insieme, è stato uno spettacolo. Si e messa a urlare, anche l’infermiera di notte si è messa a urlare, si sono urlate addosso, poi se la sono presa con Peggy e con me, le porte sbattevano, prendevano gli altri a testimone, ci trattavano da “piccoli sciagurati” mentre noi eravamo molto felici e ci è voluto l’arrivo di Nonna Rosa per mettere fine al concerto. “Volete lasciare in pace questi bambini? Dovete soddisfare i pazienti o attenervi al regolamento? Non me ne frega niente del vostro regolamento, me lo metto sotto i piedi. Adesso, silenzio. Andate ad accapigliarvi altrove. Non siamo in uno spogliatoio, qui.” Non era possibile replicare, come sempre con Nonna Rosa. Mi ha riportato nella mia stanza e ho dormito un po’. Al risveglio, abbiamo potuto chiacchierare. “Allora, Oscar, è una cosa seria con Peggy?” “Serissima, Nonna Rosa. Sono strafelice. Ci siamo sposati stanotte.”

“Sposati?” “Sì. Abbiamo fatto tutto ciò che fanno un uomo e una donna che sono sposati.” “Ah, davvero?” “Per chi mi prende? Ho... che ore sono... ho vent’anni passati, conduco la mia vita come voglio, no?” “Certo.” “E poi si figuri che tutte le cose che prima mi disgustavano, quando ero giovane, i baci, le carezze, beh, alla fin fine, mi sono piaciute. È buffo come si cambia, no?” “Sono contentissima per te, Oscar. Cresci bene.” “C’è solo una cosa che non abbiamo fatto: il bacio lingua in bocca. Peggy Blue aveva paura di restare incinta. Che cosa ne pensa?” “Penso che abbia ragione.” “Ah, davvero? È possibile avere dei bambini se ci si bacia sulla bocca? Allora ne avrò con la Cinese.” “Calmati, Oscar, ci sono però scarse probabilità. Scarsissime.” Sembrava sicura di sé, Nonna Rosa, e questo mi ha calmato un po’ perché, devo dirlo a te, Dio, e solo a te, con Peggy Blue, una volta, addirittura due, addirittura di più, ci eravamo messi la lingua in bocca. Ho dormito un po’. Abbiamo pranzato insieme, Nonna Rosa e io, e ho cominciato a stare meglio. “Com’ero stanco, stamattina!” “È normale, fra i venti e i venticinque anni. Si esce la sera, si gozzoviglia, si fa la bella vita, non ci si risparmia. E questo si paga. Se andassimo a trovare Dio?” “Ah, ecco, ha il suo indirizzo?” “Penso che sia nella cappella.” Nonna Rosa mi ha vestito come se si partisse per il Polo Nord, mi ha preso fra le sue braccia e mi ha accompagnato alla cappella che si trova in fondo al parco dell’ospedale, oltre i prati gelati. Insomma, non sto a spiegarti dov’è, visto che è casa tua. È stato un colpo quando ho visto la tua statua, insomma, quando ho visto in che stato eri, quasi nudo, magro magro sulla tua croce, con delle ferite dappertutto, il cranio sanguinante sotto le spine e la testa che non stava nemmeno più sul collo. Mi ha dato da pensare. Mi sono sentito rivoltare. Se fossi Dio, io, come te, non mi sarei lasciato ridurre in quel modo. “Nonna Rosa, sia seria: lei che era lottatrice di catch, lei che è stata una grande campionessa, non si fiderà di quell’essere!” “Perché, Oscar? Daresti più credito a Dio se vedessi un culturista con i muscoli gonfi, la pelle unta d’olio, i capelli corti e il minislip che ne fa risaltare la virilità?” “Beh...” “Rifletti, Oscar. A chi ti senti più vicino? A un Dio che non prova niente o a un Dio che soffre?” “A quello che soffre, ovviamente. Ma se fossi lui, se fossi Dio, se, come lui, avessi i mezzi, avrei evitato di soffrire.” “Nessuno può evitare di soffrire. Né Dio né tu. Né i tuoi genitori né io.” “Bene. D’accordo. Ma perché soffrire?” “Per l’appunto. C’è sofferenza e sofferenza. Guarda meglio il suo viso. Osserva. Sembra che soffra?” “No. È curioso. Non sembra che abbia male.” “Ecco. Bisogna distinguere due pene, Oscar, la sofferenza fisica e la sofferenza morale. La sofferenza fisica la si subisce. La sofferenza morale la si sceglie.” “Non capisco.” “Se ti piantano dei chiodi nei polsi o nei piedi, non puoi far altro che avere male.

Subisci. Invece, all’idea di morire, non sei obbligato ad avere male. Non sai che cos’è. Dipende dunque da te.” “Ne conosce, lei, di persone che si rallegrano all’idea di morire?” “Sì, ne conosco. Mia madre era così. Sul suo letto di morte, sorrideva di avidità, era impaziente, aveva fretta di scoprire che cosa sarebbe successo.” Non potevo più discutere. Dato che m’interessava conoscere il seguito, ho lasciato passare un po’ di tempo riflettendo su quanto mi diceva. “Ma la maggior parte delle persone sono senza curiosità. Si aggrappano a ciò che hanno, come il pidocchio nell’orecchio di un calvo. Prendi Plum Pudding, per esempio, la mia rivale irlandese, centocinquanta chili a digiuno e in slip prima della sua Guinness. Mi diceva sempre: . Si sbagliava. Nessuno le aveva detto che la vita doveva essere eterna, nessuno! Si intestardiva a crederlo, si ribellava, rifiutava l’idea di morire, si infuriava, e caduta in depressione, è dimagrita, si e ritirata dall’attività sportiva, non pesava ormai che trentacinque chili, sembrava una lisca di sogliola, ed è finita in pezzi. Vedi, è morta lo stesso, come tutti, ma l’idea di morire le ha rovinato la vita.” “Era idiota, Plum Pudding, Nonna Rosa.” “Come tanti.” Ho assentito con la testa perché ero abbastanza d’accordo. “Le persone temono di morire perché hanno paura dell’ignoto. Ma per l’appunto, che cos’è l’ignoto? Ti propongo, Oscar, di non aver paura ma fiducia. Guarda il viso di Dio sulla croce: subisce il dolore fisico, ma non prova dolore morale perché ha fiducia. Perciò i chiodi lo fanno soffrire meno. Si ripete: mi fa male ma non può essere un male. Ecco! È questo il beneficio della fede. Volevo mostrartelo.” “O.K., Nonna Rosa, quando avrò fifa, mi sforzerò di aver fiducia.” Mi ha baciato. In fondo si stava bene in quella chiesa deserta con te, Dio, che avevi un’aria così tranquilla. Al ritorno ho dormito a lungo. Ho sempre più sonno. Come un desiderio irresistibile di dormite. Svegliandomi, ho detto a Nonna Rosa: “In realtà non ho paura dell’ignoto. È solo che mi secca perdere quello che conosco”. “Sono come te, Oscar. Se proponessimo a Peggy Blue di venire a prendere il tè con noi?” Peggy Blue ha preso il tè con noi, si intendeva benissimo con Nonna Rosa, abbiamo riso un sacco quando Nonna Rosa ci ha raccontato il suo combattimento con le Sorelle Giclette, tre sorelle gemelle che si facevano passare per una sola. Dopo ogni ripresa, la Giclette che aveva sfinito l’avversaria saltellando come una cavalletta balzava fuori del ring con il pretesto di dover andare a fare la pipi, si precipitava al gabinetto ed era la sorella a ritornare in piena forma per il nuovo round. E così via. Tutti credevano che ci fosse una sola Giclette, che fosse una saltatrice instancabile. Nonna Rosa ha scoperto il trucco, ha chiuso le due sostitute nel gabinetto gettando la chiave dalla finestra e ha battuto quella che restava. È uno sport astuto, il catch. Poi Nonna Rosa se n’è andata. Le infermiere sorvegliano Peggy Blue e me, come se fossimo dei petardi pronti a esplodere. Merda, ho trent’anni, però! Peggy Blue mi ha giurato che stasera sarà lei a raggiungermi non appena potrà; in cambio, le ho giurato che stavolta non le infilerò la lingua in bocca. È vero, avere dei bambini non e tutto, bisogna anche avere il tempo di allevarli. Ecco, Dio. Non so che cosa chiederti stasera perché è stata una bella giornata. Sì. Fa’ che l’operazione di Peggy Blue, domani, vada bene. Non come la mia, se capisci quello che voglio dire.

A domani, baci, Oscar. P. S. Le operazioni non sono cose dello spirito, forse non ce le hai in magazzino. Allora fa’ in modo che, qualunque sia il risultato dell’operazione, Peggy Blue lo prenda bene. Conto su di te.

Caro Dio, Peggy Blue è stata operata oggi. Ho trascorso dieci anni terribili. È dura la trentina, e l’età delle preoccupazioni e delle responsabilità. In realtà, Peggy non ha potuto raggiungermi stanotte perché la signora Ducru, l’infermiera di notte, è rimasta nella sua stanza per prepararla all’anestesia. La barella l’ha portata via verso le otto. Ho avuto una stretta al cuore quando ho visto passare Peggy sul letto a rotelle, la si vedeva appena sotto le lenzuola verde smeraldo tanto era piccola ed esile. Norma Rosa mi ha tenuto la mano per evitare che m’innervosissi. “Nonna Rosa, perché il tuo Dio permette che ci siano persone come Peggy e me?” “È una fortuna che sia così, Oscar, perché la vita sarebbe meno bella senza di voi.” “No. Non capisce. Perché Dio permette che siamo malati? O è cattivo, o non è molto forte.” “Oscar, la malattia è come la morte. È un fatto. Non è una punizione.” “Si vede che lei non è malata!” “Che cosa ne sai, Oscar?” Questa non me l’aspettavo. Non avevo mai pensato che Nonna Rosa, che e sempre così disponibile, così attenta, potesse avere dei problemi personali. “Non deve nascondermi le cose, Nonna Rosa, può dirmi tutto. Ho almeno trentadue anni, un cancro, una moglie in sala operatoria: la vita la conosco.” “Ti voglio bene, Oscar.” “Anch’io. Che cosa posso fare per lei se ha dei guai? Vuole che l’adotti?” “Adottarmi?” “Sì, ho adottato anche Bernard quando ho visto che era giù di corda.” “Bernard?” “Il mio orsacchiotto. Là. Nell’armadio. Sul ripiano. È il mio vecchio orsacchiotto, non ha più occhi, né bocca, né naso, ha perso la metà della sua imbottitura e ha delle cicatrici dappertutto. Le somiglia un po’. L’ho adottato la sera in cui quegli idioti dei miei genitori mi hanno portato un orsacchiotto nuovo. Come se avessi potuto accettare di averne uno nuovo! Già che c’erano, non avevano che da sostituirmi con un figlioletto nuovo di zecca! Quindi l’ho adottato. Gli lascerò tutto quello che ho, a Bernard. Voglio adottare anche lei, se la cosa le facesse piacere.” “Sì. Lo voglio davvero. Credo che la cosa mi rassicurerebbe, Oscar.” “Allora qua la mano, Nonna Rosa.” Poi siamo andati a preparare la camera di Peggy, a portare i cioccolatini, a mettere dei fiori per il suo ritorno. Dopo ho dormito. È pazzesco quanto dormo in questo momento. Verso la fine del pomeriggio, Nonna Rosa mi ha svegliato dicendomi che Peggy Blue era tornata e che l’operazione era riuscita. Siamo andati insieme a trovarla. I genitori stavano al suo capezzale. Ignoro chi li avesse avvertiti, Peggy o Nonna Rosa, ma sembravano sapere chi fossi, mi hanno trattato con molto rispetto, mi hanno fatto sedere in mezzo a loro e ho potuto vegliare mia moglie con i miei suoceri. Ero contento perché Peggy era sempre azzurrognola. Il dottor Düsseldorf è passato, si è sfregato le sopracciglia e ha detto che nelle ore seguenti il colore sarebbe cambiato. Ho guardato la madre di Peggy che non è blu ma molto bella lo stesso e mi sono detto che dopotutto Peggy, mia moglie, poteva avere il colore che voleva tanto l’avrei amata ugualmente. Peggy ha aperto gli occhi, ci ha sorriso, a me e ai suoi genitori, poi si è riaddormentata. I suoi genitori erano rassicurati ma dovevano andarsene.

“Ti affidiamo nostra figlia” mi hanno detto. “Sappiamo di poter contare su di te.” Con Nonna Rosa ho resistito finché Peggy ha aperto gli occhi una seconda volta, poi sono andato a riposarmi nella mia stanza. Finendo la mia lettera, mi rendo conto che oggi, tutto sommato, è stata una buona giornata. Una giornata dedicata alla famiglia. Ho adottato Nonna Rosa, ho simpatizzato con i miei suoceri e mia moglie è in buona salute, anche se, verso le undici, ha cominciato a diventare rosa. A domani, baci, Oscar. P. S. Niente desiderio oggi. Così ti riposerai.

Caro Dio, oggi ho avuto da quaranta a cinquant’anni e ho fatto solo delle fesserie. Racconto le cose in fretta perché non meritano di più. Peggy Blue sta bene ma la Cinese, mandata da Pop Corn, che non mi può più vedere, è andata a spifferarle che l’avevo baciata sulla bocca. Perciò Peggy mi ha detto che fra lei e me era finita. Ho protestato, ho detto che con la Cinese era stato un errore di gioventù che era successo assai prima di lei, e che non poteva farmi pagare il mio passato tutta la vita. Ma lei ha tenuto duro. È addirittura diventata amica della Cinese per farmi arrabbiare e le ho sentite che ridevano insieme. Perciò quando Brigitte, la trisomica, che si appiccica sempre a tutti perché nei Down l’affettuosità è normale, è venuta a salutarmi nella mia stanza, ho lasciato che mi baciasse dappertutto. Era pazza di gioia che glielo permettessi. Sembrava un cane intento a fare le feste al suo padrone. Il problema e che Einstein si trovava nel corridoio. Ha forse dell’acqua nel cervello ma non delle fette di prosciutto sugli occhi. Ha visto tutto ed è andato a raccontarlo a Peggy e alla Cinese. Tutto il piano adesso mi tratta come uno che corre dietro alle ragazze, mentre non mi sono mosso dalla mia stanza. “Non so che cosa mi abbia preso con Brigitte, Nonna Rosa...” “Il demone meridiano, Oscar. Gli uomini sono così, fra i quarantacinque e i cinquant’anni, vogliono essere rassicurati, verificano di poter piacere ad altre donne oltre che a colei che amano.” “D’accordo, sono normale ma anche del tutto idiota, no?” “Sì. Sei del tutto normale.” “Che cosa devo fare?” “Chi ami?” “Peggy. Solo Peggy.” “Allora vai a dirglielo. Una giovane coppia è fragile, sempre soggetta a scosse, ma bisogna battersi per conservarla, se è quella buona.” Domani, Dio, è Natale. Non mi ero mai reso conto che fosse il tuo compleanno. Fa’ in modo che mi riconcili con Peggy perché non so se sia per questo, ma sono molto triste stasera e non ho più alcun coraggio. A domani, baci, Oscar. P. S. Adesso che siamo amici, che cosa vuoi che ti regali per il tuo compleanno?

Caro Dio, stamattina, alle otto, ho detto a Peggy Blue che l’amavo, che amavo solo lei e che non potevo concepire la mia vita senza di lei. Si è messa a piangere, mi ha confessato che la liberavo da un grosso dispiacere, perché anche lei amava solo me e non avrebbe mai trovato nessuno altro, soprattutto adesso che era rosa Allora, cosa curiosa, ci siamo ritrovati tutt’e due a singhiozzare, ma era molto piacevole. È bella, la vita di coppia. Soprattutto dopo la cinquantina, quando si sono attraversate delle prove. Alle dieci in punto mi sono davvero reso conto che era Natale, che non sarei potuto restate con Peggy perché la sua famiglia (fratelli, zii, nipoti, cugini) stava per piombare nella sua stanza e che sarei stato obbligato a sopportare i miei genitori. Che cosa mi avrebbero regalato ancora? Un puzzle di diciottomila pezzi? Dei libri in curdo? Una scatola di istruzioni per l’uso? Il mio ritratto di quando ero in buona salute? Con due cretini simili, che hanno l’intelligenza di un sacco della spazzatura, l’orizzonte era minaccioso, potevo temere di tutto. C’era un’unica certezza: quella che avrei trascorso una giornata scema. Mi sono deciso molto in fretta e ho organizzato la mia fuga. Un po’ di baratto: i miei giocattoli a Einstein, il mio piumino a Bacon e le mie caramelle a Pop Corn. Un po’ di osservazione: Nonna Rosa passava sempre dallo spogliatoio prima di andarsene. Un po’ di previsione: i miei genitori non sarebbero arrivati prima di mezzogiorno. Tutto è andato bene: alle undici e mezzo Nonna Rosa mi ha baciato augurandomi una buona giornata di Natale con i miei genitori e poi è sparita al piano degli spogliatoi. Ho fischiato. Pop Corn, Einstein e Bacon mi hanno vestito in gran fretta, mi hanno portato giù sollevandomi e mi hanno trascinato fino al trabiccolo di Nonna Rosa, un’automobile che deve risalire a prima dell’invenzione del motore a scoppio. Pop Corn, che è molto bravo ad aprire le serrature perché ha avuto la fortuna di essere allevato in un quartiere degradato, ha scassinato la portiera posteriore; gli altri mi hanno gettato fra il sedile anteriore e quello posteriore. Poi sono ritornati dentro alla chetichella. Nonna Rosa, dopo un bel po’, è salita nella sua auto, l’ha fatta crepitare dieci, quindici volte prima di avviarla, poi è partita a velocità folle. È formidabile questo tipo di vettura antidiluviana, fa talmente baccano che si ha l’impressione di andare molto in fretta e si balla come sulle giostre. Il problema è che Norma Rosa aveva dovuto imparare a guidare con un amico cascatore: non rispettava né i semafori né i marciapiedi né le rotonde sicché, ogni tanto, l’auto decollava. Nell’abitacolo c’era un fracasso d’inferno, Nonna Rosa si è sfogata a suonare il clacson e ha anche arricchito il mio vocabolario lanciando ogni sorta di imprecazioni per insultare i nemici che le sbarravano la strada e mi sono detto ancora una volta che il catch è stato proprio una buona scuola di vita. Avevo previsto, all’arrivo, di saltar su e di fare: “Cucù, Nonna Rosa” ma la cossa a ostacoli per giungere a casa sua è durata talmente che mi sono dovuto addormentare. Fatto sta che al mio risveglio era buio, faceva freddo, c’era silenzio, e mi sono ritrovato da solo sdraiato su un tappetino umido. È allora che ho pensato per la prima volta di aver forse commesso una sciocchezza. Quando sono uscito dall’auto, si è messo a nevicare. Però era molto meno piacevole del Valzer dei fiocchi di neve ne Lo schiaccianoci. Battevo i denti dal freddo. Ho visto una grande casa illuminata. Ho camminato a fatica. Per raggiungere il campanello, ho dovuto fare un tal salto che mi sono accasciato sullo zerbino. È là che mi ha trovato Nonna Rosa. “Ma... ma...” ha cominciato a dire. Poi si è chinata verso di me e ha mormorato: “Tesoro”. Allora ho pensato che forse non avevo commesso una sciocchezza.

Mi ha portato nel suo salotto, dove aveva preparato un grande albero di Natale che strizzava gli occhi. Ero meravigliato di vedere com’era bello da Nonna Rosa. Mi ha riscaldato accanto al fuoco e abbiamo bevuto una tazzona di cioccolata. Sospettavo che volesse assicurarsi che stessi bene prima di sgridarmi. Io, perciò, andavo piano a riprendermi, e del resto mi riusciva facile poiché ero davvero sfinito. “Tutti ti cercano all’ospedale, Oscar. Sono in assetto da combattimento. I tuoi genitori sono disperati. Hanno avvertito la polizia.” “Non mi meraviglio di loro. Se sono abbastanza stupidi da credere che li amerò quando avrò le manette...” “Di che cosa li accusi?” “Hanno paura di me. Non osano parlarmi. E meno osano, più ho l’impressione di essere un mostro. Perché li terrorizzo? Sono così brutto? Puzzo? Sono diventato idiota senza rendermene conto?” “Non hanno paura di te, Oscar. Hanno paura della malattia.” “La mia malattia fa parte di me. Non devono comportarsi in modo diverso perché sono malato. O possono amare solo un Oscar in buona salute?” “Ti amano, Oscar. Me l’hanno detto.” “Parla con loro?” “Sì. Sono molto gelosi che ci intendiamo così bene. No, non gelosi, tristi. Tristi di non riuscirci anche loro.” Ho alzato le spalle ma ero già un po’ meno in collera. Nonna Rosa mi ha preparato una seconda cioccolata calda. “Sai, Oscar. Morirai, un giorno. Ma anche i tuoi genitori moriranno.” Ero stupito da ciò che mi diceva. Non ci avevo mai pensato. “Sì. Moriranno anche loro. Tutti soli. E con il rimorso terribile di non essere riusciti a riconciliarsi con il loro unico figlio, un Oscar che adoravano.” “Non dica cose del genere, Nonna Rosa, mi fanno venire il magone.” “Pensa a loro, Oscar. Hai capito che stai per morire perché sei un ragazzino molto intelligente. Ma non hai capito che non sei il solo a morire. Tutti muoiono. I tuoi genitori, un giorno. Io, un giorno.” “Si. Però io passo davanti.” “È vero. Tu passi davanti. Ma con il pretesto che tu passi davanti, hai forse tutti i diritti? E il diritto di dimenticare gli altri?” “Ho capito, Nonna Rosa. Li chiami.” Ecco, Dio, il seguito in poche parole perché ho il polso stanco. Nonna Rosa ha avvertito l’ospedale, che ha avvertito i miei genitori, che sono venuti da Nonna Rosa dove abbiamo festeggiato il Natale tutti insieme. Quando i miei genitori sono arrivati, ho detto loro: “Scusatemi, avevo dimenticato che anche voi, un giorno, morirete”. Non so che cosa abbia sbloccato in loro questa mia frase, ma dopo li ho ritrovati com’erano prima e abbiamo passato una stupenda serata di Natale. Al dolce, Nonna Rosa ha proposto di guardare alla televisione la messa di mezzanotte e anche un incontro di catch che aveva registrato. Dice che sono anni che guarda un incontro di catch prima della messa di mezzanotte per tirarsi su, che è una tradizione, che le fa molto piacere. Perciò abbiamo guardato tutti un combattimento che aveva messo da parte. Era formidabile. Méphista contro Giovanna d’Arco! Costumi da bagno e stivali fino a metà coscia! Che pezzi di femmine! come diceva papà, che era tutto rosso e sembrava apprezzare molto il catch. Inimmaginabile il numero di colpi che si sono date in faccia. Io sarei morto cento volte in un combattimento simile. È una questione di allenamento, mi ha detto Nonna Rosa, i colpi sulla faccia, più ne prendi, più puoi prenderne. Bisogna sempre conservare la speranza. A proposito, è stata Giovanna d’Arco

a vincere, mentre, a dire il vero, all’inizio non lo si sarebbe proprio creduto ti avrà fatto piacere. Ah, mi stavo per scordare, buon compleanno, Dio. Nonna Rosa, che mi ha appena messo nel letto del figlio maggiore che era veterinario in Congo con gli elefanti, mi ha suggerito che, come regalo di compleanno per te, andava benissimo la mia riconciliazione con i miei genitori. Io, francamente, lo trovo tirato per i capelli come regalo. Ma se lo dice Nonna Rosa, che è una tua vecchia amica... A domani, baci, Oscar. P. S. Dimenticavo il mio desiderio: che i miei genitori restino sempre come stasera. E anch’io. È stato un bel Natale, soprattutto Méphista contro Giovanna d’Arco. Spiacente per la tua messa, ho staccato prima.

Caro Dio, ho sessant’anni passati e pago il prezzo di tutti gli eccessi di ieri sera. Non mi sento in gran forma oggi. Mi ha fatto piacere tornare a casa mia, all’ospedale. Quando si è vecchi, si diventa così, non si ha più voglia di viaggiare. È certo che non ho più voglia di andarmene. Quello che non ti ho detto nella mia lettera di ieri è che da Nonna Rosa, su una mensola, lungo le scale, c’era una statua di Peggy Blue. Te lo giuro. Esattamente uguale, di gesso, con lo stesso viso molto dolce, lo stesso colore azzurro sui vestiti e sulla pelle. Nonna Rosa sostiene che si tratta della Vergine Maria, tua madre da quanto ho capito, una madonna che si trova in casa sua da parecchie generazioni. Ha accettato di darmela. L’ho messa sul mio comodino. A ogni modo, tornerà un giorno nella famiglia di Nonna Rosa, poiché l’ho adottata. Peggy Blue sta meglio. È venuta a farmi visita in sedia a rotelle. Non si è riconosciuta nella statua ma abbiamo passato un bel momento insieme. Abbiamo ascoltato Lo schiaccianoci tenendoci la mano e la cosa ci ha ricordato i bei tempi. Non riesco a scriverti di più perché trovo la stilografica un po’ pesante. Tutti sono indisposti qui, persino il dottor Düsseldorf, a causa dell’indigestione da cioccolatini, foies gras, marrons glacés e dello champagne che tutti i genitori dei pazienti hanno offerto al personale curante. Mi piacerebbe molto che mi facessi visita. A domani, baci, Oscar.

Caro Dio, oggi ho avuto da settanta a ottant’anni e ho molto riflettuto. Ho usato il regalo natalizio di Nonna Rosa. Non so se te ne avevo parlato. È una pianta del Sahara che vive tutta la sua vita in un solo giorno. Non appena il seme riceve dell’acqua germoglia, diventa stelo, mette le foglie, fa un fiore, produce dei semi, avvizzisce, si appiattisce e, pugg, la sera è morto. È un regalo straordinario, ti ringrazio di averlo inventato. L’abbiamo annaffiata stamattina alle sette, Nonna Rosa, i miei genitori e io (a proposito, non so se te l’ho detto, in questo momento abitano da Nonna Rosa perché è meno lontano) e ho potuto seguire tutta la sua esistenza. Ero commosso. È piuttosto gracile e striminzita, non ha nulla di un baobab ma ha fatto valorosamente tutto il suo lavoro di pianta, come una grande, davanti a noi in una giornata, senza fermarsi. Con Peggy Blue abbiamo letto a lungo il Dizionario medico. È il suo libro preferito. Le malattie l'appassionano e si chiede quali potrà avere in futuro. Io ho cercato le parole che mi interessavano: “Vita”, “Morte”, “Fede”, “Dio”. Forse non mi crederai, non c’erano! Nota, questo prova già che né la vita, né la morte, né la fede, né tu siete delle malattie. Il che rappresenta una notizia piuttosto buona. Però, in un libro così serio, dovrebbero esserci delle risposte alle domande più serie, no? “Nonna Rosa, ho l'impressione che, nel Dizionario medico, ci siano solo delle cose particolari, dei problemi che possono capitare a questo o a quel tizio. Ma non ci sono le cose che ci riguardano tutti: la Vita, la Morte, la Fede, Dio.” “Forse bisognerebbe consultare un Dizionario filosofico, Oscar. Tuttavia, anche se trovi le idee che cerchi, rischi ugualmente di rimanere deluso. Propone parecchie risposte molto diverse per ogni nozione.” “Come mai?” “Le domande più interessanti rimangono domande. Avvolgono un mistero. A ogni risposta, si deve associare un “forse”. Sono solo le domande senza interesse ad avere una risposta definitiva.” “Vuole dire che per “Vita” non c’è soluzione?” “Voglio dire che per “Vita” ci sono parecchie soluzioni, dunque nessuna soluzione.” “Quello che penso io, Nonna Rosa, è che l’unica soluzione per la vita sia vivere.” Il dottor Düsseldorf è passato a vederci con la sua aria da cane bastonato che lo rende ancora più espressivo, con le sue grandi sopracciglia nere. “Si pettina le sopracciglia, dottor Düsseldorf?” ho chiesto. Si è guardato attorno molto sorpreso, con l’aria di chiedere a Nonna Rosa e ai miei genitori se avesse udito bene. Ha finito col dire di si con voce soffocata. “Non bisogna fare una faccia simile, dottor Düsseldorf. Ascolti, le parlerò francamente perché io sono sempre stato molto corretto sul piano medicina e lei è stato impeccabile sul piano malattia. La smetta con quell’espressione colpevole. Non è colpa sua se è costretto ad annunciare brutte notizie alle persone, malattie dai nomi latini e guarigioni impossibili. Deve rilassarsi, distendersi. Non è Dio Padre. Non è lei a comandare alla natura. Lei è solo un riparatore. Deve rallentare, dottor Düsseldorf, diminuire la pressione e non darsi troppa importanza, altrimenti non potrà continuare a lungo con questo mestiere. Guardi già la faccia che ha.” Ascoltandomi, il dottor Düsseldorf aveva la bocca come se stesse bevendo un uovo. Poi ha sorriso, ha fatto un vero sorriso e mi ha abbracciato. “Hai ragione, Oscar. Grazie di avermelo ricordato.” “Di nulla, dottore. Al suo servizio. Torni quando vuole.” Ecco, Dio. La tua visita, invece, continuo ad aspettarla. Vieni. Non esitare. Vieni, anche se ho molta gente intorno in questo momento. Mi farebbe davvero piacere.

A domani, baci, Oscar.

Caro Dio, Peggy Blue è partita. È ritornata dai suoi genitori. Non sono stupido, so benissimo che non la rivedrò mai più. Non ti scriverò perché sono troppo triste. Abbiamo passato la nostra vita insieme, Peggy e io, e adesso mi ritrovo solo, calvo, rammollito e stanco nel mio letto. Che brutta cosa invecchiare! Oggi non ti voglio più bene. Oscar.

Caro Dio, grazie di essere venuto. Hai scelto davvero il momento giusto, perché non stavo bene. Forse anche perché eri rimasto turbato dalla mia lettera di ieri... Quando mi sono svegliato, ho pensato che avevo novant'anni e ho girato la testa verso la finestra per guardare la neve. E allora ho indovinato che venivi. Era mattino. Ero solo sulla terra. Era talmente presto che gli uccelli dormivano ancora, che persino l'infermiera di notte, la signora Ducru, aveva dovuto schiacciare un pisolino e tu cercavi di fabbricare l’alba. Facevi fatica, ma insistevi. Il ciclo impallidiva. Tingevi l’aria di bianco, di grigio, di azzurro, respingevi la notte, risvegliavi il mondo. Non ti fermavi. È stato allora che ho capito la differenza fra te e noi: tu sci un tipo infaticabile! Uno che non si stanca. Sempre al lavoro. Ed ecco il giorno! Ed ecco la notte! Ed ecco la primavera! Ed ecco l’inverno! Ed ecco Peggy Blue! Ed ecco Oscar! Ed ecco Nonna Rosa! Che salute di ferro! Ho capito che eri qui. Che mi rivelavi il tuo segreto: ogni giorno guarda il mondo come se fosse la prima volta. Allora ho seguito il tuo consiglio con impegno. La prima volta. Contemplavo la luce, i colori, gli alberi, gli uccelli, gli animali. Sentivo l’aria che mi passava nelle narici e mi faceva respirare. Udivo le voci che salivano nel corridoio come nella volta di una cattedrale. Mi trovavo vivo. Fremevo di pura gioia. La felicità di esistere. Ero incantato. Grazie, Dio, di aver fatto questo per me. Avevo l'impressione che mi prendessi per mano e che mi conducessi nel cuore del mistero a contemplarlo. Grazie. A domani, baci, Oscar. P. S. Il mio desiderio: puoi rifare il colpo della prima volta ai miei genitori? Nonna Rosa credo che lo conosca già. E poi anche a Peggy, se hai il tempo...

Caro Dio, oggi ho cent’anni. Come Nonna Rosa. Dormo molto ma mi sento bene. Ho cercato di spiegare ai miei genitori che la vita è uno strano regalo. All’inizio lo si sopravvaluta, questo regalo: si crede di aver ricevuto la vita eterna. Dopo lo si sottovaluta, lo si trova scadente, troppo corto, si sarebbe quasi pronti a gettarlo. Infine ci si rende conto che non era un regalo, ma solo un prestito. Allora si cerca di meritarlo. Io che ho cent’anni, so di che cosa parlo. Più si invecchia, più bisogna dar prova di gusto per apprezzare la vita. Si deve diventare raffinati, artisti. Qualunque cretino può godere della vita a dieci o a vent’anni, ma a cento, quando non ci si può più muovere, bisogna avvalersi della propria intelligenza. Non so se li ho convinti del tutto. Valli a trovare. Finisci il tuo lavoro. Io sono un po' stanco. A domani, baci, Oscar.

Caro Dio, centodieci anni. Sono tanti. Credo di cominciare a morire. Oscar.

Caro Dio, il ragazzino è morto. Sarò sempre una signora in rosa ma non sarò più Nonna Rosa. Lo ero soltanto per Oscar. Si è spento stamattina, durante la mezz’ora in cui i suoi genitori e io siamo andati a prendere un caffè. Lo ha fatto senza di noi. Penso che abbia aspettato quel momento per risparmiarci. Come se volesse evitarci la violenza di vederlo scomparire. Era lui, in realtà, a vegliare su di noi. Ho il cuore grosso, ho il cuore pesante, Oscar vi abita e non posso scacciarlo. Bisogna che tenga ancora le mie lacrime per me, fino a stasera, perché non voglio confrontare la mia pena con quella, inesprimibile, dei suoi genitori. Grazie di avermi fatto conoscere Oscar. Grazie a lui ero divertente, inventavo delle leggende, me ne intendevo persino di catch. Grazie a lui ho riso e ho conosciuto la gioia. Mi ha aiutata a credere in te. Sono piena di un amore ardente, me ne ha dato tanto che ne ho per tutti gli anni a venire. A presto, Nonna Rosa. P. S. Negli ultimi tre giorni, Oscar aveva posato un biglietto sul suo comodino. Credo che ti riguardi. Ci aveva scritto: “Solo Dio ha il diritto di svegliarmi”.

FINE

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