ornamentazioni francesi-french ornaments
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French music ornaments, XVIIIth century french music, ornaments, early music, period instruments...
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Joseba Berrocal
Centre de Musique Baroque de Versailles
Le ornamentazioni francesi a cavallo tra Sei e Settecento: fra invisibilità e persistenza di modelli non scritti Fra Sei e Settecento l’Europa assistette ad un dibattito generale intorno ai meriti rispettivi dello stile italiano e francese. Vari sono i punti che possono essere messi in rilievo. La discussione non si articolava nell’ambito della consueta lettura cronologica — il Nuovo versus lo Stabilito — ma a parità di condizioni — il Nuovo versus un altro Nuovo —. Il conflitto che potremmo chiamare cronologico andava declinandosi progressivamente in due formati classici: una tradizione consolidata era messa in discussione da una novità proveniente da altri centri culturali; in sostanza, un fenomeno di importazione. Il secondo formato, altrettanto o più comune che il precedente, riflette il cambio di paradigma da parte di una frazione di autori autoctoni, che aspira a riformare un linguaggio che essi stessi dominano; un fenomeno di rivoluzione. Invece, nel caso del modello italiano versus il goût francese, entrambi risaltavano per essere fortemente radicati nelle rispettive nazioni ma, in maniera paradossale, entrambi erano e si proponevano come una novità. Il linguaggio di un Corelli o di un Alessandro Scarlatti non solo era oggettivamente distinto da quello dei loro predecessori, ma veniva esplicitamente percepito come diverso. Questi erano i tipi di scrittura che si cominciava ad esportare. Gli italiani offrivano un linguaggio nuovo, ma nato già classico, al punto da rimanere senza modifiche sostanziali per un notevole lasso di tempo. Casualmente il settore francese stava vivendo negli stessi anni una simile situazione: intorno alla figura riformatrice di Lully si era forgiata una nuova era classica. Le sue produzioni teatrali avevano anch’esse definito uno standard praticamente nato come classico e in grado d’essere esportato. In questo modo il resto dei territori
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europei vedevano proporsi l’arrivo di due modelli, entrambi nuovi ma stabili. I paesi tedeschi, l’Inghilterra, i Paesi Bassi e la Spagna li accettarono in misura più o meno significativa. Nonostante l’apparente incompatibilità di entrambi, Londra, Dresda o Amsterdam non ebbero troppi problemi nel farli convivere. In un primo momento non si cercò neanche di fonderli, anzi, venivano ripartiti a seconda dell’ambito: camera, teatro, danza... Tutte queste novità entrarono in blocco con un grado eccezionalmente basso di discussione locale. Nel campo della musica religiosa le nazioni si mostrarono più parsimoniose. Un aspetto interessante di questo fenomeno di superavit artistico, e di cui tratterà quest’articolo, consiste nell’indagare la ricezione reciproca tra le due parti in gioco, la Francia e gli stati italiani. Conviene ricordare, in questo senso, che il più volte citato dibattito teorico tra i due stili fu una questione esclusivamente francese. Gli italiani ricevettero poche influenze dirette capaci di intaccare il nucleo del proprio linguaggio o che fossero percepite come un’aggressione. A Roma si ascoltano con rispetto le opere di Lully e si ricevono recueils d’arie come una delle tante curiosità. Torino puo’ essere considerata francofila, ma è un caso a parte. Sarà solo in un secondo momento che alcune influenze francesi, provenienti dal mondo tedesco, arriveranno in maniera più sistematica soprattutto nell’ambito dell’instrumentarium attraverso Venezia e a Milano. Invece l’opinione pubblica francese, soprattutto il mondo della corte di Luigi XIV, moltiplicò le testimonianze scritte sulla legittimità o meno di accogliere la musica ita liana, e di come farlo se si presentasse l’occasione. Si riscontrarono tre posizioni. La prima era di svalutazione e di rifiuto. Quella moderata manifestava rispetto ma non la necessità di lasciarle spazio, dato che la realtà francese era autosufficiente. Al massimo si poteva arrivare ad ascoltare questa musica nell’ambito di sessioni specialistiche nei saloni aristocratici. La terza invitava a lasciar impregnare lo stile francese e a permettere l’incrocio, come nel resto d’Europa. Si puo’ anche osservare l’applicazione simultanea delle tre opzioni. Il mondo istituzionale non lasciò spazio alla musica italiana nelle sue manifestazioni più complesse; alcuni circoli accoglievano sistematicamente il repertorio italiano da camera e, parallelamente, il linguaggio francese si apriva all’influenza ultramontana; forgiando quello che sarebbe stato battezzato in maniera conciliante come goût-réuni, anche se gli italiani — al di fuori del dibattito — non arrivarono mai ad utilizzarlo.
“I rapporti musicali tra Italia e Francia nel Seicento” Atti del Convegno Internazionale, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Studi musicali XXV (1996), nn. 1–2, (Firenze, Olschki, 1997). Alfredo Bernardini, “The oboe in the Venetian Republic, 1692–1797”, Early Music XVI/3 (1988): 372–387.
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Solus Gallus Cantat. Solo i francesi cantano Hispanus flet, dolet Italus, Germanus boat, Flander ululat, solus Gallus cantat. In numerosi testi francesi ci si riferisce esplicitamente allo stile di canto come ad uno dei campi in cui gli italiani venivano sorpassati. È frequente che questi siano accusati di gridare, gemere ed esagerare, mentre invece le voci francesi sono eleganti e attente ai dettagli. Proprio il concetto di dettaglio sarà il tema di discussione nelle pagine qui di seguito. L’Europa del Seicento fu testimone di una codificazione degli abbellimenti basilari ad un livello ignoto. Di fatto, il successo delle tavole di agréments fu tale che ogni nazione ed ogni autore presentavano la propria versione, con le conseguenti complicazioni dovute all’uso dello stesso segno per ottenere un diverso effetto musicale. In questo senso gli standard francesi andavano consolidandosi al di là delle frontiere. Quattro erano le famiglie di grafia per questi abbellimenti: quelli derivati dalla lette ratura per liuto; quelli destinati alla tastiera; quelli del repertorio per viola da gamba e quelli utilizzati nella musica vocale e, per assimilazione, nella musica da camera con strumenti acuti (dessus): violini, flauti, oboi. Come si puo’ immaginare, alcune di queste grafie corrispondono nei quattro sistemi, ma in generale sono relativamente autonome e venivano rispettate da quanti componevano, copiavano e pubblicavano ognuno di questi repertori. Si continua a dibattere sul fatto che il repertorio destinato ad un organico più esteso manchi di questa ricchezza ornamentale scritta. Tra le spiegazioni più frequenti si è parlato dell’inutilità di questo sforzo grafico in un ambiente di musicisti professionisti; ci si è anche riferiti all’intolleranza di Lully verso questo tipo di abbellimenti e, come argomento più ragionevole, si sottolinea che molti di questi agréments perde rebbero tutta la loro forza espressiva negli spazi all’aperto o nei grandi saloni. La realtà doveva trovarsi ad una via di mezzo: evidentemente si realizzavano meno abbellimenti che nel repertorio da camera, ma di certo erano più numerosi di quelli contenuti nelle partiture d’orchestra. Già i trattatisti contemporanei attirarono l’attenzione sulla differenza tra il sistema di abbellimenti essenziali — che riguardano una nota — raccolti in tabelle e propri alla musica francese, e l’ornamentazione più libera, con passaggi di carattere improvvisato legati alla musica italiana. La frontiera tra le due pratiche era meno chiara di quanto preconizzasse la teoria. La musica italiana conosceva e applicava una certa quantità di abbellimenti essenziali e, dal canto loro, i francesi avevano raccolto nei propri metodi alcuni di questi esempi di tirate e passaggi melismatici tra due note
72–105.
99–157.
Charles Saint-Evremond, “Sur les opèras” (c. 1675), pubblicato nel Mercure Galant, febbraio 1683: Barbara Nestola, “La musica italiana nel Mercure Galant (1677–1683)”, Recercare XIV (2002):
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principali. Forse uno degli esempi più eterodossi di questa ornamentazione libera francese è l’insieme della produzione di Mr de Sainte-Colombe. Le sue notes perdues non solamente appaiono in pezzi di carattere medidativo, ma si presentano spesso in contesti ritmici apparentemente incompatibili con queste libertà. Nell’es. 1 si osserva un passaggio di più di 60 note in un prélude, e l’es. 2 mostra l’autonomia di scrittura in una gigue. Gli esempi sono di fatto innumerevoli.
Es.1: SAINTE COLOMBE. Manuscrit de Tournus. f. 1v, Prélude
Es. 2: SAINTE COLOMBE. Manuscrit de Tournus. f. 46, Gigue
In virtù dell’equazione semplificata Francia-agréments e Italia-passaggi, l’analisi musicale delle fonti ha avuto la tendeza a mettere da parte altre realtà presenti nella musica francese. Sembra che, davanti ad una melodia semplice — scritta in minime e semiminime — il musicista francese avrebbe applicato in luoghi precisi alcuni abbellimenti essenziali, mentre un italiano avrebbe reagito in maniera più rapsodica e imprevedibile. All’alba del nuovo secolo i francesi avrebbero imparato lentamente ad aggiungere semicrome e un po’ di libertà ai propri, stereotipi agréments. La realtà, se ci si sofferma sul caso francese, fu più complessa. Fra gli esempi più sistematici cf. Jean Millet, La belle methode ou l’art de bien chanter (Lyon: Gregoire, 1666).
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Gli abbellimenti riportati nelle tavole che aprivano ogni pubblicazione non erano che una parte di ciò che si poteva arrivare a cantare o eseguire. Bisogna sottolineare che l’influenza della musica italiana non solo determinò un’apertura verso nuove possibi lità; per quanto possa sembrare paradossale, coincise anche con il relativo abbandono di tutta una sfera dell’ornamentazione tradizionale francese, specialmente il sottile gioco di spostamenti ritmici delle sillabe. Fenomeno ben conosciuto in Italia, Germania ed altri paesi, ma sviluppato nel suo grado più elevato dagli autori francesi. Anni prima della nascita di François Couperin –autoproclamatosi come uno dei primi difensori del dialogo con gli italiani — la tradizione vocale francese aveva sviluppato una ricchezza ritmica incapace di essere raccolta in tavole. Ad essa si riferiscono i commentatori dell’epoca sotto l’epigrafe generale di gusto nel canto. Fortunatamente, alcuni autori e interpreti si presero il compito di mettere per scritto alcuni di questi modelli, un lavoro graficamente pesante e quasi controproducente nel caso in cui queste partiture finissero nelle mani di un cantante poco abile. Bénigne de Bacilly e Michel Lambert mostrarono nei loro livres d’airs il potenziale di queste melodie semplici attraverso i doubles. Gli es. 3a e 3b mostrano un frammento dell’aria Si ie vous dis que ie vous ayme di Bacilly, nella sua versione semplice e in quella con gli spostamenti ritmici. Altrettanto si puo’ dire degli es. 4a e 4b, Mon coeur qui se rend à vos coups di Lambert, in cui si incrociano due strati asimmetrici di spostamento, nella parte acuta e in quella grave.
Es. 3a & 3b: BACILLY, B. Nouveau Livre d’Airs. Paris, 1661. p. 52 & 54 Questo particolare è già stato meso in rilievo in Catherine Massip, L’Art de Bien Chanter: Michel Lambert (1610–1696) (Paris: Société Française de Musicologie: 1999) e Bruce Haynes, Bacilly and the Roots of French Instrumental Repertoire and Playing Style (unpublished: 2005). Ringrazio l’autore per avermi permesso di consultare un esemplare del suo testo. L’air de cour è stato tratato recentemente in Georgie Durosoir (ed.), Poésie, Musique et Société, L’air de cour en France au XVIIe siècle (Versailles: Centre de Musique Baroque de Versailles, Mardaga, 2006). Il volume contiene una ricerca sui riferimenti teorici: Théodora Psychoyou, “De la présence de l’air de cour dans les écrits théoriques du XVIIe siècle: une rhétorique de l’actio”, pp. 183–205; ed un articolo sull’ornamentazione nel primo periodo del genere: Jeanice Brooks, “L’art et la manière : ornamentation et notation dans l’air de cour à la fin du XVIe siècle”, p. 169–179. Un lavoro sistematico di spoglio delle fonti è stato fatto da Anne-Madeleine Goulet, Paroles de Musique (1658–1694) Catalogue des “Livres d’airs de différents auteurs” publiés chez Ballard (Versailles: Centre de Musique Baroque de Versailles, Mardaga, 2007), con un riferimento all’ornamentazione nelle pp. 54–60.
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Ex. 4a & 4b: LAMBERT, M. Les Airs ... corrigez de nouveau. Paris, 1666, p. 32 & 34
L’es. 5 è notevolmente più tardivo, per lo meno per quanto riguarda la data d’edizione. Gabriel Nivers offre ancora nel 1689 innumerevoli esempi della complessità ritmica a cui un canto poteva arrivare, nel nostro caso un Domine Jesu Christe (es. 5). Non si tratta di un double che abbellisce una versione precedente più disadorna: la musica viene eseguita così in primo grado.
Es. 5: NIVERS, G.-G., Motets à voix seule. Paris, 1689, p. 72
Come si puo’ notare, questo tipo di scrittura presenta un certo grado di difficoltà nella lettura e al tempo stesso adombra la struttura armonica soggiacente. A ragione copisti e editori optarono in maggioranza per rispecchiare una partitura più ortodossa, lasciando nelle mani dell’interprete questa tipologia di abbellimenti. Dall’altro lato, una tipica partitura francese già si presentava abbastanza carica di agréments per aver bisogno di aggiungerne un nuovo strato. È importante sottolineare come quest’arte dello spostamento ritmico non fosse un ornamento obbligatorio, invisibile a causa delle difficoltà tipografiche ma de rigoeur. In coincidenza dell’arrivo della musica italiana si verifica una certa recessione in questa
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pratica, anche se non una sparizione. Per dimostrarlo si ricorrerà a due esempi, uno di Marais e l’altro di François Couperin. Il Second Livre de Pièces de Violes di Marin Marais vide la luce nel 1701, anche se raccoglie alcune composizioni scritte precedentemente. Questo volume risalta per l’accurata tecnica d’incisione della musica, come se si trattasse di un’opera d’arte in se stessa. L’es. 6 presenta un prélude ornato tanto con agréments che con tirate o altri espedienti; ma al contrario del suo maestro Sainte-Colombe, il compositore non fa uso dello spostamento sillabico — dando per scontato che ogni composizione strumentale di questo tipo contenga implicitamente una prosodia –. Tanto Marais che Couperin non sembrano sfruttare questa tradizione. Per quanto siano estremamente accurati nell’editare le proprie opere, sono pochi i casi in cui lo applicano. Nel loro caso l’influenza italiana si proietta più nell’abbanonare certe risorse dello stile francese che nell’applicare direttamente il modello transalpino.
Es. 6: MARAIS, M. Second Livre de Pièces de Violes. Paris, 1701, p. 33. Prélude.
Solo sporadicamente François Couperin presenta un passaggio come quello che figura nell’es. 7, estratto dai Nouveaux Concerts. Casi simili non abbondano nella sua produzione, ma da queste battute emerge chiaramente una constatazione: se si suonano insieme vuol dire che qualcosa non va.
Es. 7: COUPERIN, F. Les Goûts-réünis ou Nouveaux Concerts. Paris 1724. Sarabande Grave.
Jonathan Dunford (ed.), Folies précédées d’un prélude pour la viole composés par M. Marais (Version originale inédite de 1685) (Strasbourg: Les Cahiers du Tourdion, 1992).
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Durante il lungo periodo che separa l’air de cour dai Concerts Royaux, altri compositori continuarono ad offrire esempi puntuali di come la realtà musicale potesse superare la frontiera degli agréments. Più specificamente, fu il gruppo di quanti lavoravano sui nuovi strumenti a fiato (legni) a lasciare le tracce più significative: Michel de La Barre, Jacques-Martin Hotteterre le Romain, i Philidor o Montéclair.
Ainsi qu’on la praticque dans la musique vocale Michel de La Barre dette alle stampe il suo Deuxième Livre de Pièces pour la Flûte Traversière (1710) con una presentazione singolare: l’incisione imita una partitura pubblicata con caratteri mobili. Gli es. 8 e 9 offrono due letture diverse di come un pezzo possa essere manipolato. L’es. 8 mostra la versione meno invasiva. Le note e i pochi abbellimenti di questa Sarabande sono quelli prevedibili. Il punto di forza dell’esempio risiede nelle legature. Queste sono la testimonianza di come un flautista professionista potesse superare le indicazioni generali a riguardo presenti nei trattati per dilettanti. Le regole di articolazione erano solo un punto di partenza. Davanti al virtuosismo della velocità si continuava a dare peso al virtuosismo nell’espressione.
Es. 8: LA BARRE, M. Deuxième Livre de Pièces pour la Flûte Traversière. Paris, 1710, p. 4, Sarabande
La nascita dei nuovi strumenti è stata studiata recentemente da Marc Écochard, “Anciens et nouveaux instruments dans la France du XVIIe siècle : l’exemple du hautbois”, Recherches sur la musique française classique XXXI (2007): 17–70; il quale complementa l’informazione raccolta da Bruce Haynes, The Eloquent Oboe (Oxford Univ. Press, 2001). Per il flauto si vedano, fra l’altro, le ricerche di Tula Giannini, Great Flute Makers of France the Lot and Godfroy Families, 1650–1900 (London: Tony Bingham, 1993) e Ardal Powell, The Flute (Yale Univ. Press, 2002).
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L’es. 9, estratto dallo stesso volume, presenta un grado più elevato di modifica zione. Innanzitutto richiama l’attenzione il tipo di brano scelto, una gavotta, che dovrebbe essere, secondo la tradizione, una danza con profili chiari e senza le pretese intellettuali di un’allemanda o di un Tombeau. Nonostante ciò, La Barre ha lasciato scritto un double — e un double del double, visto che anche la ripetizione viene esplicitata –. In entrambi gli strati si avverte di nuovo il gioco di articolazione, ma soprattutto risalta il relativo sovraccarico di abbellimenti. Se si fosse conservata solo la gavotta senza il double, simile alle tante gavotte del repertorio lullista, pochi sarebbero stati gli interpreti, direttori o docenti attuali che avrebbero approvato un’esecuzione ex tempore come quella scritta da La Barre. Il giudizio sarebbe stato cortese ma chiaro: “eccessivo; l’ornamentazione non puo’ sommergere la linea principale né modificare il carattere di un pezzo. L’esagerazione non è un tratto tipico della musica francese, anzi, tutto il contrario.” Invece La Barre ci ha lasciato questo esempio antipatriottico sulla più umile delle sue danze.
Es. 9: LA BARRE, M. Deuxième Livre de Pièces pour la Flûte Traversière. Paris, 1710, p. 36, Gavotte
Jacques-Martin Hotteterre fu un’altra figura maggiore nella consolidazione del nuovo repertorio di musica da camera all’inizio del Settecento. I suoi Principes de la flûte traversière, stampati nel 1707, furono uno dei principali best sellers musicali che la Francia esportò in Europa. In questo trattato, breve ma apparentemente esaustivo, si
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raccoglieva ogni tipo d’informazione necessaria alla comprensione di uno strumento e di un linguaggio musicale poco conosciuti in quegli anni. Nel 1708, l’anno successivo, Hotteterre presentò il suo Livre Premier de Pièces pour la Flute avec la Basse, l’applicazione pratica della sua opera teorica. Nonostante gli scomodi caratteri mobili, l’autore si obbligò a definire un grado di ornamentazione molto preciso, come nei casi presentati negli es. 10a e 10b. Il secondo corrisponde alla riedizione del 1715, questa volta realizzata con la tecnica dell’incisione. Si tratta delle ultime battute della sarabanda La Fidelle in una versione con gli abbellimenti essenziali e seguita da un’altra più elaborata.
Es. 10a & 10b: HOTTETERRE, J.-M. le Romain. Premier Livre de Pièces pour la Flûte Traversière. Paris, 1708. p. 23 y 25; Paris, 1715, p. 17, Sarabande
Ancora una volta conviene insistere sulla differenza tra il prescrittivo e l’opzionale. Non tutto il repertorio francese deve essere trattato in questo modo, ma questo stesso repertorio contiene abbastanza esempi di eterodossia legati ad autori centrali in grado di giustificare l’estensione del contetto di ortodossia stesso. Non è realistico né corretto applicare automaticamente all’esecuzione di musica da camera i criteri della musica per organico più esteso, come la tragédie en musique o il grand motet. Al contrario, ha più senso cercare punti di riferimento nel resto del repertorio per strumento solista, sopratutto quello per clavicembalo.10
Tous les dimanches de l’année La prassi di eseguire su tastiera composizioni specificamente create per un insieme strumentale godeva in Francia di una tradizione consolidata. Esistono decine di pezzi orchestrali trascritti per tastiera. La prassi editoriale di Ballard di lasciare solo la parte Uno dei primi studi contemporanei sull’articolazione nella musica francese per violino si trova in Barbara Seagrave, “The French Style of Violin Bowing and Phrasing from Lully to Jacques Aubert (1650–1730)”, (Ph.D.diss. Stanford Univ., 1958). 10
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di dessus e il basso, rinunciando alle tre parti intermedie, offriva a qualsiasi clavicembalista la possibilità di suonarli a prima vista; ciò non impedì comunque che circolassero versioni più elaborate, manoscritte o a stampa. La trascrizione di pezzi di Lully ad opera di D’Anglebert è una delle più note, ma certamente non l’unica. Anche Marin Marais vide trascritta almeno una delle sue tragédies en musique.11 Come era prevedibile, le versioni per tastiera si presentano arricchite da una moltitudine di abbellimenti, e varie sono le ragioni che lo spiegano. La principale è che il clavicembalo doveva risvegliare nell’interprete e nell’ascoltatore il ricordo di una musica di una sonorità molto più densa di quella della tastiera, ragione che incoraggia a completare l’effetto moltiplicando gli agréments. Parallelamente, si è già parlato dei diversi protocolli di scrittura francese in relazione all’organico, essendo il repertorio per clavicembalo molto più dettagliato della schematica scrittura per orchestra. Una cultura della trasmissione che rinuncia a tre linee su cinque non dovrebbe preoccuparsi molto di salvaguardare il trillo o la legatura sopra un tour de gosier in biscrome; senza contare quanto poco probabili, o direttamente vietate, sarebbero state queste sottigliezze in un edificio di migliaia di metri cubi. Invece, per un’ingiustificata proprietà commutativa, si tende a pensare che le composizioni per tastiera debbano perdere una parte significativa dei propri abbellimenti quando vengono suonate da un gruppo da camera. Si conservano vari riferimenti riguardo alla possibilità di eseguire in versione cameristica una composizione per tastiera: I pezzi qui di seguito sono di una sorte diversa di quelli che ho prodotto fino ad oggi. Essi convengono non solo al clavicembalo, ma anche al violino, al flauto, all’oboe, alla viola e al fagotto. Li avevo composti per i piccoli concerti da camera a cui Luigi XIV mi faceva partecipare quasi tutte le domeniche dell’anno.12
La partitura, con basso numerato, è chiaramente destinata all’esecuzione in ensemble. Rimane così nell’ambito della congettura la questione di come Couperin avrebbe scritto e interpretato questi pezzi nella versione solistica. Fortunatamente si conservano esempi coevi di come un clavicembalista poteva presentare le sue musiche per altri organici: le Six Suittes per clavecin o dessus di François Dieupart (1701)13, Le Pièces de Clavecin qui peuvent se joüer sur le viollon (1707) e le Sonates David Chung, “Lully, D’Anglebert and the transmission of 17th-century French harpsichord mu sic”, Early music 31/4 (2003): 582–604; e anche il suo articolo “The Menetou Manuscript and Seventeenth-Century French Culture and Politics”, Proceedings of the International Conference in Musicology, Jagiellonian University (Krakow 2003). Sull’opera di Marais cf. Richard Sutcliffe “Transcriptions d’Alcide de Marin Marais”, Benoît Dratwicki (ed.) Grandes Journées Marin Marais (Versailles: Centre de Musique Baroque de Versailles, 2006): 231–235. 12 François Couperin, Les Goûts-reünis ou Nouveaux Concerts (Paris: Boivin, 1724). 13 François Dieupart, Six suites pour clavecin. Publiées par Paul Brunold. Avec le fac-similé des parties originales du XVIIIe siècle pour violon ou flûte et basse chiffrée. Rev. Kenneth Gilbert (Monaco: L’Oiseau Lyre, 1990). 11
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pour le Viollon et pour le Clavecin (1707) de Elisabeth Jacquet de la Guerre14 e, ancora più preziose per nostra ricerca, le Pieces de Clavessin di Gaspard Le Roux (1705)15. Hanno voluto che scrivessi il dessus e la basse di ognuna di queste Pièces. Cosa che sarà di grande aiuto a coloro che vorranno cantare ed accompagnare prima d’impararle con l’intavolatura, la quale diventerà allora molto facile essendo stati avvertiti dal canto e dal movimento. Vi ho aggiunto una contrepartie per il concert. La maggior parte di queste pièces fanno il loro effetto con due cembali, l’uno eseguendo il soggetto, l’altro la controparte. Si vedrà l’esempio nelle sei pièces che sono alla fine del libro…16
Le prefazioni delle edizioni musicali dovrebbero avere la funzione di chiarire certi particolari. Il compositore si rivolge al lettore con l’intenzione di dissipare i dubbi e dare indicazioni di esecuzione. È invece notevole quanto Gaspard Le Roux sia riuscito a complicare la situazione in sole cinque frasi. L’autore presenta una prima opzione come pezzi per clavicembalo solo. Nella se conda, il clavicembalista canta — solfeggia — la voce superiore mentre si accompagna. Appare una controparte che avrebbe dovuto fungere da terza linea nell’opzione d’una esecuzione — non esplicitata — per dessus strumentale e basse. Infine, si propone la versione a due cembali, seguendo gli esempi presentati nelle ultime pagine Quello che avrebbe dovuto essere uno dei tanti libri di pièces de clavecin si trasformò in un esempio poco comune di trascrizione originale, nel senso che fu realizzata dal compositore stesso e sovrapposta ai pezzi per tastiera. Questa eccentricità editoriale, senza precedenti e senza continuità, ci permetterà di aggiungere ancora nuovi tasselli ad un puzzle che sembrava già completo: quello dell’ornamentazione non tabulata nella musica francese fra Sei e Settecento. Una Stele di Rosetta per tradurre il francese dal francese. Una selezione di esempi estratti dal libro di Le Roux ci permetterà di esplorare le frontiere di questa pratica musicale, mettendo in evidenza fino a che punto la scrittura e l’esecuzione dovevano corrispondere in funzione del contesto interpretativo e della tradizione grafica. La musica italiana, che deteneva apparentemente il monopolio dell’ornamentazione ex tempore, non fu la sola in cui la partitura non era che un canovaccio della realtà.17 Un primo contatto con la fonte mostra che la versione per tastiera è sistematicamente più complessa. La spiegazione potrebbe essere quella abituale e intuitiva: il suono del clavicembalo si smorza più rapidamente che i dessus strumentali e ha bi-
Studiate in dettaglio da Catherine Cessac, Elisabeth Jacquet de La Guerre. Une femme compositeur sus le règne de Louis XIV (Actes Sud, 1995): 112–133. 15 L’articolo classico sulla figura e l’opera di Le Roux è A.-M.-Denis Tessier, “L’oeuvre de Gaspard Le Roux” Revue de musicologie, III/4 (1922): 168–174. 16 Gaspard Le Roux, Pieces de Clavessin (Paris, Foucault, 1705). 17 Bruce Haynes, Bacilly… pp. 18–19. 14
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sogno degli abbellimenti e dello stile brisé — sincopi e arpeggi comuni al liuto — per occupare lo spazio sonoro. Indubbiamente si tratta soprattutto di questo, ma un esame più attento rivela la spiegazione parallela: la parte in symphonie è più semplice perché così lo richiede la propria tradizione di scrittura — debitrice di quella per orchestra — senza pertanto sottintendere nulla sull’esecuzione. L’es. 11 ne è un caso palese. La tastiera mostra un certo tipo di inégal sulle prime due crome di ogni quattro; parallelamente, il primo dessus presenta semplici crome. Appare chiaro che l’interpretazione di entrambe le versioni dovrebbe essere la stessa. Se si immagina un concerto in cui Le Roux e un gruppo di musicisti della corte eseguissero ogni pezzo al clavicembalo e successivamente in trio — cosa più che plausibile, come si è visto nel caso di Couperin — sarebbe difficile pensare che i musicisti non rispettassero l’esempio sonoro dato dal compositore, o che lo stesso Le Roux non lo esigesse da loro.
Es.11: LE ROUX, G. Pièces de Clavessin. Paris 1705, p. 11. Allemande Grave La Lorenzany
Un caso simile si osserva nell’es. 12. La mano sinistra del clavicembalo si permette un trillo nel mezzo del passaggio di crome, quando invece la lettura per trio lo declina in maniera più semplice. Effettivamente la regola di scrittura orchestrale per i bassi li presentava sempre più carenti d’informazione musicale rispetto agli acuti (elisione di trilli e legature nelle entrate in imitazione, etc), ma niente lascia credere che l’interpretazione fosse diversa.
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Ex. 12: LE ROUX, G. Pièces de Clavessin. Paris 1705, p. 48. Double de la Basse [du Menuet]
Altri esempi entrano nel terreno delle possibilità aperte piuttosto che in quello dell’esigibile. La Sarabande dell’es. 13 presenta una scrittura in trio spogliata di tutte le sincopi della versione clavicembalistica. Bisognerebbe credere che questi spostamenti, ereditati dallo stile vocale francese, siano espressamente vietati nell’interpretazione in trio? Oppure si tratta, ancora una volta, di una questione di divergenza tra le varie scuole di presentazione grafica.
Es. 13: LE ROUX, G. Pièces de Clavessin. Paris 1705, p. 20. Sarabande
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La densa Allemande, riprodotta interamente nell’es. 14, è una sintesi chiara della problematica a cui Le Roux si era confrontato. In molti pezzi del volume la terza voce aggiunta non è una parte composta prendendo spunto dalle armonie interne della tastiera, ma neanche una linea indipendente d’interesse simile alle altre due. Questo stato di indeterminatezza tra contrepartie e second dessus fa in modo che il suo trattamento sia in alcune occasioni non tanto elegante come il resto delle voci. Ciononostante, in alcuni casi, come l’Allemande in questione, il compositore le assegna una maggiore responsabilità musicale con l’intenzione di non perdere la grande informazione contenuta nell’opera. In effetti, se si cerca di trasmettere il massimo degli elementi della versione per tastiera, il risultato puo’ sfociare solo in una scrittura poco ortodossa per gli strumenti monodici francesi. In diversi punti dell’Allemande si puo’ constatare la doppia volontà — incompatibile — di Le Roux: mantenersi all’interno dello standard grafico e trascrivere il pezzo così come suona sulla tastiera. Come prima rinuncia, e nonostante il fatto che i violini possano scendere fino al sol grave, varie frasi del pezzo sono state elevate ad una tessitura più abituale per i dessus strumentali, perdendo in parte il colore scuro dello stesso. Le Roux decide di conservare le sincopi della battuta 3, pero non recupera quelle del lungo cromatismo finale nell’acuto. Inoltre, nella seconda metà della battuta 7 il rispetto all’originale arriva all’estremo nello scrivere la nota reale del port de voix (sarebbe stato impensabile esportare semplicemente il segno clavicembalistico; bi sognava elaborarlo o rinunciare alla nota), però il basso perde tutta la sua sonorità e viene sostituito da due semplici semiminime. Il pezzo procede con questo equilibrio. Sono accettabili qualche semibiscroma (b. 8) o lo scioglimento di un accordo in quattro semicrome (b. 9 e 10), ma il compositore abbandona presto il gioco generale di sincopi, gli abbellimenti nel basso e alcune formule cadenziali.
486 Round Table V — Reception of Italian Musical Culture in Central Europe up to ca. 1800
Es. 14: LE ROUX, G. Pièces de Clavessin. Paris 1705, p. 58–59. Allemande
Il volume di Gaspard Le Roux contiene decine di casi in cui gli stessi dubbi si risolvono in maniere diverse. Se si osserva separatamente la parte in trio, appare chiaro questo dibattito fra il risultato e la scrittura. In ogni caso, lo standard di scrittura stesso della musica da camera andava evolvendosi con i decenni per permettere una mag-
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giore complessità, generalizzando un dibattito che Le Roux riassume nel suo volume. Davanti ad una parte di clavicembalo relativamente omogenea, i pentagrammi del trio sembrano a tratti appartenere ad un ritournelle di Lully o, in altri, ad un’Apothéose di Couperin. Vi saranno nuovi esempi di come un repertorio possa essere trascritto fra la camera e la tastiera (Rameau, Forqueray) ed ognuno di essi permetterà di tornare a controllare le incoerenze tra una grafia francese che si pretende esaustiva ed un’esecuzione divisa tra abbellimenti essenziali, opzionali e apporti ex tempore. Nono stante le apparenze, queste partiture sono tutto quello che contengono, ma non contengono tutto quello che sono. Dall’altro lato, il nuovo linguaggio di abbellimenti italiano non faceva uso degli spostamenti sillabici francesi e questi, negletti dai nuovi compositori e in mancanza di un agrément corrispondente, andavano progressivamente ritirandosi dalla tavolozza interpretativa. Di tanto in tanto compositori come Hotteterre e Couperin li avrebbero usati, rispettivamente nelle Airs et Brunettes e nei Nouveaux Concerts. O come il vicino Johann Sebastian Bach il quale, enciclopedico, si prendeva il compito di scrivere nota per nota i suoi abbellimenti — francesi o italiani — decidendo in qualche occasione di giocare con le sillabe (es. 15). Già una volta Reinken gli aveva detto: “Pensavo che quest’arte fosse morta, invece vedo che continua a vivere in voi”; Lambert avrebbe pensato lo stesso.
Ex. 15: BACH, J. S. Ich bin vergnürt mit meinem Glücke BWV 84/1. Leipzig 1727, NBA 2007: Sämtliche Kantaten Vol. 3, p. 202* (autógrafo), 205* (b. 1–3), 206* (b. 24–27)
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