Oltre Medea. Madri Assassine e Padri Sacrificatori Tra Mito, Rito e Cronaca

September 26, 2017 | Author: carloalessandro | Category: Jason, Sacrifice, Religion And Belief
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di Laurea in Lettere

Tesi di Laurea

OLTRE MEDEA: MADRI ASSASSINE E PADRI SACRIFICATORI FRA MITO, RITO E CRONACA

Laureanda:

Relatore:

LARA LAFFRANCHINI

Prof.ssa ILEANA CHIRASSI COLOMBO

Correlatore: Prof.ssa LETIZIA BINDI

ANNO ACCADEMICO 2002-03

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INDICE: INTRODUZIONE: _______________________________________________________ 3 CAP. 1: IL FIGLICIDIO MITICO__________________________________________ 6 1.1 - L’“ALTRA” MADRE: MADRI ASSASSINE NEL MITO GRECO ____________ 9 a) Un caso classico: i figli di Medea__________________________________________ 11 b) Figlicidio e mania: le madri “impazzite”. Cadmeidi, Pretidi, Miniadi…____________ 24 c) Vendetta e cannibalismo: i casi di Edona e Procne ____________________________ 31 1.2 - IL FIGLICIDIO PATERNO NEL MITO GRECO __________________________ 33 a) La mania, l’errore, la “punizione” _________________________________________ 34 b) Eracle: un caso “eccezionale”_____________________________________________ 36 c) Alcuni “sacrifici” anomali: _______________________________________________ 39 d) Il modello del padre devoto: il sacrificio del figlio nel mito greco ________________ 40 1.3 - I SACRIFICI DEL FIGLIO NEI “MITI” SEMITICI ________________________ 45 CAP. 2: FIGLICIDI, UCCISIONI RITUALI E SACRIFICI. UN EXCURSUS ____ 65 2.1 - SACRIFICI UMANI E UCCISIONI RITUALI NELLA GRECIA ANTICA. MITO E PRASSI RITUALE_______________________________________________________ 65 2.2 – L’INTERPRETAZIONE INIZIATICA___________________________________ 74 CAP. 3: IL “MITO” DEL RITO SEMITICO ________________________________ 79 3.1 – IL SACRIFICIO SEMITICO: L’OFFERTA DEI PRIMI NATI E IL RITO “MOLOCHITICO” _______________________________________________________ 79 3.2 – IL “MITO” DELL’INFANTICIDIO RITUALE NELL’ACCUSA AGLI EBREI __ 94 3.3 – IL SANGUE DEL BAMBINO ________________________________________ 114 CAP. 4: LA MESSA A MORTE NECESSARIA_____________________________ 117 4.1 – BURKERT, GIRARD E IL “GENE” DELLA VIOLENZA__________________ 117 4.2 – L’UCCISIONE “ORIGINARIA” IN FREUD_____________________________ 128 4.3 – LA MORTE DEL “DEMA” __________________________________________ 130 1

4.4 – LA VIA IRRAZIONALISTA: ELIADE E IL COLLEGIO DI SOCIOLOGIA ___ 133 4.5 – LA SCUOLA STORICO-RELIGIOSA E IL CONTRIBUTO DI ERNESTO DE MARTINO ____________________________________________________________ 138 CAP. 5: I “SACRIFICI” NELLA CRONACA ______________________________ 143 5.1 – INFANTICIDIO E “ISTINTO MATERNO” _____________________________ 151 5.2 – IL FIGLICIDIO OGGI: ATTO RITUALE O ASSASSINIO? ________________ 162 BIBLIOGRAFIA: ______________________________________________________ 173 SITOGRAFIA: ________________________________________________________ 187 VOCI ENCICLOPEDICHE:_____________________________________________ 189

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INTRODUZIONE: La presente ricerca si occupa principalmente del tema del cosiddetto “figlicidio”, l’uccisione di un figlio già cresciuto da parte del genitore, nella ricchezza delle sue implicazioni. Certo essa non pretende di essere esauriente, e di affrontare nel dettaglio tutte le numerose problematiche connesse a questo tema. Si vuole comunque fornire una traccia, un orientamento, su un particolare tipo di violenza che pare essere particolarmente attuale e che tanto rilievo ha avuto anche nelle cronache degli ultimi anni. Vedremo che dietro la cronaca terribile dei

figlicidi le implicazioni

ideologiche e simboliche sono molteplici e rimandano a nodi irrisolti che condizionano la complessa costruzione del comportamento di uomini e donne come soggetti culturali. L’uccisione del bambino, e del proprio figlio in particolare - soprattutto se compiuta dalla madre - appare nella nostra cultura, e in quei discorsi che tanto hanno contribuito alla sua formazione - quello greco e quello biblico - l’atto “eccezionale”, l’atto da evitare per eccellenza. Eppure, proprio a garanzia di questo necessario rifiuto dell’atto figlicida nella realtà, il tema ha assunto un rilievo notevole ed è rimasto centrale nel mito greco antico così come anche nel discorso biblico e le diverse soluzioni mitiche e rituali proposte pesano per così dire nel nostro campo culturale. Limitiamo il nostro campo di indagine a queste due culture, perché queste ci appaiono quelle che più hanno esercitato un’influenza decisiva nel costituirsi della identità occidentale attuale. Vedremo quindi come si presenta il tema in questi due tipi di discorso che definiamo mitico proponendo il valore di base di mito come discorso, narrazione, al di là di ogni implicazione di vero e falso. In particolare noteremo 3

nei miti la volontà di evidenziare precise differenze nelle rappresentazioni del figlicidio in rapporto all’identità di genere del genitore che lo compie. A questo proposito sceglieremo come esempi emblematici due “miti” assai celebri: quello dei figli di Medea e quello del sacrificio di Isacco. Essi infatti ben rappresentano questa “separazione”, comune a molti dei miti analizzati: il figlicidio materno accentua le caratteristiche di “marginalità” e devianza di donne che sono anzitutto “assassine”; quello paterno al contrario l’inserimento in un quadro di religiosità ufficiale e di devozione agli dei di un padre, che è anzitutto “sacrificatore”. Vedremo poi come proprio in corrispondenza di questa centralità del tema mitico, la corrispondente prassi di un uso sacrificale - e nella fattispecie del figlicidio o dell’infanticidio rituale - è stata fortemente rifiutata in entrambe le culture che sono oggetto del nostro studio. La rilevanza e la frequenza del tema mitico viene qui interpretata proprio come “fondazione” e “garanzia” della “non sacrificabilità” dell’essere umano, e del bambino in particolare. In questo senso i numerosi miti di figlicidi, compiuti dai padri come dalle madri, appaiono strettamente funzionali ad un controllo sociale che vieta e preclude quanto è “pericoloso” e non deve accadere nella realtà ordinaria, storica, del quotidiano. Il mito distingue e classifica gli atti, rituali e non, che sono considerati praticabili in una determinata cultura rispetto a quelli che sono “impossibili”, o “possibili” solo per dimensioni del tutto “diverse”. Così il mondo greco e quello ebraico-semitico attraverso il dispositivo mitico paiono aver posto degli argini culturali e garantito una risoluzione innocua a quelle tensioni e conflittualità che minacciano ogni società. Ancora per tutto il medioevo e l’età moderna, il discorso sul figlicidio è rimasto principalmente discorso “mitico” su quello che potevano concepire e attuare solo dei gruppi religiosi marginali, che venivano diffamati proprio mediante la rappresentazione di riti “indicibili”. 4

In questo quadro di “indicibilità” si è iscritta appunto l’accusa di infanticidio. Allo stesso tempo vedremo come questi stessi riti, intesi come riti “altrui”, centrati sullo spargimento e sull’uso del sangue infantile erano tanto frequentemente evocati proprio in virtù di una loro supposta efficacia. Il discorso sull’infanticidio rituale, e sulla messa a morte dell’essere umano in generale, è investito di valenze ideologiche forti, stringenti. Tali valenze si sono conservate fino al moderno per scivolare ambiguamente nel postmoderno. Tutto un filone di studi si è concentrato infatti sul valore fondante, efficace e “necessario” del sacrificio umano e dell’uccisione in generale. L’atto che coinvolge il bambino pare allora quello che più desta sconcerto, orrore, ripugnanza, e tuttavia proprio in quanto caso estremo - caso limite - si qualifica in quest’ottica come la massima offerta possibile, e dunque come l’atto più efficace. Tale era stato appunto il messaggio dello stesso mito greco e biblico, dove i padri disposti a sacrificare i figli in circostanze critiche di guerra erano premiati generalmente con la vittoria. Scomparso, o quasi, il discorso mitico sacrificale, il tema ricompare oggi su un nuovo piano, quello della storia quotidiana. Giungeremo infatti ad osservare come si ripresenta oggi il problema del figlicidio, nell’attualità della cronaca. Ne emerge un quadro che coinvolge principalmente le donne, le madri, e che le vede compiere sempre più spesso quest’atto “straordinario” ed “eccezionale”, anche al di fuori dei contesti di disagio sociale e deculturazione nei quali si anniderebbero le debolezze culturali e psichiche apparenti. L’impressione è che questi casi, così come del resto molte altre esplosioni di violenza incontrollata, all’interno della famiglia e non, siano espressione di un disagio latente antico sempre più irrisolto, anche per carenza di dispositivi culturali efficaci.

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CAPITOLO 1: IL FIGLICIDIO MITICO …Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per scannare il figliolo. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “Abramo, Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. Riprese: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che rispetti Dio e non mi hai risparmiato il tuo figliolo, l’unico tuo!”. Allora Abramo alzò gli occhi e guardò; ed ecco: un ariete ardente, ghermito dal fuoco, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e l’offrì in olocausto al posto del suo figliolo. (Genesi 22, 10-13) FIGLI: Ahi, ahimè! CORO: Senti, senti il grido dei figli? Ahi, o sventurata, infelice donna! 1˚ FIGLIO: Ahimè, che fare? Come sfuggire alle mani della madre? 2˚ FIGLIO: Non so, o fratello carissimo, siamo perduti. CORO: Devo entrare in casa? Mi par bene stornare la strage ai figli. 1˚FIGLIO: Sì, per gli dei, soccorreteci; è necessario. 2˚FIGLIO: Siamo ormai vicini al cappio di questa spada. (Euripide, Medea, 1271-1278)

Sono questi solo due estratti significativi dei “miti” più noti nella cultura dell’uomo occidentale: entrambi propongono rappresentazioni di genitori che uccidono, o sono comunque pronti ad uccidere, i loro figli. L’uccisione da parte dei genitori dei propri stessi figli è un dato ampiamente attestato, possiamo dire anzi frequente, in varie tradizioni sul piano mitico come su quello rituale. Il tema esiste a vario titolo nel discorso mitico allargato di numerose culture ed è presente presso numerosi “racconti” e nella letteratura di molte civiltà antiche del Mediterraneo, ivi comprese quelle che hanno esercitato un’influenza decisiva nel costituirsi dell’identità culturale occidentale. Ci riferiamo a quei discorsi che definiamo mito greco e “mito” biblico. 6

I casi di uccisione dei propri figli da parte di un genitore sono ampiamente attestati. Tuttavia i due casi particolari, sopra citati, appaiono particolarmente emblematici, e si presentano come i casi in qualche modo “centrali” di figlicidio anche per la riflessione culturale occidentale contemporanea. Il primo esempio che abbiamo scelto, tratto dal testo biblico, propone un modello di padre pronto a sacrificare il proprio figlio unigenito ed amatissimo quale prova di massima devozione religiosa, di fede; l’altro, invece, appartenente ad un testo del teatro greco, mette in scena il modello di una madre che compie l’assassinio

brutale

dei

propri figli per soddisfare un mero

proposito di vendetta. Si tratta, chiaramente, del motivo del sacrificio di Isacco e di quello dei figli di Medea. Simili e allo stesso tempo divergenti, i due racconti mettono ugualmente in scena due genitori disposti ad uccidere i propri figli. Tuttavia, nel primo caso l’uccisione si configura come un sacrificio particolarmente sofferto da parte del padre, sacrificio che comunque non viene portato a termine, anzi il racconto sembra “fondare” proprio il rifiuto del sacrificio umano. Nel secondo caso si assiste invece al compimento dell’atto sanguinario da parte di una madre, in una cornice che non ha, apparentemente, nulla di rituale, secondo un modello che vuole evidenziare “barbarie” e scelleratezza di un tale atto violento, ma anche qualche altro risvolto sul quale ritorneremo. Questi sembrano essere, in effetti, i modelli ai quali riportare il tema dell’uccisione dei figli nel mondo greco e in quello biblico. Vedremo come anche allargando il campo d’indagine il comportamento delle madri figlicide accentua chiaramente la caratteristica della “messa a distanza”, della “devianza”, della “straordinarietà”; quello dei padri al contrario sottolinea l’obbedienza e la fede dimostrata nella cornice di un quadro religioso ufficiale. Potremmo pertanto opporre madri “assassine”, per le quali la brutalità e l’efferatezza dell’atto compiuto paiono aver fine in sé, e dunque apparentemente

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ingiustificabili, a padri devoti “sacrificatori” dei propri figli nell’ossequio di un comportamento ritualmente coordinato. I due “modelli” paiono rispondere a situazioni precise. E’ interessante sottolineare che nel mondo greco antico, in particolare nel mondo post-omerico della polis, la donna, relegata ai margini dello spazio politico, non appare mai, almeno ufficialmente, nella veste della sacrificatrice1: alle donne era infatti precluso di praticare personalmente dei sacrifici e di maneggiare il coltello sacrificale. Come dimostra giustamente Marcel Detienne2, il femminile era assolutamente incompatibile con la dimensione sacrificale - e quindi anche alimentare nel senso della grande cucina di carne - proprio in virtù di un’avvertita presunta pericolosità della donna che giustifica il preciso intento di inserire il femminile in un ordine a parte, un ordine diverso. Due racconti di carattere aneddotico, quello del re di Cirene Batto e quello di Aristomene, riportati da Detienne3, rappresentano significativamente un’attività sacrificale femminile che sfocia in violenza generalizzata. Anche nella realtà quotidiana una serie di precauzioni era adottata allo scopo di escludere completamente il genere femminile da quanto avesse a che fare con l’uso di armi, con lo spargimento di sangue, con il possibile compimento di gesti violenti. Per quanto, quindi, le donne rivestissero spesso delle cariche nel contesto di molti rituali religiosi e avessero accesso a vari sacerdozi, a esse era comunque sempre vietato di maneggiare personalmente la machaira, il coltello sacrificale. Secondo Detienne, nel corso delle stesse Tesmoforie, feste a partecipazione esclusivamente femminile, nel momento per così dire “cruciale” del sacrificio e dello spargimento di sangue, si rendeva necessario l’intervento estemporaneo di un uomo, un mageiros, rigorosamente maschio, che aveva il solo compito di sgozzare le vittime sacrificali e che subito dopo veniva congedato. Vale la pena 1

Per gli stretti rapporti fra pratica sacrificale, alimentare e politica, vedi DETIENNE, Pratiche spirito di sacrificio, 1982 (1979) 2 DETIENNE, Eugenie violente 1982 (1979) 3 DETIENNE, Eugenie violente 1982 (1979): 131-132

culinarie e

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ricordare che mageiros indica genericamente il cuoco, sempre e solo al maschile in greco. Questa precauzione, così come i due racconti che Detienne riporta, testimonierebbe dunque di una certa “angoscia” nei confronti del mondo femminile, di cui si temevano chiaramente gli eccessi pericolosi; in realtà il dispositivo appare un efficace strumento per articolare simbolicamente il ruolo femminile dalla parte del margine in uno spazio dominato dalla centralità del ruolo ufficiale, rappresentativo, maschile. 1.1 - L’“ALTRA” MADRE: MADRI ASSASSINE NEL MITO GRECO La madre, dunque, quanto meno nell’ideologia del cittadino greco, non “può” uccidere come non “può” sacrificare il proprio figlio, senza che a questa immagine non sia associata una fortissima e totale valenza di trasgressività. L’uccisione appare un atto “impossibile” già a prescindere dal fatto che la vittima sia il proprio figlio. Inoltre la donna che si macchia personalmente del sangue della propria prole si dissocia dal gruppo rifiutando la funzione a cui la società la destina - quella di generare e allevare i figli - e in questo modo attacca quella che è la struttura fondamentale della società, la famiglia. Anche nella rappresentazione mitica essa non può essere una figura accettabile ed è connotata secondo i canoni di una devianza assoluta rispetto alla norma della vita quotidiana. Per questo nel mito la madre assassina o è impazzita o è una straniera, una feroce “primitiva”, dunque comunque “altra”, come Medea che è straniera, barbara, orientale, oltre che essere donna. L’uccisione dei figli da parte di una madre greca non potrebbe trovare in alcun caso la propria collocazione all’interno di un rituale istituzionalizzato accettato ed accettabile: si tratta di una rappresentazione per ogni verso “impossibile”. L’uccisione del figlio da parte di una madre, nel mito, si colloca spesso significativamente nella sfera del menadismo, dunque del culto di Dioniso, che è la divinità “diversa” per eccellenza nel pantheon greco, il dio apolitico - e tuttavia centrale e necessario alla polis stessa - il dio della follia e degli eccessi, 9

il dio che i Greci stessi rappresentavano come “straniero”, proveniente dalla Tracia o dal lontano oriente, ma che è ben presente nella città4. Se partiamo dal presupposto che ciò che definiamo in modo assai lato dionisismo, nel mito come nel rito, appariva come una negazione e un ribaltamento delle norme civiche e dell’ordine consueto delle cose, accettiamo che il suo ruolo fosse proprio quello di rappresentare un’inversione di valori rispetto alla norma: in questo quadro, dunque, la donna poteva apparire nell’inatteso ruolo della “sacrificatrice”, ma allo stesso tempo anche il sacrificio tradizionale presso l’altare era sostituito dallo smembramento feroce della vittima. Si può spiegare così la presenza nel mito di racconti di uccisione e smembramento del proprio figlio da parte di madri, come modello fondante proprio ciò che non doveva essere, modello di un accadere diverso per eccellenza rispetto alla norma e soprattutto rispetto allo stereotipo della donna intesa come madre amorevole e protettiva. Le donne che compiono figlicidi nel mito greco si profilano quindi anzi tutto come delle grandi violatrici e rappresentano in vario modo tutta una serie di infrazioni e trasgressioni. Il caso più significativo pare essere quello di Medea: diversamente da molte altre madri figlicide del mito, essa tuttavia non è una baccante impazzita né inconsapevole; è anzi estremamente lucida ed è connotata come una donna dotata di una particolare sapienza. La sua diversità è contrassegnata in altro modo: è la donna-maga, manipolatrice di pharmaka, guaritrice e avvelenatrice, che proviene da un paese collocato agli estremi confini del mondo conosciuto. Diversamente, le varie collettività mitiche che si macchiano di infanticidio Pretidi, Miniadi, Cadmeidi - agiscono in uno stato di invasamento, in uno stato di coscienza “altro” che in modo altrettanto efficace, sia pure diversamente, le colloca al di fuori della “normale” rappresentazione della donna greca. 4

La bibliografia a questo proposito è infinita, ma vedi CHIRASSI COLOMBO 1991

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Passiamo in rassegna dunque il caso di Medea e quei casi del mito greco che vedono delle madri assassinare, dilaniare, persino imbandire i propri figli in dei pasti cannibalici, generalmente offerti ai mariti. a) Un caso classico: i figli di Medea Medea è una figura estremamente complessa, come rileva S. I. Johnston5, che sottolinea nel suo saggio la straordinaria gamma di sfaccettature del comportamento e della personalità di questo personaggio. Possiamo dire che dall’VIII sec. a.C. ad oggi Medea ancora non cessa di esercitare un fascino particolare, come dimostra l’ingente numero di opere a lei dedicate fin dall’antichità, dalla IV Pitica di Pindaro all’omonima tragedia euripidea, alle Argonautiche di Apollonio Rodio, a Seneca e Ovidio, fino ad arrivare al trattamento cinematografico di Pasolini6. Ancora al giorno d’oggi molto si discute sulla natura di questa figura, tanto che continuano ad essere avanzate numerose chiavi di lettura, non da ultime quelle psicanalitiche, per cercare di spiegare e di avvicinarsi a questo sconcertante personaggio7. Nonostante la molteplicità delle versioni del mito che sono state fornite è Euripide che nel V secolo conferisce alla figura di Medea la sua identità per così dire “canonica”, scegliendo di rappresentarla, forse per la prima volta, come la donna che uccide i propri figli pur di vendicarsi del marito Giasone, deciso ad abbandonarla per sposare una principessa greca.

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JOHNSTON 1997, pp. 5-7 Ci riferiamo ovviamente al film “Medea”. Qui Medea diventa l’oggetto di una riflessione del tutto attuale sui luoghi della marginalità nel mondo contemporaneo. In questo senso, l’eroina del mito e della tragedia greca diventa la rappresentante, e il paradigma, dell’appartenenza ad un mondo arcaico e religioso, che nell’attualità può essere identificato con quello, altrettanto incomprensibile e lontano, del sottoproletariato. La relazione fra Giasone e Medea è allora anzitutto la storia di un rapporto, sempre irrisolto, fra il mondo borghese colto e l’“irrazionalità” di un mondo ancora arcaico, di cui è difficile comprendere le ragioni. Medea è dipinta da Pasolini con i tratti della “ferocia innocente”, perché immersa in una sfera, quella del “sacro” e della religiosità, che è prima di tutto impossibile da comprendere - per il laico e razionale borghese oggi, come per l’altrettanto razionale cittadino greco nell’antichità - che pur sembra essere portatrice, nella lettura pasoliniana, di una qualche verità ultima ed essenziale. In questa sorta di nostalgia per i valori di un mondo arcaico ancora immerso nel “sacro”, Pasolini segue certamente la linea irrazionalista e fenomenologica che tanta parte ha avuto nel pensiero storico-religioso del Novecento e che trova uno dei suoi più accreditati esponenti in Mircea Eliade. Sulla lettura pasoliniana del personaggio di Medea, vedi CHIRASSI COLOMBO 2001. 7 In particolare vedi i vari saggi raccolti nel volume a cura di CLAUSS – JOHNSTON (1997) 6

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Nella Teogonia di Esiodo, secondo una tradizione certamente molto antica, Medea è la figlia dell’oceanina Idia, dotata di una sapienza particolare, e di Eeta, re della Colchide; quindi, attraverso di lui, è nipote di Elio, il Sole. Significativamente Esiodo la presenta anche come nipote di Circe, l’altra celebre e pericolosa donna “maga” del mito greco. Attraverso questa genealogia, il poeta enfatizza dunque i suoi poteri e la rappresenta come una sorta di dea, anche se gli autori più tardi preferiscono piuttosto inserirla nella categoria delle eroine8. Fin dal principio, comunque, e indipendentemente dalle varie rielaborazioni del mito, Medea è la “straniera”, detentrice di un sapere particolare e pericoloso, quello della pharmakeia, la scienza dei farmaci che guariscono e uccidono, un sapere che possiamo definire “magico”. In Euripide la personalità di Medea, ancor prima dell’infanticidio, è già definita come quella di una donna eccessiva. Una serie di azioni sembrano prefigurare, infatti, quanto accadrà poi a Corinto: padrona di un sapere “eccessivo”, e per questo temibile, Medea è un’abile manipolatrice, disposta a tutto pur di raggiungere i suoi scopi: al fratricidio ai danni di Apsirto (e forse lo stesso Apsirto era ancora un bambino!), e a convincere le figlie di Pelia ad uccidere inconsapevolmente il padre9.

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Sul modello eroico, dato specifico del politeismo greco, A. BRELICH 1958, e per le eroine D. LYONS 1997 Per il mito di Medea vedi come testo ampio di riferimento il lungo racconto in APOLLODORO, Biblioteca I, 9, 126-147. I dati sono comunque raccolti in GRIMAL 1987: 396-398. La donna si innamora di Giasone quando gli Argonauti giungono in Colchide alla ricerca del vello d’oro, e lo aiuta con le sue arti magiche e con i suoi filtri a realizzare l’impresa in cambio della promessa di portarla via con sé e di sposarla. Gli consente di superare le prove impostegli dal padre e per amore sottrae alla sua stessa famiglia il vello d’oro. Fugge con Giasone sulla nave Argo portando con sé anche il fratello Apsirto e, pur di ritardare l’inseguimento del padre, lo fa a pezzi, gettando i brandelli del suo corpo nel mare. Come previsto, infatti, Eeta si ferma per raccogliere le membra del figlio e dargli sepoltura. Dopo il matrimonio, al ritorno a Iolco, Medea con le sue arti magiche vendica il marito: fa sì che le figlie di Pelia uccidano il padre, che aveva affidato a Giasone l’impresa della ricerca del vello d’oro per liberarsi di lui e aveva sterminato la sua famiglia. La maga le convince di essere capace di ringiovanire qualunque essere vivente facendolo bollire in una pozione magica, di cui lei sola possedeva il segreto; per persuaderle, sotto i loro occhi squarta un vecchio ariete, ne getta i pezzi in un paiolo che aveva messo sul fuoco, e di lì a poco ne fa uscire un agnello. Convinte da questo esempio, le figlie di Pelia fanno a pezzi ugualmente il loro padre e lo gettano nel paiolo, ma questi ovviamente non ne esce, lasciandole inorridite da quanto hanno fatto. Dopo ciò, Medea e Giasone riparano a Corinto, ove vivono felici per dieci anni e dove ha luogo la tragedia finale, l’uccisione da parte della donna dei suoi bambini.

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Il personaggio costruito da Euripide si presenta come un compendio significante di una temibile ed oscura “diversità”, carattere che si palesa pienamente nell’atto finale della tragedia, con l’infanticidio. L’assassinio dei figli da parte di Medea sembra comparire per la prima volta ad opera di Euripide stesso o di un altro tragediografo dello stesso secolo, Neofrone. Molto si è discusso se si tratti di un’invenzione del tragediografo o piuttosto di una variante del mito “allargato”. Secondo Sarah Iles Johnston10, come si vedrà, la tradizione della Medea infanticida sarebbe ereditata da un patrimonio folklorico tradizionale. In ogni caso, nella tragedia euripidea, che consacra l’identità canonica di Medea così come ancora oggi è ricordata, Medea e Giasone, cacciati da Iolco dopo l’uccisione di Pelia, giungono a Corinto, ove vivono felici per dieci anni, finché l’uomo non decide di abbandonare la moglie barbara per sposare la figlia del re Creonte (chiamata Glauce o Creusa nelle varie versioni del mito; Euripide non la nomina mai). Medea, tradita e abbandonata in terra straniera da un marito spergiuro per cui ha lasciato e tradito la sua stessa famiglia, deve subire anche l’umiliazione dell’esilio: Creonte infatti, temendo la donna che conosce come “saggia ed esperta di molti malefici”11, bandisce lei e i suoi figli dalla città, intimandole di andarsene subito. Con la sua eloquenza, Medea riesce a convincere il re ad accordarle ancora un solo giorno prima dell’esilio ed è in quell’unico giorno che progetta e porta a compimento la sua vendetta. Stabilisce di punire Giasone privandolo di quanto ha di più caro, cioè della sua discendenza e della nuova sposa, che avrebbe potuto generargli altri figli. Da questo momento in poi l’azione si svolge rapidamente, avviandosi verso il tragico finale. Assicuratasi da Egeo la promessa di ospitarla e proteggerla ad Atene, Medea manda i suoi figli a supplicare la giovane di risparmiare loro l’esilio, facendole recapitare in dono un peplo ed un diadema preziosi. In realtà i 10 11

JOHNSTON 1997 EURIPIDE, Med. 285

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doni sono avvelenati e, appena li indossa, Glauce è divorata dalle fiamme; anche Creonte, abbracciando la figlia, resta avvinto al peplo e incontra la morte. L’ultimo gesto a cui Medea si costringe è il più difficile: è il figlicidio. Euripide evidenzia opportunamente la conflittualità intima fra l’esigenza di vendetta e il dolore personale che è fortissima, e tuttavia Medea non può impedirsi di agire: “Orsù, o misera mano mia, prendi la spada, prendila, muovi verso la dolorosa meta della vita: non essere vile e non ricordarti dei tuoi figli, che ti sono assai cari, che li partoristi, ma solo per questo breve giorno dimenticati dei tuoi figli; e poi piangi. Anche se li ucciderai, nondimeno essi ti sono cari; e una donna sventurata sono io.”12 Dopo vari cedimenti e l’ultimo straziante saluto la donna infatti si fa coraggio e finalmente, pur di ferire il marito infedele, dà personalmente ai figli la morte con la spada, con l’estrema consapevolezza di causare con il suo agire la propria stessa sofferenza, prima ancora che quella del marito, e pur tuttavia decisa a portare a compimento il proprio proposito. Compiuto l’atroce gesto, nell’ultimo incontro con Giasone al termine della tragedia, la donna gli impedisce di dare sepoltura ai figli e di abbracciarli per l’ultima volta, prendendosi un’ulteriore rivincita. Interessante la soluzione proposta dal tragediografo. La figlicida elabora ritualmente – quindi dà senso – alla sua azione, orientando per così dire culturalmente e cultualmente la crisi. Annuncia che lei stessa seppellirà i bambini nel santuario di Era Acraia e che per espiare il delitto istituirà a Corinto una festa solenne; infine vola via con i loro corpi su un carro alato donatole dal Sole, suo avo. Questa è la versione più celebre del mito, quella che ci è stata tramandata da Euripide nell’omonima tragedia, ma sembra non sia anche la versione “originaria”.

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EURIPIDE Med. 1244-1250

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Angelo Brelich ha dedicato un suo contributo13 al rapporto fra il mito, o meglio i miti, che hanno per protagonista il personaggio di Medea, e il culto che si tributava a Corinto ai suoi figli, reinterpretando quest’ultimo non già come un rito di espiazione, come sembra essere e come è presentato dalle varie fonti - ivi compreso Euripide stesso - ma piuttosto come un rito dai caratteri tipicamente iniziatici14. Rievocando i miti diversi che narrano l’uccisione dei figli di Medea, emerge un diverso racconto, antecedente a quello euripideo, che individuava piuttosto nei Corinzi gli artefici del delitto e dunque anche i fondatori della presunta festa annuale di espiazione. I Korinthiakà di Eumelo, poeta epico corinzio dell’VIII-VII sec. a.C., forniscono la testimonianza più antica. Un frammento in versi è riportato da uno scoliasta di Pindaro (Schol. Pind. Ol. 13, 74), che parla piuttosto di un tentativo fallito, da parte di Medea, di rendere immortali i suoi figli: sembra che la dea Era, grata a Medea per aver rifiutato le profferte di Zeus, avesse promesso alla donna di rendere immortali i suoi figli se li avesse portati nel suo santuario; Medea obbedì, ma la promessa non fu mantenuta e anzi i bambini morirono. Anche Pausania (2, 3, 7; 2, 3, 10-11) riassume un passo dello stesso poeta corinzio, e qui non solo ribadisce il motivo del tentativo fallito di dare l’immortalità ai bambini - si dice che Medea “nascondeva” i suoi figli nel temenos di Era a questo scopo - ma narra esplicitamente di come i Corinzi li lapidarono15 e di come furono costretti a fondare il culto per far fronte alla morte dei loro stessi figli, conseguente al sacrilegio commesso. Lo stesso Pseudo-Apollodoro, dopo aver narrato la versione, per così dire, più “tradizionale” della vicenda di Giasone e Medea, ricorda brevemente anche questa diversa versione del mito:

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BRELICH 1959 Sul tema delle iniziazioni in Grecia si rimanda allo stesso BRELICH 1969 15 In questo caso la lapidazione dei Corinzi potrebbe inserirsi nel contesto dei cosiddetti “delitti rituali”. A questo proposito, si veda CANTARELLA1991, e il testo Le delit religieux dans la cité antique, Roma, 1981 (Collection de l’École française de Rome, 48) 14

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“Si dice anche che [Medea] fuggì abbandonando i figli ancora piccoli, dopo averli fatti sedere come supplici sull’altare di Era Acraia; ma gli abitanti di Corinto li portarono via di lì e li percossero a sangue”16. Esistevano dunque in età arcaica svariate versioni del mito, che differivano fra loro nei dettagli, ma tutte concordavano sull’innocenza di Medea, ritenuta non direttamente responsabile per la morte dei figli; per cui già anticamente si era diffusa la diceria che in realtà fosse stato lo stesso Euripide ad attribuire per primo l’assassinio dei bambini a Medea, e che l’avesse fatto perché pagato a questo scopo dai Corinzi stessi. La sostanzialmente tarda, come si è visto, definizione di Medea come donna pericolosa, maga e per di più infanticida, secondo Ileana Chirassi Colombo17, si iscrive nel contesto del tentativo di Atene, proprio nel V secolo a.C., allorché emerse la democrazia ateniese, di darsi una forte identità culturale autonoma, mediante un’opposizione sempre più marcata con l’orientale, inteso come l’altro da sé. Il polo opposto della relazione, allora, il diverso, l’esterno, l’“orientale”, si configura immediatamente anche come polo negativo, una modalità questa di svalutare l’altro da sé che, potremmo dire, pare essere stata ereditata per molti aspetti dalla stessa cultura occidentale. Medea in questo quadro è importante in quanto immagine dell’alterità per eccellenza,

veicolo

ideale

per

definire,

attraverso

una

particolare

rappresentazione dell’“altro”, l’identità del “sé”. A Medea vengono dunque attribuiti in modo mirato regole e costumi diametralmente opposti rispetto a quelli che definivano, e dovevano definire, il comportamento dell’uomo greco. Questa dicotomia, questa polarizzazione, era inoltre necessaria a rinforzare dei comportamenti sociali desiderabili, in questo caso a istituire un modello cui tendere per tutte le donne, lo stereotipo della donna feconda e materna. Proprio nel V secolo, dunque, quando si rende necessario istituire dei modelli e dei

16 17

APOLLODORO, Biblioteca, I, 9, 28 CHIRASSI COLOMBO 2001

16

parametri identificanti, la colca Medea diventa la madre che assassina i suoi figli, paradigma negativo per eccellenza. Nella tradizione greca arcaica Medea era un personaggio proveniente dall’oriente e un’esperta di pharmaka, in Pindaro (Pitica IV) addirittura una potente profetessa, tuttavia non era ancora definibile come personaggio del tutto negativo. E’ solo a partire dal V secolo che essa viene a qualificarsi sempre più come il tipo della maga “negativo”, e in questo contesto, come si è visto, si iscrive anche l’assassinio dei propri figli. Da Euripide in poi Medea è la donna “eccessiva”, passionale, diversa sotto tutti gli aspetti rispetto al paradigma e al modello dell’uomo e del cittadino greco,

caratterizzata

da

un

insieme

di

abbinamenti

significativi

di

un’interessante negatività (oriente, femminile, eros eccessivo e smoderato, ma anche il sapere trasgressivo della pharmakeia e della profezia e l’uccisione rituale o sacrificale di esseri umani…) che ne fanno l’outsider per eccellenza, fino a divenire un prototipo della figura della strega. E’ dunque questa Medea maga, “strega”18, padrona di un sapere occulto e produttrice di veleni, quella che a più riprese, nella tragedia euripidea, invoca l’inquietante e possente dea Ecate (la tricorpore, tricapite patrona della “magia”), è la Medea sulla quale si stende la “lunga ombra del “primitivo” - un primitivo orribile e sinistro”19 quella che uccide i suoi figli per vendetta, accecata dalla gelosia. Interessante appare anche la posizione della Johnston, che accosta questa particolare rappresentazione della Medea infanticida ad un paradigma folklorico ben noto in molte culture tradizionali antiche e moderne del Mediterraneo, non esclusa la stessa Grecia antica: si tratta di un modello che riguarda delle figure demoniache.

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Strega come noto deriva dal latino stryx, che indica un uccello notturno. Il vocabolo entra nell’uso attraverso la nota e potente immagini delle streghe romane di Orazio. Qui le “streghe”, rappresentate con tutti gli stereotipi che ne connoteranno più tardi la fisionomia, sono pericolose assassine di giovanetti, al contrario delle più innocue pharmakides greche. Vedi TUPET 1976, ma anche GRAF 1995, sulla magia nel mondo antico; con riferimento in particolare all’arte della pharmakeia, vedi SCARBOROUGH 1991 19 DI BENEDETTO, Introduzione a EURIPIDE, Medea, p. 22

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Secondo la studiosa il personaggio di Medea non potrebbe in alcun modo essere stato creato dal nulla: svilupperebbe piuttosto un paradigma folklorico diffuso nell’antica Grecia come in molti altri paesi del Mediterraneo, il paradigma dei child-killing demons o reproductive demons. Queste figure femminili sarebbero contraddistinte da due tratti principali. In primo luogo si credeva che esse uccidessero o comunque minacciassero la vita dei bambini o delle loro madri al momento della gravidanza o del parto, quindi erano chiamate in causa per spiegare i frequenti casi di morte o malattia che potevano colpire gli infanti o verificarsi in queste occasioni. In secondo luogo esse spesso si qualificavano come donne che avevano fallito, per un motivo o per un altro, il loro compito riproduttivo, in quanto erano morte vergini, o non avevano avuto figli o, ancora, questi erano morti precocemente. In conseguenza di questa loro “incompletezza” si pensava che queste donne si fossero trasformate in demoni che infliggevano il loro stesso destino ad altre donne, uccidendone i figli. Molte creature di questo tipo, quali Lamia, Mormo e Gello, solo per citare alcuni casi greci (ma non bisogna dimenticare la Lilith degli ebrei e la lilu della Mesopotamia)20, erano infatti temute nell’antichità. Gello era morta vergine; Lamia invece aveva generato molti figli a Zeus, ma Era, gelosa, li aveva uccisi tutti poco dopo la loro nascita; Mormo divenne un demone per aver ucciso e divorato in un momento di pazzia i propri stessi figli. Medea stessa, del resto, secondo la versione molto antica di Eumelo, aveva visto morire i suoi figli a causa del mancato aiuto fornito da Era, che aveva promesso di renderli immortali. Questo, per la Johnston, secondo il modello folklorico noto, avrebbe fatto di lei una demone assassina di bambini. Poi il discorso mitico, manipolato da Euripide o Neofrone, avrebbe polarizzato e accentuato questa caratteristica rendendo Medea l’assassina dei propri stessi figli, fatto assolutamente più inquietante, passando sotto silenzio l’uccisione dei 20

Sui cosiddetti “Child-killing demons” vedi Johnston 1995 e su Lilith in particolare J. BRIL 1990

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bambini altrui, tipica dei demoni - ma anche accusa ripetuta più volte nell’ambito della grande persecuzione delle streghe nell’Europa medievale e moderna. Questo tratto sarebbe divenuto incompatibile con la nuova rappresentazione di Medea, consona agli interessi della cultura di V secolo. In ogni caso il figlicidio di Medea non appare mai disgiungibile da certe particolari caratteristiche di marginalità, di eccezionalità per la quale sono state usate diverse chiavi di lettura. Nella lettura che possiamo definire “irrazionalista” di Pasolini, ad esempio, Medea è “assolta” proprio in nome della fondamentale innocenza del “sacro originario”. Pur se resta crudele – nella sequenza di apertura del film è colta mentre compie un sacrificio umano – la sua è una crudeltà innocente, ingiudicabile in quanto appartenente ad un mondo diverso, arcaico e ormai incomprensibile, quello permeato dal “sacro”. Al di là del giudizio pasoliniano, comunque, già nella tragedia euripidea la Medea che uccide i suoi figli è la sacrificatrice di un mondo ancora primitivo, è la “maga” che non conosce moderazione, in quanto non greca21. Il figlicidio si inserisce dunque nel contesto di un’accesa conflittualità fra i due coniugi, che sono separati da un’eccessiva distanza culturale. Il matrimonio fra Giasone e Medea è infatti il matrimonio esogamico per eccellenza: se altri personaggi celebri del mito e della tragedia sono votati allo scacco perché contaminati da un’eccessiva vicinanza, evidente in unioni direttamente o indirettamente incestuose – si pensi solo al caso emblematico di Edipo – il matrimonio fra l’eroe greco e la maga della Colchide naufraga e porta ad esiti inauditi e sconcertanti proprio per la lontananza eccessiva, esagerata, di due mondi che non possono raggiungersi, secondo i parametri della cultura dominante, la greca, che comunque si pone emblematicamente il problema.

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Sul rapporto di Medea con il mondo “primitivo” si veda DI BENEDETTO, Introduzione a EURIPIDE, Medea: 19-23 Per la lettura particolare che ne ha dato Pasolini, vedi CHIRASSI COLOMBO 2001 Sul tema della magia nel mondo antico : GRAF 1995 e FARAONE – OBBINK (eds.) 1991

19

Lontana com’è la patria barbara di Medea, la scelta di lei come moglie sembrerebbe ottimale nel quadro dei numerosi divieti che, in ogni società, sono preposti a regolamentare le unioni matrimoniali22. E tuttavia l’esito dimostra che anche

l’eccessiva

lontananza,

come

l’eccessiva

prossimità,

è

fonte

dell’avvenimento tragico; in questo caso il risultato è anzi il delitto efferato ed impensabile per eccellenza, il figlicidio. Ma lo scontro fra questi due mondi, portato in scena da Euripide, sarebbe, secondo la particolare interpretazione fornita da L. Bindi23, l’espressione drammatizzata non solo di una conflittualità insanabile interna al nucleo familiare, ma anche di tensioni ben radicate nel contesto storico dell’Atene del V secolo: il riferimento è alle recenti disposizioni sulla cittadinanza emanate da Pericle nel 451-450 a.C.24 (la tragedia euripidea di Medea fu infatti rappresentata solo un ventennio dopo, nel 431). La legge che limitava l’estensione della cittadinanza ai soli figli di genitori entrambi ateniesi si inseriva infatti - proponendo sostanzialmente una soluzione bilineare - nel più vasto e spinoso problema relativo alla linea di discendenza dei figli. Notevoli dovevano essere le tensioni sociali, e i conflitti legali, sorti dalle rivendicazioni di entrambe le parti per assicurarsi diritti e prerogative connesse alla genitorialità25. In quest’ottica, il conflitto fra Giasone e Medea sarebbe prima di tutto espressione di un problema assai vivo e cogente nel tempo in cui viveva, e scriveva, Euripide. Esso potrebbe essere letto infatti come rappresentazione delle problematiche connesse al discorso sulla legittimità e sul diritto sui figli e ai conflitti sociali sorti dalle rivendicazioni da parte delle due linee di discendenza.

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In riferimento alle problematiche relative all’incesto, anche indiretto, e alle regolamentazioni nel campo delle scelte matrimoniali per evitare la contaminazione pericolosa di umori e fluidi identici si rimanda a F. HÉRITIER 1997 (1996), e HÉRITIER 1999 (1994). Si veda anche l’introduzione allo studio della parentela di R. FOX 1973 (1967) 23 BINDI 1999: 115-131 24 Vedi A.R.W. HARRISON 1968 (pp.25-29; 61-70) 25 Vedi BINDI 1999: 153-170

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Giasone pretende di gestire il futuro dei figli, certo che il nuovo matrimonio porterà vantaggi anche a loro; rivendica quindi, indirettamente, la loro appartenenza al proprio oikos, ignorando la mescolanza di cui essi sono frutto, disconoscendo il legame profondo che lega i figli, nel corpo e nel sangue, ad entrambi i genitori. Medea non solo rifiuta questa pretesa, ma esplicitamente si afferma padrona del destino dei bambini, rivendicando, per lei che li ha creati, anche la possibilità di ucciderli, pur di tenerli legati a sé, in quello che è stato definito dalla prospettiva psicanalitica26 un desiderio di realizzazione allucinatoria del possesso totale dei propri figli, con l’evidente estromissione del padre: E’assoluta necessità che essi muoiano, e poiché è necessario, li uccideremo noi che li abbiamo generati (Medea, 1240-1241) Il figlicidio di Medea sarebbe quindi spiegabile in termini, ovviamente inconsci, di reimpossessamento di quanto si percepisce come proprio. Eppure essa uccide i bambini anzitutto in quanto figli del marito, per amputarlo, privandolo della sua discendenza: e significativamente è solo con la loro uccisione, con l’eliminazione fisica che può realmente “appropriarsene”. Nel finale una Medea trionfante li porta via con sé sul carro del Sole, riconducendoli dunque alla propria linea divina di discendenza, e gestisce personalmente anche la loro sepoltura, istituendo inoltre lei stessa il rituale annuale di espiazione che li riguarda, risolvendo così il dramma mitico della messa a morte - un atto conclusivo, irripetibile - con la sequenza liturgica ripetibile - del rito, che inserisce nella storia. Interessante quindi la soluzione del dramma: paradossalmente il conflitto può essere risolto, e a vantaggio della madre, ma solo con l’eliminazione dei figli stessi.

26

Per le interpretazioni in chiave psicanalitica del mito di Medea si rimanda ai due articoli di S. BÉCACHE e M. COURNUT–JANIN nel numero XLVI della “Revue francaise de psychanalyse”, 1982

21

Del resto il tema, il problema delle modalità e delle linee di discendenza e di filiazione era assai attuale e discusso non solo nel discorso politico, ma anche in quello filosofico e scientifico del tempo. Può essere interessante volgere lo sguardo ad un’importante teoria della filiazione, proposta da Aristotele: il filosofo attribuiva al solo uomo il principio strettamente fecondante e creatore. Il maschio infatti avrebbe fornito la forma e il principio del movimento, la femmina solo il corpo e la materia (De generatione animalium 729a); il maschile sarebbe stato l’“attivo”, colui che “muove ed agisce”, il femminile l’elemento “passivo”, che “patisce” . Le donne dunque avrebbero partecipato alla procreazione, ma in modo marginale, fondamentalmente con un ruolo di “ricettacolo”. Ricordiamo a questo proposito la celebre metafora utilizzata nel lessico di Eschilo che propone la donna come una terra arabile, solco per il vomere che la rende terra produttiva per il contadino-marito, per rendere a lui quelli che sono i suoi frutti. Contrariamente a quanto proposto dalla medicina ippocratica, che riconduceva sostanzialmente il concepimento alla fusione dei due semi maschile e femminile - Aristotele proponeva la sua teoria dello sperma maschile dotato di pneuma, cioè del principio “divino” del movimento in sé, rendendo solo il maschio fecondo. Se la donna davvero fosse stata dotata di un tale principio fecondo, sosteneva Aristotele, allora essa, essendo anche ricettacolo, avrebbe potuto generare per partenogenesi; ma di fatto ciò non accade. Egli ne concludeva che la teoria della riproduzione pangenetica fosse palesemente errata e che la responsabilità del concepimento fosse prioritariamente maschile. Alla donna era attribuita una funzione essenzialmente contenitiva e nutritiva del feto, ma il principio fisico, e soprattutto formale, era dato dall’uomo. Si stabiliva così una netta asimmetria fra il ruolo maschile e il femminile nella generazione dei figli27.

27

Vedi CHIRASSI COLOMBO 1985, ma anche BINDI 1999: 171-180

22

Del resto nello stesso mito di fondazione della popolazione ateniese - mito importante fondante la sua autoctonia - il capostipite è quell’Erittonio che nasce da Ge, la Terra, ma in realtà è generato dal solo seme maschile di Efesto, il dio fabbro. Atena, la “madre”, è e resta vergine; non è coinvolta nella generazione: “oggetto” del desiderio di Efesto, si limita a raccogliere il seme del dio con un fiocco di lana e a gettarlo a terra. Alla stessa Terra spetta la mera funzione di “accogliere”, “tenere in gestazione”, “nutrire”, per poi offrire al mondo il bambino. Ge è quindi la madre “patria”, luogo dei padri28. Il mito pare confermare l’attribuzione alla donna di una funzione legata alla cura, alla nutrizione, alla crescita, ma la costruzione della discendenza vera e propria, la generazione, passa attraverso la figura maschile. Ritornando a Medea, la tragedia che la vede protagonista può quindi essere interpretata come conflitto familiare che coinvolge le due figure genitoriali nella rivendicazione del diritto genetico sulla prole. In certo senso possiamo dire che Medea uccide lucidamente i figli perché i figli sono essenzialmente i figli di Giasone. In ogni caso resta indubbio il carattere di marginalità, di alterità, con cui Euripide sceglie di rappresentare la sua Medea infanticida. Nelle altre varianti mitiche le figlicide saranno comunque donne “altre”, ma questa alterità, questa devianza, si presenta in modo molto diverso. Le altre madri figlicide sono per lo più donne impazzite, alienate, che agiscono in uno stato alterato di coscienza. Nella stessa Medea di Euripide è citato un altro caso mitico, definito eccezionale, di madre figlicida dove l’assassina è comunque pazza. E’ Ino, così ricordata dal Coro: “Una sola, una sola fra quelle di un tempo conosco che sui propri figli la mano avventò, Ino, dagli dei resa folle, quando la sposa di Zeus la scacciò dalla casa, errabonda. Si getta la sventurata nel mare con sacrilega strage dei figli,

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Vedi N. LORAUX 1981

23

tendendo il piede di là dalla marina sponda, destinata a perire con i suoi due figli.”29 b) Figlicidio e mania: le madri “impazzite”. Cadmeidi, Pretidi, Miniadi… Secondo il mito30, Ino, figlia di Cadmo e sorella di Semele, uccide il proprio figlio Melicerte in quanto impazzita, trovandosi in quello che noi ora possiamo definire uno “stato alterato di coscienza”, provocato dall’intervento eccezionale di una dea. Tuttavia, il mito dice anche che Ino aveva già precedentemente tentato di uccidere dei bambini, i figliastri Frisso ed Elle, intervenendo in modo diretto. Per gelosia - la stessa motivazione che aveva spinto Medea a uccidere i propri figli - Ino aveva infatti progettato una trappola assai mirata: aveva causato segretamente una carestia facendo tostare i chicchi che servivano per la semina del grano, rendendoli cioè non più in grado di germinare e determinando oltre alla carestia anche una situazione che possiamo definire simmetricamente anticerealicola, quindi antiattuale, se si considera il ruolo centrale del pane nel simbolico greco. Quando Atamante manda dei legati ad interrogare l’oracolo di Delfi sul modo di porre fine alla carestia, questi ultimi, su ordine di Ino, riferiscono che si rende necessario sacrificare Frisso. Atamante acconsente; tuttavia, appena prima dell’immolazione, il giovane e la sorella riescono a fuggire, trasportati nel cielo dall’ariete dal vello d’oro. Frisso raggiunge così la Colchide, mentre si narra che Elle cadde nel mare e morì annegata, dando il nome all’Ellesponto. Annotiamo di sfuggita come il padre sacrificatore figlicida molto spesso, come in questo caso, non riesce - o gli viene impedito, in realtà - di sacrificare. Il mito dipinge invece Ino come assassina diretta ed efficace di suo figlio Melicerte in una situazione drammatica che coinvolge anche il padre, che diventa figlicida, ma per errore.

29 30

EURIPIDE Medea 1282-1289 GRIMAL 1987: 77-78; 377 APOLLODORO Biblioteca I, 9, 1-2; III, 4, 3

24

Dopo il sacrificio di Frisso la dea Era, adirata con i due coniugi perché avevano allevato il piccolo Dioniso, figlio del rapporto adulterino di Zeus con Semele, li fa impazzire: Atamante, scambiando il figlio maggiore, Learco, per un cervo, gli dà la caccia e lo uccide; Ino invece getta Melicerte in un paiolo pieno d’acqua bollente, poi si getta in mare con il cadavere del bambino. Da allora, racconta sempre il mito, Ino e Melicerte si trasformarono in due divinità marine, Leucotea e Palemone, divinità salvatrici per i naviganti nelle tempeste per i quali abbiamo interessanti testimonianze di culto anche in età romana31. Ino appare dunque come un’emblematica figura di assassina di bambini, e in generale il mito complessivo che vede come protagonisti lei e il marito può essere considerato un racconto “esemplare” sul tema del rischio dell’uccisione dei figli, propri o altrui, che segna lo statuto estremamente fragile dell’infanzia nell’insieme della famiglia. Tuttavia, nel caso dell’uccisione di Melicerte, sembra si possa avanzare anche una lettura diversa: il fatto che egli sia gettato in un calderone pieno d’acqua bollente, richiama infatti anche un modello narrativo del tutto diverso, quello della bollitura intesa come mezzo magico per rendere immortale un essere vivente. Il tema del fuoco come mezzo per rendere immortale una creatura - e spesso si tratta in effetti di bambini - o per ringiovanirla, è infatti ampiamente attestato nel mito greco e non solo. La stessa Medea, come si è visto, convince le figlie di Pelia a smembrare il padre e a gettare il suo corpo in un calderone per ringiovanirlo, cosa che lei stessa del resto aveva già fatto a scopo esemplificativo con un ariete. Si riportano brevemente altri celebri miti che raccontano esplicitamente il tema della tentata “immortalizzazione” di bambini attraverso il fuoco. La dea Demetra (Inno omerico a Demetra 231-274) aveva tentato di garantire l’immortalità al figlio del re di Eleusi, Demofonte, ponendolo sul fuoco. 31

Vedi PIERART 1998; su Ino Leucotea, anche BONNET 1986

25

Tuttavia il tentativo non riuscì, poiché Demetra fu interrotta, probabilmente dalla stessa madre del bambino, spaventata. L’episodio è riassunto così nello pseudo Apollodoro: “Celeo aveva avuto un figlio da sua moglie Metanira; Demetra lo prese e ne divenne la nutrice. Voleva renderlo immortale: perciò durante la notte poneva il bimbo sopra il focolare e consumava le sue carni. Demofonte (questo era il nome del bambino) cresceva prodigiosamente di giorno in giorno; perciò Metanira si mise a spiare che cosa facesse la dea e quando scoprì il figlio fra le fiamme lanciò un grido. Perciò il bambino finì bruciato nel fuoco e la dea rivelò la propria identità.32” Un episodio simile vede coinvolta un’altra grande dea, l’egiziana Iside. Iside aveva tentato di conferire l’immortalità al figlio neonato del re di Biblo (Plutarco, De Iside et Osiride, 16). Anche l’oceanina Teti, madre extraumana dell’eroe più forte dei Greci, Achille, tenta per il figlio il processo di immortalizzazione, come ricorda ancora Apollodoro in un racconto piuttosto simile a quello precedente: “Quando Teti generò un figlio a Peleo, volendo renderlo immortale lo poneva dentro il fuoco, di notte, di nascosto dal marito e così distruggeva quanto in lui era mortale e gli proveniva dal padre, mentre di giorno lo ungeva con ambrosia. Ma Peleo la spiò e quando vide il bimbo che si dimenava sopra le fiamme lanciò un grido: così Teti, a cui era stato impedito di compiere la sua opera, abbandonò il bambino per tornare dalle Nereidi”33. E’ chiaro, quindi, dalla sua struttura ricorrente, che questo doveva essere uno schema narrativo ben noto e ampiamente usato nell’antichità. E’ interessante notare che tutte e tre le dee falliscono per l’intervento di mortali, benevoli ma ignari, che sono spaventati dall’apparenza del rito “magico”.

Sembra

ci

sia

infatti

una

certa

ambiguità

fra

pratica

dell’immortalizzazione e uccisione dei bambini, ambiguità che spesso non viene risolta e che dà adito anzi a fraintendimenti. Dal fallimento della prima si può giungere facilmente alla morte diretta e prematura del bambino, con esito diametralmente opposto alle aspettative. 32 33

APOLLODORO, Biblioteca I, 5, 1 APOLLODORO Biblioteca III, 13, 6

26

Come ricorda C. Bonnet in un suo articolo dedicato ai culti di Leucotea e Palemone, il calderone è, come il fuoco, strumento di passaggio per eccellenza, e in quanto tale è fortemente ambivalente: può essere strumento di morte come di resurrezione34. Nella linea di questa ambiguità potrebbe facilmente collocarsi anche lo stesso caso di Ino e Melicerte.35 In ogni caso i motivi per i delitti, sempre a danno di bambini, compiuti o tentati da Ino sono in un caso la gelosia, proprio come Medea - e questa sembra essere una motivazione tipicamente femminile - nell’altro la follia, indotta dall’ira di una divinità, nel caso specifico Hera. In moltissimi altri esempi mitici in cui dei genitori - e specialmente delle madri - uccidono i figli, alla follia, alla mania, è assegnato un ruolo fondamentale: la follia per eccellenza è quella di Dioniso. Il mythos dionisiaco riporta numerosi casi di figlicidio, sempre compiuti in uno stato modificato di coscienza, come possiamo appunto definire la manía36. Un caso eclatante è quello di Agave, l’altra figlia di Cadmo, sorella di Ino e come lei figlicida, il cui mito è stato messo in scena nelle Baccanti da Euripide. L’elemento “manίa” in questo caso è centrale. Tutta l’azione è dominata dal tema degli effetti della mania e dei suoi ambigui, strabilianti e controversi risultati. Ma nel dominio della follia, come in molti altri casi del genere, l’uccisione appare del tutto inconsapevole. Nella tragedia euripidea Dioniso giunge a Tebe, sua terra di origine, ove regna Penteo, figlio di Agave e dunque suo cugino. Qui il dio decide di vendicare la madre Semele, che Agave aveva ingiustamente calunniato. Semele infatti era morta colpita da un fulmine per aver chiesto al divino amante Zeus di mostrarsi in tutta la sua potenza; la sorella invece andava dicendo che essa era stata punita dal dio per aver sostenuto falsamente di essere incinta di lui, mentre

34

BONNET 1986: 55-56 Sui “bambini nel fuoco”, e per una prospettiva comparativa, vedi FRAZER 1995, Appendice ad APOLLODORO Biblioteca: 479-486 e HALM-TISSERANT 1993 36 Sul tema della mania dionisiaca si rimanda ai testi ormai classici di DODDS 1959 (1951) e JEANMAIRE 1972 (1951) 35

27

avrebbe avuto una relazione con un semplice mortale. Dunque Agave, e con lei anche Penteo, negavano l’identità divina di Dioniso, reputandolo il figlio di un semplice mortale, e per di più nato da una relazione illecita. Dioniso, come si conviene ad un dio offeso, punisce per l’ingiuria sia Agave sia Penteo, re di Tebe, che si opponeva alla diffusione del suo culto. Con il pungolo della follia il dio spinge tutte le donne del luogo, Agave compresa, a celebrare i suoi misteri sul monte Citerone; poi persuade Penteo ad andare a vedere personalmente gli eccessi delle Baccanti, dopo averlo indotto a travestirsi da donna. Le donne, come previsto, lo scoprono

nascosto su un abete e

straziano il suo corpo. La prima fra queste è proprio la madre Agave, che, scambiando il figlio per un leone feroce, anzi per un cucciolo di leone, e come cacciatrice “selvaggia”, insieme alle sorelle ed alle altre donne, se ne impadronisce senza usare gli arnesi tecnici della caccia, ma le mani, e ne strazia il corpo. Trasforma poi la testa in un trofeo che, conficcato in cima a un tirso, porta fieramente a Tebe. Solo a questo punto, esaurita la crisi, Agave, guidata dal padre Cadmo, potrà vedere ciò che realmente ha tra le mani, non un trofeo di caccia ma la testa del figlio. La pena qui è la presa di coscienza, accompagnata dall’obbligo dell’esilio in una ignota terra straniera. Non possiamo qui prendere in considerazione le innumerevoli interpretazioni del “senso” o dei “sensi” del testo euripideo, che usiamo solo come un documento prezioso di una variante del mito. In ogni caso è importante sottolineare come il figlicidio da parte di madre sia collocato nella “logica” di uno stato alterato. Altre donne dopo le tebane sono colpite da follia sempre ad opera di Dioniso. Dioniso si reca infatti ad Argo - racconta il mito - e, poiché anche qui non lo si vuole onorare, fa impazzire le donne del luogo: ancora una volta, si racconta che esse “andavano sui monti con i loro figli lattanti e ne divoravano le carni37”. 37

APOLLODORO, Biblioteca III, 5, 2

28

L’uccisione dei propri figli è qui contraddistinta inoltre dall’atto estremo del cannibalismo ed è, anche in questo caso, l’espressione di un’estrema incapacità a distinguere il vero dall’illusorio, di una perdita di contatto con la realtà e con la propria stessa coscienza38. Ricordiamo brevemente che il cannibalismo coinvolge nel mito greco anche macabri e celebri “dispetti” di padri fratelli come Tieste ed Atreo, il caso forse più celebre.39 Oltre alla già citate Cadmeidi, Ino e Agave, anche altre celebri collettività mitiche femminili si qualificano ugualmente come trasgressive e devianti, portate ad uccidere e smembrare dei bambini, spesso i loro stessi figli, nel contesto del menadismo e quindi nello stato di trance indotto dall’ira del dio. Prime fra tutte si ricordano le figlie di Preto, Lisippa, Ifinoe e Ifianassa. Nella Melampodia di Esiodo40 (quindi in una versione molto arcaica del mito), le giovani, giunte all’età adulta, divengono folli perché non hanno accettato i riti iniziatici di Dioniso. In preda a manίa, vanno vagando per tutta la regione di Argo, attraversano l’Arcadia e il Peloponneso, correndo per luoghi desolati in atteggiamenti scomposti e indecenti… e si rendono anche colpevoli di uccisione di bambino… In altre versioni del mito sono presentate come particolarmente ripugnanti, oltre che come lussuriose; in particolare si dice che le Pretidi erano abbruttite dalla scabbia, dalla vitiligine, dalla calvizie. Come ricorda W. Burkert, l’immagine delle Pretidi invasate “è l’antitesi radicale dell’immagine della vergine graziosa e morigerata, l’immagine del sabba delle streghe41”. Questa volta però si ricorre alla terapia e ci si rivolge ad un mantis, un indovino che funge anche da guaritore. E’ Melampo, Piede nero.

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Del resto, come mette in luce Paolo Scarpi, Dioniso è, per eccellenza, il dio del mutevole, dell’ibrido, della trasformazione (dunque dell’incerto), e anzi, proprio per questo suo carattere sarebbe “la divinità tutelare della tragedia quale rito di trasformazione e metamorfosi culturale” (SCARPI, Commento ad APOLLODORO, Biblioteca III, 4, 3) 39 Il numero 6 della Nouvelle Revue de Psychanalise, 1972, è dedicato ai “Destins du Cannibalisme” 40 BURKERT 1981 (1972): 129-132 APOLLODORO, Biblioteca II, 2, 2 41 BURKERT 1981 (1972): 130

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Melampo promette al padre di guarire le giovani, a patto di ottenere da lui la terza parte del regno. Preto rifiuta di pagare la guarigione con un compenso così esoso, ma il delirio delle fanciulle diviene ancora più acuto, e insieme a loro impazziscono anche le altre donne: abbandonano le loro case, uccidono i figli e corrono in luoghi deserti. Preto allora si risolve a concedere la ricompensa, ma Melampo risponde che accetterà solo se anche suo fratello Biante otterrà un’uguale porzione di terra. Preto, temendo di dover concedere una ricompensa ancora più elevata procrastinando ancora, accetta. Melampo, con i più vigorosi fra i giovani, insegue quindi le donne fino al monte Sicione, con grida e una forma di danza estatica. Durante l’inseguimento Ifinoe muore, ma le altre, sottoposte a esorcismi, recuperano la ragione, così Preto le assegna in moglie a Melampo e Biante. Significativamente la guarigione si conclude con il matrimonio, e dunque con il ritorno delle ragazze, dall’ambito d’influenza di Dioniso, dio degli eccessi, a quello di Era, dea del matrimonio ordinato, dunque con il ritorno alla consueta e “tranquillizzante” funzione di moglie e madre. Alla dissoluzione, con la rappresentazione delle ragazze come antitesi dell’ideale della vergine graziosa prima, e della madre amorosa poi, segue la re-istituzione dell’ordine con il reinserimento della donna nel quadro del matrimonio e della soggezione maritale. E’ interessante che il momento “selvaggio”, fuori dalle regole, preveda anche l’uccisione di un bambino, che risulta un atto dovuto ad una situazione di disordine dalla quale si può ritualmente guarire Anche ad Orcomeno si narrava un mito simile. In questo caso sono le figlie del re Minia, Leucippe, Arsippe e Alcatoe, che figurano come vittime dell’ira di Dioniso e per questo assassine inconsapevoli del figlio di una di loro. Esistono varie versioni di questa leggenda, ma tutte concordano nel narrare che le tre sorelle erano rimaste a casa, durante una festa in onore di Dioniso, a dedicarsi alle loro occupazioni, mentre tutte le altre donne del luogo 30

percorrevano il monte come Baccanti. Per punizione sono colte esse stesse dalla mania dionisiaca e finiscono per dilaniare il figlio di Leucippe, Ippaso, che scambiano per un cerbiatto. Respinte anche dalle Menadi per essersi contaminate, vengono trasformate in uccelli notturni continuamente in fuga42. Queste tre collettività mitiche, Cadmeidi, Pretidi, Miniadi, testimoniano dunque di un frequente rapporto fra l’uccisione dei propri figli e lo stato di trance, in rapporto ad una divinità, Dioniso, che prevedeva nel contesto del suo campo mitico-rituale l’inversione sistematica dei consueti valori della vita civica ordinata e dove forse proprio per questo si assegnava un ruolo così importante alla presenza femminile. E’ importante notare che questa partecipazione femminile al culto dionisiaco - culto destinato ad orientare culturalmente il disordine, come direbbe De Martino - sfocia significativamente in preoccupanti immagini di violenza ai danni dei bambini. c) Vendetta e cannibalismo: i casi di Edona e Procne In qualche modo affini a questo racconto, benché questa volta non compaia il motivo della manía dionisiaca, sono anche le diverse versioni che narrano la storia di Procne, o Edona, assassina di suo figlio Itilo o Iti43. Il motivo principale che spinge qui a uccidere il proprio figlio è, in due delle tre versioni in cui il mito è conservato, come nel caso di Medea, la vendetta nei confronti di un marito, che si sceglie di punire privandolo della propria discendenza. Nella versione attica del mito, Iti è figlio di Tereo e Procne. Il padre, re della Tracia, violenta la cognata Filomela e le taglia la lingua perché non possa riferire l’accaduto. Ma la donna riesce comunque a comunicare con la sorella ricamando le sue disgrazie su una stoffa. Procne, per vendicarsi, uccide Iti con una scure e lo offre in pasto al padre, poi fugge con la sorella. Tereo le insegue 42

GRIMAL 1987: 421 Sul tema della mania dionisiaca inserita nel quadro dei complessi di trance, intesi come dispositivi di controllo e risoluzione della crisi esistenziale, che colpiva specialmente il mondo femminile, e in modo particolare le fanciulle, vedi DE MARTINO 1961: 199-208 43 GRIMAL 1987: 185, 287

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fino in Focide, finché gli dei, impietositi, li trasformano in uccelli: Procne diviene un usignolo, Filomela una rondine e Tereo un upupa. Nella versione milesia, invece, Iti è figlio di Edona e dell’artigiano Politecno. I due un giorno si vantano di essere più felici di Era e Zeus, così la dea, per punirli, invia loro la Discordia, che ispira nei coniugi il desiderio di emulazione: lui si mette a costruire un carro, lei a tessere, con l’accordo che chi dei due finirà per primo la propria opera regalerà una serva all’altro. Vince Edona e il marito, per vendicarsi, violenta la cognata Chelidona, la veste da schiava, le impone di non parlare e la porta alla moglie come serva. Tuttavia Edona riconosce la sorella. Le due donne, insieme, si vendicano: uccidono Iti e, come nella versione attica, lo offrono come vivanda al padre, poi fuggono. Politecno le insegue, ma in questo caso è fermato dal suocero, che lo fa cospargere di miele e legare su un prato. In questo caso a uccidere sono madre e zia materna; ancora una volta è da segnalare l’abbinamento con il tema del cannibalismo inconsapevole come completamento della vendetta. Nell’Odissea (19, 518 ss.), dunque secondo una versione molto antica, Edona uccide suo figlio Itilo per errore: in realtà voleva uccidere il figlio maggiore di sua cognata Niobe, di cui invidiava la fecondità, ma finisce per assassinare il proprio unigenito; è poi trasformata dagli dei pietosi in usignolo. In quest’ultimo caso il figlicidio è reso possibile solo dall’errore, ma l’errore implica comunque una mancata uccisione di minore, un nipote. Il nipoticidio sarebbe volontario, il figlicidio inconsapevole. A dimostrazione della onnipresenza dei disturbi della parentela, oltre alle madri evidentemente sono pericolose anche le zie. In moltissimi casi, dunque, le donne nel mito uccidono i loro figli in stati di trance per effetto della manίa dionisiaca. Agiscono in modo del tutto inconsapevole, spesso scambiando i propri figli per animali e smembrandoli a

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mani nude44. Negli altri casi, il motivo appare essere l’errore, dunque un’altra forma di inconsapevolezza, oppure la gelosia, l’invidia, la vendetta. L’alienazione mentale, l’appartenenza ad un mondo primitivo, o anche l’errore, sono dunque alcuni dei modelli con i quali cui viene segnata la necessaria distanza rispetto alla realtà storica, quotidiana, in cui un tale scenario di madri assassine non era immaginabile e doveva essere assolutamente evitato. Da evidenziare comunque la connotazione ambigua sottesa al concetto di mania, follia, che, non dimentichiamo, il mondo greco interpreta anche come conoscenza allargata. Se infatti il Corpus Hippocraticum e la letteratura medica in generale ne danno una lettura essenzialmente psico-patologica45, la mania è invece interpretata come momento di allargamento delle proprie potenzialità nel modello platonico. Ricordiamo che Socrate, in un celebre passo del Fedro, dice che “i beni più grandi ci vengono dalla pazzia concessa per dono divino” (Platone, Fedro, 244a). La mania dionisiaca, telestike nella definizione di Platone, ha un posto assolutamente centrale nella religione greca46. 1.2 - IL FIGLICIDIO PATERNO NEL MITO GRECO Assai diversi sono gli esiti di un’analisi sul figlicidio compiuto dai padri. Anche qui il mito greco presenta un certo numero di casi significativi, seppure, forse, molti siano meno celebri dei precedenti. Accanto, anche in questo caso, ad alcune uccisioni compiute per tragico errore da padri per nulla intenzionati a privarsi della propria discendenza - il

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Il tema dello smembramento rimanda al noto modello degli esseri dema, introdotto nella riflessione antropologica da Jensen. Vedi JENSEN 1952 (1948) e 1954 (1951) 45 Vedi J. PIGEAUD, 1987 46 In particolare, al complesso dionisiaco E. R. DODDS attribuì una funzione sociale importantissima, quella di garantire una catarsi e uno sfogo rituale, quindi controllato, a degli impulsi e a delle ansietà che altrimenti avrebbero procurato notevoli danni sociali, se lasciati liberi di sprigionarsi incontrollatamente. L’estasi, a sua volta, assolveva la “funzione psicologica di soddisfare e svincolare l’aspirazione a respingere ogni responsabilità”, che certo doveva essere un’esigenza vitale in determinate situazioni sociali. Tali riti, sia quelli dionisiaci sia quelli simili coribantici, erano considerati del resto utili strumenti di “igiene sociale” dagli stessi Platone ed Aristotele. Vedi DODDS 1959 (1951):75-117; 319-334. Sulla mania dionisiaca vedi anche il testo ormai classico di H. JEANMAIRE 1972 (1951) e l’ultimo testo di K. KERÉNYI 1992 (1972)

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tema dell’errore è frequentissimo nel mito, e soprattutto nella tragedia - si nota l’emergere di nuovi temi che, fino ad ora, non è stato possibile osservare. a) La mania, l’errore, la “punizione” Paga le conseguenze della vendetta di Dioniso e uccide per errore, in preda a follia, secondo il racconto di Apollodoro47, Licurgo, figlio di Driante e re degli Edoni; ma si tratta di un caso particolare, piuttosto anomalo nel panorama generale dei padri figlicidi mitici. Il re aveva infatti cacciato Dioniso e fatto imprigionare le baccanti e lo stuolo dei satiri che lo seguivano, rifiutando di tributare il giusto culto e i giusti onori alla divinità. Il dio, secondo il consueto modello narrativo, lo fa impazzire e Licurgo, credendo di tagliare un tralcio di vite, uccide suo figlio con un taglio di scure e solo in seguito recupera la ragione. Infine, su esortazione di Dioniso il re stesso viene messo a morte: legato sul monte Pangeo, Licurgo muore sbranato dai cavalli. In questo caso dunque il padre uccisore per errore diventa anche la vittima prototipica. Il tema si presta comunque a letture su diversi livelli. Anche Atamante, come si è visto, uccide suo figlio Learco scambiandolo per un cervo, sempre secondo la modalità dell’uccisione inconsapevole in stato di forte alterazione mentale, già osservata per molte donne del mito. Per errore uccide l’eroe beota Pimandro, che, durante i lavori di fortificazione della sua città, colpisce il figlio Leucippo anziché un muratore che l’aveva offeso48. In un certo senso, potremmo dire che per errore agisce anche Crotopo, che uccide la figlia Psamate credendo che lei avesse avuto suo figlio Lino non da Apollo, ma da un semplice mortale. Qui però il tema si inserisce piuttosto nella ben nota sequenza dei padri punitori, soprattutto di figlie, che conta molti esempi. Frequentemente, infatti, nel mito, si danno casi di figlie punite dal loro padre; nel caso di Crotopo, come si è visto, la punizione è costituita dalla messa 47 48

APOLLODORO Biblioteca III, 5, 1-2 GRIMAL 1987: 510

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a morte, ma più frequentemente essa è costituita dall’“espulsione” e dall’allontanamento della figlia “impura”, in genere colpevole di aver avuto rapporti illeciti extra-matrimoniali49. E con la figlia si allontana anche il nipote, che non sempre tuttavia muore ma anzi, salvato da solo o con la madre, ha dopo l’avventuroso inizio una gloriosa esistenza50. Un’altra celebre modalità di messa a morte in qualche modo indiretta, perpetrata da un padre a danno di una figlia, è quella dell’esposizione al mostro in obbedienza all’ingiunzione di un oracolo, per salvare con una vittima sola l’intera comunità ecc. Celebre, in questo senso, è il motivo di Andromeda51, che appartiene a un vasto gruppo di racconti in cui giovani donne e uomini vengono offerti a mostri di vario tipo per placarne la collera. In questo caso le giovani vittime, tuttavia, non sono uccise “sacrificalmente” ma “allontanate”, esposte, e la loro eventuale morte risulta essere solo un esito indiretto, non scontato, dell’esposizione. Analizzando i miti di uccisione dei propri figli che hanno come protagonisti i padri si fanno però strada, oltre all’errore in seguito a follia indotta o per fatale distrazione, anche nuovi motivi. Il principale, vedremo, sarà quello sacrificale, che “costringe” il padre a rinunciare al proprio figlio, ma più spesso alla propria figlia, in nome di un bene pubblico superiore. Ma esiste anche un altro tipo di situazione che ugualmente giustifica il figlicidio paterno. 49

Il motivo più famoso in questo senso è certamente quello di Danae, figlia del re d’Argo Acrisio e di Euridice. Acrisio era stato informato da un oracolo che sua figlia avrebbe generato un erede che l’avrebbe ucciso. Per timore di ciò, l’uomo fece costruire una stanza di bronzo sotterranea dove teneva rinchiusa Danae; tuttavia la fanciulla venne violata, secondo alcuni dallo zio Preto, secondo altri da Zeus stesso, che penetrò nella stanza trasformandosi in una pioggia d’oro. Quando Acrisio venne a sapere che dalla figlia era nato Perseo, non volle crederlo figlio di Zeus; quindi rinchiuse la figlia ed il neonato in un’arca e la gettò in mare. Zeus tuttavia fece giungere l’arca a Serifo, dove i due furono raccolti e tratti in salvo da Ditti, fratello del tiranno Polidette. (APOLLODORO, Biblioteca II, 4, 1; GRIMAL 1987: 152) 50 Il motivo dell’esposizione della fanciulla si inserisce spesso nella serie delle biografie eroiche: la nascita particolare è infatti segno della futura grandezza dell’eroe. Vedi O. RANK 1994 51 Secondo la vulgata mitologica il padre di Andromeda, il re d’Etiopia Cefeo, fu costretto ad esporre la figlia ad un mostro pur di placarne la collera e liberare il paese da questa temibile creatura, che lo stava devastando. Andromeda non morì, perché fu salvata da Perseo, che si era innamorato di lei e che in seguito la sposò, tuttavia il motivo appare essere ancora quello di una particolare messa a morte indiretta da parte del padre. Il tema ha avuto una straordinaria ricezione nel mondo classico come nella cultura europea moderna. FRONTISIDUCROUX 1996: 135-166

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Questa situazione è esemplificata dal caso, straordinario sotto tutti i punti di vista, di Eracle, il più eccezionale degli eroi greci. b) Eracle: un caso “eccezionale” Numerose sono le varianti del mito che vedono Eracle uccidere i sui figli, ma possiamo dire che le due fonti principali che ci consegnano quest’episodio sono Apollodoro ed Euripide. Secondo Apollodoro (Biblioteca, II, 4, 12), Eracle, impazzito per “la gelosia di Era”, getta nel fuoco i suoi stessi figli, avuti da Megara, e due fra quelli dell’amico Ificle: Dopo la battaglia con i Minii accadde che Eracle, a causa della gelosia di Era, fu colto da follia e gettò nel fuoco i figli che aveva avuto da Megara e due dei figli di Ificle. Per questo motivo si condanna lui stesso all’esilio e viene purificato da Tespio. Solo dopo la Pizia gli impone di stabilirsi a Tirinto e di servire per dodici anni Euristeo, compiendo le imprese che gli saranno ordinate. Ancora una volta il figlicidio avviene attraverso il fuoco, elemento fortemente ambivalente, che abbiamo visto, in abbinamento al calderone, in funzione di strumento di “passaggio”. Anche in questa versione, come in altri casi analoghi, l’ambivalenza non è risolta. Molto più estesa, e straordinariamente particolareggiata, è la descrizione del figlicidio che fornisce Euripide, nella tragedia Eracle (vv. 967ss.). Qui l’eroe, impazzito, uccide di propria mano i figli scambiandoli per i figli del suo nemico Euristeo. La strage raccapricciante, compiuta in questa versione in modo diretto e inequivocabile, con l’arco e con la clava - e a cui non sfugge nemmeno la moglie Megara - è narrata con grande dovizia di particolari: …appresta la faretra e l’arco per servirsene contro i propri figli, credendo di uccidere quelli di Euristeo. E loro, tremanti di paura, si precipitavano chi qua chi là, l’uno per aggrapparsi alle vesti della sventurata madre, l’altro per acquattarsi all’ombra di una colonna, il terzo, simile ad un uccello, si 36

rannicchiò sotto l’altare. E la madre grida: “Tu li hai generati, che fai? Uccidi i tuoi figli?”. Grida anche il vecchio e tutta la servitù. Ma lui, dando la caccia al figlio intorno alla colonna in una giostra crudele, gli è di fronte all’improvviso e lo colpisce al fegato; cadde riverso e, mentre esalava l’ultimo respiro, bagnò col suo sangue lo zoccolo di pietra. Lui allora proruppe in un grido di trionfo, seguito da questo vanto: “Ecco che un pulcino della nidiata di Euristeo è morto, caduto per ripagarmi dell’odio di suo padre!”. E tendeva l’arco contro l’altro figlio, che si era rannicchiato vicino al basamento dell’altare credendo di non essere scorto. Ma lo sventurato lo previene, prostrandosi alle ginocchia del padre e toccando con la mano il mento ed il collo: “Padre carissimo – grida – non uccidermi! Sono io, tuo figlio: non è il figlio di Euristeo che stai per ammazzare!”. Ma lui torcendo lo sguardo feroce di Gorgone, poiché il ragazzo si trovava al di qua della gittata dell’arco letale, levando sulla sua testa la clava, a immagine del fabbro che batte il ferro rovente, l’abbatté sul capo biondo del figlio e ne frantumò le ossa. Ucciso il secondo figlio, si scaglia contro la terza vittima per immolarla sulle altre due. Ma l’infelice madre lo precede, sottraendoglielo per portarlo dentro al palazzo e serra la porta a chiave. E lui, proprio come se fosse davanti alle mura ciclopiche, la scalza, divelle i battenti e, demoliti gli stipiti, con una sola freccia stese al suolo la moglie e il figlio. Quindi si lancia al galoppo per uccidere il vecchio; ma ecco giungere un’apparizione, Pallade come si rivelò allo sguardo dei presenti, che brandiva la lancia… e scagliò contro il petto di Eracle un masso che pose fine alla strage furente e lo fece sprofondare nel sonno. E’ questo, potremmo dire, un caso che pare speculare, per certi aspetti, all’uccisione dei figli di Medea, con i bambini che pregano di essere risparmiati e tuttavia restano vittime di un delitto eccezionalmente efferato e cruento nelle sue modalità. Eppure le ragioni del figlicidio, e soprattutto il giudizio che può essere formulato, nell’uno e nell’altro caso, sono molto diversi: Medea è la donna barbara che lucidamente porta a termine l’atto per gelosia; Eracle uccide in uno stato di incoscienza, ma soprattutto uccide perché la sua natura è quella dell’eccessivo, nel male come nel bene, sotto tutti gli aspetti, e in quanto tale non può essere giudicato. Eracle è infatti un melanconico, categoria questa a cui Aristotele ha dedicato il famoso trattato Problema XXX52 dei Problemata physika. I melanconici devono la loro natura, il loro stato, al fatto di avere la “bile nera”, un eccesso di 52

PIGEAUD 1988

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pneuma, di aria, di moto, di qualità divina: per natura, per fisiologia, sono dei perittoi, degli “eccessivi”, uomini di genio nel bene come nel male. Eracle è citato da Aristotele stesso come esempio di melanconico, e significativamente in questo contesto il filosofo rievoca proprio l’episodio dell’assassinio dei figli. Il figlicidio infatti è dovuto proprio alla natura eccezionale dell’eroe, che lo porta a realizzare gesta straordinarie nel male così come nel bene. Eracle, nel mito greco, è l’uccisore spietato di moglie e figli, ma non bisogna dimenticare che è anzitutto, e in virtù di questa stessa natura melanconica, l’eroe “liberatore dai mostri”. Proprio per questo il giudizio sul personaggio deve essere sospeso; il figlicidio non può essere condannato, in quanto espressione di quella physis smisurata ed eccezionale in ogni circostanza, che è anche motivo della sua grandezza e ne fa l’eroe salvatore per eccellenza del mito. Nell’uccisione è dunque presente una necessità, un’inevitabilità, che deriva dalla stessa natura dell’assassino stesso e che lo rende non valutabile. Per le ragioni citate, possiamo dire che questo è un caso assolutamente eccezionale di figlicidio, che non trova corrispondenza in nessun altro personaggio mitico. Molto diverse sono le modalità con cui in genere è rappresentato il padre che uccide i figli nel mito greco. Oltre alla già citata categoria dei padri figlicidi per errore, si affaccia con particolare frequenza un nuovo motivo, quello del sacrificio, o meglio dell’uccisione rituale vera e propria53, per stornare qualche calamità, gratificare gli dei, ottenere da essi qualche beneficio per il proprio popolo, per il proprio esercito, per un’impresa, oppure ancora semplicemente per punire un’azione sacrilega che li abbia offesi. Tutti questi motivi hanno in comune il fatto di collocarsi nella cornice di ciò che noi definiamo “religione” - utilizzando acriticamente il termine latino entrato

nell’uso

comune54

-

rendendo

dunque

l’uccisione

un

fatto

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La distinzione fra sacrificio e uccisione rituale è tracciata in HUGHES 1999: 13-30 Rimandiamo alla definizione di Angelo Brelich che giustamente sottolinea il fatto che “religione” è un termine identificante occidentale. BRELICH 1988 (1970): 4-13.

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istituzionalizzato, pubblicamente accettato, quando non palesemente o implicitamente ammirato in quanto massima prova di devozione. Pur se in modo assai diverso da Eracle, anche i padri sacrificatori agiscono in nome di una necessità, in genere quella di un bene pubblico superiore o di un’imposizione divina, che porta a sospendere il giudizio. c) Alcuni “sacrifici” anomali: In realtà, se molto spesso i padri del mito greco uccidono i figli in contesti che hanno a che fare con la devozione ad una divinità, non tutte queste uccisioni si possono definire propriamente sacrificali. Alcuni atti si collocano infatti al di fuori del contesto della religio istituzionale e dei suoi riti ufficiali; altri ancora, come vedremo, sono anzi nettamente anti-devozionali. Prima di passare al motivo del sacrificio vero e proprio, citiamo quindi alcuni di questi casi anomali. Alcatoo uccide il figlio Calidone, che interrompe un sacrificio in onore di Apollo per avvertire il padre della morte dell’altro suo figlio, Ischepoli. Alcatoo lo uccide colpendolo con un ceppo in fiamme, adirato perché la cerimonia è stata turbata55. Una motivazione affine giustifica l’atto di Eumelo: un giorno, mentre offre un sacrificio ad Apollo, suo figlio Botre, che lo assisteva, divide il cervello dell’agnello sacrificale prima di averlo posto sull’altare per l’offerta. Irritato, il padre lo colpisce con un tizzone del ceppo sacro e lo uccide. Si narra che poi, vedendo la disperazione dell’uomo, Apollo lo avesse trasformato in un uccello chiamato “eropo”56. In questi casi l’uccisione ha corrispondenze con lo scenario “religioso” ufficiale e con la devozione dei padri agli dei, tuttavia non si può certo dire che si tratti di uccisioni sacrificali: la messa a morte è dettata da un semplice moto d’ira improvviso. 55 56

GRIMAL 1987: 30-31 GRIMAL 1987

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Rientrano poi nel filone cannibalico i “sacrifici” compiuti da Licaone e da Tantalo. Entrambi, nel corso di un banchetto solenne, offrono agli dei sperando di ingannarli le carni di un giovane. Nel caso di Tantalo si tratta di un figlio, Pelope; in quello di Licaone la vittima varia a seconda delle versioni: molte riferiscono che si sarebbe trattato proprio del suo stesso figlio Nittimo, secondo altre invece la vittima sarebbe stata il nipote Arcade57. In entrambi i casi, comunque, gli dei scoprono l’inganno e puniscono i colpevoli. In questi casi la “dimensione sacrificale” appare rovesciata, la situazione è nettamente anti-devozionale: l’offerta non è gradita agli dei e appare anzi sotto la forma dell’inganno. Il sacrificio qui non è un atto di devozione e sottomissione agli dei, ma al contrario di superbia: si tratta di hybris, una sfida. L’offerta della vittima umana, non richiesta, appare assolutamente sacrilega; il quadro non è certo quello della religio ufficiale. Invece esaudiscono un voto, quindi rientrano in una possibile ortodossia, molti altri padri celebri del mito, sia in Grecia, sia nell’area semitica. d) Il modello del padre devoto: il sacrificio del figlio nel mito greco Spessissimo il sacrificio del proprio figlio è presentato come atto necessario per assicurare la salvezza allo stato o al proprio popolo in circostanze di particolare crisi, in occasione di guerre, calamità naturali, carestie. In quanto rinuncia di ciò che si presume essere il bene più prezioso per un uomo, l’atto assume una particolare efficacia, e vi si ricorre come ultima misura laddove i mezzi rituali ordinari risultino non essere sufficienti. In particolare il sacrificio della propria prole per stornare una grave calamità o risolvere situazioni di crisi eccezionale prende spesso la forma, specialmente nel mito greco, del sacrificio di vergini di nobile stirpe, a più riprese richiesto soprattutto per garantire un esito positivo alle imprese di guerra, perché questa si 57

Il modello tipico del pasto cannibalico è certamente quello di Atreo e Tieste. Qui in realtà non è il padre che uccide il proprio figlio, ma se ne ciba inconsapevolmente. Da notare che l’assassino è comunque uno zio, quindi un parente molto stretto.

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possa intraprendere o perché si possa finire, in ogni caso perché la vittoria spetti alla parte degli immolatori. In questi casi i sacrificatori, coloro che accettano di ubbidire per salvare la “patria”, sono molto spesso i padri. Sappiamo che ad Atene esistevano molti casi di culti tributati a vergini mitiche, sacrificate dai padri in conformità ad una richiesta oracolare per la salvezza della città in occasioni di pericolo eccezionale (guerre o altri flagelli). Il motivo è abbastanza tipico e risulta ampiamente sfruttato anche nell’ambito della tragedia58. Il caso di Ifigenia, sacrificata dal padre Agamennone - il sacrificio è più o meno volontariamente accettato dalla giovane, a seconda delle versioni - per assicurare una partenza favorevole alla flotta greca per la guerra di Troia, è certamente il più celebre. Ma Agamennone non è solo un modello di devozione alla divinità. Erik Peterson, nel suo testo Il monoteismo come problema politico59, ricorda e commenta il passo di Iliade II, 204s, citato dallo stesso Aristotele alla fine del XII libro della Metafisica, in cui Ulisse, per riportare l’ordine nell’esercito, si impadronisce dello scettro di Agamennone, dicendo: “Non è bene vi siano più signori; uno solo sia il signore”. In quanto comandante dell’esercito, quindi, Agamennone esercita un potere assoluto e straordinario, una sorta di “regalità” totale che gli conferisce il diritto di vita o di morte sugli altri. Sempre in quanto detentore di questo potere “regale” e assoluto, Agamennone non ha scelta: deve eseguire l’ordine del mantis e sacrificare la figlia, altrimenti la flotta, di cui è responsabile, semplicemente non potrà partire. Ma il mito conosce molti altri casi: una o più figlie di un personaggio celebre della “storia ateniese”, Eretteo, vengono sacrificate durante una delle mitiche guerre tra Atene ed Eleusi, dove Atene ed Eleusi, sede del celeberrimo culto

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Sul motivo del sacrificio di vergini nella tragedia greca, LORAUX 1988: 33-50 PETERSON 1983 (1935)

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misterico di Demeter e Kore, si propongono nella specifica tensione di polo sacro – polo profano60. Allo stesso modo nel mito, quando la peste e la carestia funestano Atene durante la mitica guerra con il re di Creta Minosse, vengono uccise le figlie di Giacinto. E anche le mitiche figlie di Leo sono sacrificate con il consenso del padre per allontanare una peste o una carestia dalla città di Atene, così che in seguito erano loro tributati onori quasi divini. Demostene (Or. Fun., 29), la fonte più antica, passa sotto silenzio l’accettazione paterna, ma essa è ben presente nei racconti più tardi, in particolare nella testimonianza di Elio Aristide61. Sono tutte ragazze “offerte” dai loro padri, o quanto meno con la loro approvazione, in seguito alla prescrizione di un oracolo, in circostanze di pericolo per la patria. Il sacrificio si rivela sempre efficace, tranne che nell’unico, eccezionale, caso delle Giacintidi. Si istituisce comunque un collegamento significativo, che lega nel mito le fanciulle con la guerra, storicamente riservata agli uomini, e che è stato variamente spiegato62. Sempre una vergine è protagonista di un altro mito che vede il padre nella condizione del sacrificatore della figlia nel quadro di un rito religioso ufficiale. Ci riferiamo al complesso rituale dell’arkteia, che “recuperando” un antico schema di tipo iniziatico, prevedeva la reclusione di giovanissime ateniesi nel tempio di Artemide a Brauron, località a nord-est di Atene, sede di un famoso santuario che gli scavi archeologici hanno riportato ampiamente alla luce. Qui le ragazze (ragazzine?) comparivano vestite da “orse” (arktos in greco) durante un’importante festa. Il culto ha un interessante mito di fondazione: esso narra che un tempo un’orsa fu uccisa nel temenos della dea; secondo un modello

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SABBATUCCI 1965: 173-194 BONNECHERE 1994: 79-80 62 BURKERT 1981 (1972): 58-63 LORAUX 1988 (1984): 35-36 BONNECHERE 1994: 74 ss. 61

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mitico ricorrente, un’epidemia colpì la città e si consultò un oracolo. Qui le fonti si dividono: in alcune versioni si dice che l’oracolo ordinò di istituire il rito dell’arkteia, secondo altre invece il rimedio era il sacrificio di una ragazza. Un uomo di nome Embaros offrì spontaneamente sua figlia, ma in realtà la nascose nel tempio di Artemide e sacrificò al suo posto una capra vestita da ragazza. Nonostante fosse un raggiro, la dea accettò comunque l’offerta facendo cessare l’epidemia; da allora, anzi, secondo il mito, vigeva l’uso di sacrificare capre anziché vergini e di praticare l’arkteia. In questo caso, dunque, si assiste al ripresentarsi del modello consueto che richiede che un padre rinunci e uccida la propria figlia pur di risolvere una situazione critica, sebbene in questo caso essa sia determinata non da una guerra, ma da una contaminazione, da un’offesa alla divinità. Ciò che appare più interessante, tuttavia, è il modo in cui il padre, in questo caso, si sottrae eccezionalmente al proprio “compito”, ingannando la divinità destinataria del sacrificio; nonostante la mancata disponibilità paterna alla rinuncia, la crisi è comunque risolta e la dea anzi accetta di buon grado la sostituzione come nuova norma rituale63. Il caso sembra essere piuttosto inconsueto, se si pensa a tutta la serie di immolazioni ufficiali di figli da parte dei padri - tutte compiute e particolarmente sofferte - in cui si sottolinea piuttosto il valore positivo della disponibilità paterna alla rinuncia e all’uccisione del figlio. Sempre secondo il mito greco, si narrava ad esempio che Idomeneo, re di Creta, avesse partecipato alla guerra di Troia; secondo alcune versioni, al suo ritorno in patria la flotta fu assalita da una tempesta. Il re allora fece voto di sacrificare a Poseidone la prima persona che avesse incontrato nel suo regno se fosse ritornato sano e salvo. Questa fu proprio sua figlia (o suo figlio); Idomeneo, fedele al voto, la sacrificò comunque, anche se alcuni autori assicurano che l’azione fu soltanto simulata. L’atto di Idomeneo comunque 63

Tra l’abbondante letteratura sul tema, soprattutto BRELICH 1969

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incollerì gli dei, tanto che scoppiò una pestilenza e che egli fu bandito dalla città64. Curiosamente, questo caso appare speculare a quello precedente: se nell’uno un padre è fondamentalmente premiato per non aver adempiuto alla richiesta divina, nell’altro il padre è invece punito per essere stato fedele fino in fondo al proprio voto, a costo di una grande perdita personale. Il racconto del voto di Idomeneo trova delle analogie anche al di fuori del mondo greco, e sembra anzi corrispondere ad un tema frequente. Il motivo del sacrificio del figlio di Idomeneo ricorda in particolare un altro celebre voto, desunto dal mondo biblico, quello della figlia di Iefte (Giudici 11, 29-40). Anche questo personaggio, che era un capo militare, aveva fatto un voto a Dio, promettendo che, se avesse vinto gli Ammoniti in guerra, avrebbe offerto in olocausto colui che per primo sarebbe uscito dalle porte di casa sua per andargli incontro. Gli Israeliti sconfissero gli Ammoniti, ma quando tornò a casa gli venne incontro proprio la sua unica figlia. Iefte, nonostante il dolore, compì il suo voto e la sacrificò come promesso65: Quando Iefte tornò a casa sua in Mizpa, sua figlia gli uscì incontro per prima, guidando un gruppo di fanciulle che danzavano al suono dei cembali. Era l’unica sua figlia, perché egli non aveva altri figli, né maschi né femmine. Quando egli la vide, si stracciò le vesti ed esclamò: “Ahimè, figlia mia, davvero tu m’hai prostrato nel dolore! Sei tu la causa del mo turbamento, perché io l’ho promesso al Signore e non posso tirarmi indietro!” Essa gli rispose: “Padre, se hai fatto una promessa al Signore, poiché egli ti ha concesso di vendicarti dei tuoi nemici, gli Ammoniti, fa di me secondo la tua promessa.” (Giudici 11, 3436)

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GRIMAL 1987: Vari paralleli mitici e folklorici di questo motivo sono riportati da FRAZER nell’Appendice ad APOLLODORO, Biblioteca: 564-574 65

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Tuttavia, anche in questo caso, l’esaudimento del voto è connotato negativamente: esso è esplicitamente condannato e giudicato empio e sconsiderato da tutta la tradizione della patristica cristiana66. Secondo l’interpretazione cristiana, il sacrificio non sarebbe stato affatto gradito a Dio, ma si sarebbe basato su un fraintendimento di Iefte. Tuttavia padre e figlia sono comunque esaltati per la fede e la grandezza dello spirito di sacrificio; su di esso, infatti, oltre che sulla lotta tenuta contro i nemici del popolo di Dio, si basa la lode di Paolo, che definisce Iefte un eroe della fede67. 1.3 - I SACRIFICI DEL FIGLIO NEI “MITI” SEMITICI Iefte tuttavia non è l’unico personaggio biblico che immola la propria figlia o il proprio figlio in circostanze di guerra critiche per il suo popolo. Similmente accadde infatti anche per un re biblico, il re Mesha di Moab, che giunse a sacrificare il proprio figlio - e questa volta il voto è del tutto consapevole - per assicurare un esito fasto ad un’impresa bellica. Assediato dagli eserciti degli Israeliti, “prese il suo figlio primogenito, che doveva regnare al suo posto, e lo immolò in olocausto sulle mura. Ma si scatenò una grande collera contro gli Israeliti, che si allontanarono da lui e ritornarono al loro paese.” (2 Re 3, 27) Tuttavia si tratta di un sacrificio altamente negativo, ampiamente respinto dalla Legge ebraica. L’episodio del re di Moab apre il vasto capitolo dei miti e dei racconti sacrificali collegati al mondo fenicio e punico, che vedono, ancora una volta, i padri come principali agenti di un atto rituale avente per vittima il proprio figlio e motivato dalla necessità di risolvere circostanze particolarmente critiche. 66

Vedi, per le varie interpretazioni del voto e del sacrificio SCHUSTER e HOLZAMMER 1951 (1925): 559562, e il commento di POIROT – CLAMER al passo di Giudici XI, 34-40. 67 Dopo un lungo elenco di quelli che sono considerati dei modelli di fede (fra cui Noè, Abramo, Mosè), Paolo afferma infatti: “E che dirò ancora? Mi mancherà infatti il tempo, se vorrò discorrere di Gedeone, Barac, Sansone, Iefte, di Davide, di Samuele e dei profeti? I quali mediante la fede vinsero i regni, esercitarono la giustizia, conseguirono le promesse, chiusero la bocca dei leoni, estinsero la violenza nel fuoco, sfuggirono il filo della spada, furono rinvigoriti dalle infermità, divennero forti in battaglia, misero in fuga eserciti di stranieri.” (Ebrei XI, 32-34)

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Ai Fenici - semiti ma non ebrei - era attribuito anche quello che sembra essere un vero e proprio mito di fondazione del sacrificio del figlio, inteso come mezzo per risolvere particolari situazioni di crisi. La fonte è Filone di Biblo, autore del I secolo a.C., di cui Eusebio di Cesarea (IV d.C.) nella Praeparatio Evangelica (1, 10) riporta alcuni frammenti. Filone rammenta che anticamente era costume presso i Fenici, nei casi di grande pericolo, che quelli che detenevano il potere sacrificassero i loro figli più amati, offrendoli come un riscatto alle divinità adirate per evitare la rovina di tutti. Così in origine - riporta il passo - il dio Crono, che essi chiamavano El e che era originariamente un re, in un momento di crisi, durante una guerra, aveva adornato il suo unico figlio, Ieudo, con gli abiti regali e lo aveva sacrificato. Questo era presentato come il prototipo dei sacrifici fenici e cartaginesi. Una tradizione cartaginese simile è riportata da Giustino nell’Epitome all’Historia Philippica di Pompeo Trogo (XVIII, 7). Vi si narrava di come Malchus, primo grande comandante militare di Cartagine (ma il nome, in rapporto con la radice “mlk”, significa “re”), avesse fatto crocifiggere davanti alla città suo figlio Carthalo, che gli si era ribellato, dopo avergli fatto indossare le sue vesti sacerdotali ufficiali. Il passo in realtà parla solo di un’uccisione, ma questa in realtà - rileva C. Grottanelli, che riporta questa tradizione in un saggio dedicato al tema del sacrificio68 - doveva avere tutti gli attributi di un vero e proprio sacrificio. I testi che riprendono il tema riguardano tutti, direttamente o indirettamente, l’area semitica. Sembra di poter scorgere un’unità coerente e organica che doveva essere molto antica: in tutti questi casi l’offerta dell’unigenito si configura come sacrificio del figlio (ed erede) di un re, o comandante, che deve essere offerto dal padre stesso in situazioni di particolare pericolo per la patria. Nel caso di El si tratta addirittura della divinità più importante del pantheon dei Fenici. 68

GROTTANELLI 1981: 185-189

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E’ stato più volte messo in luce, per questi casi, il valore sostitutivo della vittima, che appare evidentemente essere offerta in luogo del re stesso e più in generale, attraverso di lui, a nome dell’intera nazione. Lo stesso Frazer puntualizza che il figlio del re è chiaramente inteso come il più adatto a sostituire il padre, a essere sacrificato in sua vece per il bene del popolo, in quanto egli ne condivide, meglio di chiunque altro, l’“afflato divino”: But no one could so well represent the king in his divine character as his son, who might be supposed to share the divine afflatus of his father. No one, therefore, could so appropriately die for the king and, through him, for the whole people, as the king’s son.69 Vale la pena notare che moltissimi miti e tradizioni di svariati popoli mettono in scena la morte del figlio del re, come un sacrificio sostitutivo per il padre, il re, che nella prospettiva frazeriana come in quella dei sostenitori della “regalità sacra” è considerato garante dell’ordine delle cose e potenzialmente salvifico per il suo popolo, quindi deve essere sempre mantenuto in efficienza. E’ comune a molti popoli la tradizione che associa il sacrificio del re, o dei suoi figli, ad una carestia, proprio per questa particolare concezione che attribuisce al sovrano funzioni “magiche”, oltre che regali. In particolare, egli appare responsabile per il tempo e per i raccolti e paga dunque con la sua vita il cattivo andamento delle cose70. Laddove si renda necessaria la messa a morte, il sacrificio, il re in carica può essere sostituito dal figlio, che più di ogni altro pare essere dotato degli stessi poteri. Tuttavia quella dei figli regali è solo una particolare categoria di sacrifici dei figli, categoria comunque molto significante sulla quale si potrebbe a buon titolo insistere. Quello che risulta interessante è che, non di rado, nei racconti di sacrificio di figli, questi ultimi si qualificano spesso come dei figli che sono particolarmente amati e importanti per il genitore, perché unigeniti o primogeniti.

69 70

FRAZER 1914 (1911), vol. 4, The Dying God: 160 FRAZER 1914 (1911), vol. 4, The Dying God: 165

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In un suo articolo pubblicato sulla rivista “Studi storico-religiosi”71, Francesca Cocchini analizza la tradizione del titolo cristologico di “Unigenito”; nelle Sacre Scritture, infatti, il termine ebraico jahîd è tradotto nella versione greca dei LXX sia come monogenes (unigenito, appunto), sia come agapetos (amato), ed è usato sempre, nell’Antico come nel Nuovo Testamento, in concomitanza con situazioni di lutto e di morte, quando non esplicitamente di sacrificio. Secondo la Cocchini questo indicherebbe che proprio la fragile condizione del figlio unigenito lo rendeva prezioso in modo particolare agli occhi dei genitori e che l’offrirlo doveva rappresentare dunque il sacrificio perfetto - e in quanto tale più efficace, si potrebbe aggiungere. Il modello paradigmatico in questo senso, del figlio amatissimo perché unico e atteso per lungo tempo, che il padre devoto è tuttavia pronto a sacrificare, è ovviamente quello di Isacco. E’ questo il prototipo ideale di ogni sacrificio del figlio compiuto da un padre, inteso come la massima prova di fede di un uomo nei confronti della divinità. L’episodio, narrato in Genesi 22, è uno dei più noti: Dio chiede ad Abramo di offrirgli in olocausto il suo unico figlio, Isacco, avuto miracolosamente dalla moglie Sara, quando essa era ormai vecchia e disperava di poter dare dei figli legittimi al marito. Un giorno, infatti, Dio tentò Abramo dicendogli: “Abramo, Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. Riprese: “Su, prendi tuo figlio, il tuo diletto che tu ami, Isacco, e va nel territorio di Moria, e offrilo ivi in olocausto su di un monte che io ti dirò!” (Gn. 22, 1-2) Abramo obbedisce e porta con sé il figlio presso il luogo indicato dal Signore. Durante il cammino Isacco si rivolse a suo padre Abramo e disse: “Padre mio!”. Rispose: “Eccomi, figlio mio!”. Riprese: “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?”. Rispose Abramo: “Dio si provvederà da sé l’agnello per l’olocausto, figlio mio!”. E proseguirono tutti e due insieme. Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva detto e ivi Abramo edificò l’altare, vi depose la legna, legò Isacco suo figlio e lo depose sull’altare sopra la legna. 71

COCCHINI 1977

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Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per scannare il figliolo. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “Abramo, Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. Riprese: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che rispetti Dio e non mi hai risparmiato il tuo figliolo, l’unico tuo!”. Allora Abramo alzò gli occhi e guardò; ed ecco: un ariete ardente, ghermito dal fuoco, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e l’offrì in olocausto al posto del suo figliolo. (Gn. 22, 7-13) Alla prova, seguono la promessa di Dio ad Abramo di una numerosa discendenza e la sua benedizione, per l’essere stato il patriarca pronto a sacrificare a Dio il suo bene più prezioso. Così si pronuncia l’Angelo del Signore: …perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato il tuo figliolo, l’unico tuo, io ti benedirò con ogni benedizione e moltiplicherò assai la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia ch’è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà della porta dei suoi nemici e si diranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, in compenso del fatto che tu hai ubbidito alla mia voce”. (Gn. 22, 16-18) Questo passo trova chiaramente il suo contrappunto in quello già citato di Giudici 11, 29-40 sul sacrificio della figlia di Iefte: in entrambi i casi, infatti, un padre si mostra disponibile a rinunciare e a sacrificare personalmente un figlio o una figlia unigeniti e dunque particolarmente preziosi. L’importanza dell’offerta è evidenziata dal riferimento ripetuto che si tratta proprio dell’unico, ed amatissimo, figlio, e che esso rappresenta quindi la più grande rinuncia a favore della divinità. Certo, nel caso di Iefte il sacrificio è accettato ed eseguito e la fanciulla muore, mentre nel caso di Isacco il figlio amatissimo è salvato tramite la sostituzione con una vittima animale, l’ariete. Tuttavia in entrambi i passi citati l’accento è posto sulla disponibilità da parte del padre a rinunciare e a sacrificare a Dio il proprio unico figlio, e a questa disponibilità viene chiaramente assegnato un valore positivo72.

72

Sul voto di Iefte e del suo compimento, e sulle sue implicazioni morali, si è molto discusso fin dall’antichità. A questo proposito vedi SCHUSTER e HOLZAMMER 1951 (1925): 559-562, e il commento di POIROT – CLAMER al passo di Giudici XI, 34-40.

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Il racconto del sacrificio di Isacco in particolare, che appartiene certamente allo strato elohistico del Pentateuco73, nella forma in cui ci è giunto intende chiaramente proporre un esempio e perseguire una scopo paradigmatico e didattico; Abramo è presentato come un modello etico perché, messo alla prova, dimostra l’autenticità della propria fede affidandosi completamente alla volontà divina e rinunciando a quanto ha di più caro e di più prezioso. L’episodio, quindi, da un lato propone chiaramente Abramo come un modello per la disponibilità che dimostra verso un tale sacrificio. Dall’altro, però, attraverso l’intervento di Yahwé stesso che interrompe l’atto del patriarca e soprattutto attraverso la sostituzione della vittima umana con una vittima animale, l’ariete, fonda anche il rifiuto, nella prassi rituale reale, di un tale genere di sacrificio e la sua non praticabilità storica presso gli ebrei. La sostituzione, come anche nel caso del mito greco, è uno degli espedienti con cui viene fondato il presunto abbandono di mitici sacrifici umani delle origini e con esso è fondato dunque definitivamente, per il tempo storico della realtà, il divieto assoluto del sacrificio umano. E’ interessante ricordare che secondo il Targum palestinese di Esodo XII, 4274 Isacco era un adulto, un uomo di trentasette anni, allorché fu offerto a Yahwé sull’altare. Ancor più significativo è quanto afferma il Targum di Genesi Al sacrificio di Iefte viene infatti tendenzialmente attribuito dai moderni esegeti un senso piuttosto spirituale che letterale, contrariamente ad una più antica tradizione che, d’accordo con la tradizione giudaica, faceva capo agli stessi padri della Chiesa ed agli esegeti antichi. Secondo l’esposizione letterale, Dio avrebbe permesso il sacrificio umano proprio per punire Iefte della sua sconsideratezza e dell’empietà del voto stesso di sacrificare un essere umano, e Iefte avrebbe compiuto il voto nella convinzione - del tutto falsa, in realtà - di doverlo mantenere. Il voto è esplicitamente condannato e giudicato empio e sconsiderato da tutta la tradizione della patristica cristiana. Secondo la tradizione cristiana antica, dunque, il sacrificio era reale, e comunque non gradito a Dio, ma basato su un fraintendimento di Iefte; tuttavia, padre e figlia sono allo stesso tempo esaltati per la fede e la grandezza dello spirito di sacrificio; su di esso, infatti, oltre che sulla lotta tenuta contro i nemici del popolo di Dio,si basa la lode che San Paolo ha fatto di Iefte (Ebrei XI, 32), di essere stato un eroe della fede. Contro l’interpretazione letterale del sacrificio si pone invece un’altra corrente esegetica, che chiama in causa l’impossibilità di un tale genere di voto, esplicitamente proibito dalla Legge, da parte di un personaggio come Iefte, che è presentato come un eroe della fede (in Paolo appunto) e come uomo timorato di Dio. Il sacrificio sarebbe stato piuttosto una consacrazione della figlia al servizio del Santuario, con la conseguente rinuncia al matrimonio e ad una discendenza. Tuttavia, una tale interpretazione solleverebbe non pochi problemi e sembra difficile in ogni caso poter tradurre l’ebraico ‘olāh come una semplice consacrazione; un tale uso traslato del termine, infatti, così come la stessa pratica di una simile consacrazione di vergini, non risultano altrimenti attestati. 73 Sulla storia della tradizione di Genesi 22, KILIAN 1976 (1970) 74 I Targūmīm sono interpretazioni e traduzioni in aramaico di testi dell’antico Testamento, redatte in Babilonia e Palestina nel periodo intertestamentario.

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XXII. In questa versione, infatti, Isacco accetta liberamente di offrire la propria vita per obbedienza alla volontà di Dio e a questo scopo si fa anzi legare dal padre - tale legatura è detta aqedah - proprio per assicurarsi di non opporre resistenza al sacrificio. « Au moment du sacrifice, Isaac dit à Abraham: “Mon père, lie-moi bien pour que je ne te donne pas de coups de pied de telle sorte que ton offrande soit rendue invalide et que je sois précipité dans la fosse de la perdition dans le monde à venir.» 75 Anche in questo caso si accentua il valore positivo del gesto di rinuncia e di fede del padre, a cui si aggiunge però anche quello del figlio. Dopo la prova di fede data da Abramo e Isacco, infatti, una voce proveniente dal cielo afferma « Venez, voyez deux (personnes) uniques en mon univers. L’une sacrifie et l’autre est sacrifiée: celui qui sacrifie n’hesite pas et celui qui est sacrifié tend la gorge. » 76 Anche in questo caso, all’aqedah segue significativamente la ricompensa; le è infatti riconosciuto un valore salvifico per l’intera discendenza di Isacco: “Et maintenant, lorsque ses fils se trouveront dans un temps de détresse, souviens-toi de l’aqedah de leur père Isaac et entends la voix de leur supplication. Exauce-les et délivre-les de toute tribulation.77 Tuttavia, con la libera scelta del figlio, che accetta consapevolmente di offrire la propria vita per obbedienza alla volontà di Dio, si prefigura un diverso modello sacrificale, che troverà la sua piena realizzazione nel sacrificio di Gesù, non più un figlio immolato sull’altare dal proprio padre, ma il figlio che sceglie volontariamente di offrire se stesso per la salvezza dell’umanità. Il modello dell’aqedah di Isacco dovette certamente influire fortemente sull’elaborazione di questa nuova ideologia sacrificale.

75

Riproduco il testo dalla traduzione francese del Dictionnaire de la Bible. Supplement, vol. 10: 1508 Dictionnaire de la Bible. Supplement, vol. 10: 1508 77 Dictionnaire de la Bible. Supplement, vol. 10: 1508 76

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Il valore positivo e salvifico attribuito all’offerta, questa volta di sé, resta immutato. Rimane sempre comunque sospeso sullo sfondo del messaggio cristiano il tema del sacrificio del dio figlio voluto dal Dio padre.78 Accenniamo solo brevemente alla situazione simile, ma posta in termini ancor più radicali, del sacrificio del figlio nella letteratura devozionale indù. D. Shulman, in un suo testo dedicato alle narrazioni indù di figlicidio e devozione79, parla di un comune tipo narrativo, da lui denominato “aqedah type”, e caratterizzato dal fatto che dei genitori realizzano il sacrificio del proprio figlio per un comando divino che apparentemente non trova alcuna spiegazione razionale e che si colloca al di fuori della logica umana. Questo modello paradigmatico appare particolarmente fondamentale e centrale tanto nell’area semitica quanto in quella indù, tanto che viene a funzionare come “root metaphor” per le rispettive culture. Interessante è in particolare un racconto Tamil, avente per protagonista il “piccolo devoto” Ciruttŏntar, che particolarmente si avvicina, per le sue caratteristiche, al modello biblico del sacrificio di Isacco. Nella versione tradizionale del mito (XII sec.), al protagonista, il “piccolo devoto”, così soprannominato perché il suo principale interesse è di nutrire i devoti di Shiva, un giorno appare il dio stesso nella forma di un asceta. Egli chiede a Ciruttŏntar di essere nutrito con le carni di un bambino, ponendo come condizione che questi sia ucciso dai genitori in uno stato di gioia. Il piccolo devoto e sua moglie, per nulla scoraggiati, offrono all’ospite il loro unico figlio, ben lieti di poter esaudire il suo desiderio; l’uccisione, come ordinato, è accompagnata dalle risa dei genitori. Al momento del pasto l’ospite impone alla coppia di chiamare a tavola anche il bambino; straordinariamente egli riappare, mentre il pasto scompare dalla mensa e l’ospite svanisce. Shiva rivela la sua

78

Vedi la seconda parte del testo curato da FIORENSOLI 2002, dedicata alle interpretazioni del sacrificio di Cristo, pp. 91-185 79 SHULMAN 1993

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vera identità apparendo in cielo; Ciruttŏntar e la sua famiglia sono assunti in paradiso. Il tema trova un ulteriore interessante sviluppo nella tradizione medievale Telugu, dove il sacrificio del “piccolo devoto” è palesemente messo in ridicolo, superato da un ben più valido esempio di fede: qui l’eroe, conosciuto come Siriyāla, una volta giunto in paradiso si vanta della propria impresa terrena; Shiva allora si reca con lui, sempre sotto mentite spoglie, presso la casa di una donna, Nimmavva. Mentre questa prepara loro il pranzo, suo figlio ne assaggia un pezzo; la donna, offesa, gli spacca il cranio. Al momento del pasto, il dio chiede a Nimmavva che chiami suo figlio, ma la madre, conoscendo la storia di Siriyala, si rifiuta sdegnata: lei, veramente devota, non vuole che suo figlio riappaia sminuendo il suo sacrificio. Neppure la rivelazione di Shiva può farle cambiare idea; la donna si impone facendo consumare davvero il pasto ai suoi ospiti, anche contro la loro volontà. Alla fine il dio resuscita comunque il bambino, ma la donna rifiuta di unirsi a lui in paradiso per restare sulla terra a nutrire i devoti. Due modelli questi, dunque, affini a quello ebraico del sacrificio di Isacco in quanto narrano ugualmente una “prova”, superata, in cui un genitore dimostra la propria fede sacrificando quanto ha di più caro per soddisfare una richiesta apparentemente irrazionale e illogica sul piano delle ragioni umane. Tuttavia il racconto indù esaspera fortemente il valore dell’offerta e della fede del sacrificante, portandolo fino all’ultima conseguenza dell’uccisione reale, compiuta, del figlio e proponendo lo scenario del pasto cannibalico, che se in un caso è risparmiato, nell’altro è esso stesso compiuto. Nel primo caso l’agente è ancora il padre; la madre è presente e partecipa all’uccisione, ma come figura in qualche modo passiva, che accetta la decisione del marito; sorprendente invece la figura di Nimmavva, la donna sacrificatrice che anzi supera il modello maschile, quasi sbeffeggiandolo per la “scarsa” devozione dimostrata. 53

Questo breve excursus dunque conferma il valore positivo attribuito all’offerta del figlio anche per il mondo indù - qui anzi molto più accentuato - a conferma di quanto già osservato per il discorso biblico, ma anche per il mito greco antico. Per concludere, ritornando a quelli che sono i “miti” che più interessano la cultura dell’uomo occidentale, quello greco e quello biblico, potremmo presentare una tabella riassuntiva con i dati relativi ai figlicidi mitici osservati:

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Madri assassine nel mito greco:

Chi uccide Motiva(o tenta di zioni: uccidere). Sesso:

Medea

M (due figli maschi)

Ino

M e F (figli del marito)

Gelosia, vendetta verso il marito Gelosia

Consapevolezza:

Modalità:

L’uccisione è portata a termine?

Sì, molto accentuata

Con la spada





Cerca di farli sacrificare dal padre. Lo getta in un calderone

No

No (crede sia un leone) No

Lo dilania a mani nude



Li divorano (cannibal.)



Indet. (probabilmente li dilaniano) Lo dilaniano



M (suo figlio minore)

No Follia indotta dalla dea Era

M (il figlio Penteo) Indet. (i propri figli)

Mania dionisiaca

Pretidi

Indet. (i propri figli)

Mania dionisiaca

No

Miniadi

M (il figlio di una di loro)

Mania dionisiaca

No, lo scambiano per un cerbiatto

Procne

M Suo figlio)

Per vendetta Sì verso il marito

Edona (due versioni)

M (suo figlio)

Vendetta verso il marito



M (figlio unigenito)

Errore

No (lo scambia per il figlio della cognata

Agave Donne di Argo

Mania dionisiaca





Con una scure, Sì poi lo dà in pasto al marito (cannibal.) Indet., ma poi Sì lo offre in pasto al marito Indet.



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Padri assassini nel mito greco:

Chi uccide (o tenta di uccidere) Sesso:

Motivazioni:

Licurgo

M (Il figlio)

Atamante

MeF (i suoi figli di primo letto)

Mania, indotta da No, crede Dioniso di tagliare un tralcio di vite Sì Ordine di un oracolo per porre fine ad una carestia (in realtà inganno della moglie) Follia indotta da No, lo scambia Era per un cervo

Pimandro Crotopo Acrisio

Cefeo

Eracle (due versioni)

Alcatoo

M (il maggiore dei figli avuti da Ino) M (figlio)

Consape- Modalità: volezza:

L’uccisione è portata a termine?

Lo colpisce con la scure



Sacrificio

No

Come se fosse Sì una preda di caccia

Errore, voleva colpire un muratore

No

Indet.



F (la figlia Psamate) F (la figlia Danae, ma anche il nipote Perseo) F (la figlia Andromeda) M (tre figli maschi)

Punizione



Indet.



Punizione della figlia impura, paura che Perseo un giorno lo uccida



Messa a morte indiretta, esposizione: li abbandona su un’arca nel mare Messa a morte indiretta, esposizione

No, la figlia e il nipote non muoiono

Li getta nel fuoco



M (tre figli maschi)

Pazzia, ma sostanzialmente per la sua natura eccessiva

No, crede siano i figli di Euristeo

Sì Li insegue, poi li uccide con le frecce e con la clava

M (il figlio Calidone)

Moto d’ira, perché il figlio ha turbato un rito

Sì e no

Lo colpisce con un ceppo in fiamme

Sì Per liberare il paese dal mostro, per l’interesse pubblico Pazzia indotta da No Era

No, la figlia è salvata



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Eumelo

M (il figlio Botre)

Licaone

M (il figlio Pelope) M (il figlio o il nipote) F (sua figlia Ifigenia)

Tantalo Agamennone

Eretteo Giacinto

F (una o più figlie) F (le figlie)

Leo

F (le figlie)

Idomeneo

M/F (la figlia o il figlio)

Embaros

F

Moto d’ira: ha compiuto un errore nel corso di un rito Vuole offrirlo agli dei, presunzione

Sì e no

Lo colpisce Sì con un tizzone



Lo offre in pasto agli dei

Sì “ Garantire esito positivo ad un’impresa bellica

Sì Sì

“ Sì

Sacrificio

Sì “

No

Sì “

Guerra, ma anche una peste o carestia Porre fine a una peste o carestia



Obbedienza ad un voto fatto a Poseidone in circostanze critiche Prescrizione oracolare in seguito ad un’offesa alla dea Artemide



Sì “ Sì

Sì “ “

Sì “

Dipende dalle versioni No, nasconde la figlia nel tempio e sacrifica una capra al suo posto

57

Analizzando i dati così riassunti, risulta ancor più chiara la distinzione proposta fra la rappresentazione delle madri e dei padri figlicidi nel mondo greco. In particolare da mettere in evidenza la particolare componente di “barbarie”, marginalità, follia e determinazione nella rappresentazione delle figlicide. Le donne del mito, infatti, non solo – può essere interessante notarlo – in tutti i casi studiati, senza eccezioni, indirizzano il loro istinto omicida verso i figli maschi, ma significativamente portano sempre a termine l’atto con una determinazione che non trova corrispondenza nel mondo maschile. L’unico caso in cui l’esito non è quello voluto, cioè la morte di un figlio, è infatti quello dell’inganno ideato da Ino nei confronti di Frisso ed Elle, tuttavia si tratta evidentemente di un caso del tutto sui generis: infatti, anzitutto per Ino si tratta dei figli del marito, non dei propri; in secondo luogo la messa a morte vera e propria doveva essere attuata dal loro padre, Atamante, nella forma di un sacrificio; anche in questo caso, quindi, è il padre, non la madre, che fallisce e non riesce a portare a termine l’atto omicida. Con riferimento alle motivazioni e alla consapevolezza sottese al figlicidio materno nel mito greco, si notano poi due modelli situazionali nettamente distinti, a cui si possono ricondurre tutti i casi osservati. La donna del mito greco infatti uccide il figlio o per gelosia / vendetta nei confronti del marito, e allora l’azione è estremamente consapevole – e prevede anzi, come nel caso emblematico di Medea, uno sforzo e una rinuncia particolarmente dolorosi da parte della madre – oppure agisce nel contesto dell’invasamento e della mania indotta dalla divinità – e in questo caso l’uccisione è del tutto inconsapevole. In genere la madre “baccante” che uccide il figlio lo fa infatti scambiandolo per un animale, per una preda di caccia (tipico è il caso di Agave); solo poi apprende, con grande dolore, la natura del proprio gesto. Può essere interessante rilevare, inoltre, che non solo la donna porta sempre a termine l’atto; l’uccisione è spesso anche particolarmente cruenta nelle sue 58

modalità. Nei casi di mania il figlio è dilaniato a mani nude dalla madre furente, il che trova, almeno, una sua giustificazione nello stato di incoscienza della madre allorché compie questo gesto. Ma tutti gli altri casi vedono madri, evidentemente rappresentate con i tratti di una sorprendente ferocia, che lucidamente uccidono, e con grande spargimento di sangue, la loro prole con la spada (Medea) o con la scure (Procne), o che addirittura la offrono in pasto in un empio banchetto ai mariti. Lo scenario è dunque quello di un assassinio fra i più efferati e sconvolgenti che si possano immaginare, con delle madri determinate che, spinte spesso da motivazioni passionali, riescono a uccidere con le proprie mani i loro figli nel modo più diretto e brutale possibile. Lo scenario del cannibalismo, che si affaccia in alcuni di questi casi, non fa che accentuare la lontananza culturale del gesto. Queste caratteristiche sono ancora più rilevanti se confrontate con la rappresentazione, certamente assai diversa, almeno nelle tendenze generali, dei padri figlicidi del mito greco. La grande maggioranza dei casi aventi il padre come agente, infatti, come si è già ampiamente avuto modo di notare, riguarda dei sacrifici umani di fanciulle, attuati per il bene pubblico in circostanze particolarmente critiche per la nazione. In realtà le vittime dei padri, a differenza di quanto osservato per le madri, sono tanto i figli maschi quanto le femmine, ma cambiano le modalità dell’uccisione in rapporto al genere della vittima: infatti il padre sovente uccide il figlio maschio assalito da un moto d’ira o per errore, ma sacrifica invariabilmente secondo il modello consueto, o uccide per punizione, la figlia femmina. In questo caso, il padre sacrificatore non solo è costretto a compiere l’atto in vista di un bene pubblico superiore o per adempiere ad un voto – manca quindi completamente la ferocia che pertiene alla rappresentazione delle madri figlicide 59

– ma sovente non riesce neppure, o non vuole, portare a termine l’atto e sacrificare realmente (come nei casi di Atamante, Agamennone, Embaros). Eccezionale, come si è già avuto modo di notare, il caso di Embaros, che si rifiuta di compiere l’atto, deliberatamente inganna la divinità ed è in qualche modo premiato con la salvezza della figlia, giacché il sacrificio sostitutivo è accettato dalla divinità. Ma l’interessante etimologia di Embaros come sciocco e anche furbo sposta l’interpretazione complessiva del suo atto su un piano più complesso dove possono convergere diverse letture. Embaros fonda l’evitazione del figlicidio sacrificale ma non è un campione di ubbidienza, di devozione… L’atto sacrificale prevede, nella grande maggioranza dei casi, una sofferta rinuncia al figlio da parte del padre. Il sacrificio, infatti, la modalità tipica del figlicidio paterno, richiede sempre questa dolorosa consapevolezza. Anomale, ma in ogni modo ugualmente consapevoli, sono certamente anche le offerte agli dei di Tantalo e Licaone. Fanno eccezione dunque soltanto tre casi, assai atipici in verità, di padri che uccidono i figli in stato di mania (Licurgo, Atamante ed Eracle), ma il motivo è certamente assai raro in riferimento al mondo maschile. Quello di Eracle, poi, è un caso del tutto particolare: possiamo dire che la vera causa del figlicidio è la melanconia dell’eroe. Il padre figlicida risulta comunque essere anzitutto colui che sacrifica consapevolmente, e con sofferenza, la propria figlia, una vergine nobile nel fiore degli anni, in risposta ad una volontà trascendente superiore, quella divina, o comunque per assicurare, con tale rito, la salvezza dell’intera nazione. Manca ogni componente di brutalità ed efferatezza, componente enfatizzata al contrario nella rappresentazione delle madri figlicide; il comportamento di questi padri è difficilmente stigmatizzabile nella maggioranza dei casi. Talora l’esito della loro azione, differentemente da quanto notato per le madri assassine, non comporta neppure la morte effettiva del figlio o della figlia.

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Spostandoci da questo contesto a quello del mondo semitico, dunque anzitutto al “mito” biblico e al discorso sugli usi rituali di fenici e cartaginesi, colpiscono alcune particolarità, evidenziate dalle tabelle seguenti: Consapevolezza:

Modalità:

L’uccisione è portata a termine?

Richiesta divina



Sacrificio (olocausto)

No

Voto fatto a Dio in circostanze di guerra



Sacrificio (olocausto)



Sacrificio (olocausto presso le mura)



Sacrificio a Moloc (passaggio per il fuoco)



Padri assassini nel “mito” biblico:

Chi uccide Motiva(o tenta di zioni: uccidere) Sesso:

Abramo

M (il figlio unigenito)

Iefte

F (la figlia unigenita)

Re di Moab

Per superare Sì M (primogenito una situazione ed erede) bellica critica (assedio)

Acaz

M (il figlio maschio)

Manasse

I suoi figli (generico)

Inserimen-to in una situazione religiosa corrotta dai riti fenici “









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Sui riti fenici / cartaginesi

Chi uccide Motiva(o tenta di zioni: uccidere) Sesso:

Consapevo- Modalità: L’uccisione è lezza: portata a termine?

El

M (Ieudo, figlio unigenito)

In circostanze di guerra critiche



Sacrificio (il figlio è adornato con i paramenti reali)

Malcus

M (suo figlio Cartalo)

punizione (Cartalo gli si era ribellato)



Crocifissio- Sì ne (atto sacrificale) con le vesti sacerdotali

Circostanze Sì critiche (assedio di Agatocle)

Sacrificio a Sì Kronos (li fanno precipitare in una fossa infuocata dalle mani della statua del dio)

Cartagine- I loro figli (generico) si



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Come non notare che non esiste nelle testimonianze relative all’area semitica alcun caso di madre figlicida? L’unico agente possibile sembra essere il padre, e anche la vittima, tranne che nel caso di Iefte, è un figlio maschio, nella fattispecie l’unigenito o primogenito, e quindi l’erede. L’uccisione, che è sempre uccisione da parte di padre, si configura inoltre, ancora senza eccezioni, nella modalità del sacrificio, dunque della rinuncia estremamente consapevole; non troviamo testimoniato alcun caso di figlicidio non rituale per tutta l’area semitica. L’uccisione del proprio figlio è concepita solo nella forma della rinuncia sofferta del bene più prezioso che si possieda, del sacrificio del figlio nel contesto di un atto religioso ufficiale. E’ proprio per questo che esso riguarda esclusivamente, in modo ancora più accentuato che nel mito greco, i soli membri maschi della famiglia: non solo la figura della madre assassina, ma anche quella della figlia sacrificata è per lo più assente. La rappresentazione ideale, e prototipica, è infatti quella della coppia padre – figlio, che trova il suo modello più caratteristico nella relazione Abramo - Isacco. Il gesto è sempre portato a termine, sia nelle testimonianze sugli usi fenici e cartaginesi sia nel racconto biblico, tranne che in un unico eccezionale caso, quello del sacrificio di Isacco, e tuttavia si tratta proprio del caso “centrale”, quello che segna lo stacco fra un presunto “prima” mitico ed il tempo dell’attualità, necessariamente contrassegnato dalla diversità. Il racconto fondava infatti quello che era e doveva essere il reale uso cultuale, cioè quello di non compiere sacrifici umani, non graditi a Yahwé. Se comunque il sacrificio del figlio appare il modello mitico paradigmatico della devozione totale a Dio nella Bibbia, e se un tale modello sacrificale si presenta costantemente anche nel mito greco, soprattutto come espediente risolutivo in particolari momenti di crisi, ci si può chiedere quale dovesse essere la situazione nella realtà storica.

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Il tema del sacrificio umano è vistosamente frequente nel mito greco antico, cioè in quello che possiamo considerare “il mito” per eccellenza dell’occidente, inserito in un contesto, quello del politeismo, che mette al suo centro comunque la pratica rituale del sacrificio cruento animale. Insistiamo sulla dimensione greca dal momento che non sembra possibile prescindere, in quanto necessario fondamento dell’attuale identità culturale occidentale, dall’imponente eredità comunicataci da essa in termini di elaborazione del pensiero ed organizzazione del simbolico. Il mito in particolare, poi, pare esserne un’espressione privilegiata, se è vero che esso fu il discorso che i Greci raccontarono a se stessi e soprattutto su se stessi80. Tuttavia, è ormai opinione corrente della maggior parte degli studiosi che il sacrificio umano fosse tanto frequentemente commemorato nel mito e presente in vario modo nella letteratura quanto raro e tendenzialmente evitato doveva essere invece nella prassi rituale, almeno in quella ordinaria, e dunque nella storia.

80

CHIRASSI COLOMBO 1999: 346

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CAPITOLO 2: FIGLICIDI, UCCISIONI RITUALI E SACRIFICI. UN EXCURSUS

2.1 - SACRIFICI UMANI E UCCISIONI RITUALI NELLA GRECIA ANTICA. MITO E PRASSI RITUALE Si potrebbe dire che la messa a morte programmata di un essere umano al di fuori dei quadri obbligati della guerra rappresentasse, nella prospettiva del cittadino greco, l’antivalore per eccellenza, l’espressione privilegiata della feritas degli “altri”, il segno distintivo di un’alterità identificata con la degradazione morale e con l’osservanza di un ethos opposto e antitetico rispetto a quello greco. Il sacrificio umano appare infatti al cittadino greco come l’atto violatore per eccellenza, commemorato spesso nel mito ma ostinatamente rifiutato nella propria realtà rituale e proiettato in genere in dimensioni in qualche modo “diverse”. Cristiano Grottanelli, nel suo testo dedicato alla presentazione critica del sacrificio come modello rituale81, ma più diffusamente in un suo contributo specifico

pubblicato

nello

stesso

anno

sulla

rivista

Archiv

für

Religionsgeschichte82, mette in rilievo le strategie ideologiche di negazione che sono sottese in genere al discorso sul sacrificio umano nel mondo romano, come in quello greco e in quello biblico vetero-testamentario. Esse paiono caratterizzate dalla necessità di “mettere a distanza” il fenomeno in vario modo, proponendolo come l’atto che caratterizza l’esistenza dei popoli “altri”, dei

81 82

GROTTANELLI 1999²: 62 GROTTANELLI 1999¹

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barbari, o comunque che si colloca in una dimensione “diversa”, perché lontana nel tempo e/o nello spazio, ed estraneo invece allo spirito dei “civili” cittadini greci (o romani o ebrei). In generale, infatti, nel discorso biblico come nel mito greco intorno al sacrificio umano, si possono riconoscere quattro temi fondamentali, tutti ugualmente volti a negare la sua prassi riconducendola a delle situazioni “altre”, o comunque non ordinarie. In questo tipo di discorso: a) il sacrificio umano è relegato in un passato remoto della storia greca o ebraica, ma anche romana; esso sarebbe stato praticato molto anticamente dagli antenati in un’età “diversa”, nel tempo “altro” del mito, appunto, che precedeva le attuali condizioni di esistenza; b) esso fu poi abbandonato e rigorosamente proibito; in genere il suo superamento è fondato nel mito attraverso una prima sostituzione, che divenne poi la regola. Furono così abbandonati definitivamente quei presunti sacrifici umani primordiali che sono narrati nel mito; c) talora il sacrificio umano può essere ancora praticato, ma solo in circostanze del tutto eccezionali, di straordinario pericolo per la nazione, per far fronte a delle difficoltà che appaiono non superabili mediante la normale prassi rituale; d) “attualmente” esso è in auge come rito regolare soltanto presso gli “altri”, i barbari esterni o anche i sediziosi interni, comunque presso i nemici dell’ordine. Il tema del sacrificio umano è anzi un tema tipico della polemica ideologica contro altri popoli, sovente usato per screditarli, contrapponendo la loro barbarie - dimostrata dalla pratica stessa del sacrificio umano - alla civiltà dei Greci o del popolo ebraico o a quella dei Romani. Ad analoghe conclusioni era già pervenuto anche Albert Henrichs in un suo studio su tre casi particolari di sacrificio umano. Dall’analisi di tre casi rappresentativi, datati in tre periodi ampiamente diversi - il sacrificio mitico di Ifigenia, il caso “storico” di un sacrificio umano offerto prima della battaglia di 66

Salamina e le accuse di infanticidio rituale ai danni dei Cristiani in età tarda egli conclude che: “human victims in Greek religion are primarly an ideal construct of the imagination. They represent the most extreme form of sacrifice, which was rarely if ever realized. Whether actually practiced or merely imagined, human sacrifice was invariably considered abnormal and deviant, and was kept at a safe distance. In actual cult, animals were generally substituted for human victims, while stories were told which recalled the time when human blood was still spilled. […] They (le vittime umane) were usually made to die in the public interest. According to the same construct, human sacrifice was to be reserved for special purposes, preferably as a last resort in times of national crisis. Greek authors credited the mythical period or the remote past more readily with the practice of human sacrifice than their own contemporaries or immediate ancestors. On the whole, however, they preferred to look for human sacrifice among the “barbarians”, rather than the Greeks. From the classical period onward, human sacrifice was identified as a non-Greek and foreign institution” 83 . Il messaggio dunque era chiaramente che il sacrificio umano fosse ciò che i popoli non civilizzati praticavano, ma che nessun greco, in circostanze normali, avrebbe mai potuto realmente considerare. E’ importante tuttavia distinguere il sacrificio umano vero e proprio da quelle che nella prospettiva storico-religiosa e antropologica sono più propriamente dette “uccisioni rituali”, o, per usare l’espressione inglese, ritual killings. La distinzione è stata infatti proposta da molti studiosi: viene ricordata anche dallo stesso Brelich84 e da Dennis Hughes nel suo testo sul sacrificio umano nella Grecia antica85. I sacrifici umani in senso proprio costituirebbero solo un sottoinsieme delle uccisioni rituali di esseri umani, cioè non tutte le uccisioni rituali si potrebbero correttamente definire “sacrifici umani”. Il sacrificio propriamente detto, infatti, presuppone l’offerta ad un destinatario sovrumano, laddove l’uccisione rituale non si inserisce necessariamente nell’ambito di un culto tributato ad un essere 83

HENRICHS 1981: 232-233 BRELICH 1969: 200, n. 7 85 HUGHES 1999 (1991): 17 84

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sovrumano. Nel ritual killing, dunque, l’accento non è posto sul destinatario del rito, che può anche non esserci, quanto piuttosto sulla vittima e ancor più sulle circostanze del rito stesso: in genere l’uccisione rituale aveva luogo in occasione dei riti funerari, di fondazione o di purificazione, nei riti agrari e nei riti per la pioggia, nonché nei riti celebrati in occasione di calamità di vario tipo, quali epidemie, carestie, guerre… Dunque al sacrificio vero e proprio pertiene una maggiore regolarità, trattandosi di un rito ordinario praticato nella cornice istituzionale del culto di una divinità; all’uccisione rituale, al contrario, si può attribuire un carattere di straordinarietà, essendo essa legata alla necessità di risolvere ritualmente situazioni eccezionali di crisi. Se molti studiosi sono disposti a concedere che delle uccisioni rituali abbiano anche potuto aver luogo talora nella Grecia antica in circostanze di particolare crisi e pericolo per la nazione (lo stesso Brelich accetta il valore storico della testimonianza sul sacrificio di Salamina), di “sacrifici umani” in senso proprio, così come sono stati appena definiti, sembra non potersi parlare né per il periodo arcaico, né tanto meno per quello classico o ellenistico. Permangono fortissimi dubbi anche su una sua presunta pratica nell’età del bronzo e le fonti archeologiche a questo riguardo sono controverse. La rilevanza del discorso sul “sacrificio” umano vero e proprio appare dunque, fino a prova contraria, interamente mitica, non essendo esso attestato in alcun modo nella dimensione rituale. Lo scetticismo sulla sua prassi ordinaria, regolare e istituzionalizzata, è condiviso sempre più da molti eminenti studiosi che si sono occupati del fenomeno, fra cui, oltre a Brelich e al già citato Henrichs, Dennis Hughes e Pierre Bonnechere. Ad essi si devono vari interventi dedicati al tema, che spiegano variamente le ragioni di questa notevole discrepanza fra il “dire” e il “fare” nella Grecia antica e più in generale nel Mediterraneo antico.

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Hughes passa in rassegna molti miti e molte narrazioni che pretendono di essere storiche e che come tali sono state interpretate per lungo tempo: lo scopo della sua analisi è quello di dimostrarne, caso per caso, l’infondatezza e l’inattendibilità come testimonianze certe. Fra i numerosissimi miti che “commemorano” quel tempo antico in cui dei sacrifici, o più genericamente delle uccisioni rituali, furono compiuti, Hughes distingue due categorie: quella dei miti in cui si narra l’uccisione di individui specifici, di cui spesso si cita anche il nome, e che venivano offerti in momenti di particolare emergenza (ad esempio il caso classico di Ifigenia), e quella dei miti eziologici volti a spiegare l’origine di rituali esistenti (ad esempio il caso dell’arkteia di Brauron). Questi ultimi miti, infatti, narrano di come l’antica pratica del sacrificio umano determinata in genere, secondo il modello ricorrente, dall’esigenza di espiare una trasgressione – sarebbe stata in seguito “mitigata”, mediante la sostituzione di una vittima animale a quella umana oppure mediante l’istituzione di un rituale (appunto l’attuale uso cultuale) in cui la vittima umana non era destinata a morire realmente86. In effetti i sacrifici ordinari, storici, dei Greci prevedevano o delle vittime animali, oppure, laddove la “vittima” dovesse essere un essere umano, la morte veniva solo “evocata” o “mimata” ritualmente e mai effettivamente procurata; in genere si trovava il modo di “realizzare” il sacrificio senza doverlo eseguire realmente. Un esempio classico è citato da Burkert87 e Brelich88; è quello che riguarda le feste Agrionie di Orcomeno: il rito prevedeva, infatti, che in quest’occasione il sacerdote di Dioniso inseguisse con una spada un gruppo di donne, considerate le discendenti delle antiche Miniadi, e che uccidesse quella fra loro che fosse riuscito a raggiungere. Tuttavia, Plutarco (Quaestiones Grecae, 38) narra che ai

86

HUGHES 1999 (1991): 125 BURKERT 1981 (1972): 129-134 88 BRELICH 1969: 198-199 87

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suoi tempi un sacerdote di nome Zoilo uccise realmente una donna nel corso del rito; le conseguenze furono terribili e alla sua famiglia fu tolto il sacerdozio. E’ evidente dunque che molte norme esistevano solo per essere puntualmente evase e che il sacrificio doveva essere solo evocato, drammatizzato, ma era impensabile per qualunque cittadino greco che fosse realmente messo in pratica. L’uccisione rituale di un essere umano poteva essere cioè solo simbolica. In ogni caso, alla categoria dei miti eziologici in particolare, è stato spesso attribuito dagli studiosi del passato un valore storico. La divergenza fra mito e prassi rituale era cioè spiegata con la diffusa convinzione che il primo conservasse effettivamente la memoria di un periodo molto antico (e che tuttavia restava indefinito), in cui il sacrificio umano doveva essere effettivamente compiuto con una certa frequenza. Si presumeva parimenti che poi, in rapporto alle conquiste culturali della civiltà greca, una tale pratica dovette essere gradualmente abbandonata, sostituita da usanze “più umane”. Ai miti eziologici veniva dunque conferito un valore storico, essendo interpretati come narrazioni segnalanti l’evoluzione che avrebbe portato la civiltà greca ad abbandonare un’antica, reale, pratica del sacrificio umano. Di recente, come si è detto, si è affermata una diversa tendenza e la grande maggioranza degli studiosi tende a negare totalmente una validità storica al sacrificio umano per la Grecia antica, sulla base dell’assoluta mancanza di prove certe in questo senso. Nessun riscontro irrefutabile è stato ancora fornito, infatti, dagli scavi archeologici, né nessuna testimonianza propriamente storica è ancora emersa a questo riguardo, al di là, appunto, della frequenza del tema nel mito. Inoltre, come si è visto, i Greci stessi presentano in qualche modo il rito di sacrificio umano come pratica “impossibile” e inaccettabile, che poteva essere compiuta regolarmente solo dagli “altri”, e le narrazioni sulla quale non mancavano comunque di suscitare un certo sconcerto nel “civile” cittadino greco.

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Brelich in particolare si è impegnato a contestare il metodo e l’interpretazione ingenua fornita nel passato ai miti di sacrificio umano, ma anche al mito in generale, definendone il dominio e le reali funzioni. Se è vero infatti che il mito, in quanto tale, è sempre creduto come “storia vera” dalla società che lo esprime - ed esso in effetti può anche essere presentato come “storico” e veritiero dalle fonti antiche - lo storico delle religioni dovrebbe invece coglierne le ragioni specifiche, il suo valore propriamente religioso. Come Brelich ricorda nella sua celebre Introduzione alla storia delle religioni, il mito per definizione non è un resoconto storico, ma è anzi caratterizzato proprio dalla “diversità” qualitativa del tempo in cui si sono svolti i fatti ed al quale appartengono i personaggi che li hanno compiuti : “Dal punto di vista del contenuto, ogni mito si svolge nel passato, ma non in un passato qualsiasi, bensì in un tempo che era differente da quello presente: vi erano condizioni differenti da quelle che nel tempo della narrazione si ritengono normali, vi agivano personaggi differenti dalla gente, dagli animali e dalle piante comuni. Una definizione cronologica del tempo del mito può variare da milioni di anni fa (come in certe civiltà “superiori” orientali) a poche generazioni fa (p. es. “prima dell’arrivo dei bianchi”, presso molti popoli coloniali), sebbene la forma più diffusa di questa definizione sia il vago “molto tempo fa” (cfr. il “c’era una volta” delle fiabe): ma non è la distanza cronologica che caratterizza il tempo del mito, bensì la sua diversità rispetto al tempo attuale. Ogni mito narra di un evento (o una serie di eventi, in cicli mitici) che si sarebbe verificato in quel tempo diverso, per opera di personaggi diversi da quelli attuali, in seguito al quale qualcosa che prima non c’era stato avrebbe preso origine o qualcosa che prima era stato diverso sarebbe diventato com’è attualmente. Per lo più, tuttavia, il mito racconta l’origine di ciò che è ritenuto importante”.89 Non bisogna dunque lasciarsi fuorviare dal racconto mitico, né ha alcun senso interrogarsi sulla sua veridicità e sulla sua attendibilità come fonte storica, poiché il mito è per definizione il racconto di quei fatti che sono accaduti in un tempo “altro”, che precede le attuali condizioni di esistenza. Esso trova dunque le sue ragioni in una sfera del tutto diversa da quella della narrazione storica; la

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BRELICH 1966: 9-10

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sua funzione principale, dice Brelich, è piuttosto quella di fondare le attuali condizioni del mondo, così come ora si presenta: “I miti fondano le cose, che non solo sono come sono, ma devono essere come sono, perché così sono diventate in quel lontano tempo in cui tutto si è deciso: il mito rende accettabile ciò che è necessario accettare”90. Riassumendo, la funzione principale del mito è quella di fondare gli aspetti della realtà che paiono vitali per l’esistenza di un popolo, garantendo loro una fondazione metastorica e proponendoli così come immutabili, pena il ritorno al caos primordiale. In una tale linea si pone anche Dario Sabbatucci91, che traccia una fondamentale distinzione tra mito e rito, proprio sulla base della necessità, per una cultura, di distinguere e di tenere separato ciò che può essere modificato dall’uomo da ciò che invece è vitale e deve dunque restare immutato. Il mito ed il rito, dunque, dovrebbero essere intesi come due piani dissociati. Il mito è infatti definito come la sfera di ciò che deve rimanere immutabile, è il piano del metastorico e quindi dell’inattività, della non fruibilità per l’uomo, è ciò su cui si può solo “dire” e non “fare”, perché deve rimanere così come è stato deciso nel tempo della fondazione. Il rito invece è il campo d’azione dell’uomo, che agisce nella storia, è l’ambito del mutevole e del fruibile, del passibile di intervento umano. Ogni cultura, dunque, assegnando ciò che le interessa all’una o all’altra sfera, organizza la realtà in modo da definire una volta per tutte il campo dell’azione umana, salvaguardando l’esistenza dei valori per essa vitali attraverso l’immutabilità del mito e garantendo parimenti lo spazio per agire attraverso la prassi storica del rito. Nel caso del rito, infatti, l’uomo è il soggetto, che agisce ritualmente sulla realtà; esso servirebbe quindi a “introdurre l’uomo nella storia”. Nel caso del mito, al contrario, l’unico soggetto possibile è l’inattuale soggetto mitico, che ha già agito sulla realtà una volta per tutte in un tempo 90 91

BRELICH 1966: 11 SABBATUCCI 1978: 236

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“altro”, metastorico; il valore del mito è quindi piuttosto quello di una “fuga dalla storia”. Si potrebbe dedurne che, se il mito è atto a fondare quegli aspetti e quei valori vitali per una società che devono rimanere immutabili ed immutati, in questo caso, raccontando l’abbandono o comunque la “mitigazione” degli originari sacrifici umani, la sua funzione fosse proprio quella di fondare la necessità di non ricorrere a riti di questo tipo nella storia. Il discorso mitico, inteso in questo modo, non avrebbe quindi alcuna attinenza con un’eventuale pratica di sacrifici umani in tempi remoti, trovando le sue ragioni su un piano completamente diverso. Evidentemente la ragione della frequenza del tema nel discorso mitico è un’altra e non ha niente a che fare con una sua presunta pratica nella storia. Hughes, dopo il suo lungo excursus, conclude semplicemente ed anche banalmente che “la funzione dei miti di sacrificio umano era rispondere ai bisogni della cultura che li creava, differenziando i Greci e le loro usanze sacrificali ed alimentari sia dai popoli che li circondavano, sia da un passato immaginato” e che “il loro valore concettuale era del tutto indipendente dalla reale esistenza delle usanze che descrivevano”. Lo studioso si preoccupa infatti soprattutto di negare la realtà storica del sacrificio umano per la Grecia antica, ma non si sofferma sulla ragioni della rilevanza del tema nel discorso mitico. W. Burkert92, invece, attribuisce la centralità dell’uccidere nei complessi mitico-rituali greci - ma anche in altre culture - all’impatto emotivo stravolgente che l’atto, compiuto in origine per nutrirsi, esercitò sull’essere umano fin dai primordi. Il mito che ha per tema un sacrificio, anche umano, infatti, trova in genere corrispondenza in un rito, che da un lato rievoca l’episodio violento significativamente però o la vittima umana è sostituita da un animale o 92

BURKERT 1981 (1972)

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l’uccisione non è realizzata - dall’altro evoca, in funzione di riparazione, la generazione di una nuova vita o comunque un rinnovamento, una rifondazione dell’ordine delle cose. In ogni caso si tratta di riti cruenti, dove scorre il sangue. Tali riti erano frequentemente legati proprio al momento del

cosiddetto

“Capodanno”, inteso come tempo nel quale l’ordine consueto doveva essere ritualmente infranto allo scopo di rifondare e rigenerare dal caos l’esistenza ordinata. L’atto dell’uccisione in generale, anche solo di un animale, quindi, fu sempre percepito come particolarmente violatore, tanto che era necessario il suo inserimento nella sfera mitico-rituale, e dunque religiosa, per giustificare il gesto e superare il trauma che ne conseguiva. Più in particolare, però, si sono occupati della centralità di questo tema Brelich e Bonnechere, fornendone una diversa chiave di lettura, in rapporto con lo scenario delle cosiddette “iniziazioni puberali”.

2.2 – L’INTERPRETAZIONE INIZIATICA Il sacrificio umano, in particolare il sacrificio di ragazzi, sarebbe stato, in questa prospettiva, un modo per rappresentare nel mito la morte simbolica che gli adolescenti dovevano affrontare per accedere alla condizione di adulti. Per poter “rinascere” al nuovo status nei riti di passaggio era ritenuto necessario infatti separarsi prima definitivamente dalla precedente condizione mediante una morte simbolica. Questa appunto era evocata in vario modo nel rito e nel mito eziologico che lo fondava, ove assumeva in particolare la forma del racconto di antichi sacrifici umani di adolescenti, quali erano, appunto, gli iniziandi. In Symbol of a Symbol93, Brelich concede che, se così tanti miti affrontano l’argomento, evidentemente i Greci dovevano avere qualche esperienza di uccisioni rituali e dovevano conoscere le circostanze in cui appariva necessario

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BRELICH 1969

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ricorrervi; nondimeno reputa arbitrario, come si è visto, dedurre dalla frequenza del tema mitico quella della prassi rituale. La soluzione proposta è che “the Greeks were parsimonious in sacrificing human victims even though they had the experience of human sacrifice and utilized it on the mythical plane. The Greek myths are not relics of remote cultural epochs; they are significant myths for the historical epoch which retains them in function”94. La ragione della centralità del discorso sull’immolazione di esseri umani, è dunque individuata da Brelich in un diverso ordine delle cose, nel suo essere il “simbolo” di un’altra realtà, assai più vitale e necessaria per la società greca. Lo studioso tratta in particolare dei miti eziologici, quelli che narrano cioè l’origine di determinati usi cultuali. Spesso il mito narrava infatti di come “un tempo” fossero richiesti dei sacrifici umani, per lo più per espiare qualche trasgressione che aveva offeso o incollerito una divinità. Nel mito si spiega come tali vittime umane fossero poi sostituite da vittime animali, o come l’uso dell’uccisione fosse stato poi comunque mitigato in altro modo, e da allora questo divenne l’attuale uso cultuale. La conclusione di Brelich è che questi complessi mitico-rituali servissero in realtà a rendere il sacrificio, praticato, della vittima animale, pienamente equivalente ad un sacrificio umano, cioè essi ne erano un “simbolo”. Questo era il caso, ad esempio, del culto di Dioniso Aigobolos, “uccisore di capre”, a Potniai in Beozia. Il mito, narrato da Pausania (9, 8, 2), raccontava che un tempo il popolo di quel luogo, per effetto del vino, uccise il sacerdote del dio. Secondo lo schema ricorrente, ormai noto, un’epidemia colpì il popolo e l’oracolo delfico prescrisse di immolare periodicamente alla divinità un adolescente. Alcuni anni dopo, si dice, Dioniso stesso sostituì una capra come vittima. Il mito dunque riferiva la nota pratica di sacrificare una capra ad un presunto e mitico uso originario di sacrificare esseri umani; in questo modo il sacrificio della capra assumeva lo stesso valore di un sacrificio umano, tanto più che la sostituzione era stata istituita dal dio stesso; l’uso attuale era quindi un simbolo del sacrificio 94

BRELICH 1969: 196

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umano, avendone lo stesso valore e significato. Tuttavia, altri casi appaiono più complessi in quanto in essi si aveva una doppia simbolizzazione, che aveva a che fare con lo scenario della morte iniziatica e dunque dei riti di passaggio. A una tale categoria appartenevano ad esempio la citata arkteia di Brauron95 e la flagellazione degli adolescenti presso l’altare di Artemide Orthia a Sparta96. A Sparta l’uso di fustigare i giovani presso l’altare di Artemide Orthia aveva un significante mito di fondazione: si narrava che un tempo fosse nata una rissa nel corso di un sacrificio alla dea; il solito flagello allora colpì la città a causa del comportamento sacrilego dei suoi abitanti e l’oracolo prescrisse di bagnare l’altare di sangue umano. Così sorse l’uso di sacrificare dei giovani, che venivano estratti a sorte, finché Licurgo non riformò il culto: non sarebbe stato più necessario, egli stabilì, immolare realmente i giovani, giacché era sufficiente flagellarli per bagnare di sangue l’altare della dea e rispettare così l’imposizione divina. In questi casi, dunque, la reclusione delle vergini e la flagellazione degli adolescenti sostituivano sì un sacrificio umano avvenuto nel mito, di cui erano il simbolo, ma allo stesso tempo esso era, a sua volta, nella prospettiva di Brelich, il simbolo della morte iniziatica che i giovani e le giovani devono affrontare per poter “rinascere” alla loro nuova condizione nei riti di passaggio. La flagellazione, la reclusione degli iniziandi e altre prove di resistenza, che si spingono fino al maltrattamento ed alla vera e propria tortura, sono elementi tipici, che si trovano frequentemente in moltissimi riti di passaggio di popoli cosiddetti “primitivi”. In questo caso si tratterebbe di simboli di un presunto sacrificio originario, che a sua volta simboleggiava però abbastanza chiaramente la realtà della morte iniziatica dei giovani. Quindi, sembra che la pratica del sacrificio umano fosse fortemente limitata negli usi rituali dei Greci, ma essi ne utilizzavano valori e significati attraverso una serie di miti e di riti che lo attualizzavano indirettamente tramite simboli. In questo modo il tema del 95 96

Vedi supra, n. 63 cfr. BRELICH 1969

76

sacrificio umano, benché si riferisse ad una pratica che era solo sporadica e per nulla frequente nella Grecia antica, poteva comunque essere centrale e di vitale importanza, motivo per cui era tanto frequente nel mito. Bonnechere, ancor più di Brelich, prosegue su questa strada. In Le sacrifice humain in Greece ancienne97, infatti, rivisita i numerosissimi miti greci che trattano di sacrifici umani e li spiega ancora in chiave iniziatica. Il loro significato sarebbe dunque, come in Brelich, l’evocazione di un aspetto assai vitale per la società greca, così come del resto per moltissimi altri popoli: la “morte” dei giovani necessaria a garantire il loro accesso alla condizione di adulti, facenti parte integralmente della società, e dunque anche il rinnovamento della comunità stessa. La morte rituale degli adolescenti durante i riti di passaggio sarebbe dunque la realtà simboleggiata dai vari miti, da quelli eziologici già trattati da Brelich e da Hughes, ai tantissimi miti dionisiaci che rappresentano lo smembramento e il cibarsi della vittima, compresi quelli già visti relativi alle Miniadi, Pretidi e Cadmeidi. Il mito sceglieva di rappresentare la morte simbolica e rituale degli iniziandi sotto la forma del sacrificio umano “reale” (proprio perché solo mitico) dei giovani, fenomeno che nella realtà non è affatto documentato. Bonnechere tuttavia sostiene che il tema dell’iniziazione non sia né isolato né esclusivo, quindi non rappresenterebbe la ragione unica e il motivo di interesse principale per la società greca. Tira così in ballo il tema vecchio, abusato, della fertilitàfecondità: il rinnovamento della comunità doveva iscriversi infatti nel più ampio contesto e in stretta correlazione con i temi della fertilità della terra e della fecondità di uomini e animali; il rinnovamento della società non poteva essere disgiunto da quello della natura e del cosmo (infatti, proprio questi riti iniziatici si svolgevano in genere in primavera, in coincidenza con il rinnovamento dell’anno e con la maturazione dei raccolti). Ne risulta che, se anche il sacrificio 97

BONNECHERE 1994

77

umano non era praticato dai Greci, proprio in quanto simbolo ricorrente di una realtà tanto vitale e necessaria - esso fondava quei riti che soli potevano garantire il rinnovamento e la necessaria rifondazione del corpo sociale e civico - esso era comunque un tema centrale che trovava posto al cuore stesso della vita della polis98. Il tema era evocato in quanto assolveva due diverse funzioni complementari: da un lato, come si è detto, simboleggiava la morte iniziatica propria di quei riti che erano necessari a rifondare periodicamente l’ordine e la società; dall’altro lato rivelava il ritorno allo stato “selvaggio” come risultato dell’abolizione dei valori tradizionali. La reintegrazione all’ordine normale doveva infatti passare per la sua abolizione e questo era ottenuto proprio attraverso l’evocazione dell’antivalore, della realtà inversiva per eccellenza rispetto alla tradizione greca, cioè attraverso l’evocazione del sacrificio umano. Il tema appare centrale per questi motivi nel pensiero greco e tale rimase anche quando non ne fu più compreso il reale significato. Potremmo dunque dire che nel mondo greco antico il motivo dell’uccisione sacrificale di esseri umani - ivi compresa la categoria particolare del sacrificio del figlio da parte del padre - era assai frequente nel mito, ma questa frequenza non trovava corrispondenza nella prassi rituale ordinaria e storica; tuttavia per quella realtà storica era assolutamente importante. I due piani del mito e del rito, come si è visto, sono nettamente disgiunti e separabili99. Il sacrificio umano, in particolare, è ciò che il mito racconta e che, sempre secondo il mito, si faceva in un tempo remoto e “diverso”. Tuttavia, allo stesso tempo, è ancora il mito che fonda la sua non praticabilità nella realtà attuale e storica, proprio attraverso la narrazione di come quell’originaria, presunta, pratica delle origini fosse stata poi proibita e sostituita da diversi usi cultuali, quelli appunto attuali di cui si narra l’origine e a cui, proprio attraverso il mito, si garantisce una fondazione metastorica e con essa l’immutabilità. 98

BONNECHERE 1994: 164-180 Il tema del rapporto mito – rito è stato affrontato nella prima metà del Novecento nell’ambito della scuola dei ritualisti di Cambridge (Myth – Ritual School) e in particolare nell’ambito degli orientalisti gli studiosi della cosiddetta regalità sacra orientale.

99

78

CAPITOLO 3: IL “MITO” DEL RITO SEMITICO

3.1 – IL SACRIFICIO SEMITICO: L’OFFERTA DEI PRIMI NATI E IL RITO “MOLOCHITICO” Più complessa è invece la questione sull’esistenza o meno di una pratica rituale, nella storia, del sacrificio umano - e nella fattispecie proprio del sacrificio di bambini - nell’area semitica e in particolare nel mondo ebraico e fenicio. La nostra prima documentazione parte da più passi dell’Antico Testamento a cominciare dall’“evitazione” del sacrificio di Isacco, che abbiamo posto all’inizio del nostro discorso. Molti altri dati sembrano tuttavia far riferimento ad un uso sacrificale di questo tipo, dove il sacrificio umano - e per lo più si tratta di sacrifici di infanti - è sempre presentato come una deviazione dal “vero” culto yahwista. Questo dato tuttavia ben si attaglia alla constatazione, già ricordata, di Grottanelli, sulla strategie di negazione nel discorso sul sacrificio umano, che appaiono comuni al mondo ebraico come a quello greco e latino. Secondo lo schema consueto, infatti, il sacrificio umano è rifiutato mediante un discorso che si articola secondo i quattro motivi fondamentali già osservati: il ricordo della sua prassi nel tempo dei primordi, in particolare proprio il caso di Genesi 22; il rigetto di tale rito (sempre in Genesi 22, ma anche nei numerosi passi che trattano della sostituzione del primogenito con un animale da sacrificare a Yahwé); il racconto di sacrifici umani in occasioni eccezionali (ad esempio il sacrificio della figlia di Iefte, che è stato spesso accostato a quello di

79

Ifigenia); infine l’attribuzione di questi riti al culto straniero del dio Moloc o ai Fenici100. Il discorso biblico sul sacrificio di infanti si può articolare secondo due nuclei fondamentali: il primo riguarda l’offerta primiziale, ossia la dedicazione sacrificale a Yahwé di tutto ciò che è primo prodotto, animale, vegetale e anche umano, secondo una pratica che è diffusa in moltissime culture; il secondo si ricollega invece alla discussa questione dei presunti sacrifici umani a Moloc in quel tipo particolare di area cultuale che è convenzionalmente denominata “tofet”. In

un

articolo

pubblicato

nel

1999

sulla

rivista

“Archiv

für

Religionsgeschichte”101, T. Römer, avanzando un’ipotesi poco diffusa e non accreditata dai più, riconosceva una veridicità storica ad entrambi questi tipi di sacrificio per il mondo ebraico antico, nonostante l’esplicita condanna che è formulata per entrambi in svariati passi dell’Antico Testamento. Secondo lo studioso, infatti, le due parti della Bibbia che affrontano l’argomento sacrificio umano, il Pentateuco (Torah) e i libri storici e profetici (Nebiim), sarebbero il prodotto dell’ideologia dell’elite sacerdotale degli “uomini del ritorno” dall’esilio in Babilonia (alla fine del VI secolo a.C.) piuttosto che testimonianze di una

prassi effettiva dell’epoca. Essi sarebbero in particolare fortemente

marcati dalla necessità di elaborare uno yahwismo “ortodosso” nato dall’incontro con il mondo persiano secondo un modello teologico in qualche modo in sintonia con i suggerimenti del modello di Ahura Mazda. Questo sarebbe stato anche il momento di elaborazione del monoteismo assoluto, che appare dunque un’elaborazione tardiva datata all’età persiana102. In questo stesso contesto, determinato dalla nuova situazione, anche il sacrificio umano, fino ad allora praticato nelle forme dell’offerta primiziale e 100

GROTTANELLI 19992: 62 RÖMER 1999: 17-26 102 L’importanza “degli uomini del ritorno” (da Babilonia dopo la deportazione ad opera di Nabucodonosor) e la riformulazione del monoteismo yahwista sulla base di una rigida osservanza dell’ortoprassi – le leggi speciali della legge mosaica del Levitico e del Deuteronomio - ed anche il rilancio di una nuova teologia yahwista sono dati ampiamente riconosciuti. Vedi SMITH 1996 : 73-84 e SABBATUCCI 2001 : 25-46 101

80

dei riti a Moloc - o molk, come si vedrà - fu solo tardivamente rifiutato e stigmatizzato come un costume barbaro. In realtà, secondo Römer, tali riti dovevano essere stati praticati dagli ebrei e solo il giudaismo ufficiale li sradicò, per compiacere la sensibilità religiosa degli Achemenidi103. Per quel che riguarda in particolare il sacrificio dei primi nati, l’idea che le primizie di un raccolto e i primogeniti del proprio bestiame siano da offrire alla divinità è ampiamente attestata. Essa serve a riconoscere simbolicamente che la divinità sia l’unica autrice e l’unica vera proprietaria di tutti i beni di cui l’uomo fruisce. Allo stesso tempo, secondo Brelich104, l’uomo può godere di tali beni proprio in virtù di questa offerta primiziale che, concentrando la sacralità su una “prima parte”, “desacralizza” il resto e lo rende disponibile all’uomo. Numerosi passi biblici in effetti ribadiscono il dominio riservato a Dio sui primogeniti; l’offerta primiziale riguarda non solo il bestiame ed i raccolti, ma anche i primi nati degli uomini, e qui il discorso diventa particolarmente delicato, perché alcuni studiosi individuano nell’offerta umana, poi sostituita, per riscatto, da un’offerta animale, una probabile traccia di arcaici sacrifici umani di bambini praticati dagli ebrei. Un’interpretazione ossequiosa del metodo evolutivo inferiva

che Yahwé

avesse originariamente preteso l’offerta anche dei primogeniti umani, consentendo solo poi che ad essi fossero sostituiti i primi parti animali. La pretesa è fondata, come si è detto, sull’appartenenza a Yahwé di tutto ciò che è creato e che è prodotto sulla terra, compresi gli uomini, dato in effetti più volte ribadito nelle Scritture. L’appartenenza dei primogeniti, anche umani, a Yahwé sarebbe fondata in particolare anche attraverso la commemorazione di una grande vicenda “mito-

103

La posizione di Römer non ha in realtà giustificazioni. Non c’è rapporto tra la costruzione dell’ortoprassi ebraica della Torah (le famose Leggi Speciali del Levitico con le regole di purità ) ed una non documentata ortoprassi persiana. Il rapporto Persia - mondo ebraico si gioca su un’altra piattaforma, più significante,quella della riorganizzazione in senso strettamente monoteistico della teologia regale di YHWE, vedi n. 75 104 BRELICH 1966: 45-46

81

storica”, quella della salvazione del popolo ebraico dalla schiavitù e della sua fuga dall’Egitto con la liberazione del popolo eletto. Yahwé così

ordina a

Mosè: “Consacrami ogni primogenito che apre il grembo fra i figli d’Israele: uomo e animale sono miei” Esodo XIII, 1-2 E l’appartenenza a Dio di tutti i primogeniti, anche umani, è ribadita anche poco dopo: “Non tarderai a fare l’offerta di ciò che riempie il tuo granaio e di ciò che cola dal tuo frantoio. Mi darai il primogenito dei tuoi figli. Così farai del tuo bue e della tua pecora: sette giorni sarà con sua madre e all’ottavo giorno lo darai a me” Esodo XXII, 28-29 Tuttavia, questa sembra essere solo una dichiarazione di appartenenza simbolica di tutto il creato, di ogni essere vivente, compreso quindi l’uomo, a Yahwé. In numerosi altri passi, infatti, Yahwé la ribadisce, ma appare una significativa distinzione fra cucciolo animale e figlio dell’uomo: i primi dovranno essere realmente offerti a Yahwé, come ordinato, i secondi invece dovranno essere riscattati. Ancora una volta, sembra che anche nel mondo ebraico antico, come in quello greco, il sacrificio umano nella realtà dovesse essere assolutamente evitato; l’offerta reale che lo equiparava ne assumeva il valore, ne era il “simbolo”, ma si rendeva comunque necessaria una sostituzione. La regola di principio, come nel mondo greco, era fatta solo per essere puntualmente evasa nella prassi. E così numerosi passi insistono sulla necessità di un “riscatto” per i figli dell’uomo: il riscatto “salva” dall’uccisione. “Qualunque primogenito di ogni essere vivente, offerto al Signore, uomo o bestia, sarà tuo: però farai riscattare il primogenito dell’uomo e il primogenito dell’animale impuro. Riceverai il loro riscatto da un mese di età, secondo la tua stima in denaro, di cinque sicli del siclo del santuario, che è di venti ghera. Ma non riscatterai il primogenito della vacca o il primogenito della pecora o il 82

primogenito della capra: sono santi. Spanderai il loro sangue sull’altare e farai fumare il loro grasso: sacrificio di fuoco in odore gradevole al Signore.” Numeri XVIII, 15-17 E ancora, nell’Esodo, si ribadisce a più riprese l’appartenenza dei primogeniti a Dio e la necessità di riscattare e di non sacrificare l’animale impuro, nella fattispecie l’asino, e il figlio dell’uomo, perché -

anche se per motivi

evidentemente diversi - non costituiscono offerta gradita a Dio: “Quando il Signore ti avrà condotto nel paese del Cananeo, come l’ha giurato a te e ai tuoi padri, e te l’avrà dato, riserverai per il Signore ogni essere che apre il grembo e ogni parto dell’animale che avrai: i maschi sono del Signore. Ogni primo nato d’asino lo riscatterai con un animale del gregge, e se non lo potrai riscattare, gli spezzerai la nuca. Ogni primogenito d’uomo, tra i tuoi figli, lo riscatterai. E se tuo figlio domani ti domanderà: “Che cos’è questo?”, gli dirai: “Con mano forte il Signore ci ha fatto uscire dall’Egitto, dalla casa di schiavitù. E poiché il faraone si ostinava a non mandarci via, il Signore fece morire tutti i primogeniti in terra d’Egitto, dal primogenito dell’uomo al primogenito dell’animale; per questo sacrifico al Signore ogni maschio che apre il grembo, e riscatto ogni primogenito dai miei figli.” Esodo XIII, 11-15 “Chiunque apre il grembo è mio, ogni primogenito maschio, bovino ed ovino. Riscatterai il primo nato di un asino con un ovino e se non potrai riscattarlo gli spaccherai la nuca. Riscatterai ogni primogenito dei tuoi figli. Non ti presenterai davanti a me a mani vuote.” Esodo XXXIV, 19-20 Dio stesso dunque condanna implicitamente l’uso dell’immolazione dell’essere umano, ribadendo la diversità e l’eccezionalità di questa vittima rispetto a quella animale. Ovviamente anche l’eccezionalità della non sacrificabilità dell’asino è particolarmente significante, anche se non possiamo occuparcene qui. In linea di principio dunque l’uomo appartiene a Yahwé come la bestia, ma nella prassi questa appartenenza non doveva esplicitarsi in un’offerta sacrificale. L’offerta dell’essere umano appare come un fatto empio da evitare. Il sacrificio umano è connotato negativamente ed esplicitamente condannato, in un passo in cui, stranamente, Yahwé stesso se ne assume la responsabilità: 83

Io stesso poi diedi loro decreti non buoni e norme che non danno la vita. Li feci macchiare d’impurità con le loro offerte di consacrazione di ogni primogenito, per gettarli nella costernazione, affinché riconoscessero che io sono il Signore. Ezechiele XX; 25-26 Questa condanna del sacrificio umano, in particolare dell’offerta dei propri figli, era intesa come la condanna della degenerazione dei costumi del popolo d’Israele, venuto in contatto con le popolazioni originarie del luogo, i Cananei. Il rito del moloch era interpretato come una deviazione dalla Legge, dovuta alla contaminazione con il cattivo costume degli “altri”. A più riprese questi “cattivi” costumi sono fatti oggetto di una severa condanna da parte degli autori dei testi biblici, soprattutto di quelli storici e profetici. Il Salmista narra con accenti d’indignazione questa degenerazione, attribuita senz’altro al contatto con i Cananei: “Non sterminarono i popoli, come aveva loro ordinato il Signore, si mescolarono con le nazioni e appresero a compiere le loro opere; prestarono culto ai loro idoli che divennero per loro un tranello. Immolarono i loro figli e le loro figlie ai falsi dei. Versarono il sangue innocente, il sangue dei loro figli e figlie che immolarono agli idoli di Canaan, e fu profanata la terra con delitti di sangue.” Salmi CVI 35-38 Il sacrificio dei figli e delle figlie che il Salmista, come molti altri autori biblici, ricorda e stigmatizza, è l’uso di “passare per il fuoco” i propri figli a quel Moloc, che per lungo tempo è stato inteso come una divinità. Il passo più significativo a questo proposito è quello di 2 Re XXIII, 10, in cui si narra di come il re Giosia (fine VII secolo, epoca pre-esilica), dopo aver trovato il libro della Legge, intraprende un’opera di riforma religiosa, che rappresenta un primo impegno di recuperare il rapporto fra il popolo eletto e Yahwé, purificando e migliorando anzitutto l’esercizio del culto. Si assiste così ad un solenne rinnovamento rituale di quell’Alleanza che era stata già conclusa una prima volta fra Dio e il popolo ebraico sul Sinai. Il programma di Giosia prevede anzitutto la riaffermazione di un monoteismo puro, con l’estirpazione di tutti i culti stranieri - politeisti - e degli idoli, 84

l’abolizione della prostituzione sacra, la condanna di tutte le pratiche di magia, infine l’affermazione dell’unicità del tempio, con l’esclusione di tutti gli altri luoghi di culto. In questo contesto, dopo aver distrutto gli oggetti del culto di Baal e Ashera, soppresso i falsi sacerdoti idolatri, fatto abbattere la casa dedicata alla prostituzione sacra, Giosia “profanò il tofet che si trovava nella valle di Ben-Innòm, perché nessuno vi facesse passare il proprio figlio o la propria figlia per il fuoco in onore di Moloc.” 2 Re XXIII, 10 E’ evidente dunque che questo “passaggio per il fuoco” a Moloc doveva essere una pratica piuttosto diffusa e frequente. Questo rito, sempre stigmatizzato dagli autori biblici, è ricordato in numerosi passi dove è evidente che esso era percepito come una degenerazione rispetto ai puri costumi delle origini, dovuta all’influenza di altri culti. Si dice che anche due re immolarono in questo modo i loro stessi figli, re che del resto sono ampiamente condannati per la loro empietà dal redattore dei relativi passi. Il primo fra questi fu Acaz, che “non fece ciò che è retto agli occhi del Signore Dio suo, come aveva fatto il suo antenato Davide. Imitò la condotta dei re d’Israele e fece persino bruciare suo figlio, secondo le usanze abominevoli delle genti che il Signore aveva cacciato davanti ai figli di Israele.” 2 Re 16, 2-3 L’atto è ricordato anche in un altro passo, in cui ancora si ribadisce che Acaz “offrì incenso nella valle di Ben-Innòm e bruciò nel fuoco i suoi figli imitando l’abominazione dei pagani che il Signore aveva cacciato davanti agli Israeliti” 2 Cronache XXVIII, 3 L’altro re, Manasse, attirò su di sé e sul suo popolo le ire del Signore, per aver partecipato ai riti stranieri ed aver contaminato così il “vero” culto con le credenze dei Cananei. Egli infatti eresse altari a Baal, venerò molte divinità e praticò la magia, ma soprattutto, come Acaz, “fece passare i suoi figli attraverso il fuoco nella valle di Ben-Innòm” (2 Cronache XXXIII, 6). 85

Al di là dei re celebri che ricorsero a un tale rito, le notizie sono numerosissime e l’uso, evidentemente diffuso, di “far passare per il fuoco” i propri figli a Moloc nel luogo detto di Ben-Innòm è esplicitamente proibito nella Legge e stigmatizzato a più riprese dai profeti105. Alla pratica ci si riferisce assai spesso come ad un costume depravato ed abominevole connesso con l’adorazione di altre divinità e di altri idoli, nel contesto di un culto che era sempre più corrotto dalle usanze locali dei popoli pagani. In realtà, nulla impone di considerare questo “passaggio per il fuoco” un vero e proprio sacrificio cruento di infanti e di non considerare invece l’enunciato un modello metaforico iniziatico, come abbiamo osservato a commento dei miti greci di tentata immortalizzazione attraverso il fuoco. Sergio Ribichini, in un suo contributo specifico sulla natura e la funzione dei luoghi cultuali denominati tofet106, avanza dei dubbi sul valore cruento di questi rituali, che potrebbero piuttosto riguardare una semplice consacrazione o iniziazione. Riassumiamo di seguito le sue argomentazioni. Non solo espressioni analoghe di passaggio sono utilizzate anche altrove nella Bibbia per indicare la consacrazione a Yahwé dei primogeniti, ma le antiche traduzioni greche e latine del testo rendono l’espressione “far passare per il fuoco” con altre che chiaramente rinviano ad uno scenario iniziatico e non violento. Solitamente il rito viene inteso, in queste traduzioni, come un “far passare in mezzo”, “consacrare”, “offrire”, “porre al servizio di dio”, “purificare il proprio figlio portandolo attraverso il fuoco”. Come si è già avuto modo di notare, anche nel mondo classico al fuoco veniva sovente attribuito un ruolo di “mediatore”: passaggi attraverso il fuoco e bolliture erano considerati come abbiamo visto un mezzo simbolico, un modello mitico per ringiovanire gli esseri viventi o per assicurare loro l’immortalità.

105

Per citare alcuni dei passi, vedi Deuteronomio XII, 31 e XVIII, 10; Levitico XVIII, 21; Geremia VII, 31-32, XIX, 5 e XXXII, 35; Ezechiele XVI, 20 segg. e XX, 30-31 106 RIBICHINI 1987: 14-15

86

Per molto tempo si è creduto comunque che questo “Moloc”, di cui si trovano ampi riferimenti nella Bibbia, fosse il nome di una particolare divinità, destinataria del sacrificio. In realtà, così veniva trascritto nelle traduzioni greche e latine il termine ebraico mlk, che è sempre posto in relazione a questi presunti sacrifici di infanti, che si sarebbero svolti - almeno secondo 2 Re XXIII, 10 e Geremia XXXII, 35 nel luogo cultuale denominato “tofet” e situato nella valle di Ben-Innòm, a Sud di Gerusalemme. I massoreti curatori del testo ebraico dell’Antico Testamento vocalizzarono in modo volutamente peggiorativo il termine mlk come môlék, invitando a leggerlo con le stesse vocali di bôshét, cioè “onta”, “infamia” (come del resto accadde anche per il luogo di culto ad esso collegato, tpt in ebraico, vocalizzato tophet). Secondo una particolare interpretazione che è stata data in passato al termine, questo môlék sarebbe stato in origine, prima della vocalizzazione peggiorativa, un dio “mélék”, cioè un dio “re”. Gli autori però divergevano sul possessore di questo nome; alcuni infatti identificavano in lui Yahwé stesso (ad esempio Robertson Smith), altri vi vedevano invece una divinità canaanita (Lagrange). In seguito però, in territorio punico - quindi fenicio - furono fatte delle importanti scoperte, che sembravano attinenti alla questione e che apportarono in effetti nuovi elementi per valutare la natura del Moloc biblico. Esse misero in discussione l’esistenza di una divinità con questo nome nel culto cananeo, dimostrando invece l’esistenza, nella lingua punica, di un termine mlk, vocalizzato “molk” e avente chiaro valore sacrificale. Furono infatti portate alla luce numerose stele recanti delle iscrizioni che contenevano tale termine, isolato o abbinato ad altre locuzioni. Con il procedere delle scoperte si rese sempre più chiaro che esso riguardava in qualche modo un voto, un’offerta, e che i principali

interessati

erano

gli

infanti,

anche

se

questi

non

erano

necessariamente le vittime di un sacrificio umano.

87

Già fra il 1870 e il 1880 furono trovate sulla collina di El-Hofra, presso Costantina, delle stele; vi si leggeva la parola mlk in due diverse espressioni, mlk’mr e mlk’dm. Nel 1930 un’altra importante scoperta riaprì la questione: si trovarono infatti a ‘Ngaous altre stele, recanti

iscrizioni redatte in latino, che chiarivano il

significato del precedente ritrovamento; si parlava infatti di un sacrificio denominato “molchomor”, che era un sacrificio di sostituzione per la vita di un bambino. Dunque anche il mlk’mr della stele di Costantina si chiarì come un sacrificio sostitutivo di un agnello per la vita di un uomo. Il significato dell’altra espressione, mlk’dm, resta invece tuttora incerto, sebbene taluni l’abbiano definito come un sacrificio umano, senza sostituzione. Sulla natura di questi sacrifici molk molto si è discusso; le iscrizioni sulle stele, infatti, non dicono molto sullo svolgimento del rito. Nel 1935 O. Eissfeldt, in un celebre opuscolo107, stabilì per primo un collegamento fra il mlk delle iscrizioni puniche e quello ebraico, fino ad allora ancora inteso come il nome di una divinità, proponendo di riconoscergli un valore genericamente sacrificale. I dati biblici contribuirono così, insieme con quelli delle fonti classiche greche e latine, a fornire una particolare interpretazione dei riti fenici e punici, riti “semitici”, praticati in svariati territori dell’Africa settentrionale, ma anche della Sicilia e della Sardegna. Qui infatti si sono trovati numerosissimi tofet, cioè aree “sacre” a cielo aperto, contenenti stele in pietra, con figurazioni e iscrizioni votive, ma anche urne cinerarie con ossa cremate di bambini e di piccoli animali, e oggetti cultuali di vario tipo. Per lungo tempo, sulla base del ritrovamento di queste urne, delle testimonianze bibliche sul “passaggio nel fuoco” dei bambini, e delle numerose fonti classiche, che parimenti attribuivano ai Fenici e ai Cartaginesi la pratica 107

EISSFELDT 1935

88

del sacrificio umano, in particolare infantile, si è ritenuto che questa fosse la vera, e unica, funzione del tofet, cioè che si trattasse di un’area preposta al sacrificio di infanti. A questa conclusione, infatti, sembravano portare l’analogia fra il “passaggio nel fuoco” dei bambini nel corso di riti molk descritto nei testi veterotestamentari, il ritrovamento di numerosissimi resti cinerari di bambini nelle urne, le iscrizioni sulle stele che facevano un ambiguo riferimento al coinvolgimento di questi ultimi nel rito, ma soprattutto le affermazioni degli autori greci e latini. In particolare, una notizia di primaria importanza nell’interpretazione dei riti sacrificali cartaginesi, è dovuta ad un autore di età augustea, Diodoro Siculo (XX, 14). Egli riferisce un particolare rito, compiuto dai Cartaginesi in un momento storico critico: l’assedio da parte di Agatocle. Credendo che la loro sventura fosse dovuta all’ira di Baal, giacché essi avevano smesso di immolargli i propri figli e sacrificavano invece dei bambini acquistati appositamente, per placare il dio fecero precipitare in una fossa infuocata dalle mani di una statua bronzea, definita come una statua di Kronos, più di duecento fra i figli delle famiglie più nobili. Anche Plutarco (De Superstitione, 13), nel I secolo d.C., ricorda che i Cartaginesi sacrificavano i loro figli a Kronos e che coloro che erano senza figli li acquistavano dai poveri come se fossero degli animali. Il cristiano Tertulliano, che possiamo considerare fondatore della patristica latina, assicura che in Africa si immolavano pubblicamente fanciulli a Saturno interpretazione latina del greco Kronos - fino al tempo del proconsolato di Tiberio, e aggiunge che ancora ai suoi tempi si compiva segretamente questo “sacrum facinus” (Apologetico IX, 2-3). Nella Teogonia di Esiodo Crono Kronos è il figlio castratore e il padre cannibale, ma non bisogna dimenticare che egli è presentato nelle Opere e i giorni come il dio più antico, il dio dell’età dell’oro e così è interpretato più tardi e nella tradizione romana dove si presenta 89

come Saturnus - Saturno.

Non dimentichiamo quindi il coinvolgimento di

questa divinità in una dimensione nettamente preattuale. Tuttavia anche Filone di Biblo, nel passo già citato riportato da Eusebio di Cesarea (Praeparatio Evangelica 1, 10), ricorda l’antico costume fenicio del sacrificio dei più cari dei figli nei casi di grande pericolo. C’è dunque chi, sulla base di queste e altre testimonianze, attribuisce fondatezza storica alla presenza di sacrifici di infanti nel mondo fenicio108. In particolare, quanto meno fino al 1987 - anno in cui sono stati pubblicati due studi innovativi, che proponevano conclusioni simili, di Sabatino Moscati e Sergio Ribichini109 - questa era l’opinione corrente negli studi: i semiti, fenici e punici, sacrificavano bambini agli dei per propiziarsene il favore, specialmente in casi di pericolo o calamità. Si aggiungeva che le vittime erano bruciate, dopo essere state uccise o per essere uccise, e che il rito era stato importato in area fenicio-punica dall’“oriente”, dal momento che ne parla a più riprese l’Antico Testamento. Le ossa di animali rinvenute nei tofet sarebbero state riferibili solo a pratiche tardive di sostituzione. Tuttavia, negli ultimi anni, sulla base dei nuovi ritrovamenti archeologici e delle più accurate indagini osteologiche, nonché della più recente critica delle fonti, si è reimpostato il problema. Come si è detto, si è fatta strada negli studi una nuova posizione, che ridefinisce la funzione dei tofet punici non più come il luogo votato al sacrificio sistematico dei bambini, ma piuttosto come un luogo cultuale dallo statuto complesso, che fungeva piuttosto, fra l’altro, da necropoli infantile.

108

In realtà le testimonianze, al di là dei controversi dati biblici, riguardano i soli luoghi dell’espansione fenicia in Occidente, sicché questa pare essere piuttosto una caratterizzazione autonoma della religione punica. Come si vedrà, infatti, circa l’eredità orientale della pratica, sono stati avanzati numerosi dubbi sulla presunta equivalenza fra il rito biblico del passare per il fuoco e la fenomenologia del molk nel mondo fenicio d’Occidente. Vedi XELLA 1981: 17 Una diversa posizione è quella di Garbini, per cui invece il sacrificio in questione ebbe in effetti origine in Fenicia verso l’inizio del I millennio a.C. sulla base di un apporto egeo-anatolico. Poi la pratica scomparve dalla madrepatria, mentre proseguì e forse si sviluppò nelle colonie occidentali. GARBINI 1981: 29-42 109 RIBICHINI, Il tofet e il sacrificio dei fanciulli, Sassari, 1987; e MOSCATI, Il sacrificio punico dei fanciulli: realtà o invenzione?, Roma, 1987

90

Di questo parere sono i due eminenti studiosi della civiltà fenicia già citati, Ribichini e Moscati, che in un loro contributo hanno riepilogato la situazione degli

studi

sulla

questione110.

Le

loro

posizioni,

benché

elaborate

indipendentemente, convergono in gran parte; i due studiosi infatti concordano sulla necessità di ridimensionare la portata delle testimonianze antiche, per lo più tendenziose e viziate da scopi propagandistici e politici, in funzione anticartaginese e anti-pagana (per quel che riguarda gli autori cristiani). Non solo i dati vetero-testamentari sulla religione fenicia sono molto tendenziosi111, ma, come ricorda Ribichini112, anche gli autori antichi che affrontano l’argomento, dimostrano di non averne affatto una conoscenza diretta. Le loro testimonianze sono divergenti su più fronti. Sulla stessa età delle vittime in realtà non c’è accordo, e solo raramente le vittime sono indicate come dei bambini, mentre non mancano indicazioni su adolescenti o anche adulti di età ben superiore. Per quel che riguarda il luogo, nessuna fonte indica l’esistenza di aree sacre riservate all’immolazione dei fanciulli, quali avrebbero dovuto essere i tofet. L’unico punto su cui sembra esserci un certo accordo riguarda le circostanze del rito, a cui si sarebbe fatto ricorso in circostanze eccezionali e di estrema gravità per tutti. Dunque, anche volendo attribuire un valore storico a queste testimonianze, è chiaro che esse trattavano piuttosto di sporadiche “uccisioni rituali”, comuni del resto a moltissime civiltà antiche, e non di veri e propri sacrifici umani, inseriti nella pratica cultuale, e tanto meno di infanti. Le “uccisioni rituali”, riferite dalle fonti classiche, non hanno comunque legami diretti né con il rito dell’olocausto di fanciulli, né con l’area cultuale del tofet, né hanno mai per destinataria una figura identificabile con la dea punica Tanit, che è invece indicata nelle stele, insieme a Baal Hammon, quale destinataria dei riti molk. Ribichini inoltre rileva che a queste due divinità

110

MOSCATI – RIBICHINI 1991 A questo proposito vedi SOGGIN 1981: 81-88 112 RIBICHINI 1987 111

91

pertiene un carattere tutt’altro che sanguinario e crudele: Tanit, infatti, avrebbe piuttosto i caratteri di una grande e benefica dea, preposta alla fecondità della donna e alla crescita dei fanciulli; Baal Hammon, spesso identificato con Kronos o Saturno, ne condividerebbe il vigore, la saggezza e la benevolenza, più che la ferocia - anche se, ribadiamo, Kronos è il padre cannibale di un’età preattuale. Inoltre, nota Ribichini, se l’eccezionalità e il valore comunitario dell’immolazione rituale caratterizzano gran parte degli episodi riportati dalle fonti classiche, regolarità e forma privata contraddistinguono invece le dediche rinvenute nei tofet. Esse commemorano in genere sacrifici celebrati in ringraziamento, in supplica o in adempimento di un voto, e paiono legate a bisogni individuali. Sembra evidente dunque che i riti che avevano luogo nel tofet non dovevano avere nulla a che fare con quelli testimoniati dagli autori antichi. Le stele inoltre non parlano con evidenza di fanciulli sacrificati; anzi, le formule usate paiono indicare che il sacrificio molk fosse un sacrificio di sostituzione per la salute o la salvezza di qualcuno. I fanciulli sembrano essere i principali beneficiari del rito: la loro incolumità veniva affidata alle divinità Tanit e Baal Hammon mediante il rito molk. Questo poteva essere un rito legato alla gravidanza e ai pericoli della prima infanzia e consisteva in una consacrazione del bambino agli dei protettori in una sorta di “rinascita” culturale. A ciò si aggiunga che dalle recenti analisi osteologiche è emerso che le ossa appartenevano per lo più a dei feti o a dei neonati, dunque a soggetti che non avevano ancora acquisito il loro status definitivo nella società, non essendo ancora stati sottoposti ai necessari riti di passaggio. Nonostante le molte ambiguità non chiarite, la conclusione di Ribichini, e di molti altri studiosi, è stata dunque che il cosiddetto “tofet” fosse piuttosto una necropoli infantile, preposta ad accogliere i bambini, ancora esclusi dalla società degli adulti, perché defunti prima di aver subito i riti necessari all’ingresso in 92

essa, e conseguentemente votati alle divinità con un rito specifico. Tuttavia il tofet era più di questo: doveva essere anche il luogo del culto a quelle due divinità, Tanit e Baal Hammon, in quanto preposte alla sfera del parto, della nascita e delle morti precoci. Vi si sarebbero dunque conservati i piccoli defunti ancora non iniziati - cioè non accolti nell’ambito dei riconosciuti dalla famiglia e dal gruppo - ma anche mantenuto il culto delle divinità protettrici. I riti assicuravano ai bambini deceduti un oltretomba tranquillo e garantivano ai sopravvissuti la protezione divina. Probabilmente il tofet aveva a che fare anche con i riti iniziatici concernenti i fanciulli, relativi alla loro crescita e al loro inserimento nella società. Inoltre il culto degli dei del tofet si metteva in rapporto con la sorte ultraterrena di quanti morivano precocemente. Allo stato attuale, tuttavia, il dibattito è aperto e ci sono ancora molte incertezze, per cui non è stata data ancora una risposta definitiva al problema. L’interpretazione sacrificale dei riti compiuti nel tofet è ancora infatti proposta da molti studiosi. E’ stata anche avanzata un’ipotesi, che gode fra l’altro di un certo credito, per cui l’infanticidio rituale sarebbe stato praticato da Fenici e Cartaginesi come mezzo per il controllo della crescita demografica. Tuttavia si è spesso ribattuto che una tale teoria appare inverosimile per un mondo, come quello antico, in cui il tasso di mortalità infantile doveva essere assai elevato; in questo contesto, ovviamente, la scelta di sacrificare dei bambini sani sarebbe stata controproducente, del tutto irrazionale. Molto meglio si attaglia, all’alto tasso di mortalità infantile, l’ipotesi che definisce il tofet come una necropoli infantile, deputata all’accoglimento, appunto, dei numerosi bambini nati morti o deceduti in tenera età, benché il tofet fosse certamente molto più di questo. Tanto meno appare fondata l’opinione corrente, per cui il sacrificio del tofet corrispondesse ad un voto passato, fatto da coppie che non riuscivano ad avere figli, o a cui era nato un figlio morto, di sacrificare il primo bambino che fosse loro nato e che fosse in salute. Di fronte infatti ad una situazione così critica, 93

non si riesce a comprendere come una coppia che finalmente abbia raggiunto il proprio scopo, quello di avere un bambino nato in perfetta salute, lo possa sacrificare per adempiere ad un voto fatto in passato113. Tuttavia, come si è detto, il dibattito è ancora aperto e ci sono ancora moltissime incertezze, tanto è vero che si è assistito persino, in tempi non troppo remoti, ad un “ritorno” del dio Molek. L’ipotesi, che ripropone l’interpretazione del mlk biblico come teonimo - e in particolare come nome di una divinità che esigeva sacrifici umani - è stata infatti proposta da G.C. Heider in una monografia del 1985114 e ripresa poco dopo anche da uno studio di J. Day115. L’opinione corrente oggi, comunque, appare essere quella che tende a negare la realtà della pratica dell’infanticidio rituale presso il mondo fenicio. Anche se non mancano, come si è detto, opinioni contrarie, Grottanelli rileva l’esistenza di un’attuale tendenza negazionista e sottolinea che tuttavia esiste, anzi “appare centrale, ed è talvolta chiaramente espresso, un sottofondo ideologico nel modo che hanno di accostarsi al problema tanto i moderni negatori quanto i moderni assertori della realtà del sacrificio umano.” 116

3.2 – IL “MITO” DELL’INFANTICIDIO RITUALE NELL’ACCUSA AGLI EBREI Il sottofondo ideologico a cui si è alluso ha le sue esemplificazioni. Campione in tempi recenti di una lettura ideologica, che tendeva ad avvalorare la realtà del sacrificio “a Moloc”, addirittura attribuendolo agli ebrei stessi anziché ai fenici, fu certamente il filosofo e grafologo tedesco Ludwig Klages, sul cui antisemitismo si è molto discusso117. Grottanelli, nel suo excursus sulle concezioni sacrificali del Novecento, si sofferma in particolare su una sua opera, Der Geist als Widersacher der Seele 113

Una critica dell’interpretazione che vede l’infanticidio rituale presso i cartaginesi come mezzo di controllo demografico è in RIBICHINI 1987: 44-45, e in MOSCATI – RIBICHINI 1991: 20-21 114 HEIDER 1985 115 DAY 1989 116 GROTTANELLI 19991: 56 117 In particolare, una polemica sull’antisemitismo di Klages è testimoniata da due articoli, pubblicati entrambi nel 1997, di S. BARBERA e G. MORETTI

94

(“Lo spirito come avversario dell’anima”), che Klages pubblicò fra il 1929 e il 1932. Il testo comprendeva infatti un capitolo, Sul significato originario del sacrificio, molto interessante per il valore che veniva attribuito al sacrificio umano. In una prospettiva nettamente irrazionalista, e nel contesto di una rivendicazione della priorità delle ragioni dell’anima e “della sfera vitale” rispetto a quella “spirituale”, il filosofo si soffermava sul valore “cosmico” del sacrificio umano. Esso avrebbe permesso, nel suo pensiero, di trasformare quella che era la semplice “catastrofe del morire e dell’essere partorito” in un nuovo “ritmo cosmico”, quello del trapassare e del risorgere. Così viene espresso questo principio nel passo citato da Grottanelli: “Soltanto se il morire rassomigliava al trapassare elementare, e l’essere partorito al sorgere elementare, il morire si presentava nella luce di un processo in cui un nuovo divenire poteva accendersi tramite il ritorno in forma rinnovata di ciò che è stato. In quali modi ciò sia raggiungibile,e se in assoluto venne mai completamente realizzato dall’uomo qualcosa di così grandioso, resta da vedere; è sufficiente che un modo fosse l’offerta della divinità dell’anima attraverso il sacrificio delle immagini reali del dio. Nel brivido della fine, che era esperito dalla vittima e partecipato dai presenti, la morte svaniva e l’immagine del demone nuovamente nascente si ergeva dalle profondità di un morire trasformatosi completamente in trapassare.”118 Il sacrificio delle “immagini reali del dio”, dunque, preludeva alla sua rinascita, gli restituiva la vita, trasformando finalmente la morte in un semplice trapasso. La sostituzione, nella prospettiva del filosofo tedesco, poteva rappresentare un “ingentilimento” dei costumi, ma non doveva necessariamente essere attuata. E così il filosofo esaltava in particolare i riti sacrificali del popolo azteco, presso cui - secondo una apparentemente almeno documentata tradizione - venivano offerti indistintamente esseri umani o immagini sostitutive della divinità, e i due tipi di offerta non erano distinti. Se il sacrificio degli Aztechi realizzava pienamente, nella prospettiva di Klages, il modello cosmico da lui

118

GROTTANELLI 1999²: 93-94

95

descritto, non si poteva però dire altrettanto di un altro genere di sacrificio umano, quello da lui definito come “molochitico”. Con questa espressione, e con un rovesciamento significativo, Klages attribuiva al popolo ebraico quei riti di sacrificio infantile, che nell’Antico Testamento erano in realtà stigmatizzati e attribuiti al “Moloc” fenicio. Questi sacrifici molochitici erano definiti, dal filosofo tedesco, come riti “orribili”, offerti ad una divinità, Moloc, che era altrettanto palesemente denigrata come “uno spiacevole idolo che si nutre di bambini”.119 Nella prospettiva di Klages, questo sacrificio, contrariamente al modello del sacrificio umano, così come era praticato, ad esempio, dagli Aztechi120, era un sacrificio ostile alla vita. Il concetto di “molochismo”, a più riprese proposto da Klages, si connotava infatti come una tendenza distruttiva, una caratteristica costitutiva insita nel sangue della cosiddetta “razza” ebraica. Questo principio distruttivo era dunque concepito come una caratteristica anzitutto “biologica”, così come lo era il principio cosmico, insito altrettanto naturalmente nel sangue degli ariani. Klages stesso riprendeva da Schuler, l’altro cosiddetto “cosmico di Monaco” insieme a Klages stesso e Wolfskehl, il concetto di “Blutleuchte”, “splendore del sangue”, sottolineando che in questa parola-chiave si compendiava “una valutazione completamente nuova, per quei tempi, del sangue come sostanza che decide dell’impronta dell’anima.”121 Dunque l’azione, anche sacrificale, in questa prospettiva biologica, era chiaramente già determinata dalla natura delle “sostanze razziali” contenute nel sangue. Veniva così accettata come “stabilita” una netta gerarchia che poneva la razza germanica (per Klages) o quella romana (per Schuler) ai vertici, quella ebraica chiaramente agli antipodi. Sulla base di questa opposizione, dunque, gli ariani rappresentavano il principio cosmico, quello edificante la vita vera, 119

GROTTANELLI 1999²: 95 Sul sacrificio umano degli Aztechi si è pronunciato, in termini di risposta ad un fabbisogno alimentare e a dei condizionamenti ambientali, M. HARRIS in due suoi testi: vedi HARRIS 1981 (1977) e 1990 (1985). 121 BARBERA 1997: 31 120

96

immediata, e creatore per eccellenza, gli ebrei invece il principio disgregatore, distruttivo,

cioè,

appunto,

secondo

l’espressione

usata

dai

Cosmici,

“molochitico”. Questi principi si applicavano anche alla definizione delle tipologie del sacrificio: quello ariano era inteso come cosmico, quello ebraico come anticosmico, distruttivo. In questo modo il filosofo tedesco si avvaleva del discorso sul sacrificio umano, nella fattispecie di bambini, secondo uno schema consueto che fu, come si vedrà, per secoli riferito agli ebrei, ma anche ad altri gruppi minoritari, religiosi e non. Tuttavia, quello che pare straordinario e peculiare della prospettiva klagesiana, è che non è tanto il sacrificio umano in sé che caratterizza negativamente il popolo ebraico, ma piuttosto è la natura stessa degli ebrei a rendere distruttivo un atto che, invece, in Klages, era almeno potenzialmente inteso come creatore e fonte di vita. Questo discorso del tutto particolare trovava in realtà le sue fonti in due pensatori. Anzitutto, Klages faceva certamente riferimento a Eugen Düring, che non solo nella Judenfrage aveva già ricollegato la “corruzione ebraica” ad una determinazione biologica, ma aveva già fatto riferimento anche al cosiddetto “molochismo”. Anche questo personaggio, del resto, coinvolto nel clima antisemita di caccia all’ebreo conseguente al caso di Damasco122, faceva ugualmente riferimento alle supposte “orge omicide” che avrebbero caratterizzato i culti ebraici. Ma Klages dovette ispirarsi anche a Georg Friedrich Daumer, oggi noto più che altro per essere stato amico e corrispondente di Feuerbach. Quest’ultimo in particolare ne ricordava in una lettera le “fantasie malate”: Daumer infatti aveva tentato di dimostrare l’esistenza di riti di antropofagia nella religione ebraica e cristiana. Barbera123 cita una lettera scritta proprio a Feuerbach, in cui Daumer sosteneva di aver scoperto nel Nuovo Testamento tracce evidenti dei riti 122 123

A questo caso è dedicato il testo di JESI 1993 BARBERA 1997: 39-40

97

sanguinari degli ebrei: essi avrebbero ucciso dei fanciulli per preparare con il loro sangue il pane consacrato. Questi riti non sarebbero stati estranei neppure alla stessa religione cristiana. Il motivo del sacrificio umano, e in particolare quello avente per vittime degli infanti, era del resto assai frequente e tipico di un certo tipo di discorso, usato a più riprese per screditare gruppi avversi. Si è già visto, con Grottanelli, che un sottofondo ideologico soggiace in genere ad ogni tentativo di negazione, così come a quelli di asserzione, sulla realtà della pratica del sacrificio umano, e che la negazione si articola secondo una strategia, che, fra l’altro, attribuisce tendenzialmente questo rito agli “altri”. Proprio in virtù della sua non praticabilità rituale nelle culture storiche dell’occidente, il sacrificio umano, e soprattutto quello che ha come vittime dei bambini innocenti, diviene il mezzo ideale per screditare gruppi o personaggi avversi. In particolare, quest’accusa diventa il mezzo ideologico di una propaganda mirante ad affermare determinati valori, costumi, o la superiorità della propria religione, mediante un discorso che fa apparire i valori, i costumi, o la religione altrui come barbari o disumani. In questo frangente assume appunto un particolare valore l’accusa non solo di praticare sacrifici umani, ma nella fattispecie quella di uccidere ritualmente dei bambini. Con questa accusa, che abbiamo definito come un discorso “mitologico”124, sono stati certamente colpiti nella storia gli ebrei e le donne, quelle donne che spesso sono state imputate, nell’età moderna, in processi di stregoneria125. Non ne furono esenti, comunque, altre minoranze non esclusa quella cristiana delle origini.

124

JESI 1993 Sulla stregoneria si rimanda ai testi ormai classici di BONOMO 1985 (1959), GINZBURG 1989 e al celebre Malleus Maleficarum di INSITOR - SPRENGER 1977 (1486-1487). Si veda anche B.P. LEVACK 1990 (1987); M. DOUGLAS (ed.), 1980 (1970); H.R. TREVOR – ROPER, 1969; K. THOMAS 1971 125

98

Nel mondo greco e romano l’accusa di sacrificare esseri umani fu rivolta a più riprese a popoli barbari (Sciti, Egiziani, Fenici…), ma anche a personaggi interni scomodi, quelli che erano considerati in qualche modo come dei sediziosi, dei nemici dell’ordine. Grottanelli, nel suo articolo sulle ideologie del sacrificio umano, ripercorre le tappe di quest’attribuzione a quelli che erano considerati in particolare i nemici dell’ordine romano126. Il caso più celebre è forse quello di Catilina, al quale veniva attribuita, da parte della fazione avversa, l’esecuzione di sacra orrendi, fra i quali anche il sacrificio umano abbinato agli estremi esiti del cannibalismo. Varie sono le testimonianze a questo riguardo: secondo Sallustio (De coniuratione Catilinae XXII), Catilina avrebbe fatto bere ai congiurati sangue umano misto a vino per legarli a sé in un atroce patto; Plutarco, invece, nella Vita di Cicerone (X, 4), ricorda, a proposito dei congiurati corrotti da Catilina, che essi “si scambiarono numerosi pegni di fedeltà: arrivarono addirittura ad uccidere un uomo e a mangiarne le carni”. Ma l’accusa più grave è forse quella mossa da Dione Cassio (XXXVII, 30, 3), in cui compare, appunto, il motivo topico dell’uccisione di un bambino e del conseguente pasto cannibalico per suggellare un patto. Secondo questa testimonianza, infatti, il sovversivo avrebbe fatto uccidere un pais, avrebbe fatto giurare i più autorevoli dei suoi seguaci sulle sue viscere e con essi avrebbe mangiato gli spalanchna. Meno noto è l’altro caso, ricordato ancora da Grottanelli127, dell’imputazione attribuita ad un altro “nemico dell’ordine romano” - o almeno come tale veniva presentato dal suo avversario Cicerone. Nell’orazione In Vatinium (13-15), questo tribuno della plebe, un pitagorico che - sempre a detta di Cicerone amava dirsi dotto per i propri particolari costumi, è accusato di tutte le nefandezze e fra queste di aver praticato “inaudita ac nefaria sacra”. Fra questi sacra spicca l’accusa di aver evocato le anime degli Inferi, ma anche quella, 126 127

GROTTANELLI 19991: 47-52 GROTTANELLI 19991: 47

99

altrettanto nefanda, di “puerorum extis deos manis mactare”, cioè di “onorare gli dei Mani con le viscere di fanciulli”. La variabilità e flessibilità di applicazione di questo modello d’accusa difficilmente dimostrabile ha vasta documentazione. Gli stessi Cristiani delle origini dovettero sovente difendersi dall’accusa di infanticidio rituale, che, unita a quella di incesto, serviva a convalidare uno stereotipo della cristianità improntato all’empietà e alla pratica di riti percepiti come orrendi. Era questa dunque una modalità di discredito assai diffusa nella polemica contro i singoli oppositori politici così come contro gruppi minoritari, religiosi e non. Che gli stessi Cristiani fossero accusati di ogni nefandezza – e fra queste spicca appunto l’accusa di sacrificare bambini – è testimoniato da numerosi passi di autori cristiani, in cui è evidente la necessità di difendersi da un tale capo d’accusa128. Così Tertulliano, alla fine del II secolo, rovescia le accuse tradizionalmente rivolte contro la nuova religione sugli accusatori stessi dei cristiani, i pagani. I capi d’accusa tradizionali, come si è detto, sono anzitutto quelli di praticare l’incesto e l’infanticidio rituale: “Siamo gli uomini più scellerati, voi dite, perché ci macchiamo di infanticidio, ci nutriamo delle carni delle vittime immolate e, dopo il banchetto, commettiamo l’incesto con la complicità di cani che rovesciano i lumi e, quasi lenoni nelle tenebre, ci risparmiano la vergogna della più ampia delle libidini. Questo, da sempre, si dice di noi…” Apologetico VII, 1-2 Poco dopo, l’apologeta si preoccupa di smentire tale diffusa convinzione, facendo appello alla stessa natura dell’uomo, che al di là delle differenze religiose, impedisce la praticabilità di un atto tanto atroce (Apologetico VIII). Infine, l’ultima confutazione è un rovesciamento dell’accusa ai danni dei pagani stessi, che forse possono concepire una tale atrocità, quella di cui accusano i 128

Sull’accusa di infanticidio rituale e di cannibalismo ai cristiani, si veda anche HENRICHS 1981: 224-232

100

cristiani, in quanto ne sono essi stessi colpevoli. Così Tertulliano ricorda, nel passo già citato (IX, 1-15), il presunto uso del “sacrificio” a Moloc: afferma che in Africa venivano pubblicamente immolati dei fanciulli a Saturno fino al tempo del proconsolato di Tiberio. Questi fece appendere i sacerdoti a degli alberi, come a tante croci votive, dunque l’uccisione stessa dei sacerdoti doveva essere in qualche modo intesa come un’uccisione rituale. Tertulliano ricorda anche che tale rito continuava ancora ai suoi tempi, seppure segretamente. L’accusa in questo caso è eticamente mirata: comunque non dissimile, benché non rituale, era l’uso, evidentemente non raro, di abortire129 o di sopprimere ed esporre i bambini. Tali costumi al contrario erano del tutto estranei e vietati ai Cristiani. Ancora, per Tertulliano, i pagani che si cibano delle fiere del circo e degli animali cacciati, alimentandosi con “carne nutrita di membra umane” (Apol. IX, 11), sono molto vicini ai banchetti cannibalici attribuiti ai cristiani; questi ultimi, al contrario, non si contaminano col sangue e sono dunque certamente estranei anche all’uso di sacrificare esseri umani, e ancor più, di nutrirsi delle loro carni. L’accusa ai cristiani di sacrificare esseri umani e di cibarsi delle loro carni doveva essere certamente dovuta, almeno in parte, anche ad un fraintendimento del simbolismo della commensalità eucaristica. Essa è palesemente intesa, infatti, come un atto cannibalico in un brano del libello Contra Christianos, generalmente attribuito al neoplatonico Porfirio, e citato da Grottanelli: “Molto discussa è la dichiarazione del Maestro (dei cristiani): “Se non mangiate la mia carne, e se non bevete il mio sangue, non avrete vita in voi”. Questo non è solo bestiale e assurdo, ma è assurdo al di là di ogni assurdità e bestiale al di là di ogni bestialità: che un essere umano, cioè, debba assaggiare carne umana e bere il sangue degli umani, membri della sua stessa specie, e così facendo abbia vita eterna!”130

129

Il tema dell’aborto ci porta su un piano molto delicato. Noi non entriamo nel merito delle varie “legislazioni” sull’aborto. In ogni caso nel Mediterraneo antico regolamentazioni esplicitamente antiabortive compaiono nelle cosiddette leges sacrae – leggi di purità – diffusesi a partire dal V secolo a.C. in parallelo alla “fondazione” delle leggi speciali della Torah. Sul tema dell’aborto, vedi M.J.H.M. POORTHUIS – J. SCHWARTZ 2000 e R. PARKER 1983. Vedi anche Reallexikon fur antike und christentum, voce “Abtreibung”. 130 GROTTANELLI 19992: 76

101

Il simbolismo eucaristico dovette dunque concorrere a suscitare, a causa del fraintendimento del citato passo di Giovanni (VI, 53)131 un clima di sospetto verso i riti praticati dai cristiani dei primi secoli, e ad accrescere le dicerie su riti segreti e orrendi, testimoniate da Tertulliano e contro cui reagirono numerosi padri della Chiesa. Nonostante l’impegno apologetico di Tertulliano, tali accuse continuarono ad essere attribuite ai Cristiani ancora a lungo, se è vero che ancora S. Agostino, nel IV-V secolo, deve difendersene. Un passo del De Civitate Dei (XVIII, 5354) testimonia evidentemente di un oracolo in greco, che doveva circolare a quei tempi, e che attribuiva all’apostolo Pietro l’uccisione di un puer anniculus, il suo smembramento e la sua sepoltura, per garantire alla setta cristiana la durata di trecentosessantacinque anni. I pagani, infatti, secondo la testimonianza del Padre della Chiesa, “immaginarono allora non saprei quali versi in greco che sarebbero stati fatti udire durante la consultazione di un oracolo. In esso considerano Cristo innocente di questa supposta profanazione, ma soggiungono che Pietro ha compiuto atti di stregoneria perché il nome di Cristo fosse venerato per altri trecentosessantacinque anni; quindi, terminato questo numero di anni il cristianesimo senza indugio avrebbe avuto fine. Questo è il buon senso dei dotti. […] Con esso (il “misfatto malefico” dello “stregone” Pietro), dicono, un bimbo di un anno fu ucciso, squartato e sepolto con un rito infame per permettere che la setta, a loro avversa, potesse essere in vigore per un lungo tempo non respingendo, ma superando con la pazienza tante orribili crudeltà delle grandi persecuzioni e giungere all’annientamento dei loro idoli, templi e oracoli sacri.” (De Civitate Dei, XVIII, 53-54) Significativamente,

però,

quando

la

religione

cristiana

era

ormai

pubblicamente riconosciuta e liberamente praticata - e la configurazione di un canone di ortodossia aveva moltiplicato le varie sette ereticali - lo stesso S. Agostino rivolge un’accusa simile ad una nuova minoranza religiosa, quella dei Montanisti: egli infatti li accusa di confezionare la propria eucaristia con il sangue di un puer anniculus, estratto dal corpo dell’infante e misto a farina. Se 131

“In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete la vita in voi”, Giovanni VI, 53

102

il bambino moriva - diceva l’autore cristiano - era trattato come un martire; se invece sopravviveva, era considerato un grande sacerdote: “Sacramenta perhibentur habere funesta: nam de infantis anniculi sanguine, quem de toto eius corpore minutis punctionum vulneribus extorquent, quasi eucharisitiam suam conficere perhibentur, miscentes eum farinae, panemque inde facientes: qui puer si mortuus fuerit, habetur apud eos pro martyre; si autem vixerit, pro magno sacerdote” (De Haeresibus 26: P.L. XLII). La polemica che si serviva dell’accusa di infanticidio per screditare i propri avversari, coinvolse anche due imperatori, Didio Giuliano e Valeriano, di cui si voleva evidentemente fornire una caratterizzazione negativa. In generale, il motivo dell’accusa di praticare sacrifici umani, e particolarmente di infanti, era certamente volto a caratterizzare negativamente, per varie motivazioni, degli imperatori in qualche modo “tirannici”. Secondo la testimonianza di Eusebio (Historia ecclesiastica VII, 10, 4), in particolare, l’imperatore Valeriano sarebbe stato indotto dal capo dei maghi egiziani a sacrificare dei bambini e a smembrare i loro corpi, come se ciò potesse portargli fortuna. In questo caso si assiste certamente ad un rovesciamento dell’accusa, essendo il dettaglio fornito da un autore cristiano su un imperatore persecutore di cristiani, qual era appunto Valeriano. Tuttavia, l’accusa fu mossa dai cristiani soprattutto ai membri delle varie sette ereticali - Catafrigi, Marcioniti, Carpocraziani, Borboriani, oltre ai già citati Montanisti - e divenne presto un topos della polemica antieretica e antigiudaica. Con i tempi mutavano infatti i bersagli dell’accusa, ma non i contenuti. C. Ginzburg ricostruisce in parte questo fenomeno, che dalle accuse ai cristiani dei primi secoli fino alla rappresentazione del sabba delle streghe nell’età moderna convalida uno stereotipo improntato alla negatività, per cui gruppi diversi, in vari momenti storici, vengono fatti oggetto di accuse infamanti e come tali perseguitati dai gruppi maggioritari e dominanti132.

132

GINZBURG 1989:43-61

103

Nel primo Medioevo, comunque, le vittime principali erano prevalentemente gli eretici. In un sermone pronunciato verso il 720, ricorda Ginzburg133, Giovanni di Ojun, capo della chiesa armena, scrisse che i Pauliciani134 si riunivano di notte per commettere incesto con le proprie madri e adorare il demonio; essi inoltre impastavano un’ostia col sangue di un bambino e la mangiavano e usavano anche passarsi di mano in mano un neonato attribuendo la dignità suprema della setta a colui nelle cui mani la vittima avesse esalato l’ultimo respiro. Una serie di elementi stereotipati, come l’incesto e l’infanticidio, già osservati, contribuivano dunque a formare un’immagine deformata dei riti praticati dalle varie sette ereticali. Allo stesso stereotipo si conformarono, in Occidente, dopo il 1000, molti discorsi su Catari, Valdesi e Fraticelli. Riti simili vennero attribuiti anche ai Bogomili, importante movimento di tipo gnostico con vistose scelte eversive antiautoritarie presente in Tracia (Bulgaria) a partire dal X secolo135, con vaste diramazioni fino alla Lombardia. Verso il 1090 il monaco benedettino Paolo di Saint-Père di Chartres affermò che gli eretici di Orléans, dopo aver dato alle fiamme i figli nati dalle proprie orge incestuose, ne raccoglievano le ceneri e le custodivano come i cristiani fanno con le specie eucaristiche; il potere di queste ceneri era grande, tanto che chi ne assaggiava non avrebbe più potuto abbandonare la setta. Pochi anni più tardi, Guilbert de Nogent riferì accuse analoghe agli eretici dualisti processati a Soissons nel 1114, aggiungendo un particolare che sembra provenire in qualche modo dal sermone di Giovanni di Ojun: egli disse che i membri della setta si 133

GINZBURG 1989: 49 Si tratta di una setta eretica gnostica e manichea, sviluppatasi in Armenia a partire dal VII secolo e poi diffusasi in Asia Minore. Scompaiono alla fine dell’VIII secolo per poi ricomparire nel movimento dei Bogomili. La dottrina centrale consiste in una svalutazione del mondo materiale e terrestre, creato da un demiurgo “inferiore” e “cattivo”, con conseguente squalifica delle autorità religiose e delle strutture sociali esistenti. 135 I Bogomili, così denominati dal nome del loro fondatore, il pope Bogomil, costituiscono un gruppo eretico legato a dottrine di tipo gnostico – dualistico, caratterizzato da forti potenzialità eversive, rifiuto delle gerarchie, della proprietà privata, ecc.. Permangono in Bosnia fino all’occupazione turca del 1463, dopo la quale sono riassorbiti dall’islam. 134

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sedevano attorno ad un fuoco lanciandosi l’un l’altro, attraverso le fiamme, un bambino nato dalle loro orge incestuose fino a farlo morire. Dopo questa data, l’accusa di omicidio rituale non venne più riferita ai membri delle varie sette ereticali e, per lungo tempo, divenne appannaggio esclusivo del discorso polemico anti-ebraico. Il tema dell’infanticidio rituale, che fino ad allora - assieme ad altre rappresentazioni stereotipe, quali quella dell’incesto - era stato utilizzato per screditare gruppi minoritari avversi, trova qui un nuovo sviluppo e si arricchisce di motivi nuovi. Quella che fu poi definita l’“accusa del sangue” - o “blood libel” - costituì una vera e propria “mitologia”136, che pervase l’Europa per quasi un millennio, dalle prime accuse all’inizio dell’XI secolo fino al recupero del tema in tempi recenti, durante il nazismo. Con l’espressione “blood libel” l’Encyclopedia Judaica indica: “the allegation that Jews murder non-Jews, especially Christians, in order to obtain blood for the Passover or other rituals.”137 Il primo caso noto, in realtà, risale a tempi molto antichi: secondo lo storico ebreo Flavio Giuseppe (Contro Apione 2: 89-102), Apione avrebbe raccontato che gli ebrei avevano rapito un greco e lo avevano fatto ingrassare per un anno, per poi sacrificarlo, spartirsi le sue carni, e fare contemporaneamente un giuramento di ostilità contro i Greci. Questo fatto sarebbe stato riferito al re Antioco Epifane da un uomo che stava per subire la stessa sorte e che fu trovato nel tempio ebraico e salvato dal re stesso. In realtà, un tale racconto doveva essere stato diffuso intenzionalmente per motivi propagandistici, per giustificare la profanazione del tempio da parte del re Antioco. Questo fu tuttavia un caso isolato: possiamo dire che l’“accusa del sangue” vera e propria nacque in ambiente cristiano nel XII secolo e portò da allora, e in 136

Così la definisce Furio Jesi, in un testo che tratta in particolare del caso di Damasco del 1840, quando i membri della comunità ebraica del luogo furono accusati della scomparsa di un missionario cristiano e del suo servitore. JESI 1993 137 Encyclopedia Judaica, vol. 4: 1120

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tutta Europa, a numerosi processi e massacri di ebrei che perdurarono nel Medioevo e nella prima età moderna, per essere poi ripresi dai nazisti. L’accusa del sangue raccoglieva alcuni motivi tipici della propaganda contro i gruppi religiosi minoritari già osservati - quale appunto l’accusa “centrale” di infanticidio rituale - ma trovò altresì una sua rielaborazione assai specifica sulla base di una rappresentazione, evidentemente distorta, della religione ebraica e dei suoi riti. Si fissò, così, gradualmente, un’immagine stereotipa e convenzionale, quella che vedeva gli ebrei assetati di sangue cristiano, e nella fattispecie del sangue dei bambini, il kinderblut, per praticare una serie di riti efficaci magico religiosi. Il motivo si basava non solo sul ricordo delle accuse di infanticidio perpetrate già nell’antichità - e che ora, secondo un meccanismo simile, erano rivolte contro la più consistente e persistente minoranza religiosa nel mondo cristiano, quella ebraica, appunto - ma anche su una nuova sensibilità religiosa. Il supposto martirio dei bambini cristiani, infatti, rievocava l’immagine del Cristo sofferente, assai cara alla religiosità popolare, soprattutto da quando, proprio nel XII secolo, la Chiesa propose la dottrina della transustanziazione. In concomitanza con l’affermazione di questa dottrina, infatti, crebbe enormemente fra le masse il sentimento di coinvolgimento emotivo in rapporto alla Passione di Cristo e all’Eucaristia. Questo contribuì al formarsi di un discorso che vedeva gli ebrei, già assassini di Cristo, rapire ed uccidere anche i bambini cristiani, nuovi martiri innocenti, vittime sacrificali della crudeltà degli ebrei come Cristo stesso lo era stato. Si diffonde così in Europa il cosiddetto Hostienfrevelverdacht, il sospetto della profanazione dell’ostia che coinvolge gli Ebrei, che come “deicidi” si sarebbero ora accaniti sul corpo di Cristo transustanziato. Una “leggenda” edificante su uno scempio dell’ostia-corpo da parte di un ebreo circolava a Parigi alla fine del secolo XIII: l’ebreo si fa dare l’ostia come pegno da una ragazza che vuole comperarsi un pezzo di stoffa, ma 106

quando l’ostia reagisce alle sevizie di aghi, coltelli, martelli, provocando una serie di miracolose apparizioni - luci, crocifisso, colomba - tutta la famiglia dell’ebreo si converte138. Ma poco dopo, tra il 1298 e 1336 le persecuzioni per profanazione dell’ostia - corpo del dio vivente e del dio bambino - fanno migliaia di vittime soprattutto nei paesi tedeschi139. Il discorso su quello che con termine moderno definiamo ritual murder attivava l’esperienza del sacrificio, tanto cara alla pietà popolare tardomedievale. Non a caso, infatti, le accuse sorgevano con particolare frequenza proprio nel periodo pasquale. In questa prospettiva, l’uccisione rituale dei bambini cristiani era percepita come una riattualizzazione del sacrificio di Cristo, e in effetti per molti non doveva essere difficile immaginare che gli ebrei “deicidi” facessero scorrere ancora il sangue “puro” cristiano, ora identificato con quello dei bambini. Per questo nuovo genere di misfatti furono proposte diverse interpretazioni. Jesi ne ricorda in particolare due140. La prima è quella fornita da Henrich Kormann all’inizio del XVII secolo in due scritti intitolati rispettivamente Miracula vivorum e Miracula mortuorum. L’uomo riferiva che, dopo la lavanda delle mani di Ponzio Pilato, gli ebrei fecero ricadere sulle proprie teste il sangue del Cristo; seppero poi che si sarebbero potuti riscattare solo mediante “sanguine cristiano”, ma intesero male l’espressione. Anziché capire che la loro salvezza dipendeva dal sangue di Cristo, cioè dalla loro conversione, dal battesimo e dall’eucaristia, presero ad uccidere ogni anno un cristiano per berne il sangue e riscattarsi dalla maledizione dei loro padri. Questa interpretazione collegava gli omicidi rituali degli ebrei, da un lato ancora con la condizione del popolo deicida, dall’altro invece con la magia e con i processi contro le streghe. Essa implicava infatti un uso “magico” del sangue cristiano come strumento di

138

Vedi la raccolta di P. BROWE edita significativamente nel 1938 F. LOTTER 1988: 533-583 140 JESI 1993:43-48 139

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salvezza, mentre d’altra parte le accuse di vampirismo e di antropofagia rituali accomunavano ebrei e streghe. Un’interpretazione simile risultava testimoniata anche da un altro testo, un manoscritto molto più tardo - risalente verosimilmente al XIX secolo - e rinvenuto nella Biblioteca Civica di Torino141, che riguardava un celebre caso di ritual murder, il cosiddetto “affare di Damasco”. L’autore affermava che negli ebrei la sete di sangue cristiano era suscitata da un equivoco compromesso. Da un lato, gli ebrei non vogliono rinunciare alla fede dei loro padri; dall’altro, però, si trovano di fronte a prove irrefutabili della divinità di Cristo, e sono persuasi che un orrendo equivalente dell’eucaristia, il cibarsi di sangue cristiano, possa permettere loro di accedere alla salvezza. In questo caso, benché simile al precedente, il prototipo è quello dell’ebreo inteso piuttosto come eretico che come mago, interpretazione certo più adatta al contesto della Damasco cosmopolita del 1840. In ogni caso, l’accusa nasceva evidentemente dall’analogia con il sacrificio di Cristo, cui si aggiungevano il fraintendimento del valore salvifico del suo sangue e il ribaltamento, in negativo, dell’eucaristia (il pane azzimo e il vino mescolati al sangue cristiano). Nella mentalità popolare, era diffusa la convinzione che gli ebrei avessero bisogno del sangue dei cristiani per un gran numero di riti, inseribili nel contesto liturgico, ma anche liberamente usati per interventi “magici”. Esso serviva loro, ad esempio, per preparare gli azzimi, per consacrare i rabbini, per curare le ferite della circoncisione e i disturbi della vista, per fermare le mestruazioni – che, sempre secondo le dicerie popolari, presso gli ebrei affliggevano tanto gli uomini quanto le donne – per prevenire attacchi epilettici, evitare il malocchio, fare amuleti, pozioni d’amore e polveri magiche…

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(Ms. B 11, in -4º, Relazione storica del P.G.B. da Mondovì M.A.C. contenente il compendio della vita del P. Tommaso…il processo verbale…le note spiegative ecc.)

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Questa rappresentazione si fondava sulla credenza che gli ebrei fossero degli abili maghi, anche se la loro “magia” in effetti fu connotata come essenzialmente demoniaca solo nell’Europa medievale cristiana142. Per quanto riguarda il riferimento al sangue, esso era dovuto probabilmente ad un’ancor più arcaica convinzione, diffusa tanto nel folklore ebraico quanto in quello cristiano, che gli attribuiva un potere peculiare. Nell’immaginario, il sangue era ritenuto un mezzo capace di guarire e allo stesso tempo di causare danni. Se per gli ebrei il sangue aveva uno statuto del tutto peculiare, in quanto era considerato essere la sede della vita, l’accusa cristiana di avvalersene per scopi magici o rituali era fondata su un grosso fraintendimento: proprio in quanto il sangue contiene la vita, la Torah ne vieta assolutamente l’uso come sostanza “contaminante”, imponendo la macellazione per dissanguamento (Levitico 17). Ciò nonostante, per un’interessante combinazione di credulità popolare e di interessi politici ed economici, le accuse proliferarono in tutta Europa per secoli, diffondendosi dall’Inghilterra e dalla Francia, attraverso le terre di lingua tedesca dell’Europa centrale, fino ad arrivare all’Europa orientale, in particolare in Polonia, nel XVI sec. Il numero delle accuse raggiunse l’apice fra il XV e il XVI secolo, soprattutto nelle terre di lingua tedesca dell’Europa centrale, ma il tema conobbe un particolare sviluppo anche negli ultimi due secoli: in particolare, la Russia fu lo stato che maggiormente perpetuò la lunga serie dei processi e delle accuse, ma anche nella Germania nazista l’accusa del sangue fu recuperata ed impiegata in piena forza per servire gli scopi del regime nel

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In effetti, a parte l’accusa infondata riguardante l’uso del sangue, gli ebrei avevano un ricco patrimonio magico, in parte connesso alla medicina popolare, in parte derivante dalla Cabala. Il giudaismo riconosce effettivamente presenze di schiere demoniche di vario tipo e il ricorso ad amuleti, talismani, formule magiche per proteggersi è ampiamente documentato. Vedi gli amuleti per difendere i bambini da Lilith nella cultura yiddish. HSIA 1988: 6-8. Per quanto riguarda specificamente la cabala, con questo termine ci si riferisce al misticismo ebraico elaborato a partire dal XII secolo, in cui assume particolare rilievo la componente magico – teurgica. Dopo l’espulsione dalla Spagna la proiezione dell’ebreo “mago” si potenziò ulteriormente. Vedi Encyclopedia of Religions (M. Eliade ed.), voce Qabbalah

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contesto della propaganda anti-ebraica. Furono così istituiti inchieste e processi nei territori occupati dai Tedeschi ancora nel XX secolo143. L’infanticidio, all’infuori dei legami familiari, costituisce comunque il motivo principale nelle accuse contro gli ebrei già nel medioevo. Il primo caso noto di “accusa del sangue”, è quello del supposto martirio di William di Norwich, avvenuto nel 1144. La “vittima” era un ragazzino cristiano di dodici anni, che, secondo l’accusa, sarebbe stato comprato dagli ebrei prima della Pasqua, torturato, come già Cristo lo era stato, e poi impiccato ad una croce. Il motivo della crocifissione e del martirio del resto era frequente, e si spiega con l’evidente equiparazione delle vittime degli ebrei a quella prima vittima, il Cristo, altrettanto ingiustamente sacrificata dagli stessi carnefici. Non a caso si dice che gli ebrei comprarono il bambino poco prima della Pasqua. Seguirono nel medesimo secolo altre accuse simili (a Gloucester nel 1168, a Blois nel 1171, a Saragoza nel 1182), che avevano sempre come vittime privilegiate bambini, a cui ebrei avrebbero estratto il sangue per poter praticare i loro riti segreti. Nel secolo successivo i casi di accusa del sangue triplicarono, dagli otto del XII secolo a ben ventiquattro, di cui quindici solo nelle terre di lingua tedesca144. Ai motivi già noti - quale ad esempio quello della crocifissione e della derisione delle vittime sul modello di Cristo, che non scomparve mai completamente - si aggiunse quello, nuovo, dell’insofferenza degli ebrei per tutto ciò che era innocente e puro. Si affermò cioè una concezione che vedeva gli ebrei odiare i bambini cristiani proprio per la loro innocenza, e in particolare li vedeva detestare il loro aspetto e il loro canto gioioso. Un secolo dopo, questo motivo compare ancora in un racconto di G. Chaucher, “The Prioress Tale”145.

143

Numerosi casi di accusa del sangue sono analizzati in H.L. STRACK, The Jews and Human Sacrifice, tr. ingl., London, 1909 144 Una tabella con i dati relativi alla frequenza e alla collocazione geografica delle accuse del sangue fra XII e XVI secolo si trova in HSIA 1988: 3 145 Encyclopedia Judaica, vol. 4: 1122

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Il motivo dell’accusa del sangue si diffuse soprattutto nel XV e XVI secolo, in particolare nel periodo immediatamente precedente la Riforma. Non furono estranee a questa straordinaria diffusione motivazioni di carattere politico ed economico; non di rado, infatti, queste vicende processuali si svilupparono nell’ambito di conflitti giurisdizionali, nelle aree di lingua tedesca, fra le autorità locali e il potere centrale degli imperatori. L’espulsione degli ebrei, tutelati dal regime centrale, era interpretata in molte realtà territoriali come una rivendicazione di autonomia e di libertà146. Notevole fu la responsabilità della autorità ecclesiastiche e politiche, che spesso approfittarono dei conflitti per motivi di interesse e non sempre presero posizioni inequivocabili a riguardo. Se, infatti, ufficialmente, la maggioranza delle autorità della Chiesa cattolica si oppose alla circolazione dell’accusa del sangue, in realtà i predicatori popolari e la diffusione dei vari racconti miracolistici sui presunti martiri tendevano ad avvalorare e a radicare sempre più nell’immaginario popolare l’immagine dell’ebreo assetato di sangue cristiano. Rilevante fu soprattutto la circolazione di numerosi racconti di carattere miracolistico riguardanti le piccole vittime, che spesso portarono alla loro canonizzazione, nonché alla fortuna, come mete di pellegrinaggio, di molte delle città in cui si sarebbero svolti i presunti delitti. Emblematico è l’esempio del piccolo Simone di Trento, un bambino di due anni e mezzo scomparso nel periodo pasquale dell’anno 1475, e che secondo l’accusa fu ucciso dagli ebrei del luogo147. Gli imputati furono sottoposti a tortura per confessare il delitto, e la legalità di quel processo fu più volte messa in discussione negli anni seguenti. Ciò nonostante, si attribuirono al piccolo “martire” innumerevoli miracoli e Trento divenne meta di pellegrinaggio. Il piccolo Simone fu beatificato dalla Curia. Questa beatificazione, e con essa dunque anche la corrispondente accusa del sangue, è stata cancellata dalla 146 147

Per un’analisi dei processi intentati agli ebrei per ritual murder fra il 1470 e il 1584 si veda HSIA 1988 HSIA 1988: 43-50

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Chiesa cattolica, insieme con le celebrazioni in onore del piccolo martire, solo nel 1965148. Il tema medievale, costruito letterariamente, sugli orrendi delitti compiuti dagli ebrei nei confronti degli innocenti bambini cristiani, così avvalorato e sfruttato da più parti per ragioni politiche, fu ulteriormente diffuso, nonché standardizzato, grazie all’invenzione della stampa. Con essa, infatti, il discorso sul ritual murder non solo si diffuse ugualmente fra elites e masse popolari, ma si fissò sempre più in una forma canonica. Una grande svolta si ebbe con la Riforma: essa contribuì notevolmente al declino della diffusione dell’accusa del sangue. La nuova attenzione per la lettura della Bibbia nel suo complesso portò alla rivalutazione dei testi dell’Antico Testamento, in conformità con la volontà di contestare tutte le superstizioni e le mistificazioni che si consideravano per lungo tempo alimentate dalla Chiesa cattolica, dai papisti. Il programma si inseriva nella volontà di decostruire il discorso magico in generale. Tutto ciò portò ad un generale “disincanto” delle masse che significò anche la fine della caccia alle streghe e la fine dell’accusa del sangue. Non tuttavia la fine della serie di sospetti sugli ebrei149. Una volta resa disponibile anche ai cristiani la conoscenza della natura dei riti ebraici e della loro religione, dissoltosi il mistero che regnava sulla Cabala, sull’uso del sangue e sui riti pasquali ebraici, il discorso sul ritual murder 148

Sulla devozione popolare nei confronti dei piccoli “martiri”, presunte vittime degli ebrei, e sull’atteggiamento delle autorità ecclesiastiche, vedi VAUCHEZ 1989 (1981): 99-107. L’autore mette in luce in particolare i meccanismi della devozione religiosa popolare, che tende a considerare come martiri e conseguentemente a “canonizzare” e venerare dei personaggi, soprattutto sulla base del contrasto fra sofferenze subite e innocenza. In questo caso i bambini assassinati con torture dagli ebrei sono un caso tipico. Tuttavia, sempre lo stesso autore rammenta la differenza fra questa rappresentazione popolare e la concezione ufficiale del martirio, che prevedeva l’accettazione consapevole della propria morte pur di affermare la propria fede e che non poteva certo riguardare questi bambini. 149 Per quanto riguarda la Riforma In realtà, lo stesso Lutero era fortemente ostile nei confronti degli ebrei e aveva anzi avvalorato più volte anche il discorso sull’uccisione dei bambini: i suoi attacchi sono vistosamente presenti in due sue opere, entrambe del 1543, Sugli ebrei e le loro menzogne e Sul nome ineffabile. Cambiavano però i termini della polemica: gli ebrei erano attaccati, insieme ai papisti e ai turchi, anzitutto in quanto rappresentanti della vecchia, “falsa”, religione, che tanto spazio lasciava alle superstizioni. In questo senso gli ebrei erano strenuamente combattuti proprio per il loro ricco patrimonio magico (vedi n.142). Nel discorso sull’uccisione dei bambini, Lutero, pur credendo che gli ebrei si macchiassero di questo delitto, riteneva altresì che lo facessero per odio e vendetta verso i cristiani, non per scopi magici e rituali. Le dicerie popolari a questo riguardo sarebbero state dettate esse stesse dalla superstizione.

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difficilmente poteva essere ancora sostenuto, ma la riforma non sradicò l’ostilità per gli ebrei; alterò piuttosto i

termini del discorso che li riguardava:

l’immagine dell’ebreo pericoloso come possibile assassino, “mago” in cerca di sangue innocente, fu gradualmente sostituita da quella dell’ebreo usuraio, un pericolo essenzialmente economico150. Anche una diversa situazione giudiziaria rese sempre più impraticabile il ricorso all’accusa di ritual murder contro gli ebrei. Non solo Carlo V aveva nel 1544 espressamente proibito ogni processo per uccisione rituale e ogni violenza ai danni di ebrei, ponendoli sotto la propria personale protezione, ma questi, forti ormai di un diverso sistema legislativo, potevano far appello all’Imperial Chamber Court, un nuovo organo giudiziario che garantiva il rispetto e l’applicazione delle leggi imperiali nei processi per uccisione rituale. Al sistema giudiziario di tipo ancora tardo-medievale - per cui a diversi gruppi sociali corrispondeva un diverso statuto giuridico - era ormai subentrato un sistema che si basava sulle leggi imperiali e recuperava molti principi del diritto romano. Sulla base di questo recupero, gli ebrei dovevano ora essere considerati dei cives, aventi gli stessi diritti di tutti gli altri cittadini dell’impero, in nome del principio dell’aequalitas. A partire già dal XVII secolo, dunque, nessun ebreo fu più condannato a morte nelle terre tedesche per accuse di uccisione rituale di bambini. L’accusa del sangue si spostò piuttosto, nello stesso secolo, nell’Europa orientale, dove conobbe una notevole diffusione; i luoghi più interessati furono la Polonia, la Lituania e la Russia. Tuttavia l’accusa tornò ad interessare ancora la Germania, e i territori sotto la sua influenza, nel corso del XX secolo. Nuovi processi furono istituiti a Memel nel 1936, a Bamberg nel 1937, a Velhartice in Boemia nel 1940. Il primo maggio del 1934, un quotidiano nazista, il Der Stürmer, dedicò all’accusa del sangue un numero speciale illustrato, in cui gli 150

Sul cosiddetto “antisemitismo”, L. POLIAKOV 1974-1994. Si vedano anche la voce “antisemitismus” in Handbuch religionswissenschaftlicher Grundbegriffe, Stuttgardt, 1988, pp. 495 ss., e D. PETROSINO 1999. Finita l’accusa del sangue, l’antisemitismo moderno si avvale di altre false accuse, che si concretizzano ad esempio nel celebre falso del manoscritto dei savi di Sion. C. DE MICHELIS 1998

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scienziati servivano palesemente gli scopi propagandistici nazisti in funzione anti-ebraica. Del resto, il discorso era ormai avvalorato dalla teorizzazione, avvenuta solo pochi anni prima in seno al gruppo dei già citati cosiddetti Cosmici di Monaco che lanciarono il tema del “molochismo”, inteso come caratteristica biologica insita nel sangue degli ebrei. Lo stereotipo dell’ebreo assetato di sangue infantile tornava così, dopo lunghi secoli, ad operare e a radicarsi nuovamente nell’immaginario popolare.

3.3 – IL SANGUE DEL BAMBINO Possiamo dire che il tema dell’”uccisione del bambino”, figlicidio o semplice esecuzione rituale, ha avuto un’importanza centrale nella “nostra” storia culturale. Si fondava anche su una particolare, e pericolosa, concezione del sangue di bambino ed in genere del sangue come mezzo potente, in grado di sortire effetti particolari151. Per quanto riguarda il patrimonio culturale europeo ricordiamo solo brevemente alcuni “tipi” folklorici e narrativi, desunti dal celebre compendio stilato da A. Aarne e S. Thompson. Di particolare importanza appare soprattutto un particolare motivo narrativo, che conferisce al kinderblut, il sangue di bambino, le caratteristiche di “rimedio potente” per molti mali. Nel ciclo dei racconti del “fido Giovanni”, il protagonista, un servo, dopo aver aiutato in vario modo il principe, suo padrone, a superare una serie di ostacoli e prove, resta magicamente pietrificato. L’unico modo che il principe ha per liberarlo dall’incantesimo e restituirlo alla vita è quello di versare il sangue del proprio figlio. Egli dunque uccide il bambino e restituisce la vita al fido Giovanni; il finale in qualche modo stempera questa macabra ed evidentemente

151

Non voglio affrontare qui il tema, assai complesso, dell’investimento di valore del sangue. Vedi Encyclopaedia of Religions (M. Eliade ed.), vol. 2, voce “Blood”

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troppo forte scena facendo ritornare magicamente alla vita anche il bambino “sacrificato”152. Similmente, in una variante novellistica conservata nel patrimonio italiano, un re cieco può riacquistare la vista solo spalmando sugli occhi il sangue della propria figlia153. Il kinderblut appare dunque, per un certo immaginario popolare, come il rimedio potente per eccellenza. Da notare che, negli esempi citati, è ancora il padre, o comunque la figura maschile, che agisce sacrificando la vita dell’innocente. In altri casi il motivo dell’infanticidio, o dell’aborto, si ricollega esplicitamente alle “cattive madri”, che non vogliono avere figli154 o che comunque rifiutano la loro funzione riproduttiva ed educativa155. Talora questo rifiuto è esplicitamente legato al motivo dell’onore e l’infanticidio è compiuto senza nessuna finalità di utilizzo “magico”. In molti racconti o leggende torna insistentemente il motivo dell’infanticidio per vergogna, per paura di sanzioni ecclesiastiche e della famiglia. Si tratta di un dato che in effetti doveva trovare precisa corrispondenza nella realtà dei fatti. Per lunghissimo tempo, e fino a tempi assai recenti, l’infanticidio è stato sovente collegato alla motivazione dell’“onore” della fanciulla. Il kindermord si inserisce comunque in un discorso più generale che ha attribuito per lungo tempo, e continua ad attribuire, un’efficacia particolare alla messa a morte e al sacrificio, in particolare quello dell’essere umano. Il fatto che poi la vittima sia proprio un bambino, quando non addirittura il proprio figlio, 152

AARNE – THOMPSON 516 Bibliografia sul tema in Enzyklopädie des Märchens, Handwörterbuch zur historischen und vergleichenden Erzählforschung , B 7, Berlin, 1993,1267 ss. 154 AA. TH. 755, “Sin and honour”: la moglie del predicatore magicamente impedisce la nascita dei suoi bambini. Suo marito, vedendo che lei non getta alcuna ombra, la caccia come colpevole fino a quando una rosa non spunterà da una tavola di pietra. Un altro uomo di chiesa accoglie la donna nella notte nell’edificio consacrato; i bambini riappaiono e perdonano la madre. Tornano tutti insieme a casa mentre dalla pietra spuntano le rose. 155 AA. TH. 765: “The mother who wants to kill her children”: è il padre che li salva, nascondendoli alla madre; ma dopo molti anni essi riappaiono e la madre muore di paura. Vedi anche AA. TH. 781: “The princess who murdered her children”: in questo caso è l’eroe - comunque un’altra figura maschile - che interviene; conoscendo il linguaggio degli uccelli, egli scopre dove si trovano le ossa delle piccole vittime e svela il fatto. 153

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amplifica ed accentua straordinariamente, insieme alla barbarie e alla violenza della rappresentazione, anche l’efficacia dell’atto stesso.

116

CAPITOLO 4: LA MESSA A MORTE NECESSARIA 4.1 – BURKERT, GIRARD E IL “GENE” DELLA VIOLENZA L’accusa del sangue e il tema dell’infanticidio si inseriscono bene nel discorso allargato sul sacrificio umano in generale, tema certo non scevro di implicazioni ideologiche. Queste sembrano aver assunto una notevole portata soprattutto nel pensiero di alcuni studiosi del XX secolo, che si sono variamente accostati al problema del “senso” dell’uccisione sacrificale. In particolare tutta una corrente di studi è andata nel senso di attribuire a questo gesto una particolare potenza ed efficacia, giungendo a rivendicare la necessità e il valore cosmico, se non cosmogonico, dell’atto di uccidere in sé e per sé. Nella riflessione storico religiosa e antropologica del ventesimo secolo il tema dell’uccisione o della messa a morte violenta, soprattutto quella raggiunta mediante lo spargimento e l’effusione del sangue, occupa, come abbiamo più volte sottolineato, una posizione centrale. Da più parti, infatti, studiosi e autori di diversa formazione e diversa inclinazione concordavano nell’attribuire in qualche modo all’atto violento una particolare efficacia. Si è fatta strada, in modo sempre più insistente, una pericolosa concezione dell’uccisione come atto in qualche modo “centrale” e fondante per l’esistenza umana. In svariate teorie che sono state proposte in questo secolo, infatti, il gesto violento appare come “l’atto” per eccellenza, quello che assicura la stabilità degli edifici e l’accesso agli alimenti fondamentali, che inaugura le istituzioni e le rende accessibili al gruppo, quello con cui si deve inaugurare ogni nuovo corso, che garantisce l’ordine, ma soprattutto la possibilità stessa del vivere in società. 117

L’uccisione si configura come atto necessario e vitale, quello da cui non si potrebbe in alcun modo prescindere senza dover rinunciare al tempo stesso anche a quegli elementi che costituiscono l’essenza stessa della cultura umana nella sua specificità. In questa linea si sono posti in particolare due celebri testi che riassumono, per così dire, un filone forte del pensiero storico-antropologico occidentale del Novecento e appaiono fondamentali per comprendere il problema della funzione fondante attribuita al sacrificio, inteso come messa a morte cruenta di una vittima scelta. Su questi testi vale la pena di soffermarsi: si tratta di Homo necans156, del grecista Walter Burkert, e de La violenza e il sacro157, del critico letterario René Girard. Pubblicate nel medesimo anno, nel 1972, le due opere, attingendo a fonti diverse e perseguendo scopi altrettanto differenziati, pongono ugualmente il problema delle origini violente di ogni fenomeno culturale, quindi anche religioso. Violenza che fonda e giustifica la possibilità stessa per l’uomo di vivere in società. In particolar modo inquietante appare l’affermazione della necessità di un collegamento fra la violenza e il “sacro”, principio affermato da Girard già programmaticamente nel titolo della sua opera, ma presente nondimeno anche nel pensiero di Burkert. Anzi, proprio il grecista Burkert definisce l’onnipresenza

del

sacrificio

cruento

un

“paradosso”,

un’“anomalia”

sconcertante158, uno “scandalo”159, riferendosi al fatto che al cuore stesso delle religioni e dei loro riti si ritrovi proprio l’uccisione, il versamento di sangue. Il sacrificio sarebbe solo l’espressione più palese di questa “violenza sacra”. Le prospettive e i metodi d’indagine dei due autori, come si è detto, sono molto diversi. Burkert approda alla sua teoria mediante un’analisi dei complessi mitico-rituali della Grecia antica. Recuperando la tesi di Karl Meuli

sulla

continuità fra rituali di caccia e sacrificio (da lui proposta nel 1946 nel saggio 156

BURKERT, 1981 (1972) GIRARD, 2000 (1972) 158 BURKERT 1987: 162-163 159 BURKERT 1987: 177 157

118

Griechische Opferbräuche), propone una lettura in qualche modo “biologica” dell’immolazione rituale, incentrata sul concetto di colpa come reazione umana ad una “prima uccisione”. Girard, invece, attinge da più fonti e deduce la sua “ipotesi scientifica” da un vasto repertorio di studi in primo luogo letterari, ma anche etologici, etnologici, nonché dalla conoscenza di miti e riti di varie culture. Attraverso un’analisi che spazia fra i fenomeni più diversi, egli individua nel meccanismo dell’unanime violenza indirizzata contro una vittima espiatoria il principio unico e universale che garantisce ogni forma di espressione culturale umana. Per Girard il concetto chiave è quello di “capro espiatorio”, espressione mutuata dall’episodio biblico narrato nel Levitico (16, 5-10), che riguarda il “caper emissarius” della Vulgata, ma piegato ad un significato nuovo. Notevoli sono infatti le differenze formali, intenzionali, come pure l’origine del sacrificio e la natura del capro espiatorio girardiano rispetto a quello biblico. Nel Levitico, infatti, si racconta il rito per il Giorno dell’Espiazione (Yom Kippur), quando Aronne, fratello di Mosè e sacerdote prototipico, prese due capri e tirò a sorte per deciderne il destino: uno lo offrì al Signore, l’altro invece lo inviò nel deserto come offerta ad Azazel, dopo aver imposto su di lui tutte le colpe del popolo d’Israele. Il “capro espiatorio” di Girard, invece, non è inserito nel quadro di un rituale: è la vittima casuale di un linciaggio ripetibile, sulla quale si scarica la violenza collettiva da lungo tempo accumulata in seno alla comunità ed in cerca di sfogo. Esso dunque condivide con quello biblico solo il concetto molto generico di un “trasferimento” di qualcosa che riguarda la collettività su un solo soggetto arbitrariamente scelto. In un caso tuttavia si tratta dell’insieme delle “colpe” del popolo, nell’altro delle tendenze aggressive dell’intera comunità. Le funzioni sono palesemente diverse. Se questo è il concetto-chiave intorno al quale si articola il pensiero di Girard, per Burkert, invece, si può dire che tutto ruoti intorno al problema del sentimento di “colpa” del gruppo stesso dal quale deriva l’aggressività. 119

Quest’ultima è descritta come un sentimento insito nell’uomo, da lui convogliato verso degli oggetti esterni, non appartenenti alla specie (ma poi in realtà anche verso gli appartenenti alla specie). L’uomo si qualifica rispetto agli altri primati in primo luogo in quanto hunting ape. La caccia implica infatti la cooperazione fra gli individui, la differenziazione di ruoli fra i sessi, la distribuzione della carne conquistata, l’uso del fuoco e delle armi, nonché la stessa postura eretta dell’uomo. Si tratta di quella che Burkert definisce “hunting hypothesis of hominization”160. E’ dunque la caccia che fa l’uomo nella sua specificità e che gli permette di soddisfare il bisogno naturale di nutrirsi; è attraverso la caccia inoltre che si istituisce la prima comunità umana. Konrad Lorenz per primo aveva osservato questo meccanismo, per cui dal comportamento aggressivo poteva facilmente generarsi un legame di solidarietà fra gli aggressori. In particolare, però, in Burkert la società appare retta non solo dall’aggressività, ma anche dalla condivisione del senso di colpa dell’uomo per quel gesto di uccidere, che doveva apparirgli tanto necessario quanto terribile. Il versare il sangue di un altro essere vivente, anche non umano, animale, in cui l’uomo in ogni caso si identificava, avrebbe prodotto infatti uno shock traumatico, legato ad un’inibizione biologica mirante alla conservazione della specie. Tuttavia, per nutrirsi, proprio questa inibizione naturale doveva essere superata attraverso dei dispositivi culturali: per far fronte al senso di colpa sarebbero stati inventati i primi riti, ascrivibili già ai cacciatori del paleolitico, consistenti per lo più in tentativi di negazione dell’atto compiuto e di restituzione simbolica della vittima, con probabili manifestazioni di “lutto”161. Atti di tale tipo sono descritti, secondo l’efficace espressione coniata da Meuli, come delle vere e proprie “commedie dell’innocenza”. In ogni caso, per

160

BURKERT 1987: 164 Le problematiche relative alla presenza del sacrificio, ma in genere della dimensione rituale, presso l’umanità preistorica hanno una vasta ed ambivalente letteratura. Ad esempio tutto un filone di ricerca tende a demolire l’interpretazione ritualistica di molti celebri ritrovamenti preistorici, come le serie di crani allineati di orsi Vedi CHIRASSI COLOMBO 1975 e R.B LEE – I. DE VORE 1968 161

120

elaborare il senso d’angoscia che ne conseguiva, all’atto di uccidere sarebbe stato conferito un valore “sacro”, “religioso”. L’uomo dunque diventa homo religiosus in quanto homo necans. Da questa esperienza preistorica, e per far fronte alle stesse esigenze, derivò poi il sacrificio vero e proprio, in cui la ritualizzazione dell’atto di uccisione aveva, ancora una volta, la stessa palese funzione di riparazione e di discolpa. E’ l’uccisione, lo spargimento di sangue, dunque, l’esperienza fondamentale e fondante del “sacro”. Ogni forma religiosa deve interpretarsi come la risposta al conflitto intimo vissuto dalla hunting ape delle origini, scissa fra la necessità naturale di nutrirsi e il trauma che necessariamente ne derivava. In questa chiave, secondo questa interpretazione, si dovrebbero leggere tanto i tentativi di restituzione dei cacciatori del Paleolitico quanto il sacrificio poi praticato nella Grecia antica: si tratta di ritualizzazioni atte a giustificare la messa a morte dell’animale per nutrirsi. Quella di Burkert appare dunque come una lettura, in qualche modo, bio(storico) antropologica: l’homo sapiens, infatti, per sua costituzione e per la sua (presunta) necessità di cibarsi di carne, non poteva non essere allo stesso tempo homo necans e in conseguenza, come si è visto, homo religiosus. Il sacrificio, rito fondamentale e centrale nella religione greca - ma non solo - è fatto derivare dalla caccia, attività necessaria a soddisfare il bisogno biologico di nutrirsi, come uno schema di reazione all’ansietà dell’uccidere. Del resto Burkert, in un altro suo testo più recente, intitolato Creation of the Sacred. Tracks of Biology in Early Religions162, individua per l’insieme dei modelli simbolici che possiamo definire “religione” delle matrici biologiche. La “religione” infatti è collocata nell’incerto confine fra biologia e cultura, in quanto ripropone “degli schemi biologici di azione, reazione e sentimenti”163. Essi esistono in natura già presso gli animali; l’uomo li ha però rielaborati attraverso la pratica rituale e gli insegnamenti verbali, allo scopo di superare 162 163

BURKERT 1996 BURKERT 1996: 177

121

situazioni d’angoscia. Programmi biologici più antichi ancora dell’homo sapiens si conservano dunque sviluppando caratteristiche particolari: essi vengono incorporati nella tradizione che definiamo religiosa allo scopo di superare e controllare angosce che sono tutte profondamente umane. Tale appare in modo evidente l’atto sacrificale: il rito, partendo da presupposti puramente biologici, li rielabora sul piano culturale in modo da controllare l’angoscia umana dell’uccidere. Biologica è infatti la necessità di cibarsi, altrettanto biologica è allo stesso tempo l’inibizione ad uccidere un altro essere vivente; religioso e dunque biologico-culturale il ciclo di aggressione rimorso - compensazione, con cui l’uomo controlla l’angoscia e il conflitto mediante la ritualizzazione dell’atto traumatico. Si tratta, come si è detto, di un modo di reagire all’ansietà, volgendo quest’ultima in un controllo attivo della realtà mediante la ritualizzazione di comportamenti che hanno, in origine, radici meramente biologiche. Il comportamento rituale, in questo caso quello sacrificale, è anche prospettato da Burkert, in un altro suo testo164, in termini ancora socio-biologici, come una strategia, che nell’ambito della selezione di gruppo si è dimostrata di successo ed è stata dunque tramandata come proficua per l’evoluzione delle società. La ritualizzazione di situazioni traumatiche, come quella che ha luogo nel sacrificio, deve aver garantito all’uomo notevoli vantaggi ed essersi dimostrata funzionale al suo sviluppo. Nel già citato testo dedicato alla presentazione critica del sacrificio come modello rituale165, Cristiano Grottanelli rileva che, benché la teoria di Burkert derivazione del sacrificio dai rituali dei cacciatori del Paleolitico - possa incontrare delle difficoltà, tuttavia al grecista si deve riconoscere l’indubbio merito di aver messo in luce per primo il problema del “trauma sacrificale”, di quel senso di malessere diffuso che evidentemente appare legato all’uccisione. Esso sarebbe dimostrato da quella volontà di negazione, che è tanto palese nel mito di fondazione dei Bouphonia, letteralmente “Uccisione del bove”, 164 165

BURKERT 1987: 156-158 GROTTANELLI 1999²: 28-33

122

un’antica festa ateniese. Il complesso mitico rituale greco è scelto da Burkert come un tipico caso di “commedia dell’innocenza”. Il complesso mitico-rituale, giuntoci attraverso il De Abstinentia del neopitagorico Porfirio (2,10), che riassume però un testo più antico di Teofrasto, commemora il primo spargimento di sangue e con esso l’introduzione del sacrificio cruento e dell’alimentazione carnea nella polis ateniese166. Un contadino - non cittadino ateniese - Sopatro, indignato perché il suo bue da lavoro aveva disturbato un’azione sacra, in un moto d’ira uccise l’animale. Consapevole della gravità del suo gesto - nella situazione pre-attuale del tempo mitico ogni effusione di sangue era irreparabile e comportava un’insanabile impurità, per cui il colpevole non avrebbe più potuto far parte del gruppo l’uomo fuggì, ma una prescrizione oracolare - il solito intervento dal grande centro di Delfi - impose di richiamarlo e di ripetere simbolicamente l’uccisione a scopo di espiazione, abbinando tuttavia il rito ad una valutazione di tipo giudiziario. Al rito doveva partecipare l’intera comunità, Sopatro compreso, e tutta la comunità doveva rispondere della colpa. Così si fece, ma alla fine si condannò il coltello sacrificale, la machaira con la quale il bove era stato ucciso, che fu gettata nel mare. Ogni anno ad Atene si ripeteva ritualmente questa vicenda in occasione di un’antica festa in onore di Zeus. Il senso del complesso mitico-rituale è emblematico: si trattava di un estremo tentativo di negare, riparare e giustificare ritualmente quell’atto violento, che era tuttavia necessario per nutrirsi. E’ evidente dunque che l’uccisione dell’animale, in questo caso poi si parla del compagno dell’uomo nelle fatiche rurali, doveva essere percepita come un atto particolarmente empio (o almeno, di certo lo era nella lettura di un filone di pensiero ben presente nella cultura greca come movimento

di

margine,

quello

definito

orfico-pitagorico)

e

doveva

accompagnarsi ad un notevole senso di disagio.

166

CHIRASSI COLOMBO 1994 (1983): 91-94

123

Il malessere avvertito nell’esecuzione del sacrificio cruento pare ugualmente dimostrato anche da un’altra usanza, quasi sempre presente nei riti sacrificali ordinari dei Greci, la ricerca di un “assenso” della vittima, prima di procedere alla sua uccisione. Questo gesto, così come i vari tentativi di restituzione e di rinnovamento, che Burkert osserva nei vari complessi mitico-rituali greci, testimonierebbe di un tentativo di negare la morte o quanto meno di renderla funzionale in una prospettiva che la veda necessaria per riaffermare la vita, in un contesto di rinnovamento. E’ per questo che i tre momenti fondamentali del sacrificio individuati da Burkert, preparazione, atto “indicibile” e restituzione, trovano una particolare espressione nelle feste di dissoluzione e rinnovamento che avevano luogo in Grecia al termine dell’anno. In ogni caso i Bouphonia testimoniano parallelamente, oltre che il disagio dello spargimento del sangue, anche il potere fondatore che è attribuito a questo stesso gesto che pur suscita orrore. Anche se qui ci troviamo nell’ambito puramente mitico, infatti, l’uccisione del bue, benché percepita come sacrilega (o forse proprio per questo), è detta essere all’origine di aspetti importanti della vita umana: fonda l’alimentazione carnea dell’uomo, prima non consentita, e poi ammissibile solo in seguito all’uccisione sacrificale167, nonché l’essere cittadini, il vivere politicamente. La vita politica è infatti fondata con la partecipazione dei cittadini alla “colpa”, cioè all’uccisione del bove da lavoro, compagno dell’agricoltore168. Marcel Detienne, grecista, antropologo e storico delle religioni, mette giustamente

in

luce

come

la

pratica

sacrificale

in

Grecia

rinvii

contemporaneamente alla pratica alimentare e a quella politica: nessuna alimentazione carnea poteva aver luogo senza sacrificio e nessun potere politico poteva essere esercitato senza offerta sacrificale: tutte le attività più importanti della città, infatti, dovevano essere sancite da questo rito e dal conseguente 167 168

DETIENNE 1982 (1979): 7-10 CHIRASSI COLOMBO 1994 (1983): 91

124

pasto comune. Erano chiaramente in rapporto al tessuto politico e alla gerarchia sociale anche le modalità di spartizione della vittima sacrificale: ad Atene, una volta prelevati i pezzi di prima scelta, cioè la porzione particolare accordata a coloro che avevano un “onore” o una “dignità” particolari, il resto era oggetto di una divisione egualitaria169. In questo caso dunque l’uccisione sacrificale - lo spargimento di sangue - si collega direttamente alla sfera non di un sacro inteso in modo assoluto, il “sacro”, ma di un “sacro” che organizza ed è organizzato dalla dimensione politica . Girard, rispetto a Burkert, rispetto a Detienne, si spinge oltre, riconducendo esplicitamente qualsiasi forma di espressione culturale, dal potere politico a quello giudiziario, dal teatro alla filosofia, all’atto violento, fino al punto di affermare “l’unità, non solo di tutte le mitologie e di tutti i rituali, ma della cultura umana nella sua totalità, religiosa e antireligiosa, e questa unità delle unità è tutta quanta sospesa a un unico meccanismo sempre operativo perché sempre misconosciuto, quello che assicura spontaneamente l’unanimità della comunità contro la vittima espiatoria ed intorno ad essa”170. L’idea centrale del testo di Girard, infatti, è che la violenza insita in ogni società umana, che porterebbe naturalmente alla sua distruzione, possa essere domata solo se canalizzata da tutti i suoi membri, uniti, contro un unico capro espiatorio. Nell’ipotesi girardiana, infatti, la violenza appare come un fatto che non si può in alcun modo neutralizzare, in quanto connaturata all’essere umano. Riassumiamo qui i termini estremi dell’ipotesi girardiana: si può solo opporre alla cattiva violenza, indifferenziata e dilagante senza controllo all’interno della comunità, una violenza “buona”, perché regolata e diretta in genere contro un oggetto in qualche modo esterno e quindi sacrificabile, di solito un animale, altrimenti dei soggetti comunque marginali, come gli schiavi, i prigionieri di guerra, il pharmakos nella Grecia antica, oppure il re nelle monarchie sacre africane studiate da Frazer, o altro. 169 170

DETIENNE 1982 (1979): 18-19 GIRARD 2000 (1972): 416

125

Per Girard la “necessità” del sangue nasce dal fatto che il conflitto tra gli uomini è inevitabile, giacché l’essere umano, per sua natura, è portato a desiderare solo quanto gli altri desiderano. Questa natura mimetica del desiderio lo porta inevitabilmente ad entrare in conflitto con i suoi antagonisti, e dal momento in cui la violenza si scatena, essa si propaga come un contagio in una catena infinita di vendette e ritorsioni, tale da minacciare l’esistenza stessa della comunità. Questo rischio può essere evitato solo a patto che la comunità intera ritrovi la propria unità nel polarizzare tutte le tensioni aggressive contro un unico oggetto, accettato da tutti e, come si è detto, ritenuto “sacrificabile” perché marginale e quindi non suscettibile di vendetta. La sua uccisione, o comunque la sua espulsione, permette di porre termine al contagio violento e di restaurare l’ordine e la pace, tanto che il “capro espiatorio”, in principio considerato malefico e terrificante, si configura come salvatore. Questo meccanismo continua ad essere ripetuto (e tuttavia è sempre misconosciuto) in ogni società da “tempi immemorabili”, da quando gli uomini una prima volta ne avrebbero sperimentato casualmente l’efficacia. Secondo Girard, infatti, se la violenza unanime contro la vittima espiatoria è condizione necessaria per l’esistenza di una società, proprio una prima uccisione spontanea, avvenuta in tempi remotissimi, dovette essere all’origine di ogni ordine culturale. Tutti i riti e i miti conosciuti, tutte le forme culturali a noi note, anche profane, da allora, anche se non sempre esplicitamente, riattualizzano quest’atto fondamentale che portò una prima volta la pace nella società, per vivificare e rinnovare l’ordine culturale. La violenza contro il “capro espiatorio” sarebbe quindi l’evento fondatore per eccellenza, garante di qualsiasi forma culturale attuale e necessaria perché una qualsiasi società possa esistere. Secondo una lettura recente - e molto di parte - dei testi girardiani171, solo il Cristianesimo sarebbe riuscito a porre fine a questa prospettiva di eterna violenza, rivelando per la prima volta il meccanismo della vittima espiatoria. 171

COLOMBO 2002: 44-54 GIRARD 1987: 140-145

126

Benché correntemente si tenda ad interpretare la Passione di Cristo come l’ennesimo caso di sacrificio di un capro espiatorio, Girard tenta di dimostrare che non è affatto così. Già nell’Antico Testamento, infatti, i profeti iniziarono a ripudiare il culto sacrificale, preferendogli il dono di sé, cioè “l’amore, non i sacrifici, la conoscenza di Dio, non gli olocausti” (Osea 6,6). Tuttavia, sono solo i testi evangelici che portano a compimento definitivo questo processo: Gesù, infatti, non solo non è la vittima di una violenza spontanea e unanime (al contrario, egli è la vittima programmata delle autorità religiose e politiche), ma soprattutto smaschera il processo mimetico rivale dei suoi linciatori, rovesciando la vendetta in perdono e accettando liberamente di offrire se stesso per amore verso il prossimo e verso Dio. Girard aggiunge inoltre che la morte di Gesù non è mai definita come un sacrificio nei Vangeli, che negano la validità di qualsiasi sacrificio. Solo sulla base dell’Epistola agli Ebrei di Paolo i Cristiani avrebbero adottato questo termine per definire la morte di Cristo e, con esso, anche l’ideologia tipica dell’antica Legge, che attribuiva al sangue il potere di redimere, riscattare, purificare, ma nello stesso tempo il sangue, come abbiamo precedentemente osservato, era tabuizzato. Così, infatti, recita un passo emblematico dell’Antico Testamento (Levitico. 17, 11-12): “Infatti la vita dell’essere vivente è nel sangue e io la do a voi per espiare all’altare per le vostre vite; il sangue, infatti, in quanto vita, espia. Per questo ho detto ai figli d’Israele: nessuno fra voi mangi sangue e neanche il residente in mezzo a voi mangi sangue”. Conseguentemente, fra le varie tipologie di sacrificio elencate nel Levitico, è da annoverare quella dei “sacrifici espiatori”, necessari a purificare l’altare, e i luoghi santi in generale, e ad allontanare dal popolo l’impurità, la contaminazione procurata mediante i suoi peccati. Purificando l’altare, si credeva, il sangue sacrificale contribuiva in qualche modo anche a conservare il popolo in santità e dunque in comunione con Dio172. Nei Vangeli invece, secondo Girard, non si ha alcun sacrificio di questo genere, ma al contrario il 172

Dictionnaire de la Bible. Supplement, vol. 10: 1494-1497

127

rovesciamento della consueta tradizione sacrificale, con la vittima che offre spontaneamente se stessa, orientando per la prima volta la violenza sacrificale al servizio della libertà e dell’amore. Quindi i Vangeli, nella prospettiva girardiana, non possono essere letti come dei miti; al contrario essi sarebbero dei demistificatori di miti, giacché la prospettiva adottata non è qui quella dei persecutori, con l’attribuzione della colpa alla vittima, ma quella del perseguitato, di cui è ampiamente riconosciuta l’innocenza; non c’è dunque alcuna vittima espiatoria in senso stretto, se con “espiatorio” si intende che la vittima sia diversa dal colpevole. La

lettura

di

Girard,

appare

per

molti

aspetti

sbilanciata

nella

supervalutazione della “novità” cristiana173, e differentemente da quella di Burkert implica sì la necessità dell’uccisione, sacrificale o meno, di una vittima, ma al tempo stesso prevede anche la possibilità di un superamento del meccanismo vittimario violento. La differenza fondamentale riconosciuta dai due stessi studiosi, tuttavia, riguarda il momento stesso del “basic dark event”, la scena originaria: per Burkert si tratta non di un accadimento fortuito e isolato, ma di una pratica necessaria che si sviluppò con la caccia; per Girard, al contrario, sembra di avere a che fare con un generico avvenimento fondante che poi funse da modello per le ripetizioni successive. Per entrambi, pur nelle loro differenze, si possono rilevare numerose analogie con la scena originaria descritta da Freud in Totem e tabù174.

4.2 – L’UCCISIONE “ORIGINARIA” IN FREUD Anche per Freud una prima messa a morte è fondante. Un primo linciaggio spontaneo, quello del padre da parte dei figli nell’orda primitiva, fece sorgere 173

Ovviamente il modello rivoluzionario del magistero del Cristo rispetto alle regole di santità ebraiche è molto evidente ed è parte qualificante del monoteismo cristiano. L’identità cristiana si delinea sin dal principio in un rapporto dialettico rovescio rispetto all’ebraismo; compiuta la vecchia Legge, i cristiani sono invitati a pensare, e comportarsi, diversamente, in funzione del “nuovo patto”. 174 FREUD 2002 (1913)

128

infatti i due fondamentali tabù delle religioni totemiche, quelli relativi all’incesto e all’uccisione del totem, nell’ipotesi “storica” freudiana. Si postulava che un tempo i fratelli, cacciati dall’orda paterna, avessero ucciso e divorato il loro genitore, verso cui nutrivano sentimenti ambivalenti: da un lato egli era per loro un modello, dall’altro si opponeva ai loro desideri e alle loro esigenze sessuali, tenendo per sé le donne del gruppo. Dopo il gesto, terribile e memorabile insieme, i fratelli, placato il sentimento d’odio, sentirono l’esigenza di dar sfogo a quelli che erano stati gli impulsi affettuosi verso il padre. Si proibirono allora da sé quello che il padre prima impediva, cioè l’accoppiamento endogamico e incestuoso; inoltre divenne tabu uccidere l’animale totem, rappresentazione sostitutiva del genitore. Tutte le religioni successive al “totemismo”175 sarebbero altrettanti tentativi di reagire al dramma primordiale, che ancora non cessa di tormentare la coscienza dell’umanità: lo stesso dio delle religioni superiori, dice Freud, non è che una forma più avanzata di quel surrogato del padre, che all’origine era rappresentato dal totem. Dal senso di colpa e dal pentimento avrebbero avuto dunque origine le organizzazioni sociali, le limitazioni morali, le religioni. Come ammette lo stesso Burkert176, Freud, insieme con Konrad Lorenz, ha fornito il “common background” per i suoi studi come per quelli di Girard. E che il testo freudiano debba

avere notevolmente influenzato entrambi e

evidente. Con Freud, Burkert condivide il fatto che il “fenomeno religioso”e la società sono fatti derivare dalla “colpa” per eccellenza, un’uccisione sanguinaria, avvertita come traumatica e implicante la necessità di una riparazione. Su questa “colpa” poggia la società stessa e la possibilità della convivenza fra gli uomini; è dal pentimento conseguitone e dal bisogno di riparare che sono sorte tutte le religioni. 175

evidentemente inteso qui come lo stadio più “semplice” e più “primitivo” dell’esperienza religiosa in un ipotetica scala evolutiva, prospettiva del resto comune anche a Durkheim e Frazer e ormai definitivamente abbandonata. 176 BURKERT 1987: 171

129

Anche la teoria di Girard mostra vistose analogie con quella freudiana; in particolare l’omicidio originario è in entrambi l’esito inevitabile di un desiderio mimetico, orientato però in Freud verso una figura particolare, il padre; la sua uccisione da parte dell’insieme dei fratelli dell’orda riporta, come nel caso del meccanismo vittimario girardiano, la pace, e, come in quel caso, la vittima espiatoria diviene, in seguito all’uccisione, sacra, anzi addirittura divina. La differenza fra le due letture di Burkert e Girard, come si è detto, riguarda soprattutto la ricostruzione di questa scena originaria, benché Girard puntualizzi che anche quella da lui postulata non consista affatto in un avvenimento unico e storico, isolato, come quello freudiano, bensì in un fatto assolutamente ripetibile, un’occorrenza normale nella storia e nella preistoria dell’umanità177. In ogni caso, una lettura dell’uccisione come atto efficace, potente, in grado di generare e rigenerare, attraverso la sua ripetizione rituale, istituzioni vitali per l’uomo, è stata proposta più volte nel corso del XX secolo attraverso moduli e modelli diversi.

4.3 – LA MORTE DEL “DEMA” Di miti sacrificali - non di riti - si era occupato Adolf Jensen, nell’ambito dell’istituto di Morfologia culturale, fondato a Monaco dall’africanista Frobenius. Jensen divulgò tra antropologi, etnologi e storici delle religioni la conoscenza di una particolare categoria di complessi mitico-rituali, da lui raccolti durante una spedizione nella parte occidentale dell’isola di Ceram nelle Molucche e in Nuova Guinea, per i quali tuttavia trovò delle corrispondenze in numerosissime culture di tutto il mondo, dai popoli coltivatori “primitivi” ad alcune culture “superiori”, come quella greca, vedica ed egiziana. Ciò che avevano in comune culture così diverse era la presenza di miti di fondazione delle attuali condizioni

177

GIRARD 1987: 121

130

di esistenza incentrati sulla morte di una creatura delle origini, un essere che lui definì “dema”, adottando il termine usato dai Marind-anim della Nuova Guinea. La prima morte, la morte del dema, era caratterizzata dal fatto di non essere un semplice morire, ma di essere una morte violenta spesso seguita dallo smembramento del corpo, un atto gravido di conseguenze. Il momento dell’uccisione separa infatti idealmente un “prima” mitico, in cui vigevano diverse condizioni di esistenza, da un “dopo”, corrispondente al tempo storico e all’attuale stato delle cose. Dal corpo della vittima, infatti, uccisa in modo violento e smembrata, sarebbero sorti per la prima volta gli alimenti fondamentali per la sussistenza di quel dato popolo. Non solo dal momento della morte del dema si sarebbe dispiegata l’esistenza umana nella sua realtà biologica e culturale (la mortalità, la possibilità di generare, la caccia…); ma tutti i riti e le cerimonie di questi popoli coltivatori primitivi dovevano essere intesi, nella prospettiva di Jensen, come delle riattualizzazioni di questo divino accadimento primordiale tanto importante e commemorato dal mito. Emblematico è il caso del mito di Hainuwele, essere dema dei Wemali di Ceram: la fanciulla, nata straordinariamente da una palma, fu uccisa nel corso di una grande danza cerimoniale dagli uomini, gelosi del fatto che lei era in grado di distribuire grandi ricchezze. Questi uomini la fecero cadere in una fossa e la seppellirono nel corso della danza, ma il padre estrasse il cadavere, lo fece a pezzi e riseppellì le singole parti del suo corpo. Da quel terreno nacquero i bulbi, di cui principalmente si nutrono i Wemali; da allora gli uomini possono anche sposarsi e morire, cosa che prima non accadeva. Tutte le cerimonie, dai riti di iniziazione alla caccia alle teste al cannibalismo, ripetono in qualche modo la vicenda narrata dal mito e sarebbero incomprensibili al di fuori del loro legame con essa. Tutto quanto appare come indispensabile, dunque, trova il suo

131

fondamento in una mitica uccisione originaria, che viene quindi ripetuta, con funzione di rifondazione, mediante il rito178. L’interesse di Jensen era rivolto principalmente al mito, da cui era fatto derivare solo secondariamente il rito, come sua commemorazione, pur nella necessaria concatenazione organica dei due aspetti nel totale della vita religiosa di una società. Il tema del valore dell’uccisione come atto positivo in sé, del potere garantito dall’uccisione – anche a prescindere dal dema di Jensen – era comunque presente nel pensiero di vari intellettuali anche prima del Novecento. Grottanelli, nel suo testo Il sacrificio, ripercorre le tappe dello sviluppo di questa pericolosa concezione positiva della messa a morte, da Joseph De Maistre a Eliade a Klages a Bataille e Caillois179. L’iniziatore di una tale interpretazione è individuato in Joseph De Maistre, cattolico reazionario della restaurazione della Francia post-napoleonica, che già nel 1821, nelle Soirées de Saint Petersbourg, proponeva una visione della terra come un altare che deve essere perpetuamente bagnato dal sangue di tutti gli esseri viventi in un’immolazione infinita che avrà termine solo con “l’estinzione del male, fino alla morte della morte”180. Una tale prospettiva del resto appariva funzionale all’ideologia cattolica del pensatore, che vedeva in un tale sacrificio infinito la preparazione alle “meraviglie” della comunione cristiana, dunque alla passione e all’eucaristia. Se dunque il precursore dell’ideologia sacrificale intesa come fatto in sé positivo e potente era un uomo dell’Ottocento, fu però nel secolo successivo che il concetto di sacrificio, benché ormai secolarizzato, divenne predominante nel pensiero di molti intellettuali.

178

JENSEN 1952 (1948) GROTTANELLI 1999²: 8-10, 92-98 180 GROTTANELLI 1999²: 93 179

132

4.4 – LA VIA IRRAZIONALISTA: ELIADE E IL COLLEGIO DI SOCIOLOGIA In particolare il valore cosmogonico e l’efficacia attribuiti al rito sacrificale e allo spargimento di sangue in generale sono stati al centro della riflessione di numerosi studiosi nel corso degli anni Trenta. Grottanelli, nel suo saggio, prende in esame in particolare la posizione dell’intellettuale rumeno, noto e discusso storico delle religioni, Mircea Eliade, che nel Commento alla leggenda di Mastro Manole, scritto fra il 1936 e il 1943, definiva il sacrificio come gesto vivificante e salvifico. Grottanelli distingue i tre principali temi in cui questo pensiero si articola nell’opera di Eliade: -

sacrificio cosmico, inteso come ripetizione della creazione, avvenuta

mediante un sacrificio primordiale, e avente lo stesso valore cosmogonico; - valorizzazione della morte in sé; - sacrificio di costruzione come atto necessario a conferire stabilità e vita (ad esempio a ponti e monasteri in vari miti, come nella

leggenda di Mastro

Manole). Eliade appartiene a quel generale “movimento di rivalutazione esistenziale della religione”, come è stato definito da Ernesto De Martino in Mito, scienze religiose e civiltà moderna181, che si può definire sorto per effetto dell’influenza straordinaria esercitata dal famoso testo Il sacro di Rudolf Otto, pubblicato nel 1917. Vi si affermava non solo l’autonomia, ma il valore ontologico del “sacro”, inteso come il “tutt’altro” rispetto alla sfera dell’usuale e dell’ordinario, un’esperienza irrazionale ed ambivalente, che proprio per questo non poteva essere spiegata mediante il pensiero, ma solo esperita nella sfera emozionale e religiosa. In questo clima di rivalutazione del “sacro”, il sacrificio, sua manifestazione, non era ovviamente storicizzato o reso oggetto di critica: al contrario esso fu da molti vissuto emotivamente come un atto in grado di per sé di sprigionare energie, sortire degli effetti reali, riportare l’uomo ad una diversa 181

DE MARTINO 2002 (1962)

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modalità di esistenza, ad un mondo più pieno, più vitale e più vero, quello, appunto, del “sacro”. Tale prospettiva fu comune a gruppi dell’estrema destra e dell’estrema sinistra del tempo. Eliade fu, infatti, coinvolto in età giovanile nel movimento di estrema destra della “Legione dell’Arcangelo Michele”, caratterizzato proprio da un misticismo cristiano ricco di accenti sacrificali, tanto che, come afferma Grottanelli, esisteva una canzone legionaria nella quale il sangue dei martiri metaforizzava il cemento che rinsalda il muro della patria. Ma il tema, oltre ad essere sfruttato nell’ambito della cultura di destra degli anni Trenta, fu ugualmente al centro anche della riflessione di un altro gruppo di opposto orientamento politico, quello francese di Acéphale, che trovò espressione anche nel Collegio di Sociologia, facente capo a Georges Bataille e a Roger Caillois. Nel medesimo periodo, infatti, anche questi intellettuali irrazionalisti francesi prestavano la stessa attenzione ai temi del “sacro” e del sacrificio. Il Collegio di Sociologia sorse nel 1937, definendosi come una: “comunità morale, in parte diversa da quella che in genere riunisce gli studiosi e legata proprio al carattere virulento del campo studiato e delle determinazioni che man mano vi si rivelano”182: l’oggetto per sua natura “virulento” e “attivista” di tale attività era la “sociologia sacra”, cioè “lo studio dell’esistenza sociale in tutte quelle sue manifestazioni in cui si delinea la presenza attiva del sacro183”. I principali referenti del gruppo, come si è detto, erano Bataille e Caillois, entrambi mossi da uno spirito antidemocratico e antiborghese, decisi a ricreare, mediante la comunità elettiva o società segreta, “un sacro devastatore ed indiscusso” che, solo, poteva ancora garantire una forma di esistenza genuina e virile, non asservita; che solo esercitava un’attrazione istintiva ed irrazionale verso il massimo dispendio e la massima perdita di sé, e solo poteva ancora realizzare il senso vertiginoso della tragedia, l’esaltazione della “gioia della morte”. Questa società segreta, paragonata da Caillois al sacro sinistro, il sacro 182 183

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di trasgressione, corrispondente all’estasi parossistica e al massimo dispendio, doveva esercitare, come quest’ultimo, la funzione di un ringiovanimento della società “destra” e regolata184. In particolare, Bataille, sul modello del dispendio-dono, regola del potlatch praticato dagli indigeni del nord-ovest americano e studiato da Marcel Mauss, affermava la necessità del sacrificio come modo per sottrarsi alla miseria morale del mondo occidentale. Solo il massimo dispendio e la perdita smisurata, infatti, potevano ancora consentire di sfuggire alla realtà ordinaria delle cose, alla logica ormai imperante dell’utilità e del profitto, per ritrovare la libertà dell’individuo nel mondo, più genuino, del “sacro”. Tale pensiero è da Bataille esplicitamente espresso in una sua conferenza tenuta al Collegio nel 1938, Attrazione e repulsione II, in cui l’intellettuale giunge a identificare completamente il dispendio, che portato al suo massimo grado coincide con la morte, con l’unica possibilità di sopravvivenza per l’individuo e per la società: “La massima perdita di energia è la morte, che costituisce ad un tempo il termine ultimo del dispendio possibile e un freno al dispendio sociale nel suo insieme. Ma, senza libera perdita, senza dispendio di energia, non vi è esistenza collettiva. Non vi è neanche esistenza individuale possibile. Di conseguenza l’uomo non può vivere senza infrangere le barriere da lui stesso elevate contro il suo bisogno di dispendio, barriere che non hanno un aspetto meno spaventoso della morte. Tutta la sua esistenza, vale a dire tutto il suo dispendio, si produce dunque in una sorta di vortice tumultuoso dove sono in gioco al tempo stesso la morte e la tensione più splendente della vita”185. In un’altra conferenza ancora, tenuta nello stesso anno e intitolata Struttura e funzione dell’esercito, Bataille esamina nella fattispecie il ruolo del sacrificatore, ponendolo in antitesi con quello del soldato: per gli “uomini della morte militare”, infatti, la morte è solo un accadimento fortuito, mentre al contrario essa è la fatalità per gli “uomini della morte religiosa”. La conclusione è che:

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“l’uomo del sacrificio assegna alla morte un destino più grande. Per lui “c’è la morte” non è una semplice constatazione, più o meno spiacevole; occorre che ci sia la morte: la vittima, umana o bovina, deve perire; infatti l’esistenza – che è tragedia proprio in quanto esiste la morte – non può realizzarsi se la vittima non è soggiogata dalla sorte che le è capitata e avvinta fino allo stordimento dalla tragedia e dall’ineluttabile morte. Così il sacrificatore, e non già il soldato, può veramente creare un essere umano, giacché il sacrificio è necessario affinché sia pronunciata, rivolta a colui che esso affascina, l’unica frase da cui sarà fatto uomo: “TU sei tragedia””. Ancora un passo, questo, da cui traspare palesemente la cosiddetta “esaltazione della morte”, il “senso della tragedia”, che solo può ancora rendere veramente uomo l’uomo. La “gioia dinanzi alla morte” è anche il titolo di un’altra conferenza tenuta da Bataille, in cui egli descrive il senso di vertigine che prova l’uomo quando si trova “alle altezze della morte”, pari a “una sorta di potenza che si accresce”; questa gioia incita tutta l’esistenza umana alla grandezza, lo porta a scivolare fuori dalla limitatezza della sua persona nel mondo del “sacro”. Il risultato è che: “chi guarda la morte e si rallegra, già non è più un individuo soggetto alla putrefazione del corpo; è bastata infatti l’entrata in gioco della morte a proiettarlo lontano da sé […] Bisogna almeno una volta aver provato simile eccesso di gioia per sapere fino a che punto in esso si esprima la prodigalità feconda del sacrificio…”186 Una definizione in termini positivi della morte sacrificale, intesa come funzionale al rinnovamento necessario di una società, ma anche dell’individuo, e come unico atto in grado di appagare veramente l’uomo moderno, è presente più implicitamente anche nel pensiero di Caillois. Ne L’uomo e il sacro187, egli definì, sempre sulla scorta del testo di Rudolf Otto, i caratteri fondamentali del “sacro”, inteso come quel tremendum fascinans che attrae irresistibilmente l’uomo e appare necessario alla perpetuazione di una società. Da un lato, però, esso opera a questo scopo come “sacro destro”, o “sacro di rispetto”, mediante una serie di interdetti e proibizioni che garantiscono l’ordine naturale e sociale; 186 187

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dall’altro invece si configura come “sacro sinistro”, o “sacro di trasgressione”, necessario per rifondare periodicamente un tale ordine proprio attraverso la sua dissoluzione. E’ quest’ultimo l’ambito in cui si colloca la festa, momento “diverso” per eccellenza, massimamente coinvolgente, “parossismo di vita” di una società e regno stesso del “sacro” (che altrimenti si manifesta solo mediante gli interdetti, dunque in forma negativa). In questa occasione diviene possibile tutto ciò che altrimenti è vietato, perché la festa riattualizza quei tempi delle origini in cui tutto era ancora permesso, prima che le cose si fissassero nella loro forma definitiva. E’ appunto in questo caos, in questa dissoluzione, che si può rigenerare l’ordine delle cose altrimenti sottoposto a lento logorio. La festa così intesa, cui è strettamente legato il sacrificio, tuttavia, non è più ammessa nelle società complesse; per Caillois le vacanze, che apparentemente hanno preso il suo posto, hanno una natura completamente diversa e non sono in grado di appagare ugualmente l’individuo e rigenerare la società. Alla festa, dunque, secondo Caillois, corrisponde oggi per intensità e funzione solo la guerra, che appare dunque come il nuovo tempo del “sacro” ed è esaltata come una nuova specie di principio cosmico e fondatore. Come la festa, e dunque come il sacrificio rituale delle società tradizionali, a essa strettamente legato, la guerra è inevitabile e necessaria, perché rigenera la società salvandola dal logorio della pace e dal lento deperimento; essa introduce l’uomo in un mondo inebriante, in cui le sue azioni assumono un valore superiore. Dunque ancora la morte violenta, sacrificale, appare l’unica possibilità di salvezza per l’uomo occidentale contemporaneo, che ha ormai abbandonato la festa, intesa come simulacro, in cui la rovina dell’universo era solamente mimata, rappresentata, per assicurarne la rinascita periodica. In qualche modo, quindi, benché diverse, le teorie di Caillois e Bataille venivano a convergere nella necessità, avvertita da entrambi, di ricorrere alla sfera del “sacro”, e in particolare di quel sacro sinistro, spesso tremendum, per ritrovare il valore dell’esistenza al di là della miseria della realtà profana, 137

quotidiana. E proprio il sacrificio cruento parve loro, a un certo punto, la massima espressione di questo ideale, tant’è vero che i membri di Acéphale concepirono l’assurdo progetto di suggellare la loro fraternità mediante un sacrificio umano. Il rito alla fine non ebbe luogo, narra Caillois188, perché paradossalmente si riuscì a trovare una vittima consenziente ma non un boia. Tuttavia resta la testimonianza di come queste ideologie, tendenti ad assicurare un valore cosmico e in ogni caso certamente positivo, potente, all’uccisione violenta, poterono arrivare ad un passo dall’applicazione reale del sacrificio umano in un contesto intellettuale e nel centro della moderna Europa, Parigi. Il tutto può essere in parte spiegato se si tiene conto di quel movimento di rivalutazione esistenziale del “sacro” come valore assoluto e assolutizzante, in seno al quale, come si è visto, una valenza del tutto particolare ha assunto anche il tema della morte violenta e del sacrificio.

4.5 – LA SCUOLA STORICO-RELIGIOSA E IL CONTRIBUTO DI ERNESTO DE MARTINO La concezione del “ritorno indietro” al “sacro” è stata rifiutata, come noto, dalla scuola di Roma e nell’ambito di questa scuola perde centralità anche il tema sacrificale. Rifiutando la via irrazionalista e fenomenologica fino ad allora prevalente, infatti, gli storici delle religioni Raffaele Petazzoni prima, Angelo Brelich ed Ernesto De Martino poi, propongono una diversa linea interpretativa che trova come suo presupposto principale l’analisi del fatto religioso su basi rigorosamente storiche. Dove infatti i fenomenologi e gli irrazionalisti in generale si arrestano, cioè di fronte all’esperienza del numinoso come un dato in sé, alla ierofania come dato ultimo non suscettibile di indagine critica, i 188

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sostenitori della linea storica si interrogano sulla genesi dell’oggetto religioso e sulle motivazioni che presiedono a una tale creazione culturale189. In questo contesto di razionalizzazione e “riduzione” dei fenomeni che possiamo definire religiosi al piano delle necessità e delle creazioni umane, anche all’atto sacrificale e violento doveva corrispondere una nuova prospettiva interpretativa. La scuola storica di Roma rifiuta infatti l’essenzialità necessaria dell’atto violento in sé, come era invece espresso dalle tesi sul sacrificio di Burkert e Girard. Il sacrificio come messa in atto mitico-rituale rimane comunque culturalmente importante, almeno sino a quando rimane importante, necessaria, la destorificazione come mezzo di sopravvivenza. Soprattutto De Martino si sofferma sulla validità e sull’importanza funzionale del nesso mitico-rituale come modello di destorificazione necessario per uscire da momenti particolarmente critici, non solo per la società ma anche per l’individuo. In questo senso il modello demartiniano potrebbe essere sfruttato come filo di possibile lettura per cercare di capire questa centralità ancora onnipresente della messa a morte nella tessitura del vivere. Esso potrebbe anche in qualche modo dare senso alle ricadute, nella cronaca attuale, in atti di violenza incontrollata, come risposta ad una crisi che non può più contare su modelli condivisi di risoluzione culturale. De Martino infatti ha non solo messo in luce i limiti sottesi al discorso fenomenologico e irrazionalista sulla natura del “sacro”190, ma ha proposto una nuova, organica, chiave di lettura del “senso” del dispositivo mitico-rituale e delle sue funzioni191. 189

Le tappe principali di questo confronto fra prospettiva storica e fenomenologica, attraverso l’analisi del pensiero dei tre studiosi - Petazzoni, Brelich e De Martino - sono ripercorse da M. MASSENZIO 1997: 23-73. 190 In particolare la polemica con Gerardus Van der Leew è al centro del saggio Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, DE MARTINO 1995: 47-74. Ma più in generale, una critica del “movimento di rivalutazione esistenziale della vita religiosa e del mito” è condotta in DE MARTINO 2002 (1962): 35-83 191 Il contributo specifico della riflessione demartiniana è anzitutto la definizione del “tutt’altro” come risposta dell’uomo ad un estremo rischio esistenziale, quello della “perdita della presenza”. Essa è definita come il bene supremo per l’uomo, in quanto consistente nella possibilità di “esserci” - non solo di esistere - al mondo, al di là

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Il dispositivo mitico rituale infatti appariva come lo strumento mediante il quale l’uomo poteva risolvere culturalmente la cosiddetta “crisi della presenza”, riportando le circostanze critiche della vita storica al piano rassicurante, perché metastorico, destorificato, del mito, ove tutto era già stato deciso una volta per tutte, tenendo pronta la ripetizione controllata del rito, se necessaria. La grande problematica che De Martino solleva riguarda proprio le sorti della civiltà occidentale contemporanea, ove un tale sistema protettivo non è, e non può più essere, attivamente operante come lo è nelle società tradizionali. Il cristianesimo stesso, infatti, ma più in generale l’intera tradizione giudaico cristiana, ha mediato per l’uomo proprio il valore della storia. La religione cristiana, infatti, come le altre poggia su una concezione del tempo che commemora ritualmente e ciclicamente il suo evento fondatore, che è un sacrificio, il sacrificio dell’uomo-dio; tuttavia un tale evento è posto proprio nella storia, e non fuori di essa. Come evento “storico”, dunque, esso non è fondante per sempre, ma inserito nel tempo che tutto può modificare. Ad una concezione per così dire ciclica, e dunque rassicurante, del tempo, è così subentrata per la prima volta una prospettiva che potremmo definire “lineare”.

della mera esistenza organica; la presenza è quindi ciò che qualifica l’uomo come agente nel mondo, come essere in grado di operare scelte e decisioni trascendenti il livello puramente naturale. Esistono tuttavia, secondo De Martino, particolari momenti critici nella vita di una comunità, ma anche di un individuo, in cui questa presenza è chiamata a rivelarsi e ad agire, e in questi momenti si fa più forte l’angoscia che essa si smarrisca, si alieni a se stessa, e che il soggetto finisca per “essere agito” da una realtà che non può più attivamente controllare. L’uomo perderebbe in questo caso quanto ha di più prezioso, l’“ethos del trascendimento”, cioè ciò che permette di “valorizzare” la realtà traducendola in forme di coerenza culturale. Di fronte alle contingenze imprevedibili della vita storica, il riscatto avviene per lo più nei modi di quella che è detta da De Martino la “destorificazione religiosa” o “destorificazione istituzionale”, e in particolare attraverso il dispositivo mitico-rituale proprio delle religioni. Essa infatti interviene sul “tutt’altro” della presenza alienata a se stessa e sulla destorificazione irrelativa, cioè sul ritorno irrelato e non controllato di un passato angoscioso. Di fronte al rischio estremo costituito della perdita della presenza, connesso all’imprevedibilità del divenire storico, cioè quando teme di “essere agito” e di subire passivamente la realtà angosciosa, infatti, l’uomo tenta di riprendere il controllo, identificando le contingenze della vita storica con il paradigma metastorico e rassicurante del mito. Nel mito, infatti, l’esito è già stato dato una volta per tutte, dunque basterà ripetere, mediante il rito, la situazione archetipica per garantirsi ugualmente un esito positivo. Dunque la ripetizione, attraverso il rito, dell’evento primordiale mitico, dall’esito assicurato, consente all’uomo di sfuggire all’angoscia della storia e di vivere in essa “come se” non lo facesse, in questo modo consentendogli tuttavia di far fronte alla crisi, di dedicarsi alle attività mondane, di ridischiudersi, attraverso il “simbolo”, al “valore”. L’alterità del “sacro”, pur ponendosi dunque negli stessi termini dell’alterità - in qualche modo negativa - della crisi della presenza, è invece, in quanto alterità istituzionalizzata e regolata, “terapeutica” e consente anzi di riaccedere proprio al mondo profano delle attività quotidiane.

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Ciò ha permesso una crescente “laicizzazione” dei costumi e ha permesso il costituirsi di quella coscienza storicistica che può guardare all’atto sacrificale come

simbolo religioso sempre più inattuale e anacronistico rispetto alla

coscienza dell’uomo occidentale contemporaneo. Tuttavia non è stata ancora elaborata una nuova risposta, consona ai tempi, che svolga le stesse funzioni che assolveva il dispositivo mitico-rituale nelle società tradizionali. E’ così che fra l’ancora attuale terrore della storia, l’impossibilità di recuperare quel tempo ormai perduto in cui non si era ancora dischiuso all’uomo il senso della storia e con esso l’umanesimo integrale, e la nostalgia delle protezioni tradizionali, è sorto e si è sviluppato nel secolo scorso il cosiddetto “movimento di rivalutazione della vita religiosa e del mito”. De Martino certamente ne riconosce i meriti, ma tuttavia rivendica l’inattualità e l’impossibilità del “ritorno indietro” al “sacro” e la necessità di elaborare nuove strategie di risoluzione della crisi. Questo getta ovviamente una nuova luce anche sul problema del sacrificio, se in esso si credeva di poter rivivere intensamente un rapporto col “sacro” inteso come tutto altro. Una volta ricondotta la ierogenesi, la costruzione del sacro come attività umana, la contemporaneità desacralizzata sembra non avere dispositivi dinanzi all’esplosione della violenza. De Martino stesso infatti riconosceva l’esistenza di ciò che da Freud fu definito “istinto di morte”, cioè di una cieca nostalgia del nulla e del caos risolventesi spesso in comportamenti distruttivi ed esplosioni di aggressività incontrollata. E’ questo “furore”, questa eversione fine a se stessa, che il dispositivo simbolico delle religioni ha sempre fronteggiato, in genere mediante una distruzione dell’ordine, attuata però nella cornice istituzionale e simbolica del rito e seguita dal ripristino e dalla rifondazione dei valori sociali e morali precedentemente distrutti. In questo modo l’inevitabile impulso distruttivo connaturato all’uomo e legato in particolare a determinate circostanze critiche, trovava la sua risoluzione nel piano simbolico del rito e non in quello, storico, 141

della realtà. Così attraverso i riti di “capodanno”, di iniziazione, ecc., le società tradizionali hanno sempre contrastato il rischio di riprecipitare nel caos e nella violenza incontrollata. Il dramma della società contemporanea occidentale è proprio quello di non conoscere più adeguati modelli di risoluzione culturale della crisi e di rischiare continuamente di ricadere nel caos e nella distruttività incontrollata. In un suo saggio intitolato Furore in Svezia192, De Martino descrive appunto un episodio di cronaca, un’esplosione immotivata di violenza nel corso di un Capodanno a Stoccolma: esso è interpretato appunto come l’esito di una crisi dell’uomo, e dell’istinto di morte, che non trova più adeguati modelli di risoluzione culturale. L’atto violento dunque si ripresenta, da gesto sacrificale inserito in una cornice rituale non più possibile, a esplosione incontrollata di una crisi esistenziale che investe parimenti l’individuo e la società di oggi. In tale chiave sembra si possano leggere molti attuali episodi di cronaca. L’infanticidio, il figlicidio, l’atto violento inspiegabile della madre che uccide potrebbe rientrare in questa irrisolta angoscia di non esserci, per la quale non è stata elaborata ancora la piattaforma della consapevolezza della propria condizione umana alla quale tende il demartiniano etnocentrismo critico.

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CAPITOLO 5: I “SACRIFICI” NELLA CRONACA Diamo di seguito, nella prosa immediata della notizia d’agenzia, una serie di dati che possono in qualche modo essere collegati alla demartiniana esplosione incontrollata della crisi. Una brutale serie di dati di madri che uccidono: 29 giugno 2001 - Cretone, frazione di Palombara Sabina (Roma): una donna macedone di 36 anni è accusata di aver ucciso i suoi due figli con 35 coltellate. Il marito l’ha trovata, al suo ritorno a casa, mentre pugnalava il figlio più piccolo, di 4 anni; l’altro, di 6 anni, era già morto. 12 settembre 2001 - Limidi di Soliera (Modena): un uomo di 43 anni, al rientro a casa, trova il figlio autistico di 14 anni ucciso, soffocato da un sacchetto di plastica stretto attorno alla testa e la moglie, Paola Mantovani, 39 anni, legata e gettata in piscina. La donna attribuisce la responsabilità ad una banda di rapinatori, ma il 16 ottobre è accusata di omicidio premeditato. 27 ottobre 2001 - Nove (Vicenza): una donna di 28 anni uccide, strangolandola con una calza di nylon, la figlia di 7 anni appena rientrata a casa da scuola. Due giorni dopo confessa l'omicidio. 2 dicembre 2001 - Vittuone (Milano): una donna di 40 anni uccide la figlia di 7 anni, infilandole un sacchetto di cellophane sulla testa e stringendoglielo al collo con i suoi collant di nylon. Poi si siede sul divano di casa, attendendo l'arrivo del marito. 143

30 gennaio 2002 - Cogne (Aosta): il piccolo Samuele Lorenzi, di 3 anni, viene ritrovato morto nel letto dei genitori, ferito dai colpi di un non precisato oggetto contundente. La madre, Annamaria Franzoni, sostiene che qualcuno si è introdotto in casa nel breve lasso di tempo in cui lei era assente, ma è tutt’ora l’unica indiziata per l’efferato delitto. 19 febbraio 2002 - Novara: una donna di 21 anni uccide la figlia di poco più di un mese, cercando con violenza di farla smettere di piangere. 12 maggio 2002 - Madonna dei Monti, frazione di Santa Caterina Valfurva (Sondrio): una donna di 31 anni uccide la figlia di 8 mesi mettendola nella lavatrice, alla quale fa compiere un ciclo di lavaggio. 17 maggio 2002 - Imola (Bologna): una donna di 34 anni uccide con un coltello da cucina la figlia di 7 anni, poi si suicida usando la stessa arma. 24 giugno 2002 - Saint Marcel (Aosta): Olga Cerise, 31 anni, annega nel laghetto di Les Iles i suoi due figli, Davide di 20 giorni e Matteo di 4 anni. Poco dopo confessa. Gli esperti parlano di “Sindrome di Medea”. 17 settembre 2002 - Napoli: Giuliana Alparone, 27 anni, prende il figlio Vincenzo, di sei mesi, e lo lascia cadere dalla finestra. Al magistrato spiega: “Mi perseguitava”. 144

24 agosto 2003 - Desenzano (Brescia): Pamela Canestrini, 27 anni, prende in braccio la figlia Olivia partorita solo otto giorni prima e si lascia cadere con lei dal balcone dell’appartamento al secondo piano. La bambina muore, la madre viene arrestata. E’ così che il tema del “figlicidio”, dopo essere stato per secoli protagonista del mito, della tragedia, accettato sia pure con gravi cautele nel rito, in ogni caso motivo fondamentale dell’accusa e del discredito di gruppi minoritari, si ripropone nell’attualità come mero, tragico, fatto di cronaca nera, a cui pare sempre più difficile, se non impossibile, fornire una spiegazione. Sono questi infatti solo alcuni dei numerosi casi che negli ultimi anni sono saliti agli onori della cronaca e hanno turbato gli animi per la “paradossalità” e la difficoltà di immaginare una situazione come quella di una madre che uccide, spesso anche in modo molto brutale, i propri figli. La paradossalità e l’incredulità derivano certamente anche da una visione assai stereotipata della figura materna e della maternità in generale, basata su un concetto, quello dell’“istinto materno” inteso come sentimento naturale e immutabile, che pare essere una costruzione rassicurante creata dall’uomo occidentale più che corrispondere ad un dato di fatto. Come si vedrà, infatti, nello stesso mondo animale l’infanticidio è assai frequente, praticato dalle madri come dai padri nelle circostanze più disparate; esso non è assente, ed è anzi comunemente accettato, anche in numerose culture diverse dalla nostra. Tuttavia anche in queste circostanze l’uccisione del figlio si configura nella forma dell’infanticidio piuttosto che in quella del figlicidio, cioè l’atto è compiuto sul figlio nato da poco e in circostanze in qualche modo critiche. Se questo fenomeno è in vistoso calo nella società occidentale contemporanea, contando ormai un numero molto limitato di casi, sconcerta la crescente 145

frequenza di episodi che vedono genitori coniugati, di una certa cultura, benestanti, senza apparenti difficoltà, uccidere in modo brutale dei figli già cresciuti, per cui dovrebbero aver già sviluppato dei sentimenti di attaccamento. E’ questa la principale paradossalità, la fonte dell’incredulità, dei recenti casi di cronaca. L’unico modo per accettare la realtà di gesti di questo tipo, e per spiegarli, come si vedrà, è allora quello di invocare il deus ex machina della follia, che è continuamente chiamata in causa in questi episodi quale causa scatenante di fatti altrimenti impossibili. Sembra infatti che non si possa fare a meno di chiedersi se la madre assassina non sia pazza, depressa, affetta da disturbi della personalità, o quanto meno se non sia stata colpita da un raptus improvviso. Di fronte a questa specifica categoria di crimini, tanto la società in senso più lato quanto la giurisprudenza in senso più stretto tendono a considerare frequentemente l’autrice del delitto come incapace di intendere e di volere. Nell’affrontare il problema pare indispensabile quindi introdurre anzitutto una distinzione preliminare fra quei due fenomeni, l’infanticidio e il figlicidio, che riguardano entrambi l’uccisione dei figli da parte di un genitore e che risultano in realtà assai diversi nella loro natura e nelle loro implicazioni. Si deve inoltre tracciare un’ulteriore distinzione fra questi due fenomeni e la pratica dell’abbandono e dell’esposizione dei neonati, di cui non ci occuperemo. Sebbene infatti l’esito anche in questo caso sia frequentemente la morte del bambino, tuttavia non vi si può riscontrare chiaramente un’esplicita volontà omicida da parte dell’abbandonante (al contrario, spesso i neonati vengono abbandonati con l’intento di lasciare loro una seppur tenue speranza di sopravvivenza), né soprattutto una responsabilità diretta del genitore, responsabilità che invece caratterizza il comportamento, che possiamo definire direttamente “sacrificale”, dell’infanticida come quello del/della figlicida. La pratica dell’abbandono e dell’esposizione, inoltre, a differenza del figlicidio, sembra essere stata per lungo tempo attuata e in qualche modo 146

socialmente accettata come metodo di controllo demografico della popolazione. Basti pensare ai diversi modi con i quali autorità ecclesiastiche e laiche nell’Europa moderna hanno predisposto diversi meccanismi destinati ad accogliere i neonati non voluti, proprio per arginare il fenomeno di un infanticidio non completamente intenzionale.193 Tornando all’infanticidio e al figlicidio, nell’uso corrente, per denotare in modo generico l’uccisione di un bambino di qualunque età, ad opera dei genitori come di estranei, si fa ricorso al termine “infanticidio”. In realtà, esso, benché derivante in effetti dal latino “infantis caedes”, che significa genericamente l’uccisione di un infante, designa giuridicamente un reato assai più specifico. Attualmente il Codice penale italiano stabilisce infatti che deve essere punita per il reato di infanticidio solo “la madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto.” [art. 578 del Codice Penale]. Dunque, giuridicamente, a rigore definiscono l’infanticidio: -

il fatto che l’agente è necessariamente la madre;

-

l’immediatezza dell’atto compiuto nella primissima fase di vita del

bambino (l’espressione si riferisce alla situazione di perturbamento psichico conseguente al parto e si può limitare ai soli due giorni immediatamente successivi ad esso); -

infine, le condizioni di abbandono materiale e morale della donna al

momento del parto (riconducibili ad una situazione economica gravemente deficitaria, all’assenza di assistenza pubblica o privata, ad una situazione affettiva gravemente carente)194. L’infanticidio nella sua specificità sembra quindi essere individuato da una serie di attenuanti, tant’è vero che la pena che spetta all’infanticida è stabilita 193

In particolare, sull’istituzione di apposite “ruote” per accogliere i bambini abbandonati e prevenire dunque l’infanticidio, vedi DI BELLO – MERINGOLO 1997: 46-60 e, con riferimento alla situazione particolare di Trieste, DE ROSA 1995: 22-30. Sull’abbandono dei bambini vedi anche A. BUTTAFUOCO 1985 194 Codice Penale esplicato (2003)

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nella reclusione dai quattro ai dodici anni, una pena assai più mite rispetto a quella prevista per chi si renda colpevole dell’omicidio di una qualsiasi altra generica persona. In realtà su questa legge molto si discute e si è discusso fin dalla fine del XVIII secolo. Per riassumere solo brevemente le tappe principali che hanno portato alla sua attuale formulazione, basti ricordare che fino alla metà del Settecento l’infanticidio era considerato un delitto assai più grave rispetto all’omicidio volontario, e dunque era punito molto più severamente. Solo poi fu proposta la prima grande attenuante all’infanticidio, la cosiddetta “motivazione d’onore”, destinata a permanere nel codice e nelle leggi italiane fino al 1981. Essa rendeva più miti le condanne verso le infanticide, qualora esse, ma anche i loro cari, uccidessero il neonato per nascondere una trasgressione sessuale, cioè un rapporto avuto prima o comunque al di fuori del matrimonio. Secondo Giulia Di Bello, che ha proposto un’interessante rassegna storica sull’argomento195, l’indulgenza che allora si prestava nei confronti di questo reato era strettamente funzionale all’obiettivo di rafforzare un modello assai rigido di madre e di donna e a tutelare non “la capacità biologica di dare la vita, ma una maternità culturale complementare al potere maschile e realizzata nell’ambito dell’istituzione familiare” 196. Infatti il riconoscimento della causa d’onore come attenuante per le madri che uccidevano i figli illegittimi e la maggior mitezza delle pene comminata verso queste particolari ree coincise con una crescente rigida standardizzazione del modello della moglie e madre esemplare, ove la moralità della donna era valutata prima di tutto in relazione al suo comportamento sessuale. Proprio nella seconda metà del XVIII secolo fu infatti abolito il diritto femminile, fino ad allora riconosciuto, di ottenere delle garanzie dal padre del bambino, in primo luogo il suo mantenimento e poi, qualora fosse stato 195 196

DI BELLO – MERINGOLO 1997: 15-68 DI BELLO - MERINGOLO 1997: 42-43

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promesso, il matrimonio. Da allora la responsabilità della trasgressione sessuale divenne un fatto esclusivamente femminile e i figli naturali perdettero il loro status per divenire figli di genitori ignoti. Lo stesso atteggiamento delle autorità civili e del clero si fece conseguentemente più severo, tanto che le donne non di rado erano incoraggiate all’abbandono e all’infanticidio pur di preservare la morale pubblica. Si può dire che i vari codici, in fondo, pur di preservare questa cosiddetta “morale pubblica”, legittimassero l’infanticidio, in questo modo avvalorando lo stereotipo della madre “culturale” - la donna coniugata, con una retta condotta sessuale - a scapito della maternità “biologica”, non riconosciuta al punto che non era poi così grave uccidere il frutto di una relazione illegittima. Nel 1889 il Codice penale Zanardelli, in base alla suddetta “motivazione d’onore”, definì per la prima volta l’infanticidio come un’attenuante dell’omicidio volontario: “Quando il delitto preveduto dall’art. 364 (l’omicidio) sia commesso sopra la persona di un infante non ancora iscritto nei registri dello stato civile, e nei primi giorni dalla nascita, per salvare l’onore proprio, o della moglie, o della madre, della discendente, della figlia adottiva o della sorella, la pena è della detenzione da tre a dodici anni” [art. 369]. Nel 1930 il Codice Rocco rese addirittura l’infanticidio per causa d’onore un delitto a sé stante, estendendo inoltre la possibilità della riduzione di pena dai familiari ad altri: “Chiunque cagiona la morte di un neonato immediatamente dopo il parto, ovvero di un feto durante il parto, per salvare l’onore proprio o di un prossimo congiunto, è punibile con la reclusione da tre a dieci anni. Alla stessa pena soggiacciono coloro che concorrono nel fatto al solo scopo di favorire taluna delle persone indicate nella disposizione precedente…” [art. 578]. Solo nel 1981 la legge n. 442 cancellò la causa d’onore da tutti i reati che la prevedevano, e l’articolo 578 fu riformulato nella versione attuale. In questa sua riformulazione non solo la causa d’onore è sostituita dal turbamento psichico della madre dopo il parto e dalle condizioni di “abbandono materiale e morale”,

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ma la pena più mite viene riservata alla sola madre, mentre sono finalmente esclusi parenti, congiunti e quanti altri erano prima previsti197. In conclusione, si può affermare che l’infanticidio era in passato, ed è tuttora, generalmente considerato un delitto meno grave e trattato con maggior indulgenza rispetto all’omicidio generico nel cui ordine rientra anche il figlicidio. Le leggi sono cambiate, in rapporto all’evoluzione della società, ma persiste l’idea che questo sia un reato del tutto particolare, da valutare secondo criteri autonomi. L’accento è posto sulla supposta condizione di forte instabilità emotiva di madri, che, già confuse per il parto, dovendo far fronte a condizioni di vita particolarmente difficili (oggi l’“abbandono materiale e morale”, ieri l’“onta” di una trasgressione sessuale), giungono ad uccidere un bambino molto piccolo, appena nato, con cui non hanno comunque ancora avuto modo di stabilire alcun rapporto. Molto diverso è dunque il caso dell’infanticidio da quello del figlicidio. Poste le rigide condizioni - cioè in sostanza le attenuanti - che definiscono oggi l’infanticidio, infatti, ogni altro omicidio commesso da uno o da entrambi i genitori nei confronti del proprio figlio, che esuli da esse, si definisce come figlicidio. Quindi compiono questo reato le madri, ma in questo caso anche i padri, che uccidano il proprio figlio a distanza di più di due giorni dalla nascita, o comunque non versino affatto in condizioni di vita difficili o di abbandono. Il reato di figlicidio non è contemplato dal nostro codice penale: chi lo commette è imputato genericamente di omicidio volontario, quindi punibile con la reclusione per un periodo non inferiore ai ventuno anni; dunque in questo caso non è prevista alcuna attenuante. Semmai, il fatto che un genitore, e soprattutto una madre, uccida i propri figli ormai cresciuti dopo averli allevati, apparentemente senza alcuna plausibile attenuante, getta una luce più sinistra e 197

Per un profilo storico sull’evolversi del discorso giuridico sull’infanticidio, vedi DI BELLO - MERINGOLO 1997 e ALESSI 1995

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inquietante su questi casi. Sembra in ogni caso che il tempo in cui si costruisce, o dovrebbe costruirsi, la relazione affettiva tra madre e bambino sia il discriminante fondamentale. Lasciando da parte per il momento le ragioni, senza dubbio assai più complesse, che sono sottese all’uccisione di un figlio già cresciuto da parte di un genitore - la madre come il padre - sembra opportuno soffermarsi anzitutto sulla portata del fenomeno dell’infanticidio.

5.1 – INFANTICIDIO E “ISTINTO MATERNO” Secondo Robert Briffault198, che ha dedicato una vasta opera alle varie problematiche connesse con la maternità, l’istinto materno non è affatto un sentimento necessario e universale, ma si sviluppa solo secondariamente, laddove esso comporti dei vantaggi e possa operare con qualche utilità. La riprova è data dal fatto che in effetti l’infanticidio è comunemente praticato, in particolari circostanze, da numerosissime specie animali, nonché dall’uomo stesso presso numerose popolazioni. Briffault ricorda che negli animali, effettivamente, le cure parentali si limitano ad un periodo molto breve e che molto spesso anzi i genitori tendono a divorare i loro cuccioli quando sono appena nati. Le stesse tigri, tanto feroci nella difesa dei loro cuccioli, quando sono affamate possono giungere ad ucciderli e a divorarli199. Briffault sottolinea inoltre che anche nelle singole donne, e questo è il punto fondamentale, l’amore materno per i figli non appare come un istinto primario, ma si sviluppa solo con l’instaurarsi e il consolidarsi della relazione fra madre e bambino. Sarebbe dunque l’esperienza, e non la natura, a garantire l’affetto per la propria prole. Anzi, la prima reazione istintiva e spontanea della madre alla vista del figlio non di rado è quella del rifiuto e della repulsione.

198 199

BRIFFAULT 1969 (1927), vol. 1: 112 BRIFFAULT 1969 (1927), vol. 1: 112-116

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Prima che l’amore materno si sviluppi trascorre un intervallo di tempo che può addirittura essere pericoloso per il bambino: in quel momento, “infanticide is common among both savage and civilised mothers, whereas a little later it would be difficult or impossible. The death of an infant at birth generally leaves the mother, except for the disappointment of the generalised desire for offspring, comparatively indifferent”200. Dunque la differenza fra infanticidio e figlicidio consiste fondamentalmente nel diverso tempo intercorso fra il parto e il delitto, inteso come diverso grado di affezione che si presume sia intervenuto fra madre e figlio con l’instaurarsi di una relazione: l’uccisione dei figli di regola ha luogo, sia negli animali che negli esseri umani, quando il piccolo è appena nato e non si è ancora sviluppato l’attaccamento materno. Similmente, anche Cesare Lombroso, nell’Uomo delinquente201, aveva smentito l’esistenza della cosiddetta “voce innata del sangue” e dell’affetto materno sulla base di comuni osservazioni di fatto. Lombroso ricordava infatti il comportamento “criminale” di alcune specie animali, presso le quali però - lui specificava - il delitto è legato a delle necessità naturali e tende dunque provvidenzialmente a degli scopi salutari (la sopravvivenza del singolo o della specie). Per questi motivi di necessità naturale, l’infanticidio è assai comune presso molte specie animali: la femmina del coccodrillo uccide i piccoli che non sanno nuotare, la gallina abbandona nel nido i pulcini malati o storpi, il topo mangia i suoi piccoli se il suo nido viene molestato. Anche fra le scimmie, che pur sono gli animali più prossimi all’uomo, le femmine degli uistiti schiacciano i figli contro un albero quando sono stanche di portarli. Lo stesso avverrebbe, sempre secondo Lombroso, anche presso i cosiddetti “selvaggi”: qui, come negli animali, l’omicidio, e in particolare l’infanticidio, corrisponderebbe spesso ad una necessità naturale, funzionando come un

200 201

BRIFFAULT 1969 (1927), vol. 1: 112 LOMBROSO 1897, vol. 1: 6-7

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sistema equilibratore violento tra popolazione e mezzi di sussistenza202. Lombroso riconosce tuttavia che nell’uomo, rispetto al mondo animale, questo delitto in qualche modo si evolve, da finalizzato al vantaggio del singolo a delitto organizzato, codificato dalla morale e dalla religione, utile alla sopravvivenza dell’intero popolo o della tribù. Le motivazioni e le modalità dell’infanticidio presso l’uomo sono assai varie e Lombroso riporta una serie di casi provenienti da diverse parti del mondo: in Giappone, in Cina, nelle Isole Sandwich, presso i Boscimani, gli Ottentotti, i Figiani, gli indigeni americani, l’infanticidio è anzitutto “un mezzo violento di “maltusianismo””203; le madri Guarany ucciderebbero spesso le figlie femmine per rendere più desiderabili le superstiti; presso i Tasmaniani e gli Eschimesi verrebbero uccisi i bambini a cui muore la madre, insieme per la credenza che la madre li chiami dal mondo dei morti e per l’impossibilità di allevare i piccoli orfani; in moltissimi luoghi i gemelli venivano uccisi, perché creduti prova dell’infedeltà della moglie; fra gli Ottentotti si sotterrava vivo il bambino mal conformato; si danno inoltre talvolta casi di infanticidio praticato da donne per motivi puramente edonistici…204 Può essere interessante rilevare, comunque, che per Lombroso e per i casi da lui considerati l’infanticidio riguarda assai più l’uomo che la donna.205 In ogni caso, l’infanticidio non è affatto frequente nei soli popoli cosiddetti “primitivi”: esso ha rappresentato anzi un problema concreto, e di notevole portata, nell’Occidente europeo fino a tempi piuttosto recenti. In particolare questo comportamento delittuoso pare essere stato legato per lungo tempo, come si è già avuto modo di accennare, soprattutto al contesto particolare delle maternità illegittime. 202

LOMBROSO 1897, vol. 1: 46-49 LOMBROSO 1897, vol. 1: 46 204 Per una casistica sui vari tipi di infanticidio, vedi anche BRIFFAULT 1969 (1927), vol. 2: 25-29. Inoltre vedi Enciclopedia delle religioni, Vallecchi, vol. 1: 564-565 (sugli Arabi pre-islamici); 987 (sui Batacchi); vol. 4: 328-331(sugli Aztechi) e 1594,1600 (sul Perù antico) ed Encyclpoedia of Religions and Ethic, Hastings, vol. 1: 3-7; vol. 3: 526-527 (indigeni americani, Assiro-babilonesi), 539-541 (India e Grecia antica); vol. 5: 442-443 (Australia) 205 LOMBROSO 1927: 146-147 203

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Per quanto l’infanticidio sia una pratica antica e diffusa, i primi dati certi a nostra disposizione risalgono solo alle registrazioni civili e ai censimenti compiuti nel XIX secolo. Già nella seconda metà del Settecento tuttavia una serie di scritti composti in piena temperie umanistica testimoniava la gravità e l’enorme diffusione del problema, strettamente collegato alla situazione delle nubili “illegittimamente fecondate”, che vi ricorrevano principalmente per nascondere la loro “colpa”. E’ proprio agli scrittori e pensatori illuministi che si deve infatti lo sviluppo di una nuova riflessione e valutazione sulla condizione della donna infanticida. Verso la fine del secolo, la discussione sulle pene previste per questo reato divenne infatti un tema di grande attualità, sul cui fronte si impegnarono anche pensatori del calibro di Cesare Beccaria e Johann Heinrich Pestalozzi. A quel tempo le pene previste per le infanticide erano assai severe - in genere le madri infanticide nubili non potevano sfuggire alla pena capitale, mentre quelle sposate venivano generalmente assolte - e tuttavia questo sembrava non bastare ad arginare la portata di un fenomeno, che doveva essere anzi sempre più diffuso fra le masse. Il contributo di Beccaria, Pestalozzi e di molti altri pensatori illuminati fu quello di proporre piuttosto una maggior attenzione ai problemi del popolo, cercando il modo per prevenire, se possibile, l’insorgere del crimine fra le masse attraverso una riforma generale dello Stato e delle sue leggi. In particolare l’infanticidio appariva motivato, ad un’analisi più attenta, dalla necessità di molte donne di nascondere una “colpa”, per la quale sarebbero incorse in sanzioni assai severe e sarebbero state duramente stigmatizzate. Come si è già detto, inoltre, la posizione della donna doveva essere particolarmente difficile, se è vero che essa non aveva nemmeno il diritto di rivalersi sul proprio “seduttore”, agevolato dalla legge vigente e non soggetto ad alcuna sanzione. Nel 1764 Beccaria pubblicò la sua opera più celebre, Dei delitti e delle pene, concepita nel clima del gruppo milanese dell’Accademia dei Pugni e destinata 154

ad ottenere un enorme successo in Italia ed in Europa. Vi si mettevano in discussione quel sistema giudiziario e quella tradizione giuridica che per secoli avevano punito i reati più gravi con la tortura e con la pena di morte. Separando il delitto dal peccato, Beccaria proponeva di misurare piuttosto le pene in base al danno arrecato alla società. Nel XXXI paragrafo dell’opera, intitolato “Delitti di prova difficile”, l’intellettuale si occupava anche del comportamento delittuoso delle infanticide: “L’infanticidio è parimenti l’effetto di una inevitabile contraddizione, in cui è posta una persona, che per debolezza o per violenza abbia ceduto. Chi trovasi tra l’infamia e la morte di un essere incapace di sentirne i mali, come non preferirà questa alla miseria infallibile a cui sarebbero esposti ella e l’infelice frutto? La miglior maniera di prevenire questo delitto sarebbe di proteggere con leggi efficaci la debolezza contro la tirannia, la quale esagera i vizi che non possono coprirsi col manto della virtù. Io non pretendo diminuire il giusto orrore che meritano questi delitti; ma, indicandone le sorgenti, mi credo in diritto di cavarne una conseguenza generale, cioè che non si può chiamare precisamente giusta (il che vuol dire necessaria) una pena di un delitto, finché la legge non ha adoperato il miglior mezzo possibile nelle date circostanze d’una nazione per prevenirlo.”206 Beccaria metteva dunque anzitutto in discussione il principio che una pena esemplare potesse di per sé prevenire l’insorgere di comportamenti devianti, laddove riteneva piuttosto fondamentale un’opera di prevenzione da parte dello Stato. E’ notevole inoltre l’attenzione per la difficile condizione sociale delle donne, che si trovavano nell’impossibilità di conciliare la loro condizione di nubili con quella della maternità, e dunque ricorrevano comprensibilmente al delitto, spinte dalla disperazione e dalla debolezza. A simili conclusioni giungeva, pochissimi anni dopo, anche il pedagogista svizzero J.H. Pestalozzi. Egli pubblico infatti nel 1783 un saggio intitolato Della legislazione e dell’infanticidio. Verità e sogni, inchieste e rappresentazioni207, con cui si inseriva anch’egli nella vivace polemica sull’infanticidio e sulle pene con cui questo delitto doveva essere punito. Del resto, l’interesse dell’educatore 206

BECCARIA 1989 (1764) Pubblicato in Italia solo recentemente; noi seguiamo questa nuova edizione, curata da Giulia DI BELLO (1999) 207

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per i comportamenti marginali o devianti era centrale nelle sue riflessioni pedagogiche e in diverse sue opere, orientate per lo più a individuare le forme educative più adatte per i soggetti svantaggiati socialmente. Il testo sull’infanticidio si apre significativamente con l’estrema incredulità e lo stupore dinanzi a questo genere di delitto: “Infanticidio: sogno o son desto? E’ davvero possibile un tale atto? Accade veramente? Accade questo crimine inaudito – no, non inaudito, ha un nome, esiste un preciso termine per indicarlo! […] Europa! Cosa spinge le tue puerpere ad uccidere i figli? Da dove nasce la disperazione nel petto della ragazza, tal che – o Dio! – nell’ora del parto freme di paura e nella febbre del suo dolore stende le mani del furore e soffoca il figlio del suo dolore. Nessun essere umano in senno uccide la carne delle propria carne; e nessuna giovane in sé protende le mani verso il collo del figlio appena nato e lo stringe finché illividisce. Rinfodera le spade dei tuoi boia, Europa! Inutilmente essa dilania le assassine! Senza muto delirio e senza disperata angoscia nessuna donna soffocherebbe il figlio; e nessuna delle disgraziate teme la tua spada.”208 Stupore e incredulità tanto più comprensibili, se pensiamo che proprio nel metodo naturale seguito dalle madri nei primi anni di vita del bambino Pestalozzi vedeva il modello di ogni educazione possibile e su questo modello aveva plasmato il proprio progetto didattico. Di fronte a una tale concezione della madre intesa come figura naturalmente positiva e socialmente utile - e fonte di quell’educazione naturale che sola poteva garantire una formazione sana dell’umanità - l’infanticidio doveva apparire a Pestalozzi necessariamente come la conseguenza di una corruzione innaturale. Così l’educatore ricercava le cause di un tale, “innaturale”, comportamento delittuoso, rintracciandole prima di tutto nella disperazione cui queste donne erano indotte dai loro seduttori e dallo Stato stesso, che con le sue leggi severe e la sua pretesa di regolamentare la condotta sessuale del popolo - cosa che non gli spettava - induceva le donne alla disperazione e a delitti ancor più gravi.

208

PESTALOZZI 1999 (1783): 5

156

Il pedagogista adottava dunque una posizione che teneva conto anzitutto della debolezza sociale della donna e che potremmo oggi definire “femminista”: la sua era anzitutto una difesa spassionata dell’infanticida, non colpevole, ma vittima essa stessa, degli uomini e di leggi ingiuste. Le cause del delitto secondo Pestalozzi erano infatti molteplici e complesse e facevano riferimento ad una serie di mali sociali preesistenti, ma la colpa primaria era anzitutto quella dello Stato, che, anziché incoraggiare la “naturale propensione al bene” di uomini e donne – che sarebbero stati portati a svolgere i loro doveri genitoriali – interveniva censurando un comportamento naturale ed inevitabile, cioè l’istinto sessuale del popolo. Proprio la severità delle pene sarebbe stata la causa principale dell’infanticidio, tanto che Pestalozzi parla di un vero e proprio “infanticidio di Stato”209. Nel suo pensiero, si rendeva piuttosto necessario un intervento di prevenzione: lo Stato, inteso dall’educatore in senso paternalistico, avrebbe dovuto incoraggiare la naturale inclinazione al bene del popolo attraverso una “generale educazione a sentimenti alti e nobili”. In particolare, nel caso dell’infanticidio, questo Stato paternalistico avrebbe dovuto consentire alle nubili gravide di nascondere la propria “vergogna” e incoraggiare comunque l’allevamento dei figli, anche se illegittimi; avrebbe dovuto quindi salvaguardare i doveri genitoriali, anche al di fuori del matrimonio. Tuttavia, la generale opera di educazione del popolo doveva avere inizio anzitutto dall’alto, dal miglioramento dei costumi dei ceti superiori. Erano anzitutto la severità, la corruzione e l’egoismo delle autorità che indebolivano i primi, edificanti, impulsi del popolo e lo portavano all’attuale corruzione dei costumi. Era dal perfezionamento dei ceti superiori che sarebbe derivata dunque l’educazione al bene del popolo stesso, con un conseguente calo degli atti criminosi.

209

PESTALOZZI 1999 (1783): 39

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Grazie all’intervento di uomini come Beccaria e Pestalozzi, e grazie allo sviluppo di una riflessione che teneva conto, per la prima volta, della debolezza sociale della donna, il discorso sull’infanticidio mutò radicalmente di segno e anche dal punto di vista giuridico le pene previste per questo reato si fecero più miti. Ma ancora nel secolo seguente il problema continuava a costituire una vera e propria “piaga sociale”, che interessava un numero allarmante di donne, nella fattispecie ancora le gravide nubili. I dati tuttavia segnalano da allora fino ad oggi un costante decremento dei casi. L’infanticida dell’Ottocento era ancora per lo più la donna nubile che doveva affrontare una gravidanza illegittima in un mondo in cui la riprovazione sociale per una tale condotta sessuale doveva essere assai forte e cogente. Si trattava per lo più di ragazze giovani, che commettevano il delitto nella prima età fertile, e povere, che giungevano in città dalla campagna in cerca di lavoro, o comunque ma in misura assai minore - di donne sole perché vedove, separate o con il marito emigrato. Erano quasi sempre analfabete o con un livello di istruzione minimo. Solo in casi estremamente eccezionali si trattava di donne coniugate o benestanti. In genere le ragazze coinvolte provenivano da ambienti deculturati e si trovavano in situazioni insostenibili. Venivano sedotte, e poi deluse, con la promessa del matrimonio, ma non erano affatto infrequenti neanche i casi di violenza subita dai padroni nelle case in cui le giovani lavoravano. Le infanticide nascondevano a tutti, e talora anche a se stesse, il loro stato di gravidanza: la rimozione era così forte che molte pensavano di essere solo malate. Affrontavano poi il parto in completa solitudine; spinte dalla disperazione e dalla paura si liberavano della prova della loro “colpa” uccidendo e nascondendo subito il corpo del neonato, per poi riprendere normalmente le loro occupazioni. Gli stessi familiari, nella maggioranza dei casi, dichiaravano di non aver mai saputo né sospettato nulla. In genere si giungeva al processo 158

sulla base delle chiacchiere popolari, allorché ci si accorgeva di quanto doveva essere accaduto. Nei giudizi dei processi ottocenteschi prevalevano comunque le assoluzioni, motivate dall’innocenza o dall’infermità di mente delle colpevoli; frequenti erano anche le condanne al minimo possibile della pena210. Con riferimento alla capacità di intendere e di volere delle madri infanticide, nell’Ottocento si assiste in particolare - parallelamente alla nascita della medicina alienista - anche al sorgere, nella letteratura medica, di un vivace dibattito sulla cosiddetta “mania puerperale”, assai spesso invocata nei processi quale attenuante al comportamento delittuoso femminile. Si sarebbe trattato di una specifica e particolarissima forma di follia, che avrebbe colpito le donne nel delicato momento del parto, e che, nei suoi esiti più estremi, avrebbe potuto anche portarle a sopprimere il neonato211. La medicina aveva infatti dimostrato che “il sesso femminile va soggetto ad impazzire più del mascolino […] a causa delle rivoluzioni che si compiono nel debole ed eccitabile organismo muliebre all’epoca della pubertà, della gravidanza, del puerperio e dell’allattamento. La debolezza fisica trova riscontro nella debolezza morale ed in essa si riproduce.”212 Le teorie sull’origine di una tale malattia erano assai contrastanti: per taluni la mania puerperale era indotta da motivazioni assolutamente organiche, per altri invece da cause “morali” ovvero da disordini del contesto sociale. Nella letteratura medica ottocentesca, se non si riesce a definire la natura di queste supposte cause organiche, la mania puerperale è invece insistentemente indicata come la malattia sociale che colpisce principalmente le giovani nubili, sedotte e rese madri. Si afferma quindi per la prima volta una strettissima correlazione fra infanticidio, gravidanza illegittima e follia. Lo stesso nesso che abbiamo riscontrato nei miti greci delle madri assassine! 210

In particolare, vedi DE ROSA 1995 per una rassegna sui ventuno casi di infanticidio registrati al Tribunale criminale provinciale di Trieste fra il 1878, anno della chiusura per “immoralità” della ruota destinata ad accogliere i neonati non voluti, e il 1892. 211 Sulla mania puerperale vedi FIUME 1995 e DI BELLO – MERINGOLO 1997: 227-233 212 A. STOPPATO, Infanticidio e procurato aborto. Studio di dottrina , legislazione e giurisprudenza penale, Verona – Padova 1887, pp. 35-36, citato in FIUME 1995:105-106

159

Le madri infanticide sono le protagoniste indiscusse dei trattati medico-legali ottocenteschi, nella grandissima maggioranza dei casi rappresentate come “transitoriamente furiose” per tali disordini morali e del contesto; verso queste nubili, disperate, temporaneamente folli, si rivolgeva la clemenza dei giudici. La norma era ovviamente l’assoluzione. Secondo Giovanna Fiume213, le donne avrebbero poi appreso i modi e le forme di una tale rappresentazione stereotipata della mania puerperale e dell’infanticidio, e ne avrebbero dato un’auto-rappresentazione coerente; solo quando la pressione di questa rappresentazione culturale divenne meno cogente, diminuì dunque anche il numero delle puerpere impazzite e delle infanticide. La mania puerperale sarebbe stata principalmente, sempre secondo la lettura della Fiume, la lettura che i medici alienisti davano di un soggetto sociale, quello della madre illegittima, serva, sola di fronte al parto. I dati statistici confermano in ogni caso, dalla fine del XIX secolo ad oggi, un costante decremento dei casi di infanticidio. Gli Annuari Statistici Giudiziari dell’Istat raccolgono infatti i dati relativi ai vari delitti, infanticidio compreso, dal 1896 fino al 2001. Ne risulta un quadro che vede come colpevoli nel 93% dei casi le madri; gli uomini sono denunciati generalmente solo per concorso in questo tipo di reato. La correlazione fra crimine e illegittimità si va sempre più attenuando nel tempo e le infanticide sono sempre meno frequentemente delle nubili costrette ad affrontare gravidanze illegittime. Se nel periodo compreso fra il 1947 e il 1975, infatti, il 67% delle infanticide era costituito da nubili, nel ventennio successivo il loro numero si è sensibilmente ridotto ed esse costituivano solo la metà delle infanticide, mentre aumentava il numero delle coniugate (41% dei casi). Si tratta dunque spesso di madri che sarebbero socialmente legittimate ad esserlo, ma che rifiutano comunque il bambino; forse il fatto si può spiegare tenendo conto delle 213

FIUME 1995: 83-117

160

particolari condizioni economico - sociali e culturali che limitano la possibilità di scegliere la maternità e di viverla in modo consapevole. Infatti, con riferimento alla distribuzione geografica degli infanticidi, essi avvengono generalmente in zone economicamente depresse, lontane dalle vie di comunicazione, con scarsità di opportunità educative e lavorative e carente diffusione di servizi, oppure nelle grandi città, che attirano criminalità e devianza, e dove si esercitano spesso attività di prostituzione, che possono essere legate a gravidanze indesiderate e dunque a questo tipo di delitto. Le colpevoli inoltre sono persone dalla cultura estremamente limitata, in genere analfabete o quasi, al massimo in possesso della scolarità elementare. I casi di infanticidio compiuto da donne o ragazze con un livello d’istruzione superiore è veramente esiguo e limitatissimo (l’1% dei casi).214 L’infanticidio oggi è dunque un crimine assai raro, per cui si possono contare pochissimi casi all’anno, che ha luogo in particolari condizioni di disagio e marginalità sociale. Madri dalle possibilità culturali estremamente ridotte si trovano verosimilmente ad affrontare una maternità non consapevolmente scelta e vissuta in modo problematico. A ciò si può aggiungere inoltre l’insorgere di psicopatologie temporanee legate alla fase puerperale, dal cosiddetto baby blues alla depressione postpartum fino alla vera e propria psicosi puerperale. Si tratta comunque di quello che Giulia Di Bello e Patrizia Meringolo definiscono come un “crimine di situazione”, in cui cioè si evidenziano con particolare salienza alcuni dati di contesto (l’assenza di reti di sostegno, l’emergere di nuove forme di marginalità, oggi legate alla tossicodipendenza, all’immigrazione, ecc...): le infanticide non sono più le nubili, ma provengono comunque dalle aree di popolazione socialmente più fragili. A queste difficoltà sociali si aggiungono non di rado anche problematiche psicologiche individuali,

214

Per un profilo statistico dell’infanticidio dall’Ottocento ad oggi, vedi DI BELLO – MERINGOLO 1997: 185219.

161

che spesso derivano da abusi e deprivazioni subiti nell’infanzia, e che non consentono il costituirsi di un’adeguata identità materna.

5.2 – IL FIGLICIDIO OGGI: ATTO RITUALE O ASSASSINIO? Se dunque lo scenario delle infanticide di ieri e di oggi rimanda a realtà spesso assai problematiche e in ogni caso alla soppressione di un neonato con cui non si è ancora avuto modo di stabilire alcuna relazione affettiva, ci si può chiedere chi siano invece le vere “Medee” di oggi, le feroci esecutrici dei propri figli di cui tanto spesso si legge nelle cronache nere. Anzitutto bisogna certamente ricordare che si parla di donne, di madri assassine, in quanto l’infanticidio come il figlicidio sembrano essere delitti specificamente femminili. Se infatti generalmente l’uomo delinque assai più della donna, una recente ricerca dell’Istituto di Formazione e Ricerca Scientifica CEIPA215, condotta su 170 casi di reati rispetto ai quali era stata disposta perizia psichiatrica fra il 1978 e il 1994, ha dimostrato l’esistenza di una differenza qualitativa fra criminalità femminile e criminalità maschile. Nella fattispecie, prendendo in considerazione i soli delitti maturati all’interno della famiglia, ove esista dunque un forte vincolo affettivo primario (quindi infanticidio, figlicidio, matricidio, parricidio, parenticidio e fratricidio), i dati sulla criminalità femminile giungono quasi ad eguagliare quantitativamente quelli relativi ai delitti compiuti da uomini. Dunque la donna compirebbe molti meno delitti rispetto all’uomo, ma questa ridotta attività omicidaria si esplicherebbe prioritariamente nell’ambito domestico familiare e in particolare nei confronti dei figli. La stessa ricerca infatti indica come, fra questi reati compiuti all’interno della famiglia da donne, quelli aventi come vittime i figli costituiscano il 91% del totale dei casi, mentre sono totalmente assenti nel

215

CAPRI – LANOTTE – MANSUETO – MARIANI 1996

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campione scelto i parricidi e fratricidi e sono comunque scarsamente rappresentati anche i parenticidi (4%) e i matricidi (sempre 4%). Le donne dunque non solo delinquono in misura molto maggiore laddove esista uno stretto legame fra autore e vittima, ma in particolare sembrano capaci di esprimere l’agito aggressivo quasi esclusivamente verso i loro figli, manifestando quindi un atteggiamento rivolto verso l’interno, di tipo introversivo. Al contrario, nel gruppo maschile l’infanticidio risulta totalmente assente e il figlicidio rappresenta solo il 18% dei casi; piuttosto l’aggressività maschile si concentra significativamente sulla figura materna (32%), quindi su un soggetto almeno apparentemente esterno all’Io nell’ottica delle relazioni oggettuali primarie. Il dato parrebbe comunque testimoniare una sorta di difficoltà, di problematicità particolare connessa al rapporto madre – figlio. Riportiamo qui di seguito la tabella con i dati stilata dagli studiosi del CEIPA: TIPOLOGIA DI REATO: Figlicidio

Numero maschi 5

Percentuale maschi 18%

Numero femmine 13

Percentuale femmine 54%

Infanticidio

0

0%

9

37%

Matricidio

9

32%

1

4%

Parricidio

4

14%

0

0

Parenticidio

6

21%

1

4%

Fratricidio

4

14%

0

0

Dunque i reati di infanticidio e figlicidio, elevatissimi nel gruppo femminile, non raggiungono in totale frequenze superiori al 18% nel gruppo maschile. Interessante è anche la valutazione sulla capacità di intendere e di volere delle donne e degli uomini accusati di tali delitti domestici: nell’83% dei casi la donna è giudicata totalmente incapace di intendere e di volere, e nel restante 163

17% dei casi le si attribuiscono comunque capacità ridotte, dunque la donna assassina non risulta mai completamente imputabile. In particolare, soprattutto le donne figlicide sono considerate completamente incapaci di intendere e di volere in misura molto maggiore rispetto ai padri accusati di aver compiuto lo stesso reato (85% di donne incapaci, contro il 57% degli uomini). La tendenza ad attribuire alla donna che uccide i suoi figli delle limitate capacità mentali non è solo propria del discorso giuridico, ma più in generale riguarda il modo “comune” di accostarsi al fenomeno. Si tratta, forse, di un discorso in una certa misura stereotipato, fondato su una rappresentazione culturale della donna, che la vede completamente incapace di uccidere e di esprimere una tale violenza fisica se non per cause psicopatologiche216. Questa concezione è certamente carica di pregiudizi, e non aiuta a comprendere la natura e le vere ragioni di un fenomeno del tutto particolare quale è quello del figlicidio. Del resto sembra questo il modo di reagire allo sgomento provocato dall’irruzione nel nostro immaginario - che tende ad attribuire alla maternità un valore assoluto - di immagini di violenza e di brutalità sui propri bambini da parte di donne in apparenza “normali”. Scomparse le attenuanti che per lunghi secoli avevano giustificato il comportamento delittuoso delle infanticide, come spiegare dunque il comportamento improvvisamente violento e sanguinario di queste donne spesso benestanti, coniugate, viventi in situazioni assolutamente diverse da quelle di disagio sociale in cui si muovevano, e si muovono ancor oggi, le infanticide? Scomparsa anche la prospettiva del disturbo psichico puerperale, che si limita al momento critico immediatamente conseguente al parto, non resta che affidarsi al quadro della patologia, al raptus improvviso, alla malattia mentale. 216

In particolare una ricerca compiuta da VALENTINI – HALLER 1996 sulla percezione sociale della criminalità femminile dimostra come l’infanticidio sia comunemente considerato come il crimine più grave che una donna può compiere e quello che più colpisce l’immaginario popolare per la presunta incompatibilità fra questo delitto e il presunto istinto materno. Secondo l’84% degli intervistati inoltre l’uomo sarebbe capace di qualsiasi crimine, mentre solo il 56,1% la pensa allo stesso modo con riguardo alle donne. L’infanticidio poi è considerato – fra l’altro contrariamente ai fatti – molto più impossibile per la donna (10,1% delle risposte) che per l’uomo (1,4%)

164

L’omicidio di un bambino per mano materna è troppo culturalmente destabilizzante perché possa essere accettato; diventa allora necessario trovare delle attenuanti, e il binomio violenza – psicosi appare forse come il più confortante. Molti psichiatri ammoniscono contro questa tendenza assai diffusa; solo una minima parte delle donne figlicide, infatti, sarebbero realmente affette da vere e proprie patologie mentali217. Secondo il professor Gian Carlo Nivoli, presidente della società italiana di Psichiatria Forense, la presenza nelle madri figlicide, protagoniste dei recenti casi di attualità, di una vera e propria malattia mentale, non supererebbe un terzo dei casi. Nei restanti due terzi queste donne sarebbero affette piuttosto da disturbi della personalità (borderline, immaturo, antisociale, dipendente ecc…), che non permetterebbero loro di gestire situazioni di vita difficili, in contesti caratterizzati dalla difficoltà ad acquisire un ruolo materno consapevole e responsabile218. I motivi per cui una donna può uccidere i propri figli in realtà sono molteplici, così come lo sono le modalità dell’atto. In particolare può essere interessante segnalare, fra le numerosissime tipologie di figlicidio, il ricomparire nella cronaca del motivo di Medea, cioè dell’uccisione violenta del proprio figlio per soddisfare un proposito di vendetta nei confronti del proprio compagno. Si definisce nei termini della cosiddetta “Sindrome di Medea” l’uccisione del figlio o dei figli, quasi sempre da parte della madre, per vendicarsi di torti, reali o presunti, subiti dal proprio compagno. Il richiamo è evidentemente al motivo mitico antico dell’uccisione dei figli di Medea: come il loro modello mitico, queste madri vendicative attuali (retaliating mothers) utilizzano, nel conflitto

217

Sul collegamento fra figlicidio e follia si possono trovare molti contributi di psichiatri e criminologi. In particolare, si vedano alcuni articoli: P. GUARNIERI, Le attenuanti di Medea, articolo da “Il Manifesto” del 15/6/2002; il contributo della criminologa I. MERZAGORA BETSOS in Psichiatria. Mamme folli o senza cuore?, su www.dica33.it/argomenti/psicologia/schizofrenia/ infanticidio.asp. La stessa ha anche scritto un testo in proposito intitolato Demoni del focolare. Mogli e madri che uccidono, Torino 2003. Contrario ad un necessario rapporto fra malattia mentale e figlicidio è anche lo psichiatra sistemico – relazionale M. Barone: vedi una sua intervista su www.lapagina.ch/2002/20021030/primopiano.html 218 NIVOLI 2002

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con il partner, il figlio come se fosse un’arma, un oggetto inanimato. Le somiglianze fra il figlicidio mitico di Medea e i casi attuali sono notevoli. Il figlicidio di Medea, in una prospettiva psicanalitica, si iscrive infatti in una dinamica di invidia in senso kleiniano: i figli sono uccisi perché si interrompa la linea di discendenza del marito, quindi, in quanto sono parte di lui, per amputarlo, o anche vicariamente all’uccisione del padre stesso. Ma oltre al mero proposito di vendetta, sembra essere sotteso a questo genere di uccisione anche un desiderio di “realizzazione allucinatoria del possesso totale dei propri figli”, con un’evidente estromissione del padre, quasi che il figlio fosse stato generato per partenogenesi. Il figlicidio di Medea apparirebbe quindi spiegabile in termini, ovviamente inconsci, di reimpossessamento senza remissione di quanto si percepisce come proprio e che viene invece dato come possesso totale dell’altro. Esiti di una impostazione patriarcale della società, se non deprivazione del riconoscimento del ruolo femminile nella procreazione come nella Grecia del V secolo a. C., la Grecia di Medea. In realtà abbiamo visto che questa interpretazione andrebbe rivista in luce della particolare concezione della filiazione in auge nella Grecia del V secolo: infatti se Medea uccide i bambini non è affatto perché li percepisce come propri, ma proprio perché “sa” che essi sono del loro padre. L’appropriazione da parte della madre alla fine avviene, ma al prezzo paradossale della morte stessa dei figli. E’ quindi per sua stessa natura impossibile. Non di rado, anche nell’attualità, l’uccisione dei figli da parte di madri per la cosiddetta sindrome di Medea ha luogo in effetti in contesti di accesa conflittualità col partner, laddove la madre teme, a ragione o a torto, che il compagno le voglia sottrarre i figli. L’uccisione coincide allora anche in questo caso con l’estromissione del padre e con la realizzazione di questo desiderio di possesso totale sui propri figli, quindi fondamentalmente con un ritorno a sé del bambino mediante la sua morte. I figli diventano in questa prospettiva una sorta

166

di bene materiale cui la madre ha dato la vita e a cui ella può conseguentemente anche toglierla pur di riappropriarsene. In questo contesto la madre finisce, in ultima analisi, per agire contro il figlio quell’aggressività e quella conflittualità che in realtà ha maturato nei confronti del compagno, e che tuttavia non riesce, o non può, rivolgere direttamente verso di lui. Il figlio diventa lo strumento per creare sofferenza o attirare l’attenzione di quello che è il vero oggetto dell’ostilità materna, il partner. L’odio nei suoi confronti viene cioè indirizzato verso il figlio, che rappresenta concretamente il frutto dell’unione, ma è anche un antagonista meno temibile del partner stesso. Del resto, abbiamo già visto che l’agito aggressivo della donna, all’interno della famiglia, riesce a trovare sfogo quasi esclusivamente nei confronti dei figli, un oggetto considerato evidentemente in qualche modo interno a sé, o quanto meno appartenente al sé, mentre è molto più difficile per una donna uccidere una qualsiasi altra persona o familiare. Secondo

lo

psichiatra

G.C.

Nivoli,

anche

queste

nuove

Medee

presenterebbero in genere non una vera e propria patologia, ma piuttosto dei disturbi di personalità caratterizzati da aspetti aggressivi, comportamenti impulsivi, tendenze suicidarie e frequenti ricoveri in ospedale psichiatrico219. Al di là della Sindrome di Medea, come ricorda lo stesso psichiatra, sono comunque moltissime le motivazioni che spingono le madri al figlicidio, di cui egli fornisce una breve rassegna nel suo testo Medea fra noi. Le madri che uccidono il proprio figlio. Si danno infatti casi di donne che sono solite maltrattare i figli e che un giorno, in seguito ad uno stimolo - come ad esempio può essere il pianto del bambino - giungono ad ucciderlo; in genere queste donne vivono in situazioni particolarmente problematiche e hanno subito esse stesse violenze nell’infanzia.

219

Sulla cd. Sindrome di Medea, NIVOLI 2002: 40-42 e MERZAGORA BETSOS 1996: 205-212. Si vedano inoltre alcuni contributi su: www.dirittoefamiglia.it/Docs/Altri/Scienza/La%sindrome%20di% 20Medea.htm

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Altre volte il bambino è trasformato in un vero e proprio capro espiatorio di tutte le frustrazioni della madre, fino ad assumere le caratteristiche del vero e proprio persecutore in donne che soffrono di malattie con elementi deliranti e paranoidei; in altri casi ancora, al contrario, il figlio è ucciso perché la madre vuole salvarlo da un mondo che percepisce come particolarmente ingiusto e cattivo. Particolarmente interessante è il caso delle madri che procurano la morte dei loro figli per negligenza. In questi casi l’omicidio avviene in modo passivo e per omissioni, ad esempio per un’alimentazione incongrua o insufficiente, malattie non curate, incidenti apparentemente casuali… La morte sopraggiunge quindi in modo più lento e non è giustificata nemmeno dal cosiddetto “raptus di follia”, da un’esplosione di violenza in un momento particolarmente critico e difficile per la madre. Colpisce la carenza, non tanto del cosiddetto “istinto materno”, che abbiamo visto essere una costruzione culturale, inesistente in natura. Quello che manca è proprio l’istinto, questo sì naturale, del mothering, cioè della “cura” dell’altro essere vivente esercitata dall’uomo come dalla donna, e indipendente dai legami di sangue220. Lo psichiatra cita poi i cosiddetti mercy killings, od omicidi compassionevoli, in cui la madre uccide il figlio per sottrarlo al decorso doloroso di una malattia reale, e gli omicidi cosiddetti pseudo-compassionevoli, in cui l’uccisione di un figlio malato o handicappato è motivata invece dal desiderio della donna di liberarsi dalle proprie preoccupazioni più che da quello di evitare al proprio figlio delle sofferenze. Un’altra particolare sindrome che induce frequentemente al maltrattamento del bambino e al figlicidio, e che riguarda, come quella di Medea, principalmente le madri, è la cosiddetta “Sindrome di Munchausen per procura”. Essa porta il bambino alla morte per un eccesso di cure materne. In questo caso si ha infatti a che fare con donne che non sembrano affatto negligenti o cattive 220

Si veda N. CHODOROW 1991

168

madri, ma che anzi appaiono straordinariamente premurose. Esse ricercano continuamente l’aiuto e l’intervento di medici sul proprio bambino, fino a portarlo alla morte per eccesso di trattamenti terapeutici. Non di rado esse, inventando sintomi che i figli non hanno, o procurando loro personalmente tali sintomi e disturbi (per esempio somministrando sostanze dannose), li espongono ad una serie di accertamenti, esami ed interventi che finiscono per danneggiarli o addirittura ucciderli. Questa categoria di figlicide in genere agisce in un tale modo principalmente per coprire uno stato di sofferenza psichica propria, cioè per chiedere in realtà l’intervento degli operatori sanitari quale aiuto per sé. Anche queste donne secondo Nivoli assai raramente soffrono di vere e proprie malattie mentali; piuttosto si può parlare anche per loro di disturbi della personalità221. Nella maggioranza di questi casi non si può parlare di vera e propria patologia psichiatrica, eppure è palese una sorta di difficoltà, di crisi sempre più accentuata, che investe principalmente la figura femminile, e in particolare trova sfogo sempre più spesso in esplosioni di violenza incontrollata verso i propri figli. Così questo lungo excursus sul figlicidio segnala quello che sembra essere un cambiamento importante e assai problematico della nostra società: dalla presenza, ed anzi centralità, del motivo nel mito greco antico e nel testo biblico – centralità che però garantiva proprio la sua necessaria “evitazione” nella prassi, intesa come prassi rituale – al suo ripresentarsi nell’attualità – dove il mito e il rito sacrificali non esistono più – come episodio singolo incontrollato, esplosione improvvisa di “follia” in contesti del tutto inaspettati, quali quelli di molte “normali” famiglie italiane. Potremmo azzardare un’ipotesi e concluderne, seguendo un po’ il filo del discorso demartiniano, che di questo dilagare disordinato della violenza nello

221

Sulla sindrome di Munchausen, NIVOLI 2002: 57-61; MERZAGORA BETSOS 1996: 213-225; della stessa anche il già citato (v. supra, n. 217) Demoni del focolare, 2003

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stesso ambiente domestico e familiare sia responsabile proprio l’attuale carenza, nella società occidentale, di un dispositivo di orientamento e di deflusso della crisi - che resta quindi irrisolta - pari a quello mitico-rituale che nelle società tradizionali operava ed opera attraverso la cosiddetta destorificazione religiosa. In questo mondo “desacralizzato” e soprattutto “desacrificalizzato”, infatti, l’uomo resterebbe preda dell’angoscia dell’esserci e soprattutto in balia di quell’istinto di morte, che non è più soddisfatto da orizzonti di evocazione e deflusso simbolici e si risolve ormai in comportamenti meramente distruttivi sul piano della realtà. Mancando il riscatto culturale, il cosiddetto “furore” prenderebbe infatti il sopravvento, nella forma di una mai sopita tendenza distruttrice e regressiva dell’uomo, di una “nostalgia del nulla” fine a se stessa. Suggestive sono le parole con cui lo stesso De Martino descrive il nuovo scenario del mondo occidentale: “E’ da tempo che una cupa invidia del nulla, una sinistra tentazione da crepuscolo degli dei dilaga nel mondo moderno come una forza che non trova adeguati modelli di risoluzione culturale, e che non si disciplina in un alveo di deflusso e di arginamento socialmente accettabile e moralmente conciliabile con la coscienza dei valori umani faticosamente conquistata nel corso della millenaria storia d’Occidente”.222 In questo ordine di idee potrebbe inserirsi anche il crescente numero di delitti straordinari e apparentemente incomprensibili maturati recentemente nella nostra società anche all’interno della famiglia, non da ultimi quelli, sempre più frequenti, che vedono delle madri assassinare i propri stessi figli. I simboli religiosi, anzitutto il mito ed i rito - nei cui ambiti, come abbiamo osservato, il motivo sacrificale giocava un ruolo fondamentale - rientravano infatti nelle strategie difensive e protettive con cui le varie società favorivano il deflusso del “furore” e spianavano la strada alla continua affermazione del valore, attraverso la continua rifondazione del sistema culturale. 222

DE MARTINO 2002 (1962): 173

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E’ interessante rilevare come nell’antica Atene la crisi, che investiva evidentemente in modo assai cogente il mondo femminile - del resto la donna era assai penalizzata socialmente, relegata all’angusto ruolo di moglie e madre trovava il proprio orizzonte di deflusso e di riscatto culturale proprio in quel menadismo, che abbiamo visto assegnare un posto tanto importante al figlicidio, che veniva tuttavia confinato nella non attualità del mito. Come abbiamo visto, infatti, nel mito la rappresentazione della sovversione dei valori consueti della vita civica ordinata era affidata proprio all’immagine della madre che dilania, nel modo più bestiale e ferino, i propri figli. Nel rito non accadeva nulla di simile, ma le crisi di disadattamento che minacciavano le donne, e soprattutto le giovani, erano comunque fatte defluire attraverso la proposta del modello simbolico del mito. Proprio la fuga ed il rifiuto delle norme civiche, ampiamente rappresentata nel mito in via diretta, e attuata nel rito in via simbolica, consentiva e garantiva il conseguente ritorno e la reintegrazione all’ordine consueto223. Il figlicidio del mito dionisiaco si inseriva dunque in questo quadro simbolico e prioritariamente mitico di risposta creativa alla crisi, anzitutto individuale, che colpiva prioritariamente la figura femminile. L’uccisione di un figlio da parte della madre era infatti - ed è tuttora - il valore inversivo per eccellenza rispetto alla norma e alla realtà desiderata e stereotipata dell’immaginario comune. Tuttavia proprio la sua presenza nella sfera del simbolico, nel nesso miticorituale, consentiva e garantiva efficacemente la rifondazione continua dell’ordine e con essa la non praticabilità dello stesso atto nella realtà storica quotidiana. Oggi tali dispositivi mitici e rituali sono divenuti inattuali e certamente non sono più proponibili, pur senza essere stati sostituiti, come ammonisce De

223

Lo stesso vale, sempre per citare gli esempi demartiniani, anche per il tarantismo pugliese, che con il menadismo pare apparentato: anche il tarantismo è orizzonte, a partecipazione prevalentemente femminile, di evocazione, deflusso e risoluzione di conflitti psichici irrisolti che “rimordono” nell’inconscio. Vedi DE MARTINO 1961

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Martino, da una valida ed adeguata alternativa consona allo spirito dei tempi ed alle esigenze del cosiddetto umanesimo integrale. Dal nichilismo “totale” contemporaneo - percepibile anche come abbandono di strutture culturali risolutive proprie - sembrano sorgere dunque gli episodi di follia quotidiana che riempiono le cronache dei giornali, ma anche i nuovi richiami, egualmente pericolosi, per un ritorno al “sacro”, anche ad un “sacro” sacrificale. Il figlicidio allora non è più tema propriamente mitico, evocato nel rito solo da diverse modalità di fuga dalla vita ordinata, ma diviene l’esito - purtroppo assai reale - dell’esplosione ormai incontrollata dell’istinto di morte. Ecco che allora il mito di Medea si ripresenta oggi nella veste della Sindrome di Medea, cioè il simbolo, creatore ed efficace, nonché mezzo di comunicazione, ha ceduto il posto al sintomo, al “cattivo” dispiegarsi della crisi nella forma, cifrata ed incomunicabile, della cosiddetta patologia. La sfera del “dire” ha lasciato luogo a quella di un “fare” sacrificale domestico, che tuttavia non è più inserito nella cornice simbolica, e creatrice, del rito. La distruzione risulta infatti in questi casi del tutto fine a se stessa, non essendo più inserita in alcun quadro utile alla periodica rifondazione del cosmo. Insomma, dalla Medea puramente mitica dell’immaginario collettivo greco, che pur assolveva una sua reale funzione, saremmo giunti oggi ad una nuova pratica per così dire “sacrificale”, e tuttavia ormai del tutto fine a se stessa, disorganica, isolata. Chiaramente, come De Martino ha opportunamente sottolineato, per far fronte a pericoli come questo, urge sempre di più l’esigenza di trovare nuovi modelli culturali positivi di ripresa attiva, capace di individuare la crisi e indicare i nuovi modi per la sua “destorificazione”.

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