Nigro-I Promessi Sposi Di Alessandro Manzoni

April 13, 2017 | Author: Big Leg Emma | Category: N/A
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«I PROMESSI SPOSI» DI ALESSANDRO MANZONI di Salvatore S. Nigro

Letteratura italiana Einaudi

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In: Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere Vol. III, a cura di Alberto Asor Rosa, Einaudi, Torino 1995

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Sommario 1-2.

Genesi, struttura, fonti.

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3-5.

Tematiche e personaggi.

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6.

Nota bibliografica.

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1-2. Genesi, struttura, fonti. Una finestra a ghigliottina. Roma, 19 agosto 1778. Alessandro Verri scrive al fratello Pietro: «Io sono stato poco soddisfatto della Nouvelle Héloise a segno che non ho possuto continuare la lettura dopo qualche lettera, e ciò perché vi ho trovato una morale falsa sotto il velo del sentimento filosofico, poiché insomma è un maestro a cui si confida una zitella, e finisce a farla madre»1. La lepidezza, sul mal sentimento e sul mal servizio della Julie, smentisce l’Entretien sur les romans entre l’éditeur et un homme de lettres pubblicato da Rousseau come seconda prefazione al romanzo (1761). In questione erano le seduzioni dell’immaginario romanzesco che, nell’esemplificazione malignamente estrema di Alessandro Verri, andavano ad agire sugli affetti di una vergine eccitandone quelle istanze ormoniche che il rispetto della condizione avrebbe dovuto persuadere ad escludere. Il caso rientrava nella casistica di follia da fascinazione e catturazione letterarie, stabilita dallo stesso Rousseau nel suo «dialogo immaginario»: L’on se plaint que les romans troublent les têtes; je le crois bien: en montrant sans cesse à ceux qui les lisent les prétendus charmes d’un état qui n’est pas le leur, ils les séduisent, ils leur font prendre leur état en dédain, et en faire un échange imaginaire contre celui q’on leur fait aimer [...]. Il faut que les écrits faits pour les solitaires parlent la langue des solitaires: pour les instruire, il faut qu’ils leur plaisent, qu’ils les intéressent; il faut qu’ils les attachent à leur état en leur rendant agréable2.

Un anno prima Pietro Verri, nei Ricordi a mia figlia Teresa, si era soffermato sulla «compagnia» cara e istruttiva dei libri: Io approvo che voi leggiate sterminatamente tutte le Commedie e tutte le Tragedie possibili, sono queste una dilettevolissima occupazione, vi conducono a sviluppare insensibilmente in voi medesima i penetrali del vostro cuore e dell’altrui, vi insegnano il più nobile e decente modo di conversare, vi sviluppano sentimenti nobili e generosi e sono una eccellente lezione di morale pratica. Anche i Romanzi scritti con decenza e con grazia gli approvo, escludo soltanto i troppo libertini i quali se avete l’anima delicata vi stomacano e se disgraziatamente l’aveste poco ferma vi prostituiscono alla dissolutezza3. 1 A. VERRI, Lettera a Pietro Verri del 19 agosto 1778, in P. VERRI e A. VERRI, Carteggio (1° luglio 1778 - 29 dicembre 1779), a cura di G. Seregni, Milano 1939, p. 53. 2 J. J. ROUSSEAU, Julie ou La nouvelle Héloise, Paris 1952, I, p. XVI (trad. it. di P. Bianconi, Giulia o La nuova Eloisa, I, Milano 1964, p. 31: «Ci si lagna che i romanzi fanno perdere la testa. Lo credo bene. Facendo continuamente vedere a quelli che li leggono i fallaci incanti d’uno stato che non è il loro, li seducono, li disgustano del loro proprio stato, al quale rinunciano per quello immaginario che i romanzi gli fanno amare [...]. Bisogna che gli scritti destinati ai solitari parlino il linguaggio dei solitari: per istruirlo bisogna che piacciano e interessino; bisogna che gli rendano piacevole il loro stato e glielo facciano amare»). Salvo diversa indicazione, le traduzioni presenti nel testo sono nostre. 3 P. VERRI, «Manoscritto» per Teresa, a cura di G. Barbarisi, Milano 1983, pp. 181-82.

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I due fratelli andavano di concerto. Con dotta complicità. Che spiega, infine, l’argomento morale, in stile espressionistico, della madre bambina; una volta che si sia richiamata la passione collezionistica (condivisa con Cesare Beccaria)4 che «indiavolatamente» tentava Pietro di fronte alle «stampe buffone inglesi» e alle «carte inglesi di figure strane e ridicole» di William Hogarth5. Il profilo della vergine passò in eredità al nipote dei Verri e di Beccaria. E si affacciò nella prosa di Alessandro Manzoni, a dar testimonianza, ancora una volta (e di nuovo a partire, anche, dal «dialogo immaginario» di Rousseau), del carico di responsabilità del genere romanzo: ripetutamente accusato di allettare e dilettare; e di produrre eccitazione con le sue malsentimentali smodatezze, e persino con le tenerezze dell’amor contento che ancor di più, e subdolamente, esponevano i lettori alla persuasione della concupiscenza. Ma la zitella venne ulteriormente «caricata» da Manzoni. Divenne estremisticamente hogarthiana, avanzata negli anni e inappetibile. E difatti, nel ciclo pittorico e grafico dei Quattro momenti del giorno di Hogarth, fa curva grottesca l’impettimento fino al naso affilato di una zia zitellona che di buon mattino consuma il «dramma quotidiano» della traversata della piazza, verso la chiesa di Covent Garden. La gentildonna è incurante dei mendicanti. È però interessata agli ultimi e scomposti amoreggiamenti delle coppiette non ancora rincasate: il suo occhietto è nervoso; guarda di sbieco, mentre il ventaglio chiuso preme sulle labbra, che sono una linea di dispetto, tirata e sottile. Alessandro Manzoni scrive all’abate Eustachio Degola, di attiva fede giansenista. È il 10 maggio del 1825: Come mai avete la bontà d’interessarvi alle bazzecole che escono dal mio calamaio? Sapete voi di che genere sia quella intorno a cui sto faticando, come se fosse un affare d’importanza? È di quel genere di composizioni, agli autori delle quali il vostro e mio Nicole regalava, senza cerimonia, il titolo di empoisonneurs publics. Certo, io ho posto ogni studio a non meritarlo; ma ci sarò poi riuscito? Quando abbiate veduta l’opera, aspetterò con impazienza, e non senza timore il vostro giudizio. Vi avverto però che io, da buon autore, ho in pronto apologie contro tutte le obiezioni che mai vi possano venire in mente; e intendo di giustificare il mio lavoro non solo dalla taccia di pernizioso, ma, vedete! anche dall’accusa di inutilità6. 4 Cfr. F. ANTAL, Hogarth and his Place in European Art, 1962 (trad. it. di A. De Caprariis, Hogarth e l’arte europea, Torino 1990, p. 356). 5 Si veda P. VERRI e A. VERRI, Viaggio a Parigi e Londra (1766-1767), a cura di G. Gaspari, Milano 1980, pp. 171, 193 e 202. 6 A. MANZONI, Lettera a Eustachio Degola del 15 maggio 1825, in ID., Tutte le lettere, a cura di C. Arieti, con un’aggiunta di lettere inedite o disperse, a cura di D. Isella, I, Milano 1986, p. 377. Cfr. anche Aggiunta II all’edizione di Cesare Arieti, a cura di D. Isella, in «Annali manzoniani», nuova serie, II (1994), pp. 79-150.

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Era già avvenuto con il teatro. Sul quale gravava la condanna agostiniana di immoralità, trasmessa a Manzoni dai moralisti francesi del gran secolo ai quali si era poi affiancato il Rousseau della Lettre à Mr. d’Alembert. I romanzi erano «livres corrupteurs de la vie humaine», per Nicole; e per il Bossuet della Lettre sur la comédie. Erano, per Bourdaloue, «divertissements criminels», rovinosi: «livres empestés» che dell’amore passionato oppure «honnête», trattato «par art et par règles», avevano fatto la «passion dominante et le ressort de toutes les autres passions»7. Per Manzoni non si trattò più di lodare o dislodare, di scusare o di accusare un genere letterario. Ma, più arditamente, di rifondare il romanzo; peraltro convinto, insieme al sodale Ermes Visconti, che non esistono giustificazioni che possano legittimare la messa al bando della letteratura o di qualcuna delle sue forme: Le arti del bello non si dovrebbero proscrivere, nemmeno se si potesse farlo senza incorrere ne’ gravissimi mali provenienti da un tale divieto sancito per leggi civili o procacciato da uno stolto rigorismo religioso o filosofico. Concludendo, la somma degli effetti delle arti del bello, purché gli artisti non vogliano abusarne scientemente, può essere favorevole alla virtù degli individui ed al meglio sociale8.

Il romanzo è «genere proscritto nella letteratura italiana moderna, la quale ha la gloria di non averne o pochissimi», scrive Manzoni9. E conta molto, nella presa d’atto, la terribilità dell’aggiunto di proibizione che porta su di sé l’inquietante memoria storica di un editto sulla «proscription des romans», ispirato dal cancelliere giansenista Daguesseau, ed effettivamente promulgato in Francia nel 173910. Già nel discorso Della Moralità delle Opere Tragiche, Manzoni aveva appuntato: «Opinione ricantata e falsa: che il poeta per interessare deve movere le passioni. Se fosse così sarebbe da proscriversi la poesia. – Ma non è così. La rappresentazione delle passioni che non eccitano simpatia, ma riflessione sentita è più poetica d’ogni altra»11. Il romanzo non andava svalutato, né tanto meno proscritto. Andava rifor-

7 L. BOURDALOUE, Sermon sur les divertissements du monde, in ID., Œuvres, I, Paris 1837, pp. 582- 584 («la passione dominante e il rinforzo di ogni altra passione»). 8 E. VISCONTI, Riflessioni sul bello e su alcuni rapporti di esso colla ragionevolezza, colla morale e colla presente civilizzazione europea (1819-22), in ID., Saggi sul bello, sulla poesia e sullo stile, a cura di A. M. Mutterle, Roma-Bari 1979, parte V, cap. 1, p. 164. 9 A. MANZONI, [Prima] Introduzione a ID., Fermo e Lucia, in ID., Tutte le opere, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, II/3, Milano 1954, p. 5. 10 Si veda G. MAY, Le dilemme du roman au XVIIIe siècle, Paris - New Haven Conn. 1963, cap. III (La proscription des romans), pp. 75-105. 11 A. MANZONI, Della Moralità delle Opere Tragiche, in ID., Tutte le opere, V. Scritti linguistici e letterari, t. III, a cura di C. Riccardi e B. Travi, Milano 1991, p. 57.

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mato, in quanto «genere filosofico»12; e cioè, trattato a proposito come «un ramo delle scienze morali»13. La questione era di poetica narrativa. Manzoni si rifaceva alla tradizione critica che andava dalle settecentesche Lectures on Rhetoric and Belles Lettres di Hug Blair (presto tradotte e commentate da Francesco Soave), all’Essai sur les fictions di Madame de Staël, fino al recupero del Blair dentro il discorso sui romanzi (presentato nel 1821 dal tipografo Giovanni Pirotta, ma attribuibile allo stampatore e libraio Antonio Fortunato Stella)14 che inaugura la milanese Biblioteca amena ed istruttiva per le donne gentili. Blair era stato esplicito: […] certamente le storie fittizie possono impiegarsi ad utilissimi usi; conciossiaché forniscan uno de’ mezzi migliori per trasmettere l’istruzione, per dipingere i costumi e le vicende dell’umana vita, per dimostrare gli errori, in cui siamo tratti dalle nostre passioni, per rendere amabile la virtù e odioso il vizio […]. Non è pertanto la natura di questo componimento considerato in sé stesso, ma la difettosa maniera di eseguirlo, quella che lo può rendere dispregevole15.

Il discorso attribuito allo Stella andava oltre. E, al di là del rigorismo giansenista, conciliava con la religione lo «scandalo» del genere romanzo: Numerose dissertazioni sono state scritte nei tempi addietro per provare che i romanzi, e così i componimenti teatrali, sono contrarii al vero spirito del cristianesimo, e i romanzieri quindi e i poeti di teatro essere pubblici avvelenatori non dei corpi, ma delle anime […]. Altri parlatori ci sono che si mostrano fortemente avversi ai romanzi, non perché ne abbiano letto alcuno, ché arrossirebbero a prenderne uno in mano, ma perché sanno che non v’ha romanzo in cui non entri l’amore, il quale per lo più anzi n’è la base principale. E come credono che l’amore, non conoscendolo forse essi che da un lato solo, non possa tendere ad altro che a contaminare i cuori ed a corromperli, così nei loro discorsi spiegano, sia apparente, o vero, un abborrimento tale all’amore, che quasi sembra che il volessero sbandito non solo dai libri, ma anche dalla terra. Costoro meglio ragionerebbero se, vedendo che l’amore non può sbandirsi dalla terra, a cui è stato dato per la conservazione delle cose, intendessero tutta la cura de’ savi stare in ben dirigerlo: onde d’istrumento di felicità, ché per tale la Provvidenza l’ha dato agli uomini, non diventi mezzo di ruina16.

Lo scoglio persistente era l’avversione moralistica alla passione amorosa, tra contenimento del sesso e gioia della virtù; e ancora, tra autoconservazione della 12 P. BORSIERI, Avventure letterarie di un giorno o consigli di un galantuomo a vari scrittori (1816), in Discussioni e polemiche sul Romanticismo, a cura di E. Bellorini e A. M. Mutterie, I, Roma-Bari 1975, pp. 152-56. 13 A. MANZONI, Materiali estetici, in ID., Tutte le opere, V cit., t. III, p. 20. 14 Si veda M. BERENGO, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino 1980, pp. 150-51. 15 U. BLAIR, Lezioni di rettorica e belle lettere, a cura di F. Soave, Venezia 1820, t. III, lezione XII, pp. 186-87. 16 Gli Editori alle persone che amano le letture amene ed istruttive, in A. LA FONTAINE, Biblioteca amena ed istruttiva per le donne gentili, I/1. Le confessioni al sepolcro, Milano 1821, pp. VI-VIII.

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specie ed estrinsecazione dissipatrice del desiderio. Su tutto, gli attentati alla continenza cristiana della carne. Non si faceva che perpetuare e ontologizzare, dall’una e dall’altra parte del dibattito, il vecchio precetto secentesco di Pierre-Daniel Huet: «l’amore dev’essere il principale argomento del Romanzo»17. Mise in crisi tanta ostinazione erotocentrica Madame de Staël. Che al romanzo apri nuovi scenari, e più vasti: Une raison motivée diminue cependant dans l’opinion générale l’estime qu’on devrait accorder au talent nécessaire pour écrire de bons romans, c’est qu’on les regarde comme uniquement consacrés à peindre l’amour, la plus violente, la plus universelle, la plus vraie de toutes les passions […]. Une carrière nouvelle s’ouvrirait alors, ce me semble, aux auteurs qui possèdent le talent de peindre, et savent attacher par la connaissance intime de tous les mouvements du cœur humain. L’ambition, l’orgueil, l’avarice, la vanité, pourraient être l’objet principal de romans dont les incidents seraient plus neufs et les situations aussi variées que celles qui naissent de l’amour18.

Lavorando una sua più sottile e ragionata avversione alle angustie e alle sconvenienze (di modi e non di sostanza) del romanzo erotocentrico («Il reste toujours une grande objection contre les romans d’amour; ce que cette passion y est peinte de manière à la faire naître et qu’il a est des moments de la vie dans lesquels ce danger l’emporte sur tout espèce d’avantages»)19, Madame de Staël arriva a prospettare un «romanzo senza amore»: del resto già realizzato dal «radicale» inglese William Godwin (Things as They are or the Adventures of Caleb Williams, 1794), come giallo stringente e ossessivo che una spietata caccia all’uomo espande in un «tableau le plus philosophique»20. Un «romanzo senza amore», alla fine. Così come nel 1675, nel dibattito sulla Iphigenie di Racine, e sulla moralità in genere del teatro tragico (e, di sguincio, del romanzo), era stata avanzata la proposta di «belles tragédies sans amour»: in un «dialogo immaginario» (tal quale quello assai più tardo di Rousseau); nell’Entre17 P.-D. HUET, Traité de l’origine des romans, 1670 (trad. it. Trattato sull’origine dei romanzi, a cura di R. Campagnoli e Y. Hersant, Torino 1977, p. 3). 18 A.-L.-G. NECKER DE STAËL - HOLSTEIN, Essai sur les fictions, in ID., Œuvres complètes, I, Paris 1871, p. 63 («Un giudizio ragionato scredita nell’opinione pubblica la considerazione che andrebbe riconosciuta alla vocazione necessaria a scrivere buoni romanzi, ed è che ad essi si guarda come unicamente votati alla pittura dell’amore, la più violenta, la più universale, la più vera delle passioni [...]. Un corso nuovo mi pare quindi che si aprirebbe agli autori capaci di narrare e avvincere per mezzo dello scandaglio intimo dei moti tutti del cuore. L’ambizione, l’orgoglio, l’avarizia, la vanità, potrebbero essere presi a tema di romanzi con vicende rinnovate e situazioni assai più varie di quelle ispirate dall’amore»). 19 Ibid., p. 71 («rimane comunque una grossa obiezione contro i romanzi d’amore; ed è che questa passione vi è dipinta in modo da fomentarla, e che vi sono momenti nei quali questo pericolo prevale su qualsivoglia vantaggio»). 20 Ibid., p. 70. Cfr. S. B. CHANDLER, Manzoni e William Godwin, in «Rivista di letterature moderne e comparate», (1975), 4, pp. 271-77; e A. CORRADO, William Godwin illuminista romantico, Napoli 1984.

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tien sur les tragédies de ce temps, apparso anonimo a Parigi e attribuito, nella riproposta del 1739, all’abate Pierre de Villiers. Un altro «dialogo immaginario» sull’amore aveva alle spalle Manzoni, quando invitò il Degola a disporsi a subire un’apologia del romanzo: della sua legittimità e della sua utilità. A scriverlo era stato lo stesso Manzoni, nello stile saggistico-colloquiale del «Conciliatore»: con un orecchio teso all’antica diatriba su Racine; con l’altro al Rousseau dell’Entretien e alla Madame de Staël dell’Essai; in dialogo sottinteso con gli amici di militanza letteraria, da Visconti, a Borsieri, a Pellico, al lontano Fauriel che nel frattempo era non a caso impegnato a sviscerare il codice amoroso del Petrarca21. Il Manzoni, che con il Degola corrisponde sul romanzo, ha già portato a termine la stesura del Fermo e Lucia (24 aprile 1821 - 17 settembre 1823). E in questo romanzo, all’inizio del tomo secondo, ha aperto una digressione sotto forma di «discussione sopra principj» con un «personaggio» burbanzoso voluto «ideale» per poterlo trattare «senza cerimonie»: come farà nella lettera a Marco Coen del 2 giugno 1832 («[...] quel che m’ha dato animo a dirle così schiettamente il mio parere, è stato appunto l’aver che fare come con personaggio ideale: e proverei ora la vergogna che a cagion di ciò non ho provata, se venissi a trovarmi dinanzi al personaggio vero, e potessi dire a me stesso che ho fatto il dottore al signor tale»)22; in forza di una prassi del «Conciliatore», sulla quale aveva richiamato l’attenzione Ermes Visconti («Gl’interlocutori de’ dialoghi scientifici sogliono riguardarsi quasi come enti immaginarj, anche quando portano il nome di persone reali: servono ad esprimere le opinioni di chi scrive, e le opinioni contrarie di cui volsi mostrare l’imperfezione o la fallacia»)23. Il contraddittorio è spesso incordiale, e senza cerimoniali. Manzoni è incalzato dall’impazienza crucciosa del «personaggio ideale»: dalla sua spavalderia e da qualche pensiero velenosetto. E il suo vario inquietarsi esplode infine in un brusco licenziamento dell’interlocutore; senza acquietamento. La durezza di Manzoni si fa forza di un principio irrinunciabile e capitale, che mai può venire a patti con un’idea di romanzo come letteratura della dilettazione: Se le lettere dovessero aver per fine di divertire quella classe d’uomini che non fa quasi altro che divertirsi, sarebbe la più frivola, la più servile, l’ultima delle professioni. E vi confesso che troverei qualche cosa di più ragionevole, di più umano, e di più degno nelle occupazioni di un montambanco che in una fiera trattiene con sue storie una folla di 21 Per Fauriel, Cfr. G. FOLENA, Manzoni «libertino» e i romanzi d’amore, in AA.VV., Manzoni e oltre, Napoli 1987, pp. 11-50. 22 A. MANZONI, Lettera a Marco Coen del 2 giugno 1832, in ID., Tutte le lettere cit., t. 1, p. 671. 23 E. VISCONTI, Dialogo sulle unità drammatiche di luogo e di tempo, in «Il Conciliatore», II (1819), n. 42; cfr. Il Conciliatore. Foglio scientifico-letterario, a cura di V. Branca, II, Firenze 1953, p. 91.

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contadini: costui almeno può aver fatti passare qualche momenti gaj a quelli che vivono di stenti e di malinconie; ed è qualche cosa24.

Il nuovo romanzo, rifondato e ricodificato, non è trastullo di oziosi: che sul «serio» prendono solo il «divertimento»25. L’intemerata, tra tanta esplicita e rilevata dichiarazione, si diverte a reticere e a svagolare: per umiliare e confondere l’intelligenza del «personaggio ideale» che, partigiano di una letteratura grossolana che ha i «mezzi più potenti di dilettare», non arriva a capire le sottigliezze di un Manzoni che sta costeggiando il Triumphus Cupidinis di Petrarca all’altezza di quei versi (1, 82-84: «Ei [Amore] nacqua d’ozio e di lascivia umana, | nudrito di pensier dolci soavi, | fatto signore e dio da gente vana»)26 sui quali andava modellando le qualità morali dei libertini del suo romanzo: di don Rodrigo, la cui passione per Lucia era «nata per ozio», o meglio era «nata d’ozio e di lascivia» come più scopertamente petrarcheggia una variante27; e di Egidio, alle cui seduzioni il dialogo fa da premessa, che «parte per ozio, parte per curiosità» si affacciava a spiare le converse dall’abbaino della propria casa.28 Il tema era la corrispondenza tra l’oziosità e vanità dell’amore-passione e il diletto della letteratura d’amore. Con malthusiano divertimento, Manzoni aveva detto prima: Concludo che l’amore è necessario a questo mondo: ma ve n’ha quanto basta, e non fa mestieri che altri si dia la briga di coltivarlo; e che col volerlo coltivare non si fa altro che farne nascere dove non fa bisogno. Vi hanno altri sentimenti dei quali il mondo ha bisogno, e che uno scrittore secondo le sue forze può diffondere un po’ più negli animi: come sarebbe la commiserazione, l’affetto al prossimo, la dolcezza, l’indulgenza, il sacrificio di se stesso: oh di questi non v’ha mai eccesso; e lode a quegli scrittori che cercano di metterne un po’ più nelle cose di questo mondo: ma dell’amore come vi diceva, ve n’ha, facendo un calcolo moderato, seicento volte più di quello che sia necessario alla conservazione della nostra riverita specie. Io stimo dunque opera imprudente l’andarlo fomentando cogli scritti [... ]29.

Il dibattito aveva avuto presentazione e inscenatura provocatorie, sebbene non sembrasse: la narrazione sarà sospesa alquanto da una discussione quale occuperà probabilmente 24

A. MANZONI, Fermo e Lucia cit., t. n, cap. I, p. 148. L’evidenza esponenziale è nel cap. XVII della Parte prima (1819) di ID., Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di R. Amerio, Milano-Napoli 1961, I, p. 154. 26 F. PETRARCA, Trionfi, a cura di F. Neri, in ID., Rime, Trionfi e Poesie latine, a cura di F. Neri, G. Martellotti, E. Bianchi e N. Sapegno, Milano-Napoli 1951, p. 484. 27 A. MANZONI, Fermo e Lucia cit., t. II, cap. VI, pp. 238-39 (e p. 825 dell’apparato). 28 Ibid., cap. V, p. 212 (e p. 822 dell’apparato). 29 Ibid., cap. I, p. 145. 25

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un buon terzo di questo capitolo. Il lettore che lo sa potrà saltare alcune pagine per riprendere il filo della storia far così: giacché le parole che mi sento sulla punta della penna sono tali da annojarlo, o anche da fargli venir la muffa al naso30.

Il lettore, che si infastidisce alle uscite digressive e ai rientri dalla e nella trama del racconto, è di quelli che preferiscono una letteratura irriflessiva; ed è quindi un lettore, non tanto da scoraggiare, ma da «toccare al vivo» didatticamente: se si lascia compromettere dal gesto ostentativo di una «penna» irrisoriaa, che ha dalla sua la forza irritante di un’intesa «milanese» tutta da nasare sui lemmi del Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini («Andà al nas. Saperne male. Sentirne male. Dar nel naso. Venir la muffa al naso. Sentire grave disgusto di parole o fatti altrui che ci tocchino al vivo. Gli cuoce. Gli sa rea. Gli pute»)31. La messa in scena della disputa sull’amore nel romanzo prende avvio dall’obiezione del «personaggio ideale», a proposito della sobrietà di cuore dei protagonisti della vicenda: I protagonisti di questa storia […] sono due innamorati; promessi al punto di sposarsi, e quindi separati violentemente dalle circostanze condotte da una volontà perversa. La loro avversione è quindi passata per molti stadi, e per quelli principalmente che le danno occasione di manifestarsi e di svolgersi nel modo più interessante. E intanto non si vede nulla di tutto ciò: ho taciuto finora ma quando si arriva ad una separazione secca, digiuna, concisa come quella che si trova nella fine del capitolo passato, non so lasciare di farvi una inchiesta: – Questa vostra storia non ricorda nulla di quello che gl’infelici giovani hanno sentito, non descrive i principj, gli aumenti, le comunicazioni del loro affetto, insomma non li dimostra innamorati?32.

Manzoni difende il suo casto romanzo, privo di dispendi amorosi e invece sensibile alle verecondia e alle semplicità di cuore; epperò disposto a concedere dell’amore una rappresentazione lecita, senza complicità e simpatie da parte dei lettori chiamati piuttosto a una «riflessione sentita»: «[…] io sono del parere di coloro i quali dicono che non si deve scrivere d’amore in modo da far consentire l’animo di chi legge a questa passione»33. Il «personaggio ideale» si scandalizza. E prorompe: «Ma i vostri riguardi sono tanto più strani, in quanto l’amore dei vostri eroi è il più puro, il più legittimo, il più virtuoso; e se poteste descriverlo in modo di eccitarne il consenso, non fareste che far comunicare altrui ad un sentimento virtuoso»34. 30

Ibid., p. 143. F. CHERUBINI, Vocabolario milanese-italiano, Milano 1841, III, s. v. «Nàs», p. 162. 32 A. MANZONI, Fermo e Lucia cit., t. II, cap. I, pp. 144-45. 33 Ibid. 34 Ibid. 31

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L’amore semplice e innocente non può essere narrato, ribatte Manzoni. E non per moralistico pregiudizio. La questione è stilistica: Se io potessi fare in guisa che questa storia non capitasse in mano ad altri che a sposi innamorati, nel giorno che hanno detto e inteso in presenza del parroco un sì delizioso, allora forse converrebbe mettervi quanto amore si potesse poiché per tali lettori non potrebbe certamente aver nulla di pericoloso. Penso però, che sarebbe inutile per essi, e che troverebbero tutto questo amore molto freddo, quand’anche fosse trattato da tutt’altri che […] da me35.

La retorica discreta della preterizione e della reticenza è da Manzoni contrapposta all’abuso sentimentale delle superfetazioni romanzesche. E tale scelta di poetica è illustrata da due aneddoti in perfetto shandean style, che sternianamente ci riportano all’espressionismo tra sublime e grottesco delle «figure strane e ridicole» della Londra hogarthiana dei Verri: […] ponete il caso, che questa storia venisse alle mani per esempio d’una vergine non più acerba, più saggia che avvenente (non mi direte che non ve n’abbia), e di anguste fortune, la quale perduto già ogni pensiero di nozze, se ne va campucchiando, quietamente, e cerca di tenere occupato il cuor suo coll’idea dei suoi doveri, colle consolazioni della innocenza e della pace, e colle speranze che il mondo non può dare né torre; ditemi un po’ che bell’acconcio potrebbe fare a questa creatura una storia che le venisse a rimescolare in cuore quei sentimenti, che molto saggiamente ella vi ha sopiti. Ponete il caso che un giovane prete il quale coi gravi uffici del suo ministero, colle fatiche della carità, con la preghiera, con lo studio, attende a sdrucciolare sugli anni pericolosi che gli rimangono da trascorrere, ponendo ogni cura di non cadere, e non guardando troppo a dritta né a sinistra per non dar qualche stramazzone in un momento di distrazione, ponete il caso che questo giovane prete si ponga a leggere questa storia: giacché non vorreste che si pubblicasse un libro che un prete non abbia da leggere: e ditemi un po’ che vantaggio gli farebbe una descrizione di questi sentimenti ch’egli debbe soffocar ben bene nel suo cuore, se non vuole mancare ad un impegno sacro ed assunto volontariamente, se non vuole porre nella sua vita una contraddizione che tutta la alteri36.

Manzoni aveva letto il Tristram Shandy nella traduzione e rimanipolazione francese iniziata da Joseph Pierre Frénais (1776) e portata a termine da Antoine G. Griffet de la Beaume (1785)37; varie volte ristampata, e non sempre con l’indicazione dei traduttori. Su di essa aveva affinato certi suoi scatti di finta intolleranza, in dialogo con i lettori costretti dall’andamento digressivo a uscire spesso e 35

Ibid. Ibid. 37 Su questa traduzione cfr. C. BERTONI, Il ftltro francese: Frénais e C.nie nella diffusione europea di Sterne, in AA. VV., Effetto Sterne. La narrazione umoristica in Italia da Foscolo a Pirandello, Pisa 1990, pp. 119-59. 36

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malvolentieri dalla linea del racconto: «[…] questa bella storia se la volete sapere, bisogna lasciarmela contare a modo mio»38; «[...] laissez-moi vous conter mon histoire à ma mode»39. E da essa aveva tolto i casi paradossali della zitella (forzata al non-amore) e del pretino (che della castità aveva fatto voto). Il caporale Trim, nel Tristram Shandy, voleva rinarrare un incidente imbarazzante occorso al piccolo protagonista: La servante avoit oublié de mettre un pot de chambre sous le lit. – Ne pouvez-vous, me dit Suzanne, en soulevant le châssis de la fenêtre d’une main, et m’amenant tout près de la banquette avec l’autre, ne pouvez-vous, mon petit ami, essayer pour une fois de vous en passer? J’avois alors cinq ans. – Suzanne ne fit pas réflexion que de père en fils nous portions un nez ridiculement raccourci; témoin mon bisayeul. – Pan, – le châssis retomba sur nous comme un éclair. – Tout est perdu! s’écria Suzanne, tout est perdu! Je n’ai plus qu’à me sauver40.

Era una storia di vasi da notte e di finestre a ghigliottina; e di un piccolo pene, del suo prepuzio offeso e della sua fimosi. Trim vuole riferire l’episodio con decenza, in modo che possa essere ascoltato (ed eccoci agli esempi addotti da Manzoni) da «preti e vergini»: «Trim posa son premier doigt à plat sur la table, puis en le frappant à angle droit avec le tranchant de son autre main, il trouva moyen de raconter mon histoire de manière que les prêtres et les vierges auroient pu l’écouter sans rougir»41. Fece solo un gesto di taglio, e la narrazione cadde: detta e non detta. Patatras, è il titolo della storia. Che prospetta una soluzione assai più complessa, una professione di narrazioni rese mute, rispetto allo scherzo di società che nella Francia napoleonica indusse Vivant Denon, consigliere d’ambasciata a Napoli e poi direttore generale unico dei musei francesi, a scrivere il romanzetto Point de lendemain: un petit conte libertine, che voleva dimostrare come si potesse scrivere una storia d’amore senza fare ricorso a un linguaggio sconveniente. Il «personaggio ideale» continua a fraintendere. Riconduce le risposte del romanziere a un angusto moralismo. E contrattacca: «Ebbene, Racine. Non è ella 38

A. MANZONI, Fermo e Lucia cit., t. II, cap. II, p. 161. L. STERNE, Vie et opinione de Tristram Shandy, in ID., (Œuvres complètes, Paris 1803, t. I, cap.VI, p. 15. 40 Ibid., t. III, cap. XIX, pp. 73-74 («La fantesca aveva dimenticato di mettere un vaso da notte sotto il letto. Suzanne, mentre con una mano sollevava la serranda della finestra e con l’altra mi accostava al davanzale, mi fa: – Non puoi per una volta provare a fame a meno, piccino mio? –. Avevo allora cinque anni. Suzanne non aveva tenuto conto del fatto che, di padre in figlio, in famiglia abbiamo tutti un naso ridicolmente abbreviato; lo testimonia il mio bisavolo. – Zac –, la serranda venne giù, addosso a me, come un fulmine. – Non c’è più niente da fare! – grida Suzanne – Non c’è più niente da fare! Non mi rimane che scappare »). 41 Ibid., cap, XXII, p. 78 («Trim mise il dito indice steso sul tavolo; poi, colpendolo ad angolo retto con il taglio dell’altra mano, trovò come raccontare la mia storia in modo che preti e vergini avessero potuto ascoltarla senza arrossire»). 39

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cosa convenuta fra tutti gli uomini che hanno due dita di cervello, e che non sono un secolo indietro dagli altri, che il pentimento che Racine provò per le sue tragedie è una debolezza degli ultimi suoi anni, debolezza indegna di quel grande intelletto, debolezza che fa compassione?»42. La mossa è insidiosa. Ed è ardua la presa di posizione di Manzoni. C’è il Racine delle «tragedie amorose»; e c’è il Racine ravveduto di Athalie. C’è il poeta «tormentato e tormentatore pei meschini interessi della letteratura, e della sua letteratura»; e c’è il poeta libero dalle passioni, «in pace con sé, col genere umano e coi letterati [...] che si pentiva di avere scritte rime d’amore»43. Se delle «tragedie amorose» di Racine fosse sopravvissuto un unico esemplare; se fosse nelle mani di Manzoni, e Racine lo richiedesse per darlo alle fiamme; ebbene, Manzoni non avrebbe avuto esitazioni: Io glielo avrei dato subito perché quel brav’uomo potesse aver la soddisfazione di gettarlo sul fuoco. Come! voi credete che si sarebbe dovuto esitare a togliergli dal cuore questa spina? Gliel’avrei dato subito, perché il dispiacere ragionato, serio, riflessivo, nobile di Racine era un sentimento più importante, che non sia stato e non sia per essere il piacere che hanno dato e che sono per dare le sue tragedie fino alla consumazione dei secoli44.

Il Racine «greco» era, per Manzoni, uomo di dolore; e contrastante: «tormentato e tormentatore». La fallacia tematica della letteratura, e la scelta del mondo nella vita pratica, gli avevano fatto condividere la bufera infernale di quegli «eroi» incontinenti che la «ragione» avevano sottomesso al «talento»: dantescamente. Lo rileva la ripresa di un verso dell’Inferno (VI, 4: «novi tormenti e novi tormentati»), che si lasciava alle spalle l’amore colpevole dei due cognati più celebri della letteratura. Con la conversione all’«apologie» era subentrato in Racine l’uomo del «dispiacere ragionato». E nell’Adelchi, nella vicenda di Ermengarda («trasposizione purgatoriale dell’inferno di Fedra»)45, Manzoni andava intanto mettendo in atto un suo Racine «riformato»46: [...] O Carlo, farmi morire di dolor, tu il puoi; ma che gloria ti fia? Tu stesso un giorno dolor ne avresti. – Amor tremendo è il mio. Tu nol conosci ancora; oh! tutto ancora 42

A. MANZONI, Fermo e Lucia cit., t. II, cap. 1, p. 146. Ibid., p. 147. 44 Ibid., p. 148. 45 P.P. TROMPEO, Vecchie e nuove rilegature gianseniste, Napoli 1958, p. 81. 46 Cfr. G. CONTINI, Manzoni contro Racine (1939), in ID., Esercizi di lettura […], nuova edizione accresciuta, Torino 1974, pp. 349-57. 43

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non tel mostrai: tu eri mio: secura nel mio gaudio io tacea; né tutta mai questo labbro pudico osato avria dirti l’ebbrezza del mio cor segreto47.

Il «gaudio» è la santa letizia del matrimonio, differenziata dall’«ebbrezza» profana della passione amorosa. E qui la tragedia si annoda con il Fermo e Lucia: «Chiesa, dove era preparato un rito [matrimoniale], dove l’approvazione e la benedizione di Dio doveva aggiungere all’ebbrezza della gioia il gaudio tranquillo e solenne della santità»48. Il linguaggio manzoniano lavora sul principio agostiniano della «castità coniugale», attraverso il Traité de la concupiscence di Bossuet: «[…] le mariage est un bien, et un grand bien, puisque c’est un grand Sacrement en J. C. et en son Eglise […]. Mais c’est un bien qui suppose un mal dont on use bien; c’est-à-dire, qui suppose le mal de la concupiscence […]»49. La Digressione sull’amore fa da cerniera tra il brano sulle temperanze dell’amore «giocondo» e «lieto» (che lo spirito romanzesco surdeterminerebbe) e le passioni tenebrose di Egidio e della Monaca insanguinata; tra un respiro di cielo e la pesantezza del corpo, per usare il linguaggio di Bossuet; o (tornando al linguaggio di Manzoni) «[…] per quel pudore che non nasce dalla trista scienza del male, per quel pudore che ignora se stesso, e somiglia al sospetto del fanciullo che trema nelle tenebre senza sapere che cosa ci sia da temere»50, e l’«albero della scienza» che «aveva maturato un frutto amaro e schifoso»51. Da una parte si colloca l’inibizione narrativa. Dall’altra la diffusione, sostenuta da una salutare e distanziante pedagogia (tragica) dell’orrore: «Siamo stati più volte in dubbio se non convenisse stralciare dalla nostra storia queste turpi ed atroci avventure; ma esaminando l’impressione che ce n’era rimasta, […] abbiamo trovato che era una impressione d’orrore; e ci è sembrato che la cognizione del male quando ne produce l’orrore sia non solo innocua ma utile»52. Nei Promessi sposi, dove la Digressione sull’amore non comparirà più, la teologia morale del riserbo e la poetica romantica della narrabilità passeranno in 47 A. MANZONI, Adelchi, atto IV, scena I, vv. 145-53, in ID., Tragedie, a cura di G. Bollati, Torino 1965, p. 188 (corsivi nostri). 48 ID., Fermo e Lucia cit., t. I, cap. VIII, p. 140 (corsivi nostri). 49 J.-B. BOSSUET, Traité de la concupiscence, 1742, p. 23 (trad. it. di G. Beltrani, Trattato della concupiscenza, presentazione di M. Sgalambro, Catania 1994, p. 22: «[…] il matrimonio […] è un bene, un bene immenso, poiché è un grande sacramento in Gesù Cristo e nella sua Chiesa […]. Ma è un bene che presuppone un male di cui facciamo buon uso, vale a dire che presuppone il male della concupiscenza»). 50 A. MANZONI, Fermo e Lucia cit., t. I, cap. VIII, p. 135. 51 Ibid., t. II, cap. V, p. 217. 52 Ibid., cap. VI, p. 125.

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consegna a Lucia. Che la sua storia di sentimenti impronunciabili confronterà con quella narrabile della Monaca: […] alla povera innocente quella storia [la sua] pareva più spinosa, più difficile da raccontarsi, di tutte quelle che aveva sentite, e che credesse di poter sentire dalla signora. In queste c’era tirannia, insidie, patimenti; cose brutte e dolorose, ma che pur si potevan nominare: nella sua c’era mescolato per tutto un sentimento, una parola, che non le pareva possibile di proferire, parlando di sé; e alla quale non avrebbe mai trovato da sostituire una perifrasi che non le paresse sfacciata: l’amore!53.

E la parola fatidica, non da Lucia è esclamata, ma dallo sfacciatissimo Manzoni. Il bistrattato «personaggio ideale» viene licenziato con uno «Sparisci», che non consente repliche. Tuttavia il suo profilo farà capolino, un’altra volta ancora, nella scena della scrittura del Fermo e Lucia: «[…] questo lettore ha un animo ineducato al bello morale, avverso al decente, al buono istupidito nelle basse voglie, curvo all’istinto irrazionale»54. Il «personaggio» è stato però zittito, ormai. Definitivamente. Quei venticinque. Manzoni si era abbassato a scrivere un romanzo, malignò Tommaseo. Che fece riassumere allo scrittore intervistato la sua inedita Digressione sull’amore nel romanzo. A suo modo, però, e preparando il Fogazzaro, che (con «turbamento» e «commozione amara») parlerà di una «questione» esclusivamente «morale»55: «[...] suo proposito era che quel libro potesse essere letto dalla sua Giulia, allora di quindici anni»56. L’indicazione ha fatto storia. È stata ripetuta con le frange: gonfiata, enfatizzata, e ulteriormente moralizzata. Fino a depositarsi in una lettera impossibile spedita a don Lisander da Albino Luciani, prima di salire al soglio pontificio con il nome di Giovanni Paolo I: Dovunque la vostra penna toccava, sprizzavano scintille di fede religiosa, il che non poteva succedere, se la mente e il cuore, che dirigevano la vostra mano nello scrivere di religione non fossero state piene. I Promessi Sposi testimoniano in questo senso dal principio alla fine; è infatti sintomatico che di essi, di un romanzo, di una storia d’amore,

53 ID., I promessi sposi (nelle due edizioni del 1840 e del 1825-27 raffrontate tra loro), a cura di L. Caretti, Torino 1971, cap. XVIII, pp. 418-19. 54 ID., Fermo e Lucia cit., t. III, cap. IV, p. 407. 55 A. FOGAZZARO, Un’opinione di Alessandro Manzoni (1887), ID., Scritti di teoria e etica letteraria, a cura di E. Landoni, Milano 1983, pp. 101-26. Cfr. anche L. CAPUANA, Nuovi ideali d’arte e di critica, in ID., Cronache letterarie, Catania 1899, pp. I-XXXII; e ID., Lettera a Giovanni Alfredo Cesareo del 12 luglio 1914, in Luigi Capuana a Giovanni Alfredo Cesareo (1882-1914), a cura di L. Sportelli, Valguarnera 1950, pp. 68-69. 56 N. TOMMASEO, Colloqui col Manzoni, in R. BONGHI, G. BORRI e N. TOMMASEO, Colloqui col Manzoni, a cura di A. Briganti, Roma 1985, p. 130.

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Ludovico da Casoria, frate santo, abbia potuto dire: – È un libro che potrebbe essere letto in un coro di vergini presieduto dalla Madonna –57.

Dalla zitella, all’adolescente di casa Manzoni, alla Vergine Maria. Una bella promozione, non c’è che dire. Rimane tuttavia il problema dei lettori elettivi di Manzoni. Del suo numero. Limitato, volutamente e ponderatamente, a venticinque. Una questioncella, forse; ma di quelle che hanno fatto polverone. La sollevò, tirandola a fare effetto, il De Gubernatis: È potuto parere strano ai lettori de’ Promessi Sposi che il Manzoni fissasse il numero de’ suoi lettori a soli venticinque; o eran troppi, o troppo pochi; si disse che in quel caso il Manzoni affettava soverchia modestia; ma è difficile il cogliere il Manzoni in fallo; il buon senso è stato forse più vicino a lui che a qualsiasi altro mortale. Ora noi sappiamo che, prima di venir pubblicati, i Promessi Sposi furono veramente letti e talora molto criticati da un numero scelto di amici, che potrebbero per l’appunto sommare insieme al numero di venticinque58.

Provvide il figliastro di Manzoni, Stefano Stampa, a ridimensionarla: Anche il sig. De Gubernatis si scervella per interpretare cosa significhino i miei 25 lettori dei Promessi Sposi! [...] Si tranquillizzi perché il problema è bello e sciolto per bocca del Manzoni stesso (e mi pare d’averlo già detto) il quale, anche su questo, interrogato direttamente da me, rispose che aveva voluto dire né più, né meno che, i miei pochi lettori, senza allusione a nessun altro significato. Se questa frase l’avesse presa poi da qualche proverbio o modo di dire toscano, o l’abbia inventata lui, nol saprei dire59.

La faccenda si chiuse sull’affettazione di modestia. Si riaprì tuttavia sul versante erudito, alla ricerca delle fonti letterarie della cifra tonda. Ed ecco la lunga serie di riscontri, su testi che vanno dal Trecento al Seicento, esibita da Mario Ferrara, per dimostrare il «valore convenzionale» e come «cristallizzato» dell’indicazione numerica60. Alla precisione del Ferrara diede autorità Bruno Migliorini61. E inquietò tutte le posizioni, di azione vecchia divenute nuove e sovreccitate, Virginia Monzini. In una gherminella, arguta: Se ci accostiamo all’interpretazione che lascia scorgere nei ‘venticinque’ una finta manzoniana modestia, parlava forse nel Manzoni un giusto orgoglio ben dissimulato: l’opera sua poteva piacere soltanto a pochi lettori, che dall’invenzione su sfondo storico sa57

A. LUCIANI, L’unica aristocrazia, in ID., Illustrissimi (1975), Padova 19783, p. 210. A. DE GUBERNATIS, Alessandro Manzoni. Studio biografico, Firenze 1879, pp. 265-66; si veda anche ID., Il Manzoni ed il Fauriel studiati nel loro carteggio inedito, Roma 18802,p. 237. 59 S. STAMPA, Alessandro Manzoni. La sua famiglia. I suoi amici. Appunti e memorie, II, Milano 1889, p. 176. 60 Cfr. M. FERRARA, Per «i venticinque lettori» del Manzoni, in «Lingua nostra», IX (1948), 3-4,pp. 64-67. 58

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pessero assurgere fino a comprendere un’equilibrata sapienza di pensiero e di stile. Ma non è questione da dirimere con un giudizio assoluto; anche pei ’venticinque’ l’ambiguità manzoniana ondeggia con la garbata insidia del doppio senso62.

Non c’è dubbio. All’inizio aveva agito in Manzoni un criticismo di modestia. Nel Fermo e Lucia lo scrittore interloquisce genericamente con «pochi lettori»63, che rischia di disaffezionare per strada negli andirivieni di una narrazione digressiva e progressiva insieme: «[...] abbiamo forse già perduti i tre quarti dei nostri lettori; cioè almeno una trentina»64. Ancora più depresso è il numero d’affetto, nella lettera al Fauriel dell’11 giugno 1827. Qui è regredito a «dieci»65. Solo nei Promessi sposi la dannazione degli scarsi lettori si qualifica nella discussa misura: «Pensino ora i miei venticinque lettori [...]»66; all’interno della quale, lo scrittore ne individua «dieci» (quanti ne esibiva a Fauriel) più anziani67. Bisogna intendere i gradi di ironia e di divertita autoironia percorsi da Manzoni mentre si proponeva di dare all’Italia la «gloria» di un’opera, che si vantava di appartenere al genere «proscritto» dalle convenzioni letterarie e da quelle (tuttavia congeniali all’autore) del rigorismo religioso di giansenistica vocazione. Di questa giocata impudenza dà testimonianza la lettera citata al Degola, nella quale Manzoni si proclama empoisonneur public: con l’autorità che al titolo deriva da Nicole. Su questa scena si esibiscono i «venticinque» già visti in visione (con l’approssimazione di un circa) dal profeta Ezechiele (8, 16) e riproposti (in cifra piena) dall’incandescente oratoria del Memoriale ai milanesi di Carlo Borromeo: «Ezechiel […] vide quei venticinque uomini, che avevano voltato le spalle al tempio e la faccia ad oriente e adoravano il sole. Non vi pare, o figliuoli, che in un certo modo a guisa di questi siano tutti quelli che voltate le spalle a Dio, si daranno a godere il mondo […]?»68. Proprio come gli ipotetici lettori di una «bazzecola» di romanzo che, di concerto con l’autore, si prostrano al profano e trascurano gli affari «d’importanza». Che era un modo, in estremo, per strizzar l’occhio e dar di gomito al Bartoli della Geografia trasportata al morale. Il gesuita aveva tenuto il conto delle ore che in un anno un «pazzo» investe in sonno, giochi, cicalecci, commedie, novelle, romanzi, poesie, ozi, e «fatiche peggiori dell’ozio». Fatta la somma, e calcolato il resto, aveva concluso: «D’ottomile settecento sessantase’ ore 61

Cfr. B. MIGLIORINI, I miei venticinque lettori, in «Video», VIII (1973), 9, p. 29. V. MONZINI, La critica dei «venticinque», in «Convivium», XXXIII (1965), 1, pp. 360-91. 63 A. MANZONI, [Prima] Introduzione cit., pp. 7 e 8. 64 ID., Fermo e Lucia cit., t. II, cap. IX, p. 323. 65 ID., Lettera a Claude Fauriel dell’11 giugno 1827, in ID., Tutte le lettere cit., t. I, p. 415. 66 ID., I promessi sposi cit., cap. I, p. 28. 67 Ibid., cap. IX, p. 199. 62

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che compongono un anno, inorriderà al non vedercene rimanere, delle spese utilmente (che sole può dir sue), voglialo Iddio, che venticinque»69. Venticinque ore sante. Venticinque lettori «pazzi». E ancora, dentro la favola del romanzo: le venticinque berlinghe di un debito con il curato; i venticinque scudi di una multa; i venticinque anni di una Monaca giunta al punto. L’Anonimo e il Gesuita. La Fama è un centone anatomico. Uno svolazzo di dovizioso apparato. Uno sconcertato concerto. Divinità grifagna e nefaria, tutto, tra cielo e terra, involge e svolge: è una ciarla a scataroscio; un deliramento, che verità e menzogna non divaria. Così la rappresenta Manzoni, per ben due volte: […] quella che ha (mirabile a dirsi!) tanti occhi quante penne, e tante lingue quanti occhi, e (ma questo pare più naturale) tante bocche quante lingue, e finalmente tante orecchie quanti occhi lingue e bocche (debb’essere una bella dea) questa ultima sorella di Ceo e di Encelado, partorita dalla Terra in un momento di collera, veloce al passo e al volo, che cammina sul suolo e nasconde il capo tra le nuvole, che vola di notte per l’ombra del cielo e della terra, né mai vela gli occhi al sonno; e di giorno siede sui comignoli dei tetti o su le torri, e spaventa le città, portando attorno il finto e il vero indifferentemente, costei aveva già prima della notte diffusa nei paesi circonvicini la storia delle avventure di quel giorno70.

Il targone avviva la ragionata visione delle strumenterie del classicismo mitologico: Per fare intendere al lettore questa particolarità, abbiamo usurpato formole che a dir vero appartengono esclusivamente alla poesia, ma saremo scusati da coloro, i quali sanno che ad imprimere vivamente una immagine nelle fantasie il mezzo più efficace è l’allegoria, e singolarmente quella già nota e consecrata delle antiche favole: poiché quando si vuol fare immaginar bene una cosa, bisogna rappresentarne un’altra: così fatto è l’ingegno umano quando è coltivato con diligenza71.

La dea è un mostro generato «a bel diletto» dalla «bella» letteratura della falsificazione: «la natura, e la bella natura, sono due cose diverse»72; che fra loro confliggono, come la naturale bellezza del «vero storico» e del «vero morale» con la guasta e stolida «poesia» di «una immaginazione falsa, non fondata, o stravagante». È il nodo teorico dei Materiali estetici (1816-19)73 e della lettera al mar68

C. BORROMEO, Memoriale ai milanesi, prefazione di G. Testori, Milano 1965, parte Il, cap. II, p. 82. D. BARTOLI, La geografia trasportata al morale, Venezia 1666, cap. VIII (Le campagne d’Uraba), p. 121. 70 A. MANZONI, Fermo e Lucia cit., t. III, cap. III, p. 372; cfr., inoltre, ibid., t. II, cap. IX, p. 292. 71 Ibid., t. III, cap. III, p. 372. 72 Ibid., cap. VIII, p. 491. 69

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chese Cesare d’Azeglio Sul Romanticismo (1823): «questo diletto [...] è distrutto dalla cognizione del vero»74. E l’antimitologismo di Manzoni arriva a sconciare, con un pensiero di omofilia, la neoclassica scena «dipinta» di Amore e Psiche: oppressa nel gesto di un oste che, alla luce di un «lucignolo», spia «furtivamente le forme» di quel «consorte sconosciuto», o «matto minchione», che è andato a ubriacarsi e a mettersi nei guai nella sua bottega75. «Se noi vogliamo cercare attentamente, e dire candidamente il vero, non è forse l’interesse delle cose presenti che principalmente ci muove ad esaminare le passate?» Se lo chiede Manzoni nella Digressione sulla posterità della prima Colonna infame76. A ragion veduta. Dal momento che andava abbinando Ottocento neoclassico e «abbominazione» barocca, in un’unica polemica contro il «mestiere guastato» delle lettere: «tengo per fermo che si parlerà dell’epoca mitologica della poesia moderna, come noi ora parliamo del gusto del seicento, anzi con tanto più di maraviglia, quanto l’uso della favola è più essenzialmente assurdo, che non i concettini, più importantemente assurdo che non i bisticci»77. E i gradi di assurdità erano nelle sostanze delle «idee»: nell’«idolatria» della favola; e nello «smarrimento o pervertimento» del Seicento, che «fu un secolo in Italia grossolano e barbaro in molte cose importantissime: politica, commercio, polizia, giurisprudenza e lettere, ecc. ecc.»78. La polemica antisecentesca dell’illuminismo lombardo veniva convocata a sostegno dei manifesti romantici; a ribadire un’eredità e a contribuire alla sperimentazione di un romanzo, ambientato nella Lombardia degli anni 1628-30 (da un autunno all’altro: da un primo a un ultimo novembre), che si presentava con il cipiglio saggistico (inidillico e antieroico; cristianamente tragico e realisticamente antiteatrale) di una battaglia contro il «bel vivere» e contro l’artefatto geometrismo della falsità morale del romanzesco: Bisogna confessare che nei romanzi e nelle opere teatrali, generalmente parlando, è un più bel vivere che a questo mondo: ben è vero che vi s’incontrano i birboni più feroci, più diabolici, più colossali, vi si scorgono scelleratezze più raffinate, più ingegnose, più recondite, più ardite che non nel corso reale degli avvenimenti; ma vi ha pure dei grandi vantaggi, ed uno che basta a compensare molti mali, uno dei più invidiabili si è, che gli onesti, quelli che difendono la causa giusta, per quanto sieno inferiori di forze, e bat-

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Cfr. ID., Materiali estetici cit., p. 21. ID., Sul Romanticismo, in ID., Tutte le opere cit., V/3, p. 248. 75 ID., Fermo e Lucia cit., t. III, cap. VII, p. 471. 76 Il testo è stato ripubblicato, in edizione critica, da C. RICCARDI, La digressione «Sulla posterità» (1985), in ID., Il «reale» e il «possibile». Dal «Carmagnola» alla «Colonna Infame», Firenze 1990, pp. 91-118. 77 A. MANZONI, Sul Romantìcismo cit., p. 228. 78 ID., Postilla al t. II del Cours de littérature dramatique, nella traduzione di M.me Necker de Saussure (Paris 74

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tuti dalla fortuna, hanno sempre in faccia dell’empio ancor che trionfante una sicurezza, una risoluzione, una superiorità d’animo e di linguaggio che dà loro la buona coscienza, e che la buona coscienza non dà sempre agli uomini realmente viventi. Questi, quando abbiano dalla parte loro la giustizia senza la forza, e vogliano pure ottenere qualche cosa difficile in favore della giustizia sono obbligati a pensare ai mezzi per giungere a questo loro fine, e i mezzi sono tanto scarsi, e per porli in opera senza guastare la faccenda si incontrano tanti ostacoli, fa bisogno di tanti riguardi, che da tutte queste considerazioni si trovano posti necessariamente in uno stato di esitazione, di cautela, e di studio, che gli fa sovente scomparire, in faccia ai loro avversarj risoluti ed incoraggiati dalla forza e dalla abitudine di vincere, e spesse volte, convien dirlo, dal favore o sciocco, o perverso degli spettatori. L’uomo retto sente, a dir vero con certezza e con ardore la giustizia della sua ragione, ma questa sua idea è un risultato, una conseguenza d’una serie di ragionamenti e di sentimenti, per la quale è trascorso il suo animo: se egli la esprime fa ridere l’avversario, il quale per un’altra serie di idee è giunto e si è posto in un risultato opposto: e pur troppo, tolti alcuni casi, l’uomo che non ha che sé per testimonio e per approvatore, e che vede negli altri contraddizioni e scherno perde facilmente fiducia, e quasi quasi è disposto a dubitare: o almeno si trova in quello stato di contrasto che fa comparire l’uomo imbarazzato. Avvien quindi spesse volte che un ribaldo mostra in tutti i suoi atti una disinvoltura, una soddisfazione che si prenderebbe quasi per la serenità della buona coscienza se fosse più placida e più composta, e che l’uomo onesto e nella espressione esteriore, e nell’animo interno mostra e prova talvolta una specie d’angustia e di vergogna che si crederebbe rimorsi; dimodoché a poco a poco finisce per essere soperchiato non solo nei fatti ma anche nel discorso, e nel contegno, e sta come un supplichevole e quasi come un reo dinanzi a colui che lo è veramente79. S’io avessi ad inventare una storia, e per descrivere l’aspetto d’una città in una occasione importante, mi fosse venuto a taglio una volta il partito di farvi arrivare, e girar per entro un personaggio, mi guarderei bene dal ripetere inettamente lo stesso partito per descrivere la stessa città in un’altra occasione: che sarebbe un meritarsi l’accusa di sterilità d’invenzione, una delle più terribili che abbian luogo nella repubblica delle lettere, la quale, come ognun sa, si distingue fra tutte per la saviezza delle sue leggi. Ma, come il lettore è avvertito, io trascrivo una storia quale è accaduta: e gli avvenimenti reali non si astringono alle norme artificiali prescritte all’invenzione, procedono con tutt’altre loro regole, senza darsi pensiero di soddisfare alle persone di gran gusto. Se fosse possibile assoggettarli all’andamento voluto dalle poetiche, il mondo ne diverrebbe forse ancor più ameno che non sia; ma non è cosa da potersi sperare80.

Il programma è di «peindre une époque par le moyen d’une fable de […] invention»; come aveva fatto Walter Scott nell’Ivanhoe; e come, contemporanea1814), in ID., Opere inedite o rare, a cura di R. Bonghi, II, Milano 1885, p. 442. 79 ID., Fermo e Lucia cit., t. I, cap. V, pp. 82-83. 80 Ibid., t. V, cap. VI, p. 605.

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mente, faceva il sodale Tommaso Grossi nel poema I Lombardi alla prima crociata. Ma senza i «colori» e le svogliatezze storiche dello scrittore scozzese. Ne dà conto Manzoni nelle lettere al Fauriel del 23 gennaio del 1821 e del 29 maggio del 182281; e ne ribadisce la portata innovativa il Visconti, in una lettera al Cousin del 182182. La favola è quella di un matrimonio differito di due operai brianzoli; celebrato, infine, con due anni di ritardo. E a interferire con essa, la storia di un’epoca: […] le gouvemement le plus arbitraire combiné avec l’anarchie féodale et l’anarchie populaire; une législation étonnante par ce qu’elle prescrit […] une ignorance profonde, féroce, et prétentieuse […] une peste qui a donné de l’exercice à la scélératesse la plus consommée et la plus déhontée, aux préjugés les plus absurdes, et aux vertus les plus touchantes etc. etc. […]83.

È il canovaccio del romanzo. Del doppio romanzo. Nato dapprima come Fermo e Lucia (1821-23). Poi riscritto e ristrutturato (anche con il supporto delle postillature sull’unità narrativa di Fauriel e su quelle antioratorie di Visconti); intitolato I promessi sposi (non prima dell’estate del 1825)84; dato alle stampe nel 1827; e ristampato a dispense nel 1840-42 («con prolungamenti per certi fogli difettosi, che si protrassero fino all’autunno del 1845»)85, nell’edizione definitiva illustrata da un’équipe di incisori: secondo un progetto grafico di Gonin e una «sceneggiatura» predisposta dallo stesso Manzoni86. Il complesso percorso dal Fermo e Lucia alle due edizioni dei Promessi sposi è anche la storia sofferta del laboratorio di una scrittura che, escluso il purismo cruscante e la sua ostinata retroversione all’aureo Cinquecento, vuole porsi «al livello delle cognizioni europee» e quindi adeguarsi a una lingua di comunicazione: da una urgenza dialettale, visceralmente milanese, disciplinata dall’uso letterario toscano, premuta dal modello francese, e attestatasi in un espressivo mistilinguismo; alla fase toscano-milanese delle equivalenze e coincidenze fra locuzioni lombarde e modi toscani, attinte con l’ausilio dei vocabolari; all’abbassamento di letterarietà (con una sintassi che predilige l’indicativo al congiuntivo, e con l’attenzione a evitare latinismi eccessivamente scoperti)87; alla «risciacquatura» del lessico e della sua dizione nell’effettivo uso 81 Cfr. ID., Lettere a Claude Fauriel del 23 gennaio 1821 e del 29 maggio1822, in ID., Tutte le lettere cit., t. I, pp. 227 e 270-71. 82 Cfr. ibid., p. 825. 83 Ibid., p. 270 («[…] il governo più arbitrario combinato con l’anarchia feudale e con l’anarchia del popolo; una legislazione strabiliante per ciò che prescrive […] una ignoranza profonda, feroce e pretenziosa […] una peste che ha dato di che esercitarsi alla scelleratezza più consumata e spudorata, ai pregiudizi più assurdi e alle virtù più toccanti ecc. ecc. […]»). 84 Cfr. D. DE ROBERTIS, Sul titolo dei «Promessi sposi», in «Lingua nostra», XLVII (1986), 2-3, pp. 33-37. 85 C. FAHY, Per la stampa dell’edizione definitiva dei «Promessi sposi», in «Aevum», LVI (1982), 3, pp. 377-94. 86 Cfr. F. MAZZOCCA, Quale Manzoni? Vicende figurative dei Promessi Sposi, Milano 1985. 87 Cfr. S. PAPETTI, Varianti di indicativo e congiuntivo nelle edizioni dei «Promessi sposi» (1825-27; 1840), in

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civile del fiorentino, grazie all’aiuto dei «correttori» Gaetano Cioni e Gian Battista Niccolini e alla consulenza della giovane istitutrice fiorentina Emilia Luti. Il Fermo e Lucia non è l’abbozzo che prepara I promessi sposi. È già il punto d’arrivo, in sé autonomo, di spostamenti e aggiustamenti delle unità narrative88. Il primo romanzo è tradizionalmente e convenzionalmente diviso in tomi (in tutto quattro) e capitoli. Sulla linea di sviluppo della vicenda predominano le masse ad ampie unità costruttive, che i grandi quadri di saggismo storiografico sulla guerra e sulla peste (e sulle responsabilità culturali e politiche che su queste piaghe bibliche pesavano) distolgono dal «romanzo» degli sposi promessi. E il «romanzo» è a sua volta pluribiografico, organizzato in cicli: alla maniera delle «carriere» di Hogarth e di tanti romanzi del Settecento. Laddove I promessi sposi (che non a caso lasciano cadere la partizione a blocchi dei tomi) alla statica di storie e di storia sostituiscono la dinamica delle linee misurate dalla scansione in giorni e mesi (e, in un caso, dall’onda lunga di un anno: quello della guerra per il possesso del ducato di Mantova e del Monferrato; degli effetti della carestia; dei lanzichenecchi che passano e dei «teleri» della peste) e che si separano e da lontano si corrispondono; e che toccano la storia, e con essa si intrecciano, tutto correlando. Il «ciclo» è unitario. E la «carriera» è tutta del protagonista maschile (di Renzo; non più di quel Fermo Spolino del primo romanzo, sempre fermo alla sua condizione di operaio e buon «massaio»), che alla fine delle sue prove con il mondo viene promosso dagli eventi a comproprietario, insieme al cugino Bortolo, di una piccola industria tessile nella libera terra di Bergamo: come l’operoso Goodchild della quarta tavola del «ciclo» Operosità e pigrizia di Hogarth, passato dal telaio alla comproprietà dell’azienda; mentre due guanti, che si danno di «mano» sullo scrittoio, stringono l’intesa tra i due soci. Di nuovo Hogarth. Nel Fermo e Lucia, la moglie dell’aristotelico don Ferrante ha una «governatrice». Si chiama Margherita. La padrona la chiama Signora Ghitina. Gli altri servitori l’hanno però ribattezzata Signora Chitarra: «Pretendevano costoro che il suo collo lungo, la sua testa in fuori, le sue spalle schiacciate, la vita serrata dal busto, e le anche allargate la facessero somigliare alla forma di quello strumento: e che la sua voce acuta, scordata, e saltellante imitasse appunto «Critica letteraria», III (1975), 6, pp. 55-90. Per i latinismi, valga quest’esempio: «[…] di tutto si formava una indigesta, immane congerie di pubblica forsennatezza» (edizione ’27); «di tutto si formava una massa enorme e confusa di pubblica follia» (edizione 40); cfr. A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XXXII p. 749. La correzione elimina il ricordo di Ovidio: «[…] Chaos, rudis indigestaque moles» (Metamorphoseon libri, I, 7). 88 Cfr. L. TOSCHI, Si dia un padre a Lucia. Studio sugli autografi manzoniani, Padova 1983; e ID., Percorsi testuali del «Fermo e Lucia», in AA.VV., Giornata di studio (16 maggio 1985) nel II centenario della nascita di Alessandro Manzoni, Roma 1987, pp. 61-84. Di diverso avviso, filologicamente immotivato, è E. N. GIRARDI, Struttura e personaggi dei «Promessi Sposi», Milano 1994.

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il suono, che esso dà quando è strimpellato da mano inesperta»89 . La figura a collo slungato, che include la «preformazione» intellettuale di uno strumento, è manieristìca90. La donna-chitarra è nello stile manieristicamente espressionistico dell’Hogarth della dama-teiera o del vescovo-arpa (nella stampa Monarchia, Episcopato e Legge). La sagoma grottesca della «governatrice» viene sacrificata nei Promessi sposi. Dai quali invece emerge la donna-pentolaccia: «[...] sconcia era la figura della donna: un pancione smisurato, che pareva tenuto a fatica da due braccia piegate: come una pentolaccia a due manichi […]»91. I promessi sposi «caricano» il corrispondente passo del Fermo e Lucia, dove la sconcezza del corpo è dovuta semplicemente a un’apparenza di tutta-pancia: «[...] da lontano sarebbe sembrato una pancia immensa»92. La donna-pentolaccia nasce sì da un recupero di Hogarth, ma riconquistato all’avventura delle parole: alle sottotracce sinuose che, dentro le linee della narrazione, serpeggiano a rilevare, a raccogliere e a coordinare particolari altrimenti muti e dispersi. Nel Fermo e Lucia il pancione si lascia sfuggire l’arguzia di ammiccare al guazzabuglio del «corpaccio» del popolo (o «pentola» che «aveva cominciato a ribollire»)93 durante l’insurrezione urbana per il pane. Al contrario, nei Promessi sposi, la «pentolaccia» punta a correlare le dissennatezze della rivolta frumentaria del 1628 (una cuccagna di dispendio, che l’abbondanza di cibo pretende di far nascere feticisticamente dalla distruzione delle madie dei forni e dalla seminagione di farina e pani per le strade della città) e l’insensato gioco politico delle corti europee (nelle quali la storia «bolle in pentola»)94 e della contesa del 1629 tra Spagna e Francia (che «bolliva» nella guerra per la successione nel Ducato di Mantova)95. Inoltre: nel Fermo e Lucia la donnachitarra è un divertimento letterario; nei Promessi sposi la donna-pentolaccia è un paradigma che collabora alla spietata fenomenologia manzoniana del comportamento delle folle durante la carestia e la peste. La «pentolaccia» è un argomento morale: è la donna-folla. E convive, nel romanzo, con due frammenti d’incubo: con l’uomo-folla, o «vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa, agitava in aria un martello, una corda, quattro grandi chiodi, con che diceva di volere attaccare il vicario a un battente 89

A. MANZONI, Fermo e Lucia cit., t. III, cap. IX, p. 501. Cfr. R. LONGHI, Cinquecento classico e Cinquecento manieristico (1951-1970), Firenze 1976, pp. 93-94. 91 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XI, p. 276. 92 ID., Fermo e Lucia cit., t. III, cap. V, pp. 417-18. 93 Ibid., cap. VIII, p. 485. 94 ID., I promessi sposi cit., cap. V, p. 114. 95 Ibid., cap. XXVII, p. 613. 90

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della sua porta, ammazzato che fosse»96; e con l’altra donna-folla, che invita al dàgli all’untore nella Milano appestata («la quale, con un viso ch’esprimeva terrore, odio, impazienza e malizia, con cert’occhi stravolti che volevano guardar lui, e guardar lontano, spalancando la bocca come in atto di gridare a più non posso, ma rattenendo anche il respiro, alzando due braccia scarne, allungando e ritirando due mani grinzose e piegate a guisa d’artigli, come se cercasse d’acchiappar qualcosa, si vedeva che voleva chiamar gente, in modo che qualcheduno se n’accorgesse»)97. La pentolaccia, il malvissuto e l’arpia sono i geni anonimi e saturnini della forza collettiva. Sono la cifra carnevalesca (nel caso della pentolaccia) e diabolica degli irresponsabili poteri di suggestione, convinzione e conculcazione esercitati dalle masse sulla società: sugli amministratori e sulla magistratura. La fobìa di Manzoni è «postrivoluzionaria». Paventa lo spettro dei sanculotti98. E in più, nell’urlo della folla, nel suo «muggito», riascolta il «tolle, tolle, crucifige eum» (Ioannes, 19, 15) del massimo delitto giudiziario della storia. Il «primo uomo» dei Promessi sposi «s’avviò alla coda dell’esercito tumultuoso»99. Dimostrando così che non c’è differenza morale tra una «coda» di popolo e la «coda» di un «eroe» della demagogia e della dissimulazione (e la sua «vecchiezza» è dissimulatamente «decorosa», piuttosto che «vituperosa») qual è il gran cancelliere spagnolo Antonio Ferrer: «– [...] Chiudete ora: no; eh! eh! la toga! la toga! –. Sarebbe in fatti rimasta presa tra i battenti, se Ferrer non n’avesse ritirato con molta disinvoltura lo strascico, che disparve come la coda d’una serpe, che si rimbuca inseguita»100. Il Fermo e Lucia è superficialmente hogarthiano. I promessi sposi sono profondamente e intimamente hogarthiani. Dall’uno all’altro romanzo, Manzoni è passato dalla moralità dei cicli alla moralità della linea serpentina della bellezza: dall’applicazione delle stampe, all’utilizzazione accorta dell’Analysis of Beauty (tradotta in italiano nel 1761 e discussa da Visconti nell’appendice ai capitoli II e III della prima parte della redazione 1819-24 delle Riflessioni sul bello). Sta di fatto che Manzoni (tanto nel primo che nel secondo romanzo) si diverte a rivelare la linea di Hogarth, sornionamente nascondendola nell’affrescaccio di una cappelletta votiva di campagna: I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un taber96

Ibid., cap. XIII, pp. 302-3. Ibid., cap. XXXIV, p. 803. 98 Si veda S. TIMPANARO, I manzoniani del compromesso storico e alcune idee sul Manzoni (1975), in ID., Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, Pisa 1982, pp. 17-47. 99 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XII, p. 296. 100 Ibid., cap. XIII, p. 315. 97

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nacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivan in punta, e che, nell’intenzion dell’artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato volevan dir fiamme; e, alternate con le fiamme, cert’altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là101.

Manzoni dice «serpeggianti». Ed è rilevante. Perché la fonte prima dell’immagine è la «serpentinata» di cui discorre il Trattato dell’arte della pittura, scoltura et architettura di Gian Paolo Lomazzo102; nella dizione però di una citazione dell’Hogarth italianizzato, circa la figura «serpeggiante»: Si racconta dunque che Michel Angelo comunicò quest’osservazione al Pittore Marco da Siena suo scolare, ch’egli dovesse sempre fare una figura piramidale, serpeggiante, e moltiplicata per uno, due e tre: nel qual precetto (secondo me) tutto il mistero dell’arte consiste. Perché la maggior grazia, e vivacità che una pittura aver possa, è, che esprima il moto; il che i Pittori chiamano lo Spirito di una pittura. Ora non vi è forma, che sia più acconcia ad esprimere un tal moto che quella della fiamma del fuoco, che secondo Aristotele, ed altri Filosofi è un elemento più attivo di tutti gli altri; perché la forma della fiamma di esso è più atta per il moto; come che abbia un Cono, o punta acuta, con cui sembra divider l’aria per poter ascendere alla sua sfera. Talmente che una pittura avendo questa forma sarà bellissima103.

Il Seicento del Fermo e Lucia ha una più forte rilevatura barbarica. Di tipo tragico. E ancora nella lettera del Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822): «[...] salvare una moltitudine dalle ugne atroci delle fiere barbariche»104. Di «unghie» e «sozzi artigli», che graffiano l’aria, il romanzo è stipato; come pure di varie «fiere»: tanto che la stessa Lucia è «bella fera»105. La società è divisa in «facinorosi» e in «circospetti»106: bracchi e pernici; in cacciatori (talvolta leggiadri) e lepri; in uccellacci e uccellini; in diavoli incarnati e in prede107. Tutto il romanzo è una caccia all’uomo, crudele e barbarica. Che in parte 101

Ibid., cap. I, p. 12. Cfr. G. P. LOMAZZO, Trattato dell’arte della pittura, scoltura et architettura, in ID., Scritti sulle arti, a cura di R. P. Ciardi, II, Firenze 1974, cap. I, p. 29. Cfr. L. BOTTONI e E. RAIMONDI, Metafora: parola e immagine, in Letteratura italiana e arti figurative, a cura di A. Franceschetti, 1, Firenze 1988, pp. 61-80. Sul trattato di Hogarth cfr. G. C. ARGAN, Le idee artistiche di William Hogarth (1950), in ID., Studi e note. Dal Bramante al Canova, Roma 1970, pp. 405-22; e F. MENNA, William Hogarth. «L’analisi della bellezza», Salerno 1988. 103 W. HOGARTH, The Analysis of beauty, 1753 (trad. it. L’analisi della bellezza, ristampa dell’edizione Livorno 1761, a cura di M. N. Varga, Milano 1989, p. 11). 104 A. MANZONI, Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia, a cura di A. Di Benedetto, Torino 1984, cap. V, p. 132. 105 ID., Fermo e Lucia cit., t. II, cap. VII, p. 231. 106 Ibid., cap. I, p. 149. 107 Per l’animal analogy cfr. G. LONARDI, Caccia tragica, in ID., Ermengarda e il pirata Manzoni, dramma epico, melodramma, Bologna 1991, pp. 133-46. 102

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sopravvive nei Promessi sposi, ma nella superiore dimensione del «patire»: dell’adelchiano «[…] far torto, o patirlo […]» (V, 7, 52); e di una feroce forza che «il mondo possiede» (V, 7, 52-53). La morale della Chiesa «comanda di patire piuttosto che farsi colpevole», dice Manzoni108. E il principio viene indegnamente tradotto da don Abbondio, nel suo idioletto della paura: «Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza»109. La stessa parodia della letteratura del Seicento segue, nel Fermo e Lucia, il copione di una documentazione didatticamente canzonatoria che manca della «metafisicizzazione» e del più alto tiro del secondo romanzo. Manzoni era restìo alla corrispondenza epistolare. E questa sua avversione riversò nei due romanzi. Le lettere che corrono tra un personaggio e l’altro hanno il triste destino o di essere intercettate da chi non si vorrebbe, o di ottenere un effetto assai diverso dal fine predisposto; o, peggio, di incatenare il mittente a un impegno che lo perderà. L’eterogenesi dei fini, il disturbo e l’imbroglio, sono massimi ed esilaranti nella corrispondenza tra personaggi di «omerico» analfabetismo; che mette in parodia la letteratura secentesca dei Segretari: i trattati dello scriver lettere sotto dettatura, e del corrispondere per «turcimanni»; e le raccolte di lettere segretariali. È detto nel Fermo e Lucia: Chi ha avuto occasione di veder mai carteggi di questa specie sa come sono fatti e come intesi. Colui che fa scrivere, dà al segretario un tema ravviluppato, e confuso; questi parte frantende, parte vuol correggere, parte esagerare per ottener meglio l’intento, parte non lo esprime come lo ha inteso; quegli a cui la lettera è indiritta, se la fa leggere; capisce poco; il lettore diventa allora interprete, e con le sue spiegazioni imbroglia anche di più quel poco di filo che l’altro aveva afferrato: di modo che le due parti Finiscono a comprendersi fra loro come due filosofi trascendentali110.

Alla casistica del Fermo e Lucia, il secondo romanzo aggiunge il caso perverso e di metafisica vacuità di un dettatore che non può o non vuole farsi capire: Che se, per di più, il soggetto della corrispondenza è un po’ geloso; se c’entrano affari segreti, che non si vorrebbero lasciar capire a un terzo, caso mai che la lettera andasse persa; se, per questo riguardo, c’è stata anche l’intenzione positiva di non dir le cose affatto chiare; allora, per poco che la corrispondenza duri, le parti finiscono a intendersi tra di loro come altre volte due scolastici [...]111.

L’arabesco di comunicazioni distorte e malfide diventa funambolico. Si attac108

A. MANZONI, Osservazioni sulla morale cattolica cit., II, cap. II, p. 466. ID., I promessi sposi cit., cap. II, p. 47. 110 ID., Fermo e Lucia cit., t. III, cap. IX, pp. 509-10. 111 ID., I Promessi Sposi cit., cap. XXVII, p. 620. 109

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ca alle nuvole. E su quelle nuvole, a tanta altezza di metafisica entelechia, Manzoni trova (solo adesso) più alto bersaglio nel romanzo barocco; se non proprio in uno del Biondi, intitolato La donzella desterrada (1628), in cui il re Arato detta un decreto «non volendo esser inteso», e pretendendo che «si facesse come se l’intendessero»: «Fu conchiusa finalmente una lunga diceria: chi la dettò non l’intese, per intendersi meno da chi non era per intendersi che male»112. Il Fermo e Lucia è precario nella designazione dei nomi dei personaggi. La serva del curato in principio è chiamata Vittoria, poi Perpetua. Il cugino del tiranno antagonista di Fermo (don Rodrigo) è indicato come conte Orazio, prima di diventare conte Attilio. Il cappuccino padre Galdino (e anche padre Guardiano) diventa padre Cristoforo, e il suo primo nome passerà a designare il frate questuante ex fra Canziano; la «maschera» della falsa scienza secentesca, don Valeriano, prenderà il nome di don Ferrante, e la moglie da donna Margherita diventerà donna Prassede; il causidico dottor Pettola diventerà dottor Duplica, prima di stabilizzarsi nel trasparentissimo Azzecca-garbugli dei Promessi sposi. Tanto movimento ha la sua regola nell’effetto evocativo dei nomi, assai attenuato nei Promessi sposi. Vittoria, la vince sempre. Pettola è il nome di una maschera lombarda, cosiddetta dalla falda sudicia dell’abito; e allude anche al tirà-foeura di pettol: al«cavar altrui d’intrigo». Duplica richiama la procedura processuale tendente a paralizzare la replica (toscano-milanese, tra Machiavelli e Maggi, è il nome Azzecca-garbugli nei Promessi sposi)113. Con il promesso Fermo Spolino (Renzo Tramaglino, da ‘tramaglio’, nel secondo romanzo), Manzoni si concede la licenza di un bisticcio: si diverte all’ossimoro di un personaggio che sta «fermo» con il nome, e «prilla» con il cognome; e tira giù un «Fermo» che «si era mosso»114. Importa che i personaggi del Fermo e Lucia, più coloristicamente e confidenzialmente designati, hanno come unico contorno quello che a loro deriva dalla collocazione nello spazio del racconto. Sono visti dal di fuori: pedine della strategia narrativa. Nei Promessi sposi, Manzoni entra invece nel «guscio» dei personaggi, e da questa specola intima considera i contorni esterni. La prova più evidente e inoppugnabile della diversità dei romanzi di Manzo112 G. F. BIONDI, La donzella desterrada, Venezia 1640, p. 72. Anche la storia del Seicento viene ulteriormente approfondita nei Promessì sposi, tramite il ricorso a nuove fonti storiografiche: cfr. O. BESOMI e I. BOTTA, Letture riposte del Manzoni, in Di selva in selva. Studi e testi offerte Pio Fontana, a cura di p. Di Stefano e G. Fontana, Bellinzona 1993, pp. 15-54. 113 Cfr. D. ISELLA, Porta e Manzoni, Porta in Manzoni, in ID. I Lombardi in rivolta. Da Carlo Maria Maggia Carlo Emilio Gadda, Torino 1984, pp. 179-230; e O. CASTELLANI POLLIDORI, Teoria e prassi tra le quinte dei «Promessi Sposi», in AA.VV., Manzoni. «L’eterno lavoro». Atti del Congresso internazionale sui problemi della lingua e del dialetto nell’opera e negli studi del Manzoni (Milano, 6-9 novembre 1985), Milano 1987, pp. 373-402. 114 A. MANZONI, Fermo e Lucia cit., t. III, cap. VII, p. 462.

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ni è offerta dall’anonimo del Seicento. Che ha due profili inconciliabili; e presiede a due contrastanti e ben caratterizzate finzioni narrative. L’anonimo è personaggio con due anagrafi; e con due personalità. Il suo corpo è d’inchiostro, un po’ dilavato. È disegnato dalle lettere e dai paleografici scarabocchi della inedita cronaca. Quella cronaca d’altri tempi che Manzoni finge d’aver trovato e di aver cominciato a trascrivere. E con la quale dialoga nei suoi romanzi; dissente e si stizza. E che tuttavia è preziosa. Perché gli permette di raccontare, nel corpo a corpo che lo impegna, i romanzi dei suoi romanzi: la genealogia delle sue opere, il loro crescere a contrasto; la messa a giorno delle loro strutture e la dichiarazione delle scelte linguistiche. L’anonimo consente il commentario che nei romanzi si inscrive. E dà l’alibi della distanza al trascrittore, che ha vocazione saggistica; e che si impegna a dar conto e ragione del suo lavoro: a commentare, verificare, correggere e integrare la storia, e a raccogliere le parole della voce dei personaggi che nella storia incontra, e saggiarle sulle sue cognizioni di ragione e di fede («Il padre soggiunse, con la voce alterata: – il cuor mi dice che ci rivedremo presto –. Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto»)115. L’anonimo dà a Manzoni il gusto di dar lezioni di gusto al secolo, al quale la cronaca sopravvive. E a parlare del passato, perché il presente intenda («Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo»)116. L’anonimo del Fermo e Lucia è estraneo ai personaggi della sua cronaca. Il suo manoscritto viene da un archivio. È l’opera di un memorialista. Di un narratore. Che nella prima Introduzione, contemporanea alla stesura dei primi capitoli, si presenta come «fedele spettatore» e osservatore degli «accidenti»; e nella seconda, rifatta a romanzo ultimato e ormai in procinto di riscrittura, si corregge. «Narrando […]», aveva prima scritto. Adesso rifà la dicitura: «Descrivendo questo racconto avvenuto nelli tempi di mia gioventù […]». E non è la stessa cosa. Non solo perché l’anonimo dichiara i suoi anni non più verdi. Ma in quanto ‘narrare’ e ’descrivere’ non sono sinonimi. L’aveva spiegato Matteo Bandello, un secolo prima; quando dichiarava di ‘descrivere’ le sue novelle dalla voce di chi gliele aveva raccontate. La divaricazione è operativa nel Fermo e Lucia: «[…] se ella conoscesse per testimonianza degli occhi suoi i casi di questa giovane, certo ch’io non istarei ora in dubbio: ma ella non li conosce che per relazione […]»117. Il primo anonimo scrive «per testimonianza degli occhi». Il secondo «per relazione». E che le cose stiano così, lo confermano 115

ID., I promessi sposi cit., cap. VIII, p. 190.. Ibid., p. 171. 117 ID., Fermo e Lucia cit., t. II, cap. I, p. 159. 116

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i Promessi sposi. In essi, a scrivere con maggior pertinenza di arcaica grafia e di stile segretariale, è il secondo anonimo: «[…] descrivendo questo Racconto auuenuto ne’ tempi di mia verde stagione […]». E il romanzo, il secondo, I promessi sposi, finalmente rivela il mistero. Il narratore originario è Renzo. È stato lui a raccontare e a replicare oralmente al cronista le sue traversie, poi ‘descritte’: «[…] lui medesimo […] soleva raccontar la sua storia molto per minuto, lunghettamente anzi che no (e tutto conduce a credere che il nostro anonimo l’avesse sentita da lui più di una volta […]»118. Un altro particolare apprendiamo sull’anonimo, dai Promessi sposi. Il «cronista» era amico di quel «furbo matricolato» di notaio che arrestò Renzo nell’osteria della Luna piena: «[...] il nostro storico pare che fosse nel numero de’ suoi amici».119 L’informazione dice più di quanto non dichiari, con quel «pare» che è un ammicco. Il notaio era uomo di «finte», e miserabili per giunta. A Renzo avrebbe voluto far credere di essere suo «amico»; e lo arrestava. Insomma, un po’ bugiardo doveva esserlo, quest’anonimo: anche lui. Il primo cronista ha più miti pretese. La sua cronaca vuole essere sì una «ricordanza ai posteri», ma si accontenta di giungere e fermarsi ai «discendenti». La cronaca originaria è, quindi, nel genere dei Ricordi di famiglia. Un po’ mirabolante, e scolasticamente latineggiante, con le cose «mostruose» che hanno toccato vette ormai irraggiungibili: «Onde si vede esser vero quel detto che il mondo invecchiando peggiora, ma non credo che sarà vero d’ora in poi, perché avendo il male ormai passato i termini della comparazione, ha toccato l’apice del superlativo, e il pessimo non è di peggioramento capace»120. Il secondo anonimo vuole invece parlare alla posterità tutta, e dei discendenti neppure si cura. Né gli importa il predicozzo sul mondo, che più di tanto non può peggiorare. Come il primo anonimo, parla solo il conte Attilio; nel Fermo e Lucia: «[... ] il mondo diventa peggiore di giorno in giorno ...»121. Il «picciolo teatro» al quale si affaccia l’autore di ricordanze, ha in cartellone «luttuose tragedie di calamità, e scene di malvagità grandiosa». Quello dell’istorico prevede, per gli spettatori di più profondo sguardo, spettacoli ulteriori. Soprannaturali e metafisicamente interferiti: «intermezi di imprese virtuose, et bontà angeliche che s’oppongono all’operationi diaboliche». I due cronisti hanno personalità diverse. Non coincidono, né per spessore culturale né per intenzioni letterarie. Sono personaggi per nulla sovrapponibili. Uno è 118 ID., I promessi sposi cit., cap. XXXVII, p. 863. Cfr. H. GROSSER, Osservazioni sulla tecnica narrativa e sullo stile nei «Promessi Sposi», in «Giornale storico della letteratura italiana», XCVIII (1981), 503, pp. 409-40; e E. MEIER-BRÜGGER, «Fermo e Lucia» e «I promessi sposi» come situazione comunicativa, Frankfurt am Main - Bern New York - Paris 1987. 119 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XV, p. 362. 120 ID., [Prima] Introduzione cit., p. 3. 121 ID., Fermo e Lucia cit., t. II, cap. VIII, p. 267 (anche per le citazioni successive).

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esterno al romanzo: l’autore di una cronaca ritrovata e trascritta. L’altro viene dall’interno del romanzo: è il trascrittor trascritto, sospettato di essere un «furbo matricolato», degli scilinguagnoli di Renzo. Il Fermo e Lucia e I promessi sposi lavorano due diverse finzioni romanzesche. E due modi diversi di costruire i personaggi. Il primo anonimo è guardato dal di fuori. E ha lo spazio che la collocazione gli definisce. Il secondo è guardato da un punto interno al ventre di balena del romanzo: il suo spazio è quello dilatato e interagente delle relazioni, di situazione e di parola, che fra di loro intrattengono i personaggi della finzione. Per di più, la cronaca dell’anonimo è un palinsesto. Prima di fissarsi nel testo esibito dai Promessi sposi, passa per i ripensamenti della prima Introduzione al Fermo e Lucia e le varianti della seconda. L’anonimo dei Promessi sposi esordisce in trombazza: «L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia»122. Dispensatrice d’immortalità è l’Historia, nella duplice accezione di indagine e di racconto. L’incertezza era per l’aggiunto: «illustre» o «meravigliosa»? Il secondo dovette risultare troppo dichiarativo di poetica. La scelta definitiva cadde su «illustre», un deverbale confortato dalla prosa del Fermo e Lucia: «io sento un rammarico di non possedere quella virtù che può tutto illustrare, di non poter dare uno splendore perpetuo di fama a queste parole […]»123. Il «Tempo» è esito ultimo, dopo una replicata «Morte». E si capisce: riporta infatti all’oraziana «fuga temporum» dei Carmina (III, 30, v. 5). La predacità della Morte (una variante della prima Introduzione parla di «preda») fa posto alla prigione del Tempo. L’Historia è marziale, nel suo procedere: richiama all’appello della vita gli anni «già incadaveriti», «fatti cadaveri»; e come manipoli e falangi li schiera, li passa in rassegna e li ordina alla battaglia (li «appresenta» alla Morte, «ancora come nimici»: in una variante della prima Introduzione del Fermo e Lucia). Certo, c’è barocca strampalatezza in questa immagine degli annisalme. Un sovrappiù di segretariale ghiribizzo, rispetto alla fonte che l’anonimo «descrive». Che non può essere Renzo, privo com’è di storiografica scienza. Siamo al prologo teorico del «romanzo» di Renzo. E per esso, l’anonimo stralcia una pagina dalla sua biblioteca secentesca. La scelta è caduta sull’Introduttione della Geografia trasportata al morale (1664) di Daniello Bartoli. Era stato lo scrittore gesuita a dire che «l’Historia, recatasi tutta sopra se stessa, non altrimenti che i Poeti fingerebbono una Maga, coll’incantata verga e il mormorio degli scongiuri», ci 122 123

ID., Introduzione a ID., I promessi sposi cit., p. 3. ID., Fermo e Lucia cit., t. III, cap. I, p. 333.

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dispiega «scene e teatri» («Teatro […] e Scene», ripete a eco l’anonimo, nel prosieguo della cronaca); ovvero «spettacoli di mirabile apparenza» («cose mostruose»); nei quali «di novello» («di nuovo», nella prima Introduzione) i morti eroi, tratti dal «fondo» della terra o del mare («cemeteri alle ossa») si vedranno «ordinarsi a battaglia» («li ordina in battaglia», nella prima Introduzione) e starci «a schiera innanzi» («li schiera», nel secondo anonimo). «Hor questo appunto è il continuo far dell’Historia: ricavar di sotterra i tesori delle più pretiose memorie che il Tempo, vecchio decrepito, o vi perdé come smemorato o vi seppellì come avaro», aveva sentenziato Bartoli; e aveva aggiunto il detto dell’anonimo e del conte Attilio: «le cose intristiscono tanto più, quanto invecchiano»124. Per l’anonimo manzoniano (uno e bino, e trino) l’Historia va «trapuntando coll’ago finissimo dell’ingegno i fili d’oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose». Viene fuori così la discreta erudizione del cronista. È evocato infatti il manto del vanitoso quanto avvenente Demetrio Poliorcete, con sopra ricamate le figure della terra e dei corpi celesti. Ne parla Plutarco, nelle Vite parallele. E ne parla Bartoli: «[…] sì com’è d’altro merito, che l’uscire a mostrarsi di quel fastoso Demetrio, soprannominato l’Espugnatore delle città, con indosso il reale ammanto rappresentatovi sopra coll’ago in bel trapunto d’oro, tutto di perle e di care gemme fiorito, l’universal descrittione del mondo»125. Frastornato dallo smusicar forte «de’ bellici Oricalchi», quella sola moltitudine che è l’anonimo, trova modo di presentarsi come aristotelico (impuntato su «sostanza» e «accidenti») e come tolemaico che la fisica del suo universo trasporta in politica; spagnoleggiando con quell’«amparo», che si posa dentro il romanzo sulle labbra dei cugini filoispanici Rodrigo e Attilio: E veramente, considerando che questi nostri climi sijno l’amparo del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l’Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl’Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl’altri Spettabili Magistrati qual’erranti Pianeti spandino la luce per ogni dove, venendo così a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d’atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl’huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché l’humana malitia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con occhj d’Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici emolumenti126.

124

D.BARTOLI, La geografia trasportata al morale cit., pp. 10 e 17. Ibid., p. 4 (corsivi nostri). 126 Per tutte le citazioni cfr. A. MANZONI, Introduzione a ID., I promessi sposi cit., pp. 3-4. 125

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Il Manzoni della cronaca è antiquario, e gran falsario. Costruisce l’apocrifo dell’anonimo come centone bartoliano. E l’anonimo stesso pregia delle qualità irriducibilmente tolemaiche e aristoteliche dello storico della Compagnia di Gesù; e della sua vocazione alle scenografie campali, entro le quali i demoni malefici si schierano come eserciti contro le potenze del bene. Volle però lombardizzare il secondo anonimo; e ulteriormente sgangherarlo: per dar colore di vero storico alla «relazione» (interna al romanzo) del brianzolo Renzo e del suo «segretario». Solo a questo punto convertì la penna dell’anonimo ai furori fonetici e morfologici del medico e storico lombardo Alessandro Tadino, che soleva scrivere «con le gomita»127. Alla religiosità antiprovvidenzialistica di Manzoni non poteva essere congeniale il Bartoli che aveva celebrato l’attivismo trionfalistico, armato di proselitismo planetario e guidato dal dito di Dio, del cattolicesimo legionario dei Gesuiti. Ma alla sensibilità dell’artista non poteva essere indifferente il talento letterario dello scrittore, per quanto in simpatia presso i classicisti. Qualche rimorso dovette pur averlo Manzoni, per avere anonimizzato e strapazzato il barocco «fattucchiero» e «sognatore» di parole. Una riparazione si sente quindi di dovergliela. E proprio nella prima pagina del romanzo, successiva all’Introduzione; a partire dalla Introduttione storica alla «geografia morale». Bartoli aveva accennato a «golfi e seni» che nella terra si «adentrano»128. Con questi «golfi» e con questi «seni», che frastagliano il paesaggio, Manzoni (variando a eco e a specchio) apre e chiude il primo periodo del romanzo: Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni129.

Il Fermo e Lucia dava «vanj seni e per così dire piccioli golfi d’ineguale grandezza». E parlava di «riva» e «riviera» anziché di «costiera»130, che è, quest’ulti127 ID., Fermo e Lucia cit., t. III, cap. V, p. 430. Cfr. E. BONORA, Su una fonte dell’Introduzione dei «Promessi Sposi», in ID., Manzoni. Conclusioni e proposte, Torino 1976, pp. 103-23. Sulla cronaca cfr. anche M. BARENGHI, Diciture per un inedito del secolo decimosettimo (1989), in ID., Ragionare alla carlona. Studi sui «Promessi sposi», Milano 1994, pp. 11-55. Guido Pedrojetta propone dei riscontri (poco rilevanti) anche con il panegirico in morte di san Carlo Borromeo del padre somasco Vincenzo Tasca del 1626: Cfr. G. PEDROJETTA, Carneade, chi era costui?, in «Annali manzoniani», nuova serie, III (1994), pp. 169-205. 128 D. BARTOLI, La geografia trasportata al morale cit., p. 18. 129 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. I, p. 9 (corsivi nostri). 130 ID., Fermo e Lucia cit., t. I, cap. I, p. 17.

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ma, parola quant’altre mai del Bartoli; la troviamo subito nella stessa Geografia trasportata al morale: «Alle ampie falde, alle fiorite costiere voi v’accorgete che siamo innanzi al Mongibello»131. E il nuovo riscontro dà esempio minimo dell’impostazione scenografica delle pagine «geografiche» del Bartoli, che si fa descrittore e spettatore insieme. Come il Manzoni, in prima istanza descrittore: dal deittico d’apertura («Quel ramo»), al «primo vederlo» di un ipotetico spettatore132. L’intera apertura paesaggistica dei Promessi sposi (non così del Fermo e Lucia) è un esercizio d’ammirazione applicato alla prosa del Bartoli. L’aveva intuito Giuseppe Bonaviri, che però si basava sulla Istoria della Compagnia di Gesù133. Anche Manzoni anonimeggiava. Discretamente. Scriveva a Fauriel, e anticipava il suo progetto di romanzo storico; il 3 novembre del 1821: Pour vous indiquer brièvement mon idée principale sur les romans historiques, et vous mettre ainsi sur la voie de la rectifier, je vous dirai que je le confois comme une représentation d’un état donné de la société par le moyen de faits et de caractères si semblables à la réalité, qu’on puisse les croire une histoire véritable qu’on viendrait de découvrir134.

Una storia da far tornare alla luce, quindi; anche se qui Manzoni non calza la maschera barocca del rabdomante e luogotenente di cadaveri. Il romanzo non è una parata di urne. Eppure Manzoni aveva prestato la sua voce all’anonimo. Almeno una volta. Quando l’aveva fatto distrarre dalle «Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggi», per farlo raccogliere sulle «gente meccaniche, e di piccol affare»; e «lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto». Questi due avverbi con una sola terminazione in -mente denunciavano lo stile solenne, burocratico e spagnoleggiante dell’anonimo135. Ma il proposito era genuinamente manzoniano. Anzi, la chiusura del sipario sul gran teatro delle «Attioni gloriose» (anche se motivato da una prudenza tutta secente131

D. BARTOLI, La geografia trasportata al morale cit., cap. II, p. 21 (corsivo nostro). Per la tecnica del Bartoli Cfr. B. MORTARA, Un uso infinito in Daniello Bartoli, in «Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei», CCCLIX (1962), 7-12, pp. 486-532. 133 Cfr. G. BONAVIRI, Daniello Bartoli: una fonte per «Quel ramo del lago di Como» (1978), in ID., L’arenario, Milano 1984, pp. 165-82. Altre letture dell’incipit: G. ORELLI, «Quel ramo del lago di Como...», in «Paragone», n. 286 (1973), pp. 47-66; G. BARDAZZI, Manzoni e la purificazione dello sguardo, in Le regard et l’écrivain, a cura di P. G. Conti, numero monografico di «Versants», XII (1987), pp. 95-111. Sugli «esordi» nel romanzo cfr. B. TRAVERSETTI e S. ANDREANI, Incipit. Le tecniche dell’esordio nel romanzo europeo, Torino 1988; e A. DEL LUNGO, Pour une poétique de l’incipit, in «Poétique», n. 94 (1993), pp. 1311-52. 134 A. MANZONI, Lettera a Claude Fauriel del 3 novembre 1821, in ID., Tutte le lettere cit., t. I, pp. 244-45 («Per darvi un’idea sommaria di come io principalmente guardi ai romanzi storici, e mettervi così nella condizione di correggermi, vi dirò che concepisco il romanzo come la rappresentazione di un certo stato della società per mezzo di fatti e caratteri talmente simili alla realtà, che si possa pensare a una storia vera che si fosse appena rinvenuta»). 135 Cfr. B. MIGLIORINI, Coppie avverbiali con un solo -mente (1952), in ID., Saggi linguistici, Firenze 1957, pp. 148-55. 132

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sca) e l’apertura dell’«angusto» e non meno tragico teatro dei «meccanici», riscriveva una pagina di Voltaire: «En effet, l’histoire n’est que le Tableaux des crimes et des malheurs. La foule des hommes innocents et paisibles disparaît toujours sur ces vastes théâtres»136. E la «foule des hommes innocents et paisibles» è diventata «moltitudine vagabonda» nel romanzo: sull’esempio di Thierry e di Scott; e nello spirito del Discorso su alcuni punti della storia longobardica in Italia e del «concetto drammatico» dei desideri, dolori e patimenti «dell’immenso numero d’uomini che non ebbero parte attiva negli avvenimenti, ma che ne provarono gli effetti»137. Per questa umanità tradita dalla storia, Manzoni si è fatto storico di «seconda mano»: «[...] noi valendoci del privilegio che hanno gli storici di seconda mano, di inventare qualche cosa di verisimile per rendere compiuta la storia, e supplire alle mancanze dei primi, affermiamo [...]»138. Ha cioè scritto un romanzo (duale) che collabora con gli storici, senza subordinare la letteratura alla storiografia; e piuttosto dando legittimità all’«invenzione», che alla verità morale (per via di «poesia», aveva detto nella Lettre à Mr. Chauvet) recupera quanto gli storici hanno trascurato e taciuto. A questo progetto dovette conquistare una lingua di comunicazione; arduamente, dovendo partire (nella seconda Introduzione al Fermo e Lucia) dal concetto di «analogia» elaborato dalla linguistica illuminista: A bene scrivere bisogna sapere scegliere quelle parole e quelle frasi, che per convenzione generale di tutti gli scrittori, e di tutti i favellatori (moralmente parlando) hanno quel tale significato: parole e frasi che o nate nel popolo, o inventate dagli scrittori, o derivate da un’altra lingua, quando che sia, comunque, sono generalmente ricevute e usate. Parole e frasi che sono passate dal discorso negli scritti senza parervi basse, dagli scritti nel discorso senza parervi affettate; e sono generalmente e indifferentemente adoperate all’uno e all’altro uso139.

«Qui giace la lepre», dice il Fermo e Lucia. «Qui sta il punto», dicono I promessi sposi. E, tra «lepre» e «punto» si è consumato il passaggio dall’espressivismo (eclettico), al toscano e fiorentino. Ma, nei Promessi sposi, provvede il Griso a recuperare il «qui giace la lepre» (cap. VIII); e dimostra ad evidenza che l’espressivismo non era finito. 136 VOLTAIRE, L’Ingénu, in ID., Romans et contes, a cura di R. Groos, Paris 1954, cap. X, p. 269 («Di fatto la storia non è che quadro di crimini e calamità. La folla di innocenti e pacifici costantemente scompare in così vasti teatri»). Cfr. G. RAGONESE, Illuminismo e romanticismo in Alessandro Manzoni (1979), in ID., Da Manzoni a Fogazzaro. Studi sull’Ottocento narrativo, Palermo 1983, pp. 15-55. 137 A. MANZONI, Discorso sur alcuni punti della storia longobardica cit., p. 46. 138 ID., Fermo e Lucia cit., t. III, cap. VII, p. 455. 139 ID., [Seconda] Introduzione, ibid., pp. 14-15.

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L’errore sulla lapide. «L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo». Parola di bugiardo «matricolato», ovvero di anonimo secentesco. Per il quale scrivere vuol dire «scolpire» le carte, orazianamente: «Exegi monumentum aere perennius»140. L’anonimo (classicista) è smentito e irriso da Manzoni: Il parlare coi fati, l’alzare monumenti indistruttibili, il dar da fare al tempo edace, il farsi beffe della morte sono le solite canzoni che vi si trovano per entro [nella poesia] [...]. E non è raro di trovare l’epiteto poetico per qualificare una immaginazione falsa, non fondata, o stravagante. Il che non vuol dire altro se non che questi scrittori non sanno che sia, che sia stata e che possa essere la poesia141.

Difatti è «poeta» Renzo, nei Promessi sposi; quando si ubriaca in osteria, e ne dice delle «curiose»142. Scopo della letteratura non è di erigere monumenti: «un pezzo di granito» non è «il criterio d’un fatto morale»; «la parola umana può esprimere il vero e il falso» e «le parole incise in marmo» non sono «esenti da questa condizione»143. Niente monumenti, senza verità. Non contro il tempo combatte la letteratura, bensì contro l’errore: «tutti gli scrittori sensati veggiono di quanti mali sia cagione l’errore, e con tacito accordo gli fanno la guerra»144. L’anonimo credeva che compito suo fosse di risuscitare gli anni «già fatti cadaueri», per consegnarli al perenne delle palme e degli allori. Era un necrofilo. Un becchino che invece di seppellire, dissotterrava: truccandosi ora da archeologo ora da negromante o mago rianimatore. Sui «sepolcri» e sul miracolo di Lazzaro della poesia, Manzoni non risparmiò imbeccate neppure all’Ariosto; che all’adulazione dei poeti aveva riconosciuto la capacità di tirar fuori «vivi» dal «sepolcro» quanti avevano saputo «farsi amica Cirra», «ancor ch’avesser tutti i rei costumi»145. L’adulazione delle debolezze e l’elogio degli errori, in bei versi privi di pudore, è il bell’ufficio di una letteratura indifferente al vero e pronta a tutto surrogare in monumento: nei Materiali estetici di Manzoni; come nel capitolo XVIII (Un bel Esprit, un Philosophe) del Traité de la concupiscence di Bossuet, che fa ressa dietro la ramanzina di Manzoni («Ah! Messer Ludovico, quando scrivevate 140 ORAZIO, Carmina, III, 30, v. 1, in ID., Le opere, a cura di M. Ramous, Milano 1988, p. 544. («Ho alzato un monumento più duraturo del bronzo»). 141 A. MANZONI., Materiali estetici cit., pp. 20-21. 142. ID., I promessi sposi cit., cap. XIV, p. 334. 143 ID., Storia della Colonna infame (prima redazione), in ID., Storia della Colonna infame, a cura di C. Riccardi, Milano 1984, p. 170. 144 Ibid., p. 169 (corsivo nostro). Cfr. M. AMBROSE, Error and the abuse of language in the «Promessi Sposi», in «The Modern Language Review», LXXII (1977), pp. 62-72. 145 L. ARIOSTO, Orlando furioso, XXXV, XXIV, 5-8, a cura di L. Caretti, Milano-Napoli 1954, p. 915.

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quelle ottave non vi avete pensato bene, o avete parlato per baja, il che sta male in argomento così serio»)146. Babeliani sono gli artefici di monumenti. Rinnovano una bestemmia biblica. Pretendono di dare identità e perpetuità di «nome», costruendo ed elevando al cielo: «Venite, faciamus nobis civitatem et turrim, cuius culmen pertingat ad caelum, et celebremus nomen nostrum antequam dividamur in universas terras»147. È l’idolatrica imitatio Dei di quanti alzano la «torre», per «costruire» un «nome»: colpa che Dio ha punito con la dispersione; e con la confusione delle lingue. E paradigma lavora dentro I promessi sposi. Borsieri aveva presentato il Duomo di Milano come un’«artificiale montagna di sasso»148. La similmontagna si biblicizza subito in Manzoni, che le «pietre» di Dio contrappone ai «mattoni» dell’uomo; e la grandiosità della natura oppone alla «superbia» dell’ingegneria umana. L’occhio del montanaro Renzo si è educato alla contemplazione delle «alture di Dio»; ma a Milano è costretto a confrontarsi con l’«ottava maraviglia». Isola quindi la «macchina» dell’uomo. E la città diventa una scena vuota, ampia di solitudine. Dentro il metafisico deserto del perimetro urbano si alza l’umana superfetazione; fronteggiata, sulla linea dell’orizzonte, dalle dentaie del Resegone: Renzo […] vide quella gran macchina del duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un deserto […]. Ma dopo qualche momento, voltandosi indietro, vide quella cresta frastagliata di montagne, vide distinto e alto tra quelle il suo Resegone, si sentì tutto rimescolare il sangue, stette lì alquanto a guardar tristamente da quella parte, poi tristamente si voltò, e seguitò la sua strada149.

Nei «piani deserti» sorgono «città superbe ed affollate», aveva dichiarato il Fermo e Lucia150; «città tumultuose», specificano I promessi sposi151, che vi fanno peregrinare, tra il «grave» e il «morto» di un’atmosfera infernale, una «moltitudine vagabonda e riunita», ovvero una «gente perduta sulla terra»152; e dolente: tormentata e tormentante. In mezzo, incombente e babelicamente incompiuta, c’è la «macchina» costruita dall’arroganza umana: che, nella designazione, convoglia l’astuzia bellica della «macchina» di Ulisse per «desertos […] locos»; di quella virgiliana «fatalis machina» (Aeneis, II, 28 e 237), che, nel romanzo, diventa an146

A. MANZONI, Materiali estetici cit., pp. 50-51. Genesis, II, 4 («Orsù! Costruiamoci una città e una torre la cui cima sia al cielo e facciamoci un nome per non essere dispersi su tutta la terra»). 148 P. BORSIERI, Avventure letterarie di un giorno cit., p. 115. 149 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XI, p. 272. 150 ID., Fermo e Lucia cit., t. I, cap. VIII, p. 139. 151 ID., I promessi sposi cit., cap. VIII, p. 192. 152 Ibid., capp. XXVIII e XI, pp. 648 e 254-55. 147

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che la «macchina fatale», la scala, di una folla imbestialita che dà l’assalto alla casa del vicario di provvisione durante il tumulto di San Martino153. La «macchina» (anche nelle varianti della «macchina» persecutoria di don Rodrigo, e dell’«abbominevole macchina della tortura» azionata da un potere giudiziario che va comminando pene sproporzionate, ingiuste e inefficaci)154 è l’ordigno del generale «errore» (della scalata contro il Cielo e, fratricidamente, contro il prossimo) di una umanità di oppressi e oppressori dispersa sul «piano» di un biblico deserto: «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi»155, I promessi sposi si stringono ai versi dell’Adelchi: «[…] genti disperse | nel piano […]» (II, V, vv. 337-38); «[…] gregge atterrito e sperso» (III, V, v. 186); «un volgo disperso» e «[…] un volgo disperso che nome non ha» (III, Coro, vv. e 66). Il «gregge atterrito» ricorda le «ville sparse e biancheggianti sul pendio, come branchi di pecore pascenti», che nell’addio di Renzo e Lucia al loro villaggio (ritornando alle «biancheggianti ville» dei versi giovanili dell’Adda)156 sembrano voler fuggire dalla «torre piatta» del persecutore don Rodrigo; mentre il palazzotto, con torre, del prepotente «pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d’addormentati, vegliasse, meditando un delitto»157. Il sacrilegio della torre e del «nome»; e dall’altra, la dispersione nei deserti della storia di un popolo buttato nella confusione delle lingue (alimentata dalla demagogia politica e dalla malizia umana, nella Milano che l’esule Renzo deve attraversare durante la sua fuga)158. La storia è un «immenso pelago di errori». La denuncia veniva dall’illuminismo giuridico. E da Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, in particolare159. Tutti gli errori, Manzoni compendia nella storia morale e politica del Seicento: l’incertezza del diritto, la legislazione eccessivamente proliferante che a colpi di gride sopporta l’arbitrio dei potenti e la manipolazione dei causidici, l’impunità organizzata delle classi e delle consorterie (e persino della Chiesa), la cultura economica irresponsabile e monopolistica (che blocca la libera concorrenza e impo153

Ibid., cap. XIII, p. 304. Ibid., capp. XVIII e XXXIV, pp. 411 e 790. 155 Ibid., cap. II, pp. 48-49. 156 ID., Adda, v. 11, in ID., Poesie prima della conversione, a cura di F. Gavazzeni, Torino 1992, p. 123. 157 ID., I promessi sposi cit., cap. VIII, p. 191. 158 Cfr. D. BANON, Babel ou l’idolâtrie embusquée, in «Tel Quel», n. 88 (1981), pp. 45-63; e C. GANDELMAN, La Bibbia come «firma di Dio»: l’interpretazione cabalistica della Scrittura e del mito della «caduta nelle lingue», in «Carte semiotiche», n. 3 (1987), pp. 29-33. 159 Cfr. C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, cap. XVI, in Illuministi settentrionali, a cura di S. Romagnoli, Milano 1962, p. 514. 154

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ne la demagogia del prezzo politico), la persecuzione dell’onestà disarmata. Il romanzo di Manzoni aggredisce l’errore nei suoi punti di perversione. Con sdegno, senz’altro. Ma anche con compassione: «[…] la morale cattolica rimove le cagioni che rendono difficile l’adempimento di questi due doveri, odio all’errore, amore agli uomini»160. In polemica con Rousseau: «Vi ebbe però uno scrittore, e non volgare certamente, il quale pretese che conciliare la guerra all’errore e la pace cogli uomini sia impresa non difficile, ma impossibile»161. E nella certezza che la «guerra illustre» della monumentalizzazione letteraria e storiografica sia iattura dell’orgoglio dei letterati. L’immortalità è per i giusti. Ma nel «monument éternel» scolpito dal dito di Dio. Il principio è nel sermone di Massillon Sur la salut; ed è ribadito nel Sermon sur l’emploi du temps, ovvero sugli «emplois illustres soutenus avec réputation»: en vain les histoires parleront de nous; nous serons effacés du livre de vie et des histoires éternelles: en vain nos actions feront l’admiration des siècles à venir; elles ne seront point écrites sur les colonnes immortelles du temple céleste […] ce que le doigt de Dieu tout seul aura écrit, durera autant que lui-même162.

L’eternità è prerogativa divina. Quella che i letterati promettono è usurpazione blasfema: monumento terreno; torre di Babele. Le lapidi del giusto giudizio contemplano l’«errore»: lo additano e lo combattono. L’orgoglio è la radice avvelenata del mondo. La torre di Babele è la «macchina» riassuntiva di un programma di superbia. Che include la costruzione della città, da parte della «posterità di Caino»163. E quella del «nome». Il dare e il darsi «nome» è una depravazione: quando l’uomo si considera il proprio dio, per eccesso d’amor proprio; e per empia sopravvalutazione. Bossuet appendeva l’ombra del «nome» alle rovine dei «monumenti»; e ne faceva convincimento di «errore»164. Il lemma ‘nominare’ è ben rubricato nel vocabolario morale. Onomateta è il tiranno, il cui potere pretende di sconfinare verso quello divino. Come nel Tarquinio Superbo (1632) di Virgilio Malvezzi: «I principi doventano tiranni perché non si saziano di nominare: vogliono essere signori del160

A. MANZONI, Osservazioni sulla morale cattolica cit., Parte prima, cap. VII, p. 54. Ibid., p. 55. 162 J.-B. MASSILLON, Sermon sur l’emploi du temps, in ID., Œuvres, Paris 1835, t. I, pp. 471-72 («Invano le storie parleranno di noi; saremo cancellati dal libro della vita e dalle storie eterne: invano le nostre azioni faranno l’ammirazione dei secoli futuri; esse non saranno scritte sulle colonne immortali del tempio celeste […] soltanto ciò che il dito di Dio avrà scritto, durerà quanto lui»). Cfr. ID., Sermon sur la salut, ibid., pp. 473-85. 163 ID., Sermon sur la passion de notre Seigneur Jésus-Christ, ibid., t. I, p. 520. 164 J.-B. BOSSUET, Oraison funèbre de Louis de Bourbon, in ID., Oraisons funèbres. Panégyrique, a cura di B. Velat, Paris 1950, p. 234. 161

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l’onore, dell’avere e delle persone»165. Nell’ode manzoniana Il cinque maggio (1821), il verbo ha applicazione onomaturgica nell’autoappellazione di Napoleone: Ei si nomò: due secoli, l’un contro l’altro armato, sommessi a lui si volsero, come aspettando il fato; ei fe’ silenzio, ed arbitro s’assise in mezzo a lor166.

Con il solo presidio del pronome, Napoleone interpreta nella scena storica dell’ode l’azione biblica di Alessandro. Davanti a lui «siluit terra», come davanti al Macedone (Machabaeorum, I, I-3). Ma il palcoscenico si fa subito smisurato. L’arbitraggio sui secoli spodesta Dio dal ruolo di «Roi immortel des siècles»167: «si fe’ signor» e «regnò signor», recitano le varianti del verso. A Dio solo compete di essere «arbitre» e «suprême modérateur»168. L’ambizione ha portato Napoleone a misurarsi con Dio. E a negarlo: «c’est Dieu seul qui élève les grands et les puissants; qui vous place au-dessus des autres»169. La bestemmia offusca il cielo. E aggredisce Dio nel suo diritto di «vocazione», che è legge di sovranità inviolabile nella storia: «[…] ego Dominus […] voco nomen tuum […] et vocavi te nomine tuo» (Isaias, 45, 3-4). Napoleone «si nomò». La sua, è insubordinazione empia; e tremenda. Carducci fu corrivo nell’impertinenza. Manzoni aveva risposto a se stesso, nell’ode: Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza: nui chiniam la fronte al Massimo Fattor che volle in lui del creator suo spirito più vasta orma stampar170.

I versi muovono dalla certezza espressa da Cristo nel Vangelo di Giovanni: 165 V. MALVEZZI, Il Tarquinio Superbo, Venezia 1662, p. 110. Sulle complicazioni religiose del ’nominare’ cfr. A. VERGOTE, Interprétation du language religieux, Paris 1974, pp. 122-24. 166 A. MANZONI, Il cinque maggio, vv. 49-54, in ID., Tutte le poesie (1812-1872), a cura di G. Lonardi e P. Azzolini, Venezia 1987, p. 110. 167 J.-B. MASSILLON, Sermon sur les dispositions nécessaires pour se consacrer à Dieu par une nouvelle vie, in ID., OEuvres cit., t. II, p. 14. 168 L. BOURDALOUE, Sermon sur l’aumône, in ID., Œuvres cit., p. 167. 169 J.-B. MASSILLON, Sermon sur les vices et les vertus des grands, in ID., Œuvres cit., t. I, p. 610. («Solo Dio innalza i grandi e i potenti; è lui che vi pone al di sopra degli altri»). 170 A. MANZONI, Il cinque maggio cit., vv. 31-36.

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«Si ego glorifico meipsum, gloria mea nihil est: est Pater meus qui glorificat me […]» (Ioannes, 8, 54). E seguono il sermone di Massillon Sur la fausseté de la gloire humaine: «il n’y a de grand dans les hommes que ce qui vient de Dieu […] élevé au-dessus de tout ce qui se passe, et soumis à Dieu seul; voilà la véritable gloire, et la base de tout ce qui fait les grands hommes»171; e l’altro, sempre di Massillon, Sur les caractères de la grandeur de Jésus-Christ: «Pour connoître la grandeur véritable des souverains et des grands, il faut la chercher dans les siècles qui vont venir après eux. Plus même ils s’éloignent de nous, plus leur gloire croît et s’affermit lorsqu’elle a pris à source dans l’amour des peuples»172. Carducci si irritò alla «più vasta orma» stampata da Dio sullo «spirito» di Napoleone. Gli parve che Manzoni avesse così attribuito al Padre Eterno «l’irriverente atto di una pedata»173. E cadde nell’errore di mettere sullo stesso piano l’«orma» marcata da Dio e l’«orma» calcata dal piede di Napoleone sulla «cruenta polvere» (vv. 1012). La prima è l’impressione della mano del «Massimo Fattor»; il segno pentadattilo del maggior privilegio accordato dalla sovranità divina. Ancora una volta soccorre Massillon che, nell’orazione funebre per Messire de Villeroy, celebra i «vastes talents […] imprimés des mains de Dieu sur certaines âmes»174. Le calcografie del Cinque maggio raccontano l’errore di temerarietà di un «unto» di Dio che «[…] contra ’l suo fattore alzò le ciglia» (come il Lucifero dantesco di Inferno, XXXIV, v. 35); per imporsi come il dio del proprio cesarismo, dopo avere rinnegato la superna investitura. L’«orma» che ha «calpestato» la «cruenta polvere» è di «piè mortale». Si contrappone, nella storia, a quella lasciata dal piede immortale di Cristo sulla polvere insanguinata non dal calpestamento guerriero ma dal sacrificio della croce: […] quando, chiuso il tepido fonte di sua ferita, mise il potente anelito […] della seconda vita; 171 J.-B. MASSILLON, Sermon sur la fausseté de la gloire humaine, in ID., Œuvres cit., t. I, pp. 591-92 («Nulla c’è di grande negli uomini che quanto proviene da Dio […] innalzato al di sopra di tutto ciò che accade, e sottoposto solo a Dio; ecco la vera gloria, e la base di ciò che fa grandi gli uomini»). 172 ID., Sermon sur les caractères de la grandeur de Jésus-Christ, ibid., p. 586 («Per conoscere la grandezza vera dei sovrani e dei grandi, bisogna cercarla nei secoli che verranno dopo di loro. Più essi si fanno a noi lontani, più la loro gloria cresce e si consolida se ha trovato fondamento nell’amore dei popoli»). 173 T. BARBIERI, Appunti di G. Carducci per quattro conferenze su «La lirica del Manzoni», in «Giornale storico della letteratura italiana», XC (1973), 469, pp. 94-103. Cfr. M. STERPOS, Carducci di fronte a Manzoni - storia di un’avversione, in «Italianistica», XVII (1988), I, pp. 17-48. 174 B. MASSILLON, Oraison funèbre de Messire de Villeroy archevêque de Lyon, in ID., Œuvres cit., t. I, p. 640 («vaste qualità […] impresse dalle mani di Dio su certe anime»).

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e dalla bassa polvere alzando il piè divino […] l’erto del ciel cammino benedicendo aprì175.

Il motivo era anche figurativo. Risaliva all’Ascensione di Dürer. E, attraverso la mediazione di Lorenzo Lotto, era approdato in quella Bergamo nella quale si risolve la vicenda dei Promessi sposi. Nel Coro intarsiato di Santa Maria Maggiore in Bergamo, il maestro intagliatore Alessandro Belli su una collinetta (che è come un globo) «stampò» le orme di Cristo asceso al cielo. Napoleone è un falsario di Dio. Per lui Manzoni, insieme alla leggenda di Alessandro 176, riesuma dalla letteratura classica sulla regalità il tema fetonteo della polemica anticesarea177. Napoleone «cadde, risorse e giacque» (v. 16). La vicenda di caduta e ripresa è quella di un semidio come Anteo: del gigante, figlio di Nettuno, che riprendeva le proprie forze quando toccava il suolo («quasi novello Anteo cadde e risorse»)178. Ma riferita al reggitore Napoleone, visto «folgorante in solio» (v. 12), e con l’aggiunta dell’esito di irreparabile caduta, evoca la mitologia di un diverso semidio. Introduce nella reggia dove «[…] sedebat | in solio Phoebus claris lucente smaragdis»: con un richiamo ovidiano 179, già attivo nel canto VI del Bardo della selva nera di Monti (il «trono della luce» del «raggiante imperador») commentato da Pietro Borsieri nel capitolo VI delle Avventure letterarie di un giorno180. Il sole (folgorante: Phoibos-Ekebòlos) in continuazione «sorge» e «cade» (Il Nome di Maria, v. 41), tra accesso e recesso. Supremo auriga, è immagine di Dio: biblicamente «sommo Sole» (Risurrezione, v. 47). Napoleone, che è «tanto raggio» (v. 22) e ha «rai fulminei» (v. 75), «giacque» però: rivelandosi sole mancato e auriga votato alla catastrofe. Napoleone è il semidio Fetonte, figlio di Febo: che irresponsabilmente ha preteso di sostituirsi al padre nella guida del carro divino e ha ustionato il cielo con la sua folle e rovinosa corsa. Il «falsus auriga» giacque: «Ei fu»; laddove il vero reggitore «è»: «Vous êtes les divinités du 175 I versi appartengono al secondo abbozzo della Pentecoste: si veda A. MANZONI, La Pentecoste, dal primo abbozzo all’edizione definitiva, a cura di L. Firpo, Torino 1962, p. 36. 176 Cfr. L. BRACCESI, Per le fonti del «Cinque maggio» (1979), in ID., Proiezioni dell’antico, Bologna 1982, pp. 85-92. 177 Cfr. R. DEGL’INNOCENTI PIERINI, Caligola come Fetonte (Sen. “Ad Pol.», 17,3), in «Giornale italiano di filologia», nuova serie, XVI (1985), I, pp. 73-89. 178 T. TASSO, Gerusalemme liberata, XX, CVIII, v. 2, a cura di L. Caretti, Bari 1967, p. 696. 179 OVIDIO, Metamorphoseon libri, II, vv. 23-24, a cura di F. Bernini, I, Bologna 1981, pp. 48-50 («[…] sedeva | Febo sul soglio che sfolgorava brillando di lucide pietre preziose»). 180 P. BORSIERI, Avventure letterarie di un giorno cit., pp. 147-48.

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monde, vous êtes les enfants du Très Haut; mais fausses divinités, vous étes mortelles, et vous mourrez en effet», aveva predicato Bourdaloue181. La culminazione fetontea del titanismo di Napoleone è presunzione temeraria di specie babelica, punita con l’abbattimento del «nome». Il Napoleone del Cinque maggio, stolto che al ciel s’agguaglia, è un senza-nome. Il titolo dell’ode è una data sul monumento. Ma il monumento è quello della Fede trionfante, che sotto la data storica «scolpisce» l’orografia morale di una montagna di alta superbia che alla fine, toccata dalla mano misericordiosa di Dio e quindi dalla grazia della «conversione», si prosterna alla collina della sublime umiltà cristiana: Bella Immortal! benefica Fede ai trionfi avvezza! Scrivi ancor questo, allegrati; ché più superba altezza al disonor del Golgota giammai non si chinò182.

Quello della Fede è un ridir scolpendo il linguaggio profetico di Isaia («Omnis vallis exaltabitur, et omnis mons et collis humiliabitur»)183, già ripreso e tante volte variato dai grandi moralisti francesi: per esaltare l’umiliazione delle «montagnes du siècle», o «orgueil de Césars», di fronte all’«humilité de la croix»184. La diminuita geografia di Napoleone (dall’enormità planetaria, alla «breve sponda» dell’isola, al letto e alla «coltrice») giunge al punto di premio della buona morte cristiana registrata sul granito perenne del «livre de l’éternité»185. Avrebbero voluto essere «eterne» le pagine delle memorie di Napoleone. Su di esse la mano sopraffatta cadde «stanca», però. Potrebbe essere un monumento eterno (sull’«errore» e sulla Grazia; senza adulazione, e con «amore» alla tragedia dell’uomo) il Cinque maggio; che «[...] scioglie all’urna un cantico | che forse non morrà» (vv. 23-24), proprio perché monumento letterario non alla storia ma alla Fede. Sulla traccia del Sermon sur l’emploi du temps di Massillon, che la vita dei conduttori e gran motori della storia propone di guardare dal luogo estremo del letto di morte: dal raccoglimento finale; e dal consuntivo di una vita; quando i ricordi stingono e si dissolvono; e solo contano gli episodi segnati da una qualche vittoria della 181 L. BOURDALOUE, Sermon sur la pensée de la mort, in ID., Œuvres cit., p. 134 («Siete le divinità del mondo, siete i figli dell’Altissimo; ma false divinità, siete mortali, e infatti morirete»). 182 A. MANZONI, Il cinque maggio cit., vv. 96-101. 183 Isaia, 40, 4 («Ogni valle sarà colmata, e ogni monte e colle sarà abbassato»); cfr. Luca, 3, 5. 184 L. BOURDALOUE, Sermon sur l’ambition, e Sermon sur la religion chrétienne, in ID., OEuvres cit., t. I, pp. 247-57 e 197-207. 185 J.-B. MASSILLON, Sermon sur la mort du pécheur et la mort du juste, in ID., Œuvres cit., t. I, p. 12.

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fede e «dignes d’être célébrés par les cantiques éternels»186. Il resto è «errore» di «uom fatale», che ha solo il vessillo del pronome per esistere nel linguaggio di un’ode onomoclasta: «a quel che arse il tempio si dice “colui”»187, avevano insegnato gli storici antichi che avevano voluto umiliare nel «nome» il sacrilego Erostrato. Il «volto» calpestato della «madre terra» è un museo all’aria aperta di impronte pedagne. Lo dice Borsieri, nel capitolo inaugurale delle Avventure letterarie di un giorno. E l’aveva già detto quasi un secolo e mezzo prima il Bartoli, nel capitolo altrettanto inaugurale dell’Uomo al punto. Anche Baldassar Castiglione si era interessato alle impronte fossili, all’inizio del terzo libro del Cortegiano, facendo scoprire a Pitagora quanto «fosse stato maggior degl’altri piedi umani» il piede di Ercole. Della improntologia (che Defoe aveva messo in romanzo, nel Robinson Crusoe), Borsieri fece però un’inconsueta quanto obbligatoria via d’accesso al romanticismo lombardo e ai suoi nuovi «eroi»: «[...] grazie agli Alessandri ed ai Cesari, ed a que’ pochi grandi che con piante insanguinate hanno percorsa la terra, sagrificando al simulacro della gloria fra il pianto e le strida delle nazioni, grazie, dissi, a costoro, il mondo è riuscito a formarsi una ben più nobile idea dell’eroismo»188. Fra «que’ pochi grandi» dai piedi insanguinati, Manzoni non poté che estrarre Napoleone, che pose a misura di un diverso eroismo (anche «in burla», come voleva Borsieri). Vennero allora I promessi sposi, a studiare e a misurare le corserelle, i saltelloni, i trotti, i passi brevi e circospetti, lunghi o infuriati, di quanti nella storia viaggiano; e a distinguere un calpestio di sandali, sotto un veleggiar di tonaca.

3-5. Tematiche e personaggi. Un falsario della prudenza e della Grazia. «Si fermò su due piedi»189: di botto; nella posa del coniglio. E fu l’inizio. Delle «ragioni» di don Abbondio190 e delle disgrazie dei promessi. Ha occhi grigi, don Abbondio. Che entra in scena, portato dal tempo durativo di un imperfetto di consuetudine: «tornava bel bello dalla passeggiata verso 186

ID., Sermon sur l’emploi du temps cit., p. 472 (corsivo nostro). P. ARETINO, Lettera a Giovanni Pollastra del 28 agosto 1537, in ID., Lettere, a cura di P. Procaccioli, I, Milano 1993, p. 236. 188 P. BORSIERI, Avventure letterarie di un giorno cit., p. 88 (corsivo nostro). 189 A. MANZONI, I promessi sposi. cit., cap. I, p. 19. 190 Sulle «ragioni del coniglio» cfr. L. PIRANDELLO, L’umorismo, introduzione di S. Guglielmino, Milano 1986, p. 150. Di «eroe della piccola ragione» parlava L. RUSSO, Personaggi dei Promessi Sposi (1945), Bari 1970, p. 146. 187

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casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628»191. La sequenza è minima; nell’ordine della piccola vita di un curato di campagna. Ma l’indicazione puntigliosa di giorno, mese e anno, è impegnativa. Guadagna alla storia ciò che avrebbe dovuto essere irrilevante; a partire dall’assuefazione alla quotidiana retorica di mani e piedi: destra e sinistra incrociate dietro la schiena, con l’indice della mano destra chiuso nel breviario; la cara mania di un piede, che punta i ciottoli del sentiero e li fa schizzare sul muricciolo. Lo sguardo di don Abbondio è ozioso e svagato. Tuttavia non si limita ad avvicinare il paesaggio. Esprime anche la volontà i allontanare inciampi e sorprese, di scansare e scansarsi. Ma il curato è arrivato a un incontro, che non consente astuzie di viottoli. Due bravacci, truci e scostumati, gli chiudono la strada davanti a un’edicola votiva dedicata alle anime del purgatorio. È la mise en intrigue del destino del pavido curato, d’ora in avanti costretto a barcamenarsi tra «santi» e «birboni»: ora come «pulcino» impaniato nella stoppa, ora come «pulcino negli artigli del falco»; a subire, pusillanime, la magnanimità tormentosa del cardinale Borromeo; e a patire l’argento vivo di «un appaltatore di delitti» convertito, che lo fa sentire in Malebolge. La «santità» umile, prodiga ed eroica, degli ecclesiastici, ha natura d’acqua: la vita d’impiego e di servizio di Federico Borromeo è (con immagine declinata da Bossuet) «come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume»192; i cappuccini sono (con riferimento all’Ecclesiaste, I, 7) «come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi»193. La vigliaccheria accanita e impenitente di don Abbondio, alimentata da colpevoli negligenze e da inadempienti che si industriano con il latinorum o con il calar di brache (come dice Perpetua: la zitella che lo accudisce), ha natura di terra. E curato è un «vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro»: Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare. Neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui […]. Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all’altro ch’egli non gli era volontariamente nemico […]. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto […]. Sopra tutto poi, declamava contro que’ suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d’un debole oppresso, contro un soverchiatore potente. 191

A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. I, p. 11. Ibid., cap. XXII, p. 496. cfr. A. M. D’AMBROSIO MAZZIOTTI, Fra Bossuet e Manzoni: la retorica e la ragione, in «Critica letteraria», XIII (1985), 48, pp. 483-507. 193 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. III, p. 72. 192

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Questo chiamava un comprarsi gl’impicci a contanti, un voler raddrizzare le gambe ai cani194.

In don Abbondio la debolezza terragna della natura ha sempre il sopravvento sulla Grazia di Dio, che spezza «vases de terre» perché diano testimonianza della luce e della potenza della fede: come le anfore di Gedeone che, rotte, facevano apparire le torce fiammanti che dissimulavano dentro la loro opacità (Giudici, 7,15-23). I «vasi di terra» erano, nell’articolazione ossimorica del Sermon sur les afflictions di Massillon qui sintetizzato, l’emblema della debolezza gloriosa dei martiri di Cristo195. In don Abbondio sono invece la giustificazione blasfema della resistenza alla Grazia e alla missione del sacerdozio. La debolezza del curato ha la forza e l’ostinazione di una bestemmia allegramente dichiarata. La «neutralità disarmata» è la teologia patetica della difesa a oltranza della «pelle» da parte di un tenero quanto insolente e bizzoso «eroe» della viltà, che accomoda il suo buon Dio alla propria industria di sopravvivenza e di quieto vivere: fino a farsi (suo malgrado) provocatore e complice di ribaldi e prepotenti. Ma don Abbondio non è un grande peccatore. Il suo confronto con Dio è furbesco. Il curato è il «povero prete» di un «povero Dio»196. Solo i grandi peccatori sanno convertirsi, sosteneva Bourdaloue nella meditazione De la tiédeur dans le service de Dieu197. Don Abbondio non può avere pentimenti e rimorsi. È un uomo di «terra», fedele a se stesso: dall’inizio alla fine. E per il suo «errore», Manzoni ha umana comprensione. Quando Federico Borromeo arringherà il confuso e ammutolito curato sul coraggio intrepido dell’esercizio pastorale, sul «timore» e sull’«amore» che esso comporta, Manzoni si farà partecipe delle realistiche «ragioni» del pavido di fronte alla facile magniloquenza di un «santo»: [...] per dir la verità, anche noi, con questo manoscritto davanti, con una penna in mano, non avendo da contrastare che con le frasi, né altro da temere che le critiche de’ nostri lettori [...] troviamo un non so che di strano in questo mettere in campo, con così poca fatica, tanti bei precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli altri, di sacrifizio illimitato di sé. Ma pensando che quelle cose erano dette da uno che poi le faceva, tiriamo avanti con coraggio198.

Dunque: i bravi erano lì ad aspettare don Abbondio. Il curato «disse mental194

Ibid., cap. I, pp. 25-27. J.-B. MASSILLON, Sermon sur les afflictions, in ID., Œuvres cit., t. I, p. 37. 196 Cfr. G. MANGANELLI, Alessandro Manzoni - «I Promessi Sposi» (don Abbondio), in ID., Laboriose inezie, Milano 1986, pp. 207-8. 197 L. BOURDALOUE, De la tiédeur dans le service de Dieu, in ID., Œuvres cit., t. III, pp. 607-8. 198 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XXVI, p. 591. Cfr. G. NENCIONI, La lingua di Manzoni, Bologna 1993, pp. 32-33. 195

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mente: ci siamo; e si fermò su due piedi»199, a chiedere comandi. Fu subito accontentato. Il loro padrone, Don Rodrigo, gli intimava di non celebrare il matrimonio tra gli operai tessili Renzo Tramaglino e Lucia Mondella. E don Abbondio cedette all’«ubbidienza». Quel tiranno di don Rodrigo si era incapricciato di Lucia. E su di essa aveva fatto scommessa con il cugino Attilio, suo «spensierato» complice nelle soverchierie. Cominciano le traversie dei due operai. E intanto don Abbondio si prepara ad affrontare Renzo: il «ragazzone», che non aveva avuto nient’altro da fare che sentir «bruciore» e innamorarsi come un gatto. «Egli pensava alla morosa; ma io penso alla pelle»: don Abbondio è lapidario. E si fa stratega della propria paura. Il pauroso, il simpatico vigliacco, tra «consulte», «partito» e «deliberazione», fa agire il linguaggio militare di Machiavelli (l’ha dimostrato Giovanni Bardazzi)200. La sua è una tattica d’ «utilitarismo», che la prudenza falsifica nelle «ragioni del coniglio». Sulle gambe di don Abbondio cammina, nel romanzo, la «marioleria» comicizzata del segretario fiorentino. Le cui opere condividono con la Ragion di Stato di Giovanni Botero il palchetto della politica nella rappresentativa biblioteca dell’aristotelico filosofone don Ferrante, maestro in sillogismi e parologismi: Due [...] erano i libri che don Ferrante anteponeva a tutti, e di gran lunga, in questa materia; due che, fino a un certo tempo, fu solito di chiamare i primi, senza mai potersi risolvere a qual de’ due convenisse unicamente quel grado: l’uno, il Principe e i Discorsi del celebre segretario fiorentino; mariolo sì, diceva don Ferrante, ma profondo: l’altro, la Ragion di Stato del non men celebre Giovanni Botero; galantuomo sì, diceva pure, ma acuto201.

E Machiavelli e Botero insieme, «mariolo ma galantuomo», era il Fermo ubriaco che con l’oste della Luna piena recitava la favola di Amore e Psiche202. «Insigne», Manzoni definisce nel saggio Del romanzo storico l’avversione per la Gerusalemme liberata di Galileo Galilei203. Il poema tassesco era sembrato allo scienziato una Wunderkammer: uno studietto di qualche ometto curioso, che si sia dilettato di adornarlo di cose che abbiano, o per antichità o per rarità o per altro, del pellegrino, ma che però sieno in effet199

A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. I, p. 19. G. BARDAZZI, Il “sistema’ di Manzoni, in «Cenobio», XXXV (1986), 4 (numero monografico: Atti del Convegno di Ginevra, 13 ottobre 1985, su «Manzoni 1785-1985»), pp. 293-306. 201 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XVII, pp. 630-31. 202 ID., Fermo e Lucia cit., t. III, cap.VII, p.470. Si veda E. BONORA, Postille ai «Promessi Sposi», in ID., Manzoni. Conclusioni e proposte cit., pp. 182-84. 203 A. MANZONI, Del romanzo storico, in ID., Tutte le opere cit., V/3, p. 336. 200

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to coselline, avendovi, come saria a dire, un granchio petrificato, un camaleonte secco, una mosca e un ragno in gelatina in un pezzo d’ambra, alcuni di quei fantoccini di terra che dicono trovarsi ne i sepolcri antichi d’Egitto [...]204.

C’è molta affinità tra lo «studiolo» manierista descritto da Galileo e la cultura che si respira nella biblioteca di don Ferrante (passata dai quasi cento volumi del Fermo e Lucia ai quasi trecento dei Promessi sposi). L’aristotelico manzoniano, che si ostinerà a negare l’epidemia di peste (né «sostanza» né «accidente») pur mentre ne moriva «prendendosela con le stelle», aveva dato una scorsa a erbari lapidari e bestiari: e sapeva a tempo trattenere una conversazione ragionando delle virtù più mirabili e delle curiosità più singolari di molti semplici; descrivendo esattamente le forme e l’abitudini delle sirene e dell’unica fenice; spiegando come la salamandra stia nel fuoco senza bruciare; come la remora, quel pesciolino, abbia la forza e l’abilità di fermare di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave; come le gocciole della rugiada diventin perle in seno delle conchiglie; come il camaleonte si cibi d’aria; come dal ghiaccio lentamente indurato, con l’andar de’ secoli, si formi il cristallo; e altri de’ più maravigliosi segreti della natura205.

L’enciclopedismo strabiliante di don Ferrante, che è la quintessenza di peregrina pedanteria spremuta da un’intera biblioteca, si esibisce anaforicamente in un elenco di schede esplicative che ricalca (positivizzandolo) quello in negativo della lettera del Tasso a Scipione Gonzaga (1579): […] se del nascimento di Cristo e de la sua eterna generazione non so render cagione, non lo so anche rendere de la generazione de’ tuoni e de’ lampi e de le grandini e de le tempeste e de’ venti, se non molto fallace e incerta: né so, se non molto dubbiosamente, come l’aria si dipinga di tanta varietà di colori in quel suo arco, che arco del patto è nominato: né come ne la regione del fuoco o ne la vicina ci appaiano le comete, e la strada di latte, e tante altre apparenze ora spaventose ora vaghe, ma sempre maravigliose: né so come ne le viscere de la terra si generi l’oro e l’argento e gli altri metalli, e nel letto del mare le perle e i coralli si producano: né saprei de la generazion de gli animali abbastanza ragionare; […] e come la fenice deponga la vecchiaia nel fuoco e a lunghissima vita si rinnovelli; o come di due bruti di diverse specie ne nasca un misto che né a la madre né al padre sia somigliante […]206. 204 G. GALILEI, Considerazioni al Tasso, in ID., Scritti letterari, a cura di A. Chiari, Firenze 1970, p. 502. Cfr. E. PANOFSKY, Galileo as a Critic of the Arts, 1954 (trad. it. di M. C. Mazzi, Galileo critico delle arti figurative, Venezia 1985). Della stessa pagina antitassesca si è servito Umberto Eco nel romanzo L’isola del giorno prima (Milano 1994, cap. XX, p. 213), per descrivere, in «una stanza che rivelava un gusto per la raccolta erudita», «una mosca e un ragno in un pezzo d’ambra, un camaleonte rinsecchito». Sul romanzo di Eco cfr. la chiusa bibliografica di questo saggio. 205 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XXVII, p. 629. 206 T. TASSO, Lettera a Scipione Gonzaga del 15 aprile 1579, in ID., Le lettere, a cura di C. Guasti, Firenze1854,

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Don Ferrante è un galileiano «ometto curioso». E la sua biblioteca è il luogo di falsificazione manieristica del rapporto tra arte e natura. Da questo «capriccio», da questa Wunderkammer, Fermo ha preso i colori retorici della sua ciarla di ubriaco; e don Abbondio ha tratto la scienza militare della sua falsificazione della prudenza. Don Abbondio è però, anche e soprattutto, un teologo blasfemo: il falsario della Provvidenza, che a Dio attribuisce gli effetti speciali di una peste e le mansioni di uno spazzino compiacente. Non appena gli annunciano l’avvenuta morte per peste di don Rodrigo, scioglie all’urna una picciola orazione funebre; inaudita sin nella cornice, che è una canzonatura in quinari del Cinque maggio: «Ah! è morto dunque! è proprio andato! […] lui non c’è più, e noi ci siamo»207. È la parodia del grido di Cassio alla morte di Cesare («C’en est fait, a n’est plus»). È un riportar l’inizio del Cinque maggio alla radice voltairiana («Il régnait, il n’est plus»)208. È una bestemmia, che la contrapposizione manzoniana tra la fulminea sparizione del «nome» di Napoleone e l’insidenza («Egli c’è») del «nome» di Dio, rivelato a Mosè nel colloquio del roveto, riduce alla goliardia esultante di due cantanti quinari: «lui non c’è più, e noi ci siamo». E, dentro la cornice, lo «scopabo eam in scopa terens» di Isaia (14, 23) dà luogo all’immagine di una Provvidenza pestifera che spazza via foglie ancora verdi: «È stata un gran flagello questa peste; ma è anche una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più: verdi, freschi, prosperosi: bisogna dire che chi era destinato a far loro l’esequie, era ancora in seminario, a fare i latinucci»209. Un tirannello in retta linea. Non pare. Eppure don Abbondio è, a modo suo, un filologo. Di sicuro è un lettore. E non solo del breviario, con il quale entra «bel bello» nel romanzo. Manzoni lo sorprende a leggere un «libricciolo», seduto sul «seggiolone»210, nell’ottavo capitolo dei Promessi sposi; e a chiedersi chi «diavolo» fosse il Carneade, di cui il libretto parlava. Era la sera del 10 novembre del 1628; malaugurata sera e malaugurata notte, durante le quali Renzo e Lucia, spalleggiati da Tonio e da Gervaso, tentarono di imporre al curato un matrimonio clandestino; mentre i bravi di don Rodrigo, guidati dal Griso, mancarono l’impresa di rapire Lucia. Quella sera don Abbondio leggeva un panegirico in onore II, pp. 21-22; cfr. G. BARDAZZI, Recensione a A. MANZONI, Tutte le poesie cit., e a ID., I Promessi Sposi, a cura di E. Raimondi e L. Bottoni, Milano 1987, in «Rivista di letteratura italiana», VI (1988), 2, pp. 313-42. 207 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XXXVIII, p. 885. 208 Cfr. H. G. HALL, New light on Manzoni’s «Ei fu» in relation to French literature, in «The Modern Language Review», LXVI (1971), 3, pp.568-79; E. A. MILLAR, Napoleon in Italian Literature 1796-1821, introduzione di M. Praz, Roma 1977; S. NIGRO, Manzoni, Roma-Bari 1978, p. 103, nota 1. 209 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XXVIII, p. 885 (corsivo nostro).

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di san Carlo Borromeo; ed esattamente La dottrina di san Carlo Borromeo spiegata da Vincenzo Tasca nel duomo di Milano, addì 4 novembre 1626 (Milano 1626)211. Ma il don Abbondio dei Promessi sposi ha letto pure il Fermo e Lucia di uno scrittore chiamato Alessandro Manzoni. L’anacronismo non è un problema in letteratura. Non si spiegherebbe altrimenti la guitteria dell’orazione funebre del curato, che l’ode napoleonica usa per seppellire alla paura il protervo persecutore suo e dei suoi parrocchiani. Sulle pagine del Fermo e Lucia, don Abbondio aveva studiato la megalomania «napoleonica» di don Rodrigo: un nano rampichino sulla torre di Babele; un Napoleone in ventiquattresimo. La «superba altezza» dell’eroe dell’ode era stata presa a modello da don Rodrigo, nel Fermo e Lucia: «[...] pareva che la superbia e l’iniquità di don Rodrigo fossero salite a quell’altezza, dove la Provvidenza le arresta, e le rovina»212. Il tirannello s’era voluto piazzare, anche lui, sulla torre di Babele. E quando la «macchina» venne giù, per lui, il filologo don Abbondio estrasse il «coccodrillo» napoleonico. Pasolini sosteneva che Manzoni aveva «amore per la gioventù solida e ben piantata di Renzo»213. In parte è vero. Di contro Manzoni aveva una ripugnanza viscerale per don Rodrigo. Più evidente nel Fermo e Lucia che nei Promessi sposi. E il dispetto è tale, che l’autore si spazientisce. Diventa sbrigativo. E manda al diavolo il suo personaggio, senza complimenti. Così nel Fermo e Lucia: don Rodrigo parte per Milano; «la carrozza andava celermente, senza impedimenti in una strada solitaria. Buon viaggio!»214. Per puntiglio ferito, don Rodrigo salta a cavallo. In abito da caccia. E seguito da una «scorta pedestre». Va a comprare l’aiuto del Conte del Sagrato. Vuole che rapisca Lucia per lui. Ancora nel Fermo e Lucia. La partenza è virgiliana. Il signorotto sembrava Giunone, quando «altre volte», nel primo libro dell’Eneide, si era recato a chiedere soccorso a Eolo nella sua «caverna»: «se non che la Dea pagava in Ninfe l’opera buona del re dei venti, e

210 Sulle suppellettili nei Promessi sposi, si veda F. ORLANDO, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Torino 1993, pp. 127-30. 211 Si veda C. CASTIGLIONI, S. Carlo nella poesia e nell’oratoria sacra. Il panegirico con Carneade, in «Convivium», XVI-XVII (1938), pp. 61-74. Sui personaggi che leggono cfr. R. SABRY, Les lectures des héros des romans, in «Poétique», n. 94 (1993) pp. 185-204. 212 A.MANZONI, Fermo e Lucia cit., t. I, cap. VI, p. 99 (corsivi nostri). 213 P. P. PASOLINI, Alessandro Manzoni, «I Promessi Sposi» (1973), in ID., Descrizioni di descrizioni, Torino 1979, pp. 152-57. Una strana miscela di pasolinismo e gramscismo, in R. PARIS, Il mito del proletariato nel romanzo italiano, Milano 1977, p. 11: «Verso uno come Renzo Tramaglino il narratore proverà compiaciuto paternalismo, per la buona ragione che dentro ogni uomo alberga un omosessuale represso». Sul paternalismo manzoniano cfr. M. MCCARTY, Ideas and the Novel, 1980 (trad. it. di S. Gorresio, Il romanzo e le idee, Palermo 1985). 214 A. MANZONI, Fermo e Lucia cit., t. III, cap. III, p. 376.

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don Rodrigo sapeva bene che avrebbe dovuto recarla a Doppie»215. Il ronzino va «di passo». La «brigata» sfila davanti al convento di Pescarenico e giunge al Bione: un torrentuccio senz’acque; così poco rilevante che il suo nome non è registrato «in alcun dizionario geografico». Il Bione è sempre in rima «naturale» con Resegone216. Qui è in rima «mitologica» con Giunone. Tutti lo costeggiano. Solo don Rodrigo è costretto a varcarlo; con il rammarico peloso dello scrittore, che a più alta e ardita impresa avrebbe voluto destinare l’eroe equestre e il suo trotterello. Don Rodrigo è fiero; potrebbe essere forte e marziale. E con un’azione gloriosa potrebbe dar lustro al fiumiciattolo, e consegnarlo agli annali della gloria; ai medaglioni, agli emblemi, alle «divise». Ma il rigagnolo è breve e flebile; e disertato da Clio: noi avremmo voluto che la nostra storia registrasse a questo passaggio qualche incontro, qualche avvenimento inaspettato, per poterne illustrare quel torrente, e togliere il suo nome dalla oscurità, ma la storia non ne registra: e noi solleciti della verità più che d’ogni altra cosa non possiamo dire altro se non che il cavallo di Don Rodrigo attraversò il letto in retta linea [...]217.

Il guado di un fiume è luogo comune nella pittura storica, almeno da Luigi XIV a Napoleone218. Ha l’antecedente antico di Giulio Cesare. Al quale ammicca Manzoni, con un silenzio di malizia che sospende nell’aria l’eco e lo strascico della rima «mitologica» Giunone-Bione; e, perché no, Rubicone. La rima è, però, in dizione meneghina. È familiarmente dialettale: «poffar de bio», «corpo de bio bion», sono bestemmie nelle Poesie del Porta219. Manzoni manda il condottiero don Rodrigo «a quel dio». In retta linea: dritto dritto; per la via più breve; in antifrasi con la linea della condotta morale retta (il «sentiero retto e facile», nel Fermo e Lucia; «retto e piano» nei Promessi sposi)220. Con una mossa picaresca: «Preguntóme si iba a Madrid por linea recta, o si iba por camino circumflejo»; nel Buscón di Quevedo221. E romanzescamente: ché «le chemin en ligne droite» della registrazione topografica analizzata dal Discours preliminare des éditeurs nell’Encyclopédie, è assunto, nel saggio manzoniano Del romanzo storico, come metafora dell’invenzione «topografica» del romanzo contrapposta alla sistemazione 215

Ibid., t. II, cap. VIII, p. 252. Ibid., t. I, cap. VIII, pp. 136-37. 217 Ibid., t. II, cap. VIII, p. 253. 218 Cfr. P. BURKE, The Fabrication of Louis XIV, 1992 (trad. it. di L. Angelini, La fabbrica del sole, Milano 1993). 219 Cfr. C. PORTA, Poesie, a cura di D. Isella, Milano 1985, pp. 375 (68, v. 3) e 423 (70, v. II). 220 A. MANZONI, Fermo e Lucia cit., t. I, cap. VI, p. 104; ID., I promessi sposi cit., cap. VI, p. 132. 221 FRANCISCO DE QUEVEDO, L’imbroglione, a cura di A. Ruffinato e M. Rosso Gallo, Venezia 1992, II, cap. I, p. 145: «Mi chiese se andavo a Madrid in linea retta o per una strada circonflessa». 216

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in «carta geografica» del discorso storico222. Don Rodrigo è installato sul suo monumento a dondolo. E Manzoni lo saluta. Cavalier temerario da burla, don Rodrigo nel Fermo e Lucia esce di scena sulla groppa di un cavallaccio. Ha preso la peste, e il Griso «fedel» l’ha venduto ai monatti. Si ritrova nel lazzeretto, fuor di senno: «frenetico», «demente», in «delirio»; e chiude la propria vita di libertino nel furore della dissennatezza: come il protagonista della Carriera di un libertino di Hogarth. Il cavallo s’impenna e va di carriera, in una cavalcata infernale. Don Rodrigo corre alla «fossa». E fra Cristoforo, il cappuccino che contro di lui ha preso le difese dei promessi, esclama: «Giudizi di Dio». E aggiunge: «preghiamo per quell’infelice»223. Nei Promessi sposi, Manzoni non è così spietato. Lascia che don Rodrigo muoia sul giaciglio di una capanna, colto nell’incoscienza del coma e umiliato nel corpo illividito e pustoloso. Insieme ai «Giudizii di Dio», scompare la «demenza» hogarthiana. Subentra invece un santino della religiosità borromeana della Milano di san Carlo. La morte rovina su don Rodrigo. E fra Cristoforo commenta: «Può esser gastigo, può esser misericordia»224. Il frate porta Cristo inscritto nel nome; lascia quindi che la figura Christi agisca e si componga nell’immagine che illustra il frontespizio del catechismo milanese, o Interrogatorio, fatto pubblicare nel 1569 da Carlo Borromeo. Si tratta di una crocefissione, commentata: sopra il Cristo in croce si legge «Redenzione»; ai lati stanno i due ladroni, con le scritte «misericordia» (a destra) e «castigo» (a sinistra)225. La vignetta dell’edizione illustrata del romanzo lascia che la parete di legno della capanna disegni, sopra il giaciglio di don Rodrigo, una croce rovesciata. Fra Cristoforo, evocatore di santini, è un attore nel teatro della fede. Predilige le pose sceniche. Incantatorie. E profetiche, soprattutto; alla Nathan: il profeta che Dio mandò a David per annunciargli la punizione. Nella duplice veste di incantatore e di profeta (schermitore) si è incontrato con don Rodrigo, la prima volta: «aveva preso tra le dita e metteva davanti agli occhi del suo accigliato ascoltatore il teschietto di legno attaccato alla sua corona»; «[…] dando indietro due passi, postandosi fieramente sul piede destro, mettendo la destra sull’anca, alzando la sinistra con l’indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia due occhi infiammati […] – […] sentite bene quel ch’io vi prometto: Verrà un giorno… –»226. 222 Cfr. Discours préliminaire des éditeurs, in Encyclopédie, Paris 1751, t. I, p. XV; e A. MANZONI, Del romanzo storico, in ID., Tutte le opere cit., V/3, parte I, p. 290. 223 ID., Fermo e Lucia cit., t. IV, cap. IX, pp. 656-57. 224 ID., I promessi sposi cit., cap. XXXV, p. 830. 225 Sul frontespizio dell’Interrogatorio cfr. M. TENTORIO, Alessandro Manzoni e il collegio di S.Bartolomeo di Merate dei pp. somaschi, Genova s. d., p. 100. 226 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. VI, pp. 119 e 121-22.

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Il giorno giunse. Con il contagio. E con la deliquescenza, i vaneggiamenti e le metonimie di un sogno; alla soglia della morte, sotto coperte che pesavano come montagne: […] gli parve di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla […] Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con cert’occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da’ rotti si vedevano macchie e bubboni […] e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra a cuore e l’ascella, dove sentiva una puntura dolorosa, e come pesante […]. Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e senti in vece una trafitta più forte. Strepitava, era tutt’affannato, e voleva gridar più forte; quando gli parve che tutti que’ visi si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su non so che di convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto l’uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano, nell’attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo palazzotto. Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come per islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce che andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un grand’urlo; e si destò227.

Due incubi, in un solo sogno: quello agorafobo dell’assedio di appestati; e quello profetico dell’apparizione del biancobarbuto fra Cristoforo. Il primo è ricalcato su un incubo dello stesso Manzoni, che nell’abisso vertiginoso del sogno si vedeva con tanti volti addosso. Il secondo è rifatto su un sogno che gli era stato raccontato: «[...] il sogno d’un uomo che, avendo fatta vita molto licenziosa, si pentì dietro un sogno che era di tre uomini, l’un dei quali, a barba bianca, che stava nel mezzo, lo minacciò di gran guai se avesse continuato». Entrambi gli incubi, quello autobiografico e quello aneddotico, vennero raccontati dallo stesso Manzoni a Ruggero Bonghi. Che, di seguito, li trascrisse nel proprio Diario228. In sogno, il persecutore si vede braccato e perseguitato. I ruoli si sono rovesciati. La coscienza rimorde, in prossimità della morte. Mentre il teschietto di le227

Ibid., cap. XXXIII, pp. 757-58. Cfr. R. BONGHI, Dal «Diario», in ID., Studi manzoniani, a cura di F. Torraca, Firenze 1933, pp. 30-31 (corsivo nostro). Sull’incubo autobiografico cfr. L. SCIASCIA, Fu capolavoro o impostura?, in «Corriere della Sera», 10 febbraio 1985, p. 11; e M. RIVA, Agorafobia e conversione. Per una storia di una sindrome post-rivoluzionaria, in Nevrosi e follia nella letteratura moderna, a cura di A. Dolfi, Roma 1993, pp. 87-110. Sul sogno di don Rodrigo cfr. M. LAVAGETTO, Freud, la letteratura e altro, Torino 1985, p. 278; G. GRAMIGNA, Il sogno di don Rodrigo, in ID., Le forme del desiderio. Il linguaggio poetico alla prova della psicoanalisi, Milano 1986, pp. 30-39; V. SPINAZZOLA, Il libro per tutti. Saggio su «I Promessi Sposi», Roma 1983, pp. 130-31. 228

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gno della profezia si fa allucinazione di «testa pelata»: ovvero di «cocuzzolo calvo», nell’edizione del ’27229. Bisogna riandare ad Agostino, al suo commento ai Salmi, e infilare la sequenza di etimologie morali dall’ebraico «Core» («figli di Core», sono i cristiani) a «cranio» e a «Calvario»; e al Girolamo del Liber interpretationis Hebraicorum nominum con l’equivalenza «Core»-«calvizie»230. E concludere che la «superba altezza» di don Rodrigo era arrivata, anch’essa, al confronto con il «disonor del Golgota». Forse fu castigo. Forse fu misericordia. Un tiranno più alto delle somme altezze. Stremato e morituro, dolente nelle carni, don Rodrigo avverte l’incombenza del «giudizio» nello splendido orrore di una travagliata immagine di febbre. Per l’incognita del «giudizio», ha rispetto fra Cristoforo. Sa che Dio è misericordioso: «flagella» e «perdona»231. Avarizia di cuore dimostra invece don Abbondio, fracassone come sempre. Ma il necrologio fibrillante del curato è in stile rodrighesco. Accomuna don Abbondio e don Rodrigo nella stessa angustia morale. «Tornava don Rodrigo a casa sua»232. Mentre per lui cominciavano a spegnersi le luci di scena, tra la «malinconia» di una peste che incatastrofiva con i suoi fracidi carnami. «Tornava bel bello dalla passeggiata verso casa». Ed era don Abbondio, che varcava il sipario. Un’entrata e un’uscita di scena, stilisticamente parallele. Come parallele sono le vocazioni oratorie dei due comprimari, nella qualità monatto-bernesca del «viva la morìa!». Don Rodrigo tornava da un «ridotto d’amici soliti a straviziare insieme». Se la lieta brigata del Decameron si era «ricreata» raccontando novelle; la scanzonata e gaudente comitiva del «ridotto» si era rifatta della desolazione della peste, ridendo alla trovata di don Rodrigo che aveva recitato «una specie d’elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste, due giorni prima». Il Bossuet da livido carnevale, sarà servito a sua volta dall’orateur sacré don Abbondio: la peste ha «portato via» il complice cugino; e ha «spazzato via» don Rodrigo. Sono le interfacce delle forme del terribile degradate in farsa e in commedia. La misura piccola, bassamente sinistra e scalcinata, di don Rodrigo è anche nelle cose che lo rappresentano e nella schiera di bravi che lo circonda. Qualora 229 Cfr. G. CONTINI, Una strenna manzoniana (1962), in ID., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino 1970, p. 37: «[…] se mi è consentita un’esemplificazione un poco ilare, i Promessi del ’25-27 appartengono al Maestro relativamente aulico del ‘cocuzzolo calvo’ (Ferrer e padre Cristoforo), quelli del ’40-’42 al Maestro relativamente realistico e in monocromo della ‘zucca monda’ e meglio della ‘testa pelata’». 230 Cfr. AGOSTINO, in Psalmos XLI enarratio, in ID., Commento ai Salmi, a cura di M. Simonetti, Milano 1988, pp. 84-87, e 603, nota 13. 231 A. MANZONI, I promessi Sposi cit., cap. XXXV, p. 826. 232 Ibid., cap. XXXIII, p. 755.

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un passeggero si fosse fermato a guardare il suo «palazzotto» o «castellotto», la sua «casuccia» o «bicocca» in cima a un «poggio», avrebbe potuto credere che fosse una casa abbandonata, se quattro creature, due vive e due morte, collocate in simmetria, di fuori, non avesser dato un indizio d’abitanti. Due grand’avvoltoi, con l’ali spalancate, e co’ teschi penzoloni, l’uno spennacchiato e mezzo roso dal tempo, l’altro ancor saldo e pennuto, erano inchiodati, ciascuno sur un battente del portone; e due bravi, sdraiati, ciascuno sur una delle panche poste a destra e a sinistra, facevan la guardia, aspettando d’esser chiamati a goder gl’avanzi della tavola del signore233.

Due vivi cagnacci di bravi e due morti uccellacci di vile necrofagia (uno in avanzata decomposizione) sono il contrastato biglietto da visita di don Rodrigo. Ben altra antitesi elabora la ragionata arbitrarietà dell’ossimoro, che definisce la taverna che fa da «corpo di guardia» al «castello» o «castellaccio» del tiranno cui don Rodrigo è costretto a ricorrere per far rapire Lucia: «Sur una vecchia insegna che pendeva sopra l’uscio, era dipinto da tutt’e due le parti un sole raggiante; ma la voce pubblica, che talvolta ripete i nomi come le vengono insegnati, talvolta li rifà a modo suo, non chiama quella taverna che col nome della Malanotte»234. Al bestiario patetico della caccia facile, si oppone l’astrologia terrifica del sole nero, micidiale, della malvagità; al «castellotto» su un domestico poggio, il «castellaccio» rilevato su un poggio aspro di ostile impervietà e di ariostesca suggestione (ricorda il «sasso» su cui si ergeva il castello di Atlante)235. Il tiranno, «appaltatore di delitti», è personaggio storico. Manzoni l’aveva incontrato nella Vita di Federico Borromeo (1656) di Francesco Rivola; e soprattutto nelle Historiae patriae dello storico secentesco Giuseppe Ripamonti. Nella realtà, era il bandito d’alto lignaggio Francesco Bernardino di quei Visconti di Brignano dai quali discendeva la madre del nonno di Manzoni, Cesare Beccaria236. Le fonti storiche coeve ne avevano però taciuto il nome: per riguardo al casato, e per timore. Nel Fermo e Lucia il feroce bandito è chiamato Conte del Sagrato, da una delle tante imprese delittuose che immedagliano la sua smodata carriera di sangue. Gli viene data l’antonomastica designazione di innominato a partire dall’ampio «schizzo» manoscritto237, che segna il momento di passaggio dal 233

Ibid., cap. V, pp. 102-3. Ibid., cap. XX, pp. 452-53. 235 Cfr. L. ARIOSTO, Orlando furioso cit., II, 41. 236 Cfr. G. BELOTTI, Francesco Bernardino Visconti era o non era l’innominato manzoniano?, in AA.VV., Politica ed economia in Alessandro Manzoni. Atti del Convegno Manzoni. Il suo e il nostro tempo (Bergamo, 22-24 febbraio 1985), Bergamo 1985, pp. 145-52. 237 Finalmente in corretta trascrizione: A. MANZONI, Quell’innominato, a cura di L. Toschi, Palermo 1987. 234

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volgare Conte del Sagrato al biblico blasfematore dei Promessi sposi: attraverso la complessa elaborazione di modelli, che vanno da Shakespeare a Byron, a Schiller e a Scott238; e non senza la mediazione figurativa dell’iconografia borromeana, di Carlo e Federico (la posa dell’innominato che «va all’androne a porsi a canto una parete, tenendo con la destra il cane e il grilletto, colla sinistra la canna d’una sua carabina terribilmente famosa al pari di lui»239, è studiata su quella di fra Gerolamo Donato, detto il Farina, nel «telero» del Fiammenghino dedicato all’attentato di Carlo Borromeo). Il Conte del Sagrato abitava «un castello posto al confine degli stati veneti, sur un monte; […] non riconoscendo superiore a sé, arbitro violento dei negozj altrui come di quelli nei quali era parte»240. Lo «schizzo» conferma l’arbitraggio, e iperbolizza la superiorità in terribilità: «[…] divenuto padrone in età assai giovanile, egli non fu contento della porzione di superiorità che avevano goduta i suoi maggiori. Queglino erano riveriti; egli volle esser terribile: eran lasciati stare anche dai più potenti e irrequieti; a lui pareva di scadere, quando non facesse stare nessuno»241. L’innominato della ventisettana era «selvaggio signore». Aveva previdenza d’arte militare; aquilina, come quella descritta da Bossuet nell’Oraison funèbre de Louis de Bourbon: «Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato […] dominava all’intorno tutto lo spazio dove orma d’uomo potesse posarsi, e non ne sentiva nessuna brulicare al di sopra del suo capo»242. Ancora una volta il testo insiste sul rifiuto del fuorilegge a riconoscere una qualsivoglia autorità superiore; con un petrarchismo («ove vestigio human l’arena stampi»)243 rincalzato dall’«orma di piè mortale» del Cinque maggio (e all’ode napoleonica riconduce la persistenza dell’«esser arbitro»)244. Non meno letterario è il brulichio d’orme sul cielo, oltre la testa; che mondanizza l’immagine classica e classicista dell’impronta lasciata nell’aria dal calcagno di una divinità (come nelle Dionisiache di Nonno: I, 385). Ogni altrui eminenza è odiosa a chi pretende in grandezza. Ma questa selvaggia insofferenza, da uomo ostile e isolato, nella quarantana (e solo in essa), deletterarizzata, sconfina verso il potere divino. Diventa titanico assalto al cielo. Sfida di novello Capaneo. Acerrima arroganza d’abitator di Babele: «[…] dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse 238

Cfr. L. BOTTONI, La conversione di un «Innominato», in «Lettere italiane», XXXVIII (1986), I, pp. 338-61. A. MANZONI, Quell’innominato cit., p. 24. 240 ID., Fermo e Lucia cit., t. II, cap. VII, p. 246. 241 ID., Quell’innominato cit., p. 16. 242 ID., I promessi sposi cit., cap. XX, p. 45. 243 F. PETRARCA, Canzoniere, XXXV, 4, introduzione di R. Antonelli, testo critico e saggio di G. Contini, note di D. Ponchiroli, Torino 19922, p. 49. 244 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XIX, p. 445. 239

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posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto». Tutt’altro che «tautologica»245, l’aggiunta è un far le fiche a Dio. È una bestemmia. Che dà idolatrica timbratura al paragone con l’aquila: «come l’aquila» è l’innominato; «sicut aquila» è Dio, nel Deuteronomio (32, II). L’innominato è un idolo sanguinario: ribelle agli uomini; e, come il Napoleone del Cinque maggio, a Dio. Se Napoleone credette di essere Febo, e fu Fetonte; l’innominato è il sole raggiante della Malanotte: «[…] sul volto dell’innominato si vedevano, per dir così, passare i pensieri, come, in un’ora burrascosa, le nuvole trascorrono dinanzi alla faccia del sole, alternando ogni momento una luce arrabbiata a un freddo buio»246. Lo sguardo dell’innominato è un «lampeggiar sinistro, ma vivo degli occhi»247; quasi una proiezione dei napoleonici «rai fulminei». E nel ripensare alle prosperità infelici di una vita di delitti, all’innominato il tempo s’affaccia «voto d’ogni intento, d’ogni occupazione, d’ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili»; e tutte le ore somigliano, per lui, a quella che gli passa «così lenta, così pesante sul capo»248: Come sul capo al naufrago l’onda s’avvolve e pesa, […] tal su quell’alma il cumulo delle memorie scese!249.

Che Dio sia «più alto delle somme altezze», è biblica definizione in traduzione agostiniana250. Audace e potente, superba e violenta, la vetta insanguinata e maledetta del tiranno ha osato forare il cielo; e stagliarsi oltre l’altezza somma di colui che è sopra ogni nome251: «arrogantia tua decepit te, et superbia cordis tui, qui habitas in cavernis petrae et apprehendere niteris altitudinem collis: cum exaltaveris quasi aquila nidum tuum, inde detraliam te, dicit Dominus»252. L’arroganza è l’«errore» del tiranno che, come l’eroe del Cinque maggio, e come tutti i babe245

Di «singolare tautologia» parla E. SALA DI FELICE, Costruzione e stile nei «Promessi Sposi», Padova1977, p.

180. 246 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XXIII, p. 531. Cfr. S. AGOSTI, Per una semiologia della voce narrativa nei «Promessi Sposi» (1986), in ID., Enunciazione e racconto. Per una semiologia della voce narrativa, Bologna 1989, pp. 107-53. 247 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XX, p. 454. 248 Ibid., cap. XXI, p. 486. 249 ID., II cinque maggio cit., vv. 61-68. 250 AGOSTINO, Confessionum libri XIII, 1. VIII. Le confessioni, a cura di C. Mohramann e C. Vitali, Milano 1974, p. 213. 251 Cfr. G. POZZI, I nomi di Dio nei «Promessi Sposi», Lugano 1989. 252 Ieremias, 49, 16 («L’arroganza e l’orgoglio del tuo cuore hanno ingannato te che abiti nelle caverne delle rocce e hai gloria di occupare le vette dei monti. Anche se tu mettessi il tuo nido in alto come l’aquila, di lassù ti farei precipitare, dice il Signore»).

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liani, ha costruito una «torre» la cui cima è al cielo; e si è dato un «nome» («ei si nomò»), facendosi «arbitro» innominàa (famoso, celebre: spiega il Vocabolario milanese-italiano del Cherubini). Complice la reticente circospezione dei documenti storici, e continuando nello stile ossimorico che è della costruzione del personaggio, Manzoni si appoggia al dialetto; si dà un solenne plurale di maestà e dichiara: «[…] si proferiva, si mormorava il nome di colui che noi […] saremo costretti a chiamare l’innominato»253; il senza-nome, per eccesso blasfemo di «nome», tal quale Napoleone254. Il cuore ha orecchie. Ascolta la voce segreta che dentro ci parla. La voce di Dio: il «prédicateur intérieur», che con l’attrizione rivela l’inferno che nell’intimo ci arde. Il linguaggio oratorio di Bossuet e di Bourdaloue elabora così il primato agostiniano dell’interiorità; del raccoglimento nell’intentio che, con l’aiuto della Grazia e della contrizione, prevale (come nel Cinque maggio) sulla distentio o dispersione nell’esteriorità255. «Io sono però»256, sembra che la voce di Dio gridi all’innominato, su su dal profondo. Il nome di Dio (Esodo, 3,14) si rivela al senzanome; e, per suo tramite, dichiara la propria aseità. L’innominato vive il mistero altissimo della conversione. Diversamente da don Rodrigo, che non è malvagio di prima grandezza. Il tirannello esercita la propria malpropensione come «mezzo» per l’appagamento libertino e mondano. Gli manca lo spasimo della vocazione; e gli è estranea la profondità degli abissi della coscienza. L’innominato è invece un imprenditore del delitto. Della «tirannia» ha fatto una santità nera, lo «scopo» di suprema intensità della propria vita257. Il luogotenente di don Rodrigo è il Griso, il cui nome parlante è foriero di sventura (l’è grisa) ma è anche colorazione bigia di pelo e di morale: è antifrasticamente «fedele» al padrone, tanto da tradirlo e derubarlo nell’ora difficile della morte. L’«aquila» del male ha al suo comando il Nibbio, rapace nel servizio; e di tale magnitudine, da acconsentire a lasciarsi turbare dalla «compassione» per l’indifesa Lucia 253

A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XIX, p. 449. Per Umberto Eco «l’innominato, scritto persino con la lettera minuscola», è solo un «capolavoro di reticenza»: cfr. U. ECO, Semiosi naturale e parola nei «Promessi Sposi», in Leggere i Promessi Sposi, a cura di G. Manetti, Milano 1989, pp. 1-16. Remo Fasani polemizza con il commento ai Promessi sposi di Ezio Raimondi e Luciano Bottoni (Milano 1987, pp. 365-66, nn. 13-16): «Da respingere è […] la spiegazione di Innominato con l’innominàa del Cherubini, che significa invece e solamente ‘famoso, celebre’. Anche se il personaggio, nella cronaca dei suoi tempi, non era certo uno sconosciuto, il Manzoni lo chiama in quel modo perché non sa o non vuole, come dice apertamente, chiamarlo col suo nome» (R. FASANI, Un Manzoni milanese?, in «Studi e problemi di critica testuale», n. 41 (1990), pp. 51-65; p. 64, nota 4). La matrice dialettale dell’aggettivo sostantivato acquista nuovo senso entro le trame «babeliche» della scrittura manzoniana. 255 Cfr. J. TRUCHET, La prédication de Bossuet, 2 voll., Paris 1960 (con l’aggiunta di un terzo volume: Bossuet panégyriste, Paris 1962); e P. BAYLEY, French Pulpit Oratory 1598-1610, Cambridge 1980. 256 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XX, p. 457. 257 Cfr. ibid., cap. XIX, pp. 449-50. 254

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che ha dovuto rapire e deportare nel «nido» aereo del suo signore. I servi partecipano della misura dei padroni258. L’«uggia», anzitutto; e il rovello. Poi il peso degli anni; la solitudine tremenda; la morte che gli cresce dentro. E la voce segreta, sabotatrice: che gli apre i doppi fondi della coscienza e gli fa la guerra con divieti imperiosi. Il letto di spine e il peso insostenibile delle coperte. La disperazione e la voglia di suicidio. L’incomprensibile «compassione» del Nibbio e l’appello all’«opera di misericordia» di una forosetta innocente, che ha subìto l’enormità di un rapimento. L’innominato è già un uomo «antico». E quello (paolinamente) «nuovo» sorge «come a giudicare l’antico»259. Aveva iniziato selvaggiamente con i piedi, picchiando all’uscio della cella di Lucia «con un calcio». Dopo una notte angosciosa, era passato alla mano gentile e al preannuncio: «picchiò, facendo insieme sentir la sua voce». Arrivò a un «picchio» discreto e a una voce sommessa260. Lucia era ormai libera; dopo la parabola del figliol prodigo dell’incontro dell’innominato con il cardinale Federico Borromeo; e mentre si preparava la realizzazione della «figura» giovannea del «credette lui con tutta la sua famiglia» (Giovanni, 4, 53). Un altro personaggio storico dei Promessi sposi è senza nome. Viene designato «il principe», con un seguito di tre stellette di reticenza sul casato. Manzoni potrebbe chiamarlo principe-padre. Ma non gli basta il cuore. È un «tiranno». Uomo di «comando» e di «necessità fatale», le sue parole stampano orme indelebili, e devastanti ed empie, nel cervello della figlioletta Gertrude: che ha predestinato alla monacazione, sacrificandola all’iniqua legge del maggiorasco. Anche il principe, come l’innominato di prima della conversione, è un (napoleonico) attentatore della sovranità di Dio: «parce que toute vocation étant une grâce, il n’y a que Dieu qui la puisse communiquer; et de prétendre en disposer à l’égard d’un autre, c’est faire injure à la grâce même et s’arroger un droit qui n’est le propre que de la Divinité»261. A lui Manzoni ha voluto negare il monumento di un nome. Gli ha dato l’appellativo di «principe», dopo averlo battezzato «marchese Matteo» nel Fermo e Lucia. E, nella nuova designazione patrizia, ha sigillato l’etimo di un primeggiar forte e tirannico. C’è pure un tirannico blasfemar comico, nei Promessi 258 Cfr. M. DI FAZIO ALBERTI, Il servo nella narrativa italiana della prima metà dell’Ottocento, Napoli 1982; C G. PAGLIANO, Servo e padrone. L’orizzonte dei testi, Bologna 1983. 259 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XXI, p. 487. 260 Ibid., cap. XXI, p. 475; XXII, p. 493; IV, pp. 535-36. Cfr. U. COLOMBO, L’umana teologia dei «Promessi Sposi», in AA.VV., Manzoni nella terra ambrosiana. Atti del Convegno della Diocesi di Milano nel bicentenario della nascita (19-21 aprile 1985), Casale Monferrato 1985, pp. 123-54. 261 L. BOURDALOUE, Sermon sur le devoir des pères par rapport à la vocation des leurs enfants, in ID., Œuvres cit., t. I, p. 480 («Perché essendo ogni vocazione una grazia, solamente Dio la può trasmettere; e pretendere di disporne per un altro, è bestemmiare la grazia stessa e arrogarsi un diritto che è proprio di Dio solo»).

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sposi. È il caso della moglie di don Ferrante, donna Prassede la faccendona: «[...] tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello»262. La dimensione comica salva donna Prassede dalla perdita del nome. Il destino dell’innominato s’incontra con quello di Gertrude. Attraverso il giovane Egidio, «scellerato di professione» e quindi «collega» del tiranno. L’«intrigo tenebroso» della vicenda monzese di Gertrude è un lungo viaggio, passo dopo passo, su una «strada d’abbominazione e di sangue». È la carriera di una donna che (al contrario della Moll Flanders del romanzo eponimo di Defoe) non giunge a imparare a dire «no». Acconsente a sacrificare alle imposizioni del padre le caste malizie e i torbidi candori della sua adolescenza. Dice «sì» alla monacazione per forza, «risponde» al seduttore Egidio e accetta le lusinghe e le conseguenze delittuose del vizio. Il romanzo nero di Egidio e di suor Gertrude rivisita il romanzo biblico del Seicento più libertino, esemplificabile nell’Eva (1640) di Federico Malipiero. Nel romanzo barocco e nel romanzo manzoniano, come nell’episodio biblico di Eva e del serpente (e nel Traité de la concupiscence di Bossuet), la tentazione è una strategia della parola che induce la donna alla «curiosità» a oltranza, e a «risponder a cui le parla». Egidio incarna la bossuetiana concupiscenza degli occhi, nutrita d’ozio. Da una finestrella, che sporgeva e dominava sul cortiletto del convento, ha adocchiato suor Gertrude. Le ha rivolto «la parola» (nella ventisettana), ovvero il «discorso» (nella quarantana). «La sventurata rispose». E nella concentrazione della frase, nell’ipostasi morale di un aggettivo sostantivato e di un verbo, si cancellano, e per sottintesi si dichiarano, le tantissime pagine che nel Fermo e Lucia si diffondevano nella narrazione dei progressi dell’albero del crimine dentro le celle profanate del convento. Rimane l’ossessione shakespeariana della conversa uccisa, che torna a visitare in immagine la mente agitata e sconvolta di suor Gertrude parlandole fra l’altro con un «sussurro fantastico»; e la triplice analessi del «Quante volte» dell’ode napoleonica misura il ricordo con l’intensità del rimorso. Suor Gertrude ha dato rifugio a Lucia, sfuggita alla persecuzione di don Rodrigo. Si sono incontrati due «rossori»: uno di verecondia, l’altro maligno e di stizza; da una parte c’è una madonnina spaesata, dall’altra una bisbetica agitata da un viluppo di passioni contrastanti. L’innominato ha chiesto a Egidio di favorire il rapimento di Lucia da parte del Nibbio. Egidio ha chiesto, a sua volta, la complicità di Gertrude. Lo scellerato propose. La sventurata «ubbidì»263. 262 263

A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XXV, p. 581. Per tutte le citazioni cfr. ibid., cap. X, pp. 249-51.

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Il carro del sole. Il capitolo IV del racconto Il buco nel muro (1862) di Francesco Domenico Guerrazzi è intitolato, con cauda sterniana, Vita e miracoli del Romanzo: della morte ne riparleremo più tardi. Vi si racconta l’arrivo in Brianza del Romanzo. Qui il personaggio-genere conobbe Renzo e Lucia, e prese tabacco nella scatola di padre Cristoforo; un degno frate in verità, ma il Romanzo dentro un orecchio ai suoi amici sussurrava sommesso che tre quarti delle virtù del frate Cristoforo Alessandro Manzoni le aveva tolte a nolo da lui, Romanzo, con promessa di riportargliele finito il lavoro, e poi gliele aveva negate264.

La sterniana sghembatura della condotta narrativa di Guerrazzi lambisce il capitolo XXXVI dei Promessi sposi, là dove fra Cristoforo affida a Renzo e a Lucia (sopravvissuti alle persecuzioni e alla peste) il resto del pane del perdono dentro «una scatola d’un legno ordinario, ma tornita e lustrata con una certa finitezza cappuccinesca»265. Solo che la «scatola» è adesso diventata tabacchiera, dentro la quale si consuma sotto forma di dare e avere (come sternianamente aveva insegnato a vedere il Foscolo del Ragguaglio d’un’adunanza de’ Pitagorici: «– Sterne, Sterne! la scatola del frate! –»)266 uno scambio tra Romanzo e romanzo. Callidamente, perché la cristoforesca «scatola» del perdono è riportata da Guerrazzi al debito con la sua fonte letteraria: allo scambio, simbolo di un’offerta di «pace» e di un’attitudine a «patire» e «compatire», tra la tabacchiera di corno e la scatoletta di tartaruga di Yorik e di un frate francescano nel capitolo XII del primo volume del Viaggio sentimentale di Sterne e di Didimo Chierico alias Foscolo. Del resto c’è aria di parentela tra fra Cristoforo, «un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni»267, e il frate sterniano dai «pochi crini bianchi» e con le pupille che «spiravano di un cotal fuoco, rattemprato, a quanto pareva, più dalla gentilezza che dall’età, che tu glie ne avresti dato appena sessanta»268. Don Abbondio ha occhi grigi. Sono lampeggianti gli occhi dell’innominato; gravi e vivaci quelli di Federico Borromeo; «grifagni» quelli dei bravi. Fra Cristoforo ha «due occhi infiammati», che sfolgorano repentini; «diavoli d’occhi», tenuti a bada da un acquisito autocontrollo cappuccinesco. Il terragno don Abbondio è di gamba pesante; anche se al momento opportuno, per la paura, sa trasformarsi in felino arruffato: «diventerà lesto come un gatto, e scapperà come il 264

F. D. GUERRAZZI, Il buco nel muro. La serpicina, a cura di R. Bertacchini, Milano 1971, p. 73. A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XXXVI, p. 856. 266 U. FOSCOLO, Ragguaglio d’un’adunanza de’ Pitagorici (1810), in ID., Opere, edizione nazionale, VII. Lezioni, articoli di critica e di polemica (1809-1811), a cura di E. Santini, Firenze 1967, pp. 269-70. 267 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. IV, p. 77. 268 L. STERNE, A Sentimental Journey, 1800 (trad. it. di U. Foscolo, Viaggio sentimentale, a cura di G. Sertoli, con uno scritto di M. Fubini, Milano 1983, I, cap. III, p. 9). 265

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diavolo dall’acqua santa»269. L’innominato ha l’apertura di gambe di un «viaggiatore frettoloso». Don Rodrigo ha bisogno di darsi dietro mitologico vento. Mentre fra Cristoforo è lui stesso eolica e levitata leggerezza: «un calpestio affrettato di sandali, e un rumore di tonaca sbattuta, somigliante a quello che fanno in una vela allentata i soffi ripetuti del vento, annunziarono il padre Cristoforo»270. Fra Cristoforo (i cui connotati storici sono stati in gran parte ispirati dalle relazioni cappuccine sulla peste milanese del 1630 e forse anche dalla biografia di Alfonso III nelle Antichità estensi di Muratori) è assurto dal sangue alla missione religiosa. Prima di indossare il sacco, era stato al secolo Lodovico: l’erede unico di un ricco mercante. Già nella vita laica (snobbato dalla aristocrazia in quanto borghese, nonostante le «contratte abitudini signorili») si era dimostrato un onesto ma violento «protettore degli oppressi, e [...] vendicatore de’ torti», e aveva impiegato le proprie sostanze «in opere buone e in braverie»271. Il «meccanico» Lodovico aveva infine ucciso in duello un «gentiluomo», «arrogante e soverchiatore di professione», che avrebbe voluto imporgli un feudale codice di precedenza pedonale: Tutt’e due camminavan rasente al muro; ma Lodovico (notate bene) lo strisciava col lato destro; e ciò, secondo una consuetudine, gli dava il diritto (dove non va a ficcarsi il diritto!) di non istaccarsi dal detto muro, per dar passo a chi si fosse; cosa della quale allora si faceva gran caso. L’altro pretendeva, all’opposto, che quel diritto competesse a lui, come a nobile, e che a Lodovico toccasse d’andar nel mezzo; e ciò in forza d’un’altra consuetudine272.

L’ironia è pascaliana, anche a proposito del disequilibrio delle forze di rappresentanza delle parti (due bravi e un «maestro di casa» per Lodovico, quattro bravi per l’altro): Que l’on a bien fait de distinguer les hommes par l’extérieur, plutôt que par les qualités intérieures! Qui passera de nous deux? qui cédera la place à l’autre? Le moins habile? mais je suis aussi habile que lui, il faudra se battre sur cela. Il a quatre laquais, et je n’en ai qu’un: cela est visible; il n’y a qu’à compter; c’est à moi à ceder, et je suis un sot si je le conteste. Nous voilà en paix par ce moyen, ce qui est le plus grand des biens273. 269

A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. VI, p. 131. Ibid., p. 137. 271 Ibid., cap. IV, p. 51. 272 Ibid., p. 82 . 273 B. PASCAL, Pensées, 1951(trad. it. di V. E. Alfieri, Pensieri, Milano 1952, p. 126: «Come si è fatto bene a distinguere gli uomini dall’esteriore, anziché dalle qualità interiori! Chi di noi due passerà per primo? chi cederà il posto all’altro? Il meno capace? ma io sono capace quanto lui, sarà una questione da battersi in duello. Egli ha quattro servitori, e io non ne ho che uno: ecco una cosa visibile, basta contare; tocca a me cedere il passo, ed io sono uno sciocco se lo contesto. Con questo mezzo eccoci in pace: ciò che è il più grande dei beni»). 270

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La folla accorsa consegnerà il giovane omicida ferito ai cappuccini di un vicino convento, per sottrarlo alla giustizia e soprattutto alla vendetta della potente famiglia dell’ucciso. In questo asilo, Lodovico matura la sua conversione: prende il sacco cappuccino, assume con umiltà il nome di un suo servitore morto nello scontro con il prepotente «gentiluomo» e si reca nella casa del fratello dell’ucciso per chiedere pubblicamente perdono; e porterà sempre nella sporta il pane che aveva chiesto come «segno» del perdono ottenuto e che gli era stato offerto «sur un piatto d’argento»: a evidenziarne il valore di simbolo eucaristico274. Cristoforo è latore di Cristo; epperò del «pane», che darà in consegna a Renzo e Lucia: alla fine della sua missione; per loro e per i loro figli: «Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a’ superbi e a’ provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto! e che preghino, anche loro, per il povero frate!»275. Passato dallo scandalo alla riparazione, fra Cristoforo non dismette né gli originari «spiriti guerreschi» né la primitiva vocazione di protettore dei deboli; solo che questi «resticcioli» di Lodovico, sotto le «ispirazioni superiori» della missione religiosa e nella perpetua condizione di riscatto dalla tremenda «caduta» nella colpa omicida («una vita intera di meriti non basta a coprire una violenza»)276, subiscono una diversione verso un’idea di giustizia edificata a contrasto con la violenza passata. Lodovico sopravvive in fra Cristoforo, accomodato: come «quelle parole troppo espressive nella loro forma naturale, che alcuni, anche ben educati, pronunziano, quando la passione trabocca, smozzicate, con qualche lettera mutata; parole che, in quel traviamento, fanno però ricordare della loro energia primitiva»277. Fra Cristoforo si pone in mezzo, tra vessatori e vittime: i primi esorta, riprende e cerca di correggere con drastiche restrizioni morali; agli altri insegna a non «affrontare», a non «provocare» e a farsi «guidare» da lui. Il carattere del frate è di qualità ignea. Il cappuccino ha «indole focosa». Il suo volto è «infocato». Le parole dell’abuso gli fanno «venir le fiamme sul viso». E lo mandano in combustione: «Tutti que’ bei proponimenti di prudenza e di pazienza andarono in fumo»278. Fra Cristoforo spunta insieme al sole: «Il sole non era ancor tutto apparso sull’orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pescarenico 274 Cfr. G. P. BIASIN, Il sugo della storia (1987), in ID., I sapori della modernità. Cibo e romanzo, Bologna 1991, pp. 45-61. Più in generale: G. P. BARRICELLI, Structure and symbol in Manzoni’s «I Promessi Sposi», in «Italian Quarterly», XVII, (1973), 67, pp. 80-102. 275 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XXXVI, p. 856. 276 ID., Osservazioni sulla morale cattolica cit., Parte prima, cap. VII, p. 63. 277 ID., I promessi sposi cit., cap. IV, p. 96. Cfr. E. RAIMONDI, Le imprecazioni travestite (1985), in ID., La dissimulazione romanzesca. Antropologia manzoniana, Bologna 1990, pp. III-19 (anche in ID., I sentieri del lettore, a cura di A. Battistini, II, Bologna 1994, pp. 453-61). 278 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. VI, p. 121.

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[...]»279. E lo segue nel suo corso: «alzò gli occhi verso l’occidente, vide il sole inclinato, che già toccava la cima del monte, e pensò che rimaneva ben poco del giorno»280. Trionfatore della «passione» (che è «cavallo» bizzoso, nella notte d’angoscia dell’innominato)281, è un conduttore; un imbrigliatore di cavalli: i suoi occhi «talvolta sfolgoravano [...] come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso»282. Non è Fetonte: l’auriga temerario, il sostituto e il mistificatore di Febo, su cui l’ebbe vinta lo «sgambetto» dei destrieri. È Febo: il sole. Oltre che latore di Cristo, il cappuccino è figura Dei. Su di sé assume Cristo e il Calvario. Fino a porsi in croce, morituro tra i due ladroni, nel santino evocato davanti all’agonizzante don Rodrigo. Dopo essere riemerso da quel «paese lontano lontano» (Palermo, nel Fermo e Lucia; Rimini, nei Promessi sposi), nel quale era stato relegato dalla doppia diplomazia (complice e sorniona) del conte zio e del padre provinciale dei cappuccini («in arbitrio del quale era l’andare e lo stare di quello», boccaccianamente)283. Il sugo della storia. Se non un’«ardente, amara glossa al Salterio», come voleva Cristina Campo284, il romanzo manzoniano mette in azione narrativa un commento all’episodio biblico di Babele attraverso la fenomenologia della triplice concupiscenza di superbia, curiosità e sensualità, del trattato di Bossuet e dei sermoni dei grandi moralisti francesi già accostati nelle Osservazioni sulla morale cattolica. Il romanzo non ha un intreccio intricato. Lo faceva notare Edgar Allan Poe285. Mostra di fuori «una parete priva d’appigli per le dita»; ma all’interno è «un labirinto la cui ricchezza e vastità si vede solo col girarvi e frugarvi»: «l’opera di Manzoni ha una superficie morbida e un rovescio aspro»286. E non solo va letta insieme alla Storia della Colonna infame, secondo i suggerimenti di Macchia e Dionisotti287 (checché ne pensi Domenico De Robertis)288; ma anche a partire dalla pe279

Ibid., cap. IV, p. 76. Ibid., cap. VI, p. 126. 281 Ibid., cap. XXI, p. 486. 282 Ibid., cap. IV, p. 78. 283 G. BOCCACCIO, Decameron, I, VII, 26, a cura di V. Branca, Torino 19873, p. 108. 284 C. CAMPO, Il flauto e il tappeto, in ID., Gli imperdonabili, Milano 1987, p. 127. 285 Cfr. F. CHIAPPELLI, Poe legge Manzoni, Roma 1987. 286 G. PIOVENE, Manzoni solitario (1973), in ID., Idoli e ragione, Milano 1975, pp. 343-50; e ID., Capire Manzoni (1973), ibid., pp. 350-54. 287 Cfr. G. MACCHIA, Tra don Giovanni e don Rodrigo. Scenari secenteschi, Milano 1989; ID., Manzoni e la via del romanzo, Milano 1994; C. DIONISOTTI, Appendice storica alla «Colonna infame», in ID., Appunti sui moderni. Foscolo, Leopardi, Manzoni e altri, Bologna 1988, pp. 247-98. 288 Cfr. D. DE ROBERTIS, I diritti della storia, in «Annali d’italianistica», III (1985), pp. 64-84; e ID., La mente 280

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tite histoire, come provocatoriamente proponeva Sciascia289; e passando attraverso Il cinque maggio. Agnese è vedova. Per la figlia Lucia ha tenerezze e trasporti di evangelico orgoglio: «si sarebbe […] buttata nel fuoco per quell’unica figlia, in cui aveva riposta tutta la sua compiacenza»290 («Hic es Filius meus dilectus, in quo mihi complacui»: Matthaeus, 3,17). Vuol bene anche a Renzo: «artigianello», «illetterato»; e «lieta furia d’un uomo di vent’anni»291: un caratterino, un po’ attenuato nel passaggio dalla ventisettana alla quarantana («volto […]collerico», «volto […] adirato»; «voce […] collerica», «voce […] stizzosa»)292. Renzo sa fare gli occhi arditi e stralunati, ed è capace di abbandonarsi a un «sogno di sangue». Ma a lei, ad Agnese, sembra un «giovine quieto, fin troppo»293. Non solo è fisicamente prestante, Renzo. È di piè veloce. Ha la leggerezza del Cavalcanti decameroniano; e di un Mercurio dal calcagno alato: «Prende la mira, spicca un salto; è su, piantato sul piede destro, col sinistro in aria, e con le braccia alzate»294. Op là; e Primo Levi è pronto a commentare il gesto manierato, «al limite del credibile, o addirittura del possibile»: fa pensare «a un processo mentale indiretto, come se l’autore, di fronte a un atteggiamento del corpo umano, si sforzasse di costruire una illustrazione nel gusto dell’epoca, e successivamente, nel testo scritto, cercasse di illustrare l’illustrazione stessa in luogo del dato visivo immediato»295. Lucia ha accorata dolcezza; un misto di modestia e di pudore. Usa poche parole; in una sintassi elementare che, nel passaggio dal Fermo e Lucia ai Promessi sposi talvolta si complica con inversioni da parlato: «vi perdono quello che mi avete fatto, e pregherò Dio per voi»; «Quello che m’avete fatto voi, ve lo perdono di cuore; e pregherò Dio per voi»296. Renzo invece si lancia nei discorsi, avventurosamente; fin troppo297. Manovra una più ampia tastiera linguistica, a partire da quella minima dell’educazione catechistica («posso aver fallato», ripete al proprio curato per ben tre volte nella stessa pagina)298. di Manzoni, in Filosofta e cultura. Per Eugenio Garin, a cura di M. Ciliberto e C. Vasoli, Roma 1991, pp. 547-75. 289 L. SCIASCIA, Nota, in A. MANZONI, Storia della Colonna infame, Palermo 1981, pp. 169-90. 290 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. III, p. 74. 291 Ibid., cap. II, pp. 36-37. 292 Ibid., pp. 40-41. 293 Ibid., cap. XXIV, p. 562. 294 Ibid., cap. XXXIV, p. 806. 295 P. LEVI, Il pugno di Renzo, in ID., L’altrui mestiere, Torino 1985, pp. 75-80. 296 A. MANZONI, Fermo e Lucia cit., t. II, cap. X, p. 197; ID., I promessi sposi cit., cap. XX, p. 465. 297 Cfr. G. DE RIENZO, «I Promessi Sposi» al computer. Analisi del lessico e della fraseologia di Lucia, in AA.VV., Atti del XII Congresso nazionale di studi manzoniani (Milano-Lecco-Barzio, 22-25 settembre 1983), Milano 1984, pp. 77-88; ID., Metti don Abbondio nel computer, in «Corriere della Sera», 10 febbraio 1985, p. 13. 298 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. II, p. 47.

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Fra Cristoforo crede di aiutare i giovani promessi, costretti alla fuga dal borgo, con due lettere di presentazione. Li spedisce in due conventi, a Monza e a Milano. E finisce per consegnarli, sprovveduti, a due sconvolgenti romanzi: Lucia inciampa nelle trame di sangue della Monaca e dell’innominato; e nell’allegra follia di una «coppia d’alto affare» (don Ferrante e donna Prassede); Renzo si dissipa, tra strade e osterie, nel «grosse Welt della storia»299: da Milano a Bergamo, andata-ritorno-andata, via carestia e peste, attraverso l’Adda che ha «buona voce». I due giovani si ritroveranno a Milano, nel lazzeretto. Si sposeranno, aiutati dall’innominato e dall’erede di don Rodrigo. E cresceranno di famiglia in quel di Bergamo: dove Lucia sarà la «bella baggiana» (un po’ deludente, in quanto a bellezza); e Renzo sarà padrone. L’educazione «politica» di Renzo alla propria promozione sociale, si attua nella ricerca di un’identità più volte attentata (il montanaro viene scambiato dalla folla milanese per «servitore del vicario travestito da contadino» e denunciato da uno sbirro come facinoroso): attraverso la commisurazione del torto subìto con le trappole del potere e le proteste della folla, e della propria agitazione con quella di una città in rivolta. Renzo, oltre che con il disordine politico, deve confrontarsi con il male estremo del disordine della natura (la peste e la morte) riassunto nell’apologo di una vigna di babelica confusione: con una botanica umanizzata e moralizzata («marmaglia di piante», «guazzabuglio», debolezze di erbe che si tirano giù «a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l’uno con l’altro per appoggio»)300, che ai lettori contemporanei sembrò scandalosamente antropomorfa. («E per aver trovato in un luogo marmaglia d’erbe, a gridare: vedete che improprietà […]»)301. «La morte e il matrimonio terminano per lo più le tragedie e le commedie del teatro; ma danno sovente principio alle tragedie e alle commedie della vita reale», aveva osservato Manzoni nel Fermo e Lucia302. I promessi sposi rischiavano seriamente, e inverosimilmente, di finire in commedia («Ogni finzione che mostri l’uomo in riposo morale è dissimile dal vero»)303, con distribuzione di confetti, bacioni, figli e premi vari, se l’intervento un po’ piccoso di Lucia non avesse provveduto a sconvolgere e a rivoltare la iattanza maritale del «suo moralista» Renzo: 299 F. JAMESON, Magical Narratives, Romance as Genre (1975), in ID., The Political Unconscious, New York 1981, pp. 103-50. 300 A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XXXIII, pp. 775-77. 301 N. TOMMASEO e G. p. VIEUSSEUX, Carteggio inedito, a cura di R. Ciampini e P. Ciureanu, I, Roma 1956, p. 115. Cfr. G. GAMBA, Postille sulla «Vigna di Renzo», in «Lettere italiane», X (1958), I, pp. 77-87. 302 A. MANZONI, Fermo e Lucia cit., t. IV, cap. I, p. 523 303 ID., Materiali estetici cit., p. 48.

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Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire: – Ho imparato –, diceva, – a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere –. E cent’altre cose. Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, – e io –, disse un giorno al suo moralista, – cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non volesse dire –, aggiunse, soavemente sorridendo, – che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi –. Renzo, alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia304.

E credo dell’«edotto» Renzo (donabbondiesco, nella sostanza: «a un galantuomo» il qual bada a sé, e stia ne’ suoi panni, non accadon mai brutti incontri»)305 stava per far scendere come un sipario sul «teatro» della narrazione, lasciando nel forno (come nel gergo teatrale viene chiamata la sala vuota o semivuota) la «commedia della vita reale». Con la propria supponenza sermonizzante, che lo votava alla canonizzazione ovvero alla citazione esemplare, Renzo separava così il teatro convenzionale del romanzo dal teatro del mondo: Car qu’est-ce que le monde, disoit Cassiodore, sinon le grand théâtre et la grande école de la Providence, où, pour peu qu’on fasse de réflexion, l’on apprend à tous moments qu’il y a dans l’univers une puissance et une sagesse supérieure à celle des hommes, qui se joue de leurs desseins, qui ordonne de leurs destinées, qui élève et qui abaisse, qui apprauvit et qui enrichit, qui mortifie et qui vivifie, qui dispose de tout comme l’Arbitre suprême de toutes choses.

Sono parole, queste, di Bourdaloue: dal Sermon sur la Providence306, ramme304

ID., I promessi sposi cit., cap. XXXVIII, pp. 901-2 (corsivi nostri). Ibid., cap. I, p. 28. 306 L. BOURDALOUE, Sermon sur la Providence, in ID., Œuvres cit., t. I, pp. 328-29 («Infatti che cos’è il mondo, diceva Cassiodoro, se non il gran teatro e la grande scuola della Provvidenza, dove, per poco che vi si rifletta, si apprende in ogni momento che c’è nell’universo una potente saggezza superiore a quella degli uomini, che si prende gioco dei loro disegni, che regola i loro destini, che innalza e atterra, che rende poveri e arricchisce, che mortifica e vivifica, che di tutto dispone come Arbitro supremo di ogni cosa»). 305

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morato, fors’anche con supporto raciniano, nel Cinque maggio: «Il dio che atterra e suscita, | che affanna e che consola» (vv. 105-6). L’ottimismo idillico di Renzo fa il paio con il provvidenzialismo igienico ed ecologico di don Abbondio; è il risvolto «comico» di certo trionfalismo teologico alla Bossuet: la fede nella Provvidenza è premiata dall’affermazione, anche se lenta e cieca, del bene307. Ma la Provvidenza, nella quale crede Manzoni, non è quella di Bossuet: è l’antidillica eteronomia dei fini, la «puissance et […] sagesse supérieure à celle des hommes, qui se joue de leurs desseins», di cui aveva parlato Bourdaloue. Il richiamo a Bourdaloue non è casuale. Al predicatore francese riporta infatti una citazione inesplicita di Lucia, adoperata come leva di ribaltamento del convenzionale lieto fine, in un primo momento avallato da Renzo. Le parole con le quali Lucia corregge Renzo, iniettando nella narrazione un’inquietudine cristiana che apre all’inexpletum del teatro del mondo la «commedia» del romanzo, poggiano su una sopravvenienza biblica (il Salmo 118, dedicato alla beatitudine di quanti «observant legem Dei»), passata attraverso la traduzione francese e le postillature morali di Bourdaloue: […] sans parler des monarques et des souverains, qui ne sont pas eux-mêmes exempts de cette loi, dites-moi où est aujourd’hui le seigneur, où est le maître, où est le juge, le prélat, le magistrat, qui, pour l’être en chrétien, ne puisse pas et ne doive pas s’appliquer ces paroles de David: Tribulatio et angustia invenerunt me (Ps. 118): Les inquiétudes et les embarras me sont venus trouver? Je ne les cherchois pas, et je tâchois même à les éloigner de moi. Mais cette providence adorable de mon Dieu, qui dispose toutes choses pour mon salut, leur a donné entrée dans mon âme, et je me vois chargé de soins qui m’accablent. Tribulatio et angustia invenerunt me308.

Bourdaloue intendeva moderare le «vaines enflures et les complaisances qu’inspirent d’abord certaines distinctions et certains rangs honorables dans le monde»309; allo stesso modo Lucia ha voluto correggere l’orgogliosa sicumera del marito, che si reputava arrivato, integrandone il credo di quel «costrutto morale», 307

Cfr. T. GOYET, L’humanisme de Bossuet, 2 voll., Paris 1965. L. BOURDALOUE, Sermon sur l’ambition, in ID., Œuvres cit., p. 256 («senza parlare dei monarchi e dei sovrani, che non sono essi stessi esenti da questa legge, ditemi, dov’è oggigiorno il signore, il maestro, il giudice, il prelato, il magistrato che, in quanto cristiano, non possa e non debba riferire a se stesso queste parole di David: Tribulatio et angustia invenerunt me (Ps. 118): Le inquietudini e gli imbarazzi sono venuti a trovarmi? Non li ho cercati io, anzi ho tentato di tenerli lontani da me. Ma questa provvidenza adorabile di Dio, che tutte le cose dispone per la mia salvezza, ha permesso a loro di entrare nel mio animo, e io mi vedo sovraccarico di angustie che mi prostrano: Tribulatio et angustia invenerunt me»). Cfr. S. S. NIGRO, Popolo e popolari, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, V. Le questioni, Torino 1986, pp. 238-40 (§2. Il pulpito di Pamela, gli «attori mutoli», la città senza nome). 309 Ibid. («Le presunzioni vane e le compiacenze che in primis ispirano certe distinzioni e certi ranghi d’onore nel mondo»). 308

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di quel «sugo» d’umiltà e d’incolpevole martirio cristiano che può essere «ritrovato» persino dalla «povera gente»: affidato com’è al verbo divino, tramandato dalle sacre scritture (rilette da Manzoni anche nella mediazione stilistica dei grandi oratori francesi del Seicento). Infine anche Renzo concorda: «la condotta la più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani [i guai]; […] quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore»310. Ma se Renzo ha imparato e continua a imparare, nulla ha imparato e nulla può imparare Lucia; per lei la verità sapienziale non è una conquista, è una dote da trasmettere. Renzo era andato di parole, temperamentoso e affettatuzzo: troppo alla propria esperienza attribuendo. In una vana persuasione d’orgoglio, aveva creduto che il suo decalogo di quietudine poggiasse sul granito; e fosse un «monumento» di conclusiva saggezza. Fu l’ultima sua matterìa; quasi una fanfaronata, spiantata e scavezzata dall’umile rigore di Lucia. Ché ogni appoggio è dirupante nel ritmo vicissitudinale della storia: della storia vera di una storia supposta, che si svolge e nuovamente s’involge; e insolentisce, inconcludibile. L’unica certezza è nella «guerra» all’«errore»: nell’inquietudine intrattabile, che i «monumenti» dell’orgoglio (pubblico o privato) vorrebbero dissimulare e negare. Renzo è professorale, alla fine della favola. Nella vignetta che chiude il romanzo, Manzoni e Gonin l’hanno voluto in piedi dietro un tavolo: a gesticolare, con la mano destra. A sostenere nell’aria, giocoliere, il suo monumentino invisibile: tra la severità seduta di una Lucia tutta casa e la gioia, anch’essa seduta, di nonna Agnese che gioca col pupo. Attorno all’eloquenza contenziosa e alle ambagi cerimoniose degli sposi, si dispone l’ambiente lindo e ordinato di una casa agiata. Su questa scena si adagia il romanzo, ma non il tomo del 1842: che si riapre con il frontespizio della Storia della Colonna infame; con un monumento, la colonna, piantato sui pietroni di quella che un tempo era stata la casa di uno degli «sventurati» untori. Il concambio è tragico. L’interfiguratività porta da una casa, alle macerie di una casa; dalla «monumentale» certezza di Renzo, al monumento di una nefandezza storica. Il romanzo, con l’aggiunta, torna su se stesso; e dentro se stesso: al suo nucleo di orrore e di «errore». La Storia della Colonna infame è un «romanzo giudiziario», che ha un precedente (dimenticato) in un’opera incompiuta di Fauriel: Les derniers jours du consulat; una requisitoria contro l’«ambizioso» e «orgoglioso» Napoleone proclamatosi (come nel Cinque maggio) «Dio della fortuna e della gloria»311; e contro l’istruttoria del grande processo che seguì all’at310

A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XXXVIII, p. 902. C. FAURIEL, Les derniers jours du consulat, edizione postuma 1886 (trad. it. Gli ultimi giorni del consolato, a cura di G. M. Sibille, Torino 1945, cap. I, pp. 24-25). 311

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tentato del 24 dicembre del 1800 contro il Bonaparte, per mezzo di un carretto minato o «machine infernale». E conta che la «machine» (ancora una «macchina») era servita alla polizia bonapartista per reintrodurre e giustificare la tortura (già abolita nel 1790) come «question préparatoire préalable»; quella tortura, o violenza legale, che sta al centro del processo del 1630 della Colonna infame (fra l’altro memore, negli anni di stesura tra il 1821 e il 1823, dei processi del governo austriaco contro i liberali lombardi). Prima e dopo, con Robinson. La storia non riposa. Non il punto fermo di Renzo, ma la virgola di Lucia lavora per essa, a pieno servizio. È l’autunno del 1630: Prima che finisse l’anno del matrimonio, venne alla luce una bella creatura; e fu una bambina; e potete credere che le fu messo nome Maria. Ne vennero poi col tempo non so quant’altri, dell’uno e dell’altro sesso [...]. E furon tutti ben inclinati; e Renzo volle che imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacché la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro312.

I figli di Renzo e Lucia saranno coetanei di Robinson Crusoe, nato nella città di York, per decreto romanzesco, nel 1632. Non arriveranno a leggere il romanzo di Daniel Defoe sul celebre naufrago, per ovvi limiti di età. Il Robinson Crusoe verrà pubblicato a Londra nel 1719: troppo tardi. Semmai poterono avere sentore del diario che il naufrago cominciò a scrivere nell’Isola della Disperazione, sin dal 30 settembre del 1659. Qualcuno ne avrà parlato. E i Tramaglino dovettero avere dei soprassalti. Il padre amava «raccontare le sue avventure». Anche a loro, si suppone. Li avrà intrattenuti sulla sua fuga da Milano, tra sodaglie e boschi; e sull’arrivo all’Adda, stanco e confuso tra le «macchie»: a guardar di mezzo al «prunaio» l’altra riva, quella della libertà e della salvezza; e a riconoscere, al di là delle acque, l’agognata Bergamo, che era «una gran macchia biancastra» sotto la luna amica (come in uno degli sfondi, dietro lo spadone di san Paolo, del polittico di Lorenzo Lotto, nella bergamasca Ponteranica). Renzo si era visto costretto ad aspettare l’alba: Perciò si mise a consultar tra sé, molto a sangue freddo, sul partito da prendere. Arrampicarsi sur una pianta, e star lì a aspettar l’aurora, per forse sei ore che poteva ancora indugiare, con quella brezza, con quella brina, vestito così, c’era più che non bisognasse per intirizzir davvero. Passeggiare innanzi e indietro, tutto quel tempo, oltre che sarebbe stato poco efficace aiuto contro il rigore del sereno, era un richieder troppo da quelle povere gambe, che già avevano fatto più del loro dovere. Gli venne in mente d’a312

A. MANZONI, I promessi sposi cit., cap. XXXVIII, p. 901.

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ver veduto, in uno de’ campì più vicini alla sodaglia, una di quelle capanne coperte di paglia, costruite di tronchi e di rami, intonacati poi con la mota, dove i contadini del milanese usan, l’estate, depositar la raccolta, e ripararsi la notte a guardarla: nell’altre stagioni, rimangono abbandonate. La disegnò subito per suo albergo; si rimise sul sentiero, ripassò il bosco, le macchie, la sodaglia; e andò verso la capanna. Un usciaccio intarlato e sconnesso era rabbattuto [...]. Renzo l’apri, entrò; vide sospeso per aria, e sostenuto da ritorte di rami, un graticcio, a foggia d’hamac; ma non si curò di salirvi. Vide in terra un po’ di paglia; e pensò che, anche lì, una dormitina sarebbe ben saporita313.

L’affabulatore di se stesso avrà sottolineato ai figli quel tornar sui propri passi, dopo aver ben ponderato le soluzioni possibili. Era una lezione di saggezza «a sangue freddo». Un esempio per la famiglia. Ma anche una doverosa rettifica di realistico buonsenso al romanzo della sua vita che un cronista non autorizzato aveva suggerito, con qualche «robinsonata», allo scrittore del Fermo e Lucia. E difatti, nel primo romanzo, Fermo aveva preferito un’«incomoda stazione»: si era arrampicato «sur un albero» e vi si era «appiattato», «aspettando con ansietà l’apparire del giorno»314. L’autore del Fermo e Lucia aveva orologi molli. Era di comportamento anacronistico. Aveva letto, in altro tempo, un’annotazione diaristica di Robinson Crusoe, a proposito dell’attesa della sua prima alba nell’isola del naufragio: «Al calar della notte, mi arrampicai per dormire in cima a un albero»315. E a Fermo aveva attribuito l’esotica soluzione. Per ritrattarla, in seguito, attraverso Renzo; e svoltarla nella studiata e riduttiva proporzione tra «pianta» e capanna di «tronchi e di rami»: e, dentro la capanna coperta di paglia, tra «pianta» e «ritorte di rami», tra albero e amaca; via via sproporzionando verso il rifugio di «un po’ di paglia» in terra, che è uno scendere dalle stelle e dalle tortuosità del romanzesco alle concretezza del realismo; una palinodia, che ironizza anche sul romanzo nero di Ann Radcliffe: «Vivaldi [...] nel rivoltarsi poco dopo in un letto di paglia, ebbe più di una ragione per rimpiangere il suo giaciglio sul castagno»316. Il primo romanzo guardava esplicitamente al Robinson Crusoe di Defoe. Lo scrittore aveva sorpreso suor Geltrude a compiacersi, consolandosene, della propria superiore bellezza e dei vantaggi di casta in quell’isola del naufragio che era per lei il convento. E aveva commentato: «ma quali consolazioni, per amor 313

Ibid., cap. XVII, pp. 394-95. ID., Fermo e Lucia cit., t. III, cap. VIII, p. 491. 315 D. DEFOE, The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe, 1719-20 (trad. it. Di R. Mainardi, Robinson Crusoe, Milano 19823, p. 74). 316 A. RADCLIFFE, The Italian or the Confessional of the Black Penitents, 1797, I, 10 (trad. it. di G. Spina, Il confessionale dei penitenti neri, Milano 1970, p. 154). 314

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del cielo! pari a quelle che provava Robinson nella sua isola in contemplare le monete ch’egli aveva trovate nei frantumi del vascello sul quale era naufragato»317. Non lo dice, ma quelle consolazioni Robinson le aveva chiamate «spazzatura»318. Un altro naufragio è evocato, per andamento associativo, nei Promessi sposi: quando l’innominato si salva nella conversione, dopo essere stato travolto dallo «spavento» che gli si è schiantato «pesante sul capo». Ed era un’onda, quella, che si era alzata dall’isola della salvezza del Cinque maggio: dalla «breve sp-onda» (v. 56) e dalla «pietà prof-onda» (v. 58); da quel punto estremo e impenetrabile della geografia morale, da quell’incontro con Dio, che l’insulto insistito del pronome d’orgoglio (ei) aveva disperso nella grazia della morte: «E sparve, e i dì nell’ozio | chiuse [...]» (vv. 55-56); mentre lo stesso cantore di Napoleone si era impegnato a umiliare e castigare cristianamente la propria presenza pronominale nell’impersonale «Vide il m-io gen-io e tacque» (v. 14). Nell’«isola» del naufragio ci si può perdere con le «consolazioni» dell’orgoglio. E ci si può salvare con l’umile accettazione della «mano» e della «voce» di Dio. Renzo rinnega l’esotica robinsonata di Fermo. E tuttavia è un naufrago, nell’«isola» bergamasca: scampato alla «piazza», al «gomito», al «martello delle porte», al «campanello al piede» e a «cent’altre cose». Contrariamente a Fermo, artigiano a vita e spicciativo nel suo credo d’apprendimento («d’allora in poi ho imparato a non mischiarmi a quei che gridano in piazza, a non far la tal cosa, a guardarmi dalla tal altra»)319, Renzo è in crescita sociale e ha mente ragioniera. È un «padrone» che ha imparato a far «fruttare» il «peso de’ quattrini»; e ad avvantaggiarsi delle esenzioni fiscali del governo veneto e degli editti che «limitavano le paghe degli operai». I luminelli acquisitivi del suo credo sono (e Robinson insegnava) da libro contabile: il dare e l’avere di un bilancio, tra afflizioni pagate e consolazioni da godere. Solo Lucia riesce a sobillare tanto protervo accomodamento, rendendo trasparente ad un perpetuo stato di pericolante sopravvivenza, confortato dalla «fiducia in Dio», l’approdo nell’«isola» della ricostruzione: dopo i disastri della storia e della natura; e della dispersione babelica di un popolo che aspirava, come nell’ode Marzo 1821, a essere «una gente […] libera tutta, | […]| una d’arme, di lingua, d’altare, | di memorie, di sangue e di cor» (vv. 29-32). Libro della sopravvivenza, è quindi il romanzo di Manzoni: «laico», diceva Hofmannsthal, e «impregnato nello stesso tempo di religiosità, 317

A. MANZONI, Fermo e Lucia cit., t. II, Cap. IV, p. 205. D. DEFOE, The Life and Strange cit., trad. it. p. 59. 319 A. MANZONI, Fermo e Lucia cit., t. IV, cap. IX, p. 669. 318

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di cristianità cattolica, postridentina, come nessun altro libro della letteratura mondiale»320.

6 . Nota bibliografica. «Un modello di stile romanziero» furono subito I promessi sposi. Sin dall’edizione del ’27. Niccolò Tommaseo si premurò d’informare il Vieusseux sulle prime reazioni dei lettori. Scrisse all’amico da Milano, il 24 giugno del 1827; e poi il 18 luglio. Il resoconto registrò consensi e dissensi, nel vario articolarsi di aspettazioni confermate o deluse; e nell’evidenza dei giudizi: ora incordiali e stizziti, fino al solecismo di qualche lacrima; ora calorosi, seppure con riserve. «A Zajotti e ad Ambrosoli il romanzo di Manzoni non piace […]. A molti piace molto: tutti però ci trovano troppi particolari […]. Una signora ha trovato ottimo il titolo di storia, perché, dice, par tutto vero. Un’altra, malissimo prevenuta, dovette pur piangere. S’accorse per altro ch’era un libro pericoloso, perché i contadini vi fanno miglior figura che i nobili. L’istesso padre Cristoforo, diceva ella, è un mercante. V’ebbe chi ha trovato che Manzoni guasta la letteratura, perché? […] perch’è inarrivabile: onde quelli che l’imitano, nol potendo agguagliare, non fanno che inezie. Ad altri parve leggiero, e insignificante il titolo; ad altri voluminosa la forma. Una famiglia inglese che lo voleva comperare, se ne tenne; perché lo trova non libro da viaggio, ma da chiesa; non romanzo, ma Bibbia» (N. TOMMASEO e G. P. VIEUSSEUX, Carteggio inedito, a cura di R. Ciampini e P. Ciureanu, I, Roma 1956, pp. 114-17). Nella cronachetta del Tommaseo c’è in sintesi, per scorci e «presine», il destino della critica manzoniana. Una guida bibliografica, aggiornata fino al 1987, si trova nella quinta ristampa di S. S. NIGRO, Manzoni, Roma-Bari 1988. Ma cfr.: P. PREDICATORI AZZOLINI, Rassegna manzoniana (1968-72; 1973-82), in «Lettere italiane», XXVI (1974), 3, pp. 349-75, e XXXIV (1982), 4, pp. 530-74; M. G. SANJUST, L’attuale situazione della critica manzoniana, in «Critica letteraria», IV (1976), 2, pp. 32064; Contributi per una bibliografia manzoniana, 1972-1976, a cura di E. Ballerio, U. Colombo e L. Turconi, in «Otto-Novecento», I (1977), 3, pp. 279-309; M. L. LOMBARDI, Saggio di bibliografia manzoniana (1973-78), in«Aevum», LIV (1980), 3, pp. 403-48; M. G. DE ROBERTIS e M. L. LOMBARDI, Saggio di bi320 H. VON HOFMANNSTHAL, Manzoni’s «Promessi Sposi», 1927 (trad. it. I «Promessi sposi» del Manzoni. Nel centenario della pubblicazione del romanzo, in ID., Opere, IV. Viaggi e saggi, a cura di L. Traverso, Firenze 1958, pp. 285-96).

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bliografia manzoniana. II (1978-83, con integrazioni alla precedente rassegna), ibid., LVIII (1984),3, pp. 551-96; U. COLOMBO, Bibliografia, 1983-1986, in AA.VV., Manzoni e Brusuglio. Atti del Convegno su Enrichetta Blondel e del Congresso nazionale sul pensiero politico-sociale di Alessandro Manzoni, Cormano 1986, pp. 123-28; F. DI CIACCIA, Rassegna bibliografica manzoniana (1985-86), in «L’Italia francescana», LXIII (1988), 3-4, pp. 3-4, P. 311-61; G. CAVALLINI, Alessandro Manzoni milanese europeo (rassegna) (1971-90), in ID., Un filo per giungere al vero. Studi e note su Manzoni, Messina-Firenze 1993, pp. 210-33. Un bollettino di aggiornamenti manzoniani pubblica la rivista «Otto-Novecento». Mariella Goffredo De Robertis ha curato una bibliografia manzoniana, in corso di stampa, per gli anni 1984-92. In occasione del bicentenario della nascita dello scrittore, sono apparsi vari Atti: Atti del XII Congresso nazionale di studi manzoniani. Verso il bicentenario del Manzoni, Milano 1984; Manzoni nella terra ambrosiana, Milano 1985; Manzoni e l’idea di letteratura, Torino 1985; Politica ed economia in Alessandro Manzoni, Bergamo 1986; Omaggio ad Alessandro Manzoni nel bicentenario della nascita, Assisi 1986; Manzoni e il suo impegno civile, Milano 1986; Giornata di studio (16 maggio 1985) nel II centenario della nascita di Alessandro Manzoni, Roma 1987. Cfr. anche Manzoni / Grossi. Atti del XIV Congresso nazionale di studi manzoniani (Lecco, 10-14 ottobre 1990), 2 voll., Milano 1991. Di valore assai discontinuo e spesso di discutibile impostazione sono i tre volumi di Atti: Manzoni e la cultura siciliana, Messina 1991. Guide utili sono: A. MARCHESE, Guida alla lettura di Manzoni, Milano 1987 (si veda anche ID., L’enigma Manzoni. La spiritualità e l’arte di uno scrittore «negativo», Roma 1994); Il punto su: Manzoni, a cura di E. Sala Di Felice, RomaBari 1989; P. MAZZAMUTO, Il caso Manzoni, Palermo 1989; F. PORTINARI, Alessandro Manzoni, in Storia della civiltà letteraria italiana, diretta da G. Bárberi Squarotti, IV, Torino 1992, pp. 667-778 (capitolo XIII). Per il dibattito a sinistra, cfr. S. TIMPANARO, I manzoniani del «compromesso storico» e alcune idee sul Manzoni, in ID., Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, Pisa 1982, pp. 17-47. Per la «biografia» dei Promessi sposi, si rimanda a L. TOSCHI, La sala rossa, Torino 1989, e a C. BOLOGNA, Il «romanzo in progress» di Alessandro Manzoni, in ID., Tradizione e fortuna dei classici italiani, Torino 1993, II, pp. 64271I. Cfr. inoltre il catalogo della mostra L’officina dei Promessi Sposi, a cura di F. Mazzocca e con un intervento critico di D. Isella, Milano 1985. Gli studi di Luca Toschi, citati nel saggio, rendono necessaria una nuova edizione critica del Fermo e Lucia. Risultano ormai inadeguati i criteri seguiti da Fau-

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sto Ghisalberti nel mondadoriano volume II, tomo III di A. MANZONI, Tutte le opere, Milano 1954. Cfr. le ristampe: ID., Fermo e Lucia, introduzione di S. Romagnoli e L. Toschi, Firenze 1985; ID., Fermo e Lucia, introduzione di G. Vigorelli, Milano 1992. Cfr. Fermo e Lucia. Il primo romanzo del Manzoni. Atti del XIII Congresso nazionale di studi manzoniani (Lecco, 11-15 settembre 1985), a cura di U. Colombo, Milano 1986. Fondamentali sono i saggi di Claudio Varese, ora raccolti in C. VARESE, Manzoni uno e molteplice. Con un’appendice sul Tommaseo, Roma 1992. Un buon contributo allo studio del sistema retorico del Fermo e Lucia si deve a U. MORANDO, L’espressione religiosa nel «Fermo e Lucia», in «Annali manzoniani», nuova serie, II (1994), pp. 207-71. Con l’apparato del Fermo e Lucia si intreccia quello dell’edizione del ’27 dei Promessi sposi. Ghisalberti sorvola e semplifica. Così è tutto da rifare l’apparato dell’edizione critica della ventisettana: cfr. D. ISELLA, Le testimonianze autografe plurime (1985), in ID., Le carte mescolate. Esperienze di filologia d’autore, Padova 1987, pp. 19-36. Le traversie editoriali di Manzoni sono state ultimamente ricostruite da A. N. BONANNI, Editori, tipografi e librai dell’Ottocento. Una ricerca nell’epistolario del Manzoni, Napoli 1988. Si aggiunga: S. VEGGIATO, Altre varianti dei «Promessi Sposi» nell’edizione Baudry del 1827, in «Otto-Novecento», XVI (1992), 2, pp. 5-21. Sulle edizioni illustrate dei Promessi sposi cfr.: il catalogo della mostra Manzoni. Il suo e il nostro tempo, Milano 1985; F. MAZZOCCA, Quale Manzoni? Milano 1985; il catalogo della mostra I «Promessi Sposi» di Gaetano Previati, Milano 1993. Ad aprire il problema delle fonti pittoriche di Manzoni è stata M. GREGORI, I ricordi figurativi di Alessandro Manzoni, in «Paragone», I (1950), 9, pp. 7-20. Sull’argomento è tornato di recente G. PALEN PIERCE, «I promessi sposi» e la pittura del Seicento, in «Testo», VI (1985), 9 (numero monografico: Manzoni: l’arte, il sacro), pp. 68-84. Strumento utilissimo per lo studio dei Promessi sposi sono le Concordanze, a cura di G. De Rienzo, E. Del Boca e S. Orlando, 5 voll., Milano 1985. Sui pregi e i limiti di queste Concordanze cfr. G. FOLENA, Misure manzoniane, in «L’Indice», n. 5 (1986), pp. 12-13. Una svolta nella lettura del romanzo manzoniano, soprattutto in riferimento al sottofondo linguistico milanese, è stata segnata dal commento di Ezio Raimondi e Luciano Bottoni: A. MANZONI, I promessi sposi, Milano 1987. L’opera si avvale degli innovativi studi manzoniani di E. RAIMONDI, Il romanzo senza idillio. Saggio sui «Promessi Sposi», Torino 1974, e di L. BOTTONI, Drammaturgia romantica. Il sistema letterario manzoniano, Pisa 1984; cfr. anche ID., Scott 1821:

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tecniche descrittive e funzioni epistemologiche, in «Lingua e stile», V (1970), 3, pp. 409-34. Polemico con questo commento è R. FASANI, Un Manzoni milanese?, in «Studi e problemi di critica testuale», XLI (1990), pp. 51-65. Sui milanesismi manzoniani si vedano: E. BONORA, Osservazioni sui lombardismi dei Promessi Sposi, in ID., Manzoni. Conclusioni e proposte, Torino 1976, pp. 125-61; T. MATARRESE, Lombardismi e toscanismi nel «Fermo e Lucia», in «Giornale storico della letteratura italiana», XCIV (1977), 487, pp. 380-427; S. MAMBRETTI, Aspetti della lingua del «Fermo e Lucia» di A. Manzoni, in «Acme», XXXV (1982), I, pp. 67-96; ID., Aspetti linguistici della componente milanese del «Fermo e Lucia», in AA.VV., Studi di lingua e letteratura lombarda offerti a Maurizio Vitale, Pisa 1983, II, pp. 747-63; D. ISELLA, Porta e Manzoni, Porta in Manzoni, in ID., I Lombardi in rivolta. Da Carlo Maria Maggi a Carlo Emilio Gadda, Torino 1984, pp. 179-230 (cfr. inoltre ID., Idea di un romanzo popolare (1985), in ID., L’idillio di Meulan. Da Manzoni a Sereni, Torino 1994, pp. 37-52). Sui rapporti con il mondo classico cfr. la parte finale del saggio di C. ANNONI, La cultura di Manzoni: nuove ipotesi su fonti medioevali e su fonti classiche, in «Italianistica», XXII (1993), 1-3, pp. 53-70. Nel saggio si è preferito usare l’edizione dei Promessi sposi curata da Lanfranco Caretti (Torino 1971), perché in essa sono messe a confronto la ventisettana e la quarantana. Sulle correzioni linguistiche del romanzo cfr.: G. NENCIONI, Conversioni dei «Promessi sposi» (1956), in ID., Tra grammatica e retorica. Da Dante a Pirandello, Torino 1983, pp. 3-27; I. LOI CORVETTO, Analisi delle correzioni semantiche a «I Promessi Sposi», in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia e Magistero di Cagliari», XXXVI (1974 pp. 249-351; M. VITALE, La lingua di Alessandro Manzoni, Milano 1986 (19922); AA.VV., Manzoni. «L’eterno lavoro». Atti del Congresso internazionale sui problemi della lingua e del dialetto nell’opera e negli studi del Manzoni (Milano, 6-9 novembre 1985), Milano 1987. Si aggiungano: G. G. AMORETTI, Mito e realtà della «sciacquatura in Arno»: le postille di Gaetano Cioni ai «Promessi Sposi», e ID., «L’oracolo di Casa Manzoni»: Emilia Luti e la revisione dei «Promessi Sposi», in «Otto-Novecento», XV (1991), 3-4, pp. 99-116, e ibid., XVI (1992), 5, pp. 6-20. Cfr. la più ampia prospettiva di G. TELLINI, Manzoni 1827: Milano e Firenze (1985), in ID., Letteratura e storia. Da Manzoni a Pasolini, Roma 1988, pp. 11-37. Si vedano anche: G. G. AMORETTI, Le postille di C. Fauriel a «I Promessi Sposi», in «Revue des études italiennes», XXXII (1986), 1-4 (numero monografico su Manzoni), pp. 19-32; e ID., Da «Fermo e Lucia» a «I Promessi Sposi». La parte del Visconti, in «Versants», n. 16 (1989), pp. 33-51. Ma su Visconti postillatore non si può prescindere da V. PA-

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LADINO, La revisione viscontea del romanzo manzoniano e altri saggi, Milano 1986; e da E. RAIMONDI, Il lettore tra le righe, in ID., La dissimulazione romanzesca. Antropologia manzoniana, Bologna 1990, pp. 131-45. Cfr. L. SCORRANO, Manzoni e il lettore. Rassegna di studi, in «Otto-Novecento», XV (1991), 6, pp. 29-49. Strumenti imprescindibili sono: A. MANZONI, Postille al Vocabolario della Crusca nell’edizione veronese, a cura di D. Isella, Milano-Napoli 1964; D. MARTINELLI, Le postille inedite del Manzoni al «Lexicon» del Forcellini, in «Annali manzoniani», nuova serie, II (1994), pp. 35-78. Sulle postillature cfr. inoltre G. GASPARI, Per l’edizione delle postille manzoniane al «Vocabolario milanese italiano» del Cherubini, in «Studi di filologia italiana» LVI (1993), pp. 23154. Illustra l’uso stilistico del costrutto nominale nei Promessi sposi, S. VANVOLSEM, L’infinito sostantivato in italiano, Firenze 1983, cap. III, pp. 131-79. Il «mestiere guastato» delle lettere è il titolo che Giancarlo Vigorelli ha dato a un’antologia di pagine critiche del Manzoni (Milano 1985). Sull’argomento cfr. G. BÀRBERI SQUAROTTI, Manzoni: le delusioni della letteratura, Rovito 1988. Sulla questione dell’amore cfr. P. VALESIO, Lucia, ovvero: la «reticentia» nei «Promessi Sposi», in «Filologia e critica», XIII (1988), 2, pp. 207-38 (riproposto in Leggere i Promessi Sposi, a cura di G. Manetti, Milano 1989, pp. 145-74); e la risposta di G. PETROCCHI, Postille per Lucia, ibid., XIII (1988), 3, pp. 333-428. Giorgio Bàrberi Squarotti affronta la reticenza «come figura della scelta del narratore soltanto quello che è necessario al fine etico del romanzo», nel saggio La figura della reticenza, in La retorica del silenzio. Atti del Convegno internazionale (Lecce, 24-27 ottobre 1991), a cura di C. A. Augieri, Lecce 1994, pp. 243-83. Per i rapporti Manzoni-Fauriel, si veda I. BOTTA, Manzoni a Fauriel - l’«Indication des articles littéraires du Conciliateur», in «Studi di filologia italiana», XLIX (1991), pp. 203-49. Sul problema romanzo è importante il saggio di C. SEGRE, Alessandro Manzoni: il continuum storico, l’intreccio e il destinatario (1985), in ID., Notizie dalla crisi, Torino 1993, pp. 114-75. Ricorrente è la tentazione di trovare una fonte alla trama del romanzo. Ci provò G. GETTO, Echi di un romanzo barocco nei «Promessi Sposi» (1960), in ID., Manzoni europeo, Milano 1971, pp. 11-56. Ha ritentato, con molte cautele, C. POVOLO, Il romanziere e l’archivista. Da un processo veneziano del ’600 all’anonimo manoscritto dei «Promessi Sposi», Venezia 1993 (cfr. V. BRANCA, I promessi sposi di Vicenza, e ID., Le minacce di don Paulo, in «Il Sole - 24 ore», 27 gennaio 1993, p. 34, e 24 ottobre 1993, p. 27). Assai più proficuo è il lavoro archivistico sulle fonti storiche condotto da G. FARINELLI e E. PACCAGNINI, Processo agli untori. Milano 1630: cronaca e atti giudiziari, Milano 1988; G. FARI-

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NELLI e E. PACCAGNINI, Processo per stregoneria a Caterina de’ Medici (16161617), Milano 1989. E dal gruppo di lavoro coordinato da U. Colombo: Vita e processo di suor Virginia Maria de Leyva monaca di Monza, presentazione di G. Vigorelli, Milano 1985. Polemici con quest’ultimo contributo sono E. BONORA, La Monaca di Monza nella storia (1986), in ID., Manzoni e la via italiana al realismo, Napoli 1989, pp. 17-33; e G. P. MARCHI, Per la Monaca di Monza e altre ricerche intorno a Manzoni, Verona 1993. Su Manzoni e la storia: W. HEMPEL, Manzoni und die Darstellung der Manschenmenge als erzähltechnisches Problem in den «Promessi Sposi» bei Scott und in den historischen Romanem der französischen Romantik, Krefeld 1974; G. TELLINI, Manzoni. La storia e il romanzo, Roma 1979; R. S. DOMBROSKI, L’apologia del vero. Lettura ed interpretazione dei «Promessi Sposi», Padova 1984; U. DOTTI, La critica etico-storica di Manzoni (1985), in ID., Il Savio e il Ribelle. Manzoni e Leopardi, Roma 1986, pp. 193-45; M. A. CATTANEO, Carlo Goldoni e Alessandro Manzoni. Illuminismo e diritto penale, Milano 1987; W. FRANKE, Poetics and Apocalypse in Manzoni’s interpretation of history, in «Esperienze letterarie», XVIII (1993), pp. 17-36; H. GLADFELDER, Seeing black: Alessandro Manzoni between fiction and history, in «Modern Language Notes», CVIII (1993), I, pp. 5896. V. R. JONES, Conter-Reformation and Popular Culture in «I promessi sposi»: a case of historical censorship, in «Renaissance and Moderne Studies», n. 36 (1993), pp. 36-51. È ancora utile M. SANSONE, Manzoni francese. 1805-1810: dall’Illuminismo al Romanticismo, Roma-Bari 1993; ID., Alessandro Manzoni: la crisi della poetica del vero, in AA.VV., Da Dante al secondo Ottocento. Studi in onore di Antonio Piromalli, Napoli 1994, pp. 503-45. Riguardano soprattutto le Osservazioni comparative sulla rivoluzione francese e su quella italiana alcuni importanti saggi, che però consentono di meglio leggere la fobia antinsurrezionale del Manzoni dei Promessi Sposi: L. MANNORI, Manzoni e il fenomeno rivoluzionario. Miti e modelli della storiografia ottocentesca a confronto, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», n. 15 (1986), pp. 1-106; M. D’ADDIO, Le idee e la Rivoluzione. Il giudizio di Manzoni su Robespierre, in Poesia, verità e mistica. (Rosmini, Manzoni, Rebora), a cura di P. Pellegrino, StresaMilazzo 1986, pp. 85-117; L. GUERCI, Alessandro Manzoni e il 1789, in «Studi settecenteschi», V (1987), 10, pp. 229-53; S. GIOVANNUZZI, Il «Saggio» manzoniano sulla Rivoluzione francese, in «La rassegna della letteratura italiana», XCII (1988), 2-3, pp. 318-39; M. TESINI, La Rivoluzione francese e i liberal cattolici italiani. Manzoni e Rosmini, in «Studium», LXXXV (1989), 6, pp. 805-821; G. SARO, Manzoni et la révolution française, in «Croniques italiennes», V (1989),

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20, pp. 61-72; M. DAVIE, Manzoni after 1848: an irresolute utopian?, in «The Modern Language Review», LXXXVII (1992), 4, pp. 847-57. Riportano ai Promessi Sposi: G. SARO, Le sens politique des «Promessi Sposi», in AA.VV., Idéologie et politique, Abbeville Cedex 1978, pp. 9-60; C. AMBROISE, L’ideologie antiurbaine des «Promessi Sposi», in AA.VV., Atti del Centro ricerche e documenti sull’attività classica, Milano 1978, pp. 355-61; M. GOLO STONE, Contro la modernità e la cultura borghese: «I promessi sposi» e l’ascesa del romanzo italiano, in «Modern Language Notes», CVII (1992), I, pp. 112-31. Tre recenti letture complessive del romanzo: S. PAUTASSO, «I Promessi Sposi». Appunti e ipotesi di lettura, Milano 1988; V. SPINAZZOLA, Il libro per tutti. Saggio su «I Promessi Sposi», Roma 1983; E. GRIMALDI, Dentro il romanzo. Strutture narrative e registri simbolici tra il «Fermo e Lucia» e «I Promessi Sposi», Messina 1992. Analisi di singoli capitoli in AA.VV., Letture manzoniane 1987, Milano 1988. Sulle procedure descrittive e sui tempi della narrazione: S. B. CHANDLER, Point of view in the descriptions of «I Promessi Sposi», in «Italica», XLIII (1966), 4, pp. 387-403; R. H. LANSING, Stylistic and structural duality in Manzoni’s «I Promessi Sposi», ibid., LIII (1976),3, pp. 347-61; G. LANYI, Plot-Time and rhythm in Manzoni’s “I Promessi sposi», in «Modern Language Notes», XCIIII (1978), I, pp. 36-51; S. AGOSTI, Enunciazione e punto di vista nei «Promessi Sposi» (1989), in ID., Critica della testualità, Bologna 1994, pp. 23-37; G. GÜNTERT, Descrizione e racconto nei «Promessi Sposi», in «Romanische Forschungen», CIV (1992), pp. 313-40. Sulla struttura del romanzo: F. CHIAPPELLI, Un centro di smistamento della struttura narrativa dei «Promessi Sposi», in «Lettere italiane», XX (1968), 3, pp. 333-50; I. CALVINO, «I Promessi Sposi»: il romanzo dei rapporti di forza (1973), in ID., Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino 1980, pp. 267-78; M. G. MARTIN-GISTUCCI, Alessandro Manzoni et la «fable innocente des Fiancés», in «Revue des études italiennes», XXII (1976), 1-2, pp. 341-57; F. FIDO, Per una descrizione dei «Promessi sposi»: il sistema dei personaggi, in ID., Le Metamorfosi del Centauro. Studi e letture da Boccaccio a Pirandello, Roma 1977, pp. 225-63; D. DELCORNO BRANCA, Strutture narrative manzoniane, in «Lettere italiane», XXXII (1980), 1, pp. 314-50; M. BARATTO, Struttura narrativa e messaggio ideologico nei «Promessi Sposi» (1982), in «Chroniques italiennes», III (1987), 2, pp. 77-100. Sui personaggi: D. DE ROBERTIS, Il personaggio e il suo autore, in «Rivista di letteratura italiana», VI (1988), 1, pp. 71-99; F. PETRONI, L’ideologia e il si-

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stema dei personaggi nel «Fermo e Lucia» e nei «Promessi Sposi», in «Allegoria», nuova serie, V (1993),13, pp. 51-70; A. MARTINI, La figura manzoniana del cardinal Federigo tra storia e invenzione, in Forme e vicende. Per Giovanni Pozzi, a cura di O. Besomi, G. Gianella, A. Martini e G. Pedrojetta, Padova 1988, pp. 513-535 (cfr. V. R. JONES, «I Promessi Sposi»: the sources of literacy, in «Rivista di letteratura italiana», III (1985), 2-3, pp. 335-63; e G. BELLINI, Intertestualità manzoniane, in Mappe e letture. Studi in onore di Ezio Raimondi, a cura di A. Battistini, Bologna 1994, pp. 263-74); G. FICARA, Renzo, l’allievo delle Muse, in «Lettere italiane», XXIX (1977), 1, pp. 36-58; M. BARENGHI, cognome e nome: Tramaglino Renzo. Osservazioni sull’onomastica manzoniana (1985), in ID., Ragionare alla Carlona. Studi sui «Promessi Sposi», Milano 1994, pp. 57-72; D. DE ROBERTIS, La favola di Renzo («Promessi sposi», XVII), in «Cenobio», nuova serie, (1986), 4, pp. 331-56; V. R. JONES, Towards a reconstruction of Manzoni’s Lucias, in «The Italianist», VII (1987) (Women and Italy), pp. 36-44; A. PALLOTTA, Fra Cristoforo and don Rodrigo: the words that wound, in «Italica», LXVII (1990), 3, pp. 335-52; F. SUITNER, Manzoni, don Ferrante il magnifico signor Lucio, in AA.VV., Miscellanea di studi in onore di Marco Pecoraro, I, a cura di B. M. Da Rif e C. Griggio, Firenze 1991, pp. 361-92; M. PASTORE STOCCHI, Agnese, la lontananza e il turcimanno, in «Lettere italiane», XXVI (1974), I, pp. 26-45; J. GATT-RUTTER, When the killing had to stop: Manzoni’s paradigm of christian conversion, in «The Italianist», X (1990), pp. 7-40; P. GIBELLINI, Le piccole donne dei «Promessi Sposi», in «Otto-Novecento», XVI (1992), 6, pp. 25-36. Sull’onomastica cfr. A. PERELLI, Prudenzio, la madre di Cecilia e altra onomastica manzoniana, in «Critica letteraria», XVII (1989), 1, pp. 33-40. Sulla Provvidenza e sul finale del romanzo cfr. E. NEF, Caso e Provvidenza nei «Promessi Sposi», in «Modern Language Notes», LXXXV (1970), 1, pp. 1323; S. B. CHANDLER, Rassegna sul «lieto fine» ne «I Promessi Sposi», in «Critica letteraria», VIII (1980), 3, pp. 581-97. Accenni sulla fortuna all’estero dei Promessi sposi in A. DI BENEDETTO, Manzoni europeo, in ID., Dante e Manzoni, Salerno 1987, pp. 125-33. Manzoni visto dagli scrittori, in G. CATTANEO, Quel cielo di Lombardia: il lettore curioso. Figure e testi della letteratura italiana, Firenze 1992, pp. 97-131. Per un Manzoni in filigrana cfr. V. R. JONES, Intertextual patterns: «I Promessi Sposi», in «La chimera», in «Italian Studies», XLVII (1992), pp. 51-67. Il romanzo manzoniano ha fatto agire il Seicento attraverso la biblioteca di don Ferrante. Su di essa, sulla sua sorte, si è interrogato lo scrittore, alla fine del cap. XXXVII: «E quella sua famosa libreria?» La risposta, che egli stesso si è da-

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ta, è dubitativa: «È forse ancora dispersa su per i muriccioli». Senz’altro muricciolai, i libri di don Ferrante erano stati invece ricomprati dai bouquinistes e ricomposti in non meno precaria biblioteca su una nave che un capitano olandese guidava verso le Isole di Salomone. Se ne era incaricato il padre gesuita Caspar Wanderdrossel del romanzo L’isola del giorno prima di Umberto Eco (Milano 1994, cap. XXI, p. 230): «Padre Caspar si era portato appresso alcuni buoni libri... e aveva raccontato un giorno al capitano che li aveva avuti per un nonnulla, e proprio a Milano: dopo la peste, sui muriccioli lungo i Navigli era stata messa in vendita l’intera biblioteca di un signore immaturamente scomparso [...]. Per il capitano era evidente che i libri appartenuti a un appestato, erano gli agenti del contagio [...]. Il capitano non aveva voluto sentir ragioni, e la piccola e bella biblioteca di padre Caspar era finita trasportata dalle correnti». Da quest’ultima dispersione, la «libreria» (appestata) è stata infine salvata da Umberto Eco, che i capitoli del suo romanzo (che è anche un omaggio a Manzoni, con i suoi «dilavati e graffiati autografi», con le sue «Heroiche Imprese» e con il suo «castelletto o castellaccio») ha concepito come «esercizi di maniera» sui libri di una donferrantesca età «bizzarra»: dal Serraglio degli stupori del Garzoni, alla Dissimulazione onesta dell’Accetto, al Cunto de li cunti del Basile, al Cannocchiale aristotelico del Tesauro, ecc. Attraverso Manzoni, e con Manzoni, Eco ha salvato il Seicento dal «naufragio» bibliografico: romanzescamente.

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