January 20, 2017 | Author: Cavaliere Rosso | Category: N/A
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Pythagorea Studi e testi
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Ad tua munera sit via dextera Pythagorea. Bernardo di Cluny
alessandro Barbone
Musica e filosofia nel pitagorismo
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Prefazione di Bruno Centrone
la scuola di Pitagora editrice napoli 2012
© 2012 la scuola di Pitagora editrice Piazza Santa Maria degli angeli, 1 80132 napoli www.scuoladipitagora.it
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i. MuSiCa e MaTeMaTiCa § 1. La scoperta dei rapporti di consonanza § 2. L’apriorismo matematico § 3. Le medietà e la tetractys § 4. La scala musicale del Timeo (35 b-36 b)
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ii. MuSiCa e FiSiCa: l’aCuSTiCa PiTaGoriCa § 1. La natura del suono § 2. L’acustica di Archita § 3. La natura del movimento sonoro
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iii. MuSiCa e aSTronoMia: l’arMonia CeleSTe § 1. Cosmologia e suoni siderali
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Prefazione Premessa
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§ 2. L’armonia celeste nel Timeo (35 b-36 b) e nella Repubblica (X, 617 b) 92 § 3. Suoni siderali e velocità dei pianeti 99 § 4. Un’armonia inaudita 107 iV. MuSiCa e CaTarSi § 1. Il ruolo magico della musica § 2. Ethos musicale e movimenti dell’anima § 3. L’educazione musicale: Platone § 4. Damone § 5. Il papiro musicale di Hibeh § 6. Il contributo di Aristotele Bibliografia indice dei nomi
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Tolta la dottrina dell’armonia e dei numeri armonici, tutta la filosofia di Pitagora verrebbe meno. e. Goblot, De musicae apud veteres cum philosophia coniunctione
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PreFazione
la ricostruzione delle dottrine legittimamente attribuibili al pitagorismo antico e al suo fondatore è notoriamente uno dei compiti più ardui per lo storico della filosofia greca. l’esiguità di testimonianze 72 la sovrabbondanza di antiche, cui si contrappone 9 materiale posteriore, in gran1parte apocrifo o costituito da testimonianze inaffidabili, rende difficile ricostruire un quadro certo e coerente. Ciò vale anche per le teorie musicali degli antichi pitagorici; anche in questo caso testimonianze sicuramente inattendibili convivono con altre di scutibili, e con altre che a buon diritto possono essere considerate sostanzialmente attendibili. È sempre incombente da un lato il pericolo di attribuire ai pitagorici teorie e scoperte posteriori, dall’altro, sulla scia di una consolidata tendenza all’ap propriazione indebita da parte dei seguaci del pitagorismo, di dotarli della paternità di dottrine non
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specificamente pitagoriche, forse già formulate da altri presocratici. e in particolare la tendenza, propria della tradizione pitagorica nel suo complesso, a far risalire tutto al fondatore, allo scopo di conferire alle dottrine un crisma di autorità, comporta il rischio di disconoscere acquisizioni fondamentali che si devono ad altri pitagorici, anche di generazioni successive, da ippaso a Filolao ad archita. Se tuttavia permangono dubbi circa la peculiarità pitagorica di certe dottrine e scoperte nel campo dell’acustica o circa la stessa natura numerica delle consonanze musicali fondamentali, l’enfasi posta sul valore fondamentale del numero come tale anche in campo musicale rimane un tratto distintivo del pitagorismo. Sin dalla testimonianza di Platone nella Repubblica i pitagorici antichi sono accreditati di una teoria musicale strettamente connessa alla matematica. e le dottrine musicali pitagoriche costituirono nell’antichità una corrente di pensiero che esercitò indiscussa influenza o fu oggetto di diretta polemica da parte di altre scuole, prima tra tutte quella che ha la sua figura di maggior spicco in aristosseno di Taranto. nel ginepraio costituito da questa congerie di problemi si muove con agilità, padronanza degli strumenti e capacità di penetrazione la monografia di a. Barbone, che analizza in modo nitido e sintetico, selettivo ma sostanzialmente completo, i vari
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ambiti in cui si dispiegò la teoria musicale pitagorica, dalla matematica all’acustica, dall’astronomia alla dottrina dell’anima e all’etica. l’interesse per la musica dei pitagorici, già di quelli appartenenti alla prima fase dell’associazione, non è marginale. Ma si tratta, come mette bene in evidenza Barbone, di un interesse di tipo filosofico-scientifico, non strettamente tecnico; non in quanto musicisti i pitagorici si volgono alla considerazione della musica, ma in quanto propugnatori di una visione del mondo complessiva e di un modo di vita eticamente orientato, nel quale la musica gioca un ruolo di primo piano. Si può dunque sostenere 1 l’autore, la tesi del carattere plausibilmente, con 9musicale 2 eminentemente della dottrina pitagorica 7 (p. 121). Connesso a questa situazione è un aspetto op portunamente sottolineato in questo libro, l’apriorismo metodologico dei pitagorici, cui già aristotele muove radicali critiche. Se questo atteggiamento non comporta la rinuncia all’osservazione empirica e alla messa in atto di pratiche sperimentali (pp. 2324, 27-29), presenti probabilmente già nel pitagorismo delle origini, persiste nondimeno anche in campo musicale la tendenza a piegare la realtà alla teoria, cosa che attirò nel contempo sui pitagorici le critiche di teorici professionisti, orientati piuttosto a pratiche di tipo sperimentale. un esempio ne è il
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rifiuto di considerare consonanti gli intervalli superiori all’ottava perché non espressi da rapporti epimori (pp. 38-43), benché l’importanza a priori del rapporto epimorio derivi soprattutto dal suo essere esemplificativo della fondamentale armonia di limite e illimitato, in quanto rappresenta la connessione di un numero pari e di un numero dispari; e ciò a riprova della collocazione delle dottrine musicali del pitagorismo in una più ampia dimensione “cosmica”. Possono permanere dubbi sul fatto che lo studio dell’irrazionalità fosse derivato ai pitagorici dalla teoria musicale, o sulla possibilità di attribuire ai pitagorici la divisione dell’ottava (pp. 3138), ma la ricostruzione della musica pitagorica offerta da Barbone risulta convincente nel suo complesso e assai spesso anche nel dettaglio. l’unico pensatore che nella filosofia greca antica ha attribuito alla musica un peso paragonabile a quello attribuitole dai pitagorici è notoriamente Platone, opportunamente considerato nella parte finale di questo libro per quanto riguarda il suo debito nei confronti del pitagorismo. il debito di Platone verso le dottrine musicali pitagoriche è visibile in particolare nel noto passo riguardante la divisione dell’anima cosmica nel Timeo, del quale Barbone offre un’interpretazione originale destinata ad arricchire il dibattito (pp. 92-99). Ma anche la nozione pitagorica e la pratica della catarsi, il valo-
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re magico-terapeutico della musica, capace di influire profondamente sull’anima umana, hanno lasciato tracce importanti in Platone e nella sua concezione politico-pedagogica. l’importanza dell’ethos delle armonie o modi musicali è notoriamente parte integrante del progetto della Repubblica, e si tratta di un tipo di indagine le cui origini vanno ricercate nella tradizione pitagorica. lo stesso damone, principale referente di Platone, doveva rappresentare l’erede di una lunga tradizione di ricerca in questo campo. ed è proprio in questo punto che si verifica la congiunzione di due aspetti che rendono ragione della natura poliedrica dell’antica associazione, non riducibile esclusivamente a una scuola scientifica né a una setta religiosa. Quanto mai opportuno, dunque, rimettere al centro della discussione, come avviene felicemente in questa monografia, il ruolo della musica nell’ambito del complesso fenomeno del pitagorismo, antico e di età posteriore. Bruno CenTrone
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Nell’ambito della filosofia pitagorica alla musica è stato riservato un posto speciale, non perché Pitagora o qualcuno dei pitagorici fossero musici, ma esclusivamente per gli interessi di matematica, fisica, cosmologia, etica e psicologia connessi allo studio della musica. L’attenzione che l’antico pitagorismo ha riservato alle questioni musicali è stata ereditata da Platone attraverso Damone e Archita, fino a raggiungere Aristotele e la sua scuola. L’argomento della musica greca antica non è dunque solo questione da musicologi, ma a buon diritto può essere oggetto di studi filosofici. Il termine «musica» viene oggi usato per indicare la scienza e l’arte della combinazione dei suoni vocali e strumentali. Ma per gli antichi Greci quello di mousikhé (scil. teécnh) era un concetto assai più vasto, che comprendeva tutte le attività soggette alla protezione delle Muse: non solo dunque l’arte
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PREMESSA
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di produrre suoni per mezzo di strumenti e di combinarli secondo regole, o il canto, ma pure la danza, la poesia (soprattutto in riferimento alla metrica), fin anche l’astronomia. L’interesse dei pitagorici per la musica, però, si è rivolto quasi esclusivamente alla scienza di combinazione dei suoni, non alla pratica artistica, in grazia del legame che univa, ai loro occhi, la teoria dei suoni ad altre discipline filosofiche, nell’ambito delle quali sarà opportuno inserire il discorso musicale dei pitagorici. Distingueremo, per comodità di studio, quattro ambiti in cui si è espressa la riflessione pitagorica sulla musica: 1) la matematica; 2) l’acustica o fisica del suono; 3) l’astronomia; 4) la psicologia e l’etica.
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MUSICA E MATEMATICA Né solo nei fatti demonici e divini tu puoi vedere la natura del numero e la sua potenza dominatrice, ma anche in tutte, e sempre, le opere e parole umane, sia che riguardino le attività tecniche in generale, sia propriamente la musica. Filolao di Crotone, Sulla natura, VS 44 B 11 DK
§ 1. La scoperta dei rapporti di consonanza
Gli interessi musicali che le fonti unanimemente attribuiscono a Pitagora ben si collocano nell’ambito della «multiscienza» (polumaqiéh) che Eraclito polemicamente attribuì al filosofo samio1. La testimonianza eraclitea di un Pitagora ricercatore in ogni ambito del sapere può essere interpretata nel senso di un sapere multidisciplinare di cui Pitagora sarebbe stato possessore e maestro, e del quale avrebbe fatto parte anche la scienza musicale. Non in quanto musicisti Pitagora e i suoi scolari si volse1
VS 22 B 81 DK e VS 22 B 129 DK.
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ro allo studio della musica, ma i loro interessi furono di natura esclusivamente scientifica: i pitagorici si accostarono alla mousikhé non come teécnh ma in quanto e\pisthémh. Come stabilire la veridicità della testimonianza che fu Pitagora il primo a scoprire i rapporti matematici relativi agli intervalli musicali fondamentali di quarta, quinta e ottava, se proprio il maestro e non uno dei suoi discepoli ne fu lo scopritore, tenuto conto anche del carattere comunitario della primitiva scuola? È invero sempre compito arduo voler ricostruire l’evoluzione storica delle ricerche avvenute in seno al pitagorismo, e stabilire a quale dei suoi esponenti debba risalire una scoperta o una nuova teoria. Il velo mitico in cui fu avvolta la figura del maestro, al punto da esser considerato un semi-dio2, l’esagerata venerazione per la sua sapienza3 fecero maturare nei discepoli la convinzione che ogni nuovo traguardo raggiunto all’interno della scuola, anche dopo la morte del maestro, dovesse esser fatto risalire ai suoi originari
VS 14 A 7-8 DK. Cfr. Iambl. Vit. Pyth. 140-144; Porph. Vita Pyth. 23-31. Cfr. B. Centrone, Introduzione ai pitagorici, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 62-67. 3 Cfr., sopra tutte, la testimonianza di Empedocle (VS 31 B 129 DK): «C’era tra essi un uomo di straordinaria sapienza, / che possedeva davvero ricchezza immensa d’ingegno, / e valentissimo era in opere varie e sapienti; / sì che quando tendeva con ogni potenza la mente, / facilmente ciascuna di tutte le cose vedeva / che son nel corso di dieci, di venti età umane», trad. it. di M. Timpanaro Cardini in Ead., Pitagorici. Testimo2
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insegnamenti, in essi trovandosi i germi di ogni successivo sviluppo. Au\toèv e"fa, «l’ha detto lui», paénta e\keiénou tou% a\ndroév, «tutto (è) di quell’uomo»: questi modi di riportare ogni teoria alla sapienza di Pitagora ben testimoniano della sua autorità all’interno della scuola. Per conto nostro, eviteremo discorsi di attribuzione quando questi finirebbero per essere soltanto inutili lungaggini, preferendo parlare, anziché di Pitagora o di qualcun altro dei pitagorici, di pitagorismo, tranne nei casi in cui, soprattutto a proposito dei pitagorici del V sec. cosiddetti «secondi», parlare dei singoli non risulti affatto velleitario o aleatorio, data la maggiore disponibilità di fonti4. La sensibilità musicale degli uomini non è universale ma relativa ai popoli e alle epoche: una combinazione di suoni che per il nostro orecchio risulta armoniosa, poteva non esserlo per un orecchio antico. Come accade per ogni altro ambito
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nianze e frammenti, 3 voll., La Nuova Italia, Firenze 1964, vol. I, p. 17. Ma cfr. ancora VS 7 A 1 DK. 4 Cfr. G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, 10 voll., Bompiani, Milano 2004, vol. I, pp. 127-131. Reale ritiene che la peculiare conformazione del movimento pitagorico richieda una considerazione globale del fenomeno, piuttosto che uno sforzo d’isolare i contributi dei singoli esponenti della scuola, e questo vale per tutto l’arco di tempo in cui operarono i pitagorici, cioè dal VI al IV secolo. A noi tuttavia questa tesi sembra ridurre eccessivamente la possibilità di isolare alcune personalità all’interno dell’antico pitagorismo, a proposito delle quali le
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dell’estetica, anche in musica è spesso questione di gusto, gusto di un’intera generazione o di tutta un’epoca. Così per gli antichi Greci risultarono consonanti soltanto gli intervalli di quarta, quinta e ottava, non riuscendo mai essi a riconoscere tra le consonanze (sumfwniéai) anche gli intervalli di terza e sesta5: essi chiamarono consonante un intervallo composto di due suoni differenti la cui emissione simultanea suscita nell’orecchio un’unica impressione sonora, e tali erano solo la quarta, la quinta e l’ottava. Questi intervalli sono le basi della musica greca, diremo i primi princìpi della loro scienza musicale, i cui pionieri e in seguito massimi teorici furono appunto i pitagorici6. Un lungo passo tratto dalla Vita pitagorica di Giamblico offre un quadro generale riguardo alle conoscenze musicali dei pitagorici: Una volta [Pitagora] [...] passò davanti all’officina di un fabbro e [...] ebbe a udire dei martelli che battevano il fonti ci tramandano notizie sufficientemente precise circa i loro personali e originali contributi. Ci riferiamo specialmente a Filolao e Archita. 5 Cfr. Aristox. Elem. Harm. II 45, 5-20 (ed. R. Da Rios, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1954, pp. 65-66). 6 Cfr. V. Capparelli, La sapienza di Pitagora, 2 voll., Cedam, Padova 1941, vol. I, p. 491: «Quanto alla teoria matematica della scala musicale, [...] essa ha costituito un merito quasi esclusivo della scuola pitagorica, uno dei loro più insigni e caratteristici contributi alla scienza occidentale, perché non
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ferro sull’incudine e davano suoni tutti in perfetto accordo armonico reciproco, tranne una coppia. In quei suoni Pitagora riconosceva gli accordi di ottava (diaè pasw%n), di quinta (diaè peénte) e di quarta (diaè tessaérwn), e notava che l’intervallo tra quarta e quinta era in sé stesso dissonante, ma idoneo a colmare la differenza di grandezza intercorrente tra l’una e l’altra. [...] Entrò nell’officina e grazie a svariate prove capì che la differenza nell’altezza dei suoni dipendeva dal peso dei martelli e non dalla forza con cui si batteva, né dalla forma dei martelli medesimi, né dalla posizione del ferro battuto. Poi, dopo aver fissato con la massima precisione il peso dei martelli, se ne tornò a casa. Qui fissò all’angolo di due pareti un unico piolo [...]; al piolo legò una dopo l’altra quattro corde di uguale spessore e tensione, fatte della stessa materia e dello stesso numero di fili e all’estremità inferiore di esse attaccò un peso, badando a che le corde fossero di lunghezza perfettamente uguale. Quindi, pizzicando le corde a due a due alternatamente trovava gli accordi già menzionati, uno per ogni coppia di corde. In effetti capì che la corda tesa dal peso più grande risuonava in un rapporto di ottava con quella tesa dal peso più piccolo: una aveva un peso di dodici unità e l’altra di sei. Così dimostrava che l’ottava si basa sul rapporto 2:1, come mostravano gli stessi pesi. La corda con il peso più grande risuonava in un accordo di quinta con quella che aveva otto unità di peso ed era posta accanto alla corda tesa dal peso più piccolo: su questa base dimostrò che la quinta è fondata sul rapporto 3:2, lo stesso nel quale stavano i pesi. Inoltre, con la corda che per il suo peso veniva subito dopo – ne aveva uno di nove unità – e che era maggiore delle altre, la corda più tesa di tutte era in un accordo di quarta,
solo è stata la risultante di tutta la loro teoria delle proporzioni, ma è anche il primo esempio nella storia della scienza di una ricerca sperimentale minuziosa, e di una consapevole applicazione della matematica alla fisica; ha così costituito un modello».
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analogamente a quanto avveniva per i pesi. Così capì che questo accordo si basa sul rapporto 4:3, mentre la corda posta accanto alla più piccola stava in un rapporto di 3:2 (in effetti in questa proporzione stanno 9 e 6). Nello stesso modo, la corda con un peso di otto unità, che è accanto alla meno tesa, sta in un rapporto di 4:3 con quella tesa da un peso di sei unità, e invece in un rapporto di 2:3 con quella tesa da un peso di dodici unità. Veniva così dimostrato che l’intervallo tra quinta e quarta, vale a dire la misura di quanto la quinta sopravanza la quarta, si basa sul rapporto di 9:8. E l’ottava si mostrava in un duplice senso quale un accordo “composto”: ossia quale il prodotto dell’unione di quinta e di quarta (allo stesso modo che il rapporto 2:1 è il prodotto dei rapporti 3:2 e 4:3, cioè 12:8:6), ovvero, al contrario quale il prodotto di quarta e di quinta (al modo che il rapporto 2:1 è il prodotto di 4:3 e 3:2, cioè 12:9:6, rapporto nel quale consiste l’ottava)7.
La scoperta che Giamblico attribuisce a Pitagora non riguarda le consonanze fondamentali in sé stesse, che dovevano essergli già note da una lunga tradizione8, bensì i rapporti matematici corrispondenti, nonché il rapporto dell’intervallo costituito dalla differenza tra la quinta e la quarta, vale a dire il tono maggiore. L’episodio riportato da Giamblico fu sicuramente creato a bella posta, allo scopo di 7 Vit. Pyth. 115-118 (trad. it di M. Giangiulio in Id., Pitagora. Le opere e le testimonianze, 2 voll., Mondadori, Milano 2000, vol. II, pp. 403-405). 8 Cfr. E. Riverso, Natura e logo. La razionalizzazione dell’esperienza da Omero a Socrate, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1966, p. 190, e V. Capparelli, op. cit., vol. II, p. 613.
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dar però ragione di esperimenti che all’interno della scuola pitagorica furono certamente condotti, e in modo non distante dal racconto di Giamblico. Una prova di questo ci è offerta da alcune testimonianze su Ippaso di Metaponto, pitagorico di prima generazione, il primo dopo Pitagora di cui le fonti attestino interessi di teoria musicale e le cui «ricerche sulle consonanze costituiscono uno dei punti fondamentali del più antico insegnamento pitagorico»9. Da queste testimonianze risulta che i pitagorici avevano allestiti dei veri e propri laboratori in cui conducevano le loro ricerche acustiche servendosi degli strumenti i più vari, dal monocordo ai dischi di bronzo ai vasi ricolmi d’acqua10. È proprio a questi due ultimi espedienti che le fonti ci dicono M. Timpanaro Cardini, op. cit., vol. I, p. 83. Il ricorso a esperienze acustiche ripetute in laboratori è il presupposto imprescindibile delle indagini di matematica della musica condotte dai pitagorici. Cfr. M. Timpanaro Cardini, op. cit., vol. II, pp. 310-311, in nota; E. Riverso, op. cit., p. 191; V. Capparelli, op. cit., vol. I, p. 524; G. Comotti, Pitagora, Ippaso, Laso e il metodo sperimentale, in Harmonia mundi. Musica e filosofia nell’antichità (Quaderni Urbinati di Cultura Classica, 5), a cura di R. W. Wallace e B. MacLachlan, Edizioni dell’Ateneo, Pisa 1991, pp. 24-29, il quale parla per Pitagora, Ippaso e Laso di un vero e proprio procedimento sperimentale induttivo, non lontano da quello teorizzato da Bacone e Galileo nei secoli XVI-XVII, credendo degna di fede la testimonianza di Diogene Laerzio (VIII 12) di un Pitagora inventore del monocordo (kanwèn e\k mia%v cordh%v) per i suoi esperimenti di acustica. Alquanto discordante dalle precedenti l’opinione di W. 9
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abbia ricorso Ippaso per verificare i rapporti matematici su cui si basano le consonanze fondamentali: $Ippasov gaér tiv kateskeuéase calkou%v teéttarav diéskouv ou$twv, w$ste taèv meèn diameétrouv au\tw%n i"sav u|paércein, toè deè tou% prwétou diéskou paécov e\piétriton meèn ei&nai tou% deuteérou, h|mioélion deè tou% triétou, diplaésion deè tou% tetaértou, krouomeénouv deè touétouv e\pitelei%n sumfwniéan tinaé.
Ci fu un certo Ippaso, il quale costruì quattro dischi di bronzo, tali che i loro diametri erano uguali, ma lo spessore del primo disco era una volta e un terzo quello del secondo disco, una volta e mezzo quello del terzo e due volte quello del quarto; sicché, percossi, producevano una specie di accordo musicale11. Tauétav deè taèv sumfwniéav oi| meèn a\poè barw%n h\xiéoun lambaénein, oi| deè a\poè megeqw%n, oi| deè a\poè kinhésewn kaiè a\riqmw%n, oi| deè a\poè a\ggeiéwn. La%sov deè o| {Ermioneuév, w$v fasi, kaiè oi| periè toèn Metaponti%non $Ippason Puqagorikoèn a"ndra suneépesqai tw%n kinhésewn taè taéch kaiè taèv braduth%tav di} w/n ai| sumfwniéai*** e\n a\riqmoi%v h|gouémenov
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Burkert, Lore and science in ancient Pythagoreanism, trad. inglese di E. L. Minar, Harvard University Press, Massachusetts 1972, p. 400 (tit. orig. Weisheit und Wissenschaft. Studien zu Pythagoras, Philolaus und Platon, Erlanger Beiträge zur Sprach und Kunstwissenschaft, 10, H. Carl, Nürnberg 1962), per il quale «la teoria musicale dei primi pitagorici non si basa sulla matematica o sulla fisica sperimentale, ma sulla “riverenza” per certi numeri nel ruolo che essi hanno nella musica e nella cosmologia»; il primo ad attuare una sorta di sperimentazione sarebbe stato invece Ippaso. 11 Schol. Plat. Phaed. 108 D, fr. 90 Wehrli (in M. Timpanaro Cardini, op. cit., vol. I, p. 98).
MUSICA E MATEMATICA loégouv toiouétouv e\laémbanen e\p} a\ggeiéwn: i"swn gaèr o"ntwn kaiè o|moiéwn paéntwn tw%n a\ggeiéwn toè meèn kenoén e\aésav, toè deè h$misu u|grou% e\yoéfei e|kateér§, kaiè au\t§% h| diaè pasw%n a\pediédoto sumfwniéa: qaéteron deè paélin tw%n a\ggeiéwn kenoèn e\w%n e\v qaéteron tw%n tessaérwn merw%n toè e£n e\neécee, kaiè krouésanti au\t§% h| diaè tessaérwn sumfwniéa a\pediédoto: h| diaè peénte, e£n meérov tw%n triw%n suneplhérou ou"shv th%v kenwésewv proèv thèn e|teéran e\n meèn t+% diaè pasw%n w|v b' proèv e$n, e\n deè t§% diaè peénte w|v g' proèv b', e\n deè t§% diaè tessaérwn w|v d' proèv g'.
Queste consonanze (sumfwniéav) alcuni pensarono di ottenerle da [rapporti di] pesi, altri da grandezze, altri da movimenti e da numeri, altri da oggetti cavi. Laso di Ermione, come si racconta, e la scuola di Ippaso Metapontino, uomo pitagorico, seguirono il criterio della varia velocità e lentezza dei movimenti, da cui risultano le consonanze (tw%n kinhésewn taè taéch kaiè taèv braduth%tav di} w/n ai| sumfwniéai) *** ritenendo che tali rapporti si trovino nei numeri, ricorreva a dei vasi. Presili uguali di capacità e di forma, ne lasciava uno vuoto, un altro lo riempiva d’acqua per metà, e percotendoli ambedue, otteneva l’accordo di ottava; poi di nuovo, lasciatone uno vuoto, riempiva dell’altro la quarta parte, e percotendoli otteneva l’accordo di quarta; infine otteneva quello di quinta quando di uno riempiva la terza parte. Così il vuoto del primo vaso stava al vuoto del secondo come 2:1 nella consonanza di ottava, come 3:2 nella consonanza di quinta, come 4:3 nella consonanza di quarta12. 12 Theo Smyrn. p. 59, 4 Hiller (in M. Timpanaro Cardini, op. cit., vol. I, p. 100). Cfr. A. Privitera, Laso di Ermione nella cultura ateniese e nella tradizione storiografica, Ateneo, Roma 1965, pp. 68 e segg. Per l’esperimento dei vasi cfr. gli aristotelici Problemi musicali, n. 50 (Aristotele, Problemi musicali, a cura di G. Marenghi, Fussi-Sansoni, Firenze 1957).
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Queste fonti dimostrano che le ricerche musicali dei pitagorici erano indissolubilmente connesse agli interessi matematici della scuola, che a loro volta, com’è risaputo, traevano origine dalla convinzione che la realtà non solo possa essere interamente spiegata dal numero, ma sia numero nella sua sostanzialità13. Pertanto, la possibilità di spiegare gli accordi musicali mediante rapporti numerici (loégoi) non faceva altro che confermare, agli occhi estasiati dei pitagorici, un’intuizione che sarà il loro chiodo fisso: in tutto ritrovare la ragione numerica, tutto spiegare secondo una ragione matematica – idea che a volte, come nel caso delle indagini musicali, li porterà ad assumere posizioni di estremo apriorismo e attirerà loro le critiche di molti teorici musicali dell’antichità.
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13 Cfr. Arist. Metaph. 985b 23 e segg.: «Essi [scil. i pitagorici] per primi si applicarono alle matematiche e le fecero progredire e, nutriti delle medesime, credettero che i princìpi di queste fossero princìpi di tutti gli esseri. E, poiché nelle matematiche i numeri sono per loro natura i princìpi primi, e appunto nei numeri essi ritenevano di vedere, più che nel fuoco e nella terra e nell’acqua, molte somiglianze (o|moiwémata) con le cose che sono e che si generano […]; e inoltre, poiché vedevano che le note e gli accordi musicali consistevano nei numeri; e, infine, poiché tutte le altre cose, in tutta la realtà, pareva a loro che fossero fatte a immagine dei numeri e che i numeri fossero ciò che è primo in tutta quanta la realtà, pensarono che gli elementi dei numeri fossero elementi di tutte le cose, e che tutto quanto il cielo fosse armonia e numero. E tutte le concor-
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Se è impossibile stabilire quando l’orecchio dei Greci si sia abituato a considerare alcune combinazioni di suoni come più piacevoli di altre, nel senso della consonanza dei suoni costituenti gli accordi, è però opinione ormai condivisa che proprio all’interno della scuola pitagorica, e non altrove, avvennero quelle ricerche che condussero alla sistemazione scientifica dei rapporti matematici su cui si basano gli intervalli, e ciò in virtù della mentalità matematica del tutto peculiare di cui fu informato il pensiero di questi filosofi. Un problema, però, si pone, e di non poca importanza: chi ha provato a ripetere le esperienze che la tradizione ci ha tramandate riguardo alle indagini musicali che i pitagorici condussero per arrivare alla scoperta dei rapporti corrispondenti agli intervalli consonanti, si è trovato, a volte, di fronte a risultati diversi da quelli che
danze (o$sa ei&con o|mologouémena) che riuscivano a mostrare fra i numeri e gli accordi musicali e i fenomeni e le parti del cielo e l’intero ordinamento dell’universo, essi le raccoglievano e le sistemavano», trad. it. di G. Reale in Metafisica di Aristotele, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2004, p. 27. Per un’interpretazione generale della teoria pitagorica del numero come principio della realtà, in rapporto alle indagini musicali, cfr. J. Burnet, Early greek philosophy, The World Publishing, Cleveland 1961, pp. 97-108: il Burnet ritiene che la teoria dell’identificazione dei numeri con le cose abbia un’origine prettamente musicale; lo stesso giudizio esprimono B. Centrone, op. cit., p. 127, V. Capparelli, op. cit., vol. I, p. 529, T. Reinach, La musique des sphères, in «Revue des études grecques» 13, 1900, pp. 432-449.
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ci si aspettava dal racconto delle fonti: alcune di quelle esperienze risultano infatti impossibili. Dal fatto che Pitagora non avrebbe mai potuto ascoltare le consonanze di ottava, quarta e quinta prodot72 te dai martelli che battono sull’incudine, alcuni 9 hanno arguito che egli non dovesse conoscere quei 1 rapporti musicali, mentre le esperienze di Ippaso con i dischi, essendo possibili, dimostrerebbero che Ippaso conobbe realmente quei rapporti14. Si sa quanto le fonti antiche, soprattutto concernenti il pensiero dei presocratici, siano spesso incerte e confuse, a volte per giunta favolose, e che perciò allo studioso sono richiesti un certo intuito e una non piccola dose di buon senso, se non vuole dichiararsi sconfitto in partenza, o finire per giudicare a malincuore leggendarie e non storiche le figure dei filosofi antichi. Noi riteniamo che la testimonianza di Giamblico sull’episodio che vede Pitagora alle prese con martelli e incudini, e con pesi legati alle corde, pur essendo certamente una delle tante storie che la tradizione ha inventate sulla figura di
14 Cfr. C. A. Huffman, Philolaus of Croton Pythagorean and Presocratic, Cambridge University Press, Cambridge 1993, p. 148; L. Laloy, Aristoxène de Tarente, Paris 1904 (rist. anast. Forni Editore, Bologna 1979), pp. 54-55; P. Tannery, A propos des fragments philolaïque sur la musique, in «Revue de philologie, de littérature et d’histoire anciennes» 28, 1904, pp. 233249; V. Capparelli, op. cit., vol. II, pp. 627-629; E. Zeller-R. Mondolfo, La filosofia dei greci nel suo sviluppo storico, La Nuova Italia, Firenze 1943, pp. 504-505, nota 2.
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Pitagora, ha avuto un suo fondamento sulla scorta di tradizioni che parlavano di esperimenti musicali realmente condotti dai pitagorici nei loro laboratori. La questione è stabilire se Pitagora stesso abbia preso parte a queste indagini, o se i suoi scolari, primo fra tutti Ippaso, ne furono gli iniziatori. Oltre alla testimonianza di Giamblico, ce ne sarebbe una ben più antica di Senocrate15, che visse in pieno IV sec. e fu scolaro diretto di Platone, dal quale aveva certamente sentito parlare della musica pitagorica; ma Senocrate per molti risulta poco attendibile, perché appartiene a quella fase dell’Accademia – nella cui direzione successe a Speusippo – che, per così dire, “pitagorizzò” il platonismo, in grazia delle influenze che il pitagorismo matematico (per tramite di Filolao e Archita) e mistico-religioso aveva avute sugli insegnamenti di Platone16. C’è poi una testimonianza di Porfirio17 tratta dagli Annali dello storico Duride di Samo, vissuto tra il 340 e il 270 a. C. ca. e allievo di Teofrasto, che parla di un epi-
Fr. 9 Heinze = 87 Isnardi Parente (Porph. in Ptolem. Harm. 30, 2 Düring): «Pitagora, come dice Senocrate, scoprì gli intervalli musicali (taè e\n mousik+% diasthémata), che non si originano a prescindere dal numero (cwrièv a\riqmou%)». 16 Cfr. B. Centrone, op. cit., pp. 14-15. 17 VS 14 A 6 DK (Porph. Vit. Pyth. 3): Puqagoérew fiélov ui|oèv }Ariémnhstoév m} a\neéqhke / pollaèv e\xeurwèn ei\niè loégoiv sofiéav. Cfr. i commenti di M. Timpanaro Cardini, op. cit., vol. I, p. 29, in nota; A. Maddalena, I pitagorici, Laterza, Bari 1954, p. 69, nota 12; M. Giangiulio, op. cit., vol. I, p. 79, nota 69. 15
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gramma apposto su un dono votivo in bronzo che Arimnesto, figlio di Pitagora, avrebbe dedicato in un santuario di Era. Nell’epigramma si fa menzione di ei\niè loégoiv sofiéav, espressione che fa riferimento a conoscenze musicali. Le fonti, dunque, più o meno antiche, ci porterebbero a concludere che Pitagora e la prima cerchia dei suoi scolari si occuparono effettivamente di ricerche musicali, attraverso esperienze casuali o di laboratorio, e fondarono la scienza musicale in connessione alla matematica. Così il Laloy conclude che Pitagora certamente aveva conosciuti i rapporti di ottava (2:1), quinta (3:2) e quarta (4:3), ma sicuramente aveva ignorato quello corrispondente al tono (9:8), che però «fu scoperto molto presto visto che Filolao lo conosceva»18. Anche altri, come Timpanaro Cardini19, van der Waerden20, Tannery21, Burnet22 e Kahn23, propendono per l’antichità della L. Laloy, op. cit., p. 52. Secondo il Laloy (op. cit., p. 54) se non già Pitagora, almeno Ippaso (parla infatti di pitagorici del VI sec.) iniziò le indagini sulla suddivisione della scala oltre le consonanze fondamentali. 19 M. Timpanaro Cardini, op. cit., vol. I, p. 33, in nota. 20 B. L. Van der Waerden, Die Harmonielehre der Pythagoreer, in «Hermes» 78, 1943, pp. 163-199. 21 P. Tannery, op. cit., p. 238. 22 J. Burnet, op. cit., p. 106. 23 C. H. Kahn, Pitagora e i pitagorici, in Le radici del pensiero filosofico, vol. II, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1993, p. 23. 18
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scoperta dei rapporti fondamentali, ma non dell’ulteriore loro suddivisione; più cauti, invece, Huffman24 e Centrone25, che non se la sentono di riportare la scoperta dei rapporti di consonanza a Pitagora, ma si fermano a Ippaso. Ritorniamo al passo di Giamblico (Vit. Pyth., XXVI, 115-118), e riflettiamo sulla serie di numeri 6, 8, 9, 12, da lui impiegata parallelamente alla serie 1, 2, 3, 4. Giamblico si servì dei numeri della prima serie per uno scopo preciso, vale a dire mostrare un’importante proprietà matematica risultante dalla composizione degli intervalli: l’ottava, infatti, può essere espressa da due serie numeriche, l’una armonica, l’atra aritmetica, se considerata una volta come somma di una quinta più una quarta (12:8:6), un’altra come somma di una quarta più una quinta (12:9:6)26. Un’ulteriore proprietà matematica degli accordi era che la loro somma risulta dal prodotto dei rispettivi rapporti, mentre la loro differenza dal quoziente dei rapporti: infatti il rapporto esprimente l’ottava risultava dal prodotto dei rapporti di quarta e di quinta (4:3 × 3:2 = 2:1), mentre il rapporto corrispondente al tono dal quoziente dei rapporti di quinta e di quarta (3:2 : 4:3 = 9:8). Quale C. A. Huffman, op. cit., p. 148. B. Centrone, op. cit., p. 126. 26 Cfr. VS 18 A 15 DK (Ippaso) (Iambl. in Nicomac. arithm. 100, 19); VS 44 A 24a DK (Filolao) (Nicom. Arithm. II 26, 2). 24 25
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stupore dovevano suscitare queste scoperte nell’animo matematico di questi antichi filosofi: l’aver ricondotto le combinazioni di suoni, e quindi la musica, al numero fu una scoperta che li confermò nella loro intuizione originaria della coincidenza di numero e realtà. Ma che la somma di intervalli musicali si ottenesse col prodotto dei loro rapporti, e che la differenza si ricavasse dal loro quoziente, i pitagorici poterono conoscerlo per via sperimentale, non già teorica, mancando a loro gli strumenti matematici necessari27. Il Laloy, perciò, ritenne che Pitagora non aveva potuto conoscere il rapporto dell’intervallo di tono (9:8), esprimente l’eccesso della quinta sulla quarta e ottenuto dal quoziente dei rapporti corrispondenti28. Allora quando fu intuito, seppure sperimentalmente, questo procedimento matematico, e quindi Nel caso di somme o differenze di intervalli musicali, espressi da rapporti numerici, il risultato non è ottenuto sommando o sottraendo tra di loro i rapporti relativi agli intervalli. Volendo, per esempio, sommare una quarta a una quinta, non si sommano i loro rapporti, ma si moltiplicano, per ottenere il rapporto corrispondente all’ottava, che è l’intervallo costituito dalla somma di una quarta più una quinta congiunte. Infatti, si ha che: 4:3 + 3:2 = 17:6; mentre 4:3 × 3:2 = 2:1. Questo perché le operazioni con gli intervalli musicali sono descritte da una funzione logaritmica, la cui scoperta risale a Napier (1614). 28 L. Laloy, op. cit., pp. 49-58. 27
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scoperto anche l’intervallo di tono? La nostra opinione è che la scoperta del tono deva esser collocata nell’ambito delle ricerche dei primi pitagorici, volte a trovare una comune unità di misura per la quarta e la quinta, cioè un rapporto espresso da numeri razionali per il quale potessero essere suddivise sia la quarta sia la quinta, e di conseguenza anche l’ottava. Se già Pitagora e Ippaso avevano misurato gli intervalli di quarta, quinta e ottava, si può credere che il passo alla successiva indagine, che avrebbe condotto alla scoperta del tono, poté essere compiuto già all’interno della loro cerchia. L’intervallo minimo immediatamente disponibile e più adatto allo scopo non poteva essere che quello rappresentato dall’eccedenza della quinta sulla quarta, che risultava dall’operazione 3:2 : 4:3 = 9:8. Così la quarta risultava costituita da due intervalli di 9:8 più un «resto» (lei%mma, detto anche diéesiv, «passaggio») di 256:243 (infatti: 9:8 × 9:8 × 256:243 = 4:3), mentre la quinta risultava costituita di tre intervalli di 9:8 più un resto di 256:243 (infatti: 9:8 × 9:8 × 9:8 × 256:243 = 3:2). Di conseguenza l’ottava risultava costituita di cinque toni più due leiémmata o dieéseiv, ovvero dalla congiunzione29 di una quarta e una quinta. 29 Un intervallo era detto congiunto (sunhmmeénon) al precedente quando aveva con esso una nota in comune, quella appunto per cui risultava l’unione (mi¹-la¹ e la¹-mi²); disgiunto
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Che già Filolao fosse a parte di queste conoscenze, cioè delle operazioni mediante le quali si ottengono i rapporti esprimenti la somma o la differenza d’intervalli musicali, lo dimostra l’importante frammento VS 44 B 6 DK – conservatoci da Nicomaco nel Manuale di armonia (Musici Scriptores Graeci, ed. Jan 252, 4) e da Stobeo nelle Ecloghe (1, 21, 7 d) – dove l’intervallo tra le corde mese e trite è chiamato epògdoo, mentre l’ottava è detta esser espressa dal rapporto doppio (2:1):
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{Armoniéav deè meégeqoév e\sti sullabaè kaiè di} o\xeia%n. toè deè di} o\xeia%n mei%zon ta%v sullaba%v e\pogdoé§. e"sti gaèr a\poè u|paétav e\piè meéssan sullabaé, a\poè meéssav e\piè neaétan di} o\xeia%n, a\poè deè neaétav e\v triétan sullabaé, a\poè deè triétav e\v u|paétan di} o\xeia%n. toè d} e\n meés§ meéssav kaiè triétav e\poégdoon, a| deè sullabaè e\piétriton, toè deè di} o\xeia%n h|mioélion, toè deè diaè pasa%n diploéon. ou"$twv a|rmoniéa peénte e\poégdoa kaiè duéo dieéseiv, di} o\xeia%n deè triéa e\poégdoa kaiè diéesiv, sullabaè deè dué} e\poégdoa kaiè diéesiv.
La grandezza armonica [l’ottava] è formata dagli intervalli di quarta e di quinta; la quinta è maggiore della quarta di un tono. Infatti dalla corda più alta (hypàte) alla media (mèse) c’è una quarta; dalla media all’ultima (nète) c’è una quinta; poi dall’ultima alla terza (trìte) c’è una quarta, e dalla terza alla più alta una quinta. L’intervallo tra media e terza è di un tono. La quarta è espressa dal rapporto epitrìto (4:3), la quinta dall’emiòlio (3:2), l’ottava dal doppio (dihzeugmeénon), invece, era detto quando non aveva nessuna nota in comune coll’intervallo precedente, ma tra l’uno e l’altro era intercalato l’intervallo di un tono (mi¹-la¹ e si¹-mi²).
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(2:1). Così la scala armonica comprende cinque toni e due semitoni minori; la quinta tre toni e un semitono minore; la quarta due toni e un semitono minore30.
Filolao non solo conosceva i rapporti esprimenti la quarta, la quinta e l’ottava, già noti a Pitagora e a Ippaso, ma conosceva anche il procedimento di riduzione di questi accordi fondamentali a un unico accordo che fosse l’unità di misura minima di tutti gli altri, vale a dire il tono, cui egli si riferisce, nel frammento testé citato, col nome del relativo rapporto numerico (epògdoo, perché 9:8 = 1 + 1:8). Ciò dimostra che, almeno sperimentalmente, al tempo di Filolao era risaputo che in acustica alla somma corrisponde il prodotto e alla differenza il quoziente. L’ardore scientifico del quale furono animati i pitagorici non poteva non spingerli a condurre indagini sulla possibilità di suddividere ulteriormente il tono, anche perché nella prassi musicale venivano facilmente eseguiti intervalli inferiori al tono, potendo l’orecchio percepirli in tutta chiarez30 Cfr. anche i commenti a questo frammento in M. Timpanaro Cardini, op. cit., vol. II, pp. 202-211; in C. A. Huffman, op. cit., pp. 147-165, che adduce prove assai convincenti sull’autenticità del frammento, e fornisce un dettagliato confronto con la scala musicale del Timeo (34 b-36 a); in A. Maddalena, op. cit., pp. 190-191. P. Tannery, op. cit., p. 242, giudicava quantomeno sospetto il frammento e per niente conclusa la disputa sulla sua autenticità.
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za, ed era necessario esprimere anche questi intervalli in numeri. Ma questi filosofi, che già avevano subita l’amara delusione derivata dall’incommensurabilità della diagonale del quadrato con il lato, che aveva condotto alla scoperta dei numeri irrazionali (a"logoi), dovettero scoprire con uguale dispiacere che anche l’ottava risultava aritmeticamente indivisibile in parti uguali, così pure il tono, la diesis e il comma, quest’ultimo pari all’eccedenza del tono su due dieseis. Infatti, la metà di un’ottava è pari alla radice quadrata di 2, la metà di un tono è uguale alla radice quadrata di 9:8, la metà della diesis alla radice quadrata di 256:243, la metà del comma alla radice quadrata di 9:8 : (256:243)², tutti numeri irrazionali31. Il frammento VS 44 B 6 DK di Filolao è il più antico riguardo alla suddivisione dell’ottava in toni e semitoni; ciò nonostante ci sembra improbabile che se Pitagora e Ippaso conobbero i rapporti degli intervalli fondamentali, non fossero già giunti a calcolare la differenza tra la quinta e la quarta, e quindi a esprimere quegli accordi per mezzo di toni e semitoni, al modo riportato nel frammento di Filolao. Gli esperimenti con i dischi di bronzo perCfr. P. Tannery, op. cit., pp. 239-241; M. Timpanaro Cardini, op. cit., vol. II, p. 185, nota 26a; P. Odifreddi, Penna, pennello e bacchetta. Le tre invidie del matematico, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 138-143. 31
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misero a Ippaso di ottenere il rapporto di ottava, che musicalmente risultava dalla somma della quarta e della quinta, ma matematicamente dal loro prodotto32. Anche una mente ancora inesperta di chissà quali calcoli – quale certamente non fu il genio matematico d’Ippaso – si sarebbe accorta che, se la somma di intervalli si ottiene mediante il prodotto dei loro rapporti, allora la differenza deve aversi per divisione di essi: nulla di sorprendente, dunque, se Ippaso stesso fosse giunto a conoscenza del rapporto epògdoo (9:8) esprimente il tono. E se avesse voluto procedere alla suddivisione del tono si sarebbe accorto dell’impossibilità di esprimere questo intervallo con un numero razionale33, e la stessa cosa sarebbe avvenuta con la diesis, che pure doveva conoscere come eccesso della quarta su due toni e della quinta su tre. Se poi gli stessi esperimenti aveva già condotti Pitagora, giustamente la scoperta dovrebbe essere ulteriormente anticipata, per essere finalmente riportata alle origini della scuola. Noi stentiamo a credere, pur in assenza di fonti certissime, che alla conoscenza del rapporto di Cfr. al riguardo, in aggiunta alle fonti già riportate più sopra, VS 18 A 14 DK (Boethius, Inst. mus. II 19 p. 250 Friedlin [da Nicomaco]), dove a Eubulide e a Ippaso è attribuita la conoscenza delle consonanze doppia e tripla. 33 Cfr. l’aggiunta a VS 44 B 6 DK da Plutarco (De an. procr. in Tim. c. 17 p. 1020 E) in M Timpanaro Cardini, op. cit., vol. II, pp. 212-213. 32
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ottava, cosiddetto doppio, non dovesse necessariamente seguire quella del rapporto epògdoo di tono. Per cui ci sentiamo di dover attribuire tutte queste91 72 nozioni alla primitiva cerchia che si raccolse attorno a Pitagora, senza dire a quale personaggio vadano individualmente attribuite, ma preferendo parlare di scoperta comunitaria del primo pitagorismo. § 2. L’apriorismo matematico
Più sopra abbiamo accennato al fatto che la posizione dei pitagorici fu sovente aprioristica, un po’ in ogni campo da loro indagato. Un esempio assai noto è la celebre teoria dell’Antiterra, tramandataci da Aristotele nella Metafisica34. Ma non meno esemplificativo di tale atteggiamento è un caso tratto proprio dall’ambito delle teorie musicali, perché i pitagorici trattarono la musica come una scienza astratta al pari della matematica. I rapporti numerici corrispondenti agli intervalli di ottava, quarta e quinta rispettano tutti una proprietà matematica, sono tutti cioè rapporti epimòri, come dicevano i Greci, o superparziali, alla latina. Epimorio o superparziale è quel rapporto il cui numeratore supera il denominatore di una unità, proprietà che espressa in simboli diventa (a + 1) : a. Il rapporto di ottava, 34
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A 5, 986 a 4-10. Cfr. anche Arist. De caelo, II 13, 1.
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Siano otto le grandezze degli intervalli consonanti: la più piccola è la quarta; che sia la più piccola è determinato dalla natura stessa della melodia, perché noi eseguiamo molti intervalli più piccoli della quarta, ma tutti sono dissonanti; seconda è la quinta, perché qualunque intervallo tra la quarta e la quinta è dissonante; terza, la somma dei due intervalli nominati, cioè l’ottava, perché tutti gli intervalli tra la quinta e l’ottava sono dissonanti. Questi intervalli che nominiamo sono gli intervalli consonanti che abbiamo preso dai nostri predecessori (paraè tw%n e"mprosqen), quanto agli altri siamo noi che li dobbiamo determinare. Prima, dunque, si deve dire che qualunque intervallo consonante si aggiunga all’ottava, la somma è un intervallo consonante…35
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infatti, è 2:1 = (1 + 1) : 1; così la quarta è 4:3 = (3 + 1) : 3, la quinta è 3:2 = (2 + 1) : 2. Poiché le consonanze erano tutte espresse da rapporti epimori, i pitagorici arguirono che ogni consonanza doveva corrispondere a un rapporto di questo tipo. Stando così le cose, qualunque intervallo espresso da un rapporto non epimorio, non poteva esser considerato una consonanza. Questa concezione rimase radicata nei teorici di musica almeno fino all’epoca di Aristosseno (IV sec.), se questi sentiva il bisogno di polemizzare con quanti, contrariamente ad ogni giudizio della sensazione (ai"sqhsiv), negavano la qualità di consonanze a intervalli superiori all’ottava:
35 Elem. Harm. II, 45, 5 e segg. Su Aristosseno si veda il volume di S. Gibson, Aristoxenus of Tarentum and the birth of musicology, Routledge, New York 2005.
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Anziché nominare tutti gli intervalli consonanti superiori all’ottava, Aristosseno stabilisce un principio per la loro determinazione: basta aggiungere 7291 e si avrà un all’ottava un intervallo consonante, nuovo intervallo consonante. In teoria non c’è un limite massimo agli intervalli consonanti e dissonanti, ma poiché ad Aristosseno, musicista oltre che teorico, preme dare delle direttive che siano utili alla pratica musicale, egli pone come intervallo consonante massimo quello composto di due ottave e una quinta. Scrive infatti:
Riguardo alla natura stessa della melodia, l’intervallo consonante può estendersi all’infinito, come l’intervallo dissonante; perché, aggiungendo a un’ottava un intervallo consonante qualunque, sia esso più grande o più piccolo o di uguale grandezza dell’ottava, l’insieme è una consonanza. Così, da questo punto di vista, sembra che non ci sia un intervallo consonante massimo. Ma, se consideriamo il nostro uso pratico – intendo per nostro uso pratico quello della voce umana e degli strumenti –, vi è evidentemente un intervallo consonante massimo. Questo è l’intervallo composto di due ottave e di una quinta; perché non possiamo estenderci fino a tre ottave. Ma si deve determinare l’estensione del massimo intervallo consonante riferendosi alla tonalità e ai suoni limite di un solo dato strumento; poiché formano un intervallo più grande di quello menzionato di tre ottave il suono più acuto degli auloi parthenii e il suono più grave degli auloi ipertelii […]. Lo stesso avviene tra la voce di un bambino e quella di un uomo. In questo modo possiamo conoscere i più grandi intervalli consonanti, perché, dal confronto di voci di diversa età e di strumenti di diverse misure, noi abbiamo appreso che gli inter-
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valli di tre, di quattro ottave e anche un intervallo più grande di questi, sono intervalli consonanti36.
A decidere se un intervallo è o meno consonante non può essere, per Aristosseno, un aprioristico giudizio sulla forma del rapporto corrispondente. Così, se a un’ottava si aggiunge una quarta, si avrà ancora una consonanza (undicesima, o anch’essa quarta), benché il rapporto ad essa relativo non sia epimorio; infatti il rapporto dell’undicesima è 2:1 × 4:3 = 8:3. Il diverso modo di ragionare usato dai pitagorici in questioni del genere si può invece evincere dagli aristotelici Problemi musicali, dove al numero 34 si chiede: «Perché la doppia quinta e la doppia quarta non formano consonanza ma la doppia ottava sì? Non sarà perché né la doppia quinta né la doppia quarta hanno [rapporto epimorio] ma la quarta e la quinta [sì]?». L’impostazione teorica del filosofo tarantino, musico nato, contrariamente a quella assunta dai pitagorici che erano piuttosto matematici, prevede l’imprescindibile impiego della percezione sensibile nelle cose di musica: i suoi Elementi di armonia sono disseminati di indicazioni in tal senso:
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La nostra trattazione si riferisce a due facoltà: l’orecchio (a\kohé) e l’intelletto. Per mezzo dell’orecchio noi giu-
Elem. Harm. I, 20, 5 e segg. (ed. R. Da Rios, op. cit., pp. 30-31). 36
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dichiamo le grandezze degli intervalli, per mezzo dell’intelletto ci rendiamo conto del loro valore37. Per lo studioso di scienza musicale è fondamentale l’esattezza della percezione sensibile (ai"sqhsiv), perché non è possibile che chi ha una percezione sensibile deficiente possa spiegare convincentemente dei fenomeni che non ha in nessun modo percepito38. L’essenza e l’ordine, che si mostrano nella melodia armonizzata, non dipendono da nessuna proprietà degli strumenti […]. Ognuno degli strumenti è sotto la sorveglianza della percezione sensibile (ai"sqhsiv), dalla quale dipendono essi e ogni altra cosa in musica39. L’armonizzazione è una prerogativa dell’orecchio (ai"sqhsiv)»40.
Un pitagorico non si sarebbe mai espresso nei termini di Aristosseno, quantunque il trattato del Tarantino non difetti di scientificità, e ciò perché per un pitagorico contavano sopra ogni cosa le analogie con le quali era possibile ricondurre la molteplicità delle esperienze sotto un unico principio o un’unica legge, soprattutto se si trattava di numeri41. A questa mentalità si deve ricondurre il rifiuto di considerare consonanti gli intervalli superiori all’ottava perché non espressi da rapporti epimori, Elem. Harm. II 33, 5 (ed. R. Da Rios, op. cit., p. 47). Elem. Harm. II 33, 23 (ed. R. Da Rios, op. cit., p. 48). 39 Elem. Harm. II 41, 30 e 42, 28 (ed R. Da Rios, op. cit., pp. 62-63). 40 Elem. Harm. II 43, 6 (ed R. Da Rios, op. cit., p. 63). 41 Cfr. Arist. Metaph. N 6, 1093 b 10-17, e, più diffusamente, N 6, 1093 a 12-1093 b 29. 37 38
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così come l’introduzione dell’Antiterra quale decimo pianeta. Ma a un musicista non poteva minimamente importare che un intervallo di undicesima non fosse espresso da un rapporto epimorio: egli l’avrebbe comunque impiegato nelle sue esecuzioni. Ciò rivela come l’atteggiamento aprioristico nei confronti della realtà poteva esser causa, per i pitagorici, di un allontanamento da essa, errore nel quale Aristosseno non volle cadere come teorico, e in cui non poteva incorrere in quanto musico42.
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§ 3. Le medietà e la tetractys
Lo studio delle proporzioni (a\nalogiéai) o medietà (mesoéthtev) fu un impegno costante della scuola pitagorica, dai suoi albori fino ai pitagorici dei secoli V e IV. Questo studio s’inseriva nel più vasto disegno di scoprire ovunque una legge numerica che permettesse di tracciare dei ponti tra gli
Cfr. L. Laloy, op. cit., pp. 59-60. Giustamente W. Burkert, op. cit., p. 384, ricorda che in un rapporto epimorio è «esemplificata l’armonia del Limite e dell’Illimitato. Perciò la teoria musicale pitagorica è intimamente connessa alla cosmologia numerica, e l’importanza del rapporto superparziale deriva dalla sua relazione con la speculazione sui numeri in generale». La verità di questa osservazione ci conferma ancor più nella nostra opinione circa l’impostazione intellettualistica delle teorie musicali dei pitagorici, attenti anzitutto alle corrispondenze numeriche. 42
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enti, di creare collegamenti che potessero tenere insieme la realtà sotto un unico principio o struttura razionale. Le medietà sono «progressioni di tre termini [numerici], tali da dare relazioni di eguaglianza»43. Leggiamo la spiegazione delle medietà fatta da Giamblico, perché egli ricollega esplicitamente la questione al discorso musicale, riportando un importante frammento dal Periè mousikh%v di Archita (VS 47 B 2 DK): Nel libro Della musica […] Archita parlando delle medietà proporzionali scrive così: «Ci sono tre medie nella musica; una è l’aritmetica, seconda la geometrica, terza la subcontraria, che chiamano armonica. Si ha l’aritmetica quando tre termini stanno fra loro in rapporto secondo una data eccedenza; cioè, di quanto il primo supera il secondo, di tanto il secondo supera il terzo [...]. La media geometrica si ha quando i tre termini sono tali, che il primo sta al secondo come il secondo sta al terzo [...]. La media subcontraria, che chiamiamo armonica, si ha quando i termini stanno tra loro così: di quanta parte di sé il primo supera il secondo, di altrettanta parte del terzo il medio supera il terzo.»
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Tre dunque, in origine, le medietà scoperte dai pitagorici: l’aritmetica, in cui i termini successivi a, b, c stanno tra di loro secondo la proprietà c – b = b – a (p. es. i numeri 6, 9, 12: infatti 12 – 9 = 9 – 6); la geometrica, quella che propriamente viene detta proporzione, in cui i termini a, b, c stanno tra 43
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E. Riverso, op. cit., p. 188.
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di loro secondo la proprietà c : b = b : a (p. es. i numeri 2, 4, 8: infatti 8 : 4 = 4 : 2); infine, la subcontraria o armonica, in cui i tre termini a, b, c stanno tra di loro secondo la proprietà (c – b) : (b – a) = c : a (p. es. i numeri 6, 8, 12: infatti (12 – 8) : (8 – 6) = 12 : 6). La cosa per noi rilevante è che Archita trattasse delle medietà in un libro dedicato alla musica, e che quindi lo studio delle medietà fosse imprescindibile, almeno analogicamente, dallo studio della musica. È basandosi sul principio dell’analogia che i pitagorici poterono considerare astronomia, geometria, aritmetica e musica come scienze sorelle44, e tracciare tra loro paralleli a volte geniali – come nel caso dei rapporti numerici corrispondenti agli intervalli musicali –, altre volte forzati – è il caso del cubo, che veniva chiamato armonia, perché realizza la medietà armonica, essendo costituito di 12 lati, 8 angoli e 6 facce45. Sempre Giamblico, nella Vita pitagorica, mostra in che modo i pitagorici collegavano le medietà alla musica: E l’ottava si mostrava in un duplice senso quale un accordo “composto”: ossia quale il prodotto dell’unione di quinta e di quarta (allo stesso modo che il rapporto 2:1 è il prodotto dei rapporti 3:2 e 4:3, cioè 12:8:6), ovvero, al contrario quale il prodotto di quarta e di quinta (al modo 44 Cfr. VS 47 B 1 DK (Archita, da Porph. in Ptolem. Harm. p. 56 Dür.). 45 Cfr. VS 44 A 24a DK (Filolao).
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che il rapporto 2:1 e il prodotto di 4:3 e 3:2, cioè 12:9:6, rapporto nel quale consiste l’ottava)46.
La medietà armonica 12:8:6 rappresentava l’ottava, poiché questa poteva essere scomposta in due 72 3:2 e una quarta 4:3, corrirapporti, una quinta 91 in cui può esser suddivispondenti ai due rapporti sa la medietà armonica; infatti, 12:8 = 3:2 e 8:6 = 4:3. E così l’ottava poteva ancora essere scomposta come somma di una quarta 4:3 e di una quinta 3:2, sicché si aveva, questa volta, una corrispondenza col modo di suddivisione della medietà aritmetica 12:9:6, poiché 12:9 = 4:3 e 9:6 = 3:2. Le medietà aritmetica e armonica consentivano la suddivisione dell’intervallo di ottava in due rapporti disuguali (una quarta e una quinta, appunto); non così la medietà geometrica, che permette solo la divisione di un rapporto in due rapporti uguali47. Accadeva inoltre che le tre medietà potevano essere combinate insieme nella formula 6:8:9:12, così che si avessero le uguaglianze 6:8 = 9:12 e 6:9 = 8:12, esprimenti rispettivamente gli intervalli di quarta e di quinta. Questo «intreccio mirabile di relazioni armoniche» (Timpanaro Cardini) aveva il merito di provare la parentela fra due scienze, l’aritmetica e la musica, a ulteriore conferma dell’intrinseca “maVit. Pyth. 115-118. Cfr. sulla medietà geometrica l’opinione di Platone nel Tim. (31 c). 46 47
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tematicità” del reale. Se poi ci aggiungiamo l’analogia tra cubo e medietà armonica, la parentela si allargava anche alla geometria, e in virtù della teoria dell’armonia celeste, il quadro si completava con l’astronomia. Le tre medietà erano state sperimentate dai primi pitagorici nel corso delle loro esperienze musicali per mezzo di corde, vasi o dischi. Prendendo, per esempio, tre corde, e facendole vibrare l’una per intero, l’altra per i suoi 3:4 (secondo l’accordo di quarta), l’ultima per la sua metà (1:2, secondo l’accordo di ottava), si ottiene una medietà aritmetica; di nuovo, facendo vibrare la prima per intero, la seconda per la sua metà (accordo di ottava), la terza per un suo quarto (1:4, secondo l’accordo di doppia ottava), si ottiene una medietà geometrica; infine, facendo vibrare la prima corda per intero, la seconda per i suoi 2:3 (accordo di quinta), la terza per la sua metà (accordo di ottava), si ottiene una medietà armonica48. Di conseguenza, gli accordi non solamente potevano avere una loro espressione aritmetica secondo le tre medietà, ma potevano anche esser fissati mediante i numeri 1, 2,
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48 Cfr. il frammento musicale di Aristotele (47 Rose), in M. Timpanaro Cardini, op. cit., vol. III, pp. 388-393 (anche in Ead., Il frammento musicale di Aristotele 47 Rose, in «La parola del passato» 85, 1962, pp. 300-312), che riflette le idee musicali d’ispirazione filolaica che il giovane Aristotele poté apprendere alla scuola di Platone.
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3, 4, la cui espressione geometrica, secondo l’uso pitagorico di rappresentare i numeri mediante punti49, è la famosa tetractys:
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I rapporti tra la teoria della tetractys e la musica sono molto ben testimoniati dagli antichi autori50. La tetractys contiene gli intervalli consonanti fondamentali: 2:1 (o anche 4:2) è l’ottava, 3:2 la quinta, 4:3 la quarta, 4:1 la doppia ottava; per questo essa era chiamata anche «armonia»51. E poiché anche i numeri 6, 8, 9, 12 erano adatti a esprimere i rapporti delle consonanze, alcuni autori antichi estendevano il nome tetractys anche alla somma di tali numeri più l’unità, cioè 36, che è pure la somma dei primi quattro numeri pari e dei primi quattro numeri dispari52. Cfr. VS 45 2 DK (Eurito). Un elenco delle fonti si può trovare in A. Delatte, La tétractys pythagoricienne, in Études sur la littérature pythagoricienne, Slatkine Reprints, Genève 1974 (I ed. É. Champion, Paris 1915, Bibliotheque de l’École des hautes études. Sciences historiques et philologiques, 217). 51 Cfr. Iambl. Vit. Pyth., 82: «Cos’è l’oracolo di Delfi? La tetractys, cioè l’armonia, nella quale sono le Sirene». 52 Cfr. excerpt. ex Nicom., 7 in C. Jan, Musici scriptores graeci, Hildeschein 1962, p. 279; A. Delatte, op. cit., pp. 255-257. 49 50
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§ 4. La scala musicale del Timeo (35 b-36 b)
Parlando della costituzione del mondo (o| e\soémenov qeoév, «il dio che sarà») ad opera del «dio che sempre è» (o| a\eiè w!n qeoév), Platone introduce nel
Timeo un discorso musicale di notevole importanza. Dopo aver parlato del modo in cui il dio ha pensato il mondo per il suo aspetto materiale (32 c-34 b), Platone passa a esporre il processo costitutivo dell’anima del mondo, la parte più importante e direttrice del tutto. È a questo punto (35 b) che, discutendo della divisione dell’anima cosmica in parti, si serve di uno schema numerico derivato dalle teorie musicali del suo tempo, in modo che l’anima del mondo risulti composta secondo le leggi dell’armonia musicale. Leggiamo il testo:
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[Il dio] cominciò a dividere così: prima tolse dal tutto una parte, dopo di questa tolse una doppia della prima, quindi una terza, una volta e mezzo più grande della seconda e il triplo della prima, poi una quarta doppia della seconda, una quinta tripla della terza, una sesta che era otto volte la prima, una settima ventisette volte più grande della prima. Dopo di ciò, riempì gli intervalli (diasthémata) doppi e tripli, tagliando ancora dal tutto altre parti e ponendoli in mezzo a questi intervalli, sicché in ciascun intervallo vi fossero due medi (mesoéthtev), e uno superasse gli estremi e fosse superato della stessa frazione di ciascuno di essi, mentre l’altro superasse e fosse superato dallo stesso numero. Originandosi da questi legami nei precedenti intervalli nuovi intervalli di uno e mezzo (h|mioé-
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Alessandro Barbone lion), di uno e un terzo (e\piétriton), e di uno e un ottavo (e\poégdoon), riempì tutti gli intervalli di uno e un terzo con
l’intervallo di uno e un ottavo, lasciando una piccola parte di ciascuno di essi, in modo che l’intervallo lasciato di questa piccola parte fosse definito dai valori di un rapporto numerico, come duecentocinquantasei sta a duecentoquarantatré53.
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La serie numerica che risulta dal passo platonico, mediante la quale il dio ha diviso l’anima del mondo, è 1, 2, 3, 4, 8, 9, 27. Secondo un’antichissima tradizione che risale addirittura al primo commentatore del Timeo, Crantore54, tutti i successivi commentatori hanno rappresentato la serie numerica del Timeo disponendo i numeri in forma di triangolo mancante di base, o di lambda, al modo che segue: 1 2 3 4 9 8 27 Salta subito agli occhi che la figura in questione, sostituendo al posto dei numeri i punti, non è altro che la tetractys pitagorica. Per quel che riguarda i
Tim. 35 b-36 b. Per le fonti di questa notizia, cfr. A. E. Taylor, A commentary on Plato’s Timaeus, Clarendon Press, Oxford 1928, p. 137; cfr. anche F. M. Cornford, Plato’s cosmlogy, Routledge and Kegan, London 1937, pp. 66-70. 53 54
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numeri, si tratta di due serie geometriche (1, 2, 4, 8 e 1, 3, 9, 27), la prima costituita da intervalli doppi (diplaésioi), la seconda da intervalli tripli (triplaésioi). È opinione che Platone abbia voluto attribuire alla serie numerica 1, ..., 27 un significato musicale55: il nostro filosofo, nell’ambito di un mito cosmologico connesso alla teoria pitagorica dell’armonia celeste, volle rappresentare in quei numeri le distanze tra i pianeti. Tratteremo più dettagliatamente la questione nel III capitolo di questo nostro lavoro, che avrà per tema proprio l’armonia celeste; qui basti dire che il debito che Platone dové alla tradizione matematica pitagorica si evince anche da questo passo del Timeo, dove il filosofo ateniese assegna astrattamente e aprioristicamente alle distanze tra i pianeti dei numeri che hanno il solo pregio di rispettare delle proprietà matematiche, ma non hanno niente a che vedere con effettiCfr. A. E. Taylor, op. cit., pp. 138-140. L’idea del Taylor è che il numero 27 possa essere pensato come un rapporto 27:1, e che tale rapporto esprima un intervallo musicale costituito di quattro ottave più una quinta più un tono maggiore (16:1 + 3:2 + 9:8 = 27:1). La scala di Platone risulterebbe assai più ampia di quella ammessa da Aristosseno circa un secolo più tardi, la quale si estendeva per due ottave e una quinta; questo elemento rende problematica l’interpretazione della serie numerica del Timeo come rappresentazione di una scala musicale, conoscendo le riserve che frequentemente Platone ha espresso sull’evoluzione musicale, accusata di corrompere i costumi: come poteva poi lui stesso essere artefice di un ampli55
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ve misurazioni astronomiche o con scale musicali praticamente impiegate ai suoi tempi. L’unico vero obiettivo del pitagorico Platone è ritrovare nell’ordinamento divino dell’universo il koésmov tanto osannato dalla scuola italica, e il solo modo che un pitagorico concepiva per descrivere l’ordine era esprimerlo mediante numeri e proprietà matematiche. Il testo prosegue con l’esposizione delle relazioni matematiche in base a cui il demiurgo procedette alla suddivisione degli intervalli tra le parti, cioè tra i pianeti: si tratta delle due medietà tradizionalmente riscontrate dai pitagorici nei rapporti degli intervalli musicali, la medietà armonica e la medietà aritmetica, con le quali, dice il testo, vengono «riempiti» gli intervalli doppi e tripli, in modo che ciascun intervallo sia diviso da un medio armonico e da uno aritmetico. Che significa tutto questo discorso? Che ognuno degli intervalli iniziali (1:2, 1:3, ecc.) si trova suddiviso in intervalli più piccoli, secondo i rapporti 3:2 (h|mioélion), 4:3 (e\piétriton) e
amento della scala così notevole?! Si può allora ipotizzare che qui Platone abbia semplicemente voluto offrire, nell’ambito del mito, un modello matematico del cosmo, senza troppo soffermarsi sulle sue implicazioni musicali, che invece sono il principale obiettivo nella ulteriore suddivisione degli intervalli, la quale rispetta perfettamente la scala musicale di Filolao. Cfr. pure F. M. Cornford, op. cit., pp. 66-70; L. Brisson, Platon. Timée, Critias, Flammarion, Paris 1992, pp. 284-287; P. Varvaro, Studi su Platone, 2 voll., Mori, Palermo 1965-1967, vol. II, pp. 1540-1564.
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9:8 (e\poégdoon), che sono rispettivamente i rapporti degli intervalli di quinta, di quarta e di tono. E volendo procedere all’ennesima suddivisione, il dio «riempì» gli intervalli maggiori (3:2 e 4:3) con tante volte quello minimo (9:8), in modo che da quest’ultima divisione risultasse ancora un’altra piccola parte, la più piccola questa volta, pari a 256:243, che non è altro che la diesis. A questo punto il demiurgo dovette rendersi conto che non era possibile andare avanti nella suddivisione dell’anima del mondo, e perciò si fermò qui. Secondo quanto abbiamo appreso analizzando il frammento filolaico VS 44 B 6 DK, questa suddivisione utilizzata da Platone era proprio quella teorizzata da Filolao, la quale aveva evidentemente fatto scuola ed era stata assunta come suddivisione canonica dell’ottava56. Del resto Proclo, nel suo commento al Timeo, non mancò di notare che «la maggior parte dei termini [degl’intervalli] scritti nel Timeo derivano manifestamente da Filolao»57. Platone, per il quale l’uomo a\coéreustov, cioè non educato nella coreiéa (l’insieme di danza, canto e musica), è assolutamente a\paiédeutov, cioè non educato affatto58, doveva ben conoscere le teorie Cfr. P. Tannery, op. cit., pp. 241-242, e C. A. Huffman, op. cit., pp. 149-151. 57 VS 44 A 26a DK. 58 Leg. II, 654 a. Cfr. E. Moutsopoulos, La musica nell’opera di Platone, trad. it. di F. Filippi, Vita e Pensiero, Milano 2002, 56
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musicali dei massimi esperti in materia, cioè i pitagorici, e quindi il modo da essi adottato di suddividere l’ottava in toni e semitoni. Questo discorso ci conferma nell’opinione che le teorie musicali dei pitagorici, se avevano fatto presa su Platone, dovevano senza alcun dubbio godere di una stabile e inconcussa autorevolezza, la quale, per mezzo dell’adesione da parte di un filosofo del calibro dell’Ateniese, da autorevolezza dovette diventare presto autorità, fissandosi in numerosi trattati, quali quelli di Aristosseno e Euclide.
pp. 186-252 (tit. orig. La musique dans l’oeuvre de Platon, Presses Universitaires de France, Paris 1959); J. Stenzel, Platone educatore, trad. it. di E. Gabrielli, Laterza, Bari 1936, pp. 60-78 (tit. orig. Plato der Erzieher, Meiner, Leipzig 1928).
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MUSICA E FISICA: L’ACUSTICA PITAGORICA Alternando questo e quello Pesantissimo martello Fa con barbara armonia Muri e volte rimbombar.
G. Rossini, Il barbiere di Siviglia
§ 1. La natura del suono
Vogliamo ora trattare delle teorie acustiche dei pitagorici, di cosa essi pensassero della natura del suono, del suo modo di produzione, propagazione e ricezione. Nei trattati di musica dell’antichità, dal presunto Loégov periè mousikh%v di Laso di Ermione agli Elementa Harmonica di Aristosseno, dalla Sectio canonis di Euclide all’Armonica di Tolomeo, dall’Introduzione armonica di Euclide al Trattato musicale di Teone di Smirne: tutti hanno affrontato, accanto alle questioni degli intervalli musicali e dei loro rap-
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porti numerici, anche argomenti di fisica del suono. Un esempio ci servirà a chiarire quanto le questioni musicali implicassero riflessioni di ordine fisico: il fenomeno dei suoni consonanti, sperimentato nell’ascolto durante gli spettacoli, o nelle esperienze acustiche di laboratorio, originava il problema di come intendere la consonanza dal punto di vista fisico – se cioè i due suoni consonanti si fondono in un terzo suono, o altro. Le fonti antiche sono meno generose riguardo alle questioni di fisica del suono, tuttavia sufficienti per avere un’idea precisa di ciò che i pitagorici intendessero per suono (fqoéggov, fwnhé). Anzitutto, secondo quanto abbiamo detto nel capitolo precedente, il postulato dell’acustica pitagorica, comune a tutti gli esponenti della scuola, è che il suono è una cosa esprimibile in numeri – anzi, è la cosa che possiede per eccellenza tale proprietà. Prodotti da corde o da canne, da vasi o da dischi, od anche da una pietra che cade a terra, i suoni sono l’effetto di un urto (plhghé): si può credere che quest’immediata e intuitiva costatazione sia anteriore alla scuola pitagorica. I pitagorici, dal canto loro, posero l’accento, oltre che sull’essenza numerica del suono, sul fatto che per comprenderne la natura fisica fosse necessario il riferimento al movimento (kiénhsiv), in rapporto al quale è determinata l’altezza dei suoni. La testimonianza sugli esperimenti coi vasi di
MUSICA E FISICA: L’ACUSTICA PITAGORICA
Laso o Ippaso contiene un’importantissima notizia circa le teorie del suono dei primi pitagorici: Queste consonanze alcuni pensarono di ottenerle da [rapporti di] pesi, altri da grandezze, altri da movimenti e da numeri (a\poè kinhésewn kaiè a\riqmw%n), altri da oggetti cavi. Laso di Ermione, come si racconta, e la scuola di Ippaso Metapontino, uomo pitagorico, seguirono il criterio della varia velocità e lentezza dei movimenti, da cui risultano le consonanze (tw%n kinhésewn taè taéch kaiè taèv braduth%tav di} w/n ai| sumfwniéai)*** ritenendo che tali rapporti si trovino nei numeri, ricorreva a dei vasi. Presili ecc.1
Il concetto che qui c’interessa è quello della velocità dei movimenti sonori, messa in rapporto all’altezza dei suoni. Non pochi interpreti rendono il termine kinhéseiv del passo di Teone con «vibrazioni» o «moti vibratori»2: questa traduzione ci porterebbe a credere che l’altezza dei suoni, e quindi le consonanze, variasse, secondo l’opinione di Laso e Ippaso, al variare della velocità delle vibrazioni. Ma la teoria che mette in rapporto l’altezza dei suoni alla velocità delle vibrazioni è, secondo VS 18 A 13 DK (Theo Smyrn. p. 59, 4 Hiller). M. Timpanaro Cardini, Pitagorici... cit., vol. I, p. 101; A. Maddalena, op. cit., p. 103; A. Lami, I presocratici, Rizzoli, Milano 1997³, pp. 173-175. G. Comotti, op. cit., pp. 23-24, pur traducendo l’espressione a\poè kinhésewn kaiè a\riqmw%n «da movimenti e numeri», spiega: «e qui l’allusione è certamente al moto dei corpi che genera il suono, cioè alla vibrazione, e ai rapporti di frequenza». 1 2
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noi, ignota nei secoli VI e V. Perciò il termine kinhéseiv del passo di Teone non deve essere inteso nel
significato di «vibrazioni», ma di «movimenti di traslazione» del suono3. Infatti, è proprio questa la teoria degli antichi pitagorici, conservata ancora nel Timeo platonico4, circa la causa dell’altezza del suono: essa dipende dalla velocità con cui il suono percorre lo spazio frapposto tra il corpo sonoro e l’organo uditivo. Su questa posizione ci consolida la teoria pitagorica dell’armonia celeste, a cui dedicheremo il prossimo capitolo, la quale c’induce a ritenere che i pitagorici credettero che ad essere determinante per l’altezza del suono fosse la velocità del suo movimento di propagazione5. In tal senso va letta la testimonianza di Alessandro di Afrodisia secondo la quale, per i pitagorici, «(i pianeti) producono nel muoversi un suono, grave i più lenti, acuto i più veloci»6.
Tratteremo più diffusamente l’argomento alle pp. 69-77. Cfr. infra pp. 63-64, 69. 5 Cfr. A. Privitera, op. cit., p. 71; F. Lasserre, Plutarque. De la musique. Texte, traduction, commentaire, précédés d’un étude sur l’éducation musicale dans la Grèce antique, Urs Graf-Verlag, Olten-Lausanne 1954, p. 37; L. Laloy, op. cit., p. 144. 6 Alex. ad h. l. p. 38, 10 Hayduk, in M. Timpanaro Cardini, Pitagorici... cit., vol. III, p. 67. 3 4
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§ 2. L’acustica di Archita
Le fonti più discusse circa le teorie di fisica del suono dei pitagorici riguardano il tarantino Archita. Per comodità vogliamo riportarle in blocco qui di seguito:
test. 1) Porfirio, Commento all’Armonica di Tolomeo (VS 47 A 18 DK):
Dicevano Archita e i suoi scolari che nelle consonanze si percepisce con l’udito un solo suono.
test. 2) Aristotele, De sensu 448 A 19 (aggiunto da Timpanaro Cardini al VS 47 A 18 DK): Quanto a quello che affermano coloro che studiano le consonanze, che cioè i suoni non giungono proprio simultaneamente, ma sembrano, perché ci sfugge l’intervallo di tempo quando sia insensibile, è cosa giusta o no?
test. 3) Teone di Smirne, Trattato musicale (VS 47 A 19a DK): Eudosso e Archita ritenevano che le consonanze consistono in rapporti numerici, e anche concordavano nel pensare che tali rapporti sono tra movimenti, e che il movimento veloce dà il suono acuto in quanto percuote ininterrottamente l’aria e più celermente la urta, il lento dà il suono grave in quanto è più tardo.
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test. 4) Porfirio, Commento all’Armonica di Tolomeo (VS 47 B 1 DK): [Archita] al principio del suo libro Sulla matematica dice così: «[Gli studiosi di scienze matematiche] osservarono che non può esserci rumore senza che si produca un urto di cose tra loro. E l’urto, dicevano, avviene quando cose in movimento, incontrandosi, battono l’una contro l’altra. Quando dunque cose che si muovono in direzioni opposte s’incontrano e si frenano a vicenda, oppure quando, muovendosi alla medesima direzione, ma con velocità disuguale, sono raggiunte dalle sopraggiungenti, allora urtandosi producono rumore. Molti di questi rumori non possono essere percepiti dalla nostra natura, alcuni per la debolezza dell’urto, altri per la grande distanza da noi; alcuni anche per l’eccesso stesso della loro intensità; perché non penetrano nel nostro orecchio i rumori troppo grandi, così come anche nel collo stretto di un vaso, quando vi si versi qualcosa in massa, nulla vi entra. Dei suoni poi che percepiamo, quelli prodotti da urti rapidi e forti si sentono acuti; quelli prodotti da urti lenti e deboli, si sentono gravi. Così, se uno prende una verga e l’agita di moto lento e debole, produrrà con l’urto un suono grave; se di moto veloce e con forza, un suono acuto. Né solo da questa prova possiamo rendercene conto, ma anche dal fatto che quando vogliamo, parlando o cantando, emettere una voce forte e acuta, mandiamo fuori il fiato con forza […]. Lo stesso avviene anche per le voci: a quella emessa con forza di fiato avviene d’esser intensa ed acuta; a quella con fiato debole, esile e grave […]. Eppoi anche negli auli: il soffio emesso dalla bocca quando incontra i fori a lei vicini, per il forte impulso produce un suono più acuto; quando nei fori lontani, un suono più grave. Sicché risulta evidente che il movimento rapido rende acuto il suono, il lento lo rende grave.»
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E dopo aver detto altre cose sulla proprietà del movimento sonoro di essere regolato da intervalli, egli riassume il suo discorso così: «Che dunque i suoni acuti hanno moti più rapidi, e quelli gravi più lenti, è un fatto che risulta chiaro da molti esempi.»
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Le prime due testimonianze c’introducono al problema di come intendere la consonanza (sumfwniéa) di due suoni dal punto di vista fisico, questione che dovette sorgere prestissimo nella scuola pitagorica, se non verosimilmente essere anteriore ad essa. Il passo del De sensu di Aristotele testimonia di una disputa tra i teorici musicali: era ammissione comune che i due suoni di una consonanza, in origine distinti, sono percepiti dall’udito finalmente come un unico suono, dal quale fenomeno derivava anche il nome di sumfwniéa (suono simultaneo); ma, stando ad Aristotele, c’era chi metteva in dubbio una tale spiegazione basata sul senso comune, sostenendo che i due suoni, pur essendo percepiti simultaneamente, in realtà giungono all’orecchio in due istanti distinti, benché talmente vicini da sembrare appunto coincidenti. Ora, questa obiezione muoveva proprio da quella teoria cui abbiamo accennato poco sopra, e cioè dal fatto che ai suoni di diversa altezza tutti i teorici attribuivano velocità di propagazione differenti, e precisamente consideravano più veloci i suoni acuti, più lenti i gravi. Questa teoria, da Teone di Smirne attribuita
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ad Archita (test. 3), la si ritrova identica in un decisivo frammento del Tarantino, riportato da Porfirio (test. 4). Dobbiamo tuttavia notare, per evitare equivoche attribuzioni, che il frammento B 1 di Archita è in realtà esso stesso, a nostro avviso, una testimonianza su teorie e personaggi anteriori ad Archita: nella parte che precede il passo da noi citato, Archita elogia i contributi che gli antichi studiosi hanno apportato alle discipline matematiche (le quattro scienze sorelle: astronomia, aritmetica, geometria e musica), prima di esporre in dettaglio le loro teorie di fisica del suono – architei possono essere considerati al massimo alcuni degli esempi che illustrano e giustificano quelle teorie7. Il contenuto essenziale del frammento B 1 di Archita non è certamente ascrivibile a una personale scoperta del filosofo di Taranto: egli è fin troppo esplicito nell’indicare i padri di tali scoperte negli «studiosi di scienze matematiche» (oi| periè taè maqhémata), cioè nei pitagorici che lo hanno preceduto8. Anteriore ad Archita, dunque, è la teoria del suono come movi7 Cfr. A. Olivieri, Su Archita tarantino, in Civiltà greca dell’Italia Meridionale, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1931, pp. 74-79. 8 Espressioni come pareédwkan a|mi%n, e\skeéyanto, e"fan, che hanno tutte come soggetto oi| periè taè maqhémata, fanno chiaro riferimento agli antichi pitagorici precursori di Archita, a quelli che prima di lui si sono occupati di astronomia, aritmetica, geometria e musica, considerandole scienze sorelle in virtù del fatto che tutte mettono capo al numero. Uno scolio greco al
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mento, anteriore ancora la teoria delle differenti velocità di propagazione dei suoni di diversa altezza: un urto potente muove l’aria circostante con maggior veemenza, imprimendole maggiore velocità e provocando in tal modo un suono più acuto rispetto a un urto debole che, movendo meno aria e con minore velocità, genera un suono più grave. Questa teoria la ritroviamo pressoché identica nel Timeo di Platone, né ciò può stupire, vista la frequenza con cui nel pensiero platonico si affacciano motivi di manifesta derivazione pitagorica: In base a questo principio [del movimento impresso all’aria] si devono spiegare i fenomeni che riguardano le ventose mediche, la deglutizione e la traiettoria dei corpi che vengono sollevati in aria o rotolano sulla terra, e ancora i suoni che possono apparire rapidi o lenti, acuti o gravi, che ora sono discordanti perché non si accordano con il movimento che essi provocano in noi, ora in accordo perché vi è uniformità. Quando infatti i movimenti dei suoni mossi per primi e più rapidi stanno per cessare e farsi simili ai suoni più lenti, questi li raggiungono e giungendo dopo
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Timeo (24 c) di Platone spiega il termine maqhémata così: gewme-
triéa, a\stronomiéa, logistikhé, a\riqmhtikhè kaiè ai| tauétaiv suggenei%v, (M. Naddei Carbonara, Gli scolii greci al Timeo di Platone, Ferraro, Napoli 1979, p. 28): queste discipline sono dette suggenei%v perché hanno un geénov comune, il numero appunto. Di
opinione affatto diversa è M. Timpanaro Cardini, Pitagorici... cit., vol. II, p. 326, in nota, e p. 365, in nota, secondo la quale ad Archita andrebbe ascritta l’intuizione che l’altezza del suono dipende direttamente dalla velocità del movimento.
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imprimono un altro nuovo movimento, e quando li raggiungono non li turbano, perché non imprimono un diverso movimento, ma l’inizio del movimento più lento viene ad assimilarsi a quello del più rapido che finisce, procurando un’unica impressione che deriva dal combinarsi del suono acuto con quello grave9.
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Platone intende spiegare le ragioni acustiche e fisiologiche del fenomeno della consonanza, e a tale scopo ricorre proprio alla teoria delle velocità di propagazione dei movimenti sonori. Questo passo platonico offre una soluzione del problema di fisica del suono contenuto nel De sensu aristotelico. Al di là degli errori contenuti in questa spiegazione, che non tiene conto del fatto che i suoni anche di diversa altezza si propagano tutti alla stessa velocità (né Platone poteva saperlo), essa testimonia di un postulato per quei tempi imprescindibile per chi si fosse accinto a trattare il fenomeno suono: ai suoni acuti corrispondono movimenti sonori di maggiore velocità, di minore ai suoni gravi. Quelli citati nel De sensu, ai quali Platone s’ispira per la sua teoria nel Timeo, vale a dire «coloro che – come dice Aristotele – si sono occupati dello studio delle consonanze» (tinev tw%n periè taèv sumfwniéav), cioè i pitagorici e Archita fra loro, pensarono di risolvere il serio problema delle consonanze ricorrendo a un difetto di percezione: la velocità dei suoni è talmen9
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Tim. 79 e-80 b.
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te elevata – e che sia così lo si ricava facilmente considerando che il suono prodotto da una corda viene percepito praticamente nello stesso istante in cui è prodotto, benché logicamente e cronologicamente si debba ammettere tra i due eventi una successione – dicevamo, la velocità dei suoni è talmente elevata che lo scarto temporale tra i due suoni di una consonanza non può essere avvertito, e perciò essi sembrano simultanei. Platone attinse la teoria del suono come movimento dall’ambiente culturale pitagorico: non sarebbe troppo supporre che ancora una volta Archita sia stato l’intermediario tra la scuola e l’Ateniese. E altrettanto evidente è l’origine delle teorie fisiologiche utilizzate da Platone nel passo del Timeo: esse risalgono ai medici del V sec., in particolare se ne trova un’eco in una testimonianza di Teofrasto sul pensiero di Alcmeone, tradizionalmente considerato vicino al primo pitagorismo: Dice che si ode mediante le orecchie perché in esse c’è vuoto (kenoén); questo risuona (a sua volta la voce viene emessa da una cavità) e l’aria la ripercuote10.
Il vuoto che Alcmeone diceva esserci nella cavità auricolare è evidentemente l’aria, che è in comunicazione con l’aria esterna e da essa riceve il movimen10
VS 24 A 5 DK. Cfr. anche VS 24 A 6 DK.
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to. Quest’interpretazione è suffragata da un’analoga teoria presente nel De anima di Aristotele: Il vuoto si dice giustamente causa determinante dell’udire perché si crede che il vuoto sia l’aria e questa produce l’udire quando è posta in movimento essendo continua e una […]. C’è dell’aria naturalmente unita all’organo dell’udito e, per essere l’orecchio nell’aria, quando è mossa l’aria esterna, è mossa quella interna11.
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Non possiamo dire se la fisiologia del Timeo fosse condivisa anche da Archita, perché le fonti non ci permettono di avanzare un’ipotesi al riguardo. Tuttavia si può affermare con certezza assoluta che Archita abbia almeno riconosciuto nell’aria il mezzo di propagazione del suono; crediamo di poter sostenere una tale tesi, perché essa è supportata da una serie di prove indirette: prima fra tutte il passo su Alcmeone, ricordato poco sopra, nel De anima 8, 420 a. La stessa teoria è contenuta nel numero 29 dei Problemi di fonazione e acustica di scuola aristotelica (Aristotele, Problemi di fonazione e acustica, a cura di G. Marenghi, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1962, p. 55): «Perché sbadigliando si sente meno? La ragione non sarà che molto del fiato emesso nello sbadiglio va a finire anche entro le orecchie, sì che il movimento, che questo fiato provoca nel condotto uditivo, è avvertito distintamente dal senso, specialmente al risveglio? Il suono è aria o modificazione di essa. Ora, il suono esterno entra nell’orecchio mentre quello interno lo contrasta, e però lo spostamento di aria (interna) respinge il movimento e il suono esterno». 11
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quale si afferma che la percezione uditiva è resa possibile dalla trasmissione del movimento sonoro dall’aria esterna all’aria interna alla cavità auricolare: se questa teoria è accolta immutata nel De anima di Aristotele, crediamo dovesse godere di indiscussa autorità. Ma argomenti probanti per la nostra tesi risultano essere gli esempi che lo stesso Archita riporta nel VS 47 B 1 DK (test. 4): se il suono è prodotto da un urto, la verga che viene fatta oscillare in aria cosa urta, se non l’aria? L’aria, dunque, in questo come negli altri casi, è il mezzo di propagazione del suono: Archita riteneva che le particelle di aria, urtandosi tra di loro, trasmettono il suono sino all’orecchio e al cervello. Del resto questa teoria ci pare sottintesa anche nel Timeo platonico; ma dov’è illustrata con assoluta nettezza è in due testi aristotelici: nel numero 6 dei Problemi di fonazione e acustica e nel De anima (8, 420 a): […] Lo spostamento d’aria produce il suono (o| a\hèr o| feroémenov poiei% toèn yoéfon); e come ciò che per primo ha
mosso l’aria causa suono, così occorre che faccia a sua volta l’aria mossa, e sempre ci sia aria che muove ed altra che è mossa. Perciò il suono è continuo, in quanto aria movente sottentra ininterrottamente ad aria movente, finché non si esaurisca il processo: e questo, nel caso dei gravi, corrisponde alla caduta, ove l’aria non sia più in grado di spingere in questo caso la freccia e, nel caso del suono, altra aria. Il suono, infatti, diventa continuo quando aria sospinge aria, mentre la freccia procede quando il corpo è mosso da aria. In questo caso, quindi, è sempre il medesimo
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corpo che procede finché cade, e in quello sono strati sempre differenti di aria. E all’inizio corpi più piccoli si muovono più velocemente, ma per poco: perciò le voci da lontano sono più acute e sottili, ché moto più veloce dà suono acuto, come si è già discusso12.
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Sonoro è dunque il corpo capace di muovere una massa di aria che sia una per continuità fino all’udito.
In riferimento alla teoria secondo cui l’altezza dei suoni varia al variare della loro velocità di propagazione, la testimonianza aristotelica del De sensu completa il passo platonico del Timeo: a chi avesse obiettato che il suono più veloce e acuto, giungendo all’orecchio prima del suono lento e grave, dovrebbe esser percepito distintamente prima di fondersi con l’altro suono in un terzo suono (la consonanza appunto), si sarebbe potuto rispondere che l’intervallo di tempo tra l’arrivo dei due suoni è talmente piccolo, benché reale, da sembrare inesistente per l’orecchio. Proprio in quanto la teoria imponeva l’esistenza di uno scarto temporale tra l’arrivo dei due suoni, si doveva risolvere il problema, e lo si risolse facendo appello all’insufficienza della facoltà uditiva, quella stessa insufficienza Quasi tutti i Problemi di fonazione e acustica sono risolti adducendo come argomentazione il principio dell’aria che, mossa più o meno velocemente, dà suoni più o meno acuti. Cfr. soprattutto il probl. 29: «il suono è aria o modificazione di essa (o| deè fqoéggov a\hér, h! paéqov a\eérov, e\stién)». 12
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deprecata da Archita nel passo riportato da Porfirio (test. 4), a causa della quale noi non percepiamo i suoni troppo intensi. Lo stesso principio delle velocità dei movimenti sonori – eco architea o, più in generale, di teorie comuni all’epoca – Platone lo aveva enunciato sempre nel Timeo qualche pagina prima: Stabiliamo allora in sintesi che il suono è quell’urto che viene trasmesso attraverso le orecchie, mediante l’aria, e il cervello, e il sangue, fino all’anima, e che il movimento ricevuto da quest’urto, che comincia dalla testa e termina dove il fegato ha la sua sede, è l’udito: se il movimento è veloce il suono è acuto, se è più lento il suono è più grave, se il movimento è uniforme il suono è omogeneo e dolce, se è tutto il contrario il suono è aspro; se il movimento è grande il suono è forte, in caso contrario è debole13.
§ 3. La natura del movimento sonoro
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È opportuno riprendere la questione della natura del movimento sonoro (kiénhsiv), trattando più approfonditamente le fonti che ci servono per avvalorare la nostra tesi, secondo la quale quando i pitagorici collegano l’altezza dei suoni, acuti o gravi, alla varia velocità dei movimenti sonori, intendono parlare della velocità di propagazione del suono, e non della velocità di vibrazione del corpo risonante. Tim. 67 a-c.
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Dal movimento gli antichi pitagorici dissero dipendere l’altezza dei suoni: più veloci i suoni acuti, più lenti i gravi. Oggi sappiamo che l’altezza dei suoni non dipende dalla velocità di propagazione, che è invariabile in riferimento alle stesse condizioni del mezzo di propagazione e dell’ascoltatore, ma dalla frequenza del moto vibratorio del corpo risonante: a frequenze più elevate, dunque a velocità maggiori del movimento vibratorio, corrispondono suoni più acuti, viceversa a frequenze più lente corrispondono suoni più gravi. La domanda che ora ci dobbiamo porre è questa: ci sono fonti o testimonianze che autorizzano a credere che i pitagorici, a un certo punto, intuirono la differenza tra le due velocità, quella di propagazione e quella di vibrazione, sì da far dipendere l’altezza del suono dalla seconda? Alcuni studiosi ritengono che non si possa parlare di frequenza di vibrazioni dei corpi sonori per gli antichi pitagorici14, ma secondo altri il problema della distinzione delle due velocità sarebbe stato avvertito già da Archita15.
Cfr. R. Da Rios, op. cit., p. 106; W. Burkert, op. cit., p. 379. È questa la tesi di M. Timpanaro Cardini, Pitagorici... cit., vol. II, pp. 331-335, in nota, e di P. Tannery, op. cit., p. 248. V. Capparelli, op. cit., vol. II, p. 639, ritiene che la scoperta della frequenza del movimento vibratorio compiuta da Archita sia connessa alla sua invenzione di un giocattolo che Aristotele (Pol. 1340 b) chiama col termine plataghé, crepitacolo: «un giuocattolo tutt’ora diffuso nell’Italia meridionale anzi in tutta 14
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La domanda che per i teorici antichi doveva risultare più assillante era questa: in che modo i due suoni di una consonanza, se si propagano con velocità differenti, giungono all’orecchio nello stesso momento? Le soluzioni al problema potevano essere varie: una è quella del Timeo platonico, che prevede uno scarto di tempo tra l’arrivo dei due suoni, le cui velocità tendono poi a equipararsi e a fondersi in un unico suono16. Un’altra, che tiene conto dello stesso principio, è quella secondo cui i due suoni non arrivano all’orecchio proprio simultaneamente, ma talmente vicini da sembrare simultanei17. Italia, e che consiste essenzialmente in una ruota dentata che girando fa scattare una linguetta di legno e che col rapido scorrere della ruota può generare un suono la cui altezza varia colla velocità di rotazione» (Capparelli). Secondo il Capparelli, con questo strumento Archita e il suo discepolo Eudosso sarebbero stati addirittura in grado di misurare «in modo sufficientemente approssimativo» le vibrazioni relative ai suoni di diversa altezza. W. Burkert, op. cit., p. 379, nota 44, considera invece molto dubbia questa ipotesi del Capparelli. 16 Cfr. supra pp. 63-64. 17 Arist. De sensu, 448 A 19, cfr. supra p. 59. Un’altra ipotesi, che invalida il criterio della diversa velocità di propagazione, è quella proposta da Teofrasto, secondo il quale i due suoni di una consonanza i\sotacou%sin a"mfw, «hanno entrambi la stessa velocità» (Porph. in Ptol. harm. pp. 64, 20 e segg. Düring; cfr. M. Timpanaro Cardini, Pitagorici... cit., vol. II, pp. 327-328, in nota): se i due suoni di una consonanza si percepiscono simultaneamente, allora sono in effetto simultanei, non si propagano cioè a diverse velocità. Come dar conto allora della diversa altezza dei suoni? Forse Teofrasto aveva intuito che la velocità
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Ora, come la pensava Archita? Per dirimere la questione confrontiamo tre fonti decisive:
Laso di Ermione, come si racconta, e la scuola di Ippaso Metapontino, uomo pitagorico, seguirono il criterio della varia velocità e lentezza dei movimenti, da cui risultano le consonanze18.
Eudosso e Archita ritenevano che le consonanze consistono in rapporti numerici, e anche concordavano nel pensare che tali rapporti sono tra movimenti, e che il movimento veloce dà il suono acuto in quanto percuote ininterrottamente e più celermente urta l’aria, il lento dà il suono grave in quanto è più tardo19.
Dei suoni poi che percepiamo, quelli prodotti da urti rapidi e forti si sentono acuti; quelli prodotti da urti lenti e deboli, si sentono gravi. Così, se uno prende una verga e l’agita di moto lento e debole, produrrà con l’urto un suono grave; se di moto veloce e con forza, un suono acuto
determinante per l’altezza dei suoni non è quella di propagazione, ma del moto vibratorio? Di sicuro Euclide, suo contemporaneo, conosceva questa verità. Se una tale intuizione può essere attribuita anche a Teofrasto, essa poté verosimilmente sorgergli da un ragionamento circa il fenomeno della consonanza. 18 Theo Smyrn. p. 59, 4 Hiller (VS 18 A 13 DK): La%sov deè
o| {Ermioneuév, w$v fasi, kaiè oi| periè toèn Metaponti%non ‘Ippason Puqagorikoèn a"ndra suneépesqai tw%n kinhésewn taè taéch kaiè taèv braduth%tav di} w/n ai| sumfwniéai. 19 Theo Smyrn. p. 61, 11 Hiller (VS 47 A 19a DK; Timpanaro Cardini 47 A 18b): oi| deè periè Eu"doxon kaiè }Arcuétan toèn loégon tw%n
sumfwniw%n e\n a\riqmoi%v w"ionto ei&nai o|mologou%ntev kaiè au\toiè e\n kinhésesin ei&nai touèv loégouv kaiè thèn meèn tacei%an kiénhsin o\xei%an ei&nai a$te plhéttousan suneceèv kaiè w\kuéteron kentou%san toèn a\eéra, thèn deè bradei%an barei%an a$te nwqesteéran ou&san.
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[...]. Eppoi anche negli auli: il soffio emesso dalla bocca quando incontra i fori a lei vicini, per il forte impulso produce un suono più acuto; quando nei fori lontani, un suono più grave. Sicché risulta evidente che il movimento rapido rende acuto il suono, il lento lo rende grave20.
Per descrivere le teorie del suono di Laso e Ippaso prima, di Eudosso e Archita poi, Teone usa gli stessi concetti: tauétav deè taèv sumfwniéav [...] h\xiéoun lambaénein [...] a\poè kinhésewn kaiè a\riqmw%n (Laso e Ippaso) e toèn loégon tw%n sumfwniw%n e\n
a\riqmoi%v w"ionto ei&nai o|mologou%ntev kaiè au\toiè e\n kinhésesin ei&nai touèv loégouv (Eudosso e Archita); suneépesqai tw%n kinhésewn taè taéch kaiè taèv braduth%tav di} w/n ai| sumfwniéai (Laso e Ippaso) e thèn meèn tacei%an kiénhsin o\xei%an ei&nai a$te plhéttousan suneceèv kaiè w\kuéteron kentou%san toèn a\eéra, thèn deè bradei%an barei%an a$te nwqesteéran ou&san (Eudos-
so e Archita). Parrebbe dunque che i quattro, secondo Teone, la pensassero allo stesso modo: l’altezza dei suoni dipende dalla velocità del movimen-
Porphyr. in Ptolem. Harm. p. 45 D. (VS 47 B 1 DK): taè meèn ou&n potipiéptonta potiè taèn ai"sqasin a£ meèn a\poè taèn plaga%n tacuè paragiénetai kaiè , o\xeéa faiénetai, taè deè bradeéwv kaiè a\sqenw%v, bareéa dokou%nti h&men. ai\ gaér tiv r|aébdon labwèn kinoi% nwqrw%v te kaiè a\sqeneéwv, ta%i plaga%i baruèn poihései toèn yoéfon: ai\ deé ka tacué te kaiè i\scurw%v, o\xuén [...] a\llaè maèn kaiè e"n ga toi%v au\loi%v toè e\k tou% stoématov feroémenon pneu%ma e\v meèn taè e\gguèv tw% stoématov truphémata e\mpiépton diaè taèn i\scuèn taèn sfodraèn o\xuéteron a&con a\fiéhsin, e\v deè taè poérsw, baruéteron: w$ste dh%lon o$ti a| tacei%a kiénasiv o\xuèn poiei%, a| deè bradei%a baruèn toèn a&con. 20
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to sonoro, più acuti i suoni generati da movimenti veloci, più gravi i suoni generati da movimenti lenti; dalla combinazione di questi suoni, ovvero delle rispettive velocità, si generano le consonanze. Archita dunque, e con lui il suo discepolo Eudosso, non avrebbero scoperto una teoria che Teone pare attribuire già a Laso e Ippaso: questo d’altro canto ci sembrano voler dire le parole o|mologou%ntev kaiè au\toié riferite da Teone a Eudosso e Archita, che cioè «anch’essi la pensavano allo stesso modo», non tra di loro, ma in rapporto a chi li aveva preceduti. Il problema sorge quando si rende il termine kinhéseiv con «vibrazioni», attribuendo a Laso, Ippaso, Archita ed Eudosso l’intuizione che il movimento rilevante per l’altezza del suono non è quello traslatorio, bensì quello vibratorio21. Come intendere correttamente quelle kinhéseiv in cui i quattro, e con loro tutti i musicologi dell’antichità, hanno riconosciuto l’origine delle consonanze, vale a dire la ragione della diversa altezza dei suoni? Degli indizi sono forniti dal brano di Teone su Eudosso e Archita, e dal passo del Periè maqhmatikh%v di Archita citato da Porfirio. L’argomentazione riferita da Teone è la seguente. Il movimento del corpo risonante percuote (plhéttousan) l’aria e la mette in movimento, cioè 21
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Cfr. supra p. 57, nota 2.
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la spinge (kentou%san); il ragionamento sembra tratto dall’esempio di una corda che vibra, o di una verga agitata in aria in continuazione (come nel caso del brano di Archita): l’espressione plhéttousan suneceév («che percuote in continuazione») si riferisce allora sia alla corda (o verga) che produce il suono più acuto, sia a quella che produce il suono più grave; ciò che distingue i due suoni non è il plhéttein, ma il kentei%n: se il movimento impresso all’aria dalle percussioni è veloce (w\kuéteron), il suono risulta più acuto, se è più lento (nwqesteéran), allora il suono è più grave22. Questo stesso ragionamento ci sembra contenuto anche nel brano di Archita tramandato da Porfirio: il colpo (ta%i plaga%i) inferto all’aria da una verga agitata debolmente e lentamente, produrrà un suono grave; viceversa, acuto sarà il suono prodotto da un urto forte e veloce; lo stesso si vede negli auli, dove il suono emesso dall’ultimo foro è 22 M. Timpanaro Cardini, Pitagorici..., cit., vol. II, p. 332, in nota, spiega invece così: «Questi due termini (plhéttousan e kentou%san) costituiscono, a mio parere, il secondo indizio (il primo è A 18) di una possibile distinzione posta da Archita tra le due velocità, di vibrazione e di propagazione. Plhéttw (donde plh%ktron, plettro, lo strumento per battere le corde musicali) indica propriamente la successione dei colpi con cui la corda stimolata e messa in moto, urta l’aria alternatamente dalle due parti opposte secondo l’ampiezza delle oscillazioni; kenteéw indica la spinta che la corda coi suoi urti imprime all’aria sollecitandola».
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più grave rispetto a quello emesso dai primi, perché l’aria giunge alla fine con minore velocità, nonostante sia stata emessa con eguale impeto. Ricapitolando: Porfirio tramanda che Archita sosteneva che in una consonanza si percepisce un unico suono, ma stando alla testimonianza di Aristotele, gli studiosi delle consonanze (i pitagorici) ritenevano che quest’impressione dipende da un difetto della percezione, che non avverte gli intervalli di tempo piccolissimi, teoria che può esser attribuita anche a Platone (seppure per lui i due suoni tendono a uniformarsi nelle rispettive velocità). Possiamo dunque ipotizzare che anche per Archita i suoni di una consonanza si percepiscono simultaneamente non perché giungano insieme, ma per quel difetto della sensazione cui egli si appella altre volte nel brano del Periè maqhmatikh%v. E che anche per Archita l’altezza dei suoni dipende ancora dalla loro velocità di propagazione23. Bisognerà aspettare Euclide (fine del IV secolo a. C.) per trovare una teoria che faccia chiaramente dipendere l’altezza dei suoni dalla rapidità del movimento vibratorio di una corda:
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Ove ci sia quiete e immobilità, c’è silenzio; e se c’è silenzio e nulla si muove, nulla si ode; perché dunque qualcosa si possa udire, bisogna che prima abbiano avuto luogo percosCfr. l’analoga opinione di W. Burkert, op. cit., pp. 379-381.
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sa (plhghé) e movimento (kiénhsiv). Pertanto, poiché tutti i suoni avvengono in seguito a una percossa, e non c’è percossa senza un precedente movimento – e dei movimenti alcuni sono più frequenti (puknoéterai), altri più radi (a\raioéterai), e i più frequenti producono suoni più acuti (o\xuéteroi), i più radi, suoni più gravi (baruéteroi), – necessariamente alcuni suoni sono più acuti per il fatto che sono composti da movimenti più frequenti e più numerosi (pleiéonev); altri sono più gravi, perché composti da movimenti più radi e più scarsi (e\laéssonev). E così i suoni troppo acuti raggiungono l’altezza giusta se diminuiamo movimento allentando la corda; e quelli troppo gravi la raggiungono se accresciamo movimento tendendo la corda. E perciò ecc.24
Un’intuizione della natura ondulatoria del suono si legge invece sorprendentemente in una testimonianza di Diogene Laerzio sullo stoico Crisippo: Noi abbiamo una sensazione auditiva quando l’aria che sta in mezzo fra chi parla e chi ascolta subisce una pressione assumendo una forma di sfera, e poi, secondo un movimento ondulatorio (a\eérov... kumatoumeénou), raggiunge le orecchie, come fa l’acqua racchiusa in un recipiente allorché le si getta dentro un sasso: essa infatti si muove in onde di forma circolare25.
Euclide, Sectio canonis, Proemio, trad. it. di M. Timpanaro Cardini in Ead., Pitagorici... cit., vol. III, pp. 399-401 (il testo greco si trova anche in C. Jan, op. cit., pp. 148 e segg.). 25 Diog. Laert., Vitae phil., VII 158 (Stoicorum Veterorum Fragmenta II, p. 234, von Arnim). 24
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Come gli occhi sono destinati all’astronomia, così le orecchie sono destinate al moto armonico, e l’astronomia e la musica sono sorelle, come dicono i pitagorici. Platone, Repubblica VIII 530 d
§ 1. Cosmologia e suoni siderali
Osservatori nati, i Greci avevano ereditato da Babilonesi ed Egizi solide conoscenze astronomiche1, portando avanti una scienza che vide in Aristarco, Eratostene, Aristotele, Eraclide, Eudosso, Tolomeo alcune delle più grandi menti. Ma com’è accaduto per l’aritmetica, la geometria e la
1 Cfr. J. L. E. Dreyer, Storia dell’astronomia da Talete a Keplero, trad. it. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 1-7 (tit. orig. History of Planetary Systems from Thales to Kepler, Cambridge University Press, Cambridge 1906); D. R. Dicks, Early Greek astronomy to Aristotle, Thames & Hudson, London 1970.
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musica, anche per lo studio dell’astronomia la scuola pitagorica ha rappresentato una tappa fondamentale nel suo sviluppo storico: i pitagorici per primi coltivarono l’astronomia con mentalità di matematici e metodi da scienziati, passando poi il testimone ai filosofi del IV sec. Una teoria dell’armonia delle sfere non è attestata per i filosofi presocratici al di fuori della scuola pitagorica, e la ragione è essenzialmente questa: l’armonia è anzitutto un fatto musicale, e il peso attribuito dai pitagorici alla musica non si riscontra in nessun altro filosofo prima di Platone, che non a caso riproporrà la teoria della musica celeste sotto le vesti di un mito orfico-pitagorico nel racconto di Er l’armeno (Resp. X, 617 b). Ma è nell’opera di Aristotele che troviamo la più interessante testimonianza sul modo in cui i pitagorici intesero l’armonia celeste:
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L’affermazione che dal moto degli astri si generi armonia, in quanto i rumori da essi prodotti sarebbero tra loro consonanti, è una trovata graziosa e originale, ma non corrisponde al vero. Credono infatti taluni [scil. i pitagorici] che lo spostamento di corpi così grandi debba necessariamente produrre rumore, poiché lo producono anche i corpi qui da noi, sebbene non abbiano quella mole né si muovano con quella velocità. Ora, rotolando il Sole e la Luna, e in più tanti astri, e così grandi, è impossibile che non si produca un fragore straordinariamente grande. Ammesso ciò, e ammesso inoltre che le velocità determinate dalle distanze stiano tra loro secondo i rapporti delle consonanze, quei
MUSICA E ASTRONOMIA: L’ARMONIA CELESTE
filosofi affermano che la rotazione degli astri genera un suono armonioso. Ma poiché sembrerebbe strano che noi non sentissimo questo suono, dicono che la causa di ciò è che esso esiste già al momento in cui nasciamo, sicché non è reso percepibile dal contrasto col silenzio; infatti le percezioni del suono e del silenzio sono correlative. E come ai fabbri per la consuetudine sembra di non avvertire più il rumore che fanno, così accadrebbe, secondo loro, a tutti gli uomini2.
Aristotele è in polemica con la teoria dell’armonia degli astri, perché essa invalida uno dei princìpi della sua astronomia, che dice che gli astri sono fissi, mentre le sfere (i cieli) sono mobili di moto circolare, e portano in circolo gli astri in esse conficcati. La spiegazione del perché gli astri, pur così grandi e moventisi con una velocità più elevata di qualsiasi altro corpo terrestre, non producano tuttavia alcun suono, è fornita da Aristotele immediatamente dopo: sulla Terra un corpo in movimento produce un suono perché si muove in ciò che non si muove, e solo in questa circostanza ci sarà l’urto (plhghé) necessario affinché si produca un suono; gli astri, al contrario, si muovono sì, ma non in un mezzo immobile bensì mobile e, ciò che più conta, mobile della stessa loro velocità: in queste condizioni non si verifica quell’urto da cui si genera il
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2 VS 58 B 35 DK (Aristot. De caelo B 9, 290b 12- 291a 29), trad. it. di M. Timpanaro Cardini in Ead., Pitagorici..., cit., vol. III, p. 203.
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suono3. In una situazione siderale come quella descritta da Aristotele, dunque, delle due condizioni necessarie e sufficienti per cui possa prodursi un suono è presente il movimento ma manca l’urto. La conclusione tratta dallo Stagirita è perciò che la teoria pitagorica dell’armonia delle sfere è molto poetica, ma fantasiosa. Se ascoltiamo Aristotele, dobbiamo credere che i pitagorici attribuissero agli astri rotolanti, non alle sfere rotanti, la causa dell’armonia siderale. Se però confrontiamo la testimonianza aristotelica con un’analoga testimonianza di Porfirio, scorgiamo, al di là delle notevoli somiglianze, una differenza proprio a proposito del movimento delle sfere: Pitagora udiva l’armonia dell’universo, cioè percepiva l’universale armonia delle sfere, e degli astri moventisi con quelle (th%v tou% pantoèv a|rmoniéav h\kroa%to sunieièv th%v
kaqolikh%v tw%n sfairw%n kaiè tw%n kat} au\taèv kinoumeénwn a\steérwn a|rmoniéav); la quale noi non udiamo per la limitatezza della nostra natura (diaè smikroéthta th%v fuésewv)4.
Porfirio ha in mente il sistema astronomico comune alla sua epoca, cioè quello aristotelico, che prevede sfere concentriche sulle quali sono incastonati, come gemme, i corpi celesti. Ma mentre Ari3 4
De caelo B 9, 291a 6-28. VS 31 B 129 DK (Porph. Vit. Pyth. 30). L’espressione
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«th%v kaqolikh%v tw%n sfairw%n kaiè tw%n kat} au\taèv kinoumeénwn a\steérwn a|rmoniéav» si ritrova identica in Iambl. Vit. Pyth. 65.
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stotele ci dice che solo al movimento degli astri i pitagorici assegnavano la causa dei suoni siderali, Porfirio parla insieme delle «sfere, e degli astri moventisi con quelle» come cause dell’armonia celeste. Parrebbe anzi che qui il ruolo principale venga assegnato proprio alle sfere, piuttosto che agli astri. In verità, se la critica di Aristotele, nell’ottica del suo sistema astronomico, può essere accettata, considerando i pianeti e non le sfere cause degli urti siderali, essa può bensì essere aggirata se si prendono le sfere quali corpi causanti gli urti, come fa Porfirio; le sfere, infatti, sono allo stesso diritto dei pianeti, corpi in movimento, e siccome i movimenti celesti si comunicano, secondo Aristotele, dal primo mobile sino al cielo della Luna, che è l’ultimo in ordine di distanza dal primo motore e il più vicino alla Terra, può ben essere ammesso un urto tra le sfere che si muovono con velocità differenti. Perché era proprio questo l’impedimento opposto da Aristotele a che si producesse l’urto tra i pianeti e l’etere: entrambi si muovono della stessa velocità, come la nave e il suo albero; ostacolo che, ci pare, verrebbe circuito se si ponessero come corpi urtantisi le sfere: per meglio intenderci, qui noi pensiamo quasi a uno sfregamento tra le sfere, che è indispensabile ammettere se tra di essi reciprocamente i cieli si comunicano il movimento. Né questa discussione risulta oziosa, dal momento che
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si tratta di capire in che modo precisamente i pitagorici concepissero i movimenti e gli urti siderali, e quindi la generazione di quell’armonia celeste che nessun pitagorico avrebbe mai rinunciato a difendere, nonostante gravasse su di essa la pesante e autorevole condanna di Aristotele. La questione primaria da risolvere, dunque, è quale fosse il sistema astronomico pitagorico, al quale s’attaglia la teoria dell’armonia celeste5. Una testimonianza assai celebre vuole che Pitagora sia stato il primo a nominare l’ordine dei corpi celesti col nome di cosmo:
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Pitagora per primo chiamò l’insieme di tutte le cose cosmo, per l’ordine che vi regna (prw%tov w\noémase thèn tw%n o$lwn periochèn koésmon e\k th%v e\n au\t§% taéxewv)6.
La notizia, secondo noi, è solo in parte verace: Pitagora usò certamente il termine koésmov per indicare l’insieme di tutte le cose e per il motivo spiegato da Aezio, ma non dové tuttavia essere il primo, poiché questo termine, nel suo impiego cosmologico, è attestato almeno in Anassimene7, che fiorì prima di Pitagora, in Eraclito8, che fu pressoché Cfr. W. Burkert, op. cit., pp. 299-349. VS 14 A 21 DK (Aet. II 1, 1). Cfr. pure Diog. Laert. Vit. phil. VIII 48 (VS 28 A 44 DK). 7 VS 13 B 2 DK. 8 VS 22 B 124 DK. 5 6
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contemporaneo del Samio, e ancora in Empedocle9 e Parmenide10, a lui di poco posteriori. La questione della priorità dell’impiego del termine koésmov non c’importa però più di tanto; quel che ci preme sottolineare è l’uso del termine in ambito pitagorico, per le sue implicazioni con la teoria dell’armonia celeste: koésmov e a|rmoniéa, nel linguaggio astronomico pitagorico, vengono quasi a coincidere per significato, perché l’armonia che i pitagorici riscontravano nei fenomeni musicali non era altro che il riflesso terreno dell’armonia cosmica verificata nei movimenti celesti, resa possibile dalla regolarità e dall’ordine vigenti nel cosmo. L’idea della sfericità del cosmo è assai antica e comune alla maggior parte dei filosofi greci, così anche ai pitagorici11. Bisognava quindi decidere quale pianeta posizionare nel mezzo dello sfero. A questo proposito la scuola pitagorica non ha espresso opinioni unanimi nel corso della sua storia. Una tradizione molto consolidata nella scuola poneva al centro del mondo il fuoco cosmico; questa teoria la si ritrova soprattutto in Filolao12, ma noi crediamo
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VS 31 B 26 DK. VS 28 B 8 DK. 11 Cfr. VS 12 A 26 DK; VS 31 B 28 DK; VS 31 A 20 DK; VS 31 A 27 DK. Plat. Tim. 33 b; 62 d-63 a; Arist. De caelo, B 4, 286 b 10-287 b 21; B 13, 295 b 10-296 a 23. 12 VS 44 A 16 DK, VS 44 A 21 DK, e VS 44 B 7 DK. 9
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sia presente in germe già in Ippaso13, che al fuoco assegnava un ruolo cosmogonico identico a quello attribuitogli dal contemporaneo Eraclito14. Ma Filolao elaborò la teoria del fuoco cosmico, che posizionò al centro dello sfero, per ragioni che esulano da qualsiasi discorso fondato sull’osservazione dei fenomeni; anzi, proprio dalle speculazioni del “correligionario” Ippaso e di Eraclito sul ruolo cosmogonico del fuoco, il filosofo crotoniate dovette essere indotto ad assegnare quel posto al fuoco. La teoria del fuoco cosmico centrale non fu però quella dominante né nella scuola pitagorica, né altrove, soprattutto dopo la sanzione apposta da Aristotele sulla centralità della Terra. Il fatto è che l’osservazione comune ci presenta la Terra immobile e gli astri che le ruotano attorno in circolo, e viene immediatamente di concludere, in assenza di osservazioni più accurate e di geniali intuizioni, che in un cosmo sferico la Terra è posta al centro, attorno al quale ruotano tutti gli altri astri. Il primitivo pitagorismo fu sostenitore di una cosmologia geocentrica15. Ai fini dell’armonia celeste, però, sia che la Terra venga posta al centro dello sfero, sia che venga pensata mobile intorno a un fuoco centrale, non cam-
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VS 18 A 7-8 DK. Test. 30-32, 38-40 dell’ed. Diano-Serra, a cura di, Eraclito. I frammenti e le testimonianze, Mondadori, Milano 2002, pp. 74-76. 15 Cfr. Diog. Laert. VIII 25. 13 14
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bia nulla, se non il numero dei pianeti “utili” all’armonia, che nemmeno è elemento da trascurare. Solo che né per Filolao, né per Ippaso, né per qualcun altro dei pitagorici più antichi si parla mai nelle fonti di armonia celeste, se si esclude la testimonianza molto romanzata di un Pitagora capace di tendere le orecchie fino a udire il suono armonioso degli astri. In effetti il primo riferimento alla teoria dell’armonia celeste si trova nella Repubblica di Platone16, che però l’attribuisce genericamente ai pitagorici, come anche Aristotele nel De caelo17. Questi due testimoni sono più che sufficienti perché si 1 dai 729 possa parlare di una teoria professata almeno pitagorici del V sec. Per quanto riguarda il numero dei corpi celesti e delle rispettive sfere orbitanti nel cosmo, esso era comunemente fissato a otto: la Luna, il Sole, i cinque pianeti, cioè Venere, Mercurio, Marte, Giove e Saturno, più il cielo delle stelle fisse, secondo l’ordine più diffuso18. Questa serie dei corpi celesti si ritrova, per esempio, nel sistema astronomico di Filolao, che però, avendo posto al centro del cosmo il fuoco, pensava mobile anche la Terra, e ai nove cieli visibili aggiungeva il decimo invisibile dell’AnVII, 530 d; X, 616 c-617 c. B 9, 290 b 12-291 a 10. 18 Per le varianti tardo antiche dell’ordine dei corpi celesti, cfr. J. L. E. Dreyer, op. cit., p. 38. 16 17
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titerra19. La stessa serie fu condivisa da Platone nel Timeo (38 c-e), e nel mito di Er contenuto nel X libro della Repubblica (616 c-617 b), nonché da Aristotele nel De caelo (B 10, 291 a 29-291 b 10), che non si preoccupa di fornire egli stesso uno schema dell’ordine degli astri, perché condivide quello fornito dai trattati astronomici di chi lo ha preceduto nello studio del cielo: in particolare egli ricorda, quasi come delle autorità in questo campo, i matematici (oi| maqhmatikoié), e si potrebbe pensare che si tratti dei pitagorici, nonostante le numerose polemiche che contro di essi Aristotele intavola in quest’opera. Ritornando alla testimonianza aristotelica del De caelo (B 9, 290b 12-291a 29), due passaggi di quel brano vanno ora ben ponderati, per capire in che modo i pitagorici concepissero la generazione dell’armonia dal moto degli astri; si tratta dei due passaggi in cui Aristotele mette in rapporto l’armonia prodotta dagli astri con la loro velocità di rivoluzione determinata dalle diverse distanze dalla Terra, e questi rapporti sono tali che i suoni siderali risultino consonanti:
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[Affermano che] dal moto degli astri si generi armonia, in quanto i rumori da essi prodotti sarebbero tra loro consonanti, [...] [e che] le velocità determinate dalle distanze stiano tra loro secondo i rapporti delle consonanze ecc. 19
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Alex. in Metaph. A 5, p. 38, 20 Hayd., e VS 44 A 16 DK.
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Una cosa è dunque chiara: per i pitagorici, tanto amanti di corrispondenze e analogie numeriche a livello cosmico, se il cielo produce le stesse armonie che si possono ascoltare sulla Terra, le regole armoniche in base alle quali tali armonie sono prodotte saranno le stesse per entrambi i luoghi. Se dunque un’armonia si ha solo in presenza di suoni consonanti, i suoni astri dovranno tra di loro essere 729degli 1 consonanti alla perfezione, e cioè stare tra di loro secondo i rapporti di ottava, quarta e quinta; e se, inoltre, l’altezza dei suoni, più acuti o più gravi, dipende dalla lunghezza delle corde (o, negli auli, dalla distanza dei fori dall’imboccatura), allora, per analogia, nel cielo l’altezza dei suoni dipenderà dalla distanza dei pianeti dalla Terra; ma è anche vero che l’altezza dei suoni dipende dalla velocità del movimento sonoro: dunque saranno più acuti i suoni prodotti da quei pianeti che si muovono a una velocità maggiore. Ciò detto, l’affermazione del Reinach, che «non è l’astronomia che ha dettato le sue condizioni alla musica, al contrario, è la pratica musicale che ha lasciato traccia nelle teorie astronomiche»20, la quale a prima vista potrebbe sembrare esagerata, si comprende chiaramente almeno per T. Reinach, op. cit., p. 438. Cfr. pure P. Boyancé, Le culte des muses chez les philosophes grecs. Etudes d’histoire et de psychologie religieuses (Bibliothèque des écoles francaises d’Athènes et de Rome, 141), Editions E. de Boccard, Paris 1972², p. 102. 20
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quanto riguarda le distanze dei pianeti e le loro velocità, che dipendono dalle leggi dell’acustica. Tutto questo è confermato da Alessandro di Afrodisia, il quale, da ottimo commentatore, sviluppa più ampiamente le questioni affrontate da Aristotele21. Se si vuole gettare una luce sulla mentalità pitagorica che è all’opera in queste speculazioni astronomiche, musicali e matematiche allo stesso tempo, bisogna ancora una volta chiamare in causa quel principio di analogia, al quale più volte ormai ci siamo appellati: solo in base a una pretesa analogia vicendevole di tutte le parti del cosmo, si capisce perché i pitagorici sostennero a spada tratta, anche contro l’autorità di Aristotele, l’armonia cosmica. Il
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Alex. ad h. l. p. 38, 10 Hayduck (trad. it. di M. Timpanaro Cardini in Ead., Pitagorici... cit., vol. III, pp. 66-78): «[I pitagorici] vedendo che anche gli accordi musicali sono composti secondo un certo rapporto numerico, anche di essi posero come principi i numeri; infatti l’ottava è nel rapporto 1:2, la quinta nel rapporto 2:3, la quarta in quello 3:4. Dicevano poi che anche tutto il cielo è costituito secondo un certo rapporto armonico (questo egli [scil. Aristotele] intende dire con le parole tutto quanto il cielo esser numero), perché costituito di numeri e secondo numero e armonia. Ammettendo infatti che i corpi rotanti intorno al centro hanno distanze fra loro proporzionali, e che ruotano alcuni più velocemente, altri meno, e che producono nel muoversi un suono, grave i più lenti, acuto i più veloci, ritenevano che questi suoni prodotti secondo la proporzione delle distanze tra loro, formassero una risonanza armonicamente intonata; e poiché principio di questa armonia essi dicevano essere il numero, logicamente ponevano il numero a principio del cielo e dell’universo. Essi 21
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loro ragionamento doveva essere pressappoco questo: poiché sulla Terra urto e movimento di corpi generano un suono, e poiché i corpi celesti movendosi urtano l’aria, ci deve essere un qualche suono anche in cielo; gli astri sono entità divine, eterne e incorruttibili, dunque i suoni da essi prodotti non possono essere suoni qualsiasi, ma devono generare un’armonia altrettanto divina e perfetta; poiché le regole dell’armonia valgono universalmente – è inconcepibile, infatti, che vi siano altri numeri che esprimano diversi rapporti armonici per i suoni celesti –, allora le velocità dei pianeti e le loro distanze reciproche, non apprezzabili altrimenti, devono rispettare le leggi dell’acustica e poter esser ricavate, nei loro rapporti, dai rapporti delle consonanze musicali. Aristotele e il suo commentatore Alessan-
dicevano, poniamo, che la distanza del Sole dalla Terra è il doppio di quella della Luna, il triplo quella di Venere, il quadruplo quella di Mercurio, e per ciascuno degli altri corpi ritenevano che c’è un certo rapporto aritmetico e che il movimento del cielo è accordato musicalmente; che ruotano più velocemente quelli posti a maggiore distanza, più lentamente i meno distanti; e quelli intermedi, in rapporto alle ampiezze delle orbite [...]. Avendo dunque supposto esser dieci i corpi ruotanti, che costituiscono il cosmo, essi ne disponevano l’ordine secondo rapporti armonici, cioè ad intervalli armonici l’uno dall’altro; e li supponevano muoversi, come si è detto, in rapporto alle distanze, gli uni più veloci, gli altri più lenti; e produrre, nel girare, dei suoni, più bassi i più lenti, più acuti i più veloci; dai quali suoni, in rapporti armonici tra loro, nasce una risonanza musicale, che peraltro noi non udiamo, per esservi abituati fin da fanciulli, ecc.»
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dro, nel riferire la teoria dell’armonia celeste dei pitagorici, seguono proprio questo schema. Alessandro aggiunge anche un esempio del modo in cui procedevano i pitagorici: assegnavano alla distanza dalla Terra alla Luna l’unità, e dicevano che la distanza del Sole dalla Terra era il doppio della prima, le due distanze stavano cioè nel rapporto di 2:1, che è il rapporto dell’ottava: il Sole, pertanto, nel suo girare attorno alla Terra, dava un suono che era più acuto di un’ottava rispetto a quello emesso dalla Luna; Venere, invece, trovandosi a una distanza tripla dalla Terra rispetto alla Luna, emetteva un suono che era nel rapporto di 3:1 con quello della Luna (cioè si trovava a una distanza corrispondente all’intervallo di quinta aggiunta all’ottava, ovvero di dodicesima) e di 3:2 con quello del Sole (si trovava, cioè, a distanza di una quinta). Così, procedendo per tutti i pianeti, stabilivano il suono emesso da ciascuno in rapporto alle velocità di rivoluzione e alle distanze reciproche. § 2. L’armonia celeste nel Timeo (35 b-36 b) e nella Repubblica (X, 617 b)
Il problema delle distanze siderali connesso alla teoria dell’armonia celeste ritorna pure nel Timeo platonico (35 a-c). Siamo al punto in cui Platone
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illustra i criteri che il demiurgo seguì per la divisione dell’anima del mondo, quando compare una serie di numeri che rappresentano il rapporto tra le parti in cui l’anima del mondo fu divisa: i numeri sono 1, 2, 3, 4, 8, 9, 27. Nel primo capitolo abbiamo notato che tali numeri potrebbero avere a che fare con un discorso astronomico: essi rappresenterebbero le distanze planetarie nel sistema astronomico adottato da Platone, di cui il Timeo intende fornire uno schema, seppure in forma mitica. Qui ora presentiamo la nostra interpretazione della serie numerica del Timeo. Platone pose come distanza unitaria di riferimento quella tra i primi due pianeti più vicini alla Terra, vale a dire la Luna e il Sole, e proseguì poi assegnando i rimanenti numeri della serie alle distanze tra gli altri pianeti, secondo l’ordine stabilito dagli astronomi del suo tempo e che risulta anche da altri passi delle sue opere22: Sole-Venere (2), Venere-Mercurio (3), Mercurio-Marte (4), MarteGiove (8), Giove-Saturno (9), Saturno-Cielo delle stelle fisse (27). In altre parole, la distanza tra il Sole e Venere è doppia di quella tra la Terra e la Luna, quella tra Venere e Mercurio è tripla, e così via. Quest’interpretazione ci sembra supportata dalle parole che Platone scrive poco oltre, al passo 36 d: «[...] divise sei volte il movimento interno 22
Tim. 38 c-e; Resp. X, 616 c-617 b.
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Cfr. P. Varvaro, op. cit., vol. I, p. 977.
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facendone sette circoli disuguali, secondo gl’intervalli del doppio e del triplo»: il «movimento interno», chiamato in altri luoghi del dialogo «circolo dell’altro» (38 c) è quello che comprende le sette orbite dei sette pianeti, i «sette circoli» sono ovviamente le orbite dei sette pianeti, mentre gli «intervalli del doppio e del triplo» sono rispettivamente la serie geometrica originata dal numero due, e la serie geometrica originata dal numero tre, cioè i numeri della nostra serie 1, 2, 3, 4, 8, 9, 27; in questo passo manca il cielo delle stelle fisse, che è l’ottavo circolo, limite estremo del settimo “spazio siderale” (espresso dal numero 27), perché non fa parte del circolo dell’altro, bensì costituisce da solo il circolo del medesimo23, che mescolato col circolo dell’altro e coll’essenza, aveva dato i sette “spazi siderali” visti sopra. Il motivo per cui Platone escluse dal conto delle distanze la Terra, cioè considerò non otto “spazi siderali”, bensì sette, cominciando dal cielo della Luna, risiede nell’intento che egli si era assunto procedendo alla descrizione del cielo secondo un sistema astronomico che non aveva formulato lui, ma aveva ereditato da un circolo pitagorico: quello di descrivere il movimento dei pianeti e delle rispettive sfere attorno alla Terra, unico corpo celeste immobile posizionato al centro dello sfero, di spiegare cioè in maniera particolareggiata quel
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moto di rivoluzione attorno a un centro, unico perfetto tra i sette (34 a), che il demiurgo aveva voluto assegnare al cielo. Per questa prima ragione Platone, pensiamo, non considerò la Terra, perché essa non è dotata di quella specie di moto propria a tutti gli altri corpi celesti. Ma una seconda ragione, 72che 91poggia sulla prima e di quella assai più importante, era che rimanendo immobile, la Terra non genera alcun suono, a differenza degli altri astri il cui continuo e ininterrotto moto di rivoluzione attorno alla Terra genera una perenne armonia cosmica. Per quale altra ragione, altrimenti, Platone avrebbe diviso le distanze tra i pianeti secondo gli intervalli della scala musicale diatonica di Filolao, se non perché egli credeva, come aveva appreso da qualche pitagorico, che il movimento degli astri dà vita a un’armonia celeste? Bisognava dare una risposta alla domanda perché un astro desse un suono piuttosto che un altro. Nel racconto di Er la spiegazione era stata affidata al mito delle Sirene, ognuna delle quali produce un’unica nota sempre della stessa altezza e della medesima intensità. Evidentemente nel Timeo, opera successiva alla Repubblica, Platone volle fornire, sempre sotto la veste del mito, una spiegazione più scientifica del fenomeno, e ricorse alle teorie di qualche circolo pitagorico che facevano leva sulle distanze e le velocità dei pianeti per dar ragione della diversa altezza dei suoni siderali.
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Una simile spiegazione la danno J. L. E. Dreyer24, T. Reinach25 e A. E. Taylor26, ma tutti assegnano i numeri della serie 1, 2, 3, 4, 8, 9, 27 ai raggi delle orbite planetarie, ognuno dei numeri cioè corrisponderebbe alla distanza di un pianeta dalla Terra; ma, essendo sette i numeri della serie, essi devono escludere dal novero dei cieli quello delle stelle fisse, compromettendo la completezza del sistema astronomico di Platone; e, ciò che per noi più conta, finiscono per spezzare l’armonia celeste di cui, come sappiamo dal mito di Er, il cielo delle stelle fisse produce l’ottavo suono. Nessuno dei tre sembra curarsi dell’inconveniente. Dreyer, infatti, a p. 56 del suo libro, affermava che nel Timeo «Platone [...] non sembra condividere la credenza pitagorica nei suoni musicali prodotti dal moto dei pianeti». Noi siamo di opinione diversa. Il Reinach, dal canto suo, sosteneva, a p. 438 del suo articolo, che «è un fatto molto curioso che nella ricca collezione delle varietà di queste scale siderali, non ce n’è nessuna, ad eccezione del tipo falsamente attribuito da Boezio a Cicerone, che si compone di otto suoni: si passa senza transizione dalla scala di sette suoni [...] a quella di nove suoni»; e qualche pagina prima aveva detto che «un po’ di attenzione basta a moJ. L. E. Dreyer, op. cit., pp. 56, 62. T. Reinach, op. cit., pp. 445-447. 26 A. E. Taylor, op. cit., pp. 162-167. 24 25
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strare che i differenti tipi proposti per la melodia delle sfere non sono altro che la proiezione, nello spazio infinito, delle scale che furono in un dato momento più in voga sul nostro piccolo pianeta, o piuttosto nel piccolo mondo greco» (p. 434). Ora, una scala a otto suoni esisteva fin dal tempo di Filolao, e una teoria dell’armonia delle sfere fondata su una scala di otto suoni è proprio quella presentata nel mito di Er! Taylor, infine, pur notava che «Timeo prudentemente si astiene dal dire qualcosa circa la distanza dell’a\planeév [il cielo delle stelle fisse] dal centro, o, ciò che è lo stesso, la misura dell’ ou\ranoév»27, e che, benché «egli lasci la distanza dell’a\planeév dal centro pienamente indeterminata, difficilmente possiamo dubitare che egli abbia voluto assegnare all’ a\planeév un ruolo nella musica [celeste]»28. Ma la stranezza di tutto questo discorso, secondo noi, sta proprio in ciò che Taylor pare giudicare normale, cioè che Platone-Timeo, pur attribuendo al cielo delle stelle fisse un ruolo nella scala cosmica, riportando i numeri di questa scala, soltanto all’ultimo cielo non ha assegnato un numero. E perché? «Perché è troppo più lontano rispetto al più remoto dei pianeti»29. Forse che gli antichi potevano stimare la distanza dei pianeti diversaA. E. Taylor, op. cit., p. 164. A. E. Taylor, op. cit., p. 167. 29 A. E. Taylor, p. 164. 27 28
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mente che immaginandosela? E come Platone si era figurato che le distanze dei pianeti corrispondono ai numeri di due progressioni matematiche, allo stesso modo poteva assegnare un numero anche al cielo delle stelle fisse: per esempio, procedendo nella serie geometrica del 3, assegnargli il numero 81. Il passo di Alessandro di Afrodisia richiamato poco sopra30 potrebbe mettere in discussione e invalidare questa nostra interpretazione della serie numerica del Timeo. Alessandro infatti, commentando la teoria dell’armonia celeste dei pitagorici, scrive che «essi dicevano, poniamo, che la distanza del Sole dalla Terra è il doppio di quella della Luna, il triplo quella di Venere, il quadruplo quella di Mercurio, ecc.». Stando a queste parole, l’interpretazione corretta dovrebbe essere quella sostenuta dal Dreyer, dal Reinach e dal Taylor, benché non sia pacifico che Alessandro abbia voluto intendere i raggi orbitali piuttosto che le distanze reciproche tra i pianeti31. Per quanto ci riguarda, alla ragione principale che abbiamo portato a sostegno della nostra ipotesi, – e cioè che, se Platone nel Timeo voleva abbracciare la teoria pitagorica dell’armonia degli astri, non poteva computare sette distanze per sette cieli, corrispondenti a sette suoni, perché in Cfr. supra p. 90, nota 21. Questa perplessità manifesta, per esempio, M. Timpanaro Cardini, Pitagorici..., cit., vol. III, p. 68, in nota. 30 31
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tal caso mancherebbe l’ottavo suono prodotto dal cielo delle stelle fisse, altrove presente nell’opera di Platone (mito di Er) –, aggiungiamo che le tradizioni sulle distanze siderali erano diverse, e può essere che alcuni pitagorici, tra i quali quelli menzionati da Alessandro che seguivano il sistema filolaico, calcolassero i raggi delle orbite planetarie, altri invece, seguiti da Platone, le distanze reciproche tra i pianeti. § 3. Suoni siderali e velocità dei pianeti
Dobbiamo ora affrontare la questione della velocità dei pianeti e della loro distanza in rapporto all’altezza dei suoni emessi. La domanda è: quali pianeti emettono i suoni più acuti, i più vicini o i più distanti dalla Terra, ovvero i più veloci o i più lenti? Stando alle teorie acustiche dei pitagorici, universalmente ammesse dagli antichi teorici musicali, il suono acuto corrisponde a uno spostamento d’aria più repentino di quello d’un suono grave; di conseguenza i pianeti dovrebbero emettere un suono tanto più acuto quanto maggiore è la loro velocità di rivoluzione. Se però ritorniamo alle prime teorie acustiche pitagoriche, secondo le quali l’altezza del suono dipende dalla maggiore o minore lunghezza della corda, allora dovremmo stabilire
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un’analogia tra le distanze dei pianeti e l’altezza dei suoni da loro emessi: siccome il suono prodotto da una corda fatta vibrare per la sua intera lunghezza è più grave del suono emesso da quella stessa corda, fatta però vibrare per una parte della sua lunghezza, allora la stessa regola dovrebbe valere analogicamente anche per le distanze siderali: maggiore è la distanza di un pianeta dalla Terra, più grave è il suono da esso prodotto. Ma vediamo cosa ci dicono al riguardo le fonti. La testimonianza aristotelica del De Caelo ci conferma sulla nostra strada, perché ci dice che i pitagorici, per stabilire l’altezza dei suoni prodotti dal movimento dei pianeti, ricorrevano ai princìpi della loro acustica, basata sui concetti di distanza e velocità: I rumori da essi [cioè i pianeti] prodotti sarebbero tra loro consonanti, [...] e, ammesso inoltre che le velocità determinate dalle distanze stiano tra loro secondo i rapporti delle consonanze, quei filosofi affermano che la rotazione degli astri genera un suono armonioso32.
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Cfr. supra, pp. 80-81.
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L’armonia delle stelle si basava dunque sulle consonanze. Sappiamo che le consonanze riconosciute dagli antichi erano tre: l’ottava, considerata la più perfetta tanto da esser chiamata a|rmoniéa, la quarta e la quinta. In seguito allo sviluppo della tecnica esecutiva e con la complicazione delle regole
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melodiche, si era usciti dalla gabbia dell’unica ottava, e ci si era aperti alle altre ottave, nel senso che erano stati riconosciuti come sinfoni anche quegli intervalli composti dagli intervalli consonanti fondamentali: per esempio l’undicesima (un’ottava più una quarta), la dodicesima (un’ottava più una quinta), la doppia ottava, e così via. Le velocità di rivoluzione dei corpi celesti, determinate dalle distanze, erano stabilite, ci dice Aristotele, proprio secondo i rapporti delle consonanze; per cui dobbiamo pensare che i pitagorici ragionassero in questi termini: un pianeta che rispetto a un altro si muove a una velocità doppia, emette un suono che è di un’ottava più acuto rispetto al suono prodotto dall’altro pianeta; un pianeta che rispetto a un altro si muove a una velocità che è i 3:4 della velocità dell’altro pianeta, emette un suono di una quarta più grave rispetto a quello emesso dall’altro pianeta; e procedendo in questo modo dovevano stabilire i rapporti tra le altezze dei suoni siderali – né ci è detto da alcuna fonte classica quali poi fossero in effetti queste altezze. Alessandro di Afrodisia33 aggiunge che per i pitagorici i pianeti più lontani ruotano più velocemente, più lentamente i più vicini; in base a questi rapporti, i pianeti più vicini e più lenti producono un suono più grave, i più veloci e più lontani un suono più acuto.
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Cfr. supra, p. 90, nota 21.
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Bisogna aggiungere che le teorie pitagoriche riferite da Aristotele sulla velocità degli astri in rapporto alla loro distanza erano condivise dallo Stagirita stesso, e dovevano essere cognizione comune a quel tempo se, come vedremo fra breve, anche Platone ne fa menzione. Nel De caelo (II 10, 291 a 30291 b 10), infatti, Aristotele rimanda alle dimostrazioni fornite dagli astronomi e dai matematici, cioè i pitagorici. Se facciamo un salto indietro, andando al mito di Er della Repubblica (X, 616 c-617 d), che contiene il primo vero riferimento alla teoria dell’armonia celeste, troviamo un discorso simile sulle velocità delle sfere celesti in rapporto alle distanze, ma anche con qualche differenza decisiva. Er racconta la struttura del fuso di Anànke che, fuor del mito, rappresenta uno schema del planetario platonico, il quale prevede otto sfere celesti mobili. La velocità di queste sfere è anche qui in rapporto alle distanze, solo con una particolarità: dopo l’ottavo cerchio (la sfera delle stelle fisse) che è il più veloce, il settimo cerchio (Saturno) ruota della stessa velocità del sesto (Giove) e del quinto (Marte), in maniera tale che il quarto cerchio (Mercurio) sembra occupare, per velocità, il terzo posto, il terzo cerchio (Venere) il quarto posto, il secondo cerchio (il Sole) il quinto posto – il primo cerchio (la Luna) non viene nominato, ma deve comunque occupare il
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sesto e ultimo posto per velocità. Se si passa al dialogo successivo alla Repubblica, cioè al Timeo, si ritrova la stessa idea: ai sette circoli (qui è escluso quello delle stelle fisse) il demiurgo impose diverse velocità, in modo che «tre avessero uguale velocità, mentre gli altri quattro avessero velocità disuguale l’uno rispetto all’altro e rispetto agli altri tre» (36 d). Sulla base di quanto abbiamo appreso dalle testimonianze di ambiente aristotelico, che cioè per i pitagorici alle diverse velocità dei pianeti corrispondono differenti suoni, dovremmo concludere che i tre pianeti che per Platone si muovono della stessa velocità emettono sì tre suoni distinti, ma tutt’e tre della medesima altezza, cioè tre suoni identici. Nel mito di Er Platone assegna a ognuna delle sfere celesti una Sirena «che emetteva un’unica nota, con un unico suono; ma tutte otto insieme formavano un’armonia» (X, 617 b): volendo esser puntigliosi, qui Platone non dice di che natura siano gli otto suoni emessi dalle Sirene, se tutti diversi o meno; se però volessimo seguire il criterio delle velocità, dovremmo concludere che la musica delle sfere platoniche si compone di soli sei suoni differenti, che vanno a costituire un’unica armonia34. J. Adams, The Republic of Plato, 2 voll., Cambridge University Press, Cambridge 1969, pp. 452-453, per risolvere il problema posto dall’isotachia di Mercurio, Venere e del Sole, propone d’intendere così: «Noi possiamo ragionevolmente supporre che Platone pensasse che i pianeti più distanti impie34
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Possiamo però aggiungere un’ulteriore notizia, che ricaviamo dalla Vita pitagorica (65) di Giamblico, la quale potrebbe farci superare la difficoltà platonica dei tre suoni identici: [L’armonia è] il prodotto dei suoni celesti, i quali traggono sì origine dalle ineguali e in vario modo tra loro differenti velocità, grandezza e posizione dei corpi, ma sono nondimeno collocati in reciproca relazione nel modo più armonico.
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I fattori che Giamblico chiama in causa per giustificare la molteplicità dei suoni celesti sono tre, due dei quali ci erano già noti dalla tradizione più antica, mentre il terzo, secondo nell’ordine dato da Giamblico, ci era ignoto: parliamo, rispettivamente, della velocità e della distanza dei pianeti, e della loro grandezza. Se ci appellassimo a questo nuovo criterio della grandezza, potremmo risolvere il problema sorto in ambito platonico riguardo ai tre pianeti (Saturno, Giove e Marte) che, muovendosi della stessa velocità, dovrebbero produrre la medegano più tempo per completare la loro orbita rispetto a quelli più vicini, così che non risulterebbe improbabile che egli, parlando della velocità dei movimenti planetari, in realtà abbia in mente il tempo impiegato dai periodi orbitali e non la velocità della progressione dei pianeti stessi [...]. In questo caso l’ottava sarebbe completa, perché, per completare la loro orbita nello stesso tempo, il Sole, Venere e Mercurio dovrebbero viaggiare a una diversa velocità».
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sima nota: se questi tre pianeti sono di diversa grandezza, pur viaggiando alla stessa velocità, generano contro l’etere un urto di diversa entità, e di conseguenza tre suoni di diversa altezza. Né Platone, che pure abbracciava la teoria dell’armonia celeste, né alcuno dei più antichi commentatori di questa teoria, come Aristotele o Alessandro, ci hanno lasciato altro se non accenni al riguardo: le loro notizie si limitano all’essenziale, e può ben darsi che abbiano trascurato qualche aspetto della teoria, in presenza del quale l’avremmo potuta comprendere nella sua pienezza. Riguardo a Platone, non ci è concesso di sapere di che tipo fosse l’armonia celeste, perché egli non precisa di quali note essa è composta: si limita a dire che ogni Sirena emette inflessibilmente sempre la stessa nota, e se si trattasse delle note di una scala musicale, non ne uscirebbe proprio una piacevole armonia! Il testo greco dice solo che gli otto suoni «miéan a|rmoniéan sumfwnei%n», espressione che potremmo rendere così: «consuonano secondo un’unica armonia». Si potrebbe pensare che si tratti anche in questo caso di suoni consonanti, ma l’unico indizio che confermerebbe questa ipotesi è il verbo sumfwnei%n. Un’altra ipotesi che potremmo avanzare si basa sul modo differente d’intendere quell’espressione: il termine a|rmoniéa, nel linguaggio dei musicisti, stava ad indicare il modo di una
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melodia, cioè frigio o dorico o lidio o altro35. Platone ha potuto voler dire, allora, che le stelle producono una musica secondo un modo ben preciso, quale in particolare non ha potuto dircelo, perché nessuno l’ha mai sentita quella musica. Quest’ipotesi non è affatto peregrina, perché anzi renderebbe conto di due elementi costitutivi della teoria dell’armonia celeste presso gli antichi: a) il fatto che i suoni emessi dagli astri siano sempre detti consonanti si accorda con l’ipotesi che la musica siderale rispetti uno dei modi classici, le cui regole di composizione si fondavano sulle consonanze; b) il fatto che la musica celeste sia considerata divina per il suo carattere armonico, ma non si dia nessuna armonia con la produzione simultanea degli otto suoni di una gamma musicale, mentre una melodia che rispetti le regole di uno dei modi, risulta armoniosa per sua natura36.
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35 Questo è il senso in cui Platone usa il termine a|rmoniéa, tra gli altri luoghi, in Resp. III, 398 e. Per una storia dei termini a|rmoniéa, sumfwniéa e derivati cfr. B. Maclachlan, Harmony of the Spheres: dulcis sonus, in Harmonia mundi. Musica e filosofia nell’antichità (Quaderni Urbinati di Cultura Classica, 5), a cura di R. W. Wallace e B. MacLachlan, Edizioni dell’Ateneo, Pisa 1991, pp. 10-15. 36 Cfr. B. Maclachlan, op. cit., pp. 17-18, secondo cui l’armonia delle sfere nel mito di Er deve essere intesa alla luce della scala diatonica di Filolao, e quindi si tratterebbe di un’armonia prodotta da suoni consonanti nell’ambito di una ottava.
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§ 4. Un’armonia inaudita
Un altro spunto di riflessione ci è offerto da una notizia tramandataci da molti testimoni della teoria dell’armonia celeste: ci riferiamo alla ragione addotta dai pitagorici del perché sulla Terra non si percepisca quell’armonia cosmica che pur dovrebbe avere un’intensità enorme, date la mole e la velocità dei corpi celesti: vale a dire l’insufficienza della nostra natura di uomini. L’argomento riferitoci da Aristotele, e ripreso poi dal suo commentatore Alessandro, si basa sul fatto che i suoni celesti sono eterni e continui, per cui noi nasciamo già con tali suoni nelle orecchie, e non potendo mai percepire la differenza tra la loro presenza e la loro assenza, per la nostra percezione è come se non esistessero. L’esempio dei fabbri che s’abituano al rumore dei martelli, fino a non accorgersene più, o l’esempio riportato da Cicerone di quegli uomini che, vivendo sempre in prossimità di una cascata, non ne percepiscono il rumore che per altri risulterebbe assordante37, c’inducono a credere che questa era la spiegazione più comune dello strano fenomeno del “silenzio assordante” degli astri.
Somnium Scipionis, 19: «Le orecchie degli uomini, sempre riempite di questo suono, ad esso son divenute sorde; non c’è tra gli uomini nessuno che abbia un senso più ottuso di quella tribù che abita il luogo dove il Nilo precipita da altissimi monti in quelle che sono nominate le cascate di Catadupa, 37
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Il VS 47 B 1 DK di Archita contiene un’altra possibile spiegazione del fenomeno, alla base della quale c’è comunque la limitatezza della nostra natura, ma declinata diversamente: Molti di questi rumori non possono essere percepiti dalla nostra natura, alcuni per la debolezza dell’urto, altri per la grande distanza da noi, alcuni anche per l’eccesso stesso della loro intensità; perché non penetrano nel nostro orecchio i rumori troppo grandi, così come anche nel collo stretto di un vaso, quando vi si versi qualcosa in massa, nulla vi entra.
Ricordiamo che al principio di questo passo Archita aveva ammesso di riferire i risultati cui erano giunti gli studiosi di cose matematiche suoi predecessori, cioè i pitagorici. Delle tre ragioni per cui noi non percepiamo certi suoni, la prima riguarda i suoni troppo piccoli, e quindi non fa al caso nostro; la seconda e la terza possono invece attagliarsi al fenomeno dei suoni siderali: noi non li sentiremmo o perché troppo lontani, o perché troppo intensi38.
la quale tribù, a causa dell’enorme intensità del suono, ha perduto il senso dell’udito. Qui invero è talmente grande il suono dell’intero mondo prodotto con una rivoluzione rapidissima, che le orecchie degli uomini non possono contenerlo, così come non è possibile fissare direttamente il sole, poiché l’acutezza del vostro senso è vinta dai suoi raggi». 38 Quest’ultima spiegazione ritorna in Censor., De die natali, XII 1: «[...] una dolcissima melodia, che noi però non udia-
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§ 5. Antichità della teoria dell’armonia celeste
Ci preme notare che questo piccolo passaggio di Archita è per il nostro7argomento 291 una testimonianza fondamentale. Da esso si possono trarre le seguenti conclusioni: a) quei rumori troppo intensi, tanto da non poter essere percepiti, possono essere soltanto i suoni emessi dai corpi celesti, che per la massa e la velocità di rivoluzione dei loro generatori dovevano risultare straordinariamente potenti; b) se Archita sta riferendo le conquiste dei pitagorici suoi predecessori, vuol dire che già prima di lui la teoria dell’armonia celeste era un insegnamento della scuola pitagorica. È decisivo notare che Archita, nel presentare gli studiosi di cose matematiche, li qualifica, prima ancora che come aritmetici, geometri e musici, anzitutto come quelli che «sulla velocità degli astri, sul loro sorgere e tramontare ci hanno fornito chiare nozioni»: combinando insieme la notizia sullo studio della velocità degli astri e quella sui suoni impercettibili per la loro eccessiva intensità, l’unica conclusione che ci viene naturalmente di trarre e che quegli uomini sapienti di cose matematiche avevano professato la teoria dell’armonia celeste. Questa nostra conclusione è molmo a causa della grandezza del suono (propter vocis magnitudinem) che le nostre orecchie non riescono a contenere per la loro limitatezza (aurium nostrarum angustiae)».
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to importante, perché ci consente di retrodatare l’epoca della nascita dell’armonia celeste in seno alla scuola pitagorica: almeno alla generazione di pitagorici anteriore ad Archita, cioè all’epoca di Filolao. Quanto stiamo per dire ci induce, però, a ritenere che la teoria dell’armonia celeste è stata addirittura un insegnamento della prima cerchia pitagorica. Nella Vita pitagorica (82) Giamblico, nel suddividere in tre specie gli acùsmata del catechismo del gruppo dei pitagorici acusmatici, riporta questo acusma: Cos’è l’oracolo di Delfi? La tetractys, cioè l’armonia, nella quale sono le Sirene (Tié e\sti toè e\n Delfoi%v mantei%on; Tetraktuév: o$per e\stièn h| a|rmoniéa, e\n +/ ai| Seirh%nev).
Tetractys, armonia, Sirene, sono per noi parole già note; si tratta ora di capire perché siano connesse tra di loro in questo detto pitagorico, e quale sia il significato complessivo del detto. L’identità di tetractys e armonia dovrebbe risultare ormai evidente dalla ricerca fin ora svolta: la tetractys è il simbolo numerico dell’armonia musicale, le cui leggi sono riassunte nei numeri di cui quella si compone (1, 2, 3, 4). Se il Delatte aveva ragione di credere che il mito di Er della Repubblica deriva dalle apocalissi dei misteri orfico-pitagorici del VI-V sec., allora il ponte tra le Sirene del mito di Er e quelle del nostro acu-
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sma è presto gettato: si tratta di un acusma sull’armonia delle sfere, che avvalora ancor più la tesi della dipendenza di Platone dalla tradizione pitagorica. Ma ciò per cui questo acusma risulta maggiormente prezioso è che, in virtù della sua antichità, esso testimonia che la teoria dell’armonia celeste era un possesso della prima tradizione pitagorica39. Che il nostro acusma contenga un riferimento all’armonia delle stelle ci è testimoniato indirettamente anche da un antico teorico musicale e commentatore delle dottrine pitagoriche, Teone di Smirne, vissuto tra il I e il II secolo d. C., da noi già più volte incontrato in questo studio: Alcuni poi dicono che sirene non si chiamino gli astri ma, secondo la dottrina pitagorica, i suoni e le note prodotti dai movimenti di quelli, i quali risultano armonizzati e consonanti, e dai quali si genera una musica perfettamente armoniosa40.
L’acusma pitagorico riferitoci da Giamblico, però, contiene un elemento che con la teoria dell’armonia celeste sembra non avere niente a che vedere, ed è l’oracolo di Delfi. Un possibile legame tra Apollo, il dio di Delfi e Pitagora è una credenza delCfr. A. Delatte, op. cit., p. 260; P. M. Schuhl, Essai sur la formation de la pensée grecque, Presses Universitaires de France, Paris 1949², pp. 262-263; C. H. Kahn, op. cit., p. 23. 40 Theo Smirn. expos. rer. math., p. 147. 39
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l’antico pitagorismo, che Pitagora fosse l’incarnazione del dio delfico, da cui l’inverosimile etimologia, sostenuta da qualche antico commentatore, che trae il nome di Pitagora (Puq-agoérav) da uno degli attributi del dio (Puéq-iov)41. Il Boyancé42 ricorda che tre statue campeggiavano sulla porta del tempio a Delfi, le quali rappresentavano «“Muse” d’un tipo particolare, che avevano i nomi delle corde della lira e forse certe caratteristiche delle Sirene», mentre il Delatte, citando Pindaro, ricordava che «il tempio di Apollo a Delfi, contemporaneo del poeta, era ornato, sulla facciata, di statue dorate di Keledones, esseri favolosi che l’antichità ha identificato con le Sirene»43.
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Iambl. Vit. Pyth. 7. P. Boyancé, Note sur la tétractys, in «L’Antiquité classique» 20, 1951, p. 421-425. 43 A. Delatte, op. cit., p. 261. Cfr. pure D. Musti, I Telchini, le Sirene, Ist. Editoriali e Poligrafici, Pisa-Roma 1999, passim; V. Gigante Lanzara, Il segreto delle Sirene, Bibliopolis, Napoli 1986, passim. 42
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MUSICA E CATARSI Alle Sirene prima verrai, che gli uomini stregano tutti chi le avvicina. Chi ignaro approda e ascolta la voce delle Sirene, mai più la sposa e i piccoli figli, tornato a casa, festosi l’attorniano, ma le Sirene col canto armonioso lo stregano. Odissea XII 39-44
Della credenza circa l’influenza esercitata dalla musica sull’anima umana rimangono numerose tracce nei miti greci: i miti di Orfeo e delle Sirene sono i più noti ed emblematici, testimoni del potere fascinatorio e ammaliante che gli antichi riconobbero alla musica, intesa anche come canto. Quel canto (§\dhé) che sapientemente composto risulta incantesimo (e\p§dhé), e agisce sull’anima così da modificarne i movimenti e influire sulle passioni. Le cerimonie religiose sono state, presso tutti i popoli, il primo spettacolo musicale, i templi i primi teatri, in virtù della potenza sacrale riconosciuta
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alla musica quale indispensabile strumento di elevazione spirituale e di comunicazione col divino. La millenaria tradizione liturgica delle chiese cristiane sta a testimoniare l’importanza del canto e della musica, la cui funzione trascende l’immediata produzione del puro piacere sensibile, per assurgere a veicolo di santificazione. Gli antichi filosofi greci, pur compiendo il passo dal mito alla riflessione razionale, non rinnegarono mai questa credenza, ancestrale quanto le fonti mitiche da cui l’avevano avuta in eredità, riconoscendole un’indefettibile e inconcussa verità. I pitagorici, Platone, Aristotele, gli stoici, i neoplatonici: tutti all’unisono celebrano il potere che la musica esercita sull’anima umana e le riconoscono, per tale ragione, un ruolo fondamentale nell’educazione dei giovani. L’incantatore possiede l’arte del canto suadente che, attraverso i condotti uditivi, giunge a toccare l’anima e, accordandosi o discordando coi suoi movimenti, la guida dove vuole: suscita l’ardore per la battaglia nel soldato, induce il sonno nel neonato, placa l’ira, infiacchisce o esalta l’animo. Canti di battaglia, canti rituali, canti magici, ninnananne, ancora oggi ci dicono quanta verità risieda nell’antico insegnamento. In questo capitolo vogliamo affrontare lo studio della catarsi musicale presso i pitagorici, guardando anche all’opera di Platone che, per molti aspetti, dei pitagorici fu l’erede.
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§ 1. Il ruolo magico della musica
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Nella Vita pitagorica di Giamblico si legge un simpatico aneddoto sul pitagorico Eurito, a proposito della musica sepolcrale: Eurito di Crotone, discepolo di Filolao, a un pastore che gli annunziava di aver udito sul mezzogiorno la voce di Filolao uscir dalla tomba in forma di canto – e questo, quando Filolao era morto già da molti anni – «Per gli dèi!, esclamò, e secondo quali accordi (tiéna... a|rmoniéan)?»1.
Eurito scalpita dalla voglia di sapere secondo quale modo ha cantato l’anima di Filolao, perché sicuramente quel canto è di natura divina, se a emetterlo è stato un beato che banchetta con gli dèi: conoscere l’a|rmoniéa di cui si compongono le divine melodie dei beati significa attingere alla sapienza degli dèi, venire a parte dei rapporti matematici di cui quella si compone e poterne usufruire come cura per la propria anima contro i turbamenti della vita terrena, sì da aprirsi, per citare lo Scipione del Somnium di Cicerone, le porte del cielo. Era udendo l’armonia degli astri che Pitagora componeva le melodie con le quali placava le passioni dei suoi scolari riequilibrando le loro anime2: c’è da supporre che nella tradizione pitagorica la 1 2
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musica dei beati e la musica degli astri fossero la medesima musica divina3. La credenza nel valore magico della musica fu tipica della scuola pitagorica, per la quale la musica venne considerata uno strumento per la cura dell’anima e del corpo, dunque mezzo catartico e terapeutico; nel pitagorismo la musica assume a tutti gli effetti lo statuto di un farmaco, valido sia per l’anima che per il corpo. E nella scuola pitagorica questa credenza, ben più antica della filosofia italica, acquisì quell’autorevolezza che le garantì la benevolenza di tutti i filosofi che si occuparono della musica, principalmente in rapporto all’educazione del cittadino. Tra i principali eredi del pitagorismo, in questo campo, spicca il nome di Platone. Una prova del valore magico riconosciuto da Platone alla musica Cfr. A. Delatte, La musique au tombeau dans l’antiquité, in «Revue archeologique» 21, 1913, pp. 318-332, il quale, analizzando numerosi vasi e bassorilievi greci in cui sono rappresentati personaggi in atto di suonare uno strumento musicale presso una tomba, sostiene che queste raffigurazioni esprimano la credenza religiosa che la musica sia la principale occupazione dei beati; così conclude il Delatte: «I canti e la musica strumentale sono la principale occupazione dei beati. Che al fondo di questa credenza ci sia una concezione molto ordinaria che tutti ancora comprendono, quella cioè del piacere che la musica procura, è evidente; ma un’idea più profonda si è forse per lo meno fusa con quella ordinaria: quella del valore magico della musica. L’importanza straordinaria che le si riconosce per la salute del corpo e dell’anima, per esempio presso i pitagorici, ne è un indice certo». 3
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si trova nel Carmide, dove Socrate, spacciandosi per un medico e fingendo di avere il rimedio per il mal di testa da cui è affetto il giovane Carmide, afferma di conoscere una pianta medicinale, il cui effetto risulta però vano se non è accompagnata da un canto magico: solo le note di questo canto hanno il potere di attivare i princìpi medicamentosi della pianta, agendo sull’anima e disponendola ad accogliere il farmaco4. La credenza sottesa a questo luogo del Carmide è quella tipica dell’antica medicina, comune a tutti i popoli imbevuti di fede negli spiriti: la malattia del corpo è una conseguenza di un disordine generale che investe soprattutto l’anima, per cui la cura del corpo non può che passare
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4 Charm. 155 e: «Quando mi chiese se conoscessi il rimedio per la testa [...], risposi che era una certa pianta, ma che, oltre al farmaco, c’era un canto magico (e\p§dhé); e se veniva cantato mentre si faceva uso del farmaco, il farmaco faceva guarire completamente; senza il canto magico la pianta non era di nessuna utilità (a"neu deè th%v e\p§dh%v ou\deèn o"felov ei"h tou% fuéllou)». Abbiamo reso e\p§dhé con canto magico, perché questo propriamente significa anche in italiano il termine incantesimo, col quale comunemente si traduce e\p§dhé. In un papiro ercolanese di Filodemo di Gadara (I sec. a. C.) si legge un simpatico aneddoto sulle ultime ore di Platone, nel quale si fa riferimento all’impiego farmaceutico del canto e della musica: «Platone, ormai vecchio, accolse presso di sé un ospite caldeo, capace di eseguire certi canti magici, dato che Platone aveva la febbre. Costui, accompagnato da una suonatrice di flauto tracia, volendo intonare un canto, incominciò a dare il ritmo con un dattilo. Subito Platone gli gridò se fosse uscito di senno, e
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attraverso la cura dell’anima; il ruolo della catarsi musicale s’inserisce pienamente in questo ambito culturale proprio dell’antica medicina5. A questo punto vogliamo riportare un lungo estratto dalla Vita pitagorica di Giamblico, perché esso ci permette, per la caratteristica tipica di quest’opera, di avere una visione generale delle credenze pitagoriche sul ruolo catartico della musica, per poi prendere 72 da qui ad analizzare i singoli aspetti della questione, 91rifacendoci ad altre fonti e ad altri autori: [Pitagora] era dell’opinione che anche la musica fornisse un notevole contributo alla salute, qualora ad essa ci si dedicasse nel modo confacente. In effetti la considerava un
gli chiese [come gli fosse venuta questa idea]. E avendogli quegli risposto: Ben vedi come la natura barbara rimane irrimediabilmente ineducabile, poiché “Dei barbari l’orecchio senza ritmo sta, ché ogni slancio cogliere non sa”, Platone si rallegrò, e tutto contento si complimentò con lui per quel verso venutogli così spontaneo, e anche per averlo recitato [senza remore]. In seguito, salitagli ancora la febbre a causa di un improvviso risveglio notturno, e riuscendo a respirare solo a fatica, l’anima sua abbandonò il corpo», trad. in Moutsopoulos, op. cit., p. 8. Su §\dhé e e\p§dhé nell’opera di Platone, cfr. G. Casertano, Magia, incantesimo e filosofia in Platone, in L’eterna malattia del discorso, Liguori, Napoli 1991, pp. 76-80. Sull’e\p§dhé come faérmakon, cfr. L. A. Perraud, Katharsis in Plato, Indiana University Bloomington, Michigan U.S.A. 1983, pp. 25 e segg. 5 Cfr. P. Boyancé, Le culte... cit., pp. 103-105. Il Boyancé ricorda che le pratiche di purificazione erano tipiche dei popoli selvaggi e primitivi, perché basate sulla credenza che le malattie abbiano sempre una causa invisibile e spirituale, siano cioè
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mezzo tutt’altro che secondario di procurare la “catarsi”. Era questo il nome che dava alla cura operata per il tramite della musica. A primavera eseguiva questo esercizio musicale: faceva sedere in mezzo un liricine, mentre tutt’intorno sedevano i cantori e così, al suono della lira, cantavano insieme dei peana che ritenevano procurassero loro gioia, armonia e ordine interiore. Ma anche in altri periodi dell’anno i pitagorici si servivano della musica come mezzo di cura. C’erano determinate melodie, composte per le passioni dell’anima – gli stati di scoraggiamento e di depressione – che pensavano fossero di grandissimo giovamento. Altre erano per l’ira e l’eccitazione e ogni altra consimile perturbazione dell’animo. Inoltre esisteva una musica di genere differente, escogitata al fine di contrastare il desiderio. I pitagorici usavano anche danzare, e lo strumento di cui si avvalevano a questo fine era la lira, perché il suono del flauto lo consideravano violento, adatto alle feste popolari e del tutto indegno di uomini di condizione libera. Per favorire l’emendazione dell’animo usavano inoltre recitare versi scelti di Omero e di Esiodo. Si racconta poi che una volta Pitagora, che in quel momento era dedito alle sue occupazioni, fosse riuscito a placare, grazie a un’aria solenne di quelle in uso in occasione delle libagioni fatta eseguire al flautista, la furia del giovane ubriaco di Tauromenio. Questi impazziva nottetempo per la sua amata e stava per appiccare il fuoco alla porta di un rivale in amore; era stato infatti la conseguenza di un’impurità dello spirito che perciò va purificata. La virtù del farmaco, dunque, è sempre, prima che di natura fisiologica, soprattutto di natura mistica. E «i pitagorici non erano certamente i soli ad avere in Grecia questa concezione della malattia e della medicina». Quando Giamblico dice che i pitagorici «talvolta guarivano certi stati d’animo patologici cantando formule magiche» (Vit. Pyth. 114), riferisce precisamente questa concezione della malattia e della medicina.
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eccitato da una melodia frigia per flauto. Pitagora dunque, che era intento, nel pieno della notte, agli studi di astronomia, ordinando al flautista di passare al ritmo delle arie da libagione, fece sì che subito smettesse [...]. Inoltre l’intera scuola pitagorica realizzava quelle che si chiamavano le “preparazioni”, e “l’armonizzazione” e la “correzione” mediante certe melodie adeguate allo scopo, con le quali modificavano giovevolmente gli stati d’animo, suscitando i sentimenti inversi. Infatti al momento di andare a coricarsi purificavano la mente dagli echi dei turbamenti della giornata per mezzo di canti e di melodie particolari, e così si procuravano un riposo tranquillo accompagnato da pochi e buoni sogni. Anche quando si levavano si liberavano dal torpore del letto e dalla sonnolenza grazie a canti di un genere diverso e talora a melodie senza parole. A quanto dicono, talvolta guarivano certi stati d’animo patologici cantando formule magiche (e\pçédontev): ed è verosimile che da ciò sia entrato in uso il termine “incantamento” (e\p§dhé). Fu in tal modo dunque che Pitagora fece del miglioramento del carattere e della vita degli uomini realizzato attraverso la musica un mezzo di grandissimo giovamento6.
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Il ruolo catartico della musica era talmente importante per i primi pitagorici, che Schuhl ha potuto sostenere che il loro interesse per la musica derivi principalmente da qui7. Senza dubbio c’è del vero in questa tesi, sebbene le implicazioni tra musica e matematica abbiano giocato un ruolo altrettanto decisivo. Proprio questo duplice modo di guardare alla musica, da un lato come disciplina
6 Iambl. Vit. Pyth. 110-114. Cfr. anche Iambl. Vit. Pyth. 6468, e Porph. Vit. Pyth. 30-33. 7 Cfr. P. M. Schuhl, op. cit., p. 252.
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eminentemente matematica, in cui la natura del numero si rivela chiaramente come il fondamento dell’armonia, e dall’altro come principale pratica catartica, capace d’influire sugli affetti dell’animo, rende ragione della tesi storiografica secondo la quale la scuola pitagorica non fu né soltanto istituzione scientifica, né solo setta religiosa, ma entrambe le cose8. Senza uno studio della loro teoria musicale, nelle varie forme che essa ha assunto a seconda dell’ambito disciplinare in cui la musica veniva calata, ci si preclude la possibilità di1comprendere 9 la mentalità dei pitagorici: la mentalità 72 dei pitagorici fu essenzialmente musicale, lo spirito del pitagorismo risiede nella sua poliedrica teoria musicale. Il fatto poi che la musica fosse trattata dai pitagorici come una disciplina essenzialmente matematica, che inoltre l’astronomia fosse tenuta in sommo grado per la teoria dell’armonia degli astri, tutto ciò dimostra non che i pitagorici furono anzitutto matematici e astronomi, bensì avvalora la tesi del carattere eminentemente musicale del loro pensiero. Non dunque semplice mezzo del piacere, la musica si meritò un posto d’onore tra le discipline insegnate nella scuola pitagorica in virtù del suo impiego magico-religioso9; Porfirio ce lo ricorda Cfr. P. Boyancé, Le culte... cit., p. 100. È interessante notare che Platone, da vero pitagorico, nelle Leg. II, 655 c-d considera sacra una concezione etica della 8 9
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apertamente, quando scrive: «Pitagora esercitava un magico potere sulle affezioni dell’animo e del corpo, che leniva con l’ausilio di musica ritmica, canti e formule incantatorie»10. Ma oltre che magica, quella di utilizzare la musica per purificare gli animi era anche e soprattutto una pratica religiosa, perché gli effetti che Giamblico chiama preparazione, correzione, armonizzazione dell’anima, termini che possono riassumersi sotto quello di catarsi, si comprendono solo se inseriti in un discorso religioso: l’anima, che è ciò che ci rende simili agli dèi, deve continuamente sforzarsi di elevarsi dalla terra per farsi quanto più è possibile prossima ai Celesti, in un processo di autodivinizzazione che passa mediante la liberazione da tutte le catene che la tengono avvinta al corpo. L’elemento corporeo-psichico che in tutte le religioni viene riconosciuto come il principale responsabile della corruzione spirituale dell’uomo sono le passioni: la musica, musica, mentre empia la concezione edonistica comune al suo tempo: dire che «la regolarità della musica consiste nel procurare piacere (h|donhé) all’anima» è «inaccettabile e del tutto sacrilego (ou"te a\nektoèn ou"te o$sion toè paraépan)», e «se qualcuno introdurrà altri inni o canti contrari a questi già stabiliti, i sacerdoti e le sacerdotesse insieme ai custodi delle leggi glielo proibiscano, e tale proibizione sia dovuta a motivi di santità e sia conforme alle leggi, e se chi è stato impedito non accetta volontariamente questa proibizione, chiunque voglia possa accusarlo di empietà per tutto il corso della sua esistenza (799 b)». 10 Vit. Pyth. 30.
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presso i pitagorici, era una delle vie più praticate per liberarsene. De Ruggiero attribuiva alle purificazioni pitagoriche un intimo significato morale11, il che è giusto, a patto però che il significato morale sia pensato come parte integrante di quello religioso: una morale separata dalla religione non è concepibile nell’ambito della cultura pitagorica. L’importanza dell’incantesimo è capitale nel pitagorismo delle origini, e la setta conservò questo aspetto magico del suo insegnamento anche nel corso del suo sviluppo posteriore, fin anche in epoca ellenistico-imperiale, quando, dopo essersi smarrito il legame di scuola e la foggia più propriamente scientifica, rimase tuttavia in piedi il sembiante mistico-religioso della tradizione pitagorica. La musica strumentale e il canto, in grazia del loro statuto di pratiche privilegiate per l’esecuzione degli incantesimi curativi dell’anima e del corpo, assurgono a strumenti magico-religiosi.
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§ 2. Ethos musicale e movimenti dell’anima
Ma che cosa conferisce alla musica il suo potere catartico? Come può una melodia agire sull’anima 11 G. De Ruggiero, Storia della filosofia, 13 voll., Laterza, Bari 1967, vol. I, pp. 97-98: «Le purificazioni pitagoriche hanno dovuto avere fin dall’inizio un più intimo significato
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sì da placarne gli eccessi o risollevarla dalla depressione? Il problema di giustificare gli effetti oggettivi della musica sull’anima emerge da due dei Problemi musicali aristotelici, i quali tentano di dare una risposta ai nostri interrogativi:
Il movimento è dunque la chiave per risolvere la questione dell’ethos insito nella musica: il suono è movimento in grado di mettere in moto la nostra anima in modo del tutto peculiare, diverso da come un’immagine può muovere la vista. Della fisiologia dell’udito abbiamo già avuto modo di parlare nel secondo capitolo del nostro lavoro; in particolare, morale, poiché tra i mezzi catartici di maggiore efficacia, insieme con le pratiche dell’ascetismo, si annovera l’educazione dell’anima alla contemplazione teoretica e alla cultura musicale». 12 Probl. mus. 27. 13 Probl. mus. 29.
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Perché i ritmi e le melodie, che pure sono nient’altro che suono, hanno rapporto di somiglianza con le qualità morali, mentre i sapori no, e neppure i colori e gli odori? Non sarà perché sono movimenti, come lo sono anche le azioni?13
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Perché tra le qualità sensibili solo quelle uditive posseggono ethos? E difatti anche senza parole una melodia ha ethos, ma questo non vale per i colori, gli odori e i sapori. O non è perché per poco non hanno movimento, quel movimento appunto col quale ogni suono ci muove?12
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avevamo analizzato un passo del Timeo, dove il fenomeno della consonanza veniva spiegato in base ai movimenti che il suono produce nella nostra anima14. Crediamo che alla base della risposta data nei due problemi musicali qui sopra, ci sia proprio questa teoria fisiologica, secondo cui i movimenti esterni si comunicano all’interno, generando movimenti dell’anima, il cui genere dipende dalla qualità dei movimenti esterni che li hanno prodotti. Ecco perché le melodie hanno un ethos differente a seconda del modo in cui vengono suonate o cantate; perché un ritmo molle muove l’anima diversamente da uno guerresco; perché la lira, in certe circostanze, è più indicata del flauto. Per capire di che si tratti, basta immaginarsi dei soldati che si preparano all’assalto corpo a corpo su un campo di battaglia, incitati non dal suono squillante delle trombe e dal ritmo incalzante dei tamburi, ma dalla melodia sdolcinata di un flauto: l’effetto sul loro animo sarebbe disastroso; né mai nessun generale si è sognato di assumere, al posto del tamburino, un flautista! In un celebre passo del settimo libro delle Leggi, Platone espone chiaramente questo principio che il movimento è la radice dell’ethos musicale: Le nutrici dei bambini e quelle donne che hanno trovato un rimedio ai Coribanti hanno appreso questo metodo 14
Cfr. supra pp. 63-64.
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dall’esperienza riconoscendone la validità: quando infatti le madri vogliono mettere a dormire i loro bambini che non riescono ad addormentarsi, non li tengono fermi, ma al contrario li muovono, cullandoli di continuo fra le braccia, e non stanno in silenzio, ma cantano loro qualche melodia, ammaliandoli, così come vengono guariti coloro che sono fuori di sé per i furori bacchici, ricorrendo alla danza corale e alla musica [...]. Entrambe queste due condizioni rappresentano per noi una situazione di timore, e questo timore è determinato da un particolare stato di debolezza dell’anima. Quando qualcuno dall’esterno imprime una scossa a tali condizioni, il movimento che viene impresso dal di fuori supera il movimento della paura e della follia interna, e dominandolo, sembra determinare nell’anima una tranquilla serenità, e acquieta i molesti battiti del cuore ecc.15
Alla base della teoria dei movimenti dell’anima, che vanno indirizzati nella giusta direzione mediante opportune guide, ovvero i ritmi e le melodie, si trova quella ben nota dell’anima-armonia, professata dai pitagorici almeno a partire da Filolao, come si apprende dal Fedone di Platone e dal De anima di Aristotele: E poi, o Socrate, io penso che anche tu ti sia reso conto di ciò, che noi concepiamo che l’anima sia un pressappoco particolarmente simile a questo: come il nostro corpo fosse teso e tenuto insieme dal caldo, dal freddo, dal secco e dall’umido e da altre cose simili, così la nostra anima sia una fusione e un’armonia di queste stesse cose (kra%sin ei&nai kaiè a|rmoniéan au\tw%n touétwn thèn yuchèn h|mw%n), alla condizione che queste cose possano fondersi bene e ordinatamente le une 15
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Leg. VII, 790 d-791a.
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con le altre (e\peidaèn tau%ta kalw%v kaiè metriéwv kraq+% proèv a"llhla)16.
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Anche un’altra opinione è stata tramandata intorno all’anima. [...] dicono che l’anima sia una specie di accordo (a|rmoniéan gaér tina au\thèn leégousin), perché accordo è mescolanza e composizione di contrari (kaiè gaèr thèn a|rmoniéan kra%sin kaiè suénqesin e\nantiéwn ei&nai), e il corpo è composto di contrari17.
Se dunque l’anima è mescolanza o fusione di elementi eterogenei secondo determinati rapporti, un’alterazione di questi normali rapporti genererà confusione e dunque squilibrio psichico. Ma se l’a|rmoniéa è la legge dell’anima come della musica, nel senso che i rapporti numerici che sottendono all’equilibrio dell’anima sono gli stessi dell’armonia musicale, allora vorrà dire che la musica può agire sull’anima, essendo a essa congenere: basterà saper comporre delle musiche, in cui la mescolanza (kra%siv) dei suoni sia pensata in accordo con l’equilibrato rapporto degli elementi dell’anima, e in tal caso l’effetto sull’anima sarà giovevole. Non a caso abbiamo voluto sottolineare il termine kra%siv, che compare sia nel passo del Fedone sia in quello del De anima a indicare quell’ordinata mescolanza di elementi eterogenei di cui si compone l’anima; questo stesso termine è usato anche da Giamblico: 16 17
Phaedo 86 b-c. De anima A 4, 407 b 27 (VS 44 A 23 DK).
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Al risveglio li liberava dal torpore notturno, dalla fiacchezza e dall’indolenza con l’ausilio di particolari canti e melodie ottenuti esclusivamente per mezzo di combinazioni (yil+% t+% kraései), servendosi della lira o anche della voce umana18.
È proprio in virtù di una sapiente mescolanza di suoni che la musica agisce sull’anima, ristabilendone i rapporti spezzati, o anche squilibrando i rapporti normali. Ancora nei Problemi musicali aristotelici troviamo un’ulteriore conferma: Godiamo infine della musica, perché è mescolanza di contrari che stanno tra loro in un determinato rapporto (o$ti kra%siév e\stin loégon e\coéntwn e\nantiéwn proèv a"llhla)19.
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Qui il piacere suscitato dalla musica è spiegato proprio in base alla mescolanza di cui quella si compone: i contrari, in questo caso, sono i suoni acuti e gravi; ovviamente non è sufficiente combinare l’acuto e il grave come capita, ma è necessario seguire le regole dell’a|rmoniéa, se si vuole che la musica risulti e piacevole alle orecchie e giovevole all’anima. Ora, il nocciolo di tutta la questione è questo: le regole o leggi dell’a|rmoniéa valgono per i pitagorici a livello cosmico; questo principio è la legge del pitagorismo, l’unica legge di questa scuola, che nelle varie sue applicazioni assume di volta in volta facce diverse, ma è sempre il medesimo 18 19
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Iambl. Vit. Pyth. 65. Probl. mus. 38.
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concetto di accordo di parti eterogenee combinate in un tutto unitario; è il concetto, peraltro comune a tutta la filosofia antica, della molteplicità ricondotta all’unità per mezzo di un loégov: e per il pitagorismo vale l’equivalenza loégov = a|rmoniéa20. L’affinità della musica con la nostra anima è affermata anche nel Timeo, la cui ascendenza pitagorica è ribadita dal passo che segue: E così quanto vi è di utile nella musica è stato donato all’udito a causa dell’armonia. E l’armonia, dotata di movimenti affini ai circoli della nostra anima (h| deè a|rmoniéa, suggenei%v e"cousa foraèv tai%v e\n h|mi%n th%v yuch%v perioédoiv), a chi con intelligenza si serve delle Muse non sembra utile, come si crede ora, a procurare un piacere irragionevole: ma essa è stata data dalle Muse per ordinare e rendere consono con sé stesso il circolo della nostra anima che fosse diventato discorde (e\piè thèn gegonui%an e\n h|mi%n a\naérmoston yuch%v periéodon ei\v katakoésmhsin kaiè sumfwniéan e|aut+% suémmacov). E il ritmo è stato donato da quelle per questo stesso
motivo, vale a dire per ovviare a quella stessa condizione
20 Un’eco di quest’idea pitagorica noi la leggiamo nelle Leggi di Platone (III, 689 d-e), dove chi vive secondo ragione (o| kataè loégon zw%n) è anche colui che raggiunge la massima assennatezza, che è la più bella e più grande armonia (h| kalliésth kaiè megiésth tw%n sumfwniw%n). Cfr. B. MacLachlan, op. cit., p. 16: «L’attrazione della musica fu determinata dal fatto che le harmoniai, costituite dalle consonanze di quarta, quinta e ottava, avevano una diretta connessione con l’anima. I differenti caratteri delle varie harmoniai agiscono sulle persone in modi differenti, per cui l’anima fu considerata essa stessa una harmonia, o si pensò che ne contenesse una».
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che interessa la maggior parte di noi e che consiste nella mancanza di misura e di grazia21.
Questo passo è il suggello del discorso condotto in questo capitolo. Platone deve molto al pitagorismo22: nel passo qui sopra riportato ritroviamo la stessa dottrina dell’anima-armonia, la stessa concezione dell’affinità tra la musica e la nostra anima per via dell’armonia che è la legge di entrambe, la stessa teoria dei movimenti dell’anima discordanti che possono essere corretti da una musica sapientemente composta: tutti aspetti dell’insegnamento musicale pitagorico. Non vanno taciuti, al riguardo, due importanti frammenti di Filolao, dove l’affinità tra la musica e l’anima umana viene proprio spiegata in base all’a|rmoniéa:
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Armonia nasce esclusivamente da contrari; «perché armonia è unificazione di plurimescolati elementi e consenso di dissenzienti»23.
I pitagorici, che Platone segue in molti luoghi, chiamano la musica armonica disposizione di contrari, e unificazione dei molti, e consenso dei dissenzienti24. Tim. 47 d-e. Cfr. il parere di W. Burkert, op. cit., p. 376: «La musica magica è fondata nei culti misterici e si carica di una valenza speciale attraverso i pitagorici. [...] la concezione della musica di Platone si sviluppa in questo contesto». 23 Nicom. Arithm. II 19 p. 115, 2 (VS 44 B 10 DK). 24 Theo Smyrn. p. 12, 10 (VS 44 B 10 DK). 21 22
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§ 3. L’educazione musicale: Platone
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Tutto questo discorso ci è servito per dare un solido fondamento, sulle basi fisiologiche e psicologiche della filosofia pitagorica, alla teoria della catarsi ottenuta per mezzo della musica. Vediamo ora quali sono le conseguenze di una tale credenza sul piano dell’educazione dell’uomo, perché, come dice Giamblico, lo scopo ultimo di Pitagora fu quello di fare «del miglioramento del carattere e della vita degli uomini realizzato attraverso la musica un mezzo di grandissimo giovamento». Giamblico ci tramanda che «Pitagora collocò al primo posto l’educazione basata sulla musica, cioè su determinati ritmi e melodie in grado di curare l’indole e gli affetti degli uomini, nonché di ricondurre all’armonico equilibrio originario le forze dell’animo»; Platone, dal canto suo, riconosceva alla musica il posto principale nell’educazione del giovane, fino al punto da considerare non educato affatto (a\paiédeutov) l’individuo che mancasse di educazione musicale (a\coéreustov)25. Nel III libro della Repubblica (401 d-402 a) troviamo una vera e Leg. II, 654 a-b, 672 e. Sull’educazione musicale prima di Platone e in Platone, si vedano le ricchissime pagine di E. Moutsopoulos, op. cit., pp. 186-252; J. Stenzel, op. cit., 60-78; W. D. Anderson, Ethos and education in Greek music, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts, 1968², pp. 64-110. 25
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propria dichiarazione dei vantaggi di un’educazione musicale: A questo fine perciò, l’educazione decisiva è quella musicale, perché il ritmo e l’armonia penetrano fino in fondo nell’animo, e lo toccano nel modo più vigoroso infondendogli eleganza, e rendono bello chi abbia ricevuto un’educazione corretta, mentre accade il contrario all’incolto. Chi possiede una sufficiente educazione musicale può accorgersi con grande acutezza di ciò che è brutto o imperfetto nelle opere d’arte o in natura, e se ne dispiace a buon diritto, mentre sa approvare e accogliere con gioia nel suo animo ciò che è bello, e nutrirsene e diventare un uomo onesto. Fin da giovane saprà invece biasimare e odiare giustamente ciò che è brutto, ancora prima di potere motivare razionalmente la sua avversione; quando poi avrà anche questa facoltà, la saluterà con affetto, perché, se avrà ricevuto tale educazione, la sentirà affine a sé stesso.
Il discorso è sempre lo stesso: ritmo e armonia, i due elementi più propriamente musicali che, insieme alla parola, concorrono a costituire la melodia (meélov), hanno il potere di penetrare nell’anima, per i motivi che abbiamo analizzati più sopra, e in tal modo influiscono sulla condotta dell’individuo. Poiché educare vuol dire dirigere l’anima dell’uomo lungo la via della virtù, chi si occupa di educare un fanciullo deve usare quegli strumenti più adeguati a indirizzare la sua anima verso il bene e il bello. In questo brano della Repubblica è contenuto un tema caro a Platone, l’idea pitagorica del bello come or-
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dine, misura, proporzione, accordo e armonia: la musica più di ogni altra disciplina possiede quelle proprietà che definiscono il bello (ordine, misura, proporzione, accordo e armonia), può perciò contribuire alla crescita dell’uomo secondo tali criteri26. Per queste ragioni, poeti e giudici nei concorsi musicali sono innanzitutto educatori: le composizioni poetiche hanno lo scopo non di allettare, ma di guidare alla virtù, e solo in grazia di ciò allettano pure, e i giudici devono premiare le opere di questo genere. Platone addirittura, inserendosi nel solco della tradizione pitagorica che considera incantamento il canto, afferma esplicitamente che compito del poeta è «incantare i giovani come si deve, guidandoli sulla via della virtù (i|kanoèn e\p§doèn giénesqai neéoiv proèv a\rethén)»27. Ma se la musica ha effetti sull’anima diversi a seconda del modo (a|rmoniéa) in cui è composta, allora ci saranno musiche “buone” e musiche “cattive”, cioè modi virtuosi e modi viziosi. Una 91 parte del III libro della Repubblica è dedicata 7 a2 questo argomento. L’idea di Platone è che «armonia e ritmo debbono seguire la parola» (398 d), vale a dire che una melodia che accompagna un verso deve adattarsi all’argomento espresso dalle 26 Cfr. W. Tatarkievic, Storia dell’estetica, 3 voll., trad. it. di G. Cavaglià, Einaudi, Torino 1979, vol. I, p. 148. 27 Leg. II, 671 a.
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parole: un verso triste e lamentoso deve essere accompagnato da una musica lamentosa, e così via28. Ma poiché gli interlocutori del dialogo avevano precedentemente stabilito che per l’equilibrio dello Stato devono essere banditi dalle opere letterarie i lamenti e i gemiti, non ci sarà nemmeno spazio per le armonie lamentose («la misolidia, la sintonolidia e altre simili», 398 e). Lo stesso vale per tutti quei discorsi che promuovono la mollezza e la pigrizia, che devono essere banditi insieme alle armonie che li accompagnano, quelle molli e conviviali («la ionica e la lidia», 398 e). Soltanto quei discorsi e quelle armonie («la dorica e la frigia», 399 a) che sono propri di un uomo coraggioso, che promuovono l’impegno e la fermezza nell’azione, nonché la temperanza e l’equilibrio, che cioè sono degni dell’uomo virtuoso, saranno ammessi nello Nelle Leg. II, 669 d-e, Platone critica quei musici che «compongono melodia e ritmo senza parole, usando la nuda cetra e il flauto», perché «in questo caso è assai difficile riconoscere che cosa vogliano rappresentare ritmo e armonia senza parole, e a quale delle imitazioni degne di considerazione siano somiglianti». L’epicureo Filodemo, nel primo libro del Periè mousikh%v, si esprimeva in maniera analoga, quando, forse rileggendo proprio il passo platonico, scriveva: «[I musici] separano ritmi e forme di discorso, componendo solo discorsi spogli [di musica], ed una melodia che, a sua volta, sia priva di parole, servendosi del suono della cetra e del flauto, in cui è difficilissimo riconoscere ciò che vogliono [rappresentare] ritmo e melodia che non corrispondono a nessun testo, e quale model-
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Stato29. La condanna platonica delle armonie o modi s’inscrive, dunque, nella più generale condanna dell’arte e, in particolare, della poesia, e concorre a definire un secondo concetto del bello, che può esser definito come concetto etico del bello: il bello non può esser disgiunto dal virtuoso, per cui in musica un’armonia indegna di un uomo virtuoso risulterà per ciò stesso anche brutta30. Ovviamente anche la musica, come ogni altra arte, possiede per Platone lo statuto della miémhsiv, è cioè imitazione di particolari realtà, in questo caso dei caratteri e modi di vita31: una selezione dei caratteri in virtuo-
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lo imitino, che sia degno di questo nome», (XI 69, fr. 1, pap. 1572) trad. di G. M. Rispoli in Ead., Il primo libro del Periè mousikh%v di Filodemo, Giannini, Napoli 1968, p. 41. 29 Per la predilezione del modo dorico, cfr. ancora Lach. 188 d, e Leg. 670 b. Un esempio di censura musicale è offerto dalle istituzioni spartane, cui Platone pure guardò nell’elaborazione del suo disegno politico: cfr. Plut. Agis 10, 7. 30 Questo argomento è affrontato nel II libro delle Leggi; cfr. per esempio 655 b: «[...] esiste la movenza e la melodia dell’uomo vile e di quello valoroso, e si può giustamente definire bello quello degli uomini valorosi, e turpe quello dei vili [...]. Si dica semplicemente che tutte le movenze e le melodie dell’anima o del corpo che esprimono direttamente la virtù o ne sono immagine sono belle, mentre quelle che esprimono il vizio sono tutto il contrario». 31 Così Platone si esprime nelle Leg. II, 655 d-e: «Poiché le rappresentazioni corali (taè periè taèv coreiéav) sono imitazioni di modi di vita (mimhémata troépwn) che riguardano azioni e circostanze di ogni genere, e ciascuna avviene grazie alla pratica dell’imitazione, è indispensabile che coloro che trovano corrispon-
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si e viziosi, nell’ambito di una concezione etica dello Stato e della vita tout court, esige un’analoga selezione delle armonie32. A tal punto prevale nella visione platonica l’aspetto etico della realtà, che per essere buoni musicisti non bisogna innanzitutto imparare la tecnica strumentale, ma piuttosto acquisire la capacità di riconoscere le forme (ei"dh) delle virtù e dei vizi, «nella convinzione che questo sia lo scopo della medesima arte e del medesimo studio»33. È difficile, soprattutto per noi moderni, accettare il discorso platonico sull’eticità di un’arte così lontana dalla logica dei discorsi come la musica; possiamo tuttavia comprendere le ragioni del filosofo: Platone rifiuta la concezione, per lo più moderna e estranea all’antichità, dell’arte per l’arte; il fine dell’arte è il miglioramento etico dell’individuo, o meglio, del cittadino, e pertanto un legisla-
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denti alla loro natura o alla loro sensibilità – o all’una e all’altra cosa insieme – ciò che viene detto o cantato, e in ogni caso rappresentato dai cori, ne traggano godimento, e lo esaltino con lodi, e lo definiscano bello ecc.»; e ancora in 668 a: «Non diciamo dunque che tutta la musica è rappresentativa (ei\kastikhé) e imitativa (mimhtikhé)?». 32 Resp. III, 399 a-c. Per un commento a questi luoghi del III libro della Repubblica, cfr. E. Moutsopoulos, op. cit., pp. 9093. Per un quadro generale dell’ethos dei ritmi e dei modi greci, cfr. F. A. Gevaert, «Éthos des types métriques», in Histoire et théorie de la musique dans l’antiquité, 2 voll., AnnootBraeckman, Gand 1875-1878, vol. I, libro III, cap. II, pp. 118 e segg. 33 Resp. III, 402 c.
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tore dovrà impegnarsi innanzitutto a emendare i programmi educativi da quei prodotti artistici che non concorrono a promuovere la virtù, bensì ad accrescere il vizio. Il concetto della musica e del musicista che si ricava dalle pagine platoniche che stiamo analizzando è dunque assai lontano dalle nostre concezioni moderne: se per noi un musicista è innanzitutto un uomo in grado di suonare uno strumento, per Platone questo aspetto tecnico della musica è secondario, seppure non trascurabile, dal momento che la musica si fa comunque con gli strumenti; ciò che per il filosofo conta in sommo grado è trasferire all’anima, per mezzo dell’educazione musicale, unita all’educazione ginnica, quella proprietà che la musica possiede sopra ogni altra disciplina e che la rende perciò privilegiata rispetto alle altre: vale a dire l’armonia. Fare dell’anima il regno dell’armonia: questo il compito dell’educatore. Se questo è lo scopo della musica, è ovvio che non sarà tanto ricercato il virtuosismo tecnico: sono anzi note le invettive di Platone ai virtuosi del suo tempo i quali, mescolando i ritmi e le armonie, hanno stravolto la musica tradizionale e ciò per cui essa era eticamente consigliata34.
Resp. III, 412 a: «Chi dunque fonde nel modo migliore musica e ginnastica e le applica all’animo con ottimo equilibrio, si potrebbe definire un perfetto musicista e un esperto di armonia (teleéwv mousikwétaton kaiè eu\armostoétaton) assai più abile di chi sa accordare uno strumento». Cfr. anche Lach. 188 c-d, 34
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§ 4. Damone
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La discussione sull’ethos delle armonie o modi non è iniziata con Platone e non è cessata con lui. Le sue origini vanno ricercate nella tradizione pitagorica, benché Platone abbia dato al dibattito uno sviluppo assai più ampio, anche in conseguenza dell’elaborazione dei modi e del crescente fenomeno del virtuosismo musicale, che imponeva l’urgenza di una riflessione sull’etica musicale. Ma un illustre predecessore e “maestro” di Platone su questa strada fu Damone35, il cui ruolo ci è ricordato dallo stesso Platone in alcuni passi della Repubblica. Una prima volta nella sezione del III libro (400 b) in cui si parla dell’emendazione delle armonie e dei ritmi: dopo aver affrontato il problema della corrispondenza tra armonie e modi di vivere, gli interlocutori passano a trattare della simmetria tra i ritmi e i modi di vivere; su questo argomento non possono fare di meglio che affidarsi a un personaggio che appare come un’autorità nel campo dell’etica musidove Platone afferma di considerare perfetto musico non tanto chi sa accordare uno strumento, ma chi è in grado di comporre discorsi sulla virtù che siano in armonia con la sua vita. 35 Cfr. F. Lasserre, op. cit., pp. 53-87; W. D. Anderson, op. cit., pp. 36-42; R. W. Wallace, Damone di Oa ed i suoi successori, in Harmonia mundi. Musica e filosofia nell’antichità (Quaderni Urbinati di Cultura Classica, 5), a cura di R. W. Wallace e B. MacLachlan, Edizioni dell’Ateneo, Pisa 1991.
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cale: «Questo ce lo faremo spiegare da Damone: quali metri corrispondano alla meschinità e all’insolenza, o alla follia e alle altre manifestazioni della malvagità; e quali ritmi si addicano invece ai pregi contrari». Ancora, nel libro IV (424 b-c), raccomandando d’evitare ogni innovazione nei programmi educativi dei giovani, e particolarmente nella musica, Platone si affida all’autorità di Damone: «Occorre infatti guardarsi dall’introdurre un nuovo genere musicale, perché esso metterebbe a repentaglio ogni cosa, e anch’io come Damone sono convinto che non si possono mutare i modi musicali senza mutare le leggi fondamentali dello Stato»36. Se un filosofo del calibro di Platone, in una questione per lui così importante come quella che concerne i princìpi dell’educazione musicale, e in un’opera della maturità qual è la Repubblica, si affida ripetute volte all’opinione di un altro, non c’è da dubitare che l’autorità di quest’uomo si fondava su un insegnamento ormai diffuso e consolidato presso le scuole musicali, e costituiva perciò una vera e propria tradizione37. E questa tradizione di cui Damone era stato un elaboratore e sistematore è quel-
36 Cfr. Leg. II, 660 b-c: «sono al corrente di certe cose sempre nuove che avvengono nell’ambito delle danze e in tutto il resto della musica, e questo continuo mutare non è determinato dalle leggi, ma da certi confusi desideri ecc.»; cfr. anche Leg. II, 665 d. 37 Questa scuola damoniana è attestata nelle fonti antiche con l’espressione oi| periè Daémwna.
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la alla quale Platone ha sempre guardato con religioso rispetto e da cui ha ripetutamente tratto ispirazione, vale a dire la tradizione pitagorica, nella misura in cui questa filosofia ha riconosciuto alla musica un potere tutto particolare di agire sul carattere dell’uomo. Gli aneddoti che le fonti hanno tramandato su Pitagora o Empedocle (considerato un pitagorico), impegnati a sanare mediante la musica gli squilibri dell’anima di giovani rapiti dall’ira o dal vino, sono analogamente narrati anche sul personaggio di Damone, e rivelano quella stessa concezione della musica come farmaco dell’anima che abbiamo analizzata sopra a proposito di alcuni luoghi di Giamblico e di Platone38. Di Damone si tramanda anche la dubbia notizia che avrebbe composto un discorso pronuncia-
Galen. de Hipp. et Plat. V 453 Müll.: «Il musicista Damone, trovatosi presente mentre una flautista suonava al modo frigio ad alcuni giovinetti che, eccitati dal vino, si abbandonavano ad atti folli, le ordinò di suonare al modo dorico; e quelli immediatamente cessarono la loro agitazione insensata», (trad. it. di M. Timpanaro Cardini in Ead., Pitagorici... cit., vol. III, p. 352). Nulla vieta di pensare che brani come questo appena letto siano delle invenzioni seriori, che però riflettono comunque un ambiente culturale tipico o lo spirito proprio di una corrente di pensiero. Può darsi, come sostiene R. W. Wallace, op. cit., pp. 52-53, che il materiale riguardante Damone e la sua scuola che si legge nelle fonti tarde sia soltanto una rielaborazione delle osservazioni sulla musica presenti nella Repubblica di Platone. Le citazioni del nome di Damone nella Repubblica restano tuttavia validissime testimonianze relative all’impegno 38
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to davanti all’Areopago, per propagandare le sue idee in merito al valore etico e pedagogico della musica39. È verosimile credere (la scarsità di fonti non ci consente di parlare con maggior sicurezza) che l’impegno di Damone nel campo dell’etica musicale provenisse da quella convinzione, tipicamente pitagorica, che in virtù delle sue proprietà la musica è in grado di infondere nell’anima l’eu\kosmiéa e l’eu\taxiéa, cioè il buon ordine e la buona disposizione. Quello stesso elogio dell’educazione musicale che si evinceva dai brani di Giamblico e di Platone lo si ritrova in un frammento del primo libro del Periè mousikh%v di Filodemo di Gadara a proposito dell’insegnamento musicale di Damone, che però l’autore, da buon epicureo, rifiuta sicuramente: rendere l’indole il più possibile conforme ad armonia e ritmo; e ad un tale che voleva sapere se la musica incita a tutte le virtù o [solo] ad alcune, dice che il musico Damone rispondesse che a suo giudizio essa incita pressoché a tutte; egli infatti diceva che quando il fanciullo canta e suona la cetra, deve insieme dimostrare non solo coraggio e saggezza, ma anche giustizia40.
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del sofista ateniese nel campo dell’elaborazione di una teoria etica connessa ai ritmi e alle armonie. 39 R. W. Wallace, op. cit., pp. 40-41, sostiene che un discorso sull’educazione dei giovani pronunciato da un sofista davanti all’Areopago non avrebbe avuto senso all’epoca di Damone, quando l’educazione era un fatto privato e lo Stato non prendeva provvedimenti in materia. 40 Philod. periè mousikh%v IX 70, fr. 9 A, pap. 411 (trad. it. di M. Timpanaro Cardini in Ead., Pitagorici... cit., vol. III, p. 354).
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Aristide Quintiliano parla dell’insegnamento di Damone negli stessi termini: La scuola di Damone insegnava che i suoni di una frase melodica per effetto di assimilazione (di} o|moioéthtov) creano nei fanciulli delle tendenze che essi non posseggono ancora, e, negli adulti, sviluppano quelle latenti. Di fatto, nelle gamme da lui tramandate è dato osservare che, dei suoni mobili, ora i suoni femminili, ora i maschili, o predominano, o sono in minoranza, o mancano addirittura; prova evidente che, a suo parere, la gamma esercita un’influenza utile sulle anime, a seconda dell’indole di ciascuna di esse41.
In questa testimonianza compare un termine,
o|moioéthv, che suscita la nostra attenzione: si tratta
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del concetto, comune alla filosofia antica, del simile che agisce sul simile; sennonché, inserito nel contesto della teoria musicale pitagorica, il concetto dell’o|moioéthv assume un valore particolare, perché, in questo caso, ciò che è simile alla musica e all’anima è l’a|rmoniéa, come si ricavava dal VS 44 B 10 Cfr. G. M. Rispoli, op. cit.; Ead., Elementi di fisica e di etica epicurea nella teoria musicale di Filodemo di Gadara, in Harmonia mundi. Musica e filosofia nell’antichità (Quaderni Urbinati di Cultura Classica, 5), a cura di R. W. Wallace e B. MacLachlan, Edizioni dell’Ateneo, Pisa 1991. R. W. Wallace, op. cit., pp. 3742, ritiene che Filodemo dipenda da un dialogo sulla musica che ha tra i personaggi Damone, composto forse da Eraclide Pontico nel tardo IV secolo. 41 Arist. Quint. II 14 (in M. Timpanaro Cardini, Pitagorici... cit., vol. III, pp. 359-361).
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DK di Filolao. Forse una prova che Damone è il frutto maturo di una lunga tradizione? In Ateneo troviamo attribuita a Damone quella stessa spiegazione fisiologica propria del pitagorismo, che risolveva l’azione della musica sull’anima in base al movimento: Con ragione Damone Ateniese diceva che i canti e le danze necessariamente si generano da un certo commovimento dell’anima (kinoumeénhv pwv th%v yuch%v); e quelli che sono liberi e belli creano tali le anime; quelli contrari, le contrarie42.
Resta pur sempre vero che le fonti non ci permettono di attribuire con sicurezza a Damone una dipendenza diretta dalla scuola pitagorica in rapporto alle sue teorie di etica musicale, ché anzi parrebbe sia stato proprio lui a dare un impulso decisivo a queste riflessioni filosofiche, svincolandole dalla semplice credenza magico-religiosa e proiettandole sul terreno della ricerca razionale connessa anche alla pratica musicale (in tal senso si possono leggere i riferimenti a Damone nella Repubblica di Platone).
Athen. XIV p. 628 C (in M. Timpanaro Cardini, Pitagorici... cit., vol. III, p. 357). 42
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§ 5. Il papiro musicale di Hibeh
Le idee damoniane e platoniche, ma in generale pitagoriche, sul valore etico della musica non furono però unanimemente condivise. L’attualità del dibattito sull’etica musicale in epoca classica ci è testimoniata da un importantissimo papiro, noto come Papiro musicale di Hibeh (pap. di Hibeh n. 13), che riproduce il discorso di un retore databile al V-IV secolo43. Una questione centrale nel discorso è la critica agli armonisti (a|rmonikoié), i quali, secondo l’autore, dichiarandosi inesperti di pratica musicale ma esperti di teoria, dicono un cumulo di sciocchezze sul potere che ha la musica di suscitare i più diversi vizi e virtù, e per giunta se ne stanno
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43 Il papiro, ritrovato nel 1902, risale al 280-240 a. C. Discussa è l’attribuzione del discorso in esso contenuto a un preciso autore: inizialmente si pensò a Ippia di Elide o a qualche sofista del V sec. (Blass, Ruelle e altri); altri studiosi hanno proposto Isocrate o qualche suo discepolo; A. Brancacci, Alcidamante e PHibeh 13 «De musica». Musica della retorica e retorica della musica, in A. Brancacci et alii, Aristoxenica, Menandrea. Fragmenta philosophica, Olschki, Firenze, 1988, pp. 64-84, che ricostruisce la storia della critica del PHibeh 13, è sicuro di una sua datazione prearistossenica, ma rifiuta decisamente l’attribuzione a Ippia o a Democrito o a qualche altro sofista del V secolo, propendendo invece per un sofista degli inizi del IV secolo, cioè Alcidamante. Ciò che conta per il nostro studio è rilevare l’attacco dell’autore del PHibeh 13 alle dottrine concernenti l’ethos musicale elaborate da Damone sulla scorta delle intuizioni pitagori-
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continuamente seduti a pizzicare le corde di uno strumento, suonando e cantando in modo pessimo: Dicono che delle melodie (tw%n melw%n) alcune rendono [gli uomini] pazienti, altre assennati, altre ancora giusti, altre coraggiosi, altre invece vili, ma in verità giudicano male che il genere cromatico (crw%ma) possa rendere vili coloro che lo praticano, mentre il genere enarmonico (a|rmoniéa) li renderebbe coraggiosi. Chi non sa infatti che gli Etoli, i Dolopi e tutti quelli delle Termopili, i quali si servono del genere diatonico, sono più coraggiosi degli attori tragici, che cantano abitualmente sul genere enarmonico? Sicché né il genere cromatico rende vili, né l’enarmonico coraggiosi44.
Il bersaglio polemico dell’autore del discorso contenuto nel Papiro musicale di Hibeh, sia questi Ippia o qualche altro sofista suo contemporaneo, sono certamente le teorie sull’ethos della musica che, e ereditate da Platone e Aristotele. Se però dovesse essere accettata la paternità alcidamantea del discorso, dovremmo sicuramente escludere che l’obiettivo polemico fosse direttamente Platone, che compose la Repubblica e le Leggi pochi decenni dopo l’ipotetica data fissata da Brancacci per la composizione del discorso del PHibeh, il 390 a. C. 44 Citiamo solo in parte il discorso del papiro, per ciò che ci interessa in questa sede: il testo completo del Papiro musicale di Hibeh (col. I, 14-col II, 22) è in C. E. Ruelle, Le Papyrus musical de Hibeh, in «Revue de philol., de litter. et d’hist. anciennes» 31, 1907, pp. 235-240; anche in K. Jander, Oratorum et rhetorum fragmenta nuper reperta, in Kleine texte für vorlesungen und übungen, Bonn 1913, pp. 18-20, e in A. Brancacci, Alcidamante... cit., pp. 61-62.
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elaborate e diffuse da Damone, nel V secolo, e nel secolo successivo recepite e sostenute da Platone, che delle teorie musicali avversate dall’autore del Papiro fece un suo cavallo di battaglia per l’educazione dei cittadini ateniesi. Nel Papiro non si fanno nomi (se non quello assai generico di a|rmonikoié), ma è chiaro che l’invettiva è rivolta a una scuola di pensiero che vide in Damone e Platone i suoi principali esponenti45. È interessante trovare nelle Leggi un proclama perfettamente opposto a quello espresso nel discorso contenuto nel Papiro musicale di Hibeh. Platone stigmatizza l’ignoranza che ha condotto i poeti del suo tempo a stravolgere i costumi musicali tradizio7291le melodie in base al principio che nali, mescolando nella musica non esistono giudizi oggettivi ma tutto si decide in base al puro piacere dell’orecchio. Questa licenza nella musica ha ingenerato un imbarbarimento delle masse, le quali ora si sentono autorizzate a giudicare i componimenti poetici in base al loro gretto piacere, instaurando una sorta di teatrocrazia, mentre prima assistevano in silenzio agli spettacoli sapientemente selezionati dai legislatori46. Platone parla di un processo di dissoluzione
Cfr. C. E. Ruelle, op. cit., p. 235; K. Jander, op. cit., p. 20; W. D. Anderson, op. cit., pp. 147-152; M. Untersteiner, I sofisti, 2 voll., Lampugnani e Nigri, Milano 1967, vol. II, p. 165; A. Brancacci, op. cit., p. 83. 46 Leg. III, 700 a-701 a. 45
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Perché ci si sbaglia talvolta in entrambi i sensi. Gli uni ritengono che l’armonica sia qualcosa di grande, alcuni,
47 Secondo A. Brancacci, op. cit., pp. 77-78, si tratterebbe di un vero e proprio scontro tra due categorie, che si contendevano il primato e l’attenzione nei luoghi pubblici: i musicisti, che esaltavano il valore anche etico del linguaggio musicale, e i retori, che praticavano la potente arte fascinatoria del linguaggio verbale.
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o trasformazione dei modi tradizionali della musica cominciato già dalla seconda metà del V sec., cioè proprio in corrispondenza dell’opera dissacrante dei valori tradizionali messa in atto dai sofisti. Tra i valori tradizionali c’erano anche quelli musicali, contro i quali i sofisti, tra cui l’autore del discorso del Papiro musicale di Hibeh, non si risparmiarono d’intervenire. Anzi, poiché le discipline musicali costituivano la base dell’educazione greca, erano proprio uno degli obiettivi più pericolosi, perché essendo minate le basi dell’educazione si sarebbero avute conseguenze deplorevoli su tutta la vita pubblica. È proprio quello che Platone depreca, quando dice che «ha preso origine dalla musica l’opinione per cui tutti sanno tutto e un’illegalità che si è accompagnata a licenza» (701 a). Di questo dibattito, che dovette infiammare gli anni a cavallo tra i secoli V e IV47, sulla possibilità di attribuire alle forme e ai generi musicali un particolare risvolto etico, troviamo traccia in un passo degli Elementa di Aristosseno:
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perfino, che lo studio di essa non solo li renda musicisti, ma migliori il loro carattere – per aver mal compreso ciò che dicevamo nelle nostre conferenze: «cerchiamo di mostrare, riguardo ad ogni composizione ed alla musica in generale, quel che può nuocere e quel che può giovare al carattere» e, non solo hanno frainteso questo, ma non hanno inteso affatto «quanta influenza morale può avere la musica» –; gli altri poi ritengono che l’armonica non abbia nessuna importanza, ma che sia qualcosa di insignificante, pur volendo non essere ignari di ciò in cui essa consiste48.
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Aristosseno, interessato nella sua Armonica a fornire i principi teorici della pratica musicale, intende premunirsi, con le sue dichiarazioni, dalle accuse di coloro che potrebbero cercare nella sua opera quello che non troverebbero mai, cioè una discussione dei caratteri connessi a ogni singolo genere o modo musicale49. Così facendo egli prende le distanze tanto dai seguaci delle teorie damoniane e platoniche, secondo i quali il semplice studio dell’Armonica può migliorare il carattere (e"sesqai e"nioi meèn ou\ moénon mousikoiè a\kouésantev taè a|rmonikaé, a\llaè kaiè beltiéouv toè h&qov), quanto dalle opposte posizioni dei sofisti rappresentati dall’autore del PHibeh, i quali escludono senza mezzi Elem. Harm. II, 31. Cfr. l’articolo di J. Thorp, Aristoxenus and the ethnoethical modes, in Harmonia mundi. Musica e filosofia nell’antichità (Quaderni Urbinati di Cultura Classica, 5), a cura di R. W. Wallace e B. MacLachlan, Edizioni dell’Ateneo, Pisa 1991. 48 49
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termini che nella musica vi siano valenze etiche oggettive. § 6. Il contributo di Aristotele
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Il relativismo propugnato dalla sofistica raggiunse, dunque, anche l’ambito dell’etica musicale, che era stata traghettata dalle nebbie del mito e della magia verso l’alba della ragione ad opera della scuola pitagorica, e che aveva avuto in Damone il suo massimo teorico, e in Platone il suo massimo sostenitore. Ma la forza di una tradizione le cui origini si perdevano nella notte dei tempi – ciò che aveva consentito alla credenza nel potere catartico della musica di radicarsi nel profondo della coscienza dell’uomo greco – non permise che gli attacchi della sofistica producessero l’effetto desiderato: non solo nei riti quotidiani che riguardavano la religione il canto e la musica continuarono a essere impiegati come prima, ma, ciò che per noi più conta, anche nella riflessione filosofica si continuò, in linea di massima, a considerare la musica secondo i parametri della tradizione. Certamente le conseguenze di un tentativo di rivoluzione culturale, quale fu quello messo in atto dai sofisti, non possono essere state nulle. Aristotele, che di Platone fu discepolo e dei pitagorici storico e critico, raccolse la loro ere-
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dità per quanto concerne la questione dell’etica musicale. Ma egli era pur consapevole della mutata situazione culturale: le sue pagine sull’educazione musicale hanno quasi il sapore del disincanto, o comunque della percezione di una distanza incolmabile con un’epoca “aurea” ormai trascorsa. Se Platone aveva potuto assegnare senza ombra di dubbio alla musica il ruolo principale nell’educazione dei giovani, e non s’era mai sognato di considerare la musica in termini di godimento e otium, Aristotele pare costatare gli effetti di un cambiamento culturale, se può scrivere sull’educazione musicale queste parole: Sul fine della musica poi, non vi è concordia. Al presente infatti la gran maggioranza la coltiva a solo scopo di diletto: gli antichi al contrario ne facevano parte organica dell’educazione, perché è legge di natura, come spesso è stato detto, che l’uomo debba non solo spiegare una nobile attività, ma anche saper godere un riposo onorevole [...]. Pertanto è manifesto che anche per godere questo riposo bisogna procacciarsi alcune attitudini e cognizioni, cui informare l’educazione; questi insegnamenti e quest’educazione debbono avere di mira il proprio vantaggio, quelli poi aventi per fine l’attività hanno un carattere di necessità e di subordinazione a fini puramente estrinseci. Perciò gli antichi non posero la musica tra le discipline necessarie (non c’è infatti in esse l’ombra della necessità) né tra le utili, come la perizia nel leggere e scrivere per gli affari e l’amministrazione domestica, per iniziarsi nelle scienze e per molte forme d’attività politica, come il disegno pel retto giudizio delle opere artistiche; e la ginnastica per la salute e la robustezza
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dei corpi (poiché nessuno di questi vantaggi deriva dalla musica). Sicché non resta altro che riguardarla come un passatempo nell’ozio, al quale sembra che gli antichi l’indirizzassero. Essi la ritengono il miglior ricreamento dell’uomo libero50.
Se Aristotele avesse scritto solo questa pagina sulla musica, ci saremmo meravigliati non poco di sentire parole del genere da uno che aveva per venti anni partecipato alle lezioni di Platone, dove si ascoltavano discorsi sull’importanza decisiva della musica nell’educazione e sulla sua sacralità, al punto che in quella scuola ogni giudizio sulla musica basato sul mero godimento era stato tacciato di 51 sacrilegio ed empietà7 .2Noi 91 abbiamo cercato di mostrare che le cose stavano esattamente al contrario di come apparentemente ce le presenta Aristotele; e in verità l’importanza del valore educativo della musica non venne disconosciuta da Aristotele, che alla fine della Politica dedica lunghe e dense pagine all’argomento, tenendo dietro all’opinione di Platone e della tradizione pitagorico-damoniana. Egli parte dalla costatazione che la Pol. VIII 2, § 3-6, pp. 1337 b-1338 a. Leg. III, 700 c-e: «I poeti diventarono i signori incontrastati delle trasgressioni compiute a danno della musica, [...] dicevano delle menzogne contro la musica a causa della loro ignoranza, e cioè che la musica non ha alcuna norma, e che qualunque persona – buona o cattiva che sia – può giudicarne il valore dal piacere che gli procura». 50 51
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posizione della musica non è più così sicura e definita, come poteva esserlo ancora per il suo maestro: gli attacchi della sofistica avevano avuto almeno questa conseguenza, di gettare il dubbio su quale effettivamente fosse il ruolo della musica nell’educazione, e quindi sul suo reale diritto di cittadinanza tra le discipline scolastiche. L’analisi di Aristotele parte dunque da questo riscontro: Non è facile determinare l’importanza della musica, né il motivo pel quale bisogna con essa alquanto familiarizzarsi, se per divertimento e riposo, come si farebbe col sonno e con l’ebbrezza [...], o piuttosto perché dobbiamo vedere nella musica una forza propulsiva verso la virtù, potendo essa in qualche modo nobilitare l’animo, come la ginnastica invigorisce il corpo, e creare una disposizione a sereni godimenti, o in terzo luogo perché conferisce al riposo e alla cultura della mente52.
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Pol. VIII 4, § 3-4, p. 1339 a.
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Con il piglio di chi dubita di tutto al fine di riuscire a scorgere il vero, Aristotele mostra come ciascuno di questi probabili fini non c’imporrebbe d’apprender noi stessi a praticare quest’arte, ma potremmo benissimo procacciarci i vantaggi che essa procura per mezzo di altri che la pratichino. «Ora, la prima questione da risolversi», continua Aristotele, «è se la musica debba far parte o no dell’educazione dei giovani; e, riconosciutane l’opportunità, stabilire quale significato, nelle controversie di opinioni cui abbia-
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mo accennato, le vada attribuito: se quello di educazione o quello di giuoco o quello di passatempo»53. A ben vedere, dice Aristotele, tutt’e tre questi caratteri possono essere ragionevolmente attribuiti alla musica; bisogna tuttavia vedere se la musica, pur procurando un piacere volgare che tutti riescono a riconoscere, non sia anche capace di «esercitare un influsso sul carattere morale e sull’anima. E ciò sarebbe manifesto, qualora costatassimo una sensibile effica1 cia di essa sul nostro temperamento»54. Siamo così 9 72 introdotti al discorso riguardante l’etica musicale, dove Aristotele dimostra di essere stato discepolo del suo maestro: la sua analisi ripropone gli argomenti comunemente addotti a sostegno della tesi del valore etico della musica. La musica è, come aveva sostenuto Platone, un’arte imitativa dei caratteri, e raggiunge l’imitazione per mezzo dei ritmi, delle melodie e della voce: Notiamo che nei ritmi e nei canti è perfettamente imitata la vera natura dell’ira e della mansuetudine, del valore e della prudenza, nonché di tutti i sentimenti contrari (e i fatti ce ne offrono la conferma: con queste audizioni, infatti, cambiamo disposizione d’animo)55.
Le armonie e i ritmi, secondo il discorso tradizionale, vanno distinti per il loro diverso carattere etico: Pol. VIII 5, § 1, p. 1339 b. Pol. VIII 5, § 4, p. 1340 a. 55 Pol. VIII 5, § 6, p. 1340 a. 53 54
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Nei canti invece vi sono imitazioni dei moti dell’animo (e ciò è manifesto: poiché la natura delle armonie presenta molte differenze, sicché ascoltandole ora ci si dispone in un modo ora in un altro, secondo la natura di ciascuna: ma rispetto ad alcune siamo affetti da tristezza e ci sentiamo come agghiacciati, per esempio, all’armonia mixolidia; riguardo poi ad altre armonie, come quelle più molli e rilasciate, l’animo cade in una specie di languore; a moderazione e compostezza ci dispone invece un’altra melodia, come la dorica; la frigia invece dispone all’entusiasmo. Queste sono le sagge considerazioni di quelli che su tale materia hanno filosofato; e dagli stessi fatti desumono la conferma dei loro ragionamenti). Lo stesso poi si può dire riguardo ai ritmi; di cui gli uni hanno un andamento più posato, gli altri movimentato, e di questi alcuni hanno movimenti più potenti, altri più liberi. Da ciò dunque è manifesto che la musica può dare all’animo un atteggiamento spirituale: se quindi di ciò è capace, è manifesto che si debbano in essa educare i giovani56.
Aristotele quindi non si discosta punto dalla riflessione filosofica, durata secoli, che lo aveva preceduto: egli anzi sente il bisogno di ricordare che altri prima di lui hanno filosofato su questo argomento e hanno costatato coi fatti l’ethos musicale: l’antichità di queste opinioni sul valore etico delle armonie e dei ritmi è per lui una conferma della loro verità. Poiché, dunque, la musica ha sicuramente un’azione sull’animo, sarebbe da sciocchi non servirsene nell’educazione dei giovani: essa è in grado di «dare all’animo un atteggiamento spirituale», 56
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Pol. VIII 5, § 8-10, pp. 1340a-1340 b.
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giovevole o dannoso a seconda del suo carattere armonico e ritmico. Noi avevamo visto che nella tradizione pitagorica, sviluppata da Damone e ripresa da Platone, la giustificazione di questo fenomeno era basata sull’argomento dell’affinità tra la musica e l’anima, entrambe sostanzialmente armonia; Aristotele, che tale spiegazione aveva appreso alla scuola di Platone, la ripropone proprio a conclusione del suo discorso: «Ed è naturale che vi sia una parentela tra l’armonia e i ritmi: perciò molti 91 sapienti dicono che l’anima è un’armonia, altri che 2 l’anima contiene un’armonia»57.7 Aristotele fu dunque in tutto e per tutto fedele agli insegnamenti del suo maestro, nulla apportando di nuovo alla teoria sul valore etico della musica e sul suo impiego nell’educazione; soltanto percepì più del maestro, per questione d’epoche diverse, lo sconvolgimento culturale messo in atto dai sofisti mediante le armi del relativismo, eppure seppe opporvisi propugnando le ragioni della tradizione.
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INDICE DEI NOMI
Adams, J. 103n Alcidamante 144n Alcmeone 65, 66 Alessandro di Afrodisia 58, 88n, 90, 91, 98, 99, 101, 105, 107 Anderson, W. D. 131n, 138n, 146n Archita 15, 20n, 29, 44, 45n, 59, 60, 62n, 63n, 64, 65, 66, 67, 69, 70n, 71n, 72, 73, 74, 75n, 76, 108, 109, 110 Arimnesto 30 Aristarco 79 Aristide Quintiliano 142 Aristosseno 20n, 39n, 40, 41, 42, 43, 51n, 54, 55, 147, 148 Aristotele 15, 25n, 27n,
38, 47n, 59, 61, 64, 66n, 67, 70n, 76, 79n, 80, 81, 82, 83, 84, 86, 87, 88, 90, 91, 101, 102, 105, 107, 114, 126, 145n, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 155 Bacone, F. 23n 1 Blass, 72F.9144n Boezio, S. 37n, 96 Boyancé, P. 89n, 112, 118n, 121n Brancacci, A. 144n, 145n, 146n, 147n Brisson, L. 52n Burkert, W. 24n, 43n, 70n, 71n, 76n, 84n, 130n Burnet, J. 27n, 30
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Euclide 54, 55, 72n, 76, 77n Eudosso 59, 71n, 72, 73, 74, 79 Eurito 48n, 115 Filippi, F. 53n Filodemo di Gadara 117n, 134n, 135n, 141, 142n Filolao 17, 20n, 29, 30, 31n, 34, 35, 36, 45n, 52n, 53, 85, 86, 87, 95, 97, 106n, 110, 115, 126, 130, 143 Gabrielli, E. 54n Galilei, G. 23n Gevaert, F. A. 136n Giamblico 18n, 20, 22, 23, 28, 29, 31, 44, 45, 48n, 82n, 104, 110, 111, 112n, 115, 118, 119n, 120n, 122, 127, 128n, 131, 140, 141 Giangiulio, M. 22n, 29n Gibson, S. 39n Gigante Lanzara, V. 112n Huffman, C. A. 28n, 31, 35n, 53n Ippaso di Metaponto 23, 24, 25, 28, 29, 30n, 31, 33, 35, 36, 37, 57, 72, 73, 74, 86, 87
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Capparelli, V. 20, 22, 23, 27, 28, 70, 71 Casertano, G. 118n Cavaglià, G. 133n Centrone, B. 18n, 27n, 29n, 31 Cicerone 96, 107, 115 Comotti, G. 23n, 57n Conford, F. M. 50n, 52n Crisippo 77 Da Rios, R. 20n, 41n, 42n, 70n Damone 15, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 144, 146, 149, 155 De Ruggiero, G. 123 Delatte, A. 48n, 110, 111n, 112, 116n Democrito 144n Diano-Serra, G. 86n Dicks, D. R. 79n Diogene Laerzio 23n, 77, 84n, 86n Dreyer, J. L. E. 79n, 87n, 96n, 98 Duride di Samo 29 Empedocle 18n, 85, 140 Eraclide Pontico 79, 142n Eraclito 17, 84, 86 Eratostene 79 Esiodo 119 Eubulide 37n
Ippia di Elide 144n, 145n Isocrate 144n Jan, C. 34n, 48n, 77n Jander, K. 145n, 146n Kahn, C. H. 30, 111n Keplero, G. 79n Laloy, L. 28n, 30n, 32n, 43n, 58n Lami, A. 57n Laso di Ermione 23n, 25n, 55n, 57n, 72, 73, 74 Lasserre, F. 58n, 138n MacLachlan, B. 23n, 106n, 129n, 138n, 142n, 148n Maddalena, A. 29n, 35n, 57n Marenghi, G. 25n, 66n Minar, E. L. 24n Mondolfo, R. 28n Moutsopoulos, E. 53n, 118n, 131n, 136n Musti, D. 112n Naddei Carbonara, M. 63n Napier, J. 32n Nicomaco di Gerasa 31n, 34, 37n, 130n Odifreddi, P. 36n Olivieri, A. 62n Omero 22n, 119
INDICE DEI NOMI
Orfeo 113 Perraud, L. A. 118n Pindaro 112 Platone 15, 29, 46n, 47n, 49, 51, 52, 53, 54, 63, 64, 65, 69, 76, 79, 80, 87, 88, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 102, 103, 105, 106, 111, 114, 116, 117n, 118n, 121n, 125, 126, 129n, 130, 131, 132, 133, 134n, 135, 136, 137, 138, 139, 140, 141, 143, 145n, 146, 147, 149, 150, 151, 153, 155 Plutarco 37n, 58n, 135n Porfirio 18n, 29, 45n, 59, 60, 62, 69, 71n, 73n, 74, 75, 76, 82, 83, 120n, 121 Privitera, A. 25n, 58n Proclo 53 Reale, G. 19n, 27n, 47n, 68n, 152n Reinach, T. 27n, 89, 96, 98 Rispoli, G. M. 135n, 142n Riverso, E. 22n, 23n, 44n Rossini, G. 55
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Alessandro Barbone
Ruelle, C. E. 144n, 145n, 146n Schuhl, P. M. 111n, 120 Senocrate 29 Socrate 22n, 117, 126 Sosio, L. 79n Speusippo 29 Stenzel, J. 54n, 131n Stobeo 34 Talete 79n Tannery, P. 28n, 30, 35n, 36n, 53n, 70n Tatarkievic, W. 133n Taylor, A. E. 50n, 51n, 96, 97, 98 Teofrasto 29, 65, 71n, 72n Teone di Smirne 25, 55, 57, 58, 59, 61, 72n, 73, 74, 111, 130n
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Thorp, J. 148n Timpanaro Cardini, M. 18n, 23n, 24n, 25n, 29n, 30, 35n, 36n, 37n, 46n, 47n, 57n, 58n, 59, 63n, 70n, 71n, 72n, 75n, 77n, 81n, 90n, 98n, 140n, 141n, 142n, 143n Tolomeo 55, 59, 60, 79 Untersteiner, M. 146n Van der Waerden, B. L. 30 Varvaro, P. 52n, 94n Wallace, R. W. 23n, 106n, 138n, 140n, 141n, 142n, 148n Zeller, E. 28n
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