Morelli Raffaele, Falsiroli Luciano - La felicit� � qui.pdf

January 11, 2018 | Author: Ciro Dorato | Category: Spider, Religious Belief And Doctrine, Religion And Belief, Science, Philosophical Science
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LA FELICITÀ È QUI Domande e risposte sulla vita, l'amore, l'eternità

Raffaele Morelli con Luciano Falsiroli

MONDADORI

Di Raffaele Morelli nella collezione Ingrandimenti Ciascuno è perfetto Non siamo nati per soffrire Le piccole cose che cambiano la vita Ama e non pensare Il sesso è amore Puoi fidarti di te L'unica cosa che conta

La felicità è qui di Raffaele Morelli con Luciano Falsiroli Collezione Ingrandimenti ISBN 978-88-04-61173-8 © 2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione maggio 2011

Prefazione Viaggiamo per acque e terre inseguendo la felicità. Ma la felicità è qui… ORAZIO, Epistole I, 11, 28-29 Non ricordo come è nata l'idea di questa intervista. So come ho cercato di prepararla: creando una serie di domande che offrissero a Raffaele Morelli lo spunto per esprimere il suo pensiero, che in dieci anni di vita trascorsi nella redazione di "Riza" credevo, almeno per sommi capi, di avere compreso. Pensavo che offrirlo ai lettori, scandito nei vari temi dal mio interlocutore, sarebbe stato, grazie alla sua innata chiarezza e meditata profondità, un regalo unico. Ho preparato decine di domande sulla vita quotidiana, sui mali del vivere, la solitudine, l'ansia, la depressione… e poi sui giovani, con i sogni e i tormenti che li accompagnano. L'ho interrogato sul ruolo della famiglia, sul gioco, sui riti dell'amore, sulle insidie da evitare come la droga e l'alcol. Sui momenti delle nostre riflessioni, quando ci si ausculta per capire chi siamo e ci si lancia con la mente e con il cuore a caccia di progetti. Mi premeva sapere come si fa a distinguere i veri maestri da quelli finti. Capire come si interrogano e si ascoltano i saggi. Insomma alla porta di chi è preferibile bussare. Gli ho esposto i miei dubbi sulla TV e qualche timore sul diluvio universale che si annuncia con Internet. Con la domanda più semplice: quali difese opporre per non rischiare di soccombere davanti alle loro tentazioni e sfruttarne invece le potenziali risorse? Non potevo evitare di chiedergli se c'è una terapia d'urto contro i nostri vizi, a cominciare dall'invidia, dall'odio, per finire alle tante facce della paura. Poi, dal momento che anch'io sto entrando nella stagione dei commiati, l'ho interrogato sulla vecchiaia, sui passaggi cruciali della nostra esistenza, infine sugli ultimi passi verso il tramonto. E oltre. Morelli ha raccolto di ogni domanda soprattutto il suono e l'input della parola chiave. Su questa si è concentrato e da lì è salpato il suo pensiero per circumnavigare ogni isola, ogni mio perché, addentrandosi negli anfratti dell'anima, a volte tetri, per mostrarci come uscirne. La luce. Il lettore si ritroverà accanto una guida che gli indicherà, illustrandoli, panorami dello spirito che forse non pensava esistessero o che aveva dimenticato. Intendiamoci, non sarà una crociera intorno e dentro l'anima. Spesso il lettore avrà anche la sensazione di avere smarrito la sua guida. Non si allarmi. È Morelli che, percorrendo il suo ragionamento, ha intravisto all'improvviso un nuovo "perché" e si è appartato a coglierlo per poi mostrarcelo. Certo, chi volesse accompagnarci in questo lungo viaggio dovrà concedersi molte soste. Riposarsi, perché sarà spesso investito da un vento forte e contrario. Alcuni incontri lo

sorprenderanno, a cominciare dal "luogo" dove potrà fare finalmente la conoscenza di se stesso, o perlomeno provarci. E su questo dovrà fermarsi per riflettere e interrogarsi. Morelli non emette sentenze. Offre molte indicazioni, segnala i pericoli, i limiti del vivere d'oggi ma anche le sue magie. E soprattutto suggerisce dove svoltare, spiegandoci il perché. I suoi perché. Sono questi a dare spessore al pensiero di cui si è fatto maestro. Non arretra mai davanti a una domanda, talvolta indugia, quasi a voler concedere alla mente il tempo di verificare se dal suo archivio ha saputo estrarre tutto, ovvero il meglio. Per aggiungervi un ultimo tocco, le riflessioni, le scoperte dell'ultimo istante. Durante "il viaggio", il lettore ritroverà parole che sanno di antico come "natura" e "tradizione", messe in soffitta dalla società attuale, ma da Morelli restituite alla loro salutare grandezza. Non sono incontri da poco. Il lettore ne capirà da solo il motivo quando si ritroverà magicamente nel bosco dimenticato, fra gli alberi dai rami carichi di foglie, d'estate, o con le braccia nude rivolte al cielo d'inverno. Vivi e ugualmente felici sotto il sole rovente e le piogge gelide. Morelli indugerà a lungo sul "mistero" delle radici nascoste, che nel buio profondo della terra danno vita all'albero, alla sua identità. Accostando questo prodigio alle funzioni che svolge il "lato oscuro" dentro di noi, la parte nascosta dove cova la nostra essenza, lo stesso buio che avvolge le radici delle piante ma che invece delle foglie accende l'anima, la mette a confronto con i nostri intricati pensieri per aiutarci a trovare finalmente il nostro "io" e a capire chi siamo. Pone una sola condizione: che si sappia navigare nel "buio" con la mente libera da ogni pregiudizio. La libertà è una parola sacra. Creativa. Non solo per il valore sociale che rappresenta. Secondo Morelli abbraccia tutto e tutti. Scuola, famiglia, passioni, amori, lavoro, educazione si reggono su questo valore. Conosceremo qual è la sua idea della morte e del "nulla", in cui secondo il pensiero ateo dovremmo scomparire, ma che "nulla" non è. E altre stupefacenti realtà dello spirito come il "lato oscuro" e il Senza Tempo. Chiama pure in causa le religioni alle quali si rivolge con rispetto critico. Perché a lui sembrano cadere talvolta in errore e quasi in contraddizione con se stesse quando, per imporsi, ricorrono alla potenza dei loro veti e alla maestosità dei loro dogmi. La pietas di Morelli non fa eccezioni. Anche i mali e i disagi meritano indulgenza. Più che reprimerli, occorre guardarli in faccia, trattarli da compagni di viaggio: ci ripagheranno, perché sono fonti di energia pura. All'inizio ero convinto di aver compreso almeno in parte il suo pensiero. Non è così. Ai "perché" che trovano l'attesa risposta, se ne aggiungono subito altri. La lezione continua… Morelli la svolge da anni con un suo metodo particolare. Non è un segreto, perché lui stesso ne ha rivelato più volte le coordinate. Semplici perché profonde. Quando è all'opera nel suo studio, in veste di psichiatra e psicoterapeuta, si affida al silenzio e all'ascolto. I suoi interventi sono rari, rivolti a far luce nell'animo di chi ha di fronte. Talvolta agisce in modo che sia il paziente a scoprire a poco a poco la causa dei propri disagi e a suggerirne persino la terapia. Le sue analisi sono in

perenne evoluzione, come lo sono le nostre esistenze. Tutto è in moto. Il suo pensiero non fa eccezione. Offre anzi sempre nuove chiavi di lettura e a chi sa ascoltarlo la chiave di cui ha bisogno. Mi fermo qui. Devo rileggermi la sua ultima risposta. Si accenna alla creazione, al lato cosmico dell'anima, ai sogni. Alla magia dell'oggi. E anche del "dopo". Luciano Falsiroli Gli autori esprimono la loro gratitudine allo psicoterapeuta Francesco Catona per la preziosa collaborazione.

1 Chi siamo Sì. Il sole sorge a oriente ma sorge anche dentro di te. SI FA GIORNO Stiamo per incominciare il nostro viaggio. Che ne dice se prendessimo il via dal risveglio, che ha posto fine al riposo notturno? Adesso è mattina e si deve ripartire. Spesso con il pensiero rivolto a ciò che ci ha lasciato in eredità la vita del giorno prima. Con quale spirito sarebbe salutare riprendere il cammino quotidiano? Io ricordo un pezzo di Jung citato da Serrano. Jung racconta che un giorno andò a trovare degli indiani Navajos. Rimase sorpreso perché li vide raccolti in gruppo. Erano in gran parte vecchi, seduti in una posizione meditativa. Si avvicinò a uno di loro e gli chiese: "Ma cosa state facendo qui?". "Aiutiamo il sole a sorgere" fu la risposta del vecchio indiano. "Noi aiutiamo il sole a sorgere tutti i giorni." E aggiunse: "Sono gli dei a volerlo. E se i bianchi non rispettano i nostri dei, il sole non soltanto si spegnerà ma non sorgerà più. Né per noi né per loro…". Jung rimase colpito. Si chiese cosa volesse dire "rispettare i loro dei". Noi siamo esseri ragionevoli, siamo essere pensanti. Crediamo che la ragione sia la forza della nostra grandezza. Evidentemente non è così! Il messaggio degli indiani Navajos è un messaggio forte. Tale lo ha considerato Jung. "Noi aiutiamo il sole a sorgere…": non è impegno da poco. Ed è pure un messaggio chiaro. Io lo leggo così: quando al mattino ti svegli, ritrovi la coscienza che hai fatto dormire, affidandola all'utero della notte. Ogni mattina la fai rinascere. Diventi l'artefice di una creazione. Come tutti gli uomini, tu sei un artefice speciale, sei artefice di un qualcosa che assolve il compito di aiutare il sole a sorgere. Intendiamoci, il sole non è quello che vediamo. Ma il sole della tua coscienza. Jung accetta il pensiero dei Navajos e ci avverte che se ignoriamo i nostri dei il sole non sorgerà più per nessuno… Ma chi sono i nostri dei? Gli dei sono le forze misteriose che ci abitano. Che ci fanno vivere. Come si manifestano? Improvvisamente e mai a comando. Siamo capaci di gesti affettuosi, siamo capaci di cambiare direzione, capaci di mentire, capaci di amare. Ci sentiamo avidi ma ci scopriamo anche generosi, altruisti. A volte siamo Saturno, a volte siamo l'intelligenza profonda e libera di Atena. A volte siamo il desiderio erotico di Venere, a volte siamo l'assenza di desiderio di chi si sente soddisfatto perché ha raggiunto il punto più alto del piacere, l'estasi. Siamo tutto nel tutto. Questo significa che un buon risveglio del mattino vuol dire ricordarsi che il sole non sorge solo per te, ma nasce per tutti. Un buon risveglio è sapere che stai contribuendo alla creazione, perché nel momento in cui la coscienza sorge in te, sorge anche in tutto il cosmo.

TU E L'ALTRO Dal cosmo all'io. Accettarsi, conoscersi sono bersagli cui mirare, essenziali per dare vitalità alla nostra esistenza o tortuosità cerebrali che alla fine esauriscono il nostro spirito di avventura, presente in ogni anima? Cioè questo accettarsi, questo conoscersi è un obiettivo valido, un procedimento davvero utile da compiere, e vitale? Un mio carissimo amico, grande studioso della natura, diceva che se tu abbracci con lo sguardo un intero campo e dici "C'è l'albero" non sei nel vero, perché fissi e presenti solo una parte del campo. Non comprendi tutto il campo, non esprimi tutto il campo. Se dici "Ci sono i fili d'erba" dai un'immagine parziale del campo, perché i fili d'erba non sono tutto il campo. Ed è lo stesso se dici "la terra", "i fiori", "il cielo"… Tutti questi sono "campi d'azione del campo", l'espressione del campo. Quindi "accettarsi" che cosa vuol dire? Accettare i campi d'azione che mi abitano e che ogni tanto appaiono. Accettare tutte le mie facce. Ma questo significa che devo accettare anche quello che improvvisamente la vita mi sbatte in faccia? Come i lampi dell'invidia? Sì. A un certo momento, mi assale un impeto di invidia che non pensavo di poter covare dentro di me. Proprio io, che ho sempre pensato di non essere invidioso. E ora, che faccio? Cosa dico a me stesso? Nulla. Devo solo accoglierlo. Così un'ora dopo, quando mi accorgo che ho un impeto di generosità che non provavo da tempo. Oppure alla sera, quando mi prende il desiderio di una donna, che ho visto in quel momento. Accettarsi cos'è? La parola "accettarsi" implica il dirsi: "Guarda che così va bene" o "Guarda che va bene comunque". Al di là di tutto quello che vorresti essere. Accettarsi vuol dire ammettere che c'è anche l'"altro", quello invidioso, quello geloso e pure quello arrabbiato. Sento nascere dentro di me l'invidia? Ebbene devo percepirla, anche se c'è una voce pronta a dirmi che devo cacciarla via. Una voce forse ereditata da una educazione cattolica male interpretata. Ci aiuti con una spiegazione semplice, indicandoci magari una soluzione da mettere facilmente in pratica. E ci spieghi soprattutto quanto è importante questo suo "accettarsi". Non è un'impresa ardua. Dobbiamo solo compiere un passo che è alla nostra portata, un passo che si rivelerà decisivo: cogliere la "precarietà del tutto". La precarietà… Tutto è diverso oggi, rispetto a ciò che è stato ieri… Come dire che l'invidia di oggi è diversa da quella che provavo ieri. Allora perché devo torturarmi per fare sparire l'invidia di adesso che c'è soltanto in quest'attimo irripetibile? Forse dovremmo accettare l'idea di continuità che impongo ai sentimenti? L'idea di continuità che gli attribuisco quando dico: "Ti amerò per sempre"? Ma come posso dire "sempre", se io vivo qui, in questo preciso, unico istante? Quindi lei ridimensiona il concetto di "accettarsi", dal momento che noi siamo individui in perenne evoluzione?

Esattamente! Noi siamo in perenne evoluzione, in continuo mutamento. Conta soprattutto la nostra percezione. Chi di noi direbbe, se non per averlo studiato o appreso, che il mondo si è sbagliato per migliaia, per milioni di anni? Chi di noi direbbe che la terra gira intorno a se stessa e intorno al sole? Per molto tempo gli uomini hanno pensato che fosse il contrario: il sole mobile e la terra ferma. Allo stesso modo, chi direbbe che la gelosia non è sempre la stessa? Eppure non è sempre la stessa. In alcuni momenti detta legge, in altri si volatilizza. Allora forse la chiave giusta è l'essere consapevoli dei propri stati emotivi, quando irrompono e disturbano. Prendere atto che ci sono e conviverci. Allora finalmente si può smettere di rincorrere un inutile modello di perfezione, che ci spinge a tentare di eliminare i presunti "pensieri cattivi", a cominciare dall'invidia: anziché accoglierla come una forza misteriosa, che viene a trovarci per esprimere una funzione che al primo impatto non sappiamo quale sia, cerchiamo di sbarazzarcene subito. Non si può dire che se l'invidia è un dio, è un dio negativo. È negativo per il mio punto di vista. E quindi la parola "conoscersi" che tu hai messo accanto alla parola "accettarsi" implica un diverso modo di comprendere se stessi. Quando dico "Raffaele" e percepisco il Raffaele che sta parlando in questo momento, non posso avere in mente il Raffaele con la sua storia. La mia storia, in sé, non è importante. È importante quella luce interiore che è la coscienza, e quindi la consapevolezza. Per essere davvero consapevoli, dobbiamo essere presenti anche ai nostri demoni, anche se non ci piacciono.

2 Il bosco dimenticato Se ignori la tua natura, stracci la tua carta di identità. APPARTIENI ANCHE TU ALLA TERRA Che idea si è fatta dell'uomo di oggi, dell'uomo che evolve? Non rischia di soffocare nell'habitat che lui stesso ha contribuito a creare, con l'idea di sentirsi più ricco e più libero ma che a poco a poco gli sta imponendo uno stile di vita, per ricorrere a un termine che si è fatto strada, globalizzato? Mi piacerebbe conoscere cosa pensa di questa evoluzione. Se c'è in atto qualcosa. Se ci sono sorprese in arrivo. E verso dove stiamo correndo. Io penso che il vero grande dramma della nostra cultura sia la scomparsa del rapporto con la natura. Se ci guardiamo attorno si ha quasi la sensazione che la nostra civiltà abbia ripudiato la natura. Oggi un bambino può crescere, diventare uomo e vivere molti anni senza vedere un bosco. Anzi se io ti chiedessi "Quanto tempo è che non vai in un bosco?" dovresti andare molto indietro nel tempo, tutti noi dovremmo retrocedere nel tempo. Andare in un bosco, perdersi nel bosco, guardare il bosco. Perché dico il bosco? Perché il bosco apparentemente è una "presenza caotica". Non c'è niente di più caotico di un bosco. Lì cresce l'edera, la felce, là il ciclamino e sembra tutto casuale, figlio del caso. In realtà oggi sappiamo da alcuni studi che i semi non germogliano a caso, ma crescono vicino a piante affini, mentre si allontanano dalle piante con cui non hanno un rapporto di empatia. Sappiamo anche che i pomodori all'improvviso emettono sostanze repellenti quando li avvicinano insetti ostili. Sanno difendersi. Quindi c'è un sapere nella natura. Ecco perché giudico un grande dramma aver perso il contatto con la natura. Tu magari ti chiederai perché, in fondo è un uomo nuovo quello che nasce oggi. Già, ma le nostre fondamenta, cioè le radici, rimangono abbracciate alla natura. Guai a ignorarle o a modificarle. Racchiudono la vita, danno la vita, perché senza le sue radici una pianta muore. Radici che per natura hanno una caratteristica primaria: nascono, crescono, vivono e muoiono sempre di nascosto. Tutte le radici sono inaccessibili ai nostri occhi. Anche l'uomo possiede questa "virtù". Ciò che è vero di me, ciò che è autentico di me, è nascosto. Non è visibile. Quindi io sono prima di tutto l'invisibile che mi abita. Non sono io il protagonista della mia vita. Ne sono protagoniste le radici, che hanno fatto di me lo psichiatra, di te il giornalista, di lui lo psicoterapeuta. Di quell'altro il pittore, di quell'altro l'imbianchino. Le radici caratterizzano ciascun essere.

IL PUNTO FERMO: LA TRADIZIONE Quindi oltre a vivere un'evoluzione interiore, che è di tutti, occorre ammettere che l'uomo fa la stessa strada che percorreva il suo antenato di mille anni fa. Ma allontanandosi, come dice lei, sempre più dalla natura. Perché? È così vero quello che dici che l'uomo da sempre, da tutti i "sempre di sempre", ha cercato, quando ha potuto, un punto fermo. Gli uomini di tutti i tempi hanno mantenuto un punto fermo, il punto fermo della tradizione. In alcune religioni si trattava del battesimo o della cresima. In altre erano i digiuni rituali della primavera. I greci e i romani inneggiavano alla natura con le feste d'autunno o del solstizio, quello che poi è diventato il nostro periodo natalizio… Insomma, gli uomini cercavano un punto fermo. Come il sole, che sorge tutti i giorni, un punto fermo che era fuori e dentro di loro. E avevano una concezione che li teneva stretti alla natura. Nessuno si sarebbe mai sognato di farsi il lifting, nessuno si sarebbe mai sognato di abbronzarsi d'inverno. Non rientrava nella visione cosmica della psiche, che trovava la sua linfa nella tradizione. È come se, a nostra insaputa, una voce interna, segreta ma ben udibile, ci dicesse: "Fai pure la vita che vuoi: innova, costruisci il carro, vai sulla luna. Però ricordati che tu vieni da quelle radici della terra, ricordati che l'inverno tornerà tutti gli anni". Non sappiamo come sarà il mondo tra mille anni, tra centomila, ma sappiamo che ci sarà l'inverno, la primavera… Non sappiamo dell'uomo che verrà, ma sappiamo che nascerà sempre da un seme… Lo manipoleremo? Sì. Ma sarà sempre un seme… Non sappiamo che cosa accadrà, ma sappiamo che l'orgasmo e l'emissione del seme saranno sempre collegati nel maschio. Ci sono delle leggi, immutabili. Non sappiamo come sarà l'uomo di domani, ma sappiamo che avrà gli occhi a una certa distanza dalla bocca. Nella creazione c'è un grande mistero di proporzioni, dove tutti gli esseri viventi rispettano una legge eterna. La formica ha la bocca a una distanza dalla coda proporzionalmente uguale a quella che separa la bocca dell'uomo dall'ano e dai genitali. Il cranio è posto in alto, non è posto in basso. L'uomo non può ignorare queste leggi. L'uomo aveva una posizione di predominio sulla natura, ma non da nemico. Semmai in preparazione e nell'attesa di un Dio che verrà, come ben sanno gli ebrei che attendono l'era messianica, vale a dire una nuova evoluzione. Questo era l'uomo. Oggi è cambiato, rischia di auto escludersi dal cosmo, perché non rispetta più la natura. Se non conosci il bosco, come fai a conoscere te stesso? Ecco perché noi abbiamo un'idea statica dell'invidia o della gelosia. Gli antichi avrebbero detto: "Guarda, sono così eccitato con la mia compagna perché è venuta a trovarmi Venere"; non avrebbero mai personalizzato il rapporto fra loro. Una dea misteriosa li aveva uniti. Ecco da dove nasceva la loro visione cosmica, tradizionale. Tutto ciò che accadeva non era di loro pertinenza ma di pertinenza del cosmo, di cui l'uno e l'altra erano anzi espressione. Quando al mattino mi sveglio io partorisco il sole. Tutti i giorni in me si formano funzioni che mi chiamano… a rapporto. Come se dentro di me, ogni giorno, le forze

della natura facessero l'appello. Sarebbe una ben misera vita se dentro di me non sapessi che sto fiorendo e recidessi i fiori. Come fiorisce la natura? Con i fiori. Attenzione, il ciclamino crea il suo fiore in un preciso momento, il suo momento. La rosa fiorisce a maggio. Il melograno a settembre o in certe varietà a giugno. Non puoi pensare che il melograno fiorisca a novembre. E così ci vogliono occhi giusti per capire quando stiamo fiorendo. DAVANTI ALL'ANIMA Una domanda diretta alla sua professione. Al suo modo di interpretarla. Lei si sente più speleologo della mente o dell'animo? O per giungere al fondo del problema, occorre esserlo di entrambi? Quando è faccia a faccia col paziente come comincia la sua indagine? Per esplorare i pensieri difficili di lui o di lei, si avvale degli stessi strumenti? Come torna dai suoi viaggi con e dentro gli altri? Se per mente si intendono i pensieri, i ragionamenti, il modo di vedere il mondo di una persona, ecco, a me tutto ciò non interessa. Penso che un bravo terapeuta debba possedere questa semplice qualità: saper aspettare e vedere che cosa sorge dentro la persona che ha di fronte. Recentemente osservavo una paziente che mi diceva cose veramente banali. Mi fosse accaduto anni fa avrei detto: "Che perdita di tempo…". Adesso so di poter contare su un occhio interno che guarda l'apparenza e scruta l'immenso. Poi questa signora di sessant'anni e passa ha incominciato a raccontarmi di sé. Chi l'avrebbe detto che una persona così piena di luoghi comuni, di banalità, stesse vivendo una storia d'amore con un uomo di trent'anni più giovane? Chi l'avrebbe mai immaginato? E mentre lei parlava e mi parlava dei suoi disturbi e dei suoi disagi, in un attimo mi si è affacciata la visione di tutto il quadro. Come un puzzle. In una frazione di secondo. Era una donna che non faceva nulla per apparire più giovane di quello che era, anzi… Ma c'era qualcosa di frizzante dentro di lei. In un attimo mi è sbocciata nella mente l'idea che quella donna non volesse fare la nonna. Come avrò fatto a intuirlo? Chi me lo ha suggerito? Confesso, ho una qualità: so aspettare che il mio sapere innato si manifesti. Proprio come accade al ragno quando il suo sapere innato gli fa realizzare una nuova ragnatela. Un sapere che ignoravo di avere ma che, direi puntualmente, esce fuori al momento opportuno. Morale, a un certo punto la donna mi rivela che da quando segue la nipotina avverte un grande disagio. Ogni volta che va a casa a vederla, sente le gambe che le cedono. Le è venuto persino il colpo della strega che l'ha costretta a stare tre giorni a letto e, dulcis in fundo, una depressione sempre più profonda. Le ho spiegato all'istante la mia diagnosi. Semplice. Le ho detto che c'era qualcosa dentro di lei che rifiutava il ruolo di nonna. Le è spuntato un mezzo sorriso. Di stupore. Ho aggiunto di non spaventarsi. Perché questi sono disturbi che vengono alle persone troppo generose, risolute a fare le nonne a tutti i costi, anche quando non ne hanno la forza. Lei infatti aveva vissuto molti drammi. Pochi anni prima aveva perso anche il marito. Insomma c'era qualcosa in lei che la spingeva a scelte diverse. Aveva

bisogno di vivere stando lontana dai bambini. Questa donna è uscita rifiorita dal colloquio… Le ho visto la luce negli occhi. Ma chi lo avrebbe detto che questa donna avesse un amante di trent'anni più giovane? Chi l'avrebbe detto… Eppure ce l'aveva. L'essenza, che contraddistingue ciascuno di noi, trova sempre una via speciale, oscura, misteriosa per portarti a realizzare ciò che hai dentro, che non sai di avere, che hai dimenticato o rimosso. Nel mio lavoro ho imparato, nel corso degli anni, a fare sempre di più le cose che mi vengono meglio e al tempo stesso a evitare ciò che non so fare. Per esempio, quando mi vedono con questo telefonino in mano mi dicono: "Ma scusi, con i soldi che ha, non può comprarsi un telefonino più sofisticato?". Non sanno che io stento a usare persino il cellulare più semplice. Io rispetto questo mio limite e anche molti altri: parlo malissimo l'inglese, non so utilizzare il computer, non so servirmi delle e-mail. A casa ho un quadro per terra, da tanto tempo. Ti dico sinceramente che se tu mi chiedessi come si attacca, io non saprei risponderti. Una volta attaccavo i quadri, ci riuscivo. Ora non più. Ci sono delle cose che non mi riescono. Che fare… Rispetto queste mie incapacità. In compenso mi sorgono altre capacità, come è accaduto con quella nonna giovanile, che faceva di tutto per nascondere il suo rifiuto di fare la nonna. È andata da tanti medici, ha fatto tante cure, ma nessuno ha visto il nucleo del problema. Smettere di fare la nonna e guarire è stato un attimo. Anche con un'altra signora di quarantacinque anni ho fatto tesoro del mio sapere innato. Mi ha confessato che da vent'anni lei e il marito fanno scambi di coppia a tutto spiano. Una signora perfetta, borghese, cui piace da pazzi fare scambi di coppia. Le ho letto dentro questa "verità": "dentro di lei c'è una donna così religiosa che ha bisogno di comportarsi come la prostituta più spregiudicata per potersi incontrare con la donna angelica; a volte incontriamo il nostro lato più nascosto cercando la strada opposta". È scoppiata a piangere. Avevo colto nel segno. Io vedo nell'animo allo stesso modo del sarto, che riesce a scorgere nella stoffa il vestito che nascerà dalle sue mani. Non ti metterebbe mai addosso il doppiopetto se non hai il fisico giusto. E non farebbe mai un abito marrone con i pantaloni azzurri. Lui vede il vestito e io vedo, quando sono nello stato giusto, l'immagine che la persona tiene nascosta senza sapere di averla. Come l'artista vede prima l'immagine che poi disegnerà. Perché De Chirico fa sempre lo stesso quadro? Perché Henry Moore scolpisce sempre la stessa figura, rielaborandola per cinquant'anni? Perché lui si porta dentro proprio quell'immagine. Magari la ritocca, la rende un po' più moderna ma lui si riconosce solo in quella. Ognuno di noi manifesta uno stile unico di "essere nel mondo". Non si può riflettere che la propria immagine. Il grande terapeuta non sta di fronte a te per chiederti se la tua vita va bene o non va bene, se sei sposato, se la notte hai cinque amanti, o per frugare fra le storie che hai avuto, se quelle donne ti hanno amato o perduto. Queste sono tutte sciocchezze. Un grande terapeuta è lì per capire qual è la tua caratterizzazione. E studiandola la rispetta. Un certo modo di essere timido, un certo disagio…

Nella cellula fecondata, anche se non lo vediamo, c'è già l'impronta del nostro volto, della nostra immagine. I SOLISTI E L'ORCHESTRA L'individuo, la sua unicità. È uno dei temi che più la coinvolge. È chiaro che la considera il nostro personale patrimonio, da investire in azioni e idee, onde evitare il rischio di contaminazioni e di ritrovarci la mente piena di concetti scopiazzati da altri. Ci vuole insomma tutti solisti nella grande orchestra della vita. Che cosa le dà la certezza di questa unicità? Se sei ragno fai la ragnatela, se sei ape fai il miele, se sei lucciola luccichi. Questo è il tuo compito! Parlavo giorni orsono di Steve Jobs, quello di Apple. La sua infanzia ha dell'incredibile, trascorsa con genitori senza una lira. Lui passa dall'adozione al college. L'unico corso che segue è il corso di calligrafia. Lo appassiona oltre ogni dire. Non fa che studiarla per ore e ore del giorno. Ne è stregato. C'è un solo allievo al corso: lui. Si mette a studiare la grafia anche nella cantina di casa. Nella miseria più totale. Poi incontra uno e gli dice: "Sto elaborando delle formule di computer per cambiare la grafia, così, così… potresti…". E l'ex bambino prodigio realizza in brevissimo tempo una delle più grandi imprese della storia moderna. Una scoperta che ha cambiato il modo di scrivere del mondo, di pensare del mondo, di ragionare del mondo. Lui ha seguito il suo destino, dedicarsi alla grafia. E l'ha fatto. Se vuoi scoprire il tuo c'è un esercizio molto semplice che ti aiuta: chiudi gli occhi e prova a immaginare una scena felice che hai vissuto da bambino. Prova a immaginare una cosa che ti piaceva da bambino. Vedrai che è facile! In questo esercizio così banale, il cervello è capace di selezionare miliardi di immagini. Sfoglia l'album dei ricordi e ne sceglie uno, quello che ti è più affine. Lì c'è un progetto per la tua esistenza che forse hai dimenticato. Qual è la risposta, la chiave di tutto (mai ripetuta a sufficienza)? Realizzare la propria natura. I solisti, l'orchestra del nostro vivere quotidiano… sono tutte immagini che aiutano e non aiutano. Solisti si nasce o si diventa… Non ha importanza. Vitale è rimanerlo. L'uomo e la donna sono per vocazione solisti. L'orchestra non è un problema… Le vere orchestre sono composte da autentici solisti. Insomma, il solista nell'orchestra si sente a casa sua. L'immagine dell'orchestra aiuta a capire qual è il nostro ruolo. Via via che scopri la felicità di essere solista, apprezzi anche la felicità di far parte dell'orchestra. Chi realizza la propria natura solo in apparenza lavora per sé, suona per sé. Perché dona musica al mondo. È un suono dell'orchestra che appartiene al mondo. Ognuno di noi suona anche per il mondo. Sei una goccia, ma sei anche un oceano. Goccia e oceano insieme. La goccia che cambia l'oceano, lo cambia profondamente. Se la vedi dalla parte dell'oceano, una goccia ti sembra nulla. Se la vedi dalla parte della goccia, l'oceano non ha alcun senso senza la goccia.

3 La felicità Viene dal sapere innato, è quella che vedi negli occhi dei bambini LA GRANDE OCCASIONE La domanda può sembrare banale, ma non posso non farla: che cosa intende per felicità? E in cosa consiste la sua ricerca? Poco fa accennavo alla fioritura che ci coinvolge e trasforma. Accosterei questo fenomeno alle capacità innate, che in certi momenti prorompono dentro di noi. Prima per alcuni, per altri dopo. Ciascuno ha il suo momento e quando scatta il contatto scopriamo la felicità del sapere innato. Non bisogna cercarla, perché sarebbe una imposizione della mente, della ragione. Senza la spinta creativa della spontaneità. Quando penso alla felicità penso a quella del fiore. In tutte le sue stagioni. Se uno dovesse dirmi: "Com'è l'inverno?". Risponderei: "È la tristezza gioiosa del cosmo" Come puoi pensare che una pianta sia infelice quando perde i rami e le foglie? Non è infelice, sta vivendo la tristezza cosmica come l'evento a cui si affida. C'è la gioia della tristezza. Molte tradizioni, come il chassidismo, lo chiamano "la gioia dentro la tristezza". Non puoi essere sempre felice e se ti illudi di esserlo vuol dire che sei finto. Non puoi essere sempre giovane, saresti finto. Perché noi facciamo il lifting? Perché non conosciamo la natura che è in noi. Sarebbe come dire a una pianta che sta perdendo le foglie: "Dài fiorisci, così sarai felice". Mentre perde le foglie, la pianta sta realizzando alcune delle sue capacità, che si manifestano proprio in quel preciso momento. La ricerca della felicità… Vedi, siamo abituati a pensare che la nostra felicità sia qualcosa di esterno ed è lì che nasce il grande inganno. Perché? La risposta è semplice. Se è esterna, vuol dire che non dipende da me. Allora da cosa dipende? Dagli oggetti che ti vengono incontro nella vita? Ho più auto? Bene, sarò più felice. Ho più soldi? Bene, sarò più felice. Un'altra casa, oppure una promozione sul lavoro, oppure una gratificazione… Ma questa la chiami felicità? La felicità che intendo io è quella del ragno che fa la ragnatela. Un ragno se non fa la ragnatela muore. Ma fare la ragnatela è una cosa di una complessità estrema e il ragno è un animale che risale agli albori dell'evoluzione. Com'è possibile che realizzi un simile capolavoro, una geometria così perfetta? Eppure il ragno si mette lì e la fa. Com'è possibile? Grazie a un sapere innato. Ecco, la felicità viene da un sapere innato come quello che si coglie negli occhi dei bambini. Felici fino a quando non cominciamo a viziarli, a ingannarli. Quando indichiamo o insegniamo loro la via della felicità artificiale, la felicità del possesso. Sei felice perché la mamma ti ha regalato la macchinina… No, sono felice perché in questo momento sto fiorendo. Accade anche per il paziente. Quando un paziente comincia a guarire? L'esperienza

mi dice che ciò avviene quando comincia a scoprire e a seguire le sue tendenze innate. NON IMITARE Come facciamo a riconoscere qual è la via giusta da seguire, e le persone giuste con cui percorrerla? Mi ha stupito scoprire un giorno che la femmina del babbuino quando deve partorire fa trenta chilometri nella foresta, un'enormità. Senza che nessuno gliel'abbia insegnato, va a trovarsi le erbe che favoriscono il parto. E se le mangia. Non solo. Dopo aver partorito va a cercarsi quelle che le servono per l'allattamento. Nessuno le ha mai spiegato come trovare quelle erbe, ma lei ci riesce sempre. Ecco, in natura, un esempio di come trovare ciò che serve nelle varie fasi della vita. Io penso sinceramente che la vita sia lo svolgersi di una trama identica a quella che si svolge nell'utero. A un certo punto l'utero arriva al suo limite, non riesce più a sviluppare certe funzioni e così noi veniamo alla luce. Ed ecco l'esplosione delle nostre funzioni vitali, di certi saperi e capacità. E come la babbuina fa il latte quando serve, così ognuno di noi ha dentro di sé un sapere che lo porta a trovare nella vita le persone giuste, gli amori giusti, i compagni giusti. E soprattutto a conoscere le proprie capacità. Qual è il nemico di tutto questo? È qualcosa che può rovinarci la vita, purtroppo: l'identificazione. Questo è il nemico. Cioè il credere che tu ti debba richiamare alla visione comune. Rientrare nello schema che ci hanno disegnato gli altri, tutti uniti per imporcelo e farci "entrare in società". L'imitazione… Purtroppo, normalmente, si passa il 99 per cento della vita a imitare. E a malapena l'1 per cento a creare. È tutto una grande imitazione. Gli antichi lo avevano così ben chiaro che chiamavano questa situazione Astarte, la dea che ti costringe a somigliare continuamente a un modello, per finire facile preda inconscia degli altri. Le sirene di Ulisse. Noi siamo presi dalle sirene: l'ideologia. In che visione politica credi? Quando scegli una visione politica sei entrato in un'identità. Quando credi in una religione, sei entrato in un'identità. In che cosa credi? Ma in realtà mentre noi crediamo o non crediamo in qualcosa, dentro di noi si sta producendo l'essere che siamo. PERCEPIRE IL SILENZIO Dunque qual è l'atteggiamento interiore che più la favorisce? Ci sono delle cose da fare e da non fare? La cosa più importante secondo me è la percezione. Purtroppo la nostra cultura è cresciuta confidando soltanto nel pensiero. Ma il pensiero ha un limite, ci spinge a imitare. La percezione no. Cos'è la percezione? L'ascolto del nostro essere interiore, ma non sempre. Di tanto in tanto, durante lo scorrere del giorno, bisogna percepire i disagi che arrivano. Ascoltarli mentre sei lì con loro. Percepire è ascoltare il vuoto,

ascoltare il silenzio. Sentire che non hai niente da dirti e aspettare che cosa viene. Eravamo un seme, non dobbiamo dimenticarci che eravamo un seme dentro un ovulo. E un seme dentro un ovulo, quando lo feconda, si sposa con un sapere innato che, ci piaccia o no, sa modellare gli organi del corpo: i polmoni, il cervello, il cuore… Li sa creare contemporaneamente. Quindi c'è qualcosa che da quel momento ha cominciato a fare Raffaele, Luciano, Francesco, qualcosa che continua a svolgere la sua trama. Non c'è niente in natura che non svolga una funzione precisa, caratteristica. Il ciclamino fa il ciclamino. Allora che cosa è importante? Come ha fatto a creare Raffaele senza che nessuno glielo spiegasse? Evidentemente la spiegazione non serve per fare Raffaele. Noi mandiamo i bambini a scuola perché imparino a capire, a spiegarsi, a ragionare. Ma tutta quella lezione non svolgerà la trama del loro essere. Quindi la prima cosa che devo fare è essere silenzioso, senza pensieri. Il seme ha creato me senza pensarci, quindi non ci vuole il pensiero. Noi sappiamo che in molte cose della vita il pensiero non serve. È inutile. A volte peggio. Quando ti innamori, guai se ti metti a ragionare. Diventa un inferno. Nelle azioni e nei gesti che ci vengono spontanei, il pensiero non c'entra. Uno fa un lavoro cui si sente affine e continua a svilupparlo, non perché l'ha scelto, ma perché è stato scelto da quel lavoro… Un evento spontaneo. Quindi alcune cose le sappiamo già. Un consiglio pratico? Eccolo. Prima cosa da fare: non pensare. Seconda: percepire. Terza: percepire il tuo silenzio, perché l'anima è silenziosa. La forza che crea l'essere che sono è silenziosa. Quarta, importantissima: io non devo avere un progetto. Porsi una meta da raggiungere è un grave errore, perché con questo atteggiamento ostacoli il progetto che la tua essenza ha già tracciato per te. Quindi tutte le volte che coltivi un progetto, non soltanto ti complichi l'esistenza, ma finisci col trovarti impegnato in un lavoro di seconda mano, sicuramente acquisito da modelli esterni. Quando invece sei davvero te stesso? Quando sei spontaneo, naturale, quando non fai fatica. Perché la cellula fecondata non ha fatto fatica a fare il bambino. Insomma si deve ragionare come ragiona lo zigote, come ragiona la cellula fecondata. Allora, così facendo, puoi ragionare come le radici, misteriose, nascoste. Smetterai di voler capire. Ti renderai conto che d'inverno non sei lo stesso che d'estate, che ogni paura che provi è acquisita, non è naturale. Incomincerai a percepire che sei abitato da pensieri, emozioni e sentimenti piombati dentro di te dall'esterno, ma che non ti appartengono. Questa è una buona premessa. Altra cosa essenziale: non avere aspettative. È salutare non aspettarsi niente. Pensano a tutto le tue radici nascoste.

IL "NAVIGATORE" Allora possiamo avvalerci di un radar per orientarci fra i nostri impulsi interiori? È un bell'aiuto. Visto che non si può prescindere da loro se vogliamo davvero essere noi stessi. A me piace la parola "navigatore". Io penso di sì: noi abbiamo un navigatore. Una guida. I greci lo chiamavano il daimon, il demone, il tuo demone. Sarebbe meglio definirlo una forza oscura e intelligente che si muove secondo la tua specificità. Un'edera si arrampica, non abbiamo dubbi su questo, e dove la metti si arrampica. Il demone dell'edera è l'arrampicarsi. Una forza che la fa arrampicare. E se trova un ostacolo lo aggira. Noi abbiamo un corpo che si esprime con miliardi di secrezioni: la saliva, le lacrime, il seme, il sudore… Poi c'è una secrezione, altrettanto materiale ma più sottile e misteriosa, che è la coscienza. La consapevolezza. Solo che la consapevolezza è sempre offuscata da qualche cosa. A cominciare dalle "sirene", che ti spingono a identificarti in personaggi illusori, finti. La lezione ci arriva da Pirandello, che nelle sue opere ci ha dimostrato molto bene come tutti i personaggi che interpretiamo nella vita siano "coperte" che ci mettiamo addosso. Maschere. Non siamo noi. Non a caso la parola "persona" discende, attraverso il latino, dall'etrusco phersu, "maschera". Ci presentiamo come persone ma in realtà siamo solo maschere. Fingere vuol dire perdersi. Nel mio lavoro io lo vedo, c'è tanta gente che prende una strada che non porta a destinazione. Pagherà un prezzo altissimo. Ma se di questo errore sono inconsapevole, se non ne sono per nulla responsabile che posso fare, quale atteggiamento devo adottare per evitarlo o perlomeno limitare i danni? Non sei responsabile perché sei stato buttato su un palcoscenico a recitare a comando un copione scritto da altri, facendoti credere di esserne l'autore e l'interprete. Già, la cultura di un'epoca… Si ha un bel dire ma può trascinarti da un personaggio all'altro. Pensa: essere nato cinquant'anni fa voleva dire stare da una parte o dall'altra. Non puoi fare a meno di assorbire gli eccessi del mondo. Le religioni che studiano l'anima, pur con i loro errori, lo sanno bene. Infatti cosa cercano nel mistico? Un luogo in cui occultarsi, giusto o sbagliato che sia. Il silenzio… Recentemente è stato girato un film sui monaci che vivono nel silenzio. Come se il silenzio avesse dei saperi che l'Io non ha. Che il silenzio abbia dei poteri, lo vediamo dalla cellula fecondata che silenziosamente crea un bambino. Nessun architetto sarebbe capace di fare un corpo umano vivente con le caratteristiche del corpo dell'uomo, non potrebbe. Dobbiamo immaginare che c'è un sapere innato che si avvale di leggi e regole precise. Come faccio a sottrarmi al mondo in cui mi trovo? Percependo che mentre parlo sono quello che sta parlando e anche quello silenzioso. Percependo il mio silenzio ne provo il desiderio e ne avverto la presenza. Mi accorgo che in alcuni

momenti arrivano pensieri tremendi, la voglia di aggredire, per esempio, o la voglia di trasgredire. Quei pensieri posso seguirli oppure posso percepirne la presenza. Uno dirà: "A cosa serve percepirne la presenza?". Serve perché la coscienza è una secrezione, la più mirabile di tutte, con poteri immensi. Ogni volta che io percepisco una sensazione di invidia, gelosia, rabbia, desiderio… la coscienza corre in mio aiuto. Nel momento in cui la percepisco senza l'input del pensiero e del ragionamento, sto mutando tutto l'asse della scena. È come se in qualsiasi momento la coscienza potesse farmi nascere "più nuovo", ma si tratta di un nuovo che non assorbe modelli esterni o che ne assorbe meno… Perché entrano in scena i digiuni, nella nostra vita? È un antidoto suggerito dai grandi mistici per alleviare i tuoi "pesi", ben sapendo che continuerai purtroppo ad assorbire il mondo, le sue apparenze, e ti discosterai dalla tua saggezza innata, che invece è il sapere più profondo. Che cosa ha il saggio più degli altri? Un sapere che è seduto su se stesso. Il saggio non ascolta il parere degli altri, ma guarda se stesso e aspetta una risorsa che giunge dal proprio interno. Agisce allo stesso modo del ragno che tesse la ragnatela. In questo periodo parlo del ragno, perché ho saputo che nel pensiero indiano, quando si voleva rappresentare il Dio assoluto, il divino, lo si immaginava come un ragno che fa la ragnatela, per poi rimangiarsela e ripartorirla. Un prodigio che colpisce, se si pensa che la bellezza di questa geometria assoluta abita un essere dall'apparenza sgradevole come il ragno. Quindi c'è una geometria perfetta che tu non vedi, al di là dei personaggi. Come puoi liberarti dei personaggi? Percependone la presenza. Percepire vuol dire liberare una forza misteriosa, un sapere misterioso, che ti può garantire la libertà da identità che ti nascondono e ti avviliscono. Perché ci ammaliamo? Perché veniamo assorbiti da identità che non ci appartengono.

4 I perché della solitudine Ti fa ascoltare l'anima e spegnere le luci finte. RIFUGIO O PRIGIONE? C'è un fenomeno del vivere quotidiano che sa di mistero: la solitudine. C'è chi la paragona persino al deserto, al più arido dei mondi. Dove tutto appare uguale. Eppure c'è chi riesce a conviverci. Anzi, c'è chi la sente come un rifugio provvidenziale, accessibile a tutte le età. Dove è facile riconoscersi, accettare chi siamo e rompere l'assedio di ciò che ci ha isolato. Compagna bifronte, la solitudine insomma è più una risorsa o una condanna? Perché si fa strada dentro di noi? Ha una missione? Ma quale? Devo fare una piccola premessa. Prendo spunto dal caso di una persona cui è morta la madre alcuni giorni fa… Ha perso la mamma e dice: "Sono disperato. Mia madre non c'è più e io mi sento solo. Con lei ho avuto un rapporto straordinario. Ma quando all'improvviso affiora il suo ricordo, vivo strani momenti di gioia. Insomma provo un duplice sentimento: la gioia nella solitudine e la gioia nel dolore". Il chassidismo è una corrente del pensiero ebraico che ha messo gli occhi anche su questo fenomeno interiore, scoprendo che è "naturale" far ridere il pianto e far piangere il riso. Il riso nel pianto è la gioia nel dolore. Noi siamo veramente soli? Oppure la solitudine non è nient'altro che il liberarsi dalle luci finte alle quali non sappiamo rinunciare? Insomma, noi siamo veramente quello che crediamo di essere? Noi vediamo veramente il mondo com'è? No. Viviamo di illusioni. Si pensa di essere sempre in compagnia di qualcosa o di qualcuno o addirittura crediamo di identificarci negli oggetti a noi più cari. Prigionieri delle cose che ci mostra il mondo. È tutto chiaro. Se uno ti dà uno schiaffo, tu per la prima volta senti il dolore in faccia. Se uno ti mette da solo in una stanza… ti senti abbandonato, come accade ai bambini quando finiscono in castigo. Era un metodo che usavano i genitori del passato, purtroppo mai uscito di moda. Moniti, minacce, avvertimenti della mia infanzia sono pressoché gli stessi di oggi. Uguali parole e stessi toni hanno accompagnato più generazioni… "Se fai il cattivo ti metto in castigo. Al buio." C'è stato insegnato che la solitudine e il buio sono nostri nemici. Si ha un bel dire che nella solitudine e nella morte c'è il paradiso. Noi vediamo solo buio. Allora ho detto a questa persona: "Una cosa è certa, sua madre non la vedrà mai più". Chi abbiamo perduto non lo vedremo più, non ritornerà mai più. E quando perdiamo una persona cara come un padre o una madre, noi ci ritroviamo soli. Siamo veramente soli. Come è sola una pianta nel deserto, come è sola una pianta in mezzo agli altri alberi. Quella è vera solitudine. Noi invece non la riconosciamo. Pensiamo che la nostra solitudine nasca dall'assenza di relazioni o da relazioni sbagliate. Abbiamo

perso di vista la parola "solitudine" e il suo vero significato perché ci siamo identificati esclusivamente nelle relazioni che intratteniamo. E una volta compromesse ci ritroviamo nel deserto. Perché ho scelto quella compagna? Sì, mi ha scelto anche lei, ma sono stato io a volerla. Se convivi da molti anni con quella donna vuol dire che c'è affinità fra voi. Un'affinità che oggi senti tua. Ma che la prima volta hai colto d'istinto, forse in un momento di solitudine, quando le luci interiori sono accese e si vede più lontano. Qualcosa di profondo ti ha legato a lei. In fondo era lei la compagna della tua vita e tu il compagno della sua. In fondo qualcosa ha scelto al posto di entrambi e non ha sbagliato. Magari ci litighi, stenti a sopportarla, critichi il suo carattere, talvolta la insulti… ma qualcosa, credimi, ha scelto al posto tuo. Come ha scelto? Silenziosamente, senza il tuo parere, in uno stato di solitudine, di cui non ti sei accorto. Vai a letto la sera ed entri in uno stato di solitudine cosmica, in un buio totale. Non c'è nulla che spieghi la solitudine più della notte. Bachelard diceva: "Si ha un bel dire che la notte è popolata dai sogni ma io entro nell'abisso, nel buio…". Di notte noi entriamo nell'abisso, non sappiamo se ci sveglieremo. È una scommessa che facciamo tutte le notti. Entriamo in qualche cosa che è più grande di noi. Senza fondo, senza limite, un buio talmente profondo da avvertire che la morte può essere qualcosa di simile… Comunque sia, la solitudine è il riconoscimento di uno stato che non è più quello delle falene, affascinate dalle luci che spesso le uccidono. Noi siamo distratti dal vestito o dalla pioggia, dal tempo o dal cappotto che dobbiamo indossare, dalle parole da dire, dalle parole che abbiamo udito. Quella persona che mi parla della morte della madre e scopre la solitudine, si accorge che nel ricordo della madre ci sono anche momenti gioiosi. Conosce così il dolore e la gioia insieme. Allora forse c'è un altro stato dell'essere che ci sfugge… Noi non ci accorgiamo che la terra ruota su se stessa e nel cosmo. Abbiamo impiegato migliaia di anni a capire che siamo noi a girare intorno al sole e non viceversa. Forse c'è qualcosa che ci sfugge. Ci sfugge profondamente. Ma una verità affiora. La realtà è evidente: il personaggio morirà: morirà il giornalista, morirà il medico, morirà lo psichiatra. Morirà il marito, morirà il figlio, morirà il padre. Nella parabola del tempo che ci è stato assegnato, fino al nostro tramonto, noi siamo stati un susseguirsi di luci e di ombre. Un qualcosa di inafferrabile, sfuggente, che non era il personaggio in cui ci eravamo identificati. Ecco perché la solitudine può essere un veleno mortale per chi si lascia sedurre e accecare dalle luci, dalle illusioni. Come accade alla falena. Non c'è male peggiore della solitudine che trova spesso il suo peggior rifugio nei rimpianti. E quando diventa invece una risorsa? Quando ti fai guidare dall'essenza. L'uomo cosmico non può temere la solitudine, perché nel cosmo non si è mai soli. Ho detto a questa persona una cosa che l'ha colpita moltissimo. Quando gli antichi, per capirsi bene, parlavano dei genitori, si interrogavano così: "Ma tu hai perso la mamma?" o "Hai perso la mamma che hai

conosciuto?"; "Ma hai perso tua madre, o hai perso la madre che hai conosciuto?". Ebbene la mamma del mondo, quell'energia che genera l'essere che sei, non si perde mai. È sempre lì, è sempre stata lì. Quindi anche nella solitudine più totale il signore o la signora del mondo ti stanno guidando… Non siamo mai soli. C'è un rito dei Veda, che Roberto Calasso ha ricordato tempo fa sul "Corriere della Sera". Quel rito si basa su una pratica singolare: buttare latte sul fuoco. È un rito antichissimo, non si sa quanto sia antico. Tu dirai: cosa vuol dire? Che follia è? Il sacerdote cattolico forse non entra in contatto con un essere sconosciuto che non sa chi è? E non si va persino oltre nelle altre religioni, dove c'è un Dio non identificato, come nell'ebraismo o nell'islam? Nel cristianesimo il pane si fa addirittura corpo di Cristo… Stranezze, se vivi oltre i confini della fede. Ma le religioni sanno che c'è qualcosa di misterioso, che sta svolgendo una trama a te ignota. Buttare il latte sul fuoco è… Cos'è il latte? Perché c'è il latte? Il latte esce dal seno? Sì, ma viene prodotto dal cervello. C'era il latte nell'universo, c'è sempre stato? No, assolutamente! Non soltanto il latte non c'è sempre stato. Ci fosse stato il latte, ci sarebbe stato anche il mammifero. Ma per esserci il mammifero doveva esserci qualcosa che viene fecondato e creato dall'interno dell'essere. È col mammifero che l'universo partorisce l'evento degli eventi. Prepara l'uomo e lo fa sempre più a immagine e somiglianza dell'uomo che sarà. E sai cosa accade quando il mammifero apre per la prima volta gli occhi nell'universo? Si ritrova accanto la madre del mondo, scesa in campo per allattare la sua creatura. Per la prima volta nella storia, l'universo si fa artefice della creazione. Come dicesse: "Ci penso io". E l'universo che fa? Prepara una sostanza che nutre le proprie creature. Pazzesco. Una sostanza per nutrire le creature. E dove la prepara? Nella mente dell'universo. E dove la deposita? Nella mente degli esseri più evoluti. I quali, passo dopo passo, arriveranno all'uomo. È così che il latte compare nell'universo, perché nell'universo c'è un'intelligenza che si adopera a nutrire le sue creature. Cos'è il fuoco, il fiammeggiante? Rappresenta la luce, la verità. Latte sul fuoco significa la nascita a disposizione dello spirito, dell'energia creativa. In sanscrito… per sapere, occorre ardere: ecco il fuoco. Il fuoco vuol dire verità e il latte vuol dire vita, fiducia. Ecco, l'universo regala la fiducia con il latte. Buttare il latte sul fuoco vuol dire avere fiducia nella verità. Io sono solo o c'è una madre del mondo che mi crea? Io sono solo o nella solitudine più autentica qualcosa mi allatta, mi nutre? Non siamo mai soli. L'UOMO SOLO, LA DONNA SOLA Uomo e donna. Mi piacerebbe sapere se hanno per caso un approccio e un rapporto diverso con la solitudine. Chi fra i due è più incline a frequentarla? Non pensa che la sensibilità femminile, grazie alla sua innata fantasia, sia meglio predisposta a riempire d'istinto i vuoti dell'animo e a trasformarli in oasi di emergenza? Dove sostare. L'uomo non ha questa astuzia, è allergico ai baratti

interiori, si aggrappa solo alla ragione. Chiede spiegazioni a se stesso, e se non arrivano si arrende. Scendendo nel cuore dei due mondi, uomo e donna, come le accade spesso, qual è, se esiste, lo spartiacque delle (che separa e distingue le) due solitudini? Le donne vivono molto più degli uomini, le donne si muovono costantemente nella solitudine. Sanno vivere nella solitudine, gli uomini no. Gli uomini, quando vengono lasciati, cercano subito una compagna a cui appoggiarsi. Le donne hanno una forza naturale strutturata: il ciclo, la gravidanza. Un altro modo di vedere il mondo. Le donne non fanno la guerra, non fa parte della loro natura. Hanno una visione molto più cosmica della vita, sono meno inclini al giudizio, a trovare un "perché" a ogni cosa. L'uomo vive nell'autocritica. Non fa che dirsi continuamente come deve essere. L'uomo vive schiavo del dover essere, la donna vive libera nell'essere. La donna ha un'elasticità mentale più ampia dell'uomo. Certo, questo non vale per tutte le donne come non vale per tutti gli uomini. Ma quella rotondità del femminile è testimonianza del suo sapere innato. Attenzione, quando parliamo di "una donna" che cosa intendiamo, immaginiamo? Che donna vorremmo vicino a noi? Insomma, di quale "donna" stiamo parlando? È quella con un velo, che in certi momenti si apparta e prega? È quella che accudisce l'uomo come nessun altro essere del cosmo quando sta male? È quella che lo fa impazzire a letto e poi si dilegua perché è entrata all'istante in un'altra dimensione? Le donne detestano che si parli di una notte magica vissuta insieme. La donna è un essere misterioso che vive nell'apparire e nel nascondersi. Quanto piace alle donne sfoggiare un vestito e quanto piace occultarsi! Si comportano così perché sono esseri irraggiungibili. Quando parliamo di una donna parliamo di un altro tempo. Quanta solitudine in una donna che si trucca! Quante volte abbiamo aspettato le nostre donne per andare a una festa, per andare a una cena? Il loro modello di perfezione non è il nostro. Gli uomini vanno alle feste per parlare di calcio o di business, invece le donne vanno alle feste per essere corteggiate, per sentirsi ancor più donne… È un'altra dimensione dell'essere. Quando parliamo di donne parliamo di esseri che custodiscono i bambini, con naturalezza li schiaffeggiano, li coccolano, li amano e si allontanano. Quando parliamo di donne parliamo di esseri che hanno un senso naturale dell'economia. Se fosse per gli uomini, i ragazzi andrebbero a scuola a diciotto anni con le scarpe di quando ne avevano sei. Quando parliamo di donne parliamo della capacità di stare con se stesse senza giudicarsi, una risorsa di cui sono sprovvisti gli uomini. Le donne vivono nel cosmo e nella natura stessa. Naturalmente la solitudine degli uomini e delle donne si rivelerà col tempo sempre più invadente e toccata dalla sofferenza, se nell'illusione di scacciarla ci si aggrapperà agli psicofarmaci. Con il rischio di smarrire anche la nozione di ciò che è naturale. Poco fa abbiamo parlato del bosco. Ma chi va più nel bosco? Piccoli, grandi, bambini, vecchi: nessuno pensa che stare nel bosco significa guarire. Eppure gli

antichi lo facevano. I romani se volevano vedere come stava il cosmo andavano a vedere come stavano gli alberi nella radura. Sceglievano un gruppo di alberi e, in base agli alberi che avevano di fronte, capivano come stava l'intero cosmo. Quindi, nella solitudine c'è una percezione maestra che ci indica la via. Nella nostra cultura, la solitudine non è più vista come una saggia maestra di vita, non è più un'alleata, ma una facile occasione per imitare modelli come quello del Grande Fratello. Per noi la solitudine è una maledizione, quando dovrebbe essere invece accolta come una buona notizia. Che ci aiuta a indagare e a scoprire chi siamo.

5 Il vecchio e il bambino Guardano il mondo con la luce dell'alba e del tramonto. SI MERITANO UN APPLAUSO Dalla solitudine alla vecchiaia, quali sono i suoi spettri, i cedimenti del corpo e l'inevitabile logorio degli organi? Quando scatta l'allarme noi ci tuffiamo a corpo morto nei farmaci, e quando la situazione volge al peggio anche negli psicofarmaci. Che altro possiamo fare? Il barnum farmaceutico, che ha contribuito non poco ad allungarci la vita, ora ci tiene meritatamente prigionieri. I suoi milioni di sacerdoti ci segnalano con megafoni di ogni tipo le possibili vie della guarigione. Che noi battiamo fiduciosi. Lei non demonizza né il barnum né gli psicofarmaci, ma ne denuncia l'abuso e ne ridimensiona l'efficacia. Con quali motivazioni? Perché? Mi ha fatto molto piacere tempo fa leggere sul "Corriere" un articolo di Tonino Guerra, nel quale lo scrittore-poeta scaglia una lancia contro l'orribile moda di farsi levigare i volti e spianare le rughe. Avvertendoci che di questo passo fra cinquant'anni avremo tutti le stesse facce. Levigate e uguali. E non vedremo più autentici vecchi attorno a noi. Peccato, perché ogni ruga è un sapere… Coraggio, proteggiamo il nostro aspetto naturale. Si deve andare fieri della vecchiaia. Amarla. La vecchiaia non è un limite. La vecchiaia non è una malattia, ma un viaggio, che continua con altri panorami. Noi veniamo al mondo per andare verso la morte e nessuno ci aiuta a percorrere questa strada. Ci hanno detto che c'è un paradiso e che questa è una vita inferiore… Con il grande inganno dell'aldilà ci hanno spaventato tantissimo sull'aldiquà. Noi viviamo per la morte, una vita si realizza nella morte. Questa deve essere la partita. Nessuno di noi si sognerebbe mai di pensare che l'inverno andrebbe eliminato. Eliminando l'inverno, eliminiamo la primavera, l'autunno e tutto il resto. Abbiamo bisogno dell'inverno come abbiamo bisogno della primavera. I frutti dell'inverno non sono i frutti della primavera. Devi avere gli occhi giusti per vedere i frutti dell'inverno. Gli organi stanno cedendo, gli occhi si stanno annebbiando. È un naturale logorio progressivo o si stanno limando funzioni che non sono utili per lo sviluppo di qualcosa che non sappiamo ancora cos'è? Serve ricordarsi di tutto? Serve la memoria a breve termine? No… Se ragioniamo così, eviteremo che il barnum ci riempia di integratori e di farmaci, per renderci più attenti e più agili di mente. Io sposo totalmente la linea di Hillman. Cosa dice il grande studioso? Quando si incontra un vecchio bisogna chiedergli una benedizione. Proprio così. Nel suo sapere c'è un altro modo di vedere il mondo. C'è il modo essenziale di vedere il mondo… Certo, quanto più siamo indifferenti ai modelli tanto più siamo naturali. I vecchi sanno stare da soli molto più dei giovani. I bambini e i vecchi sono capaci di stare da

soli. Il vecchio si gode la conquista di una ritrovata leggerezza. Vuoi conoscere davvero tuo figlio? Mostralo al nonno: lui lo vede con una visione libera dagli impacci esistenziali che ti disturbano, attaccamenti spesso inutili. Nella vecchiaia ci si libera da tante identità insignificanti, asservite ai modelli. Svoltiamo dunque! Proviamo a guardare la vecchiaia come fosse l'essenza del sapere, un po' come lo è il bulbo della cipolla. Il resto è da scartare. Ciò che conta è il "nucleo". È lì che risiede la vecchiaia. Forse la vita è fatta in modo tale che noi tutti siamo embrioni che, invecchiando, tornano a ragionare da embrioni. Cioè in base al sapere che ha organizzato la vita dentro di noi. Il miracolo dei miracoli lo compie una cellula che, fecondata, diviene cervello. Si mantiene per tutta la vita e produce un seme come il cervello da cui esce l'intelligenza. Noi siamo il miracolo dell'universo. L'universo ci ha creato perché un Dio persecutore ci voleva far morire? Oppure nel rapporto vita e morte si sta compiendo un mistero che non conosciamo? Quindi innalziamo un inno alla vecchiaia. La vecchiaia è il simbolo della nostra sapienza occulta. ALLA FINE VINCE LEI Sostiamo davanti alla vecchiaia, che fra le stagioni della vita è forse la più lunga. Lei la esalta, l'ammira, si direbbe quasi che l'anteponga alle altre… Perché è il momento in cui la maturità va verso l'essenza. Non c'è nessuna differenza fra una cellula fecondata, il feto, e il vecchio. Solo una: che il vecchio ha vissuto una vita intera. Quindi si è creata in lui una sapienza silenziosa che vede le cose e non ha bisogno di parlare. È una sapienza nascosta e rivolta verso se stessa. Il sapere dell'anziano non è più attratto dalle chimere dell'inutile. Si è fatto essenziale, sa guardare le cose come sono. Certo è molto più redditizio per il barnum giudicarci "in deficit" e riempirci di farmaci. Il feto invece si apre alla vita. E grazie al suo sapere forma dentro se stesso l'essere che è e sarà… Tra gli aspetti che stonano, anzi che stridono, nel nostro mondo c'è anche l'uso che si fa della vecchiaia. Accanto a ospitali case di riposo, dove l'anziano trova conforto e compagnia, ci sono rifugi in cui è ridotto a mera voce di bilancio. Forse è inevitabile. Forse è cinismo… Certo che qui la vecchiaia viene amputata, spenta prima dei suoi ultimi bagliori, per lei i più luminosi nonostante assalti a ripetizione contro il corpo e soprattutto la mente. Ho letto male il suo pensiero? Pensiamo all'Alzheimer. Si dovrebbe guardarlo per quello che è o potrebbe essere: l'essenza che si libera da identità che le stanno troppo strette. Noi lo chiamiamo demenza ma in realtà è l'agitarsi della coscienza che ripiega dentro se stessa per favorire la propria rinascita. Noi invecchiamo per rinascere. Io penso che i buddhisti, con la reincarnazione, esprimono un'idea profonda dell'anima e della vita. La vita non è compiuta… Se noi stabiliamo un inizio e una fine, complichiamo tutto. Non ci sogneremmo mai di dire che andiamo a morire tutte le notti, ogni volta che andiamo a

dormire. Noi siamo attaccati a degli episodi della nostra vita e ciò ci limita. Ma se viviamo senza storia, siamo eterni. Quindi andare a morire è andare a dormire. Di un sonno molto più lungo di cui probabilmente ci resteranno ricordi atavici, nel senso che ci ritroveremo con capacità acquisite durante una vita per poterne usufruire nella successiva. Io penso che la reincarnazione sia più di una buona prospettiva. Che ci sia qualcosa che continui o no, il nostro compito umano è chiaro: scoprire, passo dopo passo, giorno dopo giorno, anno dopo anno, il nostro essere nel mondo e le capacità di cui siamo ora in possesso. LIBERARE LA COSCIENZA DA OGNI SCORIA Come possiamo rassegnarci all'idea di perdere, assieme alle forze e alla memoria, ogni controllo sulla nostra vita? Smettere di esserne i protagonisti? Secondo me dobbiamo assolutamente liberarci dall'idea di essere noi i protagonisti. Non siamo noi a condurre la vita, è la vita che conduce noi. Perché nella vita è già tracciato un progetto. Il mistero, il vero mistero, è la coscienza di un essere che agli albori si costruisce tutto il corpo, poi nasce e continua a vivere. Il mistero è ciò che mi spinge a dormire tutte le notti per risvegliarmi al mattino. C'è qualcosa che non vedo, che non sento. E non so spiegarmi cosa sia. L'analogia che più di tutte mi convince è sempre quella del campo, dell'albero e del fiore. Un campo di fiori non si pone domande… A volte si cammina per strada e all'improvviso si scorge una pianticella sbucare fuori dalla piccola crepa di un lastrone di pietra. E noi subito a chiederci: che senso ha vivere stretti in una morsa e avvolti dallo smog? Quanto potrà durare quella foglia? Eppure la vita si è attaccata lì, ha partorito in quel punto il suo germoglio, il suo fiore. E lì avrà vita finché la sua linfa non si esaurirà. Proprio come succede a noi. Perché invecchiando andiamo inesorabilmente verso lo spegnersi delle capacità psichiche che riteniamo vitali: la memoria, il ragionamento, la logica, l'efficienza, l'attenzione. Tutte cose che non albergano nemmeno nell'utero. Noi chiamiamo demenza la resa del vecchio quando non è più in grado di dare una risposta nemmeno alla domanda più semplice, di indicare una traccia di sé, di farsi riconoscere. Lo stesso schema di riconoscimento che si può accertare in una cellula fecondata, nello stesso feto. Il vecchio all'apice del suo tramonto e il bambino nel momento più alto del suo inizio, la fecondazione, sembrano due dementi, entrambi "privi di mente". Sembra quasi che l'inizio e la fine si ricongiungano in un solo modo di essere, come se il signore del mondo avesse stabilito che nello sviluppo del seme (il feto) e nel momento del raccolto (la vecchiaia) le leggi da osservare dovessero essere le stesse. Ciò fa pensare che ci assista una coscienza certamente obnubilata, ma ancorata all'essenziale. Si va verso la morte con un bagaglio che non concede spazio al superfluo. Ecco perché irrompe l'Alzheimer. Per farci almeno svuotare gli scaffali della mente e buttar via i brutti ricordi, i pensieri inutili, l'aggressività trattenuta, la rabbia repressa. L'Alzheimer fa sì che la coscienza si liberi di ogni scoria e non sia più in

grado di riconoscere e di soffrire. È come se la percezione di noi stessi venisse affidata a una coscienza superiore. Come se per morire dovessimo prima incontrarci con una coscienza liberata dal pensiero, dal ragionamento, dall'identità. Incredibile! Nel momento in cui veniamo fecondati, il Grande Architetto che realizza la nostra identità lo fa a nostra insaputa. E nel momento del grande passaggio non ci avvisa nemmeno che stiamo per morire. Tutto è preordinato, e se invecchiando ci scopriamo incapaci di svolgere certe funzioni… niente paura! Ciò accade perché esse sono inutili. La nostra cultura però è pragmatica. E come tale si illude di aiutarci dicendo: "Caspita! sei anziano, prenditi un integratore, prenditi una pastiglia. Devi rinforzare la memoria. Non perdere tempo. Eccoti i farmaci che ti fanno vivere meglio". Nessuno pensa che l'anziano si può avvalere dei codici dell'anima, che funzionano proprio perché è anziano. In ogni stagione c'è in noi una risposta pronta. Così come un feto deve costruirsi gli organi, l'anziano deve utilizzare i codici per avviarsi verso la morte senza rinunciare alla sua essenza. Cioè entrambi, il feto e l'anziano, stanno preparando lo sviluppo e il compimento della propria vita. Il fatto di non pensare che esista la morte, anche a ottant'anni o novant'anni, è solo un rifiuto istintivo. Se ci pensiamo è perché ci suggerisce di farlo la nostra identità. Diciamo: "Morirò, non resterà niente di me"… Il bambino non si preoccupa della morte e il vecchio, tutto sommato, non è spaventato dalla morte. È paradossale? Affatto. Ne ha paura il pensiero, perché sa che si estinguerà. Io sono cambiato miliardi di volte da quando ero un bambino. E non me ne sono accorto. Non sapremo come sarà il mondo fra mille anni ma sappiamo che nascerà dal seme, si vivrà quel giorno come si vive oggi. Come fanno i campi di grano. A un certo punto metti il seme e da lui nascono le radici, il germoglio, il fiore, il frutto, il grano… e tutto ricomincia. Ogni campo di frumento influenza quelli successivi. Quindi dobbiamo immaginare che ci sia una coscienza sottostante che sappia cosa fare e dove condurci. Quella coscienza tornerà perché non è mai morta. Ma non la riconosceremo come nostra. I sistemi di riconoscimento saranno legati a un modo di vedere il mondo collegato all'ambiente, ai tempi in cui vivremo. Perché si contempli l'eterno, bisogna che noi ci liberiamo dell'io, che la smettiamo di credere che "io esisto, io, io". La coscienza esiste. Io sono soltanto lo strumento della coscienza. QUEI DUE MAESTRI Da una stagione all'altra. Che ne direbbe se il mondo venisse affidato in esclusiva a "quei due", al vecchio e al bambino? I vecchi hanno visto o compiuto tanti misfatti da esserne sazi, e potrebbero così togliersi il piacere di chiudere la loro vita al servizio degli altri. Mentre i bambini non ancora toccati dal male, una volta padroni del grande gioco, non suggerirebbero che idee pulite. E tutti gli altri? In aspettativa, a godersi la vita. Sì, un paradosso. Ma ne uscirebbe un mondo diverso, non crede? I

bambini… Si predica da secoli che sono nati per imparare, per crescere. Belli nei loro grembiuli e composti sui loro banchi di scuola. Ma lei non è d'accordo. Li vuole in cattedra. È una sua immagine. Bellissima. Perché li promuove subito maestri. Che cosa possono insegnarci? Tu dici che il mondo della saggezza è il mondo dei bambini. Perché li vorrei in cattedra e subito maestri? Perché utilizzano il sapere innato. Cosa conta di più nella vita? Ciò che sai senza averlo imparato, cioè proprio il tuo sapere innato. E quello che invece impari? Quello che apprendi può svolgere la funzione di stimolare la tua essenza, aiutarti a ritrovare il sapere innato o, altra faccia della medaglia, distanziarla a tal punto dal tuo sapere innato da farti diventare un bel manichino. Importante, se non addirittura vitale, è scoprire chi siamo. Ecco una storia esemplare, protagonista un grande rabbino ebreo. Un giorno va a trovarlo un uomo infelice, insoddisfatto di sé e gli dice: "Maestro, io non sono contento". E il maestro gli risponde: "Cosa c'è che non va?". L'uomo aggiunge: "Sono un cohen, l'uomo che dà le benedizioni. Dovrei essere un uomo felice… invece…". E il rabbi gli risponde: "Un uomo che dà le benedizioni… ma può farlo chiunque". L'uomo continua: "Ma io non ho mai peccato, non ho mai ucciso, non ho mai tradito mia moglie, mi sono comportato bene con i miei figli". "Ma così può comportarsi chiunque" ribatte il rabbi. L'uomo insiste: "Rabbi, io sono anche l'uomo che fa il pane". A questo punto il rabbi si fa pensieroso. C'è da dire che, in tempi non lontani, fra gli ebrei c'era stato un grosso dibattito sul pane senza lievito. Chi sapeva fare il pane senza lievito era un uomo speciale. Perché farlo senza lievito? Perché senza lievito voleva dire che il pane sarebbe cresciuto senza le inevitabili impurità. Non a caso, nel periodo delle festività pasquali, sulle tavole degli ebrei fa la sua ricomparsa il pane azzimo. Quel pane riveste una funzione quasi sacra. Il pane col lievito no. Lievitare vuol dire far lievitare i disagi, far lievitare i conflitti. Il pane azzimo è un pane pulito. Le grandi pulizie della Pasqua ebraica si specchiano proprio nel pane azzimo. Il messaggio è chiaro: pulisci tutto perché non rimanga un filo di polvere, perché non rimanga alcuna traccia del passato, perché non rimanga l'ombra di una macchia. È un rito. Un rito sacro. Il rabbi guarda negli occhi l'uomo, che con tono supplichevole ripete: "Rabbi, io so fare anche il pane". Così al rabbi viene in mente la questione del pane azzimo e del lievito. L'uomo non si dà pace e continua: "Rabbi, io so fare anche il pane, non mi manca nulla per essere un uomo, per sentirmi un uomo buono. Non credi…". "Ma tutto questo può farlo ed esserlo chiunque" risponde il rabbi, che non ignora una verità: gli ebrei dai tempi dei padri hanno sempre scelto uomini giusti per fare il pane. Allora il rabbi gli chiede: "Perché non stai bene?". E l'uomo risponde: "Rabbi, te l'ho detto… non lo so". "D'accordo, ora sai fare il pane, un lavoro che molti fanno. Ma cosa sapevi fare da ragazzo?" chiede il rabbi. La domanda getta un lampo di luce. "Cosa sapevi fare da ragazzo? Cos'è che ti veniva più facile di ogni altra cosa?"

(Non dimentichiamo che la psicoterapia è nata fra i rabbini. I più grandi terapeuti sono nati lì. Non è stato Freud o gli altri a inventarla, no. Risale ai chassidim. Erano grandi psicologi, i chassidim…) La domanda del rabbi lo colpisce. L'uomo riflette e accenna a un sorriso. "Adesso che mi fai pensare, ricordo che da ragazzo andavo sulla spiaggia, prendevo la sabbia, la impastavo con l'acqua di mare e facevo delle palline. Le coloravo per ore e ore. Poi facevo a ognuna un piccolo buco, vi facevo scorrere dentro un filo e ne uscivano collane. Bellissime" racconta l'uomo. Il rabbi lancia un grido: "Ah! Un gioielliere!". Il rabbi non ha dubbi: "Il gioielliere! Ecco chi sei veramente. Dio non ti perdonerà di non aver fatto il gioielliere, di non aver fatto quello che sapevi fare." Il rabbi continua: "Il nostro Dio non te lo perdonerà mai, ricordalo. Ecco la causa lontana del tuo malessere crescente: aver ignorato quel dono. Gioielliere… lo sapevi già fare da ragazzo. Eri nato gioielliere. Nessuno te lo aveva insegnato…". Ma non è un privilegio di pochi capire qual è la propria strada? Non sarebbe di aiuto un bravo maestro per leggersi dentro e scovare le proprie naturali attitudini? Non sempre… A Bacon, il grande pittore, un giorno chiedono: "Scusi maestro, lei ha fatto l'accademia?". "Per l'amor di Dio, anziché imparare mi avrebbero costretto a disimparare" è stata la risposta. Capito? Altro caso, lo studente Picasso. Lo cacciano da scuola perché non sa né leggere né scrivere, perché non vuole imparare. E quando se ne va, a chi lo rimprovera replica con queste semplici parole: "Io so solo disegnare". Picasso è l'artista che ha cambiato la pittura degli ultimi cent'anni, entrando in tutti gli stili e uscendone dopo aver lasciato ovunque la propria impronta. Nessuno glielo ha insegnato. Nella lezione-monito del rabbino si coglie un'idea forte: se c'è qualcosa che sai fare istintivamente, lo devi fare. Devi seguire l'istinto. Una grande studiosa dell'anima come Marie-Louise von Franz dice che devi prendere la strada che conosci meglio, anche se la tua scelta dovesse andare contro la mentalità della gente e importi un prezzo alto da pagare. Deve confortarci questo detto africano: "Una buona edera si arrampica, un buon leone ruggisce, una buona pecora bela". VANNO A SCUOLA MA FANNO SCUOLA Insomma, ciascuno ha già tracciata in partenza la sua via, il cammino da percorrere. Perché soltanto un'esigua minoranza trova, grazie al sapere innato, lo spiraglio giusto per "fare ciò che sente di saper fare"? Che cosa ci frena? E a quali rischi va incontro chi rimane sordo all'input più naturale? Noi vogliamo un mondo uniformato. I bambini li mandiamo a scuola per uniformarli. Per renderli "colti". Ma non è una formula da accettare a occhi chiusi. Perché costringere un bambino nato con la vocazione della gioielleria a studiare Kant? Cosa serve, cosa gli serve? Soltanto ad allontanarlo sempre di più dalla sua capacità intrinseca, innata. Sarebbe come insegnare a un ragno a saltare come le rane

anziché lasciarlo in pace a disegnare la sua ragnatela. Sarebbe non solo tempo perso ma, qualora ci si riuscisse, anche pericoloso. Ci sarebbe da preoccuparsi, perché avremmo creato un manichino, un mostro. Non sarebbe più un ragno. C'è una coscienza che sa e che si rivela nel bambino. Osserviamo il bambino, c'è tanto da imparare. Cosa intendo per imparare? Basta vedere un bambino di quattro anni, cinque anni. Ci sono bambini che vanno ancora all'asilo e sanno utilizzare il computer con un'agilità fisica e mentale impressionante. Un bambino di tre anni, figlio di un mio amico, si muove davanti alla tastiera con la sicurezza di un esperto. Apre il computer, si connette, guarda le immagini, naviga, esplora, poi esce e spegne, senza un'esitazione. Non gliel'ha insegnato nessuno. C'è un sapere innato. Del resto sarà più utile imparare le poesie a memoria o costruirsi il cuore, il cervello, come sa fare la coscienza innata? Penso che nessuna architettura sia così perfettamente riuscita… Quindi il vecchio e il bambino custodiscono due saperi. Il vecchio ha imparato a guardare la vita ma anche a liberarsene. Il bambino le corre incontro senza paura. I vecchi non avvertono la pressione del tempo, della vita e della conquista che opprime noi adulti. Io vedo mia figlia che ha 31 anni, quando va da mia zia che ne ha 81. E sta lì ore a farsi raccontare… I vecchi sono la trama del mondo, sono l'archivio parlante del mondo di una volta e, proprio per questo, ci insegnano a convivere con il mondo di oggi, a vedere ciò che sta attorno a noi. Perché, ci piaccia o no, oggi come ieri il mondo è sempre quello. Con le sue leggi immutate. La primavera torna ogni anno, diversa se vuoi, ma torna ogni anno. Così torna l'autunno. Il bambino di oggi è la sintesi di tutti i bambini del mondo che l'hanno preceduto e lo seguiranno. Il bambino che gioca oggi è uguale al bambino che giocava ai tempi dell'antica Roma. Il suo modo di apprendere è lo stesso. Il modo di vedere il mondo magari sarà cambiato, perché abbiamo acquisito altri modelli, ma la capacità del bambino è immutata: apprende sempre con facilità estrema, per restituirti il mondo che tu gli mostri da un'altra angolazione. Una dimensione nuova, autentica. Da qui nasce per noi una grande responsabilità: intanto smettiamola di enfatizzare il mondo disastroso che ci ritroviamo. Io, se guardo i telegiornali delle tredici o delle otto di sera… Altri cominciano alle sette, o alle sette e mezzo. Siamo colpiti da una raffica di flash e informazioni a tutte le ore. Ebbene, è una carrellata di delitti e di orrori. Con i bambini in casa spesso davanti alla TV. Sembra che non si possa fare un telegiornale senza parlare di crimini o sciagure. Fateci caso, i nostri telegiornali sono i telegiornali di cronaca nera. Con aggiornamenti a ripetizione sui disastri ambientali e dettagliate analisi di delitti e di suicidi. Osservavo tempo fa un telegiornale, mi sono messo lì a contare: se ben ricordo era il TG5 delle 20. Ha parlato di sette, otto tragedie e di sette delitti, il deragliamento di un treno, la nube nera, la nube tossica degli aerei, l'assassinio di una ragazza incinta… Infine due alcolizzati che correvano in macchina a 180 all'ora e hanno ammazzato due bambini. Ora non mi vorrai dire che queste sono notizie. Queste non sono notizie. Sono le informazioni che noi scegliamo di dare perché

facciano più audience, perché in un mondo spento come il nostro far sentire il brivido della morte violenta desta maggiore attenzione. Altro mondo quello del bambino e del vecchio. Quei due hanno il sapere innato di chi vede la luce dell'alba e di chi osserva la luce del tramonto. Sono due luci che non accecano. E offrono una visione più completa a entrambi… Ne parlavo con Gino Strada molto tempo fa, ed entrambi facevamo un'analoga considerazione. Tu vedi giocare i bambini afgani che a causa delle mine hanno perso una gamba, hanno perso un braccio. Ti chiedi come possano essere così felici. Loro giocano, ridono, hanno la luce negli occhi. Nonostante quelle terribili mutilazioni. Ne rimani sconvolto, poi capisci. Capimmo. È la gioia del germoglio che sboccia nella vita. I bambini, che ci vivono accanto, sono spesso intossicati dai nostri modelli, viziati, abbagliati dalle troppe cose che ricevono, ma anche privati da noi stessi della possibilità di godersi la felicità del germoglio. L'anziano invece è trattato come un malato. Ecco un'altra ingiustizia. L'anziano non è un malato. È una follia pensare che l'anziano vada protetto. Protetto da chi? Come è folle credere che la vecchiaia sia una malattia da curare. Sarebbe come giudicare una malattia la gravidanza al nono mese. LA VITA È UNA SCIA DI GRAVIDANZE D'accordo, ma quale strada consiglia di prendere per scongiurare questo errore, che consideriamo quasi un pedaggio naturale? Dobbiamo immaginare la vita come una gravidanza. Prima c'è la gravidanza acquatica che dura nove mesi, poi c'è la gravidanza dell'aria che dura qualche anno, poi una gravidanza con l'eros in cui a tua volta puoi generare, dare la vita, seguita dalla gravidanza della maturità e infine la gravidanza del tramonto. Sarebbe come dire che un bambino al nono mese di gravidanza è diventato "anziano", è in declino, perché fra poco tramonterà nella vita. No, imboccherà un'altra fase della vita. Passerà a un'altra gravidanza e così via… Finché nella morte si entrerà in uno stato di semenza invisibile. Ce lo ricorda anche un pensiero folgorante di Pessoa: "Morire è soltanto non essere visti". La vecchiaia e l'infanzia sono le due età cui lo scrittore fa riferimento. Quando vuoi comprendere bene una cosa, raccontala a un bambino. Nelle obiezioni che ti porrà, nelle domande che ti farà, ti accorgerai quanto sei complicato, quanto sei confuso, stordito, quanti errori fai. E soprattutto comprenderai dove va realmente il mondo. Noi viviamo in un perenne stato di gravidanza: prima acquatica, poi respiratoria aerea, quindi la gravidanza cosiddetta matura e infine la gravidanza del tramonto.

6 La famiglia Quello che accade è già la soluzione. NON PREOCCUPIAMOCI DI ESSERE BUONI GENITORI Lei ha compiuto una fruttuosa ricognizione sul mondo dei bambini. Dai dati raccolti che ci ha trasmesso, sembrano loro i signori e i maestri del mondo benché troppo fragili, come dice lei, per resistere ai venti delle mode e delle educazioni meccaniche. A questo punto richiamarsi ai genitori è quasi d'obbligo. Possiamo parlare del loro ruolo? Esiste ancora? E ammesso che esista, oggi pare avere un senso solo se svolto in punta di piedi. I genitori sembrano nascondersi dietro l'alibi dell'affetto. L'autorità del capofamiglia è ormai misconosciuta come è giusto che sia per tutte le monarchie assolute. Ma se può tornare utile ai figli che i genitori sopravvivano, quali "corsi d'aggiornamento" dovranno compiere mamma e papà per non deluderli, per aiutarli a dialogare con loro, almeno alla pari? I peggiori genitori sono quelli che si preoccupano di essere dei bravi genitori. Noi dobbiamo smetterla di enfatizzare i ruoli e di dannarci l'anima per imparare a svolgerli. In questo sono molto più avanti gli animali. La gatta, per esempio. Fa i suoi gattini, si mette in un posto buio e li fa, taglia il cordone ombelicale, insomma fa tutto con una naturalezza estrema. E il gatto padre, se non è sui tetti, se ne sta a una certa distanza. Quindi non la metterei giù così dura. È evidente che ci sono dei codici fondamentali: i bambini, nei primi tempi, hanno bisogno della mamma, della figura materna. L'idea di stare addosso ai figli, di farli divertire, di farli giocare, di condurli… cioè di educarli, di essere per loro una presenza essenziale, rientra fra le buone intenzioni, ma io non la condivido. Più sforzo dei genitori c'è, meno spontaneità avremo. Così recitiamo purtroppo il ruolo di mamma e papà secondo le convenzioni del momento. I figli non si domandano se sono buoni figli. Perché noi invece ci preoccupiamo di essere dei buoni genitori? Tu hai il tuo carattere, magari con delle asperità. Tuo figlio imparerà a conoscerle e a difendersi. Tu sei il capo, non lui, fino a che non raggiungerà un rapporto di indipendenza. Io non drammatizzerei i salutari "malintesi". Io sono contrarissimo, per esempio, agli psicologi nelle scuole. Perché significa aggiungere altri problemi, prima che la vita prenda la sua strada. I bambini hanno il loro modo di essere, una loro peculiare ostinazione quando non vogliono fare una cosa. Da loro possiamo imparare, perché scopriamo la natura dell'essere germogliante. È una bella cosa. E rischiamo di rovinarla. Vogliamo sempre correggerli, secondo un modello buonistico. "Non toccare, cosa fai, tieni le mani a posto, non guardare troppo la televisione." Ragioniamo come i nostri papà ragionavano con noi. Vecchi, a volte siamo vecchi nel senso di vetusti. Siamo antiquati e vogliamo un mondo di bambini… che ci

assomiglino. Se noi continuassimo a educare i bambini secondo le stesse vecchie regole, avremmo i bambini, e quindi gli adulti, di trecento anni fa. VIETATO SOCCORRERLE Passando dai genitori alla famiglia, al ruolo di questa istituzione che pur con le sue crepe regge ancora, se dovesse sostenere l'accusa di quali colpe le chiederebbe conto? E quali attenuanti le concederebbe? Invocherebbe la sua abolizione, perché incompatibile con i tempi correnti, o la obbligherebbe a sottoporsi a un corso di riabilitazione? Insomma, è un'istituzione da salvare oppure… Quando noi indichiamo un'istituzione da salvare, la stiamo già affossando. C'è da prendere atto di ciò che accade, non di ciò che si deve salvare. Che la famiglia sia entrata in crisi è semplice da vedere. Sì, ma ha ancora una funzione da svolgere? Nel momento in cui dico: "Ha ancora una funzione da svolgere?", sto amplificando il problema. Quando il papa per esempio dice: "Difendiamo la famiglia" o "Il divorzio è un grave peccato" mi sembra di ascoltare un sermone. Ora, nel mio lavoro ho imparato una cosa: che quando un uomo o una donna entrano in crisi, la prima cosa che fanno, la prima, la più sbagliata è dare la colpa a qualcuno. A un marito che non l'ha capita, ai figli perché la trattano male, a un amore sbagliato o a un'infedeltà. Insomma, noi siamo abituati a pensare che il nostro disagio abbia una causa. E quindi eliminando la causa si elimina il disagio. Tutti partono dall'idea che all'esterno ci sia qualcosa che è cambiato, che si è guastato. Io sto male perché un elemento esterno mi sta tormentando, mi fa soffrire. Io invece ritengo che uno soffra perché, come ci ha spiegato il rabbino, non si era accorto, o si era dimenticato, di essere un "gioielliere nato" e non si era curato di diventarlo. Torniamo alla famiglia e alla sua crisi. La famiglia entra in crisi perché ci sono meno valori di una volta? Entra in crisi perché siamo più liberi, troppo liberi? Questa è un'osservazione causale che fanno i pazienti. Si dice che la famiglia non funzioni più perché c'è troppa libertà. Una volta ciascuno stava al suo posto. Le donne stavano al loro posto. Adesso vanno tutte svestite, scollate. Adesso uno si fa l'amante. No, non c'è più religione. Uno cerca sempre avventure all'esterno. Storie… In realtà la famiglia c'è sempre, stanno cambiando però i suoi connotati. Nella scia di come si è modificato il mondo, è mutato il suo modo di rapportarsi. Una volta ci si sposava a quattordici anni; in tempi più recenti, di norma, comunque sui venti. Una donna che a venti, ventidue anni non fosse sposata veniva guardata male. "Ma come non ti sei ancora sposata? Allora sei zitella." "Resterai zitella!" era il grido delle zie e delle nonne. Le giovani ne erano angosciate. Una volta per una donna rimanere zitella era un'onta. Adesso molte donne, almeno fino a una certa età, amano rimanere single. I matrimoni sono più tardivi. Si divorzia in età giovanile, ma si divorzia anche in età avanzata. Proprio recentemente un medico molto conosciuto si è separato dalla moglie a settant'anni.

Cos'è che ci spinge a credere che la famiglia sia irrimediabilmente in crisi? Certo, la chiamiamo crisi perché in qualche modo le persone si separano. Ma quando una famiglia si spezza, almeno uno dei due che cosa cerca? La felicità. Insegue un amore più coinvolgente o non vuole stare con un partner che lo fa soffrire. Insomma, noi cerchiamo la felicità. La Costituzione americana dice che il diritto fondamentale è quello di cercare la felicità. Come se un mondo felice ci tenesse lontano dalle carestie, dalla guerra, dalle sofferenze e dalle atrocità! Forse è proprio così. Non lo sappiamo, ma sicuramente quando una persona è felice non uccide, non aggredisce… Almeno per quel poco che ne sappiamo. Perché sappiamo ancora poco. Dobbiamo partire proprio dalla considerazione che noi conosciamo veramente poco. Cioè si nascondono in noi segreti grandiosi… Jung diceva una cosa bellissima: "Non siamo noi che abbiamo segreti, sono i segreti che custodiscono noi". Sono i segreti che gestiscono noi. Sono loro che sanno. Noi andiamo a letto a dormire e ci chiediamo perché. Ci innamoriamo di una donna e ci domandiamo perché. Lasciamo una donna per un'altra e ci domandiamo perché. Non abbiamo spiegazioni da dare: chi l'avrebbe mai detto che tu avresti fatto la vita che hai fatto e che farai? A cosa è appesa la tua vita? A un filo segreto. No? E questo, invisibile, è il filo conduttore che ti guida a svolgere sempre meglio il tuo compito, come se tu avessi un compito che è solo tuo, anche se non sai di averlo. Oggi sappiamo che ogni goccia modifica l'oceano. Quindi il nostro apporto è decisivo. Dobbiamo vedere la crisi della famiglia come un nuovo modo di realizzarla. Forse in una forma più aperta. Era sbagliata la famiglia ebraica di un tempo, nella quale era previsto che uno potesse avere anche quattro mogli? O quella islamica, che ancora adesso consente di avere più mogli? Era, ed è, un modo diverso di concepire la famiglia. Gli islamici non si sognerebbero mai di pensare che la loro famiglia sia inferiore alla nostra, noi che stiamo con una persona sola. Un domani le donne, a tutte le latitudini, avranno il sopravvento e magari si faranno una famiglia con più uomini. Che ne sarà dell'infanzia in una famiglia sbagliata? Non pensa che corra il rischio di perdersi? Non credo, e mi sembra improprio farne una vittima; a parte certi orrori, naturalmente. Non è mai brutta l'infanzia, perché è pervasa dal germoglio, quindi anche se hai dei genitori sgradevoli, ammesso che esistano, c'è sempre l'entusiasmo germogliante della tua infanzia. Sempre alla ricerca di una famiglia più nuova. Migliore. Magari fatta di due o tre matrimoni. Perché un modello tramonta? Perché non è più funzionale a ciò che esige il mondo. Poi tieni presente che la crisi della famiglia è dovuta anche al fatto che un tempo c'erano meno soldi e la gente, anche se voleva, non poteva separarsi. Per potersi separare ci vogliono i soldi. Se non li hai, non ti puoi separare. La crisi della famiglia non si può accostare alla crisi di un'istituzione. Il pericolo maggiore è incominciare a dire: "Rifondiamo la coppia", "Facciamola stare insieme di più e meglio".

Dunque anche nei confronti della famiglia e della sua crisi vera o presunta non è il caso di procedere a "riparazioni", con l'intento di rinnovarla. Guai a coltivare una simile idea! Noi dobbiamo prendere atto che a volte quello che accade è già la soluzione. Se tu non disturbi, si formerà una famiglia ancora più aggregata. È inevitabile, perché ne abbiamo un bisogno vitale. Non possiamo vivere senza le nostre radici. I nostri ricordi, i nostri cimiteri.

7 I giovani sotto assedio Non si divertono più perché non credono al nostro mondo. LE NUOVE SIRENE Si è soffermato a lungo sulla famiglia di ieri e di oggi. E anche sui figli. Vorrei tornare sul vivere attuale dei giovani. I giovani del giorno d'oggi. Non le sembra esagerato considerarli tormentati da ostacoli e tentazioni senza precedenti, quasi vittime sacrificali del mondo moderno? Quando mai i giovani hanno avuto vita facile? D'accordo, crescono sotto assedio: i media, Internet… ma anche i loro predecessori erano pressati da sirene, forse meno vocianti ma altrettanto suadenti. Paragoni a parte, qual è l'atteggiamento che può aiutare loro e chi gli sta accanto? Vorrei un suo ritratto dei giovani d'oggi e dei loro "nemici". Se dovessi dire in due parole cosa penso dei giovani d'oggi… Quando penso ai giovani d'oggi e alla diffusione così massiccia di alcol e di droghe… La mia spiegazione? I nostri giovani non si divertono, non li facciamo divertire. All'asilo si divertono, alle elementari si divertono, un po' alle medie, ma poi non si divertono più. Cioè non sono contenti. Intanto secondo me bisogna evitare una cosa. È sbagliato parlare di una generazione collegandola alla precedente. È molto sbagliato dire: "Noi ai nostri tempi facevamo, dicevamo, pensavamo…". Perché questo tempo è per la prima volta nell'universo e non lo puoi spiegare attraverso i tempi precedenti. Cosa cercano i giovani con le droghe? Con l'Ecstasy, le anfetamine, la cocaina, il fumo e l'alcol? Cosa cercano veramente? Vogliono stordirsi. Entrare in un mondo dove l'eccitazione crea spettacolo. Guardiamo i locali del sabato sera, dove si arriva all'una di notte. Dopo tre o quattro ore sono assaliti dal vomito: bevono e vomitano. In questo stato si mettono pure a fare sesso nei bagni. Che dire? Si attengono a ciò che comandano i due codici del mondo attuale: "Sii eccitato e stordito". Questo è il modello. Nient'altro. I giovani si disinteressano dell'economia, sono indifferenti alla politica… I nostri linguaggi li fanno sorridere, non parliamo poi del linguaggio dei politici. Al nostro mondo non credono più. E a scuola non si divertono. Si sono stancati, nauseati. Quindi la loro corsa alle droghe non è la ricerca di un'identità, ma il sogno inconscio di distruggere la propria. Non vogliono essere dentro questo mondo così com'è. Un po' li abbiamo viziati, rendendoli così più fragili, un po' li abbiamo, è giusto ammetterlo, traditi. Scontenti al punto di distruggere la propria identità? E come se tu non ti piacessi più, non ti andassi più bene. Ecco perché vogliono (devono) fare terra bruciata…

Con il sogno recondito di scoprirne un'altra o la loro è solo un'operazione distruttiva? È un'operazione del perdersi. Accade così. Noi siamo in quel luogo e incominciamo a bere. Dopo un po' ci sentiamo storditi, siamo aggrediti dall'euforia, non ricordiamo più chi siamo e non dobbiamo più rendere conto di nulla a nessuno. Nella mente scorrono pensieri leggeri. Che senso ha affaticarci per imparare cose che non ci interessano… OPPRESSI DALLA NOIA Forse in questo annullarsi credono di trovare una quiete interiore. O possiamo vedere nel loro atteggiamento quasi una voglia inconscia di vendicarsi? Non sono contenti. Stiamo creando un mondo di gente che non è contenta. Troppi vengono attratti da certe trasmissioni, che esaltano l'apparire… Di fatto fuggono, tuffandosi in fiumi d'alcol. Tu parli dell'annullarsi. Ma che cosa dà più piacere del perdersi nel fare l'amore? Cosa c'è di più coinvolgente del piacere? Ben altra cosa il godimento chimico, che è di breve durata, e alla lunga ti uccide. Purtroppo dobbiamo convenire che abbiamo creato una civiltà innaturale. Sì, la parola giusta è "innaturale". Non siamo più la cultura della natura e quindi non sappiamo più aspettare, seguire e amare ciò che offrono le sue stagioni. Che sono anche le nostre. Non sappiamo più che cos'è un fiore. Pensiamo che il mare sia la spiaggia d'estate con tante migliaia di ombrelloni. Abbiamo perduto il senso di ciò che è naturale. Sapere che c'è da far fatica, e dopo la fatica un piacevole riposo. Accettare con gioia, con un applauso, che la vita è tutta qui… Invece siamo approdati su altre sponde. È tutto diverso… Persino il bere dei vecchi è diverso. Una volta si beveva il vino, e ci si ritrovava in preda a una certa euforia, o alla peggio storditi da una sbornia, che al sorgere del nuovo giorno non avrebbe lasciato traccia. Adesso ci si riempie di cocktail… tutte bevute molto violente, chimiche, micidiali (per non parlare della cocaina). Ma se i Veda ci hanno insegnato che più di tutti i pensieri conta, per la nostra evoluzione, l'ardore, l'ebbrezza, allora i giovani sbagliano solo perché la cercano attraverso l'alcol e le droghe e non attraverso la passione. Questo dobbiamo insegnargli, il ruolo del fuoco, del sentimento ardente. Sul conto dei giovani, in lei sembra quasi prevalere la rassegnazione. Vorrei chiederle ora come giudica il loro modo di stare insieme. Perché i giovani amano stare insieme. Soprattutto quando in gruppo si fanno compagnia, si diventa la compagnia, che si nutre di baruffe, scherzi e risate. Quando nasce e prende forza dà vita a valori importanti. Amicizia, solidarietà. Trascurarla o tradirla è impensabile per chi ne fa parte. Il suo statuto è scritto nel cuore di ciascuno. Aggiungo un'altra richiesta. Il fenomeno del "branco". Non penso sia un passaggio obbligato. La

compagnia e il branco… Come giudica queste due presenze così attive nel mondo giovanile? Diciamo che il branco c'è sempre stato. Si connotava in modo differente. Basta pensare a certe epoche, ai raid studenteschi o ai tempi del fascismo, con le sue spedizioni punitive. Oggi, secondo me, le timidezze dell'adolescenza sono ancora quelle di una volta, le stesse ansie della crescita, degli ormoni. Così le paure della sessualità, dell'età adulta, i timori di un mondo sconosciuto come quello erotico, che non sai come affrontare. Ripeto, le paure di oggi sono le stesse di allora. Con una differenza: nei confronti dei loro padri oggi i ragazzi hanno un vantaggio e uno svantaggio. In un lampo sono in contatto con tutto il mondo: grazie a Internet. Possono navigare in tutto l'universo. Internet come la vita. Incontri felici e incontri sfortunati o pericolosi… Diciamo che di tutta l'adolescenza, una delle caratteristiche più evidenti è l'appagamento immediato del desiderio. A un giovane non puoi dire lavora dieci anni e poi… no. Tutto deve essere subito alla sua portata, all'istante. Le culture precedenti avevano forte il senso della contestazione verso il mondo in cui si trovavano e della creazione di un mondo nuovo. Il '68 è stato questo. Nei nostri giovani non c'è questo. Non c'è l'idea, giusta o sbagliata che fosse, di riformare il mondo. C'è l'idea che questo mondo sia ai margini. Quasi un relitto. INDIANI CON LE FRECCE Il '68 è stato lo scontro fra il sogno di molti e la realtà, che per natura propria è allergica ai sogni. Quindi, a torto o a ragione, vincente. Si dice che l'anima giovanile è incendiaria e da vecchi si diventa pompieri. Ma ora sembra che l'anima incendiaria dei giovani sia pressoché scomparsa. Sembrano disinteressarsi di come va il mondo. Non credono e basta. Non si fidano di noi e soprattutto stanno alla larga dal nostro mondo. Quello che colpisce e allarma è ciò che balza in primo piano. Stordirsi sembra il loro tacito comandamento. L'elemento determinante. Nei giovani corre l'idea che la coscienza e le sue capacità devono navigare in un mare di alcol e in un mare di droga. Senza più la positiva presunzione di dare un contributo. È questa la realtà che emerge? Lei avverte oggi solo rassegnazione e disinteresse? È un momento di stanca, di abulia. Attenti però, questo "stato" prelude spesso a dei modi di essere in cui può scattare improvvisa la svolta. In alcuni momenti della vita abbiamo bisogno di staccarci e di spegnerci. A volte andiamo molto lontano da noi stessi, così lontano da non sapere più chi siamo. Ma in questo andare lontano c'è forse tutta l'essenza dell'uomo. Scappa, fugge per ritrovarsi migliore. Andando lontano torniamo a casa. I giovani non ne sono consapevoli, ma sembrano trovarsi proprio in questa fase. Ancor più gli adolescenti che rifiutano questo mondo e via… si staccano dagli adulti che li opprimono. Capiscono che non c'è niente da fare, che è inutile

lottarci contro. Allora meglio dormire. Meglio spegnersi. Meglio godere e spegnersi. Con una particolarità. Se si sta bene attenti, si scopre che questi giovani smarriti e assenti sono anche dei grandi navigatori di Internet, efficienti nel gestire la rete… Cioè si starino strutturando su altri codici. C'è un errore di fondo da parte nostra. Noi li vediamo così… pensiamo che il mondo funzioni perché l'abbiamo fatto funzionare noi. A noi sembra che ci sia un solo modo di far funzionare il mondo, ovviamente il nostro. Ma siamo ancora degli indiani con le frecce. Nei giovani d'oggi si possono invece cogliere modi del tutto nuovi di inserirsi nella vita. Riescono via via a intuire e a realizzare progetti sorprendenti. Mai visti. Modelli operativi del tutto diversi dai nostri. Ormai superati.

8 I peccati dell'animo Spesso sono più utili delle virtù. UNA BUONA COMPAGNIA Dai disagi dei giovani ai vizi senza età. I peccati dell'animo. Un esempio? Egoismo, avarizia, invidia, lo stesso odio… Sono emozioni e atteggiamenti che ci accompagnano nel vivere quotidiano. Eppure li abbiamo messi all'indice. A prescindere. Ma che male fanno se chi li coltiva li tiene ben chiusi nella propria "dimora"? Sì, forse danneggiano chi si intrattiene con loro. Un pericolo, però, che nei suoi scritti non si intravede. Anzi: lei non solo li riabilita, ma li considera indispensabili. Perché? Mio figlio Thomas mi ha chiesto un libro da leggere. Come molti giovani di 17 anni non è un topo di biblioteca, un amante assiduo dei libri. Così ci ho pensato un po' e gli ho suggerito di leggere Ricordi, sogni, riflessioni di Jung. Mi ha ascoltato. Ogni tanto accade. Thomas è rimasto colpito da una visione che francamente neppure io ricordavo: Jung sogna una grande luce su una montagna di sterco. È un'immagine che ho ritrovato anche nei sogni di alcuni miei pazienti. Uno di questi era un uomo molto religioso, che insegnava filosofia delle religioni all'università. Uno studioso vero, un uomo dalla vita irreprensibile. Che cosa gli accadeva di notte, durante il sonno? Gli scattava un raptus più forte di lui, irresistibile, a tal punto da buttarlo fuori di casa, a caccia di prostitute in piena notte. In preda all'eccitazione con qualcuna ci andava a letto, con altre no. Non ne trovava il coraggio e questo lo tormentava. Era il suo senso di colpa per un atto che sconvolgeva la sua concezione di un mondo pulito, fatto di bontà e irreprensibilità. A questi tormenti si accompagnava un sogno che lui faceva spesso: un sogno che ho trovato molto simile ad altri che ho ascoltato e studiato durante il mio lavoro di psicoterapeuta. Cominciava con il suo ingresso in una chiesa, dove con passo rapido si avviava verso una donna bellissima che lo stava aspettando davanti all'altare, in abito bianco. A quel punto accadeva l'imprevisto. Appena lui le era accanto, lei si toglieva i vestiti e il suo volto, la sua espressione, il suo aspetto non erano più quelli di una sposa sull'altare, ma di una prostituta. La mia interpretazione? Lui viveva questo sogno come l'equivalente della sua vita sessuale notturna. Un castigo da infliggersi. L'idea del sole sulla montagna di sterco o l'idea dell'ombra, cioè della prostituta sull'altare, non riflettono altro che il nostro rapporto con la materia e con le sostanze più pesanti, che si dibattono come onde in tempesta dentro di noi. Cos'è l'invidia, cos'è la gelosia, la rabbia, la lussuria? Sono emozioni aspre che incontriamo dentro di noi. Reazioni che rappresentano il nostro lato più pesante. Aspetti dell'animo umano ben noti alle religioni, visto che li hanno studiati a lungo e hanno sviluppato metodi sicuri per combatterli. Ricordiamoci del monaco, che si

chiudeva nella cella e vi restava fino a quando le tentazioni non se ne erano andate via. Che cos'erano le sue tentazioni? Erano il prorompere di queste forze. Più la coscienza le reprimeva, più lo aggredivano con forza incontenibile. Questa è la mia visione del peccato e anche la visione del divino. Io che ho studiato l'alchimia per tanti anni… Il mio lavoro è un lavoro empirico, e in quanto tale ha come guida il punto di vista pratico. Perché ai miei pazienti devo dare risposte pratiche. Devo avere anche un pensiero pratico. Del resto non so immaginare il cervello se non come l'organo addetto a fare cose pratiche. Con ogni paziente ascolto e seguo il mio senso pratico. Mi è capitato un giorno di avere in cura una signora irreprensibile, perfetta, ma che di notte si concedeva qualche licenza di troppo. Senza dirlo ai figli e al marito, aveva preso in affitto un appartamentino alla periferia estrema di Milano. Lo raggiungeva in metrò e si faceva tutti gli sconosciuti che incontrava. Uno dopo l'altro. È stata in cura da vari psicoterapeuti e psichiatri, e tutti l'hanno riempita di psicofarmaci. Quando è entrata nel mio studio la prima cosa che mi ha detto è stata questa: "Dottore, io vengo da lei perché mi liberi da questa puttana, la cacci via… Mi fa compiere atti terrificanti". Le parlai in questo modo: "Quando lei vuole conoscere questa prostituta, quando vuole veramente conoscerla, venga da me. Mi troverà qui. Sappia però che io sto dalla parte della prostituta, non dalla sua. Se lei la vuole cancellare, distruggere, cacciare via, allora tutto il lavoro che potrebbe fare con me non le servirebbe a niente". La signora se ne è andata all'istante. Ci ha pensato su un mese, anzi due. Poi è tornata e mi ha detto: "D'accordo. Vediamo cosa vuole suggerire". Mi permetto questa considerazione: le leggi della fisica e della chimica, che gli scienziati conoscono molto bene, non lasciano nulla al caso. Ci dimostrano per esempio come l'acqua scorra e come a certe temperature diventi ghiaccio. Lo sanno tutti. L'acqua, in determinate condizioni, ghiaccia. Nessuno di noi si meraviglia se ritrova in cubetti di ghiaccio l'acqua che ha messo poco prima nel freezer. Accade lo stesso con le forze e le leggi dell'anima, che sono pressoché uguali a quelle della natura, pur svolgendosi in un altro ambito, cioè nella nostra interiorità e regolate ovviamente da altri codici. La conclusione che se ne deve trarre è molto semplice. Come nessuno di noi si sognerebbe di impedire all'acqua di diventare ghiaccio, così nessuno deve sognarsi di impedire ai peccati di emergere, perché essi stanno svolgendo una funzione importantissima. Se uno dovesse chiedermi, dopo tanti anni, che uomo sono diventato, come sono cambiato… ecco, io onestamente non potrei pensare a un uomo più tradizionale di me. Io sono un uomo legato alla tradizione. Ma al tempo stesso innovativo. Sono anche molto libero. Mi sento tradizionale nel senso che ho sempre coltivato in me un lato antico. Non riesco a immaginare un futuro del mondo in cui non si festeggi più la primavera, l'estate, l'autunno, l'inverno. Un mondo che ignori le stagioni, che non riconosca loro contenuti e valori di forze psichiche. La primavera è sì la forza dei fiori e dei frutti che ci arrivano, ma è anche la forza della rinascita

psichica. Di nuove energie, di nuovi dei insomma. Degli dei che tornano. Noi siamo tutt'uno con loro. Ecco il senso del peccato. Nei peccati c'è il ritrovamento, il ritorno del nostro lato antico. Quando Jung pensa, sogna o immagina il signore del mondo, come un sole adagiato sullo sterco, non crea nulla di blasfemo. Anzi. Non poteva offrirci una visione più pura del divino. Dio è nel mondo, Dio è nella terra. La luce del signore del mondo corre da un angolo all'altro della terra. Questo cambia tutta la prospettiva della nostra essenza. Come ci rivelano certe tradizioni, per esempio quella chassidica. Quando mangio, non sto compiendo un atto inferiore al pregare o all'atto dell'immaginare il divino. Tutt'altro. Nel mangiare, nell'andare in bagno, nel fare l'amore, nell'essere qui, io ho sempre accanto a me, dentro di me, la forza dell'universo, la sua intelligenza, la sua coscienza. L'islam lo dice bene. Il signore del mondo non voleva un mondo migliore di questo, ma questo mondo così com'è, con le sue leggi e con le sue contraddizioni, con le sue lotte, con le sue battaglie, con il bene e con il male. Questa è una partita importante: i peccati sono l'altro volto di Dio. Dio non è buono. L'idea del Dio buono è un'idea sbagliata, che ci siamo fatti noi. Dio è il bene e il male insieme. Che male ci può essere in una cosmologia che fiorisce? Che bene ci può essere in qualcosa che distrugge? Che disintegra? Nelle pestilenze? Nelle malattie? Nei bambini che muoiono? Sono le due facce di Dio, impossibili da scindere. Le domande incalzano. Allora quand'è che i peccati diventano nocivi? Quando li vogliamo eliminare. Quando noi vogliamo essere puri. Abbiamo visto i danni che fa il voler essere puri, buoni a comando. CHE COSA INVIDIAMO Quindi non ci resta che convivere con le nostre debolezze, senza inseguire rimedi o caricarsi di rimorsi. Si direbbe una resa, intelligente se vuole, ma pur sempre una resa. Anche se in armonia con la nostra natura, che non rinnega nulla di ciò che ci appartiene, vizi compresi. Se ho ben capito, il peccato è con noi, lavora per noi. È dunque salutare seguire la corrente… Torniamo al presunto peccato dell'invidia… Se qualcuno viene da me e mi parla dell'invidia, io gli dico: "Me la racconti…". "Sa, sono invidioso di mia sorella che ha avuto successo e io no", "Tutti guardano mia sorella che è molto bella"… Ora, in questa invidia, in questo tentativo di emulazione, in questa angoscia di non essere all'altezza, non vedo grossi problemi. La soluzione mi pare chiara. Basta spostare l'invidia, allontanare la ferita dall'oggetto. Invece di dire: "Sono invidioso di Federico", prova a dire: "Sono invidioso e basta". Ti accorgeresti della precarietà umana e daresti il giusto valore all'invidia. Non sei invidioso di chi scrive meglio di te, ti sei solo schierato contro di te, perché temi che certe vette ti siano precluse.

Attenzione però. Noi siamo sì incapaci di andare oltre certe altezze, ma in questa nostra incapacità siamo umani, a immagine e somiglianza di chi ci ha creato. Il meglio che c'è. Qualsiasi idea avesse il signore del mondo nel costruire il mondo, doveva farlo passando attraverso l'uomo: ripeto, il meglio che c'è. Non poteva fare l'uomo meglio di come l'ha fatto. Allora noi invidiamo che cosa? Il mondo che verrà, il mondo che saremo. Perché ne facciamo parte. Nell'invidia scopriamo le tenebre della nostra miseria e la luce di un sapere che ci porta a raggiungere qualcosa che non sappiamo neanche cos'è. Se quell'invidia io l'accetto, l'accolgo, ne ho cura… ecco, un giorno potrei trovarmi addosso la forza e il coraggio di guardare a certe vette. L'INVIDIA, L'AVARIZIA… ASCOLTALE Dobbiamo dunque dare il benvenuto all'invidia e alle sue terribili sorelle, visti i vantaggi che nascondono i loro brucianti messaggi? A una signora invidiosa ho detto: "Chiuda gli occhi, trasformiamo l'invidia in una bella donna, in una donna che le piace e che l'accompagni". La sua reazione? Lei sentiva il dolore dell'invidia, ma sentiva anche la presenza di questa compagna di viaggio. C'era ancora l'invidia ma c'era anche chi l'accompagnava, la portava con sé. L'invidia cessava di essere soltanto una nemica, i suoi contorni si dilatavano e diventava l'immagine dell'universo che tutto comprende. Che ci ricorda quanto sia immenso e come sia sbagliato invidiarlo attraverso qualcuno. Anziché cercare quel qualcosa che tu solo hai, che tu solo possiedi e non sai cos'è. Stai invidiando qualcosa che non hai ancora fatto. Quindi l'invidia ha un potere immenso. Non è: "Io invidio Marco perché non sopporto di riconoscergli il merito che ha". Fosse così, cosa dovrei fare? Allontanarmi da Marco, non vederlo più? No, io invidio Marco perché con il suo successo mi sta ricordando che c'è qualcosa di me che non ho ancora espresso. Sono geloso non di lui, ma di ciò che lui ha raggiunto e che preme su di me perché non sprechi altro tempo e smetta di perdermi in cose che non mi interessano. Ecco perché l'invidia è un sentimento grandioso. Immenso. E la gelosia? Non è immensa la gelosia? È del tutto sbagliato credere che il geloso sia un violento, che possa uccidere. No, non è il geloso che diventa violento, ma è il violento che, attraverso la gelosia, uccide. Era già un violento. Era già un potenziale assassino. La gelosia non ti spinge a uccidere. Cosa fa allora? Cosa fanno questi peccati? Intanto ti ricordano che tu non sei il supremo attore della tua vita. Né il regista, né il protagonista. Lo dice Proust: "Ma è possibile che un uomo come me, di questa grandezza, di questo sapere, possa innamorarsi di una donna così banale, così qualsiasi… ed essere in balia di questa gelosia folle?". Che parafrasando Proust sarebbe come dire: "Come può essere che un piccolo batterio possa farmi venire la polmonite e annientarmi?". La gelosia ti ricorda che lei, la persona che ami, non è tua. I peccati ti raccontano una grande verità: lei non è tua e non sarà mai veramente tua, con gli stessi tuoi codici. Ti rivela anche che mentre guarda te può guardare un altro… La gelosia ti

ricorda un'altra cosa importante. Che fra te e lei c'è un'affinità unica, che nell'universo c'è un'anima gemella. Su "Donna Moderna" ho scritto un articolo che ha suscitato scalpore. Il tema era: esiste o no l'anima gemella? Io facevo l'esempio dell'arancia, del frutto. Tu prendi in mano un'arancia. L'arancia non è che la buccia. Chi la vede da fuori vede la buccia, profumata. Solo toccandola diventa l'arancia. Non ci siamo. Che ne sa la buccia dell'interno? Che ne sappiamo noi del nostro interno? Chi ci ha abituato a scrutarlo? Così noi siamo come la buccia dell'arancia. Anche negli amori. "Che bei capelli che ha, guarda che begli occhi che ha." Ma questi non sono gli amori, questi sono gli amori della buccia. Poi c'è la polpa. Questa è a contatto con la buccia, quindi sente il profumo dell'esterno, le variazioni che le arrivano addosso, le tempeste. Ma la polpa è anche in contatto con il seme, con qualcosa di sconosciuto. Qualcosa di sconosciuto che darà vita all'arancio. L'arancia è il seme che si materializza, che si sviluppa, che fa l'albero. E quindi la polpa vive in questa incertezza. Benedetta l'incertezza! I peccati ci richiamano all'incertezza. Ti ricordano che non sei tanto forte, che sei insicuro. Quando i peccati entrano nel tuo mondo, conoscono l'energia profonda dell'anima. Dove nasce e vive il seme. L'essenza, che sta facendo l'arancia, sa quali cibi sono adatti per sé, sa cosa mangiare, cosa non mangiare. Come le radici, che sanno come muoversi, quale strada prendere per trovare l'acqua, quale e quanta acqua serve. Come l'anima, che avverte anche quale amore sia più affine al suo sentire. Quindi la gelosia è rivelatrice di una certezza. La persona gelosa sente di aver trovato le sostanze dell'anima adatte alla sua. E di non potervi rinunciare. Di non volerle perdere. Ecco perché quando muore un amore autentico, speciale, non un amore su cui ti sei aggrovigliato e intestardito, in un certo senso muori anche tu. Se n'è andata la tua anima gemella. LO STILE È LA CASA DELL'ANIMA Quante sono le anime gemelle? Una, due, o anche più di tre nella vita? È possibile? Forse. Dipende anche da come scorrono le stagioni della vita. Lasciamo perdere i numeri. È più probabile che l'anima gemella si manifesti in un esemplare unico, per un incontro unico. Crea una coesistenza di legami profondi fra le semenze interne di entrambi. Non devi essere geloso, non temere che te la portino via. E poi guarda la gelosia. Se la guardi nel profondo, ti ricorda che forse ti stai dimenticando di portare in questo amore, in questa vita, i tuoi talenti. Non puoi vivere per lui o per lei. Puoi vivere con lui, con lei, se vuoi, ma senza mai dimenticarti di te, perché il seme dell'arancio è chiamato inesorabilmente a generare l'arancia. Se non lo fa è una vita sprecata, un aborto. Io la smetterei di enfatizzare l'idea che ci siamo fatti della vita. Il nostro cammino è tracciato dagli albori del mondo. Noi siamo nati per sviluppare un sapere innato che

ci appartiene, che appartiene a ognuno di noi. I peccati sono spesso un richiamo doloroso, sconvolgente, ma svolgono una funzione precisa. Io ho conosciuto grandi uomini che avevano dei difetti inimmaginabili, per esempio un'avarizia tremenda. Mi sono chiesto: possibile che quest'uomo, grande scrittore, oltretutto ricchissimo, si perda in questa avarizia? Che funzione ha? Ciò che noi chiamiamo peccato ha una duplice funzione: da una parte ti mette in contatto con le tue forze nascoste, dall'altra racchiude il tuo sapere innato in uno scrigno. La vita nasconde le cose preziose, le occulta. Quando Schopenhauer dice che il tuo brutto carattere è la casa dell'essenza, coglie felicemente nel segno. Ci vogliono anni per capire che non devi ripudiare il tuo brutto carattere. È il marchio della tua originalità. La parola "originalità" è diventata nel tempo un connotato di riconoscimento del carattere. Quando di qualcuno si dice: "Quello è davvero un tipo originale" in genere si intende attribuirgli un pessimo carattere o perlomeno difficile. Cosa produce il carattere? Fa uscire fuori il tuo stile. Lo stile è la casa dell'anima. Torniamo all'avarizia. Possiamo definirla una nota del carattere? Direi di sì. Ebbene, a cosa serve l'avarizia? Non do niente a nessuno, tengo tutto per me, mi chiudo in me stesso, l'esterno non c'è più. Ebbene in questa ottusa chiusura, in questo possesso furente delle cose, io produco qualcosa di completamente libero. Nulla di più lontano dall'avarizia. Io ho conosciuto grandissimi pittori che erano di una tirchieria spaventosa. L'avarizia implica il possesso, un possesso meschino anche delle piccole cose che ti circondano. Eppure facevano un lavoro che era completamente disancorato dal possesso. Quanto vale un quadro? Quanto vale un gesto? Vale quanto un'immagine. Dipingevano la vita ed era un gesto sottile, diafano. Quell'essere attaccati ai soldi serviva loro a non perdersi nell'immagine, a restare ancorati alla realtà.

9 L'amore Quando lo incontri, senti il respiro dell'eternità. IL SAPORE DELL'ETERNO Le facce dell'amore. Quante sono e quante promesse fanno… L'amore è tutto. È una grande verità. Bellissimo. Ma quant'è difficile conviverci… Perché? A noi interessa il risultato. Il risultato di ciò che accade all'esterno e non dentro di noi. Purtroppo. Non è vero che l'anima sa tutto. Se l'anima sapesse quando la vita comincia e quando finisce, l'anima smetterebbe di vivere. Se entrassimo in questo ordine di idee, non potremmo che trarre amare conclusioni e rivolgerci solo domande scontate, come fanno molti. Questioni del tipo: "Che senso ha questa sofferenza, questa lotta, che senso ha tutto ciò se poi si deve morire?". Ma l'idea della vita e della morte che ha l'anima, intesa come la forza che fa fiorire il germoglio che siamo, è differente dalla nostra. Ora tu, quando ami, ti chiedi se durerà, se ti sposerai, oppure se sei innamorato a tal punto da lasciare tuo marito o tua moglie per lui o per lei. Insomma, la prima domanda che in cuor tuo ti poni è sempre la stessa: "Come andrà a finire?". Ma questo è un lato umano della scorza dell'essere, non è l'essere. È una domanda acquisita dall'esterno, dall'atavismo; suggerita, se vogliamo, dai costumi, dalle tradizioni. Tutto ciò fa sì che una donna abbia paura di restare sola, di "rimanere zitella", e l'uomo frema per accasarsi, per avere una compagna. Scelte che nascono da comportamenti acquisiti. Non sono esigenze dell'anima. Quando arriva un amore, arriva perché l'anima l'ha chiamato. Il motivo? L'anima l'ha chiamato perché ha bisogno delle sostanze e del nutrimento di quell'amore. E non importa se arriva a ottant'anni o a venticinque. Perché a ottant'anni svolge una funzione che non è quella che assolve a venticinque. Ti dirò di più. Non importa nemmeno che finisca in un talamo o meno. Ciò che importa è che l'anima l'ha chiamato per svolgere una precisa funzione. Noi non ci innamoriamo, come si pensa, per poi sposare qualcuno. Non ci innamoriamo per iniziare una storia. Noi ci innamoriamo perché in quella persona è presente la sostanza affine al nostro sentire, unica al mondo, una sostanza capace di favorire la nostra trasmutazione, il nostro divenire. Avviarci verso il nostro destino. Questo ci insegna Ulisse con il suo esempio magistrale. Pensiamo al suo viaggio, ai suoi incontri. Cominciamo da Calipso. Incredibile. Non gli basta Calipso, la maga Calipso. Ma chi non sognerebbe una Calipso? Gli regala notti che non finiscono mai, le notti di tutte le notti. Non bastasse lei, lo circonda di ancelle. Suoni, canti, gioie, profumi, piaceri… Ma Calipso va oltre nei suoi doni e gli promette ciò che nessuno potrebbe respingere. Calipso pazza d'amore gli dice: "Guarda che io ti do anche l'immortalità, resterai di questa età per sempre. Cosa vuoi di più?".

Chi non avrebbe accettato quella proposta senza eguale? Ma Ulisse dice no. Perché dice no? Quella donna esprime una funzione in quel momento, aiuta Ulisse a svolgere la sua trama. Con una provocazione lo restituisce di fatto alla sua anima gemella… infatti Calipso gli dice: "Ma non ti rendi conto che torni da una donna che sta invecchiando? E che fra un po' non ti piacerà più, perché sta sfiorendo. Ciò che non accadrà alla mia bellezza. Perché io rimarrò sempre così. Non ci pensi?". Ulisse si abbandona al pianto davanti al mare e invoca gli dei dicendo: "Ma io voglio tornare a Itaca…". In quel frangente Ulisse è patetico, fragile, infantile, ma sa che deve tessere la sua trama come il ragno la sua tela. Quando parla con Calipso, Omero lo chiama "l'astuto". E gli fa dire queste parole: "Vuoi che non sappia che mi toccherà andare con una donna che mi piacerà molto meno di te? Vuoi che non sappia che lei sta invecchiando? Vuoi che mi piaccia approdare alla mia isola da naufrago sconosciuto?". Da Calipso a Circe. Anche le notti con Circe sono sconvolgenti. E Nausicaa, la dolcissima Nausicaa? Si potrebbe fare un libro sulle donne di Ulisse. Forse è già stato fatto. In loro c'è la purezza, il fuoco del desiderio, l'inganno e la dedizione… tutto. Lui deve vivere quegli amori durante il viaggio. Con quelle caratteristiche. Ma sa di non poter restare fra le braccia di nessuna di quelle donne. Perché lui porta con sé la donna di tutte le donne. Se io dico a un uomo: "Socchiudi gli occhi e immaginati la donna di tutte le donne", ebbene un volto, un solo volto, verrà a trovarlo. Deve fare uno sforzo per trovarne un altro. Magari è la donna che ha accanto, magari è invecchiata, magari lo ha fatto disperare migliaia di volte, magari ha imprecato a ripetizione contro il suo carattere, che avrà pure maledetto, magari, magari… ma è lei che la sua anima cercava. E ha trovato. Qualcosa che ha il sapore dell'eterno. Un continuum. È vero che tutto cambia, è vero che tutto muta. Ma noi percepiamo il senso dell'eternità. Sappiamo che c'è una via che stiamo percorrendo, lo sappiamo, è così! Alla fine i conti tornano sempre. Spesso amari, ma tornano. Negli amori, nel lavoro… basta saperli fare e soprattutto accettare. VINCI O PERDI MA… VIVI! A proposito di amori, come vanno vissute le sconfitte, insegnano qualcosa o fanno solo soffrire? È improprio parlare di sconfitte in amore? Un mio paziente mi diceva una cosa bellissima: parlava di un amore della maturità, di una donna di cui lui si era innamorato. Mi confidava: "Con nessun'altra donna ho conosciuto un piacere così grande". Lui aveva 50 anni e lei 44. "Ho scoperto l'amore vero a cinquant'anni, lei mi faceva impazzire. Ora la storia è finita. Ma dentro di me io avevo subito intuito che prima o poi ciascuno sarebbe andato per la sua strada. Lo sapevo. Perché lei, in fondo, aveva sensibilità diverse dalle mie. Io ho fatto di tutto per assecondarla. Di tutto, perché questo amore durasse di più. Di più, di più, di più. Ho fatto di tutto. Poi ha cominciato a virare, forse lei voleva cose che non potevo

darle. Ci siamo allontanati. Via via sempre di più finché, alla fine, io non stavo più con la donna che amavo ma con una donna diversa. Un'altra donna. Morale, è finita." Quell'uomo ha aggiunto una nota bellissima: "Sa perché sono in pace, dottore? Vede, ora io provo un dolore immenso perché so che non la ritroverò più. Dopo di lei ho avuto altri amori, altre donne che mi sono piaciute. Però lei, lei mi creava attorno un'atmosfera speciale, un piacere, un erotismo senza eguali. Soffro. Ma non ho rimpianti. Sono in pace perché ho fatto tutto quello che potevo: l'ho inseguita, le ho fatto regali importanti sempre con il cuore, ho fatto pazzie per lei. Non potevo fare di più". E cosa gli ha insegnato questa storia? Gli ha insegnato che si vive fino in fondo. Che bisogna dare tutto senza calcoli di sorta. Buttarsi. C'è un bellissimo pezzo di Keiserling, molto istruttivo, che dice, in sostanza: "Sono le otto del mattino e mi sveglio in una giornata nebbiosa, brutta, fredda, gelida. Ho una certa età e mi viene in mente: cosa vivo a fare? La donna che mi faceva vibrare se n'è andata, mia moglie non c'è più, mio figlio ormai è grande. Che cosa mi può mai interessare? Chi me l'ha data questa vita? Perché devo vivere? Quale signore mi ha creato per vivere questa vita così piena di dolori e disagi per poi farmi morire? Non ho scelto io di vivere. Oggi è uno di quei giorni in cui il suicidio si affaccia con una forza irresistibile, come una certezza assoluta. Tra me e il suicidio si frappone poco o nulla. Poi guardo l'orologio, si sono fatte le otto e trenta e mi dico che è ora di alzarsi per andare a fare il mio mestiere di uomo. Non si sa perché sia toccato a me, non si sa se sia giusto o sbagliato e non si sa che fine farò. Mi tocca fare il mio mestiere di uomo, seguire fino in fondo tutte le leggi dell'umanità che abitano in me". È il rivolgersi al lato sconosciuto di sé e guardarlo come carne della propria carne. Ulisse torna da sconosciuto perché è cambiato miliardi di volte. Non lo riconosce nessuno, ma la sua trama è rimasta intatta. Anche tu sei cambiato miliardi di volte. Sei cambiato tante volte che non sai più chi sei. Quando Jung dice, a ottant'anni: "Io sono incerto, non so chi sono, non so se valgo" esprime una verità profonda. Una verità che riguarda anche me e chissà quanti milioni di persone. Io francamente non mi sono mai sentito così fragile come negli ultimi anni, così incerto, così insicuro eppure, al tempo stesso, sento di stare bene nel posto in cui mi trovo. Di aver voglia di vivere. Tutte le giornate. Il mattino che verrà, la sera che verrà. Di godermi le piccole cose, che mi piacciono più delle grandi. Perché vengono da sole. Come è bello bere un bicchiere di vino, incrociare un sorriso. Sono il meglio della vita. Sono le cose vere della vita. Le fai sempre pensando a quello che sarà, che verrà, al domani. IL RITORNO DI ULISSE Ma l'eterno è qui adesso. L'eterno non è un viaggiatore. Ha un posto fisso: è sempre accanto a te. L'eterno è sempre stato eterno. Ne conosciamo le scintille quando si vive un orgasmo. Ecco a cosa è servito quell'amore! A ricordarti l'eterno.

Ogni orgasmo serve a ricordarti l'eterno che è in te. A ricordarti che tu non esisti, se non quando sei senza identità e l'amore ti chiama a perdere l'identità. Questo Omero lo sa bene, che dopo vent'anni restituisce Penelope e Ulisse al fuoco della passione. Penelope non riconosce subito il suo uomo e ricorre a un loro antico segreto per scoprire se è veramente lui. Dice al figlio Telemaco: "C'è una cosa che io so e che lui sa". Così mette alla prova Ulisse dicendogli: "Sai che il tuo letto lo abbiamo spostato?". La risposta di Ulisse non lascia dubbi: "Impossibile spostare il mio letto". Quel letto infatti era stato costruito sulle radici di un ulivo. Allora Penelope lo abbraccia. "Sì, adesso sei proprio tu." E l'eterno scende su quel talamo per una notte senza fine.

10 I veri maestri Strappano le gramigne dall'anima come il contadino dalla sua terra. COME RICONOSCERLI A proposito dei nostri problemi esistenziali penso che la salvezza dipenda anche da come riusciranno a farsi sentire e capire i veri maestri. Ascoltarli non sarà facile, in un'epoca in cui è stato ucciso il silenzio. E impresa ardua sarà pure distinguerli dai cattivi. Come riconoscerli, come mettersi in ascolto? Intanto posso dirti cosa intendo io per maestro. Non stupirti: il maestro è come il contadino. Chi meglio di lui conosce profondamente la natura in cui opera? Sto leggendo un libro sul pane. Mi chiederai: "Perché leggi un libro sul pane?". Rispondo così: cos'è un maestro? È un contadino che conosce le leggi della natura dalla quale si attende i fiori e i frutti. Sa quando seminare, quanto aspettare e quando raccogliere. Comunque sia, il contadino è un grande conoscitore delle piante che semina e coltiva. Conosce il senso del raccolto, il senso dell'attesa; conosce il giorno e la notte. Conosce le leggi e non cerca di cambiare le leggi. Respira l'aria della natura e la trasmette. Sa che d'estate si lavora, che occorre mettere via le cose da conservare per l'inverno. Il maestro coltiva allo stesso modo del contadino: conosce le leggi dell'anima, che sono altrettanto naturali, e altrettanto invisibili. Il maestro sa di che cosa ha bisogno l'anima, come il contadino, sa cosa richiede la terra. Questo è il maestro. E lo è tanto più quanto più sa vivere con l'anima, stare con lei. E siccome sta nella sua anima e l'anima non è un fatto individuale, ma un fatto cosmico, il maestro sta nell'anima del mondo. Un vero maestro, solo per il fatto di essere presente, cambia il mondo. Anche se non te ne accorgi. Purtroppo questi uomini sono in via di estinzione. I veri maestri sono sempre meno. Non ci sono quasi più. Un maestro, se è un buon maestro, non ha un'opinione. Un grande psichiatra, lo ripeto, non deve avere un'opinione. Un maestro non ha opinioni, perché avere opinioni vuol dire indirizzare l'anima verso una visione unilaterale. Aspetta i frutti che la natura ogni giorno gli porta. "Che cosa mi porta oggi la giornata?" Questa domanda non rientra nel suo pensiero. Il maestro non ha aspettative. È collocato sul confine con il lato oscuro… Non si aspetta che sia buono, né teme che sia cattivo. Prepara però il terreno, come fa il contadino prima della semina… Proprio così. Prepara il terreno, lo innaffia, ma con altri codici rispetto ai nostri. Noi mandiamo i bambini a scuola, li coltiviamo e aspettiamo che imparino a rispondere secondo lo schema da noi desiderato. Per un maestro, tagliare i rami significa non dare peso alle opinioni, ai pensieri. Tagliare o sfoltire i messaggi solenni che lo investono vuol dire ripulire la mente dalle visioni che ogni giorno si

formano in lui nella scia di ciò che il mondo gli trasmette. Come dice Lao-tse, il maestro dà l'idea di essere una persona oscura, avvolta nei propri segreti. E di fatto lo è: un maestro vive la propria vita interiore in modo del tutto simile allo stato mentale dell'embrione che, senza saperlo, formula tutti gli organi del suo essere in divenire. Quindi un maestro è molto pratico, contrariamente a quanto si pensa. È l'uomo del risultato, non l'uomo della teoria. Si trova a vivere una dimensione interna in cui non esiste il problema o il miraggio di una meta dà inventare e da raggiungere. Il maestro non si pone traguardi. Si comporta come la ghianda, che ha il suo disegno innato: fare la quercia. Nient'altro. Senza chiedersi se gli riuscirà bene o no. Perché se si ponesse questa domanda non la farebbe più. Il vero maestro incide perché lo assiste una mente naturale. Sa esercitare il suo influsso e ridare vita al bosco. Come una ghianda, che lo vogliamo o no, può cambiare tutto il bosco. La teoria dei sistemi ci insegna oggi che basta un solo elemento per modificare tutto il sistema. Anche se il sistema non se ne accorge. Il maestro, che agisce come la ghianda, è in contatto con il lato oscuro. Posizionato all'interno, dà all'esterno il posto che gli spetta. Mentre noi… perché non abbiamo più i maestri? Perché viviamo solo il lato esterno: non vediamo l'ora di fare un po' di soldi per avere la macchina da esibire, il vestito da mostrare. Non vediamo l'ora di trasmettere ai giovani l'idea trascinante del successo… prima lo raggiungi, prima appari, meglio sarà. L'apparire… Un maestro non farebbe mai il lifting. Perché è seduto su quella forza che sta scolpendo l'essere che è in lui. Ci piaccia o no, nell'universo si sta facendo l'uomo. È questa la meraviglia, lo stupore che dovremmo provare. Non si sta facendo Luciano, Raffaele… Si sta facendo attraverso Luciano, Raffaele, Francesco… si sta facendo l'uomo. Si sta creando l'uomo… in tutto quello che abbiamo detto nei capitoli precedenti… anche quando l'orrore va in scena, mi riferisco alle grandi tragedie della storia… mentre accade tutto questo, si sta facendo l'uomo. L'essere più alto di tutta la creazione. Quando e come ti accorgi che hai di fronte un maestro? Dal fatto che lancia sguardi particolari sulle cose, sugli aspetti della vita, riuscendo a vedere quello che la mente comune non vede. Perché non lo vede? Perché è una mente comune, non la mente di un maestro. L'UOMO C'ERA GIÀ Ha fatto capire come la mente comune detta le leggi, le mode, ci condiziona la vita. Non è cosa di poco conto. Cos'è una mente comune? Una mente assorbita dai modelli esterni. Mentre tutti parlavano del darwinismo, cioè della teoria che noi deriviamo dalla scimmia (una teoria come sappiamo contrastata dalla Chiesa, che vede un'energia spirituale quale artefice della nostra origine), un giorno un giornalista chiede a Lorenz: "Maestro, l'evoluzione è soltanto

animale? Da animale in animale?". La risposta di Lorenz è illuminante: "Sì, ma verso l'alto". Ecco il maestro, uno squarcio di luce nella tenebra: "Sì, ma verso l'alto". Nell'evoluzione si è fatto strada un sapere che scarta della scimmia la componente animalesca e salva invece il livello umano. Qual è, a mio umile avviso, la grandezza di Konrad Lorenz? Si è accorto che l'uomo c'era già nella scimmia. Non è, come pensiamo noi o come penserebbe Darwin, che dalla scimmia è arrivato l'uomo. Assolutamente no. L'uomo era già presente nel primo mammifero. Si trattava di aspettare che il caos dei suoi innumerevoli tentativi di trovarsi e pèrdersi "estraesse" alla fine l'uomo da ciò che già c'era: l'uomo già nato e nascosto nel mammifero. Il mistero della creazione è di una complessità spaventosa, ma anche di una straordinaria chiarezza. In questa ricostruzione dell'evento, il Dio si animalizza attraverso il mammifero, per creare appunto l'uomo e farne il Dio vivente. Si sta facendo l'uomo. Quindi l'embrione che tu eri nell'utero sta facendo l'uomo. Nei nove mesi di liquido amniotico crea le funzioni più adatte perché l'uomo in seguito le sviluppi e le utilizzi. Quindi, che cosa conta l'opinione che posso avere su Tizio e Caio, se è meglio Berlusconi o quell'altro? Il saggio va verso l'alto. Ma l'alto non va inteso col metro del potere. L'alto e il basso, nel pensiero del saggio, non riflettono lo schema utilitaristico del "più potere / meno potere", "più cultura / meno cultura". Niente di più lontano. Lo schema "alto / basso" riguarda lo sviluppo della coscienza. È indubbio che tra noi e la scimmia il peso della coscienza è ben differente. Quindi noi siamo qui per fare l'uomo. Quale uomo? L'uomo che ogni giorno nasce dall'uomo. È un viaggio senza fine, comunque… È un viaggio senza fine perché passando attraverso tutti i cicli, i codici, le materie della natura, l'uomo realizzerà se stesso in un ambito che nemmeno lui sa come evolverà. Quindi la creazione sfugge persino a chi la crea, ne è oggetto e artefice. Questo è il capolavoro. Altrimenti sarebbe soltanto un'interminabile opera di clonazione. Se Dio conoscesse in anticipo l'esito della creazione, non farebbe che ripetere un'opera già fatta. Invece neppure Dio sa come sarà la creazione. Dio ha immesso tutto il necessario nel primo seme che è comparso nel mondo, lasciando alla creazione il compito di fare quello che rimaneva da fare. C'è un aspetto da sottolineare. A un certo punto la creazione diventa etica. Mentre noi ci preoccupiamo se viviamo, se invecchiamo, se tutto va bene… ci stiamo dimenticando del compito che ci siamo impegnati a svolgere: fare l'uomo. Siamo qui per fare l'uomo, non siamo qui per fare nessun'altra cosa. Fare l'uomo attraverso la propria natura… perché Francesco farà l'uomo attraverso i codici dell'artista, che è diverso dall'uomo che faranno Raffaele o Luciano, che artisti non sono. Quindi ciascuno farà l'uomo con le caratteristiche che gli sono più congeniali, imprimendole nella propria scultura umana.

Puntando sempre lo sguardo verso l'alto. Lorenz, vero maestro, afferma che, certo, ci siamo "evoluti" dalle scimmie, certo, questo è vero, ma il punto è che l'evoluzione corre verso l'alto. L'universo scarta l'evoluzione verso il basso. Noi ci ritroviamo talvolta a rimpiangere le specie che non ci sono più, ma la loro estinzione rientra nelle leggi della natura, nel suo progredire millenario. È inevitabile che certe specie, non più funzionali, scompaiano. Oggi che cosa faremmo con i dinosauri? Il mondo è stato fatto per fare l'uomo. Non aveva altra funzione. L'uovo non bastava, perché doveva generare altre specie (i rettili, i vermi, gli uccelli); per fare l'uomo si è dovuti passare al mammifero. L'uomo era già presente nel primo mammifero. Quindi la scimmia non è stata che una tappa evolutiva verso l'uomo o qualcosa che più assomigliasse all'uomo. Era il suo compito. La scimmia doveva fare l'uomo, doveva farlo e l'ha fatto. Ha assolto al suo compito. Ma l'uomo era già in lei. La parola "uomo" sta a indicare gli interessi e le aspirazioni che albergano nella sua anima. Quali per esempio? Il sacro. Comunque lo si guardi, l'uomo sin dagli albori rivela una caratterizzazione che è solo sua. Mangia come gli altri animali, ha la tana come loro, beve come loro. Ma ha aspirazioni che a quelli mancano. L'uomo incomincia a parlare del divino, incomincia a immaginare qualcosa che ha i connotati di un Sole "umanizzato", di una Luna "umanizzata". Intuisce, per la prima volta nella storia, che lui è nel cosmo, ma si accorge che la creazione, che pure gli appartiene, non è di sua pertinenza. Non è sua. E incomincia a cercare fuori di sé, adorandole, immagini in cui immergersi: il Sole, la Luna, le stelle, i pianeti e infine gli dei che in qualche modo lo rappresentano. Vale a dire che l'uomo, per la prima volta nella storia, parla con lo straniero, con l'estraneo. Incomincia a liberare qualcosa che il maestro guarda con grande attenzione. Il maestro, se è un vero maestro, è sempre e solo cosmico. Un maestro ha sempre una visione universale, non dà importanza al particolare, non gli interessa. Sa di essere l'uomo dell'universo. È una cosa malvagia, veramente malvagia, continuare a pensare alla propria storia. È un atto distruttivo. Di un orgoglio infinito, becero. Perché continuare a pensare che stai male, che ti è successo questo, che non ti hanno amato, che ti hanno abbandonato, che il lavoro non è andato bene? Cosa vale tutto ciò? Tu non sei qui per questo. E se a questo ti riduci, sei un aborto della vita. Fortunatamente ci soccorre il maestro. Qual è la sua funzione? Ricordarti che sei qui per l'uomo. Come agisce il maestro? È qui per raccogliere i frutti dell'uomo come il contadino raccoglie i frutti della natura. Per raccogliere i frutti della natura conosce bene le leggi esterne e interne. L'uomo ha una prerogativa: è l'essere che naviga nel cosmo, verso gli dei, verso qualcosa di invisibile che pure regge i fili della nostra vita. Che ne sai del Luciano di questi anni? Qualcosa lo ha portato qui, lo ha portato a sviluppare la sua trama. Il suo percorso, i suoi sogni, i suoi interessi. Qualcosa che ne ha fatto un giornalista, quel giornalista che serviva a fare l'uomo Luciano. Così, come non stiamo a pensare alla scimmia prima dell'uomo, non dobbiamo pensare agli inizi della nostra storia.

Si ha quasi l'idea che lo psicoanalista debba restare lì impalato ad ascoltare la tua storia. Ma allora forse era meglio la confessione. Almeno aveva un valore sacro. Andavi e svuotavi l'anima nel buio: "Padre, sono preda dell'avarizia, non vorrei, ma è più forte di me", "Vedo il mio bambino e lo schiaffeggio, è più forte di me". L'uomo si accorgeva che nel cosmo, da dove arriva e di cui fa parte, c'era un'aspirazione alla distruttività. Che poteva fare allora il prete? Ascoltava e poi… Ego te absolvo a peccatis tuis… diventava un rituale: "Io ti sciolgo dai peccati… vai in pace… e torna quando ricomincerai a peccare". Sacerdote e penitente partecipavano entrambi a un rito cosmico. Emerge la nostra incapacità di liberarci da certi demoni e al tempo stesso ci accorgiamo che non sono neanche demoni nostri, ma appartengono a questo universo. Ed è con loro che bisogna fare i conti. Forse c'è un'imperfezione nel creato, un buio impenetrabile, che noi siamo qui a raccontarci per tentare di spiegarlo. Che senso ha allora trattare la mia avidità come qualcosa che non va bene? Non è un nemico da abbattere. Né un demone che arriva per impadronirsi di qualcuno. Nel suo valore cosmico, sacro, religioso, la confessione era in un certo senso più avanti della psicoterapia. Perché era affidata al cosmo. Come concludeva il prete davanti al peccato? "Va' in pace", cioè l'hai fatto, hai ucciso, è tremendo… ma è umano. È l'uomo. Invece noi abbiamo trasformato la psicoterapia in un resoconto, nell'esposizione di una serie di storie. VEDONO IL MONDO COM'È Allora il maestro chi è? Non è colui che dice "Hai fatto bene" o "Hai fatto male"… no! È colui che percepisce lo stato in cui ti trovi, l'essenza di ciò che sei, e non certamente ciò che "devi" essere e dove "devi" andare. Questo fa invece il maestro: scorge le funzioni dell'anima. E nel rapporto con gli altri? Intanto accoglierli come sono e percepirne le funzioni Questo è il maestro. Lui sa riconoscere le funzioni che ti caratterizzano. Sa che una nespola è differente da un'albicocca. Ti eviterà di confonderti, di sbagliare. Sarebbe un pessimo mondo, se tu lo costruissi da albicocca, mentre invece sei una nespola. Il maestro ha uno sguardo calato sulle leggi, uno sguardo istintivo perché favorito dal suo sapere innato. Garante è la sua coscienza, perché lui è la coscienza del mondo. Il maestro vede il mondo com'è, mentre tu sei lì attorcigliato, a batterti ottusamente per cose di scarsa importanza o addirittura inutili, che tu stesso hai creato, incapace di reggere un dolore di un'ora o due, tutto preso a distruggere l'uomo o la donna che è in te. Il maestro è invece lì, calato nell'uomo e nella donna. Se nel tuo bosco c'è una pepita d'oro, il maestro ti aiuterà a trovarla. Se tu sei un'edera, ti sconsiglierà di voler essere un'altra pianta. Il maestro vede l'edera che c'è in te. Il maestro è la libertà, ti libera da tutto ciò in cui ti sei identificato. Tu vuoi sapere chi sono i cattivi maestri? Osserva la televisione. Lì trovi i maestri dell'apparenza, il dominio delle regole dell'esteriorità. Il maestro ha ben altri codici. Guarda sì l'apparenza, ma come il riflesso dell'eterno. Con distacco. Sbaglia chi va

nella direzione opposta, perché si ritrova sempre più coinvolto e impegnato nell'apparenza. Fa trasmissioni per ottenere più audience. Vive nella quantità e più cose fa meglio si sente. Ma è un piacere fragile, ingannevole. Non è vero che più cose si hanno meglio si sta. No, non è affatto così… Più cose hai, più ti si attaccano addosso. Diversa è la visione del maestro. Il suo è uno sguardo nitido su tutto l'insieme che lo circonda, e ogni cosa o atto che lo attira, per quanto possa sembrare insignificante, è per lui il riflesso dell'eterno. Tu dici: stamattina sono andato in bagno, sono andato a fare la pipì… chi lo considererebbe un atto importante? Chi? Chi pensa che la saliva sia importante? Nel formarsi del mammifero, si stava costruendo l'uomo… ma all'"operazione uomo" si era giunti già preparati, insieme a tutte le forme viventi in evoluzione dal mondo vegetale a quello animale. Gli animali, infatti, che cosa sono? Una trasformazione del vegetale in animale. Nel processo della creazione dell'uomo tutte le forme viventi che si sono susseguite mangiano ed eliminano cibi e scorie con gli organi-strumento del nutrimento e dell'evacuazione: la bocca e l'ano. Con il mammifero tutto questo si affina. Quando vai in bagno la mattina, stai celebrando l'eliminazione delle scorie che ti appesantiscono. Con ciò l'uomo riafferma la sua purezza. Quando respiri, l'uomo sta rarefacendo il mondo e lo sta portando nel sottile dell'anima. Quando osservi una via, un prato, una montagna, un fiume, un volto, insomma quando il tuo sguardo si posa su qualcosa, è l'uomo che sta vedendo il mondo e sta usando lo sguardo, che è la sua funzione più elevata, più sottile. Creatrice. Ogni volta che guardiamo, portiamo il paesaggio nella retina e quindi nella luce. Tutto questo è l'uomo quando non pensa, quando si abbandona spontaneamente a ciò che è. Tu fai l'uomo quando stai utilizzando il tuo carattere, non quello che non ti appartiene. Se sei un buon lupo comportati da lupo, se ti senti un agnello sii un buon agnello. Smettiamola di domare i nostri caratteri. Pensa alle attrici e agli attori, quando parlano in televisione. Spesso li senti dire "Io sono una persona solare": ma cosa vuol dire essere "solare"? È per forza qualcosa di positivo? E invece, allora, essere introverso significa portare il marchio di un difetto orrendo? Io sono solare, io sono altruista… Io sono… Stiamo attenti. Sono le caratterizzazioni che fanno l'uomo. Ecco perché si chiama "maestro" colui che è sempre calato in questo compito. Il maestro vede l'uomo che verrà così come i rabbini, che sono autentici maestri, vedono il messia nell'uomo. Cos'è il messia nell'uomo? È il parto dei saperi che l'uomo porta con sé. Tu non ti sogneresti mai di tagliare il grano a maggio. Perché troveresti il chicco acerbo. Le messi si raccolgono a luglio. Così non ti sogneresti mai di privilegiare in te il sapere innato, ma il maestro sì. Lui sa potare, eliminare ciò che non serve alla tappa successiva dell'evoluzione personale e quindi cosmica.

UN FARO CHE SPEGNE LE LUCI Siamo sempre lì. Come si riconoscono con certezza i veri maestri? E può un vero maestro non essere accettato come tale? Lei aggiunge persino che se uno si sente maestro non è un vero maestro. Anzi afferma in un certo senso l'opposto. E cioè che uno può non sentirsi maestro e invece esserlo per davvero. Conferma tutto? Come riconoscerli? Intanto devi toglierti dal frastuono degli ambienti esterni, dove ti sembra di non essere nessuno se non hai le sembianze di una star televisiva del Grande Fratello. Purtroppo siamo in un mondo ingannevole, nel quale la scienza non sembra più un valore assoluto. Mi chiedi come si possa avere la certezza che di fronte a te stia un vero maestro? Ce l'hai quando ti accorgi che è capace di liberarsi dell'inutile. Ti dimostra, con le parole e con le azioni, che lo sa fare e che lo ha fatto. Ti illumina di colpo. È un faro che spegne le luci delle illusioni che giorno dopo giorno tu vai assorbendo. Ti libera dalle fobie, dalle mode fasulle. Ti faccio io una domanda: "Di tutti i tuoi amici, e so che sono molti, quanti riuscirebbero a vivere senza il conforto di un telefonino?". Ti do anche la malinconica risposta: "La realtà che ci circonda assume in questo campo contorni per certi aspetti infantili. Opinione generale è che, senza i nostri giocattoli tecnologici, ognuno di noi rischierebbe l'emarginazione". L'UOMO CHE VERRÀ I benefici che vengono da un maestro possono anche non essere immediati? Potranno anche non essere immediati, ma comunque vada il mondo non mancherà al suo ruolo. È stato fatto per l'uomo, che potrebbe anche scomparire dalla vista, ma per riapparire subito dopo. Il mondo è fatto per l'uomo, ne abbiamo viste di brutte, di orribili nel viaggio dell'uomo. Nel Seicento l'Europa è stata straziata dalle epidemie e dalle carestie. Eppure lui, l'uomo, non ha mai smesso di proseguire il suo cammino. Verso l'alto. Certo, stento a ritrovare l'uomo nella cattiva televisione. Non vedo l'uomo di Lorenz. Ma l'uomo è qui, quindi anche se scompare dalla vista è qui. Riapparirà con i codici che caratterizzano l'uomo. Certo l'uomo non va a fare il tronista, non va a riempire di psicofarmaci il mondo. Parliamo di quell'uomo che c'è sempre stato fin dagli albori della creazione, che si è trasformato via via attraverso le varie forme, che altro non erano che le tappe amniotiche per scolpirsi finalmente il viso da uomo. Un po' come Penelope, continua a fare e disfare la tela infinite volte, ma il suo fine è Ulisse. Come il fine della creazione è l'uomo, che partorisce il messia. Che già stava nell'uomo. Questo l'ebraismo lo ha molto chiaro. Non è certamente l'uomo attuale. Ma l'uomo di adesso ha in serbo l'uomo che verrà, l'uomo di adesso ha in sé doti di sapere innato che l'uomo del futuro si ritroverà. Da qui la domanda che si pone l'alchimia, e cioè se questo processo possa essere accelerato, se c'è qualche modo di accelerarlo. Ecco, qui io resto in silenzio. Perché entriamo nei grandi misteri dell'anima. Un maestro è un maestro dei sogni, sa riconoscere i sogni. Guarda i sogni, perché i sogni sono il

patrimonio immaginativo che serve a fare l'uomo. Anche perché, nei sogni, cosa troviamo? Bellezze dello spirito che caratterizzavano i cristiani del Duecento, i buddhisti, i rabbini. Troviamo l'uomo che aspira all'eternità. Nei sogni c'è sempre il lato cosmico. Noi siamo sempre portatori dell'uomo cosmico. Di quest'uomo possiamo fidarci. Di tutti gli altri, che recitano lezioni di vita, conviene invece diffidare. I maestri sono questi: uomini che hanno uno sguardo insicuro sull'esterno e una acuta percezione del mondo interno. Sanno perfettamente che cosa si deve fare quando l'anima si manifesta, parla, si annuncia. Noi ci sforziamo di allontanare i disagi, i maestri invece li guardano e li lasciano crescere. È così che l'anima può evolvere verso l'alto e passare alla tappa successiva. Noi pensiamo che la storia sia importante, invece i maestri sono fuori dalla storia, perché non le danno alcuna importanza. Perché non ha nulla da insegnarci. Noi pensiamo che sia importante un buon carattere, i maestri no. Questo è l'uomo che era già presente nell'uovo, nel seme e nella scimmia… Siamo ancora in un bosco buio, che fa filtrare solo uno squarcio di luce. Non sprechiamolo e guardiamo quel che vuol farci vedere. Guai a incatenare l'uomo alla storia… Lasciamolo libero! Neanche le religioni aiutano quanto potrebbero. In fondo dovrebbero rivelarci l'incontro con l'estraneo, con i codici dell'eternità che fanno autentico l'uomo, invece si riducono a dogmi appesi a dei fili di razionalità, pur possedendo linguaggi profondi, come dimostrano i loro riti, che portano l'uomo a ragionare con l'eterno, con il Senza Tempo. I cattivi maestri? Riconoscerli non è impossibile. Sbandierano argomenti e creano correnti di pensiero che ci portano a perdere di vista l'uomo. Attenti a prendere per buono in toto il concetto per cui "dalla scimmia è derivato l'uomo". Non è così! L'uomo c'era già, nel mammifero. C'era già nella scimmia, bisognava aspettare che la scimmia si modificasse a tal punto che ne uscisse l'uomo. Così la musica cambia… Questa è l'evoluzione, che estrae ciò che c'è già. Ecco perché nelle religioni c'è l'uomo a immagine e a somiglianza di un Dio… Perché l'uomo raccoglie la migliore quantità di energia spirituale possibile dalle forme viventi. L'uomo c'era? C'era. C'era nel mammifero? C'era. C'è adesso? C'è. Non lo vedi, ma c'è. E ci sarà? Ci sarà. Anche quando sembrava che fosse sulla soglia dello sterminio, l'uomo ha vinto. È tornato e ha preparato il nuovo uomo. Quindi non c'è da preoccuparsi se vivremo, se moriremo. Siamo l'uomo. Anche quando muori, l'uomo c'è. Quando eri nell'utero di tua madre lo vedevi l'uomo? No, eppure c'era. Tu che in questo momento mi ascolti, stai facendo l'uomo del mondo. Come? Come lo sai fare tu. Ti rivelerai un uomo buono? Lo sarai se al sopraggiungere della vecchiaia ti sarai liberato da tutte quelle opinioni e tendenze che ti si sono appiccicate addosso, e ti hanno fatto perdere di vista il tuo vero fine, l'uomo che sei. Scoprirai che, invecchiando, si eliminano sempre di più le cose inutili. Ecco l'uomo. Come vedi, cambia tutta la partita. Noi

siamo qui per l'uomo, nient'altro che l'uomo. Nel volto dell'uomo è scolpito il volto del sacro.

11 Esiste solo il presente Perché aggrapparsi alle cose di ieri? I nostri ricordi sono falsi cronisti. LA MEMORIA INGANNA Una curiosità. Lei dà valore assoluto al "presente", all'attimo che dura lo spazio del battito d'ali di una farfalla. Solo all'istante che stiamo vivendo va riconosciuto, secondo lei, il diritto di rappresentare, di essere, l'Eterno. Grazie appunto alla sua infinita catena di "presente". È il suo pensiero. Affascina ma al tempo stesso lascia a mani vuote chi ama i ricordi, belli o brutti non importa, delude chi è legato al passato, con le sue schiere di amici o nemici. È il loro unico patrimonio. Perché squalificarlo? Quando vivi nel presente, nella tua mente non accade ciò che pensi e temi. Non stai mettendo affatto in soffitta le cose che ti sono care, come i ricordi, gli amici, certe atmosfere, legami forti o passeggeri… Stai semplicemente entrando in contatto con la coscienza e le sue leggi eterne che dettano la consapevolezza di vivere solo nell'adesso. Se invece ti chiudi nei rimpianti e nei ricordi di fatto stai privilegiando l'evanescente, il diafano sul reale. Contempli solo una finzione romantica del passato. Se ne fai una ragione di vita, scambi la realtà con i ricordi. E così facendo bari con te stesso. Non c'è niente che sappia ingannarci come la memoria. È astuta. La memoria rimette le cose a posto come desideriamo noi. Ci piace ricordare gli amici, le sfumature del carattere che li rendevano simpatici e ignorare quelle che li facevano diventare antipatici? La memoria ci accontenta. Aggiusta ciò che non va. No, devi abbracciare il mondo assieme alle cose vere di questo mondo. I ricordi non sono precisi cronisti di ciò che è accaduto. Di ciò che hai vissuto. Noi siamo abili nell'arte del ritocco, siamo capaci di realizzare con la memoria bellissimi restauri, che risultano però tutt'altra cosa rispetto ai ritratti originali, logorati dal tempo. Che mondo vediamo? Il mondo com'è o il mondo dipinto da una nostra visione ideale e romantica? Quando enfatizziamo i ricordi, lo stiamo facendo all'interno di un nostro sistema mentale. Ricordiamo ciò che vogliamo ricordare, ciò che ci piace ricordare, che ci serve ricordare. Nella nostra memoria le persone del passato divengono personaggi che facciamo recitare a nostro piacimento. Da perfetti registi. Parlare di sé. Raccontarsi. Questa è l'esigenza di un animo fragile. Del resto i bambini non si raccontano, non parlano di sé, neanche gli adolescenti lo fanno. È un ben misero lavoro costringere gli adolescenti a parlare di sé. Siamo noi adulti a pretendere da loro rivelazioni inutili oltre che umilianti: "Parlami di te, dimmi che problemi hai". Una domanda che nasce dalla cattiva abitudine di condensare tutto in un problema, anziché in un'immagine.

L'adolescenza è bloccata dal suo divenire, evolvere, crescere. "Come faccio a spiegarti che il mio corpo si sta trasformando, come faccio a rivelarlo?", questo è l'adolescente. "Come faccio a spiegarti che mi arrivano pulsioni che prima non avevo? Non so che cosa sono, non so come definirle." L'adulto aggrappato alla sua età matura definisce tutto, pensa di saper tutto e sparge sentenze. Nei confronti di un mondo interno dove non ci sono domande e dove non ci sono risposte. Chi mai ha stabilito che una persona debba vivere fra domande e risposte? Questo vale per un compito di matematica, per un compito di chimica, ma l'anima non vive di domande e di risposte. Vive in un altro territorio. Quando una cellula fecondata fa un bambino, mica si domanda: "Lo faccio bene, lo faccio male?". Non lo farebbe più, impazzirebbe… Ci sono delle certezze del fare, presenti nell'anima. Per capire la parola presente, dovremmo dire che adesso, senza il parere di nessuno, si sta facendo Raffaele, Francesco e Luciano. Lo si sta facendo. E farlo vuol dire compiere questo processo secondo i codici di una complessità che ci è del tutto sconosciuta. Noi non conosciamo un essere vivente che abbia la capacità di farsi la bocca, il naso, gli occhi, le orecchie… Non abbiamo le parole per stabilire cosa sta accadendo dentro di noi. Mentre noi parliamo, pensiamo che la vita stia scorrendo, attuando il presente dentro ognuno di noi. Sono deduzioni improprie. Dovremmo dire: "L'eterno è presente in ognuno di noi". La vita è adesso, è segreta ed è un eterno presente. Quindi non dobbiamo preoccuparci di essere o meno nel presente. È il presente che sta dentro di noi. Per esempio, dobbiamo arrenderci alla percezione e non all'autodirezione, nella quale siamo dei maestri. Se io rinuncio al culto della mia identità, non so più chi sono, ma ho la certezza di trovarmi sulla strada giusta. Sono qui adesso. Ecco perché sono sulla strada giusta. C'è un esercizio che faccio fare ai gruppi del giovedì. Invito tutti a dire: "Io sono qui", "Noi siamo qui". Poi li prego di togliere il "qui" e di pronunciare ciò che resta: "Io sono", "Noi siamo". Chiedo un altro taglio, "io" e "noi": ed ecco "sono", "siamo". Infine l'ultima richiesta, trasformare "sono" e "siamo" nel loro infinito, cioè "essere" "essere". L'essere è qui, adesso, con me. Se noi tutti i giorni camminassimo tenendo per mano l'essere impersonale, la nostra vita cambierebbe profondamente. Perché io custodisco l'essere, sto facendo qualcosa con l'essere. Cammino per strada, bevo il caffè, lo bevo con l'essere. L'essere che racchiude il grande segreto: il presente e l'eterno. Non è facile calarsi in questo pensiero e soprattutto viverlo. Quanto più io accolgo l'idea che il mio Io non sia il protagonista, tanto più le funzioni, come la vista, il respiro, l'udito, la voce, sono presenti e mi guidano. Che cosa cercano le religioni? Certamente non l'essere identificato in un progetto.

Cercano un essere avulso dalla storia, senza etichette mentali, pulito. Questo è il loro essere ideale. Ne hanno la certezza. Che cosa può produrre l'essere in te se non il tuo benessere? Essere, ben-essere. Da cosa nasce il benessere? Non certo dall'identificarsi in un progetto, in un'azione. Perché il bambino non soffre come noi? Perché non vive le angosce per un traguardo che si allontana e fa durare poco ogni sua sofferenza? Perché lui vive nell'essere, non nell'Io. E l'essere è di per sé benessere. Può un seme fare la pianta ed essere contro la pianta? Impossibile. Non ha senso. Sarebbero sbagliati i suoi codici. Salterebbero tutti i codici. Se io rimpiango il passato e mi dico che quel tempo era migliore, io apro automaticamente un nuovo codice. L'essere si troverà accanto un modello. E sarà costretto a adeguarsi. Un dramma. È come se lo imbavagliassimo. Se io mi dico che devo essere buono… apriti cielo! Non c'è nulla di più malefico e che faccia più danni alla vita di una concezione che imponga il culto della bontà. Se devo essere "buono", non sarò più spontaneo e generoso. E quindi sarò costretto a recitare, perché non potrei essere sempre buono. Risultato? Divento anch'io un essere finto. Come sono certi preti, che hanno il sorriso artefatto. Altri invece hanno il cuore spontaneo. Se io ho in mente un progetto, non sono nell'essere. Sono nell'Io che si dà un progetto. Un conto è l'essere che sta al mio fianco e a cui mi affido, perché pronto a rivelarmi, con lampi improvvisi, nuovi saperi, percorsi, vie che non conosco ancora. Un conto è invece l'"Io che sa". L'Io che mi dice come devo essere.

12 I saggi Scendono nel buio dell'animo e leggono l'invisibile che ti abita. GRANDI PERCHÉ INCERTI Il saggio abita ancora fra noi. Ma c'è chi teme sia ormai una figura in via di estinzione, oscurato (com'è) da luci e rumori nel parco giochi della vita attuale. Qual è il suo segreto, la virtù che lo rende, a suo avviso, tuttora essenziale? Quali strumenti usa e in che rapporto è con gli altri? Perché è tanto difficile incontrarlo e soprattutto riconoscerlo? I saggi sono parte degli altri, parlano agli altri, insegnano agli altri, ma tutto ciò che fanno i saggi lo fanno nell'unico luogo in cui possono e vogliono stare: nel presente. Sono nelle cose che vedi e tocchi. Quando hai davanti a te una persona, vedi affacciarsi un modo di essere, uno stile. Un passato, uno spazio del passato e un futuro. È questa la saggezza della psicologia, di uomini che hanno imparato, passo dopo passo, a conoscere l'invisibile che li abita. Sono intelligentemente incerti. Più sono grandi più sono incerti. Incerti, perché? Perché sanno che l'invisibile è incerto, è sconosciuto, è buio. Come fai a conoscerlo? Il saggio ha una sola certezza. Il tempo dell'eterno è adesso. Non esiste sforzo che aiuti a restare nel presente. Anzi, ti allontanerebbe dall'eterno. Le sostanze dell'anima provvedono a te. Bastano loro. La vita non è mai come la immaginiamo noi. La vita è… Ti sembra di essere quello di ieri? Ti illudi di esserlo. Il Luciano di ieri è sparito. Non c'è più. Anzi, non tornerà mai più. Il presente è la cosa più segreta che esista. Non c'è niente di più segreto. Il segreto è la cosa più autentica, reale, che esista. Ecco perché dobbiamo imparare a restare più nascosti dentro di noi. Invece la nostra epoca è tutta in chiaro, tutta in superficie: ciascuno parla di sé, ciascuno ha un'opinione di sé. SE TI SFORZI SEI FINTO L'altro giorno un giornalista mi domandava: "Ma lei politicamente come la pensa?". Io non ho una visione politica, se devo essere sincero… e chi fa il mio lavoro non deve averla. Perché io posso dirti come la penso in certe circostanze, che è diverso da come la penso in altre. Francamente, però, che cosa bisogna fare per il mondo io non lo so. Se sia meglio la sinistra o la destra… non lo so. Mi sembra un problema talmente immane, complesso… Ho parlato tempo fa con un signore della Calabria incontrato per caso in un Campetto di periferia con le porticine, dove vado a giocare a calcio due contro due. Era venuto per sostituire un amico. Combinazione, questo signore aveva letto tutti i miei libri. Appena mi ha riconosciuto mi ha detto:

"Sai, io stavo male, stavo veramente male. Il mio rapporto affettivo non quadrava, stentavo sul lavoro, insomma un disastro. Un giorno mi sono venuti sotto gli occhi i tuoi libri. E me li sono letti. Mi ha subito colpito un tuo pensiero: 'non fare sforzi', 'gli sforzi alterano la direzione della tua essenza'… Rifletto e mi dico: 'Santo cielo, ma la mia vita è stata ed è tutta uno sforzo…'. Così ho incominciato a non fare sforzi, a lasciarmi andare, e le cose sono cambiate. Venivano meglio. Poi la mia fidanzata, che è una rompiballe, ha avuto questa magnifica idea. 'Senti' mi dice, 'io ho deciso di stare con te, ma dobbiamo impegnarci tutti e due, se vogliamo che il nostro rapporto funzioni. Tu farai la tua parte, io farò la mia e alla fine vedrai che andrà tutto meglio. Funzionerà.' "Io in un attimo mi sono ricordato delle cose che dici e che scrivi, e cioè che se dobbiamo impegnarci per far funzionare un rapporto vuol dire che il rapporto è già compromesso e non potrà funzionare mai. Dici che il rapporto si basa sul desiderio e sul piacere di stare insieme, cose che non devono comportare alcuna fatica. Se occorre compiere uno sforzo per stare insieme come mi vuoi tu, io divento artificiale e costruiamo un rapporto artificiale che prima o poi si romperà. Io ho applicato i tuoi consigli e sono stato subito meglio. E mi sono liberato anche di tanti rapporti inutili". Quanto alle idee personali, uno che fa il mio lavoro non può essere religioso o avere una visione politica. Non si addice a questo mestiere. L'ho capito anche grazie a una conversazione con un panettiere che ha voluto spiegarmi come si fa il pane. Mi diceva: "Dottore, il lievito bisogna metterlo lì, coprirlo bene…". Quell'uomo mi parlava del pane come parlasse della più bella delle donne con cui potesse fare l'amore. Ecco, mi dicevo, questo sì che ama il suo lavoro. Si dedica tutto al suo lavoro. Altro esempio. C'era un ristorante in via Morosini, non so se ci sei mai stato. Da Rino alla Pesa, un posto semplice. Il proprietario mi raccontava che ogni mattina si alzava presto per andare al mercato, a scegliere la frutta… E quando la portava in tavola era felice: "Dottore, guardi queste pesche, senta il profumo. Io le ho scelte una per una". Questo vuol dire amare il proprio lavoro. Che passione! Come uno che ama il cinema, che passione! E qui è lo stesso, il mio lavoro è come quello di uno scrittore o di un panettiere. Va vissuto con la stessa dedizione che ci mette il fornaio quando si accinge a fare il pane. O uno scrittore davanti a una pagina bianca. Ci vuole autorità per fare il pane come lo fa lui, che si fida di sé, del suo sapere. Magari nella vita trema davanti a un nonnulla, ma quando fa il pane è autorevole. La stessa autorità che serve per il mio lavoro. Quando io so una cosa, sono sicuro di saperla. Non mi sbaglio. Faccio quello perché so farlo. Lo psichiatra che entra nel mondo del suo paziente deve avvalersi della stessa autorità. Guai se avesse una visione del mondo precostituita. Lo psichiatra non deve avere un parere, non deve essere di destra o di sinistra. Deve entrare nell'animo dell'altro a mani vuote, perché ha con sé il vero sapere. Deve stare con le immagini, custodire le immagini che sono nascoste, e restituirle poi

al segreto. Quasi un passaggio vitale delle consegne. Perché, come dice Jung: "Quando tu sei diventato consapevole, subito dell'altro buio si forma attorno a te". Insomma, quando pensi di essere approdato a una certezza, vedi la luce e ne sei felice, ma devi anche sapere che un nuovo viaggio ricomincia all'istante. E, come sempre, nel buio.

13 Le paure Ti aggrediscono alle spalle perché limiti i tuoi orizzonti. INVITA A CENA IL DIAVOLO Le paure. Hanno tanti volti, arrivano da più parti e fanno seri danni. Mi chiedo se siamo noi a farle nascere, a chiamarle e persino a gettarcele addosso. Se fosse così, quali errori abbiamo fatto per diventare il loro bersaglio preferito? E come si spezza il loro assedio? Qual è la contromisura per non farle più tornare? Il mio è un lavoro empirico. Tutto quello che so l'ho appreso osservando le persone che vengono da me. Un atteggiamento empirico, perché io ritengo il cervello esattamente uguale al seme. Basta guardarlo, il seme: lo getti nella terra e lì si spacca, si frantuma, fa nascere il germoglio in alto e le radici in basso. Così fa anche il nostro cervello, che si è sviluppato in migliaia di anni delegando parte dei suoi poteri agli organi che si è plasmato lui (da solo), fondamentali per la sua stessa evoluzione: gli occhi, l'orecchio, la voce… Ogni tappa nell'evoluzione del seme-cervello è accompagnata dal "percepire". C'è uno sguardo esterno rivolto a tutto ciò che ci sta attorno e uno sguardo interno, cioè il percepire come sto adesso e che cosa sento. Percepire significa fotografare quello che provo, quello che sento. Ecco, io sono un attento fotografo dei miei panorami interiori. Non è presunzione. Questo lavoro puoi farlo se hai questa dote innata. Non te lo può insegnare nessuno. Non lo puoi imparare a scuola. Puoi trovare magari qualcuno che ti insegni a liberarti delle zavorre culturali che ti porti addosso. È qualcosa, ma non basta. Ti sembrerà strana questa premessa, ma aiuta a spiegare la paura e tante altre sofferenze. Serve a far capire subito che le paure bisogna saperle guardare. Guardarle in faccia. L'anima si cura tenendola sempre sotto l'obiettivo del nostro sguardo. Cosa vuol dire? Diventare attenti osservatori di se stessi. Mi spiego con una semplice storia. Lorenza è una delle donne che viene ai miei incontri del giovedì. È un'insegnante. Un pomeriggio mi ha portato una scatola con dentro dei bachi, delle larve che mangiano foglie di gelso. Qua e là nella scatola c'erano bozzoli a varie altezze. Quindi vuol dire che la larva quando emette le sostanze per costruirsi il bozzolo lo fa a un certo livello, a una certa altezza. Si sceglie il punto dove farsi il bozzolo, schiudersi e diventare farfalla. Ecco, il mio lavoro si basa sulla ricerca della farfalla che ha dentro di sé chi mi sta di fronte. La farfalla che lui non vede. Un giorno viene da me un uomo, chiamiamolo Michele, 45 anni. Non si perde in preamboli e attacca di slancio la sua storia. E a modo suo me la racconta. "Vede, dottore, io soffro di attacchi di panico, sto male da morire. Quindici anni fa ho avuto un incidente d'auto, sono rimasto sepolto, incastrato fra le lamiere.

Mi hanno tirato fuori da quell'inferno dopo ore di grida e dolore. Svenuto. Da quel giorno soffro di attacchi di panico." L'uomo ammette di prendere psicofarmaci a manetta, come dice lui. Mi rivela che dirige una piccola azienda che negli ultimi tempi ha fatto fortuna e lo obbliga a incontrare spesso personaggi importanti, anche politici. All'avvicinarsi di ogni appuntamento lui è preso da un tale terrore e da una tale paura da doversi imbottire di psicofarmaci. Agli incontri arriva sempre sudato, nervoso al punto che talvolta si ritrova a scusarsi in modo ingenuo: "Ho avuto un incidente, ho avuto un problema". La sua vita trascorre fra molte licenze. Tutte le sere si beve almeno una bottiglia di vino e qualche bicchiere di whisky e siccome gli piace tampinare le donne, tutte le donne che vede, gli è capitato nel momento cruciale di un incontro di essere tradito dall'erezione. Così per non incappare in altri infortuni, visto che di donne lui ne insegue almeno una al giorno, ha pensato di ricorrere anche al viagra. Non solo, si fuma di regola due pacchetti di sigarette al giorno, non fa sport. Vive così da qualche anno. Cosa dire davanti a questa paura che lo scuote da capo a piedi, che gli impone di buttar giù una pillola persino quando deve prendere l'aereo, su cui sale sempre meno perché ha il terrore di volare; cosa dire davanti a un uomo che un tempo niente poteva spaventare e che oggi si fa prendere dal panico sulla sua barchetta per un'improvvisa nuvola grigia o un colpo di vento? Ora, davanti a un tale fenomeno nascono spontanee alcune domande, le stesse che sorgono ogniqualvolta una persona viene a parlarmi di un panico che non dà tregua. Le domande sono queste: "Che cosa copre questa paura? Che cosa gli nasconde di sé? Che cosa questa persona non sta esprimendo?". Invito lo sciupafemmine a fare con me un esercizio molto semplice. Gli dico: "Chiuda gli occhi e provi a ricordare un periodo della sua vita in cui non aveva paura". "Da ragazzo non avevo paura di niente" mi risponde. "Facevo nuotate anche in alto mare, attraversavo fiumi, affrontavo rischi, situazioni impreviste e pericoli di ogni tipo." Io gli dico: "Chiuda gli occhi e provi a immaginare com'era, che volto aveva quando non sapeva cosa fosse la paura". Lui chiude gli occhi e mi dice: "Lo vedo benissimo, nitidamente". A quel punto ho un'intuizione e gli chiedo: "Scusi, ricorda se aveva per caso un soprannome, all'epoca?". "Sì, 'il diavolo'! Tutti mi chiamavano 'il diavolo'. Pensi che ancora adesso, quando vengono da me i clienti importanti, mi chiedono: 'Dai, dacci un consiglio da diavolo'. Questo perché sanno che io bado al sodo. I miei consigli se ne sbattono delle questioni morali, vanno direttamente al centro del problema e chi mi ascolta sa che se ne torna a casa con la soluzione in tasca. Per la mia azienda ho fatto di tutto: debiti, ho evaso il fisco, fatture false, cose spericolate. Adesso che ho parecchi soldi ho paura di perderli. Ho paura persino di entrare in banca." Allora gli faccio un'altra domanda: "Le piacciono le donne con cui va?".

"Mah, di certo non tutte!" "Ma secondo lei il diavolo prenderebbe il viagra?" "Certo che no!" Mentre parlavamo, teneva gli occhi socchiusi, forse per non lasciarsi sfuggire quel "volto" che gli altri chiamavano il diavolo. Qual è ora il senso profondo di tutto ciò? La risposta è chiara. C'è un'immagine dentro ognuno di noi. Ed è un'immagine innata. Non puoi fare il pacifista se sei nato per goderti la vita spericolata. Non faresti volare la tua farfalla perché rimarrebbe chiusa nel bozzolo. E il bozzolo diventa una farfalla abortita. FA' VOLARE LA TUA FARFALLA Si torna sempre al mancato appuntamento con la propria natura. A ciò che lo fa fallire e all'inevitabile risultato finale. Una farfalla mai nata. Sì, mai nata. Le paure, in fondo, assomigliano alla rottura delle acque che preannuncia il parto della donna. Le acque si rompono per preparare l'arrivo del bebè, del neonato. Le paure sono un po' la rottura delle acque dell'anima, che ti sta chiamando perché tu faccia la farfalla. E come fai a fare la farfalla? Ricordandoti che la cosa più preziosa per l'anima sono le immagini, la tua immagine. Come nel caso di quest'uomo. Il diavolo altro non è che la sua immagine naturale, impegnata nello sviluppo della sua vera identità. Lui non ha seguito ciò che indicava la sua immagine. Ecco perché si è perduto. Il mio paziente Michele è oggi un grande mediatore: frequenta gente importante, va d'accordo con tutti, mette d'accordo tutti. E ha fatto tanti soldi. Purtroppo ha perso l'anima, ha perso se stesso: il diavolo. Ha smarrito quell'identità che lo rendeva unico. Il discorso si fa più complesso se si pensa che l'immagine che lo caratterizza vuole restare nascosta. Non è un'eccezione. L'essenza di ciascuno di noi non vuole i riflettori in faccia, non vuole essere capita, né tantomeno essere raccontata. È una bella partita, questa, vincente se Michele riesce a capire che le sue paure non vanno attribuite a qualcosa che gli sta capitando al di fuori di sé ma semplicemente al fatto che lui non avverte la presenza di altri lati di sé, di altri volti di sé. E non è quindi in grado di riconoscerli e di raccoglierne i frutti. Tempo fa sulla "Repubblica" lo scrittore Salman Rushdie sottolineava l'importanza della contraddizione e citava una poesia di Whitman, Il canto di me stesso, che dibatte il tema con queste parole: "Forse che mi contraddico? Benissimo, allora vuol dire che mi contraddico. (Sono vasto, contengo moltitudini.)", il che vuol dire che non ho confini, contengo moltitudini di possibilità e varianti. La natura umana è contraddittoria. L'io umano è una forma capiente e multiforme. "Noi possiamo avere" sostiene Rushdie, "e abbiamo, molte personalità simultaneamente; possiamo mostrarci dolci coi nostri figli, ma duri coi nostri dipendenti, possiamo amare Dio e odiare gli esseri umani, possiamo preoccuparci per l'ambiente e ciononostante lasciare le luci accese quando usciamo di casa, possiamo essere persone tranquille che la passione per la squadra del cuore trasforma in

individui aggressivi e ogni tanto persino in hooligan. E per quanto possiamo desiderare fortemente difendere la sovranità del nostro io individuale - un'idea nata nel Rinascimento fiorentino che forse rappresenta il dono più grande dell'Italia alla civiltà mondiale - in realtà quell'io è sovrano e al tempo stesso invaso da altre personalità. È sia autonomo che non autonomo… Pertanto siamo creature paradossali…" Rushdie aggiunge una cosa interessante: "Si possono trarre grandi benefici sociali da queste ampie definizioni dell'io, perché maggiore è il numero delle individualità che abitano il nostro io, più facile sarà trovare un punto d'incontro con altre nature umane multiple e molteplici. Possiamo essere di fedi diverse ma tifare per la stessa squadra". Ecco, io condivido soprattutto questo passaggio: "Tuttavia viviamo in un'epoca in cui siamo esortati a ridurre e limitare sempre di più la nostra individualità, a comprimere la nostra multidimensionalità dentro la camicia di forza di un'identità nazionale, etnica, tribale o religiosa a una dimensione. Ora che ci penso, questo potrebbe essere il male da cui hanno origine tutti gli altri mali del nostro tempo. Perché quando soccombiamo a un tale rimpicciolimento, quando permettiamo una semplificazione per cui diventiamo meramente serbi, croati, musulmani, indù, allora per noi diventa facile riconoscere nell'altro l'avversario, il Diverso, e i punti cardinali della bussola cominciano ad azzuffarsi, Est e Ovest si scontrano, così come Nord e Sud". Torniamo a Michele. Perché il suo paziente soffre di paure? Perché vede di sé solo una delle parti in campo. È diventato unilaterale, un monolite. Ha dimenticato chi è, le mille facce del suo diavolo. Rushdie dice un'altra cosa bellissima: afferma che anche nella letteratura è sempre presente il problema e ci ricorda che l'equivalente arabo dell'espressione "c'era una volta" è "kan ma kan", che tradotto significa: "Era così, non era così". Un modo quasi brutale, ma sincero, di dipingere la nostra essenza, il nostro sentire, in bilico tra più facce di noi da cui non possiamo prescindere. Questo grande paradosso è alla base di tutte le opere… Non dimentichiamolo mai, perché il vero problema resta la mente, quando si fa unilaterale: "Era così e non era così". Ci ricorda che in noi vivono più dimensioni. Tutte da accogliere. Quando uno dice: "Lo so benissimo come sono", io replico con certezza: "No, tu non sai come sei". E quando si mostra sicuro e grida a tutti: "Io la penso così", io devo subito correggerlo: "No, tu non lo sai come la pensi. La pensi così e sei al tempo stesso la contraddizione di quel pensiero". Allora ecco la paura. Di che cosa devi aver paura se stai facendo il bozzolo della tua farfalla? Se sei al mondo perché una forza misteriosa ti ha creato, perché dovresti aver paura? La paura è esattamente la reazione alla paura di perderti. Cioè di non poter seguire gli altri personaggi che ti abitano e che ti sei dimenticato di ascoltare. Forse perché non si riesce a trovare l'uscita dal labirinto?

Non devi darti le risposte. Il mio paziente, a un certo punto della sua vita, è entrato in un ruolo che non era più contraddittorio, si è adagiato in quello e addio diavolo… È diventato, come dicevo prima, unilaterale. Un personaggio monolitico ha preso il sopravvento su di lui e gli ha messo paura. Che vita mai può essere la mia se esco con una donna non perché mi piace, ma semplicemente per imporle un'erezione? È inevitabile che arrivi l'impotenza e si lanci l'sos al viagra. Che vita mai può essere se mi lascio catturare dal formalismo di un ambiente e mi lascio privare della voglia di esprimermi? Che vita mai sarebbe la mia se non posso andare dove mi pare, un po' come fa la regina negli scacchi? Cambiare a piacimento direzione. Che vita mai sarebbe se non provassi dentro di me la gioia e l'euforia che arrivano all'improvviso? Se tutto ciò mi è negato, che faccio? Lo cerco da un'altra parte: negli antidepressivi, nel vino, nell'alcol, nelle droghe. I drogati sono fondamentalmente gente scontenta della vita, che si crea - o pensa di crearsi - il paradiso artificiale con la droga. La paura ti concede un vantaggio fondamentale: porta alla luce la parte sconosciuta di te. Quella che più conta nella vita di ciascuno. Potresti chiederti perché debba terrorizzarti qualcosa che non conosci, ma la paura quando assale lo fa a ragione. Chiama a gran voce lo sconosciuto che è in te per dargli un avvertimento chiaro: "Attento, c'è qualcosa che non stai facendo". Proprio come se dicesse al bozzolo: "Ma cosa combini? Mi stai incarcerando senza lasciarmi fare la farfalla". O come se dicesse al bruco: "Ma perché non emetti la bava per trasformarti in bozzolo?". Quindi la paura è semplicemente il contraccolpo di un incontro mancato, di una risorsa ignorata. Un monito, se vuoi violento, a non perdere tempo e a riscoprire se stessi. Questo mio paziente ha smarrito il diavolo, la sua identità. Ma quel ragazzo che non aveva paura di niente, quello che tutti soprannominavano il diavolo, quel ragazzo che prendeva una barchetta, andava in mezzo al mare ed era pronto a tutto, che faceva un viaggio, uno dopo l'altro… era un personaggio che aveva il diritto di esistere assieme agli altri, più di quelli che lui sta ora recitando. Rieccoci alla contraddizione: siamo noi che mettiamo l'uno contro l'altro i due poli che si affacciano alla coscienza: "La lascio o non la lascio?". In realtà ci vuole uno sguardo profondo per dirsi: "Adesso l'adoro da impazzire, mi piace da morire eppure voglio anche lasciarla". SIAMO SEMPRE IN DUE Perché si scatena questo conflitto? Dentro di te ci sono tendenze che rivelano due modi di essere. Quando un paziente mi parla di una contraddizione del tipo: "La lascio o non la lascio mia moglie o la mia compagna?", io gli dico: "Provi a immaginarsi con la sua partner, innamorati persi, sempre di più, e poi provi a immaginare lei che rinuncia alla sua donna, e alla vita che ne segue…".

Tutte e due le istanze hanno diritto di esistere. L'aspetto contraddittorio è una presenza vitale. Nessuno può pretendere che lui decida se vivere o non vivere con lei, quale scelta fare. All'edera nessuno insegna come arrampicarsi su un palazzo di otto piani. Quando si affaccerà la decisione da prendere, irrevocabile o temporanea, arriverà con la stessa naturalezza con cui l'edera si arrampica all'ottavo piano. Per mostrargli i due lati opposti della relazione che sta vivendo: uno in cui si respira un forte desiderio di coinvolgimento e il bisogno di stare insieme, l'altro in cui ciascuno va per la sua strada. La realtà che emerge è lampante: sei contemporaneamente l'uno e l'altro. Il mio paziente si è dimenticato del diavolo, preso com'era dalla voglia di portare al successo il suo lato formale. Ma se perdi il diavolo, amico mio, rimani solo, rimane di te un guscio vuoto. Certo, il diavolo avrebbe preferito l'altro, il ragazzo senza paura a caccia del vento di mare, non certo l'uomo che va a letto con donne che non gli piacciono solo per affermare una potenza virile che tutto sommato non gli interessa più di tanto. Ma entrambi hanno il diritto di esistere. Confesso che sono arrivato a un punto della vita in cui talvolta mi dico: "Oggi faccio questa cosa". Poi mi accorgo che non la faccio o faccio tutt'altro. Un tempo mi rimproveravo per questo, ora non più. Perché si affacciano sempre più cose in netta contraddizione con la mia volontà decisionale. Ho imparato una cosa importante. Lascio esercitare alle condizioni (situazioni) antinomiche il loro potere, le lascio compiere il loro cammino. E noto che mentre prima la contraddizione mi faceva soffrire, oggi mi allarga lo sguardo, mi offre una visione più ampia. Per esempio, se sto per partire per un viaggio e sto facendo la valigia con troppa foga, dentro di me nasce improvviso un certo fastidio, un disagio. Una volta con questo stato d'animo non sarei partito, adesso invece non ci penso, interrompo i preparativi, congelo il disagio e aspetto. Scopro che altre idee arrivano, che nuovi percorsi si affacciano. E alla fine parto. Magari senza sapere quali nuove persone andrò a incontrare. A proposito di scoperte. Ne ho fatta un'altra. Mi trovo molto meglio con le persone che non la pensano come me, anzi, ti dirò di più, io non so come la pensano le persone e non so nemmeno come la penso io. Se io sono un essere a più dimensioni come faccio a darti un parere su una cosa in particolare? Nelle pagine precedenti ho sostenuto che uno psicologo, uno psicoterapeuta, uno psichiatra non deve avere una visione politica, una visione religiosa. Solo una cosa hai il diritto di aspettarti o, se vuoi, pretendere da me: che io sia un buon conoscitore di farfalle, sappia cioè capire, frugando tra le tue immagini, se stai schiacciando la tua. Se la stai combattendo. Nei nostri incontri questo Michele continuava a chiedermi: "Dottore, che cosa devo fare? Cosa devo fare?". Lui, abituato com'era a ricorrere ai farmaci e al viagra. Un

giorno gli ho suggerito questo esercizio: "Durante la giornata, chiuda gli occhi e pensi al diavolo". E lui subito: "Sì, fatto dottore. Lo vedo benissimo". "Ecco, lei pensi solo a quello. Diamogli spazio. Dando spazio al suo diavolo, facciamo spazio all'immagine. Una presenza insostituibile, perché l'immagine è lo spermatozoo dell'anima, la sostanza che feconda l'anima." L'anima, è bene ripeterlo, vive di immagini. Un altro episodio illuminante. Nel messaggio di una signora ho letto queste parole: "Sto nel presente e mi accorgo di avere capacità che non sapevo di avere". È un tema che da altre angolazioni abbiamo già toccato. Ma un'aggiunta va fatta. Stare nel presente vuol dire accettare le contraddizioni che sono in noi e attorno a noi. Stare nel presente non comporta sforzo alcuno. Vuol dire abbandonarsi al presente, che è tutto il tempo che sta dentro di noi. Il presente è un mare senza confini in cui navigano immagini e tante contraddizioni. E tutte possono coesistere, nella tempesta come nella bonaccia. A volte senti qualcuno stupirsi: "Ma guarda, un uomo così speciale, un uomo così altruista, così generoso, ma hai visto come perde la testa per niente, come prende fuoco in un istante…". Ebbene, quell'uomo assalito spesso dall'ira è affascinante proprio per questo. Quando dicevano che i santi avevano un brutto carattere, era in fondo un inno alla contraddizione, il suo riconoscimento. La contraddizione fa stare insieme più cose di segno opposto. Le mette a confronto. Questo è il capolavoro della contraddizione. Se c'è una qualità che mi riconosco è la semplicità. Da qualche anno vedo più chiare le cose dell'anima. E soprattutto so renderle semplici a chi devo spiegarle. Una volta avevo bisogno di più parole. Poi ho iniziato a usare i titoli, che aiutano alla sintesi, e ho cominciato a impiegare nelle mie analisi sempre meno parole. Non è semplice fare i titoli. Molte volte a un mio paziente dico: "Proviamo a fare il titolo di un film". O quando viene uno psicoterapeuta per parlarmi di un caso, dico: "Proviamo a presentarlo con un titolo come si fa per un film". Tre, quattro parole. Insomma, meno parole impieghi, più chiaro rendi l'evento. È il segreto del titolo. Che non vale solo per il cinema. Immaginiamo ora di tradurre in un titolo la vicenda di Michele, le sue contraddizioni, le sue paure. Che cosa ne uscirebbe? Fra i tanti titoli che potremmo buttare lì, sceglierei questo: "Un buon diavolo". In fondo è la storia di Michele. IL VERO AMICO E dell'errore che ha compiuto, con tutte le conseguenze che ne ha sofferto… Qual è stato l'ultimo consiglio che ha dato a Michele per tirarlo fuori dalla sua prigione? Cosa gli ho detto? Questo. Noi viviamo in un'epoca unilaterale, omologata. Ci vuole in divisa, tutti uguali. Ci dice persino come dobbiamo divertirci. E chi si ribella

cade nella sua trappola, perché non fa che proporre lo scambio di uno schema di vita con un altro schema. Che cosa può salvarci? La contraddizione. L'ho ripetuto a Michele: "La contraddizione può salvarci, ma lei deve imparare a guardarla. E mi raccomando… durante la giornata, quando si beve un bicchiere di vino e se ne sta con le sue donne, si ricordi del diavolo. Ha compreso? Si ricordi del diavolo". "Tutto qua?" "Tutto qua!" Un'immagine, amico mio, non è meno potente di un ragionamento. Anzi. Qualche giorno dopo Michele mi ha telefonato e mi ha detto: "Dottore, non ho più paura di volare. Non ho più paura di andare in barca. E con le donne ci esco solo se una mi piace". Insomma, è riuscito a spingerlo fuori dal tunnel. Lo ha convinto a uscirne. Si direbbe, per restare in linea con il suo pensiero di studioso, che ci è riuscito applicando la più semplice delle terapie. Proprio così. Ce l'ha fatta perché si è ricordato dell'immagine che aveva escluso dalla sua vita: il diavolo. Un diavolo sui generis. Probabilmente dandogli del diavolo volevano rappresentare il suo modo di essere pratico, veloce, spregiudicato… Che diavolo di un uomo, imprevedibile, spontaneo. Come fai a ripudiare il diavolo? Se lo cacci, cacci te stesso. E irrompe la paura. Ricordo una signora che si metteva i tacchi molto alti. Soffriva di paure e vertigini, eppure portava tacchi molto alti. Una contraddizione. È la prima cosa che ho notato quando è venuta da me. Ecco il mio lavoro. Uno potrebbe dire: lei aveva paura di cadere dal marciapiede, aveva paura di avvicinarsi ai tombini e di caderci dentro. No, non regge questa spiegazione. Se hai paura di cadere perché ti metti i tacchi così alti, altissimi? Interessante, non ti pare? La chiave è un'altra. Sono le paure a chiamarci. Perché siamo stati noi a cercarle, siamo noi che vogliamo trovarle. Queste paure sono tipiche delle persone che sono diventate troppo cerebrali, artificiali, finte. Come le donne troppo seduttive, che di fatto non hanno il senso della realtà, vivono fuori di sé, tra le nuvole. Non accettano gli eventi come sono, ma recitano una femminilità che diventa solo mentale e quindi irreale. Sono tutte donne piene di paure perché fingono, si truccano da seduttrici. Ma in realtà la seduzione ha ben altre origini. Non merita più di quattro tocchi al volto. Quindi dovrebbe prescindere dal trucco? Sì, cioè… vale il trucco che si vede e non si vede. Se è molto vistoso nasconde la paura di non piacere. Allora, a questa signora che camminava sui… trampoli io, per restare nel suo mondo e nei suoi desideri, ho suggerito di immaginarsi protagonista di una danza sospesa nell'aria, lei come una nuvola… I tacchi alti, l'incedere flessuoso, la danza… Questo genere di seduzione vive nell'aria, fuori dal reale, sospesa nel nulla… Ecco i tacchi alti: stare sospesi in aria simboleggia il non voler scendere a

terra. I tacchi alti sono l'opposto dei piedi per terra, ti fanno inciampare a ogni passo. Del resto, se perdi la naturalezza nelle cose dell'amore rischi di sfiorire. Non dimentichiamo che dentro le nostre parole, dentro i nostri gesti, dentro i nostri messaggi, si agita un mondo intero. Un mondo che si manifesta in tanti modi di essere. Però tutti gli esseri umani, proprio tutti, hanno una cosa che li accomuna: una speciale, intima passione. Quando la perdono, bussa subito la paura di vivere. In ogni uomo, in ogni donna… Facendo questo lavoro ho collezionato, diciamo, una quantità incredibile di immagini, di manie, di follie… Conoscevo una signora che aveva cinquecento paia di scarpe, poi ha smesso di comprarle e ha incominciato a soffrire di attacchi di panico. Perché ha soffocato la sua passione di collezionista? Sì. Ha commesso un errore. Perché bisogna custodire i nostri disturbi, i nostri disagi, le nostre follie. Ecco perché bisogna avere cura del proprio diavolo. Quel diavolo magari non piacerà alla gente… però è una parte di te. Non ignorare le contraddizioni. Aprono orizzonti sempre nuovi alla coscienza, le permettono di vedere altri spazi, di ricevere più energie. Una donna si confessava con queste parole: "Sa, mi dicono di smetterla di fare la bambina, me lo ripetono… smettila di fare la bambina! Tutti mi dicono che sono infantile, ma non è vero". E aveva ragione lei. Se le dai uno sguardo superficiale ti appare a prima vista infantile, ma nei momenti che contano, di fronte ai pericoli, davanti a un problema urgente, so che chiamano lei, corrono tutti da lei. Quindi non deve preoccuparsi né smettere di fare la bambina, bensì prendere atto che c'è sì la bambina, ma accanto a una donna molto saggia. Senza l'una non ci sarebbe l'altra. Ecco perché ho imparato a non correggere più i conti della vita, non correggo più me stesso e tantomeno correggo gli altri. Cerco di essere buon amico di tutte le paure. Dopo gli esempi che ha portato e le storie vere che ha messo sotto la sua lente, si direbbe che il panico e la paura, nelle loro molteplici versioni, escano decisamente a testa alta. Assolti per non aver commesso il fatto. Se siamo noi a creare la paura, perché dovremmo scacciarla? Viene dall'anima, è una cosa sconosciuta ma diretta verso di noi. Noi facciamo tutta una vita a comando, conduciamo un'esistenza rigidamente ingabbiata. Ci vediamo alle cinque, beviamo un caffè, ci scambiamo un complimento… come sei carina, come sei elegante… Siamo sempre attenti a quello che diciamo, siamo attenti in macchina o per strada, perché ci potrebbe accadere un incidente. Studiamo i vestiti da indossare: piacerò o non piacerò? Siamo li a governarci su tutto, e poi arriva un sentimento sconosciuto: un innamoramento, una frase che non volevi dire e ti è sfuggita. Poi vieni assalito dalle paure. Vengono da un territorio imprevisto. Sono vere, sono autentiche; non barano. Seguiamo l'esempio di Michele. Ascoltiamole. In fondo le abbiamo chiamate noi. Alla fine saremo loro riconoscenti.

14 Le virtù Se riconosci il male che è in te all'istante ti ritrovi migliore. È FAMA MERITATA? Lei ha "rivalutato" i vizi come invidia, gelosia, avarizia… Che ne direbbe di tentare un'operazione analoga ma di segno opposto nei confronti di virtù in auge come generosità, altruismo, disponibilità, solidarietà, cui magari aggiungere anche la capacità di perdonare? Per farci capire se la fama di cui godono è tutta meritata. E soprattutto come vanno vissute, evitando abbagli. Non possiamo essere sempre altruisti e non possiamo essere sempre generosi. Non possiamo essere sempre buoni. L'uomo che esplora il male che lo abita è forse la grande scommessa dei prossimi anni. Quando ascolto la gente che viene da me o che mi sta intorno, avverto che tutti sono convinti di essere buoni, ritengono che il male non li riguardi, che sia estraneo a loro. Nessuno è convinto di essere invidioso, geloso, duro, aggressivo, arido, avido. Attaccato alle cose. Vede il male sempre fuori di sé, come qualcosa di alieno, che sta oltre i confini della sua essenza. Va detto che, come in natura esistono piante carnivore, piante ombrose, piante diurne eccetera, così esistono persone che più di altre incarnano il male e non è possibile cambiarne la natura. Come ho già spiegato, quando si dice che qualcuno ha ucciso per gelosia, io rispondo: no, ha ucciso perché è un violento.» La gelosia è stata un interruttore, avrebbe ucciso comunque. La prima domanda da porsi è qual è la funzione del male. Cominciamo col chiederci cosa sia il male e perché c'è il male. Se obbligo me stesso a essere altruista, generoso, a volerti bene in ogni circostanza, ad amarti sempre, terrò a bada il male? Lo eliminerò oppure lo alimenterò? Perché siamo altruisti, perché cerchiamo la bontà, tu lo sai? La mia risposta è semplice. Perché crediamo non di aiutare qualcuno, ma di domare i nostri demoni. Un bene naturale, cioè spontaneo, è il bene che mi piace, che più mi convince. Un bene innaturale è il bene che rifiuto. Costringersi comunque a farlo lo trovo il peggiore dei mali. Però ci può essere l'altruista per vocazione, colui che agisce appunto con naturalezza… Per essere un vero altruista, a mio parere l'uomo deve agire con un altruismo spontaneo, che sgorghi in un lampo dalla sua anima. Ripeto, il vero altruismo non si aggrappa a un fine, come si nota invece nell'azione di molti missionari, che sono buoni con te perché si aspettano di aggiungere un'altra conversione al loro apostolato. No! L'obbligo alla generosità è sempre figlio della malvagità. Non c'è nulla di più detestabile. Krishnamurti diceva che non c'è persona peggiore di chi impone a se stesso di essere buono. Perché agendo così continua a vedere sempre e soltanto un

lato di sé. Come fanno molti uomini che sono patetici quando si sfogano dicendo: "Le ho fatto mille regali, le ho comprato la macchina, eppure mi ha lasciato… Sono stato così generoso, l'ho aiutata persino quando era in difficoltà con suo padre…". Quel lamento rivela che non è stato un aiuto spontaneo. Spontaneo vuol dire che è venuto dall'animo senza averlo sollecitato. Mi spiego. La parola "spontaneità" è la parola più difficile che esista, perché vuol dire che dentro di te qualcosa sta sorgendo, qualcosa di cui tu francamente non sei l'artefice né il protagonista. Quindi si capovolge tutta quanta la prospettiva. Noi pensiamo che l'essere buoni sia figlio di un protagonismo solidale; mi spingo oltre, figlio di un comandamento. Ma nell'anima la parola "devo" è una parola da eliminare, perché crea danni incalcolabili. Osserva i bambini. Ci sono bambini che sono generosi, ti regalano il loro gioco e un minuto dopo, non vogliono che ti avvicini alle loro cose. Una spontaneità istintiva. Perfetta. Altrimenti diventiamo come gli animali domestici, addomesticati; il che vuol dire che non sono più loro. Diciamo che una buona etica deve basarsi sulla coesistenza dei due poli, da un lato l'impetuosità del carattere e dall'altro la dolcezza, così la generosità e di contro l'avidità. C'è una bellissima parabola ebraica che dice: "Si trovano in due nel deserto con un'unica borraccia. Solo uno può salvarsi. Se l'acqua viene divisa per due, muoiono entrambi. Allora domandano al saggio che cosa bisogna fare in questi casi e il saggio chiede di rimando: 'Di chi è la borraccia?'". Quindi, praticamente, sta dicendo: "Bevi l'acqua visto che è tua e vai avanti". Noi conosciamo poco della vita. Mettiamo all'indice l'egoismo perché ci sembra che non sia una virtù. Ma "egoismo" significa molto più di quello che intendiamo di solito, come un atteggiamento incentrato sull'io. L'egoismo è l'affermazione di un'individualità che contieni, che percorri dentro di te. Rappresenta il divino che scorre in te. Tu lo devi in qualche modo proteggere da tutto e da tutti. È una visione differente… Un prete direbbe che è meglio morire tutti e due che salvarsi da solo. Ma non è una visione pratica. Una buona visione è sempre pratica. Io sono contrario al volontariato, se devo essere sincero. Decisamente contrario. Perché mi sembra un modo facile per soddisfare il proprio ego: "Guarda come sono generoso, io che aiuto i terremotati". L'azione spontanea è un'azione nitida, che serve a svolgere una funzione utile in sé, non per appagare il tuo ego e farti sentire migliore. C'è da dire che le religioni riconoscono quest'aspetto: fai la carità e non dirlo a nessuno, fai la carità e dimenticalo. Insomma, non devi fare la carità perché essa ti renda migliore… fai la carità e basta! In quanto spinto da un impulso irrefrenabile, che viene dal cuore e non è condizionato né dal tuo passato, né da un forte bisogno di riscatto o di perdono. Allora sì che si entra in un'altra dimensione. Mi chiedo se certe azioni di volontariato non sarebbero molto più sane e molto più profonde se spingessero ciascuno a occuparsi della propria interiorità. Se noi siamo gocce del mare e dell'universo, occuparsi della propria goccia, riconoscerla, significa - come diceva Lao Tze -cambiare il mare.

Giudico molto più importante ammettere le tendenze ostili che stanno dentro di me. Riconoscere che posso provare un grande odio, confessarlo a se stessi. Altrimenti cado un'altra volta nell'illusione. E l'illusione è molto pericolosa, perché ci porta a scegliere. Un uomo non nasce per essere buono. Un uomo nasce per svolgere la sua funzione, non per essere buono. Un esempio. Della concezione islamica tutti parlano spesso a sproposito. Il Dio di Maometto non è un Dio che viene per cambiare il mondo e renderlo migliore. Lo dice anche Citati, è un Dio che si presenta al mondo per portare la presenza dell'uomo nel mondo così com'è. Riconoscere in questo mondo tutto come un evento è consacrare il mondo. Tutto è sacro nel mondo, la pace e la guerra, la gioia e il dolore, la vittoria e la sconfitta. La voce del divino è in ogni atto… Nella ricerca dell'assoluto nessuna religione, nessuna, si pone per esempio il problema se mangiare o meno gli animali. In certi periodi non li mangiano, in altri li sacrificano. Non si pongono il problema come fanno i vegetariani: "Gli animali non si mangiano perché io non voglio vederli soffrire". Ne fanno questione di rispetto nei confronti dell'animale in termini assoluti. In certi momenti è meglio che l'uomo non mangi la carne per non… diventare troppo terrestre. Il cuore della faccenda non è se sia un bene o un male. La generosità non è considerata una caratteristica inalterabile. Il compito dell'uomo non è migliorare ma completarsi. Quindi riconoscere anche i lati distruttivi, aggressivi. Ci troviamo dunque in balia del caso o se vogliamo divisi fra due tentazioni, il bene e il male. Si direbbe che non siamo per nulla arbitri di noi stessi, come del resto ha lasciato capire più volte… Se qualcuno dovesse chiedermi: "Come potremmo evitare l'avvento di un nuovo nazismo? Oppure che s'instauri un'altra dittatura comunista?", la mia risposta sarebbe semplice: riconoscendo che ognuno di noi è sempre l'uno e l'altro. È la terra e il cielo, il buio e la luce, la brutalità cieca e la coscienza, la rabbia e la dolcezza. Non la dolcezza senza la rabbia. Non la generosità senza l'egoismo. Altrimenti si diventa attori. Come si legge purtroppo sul volto di molti sacerdoti: un bene recitato. Io devo rispettare chi sono. Quello che in certi momenti prova per te solo ostilità e quello che in altri momenti ti copre di tenerezza. Nella stessa misura. Si perde un sacco di tempo a far la pace, ma il Raffaele Morelli che ha litigato con te alle cinque non è quello delle sei, quindi non c'è bisogno di fare la pace: abbiamo litigato e adesso siamo altri. È colpa nostra se facciamo durare litigi e rancori per ore, giorni, mesi… Teniamo presente che quello che non dimentichiamo diventa inconscio e il male inconscio è pericoloso. Guarda, Luciano, non c'è stata una dittatura nella storia che non pensasse di agire per il bene del suo popolo. Non c'è stata. Non c'è stata una religione che non abbia commesso atrocità pensando di compiere del bene. Non possiamo certo considerare tutti pazzi quelli che mandavano la gente al rogo. Per noi oggi è facile dire che sbagliavano. Ma quelle sentenze orribili nascevano dalla convinzione che solo così si sarebbe potuto estirpare dal mondo il male che abitava quelle menti giudicate malate. Per aiutarle, crudeltà delle crudeltà, a liberarsene.

Ricordate i processi e le condanne nei collegi delle Maddalene? E la pedofilia che dilaga ai giorni nostri? Stupisce che proprio nei luoghi dove si afferma il "regno dei cieli" la presenza di questo male sia tanto diffusa. La pedofilia dov'è che viene perpetrata? Nelle famiglie e negli istituti religiosi. Lì si manifesta con frequenza sconcertante. Adesso con Internet si diffonde anche su altri piani: invade i Paesi meno sviluppati o quelli dove vi sono meno controlli. Comunque sia, dove si afferma il bene non è che il male sparisca, non è che io divento migliore perché faccio più carità. Sarebbe molto semplice se fosse così. In realtà ciò che noi ripudiamo diventa inconscio e da lì acquisisce forza, potenza, agisce in modo subdolo. Si dice che il diavolo sia subdolo. LA LEZIONE DI KATYŃ Il male si impadronisce di noi. C'è un segno premonitore che può metterci in guardia? Com'è possibile che una brava persona all'improvviso si trasforma e compie atti violenti? Come lo spieghi? Perché evidentemente ha sepolto nella propria interiorità l'altra faccia di sé. Ecco l'errore. A volte si prende una strada per non incontrare chi ti mette paura. Come dire, faccio il prete così i pensieri pedofili non verranno più a trovarmi. E no. Oppure mi dedico al volontariato perché così metto a posto la coscienza con il mio lato buono. Il nazismo non pensava forse di compiere un atto salutare per il proprio popolo? Noi oggi guardiamo con occhi stupiti le immani atrocità che ci circondano. Nel bene e nel male l'uomo non si pone limiti. Agisce con identico slancio in entrambe le direzioni. La storia di Katyń ne è una dimostrazione chiara. Una storia mostruosa. Prende il "via" nel settembre del 1939, quando i nazisti invadono la Polonia e bombardano a tappeto Varsavia. Non corrono rischi perché esattamente ventisette giorni prima hanno firmato un patto di non aggressione con l'URSS, spartendosi così non solo la Polonia ma in prospettiva anche l'Europa: l'Est ai sovietici, l'Ovest ai nazisti. In questa fase della guerra si scoprono varianti del male inedite. I polacchi stretti tra due fuochi che fanno? Scappano dai nazisti che avanzano e finiscono fra le braccia dei russi che sono già padroni della zona orientale della Polonia. Pensano di essere in salvo. Si sentono dire dai russi: "Anche se siamo alleati dei tedeschi, voi siete nostri fratelli". I polacchi si illudono. Stalin ha già trasmesso ordini che non danno speranza. Il Paese è allo sbando, Varsavia una montagna di rovine. Dopo pochi mesi scatta il disegno di Stalin: cancellare la forza politica e militare polacca per far sì che la Polonia diventi in futuro uno Stato satellite dell'URSS. Siamo nel 1940. Nella foresta di Katyń comincia la strage. Ufficiali, soldati, civili vengono assassinati con un colpo alla nuca. Duemila, quattromila… alla fine le vittime saranno circa ventiduemila. La strada del male è tracciata e nulla cambia quando Hitler, nel giugno del 1941, tradisce il patto e invade l'URSS. Ora i polacchi si trovano un solo vero

nemico, la Germania nazista, ma l'Unione Sovietica è tutt'altro che un alleato o l'atteso difensore. I russi proseguono nel 1941 il loro piano di annientamento, accusando addirittura i nazisti di esserne gli autori dell'eccidio. Poi i russi e l'Occidente vincono la guerra, e la verità tarderà a farsi strada. Neppure dopo la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, il governo di Mosca riconoscerà il massacro. Solo nel 1990, cinquant'anni dopo i fatti, Boris Eltsin ammette per la prima volta le responsabilità sovietiche nel massacro. Perché ho ricordato l'eccidio di Katyń? A mio avviso quel dramma presenta un intreccio unico fra il male e l'arte di compierlo. L'intelligenza, oserei dire la ragione, al servizio dell'orrore. Ciò che può esserci di male in un animo umano, si è ricreato e si è fatto attivo nel corpo e nella mente di una nazione. Ecco chi siamo, instancabili esploratori del vivere, spinti dalla nostra natura a varcare le Colonne d'Ercole del bene e del male. Pronti a dare tutto all'altro, capaci di togliergli tutto. Misteriosamente unici. In natura sembrerebbe non esistere il male come quello di cui è capace l'uomo. Sì, gli animali uccidono, ma lo fanno per nutrirsi. Non compiono scempi. Quando uccidono, svolgono una funzione naturale, cosmica, ben precisa. C'è però uno studio recente sui babbuini che fa riflettere. Ebbene, si è accertato che alcuni babbuini si mimetizzano ed entrano nel territorio di altri gruppi di babbuini. Si infiltrano e senza farsi scoprire ammazzano i capi di quelle popolazioni, uccidono i piccoli e li mangiano. Risparmiano solo le femmine, perché possono essere utili per procreare. Che dire… Parrebbe che il male sia connaturato agli esseri del pianeta, a tutte le specie, umane e non umane. Jung del resto analizza molto bene la questione del bene e del male. Dice che Dio non ci mette niente a distruggere e a uccidere. Si arrabbia e scatena il diluvio universale. È un Dio per cui la vendetta occupa un ruolo importante. Se davvero l'uomo è una sua creatura, non può che essere abitato da impulsi sia distruttivi che creativi. I DUE VOLTI Si soffermi sul concetto dei due volti, che contraddistinguono i poli opposti, arbitri - se vogliamo - del nostro sentire e del nostro agire. Come uscirne quando entrano in conflitto fra loro? Lasciamo fare all'impulso come avviene nell'animale o chiamiamo in soccorso la ragione? Forse dovremmo dire che è il disegno il vero male. Quando io cerco di essere buono a comando, eseguo un disegno, quando voglio fare del bene a comando, rispondo a un disegno. Lo stesso si può dire se faccio la carità per sentirmi migliore. C'è sempre un disegno tracciato dentro di noi. Tutt'altra cosa nell'animale. La bontà e l'aggressività si manifestano spontaneamente, per quanto possiamo saperne. Tornando a noi, dobbiamo smetterla di dire che siamo buoni. Dobbiamo proprio smetterla. Perché questo fa più male di quello che pensiamo.

I nazisti erano convinti di fare il bene per se stessi e per l'umanità. Non pensavano minimamente di compiere azioni malvagie. Liberare il mondo dagli ebrei voleva dire innalzarlo. E per i comunisti era… Senti quest'altra storia. Siamo nel 1930 e due coniugi che abitano in Toscana corrono nell'URSS per aderire, da comunisti convinti, al loro modello di solidarietà sociale. Trascorsi alcuni mesi in quel rigido mondo, il marito un giorno si sente in dovere di dire ai dirigenti politici della fabbrica in cui ha trovato lavoro che non è d'accordo su alcune cose. Lo arrestano e la moglie non lo vede più per un centinaio di giorni. Ottenuto il permesso di incontrarlo, la donna va a trovarlo in carcere. Al termine di un breve colloquio, il marito consegna alla moglie una giacca che nasconde un messaggio cucito dentro la tasca. Tornata a casa la donna scopre il biglietto. Ci sono scritte queste parole: "Prendi le bambine e scappa. Subito". Lei, con i pochi soldi che ha, fugge via con le bambine. Lui viene fucilato. Rientrata in Italia al termine di indicibili peripezie, si ritrova reduce dalla patria comunista in mezzo ai fascisti. Pensa che situazione! Tempo fa i nipoti sono andati nei luoghi dove aveva lavorato e vissuto il nonno, alla ricerca di documenti e testimonianze per capire ciò che era accaduto e perché era accaduto. Niente. Se non la verità più scontata: chi a quei tempi si opponeva, anche con un sospiro, veniva fatto fuori. Conclusione? Quando si è monolitici nel pensiero e nell'azione, il disastro è inevitabile. Certo, dovremmo fare nostra la tesi di Rushdie. Lui sostiene che l'anima è contraddittoria e ci invita a suonare l'allarme quando dentro di noi non avvertiamo più segnali contrastanti, ma ci sentiamo forti di un'unica certezza. Perché è in questo vuoto, in questo mutismo dell'anima, che si cova il male. LE CONTRADDIZIONI ILLUMINANO D'accordo, la vita va trascorsa in compagnia delle nostre contraddizioni. Sono loro a farci luce. Se ho ben capito c'è però un ostacolo da superare o -se vogliamo un errore da evitare. Quello che ci ha più volte segnalato. Guai, dice lei, a mettere al bando i cattivi pensieri. È il modo per farli vincere. Può offrirci un consiglio pratico? Per esempio, una coppia che non litiga mai non è una coppia in buona salute. Perché ha rinunciato a vivere le contraddizioni. Litigando il rapporto si fortifica, perché nei contrasti prendiamo le distanze dal partner, riveliamo la nostra identità. Chi litiga mette in discussione il personaggio che è abituato a vedere. Quindi la litigata ha una precisa funzione. Anche quando sembra futile, di fatto non lo è. No, la litigata ha una funzione più profonda di quella che pensi tu. Vuoi conoscere il vero motivo della lite? Stai litigando perché ciascuno di voi intende riappropriarsi di un proprio spazio per rendere ancora più forte il rapporto. Quindi è tutto diverso da come la vediamo noi. Infatti, le coppie che saltano sono quelle che litigano poco. Litigare rinforza la coppia. L'aggressività svolge una sua funzione.

SI PUÒ VIVERE SENZA IL MALE? L'illusione è un bene? L'illusione è un male gravissimo. Che cosa ha creato i mostri? L'illusione. Esempi? L'illusione del nazismo nel perseguire la razza pura, l'illusione del comunismo nell'imporre il perfetto Stato sociale. Non si rendevano neanche conto dell'infelicità che creavano. Erano convinti che il bene supremo fosse quello del proprio popolo. Non è possibile cacciar via tutto il male dal mondo, perché il male è dentro di te; ma lo devi riconoscere. Perché se riconosco che in me sta facendosi strada la voglia di rubare, allora mi dico: "Guarda, dentro di me si affaccia il demone". Così, riconoscendolo, riesco non solo a contenerlo ma anche a essere più conciliante e indulgente con gli altri. Cambia tutta la partita. L'alternativa? Il rischio è di gridare: "A chiunque ruba taglio la mano", l'antica legge del taglione… Come da noi si vorrebbe fare ora con i genitali del pedofilo… Poi c'è il fenomeno della percezione individuale, di ciò che senti, che determina talvolta azioni imprevedibili. Per esempio, una madre che ha una psicosi post partum può uccidere. Ma uccide perché è cattiva o perché è in uno stato di totale disperazione, dolore, disagio, tali da farle percepire il figlio come un nemico, un corpo ostile che va annientato? Come se io avessi una vescicola col pus. Cercherei di inciderla e di toglierla. A volte un figlio può essere vissuto in un certo modo. Questi accadimenti ci allontanano dalla visione semplificata che ci siamo fatti del mondo. Il torrente di montagna è impetuoso per natura, non diremmo mai che è cattivo. Un fiume pieno d'acqua può straripare e travolgere tutto, ma non diremmo mai che è cattivo. Come di un fiume asciutto non pensiamo che sia buono. Queste forze vanno riconosciute, vanno comprese. Accolte per quelle che sono. Se uno mi chiedesse se è accettabile l'ipotesi di Hannah Arendt sul male, secondo cui in realtà il male non esiste nella forma in cui lo pensiamo, io citerei i grandi intellettuali dell'ebraismo che un giorno si interrogarono ponendosi una domanda terribile, ma al tempo stesso di agghiacciante semplicità: "Come è stato possibile che Dio, ammesso che esista, si sia dimenticato di noi al punto tale da permettere ciò che è accaduto? Come ha potuto il signore del mondo accettare una tragedia simile? Come ha potuto?". In molti hanno risposto così: "Dio è talmente lontano dall'uomo che non entra nelle cose umane". Una resa. Forse dobbiamo rivolgerci ad altri valori per accostarci all'inconoscibile, all'ineffabile. Può aiutarci Jung. Che dice l'insigne studioso della mente e dell'anima? Sottolinea il grande errore. E cioè che noi vediamo il mondo, la creazione, la bellezza della vita dimenticando e ignorando l'altro lato. Il lato oscuro di noi. Ma se c'è un polo, c'è anche l'altro. CRUDELI PERCHÉ BANALI Siamo dunque parte del male. Nutriti dal male nella migliore delle ipotesi al pari del bene, che parte sempre perdente nel grande duello. Perché?

Hannah Arendt, che ha studiato come nessun altro i criminali nazisti, si è resa conto che non erano cattivi, non erano malvagi. Erano molto peggio. Erano banali, gente del tutto ordinaria, "normale". Il che la porta a concludere che il male scaturisce spesso dalle menti banali, schematiche. Nessuno di noi si sognerebbe mai di dire che gli abitanti della tal regione d'Italia sono brutti, cattivi, imbecilli, incapaci. Però molti di noi pensano sinceramente che gli extracomunitari siano dei mostri. Molti di noi pensano molte cose malvagie. La banalità del male trova conferma nella vicenda di Olindo e Rosa Bazzi. Sono due persone veramente banali, chiuse in un loro mondo ristretto. Attorno a sé vedono soltanto nemici. Se tu ti chiudi nella tua stanza e ti crei una quiete finta e artificiale, tutto ciò che la disturba diventa un nemico da abbattere. Il bambino che giocava gridando, i vicini che schiamazzavano; quel baccano disturbava il modello di vita che i due si erano costruiti nella loro mente. Da qui la reazione, e la banalità del male. Dunque il male spesso non è qualcosa di terrificante, ma nasce dal fatto che in certi momenti la coscienza si oscura, si obnubila accecata da certezze che tali non sono. Quando un uomo uccide come è successo a Katyń e spara alla testa di migliaia di persone, compie un gesto che nasce dalla sua discesa nella banalità. Il boia non si pone mai domande. Non si chiede: "Ma io, che cosa sto facendo?". Agisce meccanicamente. Da persona banale. Mi spingo oltre. Ti dico adesso una cosa che può spaventarti. Sappi che chiunque si fosse trovato a Katyń avrebbe agito allo stesso modo. Se uno di noi fosse stato lì, avrebbe agito allo stesso modo del peggiore nazista. Il motivo? Perché era calato in un sistema dove le cose non erano più contraddittorie. Erano come avevano deciso che fossero. Oggi e domani. Come spiegheresti altrimenti l'eccidio di Cefalonia? I tedeschi dicono agli italiani di arrendersi e gli italiani rifiutano. Sono in dodicimila e vengono tutti fucilati, perché non si sono arresi, a causa di un atto di orgoglio. Sono morte dodicimila persone. Una cosa tremenda. La banalità vive un'ora storica grazie alla mente unilaterale dei tedeschi. La mentalità è decisiva nell'assunzione del bene o del male e, quindi, riconoscere il male in noi è un atto di grande responsabilità. Apre nuovi destini: non sei buono perché vai a fare del volontariato, né per questo diventerai migliore. Sei buono se ti rendi conto che puoi commettere in qualsiasi momento qualsiasi atto. Adesso ti faccio un ragionamento che ti sconvolgerà. Tua figlia ha il cinquanta per cento del tuo patrimonio genetico, mi segui? I tuoi figli hanno metà del tuo patrimonio genetico. Metà della mamma e metà del papà. Tu hai metà del patrimonio genetico di tuo padre, giusto? Ti suona? Ci sei? Tuo padre ha la metà del patrimonio genetico di tuo nonno. I giovani della Germania d'oggi hanno in alta percentuale un quarto del patrimonio nazista. La stessa cosa vale per te. Tu dici: "Io non sono mica fascista". Ma una parte importante del tuo patrimonio genetico è fascista. Attenzione, tu lo hai mangiato il fascismo, lo hai assorbito, è diventato carne della tua carne. Gene fra i tuoi geni. Detta così fa impressione. Noi ci portiamo dentro le guerre dei padri dei nostri padri. Cioè i russi di Katyń hanno trasmesso alle nuove generazioni tutto

questo. Se ha potuto farlo quella generazione, lo possono fare anche quelle che verranno. Bisogna averlo ben chiaro, questo. Lo dice Jung. La belva, il lupo, è pronto in ogni momento a comparire tra gli agnelli. Per questo il riconoscimento del lupo è un atto fondamentale. Quindi smetti di dire che sei buono e riconosci ciò che c'è dentro di te. E se vuoi un consiglio che vale per tutti: vigila. SEDUTI SU UN VULCANO Le sue conclusioni impressionano. Si direbbe che noi viviamo in compagnia di un mostro, o meglio di due entità contrapposte che si contendono la guida della nostra esistenza. Due forze che di fatto rappresentano il bene e il male. Lei ha chiamato in causa in più occasioni questo duplice volto dell'animo e della mente parlando del "lato oscuro", il nostro lato oscuro. La parte più nascosta, dove risiede appunto anche la nostra seconda faccia, la parte impresentabile o - per essere più espliciti - il male. Qui c'è proprio bisogno del suo aiuto perché si possa afferrarne pienamente il senso e prendere, se necessario, le contromisure. Quando parliamo del lato oscuro, siamo condizionati dall'idea di peccato che ci ha trasmesso la tradizione cattolica. Identifichiamo nel lato oscuro la sede e la fonte dei nostri peccati. Quelli che non raccontiamo a nessuno. Il lato oscuro a prima vista sarebbe questo. In realtà è tutt'altro. È il pulsare di un'energia ancestrale, antica, attuale… che continua a creare la vita e a eliminare ciò che non è più funzionale alla vita stessa. Noi siamo seduti su un vulcano, un pulsare incessante, potremmo chiamarlo la fucina delle nostre azioni, cioè in tutto e per tutto il nostro lato oscuro. La sua carta d'identità? Il lato oscuro non si valuta col metro dell'etica. È un valore naturale. Sia chiaro, non è etico nel senso in cui noi intendiamo l'etica. Che ci vieta di seguire il lato oscuro perché ci renderebbe simili agli animali. Attenti, però, non dobbiamo mai ripudiare il nostro lato oscuro, dobbiamo averlo sempre presente perché, anche se ci fa peccare, esso è il centro della vita. È come dire: a me la pianta piace dalle radici in su. Ma la pianta non è solo ciò che vedi, il tronco, i rami, le foglie. Quello che vedi sono in fondo le radici visibili, ma le vere radici sono sepolte nella terra, tra i vermi, tra lo sterco, nel buio. Lì è la pianta, lì vive la pianta… questo è il lato oscuro. Il lato oscuro sono le radici.

15 Il senza tempo La morte? Se danzi con la vita, afferri l'eterno che sta in te. LA FINESTRA DELL'ANIMA D'accordo, la nostra funzione, il nostro traguardo è l'uomo. Ma questo immane progetto, se ho ben afferrato il suo pensiero, non avrà mai una conclusione perché la compiutezza dell'uomo sta nel suo divenire. Generazioni e generazioni dopo di noi reciteranno la stessa parte e compiranno lo stesso passo di addio al mondo. La vita, la morte, l'eternità. Con quale spirito si deve andare incontro alla notte o all'alba perenni? Quando di notte sto per prendere sonno mi accorgo che scendo in un abisso, in un buio così profondo, come dice Bachelard, di cui non vedo i confini, il significato. In questo buio profondo fioriscono immagini che noi chiamiamo sogni. Miliardi di immagini che vediamo ogni notte. Ne cogliamo soltanto frammenti. Compreso il frammento di un sogno. Cosa ci rivela più di tutto il sogno? Che nel cervello abita il senza tempo. I sogni non vivono nel tempo. Ma se i sogni non vivono nel tempo e appartengono al senza tempo, significa che sono tutt'uno con l'eterno. Cos'è l'eterno? Non è una realtà che si può inquadrare con slogan tipo: "Finirai all'inferno e starai per un tempo infinito a crogiolarti nel fuoco" oppure: "Andrai in paradiso per un tempo infinito". No, l'eternità è un'altra dimensione del tempo, un altro essere. Quindi tutte le notti noi apriamo una finestra con vista su un altro essere che, bada bene, è già in noi. Non sappiamo cos'è, ma divide con noi tutte le notti quando andiamo a dormire e a riposarci. Quindi dentro di noi c'è l'immagine del "senza tempo". Ci sono altre immagini del "senza tempo" che il cervello ci rivela e ci trasmette per farcele vivere. Una, lo abbiamo già visto, è per esempio l'orgasmo. Come potremmo definire l'orgasmo? Con l'orgasmo si entra in una dimensione speciale, senza tempo, difficile da spiegare. È un fenomeno in cui il lampo della durata e l'intensità del piacere che si sprigiona ci portano in un'altra galassia. Un mondo dove sembra che il tempo non finisca mai. Eppure dura un attimo. L'attimo in cui scorre il seme che crea la vita. Ma sogno e orgasmo non appartengono al tempo. Quindi dovremmo dire che in noi esistono dimensioni estranee al tempo. Sì, viviamo nel tempo, ragioniamo nel tempo, ci muoviamo nel tempo, ci diamo gli appuntamenti nel tempo, ma la nostra natura ci fa vivere contemporaneamente anche fuori dal tempo. Il "senza tempo" abita in noi. Quando andiamo a dormire, quando suoniamo, quando facciamo l'amore, quando fantastichiamo, quando improvvisamente usciamo

dai nostri confini, come accade ai bambini nei loro giochi. Poi quando pensiamo alla morte… L'ESPATRIO DI NOTTE Si direbbe che la vita trascorra in nostra assenza. Visto che nei momenti più coinvolgenti una parte di noi esce dalla dimensione quotidiana per entrare in un altro mondo. Siamo in un presente che non è quello conosciuto. È un presente esteso, sconfinato che si è soliti definire con la più temeraria delle parole: infinito. Guardiamoci dentro. La coscienza si fa larga, immensa, e in essa è fatale smarrirsi. Di notte siamo a tal punto persi da non sapere neanche più chi siamo. Espatriamo tutte le notti. E l'ultimo espatrio potrebbe essere proprio la morte. Non l'espatriare come pensiamo noi verso mondi dove saremo puniti o premiati, ma l'espatriare verso gli stessi mondi da cui siamo partiti. Dove ha preso vita il seme che eravamo, con i miliardi di trasformazioni che ne sono seguite, anche a nostra insaputa. Torneremo probabilmente a quella terra del seme, che forse rigenererà il corpo che siamo… Dando il "la" a un'evoluzione scandita da un susseguirsi di progressi naturali: sì, perché di vita in vita migliorerà sempre più la tendenza che ci caratterizza. Parlavamo di espatrio. Quante volte sono espatriato. Tante. E non riesco neppure a immaginare dove. Talvolta mi pongo una domanda: se io posso espatriare tutte le notti, perché non posso accostare al sogno la morte che sopraggiungerà? Certo, la morte detiene uno spazio più ampio, comprende essenza e qualità dell'infinito, dell'eterno. Che il sogno e l'orgasmo non hanno certo la forza di manifestare. Ora, perché la morte ci fa così paura? Perché noi ci siamo totalmente identificati nell'essere che crediamo di essere. Ma non è l'essere che siamo. Ecco perché in tutte le tradizioni la prima vera cosa che i saggi cercano di fare è rompere lo specchio in cui noi, giorno dopo giorno, ci ostiniamo a vedere anche a occhi chiusi il "riflesso" di ciò che ci illudiamo di essere. Quando un sacerdote o un bonzo o un buddhista comincia a percorrere la sua via, la prima cosa che fa il maestro, il superiore, è cambiargli il nome: "Guarda che adesso tu sei fra' Gastaldino, fra' Giovanni". No, tu non sei più quel Roberto, quel Luciano, quel Francesco che conosci, perché quello che credi di conoscere non è che un'illusione. Qui sta il nostro errore, incamminarci verso la morte tenuti per mano dall'illusione che ci siamo costruiti e abbiamo cresciuto dentro di noi. Noi vogliamo rendere eterno ciò che eterno non è. E così ci sfugge la bellezza dell'eterno che è in noi. Dobbiamo dare invece alla vita il valore che essa ha. Chi si preoccuperebbe di un'unghia del piede? Così non dobbiamo preoccuparci del destino che attende il nostro corpo. Sappiamo che a un certo punto ci abbandonerà per tornare a quella diluizione e a quella semenza che ci ha fatto prima embrioni e poi corpo. Per rifarci, chissà, in un domani nuovamente corpi… Sono tante le cose che ci sono ignote come tante sono le identità cui siamo attaccati e che ci pietrificano. Vivo nel tempo ma sto nel senza tempo.

Di notte noi siamo in vita e dovremmo esserlo anche dopo la morte. Questo è il suo pensiero, la sua proiezione. Non solo, ma in base a questa riflessione dovremmo cambiare pure identità e persino migliorarla… È un approdo confortante. Ma di non facile comprensione. Temo riservato a menti speciali. Non crede? Bastano menti semplici, schiette. Del resto, come diceva Epicuro: "Non mi devo preoccupare della morte perché se c'è lei non ci sono io e fino a che ci sono io non c'è lei". Purtroppo noi abbiamo una debolezza nei confronti del nostro io o, per essere più chiari, un'eccessiva predilezione. Siamo idolatri di noi stessi. Bisognerebbe invece avere il coraggio di prepararsi a morire, giorno dopo giorno. LA SFIDA AL MISTERO È un consiglio prezioso. Ma penso che possa accettarlo solo chi riesce a vedere nella morte l'altra faccia della vita. È possibile? San Francesco parlava di Sorella Morte… Il suo filosofare nei cantici è semplice ma insuperato: perché, pensava, dovrebbe spaventarmi la morte se si produce dentro di me, se io stesso sono la morte? Mi vengono in mente anche i Veda, quei testi intrisi di sapere e saggezza, araldi di una cultura nata quasi tremila anni orsono ai confini dell'India settentrionale per sfidare ogni mistero dell'anima e del corpo. Sono testi che inquadrano l'essenza dell'umanità in due caste: i veggenti e i guerrieri. Con una precisazione fondamentale: nei Veda si legge che il perno di tutto è la mente, soprattutto la mente nello stato di ebbrezza. Anche i greci esaltano la passione, il dionisiaco, l'orgia, il piacere, ma come qualcosa che irrompe nella vita ordinata e ne accompagna il viaggio. I Veda no. Pensano che una coscienza ebbra si immerga nel "senza tempo" e porti l'uomo a vivere in una dimensione guidata dall'eterno. Ritengono pure che vi sia una sostanza per qualcuno una pianta allucinogena, ma non si sa - che dona all'uomo la necessaria ebbrezza. Quindi gli uomini di quei tempi facevano uso di questa sostanza che li aiutava a diventare veggenti, gli esploratori della conoscenza. Noi non ragioniamo così, noi pensiamo al nostro io. Ora ci sono (io), c'ero negli anni scorsi, ci sarò ancora domani. Ma quando tu associ il tuo io al mondo, non fai che attaccarti a un'illusione. Non ti sei neanche accorto dei miliardi di cambiamenti compiuti dalle tue cellule, che nascono e muoiono. Quindi ti sei aggrappato a un'illusione e chiami vita perenne questa illusione. Quando muori pensi di andare in un aldilà portando con te il tuo io, la tua struttura, il tuo mondo, i tuoi giocattoli. Ma la morte è anche quella cosa che riguarda il "senza tempo", come l'orgasmo, come il sogno. Quindi c'è qualcosa che non vive nel tempo. I Veda parlano di questa ebbrezza della mente come di un rito. Nei riti noi entriamo in un altro mondo, nel "senza tempo". Quindi i riti, in fondo, ci avvicinano al "senza tempo". Comunque è una pagina che si chiude?

Si chiude un io che vive troppo confinato nel tempo. Quando noi due siamo insieme, quando sei con la tua compagna o quando una donna sta con il suo compagno. Quando siamo in certi stati è come se ci depersonalizzassimo, è come se entrassimo in un territorio molto più vasto di noi. Immenso, dove sta il "senza tempo". Quando amiamo siamo cosmici. Non a caso le religioni ti insegnano a praticare la carità. A non specchiarti nel particolare ma essere te stesso nell'universale. Se non c'è niente di tuo, allora sei nell'universale. In fondo nel gesto della carità è come se tu dicessi: prendi tutto quello che ho, è l'eterno che me lo suggerisce danzando dentro di me. Quindi, più la prospettiva è legata all'io, più siamo spaventati dalla morte. Più danzi con la vita e più fra te e la morte le distanze si accorciano e - come avviene fra vasi comunicanti - le diversità, che pure diversità non sono, si annullano. I vecchi per esempio non si preoccupano della morte. Vince la saggezza. Altra storia è quella di colui che si interroga, ponendosi magari la domanda: "Sparirò, mi estinguerò?". Certo, può spaventarsi. Ma senza ragione. La stessa vita lo porta a morire. Nasce da noi, la morte, nasce in una stanza del cervello, la più profonda che c'è. Ma se io riesco a evadere dalla prigione di una rigida autoidentità, se dall'alba al tramonto rifiuto di coltivare un'idea fissa e statica di me, allora tutto diventa possibile. Possibile. Capisci? L'UNICO RE Non c'è la morte, non c'è la vita, almeno la vita come la intendiamo noi. Insomma, ciò che domina è l'eterno… Proprio così. Tu non sei stato creato, è il mondo che si crea in te. Oggi come allora è il primus dies. Il primo giorno di Adamo c'è oggi come allora. Si ripete. La creazione avviene secondo una regola eterna. Perché l'eterno si identifica nella creazione del mondo. Tutto il resto passa. Perché dovresti occuparti dell'unghia? Che importanza ha se si rompe? Ma se tu fissi l'attenzione sull'unghia e ti concentri sul particolare, solo quello osservi, su quello ragioni. E il dito non lo vedi più. Vedi l'unghia, se è rosa, meno rosa. Tu non vedi il dito e ti senti perduto. Se si vuol conoscere la vita occorre cambiare la concezione che si ha del mondo. Un aiuto ci arriva da Parmenide che si domanda: "Noi veniamo dal nulla? Sì. Torniamo al nulla? Sì. Ma può l'essere venire dal non essere? No. E può l'essere tornare al non essere? No". Allora evidentemente quello che noi chiamiamo il non essere, il nulla, deve essere un essere che non è percepito dall'essere. Quindi dice molto bene Emanuele Severino: "Il nulla è l'oblio dell'essere". Insomma, obliando per un attimo l'essere, vedi meglio quello che tu chiami il non essere, il nulla. Ecco perché andiamo a dormire. Andiamo a dormire perché… noi pensiamo per rigenerarci… no, andiamo a dormire per immergerci nelle acque misteriose dell'eterno. E chissà… goderci l'orgasmo tutto il giorno incessantemente dal mattino alla sera, se non lo spegnessimo con il nostro io pieno di ragionamenti inutili. "Mi

metto le scarpe, meglio questo golf, meglio quell'altro." "Cristiana mi ha fatto arrabbiare." Tutto questo non ti permette di cogliere l'eterno che è in te. Un pulsare orgasmico, continuo, permanente. Qui si gioca la grande partita. Vince l'orgasmo che è il riflesso dell'eterno? O vince la legge dell'io cui ti sei attaccato? Pensiamo alle estasi dei mistici. Si racconta che non fosse possibile accostarsi ai grandi saggi ebrei, ai santi cattolici o islamici, tanto era il calore che essi emettevano. Danzavano nel fuoco, camminavano nel fuoco. Stavano in un orgasmo permanente, perenne. Cosa importava loro della morte nello stato di estasi in cui si trovavano? Se ti dicessi che morendo entri in quel regno di fuoco, sparirebbero forse le tue paure. Certo, non potremmo dimenticare gli addii, le figure che abbiamo amato, le figure che abbiamo vicino. Che ne è ora dei nostri morti? Sono diventati immagini dentro di noi. Forse il nostro compito è di farli rivivere come immagini. Ma l'immagine assomiglia al seme. C'è un'immagine nella ghianda che farà la quercia. Le immagini ci aiutano a far sì che i morti riprendano la loro forma, che tornino in vita. L'eterno ha le sue leggi, non possiamo ragionare con tre pater, ave, gloria… sarai punito, sarai premiato, no. Sicuramente il frumento quando è maturo butta il chicco. Lo stesso prodigio avviene in noi. L'anima morendo butta il chicco. Non vedo differenze sostanziali fra la spiga e l'anima. Si va dunque verso una nuova vita? Sì, attraverso il mondo del nulla che nulla non è. Attenti, però. Non possiamo avvicinarci al mondo del nulla come se il nulla fosse il nulla. No, il nulla è uno stato dell'essere che non possiamo percepire con le regole dell'essere identificato. Dobbiamo rifarci alle regole dell'essere libero: da pregiudizi, da scorie terrene, da illusioni che ci impediscono di entrare nell'eterno -che ci sta aspettando.

Epilogo Siamo alberi con le radici capovolte verso il cielo. LE DUE SORELLE Siamo al temine del viaggio. Devo ringraziarla. È stata una lunga giornata, trascorsa a interrogarsi su tutto ciò che accompagna la nostra esistenza e il mistero che la precede e la seguirà. A ogni chiamata ha risposto senza lasciare un punto interrogativo… Ma ciò che più mi ha colpito del suo pensiero e delle tesi che via via ha proposto è il concetto del "senza tempo", cioè l'essenza della nostra natura, una natura che scorre in perenne evoluzione. La vita e la morte. Nel suo pensiero sembrano due sorelle, come se noi fossimo figli di entrambe. Ieri, oggi e per l'eternità. Un'ultima domanda, forse la più importante: come si fa a cogliere il lato cosmico dell'anima? A riconoscerlo? Dobbiamo abbandonarci alla vita. Smettere di farci domande e aspettare un progetto sconosciuto in un campo dove esistiamo, dove siamo noi stessi. In un territorio che ci è completamente ignoto. In modo da dare spazio al profondo sconosciuto che ci abita. La via è già tracciata. E ci dà, a mio avviso, un'indicazione precisa. Non stupirti. Occorre diventare più incerti, più insicuri, più silenziosi, più erotici. Dobbiamo sapere che in tutti gli organi dell'uomo, più evoluti o meno evoluti, è presente la sostanza del divino. Quindi quando ascolto una musica celestiale, io sono nel divino. Quando guardo e il mio occhio si perde nell'infinito, nel panorama che mi circonda, io sono nel divino. È un profumo? Sono nell'infinito e quindi nel divino. Dobbiamo smettere di pensare che siamo noi gli unici protagonisti e ricordarci invece che è indispensabile essere partecipi della tradizione. Gli ebrei per esempio celebrano la festa degli alberi perché sanno, come nessun altro popolo del mondo, che l'uomo è molto simile all'albero. Gli ebrei dicono che noi siamo alberi con le radici capovolte verso il cielo. La tradizione che cosa ti insegna? Intanto che l'eterno si presenta in forme differenti, con qualità differenti nelle diverse stagioni. Possiamo considerarci alberi. Seppure privi di quel loro privilegio. Sì, perché, come ci ricorda il titolo di una bellissima commedia di Alejandro Casona, "gli alberi muoiono in piedi". Ma anche noi ci nutriamo di aria e luce, proprio come gli alberi. La respiriamo e la assorbiamo. Una pianta senza luce non vive e tu, se perdi di vista il lato naturale, sei spacciato. L'anima trova la luce nella consapevolezza, nella coscienza quando sta nel presente senza pensare. La natura è un ventaglio di saperi. Un'immagine perenne che è in ognuno di noi. Appartiene alla stessa natura dei sogni. Ecco perché dobbiamo acquisire la natura dei

sogni, rendercela amica, avvicinarci o meglio affidarci al mondo dei sogni con sempre meno certezze. L'ignoto, credimi, è un buon compagno di viaggio. Vivere la vita vuol dire accettarne le sorprese, belle o brutte che siano… Cosa significa la corsa al check-up dopo i cinquant'anni per scoprire se il tuo fisico ha qualche punto debole? Dobbiamo dunque mandare in soffitta anche la prevenzione, così tanto sbandierata dai sanitari di oggi? E tutto sommato a ragion veduta, visto il rischio ambientale che si corre. BÈ, certa prevenzione ha senso: la malaria, il vaiolo, alcuni virus… ma questa idea ipocondriaca di andare a controllarsi ogni anno, questo mi sembra troppo, per non dire inutile o quasi. Nella vita si muore. Vivila pienamente. Se hai vissuto dieci anni in meno che importanza ha? La vita non va misurata nel tempo. E poi, ricordati della tradizione. Cosa suggerisce la tradizione? Che la natura che ci circonda è sì fuori di noi ma anche dentro di noi. Io in primavera fiorisco, in estate divento il frutto, in autunno entro in letargo. Ma ci sono frutti come i cachi che maturano d'inverno. Comunque sia, la vita è fatta di luce, tramonto, buio, espansione… SVEGLIA! FIDATI DI TE Dobbiamo smettere di ragionare con l'orologio in mano. Se perdiamo di vista il rapporto con la divinità, verrà prima o poi a trovarci la droga. Come già avviene. E pure l'alcol, le paure. Perché abbiamo paura? Perché siamo pieni di ansia? Di cosa dovremmo aver paura? Hai paura perché hai perso le tue radici, perché non ti fidi di te, ascolti troppo quello che dicono gli altri. Non perdere tempo e abbraccia invece il grande evento. Ricordati che sei un'onda del mare. Non il mare, un'onda del mare… acqua nell'acqua. Dall'acqua vieni e all'acqua torni. Però, siccome hai fatto parte dell'acqua, devi avere imparato le leggi dell'acqua, che non sono le tue leggi. Secondo me scendere nell'interno di se stessi non vuol dire mettere le cose a posto, volersi sempre correggere, migliorare… La tradizione bussa per ricordarti che sta arrivando la primavera e stai fiorendo, come stanno fiorendo il delinquente e l'assassino. Stanno fiorendo anche loro. In questo mondo la fioritura è un evento che lo rivoluziona. Fa rinascere tutto. È un fenomeno e una realtà di cui ti puoi fidare. Vedi, una cosa mi colpisce e offende il mio lato umano. Le reazioni dei giornali e in TV quando c'è un imprevisto. Un semplice esempio. Il treno che ha un guasto improvviso e accusa un ritardo di due ore. Nessuno pensa alla cosa più ovvia: che una volta per andare da Milano a Roma ci voleva un mese. Adesso soffriamo il ritardo di un quarto d'ora… Inevitabile, perché siamo tutti programmati, tanti robot programmati a fare il nulla. Osserva cosa accade quando arriva la neve. Un disastro. Tutti inquieti, apprensivi. Tranne il bambino. Quando scende la neve il bambino è gioioso. Se la gode, ride, ci gioca e non va a scuola. Una festa. Un regalo del cielo. Che apre una grande danza della vita.

Noi invece siamo sempre lì a prendercela con tutti, a cominciare dai politici. Non va mai bene nulla. Siamo viziati. Pronti a litigare per le merendine scolastiche. Non ci va più bene niente. Una volta la gente stava anche due giorni senza mangiare e non ne faceva un dramma. Sapeva sopportarlo. Oggi se il treno tarda mezz'ora ci sembra la fine del mondo. Diamine, è un treno. Può rompersi! Talvolta è pure lui vittima della nostra disattenzione. Succede. Ma tutto viene visto e vissuto come un drammatico impedimento. Che posso fare… Sorridere, sapendo che la vita compie inesorabilmente il suo viaggio. Puntuale o in ritardo che sia, fa il suo viaggio e noi con lei. Mi piace quando l'ebreo dice: Dio ha fatto il mondo e poi lo ha affidato all'uomo perché lo gestisse. Gli ha affidato anche gli animali, le piante, i fiumi, i mari, le montagne, i deserti… Abbiamo fatto tanti errori? Che importa, toccava a noi gestire il mondo. Ma siamo noi la tappa più avanzata dell'evoluzione. E ce ne saranno altre perché stiamo preparando il mondo che verrà! L'interrogativo che è giusto porsi è come sarà quel mondo… Dipenderà solo da noi. Da quanto saremo capaci di utilizzare le forze cosmiche che ci abitano. LA MAGIA DEL VIVERE Siamo le voci di un inno a tutte le tappe della vita. Prende il "la" nell'utero, poi c'è la nascita e via via l'infanzia, l'adolescenza, la maturità, la vecchiaia, la morte. La morte è un lungo sonno… ci desteremo? Non ci desteremo? Non c'è risposta. Ogni notte andiamo a dormire e non sappiamo se ci sveglieremo. Ci fidiamo del sonno. Dobbiamo accettare il gioco della vita e della morte. È un grande gioco. Eravamo un grumo di polvere e siamo adesso degli esseri coscienti, anche se dell'universo sappiamo pochissimo. Guardati attorno. Rifletti. Sappi che i moralisti non hanno un futuro, i razionalisti non hanno un futuro, i romantici non hanno un futuro, gli idealisti non hanno un futuro. Sai perché? Perché sono fuori dalla realtà dell'anima. L'anima si sposa con questo mondo, sente suo il mondo di adesso. Immagini e fantastichi tutti i giorni? Stai tranquillo. Significa che sei sulla strada giusta. Arriva qualche sogno a trovarti? Sei sulla strada giusta… anche se è un sogno che non ti piace o addirittura ti spaventa. Scopri a settant'anni, a ottanta, a trenta che ci sono delle cose che ti vengono improvvisamente facili? Sei sulla strada giusta. Recentemente Oliver Sacks, il grande neurologo, ha scoperto che una sua paziente a sessantadue anni è andata a scuola di arpa. Voleva imparare a suonare l'arpa. Adesso fa l'arpista, e fa scorrere le dita con maestria sulle corde di uno strumento difficilissimo. Ora è una donna compiuta. Attraverso l'arpa, il suo cervello ha emesso impulsi e suoni nuovi e si è trovata fra le mani una felicità inattesa, che solo l'arpa poteva darle. Lei non lo sapeva, il suo cervello sì. Tu non puoi scoprire cos'è, ma dentro di te c'è uno sconosciuto che conduce la danza, la tua danza. Un ragno non fa la ragnatela per sé, fa la ragnatela per tutto il

mondo dei ragni. È il suo lavoro, la sua funzione. È un essere grandioso perché rende visibile l'essere che è nei fili della ragnatela. Il tuo compito è ancora più grandioso perché tu nell'evoluzione esprimi molte più capacità operative del ragno. Tocca a te, solo a te, realizzare ciò che ti caratterizza. Se tu insegui ciò che ti caratterizza… non ti prometto che sarai immune dagli acciacchi, né che eviterai il virus dell'influenza o il mal di testa, ma posso assicurarti che starai bene con te stesso, quindi il meglio che ciascuno possa desiderare. Cosa c'è di più bello che stare bene con se stessi e dell'istante in cui percepisci di stare bene con te stesso? Quando ti accorgi che non hai niente da chiederti, quando vai a dormire e dici a te stesso: che bello, che quiete! Quando avverti che c'è qualcosa che ti appassiona, quando perdi la testa in un'avventura, quando hai una donna vicino e ti piace. Quando c'è un cibo che ti attrae, quando c'è un libro che non puoi fare a meno di tornare a leggere. È la prova che sei vivo. Sei vivo! Ti rendi conto che sei a contatto con l'immenso. Poco fa, mentre venivo in macchina per concludere, come dici tu, il nostro viaggio, pensavo a una lettera che ho inviato a una signora preoccupata perché sta ingrassando e non sa come porvi rimedio. Le ho scritto che se la sua attenzione è solo rivolta al cibo non riuscirà mai a dimagrire. Perché con questa sua ossessione lei si manifesta priva di desideri, di passione. Risorse indispensabili. Ma oggi forse le avrei risposto in un altro modo. Vuoi sapere cosa le avrei detto oggi? Ben altro. Perché oggi il mio pensiero è rivolto alle energie primordiali, all'intelligenza primordiale e a tutti gli organi che Dio ha donato all'uomo. Organi di Dio. Il primo organo di Dio è la bocca. Se noi mangiamo è perché Dio mangia. Quindi non c'è rito dell'uomo che non passi per la bocca. Il vino, la comunione, la sostanza sacra. La bocca che parla attraverso la lingua, la bocca che gusta i sapori del cibo, la bocca come percezione dell'altro, la bocca per baciare, per nutrirsi, per parlare, la bocca per leccare come fa la femmina con i suoi piccoli, la bocca per pulire come fa il gatto con se stesso, la bocca per nascondere… La bocca. Allora oggi avrei chiesto a quella signora: ma lei sa usare bene la bocca o vede soltanto nella bocca la custodia del cibo, l'ingresso del tunnel nutritivo? Sta parlando? Sta cantando? Sa usare la bocca per cantare, gridare, salutare? Ciao… La bocca per avvicinarsi, per separarsi… la bocca per lanciare le parole di un addio? Insomma, come si può pensare di usare la bocca solo per limitarla al cibo? Se lo pensi significa che ne ignori tutte le altre funzioni. Siamo tutti scienziati ormai, pretendiamo spiegazioni su ogni cosa. Ma se ragioniamo così, sprecheremo la nostra esistenza e non basteranno certo gli scienziati a salvarci. Ci perderemo finché non ci sarà data una risposta sull'anima, che è l'unica cosa che ci identifica e ci tiene al mondo. Io dico una cosa: è arrivato il momento di smetterla di affidare solo alle religioni il sapere dell'uomo, di affidarsi alle loro certezze. Non basta. Non aiuta. È il momento di pensare al divino che è nell'uomo. Mi chiedi in quale modo? Pensa agli antichi, come e quando rappresentavano il divino. Cosa c'è nelle religioni di interessante che riguardi il divino?

Marco Vannini ha scritto recentemente un libro sulla mistica ed è arrivato alla conclusione che in tutte le religioni la mistica è identica. In altre parole, colui che vuole avvicinarsi al sacro fa gesti sempre uguali. La mistica, cioè l'estasi e l'infinita varietà di riti che l'accompagnano, è pressoché simile in tutte le tradizioni. Questo sì che è un ragionamento interessante! Dobbiamo occuparci del divino perché noi siamo il divino. E il divino è della stessa sostanza dei sogni, di cui sono fatti i morti. Ecco perché il divino ci è sconosciuto. Quando nel mito biblico Dio dice: io ti creo a mia immagine e somiglianza, afferma con la solennità del Dio assoluto che noi siamo simili a lui. Al divino. Con un solo piccolo grande limite. Quando ci dice che saremo a sua immagine ci fa capire infatti che non potremo vederlo. Perché il divino è costituito di luce e di ombra. L'uomo si interroga. Ma come, non posso mai vedere il mio Dio? No. Il signore del mondo è un'immagine vicina alla nostra ma collocata in un profondo che per intensità è inaccessibile a qualsiasi occhio umano. Ecco perché noi dobbiamo diventare ogni giorno più profondi. Quando Mosè, il prescelto, deve vedere il divino si ritrova avvolto in una nube. Certo, noi non potremo entrare come Mosè in quella nube, ma avvicinarla sì, e stare accanto al divino, alla nostra essenza. La via per raggiungerla ormai la conosci. L'hanno tracciata le tradizioni che nel tempo si rinnovano. L'essenza ha bisogno delle tradizioni. Vuoi fare qualcosa per i tuoi bambini? Parla loro della natura, delle stagioni, delle leggi che le regolano. E parla delle feste che li attendono. I bambini adorano le feste, sanno poco o niente della comunione ma a loro piace farla. Non sanno niente della cresima o del Natale però a loro piacciono. Non solo per i doni, sono feste che li attraggono per quell'aria di mistero che le circonda. Amano le luci, gli alberi che si accendono e spengono. Un mondo animato che li fa giocare. Se tu dovessi chiedermi che cosa possa infonderci più fiducia nelle pause delle nostre giornate, direi di ricordarti che il mondo è magico. Cercare la sua magia ogni giorno della vita è una cosa che dà energia all'anima. Vuoi sapere che cosa mi è accaduto oggi, un fatto o un gesto che mi abbia realmente sorpreso, qualcosa di profondo, di inatteso? Lasciami pensare… Sì, qualcosa c'è stato. L'invito a cercare la magia del mondo. O, se vuoi, la magia del vivere…

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