Mircea Eliade - Immagini e Simboli

October 11, 2017 | Author: robinsonmuniz | Category: Sigmund Freud, Homo Sapiens, Psychoanalysis, Positivism, Knowledge
Share Embed Donate


Short Description

Saggio di Mircea Eliade su Immagini e simboli....

Description

MIRCEA ELIADE

IMMAGINI E SIMBOLI

d i I r o m c c i i u m v c r s o _____________________

Jaca Book

IM M AG IN I E SIM BO LI «...Oggi si sta comprendendo una cosa di citi il XIX secolo non poteva avere nem­ meno un presentimento, ovvero d ie il simbolo, il mito, l’immagine apparten gono alla sostanza della vita spirituale, che è possibile mascherarli, mutilarli, degradarli, ma che non li si estirperà mai... Le immagini, i simboli, i miti, non sono creazioni irresponsabili della psiche; essi rispondono a una necessità ed adempiono una funzione importante: mette­ re 1 nudo le modalità più segrete dell'essere. Ne consegue che il loro studio ci permette di conoscere meglio l’uomo, l'u o m o toul court", quello che non è ancora sceso a patti con le condizioni della storia. Ogni essere storico porta con sé una grande parte dell'umanità prima elella Storia. Questo dato, certo, non è mai staro dimenticato, nemmeno ai tempi più inclementi del positivi­ smo: chi meglio di un positivista poteva sapere che l'uomo e un "animale , definito e governato da istinti identici a quelli dei suoi fratelli, gli animali? Constatazione esatta, però parziale, schiava ili un piano di riierimenio esclusi­ vo. Oggi si comincia a vedere che la parie anti-storica di ogni essere umano n on affonda, contrariamente a quanto si pensava nel XIX secolo, nel regno animale e, in fin dei conti, nella "Vita": anzi, al contano deriva e si innalza ben al di sopra di essa: questa parte astorica dell’essere umano porta, come una medaglia, l'impronta del ricordo di un'esistenza più ricca, più completa, quasi beatifica». Mu cca Eliade M IRCEA E LIA D E

Su.- - . . . 1907, ha vissuto in India dal 1928 a! 1932 Ha insegnato filosofia all'Unwersità di Bucarest dal 193) al i 940. Addetto culturale a Londra e poi a Lisbona, nel 194? viene nominata professore presso l ’Ecole des Hautes Parigi. Ha insegnato alla Sorbona e in diverse università europee. Dal 1957 è stalo \;n iella cattedra di Storia delle religioni dell'Università di Chicago, dove nel 1985 è stata istituita la cattedra «Mircea FJiade» a lui dedicata. È morto a Chicago il 22 aprile 1986.

Biblioteca S a l a B orsa - Bologna

B 3B

129012 ISBN 978 88 16-40070-2

€ 15,00

9 (-88816 4 f i0 ? n ?

D ello stesso autore presso la Ja c a B ook Opere narrative II vecchio e il funzionario, 1978, nuova ed. 1997 (romanzo) Andronico e il serpente, 1982 (romanzo) Nozze in cielo, 1983, nuova ed. 19% (romanzo) Signorina Christina, 1984 (romanzo) Notti a Serampore, 1985 (romanzo) La foresta proibita, 1986 (romanzo) Diciannove rose, 1987 (romanzo) Il segreto del dottor Honigberger, seguito da Un uomo grande, 1988 (racconti) Maitreyi. Incontro bengalese, 1989 (romanzo) Il romanzo dell’adolescente miope, 1992 (romanzo)

Opere di saggistica, memorialistica e grandi opere La creatività dello spirito, 1979, nuova ed. 1990 (saggio) La prova del labirinto, Intervista con C.H. Rocquet, 1979, nuova ed. 1990, ult. rist. 2002 (saggio) Immagini e simboli. Saggi sul simbolismo magico-religioso, 1981, ult. rist. 2007 (saggio) Spezzare il tetto della casa, 1988, ult. rist. 1997 (saggio) Il mito della reintegrazione, 1989, ult. rist. 2002 (saggio) I riti del costruire, 1990 (saggio) Dizionario delle Religioni, in collaborazione con I.P. Couliano, in Religioni, Volume della Enciclopedia Tematica Aperta, 1992 Le promesse dell’equinozio. Memorie 1. 1907-1937 , 1995 (diario) Le messi del solstizio. Memorie 2. 1937-1960, 1996 (diario) Oceanografia, 2007 (saggio) Fragmentarium, 2008, in prep. (saggio) Diario portoghese, 2008, in prep. (saggio) Enciclopedia delle Religioni (diretta da M. Eliade), Edizio­ ne Tematica Europea a cura di D.M. Cosi, L. Saibene, R. Scagno, 1991- (17 voli, 11 dei quali già pubblicati)

Mircea Eliade

IMMAGINI E SIMBOLI Saggi sul simbolismo magico-religioso

Jaca Book

Titolo originale Images et symboles. Essai sur le symbolisme magico-religieux Traduzione dal francese di Massimo Giacometti © 1952 Gallimard, Paris © 1980 Editoriale Jaca Book SpA, Milano per l’edizione italiana Prima edizione italiana ottobre 1981 Sesta ristampa settembre 2007 In copertina Pittura su corteccia degli aborigeni australiani (foto di A. Hay)

Stampa Print Duemila srl, Albairate (Mi) agosto 2007

ISBN 978-88-16-40070-2 Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma ci si può rivolgere a Editoriale Jaca Book S.p.A., Servizio Lettori, via Frua 11, 20146 Milano - tel. 02/48.56.15.20/29 - fax 02/48.19.33.61 e-mail: [email protected] - sito Internet: www.jacabook.it

INDICE

Prefazione

9 Premessa

Riscoperta del simbolismo Simbolismo e psicanalisi Perennità delle Immagini Il piano del libro

13 16 19 23

Capitolo primo Il simbolismo del « Centro » Psicologia e storia delle religioni Storia e archetipi L ’Immagine del mondo Il simbolismo del « Centro » Simbolismo dell’ascensione Costruzione di un centro

29 34 38 41 46 50

Capitolo secondo Simbolismi indiani del Tempo e delTEternità La'funzione dei miti Miti indiani del Tempo La dottrina degli « Yuga » Tempo cosmico e Storia

55 57 60 ¿4 7

Indice Il « terrore del Tempo » Simbolismo indiano dell’abolizione del Tempo L ’« Uovo infranto » La filosofia del Tempo nel buddismo Immagini e paradossi Tecniche dell’« uscita dal Tempo »

67 69 72 74 76 79

Capitolo terzo Il « dio legatore » e il simbolismo dei nodi Il Sovrano Terribile Il simbolismo di Varuna « Dei legatori » nell’india antica Traci, Germani, Caucasici Iran Paralleli etnografici Magia dei nodi Magia e religione Simbolismo delle « situazioni limite » Simbolismo e storia

85 88 91 94 97 98 100 102 107 108

Capitolo quarto Osservazioni sul simbolismo delle conchiglie La Luna e le Acque Simbolismo della fecondità Funzioni rituali delle conchiglie Il ruolo delle conchiglie nelle credenze funerarie La perla nella magia e nella medicina Il mito della perla

113 116 120 121 129 132

Capitolo quinto Simbolismo e storia Battesimo, diluvio e simbolismi acquatici Immagini archetipe e simbolismo cristiano Osservazioni sul metodo

135 143 155

8

PREFAZIONE

Per comporre questo volume a Mircea Eliade è bastato scegliere tra le sue numerose meditazioni, già pubblicate o ancora inedite: il simbo­ lismo è dappertutto nel pensiero religioso, lo si ritrova in ogni ambito del pensiero. All’inizio del secolo, ai tempi in cui i maestri degli studi comparati ritenevano saggio rammendare le vele piuttosto che lanciarsi in nuove avventure, l’idea stessa di simbolo era alquanto malvista. Gli antichi abitanti di Creta raffiguravano sui loro muri uno scudo bilobato, un’ascia bipenne, che sembravano librarsi nell’aria? I Romani conserva­ vano una lancia che vibrava senza che nessuno la toccasse nella Casa del Re? Altro non erano che uno scudo, un’ascia, una lancia che non riman­ davano a nulla di invisibile: oplolatria pura e semplice. Gli Spartiati chiamavano Dioscuri due travi parallele? Ciò vuol dire che il « vero » culto era indirizzato « primitivamente » solo a delle travi, sfruttate, sfi­ gurate « in seguito » da una concezione antropomorfica del « sacro ». Non siamo più a questo stadio e l’esagerazione, se c’è, va in senso con­ trario: la tendenza sarebbe piuttosto quella di ridurre il bilancio razio­ nale delle religioni incrementandone la spesa simbolica. Eliade, per quel che lo riguarda, mantiene il giusto mezzo, grazie ad una filologia rigo­ rosa: i suoi non sono saggi di teoria bensì di osservazione. Due delle monografie raccolte in questo volume riguardano rappre­ sentazioni fondamentali di cui nessuna ideologia può fare a meno: il centro, con la sua variante nella terza dimensione, lo zenit, grazie a cui si ordinano e si dispongono gerarchicamente tutte le divisioni, tutti i valori che interessano una società; il legame, che esprime in primo luo­ 9

Prefazione

go in maniera sensibile il fatto che ogni forma di vita, fisiologica, collet­ tiva, intellettuale è un groviglio di rapporti. In poche pagine, eppure con una messe di esempi ben fissati nel loro contesto, Eliade illustra la ricchezza di variazioni che si sono ricamate su questi due temi e ne fa avvertire il carattere unitario. Il saggio sul tempo, limitato—se così si può dire—all’india immensa, è un esempio della miglior filologia: la parola KMa designa sia il momento fuggitivo che la durata infinita o ci­ clica, il destino, la morte: il Tempo, cornice e contenuto insieme, con­ cetto e vera e propria persona divina assimilata a dei diversi, è uno de­ gli agenti che meglio si prestano a rivelare le linee direttrici di queste possenti scuole di pensiero: rapidi e ben documentati, i capitoli in cui è suddivisa l’indagine esplorano ed illuminano i problemi che tali scuo­ le si sono posti. In apparenza più specialistico, il saggio sui simboli forniti dalle conchiglie mostra l’immaginazione religiosa all’opera, non più a partire da un concetto che essa avvolge in vario modo di concre­ tezza, bensì a partire da un elemento materiale che ricollega a concetti diversi, per cui il fascio delle analogie sembra uscire in questo caso dal polo sensibile del rapporto: comparse in cerca di dramma. « Simboli­ smo e storia », infine, spiega brevemente, con un riferimento più ac­ centuato alle grandi religioni viventi dell’Ocddente là ragione per cui le analisi contenute in questo libro e tutte quelle che riempiono l’opera di Eliade non sono puri giochi dello spirito, bensì rivelano i punti di aggancio grazie ai quali il singolo individuo e i gruppi umani equilibra­ no e rafforzano il loro pensiero attraverso le movenze della loro espe­ rienza. È bene che il grande pubblico faccia conoscenza con questa intro­ duzione a una delle ricerche più originali del nostro tempo, la quale ci ricorda ad ogni istante che il suo autore è stato, e rimane, innanzitutto uno scrittore e un poeta. Georges Dumézil

Alla memoria di mio padre Gheorghe Eliade (1870-1951)

PREMESSA

Riscoperta del simbolismo Lo stupefacente successo della psicoanalisi ha posto in auge un cer­ to numero di parole-chiave: termini quali immagine, simbolo, simboli­ smo sono ormai entrati nell’uso comune. D ’altro lato le ricerche siste­ matiche svolte intorno al meccanismo della « mentalità primitiva » han­ no rivelato l’importanza del simbolismo per il pensiero arcaico e al tempo stesso il suo ruolo fondamentale nella vita di qualsiasi società tradizionale. Il superamento dello « scientismo » in filosofia, la rinascita dell’interesse religioso dopo la prima guerra mondiale, le molteplici esperienze poetiche e soprattutto le ricerche del surrealismo (con la ri­ scoperta dell’occultismo, dei romanzi neri, dell’assurdo, ecc.) hanno at­ tirato l’attenzione del grande pubblico, su piani diversi e con risultati ineguali, sul simbolo inteso come modalità autonoma di conoscenza. Questa nuova prospettiva rientra nella reazione contro il razionalismo, il positivismo e lo scientismo del xix secolo e basta da sola a caratteriz­ zare il secondo quarto del xx. La conversione ai diversi simbolismi, tut­ tavia, non è una « scoperta » veramente inedita, merito del mondo mo­ derno: ripristinando il simbolo nella sua funzione di strumento cono­ scitivo esso si è limitato a riprendere un orientamento che in Europa è stato generale fino al xviii secolo e che è inoltre connaturato alle altre culture extra europee, siano esse « storiche » (quelle, ad esempio, del­ l’Asia o dell’America centrale) oppure arcaiche e « primitive ». Si osserverà che l’invasione dell’Europa occidentale ad opera del sim13

Premessa bolismo coincide con la comparsa dell’Asia all’orizzonte della storia, comparsa cui ha dato l’avvio la rivoluzione di Sun Yat Sen e che si è affermata soprattutto nel corso degli ultimi anni; sincrónicamente, grup­ pi etnici che fino ad ora avevano partecipato alla grande Storia solo a sprazzi e per allusioni (vedi gli abitanti dell’Oceania, gli Africani, ecc.) si preparano a loro volta ad inserirsi nelle grandi correnti della storia contemporanea e sono già impazienti di costruirla. Questo non significa che esista un qualche rapporto causale tra l’emergere del mondo « eso­ tico » o « arcaico » all’orizzonte della storia e il rinnovo di interesse che si constata in Europa nei confronti della conoscenza simbolica. Co­ munque sta di fatto che questo sincronismo è particolarmente felice: ci si domanda in che modo l’Europa positivista e materialista del xix secolo avrebbe potuto sostenere il dialogo spirituale con culture « eso­ tiche » che, senza eccezione, si riallacciano tutte a vie di pensiero estra­ nee all’empirismo o al positivismo. £ questa, quanto meno, una ragione di sperare che l’Europa non rimarrà paralizzata di fronte alle immagini e ai simboli che, nel mondo esotico, sostituiscono i nostri concetti o li trasmettono e li prolungano. Colpisce il fatto che di tutta la spiritua­ lità europea moderna due messaggi soltanto interessano realmente i mondi extra europei: il cristianesimo e il comunismo. Entrambi, in modo diverso, certo, e su piani nettamente opposti, sono delle soteriologie, delle dottrine di salvezza e, di conseguenza, manipolano « simbo­ li » e « miti » su una scala che trova riscontro solo nell’umanità extra europea!. Una fortunata congiunzione temporale, dicevamo, ha fatto riscopri­ re all’Europa occidentale il valore gnoseologico del simbolo nel momen­ to in cui non è più sola a « fare la storia », nel momento in cui la cul­ tura europea, se non vuole rinchiudersi in un provincialismo steriliz­ zante, è obbligata a fare i conti con altre vie di conoscenza, con altre scale di valori che non sono le sue. A questo riguardo tutte le scoper­ te e le mode successive che hanno a che vedere con l’irrazionale, con l’inconscio, con il simbolismo, con le esperienze poetiche, con le arti 1 Semplifichiamo al massimo poiché si tratta di un aspetto che ci è impos­ sibile affrontare in questa sede. Per quel che riguarda i miti e i simboli soteriologici comunisti è evidente che, fatta salva l’élite dirigente marxista e la sua ideo­ logia, le masse dei simpatizzanti sono stimolate e spronate da slogan quali libera­ zione, libertà, superamento dei conflitti sodali, abolizione dello stato sfruttatore e delle classi privilegiate, ecc., tutti slogan la cui struttura e la cui funzione mitica non hanno bisogno di dimostrazione. 14

Riscoperta del simbolismo esotiche e non figurative, ecc. hanno indirettamente aiutato ¡’Occidente preparandolo a una comprensione più viva e quindi più profonda dei valori extra europei e, in definitiva, al dialogo con i popoli non euro­ pei. Basti pensare all’atteggiamento dell’etnografo del xix secolo di fronte al suo « oggetto » e soprattutto ai risultati delle sue investigazio­ ni, per misurare il gigantesco progresso realizzato dall’etnologia nel cor­ so degli ultimi trent’anni. Ài nostri giorni l’etnologo ha colto, contem­ poraneamente all’importanza del simbolismo per il pensiero arcaico, la sua intrinseca coerenza, la sua validità, la sua audacia speculativa, la sua « nobiltà ». Dirò di più: oggi si sta comprendendo una cosa di cui il xix secolo non poteva avere nemmeno un presentimento, ovvero che il simbolo, il mito, l’immagine appartengono alla sostanza della vita spirituale, che è possibile mascherarli, mutilarli, degradarli, ma che non li si estirperà mai. Varrebbe la pena di studiare la sopravvivenza dei grandi miti per tutto il xix secolo e si vedrebbe in che modo, umili, sminuiti, condan­ nati a cambiare incessantemente d’insegna, essi abbiano resistito a que­ sta ibernazione, grazie soprattutto alla letteratura2. Così il mito del Pa­ radiso Terrestre è sopravvissuto fino ai nostri giorni nella forma adat­ tata del « paradiso oceaniano »; da centodnquant’anni tutte le grandi letterature europee hanno celebrato fino alla nausea le isole paradisia­ che del Grande Oceano, santuario di ogni felicità, mentre la realtà era ben diversa: « paesaggio piatto e monotono, clima malsano, donne brutte e obese, ecc. ». Anche l’immagine di questo « paradiso oceania­ no » era a prova di qualsiasi « realtà » di natura geografica o altro. Le realtà oggettive non avevano nulla a che vedere con il « paradiso ocea­ niano », il quale era di ordine teologico: aveva accolto, assimilato e ria­ dattato tutte le immagini paradisiache rimosse dal positivismo e dallo scientismo. Il Paradiso Terrestre, a cui credeva ancora Cristoforo Co­ lombo (non aveva forse pensato di averlo scoperto!) era diventato, nel x x secolo, un’isola dell’Oceania, ma la sua funzione nell’ambito dell’e­ conomia della psiche umana rimaneva identica: laggiù, nell’« isola ». nel « Paradiso », l’esistenza si svolgeva fuori dal Tempo e dalla Storia: l’uomo era felice, libero, non condizionato; non doveva lavorare per vi­ vere; le donne erano belle, eternamente giovani, nessuna « legge » pe­ sava sui loro amori. Fino alla nudità che ritrovava nell’isola lontana il 2 Impresa esaltante sarebbe il rivelare il vero ruolo spirituale del romanzo del xix secolo che, ad onta di tutte le «formule» scientifiche, realiste, sociali, è •tato il grande serbatoio dei miti degradati!

15

Premessa suo significato metafisico: condizione dell’uomo perfetto, di Adamo pri­ ma del peccatoJ. La « realtà » geografica poteva smentire quel paesag­ gio paradisiaco, donne brutte e obese potevano sfilare davanti ai viag­ giatori: nessuno le vedeva, ciascuno vedeva soltanto l’immagine die aveva portato con sé.

Simbolismo e psicanalisi 11 pensiero simbolico non è di dominio esclusivo del bambino, dèi poeta o dello squilibrato, esso è connaturato all’essere umano: precede il linguaggio e il ragionamento discorsivo. Il simbolo rivela determinati aspetti della realtà—gli aspetti più profondi—che sfuggono a qualsia­ si altro mezzo di conoscenza. Le im m agini, i simboli, i miti, non sono creazioni irresponsabili della psiche; essi rispondono a una necessità ed adempiono una funzione importante: mettere a nudo le modalità più segrete dell’essere. Ne consegue che il loro studio d permette di cono­ scere meglio l’uomo, 1’« uomo tout court », quello che non è ancora sceso a patti con le condizioni della storia. Ogni essere storico porta con sé ima grande parte dell’umanità prima della Storia. Questo dato, certo, non è mai stato dimenticato, nemmeno ai tempi più inclementi del po­ sitivismo: chi meglio di un positivista poteva sapere che l’uomo è un « animale », definito e governato da istinti identici a quelli dei suoi fra­ telli, gli animali? Constatazione esatta, però parziale, schiava di un pia­ no di riferimento esclusivo. Oggi si comincia a vedere che la parte anti­ storica di ogni essere umano non affonda, contrariamente a quanto si pensava nel xix secolo, nel regno animale e, in fin dei conti, nella « Vi­ ta »; anzi, al contrario, devia e si innalza ben al di sopra di essa: que­ sta parte astorica dell’essere umano porta, come una medaglia, l’im­ pronta dèi ricordo di un’esistenza più ricca, più completa, quasi beati­ fica. Quando un essere storicamente condizionato, ad esempio un occi­ dentale dei nostri giorni, si lascia invadere dalla parte non storica di sé (cosa che gli capita molto più spesso e molto più radicalmente di quan­ to im m agini), ciò non avviene necessariamente per regredire allo stadio animale dell’umanità, per ridiscendere alle fonti più profonde della vita 3 Abbiamo consacrato studio dell’uomo non solo quale essere stori­ co, ma altresì quale simbolo vivente, la storia delle religioni potrebbe diventare, ci si passi il termine, una meta-psicoanalisi. Essa condurreb­ be, infatti, ad un risveglio e ad una nuova presa di coscienza dei sim­ boli e degli archetipi arcaici, viventi o fossilizzati nelle tradizioni reli­ giose dell’intera umanità. Ci siamo arrischiati ad usare il termine di metapsicoanalisi poiché si tratta di una tecnica più spirituale, tesa piutto­ sto a chiarire il contenuto teorico dei simboli e degli archetipi, a ren­ dere trasparente e coerente dò che è « allusivo », criptico o frammen­ tario. Si potrebbe anche parlare di una nuova maieutica; al pari di So­ crate che, come si legge nel Teeteto (149as., 161e), faceva partorire al­ lo spirito pensieri che esso conteneva senza saperlo, la storia delle reli­ gioni potrebbe dare alla luce un uomo nuovp, più autentico e completo, ché, attraverso lo studio delle tradizioni religiose, l’uomo moderno ri­ troverebbe non soltanto un comportamento arcaico, ma prenderebbe al­ tresì coscienza della ricchezza spirituale che un comportamento del ge­ nere implica. Questa maieutica realizzata con l’aiuto del simbolismo religioso con­ tribuirebbe anche a liberare l’uomo moderno dal suo provincialismo cul­ turale e soprattutto dal relativismo storicista ed esistenziale, giacché, come vedremo, l’uomo si oppone alla storia anche quando si impegna a farla, anche quando pretende di non essere altro che « storia ». E nella j misura in cui l’uomo supera il suo momento storico e dà libero corso] al suo desiderio di rivivere gli archetipi, egli si realizza in quanto esse­ re integrale, universale. Nella misura in cui si oppone alla storia, l’uo­ mo moderno ritrova le posizioni archetipiche. Anche il suo sonno, le sue stesse tendenze orgiastiche, sono carichi di significato spirituale. Per il semplice fatto di ritrovare nel cuore del suo essere i ritmi cosmiri—l'alternanza del giorno e della notte, ad esempio, oppure dell’inver­ no e dell’estate—egli giunge ad una conoscenza più totale del suo de­ stino e del suo significato. Sempre con l’ausilio della storia delle religioni, l’uomo moderno po­ trebbe ritrovare il simbolismo del proprio corpo, che è un antropo­ cosmo. Ciò die hanno realizzato al riguardo le diverse tecniche dell’im­ maginazione ed in special mondo le tecniche poetiche non è quasi nulla a fronte delle promesse della storia delle religioni. Sono dati che tutd 36

Storia e archetipi ancora persistono nell’uomo moderno: si tratta solo di ridar loro vita * di portarli alla soglia della coscienza. L ’uomo moderno, riprendendo toirienza del proprio simbolismo àntropocosmico—che non è altro che •ut* variante del simbolismo arcaico—otterrà una nuova dimensione »•iitcniiale, totalmente ignorata dall’esistenzialismo e dallo storicismo attuali: è un modo di essere autentico ed adulto che lo protegge dal nii hllU'mo e dal relativismo storicistico senza per questo sottrarlo alla •lori». La storia stessa, infatti, potrebbe un giorno trovare il suo vero lignificato: quello di epifania di una condizione umana gloriosa ed as­ sillila. È sufficiente ricordare a che punto la religione giudeo-cristiana li* valorizzato l’esistenza storica, per rendersi conto in che modo e in t hr lenso la storia potrebbe diventare « gloriosa », « assoluta » addiritluta. Non è dato pretendere, evidentemente, che lo studio ragionato del­ la «toria delle religioni debba o possa sostituirsi all’esperienza religiosa In quanto tale e ancor meno all’esperienza della fede. Tuttavia, anche jier una coscienza cristiana, la maieutica per il tramite del simbolismo arcaico porterà i suoi frutti. Il cristianesimo ha ereditato una tradizio­ ne religiosa molto antica e complessa, le cui strutture sono soprawissui* all'interno della Chiesa, anche se sono mutati i valori spirituali e gli urlentamenti teologici. Ad ogni modo nulla di tutto ciò che, attraverso il (x)imo, manifesta la Gloria—per parlare in .termini cristiani—può liM'iare indifferente un credente. Infine lo studio ragionato delle religioni metterà in luce un fatto a i ili fino ad oggi è stata prestata attenzione insufficiente: l’esistenza di una logica del simbolo, il fatto che determinati gruppi di simboli si ri­ velano coerenti, logicamente collegati tra di loro1, che è possibile, in hm parola, formularli sistematicamente, tradurli in termini razionali. Queita logica interna dei simboli pone un problema gravido di conse­ guenze: determinate zone dell’inconscio individuale o collettivo sono •luminate, a loro volta, dal logos, oppure ci troviamo davanti a manifetuiloni di un transconscio? £ questo un problema che non potrebbe es­ tere risolto unicamente dalla psicologia del profondo, in quanto i sim­ u lim i che la decifrano sono costituiti, nella maggior parte dei casi, da frammenti sparsi e da manifestazioni di una psiche in crisi o addirittu­ ra In regressione patologica. Per sorprendere le vere strutture e funzio­ ni dei simboli bisogna rivolgersi all’inesauribile repertorio della storia *

Cfr. più sotto il Capitolo terzo: Il « dio legatore» e U simbolismo dei nodi.

37

Il simbolismo del «< Centro * delle religioni. Ed anche qui si tratta sempre di saper scegliere in quan­ to i nostri documenti presentano molto spesso forme decadenti, aber­ ranti o francamente mediocri. Se si vuol approdare ad una comprensio­ ne adeguata del simbolismo religioso arcaico si è costretti ad operare una scelta, così come, per farsi un’idea di una letteratura straniera, non si prendono a casaccio i primi dieci o i primi cento libri che capita di tro­ vare in una qualsiasi biblioteca pubblica. C’è da sperare che gli storici delle religioni faranno un giorno un lavoro di ordinamento gerarchico dei loro documenti, tenendo conto del loro valore e del loro stato, ana­ logamente a quanto fanno i loro colleghi storici delle letterature. Ma, ancora una volta, siamo solo all’inizio.

L ’Immagine del mondo

Le società arcaiche e tradizionali concepiscono il mondo circostante come un microcosmo. Ai limiti di questo mondo chiuso comincia l’am­ bito dell’ignoto, del non formato. Da una parte c’è lo spazio cosmicizzato, in quanto abitato e organizzato, dall’altra, all’esterno di questo ’ spazio familiare, si stende la regione sconosciuta e temibile dei demoni, delle larve, dei morti, degli stranieri; in una parola il caos, la morte, la notte. Questa immagine di un microcosmo-mondo abitato, circondato da regioni desertiche assimilate al caos e al regno dei morti, è soprav­ vissuta anche nelle civiltà molto evolute, come la Cina, la Mesopotamia e l’Egitto. In effetti un gran numero di testi assimilano gli avversari che attaccano il territorio nazionale alle larve, ai demoni o alle forze del caos. Così gli avversari del Faraone erano considerati « figli della rovi­ na, lupi, cani » ecc. Il Faraone veniva assimilato al dio Ré vincitore del drago Apophis, mentre i suoi nemici venivano identificati con quel dra­ go mitico2. Proprio perché attaccano e mettono in pericolo l’equilibrio e la vita stessa della città (o di qualsiasi altro territorio abitato e orga­ nizzato) i nemici sono assimilati alle forze demoniache, in quanto si I sforzano di incorporare questo microcosmo nello stato di caos, si sfor­ zano cioè di sopprimerlo. La distruzione di un ordine stabilito, l’aboli­ zione di un’immagine archetipa, equivaleva a una regressione al caos, al

2 Cfr. il nostro libro Le Mythe de l’Eternel Retour: Architypes et Ripitition, \ Gallimard, Paris 1949, pp. 68s. (tr. it. Il mito dell'eterno ritorno, Rusconi, Milano 1975, pp. 44s.).

38

L ’Immagine del mondo (•{•formato, allo stato indifferenziato che precedeva la cosmogonia. Oslervlamo che le stesse immagini sono ancora utilizzate ai giorni nostri tftmttlu li tratta di dare formulazione ai perìcoli che minacciano un cer­ ti* tipo di civiltà: in particolare si parla di « caos », di « disordine », »Iella « tenebre » in cui sprofonderà « il nostro mondo ». Tutte queste **|ir«iiioni, ben Io si sente, esprimono l’abolizione di un ordine, di un I «wino, di una struttura e la reimmersione in uno stato fluido, amorfo, in ultima analisi caotico. Il

modo di concepire l’avversario sotto forma di essere demoniaco,

vara incarnazione delle forze del male, si è anch’esso mantenuto fino ai

iimni nostri. La psicoanalisi di queste immagini mitiche che animano «nota il mondo moderno ci mostrerà forse in che misura noi proiettia­ mo iui « nemici » i nostri stessi desideri di distruzione. Questo pro­ clama, tuttavia, esula dalla nostra competenza. Quel che vogliamo met1* 1# in luce è che, per il mondo arcaico in genere, i nemici che minac­ ciavano il microcosmo erano pericolosi non in quanto esseri umani (in pianto tali voglio dire), ma perché incarnavano le forze ostili e distrut­ tiva fi molto probabile che le difese dei luoghi abitati e delle città fu­ rono all'inizio difese magiche; queste difese infatti—fossati, labirinti, lt*lu«rili, ecc.— erano predisposte in modo da impedire l’invasione de­ ll) «piriti cattivi, più che l’attacco degli umani3. Anche in un periodo illirico abbastanza recente, nel Medioevo ad esempio, le mura delle cit­ tì arano consacrate ritualmente quale difesa contro il Demonio, la ma­ ialila e la morte. D’altronde il simbolismo arcàico non incontra alcuna tddk'oltà nell’equiparare il nemico umano al Demonio o alla Morte. In hn ilei conti il risultato degli attacchi, siano essi demoniaci o militari, I tempre lo stesso: la rovina, la disintegrazione, la morte. Ogni microcosmo, ogni regione abitata, ha ciò che si potrebbe chia­ mare un « Centro », ovvero un luogo sacro per eccellenza. £ qui, in guaito centro, che il sacro si manifesta in modo totale, vuoi nella for­ ma delle ierofanie elementari—come tra i « primitivi » (i centri tote1*1*1, ad esempio, le caverne in cui vengono sotterrati i tchuringa, e« >— vuoi nella forma più evoluta delle epifanie dirette degli dei, «•me nelle civiltà tradizionali. Non si deve tuttavia concepire questo •imito] ismo del Centro con le implicazioni geometriche proprie dello tftlrito scientifico occidentale. Per ciascuno di questi microcosmi pos1 t'Ir. W.J. Knight, Cumaean Gates, Oxford 1936; Karl Kerenyi, LabyrinthI A l b a e Vigilae, Heft xv, Amsterdam-Leipzig 1941.

39

Il simbolismo del « Centro » sono esistere svariati « centri ». Come vedremo tra poco, tutte le civil­ tà orientali—Mesopotamia, India, Cina, ecc.—conoscono un numero illimitato di « Centri ». Meglio ancora: ciascuno di questi * Centri » è considerato, e addirittura letteralmente denominato il « Centro del Mondo ». Lo spazio in questione è uno spazio sacro, determinato da una ierofania, vale a dire costruito ritualmente e non imo spazio profano, omogeneo, geometrico, perciò la pluralità dei « Centri della Terra » al­ l’interno di una stessa regione non fa alcuna difficoltà \ Siamo in pre­ senza di una geografìa sacra e mitica, la sola che sia effettivamente rea­ le e non di una geometria prolana, « obiettiva », in qualche modo astrat­ ta e non essenziale, costruzione teorica di uno spazio e di un mondo in cui non si abita e che perciò non si conosce. Nella geografia mitica, lo spazio sacre è ]®« ^ 4zìq reale per eccellenza in quanto, come è stato dimostrato di recentes, per il mondo arcaico il mito è reale poiché racconta le manifestazioni della vera realtà: il sacro. £ in tale spazio si attinge direttamente al sacro, sia esso materializzato in determinati oggetti ( tchuringa, rappresentazioni della divini­ tà, ecc.) oppure si manifesti nei simboli iero-cosmici (Pilastro del Mon­ do, Albero Cosmico, ecc.). Nelle culture che conoscono la concezione delle tre regioni cosmiche— Gelo, Terra, Inferno—il « centro » costi­ tuisce il punto di intersezione di tali regioni ed è qui che è possibile una rottura di livello e, con ciò stesso, una comunicazione tra queste tre regioni. Abbiamo motivo di credere che l’immagine di tre livelli cosmici sia alquanto arcaica; la si incontra, ad esempio, tra pigmei Semang della penisola di Malacca: al centro del mondo si erge una roccia enor­ me, Batu-Ribu e sotto di essa si trova l’inferno. Un tempo dal BatuRibu un tronco d’albero si innalzava verso il Cielo6. L ’inferno, il cen* tro della terra e la « porta » del cielo si trovano quindi sullo stesso as­ se ed è attraverso tale asse che avveniva il passaggio da una regione cosmica all’altra. Si stenterebbe a credere all’autenticità di questa teo­ ria cosmologica tra i pigmei Semang se ragioni fondate non ci facessero

, | !

j

i i

;

4 Cfr. il nostro Traité d’Histoire des Religions, Payot, Paris 1949, pp. 315s. (ed. it. pp. 380s.). 5 Cfr. R. Pettazzoni, Miti e Leggende, Torino 1948, i, p. v; id., «Verità del mito * in Studi e materiali di storia delle religioni, 1947-1948, voi. n a , pp. 104-116; G. van der ’Leeuw, «D ie Bedeutung der Mythen» in Festschrift für Alfred Beriholet, Tübingen 1949, pp. 287-293; M. Eliade, Traité d’Histoire des Religions, pp. 350s. (ed. it. pp. 398s.). 6 P. Schebesta, Les Pygmies, (trad. fr., Paris 1940, pp. 156s.). | 40

Il simbolismo del « Centro » ritenere che la stessa teoria era già delineata in epoca preistorica7. I Dtmang dicono che in tempi andati un tronco d’albero collegava la vet­ ta della Montagna Cosmica, il Centro del Mondo, con il Cielo. È que­ ll* un’allusione a un tema mitico estremamente diffuso: un tempo le Htmunicazioni con il Cielo e i rapporti con la divinità erano facili e • naturali »; a seguito di un peccato rituale, queste comunicazioni si Mino interrotte e gli dei si sono ritirati ancor più in alto nei cieli. Solo gli uomini medicina, gli sciamani, i preti e gli eroi oppure i sovrani rie*«mo a ristabilire, in via transitoria e per loro uso esclusivo, le comunliaxioni con il Cielo *. Il mito di un paradiso primordiale perso in se­ guilo ad un errore qualsiasi è estremamente importante però sebbene ila In qualche modo collegato al nostro tema, non !o possiamo discute1« ora.

Il simbolismo del « Centro » Torniamo dunque all’immagine delle tre regioni cosmiche collegate, In un « Centro », da un asse. Questa immagine archetipica si incontra Mtprattutto nelle civiltà paleo-orientali. Dur-an-ki, « legame tra il cielo • la terra », era il nome dei santuari di Nippur, Larsa e Sippar. Babilo­ nia aveva ima grande quantità di nomi tra i quali « Casa della base del >1» lo c della terra », « legame tra il Cielo e la Terra ». Ma sempre in Ba­ bilonia si attuava il legame tra la Terra e le regioni infere, poiché la citIÌ fra stata fondata su bàb-apsì, la « Porta d ’apsù », e apsù designa le Mquc del caos prima della Creazione. Ritroviamo questa stessa tradi»lone presso gli Ebrei. La rocca di Gerusalemme penetrava profondamattie nelle acque sott rranee (tehóm). È detto nel Mishna che il tem­ pio »1 trova proprio al di sopra di tehóm (equivalente ebraico di apsù). K, proprio come a Babilonia si aveva la « porta di apsù », la rocca del »ampio di Gerusalemme chiudeva la « bocca del tehóm ». Si incontrano h iniezioni simili nel mondo indoeuropeo. Per i Romani, ad esempio, Il mundus costituisce il pianto d’incontro tra le regioni infere e il mon' Clr. ad esempio, W. Gaerte, «Kosmische Voretellungen in Bilde prShiMtMlttiier Zeit: Erdberg, Himmelsberg, Erdnabel und Weltenstrome » in Anthropos, fa, 1914, pp. 956-979. • Cfr. il nostro libro Chamanisme et les tecbniques archàiques de l'extase, Ninh, Paris 1915 (tr. it. La sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Edizioni MediMfNnK, Roma 1974). 41

11 simbolismo del « Centro »

do terreno. Il tempio italico era la zona di intersezione dei mondi su­ periore (divino), terrestre e sotterraneo (infernale; cfr. Le Mythe de ' VEternel Retour, pp. 32s.; ed. it. pp. 23s.). Ogni città orientale si trovava, in effetti, al centro del mondo. Ba­ bilonia era una Bàb-ilàni, una « porta degli dei j», poiché in quel pun­ to gli dei scendevano sulla terra. La capitale del sovrano cinese si trova­ va in prossimità dell'Albero miracoloso « Legno eretto », Kien-mou, nel punto in cui si incrociavano le tre zone cosmiche: Gelo, Terra e Infer­ no. E gli esempi si potrebbero moltiplicare all’infinito. Tutte queste città, templi o palazzi considerati dei Centri del Mondo non sono che repliche, moltiplicate a piacere, di un’immagine arcaica: la Montagna Cosmica, PAlbero del Mondo o il Pilastro centrale che sostiene i livelli cosmici. Il simbolo di una Montagna, di un Albero o di un Pilastro situa al Centro del Mondo è estremamente diffuso. Ricordiamo il Monte Meru della tradizione indiana, Haraberezaiti degli iraniani, Himingbjòr dei Germani il « Monte dei paesi » della tradizione mesopotamica, il Monte Thabor in Palestina (che potrebbe voler dire tabbur, ovvero « ombelico », omphalos), il monte Gerizim, sempre in Palestina, chia­ mato esplicitamente « ombelico della terra », il Golgota che, per i cri­ stiani, si trovava al centro del mondo, ecc. (cfr. Traile, pp. 321s., ed. it. pp. 387s.; Le Mythe de VEternel Retour, pp. 30s., ed. it. pp. 22s.). In virtù del fatto che il territorio, la città, il tempio o il palazzo reale si trovavano al « Centro del Mondo », cioè alla sommità della Monta­ gna, essi erano considerati il luogo più alto del mondo, l’unico che non fosse stato sommerso dal diluvio. « La terra d’Israele non è stata som­ mersa dal diluvio », dice un testo rabbinico. E, secondo la tradizione islamica, il luogo più alto della terra è la Kà’aba poiché « la stella pola­ re testimonia che essa si trova di fronte al centro del cielo » (i testi , sono nel Mythe de VEternel Retour, p. 33; ed. it. p. 23). Il nome stes- \ so dei templi e dèlie torri sacre babilonesi testimonia la loro assimila­ zione ella montagna cosmica, ovvero al Centro del Mondo: « Monte della Casa », « Casa del Monte di tutte le terre », « Monte delle Tem­ peste », « Legame tra il Gelo e la Terra », ecc. Lo ziqqurat, era, a ri­ gore, una montagna cosmica, cioè un’immagine simbolica del còsmo: t sette piani rappresentavano i sette cieli planetari e il prete, salendoli, giungeva alla vetta dell’universo. Questo stesso simbolismo è alla base dell’enorme costruzione del tempio di Barabudur: esso è costruito come una montagna artificiale. Salire in cima ad esso equivale ad un viaggio 42

Il simbolismo del « Centro » ««tallio al Centro del Mondo; il pellegrino, nel momento in cui rag|limge U terrazza superiore, opera una rottura di livello, trascende lo profano e penetra in una « regione pura ». Siamo in presenza di mh • rito del centro » (i testi in Traiti, pp. 323s.; ed. it. p. 390). 1.« vetta della Montagna Cosmica non è soltanto il punto più alto •folli Terra, è l’ombelico della Terra, il punto in cui è cominciata la »««•»Ione. « Il Santissimo ha creato il mondo come un embrione », af­ flimi un testo rabbinico. « Proprio come l'embrione cresce a partire lUII'ninbelico, così Dio ha iniziato a creare il mondo dall’ombelico e di Il può li è espanso in tutte le direzioni ». « Il mondo è stato creato MHiilm'iando da Sion », dice un altro testo. Identico simbolismo nelI lodili antica: nel Rig-Veda, ^Universo è concepito come se la sua esten«liior fosse partita da un punto centrale (cfr. Traiti, p. 324, ed. it. p. »■9, i r Mythe, p. 36, ed. it. p. 24). I.* creazione dell’uomo, replica della cosmogonia, è avvenuta egualin un punto centrale, nel Centro del Mondo. Secondo la tradi­ rlo«# inesopotamica, l’uomo è stato creato all’« ombelico della terra », II ilovc si trova anche Dur-an-ki, il « legame tra il cielo e la terra ». I MmtiNzd crea l’uomo primordiale, Gajómard, al centro del mondo. Il t**t«di«> in qui Adamo fu creato con il fango si trova, beninteso, al Cen­ no ilfl Mondo. Il paradiso era 1’« ombelico della terra » e secondo una itnli*lone siriaca si trovava « su una montagna più alta di tutte le al­ iti • Secondo il libro siriaco La Caverna dei Tesori, Adamo è stato u n to «1 centro della terra, proprio nel medesimo punto in cui doveva |Ml rlrvirsi la croce di Gesù. Le stesse tradizioni sono state conservate tfol giudaismo. L ’apocalisse giudaica e il midrash precisano che Adamo lo irrito in Gerusalemme. Poiché Adamo fu seppellito nel luogo stes­ iti io cui fu creato, cioè al centro del mondo, sul Golgota, il sangue del lllgoorc lo redimerà (cfr. Traiti , pp. 323s., ed. it. pp. 387s.; Le Mythe, '2* . ed. it. p. 24s). I n variante più diffusa del simbolismo del Centro è l’Albero Co­ lmili» che si erge al centro dell’Universo e che sostiene a mo’ di asse I Ttr Mondi. L ’India vedica, l’antica Cina, la mitologia germanica al («ri «Ielle religioni « primitive » conoscono, sotto forme diverse, que­ lli! Albero Cosmico, le cui radici sprofondano fino agli Inferni e i cui unti toccano il Cielo. Nelle mitologie dell’Asia centrale e settentriona­ li, i »noi 7 o 9 rami simboleggiano i 7 o 9 livelli celesti, ovvero i 7 rltll planetari. Non è il caso di dilungarsi in questa sede sul complesso 43

Il simbolismo del « Centro » simbolismo dell’Albero del Mondo*. Ciò che a noi interessa è il ruolo che esso occupa nei « riti del centro ». In generale si può dire die la maggioranza degli alberi sacri e rituali che incontriamo nella storia del­ le religioni sono soltanto repliche, copie imperfette di questo archetipo esemplare: l’Albero dd Mondo. Questo vuol dire che tutti gli alberi sacri sono ritenuti trovarsi al Centro del Mondo o che tutti gli alberi rituali o i pali che vengono consacrati prima o durante una cerimonia, sono in certo modo proiettati magicamente al Centro dd Mondo. Accontentiamoci di gualche esempio. N dl’India vedica, il palo sacrificale {yùpa) è ricavato da un albero assimilato all’Albero Universale. Mentre viene abbattuto, il prete che dirige il sacrificio gli rivolge le seguenti parole: « Con la tua cima non strappare il Cielo, con il tuo centro non ferire l’atmosfera... ». Ben si vede che qui abbiamo a che fare con l’Albero d d Mondo vero e pro­ prio. Col legno di quest’albero si costruisce il palo sacrificale il quale diventa una sorta di pilastro cosmico: « Ergiti, o Signore della foresta, alla sommità della terra! », così lo invoca il Rig Veda, ni, 8,3. « Con la tua cima sostieni il Cido, con la tua parte di mezzo riempi l’aria, col tuo piede consolidi la terra », prodama il Qatapatha Brdhmana, in, 7,1,4. L ’innalzamento e la consacrazione del palo sacrificale costituiscono un rito del Centro. Il palo, assimilato all’Albero del Mondo, diventa a sua volta l’asse che collega le tre regioni cosmiche. La comunicazione tra il Cido e la Terra diventa possibile tramite questo pilastro. E , ef­ fettivamente, l’offidante d d sacrificio sale in d d o , da solo o in compa­ gnia della sua sposa, su questo palo trasformato ritualmente nelTAsse del Mondo vero e proprio. Appoggiandovi una scala, il sacrificatore si rivolge a sua moglie: « Vieni, saliamo in Cido! » La donna risponde: « Saliamo! » ( Cat. Br., v 2, 1, 9). E cominciano a montare i gradini. Arrivati in cima e toccando il capitello, il sacrificatore esdama: « Ab­ biamo raggiunto il G d o ! » (Taittiriya Samhilà, Cat. Br., ecc.). Oppure salendo i gradini d d palo, protende le mani (come un uccello dispiega le ali! ) e, giungendo in dma, esclama: « Ho raggiunto il Gelo, gli dice: sono diventato immortale! » (‘Taittiriya Samhilà, 1, 7, 9). « In verità », 9 Cfr. Il nostro Traiti, pp. 236s. (ed. it. pp. 310) Le Cbamanisme pp. 244s. (ed. it. pp. 293s.); sul simbolismo cristiano della croce *= Albero Cosmico, cfr. H. de Lubac, Aspects du Bouddhisme, Paris 1951, PP- 51s. (tr. it. Aspetti del Bud­ dismo, Jaca Book, Milano 1980, pp. 51s.). 44

Il simbolismo del « Centro » •IIIe sempre il Taittiriya Sahmilà (vi, 6, 4, 2), « il sacrificatore si fa una t« ala e un ponte per raggiungere il mondo celeste ». Il ponte o la scala tra la Terra e il Gelo erano possibili in quanto si »igevano in un Centro del Mondo. Proprio come la scala vista in sogno »1« (ìiacobbe che toccava i cieli. E « gli angeli di Dio salivano e scende­ vano su di essa » (Gn 28 ,lls.). Il rito indiano fa anche allusione al­ l’immortalità che si consegue con l’ascensione in Cielo. Come vedremo i«« fioco, un gran numero di altri accostamenti rituali ad un Centro *|ulvalgono a una conquista dell’immortalità. (.'assimilazione dell’albero rituale all’Albero Cosmico è ancora più naiparente nello sciamanismo dell’Asia centrale e settentrionale. La sca­ fi!« di un determinato albero compiuta dallo sciamano tartaro simboIfggla la sua ascensione al cielo. In effetti sull’albero vengono fatte 7 o ') lacche e, scalandole grazie ad esse, lo sciamano dichiara esplidtam»iiic di salire in cielo. Descrive ai presenti tutto ciò che vede in cia­ ti uno dei livelli celesti che attraversa. Al sesto cielo venera la luna, al «•(limo il sole. Finalmente, al nono, si prosterna di fronte a Bai Ulgan, l'tUncre Supremo e gli offre l’anima del cavallo sacrificatoI0. (.'albero sciamanico non è che una replica dell’Albero del Mondo ►li# al innalza nel mezzo dell’Universo e in cima al quale si trova il Dio «i|ircmo o il dio solarizzato. Le 7 o 9 tacche dell’albero sciamanico simMeggiano i 7 o 9 rami dell’Albero Cosmico, ovvero i 7 o 9 deli. Lo clamano, del resto, si sente solidale con questo Albero del Mondo in vinti di altri rapporti mistici. Nei suoi sogni iniziatid il futuro sdama­ mi è ritenuto accostarsi all’Albero Cosmico e ricevere dalla mano di Din In persona tre rami di questo Albero, che gli serviranno da casse |«r I tuoi tamburiu. £ noto il ruolo capitale che riveste il tamburo dulanlr le sedute sdamaniche: è soprattutto grazie ai tamburi die gli sdatttanl raggiungono l’estasi. Orbene, se si tiene presente che il tamburo è fallo con il legno stesso dell’Albero del Mondo, si comprende il simbollimu e il valore religioso dei : uoni del tamburo sdamanico: percuoten­ d o lo sciamano si sente proiettato, in stato di estasi, ai piedi dell’Al­ luni del Mondo 12. Abbiamo a che fare con un viaggio mistico al « Cen**

i-fr. materiali e bibliografia nel nostro libro Le Chamanisme, pp. 171s. (ed.

tl |i|i 220s.).

" A.A. Popov, Tavgfjcy. Materialy po etnografo avamskicb i vedeevskicb tavgf&v, Moika-Leningrad 1936; cfr. Le Chamanisme, pp. 160s. (ed. it. pp. 192s.). '* Cfr. E. Emsheitner, « Schamanentrommel und Trommelbaum » in Etbnos, voi. iv, pp. 166-181.

Il simbolismo del « Centro » ' tro » e, in seguito, al Cielo più alto. Quindi salendo la betulla cerimo­ niale a 7 o a 9 tacche, oppure suonando il tamburo lo sciamano intra­ prende il suo viaggio in Cielo. Tuttavia, egli è in grado di ottenere la rottura dei livelli cosmici che gli consentirà l’ascensione e il volo estati­ co attraverso i cieli, solo perché si ritiene che già si trovi al centro stes­ so del mondo; solo in questo centro, infatti, come abbiamo visto, è pos­ sibile la comunicazione tra la Terra, il Cielo e l’inferno13.

Simbolismo dell’ascensione È molto probabile che, per lo meno nel caso delle religioni centro asiatiche e siberiane, questo simbolismo del Centro sia influenzato da schemi cosmologici indo-iranici e, in ultima istanza, mesopotamici. L’im­ portanza del numero 7, tra l’altro, sembra dimostrarlo. È opportuno, tuttavia, beh distinguere tra il mutuare una teoria cosmologica elabora­ ta intorno al simbolismo del Centro—come sarebbe, ad esempio, la con­ cezione di 7 livelli celesti—e il simbolismo del centro in sé. Abbiamo già visto che questo simbolismo è estremamente arcaico, che è noto ai Pigmei della penisola di Malacca. £ se anche si potesse sospettare una lontana influenza indiana su questi Pigmei Semang, ci sarebbe ancora da spiegare il simbolismo del Centro che si incontra sui monumenti prei­ storici (Montagne Cosmiche, i quattro fiumi, l’Albero e la spirale, ecc.). Meglio ancora: si è potuto dimostrare che il simbolismo di un asse co­ smico è già noto nelle culture arcaiche (le Urkulturen di cui parla la scuola Graebner-Schmidt) e in primo luogo presso le popolazioni arti­ che e del nord America: il palo centrale dell’abitazione è, presso que­ sti popoli, assimilato all’Asse Cosmico. Ed è alla base di questo palo che vengono deposte le offerte destinate alle divinità celesti, dal momento che soltanto lungo quest’asse le offerte possono salire al cielo M. Quan­ do cambia la forma dell’abitazione e la yurta prende il posto della ca­ panna (tra i pastori-allevatori dell’Asia centrale, ad esempio), la funzio­ ne mitico-rituale del pilastro centrale è assolta dall’apertura superiore destinata a lasciar uscire il fumo. In occasione dei sacrifici, nella yurta viene introdotto un albero, la cui cima fuoriesce da tale apertura. Que13 L’ascensione iniziatica di un albero cerimoniale si ritrova anche nello sciamanismo indonesiano, sud americano (Araucani) e nord americano (Pomo), cfr. Le Chamanisme, pp. 122s., 125s. (ed. it. pp. 146s., 149s.). 14 Cfr. Le Chamanisme, pp. 235s. (ed. it. pp. 255s.).

46

Simbolismo dell’ascensione «lo «lbero sacrificale, con i suoi sette rami, simboleggia le sette sfere ce­ fali. Così, da un lato, la casa è omologata all’Uttiverso ed è, d’altra (•arie, considerata situata al Centro del Mondo, con l’apertura per il fu­ mii disposta di fronte alla stella polare. Torneremo più avanti su questa assimilazione simbolica dell’abita•tonc al « Centro del Mondo », poiché essa rivela imo dei comporta­ menti più istruttivi dell’uomo religioso arcaico. Soffermiamoci, per il momento, sui riti di ascensione che hanno luogo in un « centro ». Ab­ biamo visto che lo sciamano tartaro o siberiano si arrampica su un al­ bero e che il sacrificatore vedico sale su una scala. L ’obiettivo dei due •III è identico: l’ascensione al cielo. Un numero considerevole di miti («ria di un albero, di una liana, di una corda, di una ragnatela o di una « a la che collegano la terra al cielo e grazie a cui certi esseri privilegia­ li lalgono effettivamente al cielo. Questi miti hanno, ben s’intende, del­ ta corrispondenze rituali: ad esempio l’albero sciamanico o il palo del latrlficatore vedico. Accontentiamoci di qualche esempio: Polyaenus (Slntagematon, vii, 22) ci parla di Kosingas, prete-re di certe popola­ rm i della Tracia, il quàle minacciava di abbandonare i suoi sudditi, •alando su una scala di legno fino alla dea Hera: questo dimostra che una icala rituale di questo genere esisteva e che la si riteneva capace di «indurre il prete-re fino al Gelo. L ’ascensione celeste tramite la salita ceri­ moniale di una scala faceva probabilmente^, parte di un’iniziazione orfica. I lotnunque sia, la ritroviamo nell’iniziazione mitraica. Nei misteri di Mitra, la icala (climax) cerimoniale aveva sette gradini ciascuno di metallo diver­ bi Secondo Celso (Origene, Contro Celestum, vi, 22), il primo gradino ara di piombo e corrispondeva al « cielo » del pianeta Saturno, il seHindo di stagno (Venere), il terzo di bronzo (Giove), il quarto di ferro (Mercurio), il quinto di «lega monetaria» (Marte), il sesto d’argento (la luna), il settimo d’oro (il sole). L ’ottavo gradino, ci dice Celso, rapJ*r*»enta la sfera delle stelle fìsso ,5.* Salendo questa scala cerimoniale, l'infoiato percorreva effettivamente i 7 cieli, innalzandosi così fino all'Kmpireo. Allo stesso modo si montava fino all’ultimo cielo percorrenilti I «ette piani del ziqqurat babilonese o si attraversavano le diverse rew Cfr. i materiali raccolti nel nostro Chamanisme, pp. 248s. (ed. it. pp. 298s.). I*w II simbolismo cristiano dell’ascensione, cfr. Louis Beimaert, « Le symbolisme Mt*niionnel dans la liturgie et la mystique chrétiennes » in Eranos-Jahrbucb. Xttlirh 1951, xix, pp. 41-63.

47

Il simbolismo del « Centro » gioni cosmiche scalando la terrazza del tempio Barabudur che, come ab­ biamo visto, costituiva in sé una Montagna Cosmica e una imago mundi. Si comprende facilmente che la scalinata dell’iniziazione mitraica era un Asse del Mondo e si trovava al Centro dell’Universo: se non fosse stato così, la rottura dei livelli sarebbe stata impossibile. « Ini­ ziazione » vuol dire, ben lo si sa, morte e risurrezione del neofita, oppu­ re, in altri contesti, discesa agli Inferni seguita dall’Ascensione al Cie­ lo. La morte—iniziatica o no—è la rottura di livello per eccellenza. Per questo motivo è simboleggiata da una scalata e molto spesso i rituali funerari utilizzano scale o scalinate. L’anima del morto percorre i sen­ tieri di una montagna, oppure si arrampica su un albero, o una liana, fino ai cieli. Questa concezione si incontra un po’ dovunque nel mondo, dall’antico Egitto all’Australia. In assiro l’espressione corrente per « morire » è « aggrapparsi alla montagna ». Analogamente in egiziano, myny, « aggrapparsi », è un eufemismo per « morire ». Nella tradizio­ ne mitica indiana, Yama, il primo morto, si è arrampicato sulla mon­ tagna e ha percorso « le alte vie » per mostrare « il cammino a molti uomini », come leggiamo nel Rig Veda (x, 14,1). Il sentiero dei morti nelle credenze popolari uralo-altaiche si inerpica su per i monti; Bolot, eroe Kara-Kirghiso, al pari di Kesar, re leggenderio dei Mongoli, pene­ tra nel mondo dell’aldilà, a mo’ di prova iniziatica, attraverso una grot­ ta situata sulla cima delle montagne; la discesa dello sciamano agli In­ ferni si effettua anch’essa tramite una grotta. Gli Egiziani hanno con­ servato nei loro testi funerari l’espressione asket pet ( asket = « gradi­ no ») per indicare che la scala di cui dispone Ré è una vera e propria scala die collega la Terra al Cielo. « £ installata per me la scala per vedere gli dei », dice il Libro dei Morti. « Gli dei preparano per lui una scala affinché, grazie ad essa, monti in Gelo », dice sempre il Libro dei Morti. In molte tombe del tempo delle dinastie arcaiche e medio­ evali sono stati trovati amuleti raffiguranti una scala ( maqet) o una scalinata. L ’uso della scala funeraria è sopravvissuto, del resto, fino ai nostri giorni: molte popolazioni primitive—ad esempio i Lolo, i Karen, ecc.— erigono sulle tombe delle scale rituali che servono ai defun­ ti per salire ai Cieli “ . Come abbiamo appena visto la scala è portatrice di un simbolismo estremamente ricco e al tempo stesso perfettamente coerente: essa raf14 Cfr. Traiti d'Histoire des Religione, pp. 86s. (ed. it. pp. 114s.) Le Cbamanume et les techniques archàiques de l'extase, pp. 420s. (ed. it. pp. 470*.).

48

Simbolismo dell’ascensione /|f«r« plasticamente la rottura di livello che rende possibile il passaggio 4* un modo di essere a un altro, oppure, se ci piazziamo sul piano co­ smologico, che rende possibile la comunicazione tra Cielo, Terra e Initfmi. Per questo motivo la scala e la scalata esplicano un ruolo consitferevole sia nei riti e nei miti d’iniziazione che nei riti funerari, per ihm parlare dei riti d’intronizzazione reale o sacerdotale, oppure nei riti iHulrimoniali. Orbene, è noto che il simbolismo della scalata e dei grailltil «i incontra assai spesso nella letteratura psicoanalitica e questo con­ fiti!!« che abbiamo a che fare con un comportamento arcaico della psitlw umana e non con una creazione « storica », con un’innovazione do­ vuti a un momento storico particolare (mettiamo l’Egitto arcaico o l’Inilii vedica, ecc.). Mi accontenterò di un unico esempio di riscoperta •iumtanea di questo simbolismo primordiale17. Julien Green osserva nel suo Diario in data 4 aprile 1933: « In tut­ ti I miei libri, la nozione di paura o di qualsiasi altra emozione un po’ torte sembra inspiegabilmente legata a una scala. Me ne sono accorto l*rl mentre scorrevo tutti i romanzi che ho scritto... (seguono i rinvìi). MI domando come ho potuto ripetere così spesso questo effetto senza li sorgermene. Da bambino sognavo di essere inseguito su per una sca­ li Mia madre ha provato le stesse paure nella sua giovinezza; forse in Htr ne è rimasto qualcosa... » Ora sappiamo perché, nello scrittore francese, l’idea della paura era l«jl*ta all’immagine di una scala e perché tutti gli eventi drammatici ilficritti nella sua opera—amore, morte, delitti— si erano prodotti su imi scala. La scalata o l’ascensione simboleggiano la via verso la realtà iiiwluta e, nella coscienza profana, accostarsi a questa realtà provoca un •finimento ambivalente di paura e di gioia, di attrazione e di repulsio­ ni-, ecc. Nel simbolismo della scala sono implicate le idee di santifica­ tone, di morte, d’amore e di liberazione. In effetti, ciascuno di questi modi di essere rappresenta l’abolizione della condizione umana profana, ovvero una rottura di livello ontologico: attraverso l’amore, la morte, li santità, la conoscenza metafisica, l’uomo passa, come dice la Brihadàmnyaka Upanisad, « dall’irreale alla realtà ». Non bisogna però dimenticare che la scala simboleggia tutte queste tose in virtù del fatto che è ritenuta ergersi in un « centro », in quanto 11 Cfr. Il nostro studio « Durohàna and thè ‘waking dream’ » in Art and I Imught, A volume in bonour of thè late Dr Ananda K. Coomaraswamy, London

1947, pp. 209s. 49

Il simbolismo del « Centro » rende possibile la comunicazione tra i diversi livelli dell’essere, in quan­ to, infine, altro non è che una formula concreta della scala mitica, della liana o della ragnatela, dell’Albero Cosmico o del Pilastro Universale che collegano le tre zone cosmiche.

Costruzione di un centro Abbiamo visto come non solo i templi fossero ritenuti ergersi nel « Centro del Mondo », ma qualsiasi luogo sacro, qualsiasi luogo che manifestasse un inserimento del sacro nello spazio profano, fosse a sua' volta considerato un « centro ». Questi spazi sacri potevano anche ve­ nir costruiti, tuttavia la loro costruzione era in certo modo una cosmo­ gonia, tuia creazione del mondo, cosa questa del tutto naturale dal mo­ mento che, come abbiamo visto, il mondo è stato costruito a partire da un embrione, da un « centro ». Così, ad esempio, la costruzione del­ l’altare del fuoco vedico riproduceva la creazione del mondo e l’altare stesso era un microcosmo, un'imago mundi. L ’acqua nella quale si im­ pasta l’argilla, dice il Qatapatha Bràhmana (i 9,2,29; vi 5,ls. ecc.) è l’Acqua primordiale; l’argilla che serve di base all’altare è la terra; le pareti laterali rappresentano l’atmosfera, ecc. (Bisognerebbe forse ag­ giungere che questa costruzione implica altresì una costruzione del Tem­ po cosmico, ma non è il caso di affrontare questo problema in questa sede; cfr. Le Mytbe de l’Eternel Retour, pp. 122s.; ed. it. pp. 83s.). È inutile, quindi, insistere; la storia delle religioni conosce un nu­ mero considerevole di costruzioni rituali di un « Centro ». Osserviamo una cosa soltanto, molto importante a nostro modo di vedere: nella mi­ sura in cui i vecchi luoghi sacri, i templi o gli altari, perdono la loro ef­ ficacia religiosa, si scoprono e si applicano altre formule geomantiche, architettoniche o iconografiche le quali, in fin dei conti, rappresentano, talora in modo assai sorprendente, lo stesso simbolismo del « Centro ». Scegliamo un unico esempio: la costruzione e la funzione del manda­ la ". Questo termine significa « cerchio »; le traduzioni tibetane lo ren­ dono a volte con « centro », a volte con « ciò che circonda ». Di fatto. 11 Cfr. il nostro libro Tecbniques du Yoga, Gallimard, Paris 1948, pp. 185s. (tr. it. Tecniche dello Yoga, Boringhieri, Torino 1975); Giuseppe Tucci, Teoria e pratica del mandala, Roma 1949, sul simbolismo del mandala, cfr. C.G. Jung, Psychologie und Alchemie, Zurich 1944, pp. 139 sq. (tr. it. Psicologia e alchimia. Astrolabio, Roma 1950); id., Gestdtungen des Unbewussten, Zurich 1950, pp. 187s

50

Costruzione di un centro un mandala rappresenta tutta una serie di cerchi, concentrici o meno, * »fritti in un quadrato; all’interno di questo diagramma, disegnato per •erra con fili di diversi colori o con polvere di riso colorata, trovano po­ mi le diverse divinità del pantheon tantrico. Il mandala rappresenta quindi un'imago mundi e, al tempo stesso, un pantheon simbolico. Tra l'altro, per il neofita, l’iniziazione consiste nel penetrare nelle diverse «ine e accedere ai diversi livelli del mandala. Questo rito di penetrazio­ ne può essere considerato l’equivalente del rito ben noto della deambu­ la».ione attorno ad un tempio (pradakshina) o del progressivo innalzarsi, •Il terrazza in terrazza, fino alle « terre pure » del piano superiore del tempio. D ’altra parte, l’inserimento del neofita in un mandala può es­ tere comparato all’iniziazione mediante penetrazione in un labirinto; taluni mandala, del resto, hanno un carattere nettamente labirintico. La Iunzione del mandala può essere considerata quanto meno duplice, al |Mtri di quella del labirinto. Da un lato l’inserimento in un mandala di­ segnato per terra equivale a un rituale d’iniziazione; d’altra parte, il mandala « difende » il neofita da qualsiasi forza esterna nociva e al tem) n i »tesso lo aiuta a concentrarsi, a trovare il suo « centro ». Qualsiasi tempio indiano, comunque, visto dall’alto o proiettato in pianta, è un mandala. Qualsiasi tempio indiano è, al pari del mandala, un microcosmo e un pantheon a un tempo. A che prò, allora, costruire un mandala? Perché aver bisogno di un nuovo « Centro del Mondo »? Semplicemente perché, per certi devoti che sentivano la necessità di un’esperienza religiosa più autentica e più profonda, il rituale tradizio­ nale risultava fossilizzato: la costruzione di un altare del fuoco o Pascen­ done delle terrazze di un tempio non permetteva loro più di ritrovare II loro « Centro ». A differenza dell’uomo arcaico o dell’uomo dei Veda, l'uomo tantrico aveva bisogno di un’esperienza personale per rianima­ te nella sua coscienza determinati simboli primordiali. È questo, d’al­ tronde, il motivo per cui determinate scuole tantriche hanno rinuncia­ to ni mandala esterno ed hanno fatto ricorso a mandala interiorizzati. (Juesti possono essere di due tipi: 1) una costruzione puramente men­ tale, la quale funge da « supporto » alla meditazione, oppure 2) un’iden­ tificazione del mandala nel proprio corpo. Nel primo caso lo yogin si Introduce mentalmente all'interno del mandala e con ciò realizza un at­ to ili concentrazione e al tempo stesso di « difesa » contro le distrazio­ ni e le tentazioni. Il Mandala « concentra »: protegge dalla dispersio­ ne, dalla distrazione. L’identificazione del mandala nel proprio corpo ri­ vela il desiderio di identificare la propria fisiologia mistica a un micro­ 51

Il simbolismo del « Centro » cosmo. Una trattazione più particolareggiata della penetrazione grazie a tecniche yoga all’interno di ciò che si potrebbe chiamare il proprio « corpo mistico » ci condurrebbe troppo lontano. Ci basti dire che la rianimazione successiva dei cakra, delle « ruote » (cerchi) considerate al­ trettanti punti di intersezione della vita cosmica e della vita mentale, è messa in parallelo con la penetrazione iniziatica all’interno di un man­ dala. Il risveglio della kundalini equivale alla rottura del livello ontolo­ gico, ovvero alla realizzazione piena e cosciente del simbolismo del « Centro ». Come abbiamo appena visto, il mandala può essere, contempora­ neamente o volta per volta, il supporto di un rituale concreto, oppure di una concentrazione spirituale o ancora di una tecnica di fisiologia mistica. Questa polivalenza, questa capacità di manifestarsi su piani mol­ teplici, sebbene omologabili, è una caratteristica del simbolismo del Cen­ tro in generale e il perché di ciò è facilmente comprensibile: ogni esse­ re umano tende, anche inconsciamente, verso il Centro e verso il suo proprio Centro, il quale gli conferisce la realtà integrale, la « sacralità ». Questo desiderio profondamente radicato nell’uomo di trovarsi nel cuo­ re stesso del reale, al Centro del Mondo, nel punto in cui si stabilisce la comunicazione con il Cielo, ecco ciò che spiega l’uso smodato dei « Centri del Mondo ». Abbiamo visto più sopra che l’abitazione era omo­ logata a sua volta al Centro del Mondo. Ne consegue che tutte le case — così come tutti i templi, i palazzi, le città—si trovano situate in un unico, un identico punto comune, il Centro dell’Universo. Qui, tuttavia, non abbiamo forse una certa contraddizione? Tutto un insieme di miti, di simboli e di pratiche rituali concordano nel por­ re l’accento sulla difficoltà di penetrare in un centro e d’altra parte, pa­ rallelamente, una serie di miti e di riti stabiliscono che questo Centro è accessibile. Ad esempio, il pellegrinaggio ai luoghi santi è difficile, pe­ rò ogni visita a una chiesa costituisce un pellegrinaggio. L ’Albero Co­ smico è inaccessibile da un lato, dall’altro, invece, lo si può trovare in qualsiasi yurta. L’itinerario che conduce al « Centro » è disseminato di ostacoli eppure ogni città, ogni tempio, ogni dimora si trova al Centro dell’Universo. Le sofferenze e le « prove » affrontate da Ulisse sono fa­ volose, eppure qualsiasi ritorno al focolare « vale » il ritorno di Ulisse a Itaca. Tutto questo sembra indicare che l’uomo può vivere solo in uno spazio sacro, nel « Centro ». Si osserva che un gruppo di tradizioni at­ testa il desiderio dell’uomo di trovarsi senza sforzo al « Centro del 52

Costruzione di un centro Mondo », mentre un altro gruppo mette l’accento sulla difficoltà e di lonieguenza sul merito insito nel riuscire a penetrarvi. Non ci interesin questa sede, ricostruire la storia di ciascuna di queste tradizioni, il (atto che la prima—quella che consente la costruzione del « Centro » nell* casa stessa dell’uomo, quella della « facilità »— si incontri quasi dappertutto, ci conduce a ritenerla la più significativa. Essa mette in illievo una certa situazione umana che potremmo chiamare la nostaliit del paradiso. Con questo intendiamo il desiderio di trovarsi sempre i senza sforzo al centro del mondo, nel cuore della realtà e, per farla. Itreve, superare in modo naturale la condizione umana per ritrovare la ««indizione divina: un cristiano direbbe, la condizione anteriore al peci «io originale w. Non vorremmo concludere questo saggio senza aver richiamato un mito europeo che, benché riguardi solo indirettamente il simbolismo e I riti del Centro, concorre ad integrarli nell’ambito di un simbolismo amor più vasto. Si tratta di un particolare della leggenda di Parsifal e ilei Re Pescatore®. Si ricorda che il vecchio Re, detentore del segreto iltl Graal, era paralizzato da ima malattia misteriosa. Non era, del re­ no, il solo a soffrire: intorno a lui tutto cadeva in rovina, andava in ill«f*dmento, il palazzo, le torri, i giardini; gli animali non si moltipliinvino più, gli alberi non davano più frutti, le sorgenti si prosciugava­ no. Numerosi medici avevano cercato di curare il Re Pescatore senza il minimo risultato. Giorno e notte arrivavano cavalieri e tutti comincia­ vano col domandare notizie circa la salute del re. Un unico cavaliere —povero, sconosciuto e perfino un po’ ridicolo— si permise di ignorare II cerimoniale e le buone maniere. Il suo nome era Parsifal. Senza tener nmto del cerimoniale di corte si diresse direttamente verso il Re e senM alcun preambolo, gli chiese: « Dov’è il Graal? » In quell’istante tut­ to il trasforma: il Re si alza dal suo letto di sofferenze, l’acqua ripren­ da • scorrere nei fiumi e nelle fontane, la vegetazione rinasce, il castel­ lo è miracolosamente restaurato. Le poche parole pronunciate da Par­ titili erano bastate per rigenerare la Natura tutta. Quelle poche parole, tuttavia, costituivano la questione centrale, l’unico problema che pote­ va Interessare non soltanto il Re Pescatore, ma l’intero Cosmo: dove si trovava il reale per eccellenza, il sacro, il Centro della vita e la fonte * Cfr. Traiti d’Histoire des Religioni, pp. 326«. (ed. it. pp. 395«.); Le ChamaIM im i, pp. 417, 428s. (ed. it. pp. 467, 478s.). • Ptrceval, ed. Hucher, p. 466; Jessie L. Western, From Ritual to Romance, Cambridge 1920, pp. 12s. Lo stesso motivo mitico si ritrova nel culo di sir Qawain (Weston, ibid.).

33

Il simbolismo del « Centro » dell’immortalità? Dove si trovava il Sacro Graal? Nessuno, prima di Parsifal, aveva pensato a formulare questa domanda centrale, e il mon­ do periva a causa di tale indifferenza metafisica e religiosa, a causa di tale mancanza d’immaginazione e assenza del desiderio del reale. Questo piccolo dettaglio di un grandioso mito europeo ci rivela al­ meno un lato trascurato del simbolismo del Centro: non solo esiste un’intima solidarietà tra la vita universale e la salvezza dell’uomo, ma basta porsi il problema della salvezza, basta porsi il problema centrale, ovvero il problema, perché la vita cosmica si rigeneri in perpetuo. Ché spesso la morte— come questo frammento mitico sembra indicare—non è che il risultato della nostra indifferenza di fronte all’immortalità.

54

Capitolo secondo SIMBOLISMI INDIANI DEL TEMPO E DELL’ ETERNITÀ

La funzione dei miti I miti indiani, prima di essere « indiani », sono « miti », il che vuol «lire che rientrano in una particolare categoria di creazioni spirituali ilell ’umanità arcaica e, di conseguenza, possono essere paragonati a quali Imì altro gruppo di miti tradizionali. Prima di presentare la mitologia Indiana del Tempo, teniamo a ricordare brevemente gli intimi rapporti die esistono tra il Mito in quanto tale, forma originale dello spirito, e Il Tempo. Infatti, oltre alle specifiche funzioni che esso svolge nelle so­ cietà arcaiche e su cui in questa sede possiamo evitare di soffermarci, Il mito è altresì importante per le rivelazioni che ci fornisce in merito alla struttura del Tempo. Come tutti oggi concordano nell’affermare, un mito raccontava eventi che hanno avuto luogo in principio, ovvero « al­ le origini », in un istante primordiale e atemporale, in un arco di temfo sacro. Questo tempo mitico o sacro è qualitativamente diverso dal tempo profano, dalla durata continua e irreversibile, in cui si inserisce la nostra esistenza quotidiana e desacralizzata. Nel raccontare un mito il riattualizza in qualche modo il tempo sacro in cui si sono compiuti gli avvenimenti di cui si parla. (È del resto questa la ragione per cui, nelle società tradizionali, i miti non si possono raccontare non importa t|uando e non importa come: essi possono essere recitati solo durante 1« Magioni sacre, fuori dal villaggio e durante la notte, oppure attorno •I Cuoco prima o dopo le cerimonie, ecc.). In una parola si ritiene che il ffilto si svolga in un tempo—ci si passi l’espressione—intemporale, in 55

Simbolismi indiani del Tempo e dell’Eternità un istante senza durata, che è il modo in cui certi mistici e certi filosofi si rappresentano l’eternità. £ questa una constatazione importante poiché da ciò consegue che la recitazione dei miti non è senza conseguenze per chi la compie e per coloro che l’ascoltano. Per il semplice fatto di narrare un mito il tem­ po profano è— almeno simbolicamente— abolito: il narratore e il suo pubblico sono proiettati in un tempo sacro e mitico. In altro luogo 1 ab­ biamo cercato di mostrare che l’abolizione del tempo profano tramite l’imitazione dei modelli esemplari e la riattualizzazione degli eventi mitici costituisce un tratto specifico di ogni società tradizionale e che basta que­ sto unico tratto per differenziare il mondo arcaico dalle nostre società moderne. Nelle società tradizionali ci si sforzava, in modo conscio e de­ liberato, di abolire periodicamente il Tempo, di cancellare il passato e di rigenerare il Tempo tramite una serie di rituali che, in certo qual mo­ do, riattualizzavano la cosmogonia. Possiamo fare a meno, in questa sede, di addentrarci in elaborazioni che ci porterebbero troppo lontano dal nostro argomento specifico. Accontentiamoci di ricordare che un mito strappa l’uomo al tempo che gli è proprio, al suo tempo indivi­ duale, cronologico, « storico », e lo proietta, almeno simbolicamente, nel Gran Tempo, in un istante paradossale che non può essere misurato in quanto non costituito da una durata. £ come dire che il mito impli­ ca una rottura del tempo e del mondo circostante: realizza un’apertura verso il Gran Tempo, verso il Tempo sacro. In virtù del semplice fatto di ascoltare un mito, l’uomo dimentica la sua condizione profana, la sua « situazione storica », come si ha oggi l’abitudine di dire. Non è affatto necessario partecipare a una civiltà sto­ rica per poter dire di qualcuno che si trova in una « situazione stori­ ca ». L ’aborigeno australiano che si ciba di insetti e di radici si trova anche lui in una « situazione storica », ovvero in una situazione ben de­ limitata, che è espressa da una determinata ideologia ed è sostenuta da un determinato tipo di organizzazione sociale ed economica; nel caso specifico, l’esistenza dell’australiano rappresenta con ogni probabilità una variante della situazione storica dell’uomo paleolitico. L ’espressio­ ne « situazione storica », infatti, non necessariamente implica la « sto­ 1 Cfr. Le Mythe de l’Eternel Retour: Archétypes et Répétition, Gallimard, Paris 1949, pp. 83s. e passim (tr. it. Il mito dell’eterno ritorno, Rusconi, Milano 1975, pp. 62s.).

56

Miti indiani del Tempo ri« » nell’accezione maggiore del termine: implica soltanto la condizio­ ne umana in quanto tale, ovvero ima condizione retta da un determina­ lo sistema di comportamenti. Orbene, tanto un australiano che un indi­ viduo appartenente a ima civiltà molto più evoluta, ad esempio un ci­ nese o un indù, oppure un contadino di un paese europeo, ascoltando un mito, dimenticano in certo modo la loro situazione specifica e ven­ dono proiettati in un altro mondo, in un universo che non è più il loro misero, ristretto universo di ogni giorno. Ricordiamo che per ognuno di questi individui, per l’australiano come per il cinese, per l’indù come per il contadino europeo, i miti •uno veri in quanto sono sacri, in quanto parlano degli Esseri e degli avvenimenti sacri. Ne consegue che nell’atto di recitare o di ascoltare un mito, si riprende contatto con il sacro e con la realtà e così facendo «1 supera la condizione profana, la « situazione storica ». Si supera, in nitri termini, la condizione temporale e l’ottuso senso di sufficienza che è destino di ogni essere umano per il semplice fatto che ogni essere umano è « ignorante », identifica cioè se stesso e identifica il Reale con 1« propria particolare situazione. L ’ignoranza, infatti, è in primo luogo questa falsa identificazione del Reale con ciò che ciascuno di noi sem­ bra essere o sembra possedere. Un politico crede che l’unica, la vera realtà sia il potere politico, un miliardario è convinto che soltanto la ric­ chezza è reale, un erudito pensa la stessa cosa delle sue ricerche, dei suoi libri, dei suoi laboratori e via di seguito. La stessa tendenza si ritrova anche tra i meno civilizzati, tra i « primitivi » e i « selvaggi », con la differenza che presso di loro i miti sono ancora vivi e perciò impedisco­ no di identificarsi in modo completo e continuo con la non realtà. La recitazione periodica dei miti spezza i muri eretti dalle illusioni dell’esiutenza profana. Il mito riattualizza di continuo il Gran Tempo e così facendo proietta l’udienza su un piano sovrumano e sovrastorico che, tra l’altro, consente a tale udienza di accostarsi a una realtà impossibile da raggiungere sul spiano dell’esistenza profana individuale.

Miti indiani del Tempo Certi miti indiani illustrano in modo particolarmente felice questa funzione capitale di « infrangere » il tempo individuale e storico e di attualizzare il Gran Tempo mitico. Ne daremo un esempio celebre, trat­ to dal Brabmavaivarta Puràna, che il compianto Heinrich Zimmer ave­ 57

Simbolismi indiani del Tempo e dell’Eternita va commentato e riassunto nel suo libro Myths and Symbols in Indian Art and Civilization2. Questo testo ha il merito di introdurre direttamente il Gran Tempo quale strumento di conoscenza e quindi di libe­ razione dai legami di Màyà. Indra, dopo aver sconfitto il drago Vrtra, decide di rifare e abbelli­ re la residenza degli dei. Vifvakarman, l’artigiano divino, dopo un anno di lavoro riesce a costruire un palazzo magnifico. Indra, però, non si ri­ tiene soddisfatto: vuole ingrandire ancora la costruzione, renderla più maestosa, unica al mondo. Sfiancato dallo sforzo Vi?vakarman si lagna con Brahma, il Dio Creatore, il quale promette di aiutarlo e interviene presso Visnu, l’Essere Supremo, di cui Brahma stesso è un semplice strumento. Visnu si incarica di far tornare Indra alla realtà. Un bel giorno Indra riceve nel suo palazzo la visita di un ragazzo tutto stracciato. Si trattava di Visnu in persona il quale aveva assunto quelle sembianze per umiliare il Re degli Dei. Senza svelare subito la sua identità, lo chiama « figlio mio » e comincia a parlargli degli innu­ merevoli Indra che fino a quel momento hanno popolato gli Universi senza numero. « La vita e il regno di un Indra, gli dice, durano 71 eoni (un ciclo, un mabàyuga, comprende 12000 annate divine, ovvero 4320000 anni): un giorno e una notte di Brahma equivalgono a 28 esistenze di Indra. Tuttavia l’esistenza di un Brahma, misurata sulla base di que­ sti giorni e notti di Brahma, è di soli 108 anni. A un Brahma ne segue un altro; uno si corica, l’altro si alza. Non li si può contare. Il numero di questi Brahma non ha fine— per non parlare degli Indra!... Ma chi calcolerà il numero degli Universi, ciascuno con il loro Brahma e il loro Indra? Al di là della visione più lontana, al di là di ogni spazio immaginabile, gli Universi nascono e svaniscono all’infinito. Al pari di vascelli leggeri, questi Universi galleggiano sull’acqua pura e senza fondo che costituisce il corpo di Visnu. Da ogni poro di questo corpo un Universo affiora un istante e scoppia. Avresti forse la presun­ zione di contarli? Credi forse di poter enumerare gli dei di tutti questi Universi—gli Universi attuali e quelli passati?... » Mentre il ragazzino parlava una processione di formiche aveva fatto la sua comparsa nel salone del palazzo. Schierato in una colonna larga due metri, la folla delle formiche sfilava sul pavimento. Il bambino le nota, poi, preso da stupore, scoppia in un’improvvisa risata. « Perché 2 Cfr. Heinrich Zimmer, Myths and Symbols in Indian Art and Civilization, a cura di Joseph Campbell, The Bollingen Series, vi, New York 1946, pp. 3s.

58

Miti indiani del Tempo ridi? » gli chiede Indra. « Ho visto le formiche, oh Indra, che sfilavano In lunga parata. Ognuna di esse era stata un Indra in passato. Al pari di te, per la sua pietà, ognuna di esse era salita un tempo al rango di Re degli Dei. Ora però, dopo molteplici trasmigrazioni, ognuna è ridi­ ventata formica. Questo esercito di formiche è un esercito di antichi Indra... » A seguito di questa rivelazione Indra comprende la vanità del suo orgoglio e delle sue ambizioni. Chiama l’ammirevole architetto Vi?vakarman, lo ricompensa regalmente e rinuncia per sempre ad ingrandire il palazzo degli dei. L’intenzione di questo mito è trasparente. La vertiginosa evocazio­ ne degli innumerevoli Universi che sorgono e scompaiono dal corpo di Visnu basta, da sola, a risvegliare Indra, cioè a costringerlo a superare l'orizzonte limitato e rigorosamente condizionato della sua « situazio­ ne » di Re degli Dei. Si sarebbe anzi tentati di aggiungere, della sua « si­ tuazione storica », in quanto Indra si trova ad essere il Gran Capo guer­ riero degli dei in un determinato momento storico, in una data tappa ilei grandioso dramma cosmico. Indra ascolta dalla bocca stessa di Vlsnu una storia vera: la vera storia dell’eterna creazione e distruzione dei mondi, a fianco della quale la sua storia personale, le innumerevoli «vventure eroiche che culminano nella vittoria su Vrtra sembrano, ef­ fettivamente, essere « storie false », ovvero eventi privi di significato trascendente. La storia vera gli rivela il Gran Tempo, il tempo mitico, che è la vera fonte di ogni essere e di ogni evento cosmico. Indra, poi­ ché riesce a superare la sua « situazione » storicamente condizionata e riesce a strappare il velo illusorio creato dal tempo profano, cioè dalla ■uà « storia » personale, è guarito del suo orgoglio e della sua ignoran­ ti!«; in termini cristiani egli viene « salvato ». E questa funzione reden­ trice del mito opera non soltanto per Indra ma anche per ciascun uomo che ascolta la sua avventura. Trascendere il tempo profano, ritrovare il gran tempo mitico, equivale a una rivelazione della realtà suprema: realtà rigorosamente metafisica alla quale ci si può accostare soltanto at­ traverso i miti e i simboli. Questo mito ha un seguito su cui torneremo più avanti. Per il mo­ mento precisiamo che la concezione del tempo ciclico e infinito, presen­ tata in modo così avvincente da Visnu, è la concezione panindiana dei deli cosmici. La creazione nella creazione e nella distruzione periodica «lell’Universo si trova già nell’Atharva Veda (x 8, 39-40). Essa appartie­ ne, del resto, alla Weltanschauung di tutte le società arcaiche. 59

Simbolismi indiani del Tempo e dell’Eternità

La dottrina degli « Yuga » L ’India, tuttavia, ha elaborato una dottrina dei cicli cosmici ampli­ ficando in proporzioni sempre più terrificanti il numero delle creazioni e delle distruzioni periodiche dell’Universo. L ’unità di misura del ciclo più piccolo è lo yuga, 1’« età ». Uno yuga è preceduto da un’«, aurora » e seguito da un « crepuscolo » che collegano tra di loro le « età ». Un ciclo completo o mabàyuga si compone di quattro « età » di durata ine­ guale, con la più lunga all’inizio del ciclo e la più corta alla suà conclu­ sione. I nomi di questi yuga sono mutuati dai termini che designano i diversi « colpi » al gioco dei dadi. Krta yuga (dal verbo kr, « fare, com­ piere ») vuol dire 1’« età compiuta », cioè, nel gioco dei dadi, il colpo vincente, quello che lancia il dado a quattro punti. Il numero quattro, infatti, nella tradizione indiana simboleggia là totalità, la pienezza e la perfezione. Il krta yuga è l’età perfetta ed è per questo chiamato anche satya yuga, cioè 1’« età reale », quella vera, autentica, perfetta. È, da ogni punto di vista, l’età dell’oro, l’epoca beatifica in cui regnano la giu­ stizia, la felicità, l’opulenza. Durante il krta yuga, l’ordine morale dell’Universo, il dbarma, è rispettato nella sua integrità. Cosa ancor più importante, esso è rispettato spontaneamente, senza costrizioni, da tut­ ti gli esseri, in quanto, durante il krta yuga, il dbarma in certo modo si identifica con l’esistenza umana. L ’uomo perfetto del krta yuga incarna la norma cosmica e di conseguenza la legge morale. Vive un’esistenza esemplare, archetipa. In altre tradizioni, fuori dall’india, questa età del­ l’oro equivale all’epoca paradisiaca primordiale. L ’età successiva, il tretà yuga, la « triade », così chiamata a causa del dado a tre punti, segna già una regressione. Gli umani ormai seguono solo tre quarti del dbarma. Il lavoro, la sofferenza e la morte sono ora appannaggio degli uomini. Il dovere non è più spontaneo, deve essere appreso. I modi d’essere propri delle quattro caste cominciano ad esse­ re alterati. Con il dvàpara yuga (1’« età » caratterizzata dal « due »), in terra sussiste solo metà del dbarma. I vizi e le disgrazie aumentano, la durata della vita umana diminuisce ulteriormente. Nel kdi yuga, 1’« età cattiva » resta solo un quarto del dbarma. Il termine kali indica il dado con un punto solo, di conseguenza il colpo perdente (impersonato del resto da un genio cattivo); kali significa anche « disputa, discordia » e, in genere, il più cattivo in un gruppo di esseri o di oggetti. L ’uomo e la società raggiungono, nel kdi yuga, il punto estremo di disintegrazio­ ne. Secondo il Visnu Puràna (iv 24) la sindrome del kali yuga si ricò60

La dottrina degli « Yuga » nosce in virtù del fatto che nel corso di questa epoca solo la proprietà conferisce il rango sociale, la ricchezza diventa l’unica fonte delle vir­ tù, la passione e la lussuria l’unico vincolo tra gli sposi, la falsità e la menzogna l’unica condizione del successo nella vita, la sessualità l’unico mezzo di godimento e la religione esteriore, puramente ritualistica, vie­ ne confusa con la spiritualità. Da molti millenni stiamo vivendo, benin­ teso, nel kali yuga. Le cifre 4, 3, 2 e 1 denotano a un tempo la durata decrescente di ogni yuga e la progressiva diminuzione del dharma che in esso sussiste, ■ cui corrisponde del resto una diminuzione della durata della vita umana, accompagnata, come abbiamo visto, da un progressivo allentarsi dei costumi e da un declino continuo dell’intelligenza. Certe scuole in­ diane, come il Pàncaràtra, collegano del resto alla teoria dei cicli m a dottrina della « decadenza della conoscenza » (jhàna bramca). È possibile calcolare in modo diverso la durata relativa di ciascuno di questi quattro yuga: tutto dipende dal valore che viene accordato ■gli anni, cioè se si ha a che fare con anni umani, oppure con anni «c di­ vini », ciascuno dei quali abbraccia 360 anni. Qualche esempio basterà. Secondo certe fonti (Manu, i, 69s.; Mahàbràrata, in 12.826) il krta yuga dura 4000 anni, più 400 anni di « aurora » e altrettanti di « crepusco­ lo »; vengono poi tretà yuga di 3000 anni, dvàpara di 2000 e kali yuga di 1000 anni (più, si intende, le « aurore » e i « crepuscoli » corrispon­ denti). Un ciclo completo, un mahàyuga, abbraccia quindi 12000 anni. Il passaggio da uno yuga all’altro si verifica nel corso di un « crepusco­ lo » che segna un calando all’interno stesso di ciascuno yuga e ciascu­ no di essi si conclude con una tappa di tenebre. Man mano che ci si av­ vicina alla fine del ciclo, ovvero al quarto ed ultimo yuga, le « tene­ bre » si infittiscono. L ’ultimo yuga, quello in cui ci troviamo attualmen­ te, è del resto considerato 1’« età delle tenebre » per eccellenza, in quan­ to, con un gioco di parole, esso è stato messo in rapporto con la dea KAlì, cioè « la Nera ». Kàlì è uno dei tanti nomi della Grande Dea, del­ la (¿akti, la sposa del dio Qiva. Non è mancato l’accostamento tra que­ llo nome della Grande Dea e il termine sanscrito kMa, « tempo »: Kàlì ■arebbe non soltanto « la Nera », ma anche la personificazione del Tem­ po1. Qualunque sia il valore di questa etimologia, l’accostamento tra kila, il « Tempo », la dea Kàlì e kali yuga è lecito sul piano della strut­ 1 Cfr. J. Przyluski, « From thè Great Goddess to Kàla » in Indiati Historical Quarterly, 1938, pp. 267—74.

61

Simbolismi indiani del Tempo e dell’Eternità tura: il Tempo è « nero » in quanto è irrazionale, duro, spietato e Kali, come tutte le altre Grandi Dee, è la signora del Tempo, dei destini che essa forgia e realizza. Un ciclo completo, un mahàyuga, termina con una « dissoluzione », un pralaya, che si ripete in modo più radicale ( mahàpralaya, la « Gran­ de Dissoluzione ») alla fine del millesimo ciclo. Infatti l’ulteriore specu­ lazione ha amplificato e riprodotto all’infinito il ritmo primordiale, « creazione-distruzione-creazione », proiettando l’unità di misura, lo yuga, in cicli sempre più vasti. I 12000 anni di un mahàyuga sono stati considerati « anni divini », ciascuno dei quali ha una durata di 360 an­ ni, per cui abbiamo un totale di 4320000 anni per ciascun ciclo cosmi­ co. Un migliaio di mahàyuga di questo tipo costituiscono un kalpa (« forma »); 14 kalpa fanno un manvantàra. « Viene così chiamato in quanto si ritiene che ogni manvantàra sia retto da un Manu, il mitico Antenato-Re ». Una kalpa equivale a un giorno della vita di Brahma; un altro kalpa a una notte. Cento di questi « anni » di Brahma, ovvero 311000 miliardi di anni umani, costituiscono la vita del dio. Tuttavia questa considerevole durata della vita di Brahma non riesce neppure ad esaurire il Tempo, in quanto gli dei non sono eterni e le creazioni e di­ struzioni cosmiche si susseguono ad infinitum. Ciò che vai la pena di ritenere di tutta questa valanga di cifre è il carattere ciclico del tempo cosmico. In effetti assistiamo alla ripetizio­ ne infinita dello stesso fenomeno (creazione-distruzione-nuova creazio­ ne) avvertito in ogni yuga (« aurora » e « crepuscolo ») ma compietamente realizzato da un mahàyuga. La vita di Brahma comprende quindi 2560000 di questi mahàyuga, ciascuno dei quali ripercorre le stesse tap­ pe (krta, tretà, dvàpara, kali) e finisce cqp un pralaya, con un ragnarók (la distruzione « definitiva », nel senso della totale dissoluzione dell’Uovo cosmico, la quale si verifica alla fine di ogni kalpa al momento del mahà pralaya. Precisiamo che il mahà pralaya implica la regressione di tutte le « forme » e di tutti i modi di esistenza alla prakrti indiffe­ renziata originale. Sul piano mitico, nulla sussiste al di fuori ddl’Oceano primordiale, sulla cui superficie dorme il Grande Dio, Visnu). Oltre alla svalutazione metafisica della vita umana in quanto storia * —la quale, nella misura e sulla base del semplice fatto della sua dura­ ta, provoca un'erosione di tutte le forme, esaurendone la sostanza onto­ 4 A questo proposito cfr. Le Mytbe de l’Eternel Retour, pp. 170s. e passim (ed. it. pp. I20s. e passim).

La dottrina degli « Yuga » logica—e oltre al mito della perfezione degli inizi, tradizione universale che ritroviamo anche qui (mito del paradiso gradualmente perduto in ragione del semplice fatto che si realizza, che prende forma e che dura) ciò che in quest’orgia di cifre merita di fermare la nostra attenzione è l'eterna ripetizione del ritmo fondamentale del Cosmo, la sua periodica distruzione e ricreazione. L’uomo può sganciarsi da questo ciclo senza inizio né fine, che è la manifestazione cosmica della màyà, solo in vir­ tù di un atto di libertà spirituale (giacché tutte le soluzioni soteriologiche indiane si riducono alla liberazione preliminare dall’illusione cosmi­ ca e alla libertà spirituale). Le due grandi eterodossie, il buddismo e il jainismo, accettano nel­ le grandi linee la dottrina panindiana del tempo ciclico e lo paragonano « una ruota a dodici raggi (questa immagine è già utilizzata nei testi ve­ dici, cfr. Atharva Veda, x 8, 4; Rig Veda, i 166, 115, ecc.). Il buddi­ smo adotta come unità di misura dei cicli cosmici il kalpa (in pàli: Map­ pa), suddiviso in un numero variabile di ciò che i testi chiamano « in­ calcolabili » (asamkhyeya; in pàli asankheyya). Le fonti pàli parlano in (tenere di quattro asankheyya e di centomila kappa (cfr. ad esempio jàlaka, i, p. 2). Nella letteratura mahàyànica, il numero di « incalcola­ bili » varia fra 3, 7 e 33 ed essi sono messi in relazione con il progres»o del Boddhisattva nei diversi cosmi. La progressiva decadenza del­ l’uomo segnata nella tradizione buddista da una costante diminuzione della durata della vita umana. Così, secondo Dighanikàya n, 2-7, al­ l’epoca del primo Budda, Vipassi, il quale fece la sua comparsa 91 kap­ pa or sono, la durata della vita umana era di 80000 anni; all’epoca del •econdo Budda, Sikhi (31 kappa or sono), di 70000 anni e cosi via. II »ettimo Budda, Gautama, compare nel momento in cui la vita umana è ormai di soli 100 anni, ovverb è ridotta al limite estremo. (Lo stesso motivo si ritroverà nelle apocalissi iraniche). Eppure per il buddismo, come per la speculazione indiana nella sua totalità, il tempo è illimitato r il Boddhisattva si incarnerà, al fine di annunciare la buona novella di ulvezza a tutti gli esseri, in aeternum. L ’unica possibilità di uscire dal tempo, di spezzare il cerchio di ferro delle esistenze, è l’abolizione della condizione umana e la conquista del Nirvàna. Del resto tutti questi « in­ calcolabili » e tutti gli innumerevoli eoni hanno anch’essi una funzione m»enologica: la semplice contemplazione del loro panorama terrorizza l’uomo e lo costringe a « rendersi conto » che deve ricominciare miliar­ di di volte questa stessa esistenza evanescente e sopportare le stesse sof­

63

Simbolismi indiani del Tempo e dell’Eternità ferenze senza fine; l’effetto di dò è quello di esacerbare la sua volontà di evasione, doè di spingerlo a trascendere definitivamente la sua con­ dizione di « esistente ».

Tempo cosmico e Storia Soffermiamod un attimo su questo punto preciso; la visione del Tempo infinito, del d do senza fine delle creazioni e delle distruzioni de­ gli Universi, in ultima istanza il mito dell’eterno ritorno, elevato a « strumento di conoscenza » e mezzo di liberazione. Nella prospettiva del Gran Tempo, ogni esistenza è precaria, evanescente, illusoria. Se le si considera sul piano dei ritmi cosmid superiori, doè sul piano d d mahàyuga, dei kalpa, d d manvantàra, non solo l’esistenza umana e la storia stessa—con tutti i suoi imperi, le sue dinastie, le sue rivoluzioni e controrivoluzioni—si riveleranno effimere, in qualche sorta irreali, ma lo stesso universo è svuotato di realtà, ché, come abbiamo visto , gli Universi nascono in continuazione dagli innumerevoli pori d d corpo di Visnu e scompaiono con la rapidità di una bolla d’aria che scoppia una volta raggiunta la superficie dell’acqua. L’esistenza nel Tempo è, dal punto di vista ontologico, una non esistenza, un’irrealtà. In questo senso deve essere inteso quanto afferma l’idealismo indiano e in primo luogo il Vedànta: il mondo è illusorio, privo di realtà, dal momento che la sua durata è limitata poiché, nella prospettiva dell’eterno ritor­ no, essa è una non durata. Il tavolo su cui scrivo è irreale non perché non esiste nel senso proprio del termine, nel qual caso sarebbe un’illu­ sione dei nostri sensi; non è illusione: esiste in questo momento predso—ma questo tavolo è illusorio in quanto non esisterà più da qui a diecimila o centomila anni. Il mondo storico, le società e le civiltà co­ struite a fatica con lo sforzo di migliaia di generazioni, tutto questo è illusorio in quanto, sul piano dei ritmi cosmici, il mondo storico dura 10 spazio di un istante. L ’uomo del Vedànta, il buddista, lo rsi, lo yogi, 11 sàdhu, ecc., tirano le logiche conclusioni della lezione d d Tempo in­ finito e dell’Etemo Ritorno, rinunciano al mondo e ricercano la Realtà assoluta, ché solo la conoscenza dell’Assoluto li aiuta a liberarsi dall’il­ lusione, a strappare il velo della Màyà. La rinuncia al mondo, tuttavia, non è l’unica conseguenza che un in­ diano è in diritto di trarre dalla scoperta del Tempo ciclico infinito. Co­ me oggi si comincia a meglio comprendere, l’india non ha conosciuto 64

Tempo cosmico e Stona unicamente la negazione e il rifiuto totale del mondo. Partendo sempre dal dogma dell’irrealtà di fondo del Cosmo, la spiritualità indiana ha altresì elaborato ima via che non necessariamente conduce all’ascesi e «D'abbandono del mondo. È, ad esempio, la via predicata da Krsna nel­ la Bhagavad-Gtta5: la phalatrsnavairàgya, ovvero la «rinuncia ai frut­ ti delle proprie azioni », ai benefici che si possono trarre dalle azioni, ma la rinuncia all’agire in sé. È la via che mette in luce il seguito del mito di Visnu e di Indra, di cui abbiamo raccontato più sopra l’avven­ tura. In effetti Indra, umiliato dalla rivelazione di Visnu, rinuncia alla sua vocazione di dio guerriero e si ritira sulle montagne per praticare l’asce­ tismo più terribile. In altri termini si appresta a trarre quella che gli •embra essere l’unica conclusione logica della scoperta dell’irrealtà e delI* vanità del mondo. Si trova in una situazione identica a quella in cui ni trovò il principe Siddhàrta immediatamente dopo aver abbandonato il suo palazzo e le sue spose a Kapilavatsu ed essersi dedicato a penose mortificazioni. Ci si può domandare se un Re degli Dei, uno sposo, avesse il diritto di trarre simili conclusioni da una rivelazione di ordi­ ne metafisico, se la sua rinuncia e la sua ascesi non mettessero in peri­ tolo l’equilibrio del mondo. In effetti, poco tempo dopo, sua moglie, la regina Caci, desolata di essere stata abbandonata, implora l’aiuto del prete-consigliere Brhaspati. Costui, prendendola per mano, va da Indra c gli parla lungamente, non soltanto della virtù della vita contemplati­ va, ma anche dell’importanza della vita attiva, della vita che trova la mia pienezza in questo mondo. Indra, a questo modo, riceve una secon­ da rivelazione: comprende che ciascuno deve seguire la via che è la sua c realizzare la propria vocazione, ovvero, in ultima istanza, compiere il «uo dovere. Però, dal momento che la sua vocazione e il suo dovere era­ no di continuare a rimanere Indra, egli riprende la sua identità e pro­ segue le eroiche avventure, senza orgoglio e senza fatuità, poiché ha compreso la vanità di ogni « situazione », fosse anche quella di Re de­ gli Dei... Questo seguito del mito ristabilisce l’equilibrio: l’importante non è tempre rinunciare alla propria situazione storica sforzandosi invano di unirsi all’Essere universale, bensì di conservare costantemente nello spi­ * Cfr. ad esempio, Bhagavad-Gità, iv, 20; cfr. il nostro libro Techniques da Voga, Gallimard, Paris 1948, pp. 141s. (tf. it. Tecniche dello yoga, Boringhieri, Torino 1975, pp. 187s.). 65

Simbolismi indiani del Tempo e dell’Eternità rito le prospettive del Gran Tempo, pur continuando ad adempiere al proprio dovere nel tempo storico. £ esattamente questa la lezione che, nella Bhagavad-Gita, Krsna impartisce a Arjuna. In India, come un po’ dovunque nel mondo arcaico, questa apertura sul Gran Tempo, otte­ nuta tramite la recitazione periodica dei miti, consente di prolungare al­ l’infinito un certo ordine, metafisico, etico e sociale a un tempo, ordine che non conduce affatto all’idolatria della Storia, ché la prospettiva del Tempo mitico rende illusorio qualsiasi frammento del tempo storico. Come abbiamo appena visto, il mito del Tempo ciclico e infinito, strappando le illusioni ordite dai ritmi minori del Tempo, cioè dal tem­ po storico, ci rivela a un tempo la precarietà e, in fin dei conti, Tirrealtà ontologica dell’Universo e la via della nostra liberazione. In effet­ ti ci si può salvare dai vincoli della Màyà o attraverso la via della con­ templazione, rinunciando al mondo e praticando l’ascesi e le tecniche mistiche che ad essa conducono, oppure attraverso una via attiva, con­ tinuando a rimanere nel mondo, senza più godere però dei « frutti del­ le proprie azioni » (phalatrsnavairàgya). In un caso come nell’altro, Pimportante è non credere unicamente alla realtà delle forme che nascono e fioriscono nel Tempo: non bisogna mai perdere di vista il fatto che tali forme sono « vere » unicamente sul piano di riferimento che è loro proprio, ma che, dal punto di, vista ontologico, sono prive di sostanza. Come dicevamo più sopra, il tempo può diventare uno strumento di co­ noscenza nel senso che basta proiettare una cosa o un essere sul piano del Tempo cosmico per rendersi immediatamente conto della sua irreal­ tà. La funzione gnoseologica e soteriologica di un simile cambiamento di prospettiva ottenuto tramite l’apertura verso i ritmi maggiori del tempo è messa in luce in modo ammirevole da certi miti che si riferi­ scono alla Màyà di Vii«u. Ecco uno di questi miti, nella versione moderna e popolare narrata da Sri Ramakrishna *. Un asceta illustre di nome Nàrada si conquistò con le sue innumerevoli pratiche austere la grazia di Vìsnu e un giorno il dio gli appare e gli promette di adempiere qualsiasi suo desiderio. « Mostrami la potenza magica della tua màyà », gli chiede Nàrada. Vir#u acconsente e gli fa cenno di seguirlo. Poco tempo dopo, trovan­ dosi su un sentiero deserto in pieno sole ed essendo assetato, Vìsnu lo prega di andare qualche centinaio di metri più in là, dove si intravede * The Sayings of Sri Ramakrishna, Madras 1938, Libro iv, capitolo 22. Cfr. un’altra versione di questo mito secondo la Matsya Purina, raccontata da H. Zimmer, Myths and Symbols, pp. -27s.

66

Il « terrore del Tempo » un piccolo villaggio, a prendergli un po’ d’acqua. Nàrada si precipita e bussa alla porta della prima casa che incontra. Gli apre una bellissima ragazza. L ’asceta la guarda a lungo e dimentica la ragione della sua ve­ nuta. Entra in casa e i genitori della ragazza lo ricevono con il rispetto dovuto a un santo uomo. Passa il tempo, Nàrada finisce con lo sposare la ragazza, conosce le gioie del matrimonio e sperimenta quanto sia dura la vita del contadino. Passano dodici anni e, dopo la morte di suo suo­ cero, egli diventa proprietario della fattoria. Nel corso del dodicesimo anno, però, la regione è inondata da piogge torrenziali. In una tiotte il bestiame annega, la casa crolla. Sostenendo con una mano sua moglie, tenendo con l’altra i suoi due figli e portando sulla spalla il più picco­ lo, Nàrada si fa strada con difficoltà attraverso le acque. Il fardello, però, è tròppo pesante, egli scivola e il più piccolo cade in acqua. Nàra­ da lascia gli altri due bambini e fa di tutto per ritrovarlo, ma è troppo tardi: il torrente lo ha trascinato via. Mentre è alla ricerca del piccolo, le acque inghiottono gli altri due bambini e, poco dopo, la moglie. Lo «tesso Nàrada cade e il torrente lo trascina privo di sensi, come un pez­ zo di legno. Quando ritorna in sé, sbattuto contro una roccia, e gli ven­ dono in mente le sue disgrazie, scoppia in singhiozzi. All’improvviso, l>crò, sente una voce familiare. « Figliolo! Dov’è l’acqua che mi dovevi |x>rtare? È più di mezz’ora che ti aspetto! ». Nàrada gira la testa e si guarda intorno. Al posto del torrente che aveva distrutto ogni cosa ve­ de i campi deserti, scintillanti sotto il sole. « Capisci ora il segreto della mia màyà? » gli chiede il dio. È evidente che Nàrada non poteva affermare di aver capito tutto, |«rò aveva imparato una cosa essenziale: ora sapeva che la Màyà cosmiin di V ì j « u si manifesta attraverso il Tempo.

Il « terrore del Tempo » Il mito del tempo ciciclo, ovvero dei cicli cosmici che si ripetono al­ l'infinito non è un’innovazione del pensiero speculativo indiano. Come abbiamo mostrato altrove7, le società tradizionali—le cui rappresenta­ zioni del Tempo risultano così difficili da cogliere, proprio perché sono «presse attraverso simboli e rituali il cui significato profondo ci rima­ ne talora inaccessibile— immaginano l’esistenza temporale dell’uomo non 1

Le Mythe de l’Eternel Retour, passim.

67

Simbolismi indiani del Tempo e delI’Eternità soltanto come una ripetizione ad infinitum di determinati archetipi e de­ terminati gesti esemplari, ma altresì come un.eterno ricominciare. In ef­ fetti dal punto di vista simbolico e rituale, il mondo viene periodica­ mente ricreato. Almeno una volta all’anno si ripete la cosmogonia; e il mito cosmogonico serve anche di modello per un gran numero di azio­ ni: il matrimonio, ad esempio, oppure le guarigioni. Qual è il senso di tutti quei miti e di tutti questi riti? È che il mondo nasce, si sfalda, perisce e nasce nuovamente a un ritmo preci­ pitoso. Il caos e l’atto cosmogonico che mette fine al caos vengono pe­ riodicamente riattualizzati. L ’anno— o ciò che questo termine abbrac­ cia— equivale alla creazione, alla durata e alla distruzione di un mondo, di un Cosmo. £ molto probabile che questa concezione della creazione e distruzione periodiche del mondo, per quanto sia stata consolidata dal­ lo spettacolo della morte e risurrezione periodiche della vegetazione, non sia per questo una creazione di società agricole. Essa si ritrova nei miti delle società preagricole e si tratta, con tutta probabilità, di una concezione di struttura lunare. La luna, in effetti, misura le periodicità più marcate e i termini relativi alla luna sono stati usati per primi ad esprimere la misura del tempo. I ritmi lunari segnano sempre una « creazione » (la luna nuova), seguita da una crescita (la luna piena), un calo e una « morte » (le tre notti senza luna). Con ogni probabilità è l’immagine di questa eterna nascita e morte della luna ciò che ha con­ tribuito a cristallizzare le intuizioni dei primi uomini circa la periodici­ tà della Vita e della Morte e che ha in seguito sprigionato il mito della creazione e della distruzione periodica del mondo. I miti più antichi del diluvio rivelano una struttura e un’origine lunari. Dopo ogni dilu­ vio un Antenato mitico dà alla luce una nuova umanità. Orbene, il più delle volte succede che questo Antenato mitico prende le sembianze di un animale lunare. (Con questo nome in etnologia vengono indicati gli animali la cui vita rivela una certa alternanza e in primo luogo un pe­ riodico apparire e scomparire). Per il « primitivo », di conseguenza, il Tempo è ciclico, il mondo viene periodicamente creato e distrutto e il simbolismo lunare di « na­ scita-morte-rinascita » è manifesto in un gran numero di miti e di riti. A partire da un tale retaggio che si perde nella notte dei tempi, si è andata elaborando la dottrina panindiana delle età del mondo e dei ci­ cli cosmici. Va da sé che l’immagine archetipa dell’eterna nascita, mor­ te e risurrezione della luna, è stata sensibilmente modificata dal pen­ siero indiano. Per quanto riguarda l’aspetto astronomico degli yuga, è 68

Simbolismo indiano dell’abolizione del Tempo probabile che esso sia stato influenzato dalle speculazioni cosmologiche e astrologiche dei Babilonesi; in questa sede, tuttavia, non ci sofferme­ remo sulle eventuali influenze storiche esercitate dalla Mesopotamia sul­ l’india. Quel che ci preme di mettere in luce è che l’indiano, ingran­ dendo con audacia sempre crescente la durata e il numero dei cicli co­ smici, mirava ad un fine soteriologico. Atterrito dal numero senza fine di nascite e di rinascite degli Universi, a cui si accompagnava un nume­ ro altrettanto considerevole di nascite e rinascite umane rette dalla leg­ ge del karma, l’indiano era in certo qual modo costretto a cercare uno sbocco a questa ruota cosmica e a queste trasmigrazioni infinite. Le dot­ trine e le tecniche mistiche che si prefiggono di liberare l’uomo dal do­ lore e dal ciclo infernale di « vita-morte-rinascita », si impadroniscono delle immagini mitiche dei cicli cosmici, le amplificano e le utilizzano ai loro fini di proselitismo. L ’eterno ritorno, per gli Indiani dell’epoca postvedica, cioè per gli Indiani che avevano scoperto la « sofferenza dell’esi­ stenza », equivale al ciclo infinito della trasmigrazione retto dal karma. Questo basso mondo, illusorio e passeggero, il mondo del sàmsara, il mondo del dolore e dell’ignoranza, è il mondo che si svolge all’insegna del Tempo. Liberarsi da questo mondo e ottenere la Salvezza equivalgo­ no a una liberazione del Tempo cosmico.

Simbolismo indiano dell’adozione del Tempo In sanscrito il termine kàla è usato sia nel senso di periodi di tem­ po, sia di durate infinite, sia in quello di un determinato momento —come nelle lingue europee (ad es.: « What time is now? »). Nei te­ nti più antichi sì sottolinea il carattere temporale di tutti gli Universi e di tutte le possibili esistenze: « li Tempo ha generato tutto ciò che è e thè sarà » (Atharva Veda, xix 54,3). Nelle Upanisad, Brahman, lo Spi­ rito Universale, l’Essere assoluto, è concepito sia come trascendente il Tempo che come fonte e fondamento di tutto ciò che si manifesta nel Tempo: « Signore di ciò che è stato e ciò die sarà, egli è contempora­ neamente oggi e domani » ( Kena Up. iv, 13). E Krisna, manifestando­ li a Arjuna nella sua veste di Dio cosmico, dichiara: « Io sono il Tem­ po che, nella sua avanzata, distrugge il mondo » (Bbagavad-Gità xi, 32). Come è noto, le Upanisad distinguono due aspetti di Brahman, PEs»ere universale: « il corporeo e l’incorporeo, il mortale e l’immortale, il fisso (sthita) e il mobile, ecc. » (Brbadàranyaka-Upanisad li, 3,1). È 69

Simbolismi indiani del Tempo e dell’Etemità come dire che tanto l’universo nei suoi aspetti manifesti e non manife­ sti, che lo Spirito nelle sue modalità di condizionato e non condiziona­ to, riposano nell’Unico, nel Brahman che annulla tutte le polarità e tutte le opposizioni. Orbene la Maitri Upanisad ( v i i 11,8), precisando questo aspetto bipolare dell’Essere universale sul piano del Tempo, distingue le « due forme » (dve rupe) di Brahman (cioè gli aspetti delle « due na­ ture » [ dvaitibhava] di un’unica essenza Itad ekan\) in quanto « Tem­ po e senza-Tempo » [kàlaq - càkalaq-ca). In altri termini il Tempo, al pari dell’Eternità, sono i due aspetti dello stesso Principio: nel Brahman il nuttc fluens e il nunc stans coincidono. La Maitri Upanisad prosegue: « Ciò che precede il sole è senza-Tempo (akàla) e non diviso (akala); ma ciò che comincia con il Sole è il tempo che ha delle parti (sakala) e la sua forma è l’Annata... » L ’espressione « ciò che precede il Sole » potrebbe essere intesa tan­ to sul piano cosmologico, in quanto riferita all’epoca che precedeva la Creazione—poiché negli intervalli tra i mahàyuga o tra i kalpa, nel cor­ so delle Grandi Notti Cosrtiiche, la durata non esiste più—ma essa si applica soprattutto sul piano metafisico e soteriologico, cioè essa indica la situazione paradossale di chi ottiene l’illuminazione, diventa un jivanmukta, un « liberato nella vita » e proprio in virtù di ciò supera il Tempo, nel senso che non partecipa più alla durata. In effetti la Chàndogya-Upanisad (in 11) afferma che per il Saggio, per l’illuminato, il Sole resta immobile. « Ma dopo essersi alzato allo zenit, esso [il Sole ] non si alzerà e non si poserà più. Si terrà solitario al Centro (ekala eva madhyhe sthàlà). Da qui il verso: « Giammai là [cioè nel mondo tra­ scendentale del brahman] è tramontato, giammai è sorto... Non si le­ va né si posa; una volta per tutte ( sakrt ) è nel cielo per colui che co­ nosce la dottrina del brahman ». Si tratta qui, si intende, di un’immagine sensibile della trascenden­ za: allo zenit, cioè alla sommità della volta celeste, al «Centro del mondo », nel punto dove sono possibili la rottura dei livelli e la comu­ nicazione tra le zone cosmiche, il Sole ( = il Tempo) rimane immobile per « colui che sa », il nuric fluens si trasforma paradossalmente in nunc stans. L’illuminazione, la comprensione, realizza il miracolo dell’uscita dal Tempo. L ’istante paradossale dell’illuminazione è paragonato nei te­ sti vedici e nelle Upanisad al lampo. Brahman si capisce all’improvviso come un lampo ( Kena Up. iv 4,5). « Nel lampo, la Verità » ( Kausitaki Up. iv 2. È noto che la stessa identica immagine, lampo— illuminazione spirituale, si incontra nella metafisica greca e nella mistica cristiana). 70

j

Simbolismo indiano dell’abolizione del Tempo Soffermiamoci un istante su questa immagine mitica: lo zenit—che a un tempo la Sommità del Mondo e il « Centro » per eccellenza, il punto infinitesimale attraverso cui passa l’Asse Cosmico (Axis Mundi). Nel capitolo precedente abbiamo mostrato quanto sia importante que­ sto simbolismo per il pensiero arcaico8. Un « Centro » rappresenta un punto ideale che non appartiene allo spazio profano, geometrico, bensì allo spazio sacro e in cui può realizzarsi la comunicazione con il Cielo o l’inferno; in altri termini un « Centro » è il luogo paradossale della rot­ tura dei livelli, il punto in cui il mondo sensibile può essere trasceso. Ma per il fatto stesso di trascendere l’Universo, il mondo creato, si tra­ scende il tempo, la durata e si ottiene la stasi, l’eterno presente atem­ porale. è

La solidarietà tra l’atto di trascendere lo spazio e quello di trascen­ dere il flusso temporale è messa in luce bene da un mito relativo alla natività del Budda. Il Majjhima Nikàya (in, p. 123) racconta che « ap­ pena nato il Boddhisattva posa i piedi a piatto per terra e, rivolto a nord, fa sette passi al riparo di un parasole bianco. Esamina tutte le regioni intorno e con la sua voce di toro dice: ‘Sono il più alto del mondo, sono il migliore del mondo, sono il primogenito del mondo; questa è la mia ultima nascita, ormai per me non ci sarà più una nuova esistenza’ ». Questo tratto mistico della Natività del Budda è ripreso, con certe va­ rianti, nell’ulteriore letteratura dei Nikàya-Agama, dei Vinaya e nelle biografie del Budda9. I sapta padani, i sette passi che portano il Budda sulla vetta del mondo sono stati raffigurati anche nell’arte e nell’icono­ grafia buddista. Il simbolismo dei « Sette Passi » è abbastanza traspa­ rente I0. L ’espressione « sono il più alto del mondo » (aggo'ham asmi lokassa) comunica la trascendenza spaziale del Budda. In effetti egli ha raggiunto « la cima del mondo » (lokkagge) attraversando i sette stadi cosmici a cui corrispondono, come è noto, i sette cieli planetari. Però, in virtù di ciò, egli trascende anche il tempo poiché, nella cosmologia indiana, il punto da cui è cominciata la creazione è la vetta, perciò essa è anche il punto più « vecchio ». È questo il motivo per cui Budda * Cfr. più sopra pp. 37ss. * Etienne Lamotte ha riunito i testi più importanti in una lunga nota a margine della sua traduzione di Mahàprajnàpàramitacastra di Nàgàrjuna; cfr. Le Traiti de la Grande Vertu de Sagene de Nàgàrjuna, Louvain 1944, t. I, pp. 6s. 10 Cfr. Mircea Eliade, « Les Sept Pas du Bouddha » in Pro Regno prò Sanctuario, Hommage Van der Leeuw, Nijkerk 1950, pp. 169-175. 71

Simbolismi indiani del Tempo e dell’Eternità esclama: « Sono io il Primogenito del mondo » (jettbo'barn asmi lokassa) giacche nel momento in cui raggiunge la vetta cosmica, Budda di­ venta contemporaneo all'inizio del mondo. Magicamente egli ha abolito il tempo e la creazione e si ritrova nell’istante temporale che precede la cosmogonia. L ’irreversibilità del tempo cosmico, legge terribile per tutti coloro che vivono nell’illusione, per Budda non vale più. Per lui il tempo è reversibile e può perfino essere conosciuto in anticipo, che il Budda conosce sia il passato che l’avvenire. Ciò che ci preme sottolineare è che il Budda non soltanto diventa capace di abolire il tempo, ma può anche percorrerlo all’indietro (patiloman, in sanscrito pratiloman, « contropelo ») e questo varrà anche per i monaci buddisti e per gli yogi i quali, prima di ottenere il Nirvana o il samadhi, operano un « ritorno indietro » che consente loro di conoscere le esistenze anteriori.

L'« Uovo infranto » A fianco di questa immagine di trascendenza dello spazio e del tem­ po con la traversata dei sette livelli cosmici che proietta il Budda al « Centro » del mondo e al tempo stesso lo riporta al momento tempo­ rale che precede la creazione del mondo, esiste un’altra immagine che congiunge in modo felice il simbolismo dello spazio e quello del tem­ po. In un’eccellente tesi di laurea, Paul Mus ha richiamato l’attenzione su questo testo del Suttavibhanga 11: « Quando una gallina ha deposto delle uova, disse il Budda, otto o dieci o dodici e questa gallina vi si è seduta sopra e le ha tenute al caldo e le ha covate a sufficienza; quan­ do dunque uno dei pulcini, il primo, con la punta della sua zampa o con il becco spezza il guscio ed esce felicemente dall’uovo, come chiamere­ mo questo pulcino, il più vecchio o il più giovane? ‘Lo si chiamerà il primogenito, venerabile Gotama, giacché è il più vecchio di tutti’. ‘Al­ lo stesso modo, oh bramino, tra gli esseri che vivono nell’ignoranza e sono come chiusi e imprigionati in un uovo, io l’uovo l’ho infranto, ho infranto il guscio dell’ignoranza e solo al mondo ho ottenuto la felice, l’universale dignità di Budda. Quindi, oh bramino, io sono il primoge­ nito, il più nobile di tutti gli esseri ». 11 Suttavibhanga, Pàrà/ika i, i, 4; cfr. H. Oldenberg, Le Rouddba, tr. fr. A. Foucher, pp. 364-365; Paul Mus, « La Notion de temps réversible dans la mythologie bouddhique » (estratto dell’Annuaire de l’Ecole pratique des Hautes Etudes, Section des Sciences religieuses, 1938-1939, Melun 1939), p. 13. 72

L ’« Uovo infranto » Come dice Paul Mus, è questa una « rappresentazione di una sem­ plicità ingannevole». Per bene intenderla bisogna ricordarsi che l’ini­ ziazione braminica era considerata una seconda nascita. Il nome più co­ mune degli iniziati era dvija, ‘nato due volte, twice born’. Orbene gli uccelli, i serpenti, ecc., ricevevano anch’essi questo appellativo in quan­ to nati da un uovo. L ’atto di depotre l’uovo era assimilato alla « prima nascita », ovvero alla nascita naturale dell’uomo. « Lo schiudersi dell’uo­ vo corrispondeva alla nascita sovrannaturale dell’iniziazione. D ’altro canto i codici braminici non mancano di stabilire il principio secondo cui l’iniziato è sul piano sociale il superiore, il fratello maggiore, del non iniziato, qualunque siano i loro rapporti di età fisica o di parentela » (Mus, op. cit., pp. 13-14). Ma c’è di più. « Come descrivere, anche solo metaforicamente, la nascita sovrannaturale del Budda assimilandola alla rottura dell’uovo in cui è racchiuso, in potenza, il « Primogenito » (jyeshta) dell’universo, senza riportare naturalmente alla mente di chi ascolta 1’« uovo cosmi­ co » delle tradizioni braminiche, da cui, all’alba dei tempi, esce il Dio primordiale della creazione, variamente chiamato l’Embrione d’Oro (Hiranyagarbha), il Padre o il Signore dei Creatori (Prajàpati), Agni (Dio del fuoco e Fuoco rituale) ovvero il brahman (principio sacrificale, « preghiera », testo degli inni, ecc., divinizzato)? » (Mus, p. 14). Orbe­ ne noi sappiamo che 1’« uovo cosmico » è « formalmente identificato con Panno, espressione simbolica del Tempo cosmico: il samsàra, altra immagine della durata ciclica, ricondotto alle sue cause, corrisponde quin­ di esattamente all’uovo mitico » (ibid., p. 14, nota 1). Così l’azione di trascendere il tempo è veicolata da un simbolismo cosmologico e spaziale ad un tempo. Infrangere il guscio dell’uovo equi­ vale, nella parabola di Budda, a infrangere il samsàra, la ruota delle esi­ stenze, e questo vuol dire trascendere tanto lo spazio cosmico che il Tempo ciclico. In questo caso anche il Budda usa delle immagini ana­ loghe a quelle cui ci avevano abituato i Veda e le Upanisad. Il sole im­ mobile allo zenit della Chàndogya Upanisad è il simbolo spaziale che esprime Patto paradossale dell’evasione dal Cosmo con forza pari a quel­ la dell’immagine buddista dell’uovo infranto. Avremo occasione di in­ contrare ancora immagini archetipe del genere, usate al fine di simboleg­ giare la trascendenza, quando presenteremo determinati aspetti delle pratiche yogico-tantriche.

73

Simbolismi indiani del Tempo e dell’Eternità

La filosofia del Tempo nel buddismo Il simbolismo dei Sette Passi del Budda e dell’Uovo Cosmico impli­ ca la reversibilità del tempo e su questo paradossale processo dovremo ritornare. Prima, però, bisogna che presentiamo le grandi linee della filosofia del tempo, elaborata dal buddismo e specialmente dal buddismo mahàyànico a . Per i buddisti anche il tempo è costituito da un flusso continuo ( samtàna) e, proprio per la fluidità del tempo, ogni « forma » che si manifesta nel tempo è non soltanto deperibile, ma altresì irreale sul piano ontologico. I filosofi del Màhàyàna hanno disquisito a iosa su quel che si potrebbe chiamare l’istantaneità del tempo, cioè sulla fluidi­ tà e, in ultima istanza, la non realtà dell’istante presente che si trasfor­ ma continuamente in passato, in non essere. Per il filosofo buddista, scrive Stcherbatzky, « l’esistenza e la non esistenza non sono apparente diverse di una cosa, bensì la cosa in sé ». Come dice Qantaraksita, « la natura di ogni esistente è la sua istantaneità (fatta di un numero consi­ derevole) di stasi e di distruzioni» (Tattvasangraha, p. 137; Stcher­ batzky, Buddbist Logic, i, pp. 94.). La distruzione cui fa allusione Qantaraksita non è la distruzione empirica, ad esempio un vaso die si in­ frange quando cade a terra, bensì la nullificazione intrinseca e continua di ogni esistente che si trova coinvolto nd Tempo. È per questo che Vasubandhu scrive: « Giacché la nullificazione è istantanea e ininterrot­ ta, non esiste movimento (reale) » 13. Il movimento e di conseguenza il tempo in sé, la durata, è un postulato pragmatico, così come lo è per il buddismo, l’io individuale; in quanto concetto, invece, il movimento non corrisponde a una realtà esterna, poiché è « qualcosa » che noi stessi abbiamo costruito. La fluidità e l’istantaneità del mondo sensibi­ le, la sua continua nullificazione, è la formula mahàyànica per eccellen­ za per esprimere l’irrealtà del mondo temporale. Partendo dalla conce­ zione mahàyànica del tempo si è talora giunti alla condusione che, per i filosofi del Grande Veicolo, il movimento è discontinuo, che « il mo­ 12 La base documentaria si ritrova nei due volumi di Th. Stcherbatzky, Buddbist Logic, Bibliotheca Buddhica, Leningrad 1930-1932 e nella ricca relazione di Louis de la Vallée-Poussin, «Documents d’Abhidharma: la Controverse du Temps » in Milanges chinois et boudàbtques, v, Bruxelles 1937, pp. 1-158. Cfr. anche S. Schayer, Contributions to thè problem of Time in Indiart Pbilosopby, Cracovia 1938 e Ananda K. Coomaraswamy, Time and Eternity, Ascona 1947, pp. 30s. 15 Abbidbarmakoca, iv, 1, citato da Coomaraswamy, op. cit., p. 58. Cfr. la tra­ duzione commentata di Louis de la Vallée-Poussin, 5 voli., Paris 1923-1931.

74

La filosofia del Tempo nel buddismo vimento è costituito da una serie di immobilità » (Stcherbatzky). Però, come giustamente osserva Coomaraswamy (op. cit., p. 60), una linea non è fatta di una serie infinita di punti, ma si presenta come un conti­ nuum. Lo stesso Vasubandhu lo afferma: « lo slancio dei momenti è ininterrotto » ( nirantara-ksana-utpada). Il termine samtàna, che Stcher­ batzky traduce con « serie », etimologicamente significa « continuum ». Tutto questo non è nuovo. I logici e i metafisici del Grande Veico­ lo non hanno fatto altro che spingere al limite estremo le intuizioni panindiane sull’irrealtà ontologica di ogni esistente nel Tempo. La flui­ dità corrisponde all’irrealtà. L ’unica speranza e l’unica via di salvezza c il Budda il quale ha rivelato il Dharma (la realtà assoluta) e ha indi­ cato la via del Nirvana. I discorsi del Budda riprendono instancabilmen­ te il tema centrale del suo messaggio: tutto ciò che è condizionato è ir­ reale; egli non dimentica però mai di aggiungere: «questo non sono 10 » (na me so atta). Infatti lui, il Budda, è identico al Dharma ed è, di conseguenza, « semplice, non composto » (asamkhata) e « atemporale, senza tempo » (akàliko, come dice VAngui tara Nikàya iv, 359-406). A più riprese il Budda ricorda che egli « trascende gli eoni » (kappàlilo... vipumallo), che lui « non è uomo degli eoni » ( akkapiyo), cioè che non è veramente coinvolto nel flusso ciclico del tempo, che ha superato il Tempo cosmico14. Per lui, dice il Samyutta Ntkàya (i 141) « non esi­ ste né passato né avvenire » (na lassa paccha na ria purattham athi). Per 11 Budda tutti i tempi sono resi presenti ( Visuddhi Magga, 411): ciò si­ gnifica che egli ha abolito l’irreversibilità del tempo. Il presente totale, l’eterno presente dei mistici, è la stasi, la non du­ rata. Nel linguaggio del simbolismo spaziale, la non durata, l’eterno pre­ sente è l’immobilità. E, in effetti, per indicare lo stato non condiziona­ to di Budda o di liberato, il buddismo—al pari dello Yoga del resto— utilizza espressioni che si riferiscono all’immobilità, alla stasi. « Colui il cui pensiero è stabile » ( thila-citto; Digha Nikàya n, 157), « colui il cui spirito è stabile » (thit’allà; ibid. i, 57, ecc.), « stabile, immobile », ccc. Non dimentichiamo che la definizione prima, la più semplice, dello Yoga è quella fornita dallo stesso Patanjali all’inizio delle sue YogaSùtra (i 2): yogah cittavrttinirodhah, cioè « lo yoga è la soppressione degli stati di coscienza ». La soppressione, però, è solo l’obiettivo fina­ le. Lo yogi comincia col « fermare », con 1’« immobilizzare » i suoi sta14 Sutta Nipàta, 373, 860, ecc. e altri testi raccolti da Coorparaswamy, op. cit., pp. 40s. 75

Simbolismi indiani del Tempo e dell’Eternità ti di coscienza, il suo flusso psico-mentale. (Il significato più comune di nirodha è d’altronde quello di « restrizione, ostruzione », è il fatto di rinchiudere, di circondare, ecc.) Torneremo sulle conseguenze che pos­ sono derivare da questo « arresto », da questa « immobilità » degli stati di coscienza sull’esperienza temporale, degli yogin. Colui « il cui pensiero è stabile » e per il quale il tempo non scorre più, vive in un eterno presente, nel nunc stans. L ’istante, il momento attuale, il nunc, in sanscrito si dice ksana e in pàli khana 1S. Il tempo si misura attraverso il ksana, il « momento ». Questo termine ha però an­ che il significato di « momento favorevole, opportunity » e per il Budda è possibile uscire dal tempo approfittando di un « momento favorevo­ le » del genere. In effetti, Budda consiglia di « non perdere il momen­ to », poiché « si lamenteranno coloro che perderanno il momento ». Egli si felicita con i monaci « che hanno colto il loro momento » (kbano vo patiladdho) e compiange coloro « per cui il momento è passato » (khanàtità; Samyuta Nikaya iv, 126). È come dire che, dopo la lunga via percorsa nel tempo cosmico, attraverso le esistenze innumerevoli, l’illuminazione è istantanea ( eka-ksana). « L ’illuminazione istantanea » (eka-ksanabhisambodhi) come viene chiamata dagli autori del mahàyàna, vuol dire che la comprensione della Realtà avviene all'improvviso, come un lampo. È esattamente la stessa immagine verbale, fondata sul simbo­ lismo del lampo, che abbiamo incontrato nei testi delle Upanisad. Un istante qualsiasi, uno ksana qualsiasi può diventare il « momento favo­ revole », l’istante paradossale che sospende la durata e proietta il mo­ naco buddista nel nunc stans, in un eterno presente. Questo eterno pre­ sente non fa più parte del tempo, della durata: è qualitativamente di­ verso dal nostro « presente » profano, da questo presente precario che si erge debolmente tra due non entità—-il passato e l’avvenire—e che si fermerà con la nostra morte. Il « momento favorevole » dell’illumi­ nazione è da paragonare al lampo o all’estasi mistica che comunica la ri­ velazione e che si prolunga paradossalmente fuori dal tempo.

Immagini e paradossi Osserviamo che tutte queste immagini attraverso cui ci si sforza di '•* Cfr. Louis de la Vallée-Poussin, « Notes sur le ‘moment’ ou ksana des bouddhistes » in Roeznik Orientalistczny, voi. vili, 1931, pp. 1-13; Coomaraswamy. op a t , pp 56$ 76

1

Immagini e paradossi esprimere l’atto paradossale dell’« uscita dal tempo » valgono anche per esprimere il passaggio dall’ignoranza all’illuminazione (ovvero, in altri termini, dalla « morte » alla « vita », dal condizionato al non condizio­ nato,ecc.)- Grosso modo esse possono essere raggruppate in tre classi: 1) le immagini che indicano l’abolizione del tempo, e di conseguenza, l’illuminazione tramite una rottura dei livelli (1’« Uovo infranto », il Lampo, i Sette Passi del Budda, ecc.); 2) quelle che esprimono una si­ tuazione inconcepibile (l’immobilità del sole allo zenit, la stabilità del flusso degli stati di coscienza, il completo arresto della respirazione nel* la pratica yoga, ecc.) e, per finire, 3) l’immagine contraddittoria del « momento favorevole », frammento temporale trasfigurato in « istan­ te deH’illuminazione ». Le ultime due classi di immagini indicano, a lo­ ro volta, una rottura di livelli, poiché mettono in luce il passaggio para* dossale da uno stato « normale » sul piano profano (la corsa del sole, il Busso della coscienza, ecc.) a uno stato « paradossale » (l’immobilità del sole, ecc.) oppure implicano la transustanzializzazione che si produ­ ce all’interno stesso del momento temporale. (Com’è noto, il passaggio dalla durata profana al tempo sacro messo in moto da un rituale si ot­ tiene altresì attraverso una « rottura dei livelli »: il tempo liturgico non continua la durata profana in cui si inserisce, bensì, paradossalmente, il tempo dell’ultimo rituale celebrato. Cfr. il nostro Traité d’Histoire des Religioni, PP- 332s., ed it. p. 402s.). La struttura di queste immagini non ha nulla di sorprendente: qual­ siasi simbolismo della trascendenza è paradossale e sul piano profano impossibile da concepire. Il simbolo maggiore usato per esprimere la rot­ tura dei livelli e la penetrazione nell’« altro mondo », nel mondo soprasensibile (sia esso il mondo dei morti o quello degli dei), è quello de} « passaggio difficile », il filo del rasoio. La Katha XJpanisad (ili 14) af­ ferma: « È arduo passare sulla lama alata del rasoio, dicono i poeti, per esprimere le difficoltà del cammino (che conduce alla conoscenza supre­ ma) ». Sovviene quel che dice il Vangelo: « Quanto stretta è invece la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano » (Mt 7, 14). La « porta stretta », il filo del rasoio, il ponte esiguo e pericoloso non esauriscono, del resto, la ricchezza di que­ sto simbolismo. Altre immagini ci presentano una situazione apparen­ temente senza via d’uscita. L ’eroe di un racconto iniziatico deve passa­ re nel punto « in cui il giorno e la notte si incontrano », oppure trova­ re una porta in un muro che si presenta compatto, o salire al Cielo at­ traverso un passaggio che si socchiude per un solo istante, passare tra 77

Simbolismi indiani del Tempo e dell’Eternità due mole in continuo movimento, tra due massi che si scontrano in con­ tinuazione, o ancora tra le fauci di un mostro, ecc.I6. Tutte queste im­ magini mitiche esprimono la necessità di trascendere i contrari, di abo­ lire la polarità che caratterizza la condizione umana per accedere atta realtà suprema. Come dice Coomarasmy, « chi vuole trasportarsi da questo mondo all’altro, o farvi ritorno, lo deve fare nell’intervallo uni­ dimensionale e atemporale che separa delle forze apparenti ma contra­ rie, attraverso cui si può passare solo in un istante » (Symplegades, p. 486). In effetti, poiché per il pensiero indiano la condizione umana si de­ finisce in base all’esistenza dei contrari, la liberazione (ovvero l’aboli­ zione della condizione umana) equivale a uno stato non condizionato che supera i contrari ovvero, ed è poi la stessa cosa, a uno stato in cui i con­ trari coincidono. Ci si ricorderà che la Maitri Upanisad, riferendosi agli aspetti manifesti e non manifesti dell’essere, distingue le « due for­ me » di Brahman in « Tempo ,e Senza-Tempo ». Per il Saggio, Brahman tiene il ruolo di modello esemplare: la liberazione è un’« imitazione di Brahman ». È dire che, per « colui che sa », il « Tempo e il Senza-Temp© » perdono la loro tensione di opposti: non sono più distinti l’uno dall’altro. Per illustrare questa paradossale situazione ottenuta grazie al­ l’abolizione delle « coppie di contrari », il pensiero indiano, al pari di qualsiasi pensiero arcaico, utilizza delle immagini nella cui stessa strut­ tura è inclusa la contraddizione (immagini del tipo: trovare una porta in' un muro che non rivela nessuna apertura). La coincidenza degli opposti è messa in luce ancora meglio dall’im­ magine dell’« istante » (ksana) che si trasforma in « momento favore­ vole ». Apparentemente, nulla distingue un frammento qualsiasi del Tempo profano dall’istante intemporale ottenuto attraverso l’illumina­ zione. Per ben comprendere la struttura e la funzione di una tale imma­ gine è necessario tener presente la dialettica del sacro: un oggetto qual­ siasi diventa paradossalmente una ierofania, un ricettacolo del sacro, 16 ■In merito a questi motivi, cfr. A.B. Cook, Zeus, in, 2, Cambridge 1940, Appendice B: « Floating Islands », pp. 975-1006; Ananda Coomaraswamy, « Sym­ plegades » in Studies and Essays in thè History' of Science and Learning ofteredK in Homage to George Sarton, New York 1947, pp. 463-488; Eliade, Le Chamanisme et les techniques archaiques de l'extase, Payot, Paris 1951, pp. 419s. e passim (tr. it. Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Ed. Mediterranee, Roma 1975, pp. 468s. e passim).

78

Tecniche dell’« uscita dal Tempo » pur continuando a partecipare all’ambiente cosmico circostante (una pie­ tra sacra rimane comunque una pietra qualsiasi, ecc.)17. Da questo punto di vista, l’immagine del « momento favorevole » esprime il paradosso dèlia coincidenza degli opposti con forza ancor maggiore di quanto av­ venga con le immagini delle situazioni contraddittorie (tipo: immobilità del sole, ecc.).

Tecniche dell'« uscita dal Tempo » L ’illuminazione istantanea, il salto paradossale fuori dal Tempo, si ottiene a seguito di una lunga disciplina, la quale comporta tanto una filosofia che una tecnica mistica. Ricordiamo alcune tecniche che hanno come obiettivo l’arresto del flusso temporale. La tecnica più nota, che è davvero panindiana, è il pranàyàma, il controllo del ritmo respiratorio. Per cominciare, un’osservazione che ci sembra importante: la pratica dello yòga, sebbene il suo fine ultimo sia quello di superare la condizio­ ne umana, comincia con il ripristinare e il migliorare questa stessa con­ dizione dell’uomo, col dargli un’ampiezza e una maestosità che sembra­ no inaccessibili ai profani. Noi pensiamo di primo acchito aìl'HathaYoga, il cui obiettivo specifico è quello di giungere ad un’assoluta pa­ dronanza del corpo e dello psichismo umano. Comunque tutte le forme dello Yoga implicano una trasformazione preliminare dell’uomo profa­ no—debole, disperso, schiavo del suo corpo e incapace di compiere un vero sforzo mentale—in un Uomo glorioso: in perfetta salute fisica, si­ gnore assoluto del suo corpo e della sua vita psico-mentale, capace di concentrarsi, cosciente di sé. Tale uomo perfetto lo Yoga si sforza di riuscire finalmente a superare, non soltanto l’uomo profano, l’uomo di ogni giorno. In termini cosmologici (e per penetrare il pensiero indiano è neces­ sario usare sempre questa chiave) è a partire da un Còsmo perfetto che lo Yoga si sforza di trascendere la condizione cosmica in sé; non è a partire da un caos. Orbene, la fisiologia e la vita psicomentale dell’uomo profano rassomigliano molto a un caos. La pratica dello yoga comincia con l’organizzare questo caos, col—diciamo pure la parola—cosmicizzarlo. Il pr&nàyàma, il controllo del ritmo respiratorio, trasforma un po’ 17 Sulla dialettica del sacro, cfr. il nostro Traiti d’Histoire des Religioni, pp. 15s. (tr. it. Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino 1972, pp. 16s.).

79

Simbolismi indiani del Tempo e delTEternità alla volta lo yogìn in un Cosmo 18: la respirazione non è più aritmica, il pensiero non è più disperso, la circolazione delle forze psico-mentali non è più anarchica. Orbene, operando in questo modo sulla respirazio­ ne, lo yogìn opera direttamente sul tempo vissuto. E non esiste allievo di yoga che nel corso di questi esercizi respiratori non abbia sentito una qualità di tempo del tutto diversa. Si è invano cercato di descrivere questa esperienza del tempo vissuto durante il prànàyàma; la si è para­ gonata al tempo beatifico dell’ascolto di buona musica, all’esaltazione dell’amore, alla serenità o alla pienezza della preghiera. Una cosa è cer­ ta: rallentando progressivamente il ritmo della respirazione, prolungan­ do sempre di più l’espirazione e l’inspirazione e lasciando passare un in­ tervallo di tempo quanto più lungo possibile tra questi due momenti della respirazione, lo yogìn vive un tempo altro rispetto al nostro l9. Due punti sono a nostro avviso importanti nella pratica del prà­ nàyàma-. 1) lo yogìn comincia con il « cosmicizzare » il suo corpo e la sua vita psico-mentale; 2) attraverso il prànàyàma, lo yogin riesce ad inserirsi a suo piacimento nei diversi ritmi del tempo vissuto. Patanialì raccomanda, nel suo stile estremamente conciso, « il controllo dei mo­ menti e della loro continuità » (Yoga Sutra 3,52). I trattati yogico-tantrici posteriori forniscono maggiori dettagli in merito a questo « con11 Cfr. il nostro articolo « Cosmological homology and Yoga » in Journal of thè Indian Society of Orientai Art, Calcutta 1937, pp. 188-203. Sul prànàyàma, cfr. Techniques du Yoga, pp. 75s. (ed. it. pp. 123s.). 19 £ anzi possibile che il controllo del ritmo respiratorio abbia considerevoli conseguenze sulla fisiologia dello yogìn. Io non ho nessuna competenza in questo campo, però sono rimasto colpito, a Rishikesh e in altre località dell’Himalaya, dal formidabile stato fisico degli yogì che pure si nutrivano appena. Uno dei vicini del mio kutiar a Rishikesh era un naga, un asceta nudo, il quale trascorreva quasi tutta la notte a praticare il prànàyàma e che non mangiava mai più di un pugno di riso. Il suo fisico era quello di un atleta perfetto: non rivelava alcun segno di denutrizione o di stanchezza. Mi sono chiesto come mai non avesse mai fame. « Vivo solo di giorno », mi rispose. « Durante la notte, riduco a un decimo il numero delle mie respirazioni ». Non sono del tutto sicuro di aver capito quel che voleva dire, ma forse il senso di ciò era semplicemente che la durata vitale si misura in base al numero delle inspirazioni e delle espirazioni e poiché egli du­ rante la notte riduceva tale numero ad un decimo del normale, viveva di dieci ore del nostro tempo solo la decima parte, cioè un’ora. Calcolata in ore-respirazione, una giornata di 24 ore solari per lui aveva soltanto 12 o 13 ore-respirazione, il che equivale a dire che il suo corpo aveva un’usura e un invecchiamento più lenti ogni 12 o 13 ore. Comunque, per quanto ne so io, non è stata ancora fornita una spiegazione soddisfacente della sorprendente giovinezza degli yogì.

80

Tecniche dell’« uscita dal Tempo » trailo » del tempo. Il KMacakratantra, ad esempio, si spinge abbastanza in là: mette in rapporto l’inspirazione e l’espirazione con il giorno e la notte, poi con le quindicine, i mesi, gli anni, arrivando progressivamen­ te fino ai massimi cicli cosmici20. È come dire che, attraverso il suo ritmo respiratorio, lo yogìn ripete e in certo qual modo rivive il Gran­ de Tempo cosmico, la creazione e le distruzioni periodiche degli univer­ si. Questo esercizio ha un duplice scopo: da un lato lo yogìn è portato ad identificare i suoi ritmi respiratori personali con i ritmi del Grande Tempo cosmico e, così facendo, egli realizza la relatività del tempo e, in ultima istanza, la sua irrealtà. D ’altra parte, però, egli ottiene la re­ versibilità del flusso temporale (sàra), nel senso che torna indietro, ri­ vive le sue esistenze anteriori e « brucia », per usare la parola dei testi, le conseguenze dei suoi atti anteriori, annulla tali atti onde sfuggire alle loro conseguenze karmiche. In un simile esercizio di prànàyàma si indovina la volontà di rivi­ vere i ritmi del Gran Tempo cosmico: è, in certo modo, un’esperienza identica a quella di Nárada che abbiamo narrato più sopra, esperienza che questa volta, è realizzata in modo volontario e cosciente. La verità di ciò è dimostrata dall’assimilazione delle due « vene mistiche », ida e píngala, alla Luna e al Sole21. È noto che nella fisiologia mistica dello yoga, ida e píngala sono i due canali attraverso cui circola l’energia psico­ vitale all’interno del corpo umano. L ’assimilazione di queste due vene mistiche al Sole e alla Luna corona l’operazione che abbiamo denomi­ nato la « cosmizzazione » dello yogìn. Il suo corpo mistico diventa un microcosmo. La sua inspirazione corrisponde alla corsa del Sole, cioè al Giorno; la sua espirazione alla Luna, cioè alla Notte. In virtù di questo il ritmo respiratorio dello yogìn sfocia nella perfetta integrazione nel ritmo del Gran Tempo cosmico. Tuttavia questa integrazione nel Gran Tempo cosmico non abolisce il Tempo in quanto tale; quel che cambia sono soltanto i ritmi: lo yogìn vive un Tempo cosmico, ma nonostante ciò egli continua a vivere nel Tempo. Orbene, il suo obiettivo ultimo è uscire dal Tempo. È, ef­ 20 Kàlacakra Tantra, citato da Mario E. Carelli nella prefazione all’edizione da lui curata di Sekoddesatikà, pp. 16s.; cfr. Sekoddesatikà of Nadapàda (Nàropà), being a Commentar) of thè Sekoddesa Section of thè Kàlacakra Tantra, Gaekwad Orientai Series, voi. xc, Baroda 1941. 31 Cfr. i testi raccolti da P.C. Bagchi, « Some technical terms of thè Tantras » in The Calcutta Orientai Journal, i, 2, novembre 1934, pp. 75-88, specialmente pp. 82s. e Shashibhusan Dasgupta, Obscure réligious cults, Calcutta 1946, pp. 274s. 81

Simbolismi indiani del Tempo e dell’Eternità fettivamente, ciò che avviene quando lo yogin riesce ad unificare le due correnti di energia psico-vitale che circolano attraverso ida e pingala. Attraverso un processo che è troppo difficile da spiegare in poche paro­ le, lo yogin cessa di respirare e, unificando le due correnti, le concentra e le obbliga a circolare attraverso la terza « vena », susumna, la vena che si trova al « centro ». Orbene, dice la Hatha yoga-pradipikà (iv 16-17), « Susumna divora il Tempo». Quésta paradossale unificazione delle due vene mistiche ida e pingala, delle due correnti polari, equiva­ le all’unificazione del Sole e della Luna, cioè all’abolizione del Cosmo, alla reintegrazione dei contrari, che è come dire che lo yogin trascende sia l’Universo creato che il Tempo che lo governa. Ricordiamoci l’im­ magine mitica dell’uovo il cui guscio viene infranto dal Budda. È quel che succede allo yogin che « concentra » i suoi respiri nella susumna: egli spezza la scorza del suo microcosmo, egli trascende il mondo con­ dizionato che esiste nel tempo. Un numero considerevole di testi yogici e tantrici alludono a questo stato non condizionato e senza tempo dove « non esiste né giorno né notte », dove « non ci sono più né malattia né vecchiaia », formule ingenue e approssimative, queste, dell’« uscita dal Tempo ». Trascendere « il giorno e la notte » significa trascendere i contrari, e corrisponde, sul piano temporale, al passaggio attraverso la « porta stretta » sul piano spaziale. Questa esperienza yogico-tantrica prepara e precipita il samàdhi, quello stato che di sdito viene indicato con la parola « estasi », ma che noi preferiamo rendere con il termine instasi. Lo yogin finisce col diventare un jivan-mukta, un « liberato nel­ la vita». È impossibile per noi raffigurarci la sua esistenza, del tutto paradossale. A credere a quanto afferma, il jivan mukta non vive più nel tempo in cui viviamo noi, bensì in un eterno presente, nel nune stans, che è il termine con cui Boezio definiva l’eternità. Tuttavia il processo yogico-tantrico a cui abbiamo or ora accennato non esaurisce la tecnica indiana dell’« uscita dal Tempo ». Da un certo punto di vista si potrebbe anzi dire che lo Yoga, in quanto tale, si pre­ figge la liberazione dalla schiavitù temporale. Ogni esercizio di concen­ trazione e di meditazione yogica « isola » chi lo pratica, lo sottrae al flusso della vita psico-mentale e, di conseguenza, allenta la pressione del del Tempo. C’è di più: la «distruzione del subconscio », la « combustio­ ne » dei vàsanàs che lo yogin cerca di realizzare. È nota l’importanza con­ siderevole che lo yoga accorda alla vita subliminale, che viene designa­ ta con il termine vàsanàs. « I vàsanàs hanno origine nella memoria », scrive Vyàsa (commento al Yoga Sutra iv, 9), ma non si tratta soltanto 82

Tecniche dell’« uscita dal Tempo » della memoria individuale, la quale per un indù comprende sia il ricor­ do dell’esistenza attuale che i residui karmici delle innumerevoli esisten­ ze anteriori: oltre a ciò i vàsanàs rappresentano tutta la memoria col­ lettiva che si trasmette per mezzo del linguaggio e delle tradizioni: è in certo modo l’inconscio collettivo di cui parla il professor Jung. Con il suo sforzo di modificare il subconscio e in fin dei conti di « purificarlo », di « bruciarlo » e di « distruggerlo » 22, lo yogìn cerca di liberarsi dalla memoria cioè di abolire l’opera del Tempo. Non è que­ sta, d’altronde, una prerogativa delle tecniche indiane. È noto che un mistico della levatura di Mastro Eckardt non cessa di ripetere che « al­ l’unione con Dio non esiste ostacolo maggiore del Tempo », che il Tem­ po impedisce all’uomo di conoscere Dio, ecc. E a questo proposito non è senza interesse ricordare che le società arcaiche « distruggono » perio­ dicamente il mondo per poterlo « rifare » e, di conseguenza, poter vive­ re in un Universo « nuovo », senza « peccato », cioè senza € storia », senza memoria. Un gran numero di rituali periodici tendono egualmen­ te alla « purificazione collettiva dai peccati » (pubbliche confessioni, il capro espiatorio, ecc.), in ultima istanza all’abolizione del passato. Tut­ to questo dimostra, ci sembra, che non esiste soluzione di continuità tra l’uomo delle società arcaiche e il mistico appartenente alle grandi reli­ gioni storiche: l’uno e l’altro lottano con pari forza, sebbene con mez­ zi diversi, contro la memoria e contro il Tempo. Questa svalutazione metafisica del Tempo e questa lotta contro la « memoria » non esauriscono peraltro la posizione della spiritualità in­ diana nei confronti del Tempo e della Storia. Ricordiamoci la lezione dei miti di Indra e di Nàrada: la màyà si manifesta attraverso il Tem­ po, ma in sé la màyà è soltanto la forza creatrice, e soprattutto la for­ za cosmogonica, dell’Essere assoluto ( = Qiva, Visnu): è dire che, in ul­ tima analisi la Grande Illusione cosmica è una ierofania. Questa Verità rivelata, nei miti, da una serie di immagini e di « storia » viene esposta in modo più sistematico dalle Upanisad23 e dai filosofi successivi: ovve­ ro che il fondamento ultimo delle cose, il Grund è costituito al con­ tempo dalla màyà e dallo Spirito Assoluto, dall’illusione e dalla Realtà, a Una simile presunzione sembrerà con ogni probabilità vana o addirittura pe­ ricolosa agli occhi degli psicologi occidentali. Pur declinando qualsiasi qualifica per intervenire nel dibattito, teniamo a ricordare da un lato La straordinaria scie» za psicologica degli yogi e degli spirituali indù, e dall’altra l’ignoranza degli stu­ diosi occidentali circa- la realtà psicologica delle esperienze yogiche. u Cfr. sopra, pp. 70ss.

83

Simbolismi indiani del Tempo e dell’Eternità dal Tempo e dall’Eternità. Identificando tutti i « contrari » nello stes­ so, unico Vuoto universale (gunya), certi filosofi mahàyànici (ad esem­ pio Nàgàrjuna) e soprattutto le diverse scuole tantriche, sia buddiste (Vajrayàna) che induiste, sono giunte a conclusioni simili. Tutto questo non ha nulla di sorprendente, quando si conosce la sete della spirituali­ tà indiana per il superamento dei contrari e delle tensioni polari, per l’unificazione del Reale, per la reintegrazione nell’Uno primordiale. Se il Tempo, in quanto màyà, è anch’esso una manifestazione della Divi­ nità, vivere nel tempo non è, in sé, una « cattiva azione »: la « cattiva azione » è credere che non esista nuli’altro al di fuori del Tempo. Si è divorati dal Tempo, non perché si vive nel Tempo, ma perché si crede nella realtà del Tempo e, di conseguenza, si dimentica o si disprezza l’Eternità.♦ Questa conclusione non è senza importanza; c’è una tendenza a ri­ durre la spiritualità indiana alle sue posizioni estreme, fortemente « spe­ cializzate » e per ciò stesso, accessibili unicamente ai saggi e ai mistici, e ci si dimentica delle posizioni panindiane, illustrate soprattutto dai miti. In effetti, 1’« uscita dal tempo » ottenuta dallo jivan-mukta equivale a un’instasi o un’estasi inaccessibili alla maggioranza degli uomini. Tutta­ via se 1’« uscita dal tempo » rimane la via maestra della liberazione (si ricordino i simboli deU’illuminazione istantanea, ecc.), questo non vuol dire che tutti coloro che non l’hanno ottenuta siano spietatamente con­ dannati all’ignoranza e alla schiavitù. Come dimostrano i miti di Indra e di Nàrada, basta rendersi coscienti dell’irrealtà ontologica del Tempo e « realizzare » i ritmi del Gran Tempo cosmico per liberarsi dall’illu­ sione. Quindi, per riassumere, l’india non si limita a conoscere due si­ tuazioni possibili nei confronti del Tempo: quella dell’ignorante che vi­ ve esclusivamente nella durata e nell’illusione e quella del Saggio o del­ lo yogìn il quale si sforza di « uscire dal Tempo », ma ne conosce an­ che una terza, intermedia: è la situazione di chi, pur continuando a vi­ vere nel suo tempo specifico (il tempo storico), conserva un’apertura verso il Grande Tempo, senza mai perdere coscienza dell’irrealtà del tempo storico. Questa situazione, illustrata da Indra dopo la sua secon­ da rivelazione, è ampiamente esplicitata nella Bhagavad-Gìtà. Essa vie­ ne esposta soprattutto nei testi indiani di spiritualità destinati ai laici, e viene predicata dai maestri dell’india moderna. È di un certo interes­ se osservare che quest’ultima posizione è in certo modo il prolungamen­ to del comportamento dell’« uomo primitivo » nei confronti del Tempo.

84

ì

Capitolo terzo IL «D IO LEGATORE» E IL SIMBOLISMO DEI NODI

II Sovrano Terribile È noto il ruolo che Dumézil assegna al Sovrano Terribile delle mi­ tologie indo-europee: da un lato, nell’ambito stesso della funzione del­ la sovranità, egli si contrappone al Sovrano Giurista (Varuna si contrap­ pone a Mitra, Jupiter a Fides); d’altro lato, paragonato agli dei guer­ rieri che combattono sempre con mezzi militari, il Sovrano Terribile ha in certo qual modo il monopolio di un’altra arma, la magia. « Non esi­ stono quindi miti sui combattimenti a riguardo di Varuna, che pure è il più invincibile degli dei. La sua grande arma è la sua 'màyà d'Asura la sua magia di sovrano, creatrice di forme e di illusioni, la quale gli con­ sente anche di amministrare, di equilibrare il mondo. Quest’arma si pre­ cisa del resto il più delle volte in forma di laccio, di nodo, di vincoli [pàgàh), materiali o figurati. Il dio guerriero, invece, è Indra, dio com­ battente, dio che manipola il fulmine, eroe di innumerevoli duelli, di rischi affrontati, di vittorie contrastate ». La stessa contrapposizione si rileva in Grecia: mentre Zeus combatte e sostiene guerre difficili, « Ura­ no non combatte, nella sua leggenda non vi è traccia di lotta, sebbene egli sia il più terribile dei re, il più difficile da detronizzare: con una presa infallibile egli immobilizza, per essere precisi « lega », incatena agli inferni i suoi eventuali rivali, che pure sono vigorosi quanti altri mai ». Nelle mitologie nordiche, « Odino è indubbiamente il grande ca­ po, il leader dei guerrieri in questo mondo come nell’altro. Però né nelYEdda in prosa né nei poemi eddici egli combatte di persona... Ha tutta 85

Il « dio legatore » e il simbolismo dei nodi una serie di ‘doni’ magici, il dono dell’ubiquità o per lo meno dello spo­ stamento immediato, l’arte del travestimento e il dono della metamor­ fosi illimitata, infine e soprattutto il dono di accecare, di togliere l’udi­ to, di paralizzare i suoi avversari e di togliere ogni efficacia alle loro ar­ mi ». Nella tradizione romana, infine, ai procedimenti di Jupiter, il quale interviene nella battaglia in qualità di stregone onnipotente, si contrappongono i mezzi normali, puramente militari, di Marte2. È questa una contrapposizione che in India si manifesta a volte in modo ancor più netto: Indra, ad esempio, salva, « slegandole », le vittime « legate » da Varuna ì. Com’era da prevedere, Dumézil prosegue la verifica di questa pola­ rità « legatore »-« slegatore » nelle sfere più concrete dei riti e delle usanze. Romolo « tiranno terribile quanto prestigioso, che lega con vin­ coli onnipotenti, che ha istituito dei Lupercali furibondi e dei Celeri frenetici » (Horace et les Curiaces, 1942, p. 68) è, sul piano « storiciz­ zato » della mitologia romana, l’equivalente di Varuna, di Urano e di Giove. Tutta la sua « storia » e le istituzioni socio-religiose di cui gli viene attribuita la fondazione si spiegano a partire dall’archetipo che egli in certo qual modo incarna: il Sovrano Magico degli indo-europei, signore dei « vincoli ». Dumézil ricorda un testo di Plutarco ( Romulus, 26) in cui si dice che, davanti a Romolo, camminavano sempre « degli uomini armati di verghe i quali tenevano a distanza la folla ed erano cinti di corregge al fine di legare immediatamente coloro che egli aves­ se ordinato di legare » 4. I Luperchi, confraternita magico-religiosa isti­ tuita da Romolo, appartengono all’ordine degli equites e, in quanto tali, portano un anello al dito (Mitra-Varuna, p. 16). Il flàmen dialis, invece, rappresentante della religione grave, giuridica, statica, non può né mon­ tare a cavallo ( equo dialem flaminem vehi religio est, Aulo Gellio, x 15) né portare anello, a meno che non sia traforato e vuoto {item annulo 1 Georges Dumézil, Mythes et Dieux des Germainst Paris 1939, pp. 21s., 27s.j Jupiter, Mars, Quirinus, Paris 1941, pp. 79s.; cfr. Ouranos-Varuna, Paris 1934, passim. 2 Dumézil, Mitra-Varuna, Paris 1940, p. 33; Jupiter, Mars, Quirinus, pp. 81«. 3 Dumézil, Flàmen-Brahman, Paris 1935, pp. 34s.; Mitra-Varuna, pp. 79s. 4 Mitra-Varuna, p. 72; cfr. Le osservazioni di Jean Bayet in Rev. Hist. des Religions, cxxiv, 1941, pp. 194s. Sempre secondo Plutarco, Questions Romaines 67, il nome stesso di lictores deriva da ligare e Dumézil non vede motivo di « re­ spingere il rapporto che avvertivano gli antichi tra lictor e ligare-. lictor può essere formato su un radicale non attestato ligere, che sarebbe, rispetto a ligare, quel che dicere è rispetto a dicare» (ibid., p. 72).

86

Il Sovrano Terribile

uti, nini pervio cassoque, fas non est). « Entra [dal flàmen dialis] un uomo incatenato, si deve liberarlo, i suoi legami devono essere fatti sa­ lire sul tetto attraverso l’impluvium e di là gettati in strada. Egli (il flàmen) non porta nodi né al berretto né alla cintura né in altra parte ( nodum in apice neque in cinctu neque in alia parte ullum habet). Se si trascina un uomo che deve ricevere delle vergate e costui si getta sup­ plicando ai' piedi del flàmen, è sacrilegio batterlo quel giorno » (Aulo Gellio, Noctes Atticae, x 15) s. Non è il caso di riprendere la documentazione riunita ed analizzata in modo ammirevole da Dumézil. Il nostro intento è del tutto diverso-, vogliamo seguire su un piano comparativo ancor più vasto i motivi del « dio legatore » e della magia della « legatura », sforzandoci di enuclear­ ne i significati e di precisarne altresì le funzioni all’interno di altri am­ biti religiosi che non siano quelli della sovranità magica indo-europea. Non sarà nostra pretesa esaurire questo materiale enorme, su cui già sono state scritte svariate monografie6. Il nostro proposito è, invece, piuttosto di ordine metodologico: approfittando da un lato dei ricchi repertori di fatti accumulati dagli etnografi e dagli storici delle religio­ ni e, dall’altro, delle ricerche svolte da Dumézil nella sfera specifica del­ la sovranità magica indo-europea, ci chiederemo: 1) in che senso l’idea del « sovrano legatore » è specifica, caratteristica del sistema religioso indo-europeo; 2) qual è il contenuto magico-religioso di tutti i miti, i riti e le superstizioni incentrati sul motivo della « legatura ». Non ci sfuggono i pericoli che un tale programma comporta, in primo luogo il « confusionismo » brillantemente denunciato da Dumézil (Naissance de Rome, 1944, pp. 12s.). Qui, tuttavia, non si tratta tanto di spiegare i fatti indo-europei attraverso paralleli eterocliti, quanto di tracciare som­ mariamente la mappa dei « complessi » magico-religiosi dello stesso tipo e di precisare, nella misura del possibile, i rapporti tra il simbolismo * Cfr. Servius, in Aen., ni, 607; J. Heckenbach, «D e nuditate sacra sacrisque vinculis» in iw , ix, 3, Giessen 1911, pp. 69s.; Dumézil. Flatnen-Brabmatr, pp. 66s. * Dopo il libro al quanto deludente di Heckenbach, segnaleremo Frazer, Taboo *nd thè perils of thè soul, pp. 296s. (tr. fr. di Henri Peyre, Tabou et ler périls de ¡’ime, Paris 1927, pp. 245s.); I. Scheftelowitz, Das Schlingen-und Netzmotiv im Glauben und Brauch der Volker (rw , xii, 2, Giessen 1912); id.. Die altpersische Religion und das Judentum, Giessen 1920, pp. 92s. e gli studi etnografici e folklorici rilevati da Dumézil, Ouranos-Varuna, p. 52, n. 1. Sul nexurn romano, i nodi magici e il diritto penale, cfr. Henri Decugis, Les étapes du droit, 2a ed., Paris 1946, t. i, pp. 157-178.

87

Il « dio legatore » e il simbolismo dei nodi indo-europeo della « legatura » e sistemi morfologicamente vicini. A questo modo saremo in condizione di valutare se un tale confronto può presentare qualche interesse per la storia generale delle religioni e in particolare per la storia delle religioni indo-europee.

Il simbolismo di Varuna Facendo seguito a Bergaigne e a Güntert, Dumézil ha ricordato il potere magico di Varuna. Questo dio è un vero « signore dei vincoli * e numerosi inni e cerimonie non hanno altro scopo se non quello di proteggere o di liberare l’uomo dai « lacci di Varuna » (ad es.; Rig Ve­ da, i 24,15; vi 74,4; vii 65,3; x 85,24, ecc.). Sàyana, commentando il verso rv, i 89,3, spiega il nome di Varuna collegandolo al fatto che « avvolge, cioè imprigiona i cattivi nei suoi lacci » ( vrnoti, pàpakrtah, svakìyaih pàgair àvrnoti). « Possa tu liberare dai loro vincoli coloro che sono legati! » (bandhàn mungasi baddhakam, Atharva Veda, vi 121,4). I lacci di Varuna sono attribuiti anche a Mitra e Varuna considerati in­ sieme (rv vii, 65,3: «hanno molti lacci...» ecc.) e perfino all’intero gruppo degli Aditya (ad es. rv ii, 27,16: « i vostri lacci aperti per il perfido, per l’ingannatore... »). Tuttavia è soprattutto Varuna che ha il potere magico di legare a distanza gli uomini o di slegarli7; ciò è vero a tal punto che si è perfino spiegato il suo nome in rapporto a questa capacità di legare; infatti, rinunciando all’etimologia tradizionale (varvrndi, « coprire », « rinchiudere ») che metteva in evidenza il suo carattere uraniano, oggi si tende piuttosto a seguire l’interpretazione proposta da Petersson e accettata da Güntert (op. cit., p. 144) e da Du­ mézil ( Ouranós-Varuna, p. 49) e ci si riporta a un’altra radice indo- euro­ pea uer, « legare » (sanscrito varatrà, « correggia, corda », lettone wéru, wert, « infilare, ricamare », russo verenica, « fila ininterrotta » ) 8. Va­ runa viene rappresentato con una corda in mano9 e, nelle cerimonie, 7 A. Bergaigne, La Religion védique d'après les Hymnes du Rig-Veda, ili, Paris 1883, pp. 114, 157s.; H. Güntert, Der arische Weltkönig und Heiland, Halle 1923, pp. 120ss.; Dumézil, Ouranós-Varuna, p. 50. Identico attributo nei Brähmanas, cfr. Silvain Lévi, La Doctrine du Sacrifice dans les Brähmanas, Paris 1898, pp. 153ss. * Cfr. Walde-Pokomy, Vergleichendes Wörterbuch der indogermanischen Spra­ chen, i, ,1930, p. 263. 9 Bergaigne, op. cit., m , p. 114; S. Lévi, op. cit., p. 153; E.W. Hopkins, Epic Mythology, Strasbourg 1920, pp. 116s.

88

Il simbolismo di Varuna tutto dò che lega, a comindare dai nodi, viene detto varuniano I#. Dumézil giustifica questo prestigio del signore legatore in base alla sovra­ nità di Varuna. « I vincoli di Varuna sono magid, come è magica la so­ vranità stessa; essi sono il simbolo delle forze mistiche detenute dal ca­ po e che si chiamano: giustizia, amministrazione, sicurezza reale e pub­ blica, tutti i ‘poteri’. Scettro e vincoli, dattda e pàcàh si spartiscono, in India come altrove, il privilegio di rappresentare tutto ciò » [OuranósVaruna, p. 53). G ò è senza alcun dubbio esatto, tuttavia l’aspetto di « sovrano » e addirittura di « sovrano-mago » non esaurisce la natura complessa die caratterizza Varuna fin dai più antichi testi vedici. Sebbene non lo si possa dassificare esclusivamente tra gli « d d del Cielo », ciò non toglie che egli possiede alcuni tratti propri alle divinità uraniche. Egli è viqvadargala «visibile ovunque » ( r v vili, 41,3), egli «h a separato i due mondi » (vii 86,1), il vento è il suo soffio ( v i i 87,2), lui e Mitra sono venerati in qualità dei « due potenti e sublimi signori del Cielo », i quali « si mostrano con le nuvole diversamente dipinte nel primo bron­ tolio di tuono e fanno piovere il Cielo grazie a un miracolo divino » (v 63,2-5), ecc. Questa struttura cosmica gli ha consentito molto presto di assumere caratteristiche lunari11 e piovose al punto che, col tem­ po, è diventato una divinità delPOceano l2. Questa stessa struttura cosmico-uraniana spiega le altre funzioni e prestigi di Varuna: ad esem­ pio la sua onniscenza ( a v , i v 16,2-7, eco) e la sua infallibilità ( r v , i 35,7s.). Egli è sahasràksa, « dai mille occhi » ( r v , vili 34,10), formula mitica che fa riferimento alle stelle e che, almeno all’origine, non pote­ va designare che una divinità uraniana13. I prestigi della sovranità so­ no aumentati ed hanno moltiplicato i prestigi celesti: Varuna vede e conosce tutto in quanto dalla sua dimora siderale egli domina l’Universo; e, al medesimo tempo, egli può tutto, dal momento che è cosmocrate e punisce « legando » (cioè con la malattia, con l’impotenza) coloro che infrangono la legge, d d momento che egli è il custode dell’ordine universale. Esiste dunque un’ammirevole simmetria tra ciò che potrem­ mo chiamare lo « strato cdeste » di Varuna e il suo « strato regale », due strati in reciproca corrispondenza e che si completano a vicenda: il Ouranós-Varuna, p . 5 1 , n. 1. Vedische Mythologie, B re slau 1902, n i , p p . l s . 12 S . L é v i, op. cit., p p . 1 5 8 ss.; J . J . M eyer, Trilogie altindischer Mächte und Teste der Vegetation, Z ü rich -Leipzig 1937, i n , p p . 206$., 2 6 9 s. 13 R affaele P ettazzon i, « L e C o rp s p arsem é d ’y eu x » in Zalmoxis, i, 1938, p p . l s .

10

S . L é v i, p . 15 3 ; D u m ézil,

11

H iU eb ran d ,

89

Il « dio legatore » e il simbolismo dei nodi Cielo è trascendente e unico, proprio come il Sovrano Universale; la tendenza alla passività, manifesta in tutti gli dei supremi del Cielo ben corrisponde ai prestigi « magici » degli dei-sovrani, i quali « agisco­ no senza agire», operano direttamente attraverso la «forza dello spi­ rito ». La struttura di Varuna è complessa, però c’è sempre, cioè esiste un’intima coerenza tra le sue diverse modalità. Cosmocrate o divinità uranica egli è sempre onniveggente, onnipotente e, se necessario, egli « lega » grazie alla sua « forza spirituale », grazie alla sua magia. Il suo aspetto cosmico, tuttavia, è ancor più sostanzioso: come abbiamo visto egli è non soltanto un dio celeste, ma altresì un dio lunare ed acquati­ co. C’è stata in Varuna, forse già molto presto, una certa dominante « notturna » che Bergaigne e, di recente, Ananda Coomaraswamy15 non hanno mancato di mettere in rilievo. Bergaigne segnalava ( op. cit., n i, p. 213) il commentatore di Taittiriya Samhilà i, 8, 16, 1 secondo cùi Varuna designa « colui che avvolge come l’oscurità ». Questo lato « not­ turno » di Varuna non si presta unicamente ad un’interpretazione nel senso uranico di « Cielo notturno », ma può essere inteso anche in sen­ so più vasto, veramente cosmologico e addirittura metafisico. La Notte è anch’essa virtualità, germi, non manifestazione 16 ed è per l’appunto questa modalità « notturna » di Varuna che gli ha permesso di diven­ tare un dio delle Acque (cfr. già Bergaigne, in, p. 128) e che ha aperto la via alla sua assimilazione con il « demonio » Vrtra. Non è questa la sede per affrontare il problema « Vrtra-Varuna » e ci limiteremo a ri­ cordare che tra le due entità esiste più di un tratto in comune. Anche se non si insiste sulla probabile parentela etimologica tra i loro due no­ mi (Bergaigne, in, p. 115 ecc.; Coomaraswamy, pp. 129s) è importan­ te rilevare che entrambi hanno rapporti con le Acque e in primo luogo con le « Acque trattenute »-(«il grande Varuna ha nascosto il mare... » r v i x , 73,3) e che Vrtra, al pari di Varuna, viene talora chiamato màying, « m aga» (ad es. u , 11, 10),7. Da un certo punto di vista, queTraiti d’Histoire des Religioni, P ay o t, P a ris 1 949, p p . 4 7 s. Trattato di storia delle religioni, B orin gh ieri, T o rin o 1 972, p p . 8 0 s.). 15 S o p ra ttu tto in The darker side of thè Dawn, Sm ith son ian M iscellan eou s Collection s, voi. 9 4 , n. 1, W ash ington 1935 e Spiritual Authority and Temporal Power in thè Indian Theory of Government, A m erican O rie n tai Society , N e w H a v e n 1942. 16 C fr. C oom arasw am y , Spiritual Authority, in p artico lare p p . 2 9 s. 17 C fr. [ E . B en ven iste— ] L. R e n o u , Vrtra et Vrthragna, P a ris 1 9 3 4 , p p . 140-141, M

C fr. il n o stro

(tr. it.

il qu ale sb aglia n ell’aifen n are che n ella m aggior p arte d e l b ran i « la m agia d i V rtr a

90

« Dei legatori » nell’india antica ste diverse assimilazioni di Vrtra e di Varuna, come del resto tutte le altre modalità e funzioni di Varuna, sono in corrispondenza e si giusti­ ficano a vicenda. La Notte (il non manifestato), le Acque (il virtuale, i germi), la « trascendenza » e il « non agire » (caratteristiche degli dei celesti e sovrani) sono solidali, a un tempo sul piano mitico e su quello metafisico, con i « vincoli » di ogni sorta, da un lato, e con il Vrtra che ha « trattenuto », « fermato » o « incatenato » le Acque dall’altro M. Sul piano cosmico, Vrtra è anche lui una divinità «che lega». Come tutti i grandi miti, il mito di Vrtra è polivalente e la sua interpretazione non si esaurisce in un unico significato. Si può anzi dire che una delle principali funzioni del mito è quella di unificare i diversi livelli del rea­ le che, sia per la coscienza immediata che per la riflessione, risultano molteplici ed eterogenei. Così, nel mito di Vrta, a fianco di altre valen­ ze, si osserva quella di un ritorno al non manifestato, di un « blocco », di un « vincolo » che impedisce il dispiegarsi delle « forme », cioè del­ la Vita cosmica. Non è lecito, evidentemente, spingere troppo in là l’ac­ costamento tra Vrtra e Varuna, tuttavia è innegabile la parentela tra Varuna, il « notturno », il « non agente », il « mago », colui che lega a distanza i colpevoli19 e Vrtra, colui che « incatena » le Acque. L ’agire dell’uno come dell’altro ha l’effetto di « bloccare » la vita, di portare la morte— sul piano individuale in un caso, su quello cosmico nell’altro.

« Dei legatori » nell’india antica Nell’India vedica, Varuna non è l’unico dio « legatore ». Tra quelli che usano questa arma magica notiamo Indra, Yama, Nirrti. Di Indra, ad esempio, si dice che ha portato con sé un vincolo (sina) per Vrtra (rv ii 30,2) e che lo ha legato senza usare corde (n 13,9). Bergaigne, tuttavia, nel rilevare questi testi (op. cit., in, p. 115, nota 1), osserva che « abbiamo qui, evidentemente, solo uno sviluppo secondario del mirisp on d e a q u e lla d i In d ra e ne d eriv a » . A priori la m ag ia è u n attrib u to p iu t­ tosto d egli esseri ofidici— e V rtra è p er eccellenza u n o d i q u esti— che non un attrib u to d eg li d ei— eroi. T o rn erem o p iù avan ti su lla m agia d i In d ra.

op. cit.,

11

C fr. l ’a n alisi d el m otivo d elle A c q u e in R e n o u ,

19

Sarem m o anzi ten tati d i vedere in q u esto tip o d i pu nizione u n ’esten sion e,

p . 141s.

un approfo n d im en to d el tip o sté sso d i V aru n a, nel se n so che eg li co strin ge il colpevole a d u n a « regression e allo sta to v irtu ale, a ll’im m obilità » , sta to d i cu i lu i ste sso è in qualch e, so rta la rappresen tazion e.

91

Il « dio legatore » e il simbolismo dei nodi to, il cui senso è che Indra ritorce contro il demonio i suoi stessi espe­ dienti ». Chè non soltanto Varuna e Vrtra, ma anche altri esseri divini possiedono la loro maya: è il caso dei Marut (rv v, 53,6), di Tvashtr (x 53,9), di Agni (i 144,1; ecc.) di Soma (ix 73,5 ecc.) e perfino degli A$vin (v 78,6 ecc.; cfr. Bergaigne, in, pp. 80s). D’altro lato, però, qui si ha spesso a che fare con esseri religiosi ambivalenti, nel senso che in loro, a fianco degli elementi divini, coesiste un elemento demoniaco (Tvashtr, Marut); d’altro lato la denominazione « mago » non è un at­ tributo specifico e viene aggiunta alle personalità divine solo in forma di omaggio supplementare: è tale il prestigio del màyin che si sente il bisogno di attribuire questo titolo a qualsiasi divinità che si vuol ono­ rare. La tendenza « imperialista » che spinge una forma religiosa vitto­ riosa ad inglobare ogni sorta di altri attributi divini e ad estendere il suo dominio sulle diverse zone del sacro è un fenomeno ben noto nella storia delle religioni e delle religioni indiane in particolare. Nel caso in questione, questa tendenza ad annettersi prestigi e poteri estranei alla sfera propria del dio è tanto più interessante in quanto si tratta di una struttura religiosa arcaica, cioè del prestigio del « mago ». E colui che ne ha tratto maggior profitto è Indra. « Ha sconfitto i màyin per mez­ zo dei màyà » è questo il tema conduttore di vari testi (Bergaigne, in, p. 82). Tra le « magie » di Indra abbiamo in primo luogo il suo potere di trasformazione M, ma sarà forse il caso di fare una distinzione tra le sue molteplici epifanie particolari, omologate (toro, ecc.) e il potere ma­ gico indefinito che permette ad un qualsiasi essere (divino, demoniaco, umano) di assumere una qualsiasi forma animale. Va da sé che tra la sfera dell’epifania mitico-religiosa e quella della metamorfosi esistono delle interferenze, dei prestiti, delle confusioni e che, in una sfera in­ stabile quanto quella della mitologia vedica, non sempre è facile distin­ guere che cosa appartiene all’una e cosa all’altra. Tuttavia proprio que­ sta imprecisione e questa instabilità sono istruttive dal punto di vista fenomenologico, in quanto esse mettono a nudo la tendenza propria del­ le « forme » religiose all’interpenetrazione e all’assorbimento reciproco e questa prospettiva dialettica non può che contribuire alla comprensio­ ne dei fenomeni religiosi arcaici. Ritorniamo a Indra. Egli non è soltanto un « mago » in certi casi: anch’egli, esattamente come Varuna o come Vrtra, è un « legatore ». 30

Kleine Beitràge zur indo-iranischen Mytbologie, U p p sa la Brahman, U p p sa la 1932, p . 4 9 , n. 1 ; L . R e n o u , op. cit., p . 141.

C fr. J a r l C h arpen tier,

1911, p p . 3 4 *.; id .,

92

I

« Dei legatori » nell’india antica L’atmosfera è il suo laccio ed è con questo laccio che egli avvolge i suoi avversari ( a v v i i i , 8, 5-8, ecc.). Il suo corrispettivo iranico, Verelhragna, lega le mani dell’avversario ( Yasht, 14,63). Questi sono, comun­ que, tratti secondari che forse si spiegano in relazione all’uso effettivo, nella preistoria, del laccio come arma21. È vero che, nell’ottica del pen­ siero arcaico, un’arma è sempre un mezzo magico, ma questo non im­ pedisce che un dio guerriero ili senso proprio come Indra utilizzi que­ sto mezzo magico in veri e propri combattimenti, mentre Varuna si ser­ ve dei suoi « vincoli » senza combattere, senza agire e in modo magico Più istruttivo è l’esempio degli altri due dei legatori, Nirrti e Yama, entrambi divinità della morte. I vincoli di Yama (yamasya padbìqa, a v , v i 96,2; vili 7,28) vengono chiamati in maniera generale « i vincoli del­ la morte » (mrlyupàgàh, a v , v i i 112,2; vili 2,2; ecc.; cfr. Scheftelowitz, p. 6). Nirrti, dal canto suo, incatena coloro di cui vuole la rovina ( a v , v i 63,1-2; Taitt. Sam., v 2,4,3; Cdapatha Brahmana, v i i 2,1,55) e si rivolgono preghiere agli dei affinché allontanino « i vincoli di Nirrti * ( a v , i 31,2), così come l’uomo implora Varuna affinché lo salvi dai suoi « vincoli ». Come in certi casi Agni, Soma o Rudra (Güntert, p. 122) vengono invocati perché liberino dai « vincoli di Varuna », si ritiene che Indra sia in grado di liberare non soltanto dai « vincoli di Varuna », ma altresì dalla « legatura » dei demoni della morte (ad es., a v , i x 3, 2-3 in cui il problema è quello di tagliare i vincoli del demonio femmi­ na Vifvavàra con l’aiuto di Indra, ecc.). Le malattie sono dei « lacci » e la morte non è che il « vincolo » supremo. Questo spiega che, in Yama e in Nirrti, questi attributi sono più che importanti, essi sono davvero fondamentali. Malattia e morte: questi due elementi del complesso magico-religioso della « legatura » sono quelli che, quasi in ogni parte del mondo, hanno goduto della massima popolarità e sarebbe interessante cercare di scoprire se la loro diffusione non sia in grado di gettar luce su certi aspetti del problema che ci sta a cuore. Tuttavia, prima di lasciare l’am­ bito indiano, cerchiamo di riassumere schematicamente gli insiemi più importanti che in esso abbiamo rilevato: 1) Varuna, il Grande Asura, lega magicamente i colpevoli e a lui vengono rivolte preghiere affinché ;i

C fr. K u r t L in d n er,

La Cbasse pribistorique,

tr. fr., P a ris 1940,

pp.

5 3 s.

e

passim. 22

Sul

ràjanya

leg ato d a g li d ei fin d a q u an d o si tro v a n el v en tre d i su a m ad re

( « i l ràjan y a è n ato l e g a t o » , Brahman, pp. 2 7 s.

Taitt. Sambita,

93

n , 4 , 13, 1), cfr. D u m ézil,

Flamen-

Il « dio legatore » e il simbolismo dei nodi non leghi o affinché sleghi; 2) Vrtra incatena le Acque e certi aspetti del suo mito corrispondono all’aspetto notturno, lunare, acquatico, di Varuna, nella misura in cui queste modalità del gran Dio esprimono il « non manifesto » e il « bloccato »; 3) Indra, al pari di Agni e di Soma, libera gli uomini dai vincoli di Varuna e dañe catene delle divinità fu­ nerarie: « taglia » o « spezza » tali « vincoli », allo stesso modo in cui nel mito taglia, fa a pezzi, ecc. il corpo di Vrtra; oltre ai mezzi guerrie­ ri che gli sono propri, anzi esclusivi, ¿gli quindi, per sconfiggere il ma­ go Vrtra, ricorre anche a « mezzi magici »: comunque sia i « vincoli » in lui non costituiscono un tratto fondamentale, anche se il laccio deve essere annoverato tra le sue armi; 4) viceversa i lacci, le corde, i nodi, caratterizzano le divinità della morte (Yama, Nirrti) e i demoni delle diverse malattie; 5) infine, nelle parti « popolari » dei libri vedici, gli incantesimi diretti contro i vincoli di questi demoni sono numerosi quanto i sortilegi « che legano » usati contro i nemici umani. Si può vedere che, anche così sintetizzate, le cose non sono sempli­ ci. Tuttavia si delineano certe linee di forza: sul piano mitico delle ge­ sta divine, abbiamo da un lato il non agire magico di Varuna e di Vrtra, dall’altro l’agire di Indra; sul piano umano delle malattie e della mor­ te, l’importanza dei lacci e dei nodi nel caso delle divinità funerarie e dei demoni e l’utilizzo magico della « legatura » sia nella medicina po­ polare che nei sortilegi. Fin dai tempi vedici, quindi, il complesso della « legatura », pur rimanendo caratteristico, costitutivo della zona della sovranità magica, la oltrepassa sia dalf’alto (livello cosmologico: Vrtra) che dal basso (livello funerario: Yama, Nirrti; livello « stregoneria »). Cerchiamo di vedere quali tocchi nuovi può aggiungere a questo qua­ dro il confronto con gli altri settori indo-europei.

Traci, Germani, Caucasici È probabile, come ha mostrato Güntert (op. cit., p. 154), che il no> me del dio tracio Darzales, attestato dalle iscrizioni, si spieghi in rela* zione a una radice che contiene la nozione di « legame » (av. darazeili, « legare », darez, « corda, laccio »), però di questo dio ignoriamo quali tutto23. La stessa etimologia vale indubbiamente anche per il nome del 23

D arzales è sta ta localizzata n e lla regione p on tica (S in o p e ), a S a ra p is; cfr. 0 .

W einreich,

Neue Urkunden zur Sarapis-Religion,

T ü b in ge n 1 919, p . 7 , che fa

ferim en to alle ricerche d i R o stovtzeff. C fr. S tig W ik an d er, 1 941, p p . 4 3 s.

94

Vayu,

ri­

i , L u n d -L e ip ii|

Traci, Germani, Caucasici dio geto-tracio Derzelates, ben noto a Odessos 24, dove si celebravano i darzaleìa destinati a favorire i raccolti25 e attestato altresì a Tomis su anelli che recano l’iscrizione Derzo 26, come vale per la dea tracio-frigia Bendis27, per il lituano Bentis28 e per l’illirico Bindüs29. Sfortunata­ mente si sa ben poco di questi ultimi due; il sacrificio umano praticato dagli Illiri veniva forse offerto a Bindus? Più rivelatori sono certi rituali di cui si è conservata notizia sia nel­ l’ambito germanico che nella regione tracio-frigia e caucasica. Parlando della grande festa religiosa annuale dei Semnoni, Tacito ( Germania, 39) aggiunge che i presenti potevano parteciparvi solo dopo essersi legati (nemo nisi vinculo ligatur indreditur). Closs (pp. 564s., 609s., 643, 668) che ha ampiamente commentato questo rito e citato numerosi paralleli, lo considera'una testimonianza di sottomissione nei confronti della di­ vinità nazionale (p. 566), mentre Pettazzoni30 lo annovera piuttosto tra le Qrdalie. Comunque sia, è lecito paragonarlo alle cerimonie d’inizia­ zione mitriache, in cui l’iniziato aveva le mani legate dietro alla schiena con una corda31. Si pensa anche all’anello di ferro che i Chatti porta­ vano « a mo’ di catena » fino a quando non avessero ucciso il loro pri­ mo avversario ( Germania, 31), all’incatenamento rituale praticato dagli Albanesi (Strabone, xi, 503) come pure alle catene portate dai Georgia­ ni devoti del « Giorgio Bianco » 32, ai riti di « legatura » dei re armeni H

M on ete e iscrizioni in d ivid u ate d a C asile P àrvan ,

Gerusia,

M ém oires d e l ’A-

('•dém ie R ou m ain e, Section littéraire, 1919-1920, B u carest 1924, pp. 9 , 2 3 , ecc. M

D ocum entazione nella riv ista

Istros

(p u b b licata in fran cese a B u carest), I,

1934, p p . 118s. M

R . V u lp e, « H isto ire ancienne d e la D o b ro u d ja » (n el volu m e co llettiv o

La

Dobroudja,

p u b b licato d a ll’A cad ém ie R ou m ain e, B u carest 1 938, . p p . 35-454), p p . 2 )3 , 237. C fr. anche K azaro w , in P auly-W issow a, x v , p p . 2 2 7 s. n

A ssim ilata a d A rtem id e (E ro d o to , iv , 3 3 ), a C ib ele e , negli inni orfici, a

P en efo n e; cfr. G ü n te rt, p . 115, n. 1; co n sid erata orgiastica d a Strab on e, x , p . 470. M

n

H . U sen er, Gotternamen (ristam p a, B o n n 1929), p . 8 0. A . C lo ss, « D ie R eligion d es Sem nonen stam m es » in Wiener

Kulturgeschichte und Linguistik, 10

R . P ettazzon i, « R egn ator om nium d eu s » in

Religioni,

Beiträge zur

iv , Salzb u rg-L eipzig 1936, p . 619.

Studi e Materiali di Storia delle

x ix - x x , 1943-1946, p . 155.

11 F . C um on t, Les Religioni orientales dans le paganisme romain, P a ris 1929, tavola x n i ; co rd a che, secondo P s.— A u g u stin o , Quaest., v , èra fa tta d i intestinis

pttllinis

(C u m on t,

Textes et Monuments relatifs aux mystères de Mithra,

B ru xelles

IB94-1900, il , p p . 7-8). " C lo ss, p . 5 6 6 ; ibid., p. 6 4 3 , in cui si cita O .G . W esen d on k, « U eb er georgi­ sches H e id e n tu m » in Caucasica, fase, i , L e ip zig 1 924, p p . 5 4 s., 9 9 , 101. G . D u-

95

Il « dio legatore » e il simbolismo dei nodi (Tacito, Attnales x i i , 45; Closs, p. 619) e a certi costumi albanesi con­ temporanei 33. Da tutti questi riti emerge un atteggiamento servile: il credente si presenta come uno schiavo o un prigioniero di fronte al suo padrone. La « legatura » si concretizza quindi in una sorta di marchio di vassallaggio34. Closs (p. 620) ha forse ragione nelPattribuire il ritua­ le dei Semnoni all’influenza illirica e nel considerarlo appartenente in proprio a un livello culturale lunare-ctonio con centro nelle regioni del sud35. Oltre a questo rituale, tuttavia, presso i Germani si incontrano altri elementi che si integrano a loro volta nello stesso complesso della « legatura »: ad esempio la morte rituale per impiccagione spiega l’epi­ teto di Odhinn, « dio della corda » ( Haptagud, Closs, p. 609); analoga­ mente le dee funerarie germaniche tirano i morti con una corda36 e le divinità guerriere (antico scandinavo Disir, antico alto tedesco Idisu) le­ gano coloro che vogliono far cadere37. Dobbiamo tenere a mente questi tratti: essi ricordano la tecnica di Yama e di Nirrti; del resto i fatti che citeremo più avanti getteranno luce su di essi. m ézil, «

Tjtuós

» in R e v . H ist. R e lig., t. c x i , 1935, p p . 66-89, p p . 6 9 s., stu d ia

su lla scorta d elle su e fo n ti georgian e gli « s c h ia v i d e l G io r g io B i a n c o » :

« c h iu n ­

q u e d esid eri on orare o calm are il G io rg io B ian co d iv en tan d o su o sch iav o pren d e u n a d i q u este caten e, se la m ette al collo e fa , a p ied i op p u re a gin occh io, il g iro d ella ch iesa » . C fr. anche S e rg i M ak alath ia, « E in ig e eth n ographisch-archäolo­ gisch e P arallelen a u s G eo rg ien » in Mitteilungen Antbropolog. Gesellschaft Wien, 6 0, 1930, p p . 361-365. 33 N e l co rso d i u n p rocesso d i v en d etta, il co lpevole si d ev e presen tare d av an ti al trib u n ale con le m ani leg ate (C lo ss, op. cit., p . 6 0 0). 34

B a sta paragon are a q u esto co m plesso germ ano-illiro-caucasico le cerim onie d i

« legam e d i sangu e » (la

blood-brotberbood)

p raticate u n p o ’ o v u n q u e in E u ro p a ,

p e r rendersi co n to d ella d istan za che se p ara il vin colo « padrone-sch iavo » d al

fratta de cruce); Mutter Erde, 3a e d ., L eip zig-B erlin classico d i H .C . T ru m b u ll, T he Blood Covenant, L o n d o n Motif-Index of Folk-Literature, li, H e lsin k i 1935, p . 125.

vin colo tra « frate lli d i croce » (è q u e sta u n ’esp ressio n e rum ena, cfr. su lle frate rn ità d i san gu e, A . D ieterich , 1925, p p . 1 3 0 s.; il lib ro 1887 e S tith T h o m p so n ,

S i sareb b e ten tati d i assim ilare q u este form e d i frate rn ità ai rap p o rti religiosi e si­ ste n ti tra g li esseri um ani e M itra— co n trap p osti ai rap p o rti a lq u an to d u ri tra V aru n a e i su o i d ev o ti. Il che non im plica affatto , anzi, che il valo re religioso d i V aru n a sia « p overo » ! 35 A . C lo ss, op. cit., p p . 6 4 3 , 6 6 8 . Secon d o lo ste sso au to re ( p . 5 6 7 ), il fa tto d i leg are la v ittim a ritu ale sareb b e un co m p lesso d elle cu ltu re m egalitich e e d e l­ l ’A sia su d orientale. 36 37

G rim m , Deutsche Mythologie, i l , 7 0 5 , IV, 2 5 4 ; Sch eftelow itz, op. cit., p . 7 . R .H . M eyer, Altgermanische Religiongeschichte, 1910, p . 158, 160. T u tta v ia

J.

’la person alità d i q u este d iv in ità è p iù co m p lessa; cfr. Ja n d e V rie s,

Religiongeschichte,

n , B erlin 1937, p p . 3 7 5s.

96

Altgermanische

Iran

Iran I dati relativi all’Iran sono di due tipi: 1) qualche allusione al de­ mone Astóvxdhótush, che, anche lui, lega con uno spago l’uomo che vuol far morire M; 2) le gesta degli dei guerrieri e degli eroi iranici: Frédùn, ad esempio, lega il demone Azdahàk e lo incatena al monte Dimàvand (Dinhard, ix 21, 103), il dio Tishtrya lega le streghe Pairika con due o tre corde (Yasht 8,55); Verethragna, come si è visto, lega le braccia dell’avversario (Yasbt, 14, 33); in certi episodi del Shah Nameb, come ha osservato Scheftelowitz ” , Ahriman ha un laccio e si fa anche accen­ no ai vincoli del dio del destino. L ’assènza di un Sovrano che lega, re­ plica iranica di Varuna, non è senza spiegazioni: che il posto di Varuna sia occupato soltanto, come in genere si pensa, dal dio supremo Ahura Mazdah, oppure che lo sia anche, come suggerisce Dumézil (Naissance d'Arcbanges, 1945, pp. 82s., lOOs.) àsOl’amesba spenta Asba, in un ca­ so come nell’altro si ha a che fare con entità purificate, moralizzate dal­ la riforma zoroastriana, nella cui natura sarebbe inconcepibile ritrovare là «c magia » di Varuna. Gli elementi « sovrani » che sopravvivono in Ahura Mazdah (Widengren, op. cit., p. 259.) non lasciano più intrave­ dere affatto una « sovranità terribile » e se egli è talora dio del destino (Yasna, 1, 1; trad. pehlevi, Widengren, p. 253), si tratta di un tratto troppo comune degli dei supremi e uranici perché da esso si possa trar­ re una qualsiasi conclusione. Sarebbe tuttavia azzardato o certamente falso concludere, sulla base del fatto che non sappiamo quasi nulla dell’equivalente iranico del Varuna vedico prima della riforma di Zoroastro, che la caratteristica di dio «c legatore » di Varuna sia dovuta in In­ dia a un’influenza non ariana. L ’Urano greco, infatti^ a sua volta lega i suoi rivali e, come ha mostrato Dumézil (Ouranós-Varma, passim), vi è motivo di cercare nel mito di Urano e degli Uranidi le tracce di uno schema già indo-europeo. Comunque sia, i fatti iranici attestati coprono solo due dei motivi da noi individuati nell’insieme indiano: 1) il dio (derezà maraithyaoscb, Die altpersiscbe Religion, p . 9 2 ). « L o leg a A stóvidh òtu sh e V ay u se lo p o rta v ia leg ato » , Vendidad, 5 , 8 ; H .S . N y b erg, « Q u e stio n i de co sm ogo n ie e d e co sm ologie m a z d é e n n e s» , n in Journal Asiatique, ottobred icem bre 1 9 3 1 , p p . 193-244, p . 2 0 5 ; G . D u m ézil, Tarpeta, P a ris 1947, p . 7 3 . C fr . Minoici Kbrat 2 , 1 1 5 ; G . W id en gren , Hocbgottglaube im Alteri Iran, U p p sa la

38 L e g a Yasna 5 3 ,

i m oribon d i co n i su òi « legam i d ella m orte » 8 ; Sch eftelow itz,

1938, p . 196.

39

Das Scblingen— und Netzmotiv,

p. 9;

97

Die altpersiscbe Religion,

p. 92.

Il « dio legatore » e il simbolismo dei nodi o l’eroe che lega i demoni; 2) il demone funerario che lega l’uomo pri­ ma di trascinarlo verso il ponte Cinvat. À seguito, forse, della riforma zoroastriana, gli altri due motivi importanti dell’insieme indiano—la « magia » di Varuna e la « legatura » cosmologica—non compaiono più.

Paralleli etnografici Sarebbe vano formulare delle conclusioni di ordine generale sui fat­ ti indo-europei senza aver ampliato, come abbiamo annunciato, la no­ stra prospettiva storica e culturale e aver integrato il complesso della « legatura » in un gruppo più vasto di simbolismi analoghi o identici. Fin da ora, tuttavia, si possono segnalare alcuni paralleli etnografici al gruppo indo-europeo di dei e demoni funerari che « legano » i moi;ti. La figura più vicina alla coppia iranica Vayu-Astóvidhótush non è altro che il dio cinese del vento e della rete, Pauhi, il quale è in stretto rap­ porto con la dea-serpente Nakura e questo dimostra che egli appartiene a un livello culturale ctonio-lunare40. Quanto alle corde di Yama, di Nirrti, di Astóvidhótush e delle dee germaniche, le loro repliche più esatte si ritrovano nella sfera del Pacifico. Presso la tribù australiana de­ gli Aranda, i demoni tjimbarkna legano nel corso della notte le anime degli esseri umani e li uccidono stringendo forte la corda41. Nelle isole Danger, il dio della morte, Vaerua, lega i defunti con delle corde e li trascina così nel paese dei morti42. Nelle isole Hervey, l’anima del de­ funto, scendendo all’infernp lungo un albero miracoloso, scorge la rete del dio Akaanga che lo aspetta e a cui non può sfuggire43. A San Cri­ stobai, il « Fisher of soul », seduto su una roccia, pesca le anime Nel­ le isole Salomon sono i parenti che pescano l’anima del defunto per ri40

In o n e, citato d a C lo ss, p. 6 4 3 , n. 44. C fr. la leggen d a d e i d u e sp iriti, Shen-t’u

e Y ii-lei, i q u a ir ie g a n o le anim e dei defu n ti n el fo n d o d i u n a cav ern a; C . H en tze, Die Sakralbronzen und ihre Bedeutung in den friihchinesischen Kulturen, A ntw erpen 1941, p. 23. C ari Streh low ,

41

Die Aranda-und Loritja-Stamme in Zentral-Australien, I,

F ran k fu rt a. M . 1 907, p . 11. 42 W . W yatt G ill, Life in thè 4J

Southern Isles, L o n do n 1876, p p . 181s. Mylhs and Songs from thè South Pacific, L o n d o n 1 876, p p . E .S .C . H an d y , Polynesian Religion, H o n o lu lu 1927, p . 7 3. Cfr.

W . W y att G ill,

161s.; cfr. anch e

M . W alleser, « R e ligio se A n sch au n gen u . G eb rau ch e d er B ew o hn er von J a p » in

Anthropos, v m , 1913, p p . 607-629, p p . 612-613. 44 D r . C .E . F o x , The Threshold of thè Pacific, 98

L o n d o n 1924, p p . 2 34s.

Paralleli etnografici porla in una scatola assieme a una reliquia corporea (cranio, mascellare, dente, ecc.)45. Gli stregoni delle isole Hervey possiedono trappole ma­ giche in cui catturano le anime di coloro che vogliono rovinare46. Lo stesso costume si incontra in altre zone culturali47, ma è importante no­ tare la profonda analogia che vi è, in Melanesia, tra il modo in cui il dio della morte « pesca » e « lega ».le anime, e la tecnica omicida degli stregoni. Questa solidarietà tra i due tipi di magia contribuisce a get­ tar luce sul problema della « legatura ». Si è visto che, presso gli Indo-Europei, i motivi dei lacci, dei nodi e delle corde si ripartiscono tra vari insiemi distinti: tra certi dei, eroi o demoni, certi rituali, certi costumi. Il problema si presenta sotto tutt’altro aspetto nel mondo semitico: qui i vincoli magici di ogni genere sono un prestigio divino (e demoniaco) pressoché universale. E ci sono dei sovrani, come Enlil e sua moglie Ninkhursag ( = Ninlil), oppure di­ vinità lunari come En-zu ( = Sin), i quali catturano nelle loro reti co­ loro che si rendono colpevoli di spergiuro48. Shamash, tuttavia, il dio solare, è anche lui armato di lacci e di corde e anche lui viene pregato di liberare chi è legato; la dea Nisaba lega i demoni delle malattie (il demone della peste viene invocato con queste parole: « con la rete, le­ ga e annichila i Babilonesi! » ) 49. A Bèl ( = Enlil) si dice: « Padre Bèl, tu lanci i lacci ed ogni cappio è un cappio ostile » 50. Tammuz viene chiamato « Signore dei lacci » 51, però, nel mito, lui stesso viene legato 45

The Melanesiani of thè S.E. Solomon Islands, L o n d o n 1927, op. cit., p . 92. G ill, Life..., p p . 1 8 0 s.; Myths..., p . 171.

W .G . Iv en s,

p . 178; lo ste sso costu m e a H aw ai', cfr. E .S . C raigh ill H an d y , 46

W . W y att

47 L o sciam an o tu n gu so utilizza u n lasso p e r ripren d ere l ’anim a fu g g itiv a d i u n m alato; S. Sh iro kogoro w , The psychomental complex of thè Tungus, Sh angaiLon don 1935, p . 2 9 0 . L o sciam an o, d el resto , im ita la tecnica d egli sp iriti;

ibid.,

p. 178. S te sso co m plesso cu ltu rale tra g li C iu k ci. S u q u e sto p rob lem a cfr. il n ostro libro Le Chamanisme et les techniques archàiques de l’extase, P ay o t, P a ris 1951 (tr. it. Lo sciamanismo e 44 L . W . K in g , History

le tecniche dell’estasi, E d . M ed iterran ee, R om a 1975). of Sumer and Akkad, L o n d o n 1910, p p . 1 2 8 s.; G . F urUni, La religione babilonese-assira, i , B o lo gn a 1928, p . 1 5 9 ; E . D h orm e, Les Re­ ligioni de Babylonie e d’Assyrie, C ollection « M an a » , n , P a ris 1945, p p . 2 8 , 4 9 ; E . D o u g la s V an B u ren , « Sy m b o ls o f th è G o d s in m esopotam ian A rt » in Andecla Orientalia, 23, R om a 1945, p p . 11-12. w Sch eftelow itz, Das Schlingen-und Netzmotiv, p p . 4 s. * M . Ja stro w , Die Religion Babyloniens und Assyriens, voi. n , G ie sse n 1912, p. 15. *' Sch eftelow itz,

op. cit.,

p . 4.

oo

Il « dio legatore » e il simbolismo dei nodi e chiede di essere salvato dai lacci52. Si prega Marduk affinché liberi dalle catene e dai lacci, giacché anch’egli è un legatore esperto. Al pati di Indra egli utilizza il cappio e le corde da dio campione, in guisa « eroica ». Nel poema della Creazione, Enuma Elish, si distinguono due specie di « legatori » che ricordano il dittico vedico Varuna-Indra. Ea, il dio delle Acque e della saggezza, non lotta « eroicamente » con i mo­ stri primordiali Apsu e Mummu: li « lega » con incantesimi magici e poi li uccide (Enuma Elisb, i 60-74). Manduk, dopo essere stato inve­ stito dall’assemblea degli dei della prerogativa della sovranità assoluta (che fino ad allora appartenevano al dio celeste Anu, iv, 4 e 7) e dopo aver ricevuto da essa lo scettro, il trono e l’accetta (iv, 29), comincia a combattere il mostro marino Tiamat e questa volta assistiamo veramen­ te a una lotta « eroica »; comunque l’arma capitale di Marduk rimane la « rete » « dono di suo padre Anu » 53. Marduk « lega » Tiamat, lo « incatena » e gli strappa la vita (iv, 104). Incatena poi tutti gli dei e demoni che avevano aiutato Tiamat e, dice il poema, « furono gettati in una rete e sedettero in un sacco. Stettero in caverne » (iv, 111-114, 117, 120). Marduk conquista la sovranità tramite la sua lotta eroica, però conserva anche le prerogative della sovranità magica. Se si tiene anche conto del valore magico delle corde, dei nodi e dei cappi nella stregoneria e nella medicina popolare (cfr. più avanti), l’impressione ge­ nerale che si sprigiona da questo rapido sorvolo dell’ambito mesopotamico è quella di una confusione quasi totale. La « legatura » sembra es­ sere un prestigio magico-religioso egualmente ben assimilato da tutte le « forme » religiose. Sarebbe opportuno che uno specialista delle religio­ ni mesopotamiche riprendesse il problema per stabilire se, dietro a que­ sta confusione, è possibile ricostituire una « storia ».

Magia dei nòdi Esaminiamo ora nel suo complesso la morfologia dei vincoli e dei nodi nella pratica della magia. I fatti più importanti si potrebbero rag­ 53

Anatecta Orientai», Mesopotamian elementi in Manichaeim,

M . W itzel, « T am m u n z-Liturgien u n d V erw an d tes » in

10, R o m a 1 937, p . 140. G e o W id en gren , U p p sa la 1946, p . 80.

53

Ibid.,

iv , 4 9 . N e lla tav o letta i, 8 3 , M ard u k è figlio d i E a tu tta v ia , q u a le ch e

sia il sen so d i q u e sta filiazion e, la su a essen za è q u e lla d e lla so v ran ità m agica. Segu iam o la trad uzion e italian a d i G . F u rlan i, Miti babilonesi e assiri, San so n i, F iren ze 1958.

100

Magia dei nodi gruppare in due grandi rubriche: 1) i «vin coli» magici usati contro gli avversari umani (in guerra, nella stregoneria) e insieme l’operazione opposta del « taglio dei vincoli »; 2) i nodi e i vincoli benefici, mezzo di difesa contro gli animali selvatici, contro le malattie e i sortilegi, contro i dèmoni e la morte. Ci accontenteremo di qualche esempio. Nel­ la prima categoria si possono ricordare i lacci magici rivolti contro gli avversari (Atharva Veda n, 12,2; vi 104; vili 8,6), le corde gettate dal principe sul percorso degli eserciti nemici (Kauqìtaki Samhità, xvi, 6) la corda sotterrata vicino alla casa di un nemico o ancora, nascosta nel­ la sua barca per farla rovesciare54, infine i nodi che infliggono ogni sor­ ta di mali, sia nella magia antica55 che nelle superstizioni moderneS6. Quanto al « taglio dei vincoli », esso è già utilizzato AsSÌ'Atbarva Veda iad es. vi, 14, 2s.) e, nello stesso ordine di idee, nella sua qualità di mezzo di prevenzione, si legge spesso nella letteratura etnografica che gli uomini non devono portare alcun nodo sulla loro persona in deter­ minati periodi critici (il parto, il matrimonio, la morte)57. Nella seconda categoria possono essere raccolti tutti gli usi che at­ tribuiscono ai nodi e ai vincoli una funzione di guarigione, di difesa 54

Kaufitaki Samhità, xlviii, 4-5: C alan d , Altindische Zauberritual, A m sterd am La Magie dans l’Inde antique, P a ris 1 9 0 3 , p . 2 2 9 ; Schefte-

1900, p . 16 7 ; V . H en ry , low itz, p . 12.

E z 13, 18-21; C . F o sse y , La Magie assyrienne, P a ris 1 9 0 2 , p . 8 3 ; M . Ja s tr o w , The religion of Babylonia and Assyria, B o sto n 1 8 98, p p . 2 8 0 s.; ecc. 56 W . C ro o k e, The populär religion and folklore of Northern India, W estm in ster 1896, l i , p p . 4 6 s.; S . Seligm an , Der böse Nick, B e rlin 1910, I , p p . 2 6 2 , 3 2 8 s.; Scheftelow itz, p . 14; F razer, Taboo, p p . 3 01s. (tr. fr. p p . 2 5 1 s.); G .L . K ittre d g e , Witcbcraft in Old and New Engfand, C am b rid g e, M ass. 1929, p p . 2 0 1 s.; cfr. Handwör­ terbuch des deutschen Aberglaubens, alle voci Schlinge, Netz, ecc.; nel folk lo re, Stith T h o m p so n , Motif-Index, vol. n , p . 313. 37 O gn i co sa d ev e essere ap erta e d isfa tta p e r facilitare il p a rto , F raze r, op. cit., 55

pp. 2 9 6 s. (tr. fr. p p . 2 4 7 s.); tu ttav ia cfr. la rete q u a le d ife sa co n tro i d em on i d u ­ rante il p a rto , tra i C alm ucch i, F raze r,

Folklore in thè Old Testament,

n i, London

1919, p . 4 7 3 . Si p o te v a im ped ire ch e v e n isse co n su m ato u n m atrim on io tram ite la m agia d elle corde e d ei n od i, F raze r, Taboo, p . 2 9 9 s. ( tr . fr. p . 2 4 9 ). N o n si può m orire fin tan to ch e ci so n o d elle se rratu re c h iu se e d e i catenacci tir a ti in ca sa

(ibid.,

p . 3 0 9 , tr. fr. p . 2 5 7 ) e in ce rti lu o g h i ven gon o sn o d a ti i co rd on cin i d e l

su dario p e r g aran tire il rip o so d e ll’anim a

(ibid.,

p . 3 1 0 ; tr. fr. p . 2 5 8 ). I n com pen­

so, p er d ifen d ersi contro le anim e d ei d efu n ti, in N u o v a G u in e a le v ed o v e p o rtan o in segno d i lu tto d elle reticelle (F raz er,

The Belief in Immortdity),

L o n d o n 1 913,

pp. 2 4 1 , 2 4 9 , 2 6 0 , 2 7 4 , 2 9 3 ). I cad av eri v en gon o le g a ti se m p re com e d ife sa con­ tro g li sp iriti d ei m orti (F ra z er,

La Crainte des morts,

tr. f r ., 2 a serie, P a ris 1 935,

pp. 5 3 s.) sebben e il significato d i q u e sto co stu m e sia p iù co m p lesso.

101

Il « dio legatore » e il simbolismo dei nodi contro i demoni, di conservazione della forza magico-vitale. Già nell’an­ tichità 58 si legava, al fine di guarirla, la parte malata del corpo e ancora ai nostri giorni la stessa tecnica è molto diffusa nella medicina popola­ re w. Ancor più diffuso è il costume di difendersi contro le malattie e i' demoni per mezzo di nodi, di spaghi e di corde “ , specialmente nel mo­ mento del parto61. Un po’ ovunque nel mondo si portano nodi a mo’ di amuleto62. È significativo l’utilizzo dei nodi e degli spaghi nel rituale nuziale per proteggere i giovani sposi63, mentre proprio i nodi, com’è noto, rischiano di impedire che venga consumato il matrimonio. Questa ambivalenza, però, rientra nel numero di quelle che si osservano in tutti gli utilizzi a fini magico-religiosi dei nodi e dei vincoli. I nodi provoca­ no la malattia e anche la tengono lontana oppure guariscono l’infermo; le reti e i nodi stregano ed anche proteggono contro la stregoneria; im­ pediscono il parto e lo facilitano; premuniscono. Insomma, il tratto es­ senziale di tutti questi riti magici e magico-medici, è l’orientamento che viene imposto alla forza che risiede in qualsiasi « legatura », in qualsia­ si azione di « legare ». Orbene, Vorientamento può essere positivo op­ pure negativo e questa contrapposizione, d’altronde, può essere intesa nel senso di « benefico »-« malefico » oppure in quello di « difesa »-« at­ tacco ».

Magia e religione Tutte queste credenze e tutti questi riti, certo, ci conducono nella sfera della mentalità magica. Però, il fatto che queste pratiche popolari siano di natura magica autorizza forse a considerare il simbolismo gene­ rale del « legame » una creazione esclusiva della mentalità magica? A nostro modo di vedere, no. Anche se i riti e i simboli della « legatura » presso gli Indo-Europei comportano degli elementi ctonico-lunari e ma­ nifestano, di conseguenza, forti influssi magici— il che non è sicuro— 58

Kaucitaki-Sam, x x x u , 3; C alan d , Altindische Zauberritual, p. 1 0 4 ;' R .C . Semitìc Magic, its origini and devélopment, L o n d o n 1908, pp. 165s. Sch eftelow itz, p . 2 9 , n. 1, 31; F razer, Taboo, p . 301s. (tr. fr. p . 252s.). A ssiria : T h o m p so n , op. cit., p. 171; F u rlan i, La Religione babilonese-assira,

T h om p so n , 59 60

n , Bologna 1929, p. 166; C in a, In d ia : Sch eftelow itz, p. 38. él In d ia : W . C rook e, op. cit., il, p . 36; T o d a s, ecc.: Sch eftelow itz, p. 39; A fri­ ca,

ibid.,

p. 41.

Taboo,

a

F razer,

63

Sch eftelow itz, p p. 52s.

p p . 308s. (tr. fr. p. 2 5 5 s.): Sch eftelow itz, p . 4 1.

102

Magia e religione restano da spiegare altri documenti che esprimono non soltanto un’au­ tentica esperienza religiosa, ma altresì una concezione generale dell’uo­ mo e del mondo che, lei sì, è autenticamente religiosa e non magica. I dati relativi alla Mesopotamia che abbiamo passato in rassegna, ad esem­ pio, non si lasciano ridurre in toto a un’interpretazione magica. Tra gli ebrei le cose sono ancor più chiare: è vero che la Bibbia parla dei « lac­ ci della morte » (ad es.: « Mi avviluppavano le funi degli inferi; mi sta­ vano davanti i lacci della morte », 2 Sani 22,6; cfr. Sai 18,6; « Mi strin­ gevano funi di morte, ero preso nei lacci degli inferi. Mi opprimevano tristezza e angoscia e ho invocato il nome del Signore: ‘Ti prego, Signo­ re, salvami’ », Sai 116,3-4). Tuttavia il signore terribile di queste funi è Yahvé in persona, e i Profeti lo dipingono con in mano delle reti per punire i colpevoli: « Dovunque si rivolgeranno stenderò la mia rete contro di loro e li abbatterò come gli uccelli dell’aria » (Os 7,12) « Ma 10 tenderò la mia rete contro di lui ed egli rimarrà preso nei miei lac­ ci: lo condurrò a Babilonia » (Ez 12,13; cfr. 17,20); « Tenderò contro di te la mia rete » (ibid., 32,3). E l’esperienza religiosa così profonda e autentica di Giobbe ritrova la stessa immagine per esprimere l’onnipo­ tenza di Dio: « Sappiate dunque che Dio mi ha piegato e mi ha avvi­ luppato nella sua rete » (Gb 19,6). I giudeo-cristiani che sapevano an­ che loro che è il demonio che « lega » i malati (ad es. Le 13,16), purtuttavia davano anche al Dio supremo l’appellativo di « signore dei vin­ coli ». In uno stesso popolo, quindi, incontriamo una polivalenza magico-religiosa dei «vincoli»: vincoli della*morte, della malattia, della stregoneria e anche vincoli del Dio M. « Una rete è stesa su tutti gli es­ seri viventi », scriveva Rabbi Aquiba (Pirqé Abót, 3,20; Scheftelowitz, p. 11). Si tratta di una formula felice, in quanto essa non esprime una visione esclusivamente « magica » o « religiosa » della vita—bensì espri­ me, in tutta la sua complessità, la situazione stessa dell’uomo nel mon­ do; per usare una terminologia alla moda, essa esprime la condizione dell’esistente in sé. Effettivamente, il « filo della vita » in moltissimi paesi simboleggia 11 destino dell’uomo. « Il filo della loro vita (lett. la funicella della loro tenda) viene strappato! » esclama Giobbe (4,31; cfr. 7,6). Achille, co­ me tutti i mortali « soffrirà ciò che il destino, alla sua nascita, ha filato per lui con il lino, il giorno in cui sua madre lo mise al mondo » ( Iliade È , di consegu enza, lecito su p p o rre che certe allu sion i vediche ai lacci d i Vatuna esprìm ono a loro volta u n ’esperienza religiosa p arago n ab ile a q u ella di G io b b e .

103

Il « dio legatore » e il simbolismo dei nodi 20, 128; cfr. 24,210). Le dee del destino tessono il filo della vita uma­ na: « Là lo lasceremo subire il destino che hanno filato per lui le tristi Filatrici nel momento in cui da sua madre ha ricevuto la vita... » ( Odis­ sea 7,189)®. Ma c’è di più: lo stesso Cosmo è concepito come un tes­ suto, come un’enorme « trama ». Nella speculazione indiana, ad esem­ pio, l’aria ( vàyu) « ha tessuto » l’universo collegando, come tramite un filo, questo e l’altro mondo e tutti gli esseri insieme (Brhadàranyaka Up. n i, 7,2) così come il soffio (prona) ha « tessuto » la vita umana. (« Chi ha tessuto il soffio in lui? » Atharva Veda x, 2,13). Da ciò risulta che ' un simbolismo assai denso esprime due cose essenziali: da un lato che nel Cosmo come nella vita umana, tutto è legato a tutto da un invisibi­ le tessuto e, d’altro lato, che determinate divinità66 sono padrone di quei « fili » che, in ultima istanza, costituiscono una vasta « legatura » cosmica. £ raro che l’etimologia fornisca argomenti decisivi in problemi deli­ cati come quelli relativi all’« origine » della religione e della magia, però spesso è istruttiva. Scheftelowitz e Guntert hanno ricordato che, in sva­ riate famiglie linguistiche, le parole che designano l’azione di « legare » servono anche per esprimere l’ammaliamento: ad esempio in turco-tar­ taro, bag, baj, boi significa a un tempo « stregonerìa » e « legame, cor­ da » 67; il termine greco xaTaSéw significa « legare solidamente » e an­ che « legare con un incantesimo magico, facendo un nodo » (da cui xitaìsjnos « corda, stregare », Inscr. Graec., ni, 3, p.v.; Scheftelowitz, p. 17); il termine latino fascinum, « incantesimo, maleficio » è apparen­ tato con fascio, « benda, fasciatura, con fascis, « fascio * ; ligàre e ligatura, « atto di legare » sono1altresì « stregare » e « incantesimo » (cfr. il rumeno legatura, « azione di legare » e « stregare »); in sancrito yukti, letteralmente « attaccare, legare » assume il significato di « mezzi magi­ ci » e i poteri dello yoga, vengono talora intesi come un ammaliamento tramite « legatura » 68. Tutte queste etimologie confermano che l’azione 65

C fr.

vitae fila,

Eroidi, 15, 82. C fr. il cap ito lo su i ritu ali Traiti d'Histore des Religioni, p p . 142s. (e d . it.

O v id io ,

lo g ie lunari n el n o stro

e le m ito ­ p p . 183s.).

46

I I p iù d elle volte— m a non sem pre— d elle d iv in ità lu n ari, talo ra ctonio-lunari

47

H.

V am béry,

Die primitive Kultur des turko-tatarischen Volkes,

p . 2 4 6 . L ’id ea d i « d e -stre g a re »

L e ip zig 1879,

si esp rim e tram ite l ’esp ressio n e « lib e r a r e dai

vin coli » ; tra g li Y o ru b a , la p aro la edi « leg atu ra » h a anche il se n so d i « m agia * e la p a ro la E w e vósesa, « a m u l e t o » , significa « s l e g a r e » (A .R . E llis, Yorubé

speaking peoples, L o n d o n “ A d es. Mahabhàrata,

1894, p . 118). x i n , 4 1 , 3 s., in cu i V ip u là « aveva so g g io gato i se n si d i

R u c i per m ezzo d ei legam i dello Y o g a *

io*

(babandha yogabandhàic ca tasyàb str­

Simbolismo delle « situazioni limite » di legare è essenzialmente magica. Qui abbiamo a che fare con una « specializzazione » estrema: stregare, legare con la magia, ammalia­ re. ecc. Sul piano etimologico, religio denota anch’essa una forma di « attaccamento » alla divinità, ma sarebbe imprudente intendere (come fa Guntert, p. 130) religio nel senso di « stregoneria ». Giacché, come abbiamo detto, la religione al pari della magia contiene nella sua stes5a essenza l’elemento di « legatura » ma, è evidente, con tutt’altra inten­ sità e, soprattutto, con un orientamento contrario.

Simbolismo delle « situazioni limite » Svariati altri complessi simbolici caratterizzano, con formule quasi identiche, la struttura del Cosmo e la « situazione » dell’uomo nel monmo. Il termine babilonese markasu, « legame, corda », designa nella mi­ tologia « il principio cosmico che unisce tutte le cose » ed anche « il supporto, la potenza e la legge divina che tengono insieme l’Universo » M. Così pure Tchouang Tsen (cap. vi) parla del tao definendolo la « catena dell’intera creazione » 70, espressione che ricorda la terminolo­ gia cosmologica indiana. D ’altra parte, il labirinto è inteso talvolta co­ me un « nodo » il quale deve essere « snodato » e questa nozione si col­ loca in un insieme metafisico-rituale che contiene le idee di difficoltà, vendriyàni sah; cfr. il mio Yoga. Essai sur les origine* de la mystique indienne, Paris-Bucarest 1936, p. 151. Cfr anche Ananda K. Coomaraswamy, « ‘Spiritual Paternity’ and the ‘Puppet-Complex’ f in Psychiatry, vili, n. 3, Agosto 1945, pp. 25-35, specialmente pp. 29s. w S. Langdon, Semitic Mythology, Boston 1931, p. 109. Svariati templi babi­ lonesi sono denominati markas shamé u irshiti, « Collegamento tra Cielo e Terra », cfr. E. Burrows, « Some cosmological patterns in babylonian religion » in Labyrinth, a cura di S.H. Hook, London 1935,pp. 45-70, p. 47-48, n. 2. Un antico nome su­ mero del tempio è « dimgal della regione ». Burrows (p. 47, n. 7) propone la tra­ duzione « Great binding post »; dim = « post », ecc. ed anche « rope »; proba­ bilmente dim = « tobind, thing to bind to, thing to bind with ». Il simbolismo della «legatura» si trova qui integrato in un insieme più ampio che si potrebbe denominare il « simbolismo del Centro »; cfr. sopra pp. 37ss. 70 Hughes, in Everyman's Library, p. 193, traduce: The link of all Creation. Il carattere tradotto con « link » è hsi (Giles 4062) i cui significati sono « depen­ dence, fastening, tie, link, nexus, chain, lineage, etc. », cfr. A.K. Coomaraswamy, « The iconography of Diirer’s ‘Knots’ and Leonardo’s ‘concatenation’ » in T èi Art Quarterly, Primavera 1944, p. 127, n. 19.

105

Il « dio legatore » e il simbolismo dei nodi

di pericolo, di morte e di iniziazione71. Su un piano diverso, il piano della conoscenza e della saggezza, si incontrano espressioni simili: si parla della « liberazione » dalle illusioni (che, in India, hanno lo stesso nome della magia di Varuna, màyà); si cerca di « strappare » i veli del­ l’irrealtà, di « disfare » i « nodi » dell’esistenza, ecc. Ciò dà l’impres­ sione che la situazione dell’uomo nel mondo, da qualsiasi punto di vi­ sta la si consideri, si esprima sempre attraverso parole chiave che con­ tengono l’idea di « legamento, di concatenamento, di attaccamento » ecc. Sul piano magico, l’uomo si serve di nodi-amuleti per difendersi contro i vincoli dei demoni e degli stregoni; sul piano religioso, si sente « le­ gato » da Dio, preso al suo « cappio »; però anche la morte Io « lega », concretamente (il cadavere viene « legato ») oppure metaforicamente (i demoni « legano » l’anima del defunto). Meglio ancora: la vita stessa è un « tessuto » (a volte un tessuto magico di proporzioni cosmiche, màyà), oppure un « filo » che tiene la vita di ciascuno dei mortali. Que­ ste diverse prospettive hanno certi punti in comune: in ogni luogo il fine ultimo dell’uomo è quello di liberarsi dai « vincoli »: all’iniziazio­ ne mistica del labirinto, nel corso della quale si impara a sciogliere il nodo labirintico per mettersi in condizione di disfarlo quando l’anima lo incontrerà dopo la morte, corrisponde l’iniziazione filosofica, metafisica, il cui intento è quello di « strappare » il velo dell’ignoranza e di libe­ rare l’anima dalle catene dell’esistenza. È noto che il pensiero indiano è dominato da questa sete di liberazione e che la sua terminologia più caratteristica si lascia ridurre a polarità del tipo « incatenato-liberato », « legato-slegato », « attaccato-staccato », ecc. 72. Le stesse formule ricor­ rono nella filosofia greca: nella caverna di Platone gli uomini sono trat­ tenuti da catene che impediscono loro di muoversi e di girare la testa 71 Gfr. i labirinti in forma di nodi nei riti e le credenze funerarie a Malekula; A. Bernard Deacon, « Geometrical drawings from Malekula and other islands of thè New Hebrides » in Journal of thè Anthropological Institute, vol. lxvi, 1934. pp. 129-175; id., Malekula. A vanishing people of thè New Hebrides, London 1934. in particolare pp. 552s.; John Layard, « Totenfahrt auf Malekula » in EranosJahrbuch 1937, Zürich 1938, pp. 242-291; id., Stone Men of Malekula, London 1942, pp. 340s., 639s. Interpretazioni di tipo comparativo, W.F. Jackson Knight, Cumaean Gates, Oxford 1936; Karl Kerenyi, Labyrinth-Studien, Albae Vigiliae, xv, Amsterdam-Leipzig 1941. 72 Cfr. il nostro libro Tecniche dello yoga, passim. Nel suo articolo «The iconograpby of Diirer’s ‘Knots’ », A.K. Coomaraswamy ha studiato i valori metafisici dei nodi e la loro sopravvivenza nell’arte popolare, oltre che in certi artisti del Medio Evo e del Rinascimento.

106

I

Simbolismo delle « situazioni limite »

(Repubblica, v i i , 514a s.). L ’anima «dopo la caduta è stata catturata, essa è incatenata... » essa è, si dice, in una tomba e in una caverna, pe­ rò volgendosi verso le idee essa si libera dai suoi vincoli... » (Plotino, Enneadi, iv, 8,4; cfr. iv, 8,1; « I l cammino verso l’intelligenza è, per l'anima, la liberazione dai suoi vincoli »). Questa polivalenza del complesso della « legatura »—che abbiamo or ora osservato sul piano cosmologico, magico, religioso, iniziatico, metafisico, soteriologico— è probabilmente dovuta al fatto che l ’uomo riconosce in questo complesso una sorta di archetipo della sua propria situazione nel mondo. A questo modo egli contribuisce innanzitutto a porre un problema di antropologia filosofica in cui la ricerca filosofica vera e propria avrà molto da guadagnare se non trascurerà questi docu­ menti relativi a determinate « situazioni-limite » dell’uomo arcaico, che se il pensiero contemporaneo si vanta di aver riscoperto l’uomo concre­ to, è altresì vero che le sue analisi si riferiscono soprattutto alla condi­ zione dell’occidentale moderno e che essa pecca quindi di una mancan­ za di universalismo, di una sorta di « provincialismo » umano che in de­ finitiva è monotono e sterile. Il complesso della « legatura », d’altra parte, pone o meglio costitui­ sce un problema che interessa in massimo grado la storia delle religio­ ni. Ciò non solo per i rapporti che esso mette in luce tra la magia e la religione, ma soprattutto in quanto esso ci rivela ciò che si potrebbe chiamare la proliferazione delle forme magico-religiose e la « filosofia » di tali forme: abbiamo l’impressione di assistere a una « legatura » ar­ chetipica che cerca di realizzarsi tanto sui diversi piani della vita magico-religiosa (cosmologia, mitologia, stregoneria, ecc.) che ai diversi stadi di ciascuno di questi piani (ad esempio la grande e la piccola magia; la stregoneria aggressiva e la stregoneria difensiva, ecc.). In un certo senso si può addirittura affermare che se il « sovrano terribile » storico o storicizzato si sforza di imitare il suo prototipo divino, il « dio lega­ tore », qualsiasi stregone imita, a sua volta, il sovrano terribile e il suo modello trascendente. Dal punto di vista morfologico non vi è soluzio­ ne di continuità tra Vrtra che « incatena » le Acque, Varuna che « le­ ga » i colpevoli, i demoni che catturano i morti nella loro « rete » e gli stregoni che legano magicamente l’avversario o slegano, le vittime degli altri stregoni. In tutte queste operazioni la struttura è identica. Allo stato attuale delle nostre conoscenze è difficile precisare se questa uni­ formità proviene dall’imitazione, da mutui « storici » (nel senso che at­ tribuisce a questo termine la scuola storico-culturale) oppure se si spie­ 107

Il « dio legatore » e il simbolismo dei nodi

ga in base al fatto che tutte queste operazioni sgorgano dalla situazione in sé dell’uomo nel mondo, cioè sono le varianti di uno stesso archeti­ po che si realizza in momenti successivi sui molteplici piani e in aree culturali diverse. Sembra assodato che, quanto meno nel caso di deter­ minati complessi (ad esempio quello della sovranità magica degli IndoEuropei) abbiamo a che fare con insiemi mitico-rituali storicamente so­ lidali. Tuttavia la realtà storica del complesso indo-europeo della « le­ gatura » non necessariamente implica che tutti gli altri costumi e cre­ denze magico-religiosi diffusi attraverso il mondo e relativi ad un com­ plesso analogo siano, a loro volta, « storici » (derivino cioè da uno stes­ so dato ancestrale, oppure risultino da influssi diretti o indiretti, da pre­ stiti, ecc.). Al fine di precisare quel che abbiamo in mente aggiungere­ mo chè se il caso particolare degli Indo-Europei non necessariamente implica questa conclusione, nemmeno la esclude e che, per prudenza, la questione deve rimanere aperta.

Simbolismo e storia A titolo comparativo, tuttavia, potremmo citare un caso analogo: il complesso dell’ascensione rituale e del volo magico. Mentre è possi­ bile individuare determinati rapporti storici (filiazione, prestiti) tra le diverse credenze e i diversi sistemi (rituali, mistici, ecc.) che comporta­ no l’ascensione tra i loro elementi essenziali73, la morfologia dell’ascen­ sione e del simbolismo del volo supera di molto questi rapporti storici. Anche se un giorno si riuscirà ad individuare la fonte storica responsa­ bile di tutti i rituali e i simbolismi sociali dell’ascensione, anche se, a seguito di ciò, si sarà in grado di precisare il meccanismi) o le tappe del­ la loro diffusione, rimarrà ancora da spiegare il simbolismo del sogno ascensionale, delle, rèverie e delle visioni estetiche, le quali, oltre ad es­ sere incentrate attorno al complesso dell’ascensione e del volo, presen­ tano questo complesso già organizzato e carico degli stessi valori che vengono rivelati dai rituali, dai miti e dai pbilosophoumena dell’ascen­ sione. In altra sede abbiamo tracciato le vie lungo cui deve muoversi uno studio comparativo di questo tipo74. Accontentiamoci di conclude­ 73 Cfr. il nostro libro Le Cbamanisme et les techniques archdiques de l'extase, pp. 137s., 296s., 362s., 423s. e passim (ed. it. pp. 206s., 324s., 406s., 471s.). 74 « Durohàna and thè ‘waking dream’ » in Art and Thought. A Volume in Honour of thè late Dr. Ananda K. Coomaraswamy, London 1947, pp. 209-213. 108

Simbolismo e storia

re che ci troviamo di fronte delle espressioni non storiche di uno stes­ so simbolismo archetipico, il quale si manifesta in maniera coerente e sistematica tanta sul piano dell’« inconscio » (sogno-allucinazione, réverie) che su quelli del « trans-conscio » e della coscienza (visione este­ tica, rituali, mitologia, philosophoumena). Sottolineiamo al passaggio che le manifestazioni dall’inconscio e del sub-conscio presentano una struttura e dei valori che concordano pienamente con le manifestazioni coscienti, e dal momento che queste sono « ragionevoli », nel senso che i loro valori si giustificano logicamente, si potrebbe parlare di una « lo­ gica » sub- o trans-conscia che non sempre sarebbe eterogenea rispetto alla logica « normale » (intendasi la logica classica, oppure quella del buon senso). Provvisoriamente, quindi, accettiamo l’ipotesi che almeno una certa zona del subconscio è dominata dagli stessi archetipi che do­ minano anche l’esperienza conscia e transconscia. Sulla base di ciò sare­ mo autorizzati a considerare le molteplici varianti di un complesso sim­ bolico (negli esempi che abbiamo portato, il complesso dell’« ascensio­ ne » o quello della « legatura ») come una successione infinita di « for­ me » che, sui diversi piani del sogno, del mito, del rito, della teologia, della mistica, della metafìsica, ecc., si sforzano di « realizzare » l’arche­ tipo. Certo, tutte queste « forme » non sono spontanee, non tutte dipen­ dono direttamente dall’archetipo ideale; molte di esse sono « storiche », nel senso che sono il risultato dell’evoluzione o dell’imitazione di una forma già esistente. Talune varianti della ¿stregoneria della « legatura » presentano un aspetto di scimmiottamento assai sconcertante: si ha l’im­ pressione che esse hanno copiato, sul loro piano limitato, le « forme sto­ riche » già esistenti della sovranità magica o della mitologia funeraria. Bisogna, però, essere prudenti, in quanto è un dato di fatto generale che le varianti patologiche dei complessi religiosi presentano a loro vol­ ta un aspetto scimmiesco. Ciò che sembra più sicuro è la tendenza di ogni « forma storica » ad avvicinarsi il più possibile al suo archetipo, anche nei casi in cui essa si. è realizzata su un piano secondario, insigni­ ficante: questo fenomeno si verifica ovunque nella storia religiosa del­ l’umanità. Qualsiasi divinità locale tende a diventare la Grande Dea; qualsiasi villaggio ¿ i l « Centro del Mondo »; qualsiasi stregone si pre­ tende, al culmine dei suoi riti, il Sovrano Universale. È proprio questa tendenza verso l’archetipo, verso la restaurazione della forma perfetta —di cui un rito, un mito o una qualsiasi divinità, sono solo delle varian­ ti, spesso alquanto sbiadite—quel che rende possibile la storia delle re­ 109

Il « dio legatore » e il simbolismo dei nodi

ligioni. In assenza di ciò l’esperienza magico-religiosa creerebbe in con* tinuazione delle forme folgoranti o evanescenti di dei, di miti, di dog­ mi, ecc. e l’osservatore si troverebbe di fronte a un moltiplicarsi di tipi incessantemente nuovi che non consentirebbe nessun tipo di messa in ordine. Invece una volta « realizzata », « storicizzata », la forma religio­ sa tende a distaccarsi dalle sue condizioni di tempo e di luogo e a dive­ nire universale, a ritrovare l’archetipo. Infine, 1’« imperialismo » delle forme religiose vittoriose si spiega anch’esso sulla base di questa tenden­ za che porta ogni ierofania o teofania a diventare « Totalità », cioè ad esaurire da sola la manifestazione del sacro, ad assorbire in sé l’immen­ sa morfologia del sacro75. Qualunque sia il valore di queste concezioni generali, è probabile che il complesso magico-religioso della « legatura » corrisponda effetti­ vamente a un archetipo o a una costellazione di archetipi (ne abbiamo rilevati alcuni: la tessitura del Cosmo, il filo del destino umano, il labi­ rinto, la catena dell’esistenza, ecc.). L ’ambivalenza e l’eterogeneità dei motivi della « legatura » e dei nodi, nonché della « liberazione dai vin­ coli », confermano quanto molteplici e diversi siano i piani su cui que­ sti archetipi si sono « realizzati ». Ciò non significa, beninteso, che al­ l’interno di questa massa enorme di fatti relativi ai complessi magicoreligiosi presi in esame non sia possibile distinguere determinati insie­ mi storicamente solidali e che non si sia autorizzati a considerarli dipen­ denti gli uni dagli altri oppure sfociati tutti da una fonte comune. È quello che hanno fatto, in prospettive diverse, Giintert, Dumézil e Closs per l’ambito indo-europeo. Si esiterà a seguire Closs quando, fedele ai principi della scuola storico-culturale di Vienna76, questo studioso ha la pretesa di spiegare un dato o mito di « legatura » americano o melane­ siano dichiarandolo storicamente dipendente dalla fonte da cui sono nate le forme indo-europee. Più verosimile è la sua ipotesi circa l’origi* ne caucasica (p. 643) del complesso della « legatura » rituale indoeuro­ 75 Cfr. Traité d’Histoire des Religions, pp. 392%. (ed. it. pp. 469s.). 76 La scuola storico-culturale di W. Schmidt e W. Koppers ha reso fino ad OM importanti servigi alla storia delle religioni, tuttavia le sue tesi, spinte all’etttcniOi sfociano in una tale « storicizzazione » dell’uomo che viene abolita pratictfntnM qualsiasi spontaneità spirituale. Se l’uomo non può essere concepito che OOflM essere storico, questo non toglie che per sua stessa natura l’uomo si oppone tilt storia e si sforza di abolirla e di ritrovare, con ogni mezzo, un «paradiio» fUQlt dal tempo in cui la sua situazione più che una « situazione storica », tU UM « situazione antropologica » (cfr. il nostro libro II mito dell’eterno ritorno).

Simbolismo e storia

pea: i Fiftno-Ungari e i Turco-Tartari ignorano sia i riti che i miti di « legatura » e questo sembra effettivamente indicare che l’origine di questo complesso deve essere cercata nei paesi del sud. In effetti i pa­ ralleli che più si avvicinano al rito georgiano delle catene del « Giorgio Bianco » (v.s.) si ritrovano in India: da un lato l’anello di ferro che lo stregone (Panda) dei Gond11 porta intorno al collo durante i nove gior­ ni della festa di Kàli-Dùrga (festa che i Gond chiamano zvàrà, paróla derivata dall’hindi javarà, « avena », che ne dimostra l’origine agraria); d ’altra parte gli anelli di ferro che circondano il collo di un idolo fem­ minile e del « Proto Shiva » trovati a Mohenjo-Daro78. Va da sé che sarebbe azzardato prospettare una derivazione diretta del rito attuale dei Gond a partire dalla cultura protostorica dell'Indus, tuttavia l’acco­ stamento fatto da W. Koppers tra questi fatti non è privo di interesse19. Comunque, la frequenza dei motivi della « legatura », dei « nodi », ecc. negli strati arcaici delle religioni mesopotamiche rimane ancora da spiegare. £ forse una variante collaterale che, a differenza di quanto è successo tra gli Indo-Europei, non è riuscita ad organizzarsi in un siste­ ma teologico e rituale e ad imporsi all’insieme della vita religiosa, una variante che quindi si è moltiplicata all’infinito, si è trasformata in pre­ stigio divino oltre che demoniaco ed è stata inglobata da ogni divinità e utilizzata da ogni stregone? Una cosa è certa: solo tra gli Indo-Europei—e le ricerche di Dumézil in particolare lo hanno dimostrato— ci si trova davanti a un sistema coerente e di applicazione generale ¡sul pia­ no rituale, mitologico, teologico, ecc. Tuttavia nelle pagine che prece­ dono ci siamo sforzati di mostrare che anche tra gli Indo-Europei, que­ sto sistema, incentrato sulla concezione del Sovrano Terribile, non ha esaurito la potenza creativa delle forme magico-religiose e dei simboli­ smi relativi alla « legatura » e abbiamo altresì tentato di trovare una spiegazione di ciò sul piano ,della magia, della mitologia e della stessa " Cfr. W. Koppers, « Zentralindische Fruchtbarkeitsriten und ihre Beziehungen *ur Induskultur » in Geographica tìelvetica, r, 1946, Heft 2, pp. 168s. '* Cfr. J. Marshall, Mohenjo-Daro and thè Indus Civilisation, London 1931, t. I, uvola xii, 8, 17. * Quanto alla funzione rituale dei nodi nelle religioni dell’Egeo (Arthur Evans. t'hr palace of Minos, i, pp. 430s.), essa non è ancora risolta: questa funzione ri­ unir che era stata negata da P. Nilsson, che la riduce a puro valóre decorativo {Minoan-Mycenaean Religion, Lund 1927, pp. 137s., 349s.), è stata di recente cont*rm«u da Axel W. Persson, The Religion of Greece in prehistoric tirnes, Berkeley » Ijm Angeles 1942, p. 38 e 68. Cfr. anche Charles Picard, Les Religioni pttMléntques Crete et Mycènes, Paris 1948, pp. 194-195.

I li

Il « dio legatore » e il simbolismo dei nodi

religione: esso sarebbe dovuto vuoi alla situazione stessa dell’uomo nel mondo (« origine » spontanea) vuoi a un’imitazione più o meno servile di forme già esistenti (« genesi » storica). Comunque, qualunque sia la spiegazione che si preferisce, la complessità della concezione indo-euro­ pea del Sovrano Terribile è ormai fuori discussione. Si comincia ad intrawederne la preistoria, si è preparati a discernere in essa eventuali prestiti da tradizioni religiose estranee. Sarebbe forse improprio defini­ re questa concezione una concezione esclusivamente magica, sebbene spesso la sua struttura ci inviti a qualificarla così: da un lato abbiamo sottolineato, nella stessa India, i valori cosmogonici e metafisici della « legatura » di Varuna e di Vrtra; d’altro lato le esperienze religiose provocate tra gli Ebrei dallo stesso complesso dimostrano che una vita religiosa molto pura e molto profonda può trovare alimento anche nei « lacci » di un Dio in apparenza terribile e « legatore ».

Capitolo quarto OSSERVAZIONI SUL SIMBOLISMO DELLE CONCHIGLIE

La Luna e le Acque Le ostriche, le conchiglie, la lumaca, la perla sono solidali sia con le cosmologie acquatiche che con il simbolismo sessuale. In effetti parte­ cipano tutte alle forze sacre concentrate nelle Acque, nella Luna, nella Donna e sono inoltre, per ragioni diverse, rappresentazioni emblemati­ che di queste forze: somiglianza tra la conchiglia e gli organi genitali della donna, rapporti che uniscono le ostriche, le acque e la luna, infi­ ne simbolismo ginecologico e embriologico della perla, la quale si for­ ma nell’ostrica. La credenza nelle virtù magiche delle ostriche e delle conchiglie si ritrova nel mondo intero, dalla preistoria ai giorni nostri '. 1 G i7. Kunz e Charles Hugh Stevenson, The Book of thè Pearl, London 1908, hanno riunito un considerevole materiale documentario relativo alla diffusione delle perle; J.W. Jackson, « The geographical distribution of thè use of pearls and pearl-shells », Manchester 1916, 53 p.; tesi ripubblicata nel volume Shells as Evtdence of thè migration of Early Culture, Manchester 1917, completa le informa­ zioni di Kunz e Stevenson. L’essenziale dell’enorme bibliografia relativa alla fun­ zione magica delle conchiglie può essere trovato nell’articolo di W.L. Hildburgh, « Cowrie-Shells as amulets in Europe * in Folk-Lore, voi. 53-54, 1942-1943, pp. 178-195. Cfr. anche i diversi contributi al problema pubblicati sulla rivista Man: ottobre 1939, n. 165, p. 167; M.A. Murray, «The meaning of Cowrie-shell », pen­ sa che il valore magico del cauri deriva dalla sua somiglianza ad un occhio soc­ chiuso; gennaio 1940, n. 20: risposta di Murray a Sheppard; n. 61, pp. 50-53: Or. Kurt Singer, « Cowrie and Baubo in early Japan», pubblica una statuetta neolitica giapponese che dimostra come la conchiglia sia assimilata alla vulva; n. 78:

113

Osservazioni sul simbolismo delle conchiglie

Il simbolismo che sta alla base di tali concezioni appartiene con ogni probabilità' ad uno strato profondo del peiisiero « primitivo », ma ha conosciuto « attuazioni » e interpretazioni variate: si incontra la pre­ senza delle ostriche e delle conchiglie nei riti agrari, nuziali o funerari, negli ornamenti vestimentari o in certi motivi decorativi, anche se più di una volta il loro significato magico-religioso sembra essere andato quasi perso o essersi imbastardito. Presso certi popoli le conchiglie con­ tinuano a fornire un motivo decorativo, mentre della loro valenza ma­ gica si è perso perfino il ricordo. La perla, un tempo emblema della for­ za generatrice, oppure simbolo di una realtà trascendente, ha conserva­ to in Occidente solo il valore di « pietra preziosa ». L ’ininterrotta de­ gradazione del simbolismo emergerà più nettamente alla fine della no­ stra trattazione. L ’insieme iconografico acqua-ostriche è abbondantemente attestato nell’America pre-colombiana. Il « Tuia relief » di Malinche Hill rappre­ senta una divinità circondata dalle Acque in cui galleggiano delle ostri­ che, delle spirali, dei doppi cerchi2. Nel Codex Nuttal predomina il complesso iconografico Acqua-Pesce-Serpente-Granchio-Ostrica3. Il Co­ dex Dresdensis raffigura l’Acqua che a volte fuoriesce da conchiglie d’ostrica, a volte riempie vasi formati da serpenti arrotolati4. Il dio messicano della tempesta aveva al collo una catena d’oro a cui erano ap­ pese delle conchigliette5; il dio della luna aveva come simbolo una gran­ de lumaca di mare6. Nell’antica Cina il simbolismo dell’ostrica è ancor meglio conserva­ to: qui le conchiglie partecipano alla sacralità della luna e al tempo stesso sono il prolungamento delle potenze acquatiche. Nel trattato C.K. Meek, « Cowrie in Nigeria»; n. 79: MD.W. Jeffreys, « Cowrie Shell» in British Cameroua», contro l’ipotesi della signorina Murray; n. 101: Balcani; n. 102: J.H. Huttons, Naga Hills; n. 187: Grigson, Central Provinces, India; 1941, n. 36: CX . Meek, Nigeria; n. 37: Fidji, Egitto, Sassoni; 1942, n. 71: M.D.W Jeflreys; « Cowry, Vulva, Eye ». 2 Peñafill, Monumentos del arte mexicano antiguo, p. 154, riprodotto da Lao Wiener, Mayan and Mexican Origins, Cambridge 1926, pi. iv, fig. 8. 3 Wiener, ibid., pi. IV, fig. 13; pi. vii, fig. 14 che riproduce il Codex NutUll, p. 16, 36, 43, 49. * Codex Dresdensis, p. 34, ecc., riprodotto da Wiener, fig. 112-116. 5 B. de Sahagun, Historia general de las cosas de Nueva España, Mexico 18% , voi. i, cap. 5; Wiener, p. 68; cfr. fig. 75. 6 J.W. Jackson, « The Aztec Moon-cult and its relation to thè Chankcult Of India » In Manchester Memoirs, Manchester 1916, voi. 60, n. 5, p. 2.

La Luna e le Acque

L&sh'i ch'tin ts’iu (in sec. a.C.) possiamq leggere: « La luna è la radice di tutto ciò che è yin; con la luna piena le ostriche pang e ko sono pie­ ne e tutte le cose yin diventano abbondanti; quando la luna si oscura (ultima notte del ciclo lunare) le ostriche sono vuote e tutte le cose yin si mettono a mancare » 7. Mo-tsi (v sec. a.C.), dopo aver osservato che l’ostrica perlifera pang nasce senza l’interyento del maschio, aggiunge: « Di conseguenza, se pang può avere come frutto una perla è perché essa concentra tutta la sua forza yin » 8. « La luna », scrive Liou Ngan (n sec. a.C.) « è il ceppo del yin. Per questo i cervelli dei pesci diminui­ scono quando la luna è vuota e le conchiglie delle monovalve spiroidi non sono piene di parti carnose quando la luna è morta ». Lo stesso autore aggiunge, in un altro capitolo: « Le conchiglie bivalve, i granchi, le perle e le tartarughe crescono e calano con la luna » 9. Lo yin rappresenta, tra l’altro, l’energia cosmica femminile, lunare, « umida ». Così l’eccesso dello yin attivo in una determinata regione esaspera l’istinto sessuale femminile e fa sì che « le donne lascive per­ vertano gli uomini » (7 Chou Shu, cap. 54, citato da Karlgren, op. cit., p. 38) Esiste, in effetti, una corrispondenza mistica tra i due principi, yin e yang, e la società umana. Il carro del re era adorno di giada (ricco di yang), quello della regina di piume di pavone e di conchiglie, emblemi dello yin. I ritmi della vita cosmica seguono il loro corso nor­ male fintanto che la circolazione dei due principi opposti e complemen­ tari procede senza ostacoli. Scrive Sun-ts'i: « Se la giada è nella monta­ gna, gli alberi della montagna daranno frutto; se le acque profonde pro­ ducono perle, la vegetazione della riva non si seccherà » (Karlgren, ibid., p. 40). Più avanti vedremo che la stessa polarità simbolica giadaperla riappare nei costumi funerari cinesi. Idee analoghe relative all’influsso delle fasi lunari sulle ostriche han­ no avuto corso nell’antichità. Luna alit ostrea et implet echinos, muribus fibras et fecur addit, di­ ceva Lucilio: « La luna nutre le ostriche, riempie i ricci di mare, dà forza e vigore alle cozze ». Plinio (Hist. Nat., il, 41,3), Aulo Gellio ’ Tr. B. Karlgren, « Some fecundity symbols in ancient China » in The Bulletin ni thè Museum of Far Eastern Antiquities, n. 2, Stockolm 1930, pp. 1-54, p. 36. 1 Karlgren, ibid. Cit. i rapporti perle (conchiglie)—Luna in Granet, Dames et IJteitdes de la Chine ancienne, Paris 1926, pp. 480, 514, ecc. • J.- J. de Groot, Les Fétes annuellement célébrées à Entoui. Elude concernant U religion populaire des Chinois, Paris 1886, voi. li, p. 491. Rapporti tra la luna » l'ucqua, ibid., pp. 488s. Influsso della Luna sulle perle, pp. 490s.

115

Osservazioni sul simbolismo delle conchiglie

(Noctes Atticae, xx, 8), assieme a svariati altri autori, pretendevano di aver notato fenomeni simili. Questa tradizione para-scientifica, ereditata da un simbolismo antico la cui funzione non veniva più colta, era desti­ nato a perpetuarsi in Europa fino al x v iii secolo 10.

Simbolismo della fecondità Ancor più dell’origine acquatica e del simbolismo lunare delle ostri­ che e delle conchiglie, ciò che ha contribuito a una tale diffusione della credenza nelle loro virtù magiche è con ogni probabilità la loro somi­ glianza con la vulva u. L ’analogia è del resto iscritta a volte nei termi­ ni stessi che designano determinati molluschi bivalve: ne è testimone l’antico nome danese dell’ostrica, kudef.sk (kude = vulva; cfr. Karlgren, p. 34 nota). L ’omologazione della conchiglia all’organo genitale fem­ minile è altresì attestata in Giappone 12. La conchiglia marina e l’ostri­ ca, quindi, partecipano ai poteri magici della matrice. Sono presenti e si esercitano in esse le forze creatrici che sgorgano, come da una fonte ine­ sauribile, da qualsiasi emblema del principio femminile. Quindi, porta­ te sulla pelle a mo’ di amuleto o di ornamento, ostriche, conchiglie e perle impregnano la donna di un’energia propizia alla fecondità, proteg­ 10 P. Saintyves, L‘Astrologie populaire, étudiée spécialement dans les doctrines et les traditions relatives à l'influence de la lune, Pati» 1937, pp. 231s. 11 Cfr. Aigremont, « Muschel und Schnecke als Symbol der Vulva einst und jetzt » in Anthropopbyteia, 1909, vj, pp. 35-40; J.J. Meyer, Trilogie altindischer Mächte und Feste der Vegetation, Zürich 1937, vol. i, p. 233. Cfr. anche la rivista Man, 1939-1942. u Cfr. Andersson, Children of the yellow earth. Studies in prehistoric China, London 1934, p. 305. L’idolo femminile neolitico pubblicato dal dottor Kurt Singer (Cowrie and Baubo in early Japan, p. 51) rivela una vulva mostruosa che altro don è se non una conchiglia gigantesca sospesa ad una corda. La conchiglia bivalve ha un ruolo nel mito della rinascita di O-Kuninushi. Secondo Kurt Singer, l’idolo potrebbe essere la rappresentazione di Ama-no-Uzume-no-Mikoto, « la Tenibile Donna del Cielo », la quale danza con il vestito sollevato usque ad partes privauu {così si esprìme Chamberlain) e che con la sua risata provoca, costrìnge la DeiSole, Amaterasu, ad uscire dalla caverna in cui si era nascosta. I naturalisti dii x v i i i secolo, d’altronde, basavano le loro classificazioni delle conchiglie sulle so­ miglianze con la vulva. G. Elliot Smith in Tèe evolution of the Dragon, Manchester 1919 cita il seguente passaggio della Histoire naturelle du Sénégal (xviii secolo) di Adamson: « Concha Venerea sic dieta quia partem foemìneam quodam modo repraesentant: exteme quidem per labiorum fissuram, interne vero propter cavi* tatem uterum mentientem ».

116

Simbolismo della fecondità

gendola al tempo stesso dalle forze nocive e dalla mala sorte. Le donne Akamba portano cinture decorate con conchiglie d’ostrica, a cui rinun­ ciano dopo la nascita del primo figlio u. Altrove le ostriche costituisco­ no il regalo di nozze più appropriato. Nell’India meridionale, le ragaz­ ze portano collane di conchiglie14 e la moderna terapeutica indù utiliz­ za la polvere di perla per le sue qualità ricostituenti e afrodisiache15: ancora un’applicazione « scientifica », sul piano concreto, immediato, di un simbolismo che ormai viene colto solo a metà. La funzione cosmologica e il valore magico della perla erano noti fin dai tempi vedici. Un inno àél'Atharva Veda (iv, 10) la esalta in questi termini: « Nata dal vento, dall’aria, dal lampo, dalla luce, possa la con­ chiglia nata dall’oro, la perla, difenderci dalla paura! Con la conchiglia nata dall’oceano, la prima di tutte le cose luminose, noi uccidiamo i de­ moni (raksas) e sconfiggiamo i (demoni) divoranti. Con la conchiglia (trionfiamo) sulla malattia, sulla povertà... La conchiglia è il nostro ri­ medio universale; la perla ci protegge dalla paura. Nata dal delo, nata dal mare, portata dallo Sindhu, questa conchiglia, nata dall’oro, è per noi il gioiello (mani) che prolunga la vita. Gioiello nato dal mare, sole nato dalla nube, possa essa proteggerci da ogni lato dalle frecce degli Dei e degli Asura. Tu sei uno degli ori (la « perla » è uno dei nomi del­ l’oro), tu sei nata dalla luna (Sòma), sei l’ornamento del carro, risplendi sulla faretra. Prolunga le nostre vite! L ’osso degli dei si è fatto perla, prende vita e si muove in seno alle acque. Io ti attacco per la vita, e il vigore e la forza, per la lunga vita, la vita di cento autunni. Che la per­ la ti protegga! » La medicina cinese, dal canto suo, considera la perla una droga, ec­ cellente per le sue virtù fertilizzanti e ginecologiche16. Secondo una cre­ denza giapponese certe cozze aiutano il parto: da qui il nome che viene loro dato di « cozze parto facile » (Andersson, Children of *the yellòtu earth, p. 304). In Cina si raccomanda di non dare alle donne incinte 13 Andersson, Children of thè yéllow earth, p. 304. Cfr. anche C.K. Meek, Man, 1940, n. 78. t4 Andersson, ibid., p. 304. Le ragazze Tiagy portano la conchiglia di un mollu­ sco quale simbolo di verginità: nel momento in cui la perdono devono rinunciare a portare la conchiglia. 15 Kunz e Stevenson, The Book of thè Pearl, p. 309, citano Sourindro Mohan Tagore, Mani-MMà or a Treatise on Gems, Calcutta 1881. 14 Cfr. J.W. Jackson, Shells as evidence of thè mìgrations of early culture, p. 101; De Groot, The religioni system of China, col. i, Leiden 1898, pp. 217, 277. 117

Osservazioni sul simbolismo delle conchiglie

una certa ostrica che ha la proprietà di accelerare il parto (Karlgren, p. 36). Le ostriche, contenendo esclusivamente il principio yin, sono fa­ vorevoli al parto e talora lo accelerano. La somiglianza tra la perla che si è sviluppata nell’ostrica e il feto è del resto osservata dagli autori ci­ nesi. In Pei ya (xi secolo) parlando dell’ostrica pang si afferma che « gra­ vida della perla essa è come (la donna) che porta nel ventre il feto ed è per questo che pang si chiama ‘il ventre della perla’ » (Karlgren, p. 36). Presso i Greci la perla era l’emblema dell’amore e del matrimonio l7. Fin dai tempi pre ellenici, del resto, le conchiglie sono state in stretto rapporto con le Grandi Dee 18. Delle conchiglie venivano consacrate a Afrodite neil’isola di Cipro, dove la dea era stata condotta dopo la sua nascita dalla schiuma del mare (Plinio, Hist. Nat., ix, 30; xxxn, 5). Il mito di Afrodite nata da una conchiglia era probabilmente diffuso nel mondo mediterraneo. Plauto, il quale traduce un verso di Difilo, ne co­ nosce la tradizione: Te ex concha natam esse autumnant19. In Siria, là dea era chiamata la « Dama delle perle »; a Antiochia, Margaritó20. II complesso: Afrodite-conchiglie viene confermato inoltre da numerose incisioni su conchiglie (Déonna, op. cit., p. 402). L ’assimilazione della conchiglia all’organo genitale femminile era senza dubbio nota anche ai Greci. La nascita di Afrodite in una conchiglia illustrava questo legame mistico tra la dea e il suo principio. Era questo simbolismo della nasci­ ta e della rigenerazione ciò che ispirava la funzione rituale delle conchi­ glie 21. È in virtù del loro potere creativo— in quanto emblemi della ma­ trice universale—che le conchiglie trovano posto nei riti funerari. Un 17 Kunz e Stevenson, op. cit., f>p. 307s. 18 Cit. Charles Picard, Les Religfons prébelléniques, pp. 60, 80, ecc. 19 W. Déonna, « Aphrodite à la coquille » in Reime Archéologique, novembredicembre 1917, pp. 312-416, p. 399. 30 Déonna, p. 400. Hugo Winckler sostiene l’origine babilonese della parola greca Margarite*, che fa derivare da mär-gallitu, tramite la trasformazione di / in r (come in Diglat = Tigris); cfr. Winkler, Himmels-und Weltenbild der Babylonier, ii ed., Leipzig 1903, p. 58, nota 1. Cfr. la presentazione delle ipotesi circa l’origine della parola margarites in Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, t. IV, p. 476 (G. Kittel). ™ Cfr. Dictionnaire des antiquités, alla voce Bucina-, Forrer in Reallexicon, alla voce Muschelschmuck-, Pauly-Wissova, alla voce Margaritai-, Déonna, p. 406; G. Beliucci, Parallèles ethnographiques, Pérouse 1915, pp. 25-27; U. Pestalozza, « Sulla rappresentazione di un pithos arcaico-beotico » in Studi e Materiali di Storia delle Religioni, voi. xiv, 1938, pp. 14s.; Hoemes-Menghin, Urgeschicbtt der bildenden Kunst in Europa, Wien 1925, p. 319, fig. 1-4 (figurine in forma di conchiglia provenienti dalla Tracia).

118

Simbolismo della fecondità

simile simbolismo della rigenerazione non si abolisce facilmente: le con­ chiglie che in svariati monumenti romani simboleggiano la risurrezione passeranno nell’arte cristiana (Déonna, p. 408). Spesso, del resto, la morta viene identificata a Venere: sul sarcofago essa viene rappresenta­ ta con il busto nudo e con ai suoi piedi la colomba [ibid., p. 409); gra­ zie a questa identificazione all’archetipo della vita in perpetuo rinnova­ mento, la morte si garantisce la risurrezione. Ovunque la conchiglia, le perle, la lumaca, figurano tra gli emblemi dell’amore e del matrimonio. La statua di Kàmadeva è adorna di con­ chiglie 22. In India si annuncia la cerimonia nuziale soffiando dentro una grande conchiglia23. Questa stessa conchiglia (Turbinella pyrum) è d’al­ tronde uno dei due principali simboli di Visnu. Una preghiera illustra le sue valenze religiose: « Alla bocca di questa conchiglia c’è il dio del­ la Luna, ai suoi fianchi dimora Varuna, sulla sua schiena Prajapati, sul­ la sua sommità il Gange, il Sarasvati e tutti gli altri fiumi sacri dei tre mondi in cui, secondo quanto prescrive Vàsudeva, si fanno delle ablu­ zioni. In questa conchiglia c’è il capo dei bramini. Adoriamo dunque questa santa conchiglia. Sia gloria a te, conchiglia sacra, tu sia bene­ detta da tutti gli dei, o tu nata dal mare e che Visnu tiene nella sua mano. Adoriamo la conchiglia sacra, meditiamo su di lei. Esaltiamoci nella gioia! » 24. Tra gli aztechi la lumaca simboleggiava usualmente il concepimen­ to, la gravidanza, il parto25. A proposito della tavola xxvi del Codex Vaticanus, Kingsborough trascrive la spiegazione che gli indigeni danno dell’assimilazione tra il mollusco (sea-snail) e il parto: « ...come questo animale marino esce dal suo guscio, così l’uomo nasce dal ventre di sua madre » “ . Identica è l’interpretazione autoctona della tavola xi del Codek Telleriano-Remensis (Ibid., vi, p. 122).

22 J.J. Meyer, Trilogie dtindiscber Màchie und Feste der Vegetation, Ziirich 1937, voi. i, p. 29. M J-W. Jackson, « Shell-Trumpets and their distribution in thè Old and New World » in Manchester Memoixs, 1916, ri. 8, p. 7. 24 Homeli, The sacred Chank of India, Madt» Fisherie* Publications, 1914, ci­ tato da Jackson, The Aztec Moon-Cult, pp. 2-3. Cfr. anche Arnould Locard, «L ei Coquilles sacrées dans les religions indiennes » in Annales du Musée Guimet, t v i i , p p . 292-306. H Jackson, The Aztec Moon-Cult, passim. 3,1 Kingsborough. Antiqwties of Mexico. London 1831-W8. voi. vi. p. 203

Osservazioni sul simbolismo delle conchiglie

Funzioni rituali delle conchiglie In queste condizioni ci si spiega facilmente, sulla base dello stesso simbolismo, la presenza delle conchiglie, delle ostriche e delle perle in tanti riti religiosi, nelle cerimonie agrarie ed iniziatiche. Le ostriche e le perle che favoriscono la fecondazione e il parto, hanno anche un’in fluenza benefica sul raccolto. La forza espressa da un simbolo della fer­ tilità si manifesta su tutti i livelli cosmici. In India si faceva risuonare la conca durante le cerimonie che si svolgono nei templi, ma anche in occasione delle cerimonie agricole, nu­ ziali e funerarie (cfr. Le numerose referenze riunite da Jackson, ShellTrumpets, p. 3). In Siam i preti fanno risuonare la conchiglia all’inizio delle semine (Jackson, The Aztec Moon-Cult, p. 3). Sulla costa di Ma­ labar, in occasione della raccolta dei primi frutti, il prete esce dal tem­ pio preceduto da un uomo che suona la conca ( ibid., p. 3). Identica la funzione rituale della conchiglia tra gli Aztechi: certi manoscritti rap­ presentano il dio dei Fiori e del Cibo portato in processione, precedu­ to da un prete che fa suonare la conchiglia {ibid., p. 4). Si è visto con quale precisione la conchiglia e le ostriche esprimono il simbolismo della nascita e della rinascita. Le cerimonie d’iniziazione comportano una morte e una risurrezione simboliche; la conchiglia può esprimere l’atto di rinascita spirituale (risurrezione) con la stessa effica­ cia con cui assicura e facilita la nascita carnale. Da qui deriva il rito che, presso certe tribù Algonquin, consiste nel colpire il neofita con una conchiglia nel corso della cerimonia d’iniziazione e nel mostrargliene una mentre gli vengono raccontati i miti cosmologici e le tradizioni del­ la tribù27. Le conchiglie occupano del resto una posizione importante nella vita religiosa e nelle pratiche magiche di numerose tribù america­ ne (cfr. Jackson, Shell-Trumpets, pp. 17s). Nelle cerimonie iniziatiche della « Società Grande-Medicina » degli Ojibwa e di « Medecine Rite » dei Winnebago, le conchiglie intervengono come elemento indispensa­ bile: la morte e la risurrezione rituali del candidato sono ottenute toc­ candolo con conchiglie magiche conservate in borselli di pelle di lon­ tra n. I vincoli magici che collegano le conchiglie alle cerimonie d’inizia17 J.W. Jackson, « The Money-Cowry (Cypraea moneta, L.) as a sacred object among American Indians » in Manchester Memoirs, voi. 60, n. 4, 1916, pp. 5s. 28 Cfr. il nostro Chamanisme, pp. 286s. (ed. it. pp. 342s.). 120

Il ruolo delle conchiglie nelle credenze funerarie

zione e, in maniera più generale, ai diversi riti religiosi, si ritrovano identici in Indonesia, in Melanesia, in Oceania 29. L ’ingresso dei villag­ gi del Togo è decorato di idoli i cui occhi sono fatti di conchiglie e da­ vanti ai quali si accumulano offerte di conchiglie (Andersson, Cbildren of thè yellow earth, p. 306). Altrove si offrono conchiglie ai fiumi, alle sorgenti, agli alberi (ibid., p. 312). Le virtù magico religiose delle con­ chiglie ne spiegano anche la presenza nell’amministrazione della giusti­ zia (ibid., p. 307). Come nella società cinese, nelle società « primitive » l’emblema che incarna uno dei principi cosmici garantisce la giusta ap­ plicazione della legge: in quanto simbolo della Vita cosmica, la conchi­ glia ha il potere di scoprire qualsiasi infrazione alla norma, qualsiasi cri­ mine contrario ai ritmi e, implicitamente, all’ordine della società. A causa della loro somiglianza con la vulva, la conchiglia marina e numerose altre specie di conchiglie hanno fama di proteggere contro qualsiasi magia, dalla jettatura o dal malocchio. Le collane di conchiglie, i braccialetti, gli amuleti adorni di conchiglie marine o addirittura la loro rappresentazione pura e semplice, difendono le donne, i bambini e il bestiame contro la cattiva sorte, le malattie, la sterilità, ecc.30. Lo stesso simbolismo—dell’assimilazione alla fonte stessa della Vita uni­ versale—alimenta la variegata efficacia della conchiglia, sia che si tratti di perpetuare delle norme della vita cosmica ó sociale, di promuovere uno stato di benessere e la fecondità, di garantire alla puerpera una fa­ cile gestazione o al neofita la « rinascita » spirituale nel corso di una cerimonia d’iniziazione.

Il ruolo delle conchiglie nelle credenze funerarie Il simbolismo sessuale e ginecologico delle conchiglie e delle ostri­ che implica, come si ricorderà, un significato spirituale: la « seconda na­ scita » realizzata dall’iniziazióne è resa possibile in virtù della stessa fonte inesauribile che sostiene la vita cosmica. Da qui deriva anche la missione delle conchiglie e delle perle nelle usanze funerarie; il defunto non si separa dalla forza cosmica che ha alimentato e retto la sua vita. Così nelle tombe cinesi si trova della giada: questa pietra impregnata Jackson, Shell-Trumpets, pp. 8, 11, 90; W.H. R. Rivers, The history of Melanesian Society, Cambridge 1914, voi. i, pp. 69, 98, 186; voi. il, pp. 459, 535. 10 Cfr. Numerosi esempi in S. Seligmann, Der bose Blick, Berlin 1910, voi. n,

29

pp. 126s., 204s. 121

Osservazioni sul simbolismo delle conchiglie

di yang—il principio maschile, solare, « secco »—per sua stessa natura si oppone alla decomposizione. « Se si tappano con oro e con giada i nove orifizi del cadavere, esso sarà preservato dalla putrefazione » scri­ ve l’alchimista Ko Hung31. E nel trattato T’ao Hung-Cking (v secolo) troviamo le seguenti precisazioni: « Se all’apertura di una tomba antica il cadavere all’interno sembra vivo, sappiate che dentro e fuori del cor­ po c’è una grande quantità d’oro e di giada. Secondo le norme della di­ nastia Han, i principi e i signori venivano sepolti con i loro abiti adorni di perle e con foderi di giada destinati a salvaguardare il corpo dalla de­ composizione » 32. I recenti scavi hanno confermato l’affermazione di Ko Hung sulla giada che « tappa i nove orifizi del cadavere », afferma­ zione che era parsa sospetta a più di uno studioso 33. La giada e le conchiglie concorrono nel creare un destino eccellente nell’aldilà; l’una preserva il cadavere dalla decomposizione, mentre le perle e le conchiglie preparano una nuova nascita per il defunto. Secon­ do Li ki la bara era ornata di « cinque file di conchiglie preziose » e di « tavolette di giada » u. All’infuori dell’ostrica pei, il culto funerario ci­ nese utilizzava anche la più grande e fine delle cozze, shen. Cozze e con­ chiglie bivalve erano posate sul fondo della tomba (Karlgren, Some fecundity symbols, p. 41). Cheng Hiian così commenta questa usanza: « Prima di calare la bara, bisogna ricoprire di shen il fondo della tom­ ba al fine di impedire l’umidità » ( tb'td.). Si mettevano delle perle nella bocca del morto e il rito funerario in uso per i sovrani della dinastia Han precisa che « le loro bocche sono riempite di riso, di perle e di gia­ da, come prescrive il costume, fissato da tempi remoti, per queste ceri­ monie » 3S. Conchiglie di cauri sono state trovate nelle stazioni preisto­ riche di P u - C h a o C o m e vedremo, la ceramica cinese protostorica è -,| B. Laufer, Jade, a study in Cbinese Archaeology and Religion, Field Muséum, Chicago 1912, p. 299, jiota. Laufer, op. cit., p. 299. Cfr. anche Karlgren, Some jecundity symbols, pp. 22s.; Ciseler, « Les Symboles de jade dans le taoïsme » in Revue d’Histoire des Religions, 1932, t. 105, pp. 158-181. 33 C. Hentze, Les Figurines de la céramique funéraire, Dresden 1928. Cfr. anche C. Hentze, « Le Jades archaïques en Chine» in Artibus Asiae, ni, 1928-1929, pp. 96-110; id., «L es Jades Pi et les symboles solaires», ibtd., pp. 199-216; t. iv, pp. 35-41. 54 S. Couvreur, Li Ki, t. h, Ho Kien Fou, il éd., 1913, p. 252. Cfr. anche Cou­ vreur, Tso tebouan, tr., t. i, p. 259. 35 De Groot, Religions System o/ China, 1892, i, p. 277. 30 Andersson, op. cit., p. 323 I cauri si trovano già nelle tombe della fine del paleolitico; cfr. K. Singer, op. cit, p. 50. 122

i

Il ruolo delle conchiglie nelle credenze funerarie

stata anch’essa fortemente marcata dal simbolismo della conchiglia Le conchiglie hanno un ruolo non meno importante nelle cerimonie funerarie indiane. Viene fatta suonare la conchiglia e si cosparge di gu­ sci di molluschi il sentiero che porta dalla casa del morto al cimitero. In certe province si riempie di perle la bocca del morto (Andersson, p. 299). Questa usanza si ritrova nel Borneo, dove l’influsso indù si è probabilmente innestato su un rito autoctono In Africa si stende uno strato di conchiglie sul fondo della tomba M. Questa usanza era frequen­ te in molte popolazioni antiche d’America (cfr. più avanti). Si sono tro­ vate conchiglie, gusci di molluschi, perle naturali o artificiali in quanti­ tà considerevoli nelle stazioni preistoriche, il più delle volte all’interno di tombe. Nella caverna di Langérie (valle della Vézère in Dordogna), appartenente al paleolitico, gli scavi hanno portato alla luce numerose conchiglie di specie mediterranee, Cypraea pyrum e C. lurida. Sullo sche­ letro le conchiglie erano disposte simmetricamente a coppie: quattro sulla fronte, una su ogni mano, due su ogni piede, quattro vicino ai gi­ nocchi e alle caviglie. La grotta di Cavillon conteneva quasi ottomila conchiglie, per lo più tinte di rosso, dieci per cento delle quali erano perforate39. Dal canto suo, a Cro-Magnon si sono recuperate più di tre­ cento conchiglie di Littorina littorea perforate (Déchelette, op. cit., p. 208). Altrove uno scheletro di donna, coperto di conchiglie è stato ri­ trovato vicino ad uno scheletro d’uomo, con ornamenti e Tina corona fatti di conchiglie perforate. L ’uomo di Combe-Capelle portava anche lui come ornamento una catena di conchiglie perforate 40. Questo con­ duce Mainage a chiedersi: « Perché lo scheletro di Langerie-Basse (Dor­ dogna) portava una collana di conchiglie mediterranee e lo scheletro di Cro-Magnon un ornamento confezionato con conchiglie oceaniche? Perché a Grimaldi (Costa Azzurra) i giacimenti hanno rivelato conchi­ glie pescate sulle rive dell’Atlantico? E come mai a Pont-à-Lesse, in Belgio, si sono ritrovate conchiglie d’epoca terziaria raccolte nei dintor­ ni di Reims? » 41. Il semplice nomadismo degli uomini del quaternario basta con ogni probabilità a spiegare questi fatti, comunque è un’ulte­ 37 Kunz e Stevenson, The Book of thè Pearl, p. 310. 38 Cfr. Robert Hertz, Mélanges de sociologie religieuse et de folklore, Paris 1928, p. 10. 39 Déchelette, Manuel d’archéologie préhistorique celtique et galloromaine, il ed., Paris 1924, t. i, p. 208. 40 Cfr. Osborn, Men of thè Old Stone age, pp. 304-305. 41 Th. Mainage, Les Religions de la préhistoire. I. L’Age paléolithique, Paris 1921, pp. 96-97. 123

Osservazioni sul simbolismo delle conchiglie

riore prova dell’importanza magico religiosa delle conchiglie presso i popoli preistorici. Si sono trovate conchiglie anche nelle tombe dell’Egitto pre farao­ nico. Le conchiglie del mar Rosso fornirono per moltissimo tempo gli amuleti agli Egiziani42. Gli scavi di Creta hanno rivelato un’analoga pro­ fusione di conchiglie. A Phaestos, in un deposito neolitico, sono state ritrovate, a fianco di un’immagine femminile d’argilla, delle conchiglie di pelunculus e il loro significato religioso non lascia il minimo dub­ b io 43. Gli scavi di Sir Arthur Evans hanno consentito di definire con maggior chiarezza il valore magico e la funzione culturale delle conchi­ glie (cfr. Palace of Minos, x, pp. 5'17ss.). I disegni con motivi di con­ chiglie erano del resto frequenti e il loro perdurare nel tempo non è do­ vuto tanto al valore decorativo del motivo quanto al suo valore simbo­ lico (ibid., p. 519, figg. 377, 378). Una scoperta notevole da questo punto di vista, scoperta che, secondo l’opinione autorevole di Andersson, garantirebbe là transizione tra il ciclo culturale euro-africafto e l’Asia orientale, è stata fatta da Pumpelly e Anu (Andersson, p. 298). An­ dersson a sua volta ha trovato delle conchiglie a Yang Chao Thun, a Sha Ching (nel deserto di Chen Fu), cioè nelle stazioni preistoriche in cui le urne funerarie attestano i disegni molto caratteristici a cui è stato dato il nome di « death pattern » e di « cowrie pattern » e il cui sim­ bolismo morte-rinascita non lascia più il minimo dubbio (Andersson, ibid., pp. 332s.). Un costume giapponese antichissimo si spiega sulla base di credenze analoghe: ungendo il proprio corpo con polvere di conchiglie si assicura la rinascita (Kurt Singer, op. cit., p. 51). Perle e conchiglie sembrano aver rivestito un ruolo funerario di im­ portanza decisiva presso le popolazioni autoctone delle due Americhe. La documentazione raccolta da Jackson è, a questo riguardo, sufficiente mente eloquente **. Parlando degli indiani della Florida Streeter scrive che « come in Egitto ai tempi di Cleopatra, in Florida le tombe dei re erano decorate di perle. I soldati di Soto trovarono, in uno dei grandi templi, delle bare di legno in cui giacevano, imbalsamati, i morti: vici­ no a loro c’erano dei piccoli panieri pieni di perle. Il tempio di Tolomecco era il più ricco di perle: le alte mura e il tetto erano di madre­ 42 Sir E. Wallis Burge, Amuleti and Superstitions, Oxford 1930, p. 73. 43 Sir Arthur Evans, The Palace of Minos, voi. i, London 1921, p. 37. 44 Jackson, « The geographical distribution of thè use od Pearls and Pearl-Shdl » ripubblicato in Shells as evidence of thè migrations of early culture, pp. 72s. Cfr. pp. 112s.

124

Il ruolo delle conchiglie nelle credenze funerarie

perla, collane di perle e di piume erano appese ai muri; sulle bare dei re erano deposti i loro scudi adorni di perle e al centro del tempio si trovavano dei vasi pieni di perle preziose » 45. Willoughby ha già dimo­ strato il molo essenziale tenuto dalle perle nelle cerimonie funerarie, de­ scrivendo i riti solenni di mummificazione dei re indiani della Virgi­ nia * . Zelia Nuttal ha scoperto, in vetta a una piramide messicana, uno spesso strato di conchiglie e in mezzo ad esse delle tombe47. E questo non è che un accenno dei documenti esistenti per quel che riguarda gli Amerindi48. La presenza in certe regioni (lo Yucatan, ad esempio) di pezzi di ferro49 a fianco delle perle e delle conchiglie, dimostra che si voleva accostare il defunto a tutte le forme di energia magica a disposi­ zione e il ferro aveva, come a Creta, il ruolo che in Cina era assegnato alla giada e all’oro M. Nella caverna di Mahaxay (Laos) Madeleine Colani ha scoperto del­ le asce, dei cristalli di rocca e numerose conchiglie di Cypraea51 e al tempo stesso è riuscita a dimostrare il carattere funerario e la funzione magica delle asce52. Tutti questi oggetti venivano deposti nella tomba allo scopo di garantire al defunto la miglior condizione nell’al di là. Importanti depositi di conchiglie di ostriche e di conchiglie marine sono stati ritrovati in numerosissime stazioni preistoriche molto distan­ ti le ime dalle altre. Delle conchiglie di Cypraea moneta, ad esempio, sono state scoperte nella famosa necropoli di Koubatì, nel Caucaso set­ tentrionale (xiv sec. a.C.); altre conchiglie nelle tombe scite dei dintor­ ni di Kiev, appartenenti alla civiltà Ananino dell’Ural occidentale. De­ 45 Jackson, Shells, pp. 116-117. 46 C.C. Willoughby, « The Virginia Indians in thè seventeenth century » in The American Anthropologist, voi. ix, n. 1, gennaio 1907, pp. 61, 62. 47 Cfr. W.J. Perry, The Children of thè Sum, p. 66. Gli Indiani che vivono ai bordi del golfo di California e la cui cultura è rimasta estremamente primitiva, coprono i loro morti con un guscio di tartaruga, ibid., p. 250. La tartaruga in effet­ ti per la sua natura di animale acquatico è in stretto collegamento con le acque e con la luna. 41 Cfr. Kunz e Stevenson, The Book of thè Pearl, pp. 485s. 49 Stephens; Incidenti of travel in Yucatan, t. n, p. 344, citato da Andree, Die Metalle bei den Natur-volkern, Leipzig 1884, p. 136. 50 Cfr. il nostro Metallurgy, Magic and Alchemy, p. 12 (Zdmoxis, I, p. 94). 51 Madeleine Colani, « Haches et bijoux. République de l’Equateur, Insulinde, Eurasie » in b e f e o , x x x v , 1935, fase. 2, pp. 313-362, p. 347. 52 Cfr. anche Hanna Rydh, « On symbolism in mortuary ceramics » in Bull, of thè Museum of Far Eastern Antiquities, n. 1, Stockolm 1929, pp. 114s.

125

Osservazioni sul simbolismo delle conchiglie

positi analoghi sono stati rilevati in Dosnia, in Francia, in Inghilterra e in Germania, soprattutto sulla costa baltica dove gli antichi già cerca­ vano l’ambra 5\ Il ruolo capitale tenuto dalle perle nell’elaborazione dei diversi ri­ tuali mortuari si misura altresì sulla base della presenza di perle artifi­ ciali. Nieuwenhuis ha studiato quelle realizzate in pietra o in porcella­ na di cui si servono spesso gli abitanti di Borneo. L ’origine delle più antiche rimane incerta, mentre le più recenti arrivano da Singapore ma, il più delle volte, sono fabbricate in Europa, a Gablonz (Boemia), Bir­ mingham, MuranoM. Madeleine Colani così spiega il ruolo di queste perle nelle ricorrenze agricole solenni, nei sacrifici o nelle cerimonie fu­ nerarie del Laos: « I morti sono provvisti di perle per la vita celeste; perle vengono introdotte negli orifizi naturali del cadavere. Ai giorni nostri, i morti vengono sotterrati con cinture, copricapi ed abiti adorni di perle. Dopo la corruzione del corpo, le perle si staccano... » 5S. Lo stesso autore ha trovato, sepolti vicino ai megaliti del Tran Ninh, una massa di questi gioiellini di vetro, a volte centinaia: « Queste perle an­ tiche, con ogni probabilità, svolgevano un ruolo importante nella vita del popolo delle giare. Quelle che abbiamo scoperto erano state nasco­ ste sotto terra perché potessero servire ai defunti. Esse sono molto più semplici di quelle che sono riprodotte da Nieuwenhuis. La loro unica attribuzione era di ordine funerario? Lo ignoriamo » (op. cit., p. 199). Nelle vicinanze di queste perle arcaiche dell’Alto-Laos c’erano dei so­ nagli di bronzo. L ’associazione metallo-perle (conchiglie, ecc.) è del re­ sto frequente e si è mantenuta in certe regioni del Pacifico. Madeleine Colani ricorda che « nel Borneo, ai giorni nostri, certe donne dayak por­ tano delle collane con numerosi sonagli » ( i b i d p. 199, fig. 24). Il caso delle perle artificiali è un esempio sicuro di degradazione del senso metafisico originale e della sua sostituzione a favore di un signi­ ficato secondario, esclusivamente magico. Il potere sacro delle perle pro­ veniva dalla loro origine marina e da un simbolismo ginecologico. È po­ co probabile che tutte le popolazioni che hanno utilizzato perle e con­ chiglie nelle loro cerimonie magiche e funerarie abbiano avuto coscien­ za di questo simbolismo; anche supponendo che vi sia stata coscienza 53 Andersson, op. cit., pp. 299s.; Jackson, The geographical distribution, passim. 54 Nieuwenhuis, « Kunstperlen und ihre kulturelle Bedeutung» in Internai. Archiv f. Ethnographie, Bd. 16, pp. 135-153. 55 Madeleine Colani, « Essai d’ethnographie comparée » in b e f e o , voi xxxvi, 1936, pp. 198s. 126

Il ruolo delle conchiglie nelle credenze funerarie

di questi rapporti, essa ha dovuto rimanere limitata a pochi membri del­ la società: questa conoscenza non sempre si conserva intatta. Abbiano esse mutato la nozione magica della perla dall? popolazioni di cultura superiore con cui entrarono in contatto, oppure la nozione loro propria si sia col tempo imbastardita per l’intervento di elementi stranieri, re­ sta il fatto che certe popolazioni inserirono nelle loro cerimonie degli oggetti artificiali, la cui unica qualità era quella di assomigliare ai « mo­ delli sacri ». Il caso non è unico. È noto il valore cosmologico del lapis­ lázuli in Mesopotamia. Il blu di questa pietra è il blu stesso del cielo stellato, alla cui forza essa partecipa Una concezione analoga, del re­ sto, si incontra nell’America pre colombiana. In alcune tombe antiche di un’isola dell’Ecuador sono stati ritrovati ventotto pezzi di lapis-lazuli tagliati a cilindro e molto ben levigati, ma si è dimostrato che queste pietre non appartenevano agli aborigeni dell’isola e che con ogni proba­ bilità sono state lasciate lì da visitatori giunti dal continente per cele­ brare sull’isola certi riti o cerimonie sacre 51. È importante notare che anche in Africa occidentale si attribuisce un valore eccezionale alle pietre artificiali di colóre blu. A questo riguardo Wiener ha raccolto una vastissima documentazione58. È certo che il simbolismo e il valore religioso di queste pietre trovano una spiegazio­ ne dell’idea della forza sacra a cui partecipano in virtù del loro colore. Questa idea è di frequente ignorata, o mal capita, ovvero « degradata », da certi elementi di queste popolazioni, le quali hanno spesso mutuato l’oggetto del culto o il simbolo di una cultura avanzata, senza adottar­ ne il significato normale, il più delle volte per loro inaccessibile. Si può supporre quindi che le celebri false gemme colorate che dall’Egitto, dal­ la Mesopotamia, dall’Oriente romano, sono penetrate fino in Estremo Oriente, abbiano avuto ad un certo momento un significato magico, in­ dubbiamente derivato dal loro modello naturale o dal simbolismo geo­ metrico che esse implicano59. 56 Ernst Darmstaedter, « Der babylonisch-assyrische Lasurstein » in Studien für Geschichte der Chemie, Festgabe Ed. von Lippmann, Berlin 1927, pp. 1-8. Cfr. il nostro libro Cosmologie sì alchimie babiloniana, pp. 51s. 57 George F. Kunz, The Magic of Jewels and Chartns, Philadelphia-London 1915, p. 308. 58 Leon Wiener, Africa and thè discovery of America, Philadelphia 1920-1922, voi. ii, pp. 237-248; cfr. il nostro Cosmologie si alchimie babiloniana, pp. 56s. 59 C.G. Seligman e H.C. Beck, « Far eastern glass: some western origins » in Bulletin of thè Museum of Far Eastern Antiquities, n. 10, Stockolm 1938, pp. 1-64. 127

Osservazioni sul simbolismo delle conchiglie

La virtù sacra delle conchiglie si trasmette alla loro immagine e ai motivi decorativi in cui la spirale è l’elemento essenziale. Nel Kansou (periodo Ma Chang) sono state ritrovate numerose urne funerarie deco­ rate dal « cowrie-pattern » 60. Andersson d’altra parte interpreta la fi­ gura che predomina sulle urne di P’an Shan come un gioco di quattro magnifiche spirali*1. Fatto degno di rilievo, questo motivo è riservato quasi esclusivamente alle urne funerarie e non compare mai sulle terra­ glie destinate ad uso profano 62. È quindi ben dimostrato il valore me­ tafisico e rituale del « cowrie-pattern » (« death-pattern »). Questo mo­ tivo decorativo, specifico delle terraglie cinesi, ha un molo attivo nel culto dei morti. L ’immagine della conchiglia o gli elementi geometrici derivati dalla rappresentazione schematica della conchiglia, mettono in comunicazione il defunto con le forze cosmiche che governano la ferti­ lità, la nascita e la vita. Giacché il valore religioso sta nel simbolismo della conchiglia: l’immagine è di per se stessa efficace nel culto dei mor­ ti, sia essa presente attraverso la conchiglia o agisca semplicemente tra­ mite il motivo ornamentale della spirale o del « cowrie-pattern ». Que­ sto spiega la presenza nelle stazioni preistoriche cinesi sia di conchiglie che di urne funerarie decorate a « cowrie-pattern » 61. La funzione magica di questo motivo decorativo funerario, del re­ sto, non si riscontra soltanto in Cina. Hanna Rydh ha segnalato la so­ miglianza tra il « death-pattern » della ceramica preistorica cinese e i disegni incisi sulle urne appartenenti alla cultura megalitica scandina­ va 64. Andersson, d’altra parte, osserva certe analogie tra le urne di Kansou e la terraglia dipinta della Russia meridionale (Tripolje), analo­ gie che sono state anche studiate dal professor Bogajevsky. Questo mo­ tivo della spirale si ritrova, d’altronde, anche in numerosi punti d’Eu­ ropa, d’America, d’A sia65. Bisogna, tuttavia, aggiungere che il simboli40 Andersson, Children of the yellow earth, p. 323; « On symbolism in the prehistoric painted ceramics of China » in Bulletin of the Museum of Far Eastern Antiquities, vol. i, 1929, pp. 66s. 61 Children of the yellow earth, p. 324. 42 Andersson, « On symbolism in the prehistoric painted ceramics *, passim; Hanna Rydh, « Symbolism in mortuary ceramics », pp. 81s.; cfr. Carl Hentze, Mythet et symbóles lunaires, Anvers 1932, pp. 118s. 63 Andersson, Children of the yellow earth, pp. 323s. 64 « Symbolism in mortuary ceramics », specialmente pp. 72s. 45 Madeleine Colani, « Haches et bijoux», pp. 351s. 128

La perla nella magia e nella medicina

smo è assai complesso e la sua « origine » ancora incerta * . A titolo provvisorio possiamo almeno evidenziare la polivalenza simbolica della spirale, i suoi stretti rapporti con la luna, il lampo, le acque, la fecon­ dità, la nascita, la vita oltre tomba. Nemmeno la conchiglia, ricordia­ mo, si ricollega esclusivamente al culto dei morti. Essa compare in tutti gli atti essenziali della vita dell’uomo e della collettività: nascita, ini­ ziazione, matrimonio, morte, cerimonie agricole, cerimonie religiose, ecc.

La perla nella magia e nella medicina La storia della perla è una testimonianza ulteriore del fenomeno di degradazione di un significato iniziale, metafisico. Quello che a un dato momento fu simbolo cosmologico, oggetto ricco di benefiche forze sa­ cre, diventa, sottoposto all’azione del tempo, un elemento ornamentale di cui si apprezzano le qualità estetiche e il valore economico. Comun­ que la transizione dalla perla— emblema della realtà assoluta alla per­ la— « oggetto di valore » dei nostri giorni è avvenuta attraverso varie tappe. Nella medicina, ad esempio, sia orientale che occidentale, la per­ la ha svolto un ruolo importante. Takkur analizza in dettaglio le qua­ lità medicinali della perla, la quale viene usata contro le emorragie e l’itterizia, guarisce gli indemoniati e cura la follia67. Questo studioso indù non fa che continuare, del resto, una lunga tradizione medica: me­ dici illustri come Karaka e Su^ruta, raccomandano già l’uso della per­ la “ . Narahari, medico del Kashmir (nel 1240 circa) scrive nel suo trat­ tato Ràjanigantu (varga xn) che la perla guarisce le malattie degli oc­ chi, che è un antidoto efficace nei casi di avvelenamento, che guarisce la tisi, infine che assicura forza e salute69. Nel Kathàritsàgasa leggiamo che la perla— al pari degli elisir dell’alchimia— « scaccia il veleno, i de46 Cfr. le opere d’Andersson e Hentze. Cfr. anche L. Siret, Origine et signification du décor sptralé, xv Congrès Intem. d’Anthropologie, Portugal 1930, pp. 465-482: spiegazione razionalista. Sul simbolismo della conchiglia di mare nella teologia e nell’arte indù, cfr. A. Coomaraswamy, Elementi of buddbist Iconograpby, Cambridge 1935, pp. 77-78; A new approach to thè Vedas, London 1933, p. 91, nota 67. 67 Kunz e Stevenson, op. cit., p. 209; Jackson, Shells as evidence of tbe migrations o) early culture, p. 92. 68 Kunz, ibid., p. 308. 69 R. Garbe, Die Indische Mineralien, Leipzig 1882, p. 74.

Osservazioni sul simbolismo delle conchiglie

moni, la vecchiaia e la malattia ». Il Harshacarita ricorda che la perla nacque dalle lacrime del dio della luna e che la sua origine lunare—dal momento che la luna è « fonte di ambrosia eternamente guaritrice »— fa di essa l’antidoto per ogni tipo di avvelenamento10. In Cina la me­ dicina faceva uso unicamente della « perla vergine », non perforata, che era ritenuta guarire tutte le malattie degli occhi. La medicina araba ri­ conosce alla perla identiche virtù n. A partire dalFvin secolo l’uso medicinale della perla si diffonde an­ che nella medicina europea e nel giro di poco tempo si constata una for­ te domanda di questa pietra preziosa (Kunz e Stevenson, op. cit., p. 18) Alberto Magno ne raccomanda l’uso (ibid., p. 311). Malachias Geiger nel suo Margaritologia (1637) si occupa esclusivamente dell’uso medi­ cinale della perla, affermando di esservi ricorso con successo nel tratta­ mento dell’epilessia, della follia e della malinconia (ibid., p. 312). Un altro autore sottolinea l’efficacia della perla per rafforzare il cuore e cu­ rare la malinconia (ibid., p. 312). Francis Bacon annovera la perla tra le droghe della longevità (ibid., p. 313). Va da sé che il ruolo della perla nella medicina di tante civiltà diver­ se non fa che proseguire l’importanza che ha avuto innanzitutto nella religione e nella magia. In virtù del fatto di essere stata l’emblema del­ la forza acquatica e generatrice, la perla diventa— in epoca ulteriore— tonico generale, afrodisiaco e al tempo stesso rimedio per la follia e la malinconia, due malattie legate all’influsso della luna72, quindi sensibili ad ogni emblema della Donna, dell’Acqua, delPErotismo. Il suo ruolo nella guarigione delle malattie degli occhi e quale antidoto contro i ve­ leni è un’eredità dei rapporti mitici tra perla e serpente. In svariate re­ ligioni le pietre preziose erano ritenute cadute dalla testa dei serpenti o contenute nel gozzo dei draghi73. In Cina c’è la convinzione che la 70 Harshacarita, tr. Cowell e Thomas, pp. 251s. 71 Ledere, Traiti des simples, voi. ili, p. 248 (Ibn el-Beithar cita Ibn Massa e Ishak Ibn Amràn, tuttavia si limita al solo uso medicinale); Julius Ruska, Dai Steinbuch des Aristoteles, Heidelberg 1921, p. 133; nelle credenze popolari del­ l'india e dell’Arabia: cfr. Penzet, Ocean of Story, London 1924, voi. j, pp. 212, 213 (la polvere di perla, rimedio per il male agli occhi, ecc.). 71 P. Saintyves, L'Astrologie populaire, pp. 181s. 73 Cfr. il nostro Tratti d’Histoire des Religions, pp. 377, 389 (bibliografia) (ed. it. pp. 454, 525). L'essenziale si ritrova nello studio di W.R. Halliday, « Of snakes.tones » ripubblicato in Folklore Studies, London 1924, pp. 132-155. Cfr. anch« M.O.W. Jeffreys, « Snakestones » in Journal of thè Royal African Society, un, 1942, n. 165. 130

La perla nella magia e nella medicina

testa del drago racchiuda sempre una perla o qualche altra pietra pre­ ziosa 74 e più di un’opera d’arte raffigura un drago con una perla tra le fauci75. Questo motivo iconografico deriva da un simbolismo antichis­ simo e assai complesso che ci porterebbe troppo lontano76. È significativo, infine, il valore di longevità che Francis Bacon attri­ buisce alla perla. Si tratta appunto di una delle virtù primordiali di que­ sta pietra preziosa. La sua presenza sul corpo dell’uomo, come del re­ sto quella della conchiglia, lo proietta alle fonti stesse dell’energia, del­ la fecondità e della fertilità universale. Quando questa immagine inte­ riore ha smesso di corrispondere al nuovo Cosmo scoperto dall’uomo, o quando il suo ricorso, per ragioni diverse, si è imbastardito, l’oggetto un tempo sacro ha conservato il suo valore, però tale valore si è defini­ to su un livello diverso. Ai confini tra la magia e la medicina, la perla occupa il ruolo ambi­ guo di talismano77; ciò che prima dava fertilità e assicurava un desti­ no ideale post mortem poco a poco diventa fonte costante di prosperi­ tà 7*. In India questa concezione si è conservata fino ad un’epoca abba­ stanza tarda. « La perla deve essere sempre portata come amuleto da coloro che ambiscono alla prosperità », dice Buddhabatta79. La dimo­ strazione che la perla è penetrata nella medicina per aver avuto innan­ zitutto un ruolo nella magia e nel simbolismo erotico-funerario, è che le conchiglie, in certe regioni, hanno virtù medicinali. In Cina tanto so14 Cfr. ad esempio De Groot, Lei Fètes annuellement célébrées à Emouì, voi. n, pp. 369, 385; Gieseler, «L e Mythe du dragon en Chine» in Kevue Archéologique, v serie, t. vi, 1917, pp. 104-170, passim. 75 Cfr. Josef Zykan, « Drache und Perle » in Artibus Asiae, vi, 1-2, 1936, p. 9, fig. 1, ecc. 76 Cfr. Alfred Salmony, « The magic ball and thè golden fruit in ancient Chinese art » in Art and Tbought, Hommage a Coomaraswamy, London 1947, pp. 105-109; cfr. anche il nostro Traité d’ Histoire des Religioni pp. 250s. (ed. it. pp. 301s.). Lo studio di Marc R. Sauter, « Essai sur l’histoire de la perle à ailette » in Jahrbuch der Scbweizeriscben Gesellscbaft fiir Urgeschichte, xxxv, Frauenfeld 1945,non ha potuto essere da noi consultato. 77 S. Seligmann, Der bòse Blick, n, pp. 126, 209; id., Die magiscbe Heil- und Schutzmittel, p. 199. 71 La perla costituisce una protezione contro le epidemie, di coraggio a chi la porta, ecc.; cfr. M. Gaster, « The hebrew version of thè Secretimi Secretorum », ripubblicato in Studies and Texts, voi. n, London 1925-1928, p. 812. 79 Louis Finot, Les Lapidaires indiens, p. 16; Kunz, op. cit., p. 316. 131

Osservazioni sul simbolismo delle conchiglie

no familiari al medico quanto sono preziose al mago®—e lo stesso di­ casi per certe tribù d’America81. Al di fuori del valore riconosciuto loro dalla magia e dalla medici­ na, le conchiglie sono spesso state usate come moneta. Le informazioni fomite in questo senso da Jackson ed altri autori lo dimostrano a suf­ ficienza tó. Karlgren, il quale ha dimostrato l’uso monetario delle con­ chiglie in Cina, ritiene che il costume di porre una moneta sulla fronte non è che una reminiscenza del tempo in cui la conchiglia veniva cor­ rentemente portata come amuleto M. Il valore simbolico sacro della con­ chiglia e della perla si trasforma un po’ alla volta in valore profano. Tuttavia la natura preziosa dell’oggetto non è modificata affatto da que­ sto spostamento di valore. In ogni momento si è concentrato in esso il potere, esso è forza e costanza; infine rimane costantemente solidale con la « realtà », con la vita e con la fertilità.

Il mito della perla Le immagini archetipiche conservano intatte le loro valenze metafi­ siche indipendentemente dalle eventuali valorizzazioni « concrete »: il valore economico della perla non abolisce in alcun modo il suo simbo­ lismo religioso, il quale viene di continuo riscoperto, reintegrato, arric­ chito. Ricordiamoci infatti il ruolo considerevole che occupa la perla nella speculazione iranica, nel cristianesimo e nella gnosi. Una tradizio­ ne di origine orientale spiega la nascita della perla affermando che essa è il frutto del lampo che penetra nell’ostrica M: la perla sarebbe il risul­ tato dell’unione tra il Fuoco e l’Acquà. Sant’Efrem utilizza questo mito 10 Karlgren, op. cit., p. 36. 81 Jackson, The Money Cowry (Cypraea moneta, L.) as a sacred object among American Indiani, pp. 3s. 82 Cfr. «The use of Cowry-shells for thè purpose of currency, Amulets «od Charms » in Manch. Mem., 1916, n. 13; Shells, pp. 123-194; Leo Wiener, Africa and thè discovery of America, p. 203; Helmut Petri, «D ie Geldformen der Sudsee » in Anthropos, 31, 1936, pp. 187-212; 509-554; pp. 193s., 509s. (cauri usati come moneta), 208s. (la perla quale moneta). Lo studio di J.M. Faddegon, «Notice sur les cauris» non ha potuto essere utilizzato (Tijdschrift van het Kon. Ned. Genootschap vaorMunt-en Penningkunde, 1905; cfr. Isis, voi. 19, 1933, p. 603). 83 Karlgren, op. cit., p. 34. M Cfr. Pauly-Wissowa, alla voce Margaritai, col. 1692.

132

I

Il mito della perla

antico per illustrare sia l’immacolata Concezione che la nascita di Cri­ sto nel battesimo di fuoco85. D’altro lato Stig Wikander ha mostrato che la perla era il simbolo iranico per eccellenza del Salvatore M. L ’identificazione della Perla con il « Salvatore Salvato » rendeva possibile un duplice simbolismo: la Perla poteva rappresentare tanto il Cristo che l’anima umana. Origene riprende l’identificazione di Cristo con la perla: a lui fanno seguito nu­ merosi autori (Edsman, Le baptême de feu, pp. 192.). In un testo del­ lo pseudo Macario la perla simboleggia da un lato Cristo Re, dall’altro il discendente di Cristo, il cristiano: « La Perla, grande, preziosa e re­ gale, appartenente al diadema reale, conviene soltanto al re. Solo il re può portare questa perla. A nessun altro è consentito portare una perla del genere. Quindi un uomo che non è nato dallo spirito regale e divi­ no, che non è diventato membro della razza celeste e regale e che non è figlio di Dio—come sta scritto: « A quanti però l’hanno accolta, ha dato il potere di diventare figlio di Dio » (Gv 1,12)—non può portare la preziosa perla celeste, immagine, della Luce indicibile che è il Signo­ re. Il fatto è che egli non è diventato un figlio di re. Coloro che porta­ no e possiedono la perla, vivono e governano con il Cristo per tutta l’eternità * ( Omelia xxxn, 1; testo citato e tradotto in Edsman, op. cit., pp. 192s.). Nel famoso scritto gnostico, gli Atti di Tommaso, la ricerca della per­ la simboleggia il dramma spirituale della caduta dell’uomo e della sua salvezza: un Principe delI’Oriente arriva in Egitto per cercare la Perla difesa da serpenti mostruosi. Il Principe deve superare un gran numero di prove iniziatiche per ottenerla e del resto vi riesce soltanto con l’aiu­ to di suo padre, il Re dei Re, immagine gnostica del Padre celeste **. Il simbolismo di questo testo è assai complesso: la Perla rappresenta, da un lato l’anima umana decaduta nel mondo delle tenebre, dall’altro il 85 H. Usener, « Die Perle. Aus der Geschichte eines Bildes » in Tbeologische Abbandlungen C. von Weizsàcker... gewidmet, Freiburg i. Breisgau 1892, pp. 201-213; Carl-Martin Edsman, Le Baptême de feu, Leipzig-Uppsala 1940, pp. 190s. 86 Recensione del libro di Edsman, Svensk Teologisk Kvartalskrift, voi. 17, 1945, pp. 228-233: cfr. Geo Widengren, Mesopotamian elementi in manicheism, Uppsala 1946, p. 119; id., «Der iranische Hintergrund der Gnosis » in Zeiticbrift fiir Religioni- und Geìstesgeschichte, iv, 1952, pp. 97-114, p. 113. 87 A. Hilgenfeld, « Der Konigssohn und die Perle * in Zeiticbrift fiir wissenschaftlicbe Theologie, voi. 47, 1904, pp. 219-249; R. Reitzenstein, Dai iraniicbe Erlosungsmysterium, Bonn 1921, pp. 72s. (opera di importanza capitale); Edsman, op. cit., p. 193, nota 4; Widengren, Der iranische Hintergrund der Gnosis, pp. 105s. 133

Osservazioni sul simbolismo delle conchiglie

« Salvatore salvato » in persona. L ’identificazione dell’uomo con la per­ la si incontra in gran numero di testi manichei e mandei. Lo Spirito Vi­ vente « estrae dalla lotta il Primo Uomo come una perla tratta dal ma­ re » ( Kephalaia, p. 85, citato da Edsman, p. 195). Sant’Efrem paragona il mistero del battesimo a una perla che non può mai più essere presa: « il tuffatore, anche lui, estrae dal mare. Tuffatevi (fatevi battezzare), tirate dall’acqua la purezza che in essa si trova nascosta, la perla da cui è uscita la corona della divinità » (citato da Edsman, p. 197). In altra occasione, parlando in merito agli asceti e ai monaci, San­ t’Efrem paragona l’ascesi a un « secondo battesimo »: come il cercato­ re di perle deve tuffarsi nudo nell’oceano e aprirsi un cammino tra i mostri marini, così gli asceti penetrano nudi tra gli « uomini di questo mondo » (Edsman, p. 189). Oltre al simbolismo della nudità in questo testo si può decifrare un’allusione ai mostri marini in agguato che mi­ nacciano il catecumeno durante la sua immersione battesimale (cfr. il capitolo successivo, p. 157s.). La gnosi è « nascosta » e difficile da rag­ giungere, il cammino della salvezza è disseminato di ostacoli. La perla simboleggia tutto questo e altre cose ancora: la sua apparizione in que­ sto mondo fenomenico è miracolosa, la sua presenza tra gli esseri deca­ duti è paradossale. La perla esprime il mistero del trascendente reso sen­ sibile, la manifestazione del Dio nel Cosmo. Grazie allo gnosticismo e alla teologia cristiana, questo antico simbolismo della Realtà e della Vita-senza-morte acquista nuove valenze: l’anima immortale, il « Sal­ vatore-salvato », Cristo re. Sottolineiamo una volta di più la continuità dei diversi significati della perla, dai più arcaici ed elementari ai simbo­ lismi più complessi elaborati dalla speculazione gnostica e ortodossa.

1 XA

Capitolo quinto SIMBOLISMO E STORIA

Battesimo, diluvio e simbolismi acquatici Tra i vari gruppi di simboli tra loro solidali del simbolismo acqua­ tico che abbiamo appena presentato, quest’ultimo è di gran lunga il più vasto e il più complesso. Abbiamo cercato di farne emergere la struttu­ ra in un precedente lavoro, a cui ci permettiamo di rinviare il lettore (cfr. Traité d’Histoire des Religions, pp. I68ss.; ed. it. pp. 193s.): in esso potrà trovare i documenti essenziali di un dossier sulle ierofanie acquatiche e al tempo stesso un’analisi del simbolismo che le mette in valore. In questa sede ci limiteremo ad esaminare alami dei tratti più rilevanti. Le acque simboleggiano la somma universale delle virtualità; esse , sono fotis et origo, il serbatoio di tutte le possibilità di esistenza; esse precedono tutte le forme e fanno da supporto ad ogni creazione. L ’im­ magine esemplare di ogni creazione è l’isola, la quale si « manifesta » all’improvviso in mezzo alle onde. L ’immersione nell’acqua, al contra­ rio, simboleggia la regressione nel pre formale, il reintegrare la moda­ lità indifferenziata della pre esistenza. L ’emersione ripete il gesto co­ smogonico della manifestazione formale; l’immersione equivale ad una dissoluzione delle forme. Il simbolismo delle Acque, quindi, implica sia la Morte che la Rinascita. Il contatto con l’acqua comporta sempre una rigenerazione poiché, da un lato alla dissoluzione fa seguito una « nuo­ va nascita », dall’altro l’immersione rende fertile e moltiplica il poten­ ziale di vita. Alla cosmogonia acquatica corrisponde—a livello antropo135

Simbolismo e storia

logico—le ilogenie, le credenze secondo cui il genere umano è nato dal­ le Acque. Al diluvio, ovvero alla sommersione periodica dei continenti (miti del tipo « Atlantide ») corrisponde, a livello dell’uomo, la « se­ conda morte» dell’anima (l’umidità e il leimon degli Inferni, ecc.) ov­ vero la morte iniziatica attraverso il battesimo. Tuttavia, tanto sul pia­ no cosmologico che su quello antropologico, l’immersione nelle Acque equivale non ad un’estinzione definitiva, bensì ad una passeggera rein­ tegrazione nell’indistinto, seguita da una nuova creazione, da una nuo­ va vita o da un uomo nuovo, a seconda che si tratti di un momento co­ smico, biologico o soteriologico. Dal punto di vista strutturale il « di­ luvio » è paragonabile al « battesimo » e la libagione funeraria alle im­ mersioni dei neonati oppure ai bagni rituali di primavera che procurano salute e fertilità. Qualunque sia l’insieme religioso in cui le si incontra, le Acque con­ servano invariabilmente la loro funzione: disintegrano le forme, le abo­ liscono, « lavano i peccati », sono ad un tempo purificatrici e rigenera­ trici. Il loro destino è quello di precedere la Creazione e di riassorbir­ la, giacché sono incapaci di andare al di là della loro modalità specifica, cioè di manifestarsi in forme determinate. Le Acque non possono tra­ scendere la condizione della virtualità, dei germi e delle latenze. Tutto ciò che è forma si manifesta al di sopra delle Acque, staccandosi da es­ se. Viceversa ogni « forma », non appena si è staccata dalle Acque, non appena ha cessato di essere virtuale, ricade sotto la legge del Tempo e della Vita; essa riceve dei limiti, partecipa al rivenire universale, subi­ sce la storia, si corrompe e finisce per svuotarsi della sua sostanza, a meno che non si rigeneri tramite immersioni periodiche nelle Acque e ripeta il « diluvio » con il suo corollario « cosmogonico ». I bagni lu­ strali e le purificazioni rituali con l’acqua hanno come obiettivo l’attualizzazione folgorante del momento atemporale (in ilio tempore) in cui ebbe luogo la creazione; essi costituiscono la ripetizione simbolica del­ la nascita dei mondi ovvero dell’« uomo nuovo ». Un tratto è essenziale qui: la sacralità delle Acque e la struttura del­ le cosmologie e delle apocalissi acquatiche non potrebbero essere rive­ late integralmente se non attraverso il simbolismo acquatico, in quanto esso è l’unico « sistema » in grado di integrare tutte le specifiche rive­ lazioni delle innumerevoli ierofanie (cfr. il nostro Traité, p. 383; ed. it. p. 466). È questa, d’altronde, la legge di ogni simbolismo: è l’insieme simbolico ciò che dà valore ai significati diversi delle ierofanie (e li cor­ regge!). Le « Acque della Morte », ad esempio, rivelano il loro signifi­ 136

Battesimo, diluvio e simbolismi acquatici

cato profondo solo nella misura in cui è nota la struttura del simboli­ smo acquatico. Questa particolarità del simbolismo non è priva di con­ seguenze per quel che riguarda 1’« esperienza » o la « storia » di un sim­ bolo qualsiasi. Nel richiamare le direttrici principali del simbolismo acquatico, ave­ vamo appunto in mente un punto ben preciso, ovvero la nuova messa in valore religiosa delle Acque instaurata dal cristianesimo. I Padri del­ la Chiesa hanno saputo sfruttare determinati valori precristiani e uni­ versali del simbolismo acquatico, arricchendoli di significati inediti, cor­ relati al dramma storico di Cristo. In altra sede {Traité, p. 175; ed. it. p. 203) abbiamo richiamato due testi patristici relativi rispettivamente ai valori sosteriologici dell’acqua e al simbolismo battesimale morterinascita. Per Tertulliano (De baptismo, m-v), l’acqua è stata per prima « la sede dello Spirito divino, il quale la preferiva allora a tutti gli altri elementi... All’acqua per prima è stato ordinato di produrre delle crea­ ture viventi... L ’acqua per prima ha prodotto ciò che è dotato di vita affinché il nostro stupore cessasse il giorno in cui, nel battesimo, avreb­ be generato la vita. Nella formazione dell’uomo stesso, Dio utilizzò l’ac­ qua per consumare la sua opera. Ogni acqua naturale, quindi, in virtù dell’antica prerogativa di cui fu onorata all’origine, acquista la virtù di santificazione nel sacramento, purché Dio sia invocato a tal fine. Non appena si pronunciano le parole, lo Spirito Santo, sceso dai cieli, si fer­ ma sulle acque e le santifica grazie alla sua fecondità; le acque così san­ tificate si impregnano a loro volta della virtù santificante... Ciò che un tempo guariva il corpo guarisce oggi l’anima; ciò che procurava la salu­ te nel tempo, procura la salvezza nell’eternità... » Il « vecchio uomo » muore per immersione nell’acqua e genera un essere nuovo, rigenerato. Questo simbolismo è ammirevolmente espres­ so da Giovanni Crisostomo ( Homil. in Job., xxv, 2) il quale, parlando della polivalenza simbolica del battesimo, scrive: « Esso rappresenta la morte e la sepoltura, la vita e la risurrezione... Quando tuffiamo la te­ sta nell’acqua come in un sepolcro, l’uomo vecchio è immerso, intera­ mente seppellito; quando usciamo dall’acqua, simultaneamente compa­ re l’uomo nuovo ». Come si può vedere, le interpretazioni elaborate da Tertulliano e da Giovanni Crisostomo si armonizzano perfettamente con la struttura del simbolismo acquatico. Eppure, in questa messa in valore delle Acque da parte del cristianesimo, intervengono determinati elementi di novità legati a una « storia », nel caso specifico la Storia sacra. I lavori recen­ 137

Simbolismo e storia

ti di P. Lundberg, di Jean Daniélou e di Louis Beirnaert hanno ampia­ mente dimostrato a qual punto il simbolismo battesimale sia saturo di allusioni bibliche *. Vi è, innanzitutto, la messa in valore del battesimo in quanto discesa nelPAbisso delle Acque per un duello con il mostro marino. Il modello a cui si rifà questa discesa è Cristo nelle acque del Giordano, evento che al tempo stesso era una discesa nelle Acque del­ la Morte. « Cirillo di Gerusalemme assimila, infatti, la discesa nella pi­ scina battesimale alla discesa nelle acque della morte, sede del drago marino, ad imitazione di Cristo che, in occasione del suo battesimo, scende nel Giordano a spezzare il potere del drago che vi è nascosto: 'Il drago Behemot secondo Giobbe, scrive Cirillo, abitava le acque e accoglieva nelle sue fauci il Giordano. Ora, poiché era necessario ta­ gliare le teste del drago, Gesù, disceso nelle acque, affrontò quel vio­ lento affinché noi acquistassimo il potere di camminare sugli scorpioni e i serpenti. Ecc.’ » 2. Sempre Cirillo mette in guardia il catecumeno: « Il drago è sul bordo della strada ed osserva coloro che passano, stai attento che non ti morda! Ti rechi dal Padre degli spiriti, però si deve passare per questo drago» (cit, Beirnaert, p. 272). Come vedremo tra poco, questa discesa e questo combattimento con il mostro marino co­ stituiscono una prova iniziatica attestata anche in tre religioni. Viene poi la valorizzazione del battesimo quale antitypos del dilu­ vio. Cristo, nuovo Noè uscito vittorioso dalle acque, è diventato capo di un’altra razza (Giustino, citato da Daniélou, Sacramentum futuri, p. 74). Quindi il diluvio raffigura sia la discesa nel profondo del mare che il battesimo. Secondo Ireneo esso è l’immagine della salvezza attraver­ so Cristo e della condanna dei peccatori (Daniélou, Sacramentum futuri. p. 72). « Il diluvio era perciò un’immagine che il battesimo porta a compimento... Come Noè aveva affrontato il mare della morte in cui l’umanità peccatrice era stata annientata e ne era riemerso, così il neo 1 P. Lundberg, La Typologie baptismale dans l'ancienne Eglise, Uppsala-Leipzig 1942; Jean Daniélou, sj, Sacramentum futuri. Etudes sur les origines de la typologie biblique, Paris 1950, pp. 13-20, 55-85 e passim-, id., Bible et Liturgie, Paris 1951, pp. 29-173 (tr. it. Bibbia e liturgia, Vita e pensiero, Milano 1958, pp, 25152); Louis Beirnaert, sj, « La dimension mythique dans le sacramentalisme chrétien » in Eranos-]ahrbuch, 1949, BD x v i i , Zürich 1950, pp. 255-286. I bei Jibri di Lundberg e J. Daniélou contengono inoltre copiose indicazioni bibliogra­ fiche. 2 J. Daniélou, Bible et Liturgie, pp. 58-59 (ed. it. pp. 54-55); cfr. anche, Sacra­ mentum futuri, pp. 58s.; Lundberg, op. cit., pp. 148s.

138

Battesimo, diluvio e simbolismi acquatici

battezzato scende nella piscina battesimale per affrontare il drago in uno scontro supremo ed uscirne vittorioso... » {ibid., p. 65). Tuttavia, sempre a proposito del rito battesimale, Cristo viene al­ tresì messo in parallelo con Adamo. Il parallelo Adamo-Cristo tiene già un posto considerevole nella teologia di San Paolo. « Con il battesimo, afferma Tertulliano, l’uomo recupera la somiglianza con Dio » (De bapt., v). Per San Cirillo, « il battesimo oltre che purificazione dei peccati e garanzia del dono dello Spirito Santo è anticipo della Passione di Cri­ sto » (citato da Daniélou in Bible et Liturgie, p. 61; ed. it. p. 59). La nudità battesimale comporta anch’essa un significato a un tempo rituale e metafisico: è l’abbandono della « vecchia tunica di corruzione e di pec­ cato che il battezzato depone ad imitazione di Cristo, la stessa di cui era stato rivestito Adamo dopo il peccato » (Daniélou, p. 55; ed. it. p. 50), ed inoltre il ritorno all’innocenza primitiva, alla condizione di Ada­ mo prima della caduta. « O meraviglia » scrive Cirillo. « Eravate nudi al cospetto di tutti e non ve ne vergognavate. In verità, recate in voi l’immagine del primo Adamo, nudo nel Paradiso, senza provarne vergo­ gna » (citato da Daniélou, p. 56; ed. it. p. 51). Il simbolismo battesimale non limita a questo la sua ricchezza di riferimenti biblici e soprattutto di reminiscenze paradisiache, tuttavia questi pochi testi bastano al nostro intento. Quel che ci sta a cuore, inoltre, non è tanto esporre il simbolismo battesimale quanto piuttosto fare il punto sulle innovazioni introdotte dal cristianesimo. I Padri del­ la Chiesa primitiva concepivano il simbolismo quasi esclusivamente co­ me tipologia: si preoccupavano di scoprire delle corrispondenze tra i due Testamenti3. Gli autori moderni tendono a seguire il loro esempio:; 3 Ricordiamo il senso e il fondamento della tipologia. « L ’origine di essa si trova nel Vecchio Testamento stesso. I Profeti—al tempo della cattività d’Israe­ le—annunciavano infatti che, in futuro, Dio avrebbe compiuto per il suo popolo opere analoghe, ed anzi ancor più straordinarie, di quelle che vide il passato. Un nuovo diluvio avrebbe distrutto il mondo peccatore e alcuni sarebbero stati pre­ servati per inaugurare una umanità nuova; vi sarebbe stato un secondo esodo—du­ rante il quale Dio, con la sua potenza, avrebbe liberato l’umanità dalla schiavitù degli idoli—e, infine, un nuovo Paradiso, nel quale Dio avrebbe introdotto il suo popolo liberato. Sono questi gli elementi costitutivi di una prima tipologia che potremmo chiamare escatologica, poiché, per i Profeti, tali avvenimenti non si compiranno che alla fine dei tempi. La tipologia non è dunque una creazione del Nuovo Testamento, che si è limitato ad indicarne la realizzazione nella persona di Gesù di Nazareth. Con Gesù, infatti, gli avvenimenti finali della pienezza dei tempi possono dirsi compiuti.

139

Simbolismo e storia

invece di reinserire il simbolismo cristiano nel quadro del simbolismo « generale », universalmente attestato dalle religioni del mondo non cri­ stiano, essi persistono nel metterlo in relazione unicamente con l’Anti­ co Testamento. Secondo questi autori ciò che nel simbolismo cristiano balza agli occhi non è il senso generale e immediato del simbolo, ben­ sì la sua messa in valore biblica. È un atteggiamento, questo, che si spiega perfettamente. Il fiorire degli studi biblici e tipologici nel corso dell’ultimo quarto di secolo de­ nota una reazione contro la tendenza a spiegare il cristianesimo sulla base dei misteri e delle gnosi sincretistiche ed anche una reazione con­ tro il « confusionismo » di certe scuole comparatiste. La liturgia e la simbolica cristiana si ricollegano direttamente al giudaismo. Il cristia­ nesimo è una religione storica, le cui radici affondano in un’altra reli­ gione storica, quella degli Ebrei. Di conseguenza, per spiegare o per meglio comprendere certi sacramenti o certi simbolismi è sufficiente ri­ cercarne le « figure » nell’Antico Testamento. Niente di più naturale nella prospettiva storicistica del cristianesimo: la rivelazione ha ayuto una storia-, la rivelazione primitiva, operata all’alba dei tempi, soprav­ vive ancora tra le nazioni, però è semi dimenticata, mutilata, corrotta; l ’unica via per accostarsi ad essa passa attraverso la storia d’Israele: la rivelazione è pienamente conservata soltanto nei libri sacri dell’Antico Testamento. Come vedremo meglio più avanti, la religione giudeo-cristiana si sforza di non perdere contatto con la storia sacra che, a diffe­ renza della « storia » di tutte le altre nazioni, è l’unica reale, l’unica che abbia significato, in quanto è Dio in persona a farla. I Padri della Chiesa, la cui preoccupazione prima era quella di ri­ collegarsi ad una storia che al tempo stesso era una rivelazione, ben at­ tenti a non essere confusi con gli « iniziati » delle diverse religioni mi­ steriche e delle molteplici gnosi che pullulavano alla fine dell’antichità, erano obbligati a rinchiudersi in questa posizione polemica: il rifiuto Egli ¿ il nuovo Adamo ed è giunto con lui il tempo del Paradiso futuro; in lui ¿ già realizzata la distruzione del mondo peccatore adombrata nel diluvio; in lui si compie il veto esodo, che libera il popolo di Dio dalla tirannide del demonio. La predicazione apostolica si è valsa della tipologia come di un argomento atto a stabilire la veridicità del suo messaggio, dimostrando come Cristo continui e superi il Vecchio Testamento: « Tutte queste cose avvennero in figure (typikós) e furono scritte per ammonirci (1 Cor 10,11). È quello che San Paolo chiama la consolatio Scripturarum (Rom 15,4) » (Jean Daniélou, Bible et Liturgie, pp. 9-10; ed. it. pp. 2-4).

Battesimo, diluvio e simbolismi acquatici

di qualsiasi « paganesimo » età indispensabile per il trionfo del messag­ gio di Cristo. Ci si può domandare se ai giorni nostri un tale atteggia­ mento polemico si imponga ancora in modo così rigoroso. Non parlia­ mo in veste di teologo, ché non ne abbiamo né la responsabilità né la competenza. Tuttavia per qualcuno che non si sente chiamato a dover render conto della fede dei suoi simili, è evidente che il simbolismo giQdeo-cristiano del battesimo non contraddice minimamente il simboli­ smo acquatico universalmente diffuso. In esso si ritrova tutto: Noè e il diluvio hanno come corrispettivo in innumerevoli tradizioni il catacli­ sma che ha posto fine ad un’« umanità » (« società ») fatta eccezione di un solo uomo che diventerà l’Antenato mitico di una nuova umanità. Le « Acque della Morte » sono un motivo conduttore delle mitologie paleo-orientali, asiatiche ed oceaniche. L ’acqua « uccide » per eccellen­ za: essa dissolve, abolisce ogni forma. Proprio per questo motivo è ric­ ca di « germi », creativa. Nemmeno il simbolismo della nudità battesi­ male è prerogativa della tradizione giudeo-cristiana. La nudità rituale equivale all’integrità e alla pienezza; il « Paradiso » implica l’assenza dei « vestiti », cioè l’assenza dell’« usura » (immagine archetipa del Tem­ po). Quanto alla nostalgia del Paradiso, essa è universalmente diffusa, sebbene le sue manifestazioni presentino una varietà quasi infinita (cfr. anche Tratti, p. 327ss.; ed. it. pp. 394ss.). La nudità rituale implica sempre un modello intemporale, un’immagine paradisiaca. I mostri dell’abisso si incontrano in numerose tradizioni: gli Eroi, gli Iniziati, scendono nel fondo dell’abisso per affrontare i mostri mari­ ni; è questa una prova tipicamente iniziatica. Certo, le varianti abbon­ dano: a volte i draghi sono di guardia intorno a un « tesoro », imma­ gine sensibile del sacro, della realtà assoluta; la vittoria rituale ( = ini­ ziatica) rontro il mostro-guardiano equivale alla conquista dell’immor­ talità (cfr. Traiti, pp. 182s., 252s.; ed. it. pp. 215s., 299s.). Il battesi­ mo, per il cristiano, è un sacramento in quanto è stato istituito da Cri­ sto, ma dò non toglie che esso riprende il rituale iniziatico della prova ( = lotta contro il mostro), della morte e della risurrezione simbolica ( = la nascita dell’uomo nuovo). Non sosteniamo che il giudaismo e il cristianesimo hanno « mutuato » questi miti e questi simboli alle reli­ gioni dei popoli vicini* non era necessario: il giudaismo era l’erede di una preistoria e di una lunga storia religiosa in cui tutte queste cose già esistevano. Non era nemmeno necessario che un determinato simbolo fosse conservato « sveglio », nella sua integrità, dal giudaismo; bastava che un gruppo di immagini sopravvivesse, se pur oscuramente, fin dai 141

Simbolismo e storia

tempi pre mosaici: simili immagini erano in grado di ritrovare in qual­ siasi momento una vigorosa attualità religiosa. Certi Padri della Chiesa primitiva hanno valutato l’interesse insito nella corrispondenza tra le immagini archetipe proposte dal cristianesi­ mo e le Immagini che sono patrimonio comune dell’umanità. « Una del­ le loro più costanti preoccupazioni è appunto quella di manifestare agli increduli la corrispondenza tra i grandi simboli immediatamente espres­ sivi e persuasivi per la psiche e i dogmi della nuova religione. Per co­ loro che negano la risurrezione dei morti, Teofilo di Antiochia chiama in causa gli indizi (tex[rf)pia) che Dio mette a loro portata nei grandi fenomeni naturali: inizio e fine delle stagioni, dei giorni e delle notti. Arriva al punto di dire: ‘Non vi è forse una risurrezione per le semen­ ti e la frutta?’. Per Clemente Romano, ‘il giorno e la notte ci mostrano la risurrezione: la notte si ritira, il giorno si alza; il giorno se ne va, la notte arriva » (Beirnaert, op. cit. ,p. 275). Per gli apologeti cristiani le immagini erano cariche di segni e di messaggi; esse mostravano il sa­ cro attraverso i ritmi cosmici. La rivelazione portata dalla fede non di­ struggeva i significati « primari » delle Immagini, ma si limitava sem­ plicemente ad aggiungere ad esse un nuovo valore. Certo, per il creden­ te, questo nuovo significato eclissava gli altri: lui soltanto valorizzava l’immagine, la trasfigurava in rivelazione. Ciò che importava era la ri­ surrezione di Cristo e non gli « indizi » che si potevano leggere nella natura; nella maggior parte dei casi i « segni » si capivano soltanto do­ po aver trovato, nel fondo della propria anima, la fede. Il mistero del­ la fede, tuttavia, interessa l’esperienza cristiana, la teologia e la psico­ logia religiosa e va al di là d^lla nostra ricerca; nella prospettiva da noi scelta solo una cosa importa: il fatto che ogni nuova messa in valore è sempre stata condizionata dalla struttura stessa dell’immagine, a tal punto che di un’immagine si può dire che essa attende che il suo signi­ ficato si compia. « Il R.P. Beirnaert, procedendo ad un’analisi delle immagini battesi­ mali, dà atto dell’esistenza di « un rapporto tra le rappresentazioni dog­ matiche, le espressioni simboliche della religione cristiana e gli arche­ tipi attivati dai simboli naturali. Del resto come potrebbero i candidati al battesimo capire le immagini simboliche che vengono loro proposte se esse non corrispondessero ad una loro oscura aspettativa? » (op. cit., p. 276). L’autore non si stupisce che « molti cattolici abbiano ritrovato la via della fede grazie ad esperienze del genere » (ibid.). Va da sé, con­ tinua il R.P. Beirnaert, che l’esperienza degli archetipi non spodesta 142

Immagini archetipe e simbolismo cristiano

l’esperienza della fede: « Ci si può incontrare in un comune riconosci­ mento del rapporto che intercorre tra i simboli religiosi e la psiche e malgrado ciò continuare ad essere divisi in credenti e non credenti. Ciò vuol dire, quindi, che la fede è altra cosa rispetto a questo riconosci­ mento [...] L ’atto di fede opera dunque nel mondo delle rappresenta­ zioni archetipe una linea di divisione. Ormai il serpente, il drago, le te­ nebre, Satana, designano ciò a cui si rinuncia. Si riconoscono come uni­ che rappresentazioni in grado di mediare la salvezza quelle che vengo­ no proposte come tali dalla comunità storica » [ibid., p. 277).

Immagini archetipe e simbolismo cristiano Purtuttavia, e il R.P. Beirnaert lo riconosce, anche se le immagini; e il simbolismo della sfera sacramentale cristiana non rimandano il cre­ dente « innanzitutto a miti e ad archetipi immanenti, benèì all’inter­ vento del Potere divino nella storia, questo nuovo significato non deve offuscare la permanenza del senso antico. Rappresentando le grandi fi-: gure e costruzioni simboliche dell’uomo religioso naturale, il cristiane- f simo ne ha altresì ripreso le virtualità e i poteri sulla psiche profonda.! La dimensione mitica e archetipica, pur essendo ormai subordinata a un’altra dimensione, non per questo è meno reale. Il cristiano può be- : nissimo essere un uomo che ha rinunciato a cercare la salvezza spiritua­ le nei miti e nell’esperienza esclusiva degli archetipi immanenti, ma non per questo ha rinunciato a tutto quel che significano ed operano per , l’uomo psichico, per il microcosmo [...]. La ripresa ad opera di Cristo e della Chiesa delle grandi immagini del sole, della luna, del bosco, del l’acqua, del mare, ecc., significa un’evangelizzazione dei poteri affettivi f così designati. Non bisogna ridurre l’incarnazione alla pura assunzione della carne: Dio è intervenuto fin nell’inconscio collettivo per salvarlo e realizzarlo. Cristo è sceso agli Inferni. In che modo quindi questa sal­ vezza raggiungerà il nostro inconscio se non parla la sua lingua, se non riprende le sue categorie? » (L. Beirnaert, pp. 284-285). Questo testo contiene alcune importanti precisazioni circa i rappor­ ti tra i simbolismi «immanenti» e la fede. Come abbiamo detto, il problema della fede è estraneo alle considerazioni fatte in questa sede. Uno dei suoi aspetti, però, ci interessa: la fede cristiana è sospesa ad una rivelazione storica: è la manifestazione di Dio nel tempo e questo garantisce, agli occhi dei cristiani, la validità delle immagini e dei sim­ 143

Simbolismo e storia

boli. Abbiamo mostrato che il simbolismo acquatico « immanente » non è stato abolito e nemmeno disarticolato a seguito delle interpreta”'oni locali e storiche del simbolismo battesimale giudeo-cristiano. Per primerci in maniera un po’ semplicistica diremo che la storia non riee a modificare in modo radicale la struttura di un simbolismo « im­ ánente ». La storia aggiunge in continuazione nuovi significati i quali, ¡[tuttavia, non distruggono la struttura del simbolo. Vedremo più avan­ ti le conseguenze che ne derivano sul piano della filosofia della storia e della morfologia della cultura. Per il momento soffermiamoci ancora su alcuni esempi. Abbiamo parlato (v.s. pp. 39s) del simbolismo dell’Al­ bero del Mondo. Il cristianesimo ha utilizzato, interpretato, ampliato questo simbolo. La Croce, costruita con il legno dell’Albero del bene e del male, prende il posto dell’albero cosmico; Cristo stesso viene de­ scritto come un Albero (Origene). Un’omelia dello Pseudo Crisostomo evoca la Croce paragonandola ad un albero che « sale della terra ai cie­ li. Pianta immortale, esso si eleva al centro del cielo e della tèrra: so­ stegno solido dell’universo, legame di tutte le cose, supporto di tutta la terra abitata, intreccio cosmico che comprende in sé tutta la varietà del­ la natura urnana... ». « E la liturgia bizantina canta ancora oggi, nel giorno dell’Esaltazione della Santa Croce, ‘l’albero della vita piantato sul Calvario, l’albero su cui il re dei secoli ha operato la nostra salvez­ za’, ‘s’è innalzato al centro di questa’ e ‘santifica fino ai confini dell’universo’ » 4. L ’Immagine dell’Albero Cosmico si conserva sorprendente­ mente pura. Con ogni probabilità il prototipo sarebbe da ricercare nel­ la Saggezza che, secondo i Proverbi, in, 8 « è un albero di vita per chi ad essa si attiene». Quésta saggezza, commenta de Lubac (op. cit., p. 71; ed. it. p. 64) « per gli ebrei sarà la Legge, per i cristiani sarà il fi­ glio di Dio ». Altro prototipo probabile è l’albero visto in sogno da Nabucodonosor (Dn 4, 7-15): « Io stavo guardando ed ecco un albero di grande altezza in mezzo dia terra, ecc. ». Il R.P. de Lubac ammette che, al pari del simbolo dell’Albero Co­ smico delle tradizioni indiane, l’immagine della Croce = Albero del Mondo è il prolungamento, nell’ambito del cristianesimo, di « antiche speculazioni mitologiche * (op. cit., p. 75; ed. it. p. 70). Egli, però, si

È

4 Henri de Lubac, Aspects du Bouddhisme, Paris 1951, pp. 57, 66-67 (tr. it. Aspetti del Buddismo, Jaca Book, Milano 1980, pp.'47, 59-60). Su questo proble­ ma, cfr. R. Bauerreiss, Arbor Vitae. « Lebensbaum » und seine Vertoandung in Liturgie, Kunst und Braucbtum des Abendlandes, Munich 1938, Abhandlungen der Bayerischen Benediktiner-Akademie, ni.

144

Immagini archetipe e simbolismo cristiano

affretta a mettere in evidenza le innovazioni apportate dal cristianesi­ mo. Si osserva, ad esempio, nel seguito dell’omelia dello pseudo Criso­ stomo, che l’Universo è la Chiesa: « essa è il nuovo macrocosmo, di cui l’anima cristiana è l’analogo in miniatura * (ibid., p. 77; ed. it. p. 72). Pur essendo convinto che l’utilizzo, nel buddhismo come nel cristianesi­ mo, di un’immagine del genere « non è dopo tutto che un fatto di lin­ guaggio » (p. 76; ed. it. p. 71), l’eminente teologo sembra attribuire un’importanza esagerata alle specificità storiche: « Ma tutta la questio­ ne sta nel sapere quali sono, in ciascun caso, il genere e il grado di ori­ ginalità della ‘versione particolare’ » (ibid., nota 101). La questione si riduce davvero a questo? Siamo davvero condannati ad accontentarci unicamente dell’analisi esaustiva delle « versioni parti­ colari » che, in fin dei conti, rappresentano ima storia locale? Non ab­ biamo nessun mezzo di approccio all’immagine, al simbolo, all’archeti­ po, in quella che è la loro struttura, in quella totalità che abbraccia tut­ te le « storie * pur senza confonderle? Numerosi testi patristici e litur­ gici paragonano la Croce a una scala, a una colonna o a una montagna (de Lubac, op. cit., pp. 64-68; ed. it. pp. 55-60), tutte immagini che, co­ me si ricorderà, sono formule universalmente attestate del « Centro del Mondo ». La Croce è stata assimilata all’Albero Cosmico nella sua qua­ lità di simbolo di Centro del Mondo. È la dimostrazione die YImmagi­ ne del Centro si imponeva naturalmente allo spirito cristiano. La comu­ nicazione con il Cido avviene tramite la Croce ( = Centro) e, di colpo, l’intero Universo viene « salvato » (v.s. p. 39). Orbene, l’idea di « sal­ vezza » non fa che riprendere e completare le nozioni di perpetuo rin­ novamento e di rigenerazione cosmica, di fecondità universale e di sa­ cralità, di realtà assoluta e in fin dei conti di immortalità, tutte nozio­ ni che coesistono nel simbolismo dell’Albero del Mondo (cfr. il nostro Traité, pp. 234s.; ed. it. pp. 282s.). Non d si fraintenda: non contestiamo l’importanza della storia e, , nd caso d d giudeo-cristiànesimo, della fede, per giudicare d suo giusto \ valore un determinato simbolo così come esso era inteso e vissuto in unaji cultura ben precita, anzi più avanti insisteremo su questo punto. Il pro­ blema essenzide, però, non verrà risolto « situando » un simbolo nella i sua storia, poiché si tratta di capire dò che ci viene rivdato non da una | « versione particolare » di un simbolo bensì dalla totalità di un simbolismo. Si vede già che i diversi significati di un simbolo sono concate­ nati, sono solidali tra loro come in un sistema; le contraddizioni che è possibile individuare tra le diverse versioni particolari, il più delle voi145

Simbolismo e storia te sono solo apparenti e si risolvono non appena si considera il simboli­ smo nel suo insieme* non appena se ne mette in luce la struttura. Ogni nuova messa in valore di un’immagine archetipa corona e consuma quelle antiche: la « salvezza » rivelata dalla Croce non annulla 1 valori pre cristiani dell Albero del Mondo, simbolo della renovatio integr4? per eccellenza, al contrario la Croce costituisce il coronamento di tutte le altre valenze e significati5. Osserviamo una volta di più che questa nuova valorizzazione determinata dall’identificazione Albero Cosmico = Croce, si è prodotta nella storia e attraverso un evento storico: la Pas­ sione di Cristo. Lo si vedrà subito: la grande originalità della religione giudeo-cristiana è stata la trasfigurazione della Storià in teofania. Ecco un altro esempio: è noto che lo sciamano discende agli Infer­ ni per cercare e riportare indietro l’anima del malato, anima che è stata rapita dai demoni *. Orfeo, a sua volta, scende agli Inferni per riportare indietro la sua sposa appena morta, Euridice. Miti analoghi esistono in altre parti del mondo: in Polinesia, in America del Nord, in Asia cen­ trale (dove il mito è parte costitutiva di una letteratura orale di struttu­ ra sciamanica), si racconta che un eroe scende agli Inferni per recupera­ re l’anima della moglie morta: nei miti polinesiani e centro asiatici vi 5 II simbolismo è rafforzato dal fatto che l’Albero di Vita, nella decorazione dei battisteri, è posto di fianco al Cervo, altra immagine arcaica del rinnovamento ciclico (cfr. Henri-Charles Puech, « Le Ceif et le Serpent » in Cahiers archéólogiques, iv, 1949, pp. 17-60, specialmente pp. 29s.). Orbene, nella Cina protostorica, nell’Aitai', in certe culture dell’America Centrale e Settentrionale (soprattutto tra i Maya e i Pueblo), il cervo è uno dei simboli della creazione continui! e della renovatio, per l’appunto a causa del periodico rinnovarsi delle corna; cfr. C. Hentze, « Comment il faut lire l’iconographie d’un vase en bronze chinois de la période Chang» in Conferenze i s m e o , voi. i, Roma 1951, pp. 1-60, pp. 24s.; id., Bronzegeràt Kultbauten, Religion im altesten China dér Shang-Zeit, Antwerpen 1951, pp. 210s. Nelle tradizioni greche, il cervo si rinnova mangiando serpenti ed abbeverandosi subito dopo alle acque di una sorgente: le coma cadono e il cervo è ringiovanito per cinquanta o per cinquecento anni (cfr. i rinvii in Puech, p. 29). L’inimicizia tra il cervo e il serpente è di ordine cosmologico: il cervo è collegato con il fuoco e l’aurora (Cina, Aitai, America, ecc.), il serpente è una delle Imma­ gini della Notte e della vita larvale, sotterranea. Il serpente, però, è a sua volta un simbolo del rinnovamento periodico, sebbene su un livello diverso. Di fatto la contrapposizione cervo (o aquila )-serpente è piuttosto l’immagine dinamica di una « coppia di opposti » che devono essere reintegrati. ,6 Su tutto questo, cfr. il nostro libro Le Chamanisme et les techniques archàiques de l’extase, Payot, Paris, 1951 (tr. it. Lo sciamanismo e le tecniche dell'estasi. Ed. Mediterranee, Roma 1974).

146

Immagini archetipe e simbolismo cristiano

riesce, mentre in quelli nord americani fallisce al pari di Orfeo. Non dobbiamo aver fretta di trarre una conclusione in un senso o nell’altro. Limitiamoci a registrare un dettaglio: Orfeo è il cantore che doma gli animali feroci, il medico, il poeta e il civilizzatore, insomma riunisce nella sua persona proprio le funzioni che spettano allo sciamano delle « società primitive ». Costui è più che un guaritore e uno specialista delle tecniche dell’estasi, è anche l’amico e il signore delle bestie feroci, ne imita la voce, si trasforma in animale ed è inoltre cantore, poeta, ci­ vilizzatore. Osserviamo, per concludere, che anche Gesù scende agli In­ ferni, per salvare Adamo, per restaurare l’integrità dell’uomo decaduto a causa del peccato (e una delle conseguenze della decadenza è stata ap­ punto la perdita del suo dominio sugli animali). È lecito considerare Orfeo uno « sciamano » e paragonare la disce­ sa di Cristo agli Inferni alle analoghe discese degli sciamani in estasi?,. Tutto vi si oppone: nelle diverse culture e religioni— siberiana o nord americana, greca, giudeo-cristiana— queste discese sono valorizzate in modo molto diverso. Inutile insistere su queste differenze che balzano agli occhi. Un elemento, comunque, rimane immutabile e non deve es­ sere perso di vista: il persistere del motivo della discesa agli Inferni compiuto per la salvezza di un’anima, l’anima di un malato qualsiasi (sciamanismo stricto sensu), della sposa (miti greci, nord americani, po­ linesiani, centro asiatici) o dell’umanità tutta intera, poco importa per il momento. La discesa, questa volta, non è più soltanto iniziatica e in­ trapresa per un vantaggio personale, ma ha uno scopo « salvifico »: si « muore » e si « risuscita » non più per completare un’iniziazione già acquisita, bensì per salvare un’anima. Una nuova nota caratterizza l’ar­ chetipo dell’iniziazione: la morte simbolica non serve unicamente alla propria perfezione spirituale (in definitiva, la conquista dell’immortali­ tà), ma si realizza per la salvezza degli altri. Non abbiamo affatto la pre­ tesa di indicare nello sciamano primitivo o nell’Orfeo nord americano o polinesiano la prefigurazione di Cristo. Ci limitiamo a constatare che l’archetipo dell’iniziazione contiene anche questa valenza della « mor­ te » ( = discesa agli Inferni) a vantaggio di un altro. (Osserviamo al passaggio che la seduta sciamanica, nel corso della quale si verifica la « discesa agli Inferni » equivale ad un’esperienza mistica; lo sciamano è « fuori di sé », la sua anima ha abbandonato il suo corpo). Un’altra esperienza sciamanica fondamentale è l’ascensione celeste: tramite l’Albero Cosmico, piantato nel « Centro del Mondo », lo scia­ mano penetra nel Cielo e vi incontra il dio supremo. È noto che tutti 147

Simbolismo e storia

i mistici utilizzano il simbolismo dell’ascensione per raffigurare l’eleva­ zione dell’anima umana e l’unione con Dio. Nulla permette di dichiara­ re identiche l’ascensione celeste dello sciamano, quella di Buddha, di Maometto o di Cristo. Questo non toglie, tuttavia, che la nozione di trascendenza si esprime universalmente attraverso un’immagine di ele; vazione e che l’esperienza mistica, qualunque sia la religione che la ve­ de nascere, implica sempre un’ascensione in cielo. Meglio ancora: certe H§>èrienze sciamaniche fanno intervenire delle esperienze fotiche che assomigliano come due gocce d’acqua ad analoghe esperienze dei grandi mistici storici (India, Estremo Oriente, mondo mediterraneo, cristiane­ simo). Secondo i Padri della Chiesa, la vita mistica consiste in un ritorno al Paradiso7. Una delle caratteristiche della restaurazione paradisiaca sarà per l’appunto il dominio sugli animali, che già costituisce la prero­ gativa degli sciamani e di Orfeo. Orbene il ritorno al Paradiso si ritro­ va nelle forme arcaiche e primitive di misticismo che vengono comune­ mente riunite sotto il nome di sciamanismo. Abbiamo già mostrato in altra sede che la transe sciamanica ricrea la situazione dell’uomo primor­ diale: nel corso di essa lo sciamano recupera l’esistenza paradisiaca dei Primi Esseri Umani, i quali non erano separati da Dio. In effetti le tra­ dizioni ci parlano di un tempo mitico in cui l’uomo comunicava diret­ tamente con gli dei del cielo: scalando una montagna, arrampicandosi su un albero, su una liana, ecc. i Primi Uomini erano in grado di salire, realmente e senza sforzo, in Cielo. Gli Dei, dal canto loro, scendevano regolarmente sulla terra per mescolarsi agli Umani. A seguito di un evento mitico qualsiasi (generalmente una pecca rituale), le comunica­ zioni tra il Cielo e la Terra si sono interrotte (l’Albero, la liana, sono stati tagliati, ecc.) (In svariate tradizioni questo allontanamento del dio celeste si è tradotto nella sua ulteriore trasformazione in deus otiosus). Lo sciamano, tuttavia, grazie ad una tecnica di cui possiede il segreto, riesce a ristabilire—in via provvisoria e per suo uso personale—le co­ municazioni con il Cielo ed a riprendere il dialogo con il Dio. In altri termini riesce ad abolire la storia (tutto il tempo che è trascorso dal mo­ mento della « caduta », della rottura delle comunicazioni dirette tra Gelo e Terra); torna indietro, ritrova la condizione paradisiaca primor7 Cfr. Dom Stolz, Theologie de la mystique-, J. Daniélou, Sacramentum futuri. Si tratta piuttosto di. un’anticipazione, dal momento che la pienezza della reintegra­ zione del Paradiso sarà realizzata solo dopo la morte.

148

Immagini archetipe e simbolismo cristiano

diale. Questo ritrovamento di un illud tempus mitico che si opera nel­ l ’estasi sciamanica può essere considerata vuoi la condizione, vuoi la con­ seguenza del ritrovamento della condizione paradisiaca. In ogni caso è chiaro che l’esperienza mistica dei « primitivi » è legata anch’essa al ri­ trovamento estatico del « Paradiso » *. La questione non sta nello spiegare la mistica giudeo-cristiana tra- i" mite lo sciamanismo né nell’identificare « elementi sciamanici » nel cri- X stianesimo. Vi è però un punto la cui importanza non può sfuggire a ' nessuno: l’esperienza mistica dei « primitivi », al pari della vita misti- ^ ca dei cristiani, implica il ritrovamento della condizione paradisiaca pri- | mordiale. L ’equivalenza vita mistica = ritorno al Paradiso non è quin- f di un hapax giudeo-cristiano, creato dall’intervento di Dio nella storia; if è un « dato » umano universale di incontestata antichità. —Jfe Osserviamo, ancora ima volta, che 1’« intervento di Dio nella sto­ ria », cioè la rivelazione divina fatta nel Tempo, riprende e rafforza una « situazione atemporale ». La rivelazione che il giudeo-cristianesimo ri­ ceve unicamente in un tempo storico che non si ripete più e che ha co­ me risultato di trasformarlo in una storia a senso unico, è una rivelazio­ ne che l’umanità arcaica conserva nei miti; eppure tanto l’esperienza mistica dei « primitivi » che la vita mistica dei cristiani si traducono at­ traverso un archetipo identico: il ritrovamento del Paradiso originale. Ben si vede che la storia—nel caso specifico la Storia Sacra—non ha portato nessuna innovazione: tra i primitivi come tra i cristiani è sem­ pre un ritorno paradossale in illud tempus, un « salto all’indiétro » che abolisce il tempo e la storia ciò che costituisce il ritrovamento mistico del paradiso. Di conseguenza, il simbolismo biblico e cristiano, per quanto carico di un contenuto storico in fin dei conti « provinciale »— dal momento che ogni storia locale è provinciale rispetto alla storia universale consi­ derata nella sua totalità—rimane pur sempre universale, al pari di qual­ siasi simbolismo coerente. Ci si può addirittura chiedere se 1’« accessi- j bilità » del cristianesimo non sia in gran parte dovuta al suo simbolismo, * Ben s’intende che l’esperienza estatica dello sciamanismo non può essere ri­ dotta a questo « ritorno al Paradiso »: in essa si ritrovano una quantità di altri eie* menti. Avendo consacrato un intero libro a questo problema estremamente com­ plesso, non riteniamo necessario riprendere una volta ancora la discussione. Osser­ viamo tuttavia che l’iniziazione sciamanica consiste in un’esperienza estatica di morte e di risurrezione, esperienza decisiva che si incontra in tutte le mistiche sto­ riche, compresa quella cristiana.

149

Simbolismo e storia

ss**

|se le I|pfaagif»i»nnigefsfl1i che riprende a sua volta non abbiano facili­ tato in modo considerevole la diffusione del suo messaggio. In prima istanza, infatti, c’è una questione che turba il non cristiano: come può una storia locale—la storia del popolo ebraico e delle prime comunità giudeo-cristiano—pretendere di assurgere a modello di ogni manifesta­ zione divina nel Tempo concreto, storico? Riteniamo di aver già abboz­ zato la risposta: la storia sacra, benché agli occhi di un osservatore estra­ neo sia una storia locale, è altresì una storia esemplare, giacché ripren­ de e perfeziona delle Immagini trans temporali. Da dove viene, allora, l’impressione irresistibile, avvertita soprat­ tutto dai non cristiani, che il cristianesimo ha innovato rispetto alla re­ lig io sità anteriore? Per un indù che simpatizza con il cristianesimo l’in­ novazione che colpisce maggiormente (se si lascia da parte il messaggio o la divinità di Cristo) consiste nella valorizzazione del Tempo, in ulti­ ma istanza nella salvezza del Tempo e della Storia9. Si rinuncia alla,re­ versibilità del Tempo ciclico, si impone un Tempo irreversibile dal mo­ ménto che, questa volta, le ierofanie manifestate dal Tempo non sono più ripetibili: Cristo è vissuto, è stato crocefisso, è risuscitato una vol­ ta sola. Ne deriva una pienezza dell’istante, un’ontologizzazione del Tempo: il Tempo riesce ad essere, il che significa che cessa di divenire, che si trasforma in eternità. Osserviamo subito che non è un momento temporale qualsiasi che intacca l’eternità, ma soltanto il « momento fa­ vorevole », l’istante trasfigurato da una rivelazione (che questo « mo­ mento favorevole » venga chiamato kairos oppure no). Il Tempo diven­ ta un valore nella misura in cui JQio si manifesta attraverso di lui, gli conferisce un significato trans storico e un intento soteriologico: in ogni nuovo intervento di Dio nella storia non si trattava forse sempre della salvezza dell’uomo, ovvero di qualcosa che con la storia non ha nulla a che vedere? Il Tempo diventa pienezza in virtù del fatto stesso dell’in­ carnazione del Verbo divino; tuttavia questo stesso fatto trasfigura la storia. Come potrebbe essere vano e vuoto il Tempo che ha visto na­ scere, soffrire, morire e risuscitare Gesù? Come potrebbe essere rever­ sibile e ripetibile a i infinitum? 9 Cfr. la conferenza di Henri-Charles Puech, « Temps, Histoire et Mythe dans le christianisme des premiere siècles » in Proceedings of -thè viith Congress for thè History of Religioni, Amsterdam 1951, pp. 33-52; cfr. anche il nostro Mythe de l’Eternel Retour, pp. 152s. (tr. it. Il mito dell’eterno ritorno, Rusconi, Milano 1975, pp. llOs.) e Karl Lowith, Meaning in History, Chicago 1949 (tr. it. Ed. Co­ munità, Milano 1963).

150

Immagini archetipe e simbolismo cristiano

Dal punto di vista della storia delle religioni, il giudeo-cristianesimo ci presenta la ierofania suprema: la trasfigurazione dell'evento sto­ rico in ierofania. Si tratta di qualcosa che va al di là della ierofanizzazione del Tempo, poiché il Tempo sacro è una nozione familiare a tutte le religioni. Questa volta è l’evento storico in sé che rivela il massimo di trans storicità: Dio non si limita a intervenire nella storia, come av­ veniva nel giudaismo, egli si incarna in un essere storico per subire un’esistenza storicamente condizionata; nelle apparenze, Gesù di Naza­ reth non si distingue affatto dai palestinesi suoi contemporanei. In ap­ parenza il divino si è totalmente eclissato nella storia: nulla lascia in­ travedere nella fisiologia, la psicologia o la « cultura » di Gesù, il Dio Padre in persona; Gesù mangia, digerisce, soffre di sete o di caldo al pari di qualsiasi altro ebreo di Palestina. In realtà, però, 1’« evento sto­ rico » che costituisce l’esistenza di Gesù è una teofania totale; in esso vi è una sorta di sforzo audace mirante a salvare l’evento storico in quanto tale, accordandogli il massimo di essere. Malgrado il valore che attribuisce al Tempo e alla Storia, la religio­ ne giudeo-cristiana non approda allo storicismo bensì a una teologia del­ la Storia. L ’evento è valorizzato non per se stesso, ma unicamente per la rivelazióne che esso comporta, rivelazione che lo precede e lo trascen­ de. Lo storicismo in quanto tale è un prodotto di decomposizione del cristianesimo; esso ha potuto costituirsi solo nella misura in cui si era persa la fede in una trans storicità dell’evento storico. Un fatto comunque rimane: il cristianesimo si sforza di salvare la storia, innanzitutto poiché accorda un valore al tempo storico, poi per­ ché, per il cristiano, l’evento storico, pur rimanendo quello che è, diven­ ta capace di trasmettere un messaggio trans-storico: tutto sta nel deci­ frare questo messaggio. Che, dopo l’incarnazione di Cristo, il cristiani deve cercare gli interventi di Dio non soltanto nel cosmo (con l’ausilio j delle ierofanie cosmiche, delle Immagini e dei simboli), ma anche negli eventi storici. L ’impresa non sempre è facile: si decifrano senza troppe difficoltà i « segni » della presenza divina nel Cosmo, però « segni » si­ mili sono anche camuffati nella storia. In effetti il cristiano ammette che dopo l’incarnazione il miracolo non è più facilmente riconoscibile: dal momento che il « miracolo » più grande è stata per l’appunto l’incarnazione, tutto ciò che si manifesta­ va chiaramente come miracolo prima di Gesù Cristo, non ha più senso né utilità dopo la sua venuta. Esiste, ben s’intende, una serie ininterrot­ ta di miracoli accettati dalla Chiesa, ma tutti sono stati accettati come 151

Simbolismo e storia

validi in quanto dipendenti da Cristo, non per la loro qualità intrinseca di « miracolo ». (È noto che la Chiesa opera una accurata distinzione tra i miracoli dovuti alla « magia » e al « demonio » e quelli accordati tramite la grazia). L ’esistenza e la validità dei miracoli accettati dalla Chiesa lasciano purtuttavia aperto il grande problema òsXl’irriconosci­ bilità del meraviglioso nel mondo cristiano, che ci si può benissimo tro­ vare vicinissimi a Cristo, imitarlo, senza manifestare alcun segno visibi­ le di ciò: si può imitare il Cristo che vive la sua esistenza storica, quel­ la che in apparenza assomigliava alla vita di tutti. Insomma il cristiano è portato ad accostarsi ad ogni evento storico in atteggiamento « timo­ roso e tremante », giacché ai suoi òcchi l’evento storico più banale, pur continuando a rimanere « reale » (cioè storicamente condizionato) può nascondere un nuovo intervento di Dio nella storia; in ogni caso, tale avvenimento può avere un significato trans storico, può portare un mes­ saggio. Per il cristiano, dunque, la vita storica in sé può diventare glo­ riosa: la vita di Cristo e dei Santi stanno a testimoniarlo. Con il Cri­ stianesimo il Cosmo e le Immagini non sono più gli unici ad avere il compito di raffigurare e di rivelare—c’è anche la Storia, soprattutto la « storia minore », quella costituita da eventi in apparenza privi di signi­ ficato10. Ciò è fuori dubbio, tuttavia non bisogna perdere di vista il fatto che il cristianesimo è intervenuto nella storia per abolirla; la massima spe­ ranza del cristiano riposa nella seconda venuta di Cristo, la quale porrà fine alla Storia. Da un certo punto di vista, per ogni cristiano, indivi­ dualmente, questa fine e l’eternità che la seguirà, il paradiso ritrovato, 10 Le espressioni «storia» e «storico» possono dar adito a confusione: esse indicano, da un lato, tutto ciò che vi è di concreto e di autentico in un’esistenza umana, contrapposto all’esistenza inautentica, costituita da evasioni e automatismi di ogni genere. D’altro lato, nelle diverse correnti storicistiche ed esistenzialistiche, le espressioni « storia » e « storico » sembrano implicare che l’esistenza umana è autentica solo nella misura in cui essa è ridotta dia presa di coscienza del suo• momento storico. È a quest’ultima accezione, totalitaria, che facciamo riferimento nel dichiarare la nostra opposizione agli « storicismi ». Ci sembra, in effetti, che l’autenticità di un’esistenza non possa limitarsi alla coscienza della propria stori­ cità: non si possono considerare « evasione » e « inautenticità » le espressioni fon­ damentali dell’amore, dell’angoscia, del sacro, dell’emozione estetica, della con­ templazione, della gioia, della malinconia, ecc., ciascuna delle quali utilizza un ritmo temporale che le è proprio e tutte insieme concorrono nel costituire ciò che si potrebbe chiamare l’uomo integrale, il quale non si sottrae al suo momento storico, ma nemmeno si lascia identificare ad esso.

152

Simboli e cultura

possono aver luogo fin da ora. Quel tempo annunciato da Cristo è già accessibile e per chi lo ha ritrovato, la storia cessa di esistere. La tra­ sformazione del Tempo in Eternità è cominciata con i primi credenti. Tuttavia questa trasformazione paradossale del Tempo in eternità non è una prerogativa del cristianesimo. Abbiamo incontrato la stessa con­ cezione e lo stesso simbolismo in India (v.s. p. 77). A ksana corrispon­ de il kairos: uno come l’altro possono divenire il « momento favorevo­ le » in virtù del quale si « esce dal tempo » e raggiungere l’eternità... In ultima istanza si chiede al cristiano di diventare contemporaneo di Cristo: questo implica sia un’esistenza concreta, nella storia, sia la con­ temporaneità della predicazione, dell’agonia e della risurrezione di Cristo.

Simboli e cultura La storia di un simbolismo è un argomento di studio appassionante e del resto assolutamente giustificato, in quanto costituisce la migliore introduzione a ciò che è stata chiamata la filosofia della cultura. Le Im­ magini, gli archetipi, i simboli sono vissuti e valorizzati in modi diver­ si: il prodotto di queste attualizzazioni è ciò che in gran parte costitui­ sce lo « stile culturale » di una determinata regione. A Ceram, nelle iso­ le Molucche e ad Eieusi ritroviamo le avventure mitiche di una fanciul­ la primordiale: Hainuwele e Kore Persefone. Dal punto di vista strut­ turale 11 i loro miti si assomigliano, eppure che differenza tra la cultura greca e quella di Ceram! La morfologia della cultura, la filosofia degli stili presteranno attenzione soprattutto alle forme particolari che l’im­ magine della Fanciulla assume in Grecia e alle MoluCche. Tuttavia se queste culture, in quanto formazioni storiche, non sono più intercam­ biabili, essendo già costituite nei loro proprii stili rispettivi, sono però paragonabili a livello delle Immagini e dei simboli. Proprio questa pe­ rennità e questa universalità degli archetipi è ciò che « salva » in ultima istanza le culture, rendendo al tempo stesso possibile una filosofia del­ la cultura che sia più di una morfologia o di una storia degli stili. Ogni cultura è una « caduta nella storia » e, di conseguenza, è limitata. Non ci si lasci trarre in inganno dall’incomparabile bellezza, dalla nobiltà e 11 Cfr. Ad. E. Jensen, Hainuwele. Volkerzählungen von der Molukken-Insel Ceram, Frankfurt-a-Mein 1939; id., Die Drei Ströme, Leipzig 1948, pp. 277».; C.G. Jung e Karl Kerényi, « Das Göttlichen Mädchen* in Albae Vigiliae, Heft 8-9, Amsterdam 1941.

153

Simbolismo e storia

dalla perfezione della cultura greca, poiché nemmeno essa è universal­ mente valida in quanto fenomeno storico-, provate, ad esempio, a rive­ lare la cultura greca a un africano o a un indonesiano: il messaggio non verrà loro trasmesso dall’ammirevole « stile » greco, bensì dalle Imma­ gini che essi riscopriranno nelle statue o nei capolavori della letteratu­ ra classica. Ciò che per un occidentale è bello e vero nelle manifestazio­ ni storiche della cultura antica, non ha valore alcuno per un indigeno oceaniano, dal momento che le culture, manifestandosi in strutture e stili condizionati dalla storia, si sono limitate. Tuttavia le Immagini che le precedono e le informano rimangono eternamente vive e universal­ mente accessibili. È difficile che un europeo ammetta che il valore spi­ rituale per l’uomo in genere e il messaggio profondo di un capolavoro greco, la Venere di Milo ad esempio, non risiede, per tre quarti dell’umanità, nella perfezione formale della statua, bensì nelPImmagine del­ la Donna che essa rivela. Eppure, se non riusciamo a renderci conto di questa semplice verità di fatto, la speranza di allacciare un dialogo utile con un non europeo è nulla. Insomma, ciò che mantiene « aperte » le culture è la presenza delle Immagini e dei simboli: a partire da qualsiasi cultura, quella dell’Aùstralia al pari di quella di Atene, le situazioni-limite dell’uomo sono perfettamente rivelate grazie ai simboli che le sostengono. Se si trascu­ ra questo fondamento spirituale unico dei diversi stili culturali, la filo­ sofia della cultura sarà condannata a rimanere uno studio morfologico e storico, privo di qualsiasi validità per la condizione umana in quanto tale. Se le Immagini non fossero al tempo stesso un’« apertura » verso il trascendente, in qualsiasi cultura, per quanto grande e ammirevole la si ritenga, si finirebbe per soffocare. A partire da qualsiasi creazione spi­ rituale stilisticamente e storicamente condizionata si può ritrovare l’ar­ chetipo: Kore Persefone al pari di Hainuwele ci rivela lo stesso desti­ no, patetico ma fecondo, della Fanciulla. Le Immagini costituiscono delle « aperture » verso un mondo trans­ storico. Non è questo il loro merito minore, in quanto grazie ad esse, le diverse « storie » possono comunicare. Si è molto parlato dell’unifica­ zione dell’Europa medievale ad opera del cristianesimo. Ciò è vero so­ prattutto se si pensa all’omologazione delle tradizioni religiose popola­ ri: con l’intermediario dell’agiografia cristiana i culti locali—dalla Tra­ cia alla Scandinavia e dal Tago fino al Dnieper—sono stati riportati a un « comun denominatore ». In virtù della loro cristianizzazione, gli dei e i luoghi di culto dell’Europa intera non soltanto hanno ricevuto nomi 154

Osservazioni sul metodo

comuni, ma hanno in qualche sorta ritrovato i loro propri archetipi e, di conseguenza, le loro valenze universali: una fonte della Gallia, con­ siderata sacra fin dalla preistoria, ma sacra per la presenza di una figu­ ra divina locale o regionale, diventa sacra per l’intera cristianità dopo essere stata consacrata alla Vergine Maria. Tutti gli uccisori di draghi vennero assimilati a San Giorgio o ad un altro eroe cristiano, tutti gli dei della tempesta a San Elia. La mitologia popolare, da regionale e pro­ vinciale, diventa ecumenica. Il cristianesimo ha svolto un ruolo civiliz­ zatore considerevole soprattutto con la creazione di un nuovo linguag­ gio mitologico comune per le popolazioni rimaste legate alle loro terre e che correvano quindi un maggior rischio di isolarsi nelle loro tradizio­ ni ancestrali: cristianizzando l’antico retaggio religioso europeo, non so­ lo lo ha purificato, ma ha trasportato nella nuova tappa spirituale del­ l ’umanità tutto ciò che meritava di essere « salvato » tra queste vec­ chie pratiche, credenze e speranze dell’uomo pre cristiano. Nel cristia­ nesimo popolare sopravvivono ancor oggi miti e credenze dell’era neoli­ tica: la pappa di grani in onore dei morti, ad esempio (la coliva dell’Eu­ ropa orientale ed egeica). La cristianizzazione degli strati popolari del­ l ’Europa ha avuto luogo soprattutto grazie alle Immagini: le si ritro­ vava ovunque, bastava ridar loro valore, reintegrarle e dar loro nuovi nomi. Non ci si aspetti per domani un fenomeno analogo, ripetibile su sca­ la planetaria. Al contrario, l’ingresso dei popoli esotici nella storia avrà ovunque come ripercussione un aumentato prestigio delle religioni au­ toctone. Come abbiamo detto, l’Occidente è attualmente costretto al dia­ logo con le altre culture « esotiche » e « primitive ». Sarebbe deplore­ vole che questo dialogo venisse intavolato senza aver tratto alcun inse­ gnamento dalle rivelazioni emerse dallo studio dei simbolismi.

Osservazioni sul metodo Dopo quel che abbiamo or ora esposto, si vede in che senso è stata superata la posizione « confusionista » di un Tylor o di un Frazer i qua­ li, nelle loro ricerche antropologiche ed etnografiche, accumulavano esem­ pi privi di ogni continuità geografica o storica, citando un mito austra­ liano a fianco di un mito siberiano, africano o nord americano, convinti che si trattasse sempre ed ovunque della stessa « reazione uniforme del­ lo spirito umano di fronte ai fenomeni della Natura ». Rispetto a que­ 155

Simbolismo e storia

sta posizione, così simile a quella di un naturalista dell’epoca di Darwin, la scuola storico-culturale di Graebner-Schmidt e le altre scuole storiciste hanno segnato un progresso incontestabile. Era tuttavia importante non lasciarsi immobilizzare nella prospettiva storico-culturale e doman­ darsi se, oltre alla loro storia propria, un simbolo, un mito, un rituale possono rivelarci la condizione umana in quanto modalità di esistenza ‘specifica nell’Universo. È quello che abbiamo cercato di fare in queste pagine e in svariate altre nostre pubblicazioni recenti12. Da buoni positivisti, Tylor o Frazer consideravano la vita magicoreligiosa dell’umanità arcaica un ammasso di « superstizioni » puerili, frutto di paure ancestrali o della stupidità « primitiva ». Questo giudi­ zio di valore, però, è in contraddizione con i fatti. Il comportamento magico-religioso dell’umanità arcaica rivela una presa di coscienza esi­ stenziale dell’uomo rispetto al Cosmo e a se stesso. Là dover Frazer ve­ deva soltanto una « superstizione », era già implicita una metafisica, an­ che se essa si esprimeva tramite i simboli più che attraverso l’intreccio dei concetti: una metafisica, è dire una concezione globale e coerente della Realtà e non una serie di gesti istintivi retti da una stessa e fon­ damentale « reazione dell’animale umano davanti alla Natura ». Così quando, facendo astrazione dalla « storia » che li separa, noi raffrontia­ mo un simbolo oceaniano a un simbolo dell’Asia settentrionale, ci rite­ niamo autorizzati a farlo non in quanto entrambi sarebbero il prodotto di una stessa « mentalità infantile », bensì perché il simbolo, in se stes­ so, esprime la presa di conoscenza di una situazione-limite. Si è cercato di spiegare 1’« origine » dei simboli sulla base dell’im­ pressione sensibile, esercitata direttamente sulla corteccia cerebrale, dei grandi ritmi cosmici (la traiettoria del sole, ad esempio). Non sta a noi discutere questa ipotesi, tuttavia il problema dell’« origine », in sé, ci sembra un problema mal posto (v.s. p. 111). Il simbolo non può essere 11 riflesso dei ritmi cosmici in quanto fenomeni naturali, in quanto un simbolo rivela sempre qualcosa di più che l’aspetto della vita cosmica che sta a rappresentare. I simbolismi e i miti solari, ad esempio, ci ri­ velano anche un lato « notturno », « malvagio » e « funerario » del so­ le, cosa che, di primo acchito, non è evidente nel fenomeno solare in quanto tale. Questo lato in certo qual modo negativo, inosservato nel Sole in quanto fenomeno cosmico, è elemento costitutivo del simboli­ smo solare e questo dimostra che, fin dall’inizio, il simbolo appare co­ 12 Questo problema verrà ampiamente dibattuto nel secondo volume del nostro Trattato di Storia delle religioni.

156

Osservazioni sul metodo

me una creazione della psiche. Ciò diventa ancor più evidente quanto ci si ricorda che la funzione di un simbolo è proprio quella di rivelare una realtà totale, inaccessibile agli altri mezzi di conoscenza: la coinci­ denza degli opposti, ad esempio, espressa dai simbolismi con tanta ab­ bondanza e tanta semplicità, non è data in nessun punto del Cosmo e non è accessibile all’esperienza immediata dell’uomo né al pensiero di­ scorsivo. Stiamo però attenti a non credere che il simbolismo si riferisca uni­ camente alle realtà « spirituali ». Per il pensiero arcaico una separazio­ ne del genere tra lo « spirituale » e il « materiale » non ha senso: i due piani sono complementari. Il fatto di ritenere un’abitazione collocata al « Centro del Mondo », non toglie che essa sia uno strumento che sod­ disfa precisi bisogni e che è condizionato dal dima, dalla struttura eco­ nomica della società e dalla tradizione architettonica. Ancora in tempi recenti la vecchia disputa tra « simbolisti » e « realisti » è tornata a scoppiare a proposito dell’architettura religiosa dell’antico Egitto. Le due posizioni sono inconciliabili solo in apparenza: nell’orizzonte della mentalità arcaica tener conto delle « realtà immediate » non vuol affat­ to dire che si ignorano o si disprezzano le loro implicazioni simboliche e viceversa. Non bisogna credere che l’implicazione simbolica annulli il valore concreto e specifico di un oggetto o di una operazione: quando la zappa viene chiamata fallo (come avviene in certe popolazioni austro­ asiatiche) e la semina viene equiparata all’atto sessuale (come si fa qua­ si dappertutto nel mondo) non ne consegue che l’agricoltore « primiti­ vo » ignora la funzione specifica del suo lavoro e il valore concreto, im­ mediato, del suo attrezzo. Il simbolismo aggiunge un valore nuovo ad un oggetto o ad un’azione, senza per questo intaccare i loro valori pro­ pri ed immediati. Applicandosi ad un oggetto o ad un’azione, il simbo­ lismo li rende « aperti ». Il pensiero simbolico fa « scoppiare » la real­ tà immediata, senza però sminuirla né svalutarla: nella sua ottica l’Universo non è chiuso, nessun oggetto è isolato nella sua esistenzialità: tut­ to è tenuto insieme da un sistema serrato di corrispondenze e di assi­ milazioni u. L ’uomo delle società arcaiche ha preso coscienza di sé in un «mondo aperto» e ricco di significato: resta da sapere se queste « aperture » sono altrettanti mezzi di evasione oppure se, al contrario, esse costituiscono l’unica possibilità di accedere alla vera realtà del mondo. 13 Per ben intendere la trasformazione del mondo ad opera del simbolo basti ricordare la dialettica della ierofania: un oggetto diventa sacro pur rimanendo se stesso (v. s. p. 80).

157

View more...

Comments

Copyright ©2017 KUPDF Inc.
SUPPORT KUPDF