Maurizio Chiodi - Humanae Vitae
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Un articolo del teologo Maurizio Chiodi a quarant'anni dall'Humanae Vitae...
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MAURIZIO CHIODI
A quarant’anni dall’«Humanae vitae»
Non è esagerato dire che l’Humanae vitae è stato, se non il documento, almeno uno dei documenti del magistero ecclesiastico che ha fatto maggiormente discutere, suscitando numerose critiche e obiezioni da una parte e un ampio schieramento di difensori dall’altra. Oggi, almeno nel panorama ecclesiale e teologico italiano, le polemiche e le critiche si sono fatte meno aspre. Ma, al loro posto, è subentrato nei pastori un silenzio difficile da interpretare e nei credenti una pratica di vita che spesso è in aperto contrasto e, più frequentemente, ignora del tutto l’insegnamento dell’enciclica. Anche 517
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Cade in questi giorni il quarantesimo anniversario dell’enciclica di Paolo VI Humanae vitae. Abbiamo chiesto a don Maurizio Chiodi, docente di Teologia morale alla Facoltà teologica di Milano e al Seminario di Bergamo, di richiamare i capisaldi del suo insegnamento e di aggiornare sul dibattito teologico morale che da quell’enciclica ha ricevuto autorevoli orientamenti. La riflessione proposta, pur nella sua sinteticità, non elude alcuni nodi fondamentali dell’odierna riflessione morale, sottolineando come l’enciclica costituisca un’impegnativa e preziosa occasione per andare a fondo su temi delicati e attuali a riguardo della concezione cristiana della sessualità: «Non c’è dubbio che, sotto un profilo teologico-morale, l’Humanae vitae implicitamente coinvolge la questione sessuale nella sua interezza. Anzi, più complessivamente ancora, essa rappresenta un documento paradigmatico e significativo per comprendere i nodi, le questioni, le sfide e le difficoltà relative a tutta la pratica morale del credente nel contesto della cultura contemporanea».
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Alcune questioni ancora aperte
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nei teologi moralisti, dopo una polarizzazione del dibattito tra difensori e oppositori, oggi predomina o un silenzioso dissenso o una difesa a priori. Non sono mancate e non mancano, soprattutto a livello ufficiale, diverse prese di posizione che hanno ribadito con forza l’insegnamento dell’Humanae vitae: basterebbe pensare alla Familiaris Consortio (1981) e a Donum vitae (1987). Tuttavia non mi pare lontano dal vero affermare che nella predicazione ordinaria, così come nella catechesi parrocchiale – fatta eccezione per alcuni gruppi di spiritualità coniugale o per istituzioni costituite ad hoc o per alcuni consultori cattolici – e in parte perfino nei corsi per la preparazione al matrimonio poco si parli dell’enciclica.
MAURIZIO CHIODI
Lo sfondo culturale Non c’è dubbio che, sotto un profilo teologico-morale, l’Humanae vitae implicitamente coinvolge la questione sessuale nella sua interezza. Anzi, più complessivamente ancora, essa rappresenta un documento paradigmatico e significativo per comprendere i nodi, le questioni, le sfide e le difficoltà relative a tutta la pratica morale del credente nel contesto della cultura contemporanea. L’enciclica deve anzitutto essere posta sullo sfondo delle grandi trasformazioni del costume civile moderno riguardo alla relazione della coppia nel matrimonio, la sessualità e la generazione. A sua volta questi cambiamenti vanno inscritti nelle trasformazioni culturali che negli anni ’60 si annunciavano e che oggi sono ampiamente diffuse, non solo in Occidente, e che riguardano anche le convinzioni e l’agire di molti credenti. Per citare soltanto due cambiamenti tipici della modernità, in un senso molto generale, possiamo qui ricordare l’attenzione e la riscoperta del soggetto da una parte e il rischio della sua riduzione individualistica dall’altra, e la riscoperta del valore degli affetti e delle emozioni – che sono elemento decisivo nell’esperienza personale – con il correlativo rischio dell’emotivismo che trasforma il ben-essere in criterio assoluto delle scelte etiche. Più in specifico, l’esperienza umana del matrimonio e della sessualità è oggi attraversata da profondi mutamenti riguardanti tanto l’esperienza pratica quanto il sapere riflesso: l’accentuazione del modello della famiglia ‘nucleare’, la privatizzazione del matrimonio, la netta separazione tra privato e pubblico, l’intimizzazione e la riduzione 518
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7/8 Luglio/Agosto 2008 affettiva del legame di coppia con la perdita della sua definitività, i cambiamenti dei significati della presenza dei figli nella famiglia, la caduta del tabù del sesso, l’erotizzazione della cultura, la trasformazione della sessualità in esperienza privilegiata e quasi esclusiva dell’emozione e del piacere, l’interpretazione ‘neutrale’ della sessualità, per la quale essa viene considerata un’inclinazione indifferentemente omo o eterosessuale.
È chiaro che, dinanzi a tali questioni, non si può entrare qui in una articolata discussione teologica. Ma mi pare evidente che le questioni pastorali e teologiche suscitate dall’Humanae vitae debbano andare ben oltre la semplice definizione di una norma a favore dei metodi naturali e contro la contraccezione artificiale. Ridotta a questo, l’enciclica verrebbe imprigionata nella ristrettezza di un orizzonte unicamente normativo e quindi ‘legalistico’. Per queste ragioni si deve fare attenzione a non ricondurre la ‘morale sessuale’ unicamente alla questione normativa, pure ribadita dall’enciclica. Già il Concilio Vaticano II, nei numeri 47-52 della Gaudium et spes, aveva introdotto delle novità importanti nella dottrina tradizionale che si era un tempo cristallizzata nella definizione dei fini del matrimonio e che affermava chiaramente il primato del fine generativo rispetto all’aiuto reciproco e al remedium concupiscientiae. Il Vaticano II, parlando di «molteplici fini» (GS, n. 48) e pur ribadendo con grande forza l’aspetto istituzionale del matrimonio e l’importanza della generazione, aveva però rinunciato a stabilire una ‘gerarchia’ di fini e aveva insistito sul matrimonio come «comunità d’amore» (GS, n. 47), accogliendo, non senza forti resistenze, una nuova linea genericamente ‘personalista’. In questo modo, dopo circa trent’anni, il magistero ecclesiastico faceva sua quell’accentuazione ‘personalista’ che a partire da Doms, su ispirazione di Von Hildebrand, era stata in un primo tempo rifiutata o quantomeno contrastata (cfr. DS 3838). Questa nuova linea, senza contraddire formalmente al primato del ‘fine’ della generazione, sottolineava il senso del rapporto coniugale come forma della comunione degli sposi, chiamati al dono reciproco di sé, un dono che nel rapporto sessuale trova il suo momento espressivo culminante. 519
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Alcune questioni teoriche
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Mensile di aggiornamento pastorale e cultura religiosa fondato nel 1918
La grande questione che stava sullo sfondo delle discussioni avviate dai personalisti della prima metà del Novecento riguardava il rapporto tra la sessualità coniugale intesa come forma di comunione d’amore e il significato della procreazione. Dopo quei dibattiti, sulla scia del rinnovamento ‘personalista’, con Mounier, Lacroix, Madinier e molti altri, nella teologia morale e nella filosofia di ispirazione cristiana, alla nozione di ‘natura umana’ si preferiva sostituire quella di persona. Non si trattava – o almeno non avrebbe dovuto trattarsi – soltanto di un cambiamento nominalistico: una delle istanze che muovevano il cambiamento di parole, con il passaggio dalla terminologia della natura a quella della persona, era il superamento del naturalismo che, dando scarsa considerazione alla centralità del soggetto, finiva per ricondurre la morale a semplice osservanza di una legge riferita a una ‘natura’ biologicamente determinata. La questione di fondo, tuttavia, riguarda il senso del passaggio dall’idea di natura a quella di persona: poiché l’idea di persona richiede l’elaborazione di un metodo e di un’antropologia differente rispetto a quella che ruota intorno all’uomo inteso come ‘natura umana’, fino a che punto doveva essere condotta questa ‘svolta antropologica’? In altri termini, qual è il rapporto tra l’idea di ‘natura umana’ e quella di persona umana? Alla questione antropologica si collega anche il tema, specificamente etico, della ‘legge naturale’. In modo estremamente sintetico a questo proposito si può porre un duplice problema: se la nozione di ‘natura umana’ viene sostituita, perché ritenuta troppo ‘reificata’, con quella di persona umana, come si può continuare a far uso della nozione di legge naturale, che invece riposa evidentemente sulla nozione di natura umana – come dice l’assioma: agere sequitur esse –? E d’altra parte, se si rinuncia alla terminologia della ‘natura umana’ e della legge naturale, come evitare un approccio etico che, rinviando al soggetto, rischi di cadere in un soggettivismo che rinuncia all’affermazione della verità morale? Un altro problema, legato ai precedenti, concerne l’evidente equivocità della nozione di natura, che effettivamente appare problematica: che cos’è la natura? Che cosa si vuol designare quando si parla di natura? Con tale termine si intende la creazione, intesa come l’ambiente o il complesso della bio-geo-sfera oppure si intende la natura dell’uomo come corpo, nella sua biologicità? Ma il corpo umano è 520
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riducibile a un corpo biologico (a un oggetto)? In quale rapporto sta dunque la ‘natura’ – come ‘corpo’ del soggetto, che è sempre il corpo proprio – con la libertà della persona? E si può pensare la libertà dell’uomo a prescindere dal suo corpo? Strettamente correlata a tutte queste domande, un’altra grande questione riguarda il rapporto tra la natura umana e la cultura. Come superare la contrapposizione, la giustapposizione e la reciproca estraneità tra natura e cultura? I due termini non possono essere pensati né in alternativa e tantomeno né l’uno senza l’altro, perché non c’è accesso alla ‘natura umana’ universale se non a procedere dalla cultura particolare. Per il credente, infine, un’antropologia svolta nei termini della natura umana pone la questione ulteriore del rischio di interpretare il nesso tra natura e grazia in modo estrinseco, come se alla ‘natura’ corrispondesse la ragione e alla soprannatura (o grazia) la fede... Come si può vedere da queste troppo brevi battute, le domande teoriche che stavano sullo sfondo dell’Humanae vitae erano assai aspre. E a mio parere queste rimangono ancora oggi le questioni più problematiche e irrisolte, per la stessa teologia morale: e tale situazione di incertezza si ripercuote anche sulla prassi pastorale. La sfida e il compito della teologia morale oggi è di non limitarsi a ripetere le formule ricevute dalla sua pur eminente tradizione, aprendosi al confronto e agli interrogativi che le sono posti dalle trasformazioni culturali odierne e dalle istanze critiche del pensiero contemporaneo.
L’«Humanae vitae»: il rapporto tra sessualità (amore) e fecondità È soltanto sullo sfondo di questi interrogativi che può essere compreso il travaglio che portò Paolo VI, al termini dei lavori della Pontificia Commissione pro studio populationis, familiae et natalitatis, istituita da Giovanni XXIII nel marzo 1963 e poi da lui stesso allargata, a non accogliere le conclusioni della maggioranza che si era detta favorevole a riconoscere che la vera opposizione non stava tra i metodi naturali e la contraccezione, bensì tra un modo generoso e un altro ‘egoista’ di aprirsi o rispettivamente di ‘chiudersi’ alla generazione, all’interno di quella comunità d’amore che è il matrimonio. La soluzione alla questione, da parte di Paolo VI, fu originale: com’è 521
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noto, recuperando il Vaticano II, l’Humanae vitae non solo superava la gerarchia dei fini, con la antropologia problematica che le era sottesa, ma assumeva decisamente un approccio ‘personalista’, centrato sull’amore coniugale, inteso come un amore pienamente umano, totale, fedele e fecondo (HV, n. 9). La fecondità veniva dunque considerata come caratteristica costitutiva dell’amore, senza alcuna contrapposizione tra amore e generazione, tra sessualità e fecondità. È per questo che l’Humanae vitae superava decisamente la subordinazione della «finalità» o del «significato» – l’enciclica usa in modo indifferente questa pur diversa terminologia (HV, n. 11-13) – della relazione coniugale (unitivo) a quello della generazione (procreativo). Ciò che l’enciclica sottolineava con forza era proprio l’impossibilità di scindere questi due fini o significati del rapporto coniugale. In modo estremamente interessante si intravedeva così quello che sarebbe diventato un problema sempre più grave per il vissuto della sessualità – non soltanto matrimoniale – nella cultura contemporanea: la dissociazione tra la relazione sessuale come alto momento di comunione e la sua apertura alla generazione. In effetti è un modo estremamente problematico di vivere la sessualità umana quello, oggi assai diffuso, che scinde la relazione sessuale da quell’apertura al ‘terzo’ che è il figlio e che costituisce un momento originario della verità della relazione della coppia matrimoniale. Nell’Humanae vitae però, la difficoltà, a questo punto, si scaricava tutta sul nesso tra fecondità e sessualità relativamente al singolo atto coniugale. Certo, già Pio XII nella famosa Allocuzione alle ostetriche del 1951 e poi, seppure implicitamente, il Vaticano II, avevano riconosciuto che, nel mutato contesto contemporaneo, serie ragioni di carattere medico, economico, sociale, potevano portare una coppia a decidere di evitare di mettere al mondo nuovi figli, pur continuando ad avere rapporti coniugali e sfruttando i giorni della «sterilità naturale» della donna. Ciò che l’Humanae vitae, come già Pio XII – e non diversamente da Pio XI nella Casti Connubii (1930) –, non volle accettare fu che nel singolo atto procreativo fosse mai possibile per gli sposi, per nessuna ragione, dissociare volutamente – nel senso di artificialmente – i due significati. Per questo motivo, ultimamente, i ‘metodi naturali’ fanno riferimento alla legge naturale (HV, n. 4,11,23), inscritta nella biologia del corpo umano. La contraccezione, in qualsiasi sua forma, manipolerebbe e modificherebbe in modo illecito questa ‘legge di natura’. 522
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Come si vede, anche se in modo non tematizzato, sullo sfondo di questa problematica sta il rapporto tra il naturale e l’artificiale e dunque tra la ‘natura’ e la tecnica. Che cosa è ‘naturale’ per l’uomo? E che cos’è ‘tecnico’? Fino a che punto la tecnica, insieme con la scienza, può modificare il dato ‘naturale’ e biologico senza modificare radicalmente l’originario che caratterizza l’esperienza dell’umano? Che cosa significa dire che il rapporto sessuale, nella relazione della coppia, deve restare ‘naturale’ e dunque ‘naturalmente’ aperto alla generazione della vita? Fino a che punto può spingersi l’uomo nel modificare e nel trascendere il suo limite corporeo, visto che questo non coincide con il biologico, anche se lo include? In ultima analisi: che rapporto c’è tra il facere della tecnica e l’agere della libertà? Si pone qui un interrogativo riguardo al senso della tecnica, che è il fenomeno epocale che caratterizza la modernità. Non si può certo trovare il criterio della tecnica nel rimando a un ‘naturale’ che identifica la ‘natura’ della persona umana con la biologia del corpo. Ma d’altra parte non si può prescindere dal corpo del soggetto, con le relazioni nelle quali questi è impegnato, per valutare eticamente il senso di un intervento tecnico. La questione è impegnativa. Ma la sua soluzione non impone necessariamente un’alternativa secca, tra naturale e artificiale. L’agire umano infatti non rifiuta la tecnica, ma la riconduce entro il quadro di una responsabilità personale, perché il sapere scientifico e il facere della tecnica implicano e si integrano, pur supponendone l’autonomia, in un più ampio sapere sull’uomo, che è il sapere relativo al senso inscritto nelle esperienze buone della vita – la cui elaborazione è compito dell’antropologia e dell’etica. Anche qui si tratta di evitare degli eccessi: l’uno consiste nell’assegnare alla tecnica il potere di trasformare indiscriminatamente o assolutamente le condizioni del vivere umano, perché questo porterebbe a esiti inaccettabili. Il rifiuto di questo eccesso però non può significare la demonizzazione della tecnica, cosa che condurrebbe a un’ambigua esaltazione di un dato puramente ‘naturale’ che in realtà nell’uomo non esiste mai a uno stato ‘puro’. Anche nella situazione specifica del rapporto tra matrimonio e sessualità, tra sessualità e generazione, e tra senso unitivo e procreativo del rapporto sessuale nella relazione coniugale, il difetto consiste a 523
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L’«Humanae vitae»: il rapporto tra ‘naturale’ e ‘artificiale’
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mio parere nel cadere in due estremi che sono allo stesso modo problematici: da una parte c’è il rischio di ridurre la norma morale alla legge ‘biologica’, in fondo riconducendo l’amore coniugale a un comandamento che si riduce a osservanza di una legge ‘fisica’, e dall’altra il rischio è di ridurre la norma dell’amore a un principio talmente astratto e intellettualista da prescindere dalle forme concrete della relazione, e dunque dal darsi del corpo proprio nelle sue esperienze concrete. Il rischio – speculare – è dunque duplice: o una morale naturalista, che identifica l’osservanza di una legge biologica con la norma morale, o una morale intellettualistica, nella quale ci si appella genericamente al ‘valore’ dell’amore, e in specie dell’amore coniugale, in un modo tanto astratto da prescindere da qualsiasi sua forma e determinazione pratica.
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L’«Humanae vitae»: la norma e la coscienza Anche nel campo della morale sessuale, si pone poi la questione dell’interpretazione della norma: questa non può essere interpretata in modo legalistico, come se l’unico problema fosse la sua osservanza materiale. La semplice norma rimanda dunque a un modo complessivo di vivere e di pensare la persona umana, le sue relazioni, il suo rapporto con sé e con il proprio corpo, e ultimamente il suo rapporto con Dio. Nel caso dei metodi naturali, la norma, rifiutando qualsiasi forma di contraccezione nel rapporto sessuale coniugale, intende propiziare un certo modo di vivere, nella relazione della coppia, l’esperienza del proprio corpo, del dialogo amoroso e di una buona disposizione nei confronti del figlio. Proprio per questa ragione, la norma dà sempre forma concreta a un senso – un bene promesso – che, mentre è formulato nella norma, la trascende e che deve essere riconosciuto e interpretato dalla coscienza, nel discernimento (prudentia, phrònesis) operato a partire dalla situazione concreta. Il problema si presenta dunque sotto forma di una domanda, che è affidata ultimamente al discernimento del magistero ecclesiastico stesso: se in certe circostanze, come esplicitamente ha riconosciuto Pio XII, ci sono motivi sufficientemente fondati per non cercare un figlio nel rapporto sessuale coniugale, perché, laddove questa stessa decisione – per molteplici ragioni – non fosse possibile attraverso i metodi naturali, non si potrebbe ottenere lo stesso effetto attraverso l’intervento ‘contraccettivo’ della tecnica e della scienza medica? 524
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Si potrebbe obiettare che questa soluzione è di fatto già stata adottata quando, in molteplici sedi – basterebbe pensare ad alcuni dei numerosi commenti emanati, nei primi mesi successivi all’Humanae vitae, dagli Episcopati cattolici di tutto il mondo (38 in tutto) oppure al Documento (Official Communication) edito dalla Congregazione per il Clero il 26 aprile 1971 per risolvere una controversia sorta nella diocesi di Washington – si è distinto tra la oggettività della norma e la ‘eccezione’ della coscienza: ciò che oggettivamente continua a restare ‘illecito’, si dice, potrebbe diventare soggettivamente difendibile o per lo meno non gravemente peccaminoso: ma qui si aprirebbe l’altra questione, relativa alla valutazione della gravità morale dell’agire. Sotto il profilo pratico, certo, questa argomentazione sortisce il risultato di lasciare invariata la norma universale e oggettiva, affidandone la ‘applicazione’ – qui di fatto in modo non puramente deduttivo – alla coscienza, considerata appunto nella tradizione manualistica la norma proxima moralitatis. Ma questo approccio non risulta convincente, sotto il profilo teorico. Esso apre facilmente il campo a una sorta di doppia morale, quella pubblica e ‘oggettiva’ e quella ‘privata’ e soggettiva, legata al phoro interno, con il rischio reale che ciò che è ufficialmente negato venga ufficiosamente permesso o tollerato. Ma la vera questione teorica, assai viva nella morale tradizionale, è un’altra: ciò che fa problema, è la divisione tra l’oggettivo e il soggettivo. Classicamente, l’oggettivo veniva identificato con la formulazione della norma, appunto considerata sempre ‘oggettivamente’ valida, e il soggettivo veniva identificato con l’ambito riservato alla decisione della coscienza. Ciò che fa problema in questa separazione tra oggettivo e soggettivo è che in modo non reale – in termini ‘scientifici’ si direbbe in modo non ermeneutico – essa divide la coscienza, e cioè il soggetto morale, dal suo atto. Ora ciò che si deve chiarire è che l’atto, che nella tradizione tomista era l’objectum o la ‘materia’, è sempre l’atto del soggetto: e dunque l’atto (oggetto) è sempre soggettivo, poiché la coscienza si attua e decide di sé solo nella determinazione pratica dell’agire. Ciò significa che la valutazione del significato morale dell’agire – quella che viene chiamata l’«oggettività» dell’atto – non può in nessun modo prescindere dalla coscienza agente, e dunque dall’esperienza personale e culturale, dalle circostanze e dalle relazioni nelle quali essa è coinvolta. La divisione tra oggetto e soggetto, assegnando l’oggettività alla norma e la soggettività alla coscienza, separa nell’uni525
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ca esperienza morale il profilo esteriore (materiale) dell’agire e l’intenzione soggettiva. In realtà, l’agire è sempre un’intenzione incarnata e l’intenzione è un’azione anticipata e/o immaginata. Questo implica di riconoscere che la norma morale riguarda l’agire intero del soggetto e non soltanto il profilo esteriore della sua azione: altrimenti si cadrebbe in una sua interpretazione legalistica. Ma, ugualmente, la valutazione morale dell’azione non può procedere per semplice applicazione di una norma ‘oggettiva’ al soggetto, perché essa non può non tener conto del contesto, e si opera sempre a partire dalla coscienza stessa nel discernimento concreto della sua ragion pratica.
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Teologia e magistero Il personalismo stesso, al di là della sottolineatura dell’istanza della persona, con le sue varie elaborazioni teoriche, si mostra insufficiente a propiziare il superamento di tali complessi problemi. A tutt’oggi, dunque, il compito della teologia morale è di riflettere sulle esperienze umane fondamentali – buone perché originarie – che danno senso al vivere dell’uomo, perché lo costituiscono nella sua identità, che è da sempre in relazione con altri da sé, come l’identità e la relazione filiale, la relazione di coppia tra uomo e donna, la relazione fraterna, la relazione sociale. Tra queste esperienze, certamente, la relazione tra uomo e donna, nella forma della coniugalità, appare paradigmatica per interpretare il senso stesso della relazione umana in generale: essa rivela in tutta evidenza che la propria identità (maschile o femminile) si costituisce nella relazione con l’altro/a da sé, allo stesso modo in cui è proprio nell’impegno suscitato da questa relazione che il soggetto decide della qualità etica della propria libertà. È in questo quadro che la riflessione teologica – dogmatica, eticoantropologica, pastorale, spirituale, giuridica, canonica – sul matrimonio come sacramento acquista un’importanza centrale. È questa la vera posta in gioco delle questioni aperte dall’Humanae vitae. Nel sacramento appare in modo chiaro come l’impegno dell’uomo a decidere di sé (etico), si fonda sul dono che Dio gli ha anticipato (teologico), affidando tale dono alla decisione della sua stessa libertà, affinché esso possa davvero essere buono per lui. Come sacramento, il matrimonio è l’atto nel quale gli sposi celebrano nella Chiesa l’agire salvifico di Dio in Cristo nei confronti dell’umanità tutta, affidando – 526
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nel caso specifico – a Lui la propria relazione di sposi. Essi, accogliendosi in una dedizione totale, fiduciosa e per ciò stesso feconda, si aprono a un dono di amore l’uno per l’altro: e questo stesso amore riceve il dono del figlio, nell’atto generante, nel quale essi stessi accolgono l’opera del reciproco amore come un dono ricevuto da Dio. Quanto qui è stato solamente accennato, ovviamente, richiederebbe di essere pensato in modo più ampio e organico. In ogni caso, il compito di una tale riflessione teologica – non solo etica e antropologica, ma anche dogmatica, pastorale e canonica – non può in nessun modo essere pensato in alternativa all’istanza del magistero ecclesiastico, alla quale va riconosciuto il compito di ‘giudizio supremo’ della conformità o meno di un’affermazione teologica con la verità della Rivelazione cristiana. Ma questo esercizio di discernimento suppone il dibattito, anche vivace, della teologia. Sotto questo profilo il compito del magistero ecclesiastico si pone in relazione circolare e virtuosa con la riflessione teologica: l’obiettivo comune è quello di favorire le forme concrete della testimonianza cristiana, tenendo conto in modo non accidentale delle diverse situazioni personali e culturali, non semplicemente per adeguarsi a esse, ma per interpretare le esigenze universali dell’etico nelle mutate situazioni storiche. Se questo è vero, sarebbe un errore pensare che il magistero ecclesiastico, in rebus morum, non solo non sia passibile di interpretazioni nuove, ma anche che un cambiamento di un’indicazione normativa dovrebbe significare il ‘crollo’ dell’etica e della comprensione antropologica in essa implicata. In questa linea il compito del magistero non è anzitutto di fissare, una volta per sempre, le singole norme morali: del resto, la stessa storia della tradizione mostra la possibilità di questi cambiamenti, laddove non fosse in gioco un pronunciamento infallibile. Questo compito consiste soprattutto nel garantire e orientare, con la specifica autorevolezza del magistero ecclesiastico, una riflessione capace di condurre i singoli credenti – e qui alla fine la convinzione della coscienza risulta decisiva – a interpretare nelle diverse situazioni culturali, anche grazie al contributo sempre critico della teologia e allo stesso sensus fidei, le forme della testimonianza cristiana.
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