Mario Silvestri, Caporetto

April 11, 2017 | Author: Juhász Bálint | Category: N/A
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Mario Silvestri

CAPORETTO Una battaglia e un enigma

MONDADORI

LE SCIE ARNOLDO MONDADORI EDITORE «Caporetto costituisce tuttora un enigma: un crollo come quello dell'esercito italiano non si ritrova, nella prima guerra mondiale, presso nessun altro esercito, un crollo seguito a brevissima distanza di tempo da una altrettanto fulminea ripresa. «Studiando e ristudiando gli eventi di quei pochi giorni, così come si analizza un diamante storico, ogni faccia identica all'altra e tutte ugualmente brillanti nelle loro sfaccettature reali e psicologiche, ho cercato il microscopico punto nero, il difetto che si annidasse per caso all'interno del cristallo e desse la chiave dell'enigma. «A un certo punto quel microscopico difetto nero mi pare di averlo intravisto; ed è l'argomento di questo libro. È un punto nero, un marchio quasi invisibile, ma della specie peggiore. La mia revisione mi ha portato a concludere che Caporetto può essere visto sotto due angolazioni diverse: sotto quella storica o sotto l'angolazione caratteriale di un popolo - del popolo italiano - e allora Caporetto assume un valore permanente. «È un valore permanente e negativo, tanto da affermare che la vera Italia non è quella del Piave, ma quella di Caporetto. Caporetto, scritto con la c minuscola, è un iceberg temporale, su cui è distesa la storia d'Italia e del quale affiora, saltuariamente, solo la punta - una Caporetto storica -, ma che rappresenta una costante nella vita italiana e nella cronaca di ogni giorno. Caporetto viene da lontano e va lontano. L'Italia del Piave non è la regola ma l'eccezione. Quello che avvenne il 24 ottobre 1917 era già avvenuto prima, avvenne dopo, avviene sotto i nostri occhi e vi sono le premesse perché avvenga in futuro. È il Piave, sono i suoi sinonimi, che vanno cercati lungo la storia con la lanterna del minatore, che si accinga a sviscerare montagne, per trovare qualche prezioso fra tanta ganga.» Mario Silvestri, veronese, già professore di Impianti Nucleari presso il Politecnico di Milano, ideatore del reattore «CIRENE», di cui è in corso il completamento, è attualmente cattedratico di Energetica presso lo stesso Politecnico. Autore di circa 200 memorie scientifiche, dal 1972 al 1981 è stato Presidente del Comitato Tecnologico del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Appassionato di storia contemporanea, i suoi contributi in questo campo sono stati: Isonzo

1917 (1965), Premio Prato per la letteratura nello stesso anno, Il costo della menzogna (1968), La decadenza dell'Europa occidentale (18901946) (1977-1982) in 4 volumi, Cento anni di Storia d'Italia (1861-1961) (1980-1983) in 3 volumi, e altri scritti minori.

© 1984 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione ottobre 1984 Scansione e realizzazione eBook Filuck (2014)

[Nota. Le note sono state poste all’interno del testo, omettendo quelle di riferimento a fonti già citate precedentemente. Fine nota.]

SOMMARIO I. Caporetto. Una battaglia e un enigma. II. Il quadro. III. La guerra d'Italia. IV. La piccola Caporetto. V. Difesa e offesa nella guerra di posizione. VI. Il riflesso tedesco. VII. La guerra di posizione secondo il Comando Supremo. VIII. Le alternative. IX. Addestramento alla disfatta. X. Tardivi barlumi di luce. XI. I preparativi del nemico. XII. L'intorbidamento della comprensione. XIII. La confusione delle menti. XIV. La confusione delle fanterie. XV. La confusione delle artiglierie. XVI. Gli ultimi ritocchi. XVII. La battaglia di Caporetto. XVIII. La rotta. XIX. Dall'Isonzo al Tagliamento. XX. L'invasione. XXI. Il monte della vergogna. XXII. Durante i dieci giorni che fecero tremare il mondo. XXIII. Difesa elastica sul Grappa. XXIV. Sul Grappa l'ultimo Carso. XXV. Venticinque anni dopo. XXVI. L'Italia caporetta. Note bibliografiche.

CAPORETTO

Questo libro è dedicato alta memoria del tenente Giuseppe Silvestri, combattente del Carso, della Carnia e d'Albania, e della signorina Giulia Esmanech, che si incontrarono nello scorcio della Grande Guerra e furono i miei genitori.

Capitolo I CAPORETTO. UNA BATTAGLIA E UN ENIGMA Caporetto calamita tuttora l'attenzione degli italiani. Anche chi non conosce i fatti sente volar per l'aria la parola «caporetto», scritta con la c minuscola, per indicare un collasso improvviso, un disastro quasi irreparabile. Storicamente Caporetto è una delle più grandi battaglie di annientamento della storia contemporanea e la più grande disfatta dell'esercito italiano. Di tale esercito, che al momento in cui venne attaccato contava 1.850.000 soldati, in due settimane ne andarono perduti 350.000 fra morti, feriti, dispersi e prigionieri, ed altri 400.000 si sbandarono verso l'interno del paese. Questi ultimi vennero poi recuperati, abbastanza rapidamente sì, ma dopo un rastrellamento di alcune settimane, talché per qualche mese rimasero indisponibili sulla linea del fuoco. Nella prima guerra mondiale, caratterizzata dallo stillicidio di interminabili e sanguinose battaglie di logoramento, Caporetto rappresentò, così concentrato nel tempo, lo scontro più immane. E anche nel secondo conflitto mondiale, in cui le battaglie di annientamento furono assai più numerose, non molte superano le dimensioni di Caporetto. Persino la battaglia di Stalingrado, benché le sue conseguenze strategiche e politiche siano state molto maggiori, è di proporzioni inferiori, essendosi stemperata lungo un arco di tempo di cento giorni contro i quindici dello sfondamento a Caporetto e della successiva ritirata dell'esercito italiano fino al Piave. Sentendosi ripetere con monotona cadenza la storia di Caporetto fino alla noia, gli italiani ne possono tuttavia restare disgustati. Caporetto? Che c'è ancora da dire su Caporetto, che non sia già stato detto e ridetto? Perché dunque un ennesimo libro su Caporetto nell'anno di grazia 1984? E poi, qual è l'importanza di questa battaglia dal momento che tutto finì bene - si fa per dire -, poiché gli italiani resistettero valorosamente sul Piave, resistettero ancor più saldamente nel giugno 1918 e vendicarono «l'onta di Caporetto» con Vittorio Veneto un anno dopo? Se Caporetto non fosse avvenuta, se i tedeschi avessero rifiutato di inviare sette divisioni sull'alto Isonzo in aiuto agli austro-ungarici, forse che la storia avrebbe avuto un corso diverso? Pur senza dare alla risposta un valore apodittico, si può affermare che nulla sarebbe cambiato, che la prima guerra mondiale

sarebbe terminata pressappoco alla stessa epoca e con lo stesso esito, poiché la macchina determinante dell'intervento americano si era ormai messa in moto, mentre le divisioni tedesche, reduci vittoriose dalla campagna d'Italia con perdite minime, ebbero il tempo di tornare in Francia e partecipare all'ultima scommessa mortale, che la Germania ingaggiò e perse nella prima metà del 1918. Rimasero in Italia - è vero - cinque divisioni franco-inglesi, in parte compensate dalle due italiane, reclutate fra i vinti di Caporetto, che presero parte alle battaglie sul fronte francese. Tutto lo spostamento di forze si ridusse perciò a tre divisioni - forse 100.000 uomini, includendo i servizi - su un totale di effettivi alleati che nell'estate del 1918 superava abbondantemente i sette milioni di uomini. Perché allora questa morbosa curiosità su «Caporetto»? Io stesso, che in Isonzo 1917 ho tentato un affresco, limitatamente al fronte italiano dell'Isonzo, di quell'anno terribile e decisivo per la storia del mondo - non certo a motivo di Caporetto -, sono stato a lungo dubbioso, di fronte alla proposta di «riscrivere» Caporetto, prima di dare una risposta affermativa. L'ho data infine, perché Caporetto costituisce tuttora un enigma: un crollo come quello dell'esercito italiano non si ritrova, nella prima guerra mondiale, presso nessun altro esercito, un crollo seguito a brevissima distanza di tempo da una altrettanto fulminea ripresa. Tutte le ipotesi sono state formulate - o almeno quasi tutte. Si va dallo «sciopero dei combattenti» alla pura sconfitta militare, con tutte le possibili combinazioni dell'uno e dell'altro ingrediente. Sciopero militare? E perché mai esso non si manifestò presso altri eserciti, molto più dissanguati di quello italiano e assai più scossi da turbamenti interiori, come l'austro-ungarico? Una pura sconfitta militare? E perché gli stessi uomini e gli stessi comandanti si ripresero sul Piave? Oppure la ritirata da Caporetto al Piave epurò l'esercito italiano dagli elementi più vili e più riottosi, tesi che la Storia Ufficiale italiana addita, senza sostenerla, a livello di pura ipotesi di lavoro? La cosa non sarebbe inverosimile, se l'intero esercito italiano fosse stato coinvolto nella rotta. Ma poiché quella che andò distrutta fu la sola II armata e la resistenza sul Piave fu opera di tutte le altre, forse che gli elementi peggiori si erano annidati solo in essa? La II armata era dunque l'armata dei codardi e dei rivoluzionari?

Studiando e ristudiando gli eventi di quei pochi giorni, così come si analizza un diamante storico, ogni faccia identica all'altra e tutte ugualmente brillanti nelle loro sfaccettature reali e psicologiche, ho cercato il microscopico punto nero, il difetto che si annidasse per caso all'interno del cristallo e desse la chiave dell'enigma. Perché di un enigma si tratta, e tale - ne sono convinto - intimamente lo considerano tutti coloro, nessuno escluso, che hanno studiato quel memorabile eppure insignificante evento, pur proclamando che intorno a Caporetto non esiste alcun mistero. A un certo punto quel microscopico difetto nero mi pare di averlo intravisto; ed è l'argomento di questo libro. È un punto nero, un marchio quasi invisibile, ma della specie peggiore. La mia revisione mi ha portato a concludere che Caporetto può essere visto sotto due angolazioni diverse: sotto quella storica, e allora hanno la loro parte di ragione tutti coloro che ne parlarono, pur esponendo le tesi più contrastanti; o sotto l'angolazione dello studio caratteriale di un popolo - del popolo italiano - e allora Caporetto assume un valore permanente. È un valore permanente e negativo, tanto da affermare che la vera Italia non è quella del Piave, ma quella di Caporetto. Caporetto, scritto con la c minuscola, è un iceberg temporale, su cui è distesa la storia d'Italia e del quale affiora, saltuariamente, solo la punta - una Caporetto storica -, ma che rappresenta una costante nella vita italiana e nella cronaca di ogni giorno. Caporetto viene da lontano e va lontano. L'Italia del Piave non è la regola ma l'eccezione. Perciò è giusto e lecito riservare al libro il sottotitolo: Una battaglia e un enigma. Quello che avvenne il 24 ottobre 1917 era già avvenuto prima, avvenne dopo, avviene sotto i nostri occhi e vi sono le premesse perché avvenga anche in futuro. È il Piave, sono i suoi sinonimi, che vanno cercati lungo la storia con la lanterna del minatore, che si accinga a sviscerare montagne, per trovare qualche prezioso fra tanta ganga. Questa però - mi si obbietterà - non è vera storia: piegare un evento storico a emblema di una tesi è qualcosa di diverso e deteriore. Non accetto il deteriore né accetto il diverso. Non ho piegato un evento per dimostrare una tesi. È vero invece che nel corso dello studio dell'evento mi sono reso conto che si trattava di una manifestazione acuta di un'infezione cronica. Tuttavia, nello svolgere

l'intricata matassa, ho cercato anche di fare opera di sintesi storica per taluni aspetti finora trascurati, benché a portata di mano, mimetizzati però dal caso o dall'omertà. Spero dunque vivamente che l'attuale mio contributo sia considerato uno sforzo ulteriore, per cercare di capire, al di là dell'avvenimento, noi stessi e di che tempra siamo fatti.

Capitolo II IL QUADRO I combattenti italiani e austro-germanici, che si fronteggiavano sull'alto Isonzo il 24 ottobre 1917, non si curavano che la loro sorte fosse stata annodata con i fili di un destino, che si perdeva nella notte del tempo remoto: a rigor di logica, dagli albori dell'umanità. Ma, pur saltando a pie pari millenni e secoli sul sentiero accidentato e insidioso della storia, se qualcuno di loro ci pensò, rivedendo nei minuti di spasmodica attesa, in un processo quasi schizofrenico di associazione di idee, immagini care, amori perduti, orrori recenti e il significato esistenziale della vita, non poté non inciampare nella Rivoluzione francese e nell'avventura napoleonica. È la sconfitta di Napoleone, nel 1814, che cancella per sempre nell'animo della Francia il sogno di aspirare all'egemonia mondiale. I «cento giorni», finiti tristemente a Waterloo e poi a Sant'Elena nel 1815, sono l'ultimo spasmo di un cane idrofobo agonizzante. Ma l'effimera vampata napoleonica ha paradossalmente contagiato l'Europa sottomessa dal Bonaparte con i principi di libertà e uguaglianza, germinati dalla rivoluzione. La restaurazione legittimista, pur temperata da concessioni e riforme, regge solo trent'anni. Metternich, cancelliere austriaco e principe della restaurazione, è convinto che ordine e leggi emananti da governanti «buoni» e qualche bacchettata agli intellettuali «cattivi», configurantesi per esempio in alcuni anni di carcere duro allo Spielberg, siano una ricetta soddisfacente per la pace eterna. Il suo ideale non è il tiranno, ma il despota illuminato. Tutto dipendeva, naturalmente, dal grado di illuminazione. Quando nel marzo 1848 la folla viennese rumoreggia alla sua porta, egli si trova cieco in un mondo sconosciuto e ripara in Inghilterra. Ispirata dal nazionalismo liberale, la folla bussa contemporaneamente a molti usci: non solo a Vienna, ma a Parigi, a Berlino, a Francoforte, a Praga, a Budapest e in varie città italiane. Con velocità fulminea sovrani, da decenni tetragoni a ogni concessione pretesa dal basso, elargiscono costituzioni, il cui fiore all'occhiello è il suffragio universale. Ma, quando alla rivoluzione democratica si affianca la folla cenciosa del proletariato urbano, creato dalla dilagante industrializzazione, molti «liberali» rinsaviscono. A Parigi, a spegnere

l'incendio, provvede il generale Cavaignac, usando sangue anziché acqua. In molte parti dell’impero d'Austria e in Germania la nuova restaurazione fu meno cruenta: ma in Ungheria ci pensarono i russi dello zar Nicola I a dar manforte all'imperatore Francesco Giuseppe, per restaurare l'ordine vecchio. In Italia le sommosse le spensero le forze fedeli all'imperatore d'Austria e i nuovi rivoluzionari «rinsaviti» francesi. Del virus della libertà qualcosa però rimase. È tuttavia storicamente rilevante che la rivoluzione sociale si dissoci da quella democratica, che ne ha avuto paura. Si crea così uno iato spirituale, che dominerà anche il secolo venturo. La rivoluzione sociale vede nella democrazia liberale un nemico da schiantare. L'antinomia sarà superata solo con l'avvento del benessere generalizzato, che può conciliare la diseguaglianza meritocratica con la sopravvivenza decorosa degli inetti o degli sfortunati. In un mondo obbiettivamente eurocentrico, già tutto scoperto ma non tutto ripartito, le uniche tre grandi potenze con ambizioni mondiali - la Francia (sia pure ridimensionata nelle sue mire), l'Inghilterra e la Russia - si espandono nelle direzioni per ciascuna più congeniali, con modeste interferenze reciproche. Delle tre è l'Inghilterra, protetta dal mare e difesa dalla sua flotta che lo domina, a sentirsi più splendidamente isolata: guarda agli avvenimenti «continentali» con un certo distacco, tanto più che un po' di libertà in casa l'ha salvata dai torbidi del 1848-1849, e la spaventosa carestia, che spopolò l'Irlanda per fame e per fuga, passa inosservata. Verso i suoi due rivali non nutre certo acredine. Ma, quando nel 1853 la Russia attacca briga con la Turchia avendo di mira Costantinopoli, le mire russe sul Bosforo sono più di quanto l'isolamento inglese conceda. E Napoleone III, il neo-imperatore figliato dalla «rivoluzione rinsavita», brama di acquisire il prestigio che ancora gli manca, cingendo il lauro di una vittoria qualsiasi. Francia e Inghilterra dopo due secoli si trovano perciò alleate, e solidarizzano con la Turchia contro la Russia, radunando un esercito a Varna. Ma la Russia si ritira dai territori turchi occupati, lasciando gli avversari nell'imbarazzo se smetterla o continuare le ostilità senza motivo. Si scelse questo secondo partito, perché il gabinetto inglese, osservando di sfuggita una carta geografica, ha scoperto che la Crimea russa è una penisola collegata alla terraferma da un istmo sottile, che i cannoni delle navi possono

rendere intransitabile. Il consesso ministeriale non sa che l'acqua dall'una e dall'altra parte del famoso istmo - non è profonda un metro e nessuna nave può cabotare nelle vicinanze. Cambiati i piani, si decide di assediare Sebastopoli, operazione celebre soprattutto per la più stupida carica di cavalleria di tutti i tempi, quella della brigata leggera inglese, che ne uscì massacrata. L'assedio di Sebastopoli durò un anno e fu contrassegnato da un crescendo di inettitudini da entrambe le parti, in campo militare e logistico: reparti inglesi, che ricevettero scarpe tutte del piede sinistro, condizioni ospedaliere cui cercò di porre rimedio la buona volontà di Florence Nightingale, e Napoleone III, che voleva dirigere la guerra da Parigi col telegrafo. Alfine, dopo perdite enormi principalmente dovute a epidemie, i belligeranti erano stufi della guerra senza scopo. A Parigi si riunì pertanto un congresso che, fra dolcezze e festività, pervenne a una pace bianca nel marzo 1856. Finita così la guerra fra soci rivali, l'Inghilterra può rientrare nel suo splendido isolamento, di cui avrà estremo bisogno quando, nel 1857, nella perla delle sue colonie, l'India, scoppiò la grande rivolta. Per due anni divampò crudele la guerra, superata dalla violenza della repressione che rappresentò un picco di ferocia nei rapporti umani. Per mesi lo sport preferito fra i britannici d'India non fu la caccia alla tigre, ma legare i ribelli alla bocca dei cannoni e far fuoco. Ma una coda il congresso di Parigi l'aveva avuta: l'internazionalizzazione della questione italiana, ordita dall'occhio di lince di Cavour, pur munito di lenti spesse. L'impero austriaco, non ricambiando la gratitudine che doveva alla Russia per la gratuita repressione della rivolta ungherese nel 1849, si era schierato diplomaticamente a fianco degli anglo-francesi. Esso perdette così l'appoggio degli zar, ma non ricevette in cambio quello dei nuovi amici. All'unità d'Italia Napoleone III era sentimentalmente legato, e lo era senza sentimento - anche l'Inghilterra, poiché un'Italia unita avrebbe contrastato la potenza francese, cosa che non guastava. In un tumultuoso precipitar di eventi nacque così il regno d'Italia, mentre dalla Prussia sgorgava la Germania, federativamente unita sotto l'impero degli Hohenzollern. Negli stessi anni, dopo una lotta fratricida per decidere se la schiavitù dei negri fosse ancora compatibile col capitalismo industriale, emergevano gli Stati Uniti d'America. E dalle terre del Sol Levante avanzava un concorrente con gli occhi a

mandorla: il Giappone. Col 1870 il predominio mondiale della triade anglo-franco-russa può considerarsi sepolto. Terre da occupare e popoli da «civilizzare» a suon di nerbate ce ne sono però ancora. Non l'America, no: fin dal 1821 il presidente Monroe ha avuto l'infelice idea di sfoderare la dottrina che porta il suo nome: che interferenze europee nelle Americhe non sono più tollerabili. E alla fine del secolo XIX gli Stati Uniti sono divenuti una grande potenza economica e industriale, che comincia a incutere timore; che scaccia gli spagnoli da Cuba; e che si impadronisce delle Filippine, cui promette l'indipendenza. Ma l'Africa, la maggior parte, è di chi se la prende, e anche l'Asia sud-orientale. E in Africa avanzavano avide l'Inghilterra e la Francia, la prima assicurandosi una lunga striscia verticale dal Cairo al Capo, la seconda prendendosene la parte gibbosa, che in epoca terziaria era unita all'America. La Germania, con minore convinzione, si assicura anch'essa importanti possedimenti in Africa e nel Pacifico equatoriale. E tutti strappano concessioni economiche alla Cina, debole sul piano militare, ma gravida di una sterminata popolazione. Verso la Cina la Russia ha addirittura ambizioni territoriali, ma s'imbatte in un concorrente pericoloso: l'impero del Sol Levante. Nel 1904-1905 una dura mazzata di quest'ultimo ferma in Manciuria l'orso russo, sbaragliandolo per terra e per mare. Si parla di «pericolo giallo»: la verità è che i prepotenti devono, fra i prepotenti, annoverare anche il Giappone. Più malaccorta, l'Italia il suo spazio vitale, anziché cercarlo in casa propria dove lo troverebbe nel sud miserabile e in molte sacche arretrate del centro-nord, lo insegue nel corno d'Africa: un corno duro, che ad Adua le spezza i denti. Nel mondo va dunque crescendo l'inquietudine, mentre la moltiplicata aggressività, che si sfoga in conflitti localizzati, configura un nuovo equilibrio, più fragile del precedente. I conflitti avvengono in periferia, ma il peggio è in Europa. Ora la guerra di Crimea, che aveva visto gli anglo-franco-turchi contro la Russia, o quelle fra i francopiemontesi e l'Austria nel 1859, fra Prussia e Austria contro la Danimarca nel 1864, fra Prussia e Italia contro l'Austria nel 1866, e la guerra franco-prussiana del 1870-1871 sono inconcepibili. Non più guerre moderate a obbiettivi limitati, non più la guerra come continuazione dell'azione politica con mezzi diversi da quelli diplomatici: ma la Guerra all'ultimo sangue, fino allo sterminio del nemico. Industriali e finanzieri dicono che la guerra è impossibile,

perché consumerebbe i vincitori non meno dei vinti. La Seconda internazionale socialista, che riunisce la stragrande maggioranza dei lavoratori del braccio, minaccia lo sciopero generale internazionale, se qualche sconsigliato minaccerà la «grande guerra». I circoli militari sono invece ottimisti: la guerra sarà immane, ma breve. Sarà una lotta fra pesi massimi, che durerà una sola ripresa. L'aviazione? È dello sport. La mitragliatrice? Un utile complemento del fuoco di artiglieria. Ma, e quella mitragliatrice, che ha falciato in Manciuria 200 soldati giapponesi, senza essere agguantata? Episodio di guerra coloniale, il Giappone non è ancora una nazione moderna. E il filo spinato, e le trincee, che hanno fatto la loro comparsa in Estremo Oriente? Impossibili in Europa: un continente civile. Su questo sfondo si è andato creando in Europa un braccio di ferro, che ha conferito al sistema politico una vetrosa fragilità. L'alleanza fra l'impero germanico e quello plurisecolare degli Asburgo, allargata nel 1882 all'Italia, è voluta dal cancelliere tedesco Bismarck, per togliere alla Francia ogni velleità di rivincita per la sconfitta patita per opera della Prussia nel 1870. Ma la Triplice Alleanza evolve anche in senso antirusso, sbarrando all'impero degli zar ogni tentativo di aprirsi nel Mediterraneo. È quindi fatale che nel 1893, tra Francia e Russia, si addivenga a una controalleanza, alla quale una dozzina di anni dopo si associa l'Inghilterra. La Gran Bretagna ha sentito che il suo splendido isolamento non paga più. La spettacolare ascesa economica e scientifica della Germania, dovunque concorrente sempre più aspra dell'industria britannica, assopita nella siesta di una superiorità manifatturiera ormai evanescente, è sentita come un incubo, specialmente da quando la Germania ha deciso di costruire una grande flotta da battaglia, per costringere l'Inghilterra a venire a patti eguali con l'impero tedesco. Un'ennesima tornata di conflitti locali è innescata nel 1911 dall'Italia con l'impresa libica. Pur molto costosa, anche se quasi incruenta, la guerra si conclude a suo vantaggio, perché la Turchia, minacciata dalla lega delle nazioni balcaniche, è costretta ad abbandonare la Libia. Ma, sconfitta anche dalla lega, deve abbandonare le ultime province europee, esclusa la Tracia e Costantinopoli. Nell'estate del 1913 il nuovo incendio balcanico viene però spento mediante l'opera delle grandi potenze, che tirano un sospiro di sollievo, perché nessuno vuole battersi per Durazzo o Uskub.

Tuttavia il crollo delle posizioni turche in Europa scopre l'impero austro-ungarico. Tale infatti è divenuto dal 1867 quello degli Asburgo, diviso in due regni: l'Austria tedesca e l'Ungheria magiara, con un solo sovrano, l'imperatore. Negletta la nazionalità più numerosa, quella slava. E mentre a Vienna si cerca una soluzione «trialistica», cui sono ostilissimi gli ungheresi - liberali con se stessi, ma oppressori verso i dominati -, l'irredentismo slavo riceve alimento dalla Serbia e dal Montenegro, ampliatisi con le guerre balcaniche. È un irredentismo manovrato dalla Russia, dove, quanto più si dissesta la situazione interna tanto più si accendono ambizioni di eversione esterna per destabilizzare l'Austria-Ungheria. Ora poi che la Russia si va velocemente industrializzando, divampa in Germania la fobia dell'accerchiamento strategico, ingenerando nei governanti tedeschi la sensazione di avere il tempo nemico e le ore contate. Mentre alla Triplice Alleanza si contrappone frontalmente la Triplice Intesa, in uno schieramento privo di elasticità, un'ulteriore insidia viene dalla commistione fra piani di guerra e problemi politici. In quarant'anni è così mutato il panorama che i potenziali nemici sono considerati tali per l'eternità. Avviene pertanto che, sotto l'ispirazione del generale Schlieffen, la Germania abbia elaborato un piano di operazioni che, dando per assiomatica l'alleanza tra la Francia e la Russia, prevede di sconfiggere i nemici con una manovra in due tempi in rapidissima successione. La forza d'urto germanica verrà scagliata contro la Francia, mentre l'Austria, con poche truppe tedesche, terrà a bada la Russia, la cui mobilitazione è supposta più lenta. Sbaragliato e aggirato l'esercito francese con un grandioso inviluppo attraverso il Belgio, schiacciatolo poi contro la frontiera alsaziana, l'esercito tedesco sarà successivamente scagliato, con quello alleato, contro la Russia, addivenendo a una pace di compromesso col gigante slavo. Quali sono i più riposti scopi di guerra tedeschi? Affermarsi come grande potenza mondiale, avendo le radici della sua forza piantate nella «Mitteleuropa»: un impero tedesco circondato da fedeli alleati o servili vassalli. Mirando così in alto la Germania non si preoccupa che il piano Schlieffen preveda l'invasione del Belgio, di cui è internazionalmente garantita la neutralità. Chi darà peso a questa violazione temporanea di un piccolo stato?

Nella tranquilla primavera del 1914, tuttavia, nulla faceva presagire l'eruzione improvvisa di tanto furore e di tanto livore - accumulati dal nazionalismo, che ha trasformato in cupidigia di sopraffazione il vanto culturale delle nazionalità -, che esplose nell'Europa civile dopo anni di quiescenza; né quale diabolica ragnatela costituissero le alleanze interconnesse. Il detonatore occasionale fu l'assassinio dell'erede al trono asburgico per mano di anarco-nazionalisti serbi. Il 28 giugno 1914 Francesco Ferdinando cadeva, freddato insieme alla moglie morganatica dai colpi di rivoltella di Gavrilo Princip. L'Austria, che sentiva la minaccia del nazionalismo slavo, negazione della sua stessa storia, credette giunto il buon momento della resa dei conti, in ciò avendo l'avallo del cancelliere tedesco Bethmann-Hollweg. In sinistro silenzio essa preparò la contromossa, dopo che si era quietata l'emozione per il gravissimo fatto di sangue. Il 23 luglio 1914 la Serbia è messa di fronte a un ultimatum non trattabile, che prevede tra l'altro l'intromissione di funzionari austriaci nell'indagine in corso, per scoprire donde vengano i mandanti degli assassini. Questi vengono effettivamente da molto lontano, da Pietroburgo; e il governo zarista incoraggia la Serbia a respingere le clausole più lesive della sua sovranità. Il 25 l'Austria richiama l'ambasciatore da Belgrado e il 28 dichiara telegraficamente la guerra. Da quel momento gli eventi si susseguono con accelerazione incontrollabile, che in pochi giorni mise a fuoco l'Europa e contro la Germania e l'Austria-Ungheria vide schierate la Francia, la Russia, la Serbia e l'Inghilterra, al cui governo fece immensamente comodo la violazione tedesca della neutralità belga, per acquisire il consenso unanime della nazione e dell'impero. L'Italia, tenuta dagli alleati all'oscuro delle loro trame, si dichiarò neutrale. [Nota. Per le cause della prima guerra mondiale resta ancora fondamentale l'opera di Luigi Albertini, Le origini della guerra del 1914, 3 voll., Bocca, Milano 1943. Una visione più recente, ma assai più asciutta, in J. Droz, Les causes de la première guerre mondiale, Seuil, Paris 1973. Fine nota.] Il primo titanico scontro delle armi si estrinsecò nella più sanguinosa battaglia della storia. Poco mancò che la manovra tedesca riuscisse, essa cioè fallì; e lungo la Marna il generalissimo tedesco von Moltke si dichiarò sconfitto ancor prima di esserlo. Il suo crollo spirituale e la bancarotta del piano Schlieffen indussero il Kaiser a sostituirlo col ministro della Guerra, generale Falkenhayn, uno junker

non privo di senso politico. In una frenetica corsa al mare, ciascuno dei due avversari cercando di avviluppare l'ala monca dello schieramento nemico, ai primi di dicembre del 1914 i due eserciti avversari finirono a bagnarsi le gambe nelle acque della Manica e fu giocoforza fermarsi. Dal confine svizzero a Dixmude il fronte di lotta si congelò in una serie continua di trincee. La Russia, il cui intervento mal preparato fu però più precoce del previsto, a prezzo di dure sconfitte salvò il fronte occidentale e, in primo luogo, la Francia. Sul piano umano il 1914 si chiuse con un bilancio agghiacciante: quattro milioni e mezzo di soldati caduti, feriti o dispersi; e la guerra era giunta a un punto morto. La Germania era saldamente piantata sul suolo straniero, ma Falkenhayn vedeva sullo sfondo lo spettro della disfatta. L'Intesa, che aveva retto a stento al primo urto, era tuttavia convinta di avere con sé il tempo e le ricchezze del mondo intero, poiché la flotta britannica dominava i mari, condannando gli Imperi Centrali a consumarsi nelle proprie insufficienti risorse. Per il 1915 Falkenhayn optò in occidente a favore di una strategia difensiva, cercando a oriente una decisione almeno parziale: l'eliminazione della Serbia, il collegamento territoriale con la Turchia che nel novembre 1914 si era alleata con la Germania e la neutralizzazione, almeno temporanea, dell'esercito russo. E il programma riuscì. Passata agli Imperi Centrali anche la Bulgaria, la Serbia e il Montenegro vennero occupati, assicurato il collegamento terrestre con la Turchia, e lo sfondamento del fronte russo a Gorlice il 2 maggio 1915 provocò la semidistruzione dell'esercito russo. La Russia nel corso del 1915 perse tre milioni e mezzo di uomini, ma evitò il completo accerchiamento dei suoi eserciti. Abbandonate la Polonia, la Galizia e la Lituania, poté così leccarsi le ferite e preparare la riscossa su un fronte più arretrato. La contromanovra escogitata in oriente dagli anglo-francesi per conquistare Costantinopoli - l'impresa dei Dardanelli - finì invece in un disastro. Le truppe rimaste a Gallipoli furono allora evacuate e sbarcate a Salonicco, per tentare di aprire un fronte contro i bulgari, ma l'impresa si arenò sui primi contrafforti della Tracia. Ma i più feroci e prolungati combattimenti del 1915 si svolsero sui fronti d'occidente. La battaglia difensiva sostenuta dall'esercito germanico contro gli anglo-francesi terminò in un incontestabile successo tedesco. Altrettanto accadeva sul fronte italiano, dopo che alle ore zero del 25

maggio 1915 l'Italia aveva aperto le ostilità contro l'Austria-Ungheria. [Nota. Un resoconto sommario della prima guerra mondiale è contenuto nel mio libro: La decadenza dell'Europa occidentale, vol. II (L'esplosione 1914-1922), Einaudi, Torino 1978. Fine nota.]

Capitolo III LA GUERRA D'ITALIA L'intervento italiano è una pagina illuminante sulla psicologia dei nostri ceti dirigenti. Alleata degli Imperi Centrali, l'Italia si era rifiutata di entrare in guerra, non riconoscendo nella macchinazione austriaca contro la Serbia, avvenuta a sua totale insaputa, una giustificazione per fare scattare l'alleanza difensiva. La neutralità, subito dichiarata ai primi d'agosto del 1914, trova pertanto un consenso unanime nel mondo politico e nell'opinione pubblica. Tuttavia, il brusco arresto dell'offensiva germanica sulla Marna inserisce i primi dubbi sulla invincibilità tedesca, prima indiscussa. Macule interventiste vanno perciò formandosi nell'autunno del 1914, fino a raggiungere progressivamente una consistenza non trascurabile e un vociare assordante. È un interventismo composito e quindi equivoco. Per l'intervento a favore dell'Intesa si pronunziano, via via, i nazionalisti, la destra conservatrice, il centro-sinistra repubblicano e radicale, il socialismo riformista e l'anarco-sindacalismo. Contro la guerra sono invece - con alcune eccezioni di rilievo, come quella di Luigi Albertini, direttore del «Corriere della Sera» - i ceti borghesi col loro leader più prestigioso, Giovanni Giolitti, il mondo cattolico, fedele alle tendenze politiche della Santa Sede, e i socialisti. In termini numerici è una grossa maggioranza, evirata però nella voce. I fautori dell'intervento di parte progressista si rifacevano agli ideali della democrazia - inglobando fra i bardi di questa anche lo zar di tutte le Russie -, alla lotta contro le superstiti autocrazie dell'Europa centrale, alla liberazione di Trento e Trieste. I nazionalisti, sbiadendo le tinte progressiste, parlavano più volentieri della Dalmazia, del dominio dell’Adriatico, del protettorato sull'Albania e di compensi coloniali. Tutti poi additavano la diminuzione di statura politica incombente sull'Italia, se fosse rimasta spettatrice passiva. I vincitori non avrebbero dimenticato né perdonato. E se vincitori fossero stati gli Imperi Centrali, si sarebbero anche vendicati della nazione, che accusavano traditrice di un'alleanza trentennale. A ciò i neutralisti potevano opporre solo piatte considerazioni di buon senso: l'Italia era una costruzione ancor fragile, le finanze dissestate dalla guerra libica, i guadagni non pari ai gravissimi rischi e

alle sicure perdite. Ai pochi che inneggiavano con grida alte e forti a Trento, a Trieste e al resto, i molti opponevano il sommesso «parecchio», che, secondo Giolitti, si sarebbe potuto estorcere all'Austria, se le avessimo assicurato la nostra provvisoria neutralità: giacché di intervento al suo fianco nessuno parlava più. A buon conto, parlando di interventisti e neutralisti, va esclusa la classe contadina più di metà della popolazione - che godeva, sì, del diritto di voto elargito dal suffragio universale, ma che non faceva opinione pubblica. La politica era accessibile all'Italia nei limiti in cui vi penetravano le ferrovie. La popolazione che distava più di dieci chilometri da una stazione era come tagliata fuori dal mondo. Alla fine dell'inverno del 1914, mentre la stampa e le piazze si agitavano, il governo italiano, presieduto dall'onorevole Salandra e del quale era ministro degli Esteri Sidney Sonnino, segretamente trattava sui due fronti. Dall'Intesa, come compenso dell’intervento, si vedeva offrire più o meno quel che chiedeva. Dagli Imperi Centrali, come prezzo della neutralità, il Trentino fino al confine etnico, una striscia fino all'Isonzo, mano libera in Albania e - in extremis - lo statuto di «città libera» per Trieste: il tutto però, sia pure con garanzia personale del Kaiser, a guerra finita (e vinta). Il 26 aprile 1915 si concludevano le trattative con l'Intesa mediante la firma del patto di Londra, col quale l'Italia si impegnava a entrare in guerra entro un mese. Benché si trattasse di un accordo segreto, esso fu seguito da manifestazioni interventiste sempre più vistose, se non violente. Ma il governo, insicuro della base parlamentare, si dimise, lasciandosi alle spalle una situazione inestricabile: rotte le trattative con gli Imperi Centrali, rotta l'alleanza con essi, siglato il patto con l'Intesa, scoperta la Corona, avendo il re dato l'assenso al nuovo accordo, il gioco era andato tanto oltre, che la dichiarazione di guerra, almeno all'Austria, era divenuta una coartata necessità. Nessuno aveva idea di quel che sarebbe avvenuto, se l'Italia non avesse mantenuto fede al patto di Londra. Su due punti la storia è muta: quali reazioni gli alleati avevano studiato, se l'Italia non avesse firmato il patto; e quali se, firmatolo, non lo avesse rispettato. Il loro potere ricattatorio era comunque enorme: grano, carbone e tutto il resto, che all'Italia serviva per vivere. Di contro, gli Imperi Centrali all'Italia non potevano offrire nulla. L'Italia era già una nazione a sovranità limitata. Così Salandra, di cui il re respinse le dimissioni, il 20 maggio poté ottenere i pieni poteri

da una Camera violentata nei suoi sentimenti. Era la guerra, che fu dichiarata il 24 maggio, in mezzo alla divisione e all'acredine degli animi. Ma i coscritti e i richiamati obbediscono con disciplina. Tuttavia coloro che si aspettano una breve guerra di stile garibaldino sono presto disillusi. L'esercito austriaco, benché assai inferiore per uomini e mezzi, si trincera sul Carso, lungo l'Isonzo e su tutto l'arco montano che va dalle Alpi Giulie allo Stelvio. Anche sul fronte italiano si instaura la guerra di trincea, una guerra statica, dilapidatrice di uomini e di ricchezza, in cui sarebbe uscito «vincitore» il meno dissanguato. Il capo di stato maggiore, generale Luigi Cadorna, se prima della dichiarazione di guerra ha mostrato una certa fiducia nella sua brevità, poco dopo si affretta a prospettarla lunga. L'esercito - oltre un milione di uomini non basta più: ci vogliono altri soldati, molte artiglierie, moltissime mitragliatrici; bisogna mettere sotto pressione l'intera nazione. Ma le quattro offensive, consumate sul fronte del Carso nella seconda metà del 1915, al prezzo di 270.000 uomini fra morti, feriti e dispersi, non danno alcun risultato. È lo stallo, qui come sul fronte occidentale. Il 1916 sorge per l'Intesa sotto auspici non favorevoli, eccetto il progressivo potenziamento dell'esercito britannico, che a metà dell'anno supera i due milioni di uomini, tutti ancora volontari. Ora i successi acquisiti sul fronte orientale consentono alla Germania e all'Austria-Ungheria di riportare in occidente lo sforzo principale, però con obbiettivi divergenti nelle intenzioni, nel tempo e nello spazio. Il 21 febbraio i tedeschi attaccano la piazzaforte di Verdun, non per conquistarla, bensì per attirarvi progressivamente l'esercito francese e stritolarlo in una battaglia di logoramento, per la quale Falkenhayn crede di possedere la ricetta migliore. Il capo di stato maggiore austroungarico, Conrad von Hötzendorf invece - poiché Falkenhayn impegnato a Verdun gli ha negato consistenti aiuti - alleggerisce i contingenti schierati lungo il fronte russo, dove non sospetta sorprese, per concentrare una grossa forza d'urto nelle montagne del Trentino volte verso la pianura vicentina. L'enorme difficoltà di accumulare e manovrare mezzi adeguati in regione tanto aspra è controbilanciata dalla posta in gioco: lo sbocco delle divisioni austriache nella pianura veneta e l'accerchiamento dell'esercito italiano insaccato nel Friuli.

Il 15 maggio 1916, appena lo permettono le condizioni meteorologiche, scatta la Strafeexpedition, la spedizione «punitiva». La XI armata austro-ungarica passa all'attacco fra la val d'Adige e la Valsugana, spalleggiata dalla III, destinata allo sfruttamento del successo. Se l'offensiva non è una sorpresa per Cadorna - che pure fino a pochi giorni prima ha persistito in un pervicace scetticismo - lo è per l'opinione pubblica. Improvvisamente l'Italia scopre, senza che alcuno l'avesse prima messa in guardia, di trovarsi in pericolo mortale. E, mentre per venti giorni formidabili posizioni montane cadono una dopo l'altra, il governo Salandra si sente ventilare dal generalissimo la possibilità che l'esercito dell'Isonzo debba ripiegare, abbandonando il Veneto, pena la sua totale distruzione. Solo il 3 giugno il bollettino italiano può annunciare come verità quella che lo è solo a mezzo: «L'incessante azione offensiva nel Trentino è stata dalle nostre truppe nettamente arrestata lungo tutta la fronte di attacco». [Nota. I bollettini della guerra, Alpes, Milano 1924. Fine nota.] Il contraccolpo politico del rischio a malapena sventato è la caduta di Salandra. Si costituisce un governo di «unione nazionale», con esclusione dei socialisti. Lo presiede l'ottuagenario Boselli, Sonnino rimane agli Esteri, Vittorio Emanuele Orlando è ministro degli Interni. Per i tedeschi, a Verdun, non è andata meglio. La guerra di dissanguamento, cui Falkenhayn ha sperato di dannare l'esercito francese, col volgere delle settimane si rivela un logoramento quasi altrettanto grave per quello germanico. E a sollevare ulteriormente le sorti degli eserciti francese e italiano i russi scatenano una grande offensiva, subito travolgendo l'esercito austro-ungarico, costringendo Conrad a supplicare l'aiuto della Germania. Solo ponendosi nuovamente sulla difensiva in occidente, gli Imperi Centrali possono far fronte all'offensiva russa e alla nuova inaspettata minaccia romena. La Romania, infatti, alla quale i successi russi han dato alla testa, vuole conquistare le terre asburgiche abitate da romeni. Nell'agosto del 1916 anch'essa entra quindi in guerra, conseguendo inizialmente facili successi. Ma di lì a poco si vede attaccata a sud e a ovest da manovrieri eserciti austro-germanici, che ne fracassano l'esercito, alla fine dell'anno respingendone i resti lungo il Sereth, a mala pena protetti alle spalle dall'esercito russo. Nella seconda metà del 1916 gli anglo-franco-italiani riprendono le logoranti offensive, dalle quali li aveva distratti l'iniziativa nemica. Da

luglio a novembre divampano i combattimenti lungo la Somme, e a svenarsi è soprattutto l'esercito inglese, che nel solo primo attacco, sferrato il 1° luglio, perde 60.000 uomini fra morti e feriti. L'offensiva inglese è caratterizzata da una impreparazione pressoché totale delle truppe, accettata con cinica rassegnazione dal comando britannico, che non aveva creduto possibile, di una massa di cittadini che mai avevano prestato servizio militare, fare dei combattenti. In compenso il comandante britannico Douglas Haig conta di schiacciare i tedeschi con una devastante superiorità materiale: con un'artiglieria che tutto spiana, lasciando solo morte nelle trincee tedesche. L'esercito tedesco regge bene all'urto con un principio di difesa mobile, ma una sensazione di serpeggiante terrore per questo abbrutimento dei combattimenti lascia traccia nel comando germanico. Alla fine di agosto Falkenhayn, cui si attribuisce la scarsa percezione dimostrata nell'attacco a Verdun, viene liquidato e mandato a riscattarsi in Transilvania, a comandare l'armata tedesca che travolse i romeni, armata che Falkenhayn guida con molta perizia. Capo di stato maggiore viene nominato Hindenburg, il grande vincitore del fronte russo; e costui si porta dietro, con la carica di intendente generale, il generale Ludendorff, suo braccio destro. La diarchia funziona: Hindenburg e Ludendorff formano una coppia, esente da gelosia, in cui Ludendorff si prende carico della parte operativa, lasciando a Hindenburg la funzione di autorità-cuscinetto fra sé e il Kaiser. Prima cura di Ludendorff, appena entrato in contatto con la realtà traumatizzante del fronte occidentale, è lo studio e la messa a punto di una nuova tattica difensiva e controffensiva, perché la difesa statica è un allucinante suicidio. In Italia Cadorna, respinta la Strafeexpedition, tenta invano di recuperare il terreno perduto nel Trentino, Dopo breve ritirata gli austro-ungarici si trincerano su posizioni formidabili, da cui gli attacchi italiani, nonostante sanguinosissime perdite, non riescono a sloggiarli. Si volge allora, Cadorna, all'azione già preparata lungo l'Isonzo. Il 6 agosto le truppe italiane passano all'offensiva dal Sabotino al mare, raggiungono e superano l'Isonzo, conquistano Gorizia deserta e costringono l'ala meridionale della V armata austro-ungarica, comandata dal maresciallo Boroevic, a ripiegare per alcuni chilometri sul Carso. Ma non è una travolgente vittoria, non l'agognato sfondamento. Gli austriaci hanno ceduto terreno, per arroccarsi su una

nuova linea già preparata, contro la quale si infrangono, fra la metà di agosto e l'inizio di dicembre, gli assalti delle truppe italiane. L'inizio del 1917, tuttavia, a differenza dell'anno prima, si presentava oscuro per gli Imperi Centrali. Le loro risorse stavano assottigliandosi e il fondo già si vedeva, mentre la Russia si era ricomposta e gli eserciti britannico e italiano erano ancora in lenta crescita. Altro espediente la Germania non vide che scatenare la guerra sottomarina a oltranza, per tagliare i rifornimenti all'Intesa, che succhiava risorse da tutto il mondo e, con una produzione di armi ognora crescente, cominciava a dare, alle battaglie combattute e pur non vinte, un carattere di annichilimento, da cui la Germania non sperava di uscire vittoriosa: la guerra sottomarina a oltranza, anche a costo della rottura con gli Stati Uniti. Ed ecco che, mentre gli stati maggiori alleati si erano accordati per uno sforzo concentrico e quasi contemporaneo da scatenare nella primavera del 1917, il 15 marzo lo zar, il cui prestigio aveva subito una progressiva erosione, abdicava - gettando la Russia in una crisi politica di conseguenze insondabili - e il 6 aprile gli Stati Uniti dichiaravano guerra alla Germania. Frattanto la guerra sottomarina a oltranza, scatenata il 1° febbraio, conseguiva strepitosi successi, riassunti nell'affondamento in soli sei mesi di 1700 navi oceaniche al servizio dell'Intesa. La primavera del 1917 è dunque caratterizzata da una subitanea crisi politica di carattere mondiale, che lascerà la sua impronta anche sul mondo di oggi. L'intervento degli Stati Uniti dà all'Intesa la certezza della vittoria, ma i torbidi, in cui la Russia progressivamente precipita, la allontanano nel tempo. E il tempo stringe, poiché gli scopi di guerra sbiadiscono e i popoli cominciano a non tollerare lo sforzo di sangue e di miseria, che una nota del pontefice Benedetto XV, diretta in agosto a tutti i governi belligeranti, definirà «una inutile strage». Il fronte russo è immobile, ma gli Imperi Centrali non osano alleggerire il loro schieramento, che coinvolge ben 140 divisioni. Sono cessate le perdite, i reparti esausti provenienti da occidente vi si possono ricostituire, ma non sono cessati gli impegni. Solo con l'armistizio di Brest-Litovsk (5 dicembre 1917) e con la successiva pace, stipulata il 3 marzo 1918, rinascerà in Germania la speranza della vittoria, prima dell'arrivo in Europa di un grande esercito americano,

poiché anche la guerra sottomarina ha mostrato la corda. Essa, come il piano Schlieffen, ha «quasi» vinto la guerra, cioè non l'ha vinta. Ora molte truppe germaniche potranno essere riportate in occidente, non tante però quante si sperava, poiché l'occupazione dei territori strappati alla Russia, in preda alle convulsioni della guerra civile, che imperversa fra i Bolscevichi che hanno preso il potere l'8 novembre 1917 e le forze controrivoluzionarie, richiede ancora metà delle truppe schierate quando imperversavano i combattimenti. Gli anglo-franco-italiani perseguono tuttavia il programma concordato, senza remore d'incertezza, benché manchi il concorso russo. L'8 aprile gli inglesi attaccano nella zona di Arras, e il 17 i francesi scatenano, lungo lo Chemin des Dames, quella che, nelle intenzioni del nuovo comandante, generale Nivelle, deve essere l'offensiva decisiva: un uragano brutale di ferro e di fuoco, che romperà le linee tedesche in 24 o 48 ore al massimo. Per i francesi è il canto del cigno: l'offensiva è respinta con enormi perdite nel giro di qualche giorno, molti reggimenti si ammutinano, Nivelle è rimosso e sostituito col cauto Pétain. La Francia, della quale un settimo del territorio metropolitano è occupato dal nemico, ha perso dall'inizio della guerra tre milioni e mezzo di uomini. Si impone la più rigorosa difensiva e Pétain riassume la sua politica militare con le parole: «Io attendo gli americani e i carri armati». Ad attaccare restano gli inglesi che, senza darsi tregua, continuano la loro guerra di logoramento che sprofonda negli acquitrini delle Fiandre, ma tiene anche sotto una continua tensione nervosa il comando germanico. Il sacrificio inglese consente il lento recupero dell'esercito francese. E l'Inghilterra prosegue a combattere anche in Macedonia, nel Sinai, in Irak e sugli oceani contro i «corsari degli abissi», i neri sottomarini della Germania imperiale. E l'Italia? Fra la fine del 1916 e i primi mesi del 1917 fremiti di insofferenza percorrono anche il nostro esercito, fremiti repressi col pugno di ferro. L'Italia ha subito perdite enormemente inferiori a quelle francesi - circa un milione di uomini -, ma le truppe si sentono mal comandate, percepiscono una dissociazione mentale che le sovrasta e non vedono la fine del principio. Fedele agli impegni, il 12 maggio Cadorna scatena la decima battaglia dell'Isonzo, uno sforzo sanguinosissimo, che consente all'armata del generale Capello di

affermarsi sull'orlo occidentale dell'altopiano della Bainsizza. Nel Carso l'avanzata della III armata si misura invece in pochi chilometri e l'azione è interrotta il 26 maggio per le gravissime perdite. Ma proprio qui, nella notte sul 4 giugno, gli austriaci contrattaccano, riprendendo in due giorni il terreno perduto. Il 10 giugno la VI armata italiana attacca verso il Trentino nella zona dell'Ortigara; ma, nonostante la soverchiarne superiorità di uomini e di mezzi, dopo venti giorni è respinta esattamente sulle posizioni di partenza. Nella terza decade di luglio si tiene a Parigi una conferenza interalleata, cui partecipa anche Cadorna su insistenza del nostro governo. Si fanno ipotesi sulla possibile defezione della Russia (che pure in quei giorni sta combattendo a pro dell'Intesa la sua ultima offensiva), e all'Italia gli alleati chiedono due offensive a breve scadenza. Cadorna si impegna per una, sulla seconda si mantiene riservato. L'offensiva - l'undicesima battaglia dell'Isonzo - è effettivamente scatenata il 17 agosto da Tolmino al mare con 1.250.000 uomini. Sono 51 divisioni con più di 5600 pezzi d'artiglieria e bombarde, oltre 5500 mitragliatrici e 3600 mitragliatrici-pistole. Per 80 chilometri di fronte è uno schieramento imponente: Cadorna vuole - e per la prima volta può - fare la guerra all'inglese contro un nemico, che è meno della metà. Ma anche stavolta i progressi sul Carso sono minimi. Dove invece la battaglia di abbrutimento riesce, è sul medio Isonzo. Gli austriaci devono abbandonare la Bainsizza e ripiegare sull’orlo del vallone di Chiapovano, fuori dalla portata delle innumeri artiglierie italiane. È una grande vittoria! Il paese - quello ufficiale - tempesta Cadorna e Capello di telegrammi di felicitazioni. Ma giù nel vallone di Chiapovano l'esercito italiano non trabocca. Fermo a metà del deserto pietroso della Bainsizza, esso ha sempre conficcata nel fianco la testa di ponte di Tolmino, intorno alla quale gli austro-ungarici hanno fatto muro. E il 4 settembre, con la solita fulminea controffensiva, gli austriaci si riprendono quanto hanno perso nel Carso. La battaglia si riaccende terribile per il possesso del San Gabriele, dove dal 4 al 15 settembre si combatte una delle più spietate lotte della prima guerra mondiale. Le aride alture, immerse in un diluvio di fuoco, ingoiano battaglioni, i cui pochi superstiti torneranno segnati per la vita dall'ottundimento mentale. Ma la cima del San Gabriele resta austriaca.

Cadorna, stavolta, è scosso nella sua volontà di perseverare: da maggio alla metà di settembre l'esercito italiano ha perso quasi 400.000 uomini. Gli alleati, che hanno contribuito alla battaglia con un misero aiuto di 99 pezzi di medio calibro, li ritirano immediatamente, perché l'Italia desiste dall'offensiva. Ma Cadorna è irremovibile: il 18 settembre ordina alla II e alla III armata di predisporsi alla difensiva. Questa sarà messa alla prova, quando il 24 ottobre la XIV armata austro-germanica attaccherà il fronte italiano dell'alto Isonzo.

Capitolo IV LA PICCOLA CAPORETTO Nad Logem, il Volkovniak, il Faiti Hrib, l'inespugnabile Castagnevizza, poi la serie di quote insanguinate: la 31 nel vallone di Brestovizza, la 146, la 145 nord, la 135, il castello sulla ferrovia Venezia-Trieste, le propaggini di San Giovanni a quota 20 e infine la foce acquitrinosa del Timavo. Su questa linea si erano arenate, esauste, il 26 maggio 1917, dopo tre giorni di forsennati combattimenti, le truppe italiane della III armata, comandata dal Duca d'Aosta. Un terreno diabolico quello del Carso: c'era una leggenda slava sulle sue origini, che esso non fosse stato opera di Dio ma del demonio. Dal 26 al 31 maggio azioni di «consolidamento» avevano richiesto ulteriore tributo di sangue. Non erano risultati brillanti per una manovra in cui erano state coinvolte 16 divisioni. Altre 12, che costituivano l'armata di Gorizia, si erano battute giorni prima da Plava al Vippaco. Il generale Capello aveva continuato a scagliarle contro quota 383, contro il Kuk e il Vodice, e all'assalto dell'imprendibile monte Santo. Per giorni e per notti, al «Avanti, figli di puttane!» [Nota. Curzio Malaparte, La rivolta dei santi maledetti, Edizioni della Rassegna Internazionale, Roma l921, 1a ed. Fine nota.] urlato dai grigioverdi, si erano contrapposti gli «Hurrah!» gridati dai tirolesi, dai croati, dagli ungheresi, dai romeni e dalle altre nazionalità, che morivano per il loro imperatore nella decima battaglia dell'eterno Isonzo. Per lo sforzo immane il generale Cadorna aveva radunato 700.000 uomini: fucilieri, mitraglieri, bombardieri, artiglieri, genieri, addetti ai servizi e ai comandi. Ma i fanti disperati, su cui gravava massimamente il peso massacrante della lotta, non erano, fra le due armate, più di 250.000: e in quei pochi giorni, tra morti, feriti e dispersi, le perdite erano state di 112.000 uomini. Gli imperiali si erano difesi bene, subendo la perdita di «soli» 70.000 soldati. Ma la loro usura era stata superiore, poiché gli effettivi austro-ungarici non raggiungevano la metà di quelli italiani. Le posizioni essenziali per la protezione di Trieste erano ancora intatte, salvo l'Hermada che - trovandosi adesso a soli 2250 metri dalle prime linee italiane - ne era soffocato. Benché alto appena 323 metri, esso troneggiava sulle alture circostanti ed era il perno essenziale per

la tenuta del litorale adriatico. Lo difendeva la divisione del generale Jelogorski, strappato da soli dieci giorni ai suoi prediletti studi militari, alla guerra dei Sette Anni, di cui aveva ultimato il primo volume. Descrivendo la battaglia di Kolin, in cui erano caduti 8000 soldati e nella quale il grande Federico era stato battuto dagli austriaci, Jelogorski si era addentrato nei più minuti particolari; ma quando raggiunse il suo posto di comando sotto l'Hermada, capì di aver dimenticato un particolare: l'atroce, insopportabile lezzo di putrefazione cadaverica e di sterco del campo di battaglia. Quei pochi chilometri quadrati, una cinquantina, guadagnati dagli italiani fra il medio Isonzo e l'Adriatico, erano infatti una immensa distesa di morti in putrefazione, in mezzo ai quali spiravano i feriti dimenticati o irraggiungibili. Un soldato italiano, scattato insieme a migliaia di commilitoni da quota 285 all'assalto di Castagnevizza, era stato abbattuto, sull'orlo di una dolina, da un colpo di mitragliatrice, che gli aveva spezzato il femore. Dilaniato da un dolore feroce, riuscì a estrarre da una tasca il pacchetto di medicazione e ad applicarlo sulla ferita per arrestare l'emorragia, poi svenne. Quando si riebbe, intorno a lui non c'era più anima viva e persino il cadavere più vicino, col cranio scoperchiato, apparteneva a un battaglione croato. Il terreno fremeva per le continue esplosioni e a poco a poco nella sua mente si fece strada l'atroce sospetto che l'assalto italiano fosse stato respinto e che quel duellare di artiglierie sulla sua testa significasse che lui era immobilizzato nella terra di nessuno. Invano si agitò, vincendo l'acuto dolore delle ferite, per afferrare qualche ciuffo d'erba, con cui calmare la sete indicibile. Non ce n'era un filo tutt'intorno e di nuovo svenne, poiché il sole implacabile gli aveva accresciuto l'arsura della setticemia. Lo ridestò il fresco della sera, benché il cuore continuasse a battergli freneticamente nella gola. Tentò invano di gridare aiuto, mentre il fuoco tambureggiante di centinaia di cannoni batteva le opposte linee. Si convinse allora di essere perduto e si assopì col volto rivolto a oriente. Lo risvegliò per l'ultima volta lo sfolgorio insopportabile del sole nascente. Dall'orlo della dolina poteva vedere la vetta dell'Hermada, i cui fianchi, in quella prima luce del giorno, sembravano ancor più cupi. Ora la sua vista si anneriva e gli occhi si chiusero per sempre, senza una lacrima, rivolti a quella petraia, testimone indifferente di tanti eroismi. [Nota. Il racconto è dovuto a un combattente del Carso, che lo introdusse come prefazione al suo libro

di ricordi: Giuseppe Poli, Uomini del Carso, Edizioni Codara, Milano 1928. La rievocazione si riferisce a un giorno non precisato fra la fine di maggio e i primi di giugno del 1917. Di mio, ho aggiunto arbitrariamente la contemporaneità fra la morte del ferito e l'inizio della controffensiva dl Boroevic. Fine nota.] In quello stesso momento erano le cinque del 4 giugno - sei battaglioni austriaci dalla strada Komarie-Brestovizza si lanciavano verso le falde nord-occidentali dell'Hermada. Era cominciata la controffensiva di Boroevic. A Postumia, quartier generale della V armata austro-ungarica, ribattezzata in quei giorni Isonzo Armée, il maresciallo Boroevic sente di avere le spalle al muro. La sua difesa elastica, mutuata dai tedeschi, è stata efficace, ma ora egli è preso alla gola, poiché non ha più spazio per la manovra. Sul Carso ha tenuto testa alla III armata italiana, cedendo qualche chilometro, quattro nel punto più profondo. Ma il bastione dell'Hermada, che i soldati italiani, da Komarie alle foci del Timavo, vedono sovrastare implacabile davanti a loro, ha bisogno di respiro, per essere difeso - se necessario - un'altra volta. È quindi indispensabile contrattaccare e respingere il nemico intorno a esso. Contrattaccare, sì, ma con quali forze? Le poche truppe arrivate dai fronti russo e macedone si sono liquefatte nei combattimenti dei giorni precedenti. Con fatica egli racimola le divisioni 28a e 35a, due brigate da montagna e il 28° reggimento di Praga: nemmeno 4 divisioni. Una finta contro il Faiti deve lasciare il comando italiano disorientato sulla vera direzione della controffensiva, che si svolgerà a semicerchio intorno all'Hermada. E bisogna fare in fretta, prima che gli italiani riattino le posizioni sconvolte e le presidino con reparti non decimati dal fuoco. Da Nad Logem al mare, sospesa la fase offensiva, il Comando Supremo italiano ha lasciato alla III armata 3 corpi, forti di 10 divisioni. Tre di queste, contro le quali si svolgerà il massimo sforzo austriaco, sono assiepate all'estrema destra, lungo i 4 chilometri da Komarie al mare. Ma il VII corpo d'armata, da cui esse dipendono, di apprestamenti difensivi non si è preoccupato. Il 31 maggio il comando d'armata gli ha anzi prescritto di spingere «alacremente» [Nota. Ministero della Difesa, Stato Maggiore Esercito, Ufficio Storico, L'esercito italiano nella grande guerra (1915-1918), vol. IV, t. 2°-bis. Fine nota.] i lavori per una nuova ripresa offensiva. Il contrattacco

austriaco giunge dunque imprevisto. Scatta alle 21 del 3 giugno per l'azione diversiva contro il Faiti, della cui vetta si impadronisce con la sorpresa un reparto d'assalto. L'azione principale inizia invece alle 4 del 4 giugno contro il VII corpo, le cui trincee di prima linea sono stritolate da una violentissima preparazione di artiglieria, che dura appena quaranta minuti. Al sorgere dell'aurora le pattuglie austro-ungariche muovono all'assalto. La controffensiva austriaca - narra la Storia Ufficiale italiana - ebbe successo in due punti particolarmente pericolosi: nella giunzione fra la 16a e la 20a divisione a nord e fra la 20a e la 45a a sud. Il contrattacco era modellato sull'evoluzione della nuova tattica germanica: penetrare lungo le direttrici di minor resistenza, non insistere sulle altre. Impadronitosi di quota 135 il nemico puntò verso la galleria ferroviaria di quota 43 e in direzione di Flondar. Ritiratosi precipitosamente il II/71° [Nota. L'indicazione: II/71° significa «secondo battaglione del 71° reggimento fanteria». Ogni reggimento aveva tre battaglioni (eccezionalmente quattro). Fine nota.], alle 6,20 il I/71° fu travolto e costretto alla resa. Caduto sul campo il comandante della brigata Puglie (71° e 72° reggimento), ferito quello del 71°, anche quota 145 nord era occupata dal nemico. Della brigata Verona (reggimenti 85° e 86°, ciascuno su 4 battaglioni) il IV/86° rimase imbottigliato col suo comandante nella galleria ferroviaria di quota 43, lunga 150 metri e larga 7: erano un migliaio di uomini, dei quali 150 feriti, arsi e urlanti dalla sete. Resistettero l'intera giornata - mentre l'aria si faceva irrespirabile e ogni tentativo di sortita era rintuzzato dalle mitragliatrici austriache e dal lancio di gas lacrimogeni - nella speranza di essere liberati da un contrattacco. Alle 21,30, immersi in una impenetrabile oscurità, senza più acqua e munizioni, il comandante del battaglione decise di arrendersi. La stessa fine fece un altro battaglione, intrappolato nella galleria successiva, ancor più corta. Più a nord resistette il 245° fanteria, ma il gemello 246° (appartenente col precedente alla brigata Siracusa) perse quota 146, lasciando numerosi prigionieri in mano nemica. Tutto ciò era avvenuto nelle primissime ore del mattino. Verso le 8, formazioni nemiche, infiltratesi sulla strada San Giovanni-Monfalcone, riuscirono a circondare due battaglioni dell'85° e a farli prigionieri, compresi i due comandanti, uno dei quali gravemente ferito. La

situazione si calmò verso mezzogiorno, mentre il comando del VII corpo d'armata, rimasto privo di notizie per il completo collasso delle comunicazioni, preparava freneticamente e caoticamente il contrattacco. Nonostante l'abbondanza di truppe nelle vicinanze, questo fu lanciato solo alle 5,30 del giorno dopo. Il nemico aveva già sgombrato il Faiti, spazzato da un terribile fuoco di artiglieria, mentre il contrattacco del VII corpo italiano risultò tanto slegato che la brigata Arezzo (225° e 226° fanteria), raggiunta quota 145 nord, venne attaccata di fronte e aggirata su entrambi i fianchi. Ucciso il comandante del III/225°, ferito e catturato quello del 226°, la Arezzo dovette ritirarsi, lasciando 500 prigionieri. L'azione fu ripresa alle 15,15 ma alle 18,00, col consenso del comando d'armata, venne definitivamente interrotta. Il 6 giugno i combattimenti si spensero dovunque, poiché gli austriaci, lo scopo cui miravano - l'allentamento dell'assedio dell'Hermada - l'avevano ottenuto. Fra il vallone di Brestovizza e il mare le linee italiane avevano dovuto flettere di uno o due chilometri, cosicché l'Hermada venne ora a trovarsi a 3500 metri dalla più vicina posizione italiana. Il contrattacco austriaco era durato solo 48 ore, ma alle poche truppe italiane impegnate costò ben 22.000 uomini: 4000 morti, 8000 feriti e 10.000 prigionieri, molti dei quali certo feriti. Le perdite austriache furono forse un terzo delle nostre, ma talune unità subirono falcidie paurose: il 28° reggimento di Praga, pur catturando 3000 prigionieri e 40 mitragliatrici, su 1800 effettivi ebbe 300 morti e 900 feriti. [Nota. La gravità di tali perdite in soli due giorni e mezzo è messa in risalto dal confronto con talune battaglie decisive della seconda guerra mondiale. A el-'Alamein, per esempio, le perdite britanniche, in 13 giorni di aspra battaglia, furono di 13.500 uomini fra morti, feriti e dispersi (quasi tutti caduti) e 8000 italo-tedeschi morti e feriti e 30.000 prigionieri. Fine nota.] La disfatta di Flondar (per dare alla battaglia il nome della più importante località riconquistata dagli austriaci) era una manifestazione clamorosa che qualcosa non andava nella tattica italiana. Agli inizi della decima battaglia dell'Isonzo, la V armata austroungarica contava 215 battaglioni, 1700 mitragliatrici e 1325 cannoni, avendo contro il doppio di tutto. Eppure l'avversario non era passato. Inoltre, includendo la batosta di Flondar, gli italiani, benché avessero presa loro l'iniziativa delle operazioni, avevano perso più prigionieri

degli austriaci che si difendevano. Perché? Nella corretta risposta alla domanda era racchiuso il segreto della guerra sui fronti d'occidente. Il generale Cadorna non afferrò quel che era avvenuto, anche fuorviato dalle informazioni del comando della III armata. Già il 30 maggio aveva detto al colonnello Angelo Gatti che il giorno prima 800 uomini della brigata Puglie, che avevano occupato quota 28 a est del Timavo, erano passati al nemico, armi e bagagli. Con gli ufficiali? Pare, con gli ufficiali. E il duca d'Aosta, che aveva cominciato a svolgere un'inchiesta, aveva accennato a «segni d'intesa, fatti da ufficiali e soldati delle brigate siciliane», [Nota. Angelo Gatti, Caporetto, a cura e con ampia introduzione di Alberto Monticone, Il Mulino, Bologna 1964. Fine nota.] confessando di sentire intorno a sé un sordo malcontento. E con un senso di repulsione Gatti aveva ascoltato i due «giovinetti», Pintor e Cavallero, tenenti-colonnelli della segreteria del Capo, trattare con cinica disinvoltura la soluzione del problema brigata Puglie: «Due buone cannonate nella schiena e tutto è finito». Il 31 maggio Cadorna partì per Roma, dove il 3 giugno fu intervistato da Olindo Malagodi, direttore della «Tribuna». Gli disse che era sceso per discutere della produzione di esplosivi e gli magnificò i risultati della recente offensiva. Quando, a mezzogiorno del 5, fu di ritorno a Udine, la controffensiva di Boroevic era in pieno svolgimento. Tutti quei prigionieri! La consueta proporzione 1:3:1 fra morti, feriti e dispersi (in parte caduti sconosciuti, in parte prigionieri, spesso feriti) era stata sconvolta: dunque erano intervenuti fattori nuovi, ma da lui sempre temuti! Il colonnello Gatti rivide Cadorna la mattina del 7 giugno e lo trovò iracondo: «Da tre giorni sono fuori di me: il nemico dice che ha fatto 10.000 prigionieri. Ma quei tre reggimenti: uno della brigata Ancona, uno della Verona, uno della Puglie, che sono stati fatti prigionieri "illesi", sono una vergogna! Ecco quel che temevo, ecco quel che è avvenuto». Tale sfogo personale avrebbe avuto conseguenze limitate, pur dimostrando una pericolosa disinformazione sugli eventi. Ma il capo di stato maggiore aveva già compiuto un passo assai più grave. Il giorno prima, 6 giugno, sotto l'impulso delle notizie ricevute appena tornato da Roma e non ancora controllate, aveva stilato per il presidente del Consiglio una lettera infiammata, nella quale fra l'altro diceva: [Nota. Luigi Cadorna, Pagine polemiche, Garzanti, Milano 1950. Questa e le

successive lettere di Cadorna al presidente del Consiglio dal giugno all'agosto 1917, furono pubblicate per la prima volta nella Relazione della Commissione d'inchiesta su Caporetto. Non ho fatto alcun tentativo per riprodurre le citazioni, specie quelle ufficiali, dalla prima fonte dove comparvero. Fine nota.] “Da qualche giorno il nemico rinnova violenti tentativi, insistendo con un'azione controffensiva sul fronte del Carso, con la quale... ha potuto raggiungere non indifferenti risultati nella parte meridionale, dove noi eravamo riusciti a portarci a immediato contatto delle difese dell'Hermada. Ma assai più che l'abbandono di alcune quote preoccupa altamente il numero dei prigionieri che il nemico ha potuto catturarci... Dalle informazioni che finora ho avuto dal comando della III armata risulterebbe che la massima parte dei catturati appartiene a tre reggimenti di fanteria, composti in prevalenza di siciliani, i quali sarebbero caduti nelle mani del nemico, non per le fatali vicende del combattimento, ma avrebbero invece defezionato. Tale è l'informazione che io ho avuto e che deve essere ancora scrupolosamente controllata, ma che assume carattere di particolare gravità e che debbo subito segnalare al Governo con riserva di ulteriori accertamenti. Se l'informazione corrisponde a verità, le defezioni non potrebbero essere che nuovo frutto della propaganda contro la guerra, che si svolge in Sicilia... Ma non soltanto la Sicilia è fomite di velenosa propaganda contro la guerra e contro il dovere militare; anche altrove (in Toscana, in Emilia, in Romagna, nella stessa Lombardia) si seminano con arte malvagia le teorie antipatriottiche...” Era davvero imperdonabile che Cadorna muovesse accuse basate su supposizioni, ancora tutte da provare; e che la filippica contro il «malgoverno del paese» fosse basata su un condizionale, caduto il quale cadevano le successive illazioni. Ancor più imperdonabile fu che in altre tre lettere, scritte da Cadorna al presidente del Consiglio (l'8 e il 13 giugno, e il 18 agosto) non si facesse più cenno alle ipotetiche «defezioni», sulle quali egli aveva promesso di ragguagliare il governo, non appena ultimata la «scrupolosa» inchiesta. Imperdonabilissimo, infine, il presidente del Consiglio che, di fronte ad accuse non provate,

non aveva sentito l'imperioso dovere di pretendere da Cadorna la documentazione delle sue accuse, né subito né mai. Ma il mistero non finisce qui, perché nella seduta della Camera del 18 dicembre 1917, tenuta in comitato segreto, Boselli dichiarò di aver risposto tutte e tre le volte, senza precisare né quando né come, [Nota. Camera dei Deputati, Comitati segreti sulla condotta della guerra, Archivio storico, Roma 1967. Fine nota.] mentre Orlando, presidente del Consiglio al tempo della seduta di dicembre, ma ministro degli Interni nel giugno, dichiara nelle sue Memorie di non aver mai saputo nulla delle risposte di Boselli. [Nota. V.E. Orlando, Memorie, Rizzoli, Milano 1960. Fine nota.] Con la sua arrogante intemerata Cadorna, di cui molti ambienti governativi dichiaravano insopportabile lo sprezzante autoritarismo, aveva messo un piede in fallo: ma il governo neppure se ne accorse. Eppure lo stesso Cadorna si rese ben presto conto della infondatezza delle «defezioni». Scrivendo alla moglie il 15 giugno, l'informò che «quella defezione dei tre reggimenti fu esagerata per scusare gli errori dei comandanti, sui quali sto inquirendo». [Nota. Luigi Cadorna, Lettere famigliari, Mondadori, Milano 1967. Fine nota.] Traccia di tale modifica di giudizio si trova indirettamente anche nel «Progetto per la futura offensiva», che Cadorna diramò l'8 giugno al duca d'Aosta. In tale direttiva Cadorna criticava l'impostazione data dal duca, anche perché «sfondamenti parziali conducono ad occupazioni isolate e a portare avanti delle forze, che possono facilmente essere avvolte ai fianchi, lasciando al nemico... migliaia di prigionieri». Inoltre, in una strana nota inserita nella sua opera La guerra alla fronte italiana, scrive Cadorna: [Nota. Luigi Cadorna, La guerra alla fronte italiana, Treves, Milano 1923, 2a ed. Fine nota.] “A proposito di perdite è d'uopo ancora soggiungere che durante l'offensiva del maggio 1917, esse furono realmente gravissime. Ma, anzitutto, è da notare che in esse sono comprese anche quelle della controffensiva dei primi giorni di giugno sul Carso, la quale cagionò perdite molto gravi. Inoltre, furono in quella circostanza commessi non pochi errori di comando e gravi infrazioni alle buone norme per la condotta delle truppe. Perciò mi recai successivamente ai quartieri generali della II e della III armata, ove tenni due conferenze ai comandanti di corpo

d'armata per richiamare i comandanti di qualunque grado alla stretta osservanza di quelle norme, sancite dall'esperienza.” Tali conferenze, che pur sembrerebbero documenti della massima importanza, non sono riportate nella Storia Ufficiale italiana, quasi prove da occultare. Ne ha invece lasciato traccia il generale Capello, [Nota. L. Capello, Per la verità, Treves, Milano 1920. Fine nota.] che nella primavera del 1919, pur parlando per sentito dire, dava ancora per certe le defezioni del giugno 1917. Eppure nelle sue opere (esclusa la nota sopra riportata) Cadorna conservò la versione del cattivo comportamento delle truppe. Se quindi si è restii a gettare sul generale l'ombra del truce mentitore - sospetto che richiederebbe l'opera di un giudice istruttore più che quella di uno storico -, bisogna ammettere che le «defezioni» continuarono a volteggiare intorno al suo animo. Cadorna si trovava in una curiosa posizione giuridica. Egli era non già il comandante, ma il capo di stato maggiore dell'esercito italiano, di cui il re aveva il comando nominale. Essendo tuttavia costituzionalmente non responsabile, il re aveva delegato il comando effettivo al capo di stato maggiore. Questi, a sua volta, aveva organizzato a Udine il Comando Supremo con i vari uffici: un comando, da molti accusato di essere burocraticamente pletorico, ma che dovendo amministrare un esercito mobilitato superiore a due milioni di uomini - non poteva davvero essere definito tale, composto com'era nel 1917 da 167 ufficiali e da alcune centinaia di scritturali, telegrafisti, radiotelegrafisti, staffette, piantoni ed altri addetti a molti servizi indispensabili. La piovra burocratica scendeva però dal Comando Supremo fino ai comandi inferiori, crescendo in modo inversamente proporzionale alla loro importanza. Senonché proprio da Cadorna il generale Porro, suo vice-capo di stato maggiore, era stato privato di ogni incombenza operativa e ridotto al rango di responsabile dell'ufficio pubbliche relazioni del Comando Supremo. Esisteva, sì, un reparto operazioni, dove però di tutto ci si occupava salvo che di operazioni. La preparazione di queste era stata affidata dal generale Cadorna al suo segretario, che nel 1917 era il colonnello Roberto Bencivenga. Costui gli preparava le proposte operative, che lui stesso andava man mano elaborando. Bencivenga si dà pena di spiegare che di fatto, perciò, l'alto comando dell'esercito era costituito dal generale Cadorna, quale

effettivo comandante, e dal colonnello segretario, che fungeva quindi da capo di stato maggiore, sia pure a livello declassato. Orbene il Bencivenga conferma che i metodi tattici adottati dagli austriaci nel giugno 1917 erano nuovi per noi e che i nostri comandi, impressionati dal rilevante numero di prigionieri, furono anche fuorviati, nella loro precipitosa inchiesta (che dunque ci fu), da fuggiaschi che, per assolvere se stessi, non esitarono a gettare fango sui compagni che, per essere rimasti fermi ai loro posti di combattimento, finirono con l'essere accerchiati. In realtà - continua Bencivenga - la verità non fu mai appurata e a lui sembrò strano che si fossero verificati gli episodi, così come erano stati ricostruiti. [Nota. Roberto Bencivenga, La campagna del 1917, s.e., Roma 1937. Fine nota.] Volle quindi andare a fondo e, dopo la guerra, procedette a una personale indagine, che però fu ultimata nel 1937, quando Bencivenga era in pensione da molti anni Al momento non solo pare che Bencivenga ci abbia creduto, ma addirittura, il 26 maggio 1917, egli stilò, ad uso di Cadorna vantandosene - le linee programmatiche per la prossima offensiva, senza neppure aver lontanamente esaminato le cause del recentissimo insuccesso sul Carso, ancor prima della controffensiva austriaca, della cui efficacia né lui né Cadorna tennero alcun conto. E perché mai tenerne conto, se i successi nemici erano dovuti a «defezioni» delle truppe? Bastava che queste non defezionassero, e avanti come prima! Il colonnello Gatti, pur prestando fede, sino a prova contraria, alla credibilità delle «defezioni» (che sarebbe stato più corretto e meno ingeneroso definire «rese», poiché la parola «defezione» richiamava una mentalità assai più antica), si sforzava di riflettervi, ispirandosi a una razionalità, che lo istradava inconsapevolmente nella direzione che i tedeschi avevano messo in atto sul piano operativo. Ma in altri ambienti la «defezione» non solo venne accettata acriticamente, ma si tentò persino di scusarla. Benché la lettera «riservatissima» di Cadorna a Boselli del 6 giugno (e le successive dell'8 e del 14) non fossero note, qualcosa del loro contenuto doveva essere trapelato, poiché degli eventi del Carso si fece ripetutamente cenno nelle sedute in comitato segreto, che la Camera tenne dal 21 al 30 giugno. Così il 21 giugno l'onorevole Eugenio Chiesa parlò di «fatti deplorevoli» avvenuti nelle ultime operazioni, evidenziati dell'eccessivo numero di prigionieri (non menzionati nei bollettini italiani). Il 23 il ministro della Guerra, generale Giardino, corresse, senza dirlo, Cadorna:

“Fu pronunziata la parola defezione: ma occorre pensare alle circostanze nelle quali questi fatti dolorosi avvengono. Su posizioni conquistate ma non rafforzate, con il tiro di interdizione alle spalle, può darsi che una truppa con la testa bassa irrompa contro il nemico e raggiunga l'obbiettivo; può darsi che un'altra truppa, in circostanze specialissime, che non è dato apprezzare, non trovi la forza di fare irruzione; e sia catturata, vinta dal nemico.” Nella seduta del 25 è l'onorevole Libertini a spiegare la «defezione» dei reparti siciliani: esasperati dal trattamento ricevuto, si capisce che alcuni si siano arresi. Il giorno 26 il siciliano De Felice-Giuffrida, in verità una macchietta non sempre presa sul serio, riferendosi ai fatti «spiacevoli» citati dall'onorevole Chiesa, sottolinea giustamente che le indagini sulle responsabilità non sono «né facili né compiute» e che, comunque, l'eventuale reazione negativa dei siciliani è sempre frutto del malgoverno degli uomini. Rispondendogli, il ministro Giardino si rifiuta tuttavia di ritirare la punizione inflitta al 149° reggimento della brigata Trapani e a un battaglione del 71° fanteria: dissoluzione, distruzione della bandiera e dispersione degli effettivi in altri reparti. Questi provvedimenti, ingiusti oltre che controproducenti, non erano ispirati alla severità di Dracone ma a quella più recente del generale Joffre, che nel giugno 1916 aveva sciolto i reggimenti 291° e 347° per comportamento codardo di fronte al nemico. Si era quindi proceduto a un congruo numero di fucilazioni, fra cui - senza processo - quella del tenente Herdouin, cui fu concesso l'«onore» di comandare il proprio plotone d'esecuzione. [Nota. Alistair Home, The price of glory, MacFadden Book, New York 1964. Fine nota.] Quando, dopo la guerra, i fatti vennero alla luce, in Francia scoppiò un enorme scandalo, perché fu dimostrato che il comando si era comportato in modo non solo selvaggio, ma inetto. In Italia, a un anno di distanza, si era ripetuta, su scala minore, la stessa situazione. Le truppe qua e là cedevano - diceva Cadorna - e si verificavano «episodi non belli»; e persino il sanguinoso scacco dell'Ortigara, consumatosi fra il 10 e il 30 giugno, era dal nostro generalissimo attribuito al diminuito spirito combattivo delle truppe. E quando, il 29 settembre, vi fu a Roma un Consiglio dei ministri, cui partecipò anche Cadorna, Orlando - come rivelò nel comitato segreto

del 18 dicembre 1917 ritornò sulle «quasi defezioni» del giugno, senza che Cadorna proferisse parola, parlandone come fatti appurati, anziché quali indizi tuttora da dimostrare. Gli ambienti militari e quelli civili, subornati dai primi, accettarono dunque unanimi la diagnosi che migliaia di soldati italiani si erano collettivamente arresi al nemico, senza aver prima esaurito tutti i mezzi di resistenza. A seconda dei medici curanti, differivano però le terapie: - terapia praticata dal Comando Supremo: stringere i denti e stringere i freni (216 fucilazioni eseguite, fra maggio e settembre del 1917, sulla base di sentenze dei tribunali militari, oltre a un numero imprecisato di esecuzioni sommarie); adozione di punizioni collettive, in mancanza di colpevoli individuali; trattamento dell'esercito quale corpo in cui si manifestano sintomi di ammutinamento, da reprimere col terrore, fatto però aleggiare con esempi più che praticato su vasta scala; - terapia preferita dal governo: non eccedere nelle punizioni ed elargire pene blande, constatato il diminuito spirito combattivo e lo stato mutinoso delle truppe; non sottoporre inoltre il «malato» a prove troppo impegnative; accettare insomma la nuova filosofia francese del generale Pétain: attendere gli americani (senza carri armati sul fronte italiano). Ma nessun veto a Cadorna per la prossima offensiva: l'undicesima battaglia dell'Isonzo. Se però fosse stata errata la diagnosi, se cioè non si trattava di defezioni, allora erano sbagliate entrambe le terapie. La «piccola Caporetto» del 4-6 giugno 1917 si ripeté quasi identica tre mesi dopo. L'esercito italiano dispiegò il suo massimo sforzo (gigantesco anche su scala europea) nella seconda metà di agosto. In due settimane di battaglia il consumo di munizioni fu enorme: 1.300.000 colpi di medio e grosso calibro, 2.700.000 colpi di piccolo calibro e 1.500.000 colpi di bombarda. Ai combattimenti presero parte anche 500 aerei, metà dei quali da bombardamento e per attacco al suolo. Si trattò della prima (e ultima) vera Materialschlacht (battaglia di materiale) intrapresa dall'esercito italiano, poco inferiore all'intensità di analoghe operazioni condotte nello stesso periodo dall'esercito britannico in Francia. E ciò ebbe qualche effetto anche sul «consumo di uomini». Contro la perdita media di 380 uomini (su 800) per

battaglione, verificatasi nella decima battaglia dell’Isonzo, nella undicesima le perdite «si limitarono» a 250, per una eguale durata delle operazioni. Purtuttavia la battaglia della Bainsizza, con le appendici di settembre sul Carso e intorno al San Gabriele, costò all'esercito italiano 166.000 uomini contro i 90.000 persi dagli austroungarici (cui essi aggiungono 20.000 malati sgomberati dal campo di battaglia, che gli italiani invece non conteggiano). Poiché gli effettivi nemici erano il 40 per cento dei nostri, il logoramento delle loro truppe fu veramente enorme e l'Austria si sentì presa alla gola: l'aiuto tedesco era indispensabile. Tuttavia, nel frattempo, Boroevic giudicò che l'Hermada fosse cinto da troppo stretto assedio e per la seconda volta organizzò una controffensiva con le sue ultime tre divisioni non totalmente spossate. L'attacco ebbe inizio alle 5,30 del 4 settembre, dopo mezz'ora di tiro di distruzione, e proseguì per 48 ore. Respinti una prima volta, gli austro-ungarici riuscirono a raggiungere il loro intento nella notte sul 6 settembre, riportando le linee del Carso - mediante infiltrazioni e piccoli accerchiamenti - là, donde era partita in agosto la disperata offensiva della III armata. Le perdite italiane (incluse nelle cifre sopra riportate) non sono specificate nella nostra Storia Ufficiale (che a tale offensiva dedica una sola pagina, contro le 28 per quella di giugno); ma sono desumibili dal Riassunto Storico sulle brigate italiane, [Nota. Ufficio Storico dello Stato Maggiore, Istituto Poligrafico dello Stato, Riassunti storici dei corpi e dei comandi, 10 voll., Roma 1926. Fine nota.] e si aggirarono sui 15.000 uomini, dei quali 6000 catturati prigionieri. Stavolta Cadorna non parlò di «defezioni», pur deplorando il diminuito spirito delle truppe sia in quell'occasione che nella selvaggia battaglia intorno al San Gabriele. A proposito del contrattacco sul Carso egli afferma che esso riuscì «perché il nemico vi destinò reparti d'assalto specializzati». Questa tattica particolare, che a un esercito tanto inferiore di uomini e di mezzi consentiva di resistere e contrattaccare (e all'occorrenza di attaccare) in profondità, era il grande segreto tedesco, lo sforzo intellettuale per risolvere con successo il difficilissimo problema della guerra di posizione.

Capitolo V DIFESA E OFFESA NELLA GUERRA DI POSIZIONE La prima guerra mondiale resta un insuperato sterminio di giovani ardimentosi, alla fine del quale «l'Amleto europeo poté scorgere milioni di spettri». [Nota. È un celebre verso di Aragon. Fine nota.] Ciò è senza dubbio vero sul piano storico, ma su quello tecnico sono necessari dei «distinguo». Gli Imperi Centrali, finché ebbero contro anche la Russia (e poi la Romania), dovettero scegliere da che parte attaccare e da quale difendersi. E per 36 lunghissimi mesi, dal 1915 al 1917, con le sole eccezioni di Verdun, della Strafeexpedition e di Caporetto, l'esercito austro-germanico decise di tenersi in difensiva sul fronte occidentale, premendo verso i Balcani e verso oriente, col risultato di mettere fuori causa la Russia e la Romania. In occidente, con una inferiorità numerica del 30 per cento sul fronte francese e del 50 per cento su quello italiano, esso riuscì a risolvere il problema della difesa, del contrattacco e successivamente dell'attacco, sviluppando una tattica sempre più sofisticata ed efficiente, a mano a mano che mutava il carattere della lotta. Si trattò di un lavoro intellettuale di prim'ordine, il cui successo, per il fronte anglo-francese, è dimostrato dal fatto che, in quei tre anni, contro 4.400.000 uomini perduti dagli anglo-francesi, i tedeschi ne persero 2.650.000. [Nota. Winston Churchill, The world crisis, Four Square Books, London 1960. Benché molto discusse, le cifre fornite da Churchill si possono considerare largamente attendibili agli effetti della valutazione fatta nel testo. Fine nota.] Quanto agli effettivi impegnati, l'esercito tedesco d'occidente, secondo Falkenhayn, [Nota. Erich von Falkenhayn, General Headquarters and its critical decisions, (trad. dal tedesco), Hutchinson, London 1919. Fine nota.] passò da 1,7 milioni nell'autunno del 1914 a 2,7 nell'autunno del 1917, mentre quello anglo-franco-belga passò da 2,3 milioni a 4. Volendo quantificare l'efficienza media del combattente, a parità di armamento, si può moltiplicare il rapporto delle perdite inflitte rispetto a quelle subite, per il rapporto fra gli effettivi avversari e quelli propri. Per l'insieme dei tre anni 1915-1916-1917 si ottiene allora: 4.400.000 / 2.650.000 x 3 / 2 = 2,5 ca.

L'efficienza in difensiva del combattente tedesco fu dunque due volte e mezzo quella di un combattente anglo-francese. Calcolando lo stesso quoziente per il fronte italiano, si sale addirittura a 4, il che può spiegarsi anche con la geografia della zona d'operazioni, infelicissima a danno dell'Italia. I tedeschi riuscirono quindi a risolvere (trasferendo poi gli insegnamenti ai loro alleati) il problema di una difesa vittoriosa pur contro una notevole superiorità numerica. Particolarmente inetta risultò la tattica inglese, sì da giustificare la sentenza: «Gli inglesi sono leoni, comandati da somari» [Nota. La frase è ottenuta congiungendo due giudizi espressi da Ludendorff in Erinnerungen (Berlin 1919) e dal generale Max Hoffman in Kriegstagebuck (2 voll., Secker, 1929). Fine nota.] e il volume I somari, [Nota. Alan Clark, The Donkeys, Hutchinson & Co., London 1961; trad. it. I somari, Longanesi, Milano 1962. Fine nota.] che un giovane storico inglese dedicò ai comandanti britannici del 1915. Nella guerra di logoramento sui fronti occidentali, i più logorati furono gli anglo-franco-italiani, cosicché - dopo la defezione russa - l'intervento americano risultò non più un elemento acceleratore per la fine vittoriosa della guerra, ma un apporto indispensabile per vincerla sommergendo la Germania. Tuttavia, anche negli ultimi 100 giorni di guerra, i tedeschi - nuovamente sulla difensiva - riuscirono a mantenere un'efficienza doppia di quella degli anglofranco-americani. Nei vari anni si notano fluttuazioni, tuttavia facilmente spiegabili. Il 1915 fu, per gli anglo-francesi, l'anno dell'automassacro. Nel primo semestre del 1916 furono invece i tedeschi a passare all'offensiva, investendo il 21 febbraio 1916 la piazzaforte di Verdun, avendo come obbiettivo il tentativo di costringere la Francia a svenarsi per la sua difesa. E, quantunque la battaglia di Verdun passi per una gloriosa vittoria francese - immortalata nel non plus ultra di un celebre quadro sul piano tattico i tedeschi raggiunsero parzialmente il loro scopo: attaccare e, pur nell'attacco, subire perdite inferiori al difensore. Il miglioramento temporaneo della tattica francese spiega la quasi parità di perdite ottenuta nei confronti dei tedeschi nel corso delle azioni controffensive intorno a Verdun nel secondo semestre del 1916. Il 1917, dopo la disastrosa offensiva di Nivelle, vide i francesi trincerarsi in difensiva e, poiché in rigorosa difensiva restarono anche i tedeschi,

l'usura reciproca fu poco diversa e relativamente contenuta. Gli inglesi si mantennero invece all'offensiva sia nel 1916 che nel 1917 e se, nel 1917, le loro perdite appaiono in diminuzione relativamente al 1916, ciò è dovuto allo stile di «battaglia di materiali» (Materialschlacht), impresso alle loro operazioni «ad obbiettivi limitati». Ad esempio, il 7 giugno 1917 l'attacco contro Messines da parte di 12 divisioni britanniche - su un fronte di 14 chilometri - fu preceduto dall'intervento di 2266 cannoni, che spararono per 17 giorni. Tali azioni, che sommergevano le posizioni tedesche con densità di fuoco incredibili, diedero a Ludendorff ansia e angoscia. Tuttavia persino in questa fase i tedeschi ebbero la meglio, riuscendo a venire a capo del problema. Questi risultati non furono però ottenuti con l'aiuto della fortuna o per la superiorità dell'armamento o per genialità strategica, di cui anzi i tedeschi furono poverissimi. Si trattò di attenti studi tattici, sulla base dei quali furono dedotte le regole di comportamento da prescrivere alle truppe. Poiché la battaglia di Caporetto venne impostata dagli austro-germanici, intrisa dai corollari di tali deduzioni, è interessante giudicarla da un punto di vista mai preso in considerazione: la tattica austro-germanica contrapposta a quella italiana, e lo scontro fra le due concezioni nell'autunno 1917. Non si tratta affatto di un esame puramente tecnico, poiché detto scontro ebbe profonde ripercussioni morali, che a giudizio dell'autore furono responsabili, più di qualsiasi altro fattore, del collasso e del crollo di molte formazioni italiane. Falkenhayn, assorbito nel 1915 dal fronte orientale e balcanico, per la difesa contro gli anglo-francesi si era richiamato all'esperienza della guerra russo-giapponese. La difesa trincerata non era stata comunque mai trascurata nell'esercito tedesco. Ma per seguire la sua probabile evoluzione tattica, egli prescelse un individuo di qualità eccezionali, il tenente-colonnello von Lossberg. Nel gennaio 1915, a 47 anni, von Lossberg - che rappresentava la quintessenza del perfetto ufficiale di stato maggiore - fu nominato capo dell'Ufficio operazioni per il fronte occidentale e per otto mesi si immerse nell'analisi di descrizioni, rapporti e statistiche. Al lavoro di scrivania egli alternava però frequenti incursioni in prima linea, mescolandosi sconosciuto ai soldati, per viverne le sensazioni e individuare le difficoltà di organizzare una battaglia difensiva contro forze soverchianti, riducendo al minimo le

proprie perdite. Il suo fine ultimo consisteva nell'evitare che i comandi impartissero ordini che le truppe in linea non fossero in grado di assolvere, rischiando inoltre una patente di incompetenza. In questo suo peregrinare von Lossberg venne in possesso di un documento, apparentemente irrilevante, catturato in una trincea francese presso Reims il 10 maggio 1915. In esso von Lossberg e i suoi collaboratori trovarono la conferma delle loro intuizioni, che fino allora il generale Falkenhayn, favorevole alla difesa a oltranza, aveva fortemente avversato, temendo di abbandonare la via certa per l'ignoto. Erano consigli, diramati dal comando della V armata francese, sull'organizzazione della difesa. Questa, a livello di compagnia, andava organizzata su tre posizioni. La prima era occupata con poche forze e davanti a essa si dovevano gettare dei posti d'ascolto. La zona di maggiore resistenza era la seconda, da costruirsi saldamente, ben presidiata e dotata di ricoveri per proteggere la fanteria anche sotto i bombardamenti più duri. La terza zona era, più che altro, una caserma sotterranea corazzata, in cui trovavano riparo le truppe destinate al contrattacco. Sulla zona principale di resistenza i capisaldi dovevano essere costruiti come forti in miniatura, capaci, anche se circondati, di resistere in attesa di venire liberati da contrattacchi. Era il principio della difesa stemperata in profondità, quindi molto meno vulnerabile al fuoco di artiglieria della difesa per linee successive. Sull'applicazione generalizzata di tale principio le discussioni si prolungarono per qualche mese. In quella von Lossberg, da poco promosso colonnello, ricevette la nomina a capo di stato maggiore della III armata, comandata dal generale von Einem. Era il 26 settembre e una violenta offensiva francese divampava in Champagne, portata su appena 15 chilometri con 20 divisioni in prima schiera e 7 di rincalzo, di cui 6 di cavalleria per sfruttare lo sperato sfondamento, dilagando lateralmente nelle retrovie tedesche. Arrivato al posto di comando, che il predecessore aveva lasciato senza passargli le consegne, von Lossberg udì squillare il telefono e rispose alla chiamata di un corpo d'armata, che chiedeva l'autorizzazione a operare un ripiegamento già concordato per due chilometri. Von Lossberg negò l'autorizzazione sotto la propria responsabilità, poi confermata dal comando d'armata, e subito si gettò verso le prime linee, per constatare sulla propria pelle quanto avveniva. E si convinse che la linea principale di resistenza, cioè la seconda ora divenuta la prima in

seguito all'attacco francese - e sulla quale egli allora si trovava - era troppo affollata di truppe, che sarebbe stato opportuno tenere più arretrate in attesa del contrattacco. Fu nel secondo semestre del 1915 e nel secondo del 1916, allorché fu coinvolto nella battaglia difensiva della Somme, che von Lossberg elaborò concettualmente le sue osservazioni, convincendo l'Alto Comando ad applicarle. Rivoluzionaria fu la ristrutturazione della rete di comando. Durante i combattimenti von Lossberg aveva verificato che il tempo necessario perché un ordine arrivasse dal comando di divisione alla linea avanzata si aggirava intorno a 8 o 10 ore; e altrettanto avveniva in senso inverso. Era dunque indispensabile scorciarlo drasticamente. Per raggiungere lo scopo von Lossberg convinse lo stato maggiore ad aumentare enormemente l'autonomia dei comandi di battaglione, che ricevettero piena libertà d'azione, ciascuno nel proprio settore, con automatica autorità di comando su tutti i rinforzi che vi venissero inviati. Le decisioni del comandante di battaglione andavano accettate dagli inferiori e dai superiori, indipendentemente dal grado e dall'anzianità. Il comando di reggimento aveva invece funzioni e responsabilità logistiche, per coordinare il rifornimento di munizioni e l'afflusso delle riserve, da collocare nei punti più propizi per la loro utilizzazione. Analogamente, la responsabilità della battaglia fu affidata ai comandanti' di divisione, che avevano autorità indiscussa su tutte le forze presenti nel proprio settore, comprese le artiglierie di corpo d'armata. E i comandanti di divisione predisponevano le mosse in base alle informazioni ricevute dai comandi di battaglione, collegati a mezzo radio. In tal modo la catena di comando si riduceva a due soli anelli e l'intervallo per la trasmissione di notizie fu ridotto da 10 a 2 ore. Nei riguardi delle divisioni il corpo d'armata svolgeva, su scala più vasta, lo stesso compito che il reggimento svolgeva per i battaglioni. Esso cessava, anzi, di esistere come unità operativa e ne venne mutato il nome in quello di «gruppo», dal quale uscivano o nel quale entravano divisioni, che esso amministrava territorialmente, anche sul piano strategico della distribuzione delle riserve. Eppure nella letteratura militare anglo-franco-italiana il «gruppo» e il corpo d'armata tedeschi

furono considerati sinonimi, non essendone stata afferrata la differenza di compiti. Queste modifiche della struttura di comando von Lossberg le aveva meditate durante le puntate che continuava a fare sulle linee avanzate al sorgere dell'alba - ora in cui gli inglesi normalmente attaccavano -, per studiare il comportamento delle truppe nel combattimento ravvicinato. Egli quindi non pretese mai da una divisione imprese impossibili; e, per il disastroso semestre durante il quale si protrasse la battaglia della Somme, gli inglesi, benché numericamente superiori, ebbero la sorpresa di trovarsi di fronte truppe tedesche sempre fresche, perché alternate fra combattimento e riposo con rapida rotazione. Nel corso del semestre della Somme von Lossberg diede il tocco finale alla tattica della difesa elastica nella guerra di posizione. Nella sua nuova concezione le trincee perdevano il carattere di linee di combattimento, per trasformarsi in ricoveri da usare nei periodi calmi contro le intemperie e come sentieri (quelle perpendicolari) per la movimentazione di truppe e materiali. Quando però si profilava un attacco nemico, le trincee venivano sgombrate e la truppa si dilatava, occupando i crateri formati dalle esplosioni dei proiettili o qualsiasi altra anfrattuosità, per un'estensione planimetrica molto maggiore, cosicché l'azione dell'artiglieria nemica era costretta a diluirsi su uno spazio molto più vasto. Particolarmente letali per gli attaccanti si dimostravano i nidi di mitragliatrici, infilati in buche da essi credute innocue in base ai rilevamenti aerei (che invece mettevano in bella evidenza le trincee, sulle quali si concentrava perciò l'azione dell'artiglieria). Tali mitragliatrici, che si palesavano improvvise all'ultimo momento, falciavano e scompaginavano le ondate di attacco. Su richiesta di Ludendorff la difesa in profondità fu descritta dal colonnello von Lossberg in un opuscolo - pubblicato il 30 gennaio 1917 - che non aveva però il carattere di un manuale di istruzione. A questo avevano già provveduto Hindenburg e Ludendorff, preoccupati della crescente brutalità della Materialschlacht. In vista della disponibilità di artiglierie, munizioni, aerei e anche carri armati, con cui via via si potenziava il nemico, una maggiore profondità della difesa elastica era indispensabile, affinché l'esercito tedesco non venisse sopraffatto. Il relativo regolamento, formalmente firmato da

Ludendorff, ma preparato da un gruppo di suoi collaboratori, tra cui il colonnello Bauer e il capitano Geyer, venne distribuito il 1° dicembre 1916 a tutte le divisioni. Nell'introduzione Ludendorff scriveva con orgoglio che il soldato tedesco non si sarebbe più dovuto immolare, dicendo a se stesso: «Qui devo stare e qui morrò», poiché gli era concessa l'iniziativa di muoversi entro una profonda zona difensiva. Il manuale Ludendorff fu animatamente discusso a tutti i livelli, coinvolgendo ufficiali di stato maggiore, comandanti di unità minori e persino semplici soldati, tutti dimostrandosi favorevoli alla nuova prospettiva: la resistenza «senza cedere un palmo di terreno» era divenuta infatti un inutile suicidio. Nel combattimento «elastico» l'unità tattica elementare era formata da una squadra d'assalto (Stosstruppe) di 11 uomini, dei quali 4, armati con una mitragliatrice (due per il tiro e due per il rifornimento di munizioni), erano protetti da 7 fucilieri. Le Stosstruppen, secondo la nuova dottrina, dovevano muoversi con missione di contrattacco. Un enorme vantaggio indiretto dell'innovazione consisteva nell'affidare l'iniziativa al livello di comando più basso, responsabilizzando addirittura sergenti e caporali. A livello più alto lo schema si ripeteva con i battaglioni d'assalto (Sturmbataillonen). In seconda posizione erano schierate divisioni Eingreif («agganciate»), che avevano il compito di organizzare contrattacchi metodici di più forte impegno. Ricco dell'esperienza della Somme, il colonnello von Lossberg si permise, in presenza dello stesso Ludendorff, di criticare talune parti del manuale. E Ludendorff, convintosi della bontà di alcune di esse (il che dice molto sulla libertà di parola esistente presso l'esercito germanico rispetto alla disciplina vigente presso gli anglo-francoitaliani), le incorporò in una nuova edizione distribuita in primavera. Egli accettò anche un altro consiglio di von Lossberg: l'organizzazione di una scuola per comandanti di divisione, equipaggiata con una vera divisione completa di effettivi, la Divisions-Kommandeur-Schule, che cominciò a funzionare dal febbraio 1917. Essa era frequentata dai comandanti anziani, per addestrarli ai nuovi compiti divisionali, cosa impensabile presso altri eserciti, in cui vigeva il sistema della pseudoselezione naturale, silurando quelli che sbagliavano, in modo che i successori, novizi e impreparati al compito, potessero sbagliare a loro volta.

Tuttavia la nuova teoria doveva essere collaudata dall'esperienza. Il 15 dicembre 1916 i francesi, al comando del generale Nivelle, passarono all'assalto con 8 divisioni, appoggiate da 827 pezzi di artiglieria, su un fronte di 10 chilometri nei pressi di Verdun. I 21.000 fanti delle 5 smilze divisioni tedesche, che difendevano il settore, erano schierati per 2/3 sulle prime linee e per 1/3 in profondità, cioè troppo innanzi. Lo sbarramento dell’artiglieria francese, per il quale erano stati predisposti 1.170.000 colpi, isolò fra due fuochi la prima posizione tedesca e le fanterie francesi, che avanzarono sotto l'arco delle traiettorie dei proiettili, balzarono nelle trincee nemiche, prima che i difensori avessero il tempo di uscire dai ricoveri, trasformatisi in vere trappole. In due giorni i tedeschi persero 13.500 uomini, dei quali 9000 prigionieri «illesi». Ludendorff non se la prese però con i soldati: dedusse invece che i ricoveri profondi potevano essere costruiti solo nelle zone arretrate. Le prime andavano munite di ricoveri in cemento armato con molteplici uscite, per presidiare velocemente i posti avanzati. In difesa elastica l'artiglieria doveva essere scaglionata in profondità: prudenzialmente non meno di 2000 metri dalla linea avanzata e non più di 6000. Ma a tergo doveva esservi un secondo schieramento di pezzi da campagna e di batterie pesanti, per battere il nemico che avesse rotto la fronte. Era previsto l'impiego di batterie notturne, da rimuovere prima del sorgere del sole. Il bagaglio teorico e sperimentale era finalmente pronto, per affrontare le dure prove difensive del 1917. Gli inglesi, pur avendo messo le mani sul manuale Ludendorff e sul successivo aggiornamento prima della loro offensiva di aprile, non se ne diedero per inteso. E su un fronte di 20 chilometri, dopo un bombardamento che consumò 2.687.000 proiettili, le fanterie britanniche andarono all'assalto alle 5,30 del 9 aprile, alba di un giorno gelido e nevoso. E gli andò bene, perché le intrepide truppe canadesi riuscirono a conquistare la cresta di Vimy, il famoso Vimy Ridge. [Nota. Alexander McKee, Vimy Ridge, Pan Books, London 1966. Fine nota.] La difesa tedesca, in quel punto non ancora sufficientemente organizzata in profondità, perse da 3 a 6 chilometri. Anche in tal caso, dell'errore era responsabile il comandante della VI armata, generale von Falkenhausen (cui erano di attenuante i suoi 73 anni), che aveva peccato in senso opposto,

tenendo troppo indietro le riserve strategiche, mentre risultava confermata la bontà del nuovo manuale, con le distanze e la distribuzione di forze che prevedeva. L'episodio riaccese tuttavia la discussione sui nuovi principi, in base ai quali erano addestrate le truppe nelle scuole e nelle zone del retrofronte. Una seconda verifica a brevissima scadenza i tedeschi se l'attendevano dall'attacco «brutale e decisivo», che il generalissimo Nivelle, successo a Joffre quattro mesi prima, si riprometteva di scatenare lungo lo Chemin des Dames, ripetendo su scala di parecchie armate la manovra così ben riuscita con 8 divisioni a Verdun. L'attacco, affidato alle armate francesi V, VI e X, fu sferrato il 16 aprile e si concluse entro qualche giorno in un bagno di sangue. Dei 400.000 uomini, che si slanciarono contro 150.000 tedeschi scaglionati in profondità, ne andarono perduti 117.000, di cui 32.000 caduti sul campo. Nivelle aveva promesso lo sfondamento decisivo, vittorioso e finale, mentre l'avanzata risultò di due chilometri. L'esercito francese si arrestò esausto. Nivelle fu sostituito dal prudente Pétain, ma gli ammutinamenti che scoppiarono in seno all'esercito francese nelle settimane successive fecero correre alla Francia un pericolo mortale. L'onere di tenere impegnati i tedeschi se lo assunsero gli inglesi, perseverando però nella consueta irresponsabilità tattica: dopo la «vittoria» del 9 aprile, il generale Allenby, comandante della V armata britannica, mandò alla carica la cavalleria e se la vide tornare sotto forma di pochi cavalli senza cavalieri, gli altri letteralmente falciati da sbalorditi mitraglieri tedeschi. L'11 aprile l'infaticabile von Lossberg, divenuto nel frattempo capo di stato maggiore della I armata agli ordini del generale Otto von Below (futuro comandante della XIV armata austro-germanica a Caporetto), fu chiamato al telefono da Ludendorff e pregato di trasferirsi presso la VI armata. Von Lossberg accettò l'incarico a condizione di disporre di pieni poteri, che Ludendorff subito gli concesse. Dopo aver ispezionato il campo di battaglia fino alle primissime linee, von Lossberg tornò al comando d'armata e in pochi giorni l'organizzò a difesa, secondo i nuovi criteri elastici, lungo i 25 chilometri di fronte, tenuti da 15 divisioni. A tergo di ogni coppia di divisioni di prima linea fu schierata una divisione Eingreif. Questa, una volta messa a disposizione di un comando di gruppo, si poneva - con una parola d'ordine convenuta -

sotto il comando dell'una o dell'altra delle divisioni da sostenere, il tutto per una profondità di 10 chilometri. Complessivamente, su 27 battaglioni, le tre divisioni ne schieravano 12 nella zona di battaglia e 15 arretrati. Il 13 aprile, con velocità prodigiosa, quest'uomo infaticabile aveva completato l'organizzazione del settore. Inoltre, cosa altrettanto importante, la fanteria aveva avuto modo di afferrare e apprezzare su larga scala la difesa mobile, il cui successo alzò notevolmente il morale. Ogni due giorni, poi, i battaglioni in linea erano sostituiti, poiché i comandi avevano valutato che, anche se lievi le perdite cruente, nessuno poteva resistere più a lungo alla tensione psichica, che l'infernale ambiente imponeva. Benché sembri incredibile, quando il 7 giugno gli inglesi fecero esplodere 500.000 chilogrammi di alto esplosivo, che avevano piazzato sotto le trincee tedesche di Messines con due anni di lavoro a 24 metri di profondità per un tratto di 9 chilometri - un'esplosione quasi atomica, aumentata nell'efficacia dalla sua disseminazione in 19 fornelli di mina -, essi vennero fermati dopo un'avanzata di poche centinaia di metri e, alla fine della giornata, le loro perdite - 15.000 uomini - non furono inferiori a quelle tedesche. Per tutta la primavera, per tutta l'estate e durante l'autunno, l'esercito imperiale britannico cozzò contro il muro di gomma tedesco: una gomma rivestita di spine avvelenate. Con allucinante monotonia le perdite mensili si susseguivano con cifre da capogiro: 120.000 uomini in aprile, 76.000 in maggio, 75.000 in giugno, 85.000 in luglio, 84.000 in agosto, 81.000 in settembre, 120.000 in ottobre e 74.000 in novembre. In totale 630.000 uomini contro 380.000 tedeschi, nel quadro di una lotta in cui l'inferiorità tedesca era del 25 per cento negli effettivi e del 50 per cento nell'artiglieria e in altri mezzi meccanici. Contemporaneamente alla difesa elastica, i tedeschi elaborarono la tecnica dell'attacco frontale, portando al livello microscopico di piccole squadre le manovre in campo aperto degli eserciti del passato remoto: l'agguato di Annibale al Trasimeno ora lo perseguiva la Stosstruppe di 11 soldati. Ma è sorprendente che, anche in tal caso, furono ufficiali francesi - inascoltati dai loro comandi - a offrire ai tedeschi il primo spunto. Il 9 maggio 1915, dopo una preparazione di artiglieria che allora sembrava devastatrice, mentre due anni dopo sarebbe stata definita

un normale tiro di disturbo, due divisioni inglesi andarono all'attacco dell'altura di Auber, 20 chilometri a occidente di Lilla occupata dai tedeschi. Attaccarono tutta la giornata, ondata su ondata, senza avanzare di un passo e perdendo 6340 uomini contro i 900 perduti dai due reggimenti germanici che le fronteggiavano. Quella stessa mattina fra le forze francesi che affiancavano gli inglesi, v'era una compagnia comandata dal capitano Laffargue, che insieme a una seconda riuscì a conquistare la linea tedesca, a prezzo di tali perdite che i superstiti furono appena 80. L'ulteriore avanzata fu però bloccata da un paio di mitragliatrici, protette dalle rovine di un mulino. Contro di esse non servì un cannone campale né il rincalzo di due battaglioni. Su quell'esperienza Laffargue scrisse un opuscolo: Etude sur l'attaque, nel quale proponeva un diverso metodo per il combattimento delle fanterie. Non più l'immediato assalto a ondate, ma l'infiltrazione di groupes de tirailleurs, armati di fucili mitragliatori, bombe a mano e mortai da trincea. Essi dovevano avanzare a sbalzi, in formazione rada, profittando di ogni asperità del terreno, avendo come obbiettivo la seconda linea di trincee (si era ancora nel 1915), per neutralizzare i nidi di mitragliatrici nemiche, prendendole di fianco o alle spalle, dove non avevano la protezione dello scudo. Solo allora si poteva scatenare l'ondata delle fanterie, che dovevano mirare almeno allo schieramento dell'artiglieria campale, disposto 3 o 4 chilometri più addietro. Mentre la «teoria» assegnava alle mitragliatrici il compito di appoggiare l'assalto delle fanterie, Laffargue proponeva che le mitragliatrici seguissero da presso i gruppi di tirailleurs. Secondo Laffargue, ciò richiedeva un diverso addestramento, che imponeva alle fanterie di allenarsi a battersi in campo aperto. Il quartier generale francese fece pubblicare il libretto del capitano Laffargue e, nella primavera del 1916, lo distribuì agli ufficiali a titolo informativo. Ma nulla fu mutato nei manuali e il vecchio sistema delle ondate continuò a imperversare. Il caso volle però che, all'inizio di quell'estate, una copia dell'opuscolo fosse rintracciata dai tedeschi in una trincea francese espugnata. E subito le massime autorità militari germaniche videro espresse con chiarezza le idee che esse andavano elaborando con molta fatica. L'opuscolo divenne anzi la base per l'addestramento delle fanterie tedesche e i suoi contenuti furono largamente incorporati nel testo di altre istruzioni, approntato da Ludendorff per «l'attacco nella guerra di posizione». Tale tattica

offensiva si basava anch'essa sulle Stosstruppen, che agivano frontalmente contro una posizione nemica come una fitta siepe di aghi acuminati: invece della bassa pressione continua delle ondate, i penetranti aculei di aste perforanti ad alta pressione. L'applicazione di questo principio riscosse successi enormi, anche se non decisivi, nelle offensive tedesche della primavera del 1918. Nacquero così due concezioni offensive: quella anglo-franco-italiana, fondata sull'azione di fuoco seguita dal movimento; e quella germanica che si atteneva al presupposto di combinare l'azione di fuoco col movimento, costituendo la base della manovra delle formazioni corazzate nella seconda guerra mondiale. Fu dunque nel 1917 che i tedeschi perfezionarono sia la tattica della difesa elastica che quella dell'attacco con squadre d'assalto. In difensiva, diceva l'ordine emanato il 27 giugno 1917 dalla IV armata tedesca, «specialmente importante, per combattere l'artiglieria nemica prima della battaglia, è il principio di non fare economia di munizioni». Sembra una affermazione banale, ma togliere ai difensori l'assillo di contare le munizioni significava moltiplicarne l'efficienza. E più oltre: «Preparare accuratamente il bombardamento a gas delle batterie nemiche e dei settori della posizione della sua fanteria, particolarmente - se ci se ne rende conto - poco prima dell'assalto della fanteria nemica». Inoltre le divisioni di riserva dovevano essere schierate a tergo dei settori minacciati, alle dipendenze dei gruppi, per l'accantonamento, l'addestramento e la preparazione all'intervento in battaglia. La fanteria nemica, poi, doveva subire il contrattacco nel momento in cui entrava in crisi, quando cioè - conquistata la posizione tedesca - avesse perso l'efficace appoggio della propria artiglieria, mentre cadeva entro la gittata di quella avversaria. Era un punto fondamentale, poiché non si trattava di un attimo fuggente - che poteva quindi sfuggire - ma di un lasso di tempo relativamente lungo, che alla difesa consentiva di riflettere e di orientarsi. Questi principi non erano certamente il Vangelo, ma è un fatto che a Caporetto i comandi italiani agirono esattamente al contrario. I precedenti, e molti altri particolari, sono contenuti in numerose pagine, che von Lossberg (promosso maggior generale il 1° agosto 1917) dedicò alla difesa elastica in un suo libro, pubblicato dopo la guerra e subito divenuto famoso. [Nota. Fritz von Lossberg, Meine

Tatigkeit im Weltkriege 1914-1918, Mittler, Berlin 1939. Fine nota.] La difesa era stata portata a perfezione. I ricambi erano divenuti così frequenti, che un battaglione stava in linea 2 giorni su 12. Vennero aumentate di numero le divisioni Eingreif, arrivando a costituire una legione di due divisioni, quella in linea sorretta alle spalle da una Eingreif, insieme tenendo un fronte di 5 chilometri. In tale fac-simile di legione romana, la divisione in linea la faceva da hastati e da principes, e l'Eingreif da triarii. L'esperienza fu considerata così positiva, che il 28 novembre tali istruzioni furono estese al fronte orientale, benché i combattimenti vi languissero, in attesa della pace di Brest-Litovsk. Si era frattanto messa a punto la nuova tecnica dell'assalto: frontale, sì, ma basato sulla tattica dell'infiltrazione attraverso le inevitabili maglie larghe dello schieramento nemico. Di tale tecnica le prime esperienze risalivano al febbraio 1916, quando i tedeschi avevano attaccato a Verdun; ma si era successivamente perfezionata nei contrattacchi eseguiti nell'ambito della difesa elastica, ed era stata messa in pratica nella battaglia di Riga, che nel settembre 1917 dette alla Germania il possesso della Lettonia. I groupes de tirailleurs di Laffargue erano divenuti squadre d'assalto, munite di lanciafiamme, granate esplosive e a gas, mortai portatili, fucili automatici e mitragliatrici leggere, che avevano fatto la loro comparsa nella tarda primavera del 1917. Di questo lavorio, durato più di un anno, la Germania aveva fedelmente tenuto al corrente l'alleata Austria-Ungheria, perché ne facesse l'uso migliore: e se ne erano visti i frutti sotto l'Hermada in giugno e in settembre e, ancora in giugno, davanti all'Ortigara. Quando perciò si afferma che il nostro comando poco sapeva della nuova tattica nemica, perché collaudata per la prima volta a Riga un mese prima di Caporetto, si dice cosa non vera. Il ricordo visivo di tale tattica, se mai è esistito, andò perduto. Ma esso è adombrato e velatamente ricostruito nel film tedesco Westfront, che Pabst diresse e girò nel 1930. Tale era l'esercito, che si preparava a intervenire in Italia. Era un avversario intellettualmente preparato. [Nota. La tattica tedesca e la sua evoluzione, fino alla «perfezione» raggiunta nel 1917, furono descritte criticamente dal capitano G.C. Wynne, che vi dedicò 11 articoli, apparsi nell'«Army Quarterly» di Londra dalla fine del 1936 alla fine del 1939, successivamente raccolti in un volume edito all'inizio del

1940, col titolo: If Germany attacks - The battle in depth in the West. Fine nota.] Cosa contrapponevano i nostri condottieri sul piano concettuale?

Capitolo VI IL RIFLESSO TEDESCO I comandi dell'Intesa ebbero molte difficoltà nel comprendere le cause delle eccezionali capacità di incasso degli eserciti delle Potenze Centrali. Lo ricorda Angelo Gatti, [Nota. Angelo Gatti, Un italiano a Versailles, Ceschina, Milano 1958. Fine nota.] che nel dicembre 1917 si trasferì temporaneamente a Versailles insieme a Cadorna, sostituito l'8 novembre nel comando supremo dal generale Diaz, non appena ebbe portato a termine la ritirata sul Piave dell'esercito italiano. In numerosi colloqui, gli ufficiali delle rappresentanze alleate gli descrissero le difficoltà in cui da un anno si dibattevano gli anglo-francesi. Fin dall'inizio del 1917 essi avevano notato che la strategia e la tattica tedesca erano cambiate. Gli alleati non sapevano capacitarsene, ma gli effetti li avevano visti. Vi era stata innanzi tutto la improvvisa e gigantesca marcia a ritroso dell'esercito germanico fino alla Siegfried-Stellung, che gli anglofrancesi chiamavano «linea Hindenburg»: inaspettatamente, nel marzo 1917, i tedeschi avevano ripiegato dall'arco di cerchio che andava da Arras a Soissons, per schierarsi lungo una corda diritta 100 chilometri, facendo del territorio abbandonato un deserto di detriti e di trappole minate. Il ripiegamento era variato da pochi chilometri a un massimo di 40, ma l'accorciamento del fronte aveva consentito ai tedeschi un «risparmio» di 10 divisioni. Era stata una manovra strategica impressionante, poiché nessun belligerante aveva mai avuto il coraggio morale di ritirarsi spontaneamente per simile estensione. Nel frattempo succedevano in campo tattico fatti non ben riconosciuti, ma certo dannosissimi agli alleati. Mentre in precedenza si era combattuto selvaggiamente per una siepe o un fosso, e migliaia di morti erano marciti intorno a cocuzzoli alti pochi metri, adesso si notava da parte avversaria una scioltezza, una snellezza, una elasticità di difesa, accompagnate da una risolutezza, da una potenza, da una rapidità, da una perseveranza di offensiva, che moltiplicavano con l'arte le forze dei soldati. Erano nate insieme la difesa elastica, secondo la denominazione rinvenuta nei giornali tedeschi intercettati dai francesi (gli inglesi, pur possedendo l'originale del manuale «Ludendorff», non se ne erano accorti), e le truppe d'assalto.

Queste ultime, secondo le voci raccolte da Gatti, erano formazioni improvvisate o appositamente istruite, per portare nel momento e nel luogo opportuno il colpo risolutivo. L'innovazione era di estrema importanza; tanto più che, allargando l'idea delle truppe d'assalto dai piccoli corpi a divisioni e corpi d'armata, si poteva passare, da parte tedesca, all'offensiva con ben maggiori probabilità di successo. Tale stato di cose - continua il colonnello Gatti -, che dava ai tedeschi una superiorità tecnica sugli alleati, non poteva durare, perché per questi ultimi avrebbe voluto dire la sconfitta. Ed era stato il nuovo comandante dell'esercito francese, il generale Pétain, a spezzare al suo esercito e a quello inglese il primo pane della conoscenza della nuova tattica nemica e le prime nozioni della difesa e dell'offesa in profondità; o, con altre parole, «la dottrina del collegamento e della dipendenza degli svariatissimi elementi di combattimento i quali, nella fase risolutiva passando rapidamente all'urto e al movimento, causano la sorpresa che spezza il nemico». Gatti non dice - poiché non poteva saperlo - che si dovette però attendere fino al 22 dicembre 1917, prima di veder codificate in un manuale francese, trasmesso anche al nostro comando, le regole del gioco della difesa elastica. E fra gli stessi comandanti d'armata francesi non pochi opposero una tenace resistenza passiva alle nuove concezioni. Da parte italiana la «bassa forza» aveva notato certe stranezze. Il tenente Carlo Salsa, preso prigioniero alle falde dell'Hermada verso la fine di maggio del 1917, [Nota. Carlo Salsa, Trincee, Sonzogno, Milano 1924. Fine nota.] si trovò a parlare pochi giorni dopo, in campo di concentramento, con alcuni compagni di sventura (perché la prigionia in Austria era peggio della prima linea: basta leggere di Scortecci l'allucinante e kafkiana Città effimera). [Nota. Giuseppe Scortecci, La città effimera, pubblicato nel 1930, ristampato in Tre romanzi della grande guerra, Longanesi, Milano 1966. Fine nota.] Tutti erano concordi nel lamentare il ridotto mordente dei soldati e ne discussero i motivi e i rimedi. Qualcuno invocò una disciplina più ferrea, come presso gli austriaci. «Ma loro i soldati li cambiano - ribatté un altro -: hanno i loro turni fissi e le truppe fresche per gli attacchi. Noi invece ci battiamo in offensiva con un mese di trincea nelle ossa o due anni di anzianità di fronte. Siamo uomini: abbiamo una resistenza di uomini.» Passarono quindi ad inveire contro gli alti comandi. Ma nessuno si

domandò, nemmeno Salsa, come mai gli austriaci avessero i «turni fissi» e le «truppe fresche», pur essendo metà degli italiani. La domanda la pongo io, in questo momento. Già si è detto come Cadorna, dopo la controffensiva di Boroevic sul Carso ai primi di giugno, si precluse l'accertamento della realtà, accontentandosi di individuare la causa dell'insuccesso nel basso morale delle truppe. E anche se poi ebbe dei ripensamenti, non ne andò a fondo. Con altrettanti paraocchi erano compilate le «veline» (simboliche, poiché non esistevano ancora quelle materiali), che dal Comando Supremo impregnavano la stampa. Nella notte del 5 giugno un comunicato dell'agenzia Stefani, annunziando e commentando l'inizio della controffensiva austriaca del giorno prima, narrava che le fanterie austriache si erano gettate contro le nostre linee «nelle consuete formazioni dense a plotoni affiancati, precedute da grossi reparti d'assalto». La contraddizione insita in tale grottesca descrizione è in parte corretta il 7 giugno da Guelfo Civinini, corrispondente del «Corriere della Sera». Raccogliendo notizie da testimoni evidentemente di prima mano, Civinini cerca di spiegare a suo modo il contrattacco austroungarico. Secondo lui, l'offensiva italiana ha di poco preceduto analoga azione nemica, scompaginandone i preparativi. «Il nemico era stato respinto su tutta la linea da Castagnevizza al mare, schiantato da tutti i suoi poderosi capisaldi, travolto oltre le numerose linee che ad essi si annodavano a formare il complesso e profondo sistema difensivo, preparato così a resistenza contro il nostro colpo come a sostegno e base di quello contro di noi.» Ma come avevano potuto gli austroungarici riprender fiato così velocemente? Civinini spiega che, ributtato contro il suo secondo sistema difensivo o sulle posizioni intermedie, il nemico «aveva tuttavia ancora essenzialmente intatto tutto il suo ammassamento di artiglieria, di cui anche lo schieramento avanzato si trovava, come è naturale, in posizioni troppo arretrate perché il nostro slancio potesse raggiungerlo». In sintesi, non esente da inesattezze, questa descrizione si addiceva alla difesa elastica alla tedesca. Subito dopo però, contraddicendo le precedenti parole, Civinini afferma che il nemico si era preparato anch'esso a scatenare «un'offensiva basata su uno strapotente ammassamento d'artiglieria» (ma allora perché il suo schieramento era così arretrato? e come si poteva parlare di strapotere, quando il

Comando Supremo italiano ben sapeva che il numero dei pezzi austriaci non era la metà dei nostri?). Proseguendo imperterrito, Civinini registra però quanto è successo con accettabile esattezza (senza invocare i «plotoni affiancati»): «Appena cessato lo scompiglio della sconfitta, il nemico si è ancora trovato in possesso del primo e principale elemento della sua preparazione. Non gli restava che riordinarla, schierare più lontano quelle artiglierie, che aveva dovuto ritirare da posizioni che ora risultavano troppo avanzate, riempire i larghi vuoti delle gravissime perdite con truppe racimolate... e con questo riordinamento riprendere sul mutato terreno la parte invano vagheggiata dell'attaccante». Nonostante molte imprecisioni un semplice corrispondente di guerra era andato molto vicino alla verità, che era invece sfuggita al Comando Supremo. Eppure la stessa tecnica Cadorna la vide in opera quasi con i propri occhi alcuni giorni dopo. Il 10 giugno fallì la prima azione dell'Ortigara, e fallì addirittura in poche ore, nonostante una superiorità schiacciante, mai più eguagliata nella storia della guerra italiana. Il giorno dopo Cadorna si recò a Bassano e Gatti, che era al suo seguito, lo udì conversare col comandante della VI armata, generale Mambretti, responsabile dell'operazione. Mambretti spiegava al generalissimo le cause dello scacco: il tempo pessimo e la tecnica difensiva degli austriaci, «i quali al di là delle trincee e dei reticolati di prima linea, hanno messo numerosissime mitragliatrici. Quando i nostri hanno superato il primo ostacolo - trincea e reticolato -, sono stati sorpresi dappertutto da un terribile fuoco di mitragliatrici e si sono trovati contro i soldati usciti dalle caverne». Cadorna annuiva, addirittura commentando che «non ogni dieci anni, ma ogni dieci mesi nella guerra moderna cambia la tattica». Lui, però, non la cambiava mai. Gli scritti del colonnello Gatti, specialmente il Diario, vanno presi con una certa cautela. Ma la sua sintetica esposizione è in realtà confermata dalla interminabile narrazione che dell'offensiva dell'Ortigara fa la Storia Ufficiale italiana. Eppure Cadorna, scrivendo il 20 giugno a un familiare, diceva che gli sembrava che le truppe avessero «poco slancio», salvo in un'altra lettera del 15 luglio sottolineare le responsabilità emerse sul generale Mambretti, che non esitò a spedire al comando truppe dislocate lungo il confine svizzero. E il «poco slancio» delle fanterie ritorna, come un leit-motiv, in un'altra

lettera privata del 29 agosto, nella quale Cadorna descrive l'attacco al San Marco del giorno prima, cui aveva assistito personalmente. Egli continuava insomma a oscillare fra una persistente accusa di fiacchezza alle truppe e una generica, sebbene tardiva, ammissione di manifeste incapacità dei suoi sottoposti, che magari egli silurava con pochi complimenti, senza mai andare a fondo delle cause prime degli errori di comando. Il perfezionamento della tattica difensiva austriaca emerse con la massima evidenza durante l'undicesima battaglia dell'Isonzo. Ora è la volta di Arnaldo Fraccaroli a descrivere sul «Corriere della Sera» del 21 agosto la terrificante sorpresa delle prime ondate italiane, attaccanti nel Carso meridionale, che «si trovano fra i meandri di una sistemazione difensiva fantastica. Sezioni di mitraglieri vengono tamponate dai nostri in caverne fatte a pozzo, con una calotta girevole in ferro: vere torrette corazzate». Nella terza pagina dello stesso giornale Luigi Barzini ne dà una descrizione così dettagliata, che sembra copiata dal manuale tattico di Ludendorff. Negli ultimi mesi egli scriveva - il nemico ha potenziato enormemente il suo sistema difensivo. “Non si tratta più ora di tre linee di trincee successive, profonde, collegate a rifugi invulnerabili; le tre prime linee non costituiscono ora che il sistema avanzato della difesa. Duecento o trecento metri più indietro si è scavato un triplice intreccio di trinceramenti, con le sue caverne, i suoi reticolati, i suoi appostamenti per piccole batterie; e, ancora più lontano, vi è una terza serie di trincee. In alcuni settori ve ne è anche una quarta. Fra un sistema di difese e l'altro corrono delle trincee trasversali, disposte come le venature di una foglia, per costituire delle chiuse, delle paratie stagne, che contengono l'irruzione in caso di sfondamento, esponendo l'avanzante ai tiri laterali... Tutto il complesso delle opere costituisce labirinti spaventosi sulla profondità di chilometri, di fronte ai quali l'intreccio delle vecchie trincee austriache del Podgora e del Sabotino sembra di una semplicità elementare. Avanti alla primissima linea il nemico ha inoltre scavato una catena di piccoli posti, protetta da uno sbarramento continuo di cavalli di frisia, la quale, benché sia destinata ad essere abbandonata sotto la pressione di un attacco, forma un ostacolo materiale allo

sbalzo e obbliga l'artiglieria a disperdere un grande volume di fuoco per la demolizione.” Luigi Barzini, che è in contatto con molti colleghi inglesi e francesi, non fa fatica a cogliere la somiglianza della difesa elastica austriaca con quella tedesca: «Le nuove tattiche tedesche di fronte alle pesanti offensive inglesi e francesi hanno avuto un'influenza evidente sulla disposizione della difesa austriaca, per la quale una grande parte è affidata a miriadi di mitragliatrici disseminate fuori delle linee, nelle zone intermedie, in appostamenti mascherati, entro pozzi profondi o in invisibili cavità delle rocce. Poco vulnerabili al tiro delle artiglierie, perché difficilmente individuabili, le mitragliatrici sono così sempre pronte a formare vari campi di tiri incrociati, sbarramenti di piombo, reticolati di traiettorie, che trattengono l'avanzata al primo momento, fino a che le masse di cannoni chiamate al soccorso non arrivino a concentrare i loro bombardamenti sui punti minacciati e crearvi delle chiusure di esplosioni...». Naturalmente Barzini non spiega perché gli attacchi italiani (e, in verità, anche quelli inglesi nelle Fiandre) si susseguano sempre col medesimo stile, benché la tecnica della difesa nemica sia così profondamente mutata: «Su tutta l'immensità del fronte, l'ondata di uomini è partita con lo stesso slancio, con la stessa fede, con la stessa abnegazione». A ridescrivere la struttura della difesa elastica austriaca torna Arnaldo Fraccaroli sul «Corriere della Sera» del 7 settembre. È il momento della lotta selvaggia per il possesso della vetta del San Gabriele: «La minuziosa sapiente organizzazione delle difese austriache è resa più resistente dall'affluire di truppe e di armi. Di mitragliatrici, soprattutto. È un vespaio incredibile. Dà l'impressione che ogni soldato austriaco abbia per arma una mitragliatrice, tanto è fitto lo schieramento. Saltano fuori da ogni punto della linea, sgranano i loro colpi con quel caratteristico scoppiettio di motocicletta in corsa; poi tacciono, per non scoprirsi troppo, e altre da altri punti le sostituiscono, tutte chiuse in caverne, tutte blindate». Le parole di Fraccaroli non devono indurre a credere che l'esercito austro-ungarico fosse dotato di armi automatiche più del nostro. Per la undicesima battaglia dell'Isonzo, quando la II e la III armata italiane si scagliarono contro la Isonzo Armée, figurano in dotazione alle truppe italiane 5600 mitragliatrici e 3600 mitragliatrici-pistole, contro 2092

mitragliatrici e un numero imprecisato, ma non alto, di mitragliatrici leggere in dotazione agli austriaci: solo che l'impiego tattico che ne facevano i nostri nemici era assai più efficace del nostro. Né si deve credere a una loro superiorità qualitativa: forse le Schwarzlöse erano più fedeli delle Saint-Etienne o delle Fiat. Ma in generale le armi automatiche della prima guerra mondiale erano estremamente affidabili - forse più di quelle attuali -, poiché i pezzi, benché fabbricati in serie, venivano poi fra loro adattati dalle mani sapienti di abili operai specializzati aggiustatori. Esse erano quindi capaci di una incredibile durata di fuoco prolungato. Erano tali caratteristiche ad aver consentito di portare la guerra da una dimensione lineare (una o più trincee parallele) a due dimensioni, cioè su una superficie molto più vasta, su cui si diluiva il tiro dell'artiglieria nemica, mentre le unità di riserva si riparavano nella terza dimensione, cioè nelle profondità del sottosuolo. Anche le vedette, necessariamente esposte allo scoperto, avevano maggiori probabilità di sopravvivere, perché assai meno addensate. Sulle modalità e sull'efficienza della difesa elastica, il comando italiano avrebbe quindi dovuto essere bene informato, tutto avendo appreso sulla pelle delle proprie truppe. Ma, se ciò non fosse bastato, glielo avevano spiegato con dovizia di particolari gli stessi nemici. Come narra la Storia Ufficiale italiana, dopo la decima e prima dell'undicesima battaglia dell'Isonzo, nostri fidati informatori si erano infiltrati nei campi di concentramento, entrando in rapporti confidenziali con alcuni ufficiali austro-ungarici caduti prigionieri nella decima battaglia. Era stata così raccolta una imponente massa di informazioni. Fra queste v'era lo stupore, manifestato da tali prigionieri, che il comando italiano non avesse adottato sistemi analoghi a quelli austro-ungarici. Essi esprimevano anche l'avviso che noi tenessimo troppa gente in trincea. «La guerra sul Carso era una guerra di talpe, e tanto chi si difendeva quanto chi attaccava dovevano cercare nella caverna il segreto della vittoria.» Perché mai aggiungevano tali prigionieri - tante truppe venivano ammassate in prossimità delle prime linee nell'imminenza di un attacco, sperando di sfruttare i risultati del primo balzo col succedersi di ondate fresche successive, se le truppe che dovevano alimentare l'avanzata venivano decimate ancor prima di entrare in azione? «Ci vogliono caverne,

caverne e caverne per tutti: caverne per chi è in linea, caverne per i rincalzi, per quanto numerosi essi siano.» «Le caverne neutralizzano in gran parte gli effetti del fuoco di artiglieria e rendono possibili quei contrattacchi, che spesso fanno riconquistare in pochi minuti ciò che a voi [italiani] è costato sacrifici enormi.» Preoccupante, quasi una profezia, era una loro precisa convinzione: «Di fronte a un attacco serio [contro il fronte italiano], preceduto da un bombardamento intenso, difficilmente noi avremmo potuto tenere le posizioni, non giudicando possibile che una fanteria, per quanto salda, resistesse a una giornata di fuoco tambureggiante, se non disponeva di sufficienti e sicuri rifugi». Sul terreno pratico, oltre alla tecnica difensiva manifestatasi durante le due fasi offensive italiane, i due contrattacchi sul Carso avevano messo in luce i metodi di penetrazione, anch'essi nuovi, che il nemico aveva posto in opera. È pur vero che Fraccaroli, parlando il 6 settembre sul «Corriere della Sera» della seconda controffensiva austriaca, riportava tal quale la frase che l'agenzia Stefani aveva usato tre mesi prima: «[Gli austriaci] avanzavano in quella loro tipica formazione a masse serrate, che offre ai nostri tiri un bersaglio immenso e sicuro» - indizio che, attingendo informazioni presso il Comando Supremo, se ne ricavavano le stesse frasi stereotipe buone per ogni occasione -, ma il 9 settembre la sua descrizione personale era molto diversa: «Nuclei di arditi, subito seguiti da pattuglie d'assalto, furono lanciati dal comando austriaco». E il giorno dopo: «Gli austriaci riuscirono nuovamente a spezzare le linee, ormai costituite da un indescrivibile cumulo di macerie». Era solo ammorbidita la spiegazione del nostro ripiegamento: «Ma alla sera furono nuovamente ricacciati. Era però inutile ostinarsi in una posizione, che l'assoluta mancanza di difese rendeva insostenibile; e con una pronta rettifica di posizioni, che le sottraeva a una pericolosa e instabile difesa allo scoperto, le nostre truppe furono riportate e riordinate sulla linea già preparata». Come ho già detto, la diceria che a Caporetto l'esercito italiano si sia trovato davanti a una tattica d'assalto completamente nuova, è destituita di fondamento. Eppure essa assurge a verità incontrovertibile nella Storia Ufficiale italiana, pur pubblicata nel 1967, cioè 50 anni dopo gli avvenimenti: «[Le grandi unità germaniche] adottarono nuovi procedimenti operativi, concettuali ed esecutivi,

scaturiti dall'esperienza recente ricavata nella grande offensiva in Galizia» (in realtà nella battaglia per la conquista di Riga). E non vera è l'affermazione che tali procedimenti fossero monopolio delle unità germaniche: essi erano stati acquisiti con pari efficacia dalle truppe austro-ungariche. Dunque anche gli estensori di tale pregevole narrazione, a furia di fare la storia sulle circolari e sugli ordini di operazione, riprodotti in molteplici copie dattiloscritte, sono stati confusi quanto lo fu Cadorna. Nelle pagine precedenti credo di aver offerto una serie di testimonianze, che provano oltre ogni dubbio come i nuovi metodi di attacco e di difesa introdotti negli eserciti austro-germanici si fossero palesati con precisione agli osservatori più attenti. A maggior ragione essi non sarebbero dovuti sfuggire a un comando degno di questo nome. E uno studio meticoloso, condotto da un ristretto numero di ufficiali di stato maggiore, ben preparati ma con esperienza di comando in combattimento, avrebbe potuto trarne efficaci insegnamenti tanto per nostre nuove offensive che nel caso di difensiva. Se però la realtà, mentre Caporetto incombeva, fosse stata diversa, se cioè il nostro potente esercito fosse stato privo di un proprio «laboratorio» di ricerca e di pensiero, allora certamente le sorprese non sarebbero mancate.

Capitolo VII LA GUERRA DI POSIZIONE SECONDO IL COMANDO SUPREMO La polemica che, durante e dopo la prima guerra mondiale, si scatenò contro «l'attacco frontale» e il generale Cadorna, che ne fu considerato l'apostolo, non si è spenta neppure oggi, almeno fra il ristretto numero di coloro che ancora si occupano della questione. Gli antesignani dell'attacco frontale sono i francesi con i loro regolamenti emanati il 20 aprile 1914. Smentendo i precedenti, i nuovi regolamenti, sotto l'influenza nefasta del colonnello de Grandmaison, relegano l'artiglieria a un ruolo subordinato: «L'artiglieria non prepara più gli attacchi, essa li appoggia». [Nota. A. Goutard, La Marne, Laffont, Paris 1968. Fine nota.] L'assalto delle fanterie, sfrenato, a passo di carica e squilli di trombe - il fucile con la baionetta inastata, tenuto a croce sghemba con ferme braccia - travolgerà qualsiasi avversario. All'articolo 433, il regolamento prescrive addirittura lo stato d'animo del combattente nel momento supremo: «Dall'inizio dell'azione, ogni soldato deve ardentemente desiderare l'assalto alla baionetta come il mezzo supremo per imporre la sua volontà al nemico e raggiungere la vittoria», frase che la recluta deve imparare a memoria. Sembra quasi che, più che a distruggere il nemico, si miri a ottenerne la resa, terrorizzandolo col furor gallicus. Tale tipo di attacco, nell'agosto e settembre del 1914, cioè in piena guerra di movimento, fa versare all'esercito francese fiumi di sangue, poiché i tedeschi non si spaventano e rispondono con un fuoco devastatore all'avanzata spasmodica delle masse esagitate, che ben si stagliano sullo sfondo con i pantaloni rossi e le giacche azzurre. L'Istruzione, che Cadorna scrisse nel 1905, aggiornò più volte e fece diffondere in un'ultima edizione il 25 febbraio 1915, parla dell'attacco frontale come di una inevitabile necessità, quando svaniscano altre possibilità come l'avvolgimento alle ali. Tuttavia, con l'avvento delle fronti continue alla fine del 1914, l'attacco frontale diviene appunto una «inevitabile necessità». E nella «libretta rossa», come l'opuscolo viene chiamato per il colore della copertina, la descrizione dell'attacco frontale è portata a tali minuzie di dettaglio, che la manovra, eseguita su quella falsariga, si riduce a un attacco frontale nel senso più letterale della parola, cioè a ondate di fanti avanzanti a distanza di

braccio l'uno dall'altro. Delle mitragliatrici poi sono sottostimate le prestazioni, a tal punto che esse non vengono considerate parte integrante della fanteria, ma solo mezzi complementari, da utilizzare in postazioni fisse, utili per la grande potenza di fuoco, che sussidia quella dell'artiglieria. Nella chiusa Cadorna conclude paradossalmente che le armi moderne hanno procurato maggiori vantaggi all'offensiva che alla difensiva, con la sola cautela che «si impieghi tutto il tempo occorrente a preparare le condizioni favorevoli». [Nota. Tale punto è commentato, e criticato, dal generale Rodolfo Corselli, Cadorna, Corbaccio, Milano 1936. Fine nota.] Firmato successivamente il patto di Londra, che impegna l'Italia a entrare in guerra a fianco dei nuovi alleati, il 12 maggio 1915 Cadorna fa pubblicare un'istruzione complementare sui «procedimenti dell'attacco frontale nella guerra di trincea in uso nell'esercito francese». In essa, commentando e condensando le notizie nel frattempo ricevute dallo stato maggiore francese, egli scrive, con scarsa preveggenza, che tale forma di guerra - quella di posizione - sarà poco probabile sulla nostra fronte. Gli anticadorniani hanno facile gioco nel ridicolizzare Cadorna, sia per la «libretta rossa» che per le istruzioni complementari, tanto più che la difesa del generalissimo è assai maldestra: «Urgeva - egli ribatte - spingere alacremente l'istruzione dell'esercito nella guerra offensiva in campo aperto, la quale è la base della guerra di trincea», frase questa invero sibillina. Alacrità necessaria perché «l'istruzione tattica dell'esercito molto lasciava... a desiderare e lo spirito offensivo dell'esercito era molto scarso... Considerato tutto ciò, emanai il fascicoletto sull'attacco frontale». Cadorna aggrava la sua autodifesa quando vuol giustificare la prefazione da lui preparata alle «istruzioni complementari». L'attestazione di fiducia - che la guerra di trincea non si sarebbe radicata sulla nostra fronte - egli la motiva, dichiarando che essa non fu dettata da intimo convincimento, ma fu un escamotage, temendo che «quell'istruzione sulla guerra di trincea tarpasse le ali allo slancio offensivo delle truppe». C'è da osservare che regolamenti e istruzioni, destinati a orientare gli uomini nel combattimento, non dovrebbero avere secondi fini, quasi fossero proclami retorici. Comandamenti come il seguente, tratto dalla «libretta rossa»: «È indispensabile mantener fede nella riuscita dell'attacco frontale e nella efficacia della baionetta, per infonderla nei gregari e trascinarli impavidi traverso la zona tempestata

dai proiettili nemici, per conquistarvi il lauro della vittoria», non spiegano nulla e, fallendo sul terreno, demoralizzano qualsiasi esercito. Fatto è che, con questi concetti e sulla base di queste istruzioni, furono condotte le operazioni offensive italiane nel 1915. Ed è magra consolazione che i franco-inglesi, nonostante la ben più lunga e sanguinosa esperienza, avessero come generali delle teste di legno che non sapevano fare di meglio. Tuttavia la polemica Cadorna-anticadorniani si basa su un equivoco. Gli anticadorniani stravedono, quando condannano l'attacco frontale: è ovvio che, con fronti continue, altra forma d'attacco non è possibile. Cadorna riconosce il punto debole della dialettica avversaria e ne fa il perno della sua difesa, confondendo a bella posta (egli scrive la sua difesa nel 1926) l'attacco frontale in se stesso con le modalità per attuarlo. Il punto fondamentale è invece un altro: se cioè esso debba essere attuato a onde successive oppure conficcando sottili aghi nello schieramento avversario; se perseguire l'attacco frontale a ondate contro i punti più saldi o piantare i chiodi nei punti più deboli, per aggirare i più forti. La tattica tedesca dell'infiltrazione non eludeva il problema dell'attacco frontale, ma lo risolveva in modo diverso, più parsimonioso di vite umane e più suscettibile di sfruttamento. Quanto all'azione difensiva, Cadorna puntava molto sulla contropreparazione e sullo sbarramento dell'artiglieria, per stroncare l'attacco, prima ancora che si materializzasse. Ma egli non arrivò ad afferrare il concetto della difesa cedevole. Le sue stesse parole consentono di spiegare l'equivoco in cui cadde. Parlando della possibilità di una offensiva austro-tedesca contro l'Italia nella primavera del 1917, egli scrive: “...Non si può escludere che i tedeschi possano fare una grande sottrazione di forze da quel teatro di guerra [quello occidentale], se saranno disposti a cedere terreno e a manovrare in ritirata. Ripiegando di qualche chilometro ogniqualvolta i franco-inglesi avranno ultimato i loro preparativi d'attacco, e costringendoli in ogni fase a riportare innanzi le loro artiglierie e a ricominciare la preparazione, possono, anche disponendo di forze notevolmente inferiori, mediante tre o quattro fasi in ritirata (20-30 km) guadagnare il tempo necessario per condurre un attacco a fondo contro di noi.”

Cadorna aveva quindi scambiato la difesa manovrata elastica con una serie di fasi di ripiegamento senza combattimento. Eppure il generale Cadorna una lezione esauriente su quanto accadeva lungo il fronte occidentale l'aveva avuta ancor prima della nostra guerra dalla persona certamente più competente in materia: dal generale Falkenhayn, comandante supremo dell'esercito germanico. A partire dall'autunno 1914 Falkenhayn ebbe tre colloqui con l'addetto militare italiano in Germania, tenente colonnello Luigi Bongiovanni (che a Caporetto avrebbe comandato il disgraziato VII corpo d'armata). La storia ha accusato Falkenhayn per alcune sue scelte strategiche, in particolare per quella di Verdun. Ma in campo tattico nessuno gli nega il merito di essere stato maestro e di aver intuito immediatamente la necessità di innovare nelle modalità del combattimento. Il primo colloquio con Bongiovanni Falkenhayn lo ebbe ai primi di dicembre del 1914, [Nota. Angelo Gatti, Uomini e folle di guerra, Mondadori, Milano 1932, 2a ed. Fine nota.] e riassunse le conclusioni con la frase: «La difesa ha spezzato l'offesa». Le sue parole non furono esenti da autocritica: «Noi tutti siamo stati ciechi. La guerra russo-giapponese avrebbe dovuto ammaestrarci sulle conseguenze tattiche delle nuove armi, e sulle forme di combattimento che necessariamente dovevano scaturire da esse. Ma non abbiamo capito». A Bongiovanni era stato dunque svelato il segreto del campo di battaglia germanico e di quello austro-ungarico «il quale ultimo, con minor arte e con minori mezzi, imitava il primo». Lo stesso Bongiovanni, poi, ebbe la possibilità di visitare senza restrizioni sia il fronte russo che quello occidentale, forse perché il comando supremo germanico, che voleva evitare a ogni costo l'entrata in guerra dell'Italia, pensava che il modo migliore per raggiungere tale fine consistesse nello spaventarlo, mostrandogli in piena azione la possente macchina militare tedesca. Le rivelazioni, Bongiovanni le trasmise in Italia a chi di dovere, senza provocare alcuna reazione. Eppure egli aveva potuto «osservare e annotare, in una relazione che doveva mandare in Italia più tardi, sul finire di marzo del 1915, i segni certi della nuovissima opera, che gli eserciti germanici compivano sul campo di battaglia. La guerra di posizione balzava fuori, dalle osservazioni del tenente colonnello Bongiovanni, gigantesca e tremenda».

Allorché la situazione politica volse al peggio e l'intervento dell'Italia a fianco dell'Intesa si fece sempre più probabile, Falkenhayn cercò di portare, nei limiti delle sue competenze, un contributo personale alla politica della cancelleria di Berlino. Convocò perciò a Charleville-Mézières, dove aveva sede il comando tedesco del fronte occidentale, il colonnello Bongiovanni, che trattenne a colloquio l'11 e il 12 aprile 1915. Falkenhayn era fra i pochi che già allora erano pessimisti sulla possibilità di una vittoria tedesca. Ma non queste segrete trepidazioni egli svelò a Bongiovanni: lo intrattenne invece sulla nessuna convenienza, per l'Italia, di entrare in guerra. Poi parlò di questioni più militari: la guerra non avrebbe visto né vincitori né vinti. L'esaurimento avrebbe posto fine alla lotta: «Noi aspetteremo... nelle trincee gli attacchi inglesi e francesi. Essi verranno a spezzarsi contro ai reticolati, e gli uomini saranno distrutti dal fuoco delle artiglierie tedesche. Nessuno caccerà mai l'esercito tedesco dalle sue linee difensive». Queste parole non fermarono l'Italia, «né la Germania trionfò né la guerra finì per esaurimento né ci fu nemmeno una pace di compromesso né [Falkenhayn] infine (che pure fu uomo non comune) fu profeta... Che cosa contenevano di vero le sue parole? poco o nulla». Così esse apparivano al colonnello Gatti nel febbraio 1921: noi oggi sappiamo che Falkenhayn aveva sfiorato la verità. La guerra fece dell'Europa una foglia disseccata. Ma che avvenne delle relazioni inviate in Italia dal colonnello Bongiovanni? Chi le lesse, oltre a Gatti? E se lo fece qualcuno che aveva responsabilità di comando, come mai delle riflessioni del comandante supremo germanico non è rimasta traccia nella condotta delle operazioni italiane, almeno durante i primi mesi di guerra? Nel 1915 la difesa austro-ungarica subì sul fronte italiano un salasso di circa 150.000 uomini, contro i 270.000 persi dagli italiani: non si trattava quindi di un eccidio di inermi. In termini relativi, anzi, le perdite austriache furono addirittura superiori a quelle italiane. Eppure la capacità di resistenza fisica e morale di quell'esercito multinazionale, dove i soldati non si capivano, era superiore, perché i soldati constatavano con i loro occhi che la tecnica e la tattica di combattimento, cui erano addestrati, ottenevano il risultato voluto. Le truppe italiane invece, benché proporzionalmente salassate di meno,

verificavano sul campo di battaglia uno stridente contrasto fra gli ordini impartiti, l'addestramento ricevuto e i risultati, assolutamente deludenti, di quelle sanguinose offensive. A partire dallo scoppio della guerra, si susseguirono le circolari del Comando Supremo, anche per dettare raccomandazioni in base all'esperienza guadagnata sui campi di battaglia. Ma nell'esercito italiano l'elaborazione dei dati era carente ed episodica: fatta poi non già da ufficiali prelevati fra i comandanti, che avevano sperimentato sotto il fuoco le teorie poi tramutate in disposizioni regolamentari, ma da ufficiali di stato maggiore che trascorrevano più tempo in ufficio che fra le truppe di prima linea. In luogo di studi approfonditi, l'anima burocratica e amministrativa del Comando Supremo cominciava a procreare mazzette di circolari, che si accumulavano come la «Gazzetta Ufficiale», l'ultima facendo riferimento a tre, quattro, otto delle precedenti, talché per decifrarle era necessario possedere l'intera collezione. La burocratizzazione dei comandi intermedi portava con sé la necessità di uffici e piantoni fino a livello reggimentale. Più giù i fogli delle circolari servivano per altri usi. In questa inondazione di circolari mai si parlava di operazioni difensive. Di azione difensiva il Comando Supremo si occupò per la prima volta nella circolare 4861 del 15 aprile 1916: dopo 21 mesi di guerra e ben 11 alla nostra fronte, come osserva il generale Corselli, quasi che il nostro esercito dovesse andare immune da tale esperienza. E tutto ciò ad appena un mese dalla Strafeexpedition, che mise in gravissimo pericolo lo schieramento italiano. Passata la burrasca, continuò l'inondazione della carta, quasi un volantinaggio: molte parole, molte prescrizioni generiche, nulla di confrontabile con le istruzioni dell'esercito germanico. Ancora il 5 giugno 1917 l'ordine di operazione n. 1, diramato dalla 25a divisione, impegnata nella infelice azione dell'Ortigara, richiama la modalità dell'attacco, che doveva essere scatenato cinque giorni dopo, con tali parole: “... all'ora prescritta, senza ritardare di un solo minuto, la prima ondata d'assalto di cui faranno parte anche i reparti d'assalto già preparati, dovrà precipitarsi con irruenza esemplare contro le posizioni nemiche, rinvigorita da successive e continue ondate, così come dice il

n. 20 dei Criteri d'impiego della fanteria nella guerra di trincea pubblicati dal Comando Supremo...” Tali criteri d'impiego risalivano al 10 luglio 1916 ed erano stati condensati nella circolare n. 12.336, vecchia di un anno. Nulla si era innovato - né v'era il tempo materiale per farlo - sulla base della recentissima esperienza acquisita nella decima battaglia dell'Isonzo. Ma vi sarebbe stato tempo di far tesoro delle amare esperienze a vantaggio della prossima «battaglissima», che Cadorna si preparava a scatenare intorno alla metà di agosto. A tale scopo, il 15 giugno 1917, con la circolare n. 2837, intitolata appunto «Insegnamenti tratti dalle recenti operazioni sulla fronte carsico-goriziana», Cadorna propinava insegnamenti davvero singolari: “L'esperienza ha confermato la necessità di rinunciare alle manovre complicate, basate su combinazioni di attacchi parziali indipendenti, ecc. Sulla fronte carsico-goriziana tali manovre non sono mai riuscite. È apparso invece chiaro che l'attacco, per avere probabilità di riuscita, dev'essere sferrato, violento e contemporaneo, sull'intera fronte prescelta, in guisa da scardinare ovunque le difese del nemico. Solo dopo ciò riesce possibile la manovra, che si esercita mediante l'impiego delle riserve. “ Ritagliare parte di un testo organico, induce al sospetto che ne venga tendenziosamente forzata l'interpretazione. Ma in tal caso posso assicurare che il resto della «circolare riservatissima» era coerente con la premessa. In definitiva Cadorna faceva piazza pulita dei dati della ricognizione aerea, delle informazioni ottenute con azioni di pattuglie, delle dichiarazioni dei prigionieri o dello spionaggio, per cercare il punto debole dell'avversario mediante un assalto esplorativo. Dalla intensità della reazione avversaria si sarebbe poi dedotto in quali punti perseguire più a fondo l'attacco, impegnando le riserve. L'attacco dunque doveva essere non solo frontale, ma altresì uniforme: indubbiamente una verifica sperimentale concettualmente elementare, ma a quale prezzo? Il prezzo, da pagare in migliaia di tonnellate di carne umana, era specificato più oltre nella stessa circolare: ogni armata doveva tenersi a disposizione forti riserve, in modo che all'intenso logoramento delle truppe si ponesse rimedio non

già addensando forze fresche a forze logore, ma sostituendo queste con quelle. E queste idee le suggeriva a Cadorna il colonnello Bencivenga, che se ne vanta. Il generale Clemente Assum, che alla battaglia partecipò, riassume la tattica di Cadorna, esasperandone sarcasticamente le concezioni, con la frase: «Espugnare i bastioni per far cadere di rovescio le cortine». [Nota. Clemente Assum, L'XI battaglia dell'Isonzo, Gobetti, Torino 1925. Fine nota.] Tali criteri di grande tattica (giacché della piccola tattica, che aveva un risvolto diretto nell'addestramento delle truppe, le circolari del Comando Supremo non parlano quasi mai) furono dunque applicati nella undicesima battaglia dell'Isonzo, che Cadorna organizzò su scala mai precedentemente raggiunta. E si deve ammettere che lo sforzo organizzativo e logistico per muovere oltre un milione di uomini fu veramente titanico. Ma sulla tattica di combattimento non ci si distaccò dai criteri fino allora impiegati: le ondate, più o meno perfezionate, rimanevano il cardine dell'assalto. Dei comandanti delle due armate impegnate, il duca d'Aosta e il generale Capello, quest'ultimo, che comandava la II schierata fra il monte Nero e Gorizia, era universalmente considerato il più capace generale italiano. Tuttavia, sorvolando sulle divergenze fra Cadorna e Capello per quanto riguarda l'impostazione strategica di questa e di altre battaglie, le opinioni di entrambi, in fatto di tecnica di attacco, non differivano sensibilmente. In una delle due conferenze tenute in luglio dal generalissimo ai comandanti d'armata e sottaciute nella Storia Ufficiale, ma citate da Capello - probabilmente nella seconda Cadorna aveva ancora fatto riferimento al suo «libretto rosso». E aveva richiamato certe vecchie idee, che secondo lui restavano tuttora valide, in particolare: “L'unità d'azione deve manifestarsi anche nel senso della profondità; le truppe retrostanti alla' linea del fuoco - scaglionate in quantità maggiore nella zona dell'attacco decisivo - pure impegnandosi successivamente, devono costituire, col loro intervento, come tanti atti del medesimo dramma, e la loro azione complessiva deve corrispondere all'irresistibile colpo di clava delle battaglie napoleoniche; esse non sono scaglioni di manovra destinati a compiere

atti tattici successivi e slegati: sono invece serbatoi di impulsione necessari per condurre a fine l'attacco decisivo.” Era insomma, ancora e sempre, il «colpo d'ariete». E Capello cita queste parole di Cadorna non già per criticarle (si badi che, se il discorso di Capello, in cui riportava le parole testuali di Cadorna, fu pronunziato il 4 agosto 1917, il libro in cui esse sono citate vuole rispondere alle accuse che a Capello aveva pubblicamente mosso la Commissione d'inchiesta, e fu pubblicato nel 1920, quando cioè Capello avrebbe potuto dissociarsi dal suo capo), ma per approvarle caldamente. Egli le commenta e le completa a uso dei suoi comandanti di corpo d'armata: “Il nemico sa che sulle prime linee non si può resistere al fuoco terribile dell'artiglieria e delle bombarde, perciò presidia poco le prime linee e cerca di riparare le falle, tenendo a portata di mano reparti destinati esclusivamente ai contrattacchi. A questi contrattacchi nemici devono corrispondere altri nostri contrattacchi: il contrattacco del contrattacco. Ad essi il nemico risponderà con due, tre contrattacchi, ai quali noi, dal canto nostro, dovremo rispondere con altrettanti contrattacchi del contrattacco, e così quello dei contrattaccanti che per ultimo avrà truppe fresche a disposizione, avrà il sopravvento.” Tale visione non aveva nulla a spartire con la dottrina della difesa elastica: era pura guerra di logoramento nella sua espressione più schematica. E lo scaglionamento in profondità prescritto da Capello non era una scelta meditata ma una ovvia necessità, per non far macellare le truppe in primissima linea, sia che si trovassero all'offensiva o sulla difensiva. Che Capello avesse afferrato solo superficialmente l'essenza della difesa elastica è dimostrato anche dal seguito di questo stesso discorso. Egli lamenta che i reparti siano ritirati dal fronte in condizioni di completo esaurimento fisico e psichico e rammenta che «gli austriaci a questo riguardo ci sono maestri, perché non di rado abbiamo veduto ritirare alcune truppe austriache, e dopo soli tre giorni ricomparire in linea... Sono convinto che, quando si riuscirà ad avere per tempo indietro qualche reparto, dopo sei giorni questo reparto potrà ritornare in linea. Non saranno i tre giorni degli austriaci, ma sarà sempre qualcosa». [Nota. Luigi

Capello, Caporetto perché, Einaudi, Torino 1967. Fine nota.] Egli dunque non aveva compreso l'interconnessione fra la durata del periodo di recupero e la brevità del tempo trascorso in linea. Tanto è vero che, quando il 16 marzo 1918 fu interrogato dalla Commissione d'inchiesta, egli ricordò, quasi fosse una pretesa assurda, che molti reparti chiedevano il cambio dopo 15 giorni di trincea. Era infatti sua opinione, espressa in un'ennesima circolare, la n. 2545 del 30 giugno 1917, che i turni di trincea non dovessero superare un mese, «ritenendo per esperienza essere un limite che non conviene oltrepassare»: un mese! una bella differenza con i due giorni dei tedeschi. Certo non tutto era colpa di Cadorna e di Capello. Con altre circolari essi si scagliarono, spesso inutilmente, contro l'abitudine, invalsa presso i comandi inferiori compresi quelli di corpo d'armata, di immettere in combattimento i complementi appena giunti a reintegro delle perdite subite da unità tuttora impegnate in battaglia. È un sistema che Capello definisce «sacrilego» e che aveva dato «naturalmente risultati disastrosi». Ciò non mancò di verificarsi anche a Caporetto, benché disposizioni tassative del Comando Supremo imponessero l'immissione dei battaglioni complementari (altrimenti detti «battaglioni di marcia»), possibilmente per plotoni organici, nei reparti combattenti, solo quando questi ultimi fossero stati ritirati dalla linea del fuoco. Oscura e incerta era la «filosofia» dei comandi italiani sul combattimento in difensiva. Nella guerra di posizione - più che in quella di movimento - esso era di difficilissima esecuzione. Eppure alla difensiva il Comando Supremo aveva dedicato, come si è visto, ben poche delle sue innumeri circolari. E di queste la più parte riguardava l'impiego dell'artiglieria, anziché quello molto più complesso della fanteria; mentre il pensiero austro-germanico si era concentrato principalmente su quest'ultima, perché era la fanteria che andava salvata a tutti i costi dall'annichilimento, cui la guerra di posizione a oltranza sembrava destinarla. Certo, si era faticosamente fatto strada qualche concetto fondamentale, in particolare l'allontanamento delle mitragliatrici dalle trincee, per distribuirle su una superficie più vasta e in postazioni meno facilmente individuabili. Ma in definitiva, nell’autunno 1917,

l'architettura della difesa italiana si fondava sulle solite tre linee: la linea avanzata, quella di resistenza a oltranza e la linea di armata. Debolissima la prima, perché coincidente con l'estremo flusso delle nostre truppe e quindi dettata dal caso o dal nemico; molto più forti le altre due. Ma queste non erano presidiate, spesso neppure con un velo di truppe che le rendessero riconoscibili ai reparti che ripiegavano dalla prima posizione, mentre la prima linea continuava a essere eccessivamente affollata. Conseguentemente le riserve erano scaglionate più per puntellare la linea avanzata, che per il tempestivo presidio delle altre due, normalmente deserte. Ma la salvezza doveva venire dall'artiglieria, dalla quale ci si attendeva che potesse stroncare l'attacco nemico sul nascere - come spesso riusciva agli austriaci -, quasi che ciò fosse una legge di natura, anziché il frutto di un addestramento metodico e puntiglioso non solo dell'artiglieria, ma soprattutto della fanteria, che ne era la insostituibile copertura. A parte ciò, si dava acriticamente per scontato che il soldato italiano, giudicato temperamento meridionale e sanguigno, valesse molto più nell'offensiva che nella difensiva. Capello quantificava addirittura tale efficienza, dando voto 10 al soldato all'attacco e voto 1 (per non dir zero) allo stesso soldato, quando era costretto a difendersi. Ma che cosa si intendesse per «difensiva» Capello non lo aveva ben chiaro in mente. Dice egli infatti che, mentre l'offensiva è «virtuosità» che si perfeziona con l'esperienza, «la difensiva è invece, per chi combatte, quello che è l'onestà per l'uomo sociale, più che altro una disposizione morale categorica che non si presta a transazioni, che non è molto suscettibile di insegnamento. Ne consegue che l'azione del comando nella difensiva potrà avere funzione di esortazione e di incitamento, ma nulla, o ben poco, potrà creare». Che ne avrebbero detto von Lossberg, il colonnello Bauer, Ludendorff? I tedeschi intuirono comunque che la tecnica difensiva italiana era primitiva, e ne fecero un importante elemento di decisione per concorrere all'offensiva insistentemente richiesta dal comando austro-ungarico. Mentre per il morale delle «sue» truppe, scrive Capello - ma lo credeva solo lui -, le offensive del maggio e dell'agosto 1917 erano state un tonico, «per contro la difensiva, colle sue lunghe attese sfibranti, colla monotonia delle giornate sempre uguali, col suo stillicidio passivo di perdite, coll'uniforme continuità dei disagi senza

mutamento, crea nel nostro soldato uno stato d'animo morboso in cui si sommano l'esasperazione nostalgica, l'irritazione per le privazioni e la durata della guerra, una rassegnazione musulmanamente apatica al destino, la totale assenza dello spirito nell'esplicazione dei propri doveri, una passività completa verso il nemico». Egli cioè fraintende (forse maliziosamente) il significato della battaglia difensiva mozzafiato, confondendola con la permanenza pura e semplice in trincea per quei lunghi turni, che i combattenti trovavano tanto demoralizzanti, cioè col periodo di sospensione fra due battaglie violente. Queste tuttavia, per l'enorme sciupio di forze, non potevano durare che pochi giorni. Non si capisce davvero come questo generale, considerato il più brillante cervello militare del nostro esercito sebbene accusato da molte parti, insieme a Cadorna, dei famigerati «irredditizi sacrifici di sangue» - potesse avere teorie ed idee tanto primitive. In conclusione, la dizione «azione difensiva» era per lui sinonimo di «non attaccare», anziché, come sembra corretto, di «essere attaccati». Quel che Cadorna, Capello, i comandanti di corpo d'armata, i divisionari predicavano con ossessione era l'accorrere tempestivo «sul ciglio di fuoco», al primo segno di attacco nemico. L'attimo fuggente questione di secondi, essi dicevano - coincideva col momento in cui l'artiglieria avversaria, finito di battere le prime linee, allungava il tiro, indietro o lateralmente. Quando le trincee erano molto vicine, si trattava veramente di un attimo - e lo si vedrà a Caporetto - che, lamentava Capello, spesso sfuggiva. Va sottolineata la differenza con la difesa elastica, la quale, accettando il ripiegamento di qualche chilometro come regola abituale, preparava il contrattacco per il momento in cui, non più protetti dall'artiglieria campale, i reparti nemici entravano in crisi sotto il tiro avverso: ma in tal caso il momento non «fuggiva», poteva anzi prolungarsi per qualche ora. Queste considerazioni offrono due esempi sintetici di «filosofia della guerra di trincea», contrapponendo un comando che fa del suo meglio per togliere alle truppe l'orgasmo di una scelta angosciosa da prendersi istantaneamente, con un altro che alle truppe chiede l'impossibile cogliere l'attimo fuggente - e su di esse, cioè sui comandanti di compagnia e di plotone o su semplici vedette, scarica le relative responsabilità.

Un'ultima osservazione riguarda la macchinosità della catena gerarchica italiana. I tedeschi, come si è visto, avevano ridotto la catena di trasmissione degli ordini a tre soli anelli e due nodi: il battaglione e la divisione. Nell'esercito italiano, invece, nel 1917 la catena era lunga come all'inizio della guerra, con ben sei anelli e cinque nodi: battaglione-reggimento-brigata-divisione-corpo d'armata. Mancava poi la piena autorità del comandante di divisione sulle artiglierie di corpo d'armata e d'armata, dislocate nel suo settore. Ai tempi lunghi della fanteria si aggiungevano quindi i tempi di comando dell'artiglieria: un'organizzazione gibbosa, pesante, inaffidabile, le cui manchevolezze erano mascherate nelle battaglie offensive - poiché la fanteria regolava il suo comportamento su quello dell'artiglieria -, ma destinata al collasso, quando la difensiva imponeva una cooperazione stretta e veloce.

Capitolo VIII LE ALTERNATIVE A non essere soddisfatti, anzi a essere nimicissimi di Cadorna, sono molti, che però non sanno accordarsi sul nome di un eventuale successore. Capello? Alcuni lo portano alle stelle, altri lo considerano un pericoloso megalomane. Il duca d'Aosta? e se la va male, non ne è compromessa la dinastia? Dunque Cadorna bon gré mal gré, ma per lo meno costringerlo ad ammettere i suoi errori e a evitarli in futuro: impresa impossibile, poiché Cadorna in tutta la vita non ammetterà di aver mai commesso errori. Ciò non allevia la povertà dei suggerimenti degli oppositori, palese dimostrazione che in Italia nessuno ha afferrato l'essenza concettuale della guerra che si combatte. Per esempio, a Ferdinando Martini, ministro delle Colonie nel gabinetto Salandra, già il 26 maggio 1916 il generale Sailer, comandante della brigata Regina e di lui amico, scrive che con la dizione «guerra di trincea» si contrabbanda «l'inerzia di chi dovrebbe dirigere». [Nota. Ferdinando Martini, Diario 1914-1918, Mondadori, Milano 1966. Fine nota.] Come sarebbe bene agire, secondo Sailer? «Fissati da chi è in alto gli obbiettivi da raggiungere..., su quelli concentrare i mezzi, su quelli avanzare, di quelli lentamente impossessarsi, da quelli fulminare i fianchi e il tergo del nemico.» In realtà è ciò che Cadorna ha fatto, fa o spera di fare, e Sailer se ne avvantaggerà, perché un anno dopo lo ritroviamo comandante, invece che di una brigata, del XIII corpo d'armata alle falde dell'Hermada. Nelle sedute in comitato segreto della Camera alla fine di giugno del 1917, il deputato Fortunato Marazzi, che come generale ha comandato una divisione del VI corpo, che agli ordini di Capello conquistò Gorizia nell'agosto del 1916, lamenta che le nostre preparazioni di artiglieria siano troppo lunghe. L'aula di Montecitorio non è però la sede adatta per simili disquisizioni, mentre più «politica» è la sua successiva osservazione, che in quel momento convenga porsi in una «tattica difensiva, che costituisca null'altro che un logoramento per il nemico». I due termini, per quanto li si esamini, sembrano però inconciliabili: come si fa a logorare il nemico se il nemico non attacca? Occorre inoltre - continua Marazzi - una politica di accordo con gli alleati (che invece continuano a pungolarci perché si attacchi a ogni costo) e «un nuovo ordinamento militare». Tale acuta osservazione,

che Marazzi avrebbe dovuto e potuto approfondire, viene però lasciata a mezz'aria. Ma le maggiori critiche alla condotta della guerra sono rivolte a Cadorna durante le sedute della Camera in comitato segreto nel successivo dicembre, quando il generalissimo è caduto dagli altari. Primo a parlare è il nuovo ministro della Guerra, generale Alfieri, che usa un tono assai misurato (e non, come Cadorna temeva, ispirato a inimicizia verso di lui, che gli ha negato un comando di corpo d'armata con la motivazione che, grasso com'era, non poteva passare per le trincee). Sul piano militare Alfieri accenna all'eccessivo logorio delle truppe e alla difficoltà di dare spesso il cambio a quelle di prima linea, cosa che però egli motiva con la lunghezza della nostra fronte (quasi che essa sia diversa per gli austriaci, che le truppe pur riescono a cambiarle). Anche Alfieri dunque, benché ufficiale generale, non ha colto nel segno. Il 14 dicembre interviene ancora Marazzi, che cita le solite fondate accuse, per farle proprie: quadri inferiori improvvisati, quadri superiori sconvolti dai siluramenti, ufficiali dell'alto comando minati da impazienze illegittime. Ed ancora sfiora, senza andare oltre, l'essenza della questione, sia pure in modo errato: «Mentre l'Intesa egli dice, accomunando al nostro comando anche quelli alleati credeva di poter risolvere tutto con la superiorità numerica, i nemici suoi alle eccessive schiere di soldati sostituirono mitragliatrici e cannoni..., ad una sola linea ne sostituirono due, quella combattente in trincea e quella di riserva in movimento»: osservazione, la cui prima parte non è vera, poiché la superiorità delle mitragliatrici, dei cannoni e delle altre armi l'ha l'Intesa. Contro l'onorevole Canepa, che ha criticato le «greche», cioè i generali, perché non si erano mai fatti vedere dalle truppe, insorge il ministro della Guerra, citando i loro 20 morti e i 40 feriti, cioè in proporzione eguale alle truppe. Ma anche qui persiste l'equivoco: che anche essi siano soggetti a rischio di morte, non prova che i generali pensino e studino. Nella seduta del 17 dicembre, l'onorevole Soleri, valoroso combattente ferito sul Vodice nel maggio precedente, sul piano tecnico si limita a rimproverare il governo precedente, presieduto da Boselli, per non aver imposto al Comando Supremo di desistere, nell'estate del 1917, dalle logoranti operazioni offensive e raccogliersi invece nella più vigile difesa. Nello stesso discorso Soleri cita però il fabbisogno annuo di materie prime, che l'Italia riceve a

credito dagli alleati: 3 milioni di tonnellate di grano, 6 di carbone, centinaia di migliaia di acciaio, cotone, navi e mille altre cose, nonché dopo Caporetto - l'apporto di centinaia di migliaia di soldati anglofrancesi. I più scaltriti possono leggere fra le righe e misurare, con quei numeri, il potere di ricatto che gli alleati hanno per piegarci ai loro voleri. Come si vede, dalle discussioni in comitato segreto non emersero, neppure per opera dei deputati militari - generali o tenenti o sergenti a contatto diretto con la truppa - indicazioni specifiche, ma solo l'esortazione generica che non si dovevano più fare sterili offensive e che la difensiva s'imponeva: cosa che, dopo Caporetto, non aveva alternative. Lo stesso presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, riporta nelle sue Memorie la risposta che diede, nel marzo 1918, alla Commissione d'inchiesta su Caporetto, da lui stesso nominata, quando gli pose la domanda: «Che cosa avreste fatto in luogo di quelle offensive che condannate?»: «Non avrei fatto quelle offensive». Nelle stesse memorie egli adombra però la possibilità che nella «tecnica offensiva» dell'epoca vi fosse qualcosa, «difetto o trascuranza», che di fronte a tanto sciupio di vite umane aveva dato sì meschini risultati. Ma alle sue memorie egli cominciò a por mano nel 1941, godendo cioè di un enorme «senno del poi». Nelle sedute in comitato segreto del dicembre 1917 l'unico deputato che pose il governo di fronte a una provocatoria serie di domande fu l'onorevole Gortani. I suoi quesiti tecnici furono i seguenti: - perché si è permesso che il miglior fiore della gioventù italiana fosse sacrificato durante due anni di guerra per l'ostinazione di voler compiere offensive per le quali mancavano i mezzi? - perché il generale Cadorna e il suo stato maggiore rifiutarono per oltre un anno di prendere in considerazione la proposta di creare una grande flotta aerea da bombardamento, proposta fatta specificatamente al Comando fin dall'agosto-settembre 1915? - perché, dopo la dichiarazione di guerra alla Germania e dopo la defezione russa, parve consiglio stolto quello di passare dall'offensiva alla difensiva, di raccogliere e tesoreggiare le nostre forze, di scaglionarle sulle linee più atte a un'efficace difesa? L'onorevole Michele Gortani, deputato di Tolmezzo, cattolico di destra e tenente degli alpini, era - fra i deputati - colui che di Cadorna

aveva l'opinione peggiore, benché il generalissimo -volendolo classificare politicamente - difficilmente poteva essere collocato meglio che fra i cattolici di destra. Non quindi dissidio ideologico muoveva Gortani contro Cadorna, ma profonda disistima. In una lettera all'onorevole De Felice, che simpatizzava con le sue idee, il 3 agosto 1916 Gortani lo aveva esortato ad adoperarsi presso il governo, affinché impedisse una nuova offensiva sull'Isonzo, quella che ci portò alla precaria conquista di Gorizia: «Il governo, tu dici, si premunisce col viaggio di Boselli [presso Cadorna]. Ma qui un elemento di farsa si insinua nella tragedia. Dite che l'offensiva bisogna farla, ma nello stesso tempo invitate il Capo a riflettere se sia possibile. Sapete che il Capo è un pazzo e lo invitate a meditare?». [Nota. Il memoriale Gortani: la responsabilità del Comando Supremo e la rotta di Caporetto, in «Ce fastu», Rivista della Società Filologica Friulana, anni 44°-47° gennaio-dicembre 1968-1971. Fine nota.] Le critiche di Gortani contro Cadorna possono così condensarsi: Cadorna aveva l'idea fissa dell'offensiva sull'Isonzo e si ostinava a dare battaglia sempre su fronti troppo estese senza mezzi adeguati: mai puntate risolute, mai grandi concentramenti di artiglieria, tutto per la guerra di trincea, nulla per l'aviazione. Nel luglio 1916, tornando da un'ispezione in Carnia, egli lamentava che avremmo potuto occupare le ampie vallate carinziane, senza sforzo maggiore di quello compiuto per sfondare a Plezzo, Tolmino, Gorizia e Monfalcone. Il 17 agosto, una settimana dopo la conquista di Gorizia, egli scrisse al ministro Bissolati: «Non sarebbe impresa meno sanguinosa, meno avventurosa, meno diversa dai metodi tedeschi e anglo-francesi, quella di fare il concentramento di tutte le artiglierie disponibili contro un solo obbiettivo per volta, e di cominciare con convergere tutti i mezzi contro il monte Santo, invece di diluirli nell'offensiva estensiva, in cui siamo nuovamente ricaduti per tutta la fronte da Plava al mare?». Nella primavera del 1917, dopo un'ulteriore ispezione al fronte, egli coglieva un punto essenziale della debolezza della nostra preparazione difensiva. Aveva constatato che le linee arretrate erano state costruite con abbondanza di mezzi e perfezione assai maggiore delle prime linee, il cui rafforzamento era lasciato alla iniziativa, alla buona volontà e al criterio tutt'affatto personale dei comandanti di compagnia. «Ma poiché le linee arretrate sono di regola prive di uomini, viene il dubbio

che esse non possano essere messe in efficienza, quando ceda la linea avanzata.» Come si vede, salvo quest'ultima, anche le osservazioni di Gortani non si discostavano dal generico o davano nel paradossale quando parlava di invadere la Carinzia. Accomunando poi i metodi tedeschi con quelli anglo-francesi, egli dimostrava di essere fra coloro che non avevano capito che la guerra anglo-francese era simile alla nostra. Ma Gortani introduceva nella dialettica anche un elemento nuovo. Nel giugno 1916, abboccatosi con l'onorevole Bissolati, gli aveva detto: «L'esercito è disorganizzato. L'esercito è sfiduciato. L'esercito è male armato. Noi nell'aviazione avremmo potuto trovare un mezzo potente di lotta e non l'abbiamo fatto, non l'abbiamo voluto fare». In queste ultime parole si identifica il mentore della cultura militare dell'onorevole Gortani: il colonnello Giulio Douhet, capo di stato maggiore del XII corpo d'armata, dislocato in Carnia. Giulio Douhet è menzionato persino nell'ultima edizione dell'Enciclopedia Britannica (1978), che così ne sunteggia la biografia: «Nato a Caserta nel 1869, morto a Roma nel 1930; generale dell'esercito e ispiratore della potenza aerea strategica. Già ufficiale di artiglieria, dal 1912 al 1915 comandò il battaglione aeronautico, la prima unità aerea italiana... Egli afferrò subito le possibilità potenziali dell'arma aerea e non perse occasione per diffondere le sue teorie. La sua critica severa della condotta della guerra lo portò davanti a una corte marziale, venne imprigionato e costretto al ritiro. Ma le indagini sulla disfatta di Caporetto giustificarono le sue critiche, il giudizio fu rovesciato e Douhet messo alla testa del servizio aeronautico...». Nonostante talune inesattezze, l'inserzione della biografia di Douhet nell'Enciclopedia Britannica, dove è menzionata Bianca Capello, sovrana e meretrice di alto bordo del secolo XVI, ma non il generale Luigi Capello, comandante della II armata, fascista della prima ora e condannato all'ergastolo per complotto contro Mussolini, significa che il personaggio Douhet ha rilevanza storica mondiale. Entusiasta del mezzo aereo come strumento di guerra, allo scoppio delle ostilità Douhet era stato frustrato nella speranza di divenire capo dell'aeronautica italiana e verso Cadorna cominciò a nutrire un odio parossistico. Poiché, secondo la sua regola, la cretineria era proporzionale al quadrato dell'età e al cubo del grado, Cadorna rispondeva perfettamente a tali requisiti. Fin dall'inizio della guerra,

ogni sera egli redigeva per iscritto le sue critiche alla condotta delle operazioni. Poi le chiudeva in una busta, che sigillava e faceva controfirmare da un testimonio. Le buste si accumulavano in una cassaforte, e vennero pubblicate nel 1921 sotto il titolo: Diario critico della guerra. [Nota. Giulio Douhet, Diario critico di guerra (1915-1916), Paravia, Milano 1921, vol. I. Fine nota.] Il diario di Douhet è un elenco minuzioso di tutti gli errori, di tutte le illusioni della guerra italiana. Il 14 giugno 1915 egli già notava la grafomania burocratica, che stava mettendo radici nell'esercito. «La pletora del personale ai grandi comandi fa sì che questi signori, dovendo pur passare il tempo, non fanno che disturbare i comandi inferiori con un carteggio, che assorbe ogni attività... I comandi, più sono elevati, più dovrebbero dare ordini e disposizioni... comprensive, meno dovrebbero scrivere.» Non sfuggiva ai suoi precoci strali, in data 27 giugno 1915, la «libretta rossa»: «Nella premessa [scritta da Cadorna] - egli annotava - si parla di pochi e semplici principi: ora, nel libretto, sono appunto questi principi che mancano». E, nel novembre 1916, metteva il dito sulla piaga: «L'avversario si batte, intellettualmente, meglio di noi». Né Douhet mancava di feroce sarcasmo: «Ieri [10 settembre 1915] padre Semeria [cappellano di fiducia di Cadorna] è venuto a predicare a Tolmezzo. Dopo abbiamo chiacchierato. Mi ha detto che due cose gli hanno fatto soprattutto impressione in questa guerra: il taglio dei reticolati con le forbici e la caccia agli aeroplani con le reti. Quest'uomo intelligente ha, con questa osservazione, sintetizzato la condotta della nostra guerra». Ma non sempre Douhet aveva ragione. Il 3novembre 1915 scriveva: «L'offensiva attuale [la quarta battaglia dell'Isonzo] ha esaurito tutte le nostre forze e, per un bel po' di tempo, l'Austria può rimanere tranquilla che noi non potremo fare più nulla contro di essa, né direttamente né indirettamente. Meglio di così non potevamo fare il suo gioco... I francesi e gli inglesi in quest'anno c'erano stati maestri. Essi dichiararono, fino dalla primavera, che non erano pronti ed agirono in conseguenza delle loro dichiarazioni, cioè stettero, nell'attesa di essere pronti. Le parziali azioni svolte da essi hanno più carattere di esperimento che altro... È più di un anno che il generale Joffre resta impassibile di fronte ai tedeschi... Ha lottato contro l'impazienza del suo paese». Tale affermazione era completamente destituita di fondamento: nel 1915 Joffre, col suo grignoter

(rosicchiare) i tedeschi, quasi uccise la Francia. E Douhet, pubblicando dopo la guerra il suo diario con una prefazione datata «agosto 1920», dovette ammettere che «la condotta di guerra del generale Joffre non fu molto diversa da quella del generale Cadorna». Avrebbe dovuto dire che essa fu assai più sanguinaria. Anche Douhet batteva sulla difensiva come unica forma di combattimento possibile. Era sicuro, come Falkenhayn, che la difensiva sopraffacesse l'offensiva. Ma sul piano quantitativo, mentre Falkenhayn si accontentava, per il soldato tedesco, di un'efficienza doppia o tripla di quella degli avversari, Douhet, con non poca esagerazione, elevava a duecento l'efficienza del difensore contro l'attaccante. Quanto al compito del soldato, esso consisteva nel «marciare, combattere o zappare (3 luglio 1915)». Non una parola egli però spendeva sull'addestramento e sulla tattica di combattimento difensiva. Douhet possedeva però l'asso nella manica: il mezzo aereo. Nel gennaio 1916 egli rivolgeva al «delinquente» Cadorna, in termini ossequiosi, una memoria intitolata Il mezzo nuovo. In essa, riaffermata l'estrema difficoltà di passare dalla guerra di trincea a quella di movimento, egli delineava le possibilità dei bombardieri pesanti: “Fino ad ora ho fatto astrazione dal nuovo mezzo di guerra, che si affaccia sul mondo; voglio dire l'aeroplano potente... Questo nuovo mezzo è capace di apportare una completa rivoluzione nell'arte della guerra; è capace di apportare e fornire la risoluzione della guerra attuale... L'aeroplano potente è capace di lanciare a 500 chilometri dalla propria base 500 chilogrammi di esplosivo oltrepassando qualsiasi ostacolo... Potendo lanciare 500 chilogrammi di esplosivo, possiede una grande capacità distruttiva; è quindi una macchina adatta alla guerra. Potendo portare la sua offesa a 500 chilometri dalla sua base, è macchina adatta a colpire un punto qualunque del territorio nemico. Potendo oltrepassare qualunque ostacolo, nulla può arrestare la sua azione... Mille aeroplani potenti costituiscono una forza offensiva colossale, poiché in ogni volo possono gettare 500 tonnellate di esplosivo. Mille aeroplani potenti possono lasciar cadere, ad esempio, nel porto di

Pola, una quantità di esplosivo pari a quella contenuta in 5000 siluri, di che distruggere con un solo volo tutta la flotta austriaca. Una squadriglia di 50 aeroplani potenti può troncare le linee ferroviarie congiungentisi di Franzenfeste [Fortezza] e del Brennero, separare completamente il Tirolo dalla Monarchia ecc. E può darsi che fra breve si possano avere aeroplani ancora più potenti... “ Douhet, insomma, preconizzava il ruolo unico e determinante dell'aviazione da bombardamento strategico. Ma un conto è fare i precursori, un altro «fornire la risoluzione» vittoriosa della guerra che si stava combattendo, e su un teatro, come quello italiano, dove le Alpi erano una vera corazza per i bombardieri dell'epoca. Nella più grande incursione strategica della prima guerra mondiale, il 19 maggio 1918 i tedeschi lanciarono 43 aerei contro Londra, sganciando 9 tonnellate di bombe e perdendo 7 apparecchi: ma la distanza dell'obbiettivo dalle basi era di 250 chilometri. Come precursore Douhet poteva avere ragione, come propositore tattico era un allucinato paranoico. Respinta la sua proposta, di cui era entusiasta l'onorevole Gortani, di approntare una grande flotta di bombardieri - che richiedeva la costruzione di almeno 6000 trimotori all'anno - egli invelenì contro Cadorna finché, a furia di infilare nelle tasche di deputati e ministri anticadorniani che venivano a visitare il suo comando memoriali e relazioni, una di queste, smarrita o rubata, pervenne al Comando Supremo, che identificò l'autore in Douhet, e questi si vide deferito al tribunale militare di Codroipo e fu condannato a un anno di fortezza. Le vicende di Douhet non hanno importanza ai nostri fini, le sue idee però sì. Egli aveva molte ragioni nella critica distruttiva, ma la soluzione da lui preconizzata era folle. Ciò che riuscì a mezzo contro la Germania negli ultimi due anni della seconda guerra mondiale a opera dell'aviazione anglo-americana, poteva riuscire all'Italia nel 1917 contro l'Austria-Ungheria? La risposta è un no inequivocabile. In questo deserto di idee, può l'Italia contare su qualche utile suggerimento da parte degli alleati? Costoro non navigano più nel buio. Pétain ha emesso la sua sentenza: «Io aspetto gli americani dunque attende la superiorità numerica: questi maledetti tedeschi a un certo punto si spezzeranno - e i carri armati». I carri sono l'ultimo ritrovato meccanico, ulteriore prodotto della Materialschlacht. Ma ciò

che lui attende è rimandato al futuro lontano, al 1919. Frattanto i francesi si eserciteranno con colpi locali a obbiettivi limitati: presso Verdun in agosto e alla Malmaison in ottobre. Un diluvio di ferro e di fuoco spiana le prime posizioni tedesche, le truppe avanzano di qualche chilometro su un fronte ristrettissimo e l'operazione è fine a se stessa. Certo nessuno crede, con questi sistemi, di arrivare mai a Berlino. Gli inglesi sono meno entusiasti di aver tra i piedi tanti americani. Non potranno essere rimandati indietro con un «grazie». C'è una cambiale da pagare. Per ora servono di più i loro soldi, la flotta, i materiali e i manufatti. Per sfondare le linee fortificate, anche gli inglesi puntano sui carri armati. Nell'ambito del comando supremo delle forze armate britanniche in Francia, cioè intorno a Douglas Haig, l'idea dei carri non ha inizialmente riscosso, in verità, molto favore: meglio la cavalleria. Ma intorno ai carri sono molti a lavorare. I pachidermi concepiti dagli inglesi, bestioni da 30 tonnellate e oltre, armati con due cannoni da 57 millimetri e 4 mitragliatrici o da 6 mitragliatrici, sono i robots che dovrebbero sfondare la struttura difensiva tedesca. E ci riescono infatti il 20 novembre 1917, allorché 400 di essi, finalmente utilizzati secondo criteri razionali, sfondano la linea Hindenburg per una profondità di 10 chilometri nei pressi di Cambrai. Ma il comando inglese, non preparato al successo, dieci giorni dopo si fa sorprendere dai tedeschi, che contrattaccano con le loro svelte formazioni snodate e riprendono quasi tutto il terreno perduto per virtù dei carri. Tuttavia il mezzo resta: il carro armato, come appoggio della fanteria, è una maniera alternativa, più tecnologica che concettuale, per superare la guerra di trincea e dare movimento alla guerra di posizione. Dunque nell'autunno del 1917, Francia, Inghilterra e Germania hanno in serbo ciascuna, sul piano militare, quella che sperano sia una carta vincente. Gli unici sprovvisti di idee sono gli italiani, per i quali prendere a prestito la soluzione meccanica dei carri armati non è proponibile per l'accidentalità del fronte di combattimento. D'altra parte l'esasperazione della Materialschlacht, verso la quale Cadorna sembra vieppiù indirizzarsi (egli conta di portare da 60 a 80 le divisioni, riducendo da 4 a 3 i loro reggimenti, ma tenendo inalterato l'armamento divisionale, così da accrescere nella stessa proporzione la potenza di fuoco), presuppone che si possa sempre attaccare. Ma non offre una soluzione difensiva.

E allora? Come uscire da questa tragica impasse? Rendere il solo Cadorna responsabile di tale situazione è una diagnosi riduttiva. Egli ha dato ciò che possiede: una caparbia ostinazione, non priva di grandezza; ma non ha dato quel che non ha: l'ingegno. Tutta la struttura di comando italiana non ha pensato abbastanza, è vissuta di giorno in giorno, ogni giorno sperando che fosse diverso dai precedenti, e invece era sempre eguale. L'Italia ha subito una disfatta intellettuale, ancor prima di essere sconfitta sul campo. L'innovazione non è a portata di mano. Va cercata, pensata, meditata e studiata: non la si trova nei regolamenti, nella retorica patriottarda, negli ordini impossibili, nel coraggio immotivato. Nell'autunno del 1917 l'Italia, in campo militare, sta per essere aspirata nel sottosviluppo.

Capitolo IX ADDESTRAMENTO ALLA DISFATTA Che voleva dire, in pratica, «guerra di logoramento» per i fanti che la subivano? Nel 1917 un reggimento italiano (su tre battaglioni) raggiungeva 2400 uomini a piena forza. Né gli effettivi, dall'inizio alla fine della guerra, variarono apprezzabilmente, mentre cresceva la potenza di fuoco. Ebbene, per fare un esempio, il 141° reggimento fanteria (che, insieme al 142°, formava la brigata Catanzaro) nel corso della guerra ebbe 3082 morti o dispersi non riscontrati prigionieri, 7588 feriti, 2900 prigionieri e 6389 malati per cause di servizio. Le sole perdite cruente - 10.670 uomini, di cui 327 ufficiali - furono più del quadruplo degli effettivi del reggimento. [Nota. Anonimo, 141° fanteria (brigata Catanzaro), s.e., Milano 1920. Fine nota.] Un secondo esempio: da metà maggio a metà ottobre del 1917, cioè in cinque mesi, la brigata Teramo (241° e 242° fanteria) perse, fra morti, feriti e dispersi, 4824 uomini, di cui 143 ufficiali, cioè l'intera forza iniziale. Sul versante austro-ungarico non si sopravviveva più a lungo: il reggimento Hoch-und-Deutschmeister, reclutato in alcuni quartieri viennesi (secondo criteri territoriali, che differivano da quelli italiani), su effettivi nominali che non raggiungevano 6000 uomini per 6 battaglioni, nel corso della guerra ebbe perdite superiori a 400 ufficiali e 20.000 soldati, dei quali 3202 - caduti sul campo - furono identificati, mentre rimase sconosciuto il numero dei caduti «militi ignoti». [Nota. Geschichte des Hoch-und-Deutschmeister Regiments, Wien 1928. Fine nota.] Con tale usura solo un trattamento estremamente morbido permetteva di mantenere in queste unità una accettabile efficienza combattiva, tanto che, a partire dall'autunno 1915, a ogni comando d'armata italiana fu assegnato un ufficiale medico specializzato in psichiatria. Ma questo era un palliativo, se non si riducevano al minimo le cause della inevitabile debilitazione. E già si è visto come uno dei più gravi motivi di esaurimento, la lunghezza dei turni in trincea, non fosse dovuto a crudeltà dei comandi, ma a errata impostazione della tattica di combattimento. Tale sfinimento si ripercuoteva poi sull'addestramento, cui erano sottoposti i richiamati e le reclute, ed emergeva sotto forma di scetticismo, che impregnava l'animo degli istruttori.

Talvolta costoro erano imboscati che nulla sapevano della guerra. Ma numerosi erano gli ufficiali non più idonei al servizio di guerra per ferite riportate, o altri che completavano con tale incarico la convalescenza per ferite o malattie contratte in servizio. E strideva in loro il confronto fra la realtà recentemente vissuta e l'istruzione irreale, che dovevano impartire. Molteplici le conseguenze negative: l'addestramento tecnico (cioè la conoscenza delle armi) affrettato e scandalosamente insufficiente, l'addestramento tattico errato, l'integrazione fra l'addestramento tecnico e quello tattico assolutamente inesistente. Pregiudizievole era il conseguente declassamento dei quadri inferiori, cioè dei sottufficiali e dei graduati di truppa. Mentre negli eserciti austro-germanici essi si erano visti confidare una responsabilità tattica, oltre che tecnica, come comandanti e vicecomandanti della Stosstruppe, la nostra unità tattica fondamentale restava il plotone, comandato da giovanissimi aspiranti o sottotenenti. I sottufficiali e i graduati avevano comandi tecnici: una mitragliatrice con i suoi serventi o un gruppo di fucilieri, ma non la responsabilità tattica della manovra delle piccole unità. Né si può invocare, per giustificare la deresponsabilizzazione dei graduati, l'elevato analfabetismo di molti soldati nostri, specialmente meridionali, rispetto a quelli tedeschi: a Caporetto erano presenti parecchi battaglioni di bosniaco-erzegovini, il cui grado di analfabetismo era certo superiore a quello dei siciliani o dei calabresi, e che pure, a contatto con i soldati germanici, manovrarono con eguale perizia. L'addestramento al combattimento si insegnava con realistiche e ripetute esercitazioni sul terreno, e non già sui manuali. Questi servivano agli istruttori per dare all'addestramento il carattere voluto dagli alti comandi. Quando perciò era in atto un'azione di combattimento complessa, il piccolo plotone italiano - 40 o 50 uomini - si rivelava già un'unità troppo grande per essere comandata unitariamente senza un livello di comando intermedio verso la truppa Ciò si riflette nella memorialistica di guerra, dove sottufficiali e soldati sono scarsamente ricordati. Così Gualtiero Castellini, comandante della 135a compagnia alpini (battaglione Monterosa), ricorda, in data 26 agosto 1917, di aver riunito i suoi 13 sottufficiali «dopo le mille volte, in cui ho parlato agli ufficiali». [Nota. Gualtiero Castellini, lettere 1915-1918, Treves, Milano 1921. Fine nota.] Eppure,

scrive l'aspirante Malandrone, della 191a compagnia dell'83° genio zappatori, inviato sul San Gabriele il 1° settembre 1917: «Il nerbo, la forza, coloro da cui... dipendeva l'esito di tutto ciò che si faceva sul terreno, erano i sottufficiali. Che uomini! Competenti sempre più degli ufficiali, calmi, coraggiosi, autorevoli, sapevano comandare e farsi ubbidire di buon grado. Avevano nel sangue l'arte del comando ben dosato... Gli ufficiali valorosi (che non mancavano) erano fiammate di bei gesti spesso spente nel sangue...: ma i sottufficiali rappresentavano i tecnici (anche andare all'assalto è una tecnica), la continuità, il tessuto connettivo... Erano gente che si era fatta da sé nella vita: piccoli capimastri, capi di minuscole aziende,... gente che sapeva comandare e farsi ubbidire con dolcezza e nello stesso tempo con energia... Arte difficile, che ha contribuito alla salvezza d'Italia, allora...». [Nota. Iginio Malandrone, lettera all'autore in data 24 ottobre 1968. Fine nota.] Purtroppo erano pochi nell'esercito italiano, mentre erano numerosissimi negli eserciti degli Imperi Centrali, sopravanzando gli ufficiali. Negli altri gradi si poteva osservare un fenomeno altrettanto perverso. A causa dell'ecatombe (figurata) provocata dai siluramenti e di quella vera prodotta dalla guerra, a comandare divisioni e corpi d'armata erano balzati generali, che due anni prima, come tenenti colonnelli o colonnelli, avevano manovrato un battaglione o un reggimento: così, in due anni, si erano trovati a guidare non 1000 ma 100.000 uomini. Il siluramento «orizzontale» (cioè l'esclusione dal comando del presunto inetto, per affidare il reparto ad altro ufficiale di pari grado, che ispirasse maggior fiducia) era stato ignorato, subito adottando il siluramento «verticale», cioè il passaggio al grado superiore di un subordinato, che desse più affidamento del vecchio titolare ma che del nuovo comando non aveva esperienza. Sotto la ferrea gestione di Cadorna, fra il maggio 1915 e l'ottobre 1917, l'esercito era passato da un milione a due milioni di uomini. Ma non si era solo gonfiato, si era anche potenziato: da meno di 2000 pezzi di artiglieria, la maggior parte di piccolo calibro, a 7000 pezzi e 2500 bombarde, in cui erano prevalenti i medi calibri. Le mitragliatrici erano passate da 600 a 7000, oltre a 5000 mitragliatrici-pistole; e gli aeroplani di pronto impiego da una trentina a oltre 500. Non si era trattato perciò di una elefantiasi, come nella seconda guerra mondiale: nel corso di due anni e mezzo a ogni soldato era stato associato un

volume di fuoco quintuplo o decuplo. Ma questo impressionante potenziamento, dovuto allo sforzo demografico e industriale della nazione, era stato parzialmente evirato da due veleni: il mediocre addestramento e la mancata elaborazione di una dottrina tattica adeguata. Tutto si riassumeva in una frase dell'onorevole Gortani, che non sapeva quel che voleva, ma intuiva ciò che non andava: «Il soldato non ha la sensazione di essere ben comandato». Regolamenti, istruzioni e testi di addestramento sono rintracciabili nei fossili manuali dell'epoca. Ma su quanto avveniva in pratica essi nulla dicono, perché non parlano la voce della verità. Risulta più illuminante svolgere una specie di «sondaggio d'opinione» fra i memorialisti, che lasciarono traccia dell'effettivo stato delle cose. Cominciando dall'alto, lo stesso Cadorna riconosceva l'impreparazione cronica dell'esercito, di cui era corresponsabile. Ma nelle Pagine polemiche l'argomento egli lo sfiora molto brevemente: «Per ottenere questo sfruttamento massimo dell'azione delle artiglierie col minimo di perdite sarebbe stato necessario sopperire all'insufficienza tecnica delle truppe e di molti comandanti con una istruzione intensiva delle truppe in riposo. Ma, oltreché queste erano poche, tenuto conto della grande estensione della fronte, che ne assorbiva la maggior parte, debbo rilevare che furono aspramente criticati gli ordini dati per l'istruzione delle truppe in riposo, quasi ché essi mirassero a produrre un inutile esaurimento». Capello si dilunga invece sulla impreparazione dei rincalzi provenienti dall'interno, che «ci giungevano... privi di valore, digiuni affatto di istruzione. Gli ufficiali erano scadentissimi». «Trovai comandanti di reggimento e ufficiali superiori che non sapevano distinguere le mitragliatrici Fiat dalle Saint-Etienne...» Sulle scuole per allievi ufficiali di complemento il suo giudizio è addirittura tranchant: «Le scuole, per il modo come vennero organizzate e pei metodi didattici che si adottarono, ebbero tale impronta di rancida banalità che i risultati ottenuti non furon pari ai bisogni della situazione». Eppure molte scuole allievi ufficiali erano dislocate presso le armate, II inclusa: con queste critiche, Capello sembra accusare degli estranei, mentre fra gli accusati c'è anche lui. Le lamentazioni sullo stato di impreparazione delle truppe riempiono il diario del colonnello Gatti. Il 19 maggio - egli narra - il generale Cigliana, comandante dell'XI corpo d'armata, viene liquidato

con vari addebiti, tra i quali il più giustificato è di aver rinforzato le sue truppe in piena battaglia con battaglioni di marcia, giunti alle 15 e impiegati alle 16, come pecore. Il 21 maggio Capello lamenta la mancata conquista del monte Santo, poiché le truppe non hanno saputo avanzare sotto l'arco delle traiettorie dei proiettili. Sotto la data del 7 giugno Gatti annota che la recente esperienza sul medio Isonzo ha dimostrato come, negli attacchi veloci, siano estremamente utili le mitragliatrici-pistole. Tale arma (a due canne) aveva una celerità di fuoco spaventosa: 50 colpi al secondo. Eppure essa è raramente menzionata nei racconti militari italiani, segno che non solo è male usata ma che non ne sono state spiegate le modalità d'impiego. L'8 giugno Gatti parla a colonnelli che, con le lacrime agli occhi per lo stress, sperano solo di essere silurati. Il nostro esercito gli appare una macchina enorme, farraginosa, che si sta accasciando, come se fosse colpita da una tabe interna. Il 19 giugno il tenente colonnello Avanzini, comandante del 112° reggimento impegnato nell'azione dell'Ortigara, gli segnala, fra le altre cause dell'insuccesso, la seguente: «La massa dei nuovi arrivati (classi 78-79-80-81), che non ha avuto istruzione né educazione di tecnica del corpo e della mente (perché provenienti da battaglioni territoriali, sedentari, compagnie presidiane, centurie, servizi) non avevano fatto - impiegati prevalentemente in lavoro di manovale - né tiro col fucile né lancio di bombe né assalto ad onde. Alla vigilia dell'azione si sono visti distribuire bombe Sipe, Carbone, BPD ecc., di cui avevano paura e che hanno disseminato nei camminamenti...». Ma l'enorme deficienza di capacità tecnica è una martellante lamentela in tutti i rapporti dei comandanti di reggimento da lui consultati. Mancano - scrive Gatti il 27 giugno - grandi campi d'istruzione, dove si possa fare dell'addestramento prolungato, vero, che insegni prima agli ufficiali che ai soldati. Eppure gli alti comandi, per occuparsi di inezie, il tempo lo trovavano. Capello, con circolare n. 5177 di prot. spec. datata 20 settembre 1917, dirama ai corpi d'armata una strigliata, perché i soldati sono laceri, trasandati e non salutano. L'oggetto è «Disciplina» e Capello cita la circolare a dimostrazione del suo interessamento per i soldati. [Nota. Tommaso Mercadante, La disfatta di Caporetto, Manfredi, Palermo 1968. Capello cita la circolare, senza riportarla, come prova del suo interessamento per le truppe in Caporetto perché, cit. Fine nota.] Il comando del XXVIII corpo d'armata (Badoglio) circola

fulmineamente a sua volta la n. 2114 di prot. Op. stessa data. L'oggetto «Disciplina» è divenuto «Obbligo del saluto». Rifulge in essa il punto seguente: «I comandanti... dispongano subito... che almeno un paio di volte per settimana sia dai comandanti di compagnia tenuta un'istruzione sull'obbligo del saluto e sui distintivi di grado. Questa istruzione, che può essere ridotta a una mezz'ora, può essere svolta in qualsiasi località, trincee comprese...». Sarebbe bastato un richiamo verbale, mentre le lezioni di saluto in trincea contribuivano anch'esse all'antiaddestramento del soldato italiano, incoraggiandone il montante sarcastico cinismo. Della brigata Arno (213° e 214° fanteria) riferisco quattro testimonianze, che interessano perché di tale brigata, inghiottita il 25 ottobre sul Kolovrat, nei pressi di Caporetto, si dirà poi che si è arresa senza combattere. Nei mesi precedenti quella della Arno è stata una straziante odissea. Impiegata sotto monte Forno nell'azione dell'Ortigara, il 10 giugno - ci dice la Storia Ufficiale - il I battaglione del 213° viene praticamente distrutto. Nove giorni dopo, ripetendo l'azione non riuscita, la 29a divisione perde 1460 uomini, quasi tutti della brigata Arno. Dopo un breve «riposo» la brigata è spedita per 40 giorni sul Faiti e il 29 agosto sospinta sotto il San Gabriele. Esposta giorni e giorni a un fuoco micidiale, il 4 settembre partecipa alla conquista della vetta, sulla quale arrivano pochi superstiti insieme a un reparto d'assalto. Nella notte due battaglioni austriaci riconquistano la cima. Quando il 7 la Arno viene ritirata, si constata che negli ultimi otto giorni ha perduto 91 ufficiali e 1982 uomini di truppa. Praticamente in cinque o sei mesi, la Arno si è «rinnovata», e si è rinnovata in peggio. Ai primi di ottobre la brigata è sull'alta Bainsizza e il 9 è spostata sul Kolovrat. Il capitano Guido Sironi, comandante di una compagnia del I/214°, assiste all'arrivo del suo reggimento in quella desolata regione: «Uomini stanchi, disfatti, procedono in disordine. Li rincuora la speranza di arrivare al sospirato riposo... Il nostro reggimento è attendato sulla parete opposta... Poveri fanti! C'è un freddo crudo che prende le ossa; e vivono attendati, coperti della sola camicia di tela... Proprio in questi giorni sono ricominciate le licenze e la forza delle compagnie ne resta dimezzata». [Nota. Guido Sironi, I vinti di Caporetto, s.e., Gallarate 1922. Fine nota.] Dei nuovi aspiranti, arrivati il 18 ottobre, così dice Sironi: «Poverini!».

Al 214° appartiene anche Carlo Bertocchi, nato nel gennaio 1899 e uscito aspirante dalla Scuola allievi ufficiali di Parma alla fine di settembre. È destinato a comandare un plotone: e ha 18 anni e 8 mesi. Non è un volontario - si noti bene - ma un qualsiasi coscritto, poiché il primo quadrimestre del 1899 è stato chiamato alle armi nella primavera del 1917. Viene però assegnato a un battaglione complementare, che lo dovrebbe impratichire nell’arte della guerra. In quei giorni d'ottobre la vita presso il battaglione era tranquilla, regolata da esercizi mattutini e serali in ordine chiuso. «La bonomia dei comandanti dei battaglioni di marcia... non era giunta neppure a pretendere quelle tattiche in ordine sparso che danno un'impressione così silenziosa e casta della guerra, allorché ci troviamo, di dieci in dieci minuti, adagiati con l'orecchie per terra...; ci facevano uscire alle 6 del mattino sui prati umidi, trattenendoci in lunghe attese piene di sospiri e di appetito fra due comandi di ordine chiuso; e in quel modo ci si erano allentati i nervi così bene che nessuno si lamentava più di tanti piccoli incomodi.» [Nota. Carlo Bertocchi, L'anno di Caporetto, Il Saggiatore, Milano 1967 (il racconto fu scritto nel 1931). Fine nota.] In quest'aura di carole, che sostituivano l'allenamento alla guerra, il battaglione fu avvolto a fine ottobre dalle prime turbe lacere e torve degli sbandati provenienti dall'alto Isonzo: ed entrò nella guerra. Del 213° fa invece parte il capitano Mercadante, che ne comanda il III battaglione. I complementi arrivati a metà settembre lo lasciano interdetto. La truppa era costituita da un'ennesima revisione di riformati, di età superiore a trent'anni, gente che «veniva mandata al fronte dopo tre o quattro mesi di caserma, senza che sapesse maneggiare le bombe a mano, senza che sapesse mirare bene prima di sparare, non abituata alla vita del soldato, piagnucolosa e desiderosa soltanto di tornare a casa». Contemporaneamente arrivarono numerosi gli aspiranti sottotenenti, ventenni dell'ultimo corso, che non avevano pratica della guerra, imbambolati e perduti in mezzo a gente sconosciuta. Uno di questi aspiranti era Felice Troiani, assegnato al I/213°. Arruolato come soldato nel battaglione aviatori, a metà giugno del 1917 era stato destinato a Modena, presso un corso accelerato per aspiranti sottotenenti. Erano chiamati «corsi di corsa», perché tutto si svolgeva in due mesi: 40 giorni a Modena e 20 alla Porretta. «I reparti uscivano, entravano, correvano, sostavano, si buttavano a terra,

sparavano, si rialzavano, rientravano, salivano, scendevano, studiavano, ascoltavano impassibili strane lezioni propinate da individui in uniforme; e tutto velocemente, con movimenti che parevano cadenzati sul ritmo accelerato di una classica cinematografica comica scena finale.» [Nota. Felice Troiani, La coda di Minosse, Mursia, Milano 1964. Fine nota.] Gli allievi avevano età variabile dai 20 ai 49 anni, molti di questi inetti a qualsiasi esercizio fisico. Vi fu in tutto un'ora di ginnastica e - residuo del passato - mezza lezione di scherma. Negli ultimi giorni di permanenza a Modena «fummo iniziati ai misteri dell’attacco frontale a ondate successive... La nuova concezione strategica... prescriveva di attaccare di fronte, preferibilmente di giorno e in ottime condizioni di visibilità [esisteva in proposito una precisa circolare, redatta allorché il Comando Supremo notò che negli attacchi notturni le fanterie non riuscivano a scorgere dove erano stati aperti i varchi nei reticolati nemici. La nostra artiglieria iniziava l'azione battendo il nemico con un oculatamente parsimonioso fuoco premonitore; e il fuoco, talvolta prolungato, ma sempre lieve, era... invito e segnale di combattimento. Messo in allarme il nemico, le ondate potevano partire». Troiani raggiunse il reggimento in stato di ennesima ricostituzione dopo il San Gabriele. Gli ufficiali erano quasi tutti nuovi, poiché dei vecchi erano sopravvissuti solo coloro che non avevano partecipato all'azione. I soldati erano di classi anziane e delle più svariate provenienze. «Avevo vent'anni e parlavo a uomini di quaranta: dovevo essere ben ridicolo.» Trasferito il comandante della compagnia, il comando fu rifiutato dal tenente che comandava la sezione di mitragliatrici-pistole - per ragioni tecniche, disse lui - e del comando della compagnia fu incaricato l'aspirante Troiani, che aveva un mese di anzianità e otto giorni di fronte, eppure aveva ai suoi ordini un tenente. «Esercitavo il comando firmando.» Ma, nonostante le qualità non precisamente atletiche di quel materiale umano, Capello, che stava organizzando un gruppo di brigate «da inseguimento», divisava di includervi anche la Arno. L'istruzione tecnica e tattica, impartita ai reparti prima dell’invio in linea e quando ne ritornavano, è descritta da tutti i memorialisti, senza eccezioni, come totalmente stralunata: non veniva compiuto alcuno sforzo intellettuale, per far coincidere l'addestramento tattico con le esperienze appena vissute. I soldati piombavano dal mondo feroce a

quello della fiaba. Nell'agosto 1917 il corrispondente di guerra Antonio Baldini riporta che «quando il fante va a riposo, farebbe molto volentieri a meno di riprendere tutte le mattine a fare piazza d'armi». [Nota. Antonio Baldini, Il libro dei buoni incontri, Sansoni, Firenze 1953. Fine nota.] E il capitano Arnaldo Calori: «Dopo qualche giorno [dalla fine della decima battaglia dell'Isonzo] incominciarono a giungere i complementi... Incominciò un lungo periodo d'istruzione con sistemi ostici a noi, veterani del Carso. Si partiva dagli accantonamenti all'alba e vi si rientrava al tramonto... Da troppo tempo ormai durava quel disagio, quando giunse, come una liberazione, l'ordine di tornare in trincea». Pietro Bartoletti, caduto il 24 maggio 1917 sul San Marco, scriveva a casa: «Meglio la trincea che questa vita meccanica, senza scopo, dove si pretende di costringere diecimila uomini ad essere e volere come uno solo». [Nota. Adolfo Omodeo, Momenti della vita di guerra, Einaudi, Torino 1968, (1a ed. 1935). Fine nota.] Il 29 agosto 1916 il sottotenente Carlo Filippo Palmieri è inviato alla scuola mitraglieri di Brescia. Il corso dura 15 giorni, incluso l'addestramento del reparto, che l'ufficiale dovrà comandare. Materie insegnate: istruzione tecnica teorica e pratica, maneggio delle armi, costruzione delle piazzole, esercitazioni di tiro, costituzione delle compagnie, organico, squadre tiro. Il corso termina il 15 settembre e il 17 Palmieri, comandante di sezione della 305a compagnia mitragliatrici, è già in trincea con la brigata Firenze. Ferito sul Vodice nel maggio 1917, il 20 settembre assume il comando di una compagnia del 164° (brigata Lucca): «Le piazzole [delle mitragliatrici] non sono blindate ma scoperte, le canne delle armi sono quasi raso terra... Mi sento nuovo venuto tra estranei sconosciuti, estraneo e sconosciuto io stesso a tutti... È un errore madornale... inviare (come è avvenuto sul Vodice, dove alla fine di maggio su otto aspiranti appena arrivati dalla scuola allievi ufficiali, il primo giorno morirono tutti otto) ufficiali subalterni... nuovi, a comandare reparti nuovi, durante lo sviluppo di un combattimento e di un'azione. Poveri giovani, votati a morte sicura». [Nota. C.F. Palmieri, Ricordi del mio servizio militare in guerra, 2 voll., inedito, donatomi gentilmente dall'autore nel 1968, vol. I. Fine nota.] Si noti che l'autore ha 21 anni. Anche il capitano Giuseppe Personemi frequenta la scuola mitraglieri di Brescia, diretta dal maggiore De Tullio: è una scuola

immensa, un'accademia dove in certe settimane si affollano 20.000 allievi. Personemi viene da Gorizia, dove ha raccolto le critiche, rivolte all'esercito italiano da un ufficiale austro-ungarico di nazionalità serba, che ha disertato per ragioni ideologiche: «Il vostro esercito - ha detto il serbo - possiede su quello austriaco la superiorità numerica e materiale, ma in esso etwas stimmt nicht», qualcosa non funziona. Né funziona la scuola mitraglieri, perché «le istruzioni non avevano perduto il loro carattere di istruzioni del tempo di pace; la piazza d'armi e l'ordine chiuso erano ancora in auge e la guerra non aveva ancora seppellito le vecchie teorie». [Nota. Giuseppe Personemi, La guerra vista da un idiota, Bolis, Bergamo 1966 (1a ed. 1922). Fine nota.] Cosa sapevano gli alti comandi di queste distorsioni? Evidentemente moltissimo, poiché Capello così descrive la formazione delle compagnie mitragliatrici: «Si racimolava alla meglio un centinaio di uomini, si metteva alla loro testa tre o quattro ufficiali designati senza criterio logico di scelta, si affidava qualche mitragliatrice a quell'accozzaglia di gente e si spediva verso la battaglia un reparto così sorto dal nulla e basato sul nulla, coll'illusione di aver creato un valido strumento di guerra». Capello ne parla, come di cosa estranea alla sua responsabilità. Comunque, per porre rimedio a tale impreparazione, egli, superando in celerità il maggiore De Tullio, fece istituire per gli ufficiali mitraglieri dei corsi di quattro giorni, per i quali - egli dice - tutti gli furono grati. Ma non doveva essere molto sicuro dei risultati, perché il 23 ottobre 1917, a dieci ore dall'offensiva nemica, il comandante della II armata esortava i comandanti di corpo «ad esigere dai rispettivi comandanti di divisione di mandare persone di sperimentato senso tattico a mettere a posto le mitragliatrici». Il che escludeva una qualsiasi mobilità di queste ultime e un minimo di difesa elastica: i mitraglieri lì dovevano stare, lì dovevano morire. Evidentemente i corsi di aggiornamento, fatti di gran corsa, non dovevano aver avuto grande successo, sebbene Capello misuri «a centinaia» gli ordini e le disposizioni in proposito, inviati ai corpi d'armata e al comando del genio. Con la sua compagnia, nel luglio 1917, Personemi viene inviato sul Carso presso un battaglione di marcia, uno di quelli da istruire al combattimento. Esercitazioni: assalto a ondate, secondo la tattica dell'attacco frontale. «L'istruttore metteva un battaglione in colonna:

la prima compagnia spiegata è la prima ondata; a cinquanta passi segue la seconda compagnia che è la seconda ondata e così via. Però per dare l'apparenza del combattimento, ad ogni colpo di fischietto, i soldati, il cui cognome cominciava con A, poi con B, poi con C ecc. dovevano cadere, fingendosi morti o feriti. I soldati, che avevano lo zaino in spalla, cadevano subito, anche se si chiamavano Verzeri o Zucchetti.» Con queste truppe venne formato il 276° reggimento fanteria, incorporato nella brigata Belluno, finita sull'alta Bainsizza. A fine settembre «quasi tutti gli ufficiali vennero sostituiti con altri anziani o aspiranti dell'ultimo corso, scovati nelle retrovie. Anche i complementi erano semi-convalescenti, o inabili temporaneamente alle fatiche di guerra... Gli ufficiali della mia compagnia mitraglieri non conoscevano le mitragliatrici». Anche Amedeo Fani è fatto aspirante con i corsi di corsa. Ha 26 anni, quando il 14 maggio 1917 fa ingresso al corso allievi ufficiali artiglieri della III armata. Il 28 maggio iniziano le lezioni pratiche sul mortaio da 210, il più potente dei medi calibri. Le altre materie: puntamento e tiro, organica, topografia e fortificazioni. Come si vede, agli artiglieri non si insegna il combattimento della fanteria: è un assioma che essi il nemico lo vedranno solo da lontano. Ed è un dato di fatto, perché a fine guerra risulterà che la percentuale degli artiglieri morti è stata un decimo di quella dei fanti. Ma quando le fanterie austro-germaniche assaliranno le batterie italiane, gli artiglieri saranno incapaci della difesa ravvicinata. Il corso termina il 30 luglio. Agli esami, sostenuti l'8 agosto dopo una settimana di studio libero, 74 allievi su 86 saranno promossi. Sono corsi di corsa e di manica larga. Mario Muccini ha fatto il servizio di prima nomina nel 1915, a vent'anni. Inconsapevolmente la tecnica della battaglia elastica egli l'apprende sul Carso nel novembre 1915: «Con la compagnia ammassata in quel budello di trincea sfasciata, ci conviene ancora uscire allo scoperto». [Nota. Mario Muccini, Ed ora andiamo!, Garzanti, Milano 1939. Fine nota.] Ferito molto gravemente, nell'autunno del 1916 è ancora sul Carso, a Hudi Log, che gli italiani traducono in Boscomalo: «Abbiamo avuto la visita del comandante la Divisione. Non è rimasto molto soddisfatto. Ha parlato di gabbioni, di tralicci, di traversoni, di angoli, di ciglio, di scarpata. Il signor generale ha ragione: le trincee non sono fatte secondo il manuale del Pennella». Pochi giorni dopo arriva «dall'Italia» un aspirante. «A Modena, dei solenni

professori imboscati gli hanno insegnato la tattica, la logistica, la topografia, la strategia, l'organica.» Non c'era bisogno di essere laureati, per comprendere il sicuro danno di una istruzione errata. Il soldato Nicola Lamberti, a riposo col suo reparto, si lamenta che, «per non perdere l'abitudine, si fa nel giorno l'istruzione, sebbene in guerra non riesca a capire a che serve; oppure adunata all'ombra degli abeti come scolaretti a lezione, sciorinandoci sempre l'eterno tema sul codice militare a base di fucilazioni al petto e alla schiena, reclusioni, ecc.». [Nota. Nicola Lamberti, Battesimo di fuoco, Gastaldi, Milano 1954. Fine nota.] Dalla vacuità di tale addestramento la fanteria «a riposo» veniva stanata, per essere utilizzata come manovalanza: «Le fanterie a riposo divenivano serve delle altre armi più addietro». Il prode tenente Eugenio Garrone in data 10 maggio 1917: «Nulla di nuovo, la solita vita dei baraccamenti, la solita istruzione ammazzante senza soddisfazione». Eppure egli sapeva che, di lì a dieci giorni, la sua destinazione era il Faiti. E Paolo Caccia Dominioni, tenente del genio, comandante di sezione lanciafiamme (4 apparecchi) in quel di Castagnevizza, in data 17 agosto 1917 ricorda nel suo diario quanto gli hanno insegnato al corso: «Quel po' di tattica che doveva bastare per gli esami; e anche se non l'avessimo saputo ci avrebbero promossi lo stesso. Ma il terreno di Castagnevizza l'abbiamo visto uscendo carponi dai varchi (questo ce lo siamo studiato da soli, poiché all'Accademia non c'era nessuno, allora, che avesse provato) e ci chiediamo: dobbiamo ostinarci ad attaccare frontalmente anche stavolta il colle che ha già inghiottito migliaia di vite? C'è in giro, da qualche tempo, un noioso pestilenziale libretto intitolato: Attacco frontale e ammaestramento tattico; c'è scritto dentro come bisogna fare a prendere la posizione. E allora possiamo dimenticare che il colle obbiettivo è fiancheggiato da due valloncelli aperti e ben visibili fino in fondo, molto meno fortificati, che sembrano lì messi apposta per l'aggiramento». [Nota. Paolo Caccia Dominioni, 1915-1919, Longanesi, Milano 1965. Fine nota.] Gli ultimi complementi che gli arrivano ai primi di ottobre, pur giovanissimi - classi 1898 e 1899 primo quadrimestre - sono pessimi: svogliati e paurosi. Inoltre - osserva Caccia Dominioni - «non siamo più abituati a camminare: l'aspro camminamento Genova ci paralizza i muscoli dopo dieci minuti di marcia al buio. E ne abbiamo per otto o nove ore».

Adolfo Omodeo, storico, interventista ed egli stesso valoroso combattente, raccolse centinaia di testimonianze scritte di ufficiali e soldati caduti. E anch'egli sottolinea l'esasperazione, di cui erano preda, una volta a riposo, i reparti sottoposti a manovre non rispondenti «alla vissuta esperienza della guerra moderna». Una differenza insanabile separava la linea dai comandi. Ma neppure lui, benché in posizione culturalmente privilegiata, riusciva a cogliere la vera essenza dell'addestramento al combattimento. E ogni tanto qualche sua frase ne svela il subconscio pensiero: «Per il soldato era una grande soddisfazione quando poteva far valere l'esperienza della propria cultura contadinesca di fronte all'ufficiale ignaro: nello scavare abilmente un ricovero, nell'impedire con un colpo di sterzo ben misurato che il cannone pesante precipitasse nel fosso...». Orbene le valentie sopracitate altro non erano che una parte della conoscenza del terreno, base per una difesa manovrata. Ma il concetto sfugge a Omodeo: imbevuto di studi classici, esponente di una delle due culture, trova contadinesca quella di chi, quasi fosse un troglodita, sa scavare un ricovero, che possa resistere alle cannonate e alle intemperie. All'estremo opposto troviamo Carlo Emilio Gadda, anche lui mitragliere, testimone importante non solo per la sua statura di grandissimo scrittore, ma anche perché egli visse la guerra da militarista perfetto, nel senso migliore della parola, cioè col desiderio di combatterla bene. Classe 1893, allo scoppio della guerra Gadda era studente di ingegneria. Ufficiale alpino, nel settembre 1915 fece la conoscenza del generale Cavaciocchi, illustre storico e futuro comandante del IV corpo d'armata. E non gli piacque: «Un perfetto asino». [Nota. Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, Einaudi, Torino 1965. Fine nota.] Perché? «Non ha mai fatto una visita di quartiere; non s'è mai curato di girare fra gli alloggiamenti dei soldati.» Lo turbano in quei giorni le notizie disastrose provenienti dal fronte russo: «I tedeschi hanno evidentemente dei generali meno Cavaciocchi dei nostri». Il 4 giugno 1916 è inviato a costituire una compagnia mitragliatrici. Il 9 il suo capitano - racconta Gadda «adottando un giusto criterio di previdenza militare, volle che la marcia fosse fatta come se dovessimo partire... Le condizioni erano quindi... assai favorevoli; ciò nonostante si ebbero a verificare degli

inconvenienti; innanzi tutto le carrette cariche di munizioni non furono potute trainare non dico da due muli, ma nemmeno da quattro...; poi la marcia si dilungò e si frazionò... I colpi tirati dalle sei macchine furono 1200». Pochi giorni dopo è distribuita una circolare di Cadorna sull'impiego delle mitragliatrici: «Nell’attacco esse non devono limitarsi a battere da lontano le posizioni nemiche, ma essere portate avanti, fra le prime ondate d'assalto. In realtà credo che il nostro materiale sia troppo pesante per utilizzarlo fino a quel punto. Vedremo in pratica». Cosa pretende Gadda dai soldati? Egli crede nella necessità dell'efficienza tecnica non meno che nel coraggio. «I soldati non dovevano essere umili, ma bravi soldati; non fagotti di rassegnazione, ma grumi di volontà; cercai sempre di creare almeno un lucore di volontà, anche nelle più torpide anime dei rassegnati.» [Nota. Carlo Emilio Gadda, Il castello di Udine, Einaudi, Torino 1961. Fine nota.] Ma per averli bravi, i soldati bisogna farli bene: «Certo una cosa è palese: la mancanza di assiduità di questi comandi alla fronte, l'inefficace o nulla sorveglianza esercitata dai comandi in sottordine». La dodicesima battaglia dell'Isonzo sorprenderà Gadda sul Krasji, al comando della 407 compagnia mitraglieri. Combatterà fino all'ultima cartuccia e cadrà prigioniero. Il trauma di Caporetto ne travaglierà l'animo fino alla morte Si confronti quanto detto da Gadda con le parole del generale Krafft von Dellmensingen, capo di stato maggiore della XIV armata, che sfondò il fronte italiano a Caporetto, sui provvedimenti presi nella preparazione dell'offensiva: «La scelta del corredo individuale esigette un accurato esame... Le imminenti e faticose marce imponevano di contenere al massimo i carichi... Nessuna meraviglia quindi se molti oggetti d'equipaggiamento, ritenuti in un primo tempo indispensabili, furono invece abbandonati... I complementi giunti di fresco ai reparti e non ancora bene istruiti, in genere non si rivelarono in grado di sopportare gli inevitabili strapazzi e perciò vennero scartati in gran numero». [Nota. Krafft von Dellmensingen, Der Durchbruch am Isonzo, 2 voll., Stalling-Oldenburg, Berlin 1926-1928. Quest'opera fondamentale (l'equivalente della nostra Storia Uff.) di difficilissimo reperimento, è finalmente comparsa in una molto corretta traduzione italiana: Lo sfondamento dell'Isonzo (a cura di Gianni Pieropan), Arcana, Milano 1981, cui nel testo si farà riferimento. Fine nota.]

Ho limitato la maggior parte delle citazioni - che un paziente lavoro di ricerca potrebbe forse moltiplicare per mille - all'anno 1917, perché più vicino agli avvenimenti di Caporetto. Ma il 1917, oltre che l'anno della crisi politica mondiale e della crisi morale degli eserciti dell'Intesa, fu anche quello della loro crisi tattica. Fin dall'inizio dell'anno i germanici avevano messo a punto la difesa elastica e l'attacco per infiltrazione, base del combattimento moderno con armi convenzionali. Orbene i comandi militari alleati non intuirono l'avvicinarsi della crisi politica e afferrarono male la natura della crisi morale degli eserciti, non riuscendo a collegarla col capovolgimento della natura del combattimento operata dalla intellettualità tedesca. A questa essi opposero, anche nelle vittoriose avanzate della seconda metà del 1918, il possente ma meno sottile tentativo di annientamento del nemico mediante la forza piuttosto che con la manovra.

Capitolo X TARDIVI BARLUMI DI LUCE Il colonnello Angelo Gatti, già illustre pubblicista, nel marzo 1917, poco più che quarantenne, venne chiamato da Cadorna a Udine, per fungere da «storico» del Comando Supremo. Precedentemente egli aveva svolto compiti di stato maggiore presso diverse unità, ultimo il XXV corpo d'armata, comandato dal generale Giardino, prima che quest'ultimo, nel giugno 1917, venisse chiamato a Roma, come ministro della Guerra, a far - parte del gabinetto Boselli. Oltre alla precedente personale esperienza, limitata però a ristretti settori di fronte, Gatti, prima di Caporetto, tenne sott'occhio, da un osservatorio privilegiato come il Comando Supremo, la decima battaglia dell'Isonzo, quella dell'Ortigara, l'offensiva della Bainsizza e le poche settimane di guerra spenta, che precedettero l'offensiva austro-germanica. Le osservazioni critiche del Gatti sono sparpagliate, cronologicamente e non logicamente, nelle pagine del suo diario. Un elemento positivo dell'evoluzione dell'esercito egli lo trova nel modo con cui, nel 1917, le unità sono tenute a piena forza. Prima i soldati venivano prelevati dai «depositi rifornimento uomini», residenti in grandi città del lontano retrofronte, e di lì scagliati nel mezzo di battaglie cruentissime. Poi, copiando anche qui gli austriaci, il sistema era stato graduato: battaglioni di marcia nei distretti militari, indi passaggio ai battaglioni di marcia delle armate, dove si sentiva il cannone, infine ai battaglioni complementari di brigata, cioè ai settimi battaglioni, che erano «quasi» in linea e dai quali i 6 battaglioni regolari di ogni reggimento traevano gli uomini per completare la forza. Erano quei tali battaglioni, dai quali le severissime disposizioni del Comando Supremo - regolarmente violate - vietavano di effettuare le reintegrazioni in combattimento Ma Gatti scopre anche con amarezza quanta poca critica sia fatta delle operazioni precedenti e quanto miseri gli insegnamenti che se ne traggono. Effettivamente Cadorna e il suo segretario, il colonnello Bencivenga, ci meditano sopra. Ma poi? Gli insegnamenti vengono condensati, all'ingrosso e astrattamente, «sotto forma di circolari. Le circolari servono e non servono; debbono, per forza, essere generali e astratte: chi legge, se non ha una mente più che forte, non capisce bene a che cosa si riferiscono».

Impressionato da quel che ha constatato nella decima battaglia dell'Isonzo, Gatti segue ancor più da vicino quella dell'Ortigara. E raccoglie nuove lamentazioni, che si condensano nell'enorme deficienza di capacità tecnica delle truppe. Da ciò egli giunge alla conclusione che a noi non difettano gli uomini, ma i cervelli. Anzi, per la guerra di montagna sul tipo dell'Ortigara, di uomini ne abbiamo troppi. Essi ingolfano le prime linee, sono decimati dalle artiglierie (loro e nostre) e impacciano l'azione: meglio reparti più piccoli, formati da elementi giovani e specializzati. «Ciò che ottiene un plotone di arditi alpini, il quale si allarga su una fronte di qualche centinaio di metri e, occupandone solo i punti principali, la tiene tutta saldamente, non può essere fatto, anzi è fatto con danno, da una compagnia di fanteria. Si guadagna così in qualità e si risparmia in quantità.» Il resto delle truppe deve essere tenuto più indietro, come riserva d'armata. Dopo 26 mesi di guerra è indispensabile ricominciare da capo, fare una nuova organizzazione, reparti più smilzi e più sciolti, «studiare una nuova tattica; trasformarci col tempo: guai se non facciamo così». Bencivenga, che ha letto il memoriale di Gatti, lo trova ragionevole. «Ma la conclusione? Nessuna. A me pare che la questione sia tremenda.» Si è già ricordato come Gatti lamentasse la mancanza di grandi campi d'istruzione, prolungata, vera, che insegnasse più agli ufficiali che ai soldati. E qui viene in mente la Divisions-Kommandeur-Schule, organizzata da Ludendorff all'inizio del 1917. In qualche mese di meditazione Gatti era giunto allo stesso risultato. Ma era molto se Cadorna e Bencivenga, questo duo infaticabile ma affaticato, ragionavano sugli effetti. Le cause sono troppo difficili da ricercare. Cadorna e Bencivenga «sono schiacciati dalla terribile bisogna, che li afferra alla gola e non li fa mai ristare». Dove trovare il tempo? «Il peso li trasporta giù, come Sisifo.» Stretto dall'angoscia, Gatti deliberò di fare «un po' di metodo sperimentale», cioè di interrogare personalmente dieci comandanti di reggimento, impegnati nelle azioni più recenti. Non si fidava dei questionari, riempiti post factum, che, anche se veritieri - e non lo erano quasi mai -, risentivano dell'estro personale ed erano quindi fra loro in confrontabili. Da parte di un ufficiale di stato maggiore italiano, è la più vicina approssimazione a quello che in Germania avevano fatto e facevano von Lossberg e molti altri, per ordine superiore. Le

conclusioni cui Gatti giunse dopo cinque giorni di ispezione, dal 1° al 5 luglio, furono sinteticamente le seguenti: «Due anni di guerra sono trascorsi, ma non si è fatto nulla per formare una dottrina militare, che camminasse coi tempi e a mano a mano mutasse, in modo da dare gli insegnamenti a volta a volta; né si è fatto nulla per far riposare l'animo dei soldati, per ritemprarli di mano in mano, per fare che non siano abbattuti, schiacciati dal tempo che passa. Manca nei capi la linea di condotta, strategica e tattica. Manca nei soldati, poiché è andata di mano in mano affievolendosi, l'energia, che dovrebbe essere sempre maggiore, all'avvicinarsi dello sforzo finale». Nella mente di Gatti, germogliati in modo autonomo, si fanno strada gli stessi pensieri che indussero i tedeschi a organizzare la difesa elastica nella guerra di trincea. Ma egli era lo «storico militare», forse poteva cautamente sollecitare, ma nulla poteva cambiare, non avendo autorità di comando. Occorreva che altri ci arrivasse indipendentemente, poiché in Italia un suggerimento intelligente rende chi lo espone odioso agli interlocutori. Nelle pagine precedenti si è parlato più volte della battaglia dell'Ortigara. Essa ha una elevata importanza concettuale, essendo mia convinzione - a livello di pura ipotesi, poiché non vi sono indizi che suffraghino quanto dico - che essa abbia influenzato l'animo del generale Cadorna, nel giudicare le prospettive di successo dell'offensiva austro-germanica a Caporetto. Fra la battaglia dell'Ortigara e quella di Caporetto esiste una certa analogia formale. Sotto l'Ortigara furono gli italiani ad attaccare il 10 giugno 1917, finché il 30 la battaglia terminò col forzato loro ritorno sulle posizioni di partenza. Dell'offensiva era stato incaricato il generale Mambretti con la VI armata, da poco costituita. L'armata, schierata per 40 chilometri fra la Valsugana e l'altopiano di Asiago, era forte di 4 corpi e relative riserve, con un complesso di 12 divisioni e 2 brigate sciolte (per un totale di 171 battaglioni), appoggiate da 1151 cannoni e 578 bombarde (con un totale di 1729 bocche da fuoco), 1200 mitragliatrici, un migliaio di mitragliatrici-pistole e 150 aerei pronti sempre al decollo, quelli da ricognizione muniti di apparecchio radiotrasmittente. Contro tale poderosa massa stavano 50 battaglioni austriaci (e 7 e mezzo erano in arrivo), appoggiati da 376 cannoni (oltre a 24 contraerei), forse 50 bombarde e 400 mitragliatrici. Gli effettivi

totali italiani si aggiravano sui 350.000 uomini, contro 110.000-120.000 austro-ungarici. Fra le truppe italiane, le migliori del nostro esercito, erano presenti 26 battaglioni alpini e 18 di bersaglieri. La preparazione era stata meticolosa, gli ordini - così come sono riportati dalla Storia Ufficiale - dettagliati fino all'esasperazione. Per ogni divisione erano state redatte pagine e pagine di istruzioni, l'artiglieria disponeva di tabelle di tiro sugli obbiettivi, i suoi ritmi d'intervento erano stati meticolosamente cadenzati e amplissima la dotazione di munizioni comprese granate a gas, impiegate a scopo di controbatteria. La stagione era quella che era: come può essere fra i 1500 e i 2000 metri nel mese di giugno, quando il tempo è brutto: nebbie diffuse, pioggia alle medie quote, neve alle alte. A Caporetto la XIV armata austro-germanica contava, comprese le più lontane riserve, 164 battaglioni (di cui 65 tedeschi), che attaccarono un fronte di 50 chilometri, appoggiati da 1759 cannoni, 300 bombarde, forse 2000 mitragliatrici e altrettante mitragliatrici leggere. Le forze italiane schierate contro (IV corpo d'armata, 19a divisione e brigata Puglie del XXVII e l'intero VII corpo) disponevano di 123 battaglioni, appoggiati da 985 cannoni, 354 bombarde, circa 1400 mitragliatrici e oltre 700 mitragliatrici-pistole. Tempo al momento dell'attacco: nebbia ovunque, pioggia in basso, neve sui monti. Anche il tiro austro-tedesco fu in parte a gas, in parte a proiettili ordinari. Quel che avvenne a Caporetto è noto. Quello che avvenne sull'Ortigara rimase per molti mesi un mistero, poiché i bollettini di entrambe le parti furono a lungo reticenti. Le perdite italiane all'Ortigara superarono di poco i 26.000 uomini, appena il 6,8 per cento della forza iniziale, il che non sembra un pedaggio eccessivo, sia pure per uno smacco completo. Ma se si esaminano la perdite suddivise per unità, si scopre che la sola 52a divisione (formata da 18 battaglioni alpini) ebbe fuori combattimento oltre 16.000 uomini (di cui 660 ufficiali) e 3000 la 13'. Altre tre divisioni ebbero perdite comprese fra 1000 e 3000 uomini e il resto dell'armata perse meno di 2000 uomini. Balza quindi agli occhi che molte cose non dovettero funzionare. Sui 21 giorni di durata complessiva dell'azione, 4 furono impegnati dagli attacchi italiani, 3 dai contrattacchi austriaci e 14 di relativa pausa. Secondo la Storia Ufficiale, le ragioni dell'insuccesso furono le seguenti: interruzione totale delle comunicazioni (benché gli attaccanti fossimo noi); mancato o tardivo intervento dell'artiglieria

(benché nostra fosse l'iniziativa); micidiale fuoco di interdizione austriaco, che rese difficilissimi i nostri contrattacchi; eccesso di truppe in linea e cannoni troppo vicini alla linea del fuoco. Come mai tanti uomini e tanta preparazione avevano prodotto il nulla? Eppure soldati e comandanti avevano combattuto con grandissimo valore: di 22 comandanti di battaglione, che si erano avvicendati presso la 52a divisione, se ne erano persi 16, di cui 4 caduti sul campo. Aveva ben ragione Gatti a spaventarsi: «Alla prossima grande offensiva [nemica] noi possiamo andare incontro a sorprese». Confrontando l'Ortigara con Caporetto, la differenza che prima colpisce è il prolungato tiro - diurno - dell'artiglieria italiana (9 ore), cosicché le fanterie attaccarono a mezzo pomeriggio, mentre a Caporetto gli austro-tedeschi attaccarono nel grigiore del primo mattino autunnale dopo un fuoco notturno molto più breve. Anche noi, all'Ortigara, facemmo uso di proiettili a gas, ma verso la fine, non all'inizio come gli austro-germanici a Caporetto; così pure le bombarde, tipiche demolitrici di trincee, furono impiegate a metà del tiro di artiglieria, non alla fine come fecero i tedeschi. E la nebbia, che tanto favorì gli austro-germanici a Caporetto, fu di estremo intralcio per gli italiani attaccanti sull'Ortigara. Eppure gli ordini precedenti l'azione, come si è detto, erano stati redatti chiaramente, precisi e fin troppo minuziosi. Ma su quelli diramati in piena azione sorgono dubbi di autenticità. Ne fa drammatica testimonianza Paolo Monelli, che il 25 giugno si trovò coinvolto nel contrattacco austriaco. [Nota. Paolo Monelli, Le scarpe al sole, Mondadori, Milano 1965 (1a ed. 1921). Fine nota.] Lui e il collega Casagrande si erano infilati in un comando di brigata, di cui Monelli non nomina il titolare (probabilmente il maggior generale Di Giorgio), che trovarono rintanato «alla cieca e alla muta» in fondo a una grotta. Il generale li ricevette telegrafico: «Come vedono, siamo circondati dal nemico che può fare quello che vuole di noi». Ma Casagrande e Monelli erano arrivati fin lì, c'erano dunque degli strappi nella rete. Che ne diceva il signor generale? Il generale diede a Casagrande l'ordine di operazione: «Affido all'onore dei battaglioni Cuneo e Marmolada la riconquista delle quote 2003, 2101 e 2105». Se però si scartabellano i documenti ufficiali, si scopre che l'ordine in causa porta il n. 327 Prot., datato 25 giugno ore 16,45, ha ben sette destinatari ed è firmato dal generale Di Giorgio, comandante dei

gruppi (reggimenti) alpini 8° e 9°. È un ordine complesso, che al punto 2° recita: «I battaglioni Cuneo e Marmolada (maggiore Gatto), puntando sulla colletta fra le due quote 2105 e 2101, attacchino decisamente la quota 2101 da sud-est». È un ordine, la cui stesura prevede scrivanie, macchine per scrivere, carta-carbone, raccoglitori, timbri e la presenza di almeno 7 portaordini. Possibile che tutto ciò esistesse in fondo alla grotta? E - se no - quale valore hanno i documenti ufficiali, probabilmente redatti a posteriori, e che fiducia dare alla stessa narrazione dell'Ufficio Storico? . Tanto più che la Storia Ufficiale nulla dice degli errori del tiro delle nostre artiglierie. Il 10 giugno esso ebbe tragiche conseguenze e fece fallire più d'una azione. Medi calibri italiani presero sotto tiro le nostre linee. Emilio Lussu descrisse l'episodio con toni drammatici [Nota. Emilio Lussu, Un anno sull'altopiano, Einaudi, Torino 1960. Fine nota.] e il suo solo torto è di far ruotare gli eventi intorno a un inesistente 399° reggimento, mentre si trattava probabilmente del 151° (che col 152° costituiva la brigata Sassari). Secondo Angelo Gatti sulla Sassari piovvero tanti colpi nostri che 1000 uomini vennero uccisi o feriti. E chi non crede a Gatti, si rilegga la scena, che in modo più prolisso ma non meno terrificante, fu descritta dal tenente Leonardo Motzo nel 1930, 34 anni prima della pubblicazione postuma del Diario di Gatti. Secondo Motzo, [Nota. Leonardo Motzo, Brigata Sassari, Nuraghe, Cagliari 1930. Fine nota.] che partecipò all'azione, dopo questo massacro, la brigata, ridotta di un quarto dai nostri tiri, accettò l'ordine di attacco come una tragica liberazione. Ma neppure riuscì a riconoscere i punti di partenza, distrutti e sconvolti dal nostro efficacissimo tiro. Orbene, chi crede di trovar traccia del fatto nella Storia Ufficiale, rimarrà deluso, poiché non vi si dice una sola parola. La verità si intravede solo perché dalla descrizione, mentre si precisa che all'assalto dovevano partecipare i 6 battaglioni della Sassari, si deduce che mossero solo 4 compagnie. A chi si dovettero dunque i 1752 uomini perduti il 10 giugno dalla 25a divisione, di cui la Sassari faceva parte con la brigata Piacenza? All'artiglieria austriaca o a quella italiana? Ed è grave il sospetto che tali errori fossero dovuti a pura negligenza, non già a inferiorità del materiale: le nostre salve centrarono infatti le linee italiane con notevole precisione, non con rose di colpi molto disperse. Ma per tornare a Cadorna - che probabilmente rimase all'oscuro della maggior parte di questi episodi - non è impossibile che, sulla base

della sua stessa esperienza negativa, si fosse convinto che in cupe forre montane l'assalitore avrebbe avuto vita dura, anche godendo di una notevole superiorità numerica, e che al difensore non sarebbe mancato il tempo, per tamponare qualsiasi falla. Dopo le perdite crudeli dell'Ortigara, la brigata Sassari passò sul fronte della Bainsizza, dove entrò in linea il 30 agosto, conquistando qualche posizione al prezzo di altri 500 uomini. Davanti alle sue trincee si ergeva ora la vetta solitaria del Volnik, quota 955, e a mezzo chilometro più a occidente altre due quote isolate, la 895 e la 862. Il 4 settembre due battaglioni arditi della II armata, venuti da Sdricca di Manzano, sede dei reparti d'assalto, tentarono la conquista di quota 895, ma vennero respinti. Il giorno dopo il comando di divisione propose che l'operazione, dopo prolungata preparazione di artiglieria, fosse affidata alla Sassari. I due comandanti delle compagnie d'assalto di brigata - una per reggimento - rifiutarono però di svolgere l'azione il 9 settembre, come voleva la divisione, intendendo studiare le posizioni con i loro uomini e imparare a memoria il terreno, che volevano percorrere nel primo albeggiare. Pretesero poi che non vi fosse alcuna preparazione di artiglieria. La preparazione di fuoco sarebbe stata ridotta a 5 minuti di bombarde, l'attacco di quota 895 sarebbe stato condotto sui due fianchi e il presidio austriaco circondato. Alle due compagnie sarebbero stati di rincalzo due battaglioni. Gli altri 4 avrebbero concorso all'azione con fuoco di mitragliatrici, intervenendo direttamente solo in un secondo tempo. Alle 5,25 del 15 settembre comincia il tiro delle bombarde, alle 5,30 le due compagnie vanno all'assalto. In poche ore l'azione è portata a termine, conquistate le quote 895 e 862, presi 420 prigionieri. Altri 73 son catturati il giorno dopo, nel corso di vani contrattacchi scatenati dagli austriaci. Il tenente colonnello comandante il presidio austriaco, dandosi prigioniero, si getta in ginocchio davanti al tenente Motzo. Contro tali perdite, la Sassari ci rimette un centinaio di uomini tra morti e feriti. Ritirata a Canale il 25 settembre, la Sassari si attendeva il riposo. Le fu invece dato l'ordine di rientrare in linea per tentare un secondo colpo, e la brigata si ammutinò. Però in linea tornò, ma l'azione prevista fu cancellata. Il 10 ottobre la brigata venne ritirata in retrovia, rinsanguata e rimessa in ordine. Il 18 fu accantonata nei

pressi di San Giovanni di Manzano, perché il comando della II armata aveva deciso di trasformarla in brigata d'assalto. Le istruzioni insieme agli arditi cominciarono il giorno dopo e la truppa vi partecipò con entusiasmo, poiché constatava per la prima volta che l'addestramento era coerente con l'esperienza di guerra. Ma quello della Sassari non fu il solo esempio di impiego sciolto di reparti, finalmente liberati dall'incubo dell'attacco frontale a ondate. Che l'impiego di eccessive truppe fosse non solo inutile ma dannoso l'aveva verificato anche il colonnello Casati, comandante del 127° (brigata Firenze). Sulla media Bainsizza egli aveva avuto l'ordine di conquistare quota 800, impiegando l'intero reggimento. Organizzò invece un gruppo costituito da un plotone di arditi, una compagnia mitragliatrici e una sezione mitragliatrici-pistole, al comando di un ufficiale intelligente e risoluto. La posizione fu aggirata e presa in qualche ora (presumibilmente il 24 agosto). Trecento uomini invece di tremila! Del resto la costituzione stessa dei reparti di arditi, avvenuta ufficialmente il 29 luglio a Sdricca di Manzano con l'incoraggiamento del generale Capello, denotava che una certa tendenza favorevole alla specializzazione e all'intensificazione dell'addestramento tattico si faceva strada anche fra gli alti comandi. Il moschetto a tracolla, bombe a mano e pugnale per l'aggressione vicina, mitragliatrici e lanciafiamme per l'attacco a distanza: questa era l'immagine degli arditi, la cui fondazione fu dovuta alla tenacia del tenente colonnello Bassi; reparti speciali, che non prestavano servizio in trincea, addestrati per l'attacco e l'offensiva. Una soluzione molto diversa da quella tedesca, che trasformava quasi tutti i soldati, a rotazione, in truppe d'assalto, operando una selezione sulla base dei requisiti fisici, inquadrando i meno abili in divisioni di «seconda qualità», cui non venivano richieste prestazioni eccedenti quelle presidiane di zone tranquille. Il carattere elitario degli arditi aveva trovato qualche ostacolo psicologico. Ad esempio il principe Manfredi Lanza di Trabia, già cavalleggero entrato nei mitraglieri nel settembre 1917, «disapprova la costituzione dei reparti d'assalto, per l'idea della ricompensa dopo l'azione e per lo stato di entusiasmo da crearsi nel soldato prima dell'azione». Gatti approva e disapprova: è timoroso di questa gente (reclutata, nonostante le leggende, fra coloro che avevano la fedina penale pulita), che, «quando tornano dall'azione..., dicono fra loro: ne

ho ammazzati 6, 8, 10». Certo la conquista - momentanea - del San Gabriele fu opera loro (nonostante il silenzio della Storia Ufficiale). Mossero all'assalto in 450, divisi in tre colonne, avanti in coppia i lanciatori di bombe a mano, dietro i lanciafiamme. La vetta fu loro e il generale austriaco, comandante del presidio, si suicidò. Ma la cima non si poté tenere e la brigata Arno ci rimise le penne. Il reparto d'assalto aveva perso quasi la metà degli effettivi, la maggioranza però feriti leggeri. Senza voler qui fare la storia degli arditi, circa i quali i timorati di Dio si domandavano se sarebbero mai stati capaci di riprendere, finita la guerra, «la bassa vita quotidiana, che è quella della piattola, attaccata ai peli delle consuetudini», [Nota. Luigi Bartolini, Il ritorno sul Carso, Mondadori, Milano 1930. Fine nota.] resta che nel corso del 1917 anche l'esercito italiano sentì, per la prima volta, la necessità di truppe particolarmente addestrate, nelle quali la disciplina fosse sentita più come autocontrollo che come imposizione esterna, in certa misura già consuetudine presso gli alpini. Ma tale concetto, limitato a reparti speciali, anziché volto a una generalizzata riorganizzazione addestrativa dell'esercito, indicava una mentalità sempre orientata all'offensiva, mentre in difensiva tali reparti avevano resa minore. L'esistenza di una ventina di reparti d'assalto, cioè di battaglioni, alla vigilia di Caporetto, non bastava quindi a dare un aspetto diverso al contegno difensivo dell'esercito italiano. La soluzione italiana, in casi speciali, poteva essere anche superiore a quella tedesca. Il figlio del colonnello Bassi, prima della sua prematura morte, mi disse che tutto il materiale documentario in possesso del padre venne sequestrato dai comandi americani dopo la seconda guerra mondiale, e che tracce della sua impostazione dell'addestramento si trovano in quello attualmente impartito ai marines. Nella situazione specifica del 1917 bisogna però ammettere che la soluzione «tedesca» era molto più efficace di quella che andavano adombrando i suoi avversari. Era come assicurare un modesto grado di alfabetismo militare a tutte le truppe, anziché preparare un ristretto gruppo di laureati in mezzo a una popolazione analfabeta. L'accusa rivolta al generale Cadorna, di aver condotto una guerra di sterili offensive, è insostenibile nella sua seconda parte. La guerra italiana, così come si era politicamente inserita nella guerra mondiale,

richiedeva una condotta offensiva e, se non ci avessimo pensato da soli, avrebbero provveduto gli alleati a ricordarcelo con mezzi bruschi: nell'estate del 1917 gli inglesi pretendevano addirittura che noi, in aggiunta alla nostra guerra, inviassimo un ragguardevole corpo di spedizione in Palestina. Sull'aggettivo sterile il discorso va differenziato: se per sterile si intende privo di risultati tangibili, forse non si poteva fare di più. Se però ci si riferisce alle perdite, non c'è dubbio che gli stessi modesti risultati avremmo potuto raggiungerli con un logoramento materiale e morale assai inferiore. Cadorna ebbe due lunghe pause di grazia: la prima decorre dalla fine della quarta battaglia dell'Isonzo all'inizio della Strafeexpedition, cioè dal 2 dicembre 1915 al 15 maggio 1916, ben cinque mesi e mezzo. Essa fu dedicata all'espansione dell'esercito (che aumentò del 50 per cento), ma non a un addestramento proficuo dei nuovi arrivati e delle truppe già in linea, che potevano essere ritirate a rotazione, tenendo contro il nemico forze, non superiori a quelle che lo stesso teneva contro di noi. Né si pensò minimamente a studiare criticamente l'andamento delle operazioni, di tutto incolpando l'insufficienza dell'armamento, che era solo una delle cause degli scarsi risultati raggiunti, e sperando col suo veloce potenziamento di risolvere il problema tattico. Era l'avvio alla Materialschlacht, cioè alla sostituzione del pensiero con la forza bruta. Una seconda pausa di grazia si estese dal 4 novembre 1916 al 12 maggio 1917, cioè sei mesi pieni. Se non il primo, questo era il periodo più adatto per un riaddestramento intensivo delle truppe, poiché non ne sarebbe mancato il tempo. Dopo l'offensiva nemica nel Trentino, dopo le «spallate» carsiche seguite alla conquista di Gorizia, e profittando delle notizie raccolte presso i nostri alleati, v'era materiale abbondante per elaborare una dottrina tattica meglio aderente alle necessità della guerra di posizione. Questo non è senno di poi, poiché tali necessità emersero nell'estate del 1917 (allorché godemmo di un ulteriore bimestre di relativa quiete, da destinare all'addestramento) e i tentativi sporadici fatti empiricamente diedero in complesso, come si è visto, risultati positivi. L'eccessiva quantità di truppe impiegate nelle singole azioni apparve a tutti evidente. E poiché si trattava ormai di truppe abbondantemente equipaggiate di armi e munizioni, ne venivano esasperati i problemi logistici.

Cadorna aveva concezioni strategiche semplici e chiare: tutto per la guerra in Europa, non disperdere gli sforzi su teatri secondari. Ma non aveva sensibilità per la guerra minuta, anche se era stato più volte in trincea, una almeno con rischio della vita. Altri avrebbero dovuto metterlo sull'avviso, ma intorno a lui c'era il vuoto intellettuale. Era un accentratore? Nei fatti lo fu, ma è, impossibile dire se lo fosse per natura o se ve lo abbia istradato una corte di Ufficiali servili. Non si citano mai sue riunioni con tutti i comandanti d'armata ed è nota la sua fobia per i «consigli di guerra». Ma è un fatto che, almeno in un caso citato, Cadorna parlò ai comandanti della II e della III armata (che insieme tenevano in pugno due terzi dell'esercito) e che di tale conferenza non vi è traccia nella Storia Ufficiale. Sembra quindi che abbia visto giusto la «famigerata» Commissione d'inchiesta per Caporetto, allorché affermò che la burocrazia militare intorno a Cadorna e a Capello (e quindi, presumibilmente, anche intorno agli altri comandanti d'armata) fosse ostile a contatti bilaterali o multilaterali fra i capi, considerandoli «pregiudizievoli» al servizio: era d'obbligo, insomma, la via protocollare. Resta il fatto grave che Cadorna, e con lui Bencivenga prima, e dal 1° settembre il colonnello Gabba, non sentirono il pericolo del loro isolamento. Erano schiacciati da un lavoro immane, dovevano pensare a tutto e pensare per tutti, e non potevano farcela: figurarsi se potevano elaborare una «dottrina della guerra». Ma non se ne resero conto, a differenza di Ludendorff, che a elaborarla chiamò molti e sperimentati ufficiali di stato maggiore, facendone il suo «ufficio studi». Se Cadorna avesse avuto un'altra percezione, si sarebbe pervenuti a una dottrina di combattimento diversa e migliore già nella primavera del 1917. La sensazione di non essere gettate al massacro, ma impiegate con senso di responsabilità, sarebbe stato il miglior tonico per le truppe che dovevano affrontare i successivi combattimenti. Avrebbero affrontato la decima e undicesima battaglia dell'Isonzo con ben altro spirito. E le minori perdite avrebbero conservato in vita soldati di alta perizia combattiva: addestrati bene, avrebbero constatato il buon risultato di tale addestramento. Non si ripete mai abbastanza che la sicurezza, il coraggio, la fiducia, nei gregari nascono principalmente dalla constatazione che gli ordini che ricevono sono sensati: rischiosissimi, magari, ma indispensabili. Non già il

«malgoverno delle truppe», ma la inesistente consapevolezza nei capi della possibilità di governarle in modo diverso creò nell'autunno del 1917, un'atmosfera di incubo e di rassegnazione. Soldati più addestrati e più preparati acquisiscono parzialmente le caratteristiche di militari di professione, cosa che per certi versi può suscitare qualche sospetto politico, ma che li rende impervi alla propaganda disgregatrice di qualsiasi natura. Soprattutto non si perdono d'animo. La battaglia di Caporetto poteva essere persa per motivi militari (come in gran parte fu), ma la moltiplicazione del disastro per il cosiddetto «crollo morale» sarebbe stata assai minore. E quando e dove le truppe acquisirono sul campo, anche durante la tragica ritirata, senza professori che non esistevano, un minimo di competenza professionale individuale, immediata fu la ripresa del loro «morale». La patria invasa? Dubito che motivi di tal genere potessero avere effetto su altre truppe, che non quelle delle regioni contermini o sotto minaccia di invasione. Con l'acquisire competenza, le truppe indurirono. L'aspirante Malandrone, il cui reparto era dislocato sulle pendici di San Gabriele, così mi descrisse il clima pre-Caporetto: «Atmosfera pesante, immobilismo tragico, nonostante i non rari attacchi e contrattacchi. Più nessuna voglia di marciare. Il soldato... aveva perduto la sua tradizionale allegria (che ritroverà soltanto sul Grappa). Anzi, la ritrovò prima, non appena si affacciò alla pianura veneta, alla piana di casa sua. Certo nell'inconscio pensava: qui finalmente si respira, qui si può combattere e anche morire, ma si può anche vincere. E tornò a cantare... So come è l'aria nell'occhio del ciclone: morta. Ebbene, il 20 ottobre 1917, sulle pendici del San Gabriele, l'aria era così: morta. Non lo invento ora, in quei giorni mi dicevo: se gli austriaci conoscessero quest'aura, prenderebbero un po' più di coraggio e forse potrebbero venire avanti tranquillamente. Io me lo sono augurato, perché capivo che combattere per mesi e forse per anni così, era come cercare di rompere una fortezza di cemento armato, picchiandovi dentro la testa. Caporetto era fatale, anche se Badoglio avesse fatto tuonare i suoi 700 cannoni... Il mio settore, non troppo lontano da quello di Caporetto, era un settore desolato, dove tutti facevano macchinalmente e di mala voglia quel che dovevano o avrebbero dovuto fare, in attesa di qualcosa di prodigioso, che sembrava essere venuto ad aleggiare finalmente nell'aria... E il prodigio venne...».

Il prodigio si chiamò «Caporetto». Mandato dal destino, esso diede agli italiani la sensazione di combattere anziché di essere massacrati.

Capitolo XI I PREPARATIVI DEL NEMICO L'undicesima battaglia dell'Isonzo aveva teso al limite di rottura l'esercito austro-ungarico schierato contro l'Italia. Lo spazio per la difesa manovrata era ridotto al minimo. Per riprendere fiato occorreva passare all'offensiva: attendere che gli italiani si esaurissero poteva essere, per il malfermo impero bicipite, una mortale lotta contro il tempo. Ma, con la Russia nemica ancora sull'orlo dell'indecisione, l'aiuto germanico era essenziale. Hindenburg e Ludendorff acconsentirono a una verifica. Il generale Krafft von Dellmensingen, un bavarese di 55 anni, con un curriculum da fare invidia a Napoleone, fu inviato a ispezionare il fronte italiano. Lo girò dal 2 al 6 settembre, mentre infuriavano i combattimenti sul San Gabriele, e si soffermò sull'alto Isonzo, che lo stato maggiore austro-ungarico gli aveva segnalato come degno di particolare attenzione. Il giorno 8, di ritorno al quartier generale tedesco, Krafft, illustrate le difficoltà dell'impresa - a suo dire quasi disumana concluse affermando: «Si può fare». I tedeschi agirono in fretta. L'11 settembre, strappato al fronte occidentale e convocato a Berlino, l'abilissimo generale Otto von Below si vide assegnare il comando della XIV armata mista austro-germanica di nuova formazione. Doveva guidare l'offensiva, da scatenare prossimamente sull'alto Isonzo, nell'ambito del «Comando del fronte sud-occidentale», tenuto dall'arciduca Eugenio. Capo di stato maggiore: Krafft von Dellmensingen. Il 14 von Below era già a Vienna, dove si mise al lavoro con i suoi aiutanti, muniti di carte, schizzi e disegni. I contatti con gli austriaci misero in luce che gli obbiettivi, che costoro si ripromettevano dall'impresa, consistevano nel raggiungere la linea Korada-Cividale, costringendo l'esercito italiano ad arretrare anche dietro il basso Isonzo, poiché grande era lo scetticismo su mete più ambiziose. Ma il 22 settembre von Below, agli ordini emanati, fece aggiungere la frase: «Il nemico deve essere sloggiato dalla zona del Carso e ricacciato dietro il Tagliamento». [Nota. «Diario di von Below», in Francesco Fadini, Caporetto dalla parte del vincitore, Vallecchi, Firenze 1974. Fine nota.] In tale modo all'offensiva - fissata per il 22 ottobre - era impresso un taglio nettamente strategico. Lo stesso

giorno von Below fece la prima comparsa nella zona dell'alto Isonzo e, da una vetta presso Tolmino, ebbe una visione panoramica del suo prossimo teatro di operazioni. Come fondamentale precauzione, fu deciso di svolgere i preparativi nel massimo segreto. I materiali avrebbero preceduto i cannoni, e questi gli uomini. I movimenti delle truppe sarebbero avvenuti sempre di notte e all'ultimo momento. L'attacco della XIV armata si sarebbe esteso da Plezzo a Tolmino. Questo tratto, storicamente il più battuto per irrompere in Italia da oriente, in quel momento dagli italiani era difeso poco e male: la sorpresa era quindi essenziale. Per tenere lontani i ricognitori italiani, vi furono inviate squadriglie germaniche tra cui quella di von Richtofen - e vi venne concentrata dell'artiglieria contraerea, per quell'epoca numerosa. I ricognitori tedeschi effettuarono fotografie stroboscopiche del retrofronte italiano, e con esse furono corrette le carte austriache. L'ufficio cartografico d'armata stampò migliaia di cartine topografiche a colori, con l'indicazione di tutte le posizioni italiane rilevate, e ne fece larga distribuzione anche ai reparti più minuscoli. L'equipaggiamento fu studiato con grande cura. Le unità provenivano dalle zone più disparate e non tutte - in particolare quelle provenienti dalle Fiandre - avevano esperienza di montagna. Andavano poi amalgamate insieme e allenate. Approntamento dei materiali, allenamento delle truppe in terreno montuoso e loro addestramento tattico procedettero di pari passo con pochi intoppi nelle lontane retrovie. Quale sforzo logistico ciò imponesse si può valutare considerando, ad esempio, che l'esercito italiano nella prima guerra mondiale sparò un quantitativo di munizioni pari a quello delle bombe sganciate dall'aviazione strategica anglo-americana sulle città tedesche durante la seconda guerra mondiale: ma tale pioggia di esplosivi non cadde su una superficie di 600.000 chilometri quadrati, ma di appena 3000. Fu una guerra di moltissimi uomini addensati, che spararono moltissimo. Ciò richiedeva un'organizzazione senza precedenti dei trasporti militari, che presentavano problemi da brivido. I treni servivano per gli spostamenti strategici, gli automezzi per quelli tattici nel retrofronte. Ma sul campo di battaglia, escluse poche batterie di medio calibro, denominate autocannoni, che avevano trattrici meccaniche, il resto

andava spostato con cavalli e muli. Per tale motivo una nostra compagnia mitragliatrici, con circa 200 uomini, aveva appena 6 armi. Con 4 uomini per arma su tre turni, esse impegnavano una settantina di soldati. Gli altri erano destinati alla scorta e alla guida di interminabili corvée di muli, che trasportavano viveri, munizioni e acqua (per gli uomini e le mitragliatrici, che ne bevevano di più). Non per nulla l'esercito italiano disponeva di oltre 300.000 quadrupedi, il cui mantenimento e le cui cure richiedevano un impegno ben maggiore di quelli richiesti da un autoveicolo: è inoltre assai più facile muovere benzina o gasolio che fieno, biada e avena. In media era richiesto un quadrupede ogni 5 o 6 uomini dell'esercito mobilitato e ogni 2 o 3 combattenti. La scritta «cavalli 8 - uomini 40» sui carri corrispondeva non solo a una equivalenza di trasporto ma, casualmente, anche a un rapporto di necessità nell'esercito combattente. Un trasporto strategico per ferrovia richiedeva perciò per i quadrupedi un numero di vagoni eguale a quello richiesto per gli uomini. Per quanto riguarda la composizione della XIV armata, le sue truppe furono tratte dal fronte orientale solo in minima parte. La situazione su tale fronte era ancora incerta e presentava potenziali pericoli. Delle 15 divisioni destinate all'armata, 3 si trovavano già sul posto: la 1a, la 50a e la 55a (ex 93a); altre 2 (la 3a Edelweiss e la 22a Schützen) vi vennero trasferite dal Trentino. Queste unità erano già allenate alla guerra in montagna. Quanto alle unità germaniche, l'Alpenkorps, con annesso battaglione del Württemberg, era anch'esso specializzato nella guerra sui monti, perché aveva combattuto nei Vosgi, in Macedonia e nei Carpazi. Due altre unità (la 12a slesiana e la 26a del Brandeburgo) provenivano però dalle Fiandre, e alla guerra in montagna dovettero essere allenate intensivamente e sommariamente nei pochi giorni disponibili. Dal fronte russo provenivano le divisioni germaniche 5a, 117a e 200a (solo quest'ultima, figliata dall'Alpenkorps, allenata alla guerra in terreni montuosi). E dal fronte russo venivano le riserve: le divisioni austro-ungariche 4a, 13a e 33a. Vi era anche una divisione tedesca Jäger, composta da 7 battaglioni racimolati per ogni dove. Ma delle 8 divisioni di prima schiera, la sola impiegata pur priva di esperienze di guerra in montagna fu la 12a slesiana, cui venne affidato il compito di sfondare le difese italiane in fondovalle Isonzo e

proseguire lungo le rive il più avanti possibile. Le divisioni tedesche Jäger, 26a, 117a e 5a furono tenute di immediato rincalzo. Il trasporto in fasi successive dei materiali, delle artiglierie (fra cui 1200 pezzi tedeschi) e degli uomini, che raggiunsero i punti di partenza all'ultimo momento, tutto nascostamente, fu un grande successo. Il comando italiano non ebbe la sensazione dell'addensamento di forze così imponenti sull'ala sinistra della fronte giulia; né che i 300 cannoni esistenti nel settore a metà settembre fossero saliti a 2000 in poco più di un mese. Quindi, mentre è vero che il Comando Supremo italiano fu edotto in tempo sull'offensiva nemica, i dettagli dello schieramento nemico fra la Bainsizza e il Rombon gli sfuggirono, fino a che non li svelò la battaglia. E anche in seguito, il disfacimento dell'ala sinistra della II armata fu attribuito più a mancata resistenza delle truppe che a soverchiarne superiorità del nemico. Le reciproche forze sono indicate sommariamente nelle pagine seguenti: da me ricostruite con dati tratti dalla nostra Storia Ufficiale o desunti per interpolazione dalla stessa. Concordo comunque con la convinzione di F. Fadini, che le fanterie con cui il 24 ottobre von Below operò lo sfondamento consistettero in 90 o 100 battaglioni, per un totale di 60.000 uomini, 1000 mitragliatrici pesanti e 1500 leggere. Le unità italiane che sostennero il primo urto erano costituite da un centinaio di battaglioni alquanto striminziti, per un totale di 55.000 uomini, 600 mitragliatrici e altrettante mitragliatrici-pistole (che Fadini dimentica). Il 4 ottobre von Below emanò gli ordini definitivi, che ormai prevedevano l'arrivo sul Tagliamento e, se possibile, la conquista dei ponti che lo attraversavano, così da non escludere nuove possibilità strategiche. Ogni ulteriore avanzata, purché la spinta fosse mantenuta preminente sull'ala destra austro-germanica, avrebbe infatti costretto alla ritirata, senza colpo ferire, di aliquote sempre maggiori dell'esercito italiano. L'attacco doveva essere condotto giorno e notte, senza pause e senza interruzioni, e senza dar tregua al nemico. I movimenti delle truppe cominciarono il 14 ottobre per le formazioni più lontane, il 16 per le altre. Alla linea del fuoco i soldati si avvicinarono a marce forzate, sotto un tempo orribile, dormendo mimetizzati di giorno, più o meno all'addiaccio. Per regolare il traffico le strade principali erano state divise in sezioni, ai cui estremi erano

dislocate radio campali, che informavano sullo snodarsi dei convogli e dei carriaggi, prendendo i necessari provvedimenti nel caso di ingorghi, che furono moltissimi. La maggior parte delle formazioni ebbero un giorno di riposo prima di entrare in azione, ma talune si immisero senza soluzione di continuità dalle retrovie in piena battaglia. In conca di Plezzo tutto giunse dalla ferrovia elettrica sotterranea che passava sotto il Predil, e poi lungo la camionabile, che sfiorava le nostre linee. Ma l'intenso traffico passò inosservato. All'ultimo momento taluni inevitabili ritardi costrinsero a rinviare l'offensiva di due giorni. Così arrivò l'ora X: 24 ottobre, ore 2 del mattino. Consistenza delle forze contrapposte (dati ricavati o desunti dalla Storia Ufficiale italiana) . - Effettivi dell'esercito italiano presenti sul fronte italiano il 24.X.1917 (sulla base di 856 battaglioni di fanteria, ciascuno con 3 compagnie di 175 uomini + 1 comp. mitr. con 6 armi): - 1.844.000 uomini (di cui 63.300 ufficiali), inquadrati in 59 comandi di divisione + un certo numero di brigate sciolte + 4 comandi di divisione di cavalleria. Armamento principale: 6918 pezzi di artiglieria (3828 di p. c., 2869 di m. c., 221 di g. c.) + ca. 2500 bombarde (metà di piccolo calibro, metà di grosso calibro) + ca. 7000 mitragliatrici + ca. 5000 mitragliatrici-pistole. - Effettivi dell'esercito austro-germanico sul fronte italiano il 24.X.1917 (sulla base di 574 battaglioni di fanteria, ciascuno composto di 4 compagnie di 150 uomini + 1 comp. mitr. con 8 armi): - 1.353.000 uomini. Armamento principale: 5255 pezzi di artiglieria. (In entrambi gli eserciti le fanterie, inclusi i mitraglieri, erano il 38 per cento del tot.). - Effettivi del IV, XXVII e VII corpo d'a. italiani (investiti dalla XIV armata austro-germanica e dal gruppo Kosak della II Isonzo Armée: IV: 55 btg.; 114.700 u. + 424 pezzi + 173 bomb. (tot. 597 b.d.f.). XXVII: 49 btg.; 102.200 u. + 561 pezzi + 172 bomb. (tot. 733 b.d.f.). VII: 30 btg.; 40.500 u. + 12 pezzi (tot. 12 b.d.f.). Totale: 134 btg.; 257.400 u. + 997 pezzi + 345 bomb. (tot. 1342 b.d.f.).

- Effettivi della XIV armata austro-germanica (escluse le riserve del Comando sud-ovest e la div. Jäger, che per molti giorni non partecipò ai combattimenti) e del gruppo Kosak (II Isonzo Armée): gruppo Krauss: 34 btg. + 430 pezzi + 107 bomb. (tot. 537 b.d.f.). gruppo Stein: 40 btg. + 607 pezzi + 158 bomb. (tot. 705 b.d.f.). gruppo Berrer: 20 btg. + 312 pezzi + 24 bomb. (tot. 336 b.d.f.). gruppo Scotti: 20 btg. + 374 pezzi + 12 bomb. (tot. 386 b.d.f.). gruppo Kosak: 36 btg. + 424 pezzi + 70 bomb. (tot. 530 b.d.f.). Totale: 150 btg.; (353.000 u.) + 2147 pezzi + 371 bomb. (tot. 2518 b.d.f.). - Confronto sulla consistenza delle artiglierie: le italiane erano costituite da 366 p.c. + 631 m. e g. c.; le austro-germaniche da 1534 p.c. e 611 m. e g. c. Come si vede, contro una parità nei medi e grossi calibri, la superiorità nemica era soverchiante nei piccoli calibri (nel rapporto di quasi 5 a 1).

Capitolo XII L'INTORBIDAMENTO DELLA COMPRENSIONE Il 18 settembre 1917 Cadorna ricevette la notizia che il generale russo Kornilov aveva fallito nel tentativo di prendere in mano le sorti dell'esercito russo contro il governo Kerenskji. Impallidì visibilmente e ai comandanti della II e della III armata diramò l'ordine di abbandonare ogni idea offensiva e di preparare una «difesa a oltranza», per rintuzzare un possibile attacco nemico. Ordine preciso e quasi perentorio, in cui mancava solo un dato orientativo: la data. L'unico avverbio usato era che il nemico poteva scatenare un serio attacco «prossimamente». Nessuno è in grado di provare se, nella mente di Cadorna, la data presunta fosse quello stesso autunno o la primavera del 1918. La Storia Ufficiale è incline a questa interpretazione, pur col beneficio del dubbio. Capello osa affermare che «in quel torno di tempo, in occasione di una conferenza alla quale io presi parte, il Comando Supremo già aveva espresso lo stesso concetto di rinuncia, determinato però dalla previsione di un'offensiva avversaria che si attendeva per la primavera del 1918». Al solito, di tale conferenza di Cadorna non vi è traccia nella Storia Ufficiale: né l'espressione «in quel torno di tempo» è sufficiente a stabilire se essa sia avvenuta prima o dopo il 18 settembre. Tuttavia, poiché Capello, quando scriveva quella frase, si preparava a scagionarsi da molte accuse, una conferenza di Cadorna, posteriore al 18 settembre, che avesse accennato alla primavera del 1918 come sola data probabile dell'offensiva nemica, avrebbe alleggerito la sua posizione di «imputato», senza aggravare quella di Cadorna, poiché la conferenza di Cadorna, come atto ufficiale, era insopprimibile. La conferenza si svolse quindi certamente prima. Quanto prima? La mattina del 26 luglio, nel corso dell'incontro a Parigi cui Cadorna partecipò con i generali Robertson, Pershing, Pétain e Foch su pressante insistenza del governo, il consesso dei comandanti supremi degli eserciti alleati aveva preso in esame l'ipotesi «più pessimistica» sulla data di una possibile defezione russa: 1° ottobre 1917. In tal caso, qualora lo sforzo nemico si fosse concentrato contro l'Italia, l'afflusso di truppe austro-germaniche sul nostro fronte non poteva superare le 10 divisioni al mese, da allora fino al 15 maggio, prima data per un possibile inizio delle operazioni attive. «A tale data

l'esercito italiano... potrebbe opporre a quello nemico da 80 a 90 divisioni. In tali condizioni l'Italia potrebbe parare l'offensiva nemica con i mezzi propri o con un rinforzo di truppe alleate, che non sembra superare le possibilità di questi ultimi». In questo documento ufficiale sono congelate per l'eternità le due illusioni di Cadorna: 1) di poter portare l'esercito italiano a 80 o 90 divisioni (sia pure riducendo da 12 a 9 i battaglioni di fanteria per ogni divisione); 2) di essere in grado di affrontare 30 (presenti) + 75 (massimo accumulabile dal 1° ottobre al 15 maggio successivo), cioè 105 divisioni austro-germaniche con le proprie forze, eventualmente sostenute da un modesto appoggio degli alleati. Credere di poter resistere con 80 o anche 90 divisioni, comunque più smilze, a 105 divisioni austro-germaniche era segno di sfrenato ottimismo. Cadorna partiva dalla convinzione che, se gli austriaci ci avevano tenuto a bada con la metà delle nostre forze, perché mai non avremmo noi potuto tenerli a bada con un'inferiorità numerica di appena il 15 o 20 per cento? E, in questo, credo che l'esperienza negativa dell’Ortigara abbia paradossalmente influito in senso positivo sul suo giudizio. Perciò, qualunque offensiva preparassero gli Imperi Centrali contro l'Italia prima della primavera del 1918, essa era considerata dal generale Cadorna, per forza di cose, come un affare relativamente modesto. In conclusione, non è che Cadorna oscillasse fra due possibili date. Egli credeva l'offensiva tanto più potente quanto più passava il tempo: se dunque si sentiva in grado di fronteggiare una mostruosa concentrazione di oltre 100 divisioni (il doppio di quelle con cui gli austro-ungarici ci attaccarono nel giugno del 1918), a maggior ragione si sentiva di contenerne una, che si annunciò dopo soli 24 giorni dalla data postulata del 1° ottobre, fino a far dubitare della sua consistenza. La corretta decisione di Cadorna era quindi slegata dalle prime voci di offensiva nemica; e ancora l'11 ottobre egli scriveva al ministro Orlando che «malgrado tutto io non sono alieno dal credere a un bluff... e vedo che anche Lei non lo esclude». [Nota. Pietro Melograni, Storia politica della grande guerra, Laterza, Bari 1969. Fine nota.] Nei giorni successivi al 18 settembre le poche artiglierie alleate schierate sul nostro fronte furono ritirate con modi bruschi d'ordine di Robertson e di Pétain, perché l'Italia «desisteva» da un'ulteriore offensiva autunnale. Poi Cadorna si recò a Roma, dove il 29 fu presente

a un Consiglio dei ministri, in cui non parlò, salvo affermare - rivolto a Orlando, dopo la seduta -: «Lei pensi al paese, che all'esercito ci penso io». Le ulteriori sue mosse sono incerte fino al 4 ottobre. Probabilmente prima di questa data Cadorna si recò sull'alto Isonzo e rimproverò aspramente Badoglio - secondo la narrazione del capitano Sforza, ufficiale di collegamento del Comando Supremo presso il XXVII corpo d'armata, schierato di fronte alla testa di ponte di Tolmino -, avendo constatato che le artiglierie erano schierate troppo vicine alle prime linee: «Prima delle controffensive occorrono le difese; le batterie in primissima linea possono essere catturate da colpi di mano nemici e tutte perdute! Tutte perdute!». [Nota. Alessandro Sforza, Badoglio a Caporetto, in «L'astrolabio», 29 dicembre 1964. Fine nota.] Poi, il giorno 4, partì per Vicenza, per prendersi un breve riposo e svolgere ispezioni alla fronte tridentina (secondo il generale Faldella egli effettuò 7 ricognizioni in 14 giorni [Nota. Emilio Faldella, La Grande guerra, 2 voll., Longanesi, Milano 1965, vol. II. Fine nota.]), in particolare per assicurarsi sulla difesa del Grappa tout-azimut. Il massiccio egli lo considerava perno della difesa, qualora - di fronte a una grande offensiva a tenaglia dall'Isonzo e dal Trentino - le difese italiane avessero dovuto recedere fino al Piave. Effettivamente, sminuendo nel suo animo l'offensiva nemica vicina (escludendo cioè un attacco anche dal Trentino, per le informazioni che lo negavano e per la stagione ormai avanzata, che lo rendeva quasi impossibile da quella direzione), Cadorna aveva ragione, in vista della «grande tenaglia», di preoccuparsi degli Altipiani per il 1918. Nel frattempo però seguiva da lontano e con una certa superficialità le disposizioni che davano i suoi dipendenti sull'Isonzo. Nulla v'era da eccepire sul duca d'Aosta, che il 19 settembre aveva subito ripetuto l'ordine di porsi in difensiva senza perdere «un sol minuto». Tuttavia il relativo ordine della III armata si chiudeva con l'impegno a «non cedere un palmo del sacro suolo conquistato con tanto nobile sacrificio di sangue». Tale passione si esplicava «col muovere decisamente al contrattacco, prevenendo all'occorrenza il nemico, secondo quanto ho già prescritto con l'ordine n. 7722 op. del 16 corrente» (che però la Storia Ufficiale non riporta). Sembra dunque che l'idea della controffensiva preventiva, di cui si pasceva il generale Capello, non fosse aliena neppure presso il comando della III armata, contrariamente a quanto si dice. Tuttavia sullo schieramento delle

artiglierie, il duca d'Aosta impose che esso fosse revisionato in senso rigorosamente difensivo. Lo stesso giorno anche il comandante della II armata informava un limitato numero di subordinati (i comandanti dei corpi d'armata XXVII, XXIV e II, cioè quelli schierati sulla Bainsizza) che al concetto offensivo, precedentemente ispiratore dello schieramento, doveva sostituirsi un concetto «difensivo-controffensivo» (con più enfasi, ma non diversamente da quanto detto dal duca d'Aosta). Però sullo schieramento delle artiglierie Capello tergiversava: arretrarle sì, ma non troppo. Il 22 settembre, poi, in una circolare diramata stavolta a tutti i corpi dipendenti, con oggetto «Lavori difensivi», non dei nuovi ordini parlava, ma riassumeva le disposizioni già date sui criteri per la fortificazione delle solite tre linee (avanzata, di difesa a oltranza, di armata), diffondendosi sull'organizzazione della linea avanzata delle fanterie, «quale linea di partenza per azioni offensive». Il pensiero del generale Capello andò man mano divaricando da quello del Comando Supremo, arrivando il giorno 8 alla nota frase: «Spesso un'offensiva nemica arginata e paralizzata può dare favorevole occasione per una più grande azione controffensiva». Il giorno dopo, in una conferenza generale, dando per assai probabile e prossimo l'attacco nemico, Capello ribadiva il concetto dell'«offensiva-controffensiva». Il generale Cadorna seguiva le attività di Capello attraverso le mazzette di carta, che gli venivano trasmesse in copia, le leggeva e dava consigli, ispirati a una concezione difensiva molto più rigorosa, insistendo per una «contropreparazione» di artiglieria, da svolgersi «durante» il tiro di bombardamento nemico e consigliando una gravitazione della massima parte del XXVII corpo sulla destra dell'Isonzo e il ritiro del massimo numero di batterie dalla Bainsizza. Coesistevano perciò una diversa impostazione della battaglia e un equivoco, credendo Cadorna che Capello fosse all'unisono con lui. Del che Cadorna fece molti anni dopo il mea culpa: «Debbo francamente dichiarare che bene avrei fatto a maggiormente sorvegliare l'esecuzione dei miei ordini per parte del generale Capello». Ma il danno restava, l'equivoco si prolungava, i giorni passavano, Cadorna e Capello si scambiavano dispacci, che moltiplicavano il malinteso e nulla veniva predisposto. Solo il 18 ottobre (si era perso un mese) Cadorna, quasi folgorato, si rese conto che le sue vedute divergevano da quelle di Capello e, ancora a Vicenza, disse: «Del resto il generale Capello

deve obbedire; se non obbedirà,... lo tratterò come gli altri... Uno solo deve comandare». Il 19, tornato a Udine, Cadorna ricevette Capello, malfermo sulle gambe perché febbricitante, e gli ingiunse, in forma cortese ma ferma, di abbandonare qualsiasi velleità di controffensiva in grandissimo stile, per attenersi a una classica difensiva, che non escludeva contrattacchi di carattere locale. Il tutto, glielo fissava per iscritto il giorno 20. In tale ordine Cadorna accettava il concetto propugnato da Capello solo in scala ridotta («risoluti contrattacchi condotti da truppe appositamente preparate ed ispirati a quel concetto dell'attanagliamento ben delineato dall’Eccellenza vostra»). Tuttavia le truppe «appositamente preparate» non esistevano: al massimo si poteva sperare in truppe «appositamente appostate», e anche ciò con beneficio d'inventario, poiché il tempo stringeva. Quanto agli attanagliamenti - di cui Capello aveva riempito circolari e conferenze -, integrati da incapsulamenti, contrattacchi, controcontrattacchi ecc., essi denunciavano il carattere eminentemente statico della difesa, proiettata per di più sulla linea avanzata, che era per definizione la peggiore. Capello, che tutti riconoscevano come ottimo generale di divisione e buon comandante di corpo d'armata, rivelava in quei giorni i suoi limiti, come comandante della nostra più grande armata: quasi 700.000 uomini. Per usare le parole dell'acido, ma spesso acuto generale Viganò: «Si mantenne... colle idee e coi concetti della piccola guerra, in cui si usa... vagare nel campo delle ipotesi: sostenere per esempio... la opportunità di mantenere le proprie forze... in potenza, per assalire il nemico così e così, se viene di qua; in quest'altro modo, se viene di là; per incapsularlo colà, se vuol passare da quella parte; per dargli addosso, di fianco, con grosse forze, mentre egli attaccherà una parte della nostra fronte, che noi manterremo appositamente debole, e voteremo semmai al sacrificio (questo era il suo concetto a Caporetto) ecc.». [Nota. Ettore Vigano, La nostra guerra, Le Monnier, Firenze 1920. Fine nota.] Era un linguaggio da pugile: la grande tattica non poteva essere la moltiplicazione, per un fattore di scala, della piccola. A questo punto Capello uscì di scena, andandosene in convalescenza a Padova, senza emanare istruzioni. Era dal 4 ottobre che non stava bene e si trascinava fra letto e ufficio, colpito da un male insidioso: nefrite, o almeno gravi disturbi renali. E dal giorno 10 gli era stato affiancato un comandante interinale, il generale Luca Montuori,

di cui Cadorna aveva scarsa stima. Il disagio dei comandi inferiori era stato grande, poiché dal comando della II armata gli ordini pervenivano firmati or dall'uno or dall'altro, e non si sapeva chi comandava e quanto i due andassero d'accordo. Il capo supremo assente, (e il comandante d'armata ammalazzato e sdoppiato: c'era della jella, ma anche una difettosa organizzazione, perché troppe cose erano in balìa della sorte. Nel frattempo il Servizio Informazioni faceva del suo meglio e, da molteplici fonti, ricostruiva l'accrescersi delle forze nemiche sul fronte italiano: i 458 battaglioni del 19 agosto erano divenuti 540 il 29 settembre, 555 il 6 ottobre e 650 (di cui 84 tedeschi) alla vigilia della battaglia (battaglioni che, considerandoli formati su 4 compagnie fucilieri contro le 3, di cui era formato il battaglione italiano, verranno equiparate, dopo la sconfitta, a 867 dei nostri, attribuendo al nemico una parità numerica, che non aveva). In realtà le vere forze nemiche, al momento dell'attacco, ammontavano a 574 battaglioni (di cui 65 germanici), pari - probabilmente - a 633 battaglioni di fanteria italiani. La superiorità numerica e materiale era quindi ancora dalla nostra parte: perché, se molte formazioni italiane erano al di sotto degli organici, le perdite subite nella battaglia di Caporetto dalle singole brigate dimostrano che quelle a piena forza erano numerose (contrariamente alle affermazioni di gran parte delle fonti italiane, sia ufficiali che private). Ma sulla localizzazione dell'aumento le notizie erano più vaghe. Diceva l'ultimo dato dell'Ufficio Informazioni che, dal Rombon al Frigido, le forze nemiche, dai 115 battaglioni esistenti il 19 agosto, erano passate a 345 (contro 300 reali). Ma più in dettaglio non scendeva (le carte con la ipotetica distribuzione delle divisioni nemiche furono composte dopo i fatti), salvo la presunzione che l'effetto risolutivo si sarebbe pronunziato fra Plezzo e Tolmino. Ed era ben lontano dal supporre che la sola XIV armata schierasse, dal Rombon ai Log, 2147 pezzi d'artiglieria. Poiché le nostre artiglierie erano in quel tratto metà di quelle nemiche e non combaciami con la loro distribuzione, in certe zone la superiorità nemica era schiacciante, e il nostro schieramento non certo meritevole dell'aggettivo «poderoso», che Cadorna, Capello e Badoglio gli attribuivano.

La persistente incertezza avrebbe almeno dovuto provocare una conseguenza operativa: il prudenziale spostamento verso nord delle riserve d'armata (cosa che rientrava nelle facoltà di Capello) e di quelle del Comando Supremo: esse continuarono invece a gravitare verso la parte meridionale del fronte giulio. E un grave biasimo va rivolto all'Ufficio Operazioni per i contorti commenti, con cui chiosava il materiale a mano a mano fornito dall'Ufficio Informazioni: commenti arbitrari, tendenti a ridurre, nel lettore, la sensazione che un'offensiva nemica fosse in preparazione e, quando non lo si poté negare, che fosse tanto vicina, lasciando fino all'ultimo sussistere dubbi sulle sue finalità e sulla presenza di forze germaniche. Essa, comunque, fu sempre concepita dall'Ufficio Operazioni come un'impresa «ad obbiettivi limitati». Quando il 20 ottobre Capello partì per Padova, in licenza di convalescenza, il comandante supremo e quello, ancora interinale, della II armata, cercarono di sostituirsi a lui, per parare alla minaccia che, anche ai loro occhi, cominciava a profilarsi, al di là dei tenebrosi monti della Slovenia, come un'ombra sempre più cupa e minacciosa.

Capitolo XIII LA CONFUSIONE DELLE MENTI La prima fase del programma nemico era precisa e lineare: sfondare in conca di Plezzo e a Za Kraiu, con direzione Saga e Caporetto, per conquistare il monte Stol e puntare verso l'alto Tagliamento; da Tolmino risalire l'Isonzo fino a Caporetto, per imboccare val Natisone, che porta a Cividale; attaccare frontalmente il massiccio dello Jeza e conquistare tutta la catena del Kolovrat, da cui si poteva scendere lungo la valle dello Judrio, accerchiando la Bainsizza e portandosi sul Korada; tenere contegno aggressivo dalla Bainsizza al mare, per agganciare le antistanti forze italiane. Si confrontino queste intenzioni con quanto il generale Cadorna scrisse il 23 ottobre al ministro della Guerra, perché ne informasse il governo. Era ormai vicinissima - egli scriveva - l'offensiva nemica che «si dovrebbe sviluppare... con preponderanza di sforzo fra la conca di Plezzo e la testa di ponte di Tolmino, entrambe comprese; obbiettivi principali la dorsale del Kolovrat e la linea Matajur - monte Mia, per poi invadere la pianura girando da nord le nostre linee di difesa dell'intera fronte giulia (II e III armata). È difficile trovare una esposizione più sintetica delle intenzioni degli austro-germanici, benché il diario del colonnello Gatti faccia apparire Cadorna molto più incerto delle parole che rivolse al governo. Comunque, alla impostazione strategica nemica intuita o percepita, da parte italiana non fu opposto alcun piano di difesa, che non fosse uno schieramento più geografico che strategico delle forze disponibili. Mancò un tentativo di razionalizzare sul terreno la manovra nemica e le possibili contromanovre italiane. Si saltò dalla controffensiva strategica propugnata da Capello agli «incapsulamenti» locali, senza esaminare le più probabili soluzioni intermedie. Che Cadorna abbia meditato relativamente poco sul problema è in parte comprensibile, perché l'offensiva si preannunciava, nel suo esordio, come interessante esclusivamente la II armata. E Cadorna, per carattere e consuetudine, era attento a non sovrapporsi all'autorità dei suoi subordinati. Meno comprensibile, benché in parte causato dallo stato di malessere che la salute non più buona gli aveva procurato, è l'atteggiamento apatico di Capello.

Se all'inizio si poteva sperare nella possibilità di una resistenza a cordone, Capello per primo, in una circolare del 30 settembre diretta al IV e al XXVII corpo d'armata, avanzò l'ipotesi di una offensiva che, dalla testa di ponte di Tolmino, tendesse «ad impadronirsi della testata di valle Judrio o a risalire l'Isonzo». [Nota. Giuseppe Del Bianco, La guerra e il Friuli, 3 voll. Dal Bianco, Udine 1952, vol. III. Fine nota.] L'8 ottobre, già ammalato, egli rispolverava il concetto nell'ordine n. 5757, richiamando di sfuggita, nel lungo testo, la possibilità di «azioni offensive partenti dalla testa di ponte di Tolmino». Ma il giorno dopo, in una conferenza tenuta dal letto a tutti i comandanti, il sospetto veniva precisato con più vigore: «Il programma massimo dell'avversario potrebbe comprendere un'azione strategica dalla testa di ponte di Tolmino in direzione di Cividale, tendente almeno ad impadronirsi del nodo montano di testata val Judrio, in modo da girare le nostre linee di sinistra e destra Isonzo». Il giorno 11 Capello, sempre più malato, veniva visitato dal generale Porro, al quale esternava la sua preoccupazione «per possibile diversione 'nemica in conca di Plezzo». Poi, per alcuni giorni, silenzio. Ma il 17 e il 18 ottobre egli ribadiva in due conferenze tenute in successione ai suoi generali (non si è mai saputo cosa abbia detto separatamente nella prima e nella seconda [Nota. Tali due conferenze appaiono sempre abbinate in tutte le fonti, che le citano (Storia Uff., Capello nei vari suoi libri ecc.). Fine nota.]), che sembrava che «il nemico voglia portare il massimo sforzo dalla testa di ponte di Tolmino estendendo la sua azione con carattere probabilmente risolutivo più a nord, fino a monte Nero e, probabilmente, anche nella conca di Plezzo». Finalmente il 23 ottobre, ripreso il comando attivo, Capello, nell'ennesima e ultima conferenza prima della battaglia, tenuta a Cividale alle ore 16, delineava gli scopi nemici come «strategici»: «Il nemico tende alla sinistra del nostro schieramento e più propriamente sulla destra del IV corpo e sulla sinistra del XXVII; pare anche che tenda a un attacco concomitante verso la conca di Plezzo per raggiungere la stretta di Saga». Ciò che il Servizio Informazioni non era riuscito a svelare, Capello lo aveva dunque ricostruito nella sua mente: sempre con la riserva che il riassunto dell'ultima conferenza non sia stato compilato a fatti avvenuti, cioè col «senno di poi». Ma, anche con tale riserva, le dichiarazioni del 17 e 18 ottobre e lo schieramento del VII corpo d'armata alle spalle del IV e del XXVII provano che Capello una sua idea

se l'era fatta. Ma tutto ciò non bastava. Se il nemico sfondava da Tolmino verso Caporetto lungo entrambe le rive, come dovevano comportarsi i comandanti di corpo d'armata e di divisione? Sempre avere le truppe alla mano, incapsulare, contrattaccare, e simili genericità? Non disegnare una serie di ipotesi di sfondamento e quindi prevedere le contromosse più adatte? Qui non si trattava di controffensiva strategica, ma neppure di incapsulare dei plotoni. E che il nemico intendesse agire in fretta l'aveva svelato un disertore il 21 ottobre: il primo giorno a Caporetto, il terzo a Cividale. Presso i comandi italiani avevano riso di cuore: e noi che ci stiamo a fare? Invece di ridere, avrebbero fatto meglio a meditare, pur disponendo di una tattica difettosa (che essi malauguratamente non credevano tale). A proposito, quale tattica? Se i generali si posero il problema, lo risolsero decidendo di resistere là dove erano arrivate le nostre truppe. Cadorna afferma che una ritirata preventiva (sulla linea di armata) sarebbe stata ragionevole, se l'offensiva nemica si fosse manifestata a tenaglia sull'Isonzo e nel Trentino. «Ma non era questo il caso, quando l'attacco stava per sferrarsi sulla sola fronte giulia. Date queste condizioni, quale impressione avrebbe fatto al paese l'abbandono di posizioni importantissime, la cui conquista era costata tanti sacrifici?» Caviglia, allora comandante del XXIV corpo d'armata, si pone il quesito se fosse il caso di ritirarsi sul Piave, prima dell'attacco. E risponde con la negativa: effettivamente una simile ritirata, se giustificata solo da timori preventivi, avrebbe avuto nel paese una ripercussione sconvolgente. Egli afferma tuttavia che avremmo dovuto ripiegare «su una fronte più ristretta», [Nota. Enrico Caviglia, La dodicesima battaglia, Mondadori, Milano 1933. Fine nota.] senza specificare quale. Sulla impostazione della difesa italiana il più loquace è ancora Capello. Egli, riferendosi a un'epoca indeterminata del 1917, afferma che, dopo lunghe discussioni, si arrivò a stabilire il miglior tipo di fortificazione campale: «Minima visibilità delle difese, possibilità di sottoporre l'attaccante al massimo logorio, difesa elastica, e contrattacchi». E, benché sia sempre dell'opinione che la difensiva, più che tecnica, sia una questione morale, Capello afferma che «l'assiduità dell'opera rivolta a stimolare la combattività delle truppe e l'esecuzione di frequenti esercitazioni di contrattacco avevano già dato

qualche frutto e facevano ancor meglio sperare per l'avvenire». Queste parole Capello le scriveva, vinto ma non ancora giudicato, nella primavera del 1918, quando già l'espressione «difesa elastica» era venuta di moda. Ma nelle Note di guerra, benché pubblicate nel 1920, Capello ripropone la domanda: «Quale soluzione adottare allora volendo rimaner fermi nel concetto difensivo?». [Nota. Luigi Capello, Note di guerra, 2 voll., Treves, Milano 1920, vol. II. Fine nota.] Ed elenca le possibilità: «Adottare una mezza misura? Resistere sul posto? Fare una difesa elastica alla tedesca? Ma vi si prestavano le nostre organizzazioni difensive? Vi si prestava il terreno? Si aveva la profondità necessaria, specialmente nel punto più minacciato, cioè in corrispondenza di Tolmino? Io non esito a rispondere negativamente... Inoltre, questo concetto della difesa elastica avrebbe reso possibile un successo iniziale del nemico... E noi non potevamo e non dovevamo permetterlo». Eppure, anche se la tattica era difettosa, anzi proprio per questo, era opportuno riportare la difesa dietro l'Isonzo. Secondo il generale Krafft, è quel che gli italiani avrebbero dovuto fare, conformemente alle esperienze della battaglia di Fiandra. Tanto più che non era necessario farlo con clamore: bastava sgombrare quel che si poteva dei mezzi e salvare tutti gli uomini, lasciando un velo di copertura che si sarebbe ritirato solamente dietro pressione nemica. Ha quindi ragione Albertini, quando fa giustizia delle preoccupazioni dei generali per l'opinione pubblica: «Non è pensabile inserire l'opinione pubblica a giudice delle necessità di provvedimenti richiesti da alte ragioni di salvezza nazionale... Bisognava quindi attuarlo [il ritiro] anche a costo di urtare l'opinione pubblica, la quale poi, se bene illuminata dalla stampa, l'avrebbe tollerato con vivo dolore ma con perfetta rassegnazione, provando anzi un senso di tranquillità». [Nota. Luigi Albertini, Venti anni di vita politica, (parte seconda): «L'Italia nella guerra mondiale», 3 voll., Zanichelli, Bologna, vol. III. Fine nota.] Ma, come ci dice Capello, nessun ripiegamento né difesa elastica, che del resto né lui né altri allora conoscevano a livello di sistema di combattimento. Il generale Amadei aveva, sì, prescritto - in data 22 ottobre - che i comandanti di battaglione si tenessero in pugno un nucleo, per fare colpi di mano sui fianchi del nemico, tanto più che «piccoli nuclei attivi trovano sempre modo di ritirarsi. Pensino piuttosto a prendere alle spalle il nemico che riesca ad avanzare.

Pensino che bastano talvolta 10 fucili che tirino alle spalle, per sgominare interi reparti nemici». Ma questi insegnamenti appartenevano tuttora a quei rudimenti primordiali della tattica flessibile, che nel 1917 cominciavano a farsi strada nel nostro esercito. E non era concepibile - 36 ore prima della battaglia - che simili esortazioni qualitative dell'ultimo momento potessero essere assorbite dai comandanti inferiori e dalle truppe. È tuttavia stupefacente che, quando gli austro-germanici fecero quello cui erano allenati e che i nostri generali incitavano a fare alla bell'e meglio, i nostri comandi si meravigliassero che 10 fucili - e magari una mitragliatrice - alle spalle riuscissero a «sgominare interi reparti», malauguratamente italiani. La soluzione adottata fu dunque quella della difesa sulla linea avanzata - dove era buona e dove era pessima -. E fu difesa statica. Anche nel suo ambito era tuttavia possibile ottenere qualcosa, in funzione dell'abilità e del colpo d'occhio dei comandanti di corpo d'armata. Il tenente generale Alberto Cavaciocchi, comandante del IV corpo d'armata che si trovò nell'occhio del ciclone, era un brav'uomo, che voleva bene ai soldati: ma ciò non lo rendeva un valente generale. Cadorna, che lo aveva in uggia, il 22 ottobre si allontanò dall'abboccamento con luì avuto a Creda sotto l'impressione che «alla sua indubbia intelligenza e alle distinte qualità di insegnante e scrittore militare non corrispondessero quelle dell'uomo d'azione». Dall'altro estremo della scala gerarchica, il tenente Carlo Emilio Gadda gli aveva attribuito qualità di ciuco, perché non si faceva mai vedere dai soldati. Un'idea più precisa delle sue attitudini di comando ce la possiamo fare sulla base delle sue memorie inedite e delle circolari, che egli diramò in vista della battaglia di Caporetto. Nelle prime egli cita il suo suggerimento - per assicurare le comunicazioni, nel caso che altri sistemi fossero venuti meno - di tentare mezzi acustici: erano trombette bitonali che - confessa Cavaciocchi - furono sopraffatte dall'immenso frastuono delle artiglierie. Ci voleva poco a intuirlo, se fosse vissuto più vicino alla linea del fuoco: Gadda aveva quindi ragione. E ciò s'accorda con un suo ordine del 19 settembre, in cui Cavaciocchi annunzia la probabilità di un'offensiva nemica: «Non ammetto per ragione alcuna la mancanza di notizie per interruzione delle comunicazioni», la cui conseguenza furono le trombette. E più

avanti: «Il posto degli ufficiali dei comandi in questo periodo non è negli uffici, è nelle trincee ad osservare, a suggerire, a coordinare». Non «in questo periodo», ma sempre questo avrebbe dovuto essere il dovere degli ufficiali dei comandi. E lascia interdetti il tono di bonaria esortazione, con cui ciò è ordinato. Il 14 ottobre Cavaciocchi riunì in conferenza i suoi divisionari e altri ufficiali, lasciandosi andare ad alcune bizzarrie: la linea Sleme-Mrzli era da lui definita «salda e ben munita di caverne», mentre nel tratto successivo dal Mrzli all'Isonzo, passando per i Molini di Gabrie, egli trovava che «l'ultima parte è molto solida e la prima molto migliorata... per la costruzione di nuove caverne». Eppure il generale Faldella le stesse linee le descrive nei termini seguenti: «Bisogna esserci stati, per rendersi conto di come fosse impossibile resistere, su questa linea, ad un attacco di notevoli forze... Dalle trincee nemiche rotolavano su quelle italiane sassi e talvolta scatole piene di escrementi, a scherno degli infelici che si logoravano a tenere una linea assurda, che non offriva riparo alcuno». [Nota. Emilio Faldella, Caporetto - Le vere cause di una tragedia, Cappelli, Bologna 1967. Fine nota.] E tutte le altre testimonianze (nonché l'esplorazione diretta) convalidano quella di Faldella. La linea Sleme-Mrzli-Gabrie fu sfondata in tre ore, benché Cavaciocchi avesse escluso che il nemico attaccasse lungo valle Isonzo verso Volarie «giacché sarebbe venuto a incunearsi fra i due capisaldi del Mrzli e di costa Raunza». Il nemico vi si incuneò invece con grandissimo successo. Cavaciocchi ricordò ancora l'importanza che «l'attimo dell'assalitore non sfuggisse»: non appena si allungava il tiro nemico, quello era il sintomo che le fanterie nemiche sarebbero uscite dalle trincee. Ma anche qui sbagliò, poiché molti reparti nemici non attesero che il tiro si allungasse, per balzar fuori dalle trincee: nella notte si spostarono silenziosamente sotto le trincee italiane, prima che iniziasse il tiro o durante il suo svolgimento (evidentemente fiduciose sulla sua precisione), per saltare addosso agli avversari appena il tiro si allungava; l'attimo fuggente era così ridotto a una frazione di secondo e gli italiani non potevano essere tanto fulminei. Una frase di Cavaciocchi è particolarmente rivelatrice: «I tedeschi non sono ora, né sono stati mai invincibili: sarà una combinazione, ma oggi è l'anniversario di Jena». Pazienza, ricordare la sconfitta subita a Jena nel 1806 dall'esercito prussiano a opera di Napoleone. Ma quale rilievo aveva che l'anniversario cadesse il giorno in cui Cavaciocchi teneva il

suo sermone? Forse che in quel giorno Cavaciocchi, novello Napoleone, si apprestava a sconfiggere gli austro-germanici? Se avesse parlato due giorni prima, avrebbe potuto ricordare che era l'anniversario della scoperta dell'America, opera imperitura di un italiano. Successivamente Cavaciocchi fu sfortunato. Alle 10 del mattino del 16 ottobre gli scoppiò un ascesso dentario e, poco dopo, un'eruzione sulla faccia gli gonfiò il viso in modo grottesco, talché non poteva parlare e fino al 19 si tenne fuori vista. Ma l'ascesso continuò a tormentarlo e la mattina del 22 dovette farsi estrarre due denti. In quella arrivò Cadorna, al quale Cavaciocchi nulla disse delle sue disavventure di salute, e il generalissimo lo trovò scosso e turbato, facendosi dell'uomo il giudizio citato sopra. Il sopravvenuto malore impedì a Cavaciocchi di presiedere la conferenza del 19 ottobre, tenuta in sua vece dal colonnello Boccacci, suo capo di stato maggiore, noto per il cartello «Alt per tutti! - veicoli a destra - taglio capelli», da lui fatto mettere sui confini «territoriali» del IV corpo: anche il capitano Sforza, del Comando Supremo, prima di conferire col Boccacci, dovette farsi tosare i già cortissimi capelli, sotto lo sguardo bonariamente compiaciuto del colonnello. Il comando della II armata aveva mandato istruzioni per la difesa del Krasji, e Boccacci così le riportò ai comandi dipendenti: «Il comando d'armata ha ordinato che nel caso sciagurato (noi dovremmo dire vergognoso), in cui il nemico si impadronisse della cresta Vrsic-Vrata-monte NeroKozliak, si provveda a contenerlo e a incapsularlo nella conca di Drezenca». Perché mai il capo di stato maggiore del IV corpo dava una sottolineatura retoricamente morale a un ordine che prevedeva una accidentale eventualità disgraziata? Era un modo di intimorire i comandanti in sottordine e svuotarli di quella scioltezza, che nello stesso tempo veniva predicata. Continuava Boccacci: «Curare l'istruzione della truppa. Con la pioggia, non si può stare molto all'aperto, ma nei luoghi chiusi si parli ai soldati». Nel frattempo le truppe germaniche, con vere maratone, sotto pioggia e neve, marciando di notte e mimetizzandosi di giorno, si avvicinavano alle linee di partenza. Davvero i soldati nostri venivano maltrattati a sproposito, ma poi ci si preoccupava che, nell'addestramento, non si bagnassero troppo, quasi che le battaglie si svolgessero sempre con cielo sereno.

Vale la pena di ricordare una circolare a firma Cavaciocchi, indirizzata il 23 ottobre alla 50a divisione: «Saldamente occupata deve essere la stretta di Saga...», perché tale ordine sensato sarà violato dal comandante della 50a divisione, dissenziente il comandante del IV corpo, con l'avallo a posteriori del comando d'armata. Come gli altri comandanti d'armata, anche Cavaciocchi fu molto angustiato dalla nevrotica e sussultoria attività manifestata da Capello negli ultimi giorni di respiro. Il 23 ottobre alle 16 Capello li riconvocò tutti a Cividale per una specie di ripasso generale. Nel riassunto della conferenza, riportato da tutti e anche dalla Storia Ufficiale, Capello avrebbe dichiarato: «Per sferrare l'attacco dopo 5 ore e mezzo di fuoco, le truppe [nemiche] devono essere molto serrate sulle prime linee. Noi terremo presente questa circostanza, per aprire un fuoco di contropreparazione sulle trincee di partenza e sulle zone di raccolta del nemico poco dopo iniziato il suo bombardamento...». Questo documento è sospetto, perché, come mi è stato gentilmente segnalato, [Nota. Lettera del signor F. Rivara a me diretta nel febbraio 1978. Fine nota.] è privo di firma e di numero di protocollo, benché la Storia Ufficiale lo riporti senza commenti. L'ipotesi è avvalorata da Cavaciocchi, che nelle sue memorie inedite afferma come i suoi appunti differiscano dalla versione ufficiale. Secondo lui Capello avrebbe dichiarato: «Poiché è probabile che il tiro nemico sia di breve durata, è necessario che il nostro tiro di sbarramento sia iniziato senza ritardo», [Nota. A. Cavaciocchi, Un anno al comando del IV corpo d'armata, opera inedita, una copia della quale è conservata presso il Museo del Risorgimento di Milano. Fine nota.] il che sembra più in armonia con l'ordine n. 846 art., emanato dalla II armata il giorno prima. Secondo Cavaciocchi il vezzo di dare ordini verbali aveva condotto Capello a far confusione tra contropreparazione e sbarramento. Egli a ogni modo non cambiò gli ordini: nelle parole di Capello aveva visto un misto di vanteria e leggerezza, e nessuna novità. Anche Caviglia, che comandava il XXIV corpo d'armata sulla Bainsizza, è reticente su tale punto, perché afferma che «l'idea [della contropreparazione] passò inosservata». Tuttavia, in base alle parole delle sue stesse Memorie, a Cavaciocchi si può muovere l'ulteriore appunto che ordinò che tutti i movimenti di truppe terminassero per le 5 del giorno dopo, benché si sapesse ormai con certezza che il tiro nemico a gas sarebbe cominciato quella stessa notte alle 2: egli

lasciava perciò che alcuni reparti fossero sorpresi dal tiro e a esso sottoposti per ben tre ore. Ma Cavaciocchi era onesto e non giustificò mai i suoi errori o le sue disavventure, accusando i soldati di viltà. Sostenne che i soldati si erano battuti valorosamente e avevano compiuto il loro dovere. Tale elemento, anzi, fu quasi portato a suo carico. Il XXVII corpo d'armata, su cui cadde la più tremenda mazzata austro-germanica, era comandato da Pietro Badoglio. Maggiore nel marzo 1915, ancora tenente colonnello nell'estate del 1916, il 12 maggio 1917, meno che quarantaseienne, era già stato messo al comando di un corpo d'armata: di soli tre anni più vecchio del più vecchio soldato semplice. Più fortunato di Cavaciocchi, aveva però una notevole competenza professionale, sebbene la sua competenza fosse stata aiutata dalla Provvidenza, che nel suo caso si chiamava «Capello». Era comunque uno di quegli ufficiali che, nello spazio di un mattino, da mille uomini era passato a comandarne centomila. Nel 1950 Badoglio pronunziò queste parole: «L'esercito italiano a Caporetto non era preparato né tecnicamente né materialmente né moralmente». Eppure, stranamente, lo stesso esercito dimostrò di esserlo, dimezzato, sul Piave e sul Grappa venti giorni dopo. Ma il 10 ottobre 1917, in un'adunanza generale dei suoi comandanti convocata alle 9 del mattino, Badoglio si mostrò sicurissimo della preparazione materiale e morale delle truppe, dichiarandosi lieto che gli austriaci avessero scelto il settore del suo corpo d'armata, per compiere il maggiore sforzo. Aggiunse poi con notevole presunzione: «Mi si perdoni il sentimento di orgoglio di essere certo come li ho snidati dal Sabotino e dal Kuk li ricaccerò dalla fronte del XXVII corpo» (e qui c'è intinto un pizzico dell'idea controffensiva cara a Capello). Quanto ai tedeschi: «Essi vedranno cosa significhi sferrare un'offensiva... attaccando le nostre posizioni». Ma, oltre a tali vanterie, nella riunione si dilungò moltissimo - con grande competenza teorica e scarso senso pratico - sulle posizioni e sulle loro difese. Non mancò tuttavia la nota stonata: «Più indietro si sta organizzando una linea di difesa a oltranza, meglio detta seconda linea perché anche sulla prima linea la difesa dovrà essere a oltranza». Con tale lezione di analfabetismo si distruggeva la definizione del preciso significato delle due linee, per sostituirvi la retorica. Parlò anche della difesa del Krad Vrh, cioè del

tratto che dai costoni meridionali dello Jeza andava all'Isonzo: disse di volervi mettere il V gruppo alpini del colonnello Magliano. Ma alle 13,30 inviava un fonogramma urgente al comando d'armata, chiedendo di affidarne la difesa al X gruppo, che in quel momento si trovava sull'alta Bainsizza, scambiandolo col V: e nei giorni successivi ne vennero gravi inconvenienti. Da quanto detto da Badoglio in tale occasione emerge anche un mistero. A più riprese, in tale conferenza come nel fonogramma n. 2683 op. delle ore 14 dello stesso giorno, Badoglio nomina il XXVIII corpo, allora comandato dal generale Albricci, come corresponsabile della difesa delle spalle del XXVII. Successivamente il XXVIII corpo sparisce dalla documentazione e dalla Storia Ufficiale, per ricomparire, con altro comandante, altre divisioni, altri reggimenti, in piena battaglia, 15 giorni dopo. La responsabilità di questa sparizione, evidentemente da attribuire a Capello o Montuori, non è mai stata enucleata, mentre i documenti che la chiarirebbero esistono certamente nell'Archivio dell'Ufficio storico dello stato maggiore. Un altro malvezzo, non del solo Badoglio ma di quasi tutti i suoi colleghi, consisteva nel trasmettere ai comandi inferiori, con proprio numero di protocollo, direttive che erano state inviate ai comandi di corpo d'armata dal comando d'armata. Nel caso della circolare della II armata n. 5837 del 10 ottobre, a firma Montuori, sostituto di Capello, essa da Badoglio non viene diffusa per conoscenza ai comandi inferiori quale ordine del comando d'armata, ma in data 12 ottobre è ricopiata pari pari, cambiando il numero di protocollo (che diventa il 2728 di prot. op.), esclusa la frase finale: «Desidero assicurazione». Quale assicurazione avrà voluto il comando d'armata? Non certo che si facesse del volantinaggio a pro' dei comandi inferiori, ma che l'ordine venisse adattato alle necessità del particolare settore, poiché i problemi di ogni corpo d'armata erano diversi. E invece no! Tutto eguale compresa la frase famigerata: «La responsabilità dell'uscita tempestiva dai ripari è affidata ai comandanti di battaglione, e più ancora, ai comandanti di compagnia e di plotone. Sotto il bombardamento avversario spetta ad essi di vigilare con freddezza virile perché non sfugga l'istante di crisi che attraversa l'avversario tra l'allungamento e lo spostamento del tiro e il sopraggiungere della prima ondata. La decisione fulminea in quell'istante decide le sorti dell'attacco». Il povero Cavaciocchi, col suo n. 5898 di prot. Po. ma.

dell'11 ottobre, parafrasando l'ordine di Montuori, aveva almeno aggiunto qualche frase esplicativa. Dopo la «freddezza virile», da lui trasformata in «calma virile», aveva aggiunto: «Occorre a tale uopo una acconcia preparazione morale e tecnica di ufficiali e truppe, che intendo sia condotta colla massima alacrità in modo che, all'occorrenza, possa dare i suoi utili effetti». Su Badoglio è a lungo aleggiata la diceria di avere organizzato la «trappola di Volzana», di aver cioè lasciato entrare a bella posta il nemico in fondovalle Isonzo, sperando poi di chiudere la saracinesca e massacrarli con la sua artiglieria agente sui fianchi. Sarebbe stata una trappola puerile, ma le testimonianze che la alimentarono non sono prive di autorevolezza. Il generale Krafft la dà per scontata. Alle 18 del 25 ottobre truppe tedesche sbaragliarono una formazione italiana, che aveva contrattaccato a Luico, catturando molti prigionieri: «Gli ufficiali italiani [prigionieri] dichiararono che il Comando Supremo italiano aveva lanciato verso la sella di Luico una formazione mista, composta da 2 reggimenti bersaglieri, 2 batterie di bombarde, 1 di obici e 1 di pezzi da montagna, allo scopo di arrestare l'offensiva e quindi contrattaccare verso la vallata dell'Isonzo. Le truppe erano state trasferite a Luico mediante autocarri. Il generale Badoglio, comandante in questo settore, le aveva poi impiegate secondo un piano preparato per attirare l'assalitore in una trappola: il valore e la tenacia incomparabili degli uomini del maggiore Eichholtz avevano completamente scombussolato il suo progetto». Un altro testimone, diretto e ante litteram, è Alberto Cavaciocchi. Nelle sue memorie egli narra che il 12 ottobre, recatosi dal generale Montuori, vi trovò Badoglio: si misero a discutere davanti a un plastico, quando Montuori fu chiamato fuori da Egidi, suo capo di stato maggiore, per firmare alcune carte. Per non lasciare cadere la conversazione, Badoglio espose il suo piano: lasciare un velo di truppe nel tratto Volzana-Cigini, fare avanzare il nemico in val Kamenka lungo costa Raunza, dare ordine all'artiglieria di non sparare fino a che il nemico non si fosse bene impigliato nei reticolati, indi sopraffarlo col fuoco e col contrattacco. Rientrato Montuori, tornarono ai discorsi di prima. Ma tale piano di Badoglio - osserva Cavaciocchi - non era in armonia con l'ordine n. 5845, diramato il giorno prima dal comando d'armata a firma Montuori. Tale ordine prescriveva, tra l'altro, il momento d'inizio del fuoco d'artiglieria, non appena principiava quello nemico. Era la

traduzione, imperfetta, della «contropreparazione» ordinata da Cadorna il giorno 10. Badoglio, per parte sua, ritardò molto a emanare ordine analogo, che Cavaciocchi aveva invece diramato lo stesso giorno 11. L'ordine di Badoglio, per mezzo secolo citato a pezzi e bocconi e dato da molti per apocrifo, fu poi pubblicato dalla Storia Ufficiale con le prove irrefutabili della sua diramazione, che avvenne fra le 16,15 e le 17,30 del 22 ottobre, giungendo a tutti i destinatari salvo che al X gruppo alpini, il quale stava ancora trasferendosi sul Krad Vrh dalla sinistra dell'Isonzo (cosa che la Storia Ufficiale non mette in rilievo). In tale ordine si prescrivevano le modalità del fuoco di artiglieria, secondo quanto ordinato dall’armata il giorno prima. Perché dunque non venne diramato l'ordine dell'11 ottobre, ma solo quello del 22? L'ipotesi più verosimile - pur se alquanto maliziosa - è che la trappola di Volzana Badoglio l'avesse effettivamente tenuta in sospeso, ma che all'ultimo momento non ne fece nulla, di fronte a precisi ordini dell'armata. Si tratta quindi realmente di una «leggenda», perché non è ammissibile fare il processo alle intenzioni. All'ultimo momento, tuttavia, Badoglio ne combinava una diversa: dislocava la brigata Napoli secondo sue particolari vedute, che non coincidevano presumibilmente con quelle del comando d'armata (benché quest'ultimo diramasse spesso ordini, che avevano il sapore degli oracoli della sibilla cumana). Ma - e ciò è grave - a quest'ultimo assicurava il giorno 23 che «la brigata Napoli, ritornata alle dipendenze del XXVII corpo d'armata, si è dislocata fra monte Plezia e l'osteria di Foni», mentre non lì la Napoli era stata dislocata, ma in posizione molto più arretrata. E poi c'era il maggior generale Luigi Bongiovanni, comandante del VII corpo d'armata, dislocato il 18 ottobre dietro il IV e il XXVII con una molteplicità di compiti, da far venire i brividi. Glieli aveva dettati Capello, prima di allontanarsi per Padova: sorreggere le difese avanzate, mettersi a saldatura delle ali interne dei due corpi di prima linea, guarnire la seconda posizione dal Matajur al Kolovrat e manovrare controffensivamente al momento opportuno. Dopo la sua permanenza in Germania come addetto militare col grado di tenente colonnello, anche Bongiovanni aveva fatto carriera. Nella primavera del 1917 già comandava la 3a divisione e il 7 ottobre prendeva il comando del VII corpo d'armata. Badoglio non lo stimava e

lo definiva «un addormentato». [Nota. Memoriale Sforza, inedito. Tale memoriale, in parte pubblicato su «L'astrolabio», cit., fu a me dato dal generale Alessandro Sforza (nel 1917 capitano addetto al generale Badoglio) qualche anno prima della sua morte. Esso venne compilato alla fine del 1918 e non è privo di inesattezze, cosicché il suo contenuto va attentamente vagliato ai fini dell'attendibilità. Tuttavia il giudizio su Bongiovanni, slegato da date e fatti specifici, mi ha l'aria di essere assolutamente autentico. Fine nota.] Quando seppe di averlo vicino col VII corpo, andò su tutte le furie: «Quel brav'uomo è stato due anni addetto all'esercito tedesco, ha visto gente, non ha capito niente e non val niente». Effettivamente Bongiovanni se la prese calma. Gli cambiarono le truppe a velocità frenetica, senza suscitare alcuna sua reazione. Nel primo pomeriggio del 23 ottobre, di fronte a Cadorna egli si associò a Badoglio nel dare le più ampie assicurazioni che il nemico non sarebbe passato: eppure, delle sue divisioni, una l'aveva vista solo qualche giorno prima e l'altra mai, perché stava arrivandogli in quel momento da Bassano. Due ore dopo, allorché Capello tenne l'ultima riunione, Bongiovanni chiese artiglierie per la difesa della linea Matajur-Kolovrat. E Capello, che poco prima aveva affermato che il tempo, nonché stringere, mancava del tutto, diede disposizioni perché il giorno seguente avessero inizio ricognizioni da parte di comandi di batterie da montagna e da campagna, da destinare eventualmente a tale compito. Il giorno dopo - in piena convulsione - Bongiovanni si comportò come se la battaglia non lo riguardasse, lo disse anzi esplicitamente alla Commissione d'inchiesta: «Tutta la regione dallo Zagradan (compreso) all'Isonzo era di competenza di altro corpo d'armata». [Nota. G. Del Bianco, La guerra e il Friuli, cit., p. 60; tale dichiarazione fu pubblicata per la prima volta nella relazione della Commissione d'inchiesta per Caporetto. Fine nota.] A queste parole si contrappongano le istruzioni che von Below diede ai suoi uomini: «Tutti i reparti devono puntare in avanti e marciare senza tener conto delle formazioni regolamentari e senza preoccuparsi dei collegamenti. Essi dovranno superare i confini delle loro normali zone d'azione, tutte le volte che, operando in questo modo, potranno favorire l'avanzata». Ma Bongiovanni fu fortunato: nel 1918 divenne capo di tutta l'aviazione dell'esercito italiano.

Capitolo XIV LA CONFUSIONE DELLE FANTERIE Fotografando lo schieramento nel momento in cui scattò l'offensiva austro-germanica, le truppe italiane si snodavano dal monte Rombon (la cui vetta era in mano austriaca) giù davanti a Plezzo fino all'Isonzo, nel punto in cui riceve il torrente Slatenik, che bordeggiavano fino al «vallone dei Caprioli». Questo tratto di fronte era presidiato dalla 50a divisione del generale Arrighi. Più oltre, fino al monte Rosso, al generale Farisoglio era affidato il comando della 43a divisione. La 46a, del generale Amadei, andava dal monte Rosso nuovamente all'Isonzo davanti a Gabrie. Queste tre divisioni appartenevano al IV corpo, che ne aveva di riserva una quarta, la 34a del generale Basso, il cui comando risiedeva a Caporetto. [Nota. Tutte le notizie sullo schieramento italiano sono tratte dalla Storia Uff., vol. IV, che è ricca di schizzi e cartine. C'è però da lamentare che non tutte le località nominate siano reperibili. Fine nota.] Al di là dell'Isonzo la difesa era di competenza del XXVII corpo d'armata che, contro la nemica testa di ponte di Tolmino, schierava la 19a divisione del generale Villani. Questa si dipartiva dall'Isonzo, che sfiorava per qualche chilometro, per poi piegare a sud, inglobando le rovine dei villaggi di San Daniele e Volzana, indi le posizioni di Cigini, Cemponi e Scuole Rute. Da Scuole Rute iniziava la responsabilità del X gruppo alpini, trincerato davanti al Krad Vrh e al Cukli Vrh, finché il fronte riprecipitava perpendicolarmente nell'Isonzo fra Doblar (in mano italiana) e Selo (in mano austriaca). Tra l'Isonzo e l'alta valle dello Judrio (affluente del Torre, che a sua volta si getta nell'Isonzo) era schierata in riserva di corpo d'armata, a difesa del Globokak, la brigata Puglie. In seconda posizione era schierato il VII corpo d'armata (3a divisione del generale Negri di Lamporo e 62a del generale Viora), occupando la catena montuosa del Kolovrat, che si snoda sulla destra dell'Isonzo, parallela al suo corso da cui dista 3 o 4 chilometri. Tutte quelle sopra elencate furono le truppe coinvolte nell'attacco della XIV armata mista, comandata dal generale von Below. Il XXVII corpo aveva altre 3 piccole divisioni (65a, 22a e 64a), che si staccavano dalla riva sinistra dell'Isonzo, per inoltrarsi nell'alta Bainsizza, dove presso Koprivsce si saldavano al XXIV corpo d'armata del generale Caviglia.

Escluse queste tre ultime divisioni, le fanterie delle altre 7, nonché del X alpini e della brigata Puglie, totalizzavano 112 battaglioni che, se a piena forza, avrebbero dovuto contare circa 80.000 uomini. La memorialistica italiana tende a generalizzare la incompletezza di molte formazioni, ma dal numero dei prigionieri catturati dal nemico si deduce che non sempre ciò era vero, era anzi più l'eccezione che la regola. La maggior parte dei reparti erano cioè formalmente al completo, nel modo però che si è descritto: rimpinzati col frutto degli ultimi «rastrellamenti» fra gli imboscati, i convalescenti e gli inabili. La classe 1899 - 200.000 effettivi - era infatti gelosamente (e giustamente) custodita per la primavera successiva. Gli 80.000 uomini di cui sopra appartenevano a battaglioni variamente decimati nel corso del 1917, sì che da metà maggio al 24 ottobre essi avevano perso circa 42.000 uomini, cioè più del 50 per cento degli effettivi, sostituiti con altrettanti nuovi arrivati. Ma la falcidia non era stata uniforme e, accanto a formazioni relativamente risparmiate, se ne affiancavano altre arcidistrutte, rendendo disomogeneo il valore dei singoli battaglioni e diversa la loro saldezza di nervi. Delle fanterie del IV corpo (55 battaglioni, cioè 40.000 uomini a piena forza) dalla primavera ne erano andati complessivamente perduti 10.000-11.000, ma in modo assai diseguale. Della 50a divisione aveva subito notevoli perdite il gruppo alpini Rombon (battaglioni Dronero, San Dalmazzo e Saluzzo) e modeste la brigata Friuli (87° e 88° reggimento fanteria). Fra i battaglioni del II alpini (Ceva, Mondovì, Monviso e Argentera) i primi due erano stati massacrati sull'Ortigara. La 43a divisione era stata la più risparmiata, poiché la brigata Genova (97° e 98° rgf.) e il 223° della Etna, in zona da molti mesi, non erano stati impegnati in azioni di rilievo, subendo solo lo stillicidio quotidiano. Il V alpini (battaglioni Albergian, Valchisone e Belluno) aveva perso alquanto sulla Bainsizza, ma nessuno di essi era stato impiegato sull'Ortigara. In complesso le formazioni, che il 24 ottobre componevano la 43a divisione, dall'inizio dell'anno avevano perso probabilmente 1200 uomini, pur sempre il 15 per cento della forza. Nella 46a divisione (224° della Etna e le brigate Caltanissetta - 147° e 148° - e Alessandria - 155° e 156° -), le due ultime il 19 e 20 agosto avevano partecipato a un'azione dimostrativa nel quadro

dell'undicesima battaglia dell'Isonzo, perdendo in quella sola azione 2200 uomini. La peggio sistemata era la 34a divisione. La sua brigata Foggia su 9 battaglioni (280°, 281° e 282° fanteria), quindi con una forza presunta di 6600 uomini, era stata costituita - ultima fra le brigate italiane - il 15 luglio 1917 ed era entrata traumaticamente in combattimento l'8 settembre sotto il San Gabriele, dove in 4 giorni aveva perduto 3057 uomini. In soli tre mesi, tenendo conto dello stillicidio, si era quindi dimezzata, ed era poi stata riportata a pieno, come si desume dalle perdite subite nel ripiegamento. Quanto alle riserve di corpo d'armata - 2° e 9° reggimento bersaglieri - il primo, sempre in zona, aveva avuto perdite modeste dall'inizio dell'anno, mentre il 9°, impegnato nella battaglia dell'Ortigara con la 29a e poi con la 52a divisione, aveva visto, in quell'occasione, la sua forza ridotta a un terzo. Va poi tenuto presente che il comando del corpo d'armata, oltre al 2° e al 9° bersaglieri, aveva ipotecato l'intera 34a divisione (che non ebbe autonomia operativa, ma funzionò pessimamente da serbatoio di rinforzi) e alcuni battaglioni alpini, solo amministrativamente assegnati alle altre 3 divisioni. In complesso, su 55 battaglioni, ben 17 erano vincolati dal corpo d'armata, frantumando e sminuzzando la responsabilità del comando. Ma v'è di peggio. Il 19 agosto, all'inizio dell'undicesima battaglia dell'Isonzo, il IV corpo era risultato costituito dalla 50a divisione (gruppo alpini Rombon e brigata Friuli), dalla 43a (brigata Genova e 223° della Etna), dalla 46a (224° della Etna, Caltanissetta e Alessandria) e dal 2° bersaglieri, per un totale di 36 battaglioni. Poiché l'ordine di «difesa a oltranza» emanato da Cadorna il 18 settembre era slegato dai preparativi offensivi del nemico, di cui a quell'epoca non poteva tener conto, al IV corpo i rinforzi giunsero con molto ritardo Solo il 9 ottobre al IV corpo venne assegnato il 9° bersaglieri, ma il 18 i due reggimenti bersaglieri gli vennero strappati, per essere trasferiti al neocostituito VII corpo d'armata. Il 19 giunse però il V alpini, prelevato in parte dal XXVIII corpo d'armata (Albergian), in parte dal XXVII (Belluno e Valchisone), in base a un ordine emanato il 16. Il 20 i due reggimenti bersaglieri furono restituiti al IV corpo, che il 21 ricevette il II alpini. Il 22 partì l'ordine per l'assegnazione della Foggia, che giunse in zona - ancora incompleta - il 23, contemporaneamente al comando della 34a divisione, che doveva inquadrare

amministrativamente sia la Foggia che i due reggimenti bersaglieri, tutte truppe che non aveva mai visto. In conclusione la forza del IV corpo ebbe le seguenti vicissitudini: 19 agosto 36 btg.; 9 ottobre 39; 18 ottobre 33; 19 ottobre 36; 20 ottobre 42; 21 ottobre 46; 23 ottobre 55. Pratici della zona erano solo 33 battaglioni, 22 arrivarono negli ultimi quattro giorni e vagarono raminghi, prima di trovare la sistemazione, nella quale furono sorpresi dall'offensiva nemica. Del XXVII corpo d'armata, riferiremo le vicissitudini delle truppe che il 24 ottobre si trovavano sulla destra dell'Isonzo. Alla vigilia della Bainsizza la 19a divisione includeva la Spezia (125° e 126° rgf.), che era lì dall'inizio dell'anno e vi aveva perso solo 300 uomini. L'altra brigata, la Napoli (75° e 76°) ne aveva persi 900 sulla Bainsizza. Essa era stata successivamente tolta alla 19a divisione, che aveva ricevuto la Taro (207° e 208°), fortemente dissanguata avendo perso, dal 19 agosto, 1942 uomini. Dalla stessa data 900 ne aveva persi il X alpini (battaglioni Vicenza, Morbegno, Monte Berico e Val d'Adige). La più tartassata era stata la brigata Puglie: aveva perso 2800 uomini nella decima battaglia e un altro migliaio nella undicesima. Complessivamente i 27 battaglioni del XXVII corpo gravitanti sulla destra dell'Isonzo (contro i 22 dislocati sulla sinistra), su un totale di fanterie inferiore a 20.000 uomini, ne avevano persi almeno 11.000 nei pochi mesi precedenti, cioè il 55 per cento della forza. Quanto ai movimenti di truppe, la Napoli, che era stata spostata sulla sinistra dell'Isonzo, tornò sulla destra il 10 ottobre. Il giorno 12 la difesa del Krad Vrh fu assegnata a due battaglioni del V alpini. Ma il 19 la Napoli fu passata al VII corpo e i due battaglioni del Krad Vrh andarono al IV corpo, sostituiti frettolosamente da due battaglioni della Spezia. Ma il 22 il XXVII corpo si vide restituire la Napoli e trasportò il X gruppo alpini sulla destra dell'Isonzo, mandandolo sul Krad Vrh, dove esso si distese il giorno 23, eccetto il Val d'Adige, che fu destinato a riserva divisionale. Le truppe che si avvicendarono alla difesa dell'importantissima posizione del Krad Vrh furono quindi le seguenti: fino al 12 ottobre truppe della brigata Spezia, dal 12 al 19 il V alpini, dal 19 al 23 nuovamente la Spezia e dal 23 al 24 il X alpini. Il 22 il comando d'armata poi, con grave leggerezza, mutò i confini territoriali

di difesa, sottraendo la responsabilità del tratto monte Plezia-FoniIsonzo al IV corpo, per trasferirla al XXVII. Il corpo d'armata più raffazzonato era però il VII, costituito appena il 18 ottobre. In tale data a esso furono assegnate la 3a divisione, la brigata Napoli e il 2° e il 9° reggimento bersaglieri. Il 21 i reggimenti bersaglieri gli furono sottratti e al loro posto inviata la brigata Foggia. Ma il 22 sia la Napoli che la Foggia furono tolte di lì e rimpiazzate con la 62a divisione. Questa si trovava in Trentino e il 22 fu fatta partire da Bassano per Cividale con treni che si susseguirono senza tregua. Da Cividale i fanti vennero avviati a piedi verso Savogna, che raggiunsero la sera. Il mattino del 24, a battaglia già cominciata, stavano ancora schierandosi sul Matajur e intorno a Luico, un settore che non avevano mai visto: né, come i tedeschi, erano muniti - ogni caposquadra - di carte topografiche multicolori. La zona, dove non era priva di trincee, ne aveva di antiquate, risalenti al 1915, molte franate, e comunque costruite con criteri non più rispondenti alle mutate condizioni dell'armamento. Non mancavano le complicazioni personali: il maggior generale Bongiovanni, che aveva comandato la 3a divisione, si trovava ora alla testa del VII corpo, avendo sotto di sé, al comando della 3a, il tenente generale Negri di Lamporo, che gli era superiore di grado e che aveva comandato il XXII corpo all'Ortigara e il XXX nell'undicesima battaglia dell'Isonzo. La 3a divisione era composta dalle brigate Firenze (127°-128°), Arno (213°-214°) ed Elba (261°-262°). Nella decima battaglia dell'Isonzo la Firenze, dal 14 al 16 maggio, aveva perso 1850 uomini. Altri 1260 ne perse sulla Bainsizza dalla fine di agosto ai primi di settembre. La Arno aveva perso 1500 uomini sull'Ortigara, la Elba 1260 sul Vodice e sulla Bainsizza. Sia la Arno che la Elba vennero successivamente coinvolte nel sanguinario assalto al San Gabriele, rimettendoci insieme quasi 5000 uomini. Complessivamente, su meno di 15.000 effettivi di fanteria della 3a divisione, ne erano andati perduti, includendovi il normale «consumo» dei periodi di morta, buoni 11.000: non erano certo «truppe fresche». Quanto alla 62a, essa era composta dalla brigata Salerno (89° e 90°) e 4a bersaglieri (14° e 20°). La Salerno era stata letteralmente stritolata: in soli 3 giorni, dal 24 al 26 maggio, sul Carso aveva perso più di metà degli effettivi e altri 3000 uomini aveva perduto dal 17 agosto al 13 settembre. In soli 4 mesi, essa si era dunque «rinnovata» una

volta e mezza. Meno logori erano i bersaglieri della 4a brigata, che all'Ortigara ci aveva partecipato solo di striscio. Complessivamente i 30 battaglioni del VII corpo, che a piena forza contavano 21.000 o 22.000 uomini, ne avevano perduti pressoché altrettanti nei cinque mesi precedenti, al ritmo medio del 20 per cento al mese. Come riferimento si consideri che sul più sanguinoso fronte della seconda guerra mondiale - quello russo-tedesco - le perdite medie mensili risultarono del 5,5 per cento per i tedeschi e del 12,5 per cento per i sovietici.

Capitolo XV LA CONFUSIONE DELLE ARTIGLIERIE Il collasso dell'artiglieria italiana il 24 ottobre 1917 è considerato, nel quadro della battaglia di Caporetto, un fenomeno a sé stante, mentre esso è solo una delle molte manifestazioni di impreparazione alla battaglia difensiva da parte dei nostri comandi. Durante tutta la fase di preparazione fu un susseguirsi frenetico di ordini, contrordini e disordini. Gli è che l'artiglieria italiana, tecnicamente poderosa, in fatto di addestramento era carente quanto la fanteria. Ma nell'artiglieria tale carenza era mascherata dalla appariscente valentìa tecnica, che nascondeva l'incompetenza tattica, cioè - in difensiva - la capacità riflessa di sostenere la fanteria. Certo è un fatto inaudito che «nella regolamentazione in vigore scarsissimo sviluppo aveva... l'azione dell'artiglieria nella difensiva; e, circa lo schieramento delle masse di artiglieria, nessuna differenza si faceva fra offensiva e difensiva; in entrambe le situazioni era prescritto che le batterie venissero spinte il più avanti possibile, per sfruttare al massimo la gittata utile». È il colmo - dico -, perché in tutte le offensive dell'Isonzo noi al nemico avevamo potuto agguantare ben pochi cannoni, proprio per lo schieramento efficace, ma prudente, della sua artiglieria. Era inoltre sconsigliato, come poco redditizio, il tiro di controbatteria, cioè il tiro mirato contro i pezzi avversari, che comportava indubbiamente un grande consumo di munizioni. Eppure la dotazione dei piccoli calibri italiani superava i 2500 colpi per pezzo e anche la Storia Ufficiale cita dotazioni, per gli altri calibri, nettamente superiori a quelle nemiche: in quei mesi la produzione italiana si aggirava sui 60.000-70.000 proiettili al giorno. Il 18 settembre 1917 il generale Cadorna, prescrivendo il passaggio alla difensiva strategica, aveva invitato Capello e il duca d'Aosta a predisporre, fin d'allora, il nuovo schieramento delle artiglierie. Egli presupponeva quindi che il precedente non fosse più adeguato ai suoi mutati voleri, usando però un linguaggio conversazionale, senza rifarsi alla solita lunga lista di circolari, segno che - se c'erano - erano in numero molto limitato. Il 10 ottobre egli ordinava però a Capello che sulla Bainsizza venissero lasciati solo i medi calibri più mobili e che anche per essi, «in dannata ipotesi», fosse predisposto il ripiegamento. Questa frase non si presta a equivoci: Cadorna ammetteva l'ipotesi, sia

pure «dannata», di abbandonare la Bainsizza. E invece sulla Bainsizza, fra Selo e Salcano, il 24 ottobre erano schierati ben 320 pezzi di medio calibro. Nello stesso ordine Cadorna prescriveva che «durante il tiro di bombardamento nemico... sia sferrata una violentissima contropreparazione nostra», condotta con i medi e grossi calibri. Le due frasi precedenti, che Cadorna afferma essere contraddittorie solo in apparenza, [Nota. Cadorna e Capello polemizzarono abbastanza garbatamente nei loro scritti. La posizione di Cadorna è da lui stesso illustrata in: L. Cadorna, Pagine polemiche, cit. Fine nota.] ma che una certa contraddizione la contenevano, alimentarono nel generale Capello la speranza del contrattacco in grandissimo stile («controffensiva dalla compagnia all'armata»), quasi contemporaneo all'offensiva nemica. Il che, agli effetti dell'artiglieria, ebbe come conclusione che, nella II armata, il suo schieramento non venne praticamente modificato, rimase cioè spiccatamente offensivo: i piccoli calibri quasi addossati alle trincee, i medi a due o tre chilometri dalle prime linee. Tale schieramento «concettualmente» errato - sostiene la nostra Storia Ufficiale - si sarebbe potuto tuttavia risolvere in un insperato vantaggio: «Il non disposto ed eccessivo ardimento dello schieramento avrebbe consentito grande efficacia di fuoco... Si sarebbe potuto cogliere uno strepitoso successo, proprio sfruttando gli errori e gli inconvenienti nei quali si era caduti». Se neppure si seppe sfruttare l'errore - continua la Storia -, ciò dipese da ulteriori fattori. E con la Storia Ufficiale concordano - prima e dopo - coloro che si sono occupati di Caporetto. In realtà la tesi non è sostenibile. La penetrazione tedesca lungo l'Isonzo da Tolmino a Caporetto tagliò in due lo schieramento dell'artiglieria italiana, e ogni cannone oltre l'Isonzo (almeno 400 pezzi) si trovò a dover decidere fra due obbiettivi diversamente mobili: le truppe nemiche che sfilavano lungo il fondovalle Isonzo, e quelle che attaccavano frontalmente dai picchi del bacino del monte Nero. La risoluzione di questo dubbio richiedeva una elasticità di comando, assolutamente impensabile nell'esercito italiano. Certo, in una bella giornata di giugno, se gli austro-germanici avessero attaccato nel pomeriggio, col sole negli occhi, la cosa sarebbe potuta forse accadere. Questo ci riporta alla mancanza di un controdisegno italiano, strettamente connesso con l'impiego dell'artiglieria. Dal mattino del 21 ottobre, per opera di due ufficiali disertori di nazionalità romena, si

seppe persino il comportamento di quella avversaria: per quattro ore, dalle 2, tiro a gas soffocanti e lacrimogeni; e, dopo una breve sospensione, fuoco di distruzione per 90 minuti. Le prime quattro ore avevano finalità di controbatteria: i gas, ormai, non uccidevano più molti uomini, ma costringevano i serventi dei cannoni a infilarsi la maschera, rendendo impacciati e faticosi i movimenti. Gli ultimi 90 minuti erano invece destinati alle trincee, ai ricoveri dei rincalzi, ai comandi, ai nodi stradali e alla rete di telecomunicazioni. Si mirava insomma a paralizzare i difensori non solo fisicamente, ma anche attraverso la decomposizione del sistema di comando, specialmente mediante il collasso delle comunicazioni. Questa seconda tornata di tiro, per i tedeschi, era fin troppo lunga: meglio sarebbe stato accorciarla e intensificarla. Furono gli austro-ungarici, non abituati a preparazioni fulminee, ad insistere per la durata convenuta, che poi von Below fissò nei suoi ordini. Per riassumere, in contrapposizione all'ordine di Cadorna, chiaro e preciso, sulla contropreparazione, nei giorni successivi, attraverso le riunioni, i verbali e le circolari della II armata, dei corpi d'armata e delle divisioni dipendenti, gli ordini alle batterie arrivarono oscuri e di difficilissima esecuzione. Ecco la sequenza della progressiva amplificazione della nebulosità: - Comando Supremo (Cadorna), n. 4741 di prot. C.M. in data 10 ottobre 1917: «Durante il tiro di bombardamento nemico, oltre ai tiri sulle località di affluenza e di raccolta delle truppe, sulle sedi dei comandi e degli osservatori ecc., si svolga una violentissima contropreparazione nostra... Occorre, in una parola, disorganizzare e annientare l'attacco ancor prima che si sferri...». - Comando II armata (Montuori), n. 5845 Op. di prot. in data 11 ottobre 1917: «[I comandi di corpo d'armata] dovranno disporre che tali zone [quelle più probabili di partenza delle truppe nemiche] siano battute violentemente fin dall'inizio del bombardamento nemico, per soffocare fin dalla sua preparazione lo scatto delle fanterie avversarie, schiacciandole nelle loro stesse trincee di partenza, prima ancora, cioè, che il loro attacco riesca ad essere sferrato».

- Comando del IV corpo d'armata, n. 5901 Op. C. in data 11 ottobre 1917: Parafrasa Montuori, senza modificare i concetti. - Comando del XXVII corpo d'armata: L'ordine di Montuori non viene richiamato. Nella conferenza del 10 ottobre (cioè prima dell'ordine di Cadorna), riassunta nel n. 2693 Op. di prot. Badoglio accenna ad azioni di disturbo della nostra artiglieria. Nel n. 5277 Op. di prot. dell'11 ottobre e nel n. 2727 di prot. Po. del 12 si accenna all'artiglieria, senza prescrivere alcuna disciplina di fuoco. Quando, il 20 e 21, dalle deposizioni di quattro disertori, di cui 3 ufficiali, si conobbero con precisione le modalità d'impiego dell'artiglieria nemica, senza ancora conoscere il giorno esatto dell'attacco, vennero emanati i seguenti ordini: - Comando II armata (Montuori), n. 846 Art. del 22 ottobre 1917: «Sembra ormai quasi sicuro che in caso di attacco il nemico farà sulle nostre trincee di 1a linea un tiro di distruzione molto breve - tra una o due ore -. ... Appena egli incomincerà il tiro, i medi calibri nostri e le bombarde devono immediatamente iniziare tiro violento sulle linee nemiche... Contemporaneamente i piccoli calibri e i medi calibri a tiro rapido si preparino ad iniziare il tiro di sbarramento che dovrà essere istantaneamente scattato al primo cenno o della fanteria o degli osservatori o di loro iniziativa non appena abbiano sentore di movimento nemico». - Comando del XXVII corpo d'armata, n. 3267 di prot, op. in data 22 ottobre 1917: «... al tiro a gas fatto dal nemico seguirà un tiro di distruzione di non lunga durata. All'inizio di questo tiro di distruzione le nostre batterie di grosso e medio calibro dovranno intervenire battendo le trincee e i luoghi di raccolta del nemico... Le artiglierie divisionali dovranno in questo periodo non far fuoco... Esse dovranno invece intervenire fulmineamente non appena segnalata l'avanzata delle fanterie nemiche...». - Comando IV corpo d'armata. Dal diario, in data 22 ottobre, si segnala la lettera n. 6130 op. B, in cui si danno ordini e direttive anche sull'impiego delle artiglierie. Le disposizioni del generale Fadini, comandante dell'artiglieria del IV corpo, avevano imposto che alle 1,30 i serventi alle batterie si applicassero la maschera e, per il resto, ripetevano le disposizioni del XXVII.

- Conferenza di Capello (non protocollata) alle ore 16 del 23 ottobre 1917: «Sembra accertato che il nemico dopo quattro ore di tiro a gas asfissiante esegua un'ora e mezza di fuoco tambureggiante. La eccessiva brevità di durata di questo tiro ci porta a due considerazioni: - per sferrare l'attacco dopo 5 ore e mezza di fuoco le truppe debbono essere molto serrate sulle prime linee. Noi terremo presente questa circostanza per aprire un fuoco di contropreparazione sulle trincee di partenza e sulle zone di raccolta del nemico poco dopo iniziato il suo bombardamento tenendoci pronti a eseguire violentissimi tiri di sbarramento appena il nemico accenni a muoversi o meglio appena si ha indizio che il nemico accenni a muoversi...». Anche sorvolando sulla discrasia fra le parole verbalizzate di Capello in questa sua conferenza e le annotazioni di Cavaciocchi sullo stesso punto, sorvolando anche sulla mancata definizione di termini come «preparazione», «contropreparazione», «interdizione» (vicina o lontana), «distruzione», «sbarramento», «repressione» ecc., sembra ponderato il giudizio della nostra Storia Ufficiale: «... il "durante" di Cadorna era divenuto "lo scatto delle fanterie" di Montuori, si era trasformato nel momento di inizio del "tiro di distruzione" dello stesso Montuori e del generale Badoglio, e si era infine modificato nel vago e generico "poco dopo" di Capello. Non si può certo dire che la nostra contropreparazione trovasse, così, una esatta prescrizione del momento in cui si sarebbe dovuta scatenare... È, per i posteri, davvero incredibile che una circostanza in fondo alquanto banale non sia stata chiarita e definita in una delle tante riunioni fra comandanti, che si susseguirono fino all'ultimo momento. Era un equivoco che si sarebbe potuto dissipare all'istante prendendo una qualsiasi decisione che, in ogni caso, sarebbe stata molto meno dannosa dell'incertezza». Ma non queste sole furono le «magagne» dell'artiglieria. Come si è detto, la responsabilità di cogliere «l'attimo fuggente» e di sguinzagliare le truppe dai ricoveri alle trincee era demandata ai disperati comandi minori. D'altronde, decidendo all'ultimo momento di limitare la contropreparazione a un intervento rapido e violento da iniziare solo col secondo tempo del tiro nemico (tiro che, fra l'altro, non aveva un inizio contemporaneo lungo il fronte attaccato), si pretendeva altresì che l'artiglieria campale intervenisse

«fulmineamente», solo quando era segnalata l'avanzata delle fanterie nemiche. Quindi anche l'intervento di tale artiglieria complessivamente 354 pezzi del IV e del XXVII corpo - era demandato ai comandanti di compagnia e di plotone: qualche centinaio di ventenni dovevano sfoggiare «freddezza virile», anche per fare intervenire l'artiglieria di piccolo calibro. Cosa, tra l'altro, che non avevano mai fatto, poiché in offensiva non era necessaria. E, comunque, si partiva dall'ipotesi che la prima tornata del tiro nemico non avrebbe danneggiato l'artiglieria. Chi autorizzava tale speranza? Il generale Cabiati sostiene [Nota. A. Cabiati, La battaglia dell'ottobre 1917, Corbaccio, Milano 1934. Fine nota.] che, mentre la neutralizzazione dell'artiglieria avversaria con tiro ordinario era pressoché impossibile, il tiro a gas contro le artiglierie era quasi ignoto a noi italiani. La cosa non sembra vera, poiché il generale Badoglio, in una sua memoria difensiva al ministero della Guerra, riporta che «l'organizzazione dei tiri a gas, che è tanta parte del tiro di contropreparazione, che il comando di artiglieria d'armata si era riservato di studiare e disporre egli stesso, fu fatta talmente in ritardo che i relativi documenti di tiro non giunsero che nella notte del 23-24 e fu perciò impossibile non solo disporre per la preparazione di detti tiri, ma pur anche di trasmettere i documenti a tutte le batterie». Tuttavia presso il IV corpo si adombrò la possibilità di effettuare tiri a gas, poi non se ne fece nulla: ma evidentemente i dati di tiro erano disponibili. [Nota. Giovanni Comisso, Giorni di guerra, Longanesi, Milano 1960 (1a ed. 1930). Fine nota.] Infine - precisa sempre Badoglio - l'artiglieria dipendente dal comando d'armata non ricevette neppure l'ordine di aprire il fuoco in un momento purchessia. Un altro interrogativo riguardava le modalità d'impiego dell’artiglieria tedesca. Su esso si arrovellava nel pomeriggio del 24 ottobre il colonnello Gatti: i tedeschi combattevano in modo diverso dagli austriaci. Il colonnello Orta, dell'Ufficio Situazione francese, gli aveva detto che i germanici facevano molta contro-batteria e che la nostra artiglieria, per la prima volta, si sarebbe trovata veramente in crisi. Durante la battaglia di Verdun, Joffre aveva prescritto che gli artiglieri a nessun costo abbandonassero i pezzi o cercassero di spostarli: dovevano sparare fino all'ultimo momento. Gatti ne parlò con Cadorna e col colonnello Gabba, suo nuovo segretario dopo la defenestrazione del colonnello Bencivenga. Cadorna ascoltò con

attenzione e concluse: «È bene fare una circolare in questo senso». Una circolare? A quell'ora l'esercito italiano era in procinto di perdere mille cannoni e bombarde. Un'altra imprevidenza era costituita dalle mancate predisposizioni per la difesa ravvicinata delle batterie. Gli artiglieri non erano addestrati - in modo giusto o sbagliato - al combattimento come fanteria, né vi erano reparti di fanteria per la difesa ravvicinata dei cannoni. Molti artiglieri non erano armati di fucile (ad esempio, il 106° gruppo d'assedio) o, se ne avevano alcuni, erano privi di cartucce (come la 406a batteria del 2° gruppo d'assedio). Ed era grave negligenza, poiché non mancavano né i fucili né le cartucce. Infine, per chiudere in bellezza, circa 200 pezzi di artiglieria, di cui era stato predisposto il trasferimento verso il settore minacciato all'ultimo minuto, furono colti in crisi di movimento e accrebbero il bottino del vincitore senza aver sparato un solo colpo.

Capitolo XVI GLI ULTIMI RITOCCHI Fino al ritorno del generale Cadorna da Vicenza il comando italiano si era cincischiato con i provvedimenti per arginare l'offensiva nemica. Le ultime cento ore precedenti l'attacco furono invece caratterizzate da una tumultuarietà, che crebbe fino al parossismo e contribuì anch'essa allo sbandamento degli animi. Passerò perciò in rassegna il succedersi cronologico degli avvenimenti, a costo di ripetermi, per creare nel lettore la sensazione di orgasmo, che gradualmente si impadronì della nostra struttura di comando in quei pochi giorni. Venerdì, 19 ottobre 1917. In mattinata Cadorna rientra a Udine, già convinto che vi sia dissonanza fra lui e Capello: il giorno prima ha ordinato di raccogliere circolari e ordini del comando della II armata, per ponderarli con occhio critico. Subito invia il colonnello Testa presso il IV corpo e il colonnello Calcagno presso il XXVII, per avere notizie di prima mano. Con tale azione egli scavalca il comando d'armata. Nel frattempo il IV corpo segnala l'avvistamento di numerose bombarde tedesche di grosso calibro fra Sleme e Mrzli e ordina alla sua 50a divisione di prendere contatto col comando della zona Carnia (XII corpo d'armata). Allo stesso IV corpo affluisce nel frattempo il V alpini, e il VII corpo d'armata, costituito il giorno prima, emana il suo primo ordine. Ma intanto la sua brigata Napoli viene trasferita al XXVII corpo. Il colonnello Testa ottiene risposte rassicuranti, che riporterà a Cadorna: l'offensiva nemica non traspare da segni appariscenti; quanto a bisogni, il corpo d'armata non ne ha alcuno in particolare, poiché di tutti è stato soddisfatto; morale delle truppe buono, e pochissime le diserzioni. Due anni dopo fra Cavaciocchi e Cadorna si accenderà una polemica educata, ma aspra: Cavaciocchi negherà di aver dato assicurazioni, e quanto ai rinforzi, gli era stato vietato chiederne dal comando d'armata. Risposta di Cadorna: perché mai egli avrebbe inviato il colonnello Testa, se non per sapere la verità? Dal canto suo al colonnello Calcagno Badoglio manifesta un ottimismo sicuro di sé: non ha bisogno di nulla; gli mandino delle mitragliatrici, se crescono; e i soldati hanno morale elevatissimo; una vena di preoccupazione per costa Raunza, dove stava provvedendo.

Nel pomeriggio Cadorna riceve Capello, giunto da Cormons sfinito e febbricitante (i medici gli hanno prescritto alcuni giorni di riposo lontano dal comando). Cadorna, pure affabilissimo, gli ordina di recedere da ogni idea di controffensiva immediata o posticipata. Poi gli augura una felice convalescenza e lo congeda. La voce che Capello parte in licenza si sparge, ingenerando in molti l'impressione che l'offensiva nemica svanisca nelle prospettive. Sabato, 20 ottobre 1917. In una lettera diretta a Capello, Cadorna ribadisce per iscritto e in chiaro italiano quanto gli ha detto il giorno prima: difesa, e solo difesa. Partendo per Padova, Capello raccomanda al suo sempiterno sostituto, Montuori, di ribadire al IV e al XXVII corpo d'armata che essi devono contare esclusivamente sulle forze che hanno a disposizione. Comunque la II armata autorizza il trasferimento di 33 batterie al IV corpo (ne arriveranno solo 10). Al IV corpo sono restituiti il 2° e il 9° reggimento bersaglieri. Cavaciocchi richiama i suoi divisionari, con una circolare, sul pericolo che il nemico, col favore della nebbia, possa infiltrarsi da Tolmino lungo l'Isonzo e invita a intensificare le misure di vigilanza. In serata avverte anche le superiori autorità che, fra una piccola ondata di disertori nemici, sulle linee del Vodil si è presentato il tenente boemo Maxim con notizie dettagliate sulla prossima offensiva. È incerta solo la data, che il disertore suppone sia il 26. Nel settore della III armata, il XXV corpo viene ritirato in seconda linea, e il XIII si estende per occuparne le posizioni. Domenica, 21 ottobre 1917. Attività bellica ridottissima: sul fronte della IV armata una mina nemica provoca la morte di 3 ufficiali e 48 soldati. Presso il Comando Supremo Cadorna e Montuori hanno un colloquio, di cui si ignora l'argomento. Ma improvvisamente prendono consistenza le voci sulla presenza di truppe tedesche, presenza finora solo inferita, salvo un cadavere con divisa tedesca pescato nell'Isonzo. Gli aviatori, però, causa il maltempo, non riescono ancora a vedere nulla. Presso il IV corpo arriva il II alpini, mentre se ne va la Foggia. Una circolare della II armata ricorda che non esiste alcun ordine che imponga tassativamente di mantenere le linee avanzate. Cavaciocchi

dispone che tutti i comandi, fino a quello di reggimento incluso, sgombrino le scartoffie in retrovia. Nel suo settore, al Vodil, hanno disertato due ufficiali di nazionalità romena, portando notizie importantissime: le forze nemiche sono costituite da 9 divisioni germaniche e un numero imprecisato di austro-ungariche. L'obbiettivo immediato è la linea Matajur-monte Mia-catena del Kolovrat, cui seguirà il dilagare in pianura. La data non è sicura: 25 o 26. Il comando della II armata ritoglie al VII corpo il 2° e il 9° bersaglieri, che ridà al IV, ricompensando l'altro con la brigata Foggia e con la 62a divisione, che si trova presso Feltre. Nel pomeriggio Montuori si reca a Creda e si lagna con Cavaciocchi che il suo divisionario Arrighi, comandante della 50' divisione, si sia con lui lamentato di non avere forze sufficienti. Rientrato a Cormons, gli conferma per fonogramma che era sicuro di interpretare le intenzioni di Capello, ripetendo che ognuno doveva arrangiarsi con quel che aveva; e consiglia l'abbandono della conca di Plezzo. Partito Montuori, Cavaciocchi si incontra con Bongiovanni (VII corpo) e Tassoni (XII), per concordare le reciproche azioni. Il ministro degli Esteri Sonnino sollecita il governo russo a organizzare un'azione dimostrativa sul fronte orientale, per alleggerire la pressione su quello italiano. [Nota. Il relativo dispaccio Stefani (in data 26 novembre 1917) è ricordato da Cavaciocchi nel suo memoriale inedito. Fine nota.] Lunedì, 22 ottobre 1917. Alle 10 arriva a Creda il re, che viene messo al corrente della situazione. Sul Vrsic e sui Vrata si scorgono palloni sonda, lanciati dal nemico: segno di imminente tiro a gas. Alle 11 il IV corpo emana ordini per il brillamento dei ponti sull'Isonzo: quello di Selsce è lasciato alla responsabilità della 46a divisione. In giornata si manifesta un attacco a monte Piana (zona Carnia) con partecipazione di un battaglione tedesco, attacco che viene respinto. L'articolo di fondo del «Corriere della Sera» informa per la prima volta il paese dell'imminenza di un'offensiva nemica, alla quale vengono attribuiti scopi più «politici» che militari. Vengono spostate verso l'alto Isonzo le brigate Foggia, Vicenza, Massa Carrara e Ferrara. Alle 14 Cavaciocchi si reca a Cormons, per incontrare Montuori. Il comando della II armata, di stanza a Cormons,

è nel frattempo fatto segno a colpi di grosso calibro. Lo scopo non è tanto quello di distruggerlo, quanto di costringerlo a sgombrare e cambiare località: in tal modo il comando sarà messo per qualche giorno in crisi di comunicazione, per la necessità di sradicare e riconnettere un groviglio di linee telefoniche. Il comando d'armata decide infatti per il giorno dopo il trasferimento a Cividale. A Montuori Cavaciocchi parla della eventualità di sgombrare la conca di Plezzo, decisione che da tempo il comando d'armata aveva avocato a sé con preavviso di 5 giorni. Saputo che Cavaciocchi attende Cadorna a Creda, Montuori rimanda ogni decisione («Ci voleva la zampa del gatto, per levare la castagna dal fuoco» [Nota. Dal memoriale inedito del generale Cavaciocchi sotto la data 22 ottobre, ore 14. Fine nota.]). Cavaciocchi è di ritorno a Creda poco dopo le 15, mentre sta arrivando Cadorna col colonnello Calcagno. Intercettazioni telefoniche dalle prime linee danno l'attacco per certo nella prossima notte. Cavaciocchi sconsiglia, in quelle condizioni, di procedere all'arretramento da Plezzo, che può coglierci in crisi mentre si scatena l'attacco nemico. Cadorna lascia arbitro il comando d'armata, ma interroga Cavaciocchi sulla sua convinzione di aver forze sufficienti; e all'incertezza che si dipinge sul viso di quest'ultimo, gli assegna la brigata Foggia e il comando della 34a divisione, da collocare a difesa della stretta di Saga. Gli promette inoltre 17 batterie da prelevare dalla I armata (nessuna delle quali arriverà in tempo per sparare un solo colpo). A sostituire la Foggia presso il VII corpo, è in arrivo la 62a divisione da Bassano. Partito Cadorna, Cavaciocchi telefona a Montuori e ha il suo daffare a convincere il comandante interinale della II armata a provvedere subito: costui vorrebbe aspettare la conferma da Udine. Autorizza però l'evacuazione della conca di Plezzo. Ma intanto Cadorna, tornato a Udine, sconsiglia il ripiegamento volontario in quelle condizioni (pur senza ordinarlo) e Montuori, sentito dal generale Arrighi tramite Cavaciocchi che, essendo ormai le 17,00, la cosa non si può effettuare prima del presunto attacco nemico, ordina di soprassedere. Al IV e al XXVII corpo d'armata giungono nel frattempo le nuove disposizioni relative alla disciplina del fuoco di artiglieria e il mutamento delle responsabilità territoriali fra i due corpi. La difesa della linea Plezia-Foni-Isonzo è ora affidata al XXVII corpo, cui è assegnata la brigata Napoli, strappata anch'essa al VII corpo. La frase

che «la responsabilità della difesa dell'Isonzo riposa sempre sul IV corpo» non è capita e si chiedono delucidazioni all'armata. Questa risponde che al IV corpo tocca di impedire il passaggio del nemico dall'una all'altra riva. La decisione ha una sua logica, poiché la responsabilità dell'eventuale distruzione dei ponti sull'Isonzo è del solo IV corpo, ma ciò rende ancora più inopportuna la variazione di «confine» fra i due corpi. Fatto è che, assicuratosi presso Badoglio se lo può fare, Cavaciocchi ritira il 2° e il 9° bersaglieri, che sono in quella zona e, con decisione veramente infelice, li manda sulla sinistra Isonzo sotto il monte Nero, ad accrescere la popolazione militare della grande trappola. In giornata il quartier generale del IV corpo è stato portato a Bergogna e quello di artiglieria si è spostato da Robic a Creda, dove è la sede del comando tattico del IV corpo. Presso il XXVII corpo avviene invece il contrario: da alcuni giorni Ostri Kras, sede del comando tattico e del comando di artiglieria del XXVII, è sotto il tiro di batterie nemiche a lunga portata: non è questione di pericolo, ma di timore di collasso delle comunicazioni. Badoglio decide perciò di spostare a Cosi, a soli 3 chilometri da Ostri Kras, il proprio comando tattico e di qui comincia a radiotrasmettere (una radiotrasmittente ha anche la 19a divisione, ma entrambe non sono ricordate nella Storia Ufficiale). Orbene avviene che il capitano Dunker, del servizio radiointercettazioni tedesco, riesca a identificare subito tale nuova sede di comando del corpo d'armata, e sulle sue coordinate - senza ancora sparare - vengono puntati un certo numero di cannoni. Cadorna mette in allarme il XII corpo (generale Tassoni) affinché sia assicurato il collegamento con questo, nonché fra la 50a e la 36a divisione del XII. Chiede di studiare la possibilità che il XII organizzi un contrattacco sui fianchi del nemico, se la conca di Plezzo viene sfondata. Alle 22,30 Capello spedisce da Treviso un telegramma, con cui annuncia di riprendere il comando della II armata: «Sono certo che la II armata scriverà una nuova pagina brillante nella gloriosa storia della nuova Italia». Martedì, 23 ottobre 1917. Nelle primissime ore della notte giunge alle truppe il telegramma di Capello, annunciarne il proprio ritorno. Neppure oggi si sa se l'abbia

fatto spontaneamente o su pressione di amici e superiori. Alle 2 di notte si avvisano i soldati che i gas, oltre che asfissianti, possono essere lacrimogeni: i soldati tengano perciò la maschera, anche se sentono bruciare gli occhi. Tassoni informa Cadorna di aver costituito un nucleo di protezione verso la valle Uccea, con un battaglione, una compagnia mitragliatrici e 2 batterie, ma gli conferma che un gruppo tattico capace di azioni offensive non potrebbe essere inferiore a 6 battaglioni e 12 batterie (che non ha). Alle 6 il generale Basso arriva a Creda col comando della 34a divisione: è ricevuto da Boccacci, che si mostra scettico sull'offensiva, dato il tempaccio. Quanto alla 34a, la sua missione è di riserva al IV corpo, con truppe che non ha mai visto. Un'ora dopo Capello è già a colloquio con Cadorna, che gli fa una «cazziata». Ma Capello riesce ancora ad estorcergli la brigata Potenza per il IV corpo e il VII gruppo alpini (prelevato dal Trentino) per effettuare la saldatura fra il IV e il XII corpo. Svanita la sua fantomatica offensiva (che tutto fa credere avrebbe aumentato il disastro) il comandante della II armata si piega a una difesa fatta sulle prime linee. Capello ordina che la Potenza, stanziata a Faedis, si avvii a Creda per Sedula lungo la mulattiera di Canèbola. Poi va a incontrare Cavaciocchi, preceduto da Montuori, che arriva a Creda alle 10,30. Un'ora dopo arriva Capello. Al IV, XXVII e VII corpo ha inviato un messaggio «urgentissimo», in cui fissa i nuovi compiti del VII: a questo spetta la difesa dai contrafforti meridionali dello Jeza al Matajur. Le truppe non devono però essere distese a cordone, ma tenute in mano per contrattaccare: scaglionamento in profondità, economizzare le forze. La difesa della destra del Natisone è sotto la responsabilità del IV corpo. Capello informa Cavaciocchi del prossimo arrivo della Potenza, e, il giorno dopo, della Massa Carrara, entrambe però da tenere a disposizione del comando d'armata. Ordina di assicurare subito il collegamento col XII corpo e il presidio della linea arretrata Saga-Jama Planina-Krasji. Promette altri due gruppi alpini, uno per Saga e uno per il monte Stol, nonché 17 batterie (che non arriveranno in tempo). Intanto l'Ufficio Informazioni, nel suo ultimo bollettino, segnala la presenza di 650 battaglioni nemici sul fronte italiano, 345 dei quali tra il Frigido e il Rombon. Le truppe della 62a divisione stanno frattanto arrivando a Cividale e a Udine, donde sono subito inviate - a piedi o in autocarro - verso la zona minacciata. La marcia è comunque lentissima,

per l'intasamento delle strade, ingombre di soldati, carriaggi e autocarri in movimento nei due sensi. Alle 13 la stazione intercettatrice dello Sleme ha captato un nuovo ordine nemico, col quale l'offensiva è confermata definitivamente per le 2 del 24. Il X gruppo alpini si affretta a distendersi a sud dello Jeza, da Scuole Rute all'Isonzo. Alle 14 il generale Cadorna si incontra a villa Carraria, presso il comando della II armata, con i generali Capello, Badoglio, Bongiovanni, Caviglia e Cavaciocchi, presenti il colonnello Cavallero e il capitano Sforza. Per rendere compatibile il racconto del capitano Sforza con quello degli altri testimoni, il colloquio deve essere stato burrascoso. Cadorna, pur oscillando fra l'ipotesi del «bluff» e il peggio, non nascondeva un profondo turbamento. «Avete trasgredito ai miei ordini - avrebbe detto -, li avete alterati! Mio padre ha preso Roma e a me tocca perderla!» E gli altri a calmarlo, tranquillo ma preoccupato Capello, più smargiasso Badoglio. Si sarebbe quindi rinfrancato: «Per poco che le nostre truppe tengano, non c'è nulla da temere». Ma che le preoccupazioni gli restassero è dimostrato dal fatto che si accordò con Capello, perché, in caso di necessità, venisse designato un comandante dell'ala sinistra della II armata, nella persona di Montuori. Lo faceva bene sperare invece il perdurare del maltempo: le offensive iniziate col cattivo tempo erano sempre finite male per le truppe italiane. Perché mai doveva esser diverso per gli austro-germanici? Erano le 15 è Cavaciocchi avrebbe voluto tornare in sede, per mandare Boccacci in ricognizione sulla saldatura fra il IV e il XXVII corpo, che gli dava oscure preoccupazioni: e bene sarebbe stato, perché la compagnia mitragliatrici distesa sulla destra dell'Isonzo di fronte a Gabrie era stata ritirata, e nessuno è riuscito a spiegarselo e a trovare il responsabile. [Nota. Curiosamente nel testo si afferma che la «saldatura del fuoco» era affidata a una compagnia mitragliatrici da posizione, salvo aggiungere in nota (una nota che un lettore disattento potrebbe anche saltare) che tale compagnia, la 1035a, era stata allontanata: «Doveva essersi trattato di un errore». Fine nota.] Dovette invece partecipare a una conferenza plenaria, convocata da Capello per le 16, presenti tutti i comandanti di corpo d'armata, nonché i comandanti di artiglieria e del genio di armata. Era la prima volta che Capello svelava ufficialmente ai suoi dipendenti che, tramontata la controffensiva strategica, si doveva fare difesa fino all'ultimo uomo

sulla prima linea: esortò ad avere «serenità e fiducia nelle condizioni soddisfacentissime delle nostre truppe». Fini che annottava. Il suo discorso sulla contropreparazione - se è vero - non fu capito. Il colonnello Cannoniere, avendo saputo che ormai era certo che il tiro nemico sarebbe iniziato alle 2, telefonò a Badoglio, per chiedere l'autorizzazione a controbattere alla stessa ora. Ma il permesso gli fu rifiutato, perché - disse Badoglio - bisognava economizzare le munizioni e perché gli ordini dell'armata erano tassativi. Frattanto Cadorna veniva in soccorso del XII corpo d'armata, ordinando alla I armata di spedirgli una batteria. Mercoledì, 24 ottobre 1917. Furono pochi, nelle prime linee - italiane o austro-germaniche -, a riuscire a dormire. La tensione era grande e lo sguardo correva ai quadranti fosforescenti degli orologi da polso. Fino a mezzanotte aveva piovuto in basso, pioggia e nevischio alle medie quote, neve sulle vette: sul Rombon, sul Cukla, sul monte Nero, sul Mrzli. Poco dopo mezzanotte le precipitazioni smisero, ma il tempo restò pessimo, mentre si levava la nebbia. L'inizio fu contemporaneo sui 50 chilometri del fronte attaccato. E puntuale: erano esattamente le 2 del mattino. Per unanime ammissione a priori (a differenza del nero quadro dipinto a posteriori), tenuto conto delle vicende vissute dal nostro esercito nel 1917, la situazione morale dei nostri soldati, alla vigilia di Caporetto, era discreta, perché da 40 giorni languivano i combattimenti. In quel periodo, minimo fu anche il numero dei disertori, anche se, a posteriori, Capello osò considerarlo un segno negativo. In realtà, prescindendo da altri sentimenti meno egoistici, i soldati italiani sapevano che nell'Austria-Ungheria, da prigionieri, si viveva assai male (enormemente peggio di quanto vissero i nostri militari prigionieri nei campi di concentramento della Germania hitleriana): per convincersene, bastava guardare i soldati nemici e fare le proporzioni. Per gli italiani la battaglia si presentava gravata dalle seguenti ipoteche: - svantaggi obbiettivi: lieve inferiorità numerica, notevole inferiorità nei mezzi leggeri, grave inferiorità nelle artiglierie. Erano la

conseguenza di una percezione del pericolo differita di due o tre giorni (praticamente quelli in cui Capello fu assente dal comando); - svantaggi dovuti a imperizia di comando: troppi reparti proiettati oltre l'Isonzo, a detrimento della difesa dei punti vitali; Saga, lo Jeza, il Kolovrat; - gravi negligenze: indifesa la riva destra dell'Isonzo fra Tolmino e Caporetto, artiglierie sistematicamente non protette, impostazione errata del tiro di contropreparazione; - difetti di impostazione psicologica: proiezione della difesa sulle prime linee e addossamento a queste di grossi nuclei di artiglierie leggere e pesanti. - inferiorità incolmabile: in conca di Plezzo subire l'impiego di lanciagas, che crearono una nube tossica (probabilmente di acido cianidrico), contro cui non c'erano maschere che tenevano, a differenza del difosgene e della difenildicloroarsina usati lungo il resto del fronte. - svantaggio iniziale di portata invalutabile: trovarsi di fronte a guerrieri diversi e a un tipo di guerra insospettato, altamente manovriera anche a livello individuale. Dopo la preparazione di artiglieria iniziale, la battaglia di Caporetto divenne gradualmente silenziosa: pochi assalti alla baionetta, molti agguati, intervento dell'artiglieria decrescente, a mano a mano che le metalliche setole nemiche entravano nella nostra carne. Quindi sorpresa tattica e tecnica, con riflessi a breve termine fortemente traumatizzanti. Ma in prospettiva lontana gli italiani potevano condurre una gigantesca battaglia di difesa manovrata, benché appresa d'istinto e quindi a prezzo di gravi perdite. E in fondo all'imbuto c'era il Piave e il restringimento che il fronte subiva, passando dall'Isonzo al Piave, era un'insopprimibile fortuna geografica. Quindi non era detta l'ultima parola.

Capitolo XVII LA BATTAGLIA DI CAPORETTO Alle 2 precise del 24 ottobre l'artiglieria austro-germanica apre il fuoco fra il Rombon e l'alta Bainsizza, più violento in conca di Plezzo e a raggiera da Tolmino, dove è schierato un enorme numero di batterie. Nello stesso istante mille tubi lanciagas, a comando elettrico, lanciano una salva di cilindri, che si squarciano sulle nostre linee, liberando un gas sconosciuto. Esso avvolge in una nube di morte i soldati dell'87° fanteria schierati fra Plezzo e l'Isonzo: pochi scampano, la maggior parte muoiono senza avvedersene. Il tiro, a gas e dirompente, resta violento fino alle 4,30, per poi estinguersi. Alle 6 le segnalazioni dei comandi italiani sono relativamente ottimistiche: modesti i danni, il gas ha avuto effetti scarsi. La nostra artiglieria ha taciuto. Le poche batterie che hanno aperto il fuoco di loro iniziativa sono zittite. Il nemico crede che ciò sia opera del gas, mentre esse sono state richiamate al rispetto degli ordini, redatti evidentemente in modo confuso. Ma il fuoco nemico riprende, improvviso e di violenza sconvolgente, alle 6,30. L'artiglieria del IV corpo risponde subito, benché ostacolata dalla nebbia. Presso il XXVII l'ordine di aprire il fuoco è dato personalmente da Badoglio, che telefona al colonnello Cannoniere, comandante della sua artiglieria, di cominciare con i medi calibri. Restano invece silenziose le artiglierie dipendenti direttamente dal comando d'armata. In capo a mezz'ora le comunicazioni telefoniche cominciano a saltare. Nessuna linea telefonica è stata interrata, protetta entro tubi di piombo; e la rete stessa è stata male studiata. Gli altri mezzi di comunicazione vengono meno per l'avversità del tempo e la violenza del tiro di demolizione nemico, estremamente concentrato nel tempo e nello spazio. D'altronde l'automatismo del tiro campale, sempre predicato all'approssimarsi delle fanterie nemiche, è inefficace per l'invisibilità che regna ovunque. Non ci si è quindi accorti che esse si sono già nascostamente acquattate a ridosso delle posizioni italiane durante il loro stesso fuoco. Dopo gli ultimi parossistici minuti annientatori, alle 8 esse si scagliano letteralmente addosso alle prime posizioni italiane, salvo sul Vrsic e sul Vrata, dove l'altitudine e le proibitive condizioni atmosferiche di neve e gelo hanno consigliato di rimandare l'assalto alle 9,30.

Ecco, partendo dalla sinistra italiana (la destra nemica), il riassunto delle vicende fino a mezzanotte. Metà della 3a divisione (Edelweiss) assale gli alpini del gruppo Rombon che la respingono con gravi perdite, restandone però impegnati. L'altra metà, con la 22a Schützen, imbocca valle Isonzo, supera le trincee ricolme di cadaveri, artiglieri morti o gasati, inebetiti i pochi che non sono riusciti a fuggire. Violando le note disposizioni, il battaglione complementare della Friuli è lanciato al contrattacco e sbaragliato a cannonate. Ma dopo un'avanzata di 5 chilometri, alle 17, il gruppo Krauss segna il passo davanti alla linea di difesa a oltranza, che protegge Saga. Parimenti si inflette, ma non si rompe, la linea italiana fra l'Isonzo e lo Sleme, dove hanno attaccato la 55a e parte della 50a divisione austro-ungarica. Riesce invece lo sfondamento della 46a divisione italiana, che pure - dice Krafft - era intervenuta «energicamente» con la brigata Caltanissetta (147° e 148°), da parte della 15a brigata da montagna, formata da duri bosniaci, ala sinistra della 50a divisione. E ancor più fulminea è la rottura del fronte tenuto dalla brigata Alessandria (155° e 156°). Attraverso il varco si immette un battaglione bosniaco, puntando verso Gabrie. Davanti a questa località, dopo aver schiacciato le prime resistenze, sono fermi 4 battaglioni della 12a slesiana, che vengono sbloccati dai bosniaci. L'avanzata ridiviene rapida e alle 10,30 colonne nemiche raggiungono Volarie, a 3 chilometri dalla base di partenza. Le famose linee in contropendenza sotto il Mrzli é il Vodil, di cui i nostri soldati avevano sentito magnificati i pregi (perché era possibile battere con l'artiglieria gli aggressori che, travalicata la cresta dei monti, fossero scesi verso di loro) sono trappole, quando la contropendenza è tale che ogni colpo a destinazione del nemico fa rotolare massi e slavine sulla testa dei soldati schierati nelle trincee sottostanti. Quando poi la nebbia impedisce la visibilità e il tiro, della contropendenza sopravvive lo svantaggio: essere attaccati dall'alto. Alle 12,15 i bosniaci e gli slesiani giungono a Kamno e puntano verso il ponte di Caporetto. Sull'altra riva dell'Isonzo le cose vanno ancor più lisce. Cinque battaglioni della 12a slesiana, superata a San Daniele la scarsa resistenza di qualche centinaio di uomini inebetiti e decimati dal bombardamento, infilano la rotabile che risale il fiume e vanno avanti:

perché davanti non c'è nessuno. Erano stati addestrati a fare così, e quelli erano gli ordini. Alle 10,30 i tedeschi sono già a Idersko, dove incontrano una resistenza improvvisata e alle 15,30 sono a ridosso di Caporetto, nel momento in cui il ponte di ferro viene fatto saltare dal capitano Platania. Non qui si fermano gli slesiani, ricongiuntisi ai camerati che hanno risalito la sinistra Isonzo. Alle 18 sono a Staro Selo e alle 22,30 a Robic e a Creda, da cui il comando del IV corpo ha velocemente traslocato su Bergogna. Hanno marciato per 27 chilometri, catturando 10.000 prigionieri, quasi tutti addetti ai servizi di retrovia. Audaci, i tedeschi non sono però avventati. Il battaglione del Württemberg ha risalito in diagonale le falde di costa Raunza, proteggendo sulla sinistra la divisione slesiana. Intanto l'Alpenkorps dà l'assalto - frontale, sì, ma alla tedesca - a costa Raunza e a costa Duole, risalendo la val Kamenka. Le due coste montane si sollevano per picchi successivi e si congiungono al Podklabuc (quota 1114). Tra questa cima e il più occidentale monte Piatto si interpone il passo Zagradan. Orbene, alle 17,30 il Podklabuc è in mano tedesca. L'ha conquistato, con pochi uomini, il tenente Schörner, futuro feldmaresciallo del Terzo Reich, catturando un battaglione della brigata Napoli. A sud di costa Duole il terreno declivia verso valle Duole, per innalzarsi nuovamente verso il massiccio dello Jeza (quota 929). Preso frontalmente, lo Jeza richiede una bella scalata, poiché le posizioni di partenza, sulle falde del baluardo montano, si trovano a quota 200. L'assalto è condotto dalla 200a divisione germanica. Alle 18 la vetta dello Jeza è conquistata dopo una lotta asperrima, che si trascina spasmodica fino a mezzanotte. La 1a divisione austro-ungarica si scaglia contro il X gruppo alpini. Qui l'artiglieria campale italiana riesce a colpire reparti austriaci, mentre attraversano la piana che conduce alle alture. Ma 11 sono i battaglioni nemici contro 3, sia pure di alpini. Entro mezzogiorno cedono le posizioni laterali e alle 16 è conquistato il Krad Vrh. A sera il nemico è sulle falde del Globocak, impegnando qualche reparto della brigata Puglie. Nell'alta Bainsizza, sulla sinistra dell'Isonzo, il gruppo Kosak non ottiene invece alcun risultato. Si susseguono attacchi e contrattacchi di tipo «convenzionale», che ci costano la perdita di un migliaio fra morti e feriti, ma consentono la cattura di quasi altrettanti prigionieri. Si

configura una posizione di stallo, ma lo stesso von Below sconsiglia di proseguire l'azione in questa direzione improduttiva. Alla fine della giornata egli si considera infatti alle soglie dello sfondamento strategico. La nostra Storia Ufficiale dà la seguente sintesi della giornata: «Parve che tutti, a tutti i livelli di comando, pur nell'affannosa ricerca di porre riparo in qualche modo alla situazione, restassero imbrigliati nel non sapere che cosa si dovesse fare e si potesse fare. E non si può non rilevare... almeno la stranezza del fatto che, a malgrado anche delle comunicazioni intercorse con il comando d'armata, il XXVII corpo ignorasse del tutto che già alle 10,30 del mattino il nemico aveva risalito -passando proprio entro i limiti del suo settore - l'Isonzo, giungendo a Idersko, alle spalle dello schieramento del IV corpo». Le perdite italiane, in prigionieri, sono meticolosamente elencate da Krafft, e non v'è motivo per non credergli: praticamente nessun prigioniero la Edelweiss, 4000 la 22a Schützen, 700 la 55a 7000 la 50a e 10.000 la 12a slesiana. Questi 22.000 uomini appartengono quasi tutti al IV corpo, che ne contava oltre 100.000: una forte percentuale è costituita da artiglieri, sussistenza, sanità, servizi vari e molta burocrazia militare. Nella zona del XXVII corpo, l'Alpenkorps cattura circa 4000 uomini, la 200a tedesca alcune migliaia e la 1a austroungarica 4600, cioè 12 o 13.000 uomini. Nell'insieme 35.000. Una parte di questi è certo composta di feriti, ma di essi e dei caduti il numero è quanto mai incerto. La nostra Storia Ufficiale attribuisce ben 873 morti e feriti al gruppo Rombon; l'87° fanteria ha avuto un migliaio di morti e pochi intossicati gasati, perché si dice che a 200 ammontino a sera i superstiti dell'87° (che schierava 2 battaglioni in conca di Plezzo). Si citano 270 perdite nella zona della brigata Genova e oltre 600 sono i morti e i feriti della Etna. Qualche migliaio di morti e feriti devono aver subito la 19a divisione e il X alpini, e un migliaio sono quelli accertati per le divisioni sull'alta Bainsizza. E non piccole le perdite di artiglieri, se di oltre 2000 feriti ricoverati (a tre per letto) il 25 ottobre nel Seminario di Cividale, trasformato in ospedale, più della metà erano soldati di artiglieria. [Nota. Giuseppe Avon Caffi, lettera al «Corriere della Sera»: Caporetto e l'artiglieria, «Corriere della Sera», 19 dicembre 1965. Fine nota.] Non si può quindi essere lontani dal vero valutando le nostre perdite, in quel primo giorno, in 40.000 uomini,

compresi i prigionieri feriti. Di essi non più della metà dovevano appartenere alla fanteria. Abbottonatissimi sono invece gli austro-germanici sulle perdite proprie. E la relazione di Krafft, sulle tedesche, è ancor più riservata che sulle austriache. Evitando una lunga e opinabile serie di mie personali illazioni, credo che le perdite nemiche non siano state così trascurabili, come essi cercano di farle apparire: almeno 6 o 7000 tra morti, feriti e prigionieri (incluso il gruppo Kosak): un rapporto di scambio certo assai favorevole rispetto alle perdite italiane e soprattutto al guadagno strategico. Quali considerazioni si possono fare sulla condotta della battaglia da parte italiana? Il giudizio, riassunto nel citato brano della nostra Storia, è negativo al di là di ogni dubbio. Più che descrivere minuzie di combattimenti, è preferibile elencare gli elementi salienti di tale comportamento: 1) Cavaciocchi ha intasato di truppe il saliente del monte Nero: il giorno 23 vi fa affluire anche il 2° e il 9° bersaglieri e il 24, in piena battaglia, due reggimenti della Foggia, in spregio a qualsiasi considerazione logistica. A mezzogiorno del 24 sono perciò insaccati nel saliente del monte Nero 40 battaglioni di fanteria, per difendere una posizione praticamente intenibile. Altri 8 battaglioni, pur disposti sulla destra dell'Isonzo, sono confinati fra il fiume, i nemici avanzanti e il Baniski-Skedeli, cioè intrappolati. Benché abbia vincolato l'impiego di molti reparti alla sua autorizzazione, il IV corpo rimane fulmineamente senza riserve. Nonostante lo sperpero, è però ancora in grado di assicurare la difesa della stretta di Saga, il che inasprisce il giudizio sulla assurdità dello schieramento. 2) Il generale Cavaciocchi è stato largamente fuorviato dai suoi divisionari. Farisoglio (43a) chiede disperatamente aiuto sulla base di informazioni errate della brigata Genova, che le ha avute dal 97° fanteria. Stupisce che, di fronte all'affermazione di quest’ultimo che la sella di Za Kraiu (quota 1270) sia attaccata da 4 reggimenti (l'equivalente di una divisione: 12 battaglioni che, a volerceli mettere, non ci stavano), il comando di corpo d'armata mandi rinforzi, anziché ribattere che quell'ufficiale è pazzo. I «reggimenti», come formazioni

organiche, neppure esistevano nelle divisioni austro-ungariche, il che dice molto sulla incultura di certi ufficiali superiori. Ma il volgere la testa in su al grido «l'asino vola» significa che il comandante del IV corpo d'armata non conosce il terreno dove operano le sue truppe. Più tardi il suo capo di stato maggiore Boccacci parla telefonicamente con Farisoglio, i due non s'intendono, Farisoglio crede di capire che deve ordinare la ritirata dell'intera 43a divisione, e si avvia in automobile verso Creda, ma a Caporetto è catturato dai tedeschi «primo dei generali e primo della sua divisione». Se la voleva svignare? Il generale Faldella lo insinua, benché in prigionia Farisoglio verghi un memoriale, che stigmatizza la resa senza combattere di molti soldati: non dei suoi, comunque, perché la 43° divisione ha assolto tenacemente i suoi compiti, ha tenuto la linea di difesa a oltranza e ha ripiegato - i reparti che hanno ricevuto l'ordine, perché gli altri rimasero a combattere fino all'ultima cartuccia per altri due o tre giorni, e vi rimasero coinvolti il tenente Carlo Emilio Gadda e il capitano Piero Pieri, il futuro storico - in buon ordine. Ma, saltato il ponte di Caporetto, per attraversare l'Isonzo i resti della divisione devono risalirlo fino a Ternova. Alle 23 anche questo è distrutto e chi è nella trappola ci resta. 3) Anche Amadei, comandante della 46a divisione, nonostante la babele di truppe a sua disposizione, alle 10 chiede rinforzi, che vanno a intasare il ponte di Caporetto e quello di Idersko. Alle 14, poi, dà l'ordine di ritirata generale verso Caporetto, e lui stesso precede le truppe con i comandanti delle brigate Caltanissetta e Alessandria, che si affretteranno a parlare di mancata resistenza: loro però sono fuggiti per primi. 4) Il generale Arrighi (50a), pure lui, si è affrettato a chiedere rinforzi. Poi, giudicando di farcela da solo, ha revocato la richiesta. Impressionato però dalla infondata diceria che la sella di Za Kraiu sia stata sfondata e il nemico marci su Caporetto da quella direzione, decide di abbandonare la stretta di Saga - perdendo quasi tutte le locali artiglierie - e di far ripiegare le truppe sulla linea monte GuardaPrvi Hum-monte Stol. Le truppe del Rombon sono abbandonate alla loro sorte, che sarà morte per gelo o la resa. Con giubilo gli austriaci si accorgono che Saga, questa Termopili dell'alto Isonzo, è evacuata

senza lotta dall'italo discendente di Leonida, il generale Arrighi. Col conseguente abbandono di Ternova che, se tenuta, avrebbe consentito il deflusso della 43a divisione e di parte della 46a si completa questa esercitazione di alta strategia. 5) Sul fronte della 19a divisione e del X alpini la resistenza italiana è accanita, ma le masse d'assalto nemiche soverchiami per numero e armamenti. Uno solo dei 3 reggimenti della 200a divisione tedesca dispone di 60 mitragliatrici pesanti e 72 leggere. La Storia Ufficiale ricorda l'inspiegabile ordine che il giorno prima ha allontanato la 1035a compagnia mitragliatrici dalla destra dell'Isonzo, di fronte a Gabrie, che avrebbe potuto tenere sotto tiro la colonna slesiana in marcia sulla sinistra dell'Isonzo. In una noticina di una nota, poi, a proposito della 389a compagnia mitragliatrici, dice che essa era giunta dalla scuola mitraglieri di Codroipo il 21 ottobre, messa a disposizione del 207° (brigata Taro) il 23 e avviata a presidiare la posizione che doveva sbarrare l'avanzata nemica nelle prime ore del 24: «Fu presa sotto il tiro nemico mentre era in movimento su terreno disagevole e sconosciuto». E la scuola di Codroipo, succursale di quella di Brescia, da cui veniva la compagnia, che razza di scuola era? «La natura del terreno di operazioni, collinoso e montano... imponeva... la scelta di terreni analoghi per l'addestramento delle truppe. Quale località venne stabilita come sede della scuola mitraglieri? Codroipo, in piatta pianura! Ogni commento è superfluo», scrive Capello. Il 1° reggimento Jäger dell'Alpenkorps si imbatte invece in una resistenza dura e intelligente, tutti i tentativi di aggiramento falliscono e, dopo un'avanzata di 3 chilometri, esso viene bloccato per 24 ore a quota 732. Sul fronte delle brigate Taro e Spezia, comunque, i rispettivi comandanti son troppo precipitosi nel dare l'ordine di ripiegamento, ben prima che esso sia necessario, abbandonando alla loro sorte i reparti già impegnati, che resistono fino al giorno dopo. 6) Il comando del XXVII corpo d'armata rimane tagliato fuori dagli avvenimenti, neppure si accorge dell'inizio dei combattimenti né che gli slesiani sfilano nel suo settore, non avendo provveduto con adeguate forze a sbarrare le infelici trincee fra Foni e l'Isonzo. Badoglio è in attesa di novità, ma i telefoni ammutoliscono prima delle 8 e gli altri sistemi di comunicazione non funzionano per la nebbia e il

frastuono. Quindi Badoglio sguinzaglia staffette e portaordini, poi si muove egli stesso (la sua auto è colpita da una granata e gli occupanti si salvano per miracolo), tutti saltellando come ranocchi su strade fortemente battute dai medi calibri avversari. Interessante, perché conferma, ma svuota di malignità, la versione di Caviglia, quanto riporta, sulla scorta di pubblicazioni austro-germaniche, F. Fadini, [Nota. Lettera a me diretta da Fernando Rivara, in data 1° giugno 1971 e una seconda in data 22 ottobre 1977. Fine nota.] che cioè Badoglio vaga col suo comando, trascinandosi dietro la radio campale, con la quale trasmette ogni volta in chiaro la sua nuova posizione. Questa è regolarmente individuata dai radiogoniometri del capitano Dunker, che fa inquadrare il bersaglio dall'artiglieria. Così per tre o quattro volte si ripete la caccia elettromagnetica, consentendo ai tedeschi di conoscere, quasi ora per ora, dov'è il comando del XXVII corpo d'armata e quanto trasmette al comando d'armata: che non riesce a prendere collegamento con la 19a divisione e il X alpini. 7) In difficoltà di comunicazioni, alle 19,15 Badoglio delega il comando delle sue 3 divisioni sulla sinistra dell'Isonzo al comandante della 64". Questi dispone, molto saggiamente, il trasferimento sulla destra presso Doblar della 22a e 65a divisione. Ma la manovra non può attuarsi, perché alle 22,15 il comando d'armata trasferisce al XXIV corpo le divisioni di sinistra Isonzo del XXVII. E il generale Caviglia, che ne è il comandante, dispone altrimenti, e peggio. In ciò consiste, credo, la responsabilità di Caviglia, che mi è stata segnalata. 8) Il comportamento dell'artiglieria italiana, fiacco, disordinato e sostanzialmente innocuo per l'avversario, è in parte giustificato dai danni subiti nella prima tornata, non rintuzzata, del bombardamento nemico. Comunque le artiglierie situate in conca di Plezzo e nel saliente del monte Nero vanno tutte perdute in breve volgere d'ore; e altrettanto avviene per quelle schierate a tappeto su costa Raunza, sorprese dal battaglione del Württemberg e dal reggimento Guardie dell'Alpenkorps: sorprese nel senso letterale della parola poiché, abituati all'andazzo delle offensive italiane, gli artiglieri, a una distanza media di 7 o 8 chilometri dalla prima linea, non si aspettano certo di vedersi i tedeschi addosso in mattinata. C'è chi resiste sul posto fino alla morte, chi si arrende al primo intimar di alzare le mani, chi -

vedendo tali scene un po' da lontano - sfila gli otturatori dai cannoni e ripiega in fretta, ufficiali in testa. 9) Tutti danno per indubbio e assoluto il collasso delle comunicazioni (la Storia Ufficiale è però meno categorica). Ma vi è qualche testimonianza in senso contrario. Per esempio il capitano Mercadante avverte che «in taluni casi ciò poté avvenire, ma sul Kolovrat, dove io mi trovavo con la 3a divisione, non ci furono bombardamenti il mattino del 24 ottobre... Io e il comandante del reggimento, tenente colonnello Paoletti, fummo informati dell'attacco nemico verso mezzogiorno da un gruppo di artiglieri che fuggivano, asportando gli otturatori... Ma chi poteva informare il comando di brigata stabilitosi a Drenchia, a parecchi chilometri di distanza?... Sarebbe tutto questo successo, se fosse stata sistemata una linea telefonica fra Drenchia e il comando del mio reggimento [213°]?». Dunque non tanto mancarono le comunicazioni quanto talvolta furono mal predisposte. Perciò il «più collegati di così si muore» non era vero. Né si cita l'impiego dei razzi, di cui fanno abbondantemente uso gli avversari. E come mai i due contrattacchi austriaci sul Carso di giugno e settembre, dove si era verificato anticipatamente il collasso delle comunicazioni, non hanno insegnato nulla? 10) Il crollo di molti reparti italiani è narrato con dovizia di particolari da fonti ufficiali austro-germaniche e con parsimonia dalle fonti ufficiali italiane, mentre ne è ricca la nostra memorialistica. Certo, rileggendo i resoconti dei testimoni oculari - il capitano Frescura, [Nota. Attilio Frescura, Diario di un imboscato, Bologna 1930 (ristampa integrale e in un numero «limitata» di copie della prima edizione, pubblicata nel 1919, successivamente «limitata» di molti giudizi aspri ma veritieri). Fine nota.] il tenente Muccini, l'aspirante Comisso e qualche altro - testimoni in quei luoghi e in quelle ore, non può trarsi altra conclusione: la disorganizzazione della struttura è divampata con la violenza di un uragano. Ha rimescolato carte e soldati, salmerie e cannoni, chi in un verso chi nell'altro, tra ponti che saltano e truppe che inseguono quelli ancora in piedi, generali che perdono la testa e non fuggono - perché nessuno di loro è un vile - ma per abitudine credono sia loro dovere ripiegare per primi, per organizzare, comandare, contrattaccare, incapsulare, mentre la guerra ha cambiato

volto di schianto. E il piantone, che non ha mai preso in mano il fucile (che pure ha in dotazione) - perché le sue armi sono state i timbri, la carta assorbente, la macchina per scrivere, i moltiplicatori quest'uomo può davvero pensare di mettersi di traverso ai bosniaci e ai carinziani, che vengono dai monti e da venti mesi di guerra? È inerme, anche se armato. È come gareggiare con un centometrista, avendo fatto l'impiegato postale reumatizzato. Quelli che invece le armi le sanno usare, ne conoscono un solo modo: le trincee, i fucili e le mitragliatrici sui parapetti. Se l'ordine è di contrattaccare, un «Savoia!» e avanti, con la probabilità di lasciarci la pelle. Ma in questa guerra silenziosa, dopo il frastuono dell'artiglieria, è come sentirsi appoggiare alla tempia la canna di una pistola. L'agguato alle spalle non è previsto. Allora si lascia andare tutto: fucili, mitragliatrici, bombe: ci si inginocchia davanti al vincitore, per aver salva la vita. Si inneggia a lui, alla pace, al papa, pur di uscirne. Chi non ce la fa, come il generale Villani, comandante della 19a divisione, si spara, lui, il colpo nella testa. Come caso emblematico si può scegliere la perdita del Podklabuc, tanto più che F. Fadini il 7 dicembre 1971 andò personalmente a intervistare il settantanovenne maresciallo Schörner. E questi affermò che raggiungere la vetta era stata, sì, una grande fatica (un soldato morì per collasso cardiaco), ma non difficile la conquista per la scarsissima resistenza italiana. «Avrei tutto l'interesse a dire il contrario - concludeva il vecchio soldato - visto che per quell'azione mi fu conferito l'ordine Pour le mérite». Il Podklabuc era presidiato dal III/75° della brigata Napoli. Alle 16 il 3° battaglione Guardie dell'Alpenkorps giunge sulle pendici settentrionali, mentre la posizione italiana è sotto il tiro dell'artiglieria tedesca. Subito il battaglione parte all'attacco. Schörner comanda la 12a compagnia. La 7a avvolge la cima, per avanzare da sud-ovest, collegandosi col 1° reggimento Jäger. Con poche diecine di uomini, 6 mitragliatrici e buona scorta di munizioni portate a braccia, Schörner si appiatta sotto la vetta, mentre l'artiglieria cessa il fuoco. Da est si avvicinano pattuglie della 9a e della 2a compagnia, fatte segno a fitta fucileria dai difensori, che ne sono però distratti: la 12a non è stata avvistata. E ha la fortuna di scoprire un varco di un metro e mezzo nel filo spinato. Pur se ha disponibili solo due plotoni e le mitragliatrici, Schörner ordina l'attacco immediato. Il primo plotone balza nella

trincea italiana e ne rastrella un tratto, aprendo la strada al secondo plotone e alle mitragliatrici. L'azione degli assalitori, «audace sino alla follia», paralizza di terrore gli italiani, solo alcuni dei quali riescono a far uso dei fucili, mentre i più spariscono nelle caverne. Davanti alla posizione sommitale gli uomini di Schörner, per scatenare l'attacco finale, attendono l'arrivo dei reparti arretrati. L'azione fallisce in due punti, ma in un terzo i tedeschi aprono una breccia e gli italiani ondeggiano. Le truppe lanciate all'attacco conquistano in «aspri scontri ravvicinati» l'intera ragnatela di trinceramenti. Scrive von Below che il pilastro della difesa italiana è conquistato alle 17,30. Krafft parla di 300 prigionieri, mentre all'alba del giorno dopo altri 120 soldati italiani sono stanati dalle caverne. La Storia Ufficiale italiana è più telegrafica: alla presa del Podklabuc dedica 8 parole. [Nota. Storia Uff., vol. IV, t. 3°: «Il successivo attacco... riuscì a conquistare... il Podklabuc». Fine nota.] Il generale Cabiati, che conosceva bene la letteratura militare tedesca, afferma: «Il Podklabuc è preso d'assalto dai bavaresi, dopo aspra lotta, durata sino a notte». Quale forza aveva il battaglione della Napoli? La Napoli, fra il 24 ottobre e il 1° novembre, perse 4187 uomini, e i superstiti furono riuniti in due battaglioni. Si trattava quindi di una brigata a piena forza, cosa in sé credibile perché le perdite relativamente modeste degli ultimi quattro mesi erano state certo rimpiazzate. Vi sono elementi per attribuire a ogni battaglione almeno 800 uomini: ma gli assalitori tedeschi, a parte il valore della pattuglia di Schörner, non erano meno numerosi e avevano più armi automatiche. Saranno alcuni soldati italiani riusciti a fuggire dalla vetta? Certamente. Ma la cattura di soli 420 uomini, che non saranno stati tutti illesi, non depone per una tesi disfattista. Certo quella guerra a riccio: l'assedio improvviso, per soldati che avevano provato solo le ondate, era un mondo nuovo e misterioso. Una volta circondati, quel piccolo campo trincerato diveniva una trappola psicologica. Meglio avrebbe fatto la Storia Ufficiale a parlare più diffusamente del Podklabuc. Benché non si possa definire «eroico» il battaglione che mal difese il Podklabuc, analoghi episodi accadevano nella stessa epoca sul fronte occidentale. È il 2 dicembre 1917 e Ernst Junger, comandante di una compagnia del 73° reggimento dei fucilieri di Hannover, partecipa alla controffensiva di Cambrai, scontrandosi con reparti della 56a divisione britannica: «Dopo un breve combattimento... vedemmo il primo inglese venire verso di noi con le

mani alzate... Constatai... che avevamo fatto una cattura eccezionale: la processione non finiva mai... Fermai un ufficiale... Mi condusse... dal comandante della compagnia, un capitano ferito... Vidi un giovane sui 26 anni dai lineamenti fini... Le sue prime parole mi provarono che avevo davanti un vero uomo: We were surrounded around. Si sentiva in obbligo di spiegare all'avversario perché la sua compagnia si era arresa così presto... Hoppenrath, apparso all'ingresso del rifugio, mi annunciò che i prigionieri catturati erano circa 200. Un bel risultato per una compagnia di 80 uomini». [Nota. Ernst Junger, Tempeste d'acciaio, edizioni del Borghese, Milano 1966, p. 278 (ed. orig. Im Stahlgewittern, 1919). Per questo e consimili episodi, che fruttarono ai tedeschi 30.000 prigionieri inglesi in pochi giorni, il gabinetto di guerra britannico nominò una commissione d'inchiesta segreta, di cui fu fatto presidente il generale Smuts. Tale commissione si trovò a scegliere fra due conclusioni: incapacità dei comandi o codardia delle truppe; e scelse deliberatamente la seconda, trovando «insopportabile» la prima (vedi Mario Silvestri, La decadenza dell'Europa occidentale, 4 voll., Einaudi, Torino 1977-1982, vol. II. Maggiori particolari in: Bryan Cooper, The ironclads of Cambrai, Souvenir Press, London 1967). Fine nota.] Gli è che per gli inglesi, non meno che per gli italiani addestrati alla stessa scuola, l'accerchiamento era l'incubo. La trincea lineare non lo prevedeva. L'unica manovra, abbastanza ovvia, che gli italiani potevano intraprendere e di cui intravidero la possibilità a mezzo pomeriggio, consisteva nella calata dal Kolovrat sull'Isonzo, interrompendo il flusso delle colonne della 12a slesiana, che puntava al di là di Caporetto verso l'alta valle del Natisone. La sequenza delle comunicazioni intercorse fra i nostri comandi, fu la seguente: - poco prima delle 12: il VII corpo d'armata predispone il suo schieramento, collocando 4 battaglioni della 4a brigata bersaglieri presso la sella di Luico, che dall'alto domina l'Isonzo fra Kamno e Idersko. - ore 12: il generale Montuori segnala a Bongiovanni che sembra che il nemico sia giunto a Kamno. - ore 12, subito dopo: il generale Bongiovanni informa il comandante della 62a divisione che sembra che il nemico sia a Kamno:

predisporsi alla difesa della sella di Luico e alla eventuale occupazione della linea che da Golobi scende a Idersko. - ore 13: il colonnello Boccacci telefona al comando del VII corpo di attaccare energicamente da Luico verso Idersko - ore 14,30: il comandante della 62a generale Viora, che ha ricevuto il messaggio delle 12, assicura che per l'occupazione della linea GolobiIdersko impegnerà un battaglione bersaglieri. - ore 15,30: viene distrutto il ponte di Idersko, ma intorno alle sue estremità i combattimenti si prolungano per parecchie ore. - ore 18: il comando del VII corpo raccomanda alla 62a divisione di mantenere il collegamento col IV, collegamento che non è mai stato preso. - ore 18,05: Capello ordina al generale Bongiovanni di attaccare il nemico, che risale la destra dell'Isonzo verso Caporetto (!). - ore 19: Bongiovanni informa la 62a che il nemico è vicino a Caporetto ed esorta la divisione ad attaccare con parte delle sue forze il nemico, «ove la S. V., che essendo sul posto è buon giudice, ne riconosca la possibilità». - ora imprecisata intorno alle 20: la 62a comunica che alle 22 inizierà l'operazione tendente a riguadagnare Golobi e poi disturbare il nemico in fondo valle. - ora imprecisata posteriore alla precedente: il comando del VII corpo comunica alla II armata che la 62a divisione alle 22 tenderà a rioccupare Golobi, per poi procedere controffensivamente in direzione di fondo valle Isonzo. - poco prima delle 24: i bersaglieri occupano Golobi. - poco dopo le 24: i tedeschi riconquistano Golobi. - ore 3,30 del 25: i bersaglieri rientrano in Golobi. - ore 10 del 25: gli slesiani respingono definitivamente i bersaglieri da Golobi. Se i soldati nostri hanno mostrato di possedere riflessi lenti, i loro comandi, come si vede, sono stati altrettanto tardigradi. C'è una solidale coerenza di comportamento fra comandi e gregari: allenati alla stessa scuola della guerra a cordone, si sono comportati nello stesso modo.

Capitolo XVIII LA ROTTA La stretta di Saga, Caporetto e Creda, il Podklabuc e lo Jeza: questi gli obbiettivi raggiunti dalla XIV armata austro-germanica nel primo giorno di battaglia. Se l'esercito italiano aveva già perduto 40.000 uomini, altrettanti restavano intrappolati nella sacca del monte Nero. E alla furia dell'attacco che nel secondo giorno veniva rinforzandosi con le divisioni nemiche di rincalzo (la 117a, la 26a e la 5a divisione germanica), si trovavano ora esposti non solo i residui del IV corpo che erano riusciti a riparare al di qua dell'Isonzo e quelli della 19a divisione e del X alpini, ma l'intero VII corpo d'armata, che aveva assistito inerte - male informato e peggio manovrato - alla tragedia che si era svolta sul proscenio. Pur così prossimo, il comando del VII corpo, nonché organizzare la puntata su Idersko, nulla seppe fare e subì l'iniziativa nemica, dalla quale fu travolto e inghiottito. A ridosso del Kolovrat e dello Jeza, prima la brigata Elba, poi la Arno, indi la Firenze e la 4a bersaglieri vennero disfatte, quasi invischiate nel terreno, e in gran parte catturate. Isolata, sul Matajur, restò la brigata Salerno, intorno alla quale il cappio fu posto nella notte sul 26 e stretto il mezzogiorno successivo. Così, fra il 24 e il 26 ottobre, fu squarciato su ampio fronte il corpo obeso della II armata. La simbiosi fra l'incapacità dei comandi, lo scarso ed errato addestramento al combattimento delle truppe e la diabolica sorpresa di mortiferi gas in conca di Plezzo sfociò in una colossale voragine, da cui la XIV armata austro-germanica esplose verso il medio Tagliamento e verso Udine. E allora a tutti i livelli dilagò la paura. Descrivere questo processo in ogni dettaglio conosciuto richiederebbe un'enciclopedia. Come rappresentativi ho scelto quindi due episodi: il crollo delle difese all'estremo nord, sul fronte della 50a divisione, dove rifulse l'incapacità di comando; e la disfatta delle brigate Arno e Salerno, dove peso preponderante ebbe il collasso delle milizie. Alle ore zero del 24 ottobre son quasi tutte schierate sulle linee di difesa avanzata le forze della 50a divisione. Sui declivi del Rombon gli alpini del San Dalmazzo, poi il I/88°, indi il Dronero; da quota 1000 fino all'Isonzo i tre battaglioni dell'87° (di riserva una compagnia del Ceva); a sud dell'Isonzo gli altri due battaglioni dell'88° (meno due

compagnie) e il Mondovì (meno due compagnie). Sulla linea di difesa a oltranza: il Ceva (meno una compagnia) a nord dell'Isonzo; a sud, più arretrati, l'Argentera e il II/280° davanti a Saga: da Saga al Veliki (o monte Grande, quota 1767) due compagnie del Mondovì. Tra le prime due linee sono di rincalzo immediato il Saluzzo e due compagnie dell'88°; tra quella di difesa a oltranza e la linea d'armata: il Mondovì e il I/280°, presso Saga. Il III/280° si dirige a marce forzate verso Planina Baban (sulla linea di difesa a oltranza), ma ne è ancora lontanissimo. La linea d'armata non è presidiata. In tutto 16 battaglioni, rinforzati da alcune compagnie mitragliatrici di brigata o divisionali, con un totale di 150 mitragliatrici e un centinaio di mitragliatrici-pistole, male distribuiti. Vuota la linea d'armata, su quella di difesa a oltranza l'equivalente di tre battaglioni. Tra queste due, un paio di battaglioni e un terzo in lontano arrivo. Gli altri 10 sono in primissima posizione o quasi. E in prima linea sono anche molte artiglierie: 40 pezzi di piccolo calibro, 21 di medio e 36 bombarde, a distanza dal nemico variabile di qualche centinaio di metri a due o tre chilometri. Altri 36 pezzi di medio calibro sono piazzati intorno a Saga, a 6 o 7 chilometri dalla prima linea. In complesso 2/3 delle forze sono proiettati a ridosso della prima linea di difesa avanzata, il resto davanti alla deserta linea d'armata, incluso l'importantissimo caposaldo del monte Stol (1668 metri), che al generale Krauss, quando l'aveva visto svettare nelle nubi, aveva mozzato il fiato. La divisione Arrighi disponeva anche di truppe «complementari» (battaglione complementare della Friuli, battaglioni complementari alpini), truppe in addestramento, da non impiegare in battaglia, e che invece lo furono con esito disastroso. Il gruppo Krauss muove all'attacco con 4 divisioni: la 3a Edelweiss, la 22a Schützen, la 55a e la Jäger germanica. La Jäger rimane di riserva e non partecipa al primo assalto. La 55a viene impegnata contro la nostra 43a divisione, cosicché contro la 50a divisione italiana operano effettivamente la Edelweiss e la Schützen. Quattro battaglioni della Edelweiss vanno all'assalto sul Rombon, per bloccare le truppe alpine e impedirne un contrattacco. Tutti gli altri (18 battaglioni e non 25, come dice la Storia Ufficiale - la quale attribuisce 18 battaglioni alla Edelweiss, mentre nell'elencazione particolareggiata delle forze gliene attribuisce 12 [Nota. Storia Uff., t. 3°-bis, p. 236. Evidentemente alcune parti della Storia sono state compilate in epoche diverse da persone diverse e non è poi seguito uno scrupoloso

controllo. Fine nota.]) avanzano in fondo valle. Il gruppo Krauss è appoggiato da 466 cannoni, una parte dei quali sono però puntati contro le posizioni della 43a divisione, cosicché contro la 50a italiana sono concentrati circa 400 cannoni e qualche decina di bombarde. Quindi: superiorità di uomini notevole, quasi da due a uno; superiorità di fuoco schiacciante, da quattro a uno, e una terrificante sorpresa tecnica: l'intervento del battaglione lanciagas tedesco. Iniziato alle 2 di notte, il tiro a gas ha scarsi effetti sulle pendici del Rombon e sulla sinistra dell'Isonzo. In conca di Plezzo è invece annientatore. Ma si tratta probabilmente di un gas speciale, dedicato all'87° fanteria. La Storia Ufficiale si limita ad affermare che tutte le grandi unità italiane segnalarono solo modesti danni dall'azione del gas, salvo aggiungere qualche indicazione bibliografica sull'opposta versione austro-germanica. Quel che sappiamo è che il gruppo Krauss inquadrava il 35° battaglione lanciagas tedesco. Il battaglione si schierò a Ravelnik (quota 519), 800 metri a est delle trincee italiane tenute dal II e III battaglione dell'87°. Secondo Krafft: «Il battaglione lanciagas tedesco iniziò l'emissione alle ore 2: delle 1000 bombole preventivate, solamente 900 poterono essere utilizzate simultaneamente mediante un congegno elettrico d'accensione; le restanti, ritardate da un errore di smistamento, arrivarono mezz'ora più tardi». L'idoneità del luogo era stata studiata ad alto livello con molto anticipo. Per incarico del Comando Supremo germanico il colonnello Petersen aveva compiuto una ricognizione per i gas, a seguito della quale aveva concluso che l'impiego di tre compagnie lanciagas in conca Plezzo prometteva bene. Questa ispezione era avvenuta il 24 settembre, addirittura un mese prima dell'offensiva. Perché tutta questa attenzione per tre o quattro chilometri su una estensione di 50? E come spiegare l'interesse del Comando Supremo germanico, visto che l'impiego dei gas era ormai questione di routine, noi stessi avendoli largamente usati nell'undicesima battaglia dell'Isonzo? Quando poi arrivò in posto il battaglione lanciagas, esso fu protetto anche contro la curiosità dei militari austriaci. [Nota. Fritz Weber, Das Ende einer Armée, 1934, trad. it. Tappe della disfatta, Corticelli, Milano 1935. Fine nota.] Sull'effetto l'artigliere tenente Fritz Weber, che passò poco dopo in conca di Plezzo, testimonia: «Laggiù, in ampi e muniti ricoveri ed in caverne giacciono circa 800 uomini. Tutti morti». Il generale Cabiati

riporta la testimonianza del professor Sesselberger, che assisté all'operazione: «Tutti gli italiani che si trovavano nel raggio d'azione degli scoppi furono uccisi, ed egli stesso contò 500 o 600 cadaveri. Solo pochi avevano messo la maschera; la posizione degli uccisi lasciava comprendere che la morte li aveva colpiti all'improvviso». Più telegrafico von Below: «L'effetto del gas è devastante». Quale aggressivo chimico fu lanciato - nel settore di Plezzo - dal battaglione lanciagas? Finora si è dato per scontato che si trattasse, come per il resto del fronte, del solito «croce azzurra», una miscela di difosgene e difenilcloroarsina. Ma lo stesso Weber, in un altro suo libro molto più tardo, cita per la prima volta l'acido cianidrico, [Nota. Fritz Weber, Da monte Nero a Caporetto, Mursia, Milano 1967 (ed. orig. austriaca: Isonzo 1915, 1916, 1917, 1967). Fine nota.] cioè l'acido prussico, tossico letale anche in modeste concentrazioni, benché molto volatile e quindi poco persistente. Dice il Weber (che precedentemente aveva parlato di fosgene): «Acido cianidrico, qualcosa di nuovo, di mai conosciuto, di terrificante... Il vortice diabolico di vapore si diradò lentamente, dopo due ore e mezzo si era dissolto del tutto». Aggiunge il Weber che la salva fu sparata in 30 secondi e che l'acido cianidrico era contenuto in cilindri pressurizzati. È un particolare non irrilevante che i cilindri erano arrivati al battaglione lanciagas appena qualche ora prima dell'impiego. Perché? Le modalità di lancio con i lanciagas sono descritte con chiarezza dal senatore professor Lustig: «Il sistema di lancio con speciali ordigni da trincea offriva indiscutibili vantaggi sul metodo delle emissioni di nubi, con tiri effettuati da un numero grandissimo di bocche da fuoco... poiché ne venivano installati in linea anche qualche migliaio e venivano fatti esplodere contemporaneamente con un dispositivo elettrico. Si produceva così a vantaggiosa distanza dalla linea di lancio una densa nube che raggiungeva l'obbiettivo immediatamente o dopo un breve percorso». [Nota. Alessandro Lustig, Effetto dei gas di guerra, Istituto sieroterapico italiano, Milano 1934. Fine nota.] Fu veramente lanciato acido cianidrico o una delle varianti che tendevano a renderlo più stabile come la «vincennite» (usata dai francesi e composta da 50 parti di acido cianidrico, 30 di tricloruro di arsenico, 15 di tetracloruro di stagno e 5 di cloroformio) o addirittura il Cyclon B (acido cianidrico addittivato col 10 per cento di cloro e di bromocarbonato di sodio)?

Giovanni Comisso, che prestava servizio a Saga, racconta che il comando di divisione voleva sapere se era stato effettuato un tiro a gas, perché in tal caso avrebbe fatto rispondere con tiri a gas di rappresaglia: «L'aiutante maggiore della brigata di sinistra rispose: "Sì, è stato eseguito un tiro a gas. Anche qui da noi si sente come un profumo di mandorle amare, ma nessun danno, poiché abbiamo tappato ogni fessura". Allora il comando decise di eseguire il tiro [dunque i dati per il tiro con granate a gas erano disponibili, ed erano disponibili le granate], ma poi fu trattenuto dall'ordinario, perché il vento soffiando contro le nostre linee avrebbe finito con l'offendere i nostri. È ritornato dalla linea l'ufficiale che abbiamo mandato e riferisce che i soldati sono tutti al loro posto, col fucile fra le mani e la maschera al volto. Dunque è mancato l'effetto... Quei soldati erano fermi, impietriti dalla morte che la piccola e miserabile maschera non aveva servito a impedire». Orbene l'odore di mandorle amare indica senza ombra di dubbio la presenza di acido prussico. E contro di esso le nostre maschere, efficaci contro il gas «croce azzurra», erano certo impotenti. Ciò spiegherebbe la strage di Plezzo e la relativa immunità degli altri reparti. Spiegherebbe altresì l'altrimenti inesplicabile invio dei cilindri all'ultimo minuto: per evitare incidenti premonitori, che potevano svelare il segreto. Ad alta concentrazione l'acido cianidrico è mortale istantaneamente, per paralisi del centro respiratorio cerebrale: è il battistrada dei gas nervini, e ciò darebbe ragione anche dell'immobilità di quei soldati. Si deduce inoltre che un ufficiale italiano, mandato a verificare le condizioni delle truppe in linea (secondo Comisso, verso l'alba, quando la prima tornata di fuoco si era spenta), non poté percepirne gli effetti, poiché la nuvola era sparita. Ma egli si mantenne a rispettosa distanza dalle truppe. Se avesse constatato la morte di tutti quei soldati, la divisione avrebbe potuto almeno informarne immediatamente il corpo d'armata, perché le comunicazioni erano ancora operanti. Ad ogni modo dell'87° fanteria a mezzogiorno i superstiti erano 12 ufficiali e 200 soldati. Infine tre altri indizi. Come mai il gas fu lanciato subito, cioè esattamente alle due? Affinché l'effetto si dissipasse prima dell’attacco delle truppe austriache, che in dotazione avevano maschere probabilmente inefficaci contro l'acido prussico. E perché mai l'88°

fanteria, a sud dell'Isonzo, non ne subì l'effetto? Perché il fiume «tagliò» la letalità dell'acido prussico, dato che quest'ultimo reagisce facilmente in presenza di acqua, dando luogo a composti non tossici. Il Krafft non nomina il fosgene, ma parla di Treuerbruchgas, il «gas dei fedifraghi», che - afferma - «deve aver dato maledettamente sui nervi agli italiani». La frase, apparentemente innocua, assume un significato truce, se si pensa che l'acido cianidrico ha effetti simili a quelli prodotti dai gas nervini. Quale infine la ragione di mantenere il segreto «indefinitamente»? Subito dopo la guerra, perché la rivelazione poteva avere ripercussioni politiche negative; successivamente perché, trattandosi di un crudele esperimento di eccidio di massa, la Reichswher aveva interesse a tenere per sé i risultati: potevano servire per una prossima volta. Se ciò è vero, la documentazione non dovrebbe mancare. La mattina del 24 ottobre l'avanzata delle truppe di Krauss, in mezzo a quelle montagne di cadaveri, avviene perciò con relativa facilità: qualche mitragliatrice ha sparato e i mitraglieri sono chini sulle loro armi, colpiti da piombo e non da gas. Ma i progressi non sono folgoranti e solo alle 17 gli austriaci, dopo 5 chilometri di avanzata, sono davanti alle difese intatte di Saga. Il generale Arrighi, impressionato dalla notizia della caduta di Caporetto e prestando fede allo sfondamento della 43a divisione a Za Kraiu (benché il fatto non gli sia dato per certo), assicurata con forze ancora esuberanti la difesa della stretta di Saga, manda verso Ternova, donde potrebbe avvicinarsi una minaccia proveniente da Caporetto, solo il battaglione complementare dei bersaglieri. Queste truppe impreparate sono collocate in una posizione chiave, poiché a Ternova sopravvive l'ultimo ponte, da cui può svuotarsi il saliente del monte Nero, facendovi defluire la 43a e quel che resta della 46a divisione, ponte che però viene distrutto poco prima di mezzanotte. Ma già alle 18 Arrighi, con lo specioso pretesto che ormai ha resistito abbastanza e che è opportuno non tagliarsi la ritirata verso la valle Uccea e la linea d'armata, ordina che Saga venga abbandonata e che su quella si ripieghi: monte Guarda-Prvi Hum-monte Stol. E sullo Stol è fatta ripiegare anche la difesa di Ternova. Nonché scorciarla, egli allunga la linea di difesa e perde quasi tutte le artiglierie collocate presso Saga, che sparano fino alle 20. Iniziato alle 18,30, il

ripiegamento è ultimato a mezzanotte (mentre fino allora si era detto che, per sgombrare la sola conca di Plezzo, ci volevano cinque giorni). Cavaciocchi, che il giorno prima aveva invitato Arrighi alla salda occupazione di Saga e al ripiegamento dei battaglioni complementari, solo alle 22 viene informato che Saga è stata evacuata. Tuttavia Cavaciocchi non può prendere provvedimenti contro Arrighi. Alle 16 è giunto a Bergogna, nuova sede del comando del IV corpo, dove Cavaciocchi si è appena installato, il generale Montuori, che da Capello ha ricevuto l'investitura del comando dell'ala sinistra della II armata, cioè dei corpi IV e VII. Montuori domanda a Cavaciocchi come abbia pensato di utilizzare la brigata Potenza (271°, 272°, 273° fanteria), che è in arrivo. Cavaciocchi ribatte che non ha disposto nulla, poiché la brigata - gli è stato detto - doveva essere tenuta a disposizione del comando d'armata. Pare che Montuori sia scattato in una imprecazione: probabilmente l'avrebbe fatto, anche se Cavaciocchi ne avesse disposto l'impiego, perché la catena e le modalità di comando nell'esercito italiano erano così congegnate, che uno poteva avere sempre torto. La testa della Potenza è già a Sedula, a due chilometri da Bergogna, ma senza mitragliatrici, che hanno preso un'altra strada. Montuori dà gli ordini: un reggimento rimanga a Sedula, uno vada sullo Stol, un terzo si stenda fra San Volario e Robije. Quanto a Saga, scavalcando l'autorità di Cavaciocchi, egli consiglia di non insistere sulla sua difesa. Arrighi non ne sa nulla, la sua decisione l'ha presa autonomamente, ma alle parole di Montuori, Cavaciocchi si deve inchinare. Il generale Krauss è oltremodo lieto di tale insperato ritiro. Il ponte di Saga era stato fatto saltare, e la stretta è così «stretta», che - egli pensa - un capo animoso con un pugno di uomini e una mitragliatrice gli avrebbe fermato l'avanzata. Abbandonando Saga, poi, Arrighi apre alla penetrazione di Krauss la valle Uccea, in direzione del medio Tagliamento, poiché truppe austriache possono infiltrarsi fra il IV e il XII corpo carnico, mettendo in crisi anche quest'ultimo: «Una profondità tale e un avvolgimento a così largo raggio delle forze italiane (schierate in difesa e di riserva), da assumere valori strategici». Il biasimo della Storia Ufficiale è espresso in termini velati: «Circostanze fortuite... crearono confusione nella nostra attività di comando e produssero preoccupazioni capaci di far apparire la situazione più grave di quanto fosse e prima ancora che lo divenisse. Nel pur lodevole intento di far

fronte a questa, comandanti di elevato livello corsero dietro a mansioni non di loro competenza e persero di vista il quadro complessivo, esponendosi, così, ad essere inevitabilmente travolti dai fatti». Sembra una condanna implicita di Montuori. Arrighi tiene però ancora in pugno una discreta forza, cosicché allo Stol può destinare numerose milizie: un reggimento scheletrico della Potenza, quanto resta dell'88° fanteria, due battaglioni del 9° bersaglieri che erano riusciti a sfuggire dal saliente del monte Nero, il battaglione alpini Belluno, quasi intatto, e 500 uomini della brigata Genova, che erano riusciti a passare il ponte di Ternova prima della sua distruzione. Sul Prvi Hum, ergentesi lungo il crinale che da Saga sale verso lo Stol, è di guardia il battaglione alpini Argentera. La difficoltà sta nel rifocillare queste forze, nel fornire loro munizioni: esse sono esauste, sfinite di sonno e di emozioni. La mattina del 25 - ha cessato di piovere e brucia un sole fin troppo ardente - Krauss lancia contro lo Stol forze non soverchianti: quattro battaglioni della 22a Schützen: le altre premono in direzione del Tagliamento. Gli Schützen avanzano su numerose colonne, dapprima sveltamente, poi con sempre maggiori difficoltà. Ma alle 12,30, finite le munizioni, il battaglione Argentera, ridotto a 300 uomini dopo asperrimi combattimenti, è costretto a ripiegare dal Prvi Hum, rinserrandosi anch'esso verso la vetta dello Stol. Qui gli italiani resistono gagliardamente e la scalata è troppo dura anche per i duri montanari austriaci. A dar loro manforte accorre però ancora il generale Arrighi: egli ordina l'abbandono dello Stol e il ripiegamento su Bergogna. Secondo il generale Cabiati, Arrighi compì un errore materiale nello stendere l'ordine, includendo erroneamente nel ripiegamento anche il 271°, che era stato mandato sullo Stol proprio per coprire la ritirata delle restanti truppe. Secondo la Storia Ufficiale, invece, Arrighi alle 18 ordinò coscientemente il ritiro di tutto il contingente. Ma poco dopo il collega Torre lo informa di aver saputo, dal comandante della 34a divisione, che di ripiegamento non si deve parlare, in attesa di ordini specifici del IV corpo. E sarebbe qui troppo lungo narrare i penosi particolari di questi continui equivoci. Che fare? Arrighi - sono le 19 - ordina che le truppe discese dallo Stol tornino sulla vetta. Nel frattempo, però, ci sono arrivati gli Schützen, dopo una improba salita di 1300 metri su terreno difficilissimo, aiutati però dalla fortuna di aver dalla loro un generale

italiano. Le truppe italiane ripartono all'attacco. Mancano, purtroppo, le mitragliatrici, mentre gli avversari ne sono ben muniti. È quindi giocoforza tentare di farcela, in piena oscurità, con i fucili e gli assalti alla baionetta. Il generale Müller, comandante della 22a è però sulle spine: la lotta è dura, incerta. Le ansie gliele toglie il generale Arrighi, ordinando alle 21 il ripiegamento definitivo, una volta ricevuto dal generale Cavaciocchi l'ordine atteso. Quest'ordine, che per l'occasione non è protocollato, comincia con le parole: «Può darsi che la 50a divisione sia obbligata a ripiegare dallo Stol a Bergogna...». Alla stesura dell'ordine l'ha indotto la goccia che fa traboccare il vaso: il colonnello Boccacci, chiamando verso le 15 la stazione telefonica dello Stol, dice che gli è stato risposto in tedesco. Ma, a quell'ora, nessun «tedesco» è sullo Stol. Forse la stazione dello Stol è più in basso, e forse Cavaciocchi non lo sapeva. Fatto è che alle 15,30 egli stila l'ordine sopra ricordato. Il generale Müller respira, quando apprende che un battaglione di Kaiserschützen ha raggiunto quota 1450, due chilometri a est della vetta dello Stol. E a mezzanotte - riferisce il generale Krafft - «il nemico fugge in preda al terrore, oppure preferisce arrendersi». Subito però aggiunge, con frase sibillina, che «gli italiani non avevano comunque alcun motivo per abbandonare spontaneamente lo Stol, ma rimane il fatto inteso nello splendido comportamento della 22a divisione Schützen». Dunque anch'egli sapeva, quando nel 1926 scrisse la sua relazione, che il ripiegamento italiano era stato volontario. Non fu una fuga, ma le nostre retroguardie, impegnate in combattimento, non riuscivano a svincolarsi: quando, verso mezzanotte, vi riuscirono, si allontanarono alla massima velocità, cioè «corsero», senza «scappare». Scapparono in tanti, quel giorno, che sembra giusto ricordare coloro che si limitarono a «correre», staffilati da vertiginose imperizie di comando, in condizioni materiali e morali che avrebbero distrutto i più. La Commissione d'inchiesta per Caporetto voleva però bene al generale Arrighi e per l'accaduto (a Saga e sullo Stol) lo scagionò da ogni responsabilità, mentre fu dura verso Montuori. Contro Cavaciocchi si sono invece già scagliati i fulmini di Cadorna: alle 23,30, mentre percorre a piedi la strada per Nimis, che da Bergogna dista una dozzina di chilometri (perché le strade sono tanto intasate, che in auto non si può procedere), è raggiunto dal collega Gandolfo, che ne rileva il comando. L'indomani mattina Cavaciocchi è ricevuto dal comandante supremo, al quale dirà che ha la coscienza tranquilla. Con padre

Semeria Cadorna commenta: «Eccone un altro, con la coscienza tranquilla». [Nota. P. Giovanni Semeria, Memorie di guerra, Amatrix, Milano 1925. Fine nota.] Si ignora chi l'avesse preceduto con la tranquillità della coscienza. Mentre il cedimento della 50a divisione minacciava la Carnia da direzione inaspettata, fatti ancora più gravi avvenivano fra Caporetto e Tolmino. Affacciatesi al crinale del Kolovrat, le truppe austrogermaniche se ne impadronirono in 24 ore ed ebbero in mano le teste delle vallate che, correndo pressoché parallele al fronte, minacciavano le spalle e le retrovie dell'esercito italiano dell'Isonzo, cioè della sua parte maggiore: il colpo di scalpello era stato dato al punto giusto. In questa seconda fulminea tornata si inseriscono le vicende particolari delle brigate Arno e Salerno. La brigata Arno è schierata sulla linea di cresta del Kolovrat fino al monte Piatto, poi piega verso Clabuzzaro. A sinistra è schierato il 213°, che tiene il II battaglione sul monte Kuk (quota 1243) e tra il Kuk e il passo di Zacotan, mentre il I è disteso fra la sella e il monte Nachnoi (quota 1192). Il III battaglione è di riserva sotto il Nachnoi. Dal Nachnoi al monte Piatto (quota 1130), perpendicolarmente al passo di Naverko, è schierato il I battaglione del 214°. Il II si snoda tra il monte Piatto, passando per Casoni Solarie, allungandosi fino a Clabuzzaro: esso è disposto trasversalmente al passo Zagradan e di fronte al Podklabuc, la cui vetta è difesa da un battaglione della Napoli. Di fronte a Zagradan, ma in posizione più arretrata, è di riserva il III battaglione. Il comandante della brigata, generale Rosso di Lampiano, si trova a Drenchia, un paesino a mezza strada fra il Kuk e il Piatto, un chilometro dal crinale. La brigata è affluita in zona il 22 ottobre, dopo che aveva iniziato lavori di trinceramento e di difesa in altro settore. Le nuove linee affidate alla Arno risalgono a tempi andati. Questi budelli, nei quali i soldati entrano per uno, guardano verso nord, verso l'Isonzo. Nei giorni di pioggia e di nevischio precedenti la battaglia il terreno smotta e le ricognizioni sono penose. E ancora avvengono rimescolamenti di reparti. La compagnia, di cui fa parte Felice Troiani, ridivenuto comandante di plotone, è di stanza a Ravne, sotto il Kuk, quale riserva di reggimento. Nella notte sul 24 il bombardamento vi arriva attutito, ha

quasi un rimbombo normale. Il pomeriggio successivo la compagnia è mandata sul Kuk, e nella salita i soldati si imbattono in gruppi di militari laceri, disarmati e con lo sguardo vuoto: sono quasi tutti artiglieri e un ufficiale, di un'eleganza inzaccherata, porta sotto braccio un otturatore, come un pacchetto. Sulla vetta del Kuk è rimasta in efficienza solo una batteria antiaerea, accudita da un caporale. La sera è distribuito il rancio caldo: minestrone di riso e lardo. La mattina del 25 il plotone di Troiani viene guidato da un ufficialetto dello stato maggiore reggimentale, in una trincea incassata, sulla falda settentrionale del Kuk, proprio sotto la sua vetta: il budello ha solo l'entrata, l'uscita non c'è. Consegna al plotone: rintuzzare ogni tentativo nemico, per impedirgli di salire da quella parte e non abbandonare la posizione. Troiani si sporge dalla trincea: il pendio scende quasi a precipizio sull'Isonzo; solo un pazzo penserebbe di arrampicarsi di lì, i tedeschi non passeranno. Il capitano Mercadante, che comanda il battaglione di riserva del 213°, la mattina del 24, sulla camionale costruita sui rovesci del Kolovrat e parallela alla fronte, vede numerosi 149 prolungati, ottimi medi calibri, precisi e di lunga gittata. Appena giunti, devono essere ancora piazzati e sono a bocca in giù, come giraffe addormentate. Ma poco dopo mezzogiorno gli artiglieri tolgono gli otturatori e, col tenente colonnello in testa, fanno per andarsene: investito dal Mercadante, il colonnello risponde che i tedeschi sono vicini a passo Zagradan e di piazzare i cannoni non c'è tempo, quindi si allontana con i suoi. Stupefatto, Mercadante schiera una compagnia con due mitragliatrici verso Zagradan e tiene le altre due, con quattro mitragliatrici, sotto il Nachnoi. Pattuglie da lui inviate prendono contatto col I/213° e col 214°: le fanterie son dunque al loro posto. Introvabile è invece il comandante di brigata: non è a Drenchia, non al suo posto di comando tattico sotto il Nachnoi. Eppure sarebbe stato facile stendere qualche chilometro di filo telefonico, pensa Mercadante, che è sulle spine, perché il suo battaglione è riserva di brigata e non impegnarlo - come non può fare senza ordini - gli sembra un delitto. Comunque il rancio caldo arriva, la notte trascorre relativamente tranquilla: nessuno sa niente e il rumore della battaglia è ovattato. La mattina del 25 un portaordini reca l'ordine scritto del comando di brigata: non cedere un palmo di terreno, fra poco la

brigata Firenze contrattaccherà di sotto in su, per riprendere le posizioni perdute sul Podklabuc. Anche il capitano Sironi, del 214°, accampato con i suoi soldati presso Casoni Solarie, a mezzogiorno del 24 vede scendere a rompicollo gruppi di artiglieri terrorizzati, provenienti da costa Raunza e costa Duole: ufficiali e soldati, chi a piedi chi in autocarro, hanno in mano gli otturatori - i testimoni muti, che proveranno la loro fedeltà - e gridano: «Gli austriaci, gli austriaci!». I carabinieri, che dovrebbero fermarli, scappano con loro. Ma molte altre sono le batterie in difficoltà. Proprio in quel momento, su passo Zagradan, viene sorpresa la 29a batteria del 22° gruppo obici pesanti campali, che fra i suoi sottotenenti ha anche il poeta Cardarelli. Reparti di mitraglieri uccidono il comandante della batteria, catturano due pezzi, sterminano gli artiglieri. Gli altri due pezzi, di cui Cardarelli è responsabile, son defilati e non vengono visti. Possono fare penosamente marcia indietro e riavviarsi verso Cividale. [Nota. Italo Sorrentino, Ripiegamento di Caporetto, memoriale inedito donato all'autore nel 1965. Fine nota.] I soldati del Sironi osservano queste scene esterrefatti e inebetiti. Ma più demoralizzante, dal tardo pomeriggio alla mattina seguente, è l'essere spettatori della distruzione della brigata Napoli a opera dell'Alpenkorps. Questa unità sembra che abbia conquistato monte Piatto nello stesso pomeriggio del 24, ma l'avrebbe successivamente perso a opera di un reparto della Napoli. Mentre il generale Bongiovanni se la prende comoda, nella notte, aggregandola alla 3a divisione, gli affibbiano i resti della Napoli, che ancora combatte. Comunque il monte Piatto, nella notte fra il 24 e il 25 dovrebbe essere in mano degli italiani, ma la Storia Ufficiale, con scarsa coerenza, accenna a un contrattacco, organizzato dalla 3a divisione, per conquistare il solito monte Piatto e il Bukova Jeza. Certo è stupefacente che il generale Bongiovanni, nel deporre davanti alla Commissione d'inchiesta, abbia dichiarato che la brigata Arno era rimasta «passiva» di fronte a un attacco sferrato dal nemico, quasi fosse un giornalista di passaggio, anziché il comandante della Arno, della 3a divisione e del VII corpo d'armata. Frattanto, di prima mattina, affluisce da costa Raunza sui rovesci settentrionali del Podklabuc il temibile battaglione del Württemberg, comandato dal maggiore Sprösser. È un super-battaglione di tre

distaccamenti, ciascuno composto da 2 compagnie fucilieri e una di mitraglieri. Il tenente Rommel, il futuro feldmaresciallo, che comanda uno dei tre distaccamenti, concepisce il disegno di prendere gli italiani di sorpresa. I soldati della brigata Arno, scrutando verso l'Isonzo, sono distratti dal panorama lontano e non si accorgono che sotto di loro, rasenti agli scoscesi dirupi, cominciano a sfilare silenziosi, aggrappati alle pareti rocciose ma boscose e scroscianti d'acqua, questi diavoli del Württemberg. Mentre si riaccendono i combattimenti intorno al Podklabuc, Rommel e i suoi 500 uomini avanzano sotto la parete nord del crinale per oltre un chilometro. Imbattutisi in un plotone italiano immerso nel sonno, catturano 40 uomini e due mitragliatrici senza sparare un colpo. Alcuni soldati nostri riescono a fuggire ma dimenticano, loro, di sparare colpi di avvertimento. Tutto si è svolto come nelle guerre dei Sioux. Poco dopo è la volta di una batteria di medi calibri: gli artiglieri stanno lavandosi, quando devono alzar le mani. Anche questo agguato è avvenuto in silenzio. Ora Rommel è sul passo di Naverko e vuole impadronirsi del Nachnoi. L'ordine è sempre quello: infiltrarsi e non aprire il fuoco, se non per necessità. Le trincee vengono rastrellate fulmineamente, perché i più dei soldati sono ancora dentro le caverne, dove restano imbottigliati. Le vedette, sorprese mentre guardano l'Isonzo, allo scorgere i tedeschi si sentono svuotare e lasciano cadere le armi. I prigionieri sono centinaia, quando gli uomini di Rommel giungono ad appena 300 metri a oriente del Nachnoi. Frattanto contro il monte Piatto, che è quindi certamente già in mano germanica ma ancor poco presidiato, si scatena la prevista «ondata» offensiva italiana. È la brigata Firenze, dice Sironi, sono due battaglioni, di cui uno solo della Firenze, dice la Storia Ufficiale. Il contrattacco è ardimentoso. Krafft lo crede condotto da truppe scelte: ma scelta la Firenze certo non è. Curvi sotto il peso degli zaini, i fanti italiani sono lanciati per errore contro il Podklabuc. Questo narra Sironi e questo fa capire la Storia Ufficiale, senza dirlo esplicitamente. Ma sul Podklabuc è già spiegato in forze all’Alpenkorps, e i nostri sono accolti da mitragliatrici appostate in alto e anche da salve di cannonate. Pur diminuendo di intensità verso le 10, gli assalti si susseguono inani fino a sera. Di primo mattino al posto di comando del capitano Mercadante, arrivano trafelati alcuni suoi soldati della compagnia dislocata verso

Zagradan: sono stati attaccati dai tedeschi, ucciso il comandante di compagnia, ferito un sottotenente. In quella, a poche diecine di metri, si intravedono soldati dell'Alpenkorps. Mercadante rincuora i suoi, urla «Savoia!» e si lancia verso il nemico. Fatti pochi passi, si guarda indietro e vede che, se «Savoia!» l'hanno ripetuto in molti, nessuno l'ha seguito: neppure le sue sono truppe scelte. Forse però, istintivamente, hanno ragione loro: un'«ondata» contro una pattuglia dell'Alpenkorps sarebbe recisa all'istante, come un manno di spighe da una falce. Mercadante non si perde d'animo e decide, anche lui istintivamente, di mettere i suoi uomini al riparo: si ritira verso la vetta del Kuk, lasciando lungo il percorso fucilieri e mitraglieri appostati dietro a ostacoli naturali. In quella l'artiglieria leggera nemica li fa oggetto di tiro a schrapnel e un pallettone colpisce Mercadante sotto l'occhio sinistro, che s'inonda di sangue. Il capitano non cede il comando e resiste quanto può, ma comincia a non vedere anche dall'occhio destro e perde sangue. Deve perciò lasciare il comando, avviandosi a piedi verso Luico, dove c'è un posto di medicazione. A Luico incontra il generale comandante la 4a brigata bersaglieri, che combatte a Golobi. Il generale Piola Caselli è tranquillo: gli domanda come vanno le cose sul Kolovrat, poi lo consiglia di affrettarsi all'ospedale di San Pietro al Natisone, perché un ufficiale, con la testa bendata come una mummia, impressionerebbe i soldati. Da San Pietro Mercadante la sera stessa è a Cividale e il 27 a Verona. Non sa di averla scampata bella: qualche ora dopo la sua partenza la strada Luico-San Pietro è stata bloccata dal distaccamento Rommel. Dopo tre ore di cauta marcia, alle 9 del mattino Rommel è già riuscito a circondare il Nachnoi. Egli non organizza un attacco contemporaneo, non fa l'«ondata». Prima si muove un pattuglione per distrarre il nemico, poi apre il fuoco un secondo da direzione inopinata, e così via in un crescendo di confusione, che in un quarto d'ora porta alla resa i 500 uomini di presidio (probabilmente quasi tutto il I/214°). L'infaticabile Rommel punta ora verso il Kuk, dalla cui vetta è stato aperto un fuoco così violento di fucileria e mitragliatrici, che con le forze che ha Rommel non crede di farcela: occorre l'artiglieria. Il suo distaccamento è in continuo contatto telefonico con un centralino a Zagradan, perché durante l'avanzata un gruppo di fedeli genieri ha srotolato il cavo telefonico, portandosi a spalla le pesanti bobine.

Presto è ottenuto il collegamento con due batterie pesanti di Tolmino: faranno fuoco sulla vetta del Kuk da 10 chilometri di distanza fra le 11,15 e le 11,45. Intanto il maggiore Sprösser ha rinforzato Rommel con altre 3 compagnie, così che possa attaccare con un migliaio di uomini, una trentina di mitragliatrici pesanti e altrettante leggere. L'artiglieria tedesca, puntualissima e precisa, prende in pieno le trincee italiane. Subito fucilieri e mitraglieri attaccano col solito stile: da direzioni molteplici e inattese. Dalla conquistata vetta del Nachnoi un fuoco infernale si abbatte sul Kuk, che però gli italiani difendono strenuamente. Per superare l'impasse, Rommel ha un'idea audace: aggirerà il monte da sud e lo assalirà dalla direzione più inaspettata. E con 4 compagnie si allontana verso Ravne, lasciando le altre a tenere inchiodati gli italiani. Percorre strade militari mimetizzate con festoni, carriaggi e autocarri italiani sfilano in senso contrario, nessuno si accorge di nulla. A Ravne, dove arriva a mezzogiorno, vi sono solo conducenti con muli e salmerie. I conducenti scappano senza sparare colpi di avvertimento, e da Ravne Rommel può contemplare la strada Luico-San Pietro, lungo la quale si svolge un traffico tranquillo senza misure di protezione. Rommel suddivide due compagnie, nascondendole fra la vegetazione ai due lati della strada, e cattura coloro che arrivano alla spicciolata. Ma ecco profilarsi un grosso distaccamento di bersaglieri, che ripiega ordinatamente da Luico verso Savogna. Quel che avviene dopo è una piccola Canne: il nemico, infagottato in formazione chiusa, è tenuto a bada da poche mitragliatrici, che sparano a raffica su quella massa umana compatta, lasciando il segno. Dopo 5 minuti di fuoco Rommel tenta, senza successo, l'espediente di sventolare fazzoletti bianchi. Il fuoco riprende violentissimo, ma dopo altri dieci minuti i fazzoletti bianchi riescono dove non sarebbero riuscite le mitragliatrici, perché Rommel ha esaurito le munizioni. Sono 50 gli ufficiali e 2000 i soldati, che depongono le armi, incluso il comandante del 20° bersaglieri e due comandanti di battaglione. Non piccola è la loro ira, constatando quanto esiguo sia il numero di nemici, ai quali si sono arresi. Il capitano Mercadante l'ha dunque scampata bella, poiché Rommel il blocco della strada Luico-San Pietro l'ha messo in atto alle 14. Sull'azione il commento di Rommel è il seguente: «Anche se gli elementi avanzati di questo reparto erano inchiodati sul posto dal fuoco dei fucilieri da

montagna, gli elementi più lontani, a tergo, avrebbero potuto ristabilire la situazione, mediante un attacco lungo i pendii a ovest o a est. Al reparto italiano venne a mancare un'azione di comando energica e conscia dei propri obbiettivi». [Nota. Erwin Rommel, Infanterie greift an, L. Voggenreiter Verlag, Potsdam, 1937; trad. it. Fanterie all'attacco, Longanesi, Milano 1972. Fine nota.] Alle 15,30 Rommel è a Luico, dove arriva anche un battaglione Guardie. E il Kuk, su cui si erano asserragliate numerose unità italiane, residui del 213° fanteria? Esso viene conquistato nel pomeriggio da squadre d'assalto del Württemberg Gebirgsbataillon e del reggimento Guardie dell'Alpenkorps. Per Felice Troiani e il suo plotone la fine è incruenta e quasi insipida. Dalle pendici del Kuk essi continuano a guardar l'Isonzo, allorché una sequenza di colpi di cannone li inquadra a forcella, senza che uno vada a segno. Sulla testa di chi tenta di alzarla crepitano da sinistra alcune mitragliatrici: dovrebbero essere italiane, data la posizione, sono invece - Troiani non lo sa - del battaglione del Württemberg. Poi si rifà il silenzio, mentre il pomeriggio volge alla fine. L'ordine è di non muoversi, ma Troiani pensa che gli è pur necessario sapere qualcosa. Esce perciò dalla trincea e sul retro trova schierata, con le armi puntate, una squadra tedesca comandata da un giovane ufficiale. Tutti sono dichiarati prigionieri. Fra sé e sé Troiani medita che in tutta la guerra non ha sparato un sol colpo. I suoi soldati escono lieti dal budello, qualcuno cerca addirittura di baciare le mani degli assalitori, che hanno l'aria militarmente minacciosa, ma umanamente benigna. Nell'immane trambusto, il comandante del 213° riesce però a salvarsi. Il battaglione di cui fa parte Guidò Sironi si è ora avvicinato al monte Piatto. I tedeschi si insinuano fra le nostre truppe: un po' di trincee in mano loro, un po' in mano nostra. La fine infelice del contrattacco verso il Podklabuc non è stato uno spettacolo incoraggiante. Verso le 3 del pomeriggio il II e il III battaglione sono circondati dai tedeschi dell'Alpenkorps. Gli avversari si scambiano colpi di fucile e raffiche di mitragliatrice. Sironi propone al suo comandante di battaglione di rompere l'accerchiamento, chi ci riesce. Ma quello è irremovibile: ha ricevuto l'ordine di restare. Dunque morti o, quando finiscono le munizioni, prigionieri. E ha ragione: la disciplina è disciplina. Ai suoi von Below il comportamento sciolto l'ha ordinato:

mica ha detto «fate un po' quel che volete». Solo che disciplina e addestramento nei due eserciti sono diversi. A sentir nominare Mauthausen molti soldati hanno i brividi: prigionieri non vogliono finire, temono di lasciarci la pelle, non per piombo ma per Tbc. Qualcuno, che tenta di saltar fuori dalle trincee, è però steso immantinente. Compaiono allora centinaia di fazzoletti bianchi su altrettanti fucili: comincia la resa. Resistono gli ultimi duri, spara ancora una mitragliatrice italiana. Poi torna il silenzio. Ora si arrendono anche i soldati di Sironi. Lui non vorrebbe, ma l'attendente lo consiglia di non far sciocchezze. Escono dalla trincea e si trovano, davanti, le armi spianate degli alpini dell'Alpenkorps. Non è stata una fine gloriosa quella della Arno, che sul Kolovrat ha perduto 2700 uomini, in gran parte prigionieri, compreso il comandante di brigata e quello del 214°. Ma più che la codardia e il basso morale ha prevalso l'inettitudine. L'esercito italiano - si direbbe oggi -possedeva l'hardware, ma gli mancava il software: senza programmi e programmatori, i calcolatori non servono. Il distaccamento Rommel non si ferma al disfacimento della Arno e punta verso la vetta del Matajur, 1641 metri, sulla quale è inchiodato il grosso della brigata Salerno. E anche la sorte di questa è decisa in un groviglio di tragico sarcasmo. La comandava il generale Zoppi. Il 25 resta ferito il generale Viora, comandante della 62a divisione, di cui la Salerno fa parte. Viora è sostituito dal generale Fochetti. Ma il comando spetta per regolamento a Zoppi. E allora, giù Zoppi dal Matajur! E la Salerno? Il più anziano in grado, il colonnello Antonicelli, comandante dell'89° fanteria, ne è messo a capo. All'alba del 26 Zoppi si avvia verso il comando del VII corpo, e pochi minuti dopo giunge trafelato dall'Antonicelli un tenente dei carabinieri, latore dell’ordine scritto di abbandonare immediatamente il Matajur. Antonicelli guarda il foglio: vi è scritto che l'ordine deve essere eseguito entro il 27 mattina. Il tenente assicura all'Antonicelli che c'è un evidente errore di scritturazione: non il 27, ma il 26! È pronto a giurarlo e a metterlo per iscritto. Che senso avrebbe ordinare la ritirata con un anticipo di 30 ore? Ma l'Antonicelli è adamantino: il tenente torni al comando di divisione e faccia rettificare la data. Lui è «un soldato» e intanto resta lì. Corre il tenente al comando di divisione e Zoppi giunge al comando del VII. Perché è lì? Nessuno sa niente, più lui spiega, meno gli altri

capiscono e si meravigliano che non sia rimasto sul Matajur. Sul quale dovrebbe essere recapitato l'ordine con la rettifica della data. Ma Rommel nel frattempo lo ha circondato. Si combatte. Come? Dice la Storia Ufficiale che la resistenza della Salerno fu «disperata». Secondo Rommel fu una resa in massa. Probabilmente nessuna delle due versioni è vera. A credere alle cifre (dubbie anch'esse), la Salerno avrebbe perso 29 ufficiali e 1358 soldati fra morti e feriti, e avuto 3746 dispersi (probabilmente quasi tutti prigionieri, una parte certo feriti), ma 815 sarebbero riusciti a forzare il cerchio e riparare a Savogna o sul monte Purgessimo. Il capo di stato maggiore della XIV armata mista dà dell'evento una versione meno incensata di quella di Rommel, pur da lui definito «uomo dotato di eccezionale capacità». Krafft dice che la resistenza della Salerno, cui si aggiungevano taluni reparti di bersaglieri, fu inizialmente debole, ma andò progressivamente indurendosi. La brigata fece del suo meglio per adempiere al compito affidatole e si difese con coraggio. Ma, alla lunga, gli italiani non riuscirono a contenere lo slancio e l'abilità dei württemburghesi. In duri attacchi le smilze compagnie di Rommel, premendo contro la vetta, coinvolsero l'intera brigata, che non tentò alcun contrattacco e alla fine si arrese. Anche la versione del generale Zoppi è sostanzialmente in accordo con quella di Krafft. La tattica fu sempre la stessa: delle Canne in miniatura. Reparti non numerosi ma ben disciplinati circondano grossi nuclei nemici e ne impediscono lo spiegamento, cosicché son pochi, fra gli attaccati, quelli che combattono: gli altri restano in mezzo a far peso. Il commento di Rommel è però più cauto del suo racconto: «Durante i combattimenti che ebbero luogo dal 24 al 26 ottobre 1917 vari reggimenti italiani giudicarono la situazione disperata e rinunziarono anzitempo alla lotta, quando si videro attaccati sul fianco e addirittura alle spalle. I comandanti italiani mancarono di fermezza. Non erano abituati alla nostra tattica molto agile e per di più non avevano saldamente in mano i loro soldati». Certo il distaccamento Rommel ha compiuto miracoli. Dall’alba del 25 a mezzogiorno del 26, per 30 ore ha combattuto senza soste, contando 6 morti e 30 feriti. In compenso ha catturato 9000 soldati, 150 ufficiali e 81 cannoni. Nessuna impresa di Rommel nella seconda guerra mondiale è confrontabile per audacia, coraggio e soprattutto

abilità di comando con quanto egli ha compiuto a 26 anni da tenente fra il Podklabuc e il Matajur. Ma è anche vero che venticinque anni dopo non avrebbe potuto fare ciò che fece, senza la eccezionale esperienza manovriera acquisita sul Kolovrat. Il Württemberg Gebirgsbataillon non rappresenta però la media, ma la vetta, dell'addestramento tedesco. È stato curato, allenato e impiegato giudiziosamente per due anni, per acquisire quello standard. L'Alpenkorps e la 200a divisione, entrambe unità d'élite, sono a livello inferiore: altrimenti il 1° e il 4° Jäger non sarebbero stati fermati per 24 ore da pochi stracci delle brigate Spezia e Taro, a nord e a sud dello Jeza, dopo che il grosso aveva ripiegato per ordine ricevuto. Dove il combattimento tende a ridiventare «convenzionale», cioè vecchio stile, non c'è superiorità tedesca né inferiorità italiana. Per questo von Below preme, affinché l'inseguimento continui senza tregua, mentre il comando del fronte sud-ovest, esilarato dal successo, vorrebbe concedersi una siesta, e concederla alle esauste truppe della XIV armata. No!, dice von Below: avanti verso Cividale, verso il Torre, verso Udine, verso la Carnia. Tutti sanno quel che devono fare: «Avevamo infatti assegnato degli obbiettivi molto ampi, ed impartito ai quadri subalterni una grande quantità di istruzioni: tutti potevano perciò lavorare tranquillamente in condizioni di autonomia». Già il pomeriggio del 25 il generale Cadorna aveva telegrafato al ministro della Guerra: «Vedo delinearsi un disastro, contro il quale lotterò fino all'ultimo».

Capitolo XIX DALL'ISONZO AL TAGLIAMENTO Il Comando Supremo italiano ebbe immediata notizia dell'offensiva nemica. Tuttavia, fino al tardo pomeriggio del 24 ottobre, non ne comprese la gravità. Il complesso dei provvedimenti presi nelle prime ore rifletteva piuttosto la continuazione delle preoccupazioni dei giorni precedenti. Si trattava cioè di provvedimenti di carattere generale che riguardavano, sì, il rinforzo dell'ala sinistra della II armata, ma anche le precauzioni da prendersi, nel caso che l'attacco «principale» fosse diretto altrove, addirittura contro la III. Sulla scorta dei documenti riportati dalla Storia Ufficiale è questa la conclusione inevitabile, esattamente l'opposto di quella suggerita dalla Storia, là dove afferma che, fin dai primi momenti dell'attacco nemico, il Comando Supremo e quello della II armata ne percepirono la gravità. È quindi pienamente credibile il diario del colonnello Gatti, là dove dice che fino alle 19 Cadorna era tuttora incerto sulla direzione dell'offensiva nemica; e lo era persino, sebbene in misura minore, il generale Capello. L'afflusso delle brutte notizie avvenne in blocco, fra le 19 e le 22, poiché a quell'ora, tornato al comando, Gatti apprese che intere divisioni, come la 43a e la 50a, erano sparite nel vuoto: «Sento parlare di una Sedan italiana. Il Capo dice che ritirerebbe tutto sul Tagliamento». Secondo il tenente colonnello medico Casali, anch'egli presente, Cadorna avrebbe addirittura accennato al Piave, perché il Tagliamento non offriva buone condizioni di resistenza. Va rilevato che, in questa prima reazione emotiva, non si parla di rese di soldati: Sedan non era stata una defezione di fronte al nemico. Era stato Napoleone III, il 2 settembre 1870, ad acconsentire alla resa dell'armata Mac-Mahon, accerchiata dall'esercito prussiano. Ma successivamente la mancata resistenza delle truppe fu segnalata da più parti. Il generale Caviglia, comandante del XXIV corpo d'armata, alle 12 del 25 ottobre, avvertì che la brigata Roma «si era arresa». Caviglia ritrattò poi, rimproverandosene, tale accusa; e non già nel 1933 allorché scrisse il suo libro su Caporetto -, ma fin dal novembre 1917, quando al generale Negri di Lamporo, incaricato di un'inchiesta preliminare, dichiarò che la Roma si era battuta benissimo. La sorte della brigata Roma è forse esemplare dello sbandamento essa non si batté infatti «benissimo» -, che colpì le unità di seconda

linea e di come esso venne segnalato in alto loco. Nei fatti il 24 ottobre cadde il comandante del I/80°, mentre il giorno dopo morirono i comandanti del II e del IV battaglione del 79°, che con l'80° formava la brigata. Del 79° reggimento, Caviglia segnala nominativamente i 6 ufficiali caduti in combattimento e altri 6 rimasti feriti. Il Riassunto storico delle brigate italiane riporta, per l'intera Roma, 9 morti e 6 feriti fra gli ufficiali, e 174 morti e 116 feriti fra i soldati, mentre i dispersi (fino al 4 novembre) sarebbero stati 85 ufficiali e 2294 uomini. La mattina del 25 la Roma avrebbe dovuto occupare la linea Na Gradu-Auzza, a protezione delle divisioni, cui era stato ordinato di ripiegare dall'alta Bainsizza. E su tale linea, alle 7 del mattino dello stesso 25, era stato inviato il XIII battaglione genio (compagnie 18a, 52a e 70a), comandato dal maggiore Piacenza, per imbastire una prima occupazione provvisoria. Il 1° plotone della 52a comandato dal sottotenente Izzo, occupò l'estrema sinistra di tale linea, senza materialmente arrivare all'Isonzo per mancanza di uomini, comunque in fiduciosa attesa della brigata Roma. A mezzogiorno del 25 Izzo si sentì apostrofare: «Tenente, con chi è collegato?». Risposta: «Con nessuno». L'interpellante era il comandante della Roma, generale Vincenzo Rossi, che allo Izzo rivolse l'incitamento di resistere fino all'ultimo uomo, andandosene poi con i pochi accompagnatori. Nel primo pomeriggio, nonché la Roma, arrivarono gli austriaci, che più o meno distrussero la 52a compagnia, il cui comandante rimase ucciso insieme a molti soldati, altri feriti e prigionieri. Il maggiore Piacenza ordinò allora il ripiegamento alle altre due compagnie e al 1° plotone della 52a che non era stato coinvolto nello scontro; e tutti guidò al di qua dell'Isonzo. Non dunque per ordine ricevuto dal generale Rossi verso le 11, come dice Caviglia, ma alcune ore dopo e di sua iniziativa, il maggiore Piacenza lasciò le posizioni. Secondo Izzo il racconto di Caviglia non è attendibile in un altro particolare, che cioè il generale Rossi alle 11 sia all'80° fanteria che al XIII battaglione genio avrebbe ordinato di dirigere sulle pendici del Fratta, visto che alle 12 lo stesso generale impartiva allo Izzo l'ordine di resistere là dove si trovava. [Nota. Domenico Izzo, lettera all'autore in data 15 marzo 1977. Fine nota.] Il XIII battaglione genio, pervenuto sulla strada di destra Isonzo, si trovò mescolato a grossi raggruppamenti disorganizzati e disarmati, in gran parte della brigata Roma, sbandati che «da informazioni assunte ci risultò si trovavano già là dalle prime ore del mattino».

La Storia Ufficiale, nel riferire che il comandante della 49a divisione notificò a Caviglia la perdita di Auzza e di un battaglione della Sele, precisa che fu lo stesso generale a informare che un'altra colonna nemica aveva catturato non solo la Roma ma anche il 38° fanteria. Continua la Storia: «Tali notizie non erano inesatte, ma notevolmente esagerate; però nel momento critico in cui furono date fecero molta impressione e destarono grave preoccupazione». La «resa» della Roma è segnalata anche nel diario di un tenente austriaco, catturato sull'Asolone il 14 gennaio 1918: «Si dice che presso Hoje si sia arresa la brigata Roma». Al fatto accenna genericamente pure von Below: «A Ronzina [presso Auzza], nella valle dell'Isonzo, migliaia di italiani sventolano fazzoletti bianchi». Il racconto che delle vicende della Roma fa la Storia Ufficiale sembra in definitiva equilibrato: duri combattimenti, infiltrazioni, sbandamenti, rese di reparti accerchiati, più o meno le vicissitudini della Arno, e ripetizione, su scala più grande, di quanto era avvenuto sul Carso nella «piccola Caporetto» del 4-6 giugno 1917. L'improvviso ordine di ripiegamento, dato a un'armata strutturalmente statica, metteva in crisi soldati e comandanti, non avvezzi a quanto non era mai accaduto prima. Ma intanto al generale Cadorna le notizie delle «rese», anzi delle «defezioni», venivano somministrate a dosi massicce: il generale Badoglio, fin dalla sera del 24, aveva detto che la brigata Puglie, da lui personalmente schierata sul Globocak, se l'era squagliata; altrettanto diceva il generale Bruno della brigata Alessandria (salvo smentirsi anche lui pochi giorni dopo). Più categorico fu Capello nell'ultima lettera prot. 4975, diretta a Cadorna nel pomeriggio del 25: «Se molti reparti fecero bene il loro dovere, molti altri non lo fecero non resistendo affatto o resistendo in modo irrisorio». L'unico a sostenere che i soldati si erano battuti valorosamente fu Cavaciocchi. Ma fu anche il primo generale silurato dopo l'inizio della battaglia di Caporetto, soprattutto per le informazioni passate sul suo conto da Capello a Cadorna. Entrambi poi, Cadorna e Capello, credevano che le infiltrazioni profonde del nemico fossero opera di esigui reparti, mentre - se questo fu vero in taluni casi - in generale nel primo assalto e nella successiva rottura gli austro-germanici godettero di una notevole superiorità numerica locale.

Vi fu dunque, a partire dalla mattina del 25, un subitaneo rigetto di responsabilità: non si trattava di una Sédan italiana, la rottura era avvenuta perché i soldati avevano mollato. Accennando al disastro che vedeva delinearsi, Cadorna, il 25 ottobre alle 19,47 telegrafava al ministro della Guerra: «Circa dieci reggimenti arresisi in massa senza combattere». Il 27 ottobre, alle ore 7,15, in altro dispaccio al generale Giardino, Cadorna tornava sullo «stato morale ormai propagatosi alle truppe». Erano queste però comunicazioni riservate al governo, come un successivo telegramma dello stesso 27 diretto al presidente del Consiglio Boselli (dimissionario dal giorno prima): «Esercito cade vinto, non già da nemico esterno, ma da quello interno, che invano io reclamai fosse combattuto con quattro lettere, a nessuna delle quali fu data risposta». Ma il successivo annuncio pubblico, diramato alle ore 13 del 28 ottobre e radiotrasmesso all'estero, prima che il governo potesse attenuarlo, come provvide per l'Italia, fece alla nazione l'effetto di un pugno nello stomaco: «La mancata resistenza di reparti della II armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austrogermaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte giulia...». [Nota. L. Cadorna, Pagine polemiche, cit. Ho riportato questa citazione a preferenza di altre, perché in essa Cadorna si dilunga sulle circostanze in cui il bollettino fu redatto e il figlio Raffaele vi aggiunge del suo. Luigi Albertini rettificò però taluni particolari delle circostanze in: L'Italia nella grande guerra, vol. III. Fine nota.] Tale versione non edulcorata venne conosciuta immediatamente anche in Italia e diede esca a improperi e polemiche, che durarono anni e anni. Cadorna, nonostante le elaborate circostanze in cui il bollettino fu formulato e che potevano offrirgli qualche scusante, di fronte alla Commissione d'inchiesta si prese la responsabilità del testo; non solo, ma dichiarò che non se ne pentiva e che, in analoghe circostanze, l'avrebbe ancora sottoscritto Eppure anche in tale occasione non mancarono nel suo animo le oscillazioni. Alle 18,30 del 26 al colonnello Gatti Cadorna diceva che: «Alcune truppe si battono bene e meglio, altre peggio». Che voleva dire quel «meglio»? Aveva forse Cadorna percepito una specifica combattività in taluni - pochi - reparti? Nelle lettere ai suoi familiari, poi, le cause della disfatta sono attribuite più al «Fato» che al disfattismo.

Saltando il 24 ottobre, nei giorni 25, 26 e 27, di cui il comunicato Cadorna riassumeva gli eventi nel bollettino del 28, la relazione di Krafft, assai più dettagliata del diario di von Below, in ben 32 occasioni registra accanite resistenze, coraggiosi contrattacchi, ostinata difesa di reparti italiani. Al comandante dell'Alpenkorps, in marcia verso Cividale, il maggiore von Bothmer riferiva che «il nemico dava segni di una resistenza assai maggiore di quanto non ci si fosse inizialmente aspettato». Ad esempio sul monte Purgessimo, caposaldo di destra dello sbarramento che, all'alba del 27 ottobre, doveva proteggere Cividale, erano stati dislocati 4 battaglioni della brigata Avellino (231° e 232°), cui se ne aggiunsero due del 222° della brigata Jonio, quando la Jonio venne sloggiata dal fondovalle Natisone. La Avellino e la Jonio appartenevano a quelle brigate supersfruttate, che nei precedenti 5 mesi erano state «rifatte» più di una volta. Contro il monte Purgessimo avanzò, di primo mattino, l'intera 26a divisione germanica, cui diedero manforte due battaglioni del 3° Jäger, comandati dal colonnello von Rango. Questi due battaglioni mossero verso il monte Purgessimo da ovest, mentre la 26a (che aveva ricusato l'aiuto del 3° Jäger) attaccò da nord. Il 125° reggimento della 26a forte di 3 battaglioni, venne però respinto e l'attacco dovette essere ripetuto nel pomeriggio, riuscendo grazie all'intervento determinante dei non desiderati battaglioni del 3° Jäger. Da notare che il 125° era rincalzato dagli altri due reggimenti della 26a. In totale l'altura, difesa da 6 battaglioni assai mal ridotti, fu attaccata da 11. Si arrivò alla baionetta e alle bombe a mano, e furono catturati 3000 prigionieri: un'azione onorevole, che però nella Storia Ufficiale è ricordata solo con due righe, pressoché incomprensibili. Altro duro scontro si ebbe sul monte Spig, poco a oriente di Castelmonte, contro cui marciava la 5a divisione del Brandeburgo. L'attacco, condotto dal capitano von Witzleben, futuro feldmaresciallo finito sulla forca per l'attentato contro Hitler, fu contenuto per otto ore, e solo terminò con l'aggiramento del reparto italiano: un'azione, che la nostra Storia non menziona. Questo, e molti altri episodi, avrebbero dovuto far riflettere von Below: l'esercito italiano non era in stato di progressivo sfacelo. Dopo la rotta esso sopravviveva in condizioni di caotica confusione: la situazione, rapidamente aggravatasi, si manteneva sull'orlo del precipizio, senza rovesciare nel baratro. Anche la battaglia aveva

cambiato natura. Da parte germanica la rottura del fronte era stata ottenuta con uno schieramento di artiglieria poderoso e un'abilità manovriera a noi sconosciuta. Prodottasi la falla, l'artiglieria media e pesante venne però a mancare: a noi, per la materiale perdita dei pezzi, agli avversari per la difficoltà di portarli avanti con la necessaria celerità. Ciò significava che i combattimenti in corso erano soprattutto scontri di fanterie. Da entrambe le parti le artiglierie si limitavano ormai a quelle campali e ai pochi medi calibri a traino meccanico. È vero che grande era la superiorità numerica nemica in artiglierie leggere, ma anch'esse necessitavano di cavalli (o muli, se someggiate), e quindi di foraggi e altri pesanti rifornimenti, che ne rallentavano l'afflusso, rispetto a quello, prioritario, delle munizioni per la fanteria. Una volta allargatasi nella pianura friulana, la guerra aveva preso un'allura veloce, ma molto diversa dagli immani scontri di fanteria avvenuti nel 1914, grazie al numero di armi automatiche straordinariamente elevato. Per von Below era imperativo evitare che si instaurasse nuovamente la guerra di trincea, altrimenti bisognava cominciare tutto da capo: e una nuova battaglia di rottura avrebbe potuto essere organizzata solo dopo una nuova lunghissima preparazione. Questo tipo di guerra consentiva però un'alta mobilità anche in territori montani. Oggi la motorizzazione totale delle strutture militari (limitandosi naturalmente alle armi convenzionali) costringe a effettuare gli spostamenti in prossimità delle grandi arterie di comunicazione. Una guerra a piedi consentiva invece di combattere anche in zone difficilissime, perché nessuna macchina può rivaleggiare con l'uomo nell'affrontare terreni impervi. L'avanzata del gruppo Krauss verso il medio Tagliamento attraverso le montagne della Carnia era quindi una minaccia ben maggiore di quanto potrebbe essere oggi in analoghe circostanze. Né gli uomini si muovevano lentamente: la 26a divisione tedesca, che il 27 ottobre percorse 26 chilometri, continuò a marciare nella notte per altri 15 arrivando alle 2 del 28 sulla riva del Torre, a soli 4 chilometri da Udine: ed erano soldati affardellati con 30 chili di zaino e armi, non sciolti maratoneti. Il dilemma se ordinare o meno la ritirata si era presentato fulmineo al generale Cadorna, che l'aveva risolto in senso positivo. La mattina del 25 e nel primo pomeriggio egli ne parlò a fondo con Capello.

Capello, nuovamente ammalato e febbricitante, non era più in grado di reggere il comando. Montuori fu perciò nominato da Cadorna suo successore definitivo. Ma, prima di andarsene, Capello insisté per la ritirata: almeno fino al Torre, meglio al Tagliamento. Egli concepiva una ritirata veloce, per frapporre spazio davanti al nemico, evitando di gettare nella voragine, improvvisamente spalancatasi, le riserve disponibili. Queste si sarebbero consumate senza scopo, aumentando le perdite. Ma Capello si faceva delle pericolose illusioni. La ritirata, come egli la intravedeva, richiamava la sua idea della controffensiva, ora non più preventiva ma consecutiva: «Sulla linea Tagliamento-Fella ci fermeremo; essi mi hanno attaccato colla loro destra, io li contrattaccherò sulla loro destra». L'esercito italiano non aveva alcuna possibilità di riprendere l'iniziativa. Le perdite erano già gravissime. Secondo la stima del generale Cabiati, quelle subite dall'ala sinistra della II armata - IV, VII e XXVII corpo - ammontarono a 106.000 uomini (ed è forse una sottostima), quasi tutti eliminati nei primissimi giorni. Si trattava del 40 per cento della loro forza iniziale, inclusi i servizi. Naturalmente i cannoni e le bombarde erano andati perduti quasi al completo, insieme a moltissime mitragliatrici. E ormai si faceva sentire la scossa morale, che i comandi attribuivano erroneamente a scarso spirito combattivo, mentre rappresentava la manifestazione più acuta della totale sfiducia che la truppa - e non soltanto la truppa - nutriva per la nostra struttura di comando e la relativa dottrina. Cadorna, anche lui favorevole alla ritirata almeno fino al Tagliamento, la considerava però una manovra molto più rigorosamente difensiva. Si accordò comunque con Capello, prima che questi abbandonasse il comando, perché la ritirata cominciasse la stessa sera del 25, però a velocità moderata, per salvare quanto più materiale possibile. Ma, partito Capello, la stessa sera Cadorna si convinse - o meglio fu convinto - a tentare una estrema difesa sulla cosiddetta «linea degli sbocchi»: gli sbocchi in pianura delle valli dello Judrio, del Natisone e dei loro affluenti. Il generalissimo interpellò Montuori, per chiedergli se la cosa gli sembrava possibile. Benché personalmente di parere assolutamente contrario, Montuori si mise in contatto telefonico con tutti i comandanti di corpo d'armata, i quali gli assicurarono che si poteva tentare. Fu così che, 5 minuti dopo le ore zero del 26, il Comando Supremo emanò un ennesimo ordineproclama, con cui si stabiliva la linea da tenere a ogni costo: monte

Maggiore-monte Kuk-Vodice-Sella di Dol-monte Santo-Salcano. Su di essa si doveva «vincere o morire»: «Fede e tenacia ci daranno la vittoria». Curiosa invocazione, mentre si denunciava la resa in massa di parecchi reggimenti e lo scollamento di molti altri. Il tentativo fallì, altre riserve furono impegnate e disfatte il giorno 26, e nelle prime ore del 27 Cadorna diramò l'ordine di ritirata dietro il Tagliamento per la II e la III armata, e sulla linea delle Prealpi carniche per il XII corpo. Alla IV armata fu ingiunto di ripiegare sulla linea di resistenza a oltranza. Cividale fu occupata dai tedeschi alle 15 del 27 e la resistenza italiana al Torre durò poche ore. Nella notte sul 28 la 200a divisione germanica riuscì a passare il torrente poco a nord di Udine, sul ponte di Salt che non era stato fatto saltare e in Udine mise piede alle 14 del 28. In quell'occasione rimase ucciso il generale von Berrer, comandante del LI corpo d'armata germanico, che - forse inconsapevolmente - si era spinto con l'automobile innanzi alle sue truppe. Da Udine, con gli uffici del Comando Supremo, Cadorna era partito diretto a Treviso, il giorno prima alle 17, giusto in tempo per non essere sorpreso dal nemico, tenuto conto del caotico ingombro delle strade e delle ferrovie. L'ordine di ritirata sul Tagliamento e sulla linea delle Prealpi carniche provocò nell'esercito italiano una corsa affannosa verso il fiume e i suoi ponti, prima che il nemico, in mala sorte, ci arrivasse con anticipo. Così l'avanzata nemica, progredendo maggiormente in corrispondenza dell'ala sinistra italiana, venne a minacciare la marcia retrograda della III armata, che si trovava ancora notevolmente ad oriente. In realtà l'ordine di ritirata per l'armata del duca d'Aosta era stato tardivo, almeno di un giorno, a voler essere prudenti. Molto modesta, fortunatamente, era la minaccia che su di essa faceva gravare il gruppo Boroevic (I e II Isonzo Armée), perché queste truppe di mobilità non ne possedevano alcuna. Radicate ormai nel Carso, i trasporti asserviti e adibiti ai servizi logistici per il rifornimento di viveri e di munizioni, neppure i cannoni da campagna potevano essere agevolmente mossi per mancanza di cavalli. La minaccia veniva soprattutto dalla XIV armata, se avesse piegato verso sud, raggiungendo le foci del Tagliamento, prima che le superasse la III armata, così chiudendola in una immane sacca.

Questa possibilità fu intravista dal generale Hofacher (successore di Berrer), che ne parlò a Krafft von Dellmensingen, il quale non se la sentì di prendere la decisione di piegare a sinistra (minacciando, sì, la III armata italiana, ma attraversando le linee di comunicazione riservate alle due Isonzo Armée e rallentando la pressione su Codroipo e i ponti della Delizia), senza consultare von Below. La cosa non portò però via molto tempo. Concepita da Hofacher alle 13, l'idea era stata da lui esposta al generale Krafft in Udine alle 20. Alle 20,45 Krafft ne ripartì, giungendo alle 21,30 a Cividale, dove nel frattempo era arrivato von Below col comando della XIV armata. Below accolse la proposta e alle 22 diramò l'ordine di indirizzare il gruppo Scotti (1a divisione austro-ungarica e 5a tedesca) e la 117a del gruppo Hofacher verso Latisana e il basso Tagliamento. Sarebbe stata, questa, una minaccia mortale per l'armata del duca d'Aosta, solo che fosse stata disposta 12 ore prima e non ci fossero state improvvise esplosioni di eroismo da parte italiana. Per un pelo, la mossa fu sventata.

Capitolo XX L'INVASIONE Con la rottura del fronte italiano cominciò la tragedia del Friuli. Talvolta i numeri danno un'idea più eloquente delle descrizioni. La zona minacciata d'invasione e poi occupata dal nemico (le province di Udine e Belluno, e parte di quelle di Venezia, Treviso e Vicenza), con una superficie di 14.000 chilometri quadrati, prima della guerra contava 1.150.000 abitanti. Poiché però circa un decimo della popolazione italiana nell'autunno del 1917 era sotto le armi, i civili superavano di poco il milione. La parte di esercito italiano coinvolta nella ritirata (cioè tutto, escluso il III corpo d'armata e la I armata, che eseguì una modesta rettifica sulla sua ala sinistra) il 24 ottobre 1917 contava 1.350.000 soldati e ufficiali. Essa fu inseguita dalla XIV armata mista, e successivamente dal gruppo Boroevic, indi dalla X armata (Krobatin) e infine da una parte del gruppo Conrad: in totale un milione di uomini. D'altra parte, escluse le zone oltre confine a popolazione prevalentemente slovena, che accolsero gli austro-germanici come liberatori, per tutta la popolazione italiana l'invasione nemica fu considerata una minaccia, da evitare a tutti i costi: «Meglio vivere poveri in Italia tutta la vita, che un giorno sotto i tedeschi». I profughi dalle zone invase, successivamente censiti, risultarono 270.000: una proporzione enorme, tenuto conto che molti, che avrebbero voluto andarsene, ne furono impediti dal crollo e dalla distruzione dei ponti sui vari fiumi della pianura veneto-friulana e dal fatto che in molte zone vennero preceduti dalle truppe austro-tedesche, cosicché il numero di coloro che si mossero (spesso per tornare desolatamente indietro) fu molto maggiore. E anche i prigionieri italiani, man mano catturati dal nemico, prendevano la strada della prigionia a ritroso, marciando a piedi per gli stessi territori. In totale, in poco più di due settimane, si mossero, in massima parte verso il Piave e oltre, da due milioni e mezzo a tre milioni di persone, armate e inermi, molti civili avendo abbandonato case e averi. Combattimenti nelle città e nei borghi, bombardamenti aerei su obbiettivi militari e civili, nonché la distruzione da parte italiana dei depositi di munizioni, carburante e viveri, benché largamente incompleta, diedero al Friuli l'aspetto di un gigantesco rogo, una

immensa Roma cui avesse dato fuoco un imperatore pazzo. Di tale fiammeggiante sacrificio le vittime innocenti furono parecchie migliaia, non per volontà di comandanti o per libidine di genocidio, quanto per la fatalità delle circostanze avverse. Tutto si svolse, salvo pochi giorni interspersi di tempo sereno, in un'atmosfera di tregenda, temporali e piogge e notti fredde, passate all'addiaccio o quasi. Ma questa massa di persone doveva e voleva nutrirsi. E nel generale collasso del sistema logistico italiano (e in parte di quello del nemico, che contava sul bottino per andare avanti) i saccheggi e le depredazioni cominciarono a dilagare ovunque. Gli sbandati italiani in ritirata devastavano ciò che, dicevano, sarebbe divenuto preda del nemico - ma non si contarono i fenomeni di vandalismo puro - e molti reparti combattenti rimasti senza cibo si rifocillavano, saccheggiando magazzini e negozi, che si trovavano sulla loro strada. Le truppe nemiche completarono l'opera, appena iniziata da quelle italiane, comportandosi come lanzichenecchi del XX secolo. Poi, dalla suburra morale che alligna in ogni collettività, emersero turbe crescenti di malfattori, spesso di nazionalità avversa, che fraternizzavano per rubare. II 30 ottobre Udine, dalla quale si erano allontanati 40.000 abitanti, era in preda al caos. Diecine di migliaia di prigionieri italiani, che vi erano stati radunati e abbandonati, si diedero allo scasso di abitazioni e negozi, e al sacco - ammette Krafft - si gettarono con avidità bande di predoni austro-ungarici e anche tedeschi, che non erano certo stinchi di santo, tutti spesso ubriachi, tanto che si registrarono casi di annegamento in cantine, trasformate in piscine di vino, uscito da botti contro cui era stato fatto fuoco. «Si vedevano talvolta scene di dissolutezza semplicemente ripugnanti. La disciplina si era molto allentata e tutte le strade erano ingombre di veicoli incastrati l'uno nell'altro: in siffatta situazione non fu difficile fare sparire valori immensi.» Il 5 novembre von Below ricevette un comitato di udinesi, che si era organizzato come amministrazione provvisoria dei pochi rimasti. Parlò molto duramente, ma poi si ammansì, pronunziò ancora qualche minaccia, ma fece anche delle promesse. Non si trattò insomma di una occupazione terroristica, ma di una dura occupazione militare, non lo sterminio ma la legge di Brenno: «Guai ai vinti!». Molte autorità civili (e anche l'arcivescovo di Udine) avevano abbandonato al loro destino le popolazioni rimaste. Alla fine della

guerra essi furono rimproverati per essere fuggiti; e quelli rimasti lo furono, per quasi connivenza col nemico. La popolazione non partecipò ai combattimenti, ma aiutò come poté le truppe italiane, prendendosi cura dei feriti (anche nemici), nascondendo i soldati della regione, che tentavano di evitare la prigionia, e distribuendo il poco cibo che avevano ai prigionieri, che passavano affamati, diretti verso le retrovie austriache. Solo in Carnia alcuni dispersi si diedero alla macchia, compiendo di tanto in tanto qualche azione di disturbo contro le truppe di occupazione: «Furono questi in ordine di tempo i primi "partigiani" d'Italia, e mai - come suole accadere quando diverse sono le opinioni e gli affetti -, mai si disputò della loro azione; né fu chi la chiamò santa ed essi liberatori; né chi la chiamò rea ed essi assassini, ma tutti indistintamente l'ammirarono e l'esaltarono siccome volta ad un unico bene: la lotta contro lo straniero che conculcava la patria, la quale, per sua fortuna, non contava allora che un partito, quello degli italiani». I soldati austro-germanici erano stati ed erano sfruttati fino all'esaurimento. Greve il passo, terrei i volti, avanzavano con andare pesante, indifferenti a tutto e dall'indifferenza resi coraggiosi e insensibili. Modeste (e tenute celate) le perdite cruente in combattimento, molti soldati si disperdevano lungo gli itinerari percorsi dalle loro formazioni. Il tenente Neumann, comandante della 2a compagnia del 12° reggimento granatieri della 5a divisione tedesca, il giorno 29 ottobre segnalava di disporre, oltre alle mitragliatrici, di appena 18 fucilieri. Per questi «renitenti» provvisori Krafft trova ampie giustificazioni: «Ai ritardatari non mancava certo la buona volontà: erano le conseguenze di lunghi anni di blocco navale, di cattiva alimentazione, di equipaggiamento sempre più difettoso che costringevano gli uomini a fermarsi... Il numero degli invalidi a causa delle lunghe e continue marce aumentava senza posa». Più complesso il comportamento dell'esercito italiano. Che molti sbandati fossero già inizialmente disarmati non può far meraviglia, visto che le fanterie erano minoranza, mentre neppure gli artiglieri disponevano spesso di armi individuali. Perdute le bocche da fuoco salvi di solito gli uomini, soldati e ufficiali - si trattava di reparti totalmente ingombranti che, a buona ragione, presero, per ordine o senza ordini, la via del ripiegamento e non certo quella della resa al

nemico o della diserzione: reati rarissimi presso gli artiglieri (per i quali nelle 166 sentenze scelte come campione da Forcella e Monticone, delle quali 52 comportarono la pena capitale, non una sola esecuzione riguarda gli artiglieri e rarissime sono anche le pene detentive [Nota. Enzo Forcella-Alberto Monticone, Plotone d'esecuzione, Laterza, Bari 1968. Fine nota.]). Che comunque volessero tornare a casa o riarmarsi, non altra via avevano che quella del ripiegamento. Altrettanto può dirsi di molti genieri, e anche la sussistenza e gli addetti agli uffici presero parte alla ritirata disarmati. Né vanno dimenticati i molti soldati dei battaglioni complementari, truppe per definizione non ancora completamente addestrate, ma che talvolta vennero mandate allo sbaraglio e quindi si unirono agli sbandati probabilmente gettando le armi, perché al combattimento non si sentivano pronti. Insieme a tutti costoro marciavano, verso la pianura e nella pianura, i fanti senz'armi, o perché le avevano effettivamente perdute o perché le gettavano quando vedevano gruppi di ufficiali darsi d'attorno per improvvisare reparti da combattimento con uomini racimolati da ogni dove, con poche munizioni e privi di servizi logistici. E generale divenne l'atto di strapparsi gradi e mostrine, perdendosi nell'anonimato, per tema di indiscriminate repressioni. Era il riflesso del terrorismo - psicologico assai più che reale - esercitato precedentemente dai nostri comandi. Di fronte a tale cataclisma l'anonimato sembrò la più sicura difesa contro un temuto terrorismo su vasta scala, che però non ci fu. Fucilazioni e repressioni avvennero numerosissime (specialmente contro saccheggiatori e predoni, che talvolta lo erano per necessità), ma in proporzione infima rispetto al numero dei soldati coinvolti. E anche il generale Andrea Graziani dalla trista fama, nominato ispettore generale del movimento di sgombro, sembra sia stato responsabile, nei primi giorni di novembre, di non più di 34 fucilazioni, per lo più di soldati e civili sorpresi a saccheggiare. Nella fiumana umana che si avventò verso i ponti sul Tagliamento, e poi verso quelli sui successivi corsi d'acqua fino al Piave e oltre, armenti di sbandati erano mescolati alle popolazioni in fuga, mentre reparti più solidi combattevano in retroguardia. E le truppe che conservarono la coesione, perché meno falcidiate o perché gli ufficiali tennero con l'esempio in pugno i loro soldati, ebbero agio di osservare e vivere anche una guerra nuovissima: negli scontri movimentati non dominava più il cannone. Anni e anni, sul Carso, si era combattuto per

poche diecine di metri, con attacchi e contrattacchi. Ora, invece, il territorio ceduto si misurava in chilometri; e i comandi, da quello supremo a quelli meno elevati, pur ordinando con monotona cantilena la resistenza «a tutta oltranza», sembravano aver dimenticato anch'essi l'ossessione dei metri. Ordinavano spostamenti enormi con grande disinvoltura. Non sembrava più di vitale importanza tenere quota 145 nord o quota 145 sud né il Faiti Hrib, se no sarebbe cascato il mondo e si sarebbe persa la guerra. Brigate, distrutte e rifatte sul Carso, avevano la sensazione esilarante di non essere costrette a giocare alla roulette russa con nervosa frequenza. Lasciati in balia di se stessi, i comandanti inferiori erano costretti a decidere per conto loro: cosa fare del plotone, o della compagnia, o del battaglione. Gli schieramenti erano radi, gli spostamenti rapidi. Chi aveva fatto «l'altra guerra», quella dei metri, coglieva immediatamente il significato della nuova. E mentre migliaia di gaglioffi si davano al latrocinio, allo stupro, alle poderose sbronze e alla facile resa, i non gaglioffi potevano guardare e pensare. Perciò la tragica visione di quegli sparsi combattimenti, di quelle popolazioni in fuga, di quel finimondo, folgorava le menti e insegnava cose, che non avevano appreso nel misero addestramento o nelle sanguinose, ma intellettualmente grossolane «lezioni sul. Carso». E per coloro che sapevano tecnicamente combattere, cioè appunto i veterani del Carso, della Bainsizza e dell'Ortigara, la lezione tattica era appresa fulmineamente a livello di piccola unità, mentre contemporaneamente la responsabilità si diluiva lungo l'intera catena di comando. Era questa la sorpresa che stava maturando in seno all'esercito italiano, di cui i nemici non si rendevano conto. Lo spettacolo fu meno deprimente di quanto le innumerevoli testimonianze esterne agli eventi portino a credere. Le testimonianze interne sono infatti tutte in senso contrario. Fu invece il Comando Supremo italiano ad apprendere con lentezza la lezione. Distribuì a casaccio fra le varie armate i battaglioni arditi, da usare come fanterie, senza il preciso scopo di impiegarli per quel che valevano. Eppure i risultati, che diedero tali reparti quando furono correttamente usati, non delusero le aspettative. La brigata Sassari, che per qualche settimana era stata addestrata con i reparti d'assalto, nel pomeriggio del 28 ottobre si trovava ancora a oriente del Torre,

quando i tedeschi avevano già superato Udine. Diretta verso i ponti della Delizia, venne coinvolta in quella bolgia che fu Codroipo. Durante gli asperrimi combattimenti nella cittadina, il comandante della brigata fu fatto prigioniero, ma il grosso riuscì a svincolarsi e a puntare più a sud, verso il ponte di Madrisio. Questo era tanto intasato, nella notte fra il 30 e il 31, che la Sassari rinunziò a passarlo e riuscì a guadare il Tagliamento ancora in piena. Giunta sulla destra del fiume, la brigata fu dirottata verso nord e aggregata al corpo d'armata speciale del generale Di Giorgio. In esso inquadrata, combatté in ritirata fino al Piave, che l'ultimo battaglione attraversò al ponte della Priula, pochi minuti prima che fosse distrutto. Alla conta finale i dispersi, morti o prigionieri, risultarono 1112, un numero relativamente esiguo, considerate le peripezie vissute, talché il 3 dicembre la Sassari era nuovamente pronta al combattimento. Il giudizio dei generali nemici è unanime nell'attribuire la loro vittoria a cause tecniche e tattiche. Secondo Krafft la fanteria italiana non conosceva la moderna tecnica di combattimento. Per Krauss la crisi degli alti comandi si propagò verso il basso, determinando lo sfacelo di molti reparti rimasti senza guida. Il generale Müller, comandante della 22a Schützen, si domandò se «nell'esercito italiano non si fosse dato troppo poco peso all'iniziativa dei singoli comandanti cosicché questi, nei singoli casi, attesero sempre degli ordini dai comandi superiori invece di agire di loro iniziativa». [Nota. Lettera del generale Rudolph Müller a Luciano Magrini in L. Albertini, L'Italia della grande guerra, cit. Fine nota.] Il comandante della 50a austro-ungarica, generale Gerabek, accusò molti comandi italiani di aver abbandonato troppo presto il campo di battaglia senza aver prima organizzato la resistenza. Un'enormità di prigionieri fu catturata agli imbocchi dei ponti della Delizia, a occidente di Codroipo. Ve ne erano ben tre: il ponte ferroviario sulla Mestre-Udine, quello stradale e un terzo ponte su barche, costruito dal genio militare. Alle 12,30 del 30 ottobre, mentre una colonna interminabile di soldati, cannoni, carriaggi e profughi con le loro masserizie imbottigliava i tre passaggi, avanzando sussultoriamente a velocità esasperatamente lenta, senza la minima disciplina di traffico - che molto avrebbe sveltito la ritirata - truppe della 200a divisione tedesca, scivolando da nord lungo la riva del Tagliamento, arrivarono agli sbocchi orientali e si gettarono

animosamente sui ponti. Forse era possibile fermarli e ricacciarli, ma il caos e la confusione regnavano sovrani. Fatto è che i ponti furono fatti saltare qualche minuto dopo. Enorme il bottino rastrellato nella zona: 60.000 prigionieri e 300 cannoni, molti portati a braccia dalla Bainsizza. Dall'inizio dell'offensiva al 31 ottobre il totale delle perdite salì così a 180.000 prigionieri e 1500 cannoni. Ma intanto la difesa imbastita dagli italiani a sud della strada UdineCodroipo, imperniata intorno a Pozzuolo del Friuli dalla 1a divisione di cavalleria e dalla brigata Bergamo, riuscì a disorientare alquanto il poderoso e concentrato (benché slegato) attacco delle 3 divisioni di von Below e di altre 2 della II Isonzo Armée contro Latisana. Per superare la resistenza fra Mortigliano, Pozzuolo del Friuli e Basiliano resistenza, che il nemico definì «ostinata» - queste truppe persero un giorno e mezzo. E quando lambirono il basso Tagliamento, la III armata era già sfilata col più delle artiglierie. Sul medio Tagliamento un'altra brigata di ferro, la Bologna, aveva tenuto aperto il varco ai resti dell'ala sinistra della II armata.

Capitolo XXI IL MONTE DELLA VERGOGNA Il generale Antonino Di Giorgio, deputato al Parlamento, aveva partecipato alla tornata della Camera, iniziata il 16 ottobre e conclusasi il 26 mattina con un voto di sfiducia al ministero Boselli, che rassegnò subito le dimissioni. Chiamato telegraficamente a Udine da Cadorna, Di Giorgio, un po' millantatore, ma tipo coraggioso e spregiudicato - con sé e con le truppe -, e di ingegno acuto (fu l'unico generale che propose, nel 1925, una riforma intelligente dell'esercito italiano, proposta naturalmente bocciata), la sera del 26 ottobre si sentì affidare il comando delle truppe, che dovevano schierarsi sul medio Tagliamento, fra Trasaghis e Dignano, per proteggere l'eventuale ritirata, non ancora decisa, dell'esercito italiano dietro quel fiume. Cadorna gli affidò due divisioni - la 20a e la 33a -, per il resto si accordasse col generale Porro. Inseguendo Porro per i corridoi, Di Giorgio cercò di farsi assegnare uno stato maggiore, ma il vice-capo cominciò a cavillare: non si trattava di un corpo d'armata, ma di un abbinamento di divisioni, cioè qualcosa di diverso e più modesto; andasse intanto a Pinzano, che lì avrebbe trovato le truppe. E Di Giorgio spazientito fu piantato in asso con una carta al 200.000 in mano. La mattina del 27 egli era a Pinzano e, latitante il fantomatico stato maggiore, cominciò a fermare per la strada, con le buone e con le cattive, gli sbandati che gli andavano a genio, soldati e ufficiali. E ne riunì abbastanza, per farsene una struttura di comando. Intanto arrivavano le truppe: la brigata Lombardia (71° e 72°) e il 234° fanteria, che costituivano la 20a divisione; e 4 battaglioni della Barletta e la brigata Bologna (39° e 40°), che formavano la 33a. Erano formazioni tartassatissime, da poco a riposo: nei cinque mesi precedenti la Bologna aveva perso 4000 uomini, la Lombardia più di 4300 e oltre 4500 la Barletta. La Bologna e la Barletta, che si trovavano nel basso Friuli, dalle vicinanze di Palazzolo dello Stella furono trasportate, attraverso Latisana, Portogruaro, Casarsa e Spilimbergo, fino a Pinzano per ferrovia. Arrivarono il 27, avendo impiegato un numero interminabile di ore, per percorrere 70 chilometri. Fu però buona ventura l'aver scelto il percorso ferroviario ad arco interno, per scansare l'onda di piena degli sbandati e dei profughi, che si annunciava terribile e travolgente.

Il generale Di Giorgio, lottando contro una ragnatela di difficoltà burocratiche, affidò la sorveglianza delle rive del Tagliamento da Trasaghis a Cornino alla 20a divisione, e quella da Cornino a Dignano alla 33a. Nel tratto era compresa la testa di ponte di Ragogna. Il Ragogna è un monte per modo di dire, alto appena 513 metri. Non una vetta, ma un crinale, che si allunga per un paio di chilometri, prima di declinare sui due lati alla quota della pianura friulana: decisamente una posizione dominante. E infatti, prima del 1914, nell'ipotesi di una guerra della sola Italia contro l'Austria (quindi escludendo di poter schierare l'esercito sull'Isonzo), il monte Ragogna era stato individuato come la spina dorsale di una testa di ponte al di là del Tagliamento. Anche Cadorna ci aveva fatto un pensiero nel 1915. Ma, con l'Austria impegnata anche in Balcania e sul fronte russo, l'esercito italiano sicuro sull'Isonzo, l'interesse per quella posizione era caduto. Ma qualcosa si era fatto: una rotabile che, superato il Tagliamento a Pontajba, si arrampicava fino alla vetta. Assenza totale, però, di opere difensive. Ed ecco il crollo delle difese, la 22a Schützen a Tarcento e Gemona, la 55a puntare verso Cornino, mentre la 50a, d'ordine di Krauss, deve impadronirsi del ponte di Pinzano. Anche la 12a del gruppo Stein ha per meta lo stesso ponte, che cerca di raggiungere da sud-est, mentre l'Alpenkorps marcia più a sud verso il ponte di Bonzicco. Sospinta dall'avanzata nemica, prorompe precipite l'onda degli sbandati e dei profughi, protetta dalle truppe che, pur ritirandosi sotto la pressione nemica, continuano a battersi. In tali condizioni la Bologna e i reparti della Barletta devono farsi largo a gomitate, oggetto di imprecazioni e contumelie, per giungere sulla sinistra del ragliamento, mentre centinaia di migliaia di persone cercano rifugio sulla destra. Con le truppe assegnategli Di Giorgio è semplice e duro: chi tenta di allontanarsi, sarà passato per le armi senza processo: constatato il fatto, si procederà all'esecuzione davanti alle truppe; tra gli sbandati ci si farà invece largo col bastone. In verità non ci saranno fucilazioni, perché i reparti destinati alla testa di ponte di Ragogna si fanno strada in mezzo alla calca tremenda «senza perdere un uomo». Nel frattempo la II armata è stata divisa in tre settori. E quello di sinistra, comandato dal generale Etna, con l'ordine n. 1 del

28 ottobre, dispone la costituzione della testa di ponte di Ragogna, che ha il compito di «proteggere con una difesa a oltranza, fino all'ultimo uomo e all'ultima cartuccia, il passaggio sulla destra del Tagliamento di tutti gli elementi in ritirata». [Nota. Tullio De Rizzoli, Il corpo d'armata speciale, Lattes, Torino 1933. Fine nota.] Nella zona, la mattina del 29, sono già affluiti un battaglione della Barletta e alcune compagnie mitragliatrici. All'alba del 30 arriva la brigata Bologna, e subito si adopera per sistemarsi a difesa: filo spinato e scavo di improvvisate trincee. Ma nessun collegamento telefonico, che del resto è difettoso in tutto il corpo Di Giorgio, ora definito «corpo d'armata speciale», anch'esso dipendente dall'ala sinistra della II armata. Così Di Giorgio è costretto a spostarsi continuamente, impiegando ore, per comunicare ciò che richiederebbe pochi minuti in condizioni operative appena migliori. Intanto il flusso di coloro che ripiegano, raggiunto il culmine il 29 ottobre, il 30 si smorza e la sera le strade della cittadina di Ragogna sono deserte. Il comandante della Bologna, colonnello-brigadiere Rocca, distende sulla sinistra della testa di ponte, fra il Tagliamento, Colle Lungo (quota 232) e il borgo di Muris, il III battaglione del 137° (brigata Barletta); tra Muris, quota 212, San Giacomo, le cittadine di Ragogna e Villuzza, e di nuovo il Tagliamento sulla destra, il I e il II del 40°. Il 39°, con i suoi tre battaglioni, è arroccato sotto la linea di cresta del monte. Come riserva, sulla destra del Tagliamento, poco a sud dello sbocco del ponte di Pinzano, è collocato il III del 40°. Interposte nei tratti più idonei, cinque compagnie mitragliatrici autonome, cosicché se gli effettivi fossero ad armamento completo - gli italiani disporrebbero di 72 mitragliatrici e 42 mitragliatrici-pistole. È assicurato anche un certo appoggio dell'artiglieria, schierata in due gruppi sulla destra del Tagliamento: una trentina di pezzi, quasi tutti medi calibri, tra Valeriano e Pinzano, e altrettanti, campali leggeri, intorno a Forgaria e Grap, tutti a una distanza media di 3 o 4 chilometri dal probabile campo di battaglia. Molti pezzi però, consumate rapidamente le loro poche munizioni, vengono rimandati indietro. Fra i rimasti vi è invece la sezione dei tenenti Cardarelli e Sorrentino, fortunosamente ritiratisi dal Kolovrat. Giunti alle 8 del 30 al ponte di Pinzano riescono a passarlo a mezzogiorno, e subito sono fermati da un colonnello, che ingiunge loro di mettersi in postazione e aggiustare il tiro su Ragogna e San Daniele. Cardarelli spiega che, trattandosi di

obici e non di cannoni, è difficile la postazione e ancor più l'esecuzione dei tiri, per la mancanza di dati precisi. Minacciati di fucilazione, naturalmente obbediscono. Cardarelli va sul campanile della chiesa di Pinzano: il tiro è aggiustato al meglio, i due obici cominciano a sparare i 40 colpi rimasti. Cardarelli segnala al collega Sorrentino di veder gente fare gran segni disperati; probabilmente il fuoco ha colpito truppe amiche. Il nemico, individuata la batteria, subito risponde, demolendo il campanile, dal quale Cardarelli fortunatamente è già sceso, altrimenti avremmo avuto un poeta di meno. Comunque, esaurite le munizioni, anche la dimezzata 29a batteria obici pesanti campali è rimandata verso il Piave. Contro la zona Cornino-Pinzano son diretti parte del gruppo Krauss e parte del gruppo Stein. A quest'ultimo von Below ha assegnato come prossimo obbiettivo Pordenone. Nella mattinata del 30 la 12a slesiana ha già occupato San Daniele e Farla, catturando gran numero di prigionieri e cannoni. Ma, nel pomeriggio, giunta davanti a Muris, si scontra con una resistenza inaspettata alle falde del monte Ragogna. Ogni reggimento della divisione è accompagnato da un gruppo di artiglieria campale: a questa appartengono di certo i pezzi che hanno controbattuto i due di Cardarelli. Più a sud l'Alpenkorps, arrivato davanti al ponte di Bonzicco che viene fatto saltare, si accalca lungo il Tagliamento, senza allargarsi verso nord. Verso il ponte di Cornino sono invece dirette truppe austro-ungariche: ma anche il loro colpo di mano è sventato dal sabotaggio del ponte. A differenza del l'Alpenkorps esse allora serrano verso sud, urtando contro la testa di ponte di Ragogna. Nella notte sul 31 vengono perciò a schierarsi un battaglione (III/46°) della 50a divisione imperiale e l'intera sua 15a brigata, appoggiata da 6 batterie campali. Fra mezzo si incunea quasi tutta la 12a tedesca: il 63° presso Muris e il 62° a Ragogna, mentre più a sud bivacca un altro battaglione della 3a brigata della 50a. Son dunque 13 battaglioni austro-germanici, appoggiati da un centinaio di cannoni campali, che affronteranno 7 battaglioni nostri, molto ridotti di forza e assistiti, di lontano, da una trentina di bocche da fuoco. Si noti che il più di questi dati sono di fonte tedesca, perché le nostre parlano di 3000 italiani, contro i quali starebbero per scendere in campo, al completo, la 50a divisione imperiale e la 12a tedesca. In realtà, tenuto conto del numero di

prigionieri successivamente catturati, si deve attribuire agli italiani una forza di 4500 effettivi: il nemico ha comunque una superiorità più che doppia in uomini, tripla in artiglierie e con una maggiore disponibilità di armi automatiche. Per i vincitori di Caporetto l'impresa di sopraffare questo pugno di italiani stranamente coriacei sembra un gioco da ragazzi. L'attacco si scatena la mattina del 31 ottobre, fra le 8,30 e le 9. Dopo giorni e giorni di pioggia dirotta, un sole, abbagliante nel cielo terso, sciabola i nostri giusto negli occhi. Rimasti scarsi di munizioni, i fanti italiani se le sono procurate, rovistando affannosamente tra l'immensità dei carriaggi, che riempiono le strade, ora deserte, che conducono al ponte di Pinzano e a quello di Pontajba. Orbene l'attacco della 50a reiterato con ostinazione, è contenuto per l'intera giornata: Muris, perduta, viene ripresa con contrattacco. Quanto agli slesiani, essi avanzano penosamente lungo i versanti orientale e meridionale dell'altura con esasperante lentezza, nonostante la minaccia che la 3a brigata della 50a fa pesare da sud verso la Bologna. Scrive Krafft: «Per tutta la giornata i ripetuti tentativi di pervenire al ponte di Pinzano furono respinti». Il motivo di tale inopinata resistenza? Sempre secondo Krafft: «[Il monte Ragogna] era munito di estesi reticolati e di opere campali, fortemente guarnite da fanterie dotate di molte mitragliatrici». Su tale particolare le sue affermazioni possono essere senz'altro smentite, perché le uniche opere «campali» consistevano nelle poche trincee, scavate dal presidio in meno di una notte. Di certo si sa che von Stein è irritato e, quanto a von Below, egli considera «insoddisfacentissimi» i risultati raggiunti. Della difesa, von Below scrive nel suo diario che fu «ostinata». Gli austro-germanici sono perciò costretti, per il giorno dopo, a montare un attacco più metodico, preceduto dalla regolamentare preparazione di artiglieria. Per precauzione vengono immessi nella lotta anche l'ultimo reggimento della 12a e uno della 13a austroungarica, che è di rincalzo. Con l'aggiunta di altri 6 battaglioni, ora il rapporto di forze è schiacciante, tanto più che le truppe italiane della testa di ponte, nei combattimenti del 31, hanno già perso un migliaio di uomini. Iniziata alle 6, la preparazione di artiglieria dura tre ore: poi passano all'attacco le fanterie, adottando il solito metodo dell'infiltrazione. Tale tattica sarebbe qui estremamente facile da eseguire, poiché la densità

dei difensori è risibile, lungo un fronte di ben 8 chilometri. Sul Carso Cadorna ci avrebbe messo da 4 a 5 divisioni che, con i relativi servizi, avrebbero assorbito da 100.000 a 150.000 uomini. E invece l'offensiva è inizialmente ben contenuta dai reparti italiani che si muovono con scioltezza - anche l'ultimo battaglione del 40° è stato immesso nella lotta. Ma la preponderanza nemica ha fatalmente il sopravvento, cosicché le truppe italiane si rinserrano, senza scompaginarsi, entro l'abitato di San Pietro, poche centinaia di metri a sud dell'imbocco orientale del ponte di Pinzano. Finalmente riesce a farsi largo il 23° della 12a slesiana, altrove duramente impegnata. E s'inoltra per 300 metri sulle arcate di calcestruzzo del ponte. Ma è costretto a fermarsi, battuto alle spalle da un nutrito tiro di mitragliatrici, appostate sulla falda settentrionale del monte, che scende verso il Tagliamento. Cristo! - pensa certamente il generale Krafft, anche se nel suo scritto non usa questa imprecazione - i miei si son fatti mettere nel sacco: «Quelle mitragliatrici si sarebbero dovute preventivamente togliere di mezzo». Ma il momento è criticissimo e si impongono decisioni immediate. Il generale Montuori aveva avocato a sé l'ordine di brillamento del ponte, poi l'aveva delegato al comando di settore. Il generale Di Giorgio, giustamente preoccupato che tale facoltà fosse attribuita a livelli di comando così elevati, riesce a farla assegnare al suo comando e ne delega l'esecuzione al generale Sanna, comandante della 33a divisione, da cui dipende la Bologna. E Sanna, per essere più sicuro, piazza sul ponte un ufficiale di sua fiducia, il maggiore Carta del suo stato maggiore. Già in precedenza, temendo di essere sopraffatto, Sanna ha sollecitato istruzioni, consigliando di ritirare la Bologna, una volta cessato il deflusso degli ultimi sbandati. Il Comando Supremo, che il 30 ottobre ha concesso l'autorizzazione, la ritira il giorno dopo e alle 21 ribadisce in termini energici di «resistere a qualunque costo, a qualunque costo difendere il caseggiato e il colle di Ragogna». [Nota. G. Del Bianco, La guerra e il Friuli, cit., vol. IV. T. De Rizzoli in Il corpo d'armata speciale, cit., vi accenna molto velatamente. Fine nota.] È un ordine, che nella Storia Ufficiale non è registrato. Fatto è che, giunte nel mattino del 1° novembre le truppe del nemico alle prime case di Borgo di Mezzo, le sue artiglierie cominciano a battere anche lo sbocco occidentale del ponte, compromettendo la sicurezza delle tubazioni,

che proteggono le condutture elettriche dirette ai fornelli di esplosivo: ferito è l'ufficiale del genio preposto all'esecuzione, morti e feriti fra i suoi soldati e fra nostri altri militari, che refluiscono in tutta fretta sul ponte. Sanna di nuovo sollecita: il tempo stringe, occorrono rinforzi immediati. Gli si risponde che lui è giudice: faccia quel che può e quel che deve. Dopo ulteriori esitazioni, Sanna dà l'ordine: alle 11,25 il ponte letteralmente esplode con due boati. Volano entro il fiume i soldati, italiani e germanici, che vi erano sopra. Pezzi del manufatto saranno trovati a centinaia di metri: a Ragogna, che dista dal ponte due chilometri, tutte le case hanno i vetri infranti, mentre il borgo sembra percorso da un'onda sismica. L'ordine di far saltare il manufatto non è stato dato un minuto troppo presto. Ora le artiglierie italiane, scontando che non vi siano più difensori, cominciano a battere il versante occidentale del monte, dove invece i difensori ci sono e non si arrendono. A mezzogiorno quota 513 è occupata dalla 50 austro-ungarica, ma l'intera cresta è occupata dalla 50a e dalla 12a slesiana solo verso le 16. I combattimenti continuano ancora fino a sera, per le strade di San Pietro, poi i superstiti si arrendono: sono 3000 soldati e 50 ufficiali col loro intrepido comandante Carlo Rocca. Che la resistenza non sia cessata a mezzogiorno, come vuol fare intendere Krafft, si deduce dal fatto che solo a sera gli austro-ungarici raggiungono lo sbocco orientale del ponte in legno di Pontajba, anch'esso danneggiato al massimo. Spera Krafft che le riparazioni siano facili e brevi, ma ispezioni più accurate della preliminare lo danno per intransitabile, a meno di importanti lavori, che sono impediti dal fuoco italiano. Quello di Pontajba è dunque l'ultimo ponte sul Tagliamento distrutto dai nostri. Il ponte di Latisana è già stato fatto saltare alle 15,30. Così, la sera del 1° novembre, gli austro-germanici sono schierati lungo l'intera sponda sinistra del Tagliamento. E solo il ponte di Cornino, danneggiato in modo imperfetto, ne fa temere la possibile utilizzazione da parte nemica. Ma il pericolo maggiore è un altro: cessate il 31 dicembre le grandi piogge, che hanno trasformato il Tagliamento in un fiume largo e impetuoso, ora il suo livello velocemente si abbassa e il fiume sta per tornare al suo stato naturale: un greto, suddiviso in molti rivoli, tutti facilmente guadabili. Allora, ponti o non ponti, il nemico potrà passare.

Finita la guerra, scoppiarono le polemiche: perché mai, prima della distruzione del ponte di Pinzano, non furono evacuati i valorosi difensori, che avrebbero trovato utile impiego più a nord, davanti a Cornino, dove poi avvenne il primo sfondamento del fronte del Tagliamento? In questi frangenti erano truppe preziosissime. Molto più delle truppe fresche provenienti dall'armata del Trentino, inoperosa da molti mesi: perché sono truppe che hanno combattuto in guerra di movimento e acquisito un'esperienza insostituibile. Anche Krafft conferma che «il nemico si era già fatto più attento e pronto». Le perdite subite dimostrano l'asprezza dei combattimenti e il valore dei difensori, tenuto conto che non si tratta di «ondate carsiche», ma di battaglie manovriere. Oltre 400 furono i morti, che la popolazione locale provvide a seppellire nei giorni successivi. Dunque i feriti devono essere stati, secondo il consueto rapporto, almeno 1200. Una parte di questi era certamente inclusa fra i prigionieri, cosicché tali cifre non possono essere sommate fra loro. E qualche centinaio di uomini passò il ponte prima della sua distruzione, mentre altri si gettarono nel fiume, tentando di passarlo a nuoto e in alcuni casi riuscendovi. Né cessarono le vittime dopo la resa, perché l'artiglieria italiana si diede a bersagliare Ragogna, dove erano stati radunati molti prigionieri, colpendone un gran numero: un colpo di medio calibro ne uccise addirittura una trentina. A quei prigionieri il nemico rese gli onori militari, e lo stesso von Below aggiunge che il comandante della Bologna, assai depresso, «venne da noi stessi consolato e lodato per la sua valorosa difesa». Il maresciallo Caviglia scrive asciutto che «la Bologna poteva essere ritirata, a meno di non pensare di tenere la testa di ponte di Ragogna a scopo controffensivo. Ma allora andava rinforzata». Che tale miraggio abbia tentato il generale Cadorna nessuno lo esclude e molti lo inducono dall'ordine prot. 5238 GM del 2 novembre, nel quale il comandante supremo disponeva che «la sosta al Tagliamento sia prolungata il più possibile... salvo a trasformarla in arresto definitivo, se le circostanze lo consentiranno». Certo in Cadorna non era saldo il proposito di fermarsi lungo il Tagliamento, poiché il 3 novembre, saputo del passaggio del gruppo Krauss a Cornino, egli ordinò immediatamente il ripiegamento dietro il Piave, senza attendere più la pressione del nemico e informandone immediatamente il nuovo presidente del Consiglio, onorevole Orlando: «Se mi riuscirà di

condurre la III e la IV armata in buon ordine sulla Piave, ho intenzione di giocare ivi l'ultima carta, attendendovi una battaglia decisiva». E non è attendibile - questa è almeno la mia opinione e quella di moltissimi altri, che mi hanno preceduto - l'ipotesi che nella lunga lettera, da cui è stata stralciata la frase precedente, Cadorna suggerisse velatamente al governo di intavolare trattative per una pace separata. Tuttavia, restando fermo che - nella tragica e babelica confusione di quei giorni - Cadorna mostrò forti doti di fermezza e grande dominio dei propri nervi, l'episodio della testa di ponte di Ragogna getta sul suo carattere uno sprazzo sinistro che fa dubitare della sua integrità morale. Cadorna non può essere tacciato di sanguinario e assassino, per aver ordinato undici volte all'esercito italiano di attaccare sull'Isonzo, non più di quanto lo possano essere Joffre, Douglas Haig, Pershing, Ludendorff e un'infinità d'altri per decisioni analoghe. Gli ordini che hanno dato non ne inficiano la moralità di comandanti in guerra. Si può accusarli di errori, imprudenze, spietatezza, ma queste accuse non scalfiscono il loro onore. Napoleone non è un assassino, perché fece morire in Russia mezzo milione di soldati: lo è per aver fatto rapire e fucilare il duca d'Enghien. Su Cadorna ho già citato, col beneficio del dubbio, il subdolo comportamento di fronte alla «piccola Caporetto» del 4-6 giugno 1917. L'episodio di Ragogna è della stessa natura, ma di maggior gravità. Il bollettino italiano del 1° novembre, come al solito diramato alle ore 13, esaltando l'eroico comportamento dei reggimenti Genova e Novara Cavalleria (in connessione con i combattimenti intorno a Pozzuolo del Friuli), taceva la valorosa condotta della Bologna, che non fu menzionata neppure successivamente. Ma in una comunicazione riservata al ministero della Guerra, datata 1° novembre orel0,50 - cioè 35 minuti prima che saltasse il ponte di Pinzano - Cadorna anticipava che «pressione nemica su truppe protezione teste di ponte di Ragogna e Latisana si va facendo più forte. Le truppe si vanno organizzando sulla destra del fiume ed apprestano difesa». E in una successiva dello stesso giorno ore 20,25, diretta allo stesso destinatario, Cadorna diceva: «Truppe stabilite protezione testa di ponte di Ragogna, premute da nemico dopo combattimento hanno ripiegato ordinatamente su destra fiume e fatto saltare il ponte di Pinzano». Era una menzogna, tanto più se messa in connessione con l'ordine di

resistenza a oltranza trasmesso dal Comando Supremo al generale Sanna alle 21 del giorno prima. Resta l'esile dubbio se essa sia stata perpetrata dal generale Cadorna o se - cosa poco probabile - egli fosse male informato. Ma ad aggravare la posizione di Cadorna sono le parole, che egli stesso scrisse nel 1920 sul suo libro, La guerra alla fronte italiana: «[Il giorno 31] il gruppo Krauss e il gruppo Stein avanzano verso il ponte di Pinzano, ancor difeso dalla testa di ponte di Ragogna... [Il 1° novembre] il nemico attacca la testa di ponte di Ragogna, tagliando la strada alla brigata Bologna che l'occupava...». Qui dunque egli ammette i fatti, lievemente distorcendoli, senza spiegare perché al ministero della Guerra diede una versione falsa. Né spiega -benché la cosa sia moralmente meno rilevante - perché la Bologna non sia stata ritirata sulla destra del Tagliamento nel momento più opportuno, cioè nella notte fra il 31 ottobre e il 1° novembre, mentre il nemico era impegnato nei suoi laboriosi preparativi per l'assalto decisivo. Quest'ombra sull'onore del generale Cadorna sembra quindi difficile da cancellare. La giustificazione data dal capitano De Rizzoli, che fece parte del corpo Di Giorgio, non è mai stata contraddetta: «E allora non c'è altra plausibile spiegazione che quella di attribuire il sacrificio della brigata ad una di quelle fatali negligenze, che l'uno o l'altro comando può avere commesso in mezzo al lavoro estenuante e tumultuario di quella ritirata che durava ormai da una settimana. Può anche essere che, dopo le esperienze delle giornate fra Isonzo e Tagliamento, la mala abitudine, non rara nella guerra, anche prima di Caporetto, di chiedere cento per ottenere uno, abbia fatto credere che, nonostante l'ordine di resistere "fino all'ultimo uomo e all'ultimo fucile", i reparti della brigata Bologna avrebbero pensato essi, come tanti altri avevano fatto fra l'Isonzo e il Tagliamento, a ripiegare in tempo. Non si pensava, in quella situazione, che vi potessero essere ancora truppe capaci di prendere alla lettera l'ordine ricevuto». E la si potrebbe anche accettare, se essa fosse stata fatta propria dalla Storia Ufficiale. Ma l'Ufficio Storico dello stato maggiore si rese probabilmente conto dell'esistenza di questo nido di vipere, e credette di aggirarlo, dando degli eventi una versione «neutra»: «Pattuglie nemiche potettero infiltrarsi fra le maglie della difesa così frazionata, e raggiungere il ponte. Il pericolo che questo cadesse intatto nelle mani dell'attaccante suggerì al comandante della 33a divisione, generale

Sanna, di ordinarne la distruzione, anche se questa imponeva il sacrificio delle unità che continuavano la resistenza sulla destra [evidente lapsus - forse freudiano - per "sinistra"] del fiume. Alle 11,25 il ponte di Pinzano venne distrutto; ed il nemico, pur superando la resistenza opposta sul fiume, non poté superarlo». La nostra Storia cita poi la Relazione Ufficiale austriaca, nella quale è definito «eroico» il comportamento della Bologna e del battaglione della Barletta, dislocati a protezione del ponte di Pinzano. Ma non narra che il generale Sanna ne aveva sollecitato il ritiro, non appena eseguito il compito fissato loro con l'ordine del 28 ottobre, mentre il 1° novembre altra scelta non aveva che fare saltare il ponte (benché il generale Faldella parli, contro l'evidenza, di esplosione «prematura»). Egli non «suggerì», ma «comandò». Tuttavia non a lui si può attribuire il sacrificio di quelle magnifiche truppe: la responsabilità va cercata moto più in alto. V'è dunque, nella Storia Ufficiale, un tentativo di coprire l'ombra morale sul generale Cadorna, ombra che sarebbe cancellata solo da altri documenti, non venuti alla luce, che provassero il contrario. Fino a quel momento il colle di Ragogna potrebbe essere ricordato come il monte della vergogna, oltre che come quello del valore. Resta l'episodio: 4500 fanti italiani, con un modestissimo appoggio di artiglieria, tennero vittoriosamente testa a forze nemiche più che doppie, sì che - per domarne la resistenza - il nemico dovette rinforzare le proprie, fino all'equivalente di due divisioni a effettivi pieni. In quei frangenti le truppe italiane reagirono con spontanea prontezza alla tecnica d'attacco nemica. Meglio, se l'avessero appreso prima, anziché sulla propria pelle in condizioni disperate, per poi consumarla nei campi di concentramento.

Capitolo XXII DURANTE I DIECI GIORNI CHE FECERO TREMARE IL MONDO Che per Cadorna fosse in preparazione un cataclisma molti lo temevano, molti lo speravano. L'onorevole Orlando, incaricato dal re di formare il nuovo governo, ne annunciò la formazione il 29 ottobre. Già ministro degli Interni, egli ancora li tenne, lasciando agli Esteri Sonnino, simbolo della continuità della politica estera italiana. Al generale Cadorna la sera del 30 Orlando inviò un caloroso telegramma, in cui gli riconfermava «tutta la sua fede». [Nota. Alberto Lumbroso, Cinque capi nella tormenta e dopo, Agnelli, Milano 1932. Fine nota.] Giardino, già ministro della Guerra, ora sostituito dal generale Alfieri, che Cadorna considerava a torto mosso contro di lui da grave inimicizia, aveva consigliato a Orlando o di riconfermare Cadorna a tempo indeterminato o di sostituirlo subito: un doppio consiglio, che raccoglieva le due soluzioni peggiori. Invece, fin dal 28, Orlando - come lui stesso racconta, benché alcuni ne dubitino - aveva espresso al re la sua fermissima decisione di mutare il comandante supremo alla prima occasione, per reciproca incompatibilità di carattere. E come successore suggerì il nome del generale Diaz che, a sentir lui, il re gradì, perché anche il sovrano ci aveva fatto un pensiero. Diaz, allora comandante del XXIII corpo d'armata, era tuttavia uno sconosciuto al di fuori della gerarchia militare. Alle 7 del mattino del 30 ottobre era giunto in avanscoperta a Treviso il generale francese Foch, col quale Cadorna si intrattenne a lungo, per illustrargli la situazione. Il 31 arrivò anche Robertson, capo dello stato maggiore imperiale inglese. E la diagnosi da parte del francese e dell'inglese fu riassunta in un foglietto redatto da Foch e firmato anche da Robertson, nel quale, in una certa misura, si limitava la sconfitta italiana alla disfatta della sola II armata. Dopo qualche giorno Foch e Robertson partirono per Rapallo, dove si erano dati convegno tutti i capi alleati e italiani, per esaminare la congiuntura, che era pessima non solo in Italia, ma anche in Russia: il premier inglese Lloyd George, il presidente francese Painlévé, Orlando e Sonnino da parte nostra, i sommi capi militari e non pochi altri. Per il Comando Supremo italiano, in sostituzione di Cadorna, v'era il generale Porro.

Foch aveva probabilmente ricavato un'impressione sfavorevole sulla conduzione delle operazioni da parte di Cadorna. A scusante di quest'ultimo, bisogna ammettere che Foch e Robertson arrivarono nei giorni peggiori, il 30 e il 31 ottobre, quando avvenivano, fra molti altri, il disastro di Codroipo e la prematura distruzione dei ponti della Delizia. Intanto le prime truppe alleate erano già in arrivo. Mentre però Cadorna contava di schierarle subito sul Piave, fra la IV e la III armata al posto della II, i cui resti andavano riordinati nelle retrovie - Foch si rifiutò di autorizzare così precipitosamente l'impiego delle truppe francesi, e altrettanto fecero gli inglesi. Anche in questo periodo, in cui agirono da spettatrici, le truppe alleate non furono però militarmente inutili. Con ordine n. 5116 del 31 ottobre Cadorna aveva prescritto che la III armata si privasse di 5 divisioni, inquadrate in 2 corpi d'armata, da dislocare, l'uno nella zona di Brescia, l'altro in quella di BassanoVicenza, nel timore che il nemico approfittasse della nostra debolezza sul Tagliamento, per attaccare le Alpi lombarde e l'altopiano di Asiago. Da questa sottrazione la III armata sarebbe stata terribilmente indebolita, tanto più che sul fronte di Asiago noi disponevamo di una discreta superiorità numerica e di mezzi. La minaccia contro le Giudicane era poi un fantasma, che voci propalate ad arte dal nemico facevano agitare, ma che presto sparì. Di queste truppe italiane, che sarebbero state lì dislocate per precauzione, distogliendole da compiti di combattimento, presero il posto le truppe alleate in arrivo, che gli alleati non volevano impegnare precipitosamente. Al generale Porro, che lo rappresentava al convegno di Rapallo, Cadorna inviò due messaggi, per sollecitare da parte alleata l'invio di aiuti molto più consistenti di quelli promessi e già in arrivo. Nel primo, del 5 novembre ore 7,30, Cadorna gli comunicava che contro di noi operavano 35 divisioni germaniche. Nel secondo, della sera del 6, affermava che dal monte Peralba al mare erano presenti almeno 50 divisioni, delle quali almeno 21 erano tedesche. Il concorso alleato era quindi da lui giudicato «assolutamente inadeguato». In realtà dal Peralba al mare le divisioni nemiche erano 37, di cui solo 7 germaniche, mentre altre 18 erano schierate fra il Peralba e lo Stelvio. In questo settore fece fugace comparsa, senza essere impiegata, un'ottava divisione germanica - la 195a -, il che avvenne comunque molti giorni dopo.

Nella riunione sulla situazione militare, svoltasi nel pomeriggio del 6 novembre al Kursaal di Rapallo, i rappresentanti alleati chiesero al nostro vicecapo di stato maggiore quante fossero le divisioni tedesche accorse a Caporetto per sfondarci. E Porro, sicuro, rispose «Venti» (secondo altri «Da ventuno a ventiquattro» [Nota. Giovanni Artieri, Il Re, i soldati e il generale che vinse, Cappelli, Milano 1951. Fine nota.]). Il barone Lumbroso asserisce che Porro «si era confuso in modo disastroso». Ma ora sappiamo, sulla scorta dei documenti pubblicati dalla Storia Ufficiale, che egli altro non fece che attenersi alle informazioni dategli da Cadorna. E meno male che fece un enorme sconto sulle 35, che fino al momento in cui parlò gli aveva propinato Cadorna: «Tutti i convenuti stranieri... fecero un balzo di stupore... A mente fredda dobbiamo riconoscere che, così come apparivano le nostre faccende, gli stranieri non avevano poi tutti i torti, anzi avevano completamente ragione» nel chiedere naturalmente la testa del comandante supremo e del suo entourage. Approfittando allora di una proposta di Lloyd George, per l'istituzione di un consiglio di guerra interalleato ad altissimo livello, con sede a Versailles, Orlando, su consiglio del diplomatico Aldrovandi Marescotti, annunziò che in tale consesso l'Italia sarebbe stata rappresentata dal generale Cadorna, mentre nuovo capo di stato maggiore dell'esercito italiano sarebbe stato il generale Armando Diaz, che avrebbe avuto il generale Giardino quale sottocapo. L'8 novembre il sottocapo si sdoppiò, perché a Giardino fu affiancato casualmente il generale Badoglio, del quale era ignorata la responsabilità tecnica e strategica nella rotta di Caporetto. La sera del 7, dopo aver fatto la brutta figura che si è detto, Porro raggiunse Padova, dove il Comando Supremo si era stabilmente trasferito da Treviso, e portò a Cadorna la ferale notizia del suo siluramento. Che Cadorna credesse alle cifre da lui trasmesse a Porro è impossibile. Più accettabile è l'ipotesi che egli le abbia sparate, per forzare la mano agli alleati nutrendo scarsissima fiducia di poter tenere la linea del Piave, benché la considerasse l'ultima chance dell'esercito italiano. E ciò spiegherebbe l'oscura frase contenuta nella sua lettera del 3 novembre a Orlando, posteriore al momento in cui egli venne a conoscenza del prossimo incontro con gli alleati: «Ho voluto così esporre la situazione nella sua dolorosa realtà, sembrandomi meritevole di essere considerata all'infuori della ragione militare, per

quei provvedimenti di governo, che esorbitano dalla mia competenza e dai miei doveri». [Nota. L. Cadorna, Pagine polemiche, cit., p. 188. Qui è riprodotta la chiusa della lettera, che venne pubblicata integralmente nel 1919 nella relazione della Commissione d'inchiesta su Caporetto. Fine nota.] Secondo la mia interpretazione, temendo la disfatta totale e non pensando affatto a paci separate, Cadorna voleva premere sul governo, perché estorcesse agli alleati il massimo aiuto possibile. Per suo conto ci mise le 35 divisioni, ridottesi a 21 in un giorno e mezzo. Se ciò corrisponde al vero, si trattò di un tentativo abbastanza ingenuo, poiché il conto delle divisioni tedesche i franco-inglesi l'avevano abbastanza preciso. Fu invece un elemento determinante, perché questi ultimi chiedessero, senza mezzi termini, la defenestrazione di Cadorna, che aveva tentato di raggirarli, così semplificando il compito a Orlando. Questa ipotesi non è stata sinora mai avanzata ed è largamente aperta ai benefici del dubbio. Se confermata, essa getterebbe però un'ulteriore ombra sul carattere non limpidissimo del generale Cadorna. Il forzamento del Tagliamento da parte nemica avvenne alle 23 del 2 novembre, attraverso il ponte di Cornino, che era stato sabotato in modo superficiale. Per quell'ora un battaglione bosniaco era già dall'altra parte e il corpo d'armata «speciale» non fu in grado di contenerne il continuo rinforzo. Il mattino del 3 anche la 12a divisione tedesca riusciva a transitare lungo una passerella presso Pontajba. A occidente di Codroipo gli austro-ungarici misero piede sulla destra del fiume il 4 novembre alle 21,30 e il giorno 5 lo varcarono anche a Latisana. I grandi successi mietuti ottenebrarono però la mente del generale von Below incapace di penetrare la complessa psicologia della resistenza che avrebbe incontrato nel soldato italiano e incredulo sulle possibilità che quest'ultimo avrebbe appreso così presto a combattere «alla tedesca». A mezzogiorno del 3, informato del primo forzamento del Tagliamento, von Below indicò all'arciduca Eugenio, come prossimo obbiettivo, almeno la linea dell'Adige. Saputo poi di uno sbarco in preparazione fra Tagliamento e Piave, sollecitò perché lo si effettuasse fra il Piave e Venezia. Questi sogni d'autunno erano ispirati dalla sensazione che nel Friuli le forze disponibili fossero fin troppe, talune - come la I Isonzo Armée e

parte della II - scarsamente utilizzabili, per l'impossibilità di muoverne le artiglierie con la necessaria sollecitudine. Un ulteriore motivo di fretta era indotto dai pressanti solleciti del Comando Supremo germanico, per riavere le divisioni tedesche, affinché si riaddestrassero in vista della grande offensiva in occidente, preventivata per i primi di marzo del 1918. Fu quindi deciso di inviare a Conrad due divisioni (la 21a e la 106a) del gruppo d'armate Boroevic, sollecitandolo a passare all'offensiva nel Trentino. In una crisi autocritica, Krafft ritiene che ben più imponenti rinforzi gli si sarebbero potuti fornire, «traslocando» nel Trentino l'intera I armata dell'Isonzo, 10 divisioni e 800 cannoni. Tuttavia a me pare impossibile che tale spostamento potesse essere messo in opera prima dell'inverno. E fretta imponeva l'arrivo in Italia di forze anglo-francesi. Bisognava attaccare, prima che fossero troppe. Il 28 novembre il Comando Supremo germanico, anch'esso propenso alle sovrastime, se pure non in misura cadorniana, dava per «accertata» la presenza di 16 divisioni alleate, contro le 10 effettivamente giunte fino a quel momento. L'ordine di ripiegamento dal Tagliamento al Piave Cadorna lo diede il 4 novembre alle 10,35. Riguardava le armate II e III, che dovevano far defluire subito gli elementi non combattenti, cominciando il ripiegamento di questi ultimi la notte successiva, indipendentemente dal contegno del nemico. La IV armata era stata messa in preallarme fin dal 26 ottobre, e il 31 essa già sapeva che, se ci si ritirava sul Piave, avrebbe dovuto tenere la linea dal canale di Brenta a Vidor. Il ritiro della IV armata, comandata dal generale Di Robilant, avvenne tuttavia con alquanto ritardo, per la resistenza passiva che il suo comandante oppose al generale Cadorna. A un certo punto Di Robilant vagheggiava e vaneggiava di resistere in un «ridotto» cadorino. Tra il tergiversare dell'uno e l'incalzare dell'altro, almeno una giornata andò perduta, il che permise agli austro-germanici (anche stavolta protagonista il tenente Rommel) di «tagliare» a Longarone la coda della IV armata, che ci rimise 10.000 uomini e 94 cannoni. Ma solo a questo, fortunatamente, si «limitò» il danno. Furono invece inghiottite due delle tre divisioni dell'ex corpo carnico, che Cadorna aveva sconsideratamente rinforzato il 26 ottobre con la 63a divisione. Tagliata la via della ritirata, respinti i tentativi di sfondamento, quest'ultima e la 36a andarono totalmente perdute: e furono altri 20.000 prigionieri.

Altrove, cioè in pianura, la ritirata si svolse meno caoticamente di prima e più ampie furono le distruzioni dei ponti sui fiumi compresi fra Tagliamento e Piave, e quella delle ferrovie. Molte unità sbandate si ritrovarono con accorgimenti semplici. Ricorda il tenente Coda [Nota. Valentino Coda, Dalla Bainsizza al Piave, Sonzogno, Milano 1919. Fine nota.] che un sergente aveva avuto l'idea di rizzare, all'ingresso di un prato, la scritta brigata Bisagno. A poco a poco il campo si riempì e un sottotenente ne prese il comando. Presso Oderzo egli aveva già ramazzato un migliaio di sbandati, l'equivalente di un grosso battaglione. Coda lo imitò e arrivò a Montebelluna con 2000 uomini delle brigate Re e Forlì: uomini che in tre giorni salirono a 3000. Lo stesso procedimento, adottato nei campi di raccolta nelle retrovie, diede risultati altrettanto insperati, dimostrando l'esistenza di una notevole autodisciplina. Il bollettino germanico del 2 novembre aveva comunicato un totale di 200.000 prigionieri e 1800 cannoni, catturati agli italiani. In quello dell'8 il bottino era salito a 250.000 uomini e 2300 cannoni. Ma la messe stava per esaurirsi. L'esercito italiano subì una perdita momentanea di circa 800.000 uomini, inclusi gli sbandati e i disertori all'interno. Quelle definitive la Commissione d'inchiesta le precisò, per il periodo dal 20 ottobre al 20 novembre, in 10.000 morti, 30.000 feriti e 293.000 prigionieri, di Cui 8447 ufficiali, cioè in proporzione pressoché «regolamentare». Il 24 ottobre, ad esercito intatto, il rapporto fra soldati e ufficiali era infatti di 28 a 1, mentre fra i prigionieri fu di 34 a 1. Fra i comandanti di divisione, vennero presi prigionieri Farisoglio della 43a, Francesco Rocca (da non confondersi col difensore di monte Ragogna) della 63a, Taranto della 36a. Il generale Villani, comandante della 19a, e il generale Rubin De Cervin, comandante della 13a, si suicidarono: prova della tensione psichica di quei giorni, nei quali si uccisero anche sottotenenti e soldati semplici. Quanto al materiale bellico, andarono perduti: 3152 cannoni di ogni calibro, 1730 bombarde, 3000 mitragliatrici, 2000 mitragliatrici-pistole, 300.000 fucili (oltre a quelli dei prigionieri e degli sbandati), 73.000 quadrupedi, 1600 autocarri, 150 aeroplani e 1.500.000 proiettili di artiglieria, oltre a quantità immense di viveri e di vestiario.

Sulle perdite di uomini i dati non sono affatto sicuri. La Storia Ufficiale precisa di aver effettuato un calcolo analitico relativo alla sola II armata per i giorni che vanno «dalla rottura del fronte all'inizio del ripiegamento sul Piave», quindi dal 24 ottobre al 4 novembre inclusi, riscontrando 11.600 morti e 21.950 feriti (non dice se siano compresi i prigionieri feriti, ma si direbbe di no, poiché la proporzione statistica fra feriti e caduti era di 2,6 a 1). Secondo una mia personale valutazione, leggermente diversa da quella del generale Cabiati, le cifre dei prigionieri, ripartiti per armate di appartenenza, risulterebbero le seguenti: {Nota. Segue una tabella con tre colonne, intitolate rispettivamente “Corpo di appartenenza”, “prigionieri” e “percentuale della forza iniziale (compresi i servizi)”. Vi sono quattro righe più una quinta con i totali. Fine nota.} Corpo di appartenenza prigionieri percentuale della forza iniziale (compresi i servizi) IV armata 11.650 5,1 per cento Zona Carnia 19.600 21,5 per cento III armata 27.650 9,1 percento II armata 202.000 30,3 per cento Totale 260.900. Dei prigionieri, il 55 per cento apparteneva alla fanteria e ai bersaglieri, il 45 per cento agli alpini, all'artiglieria, al genio, alla cavalleria, ai carabinieri, alla sanità e alla sussistenza. Aggiungendo ai precedenti i 27.000 catturati dal 10 al 20 novembre (10.000 dalla XIV armata mista, 15.000 dal gruppo Conrad e 2000 da quello Boroevic) il totale salirebbe così a 288.000 uomini, cifra molto prossima a quella della Commissione d'inchiesta. Quanto ai morti e ai feriti recuperati entro le nostre linee, se la II armata ne ebbe 33.350 su 180.000 prigionieri, perduti fino al 4 novembre incluso, e accettando arbitrariamente che la stessa proporzione valga per le altre armate e per tutto il mese considerato dalla Commissione d'inchiesta, tra il 20 ottobre e il 20 novembre i caduti e i feriti ammonterebbero a 54.000 uomini, cioè parecchi più di quelli normalmente citati. Sugli sbandati il generale Cabiati afferma che 140.000 appartenevano alla fanteria, 100.000 all'artiglieria, 25.000 al genio e 35.000 alle altre specialità. Sommando prigionieri e sbandati per

categorie, si arriva alla strabiliante conclusione che gli artiglieri, con la perdita di oltre 163.000 uomini, contro i 257.000 della fanteria (inclusi bersaglieri e alpini), diedero il massimo contributo alla percentuale delle perdite. Sulla consistenza numerica di artiglieri nell'esercito italiano al 1° ottobre 1917, sbandati e prigionieri rappresentarono il 27 per cento contro il 15 per cento della fanteria (più bersaglieri e alpini). È la smentita più clamorosa della tesi dello «sciopero militare» e anche di quella, più moderata, fatta propria dalla Storia Ufficiale, là dove afferma che la vastità della crisi morale nell'esercito italiano è provata dal fatto che le sue manifestazioni si ebbero violente dove violenta fu la reazione avversaria, mancarono dove questa non ci fu. Non per loro colpa, ma per la natura delle cose, gli artiglieri - con perdite relative pari a un decimo di quelle dei fanti - appartenevano a una categoria di combattenti privilegiatissima, certo più dei genieri, come è provato anche dal numero esiguo di condanne loro inflitte dai tribunali militari. Senza negare l'esistenza di tale crisi, la sua natura va dunque cercata altrove: nell'impatto, che la nuova natura del combattimento ebbe sulle truppe italiane. In conclusione le perdite definitive dell'esercito italiano ammontarono a 342.000 uomini, le provvisorie a 350.000 (inclusi i 50.000 disertori all'interno), cioè a quasi 700.000 uomini, mentre la riduzione di 800.000 effettivi, che la Storia Ufficiale indica per l'intero esercito, include probabilmente anche i malati. Aiutata dalla fortuna e dalla dedizione degli uomini, la III armata riuscì a salvare il più delle artiglierie: il 7 novembre erano già piazzati o in via di schieramento sul Piave quasi 800 pezzi, sui 1200 in dotazione prima della battaglia. Ammettendo che la differenza sia andata perduta, insieme ai 94 cannoni della coda della IV armata, le perdite residue - 2658 pezzi - vanno attribuite alla II armata e al corpo carnico, che complessivamente ne avevano 2941 e che evidentemente riuscirono a salvarne solo 283, cioè il 10 per cento della dotazione iniziale. Tali pezzi vennero lasciati sul Piave a rafforzare lo schieramento di artiglieria della IV armata. Il munizionamento di cui era dotata l'artiglieria sul Piave e sul Grappa era però discreto (superiore alla dotazione dei pezzi, che gli austro-germanici erano riusciti a portare avanti). Il 4 novembre il ministro delle Armi e Munizioni, generale Dallolio, assicurò poi il presidente del Consiglio che il milione e mezzo di cariche perdute sarebbe stato ripianato entro il

14 novembre con le scorte e la elevata produzione nazionale. E aggiunse che entro dicembre l'industria italiana era in grado di produrre 500 cannoni, mentre 800 ne fornirono gli alleati, in aggiunta alle artiglierie in dotazione ai reparti da essi inviati in Italia. La situazione delle artiglierie sulla linea del Piave si presentava dunque, dato l'accorciamento del fronte, difficile ma non tragica. Sulle perdite austro-germaniche il segreto è tuttora assoluto, ma non è inverosimile che, a parte un numero di prigionieri certamente esiguo, quelle cruente non poterono essere molto inferiori alle italiane: 50.000 uomini sembra una congettura non irragionevole. L'aiuto degli alleati fu pronto. Alla comunicazione di Cadorna, fatta a Foch e Robertson il 26 ottobre, che la situazione si era improvvisamente aggravata, Foch rispose: «... Il governo francese vi fa sapere che, se avete bisogno delle nostre truppe, siamo pronti a marciare». E le avanguardie erano già alla frontiera franco-italiana il 30 ottobre. Inizialmente l'aiuto fu limitato a 6 divisioni, portate a 11 (6 francesi e 5 britanniche) entro l'8 dicembre. Essi si dislocarono dapprima presso Brescia, Mantova, Verona e Vicenza, astenendosi dall'entrare in linea su istruzione dei rispettivi governi, finché non fosse chiarita la situazione militare, preparandosi semmai ad azioni controffensive, se fosse stata rotta la linea del Piave. Nel frattempo, però, funsero da riserva, evitando alla III armata di depauperarsi di 5 divisioni. Sono note le polemiche scatenate da questo contegno «prudente». A esso non poté non contribuire il gioco di bussolotti, tentato maldestramente da Cadorna a danno degli alleati, sul numero di divisioni germaniche presenti in Italia. Ma fu buon profeta Foch, allorché dichiarò che un giorno gli italiani l'avrebbero ringraziato, quando fossero riusciti da soli a tenere la linea del Piave. I tedeschi tentarono di rallentare l'afflusso di truppe alleate con azioni di sabotaggio sulla linea del Fréjus, senza però riuscirvi in tempo. Solo il 12 dicembre, infatti, un trasporto militare con oltre 1000 soldati a bordo, si incendiò nella galleria, provocando 400 morti, mentre altrettanti rimasero gravemente feriti o impazzirono: ma si trattava di soldati anglo-francesi, che venivano in licenza dal fronte di Salonicco. Il proposito di entrare in linea fu avanzato dai generali Foch e Plumer il 22 novembre, avendo constatato che gli italiani tenevano da soli. L'intervento effettivo avvenne il 4-5 dicembre sul medio Piave e

sul Grappa con 6 divisioni, mentre le altre 5 entrarono a far parte della riserva generale dell'esercito italiano. Nel frattempo la battaglia di rottura di Caporetto si era conclusa sugli Altipiani, sul Grappa e sul Piave con l'arresto del nemico, piegato nuovamente alla guerra di trincea, per merito esclusivo dell'esercito italiano. Il vantaggio che l'Italia trasse dal primo concorso «assente» degli alleati consistette nel poter impegnare l'intero nostro esercito, senza tenersi riserve alle spalle, nella convinzione che quelle alleate avrebbero assolto a tale compito. Si trattò perciò di un concorso effettivo, benché «assente», ma nella grande battaglia non un caduto fu di nazionalità inglese o francese. Essi parteciparono invece alla battaglia successiva: la «piccola offensiva», che gli austro-germanici iniziarono sugli Altipiani e sul Grappa il 4 dicembre. La grande battaglia terminò infatti il 26 novembre e il comando austro-ungarico del fronte sud-occidentale ne sanzionò la cessazione ufficiale il 2 dicembre. A metà novembre già erano state ritirate, a favore del fronte francese, la maggior parte delle bombarde di medio e grosso calibro e il 3 dicembre presero il via per la Germania le divisioni tedesche 5a, 12a e 26a, nonché il battaglione del Württemberg e metà delle artiglierie germaniche. È evidente che, in tali condizioni, una riduzione di forze a 53 divisioni, [Nota. La cifra si deduce dalle 55 divisioni iniziali con l'aggiunta della 195a germanica (mai impegnata) e la sottrazione delle 3 tedesche già rimpatriate. Fine nota.] mentre l'esercito italiano si riequipaggiava con sorprendente rapidità e un contingente alleato di almeno 250.000 uomini (con i servizi) arrivava nel basso Veneto, sottintendeva la rinuncia all'obbiettivo strategico di mettere fuori combattimento l'Italia. Restò il proposito, messo in pratica nella piccola offensiva di dicembre, di migliorare tatticamente le posizioni raggiunte e preparare una base controffensiva per una nuova battaglia di rottura in grande stile, che a detta di Krauss non poteva essere organizzata prima della fine di gennaio. Ma, ritirate le residue unità tedesche entro dicembre, l'offensiva fu rimandata a un futuro indeterminato. Tale futuro divenne realtà il 15 giugno 1918, allorché gli austro-ungarici scatenarono contro l'Italia «l'offensiva della pace», l'operazione Radetzky. Ne uscirono battuti, se pur non domi, e con le ossa rotte.

Alle 20 del 7 novembre Cadorna fu informato del suo siluramento dal generale Porro, rientrato a Padova (dove si era definitivamente trasferito il Comando Supremo), reduce dal convegno di Rapallo. Dallo stesso Porro Giardino, che era con Cadorna, apprese la sua nomina a vicecapo di stato maggiore del nuovo capo Armando Diaz. Alle 7,30 del giorno dopo arrivò il re di passaggio per Peschiera. Cadorna gli chiuse la bocca, categoricamente affermando di non volere la lustra della nomina a membro consultivo del consiglio interalleato. Il re rispose con un «ha ragione» e passò a parlare d'altro. Poi partì per Peschiera, dove lo attendevano i massimi dignitari alleati: Lloyd George, Painlévé, Orlando, Sonnino e pochi altri. I militari restarono fuori dalla porta chiusa. Il re, salvo qualche giorno di permanenza a Roma per le consultazioni relative alla formazione del nuovo governo, aveva seguito molto da vicino la ritirata dell'esercito e conosceva lo spirito delle truppe assai meglio di Cadorna. Verso le 11, in fluente inglese, egli parlò a quel consesso, che ne rimase colpito e parzialmente convinto: conciso, non allarmista, espresse fiducia che, col concorso alleato, si sarebbe tenuta la linea del Piave. Lloyd George, il negromante briccone, ne rimase impressionato. Fu il momento più felice e glorioso del nostro sovrano, che doveva finire nell'ignominia. «Italiani, siate un esercito solo!» è da contrapporre al «Si salvi chi può!», da lui non detto, ma messo in atto l'8 settembre 1943. La lettera di esonero arrivò a Cadorna a mezzogiorno dell'8, con quella di nomina per Giardino. Alle 21 arrivò a Padova, finalmente rintracciato al fronte, anche Diaz con la nomina in tasca. La mattina dopo, 9 novembre, i giornali pubblicarono un comunicato, in cui si annunciava che, al posto di Cadorna e del suo vice Porro, capo di stato maggiore dell'esercito italiano era stato nominato il generale Diaz, il quale avrebbe avuto due sottocapi: i generali Giardino e Badoglio. Badoglio era stato un'aggiunta dell'ultimo minuto, forse opera di Bissolati, secondo il quale Badoglio, uomo d'azione, poteva controbilanciare l'eccessivo spirito critico di Giardino. Così Badoglio evitò fortunosamente un certo numero di fastidi: fra i quali la Commissione d'inchiesta di Caporetto, alla quale avrebbe dovuto rendere conto ora per ora delle sue azioni il 24 ottobre e i giorni successivi, quale comandante del XXVII corpo d'armata. Le accuse contro di lui per la rottura di Caporetto si sono sfumate, ma talune fondamentali responsabilità rimangono. Badoglio in quei giorni era

introvabile, lo rintracciarono il 10 e, qualche ora dopo, anche lui arrivò a Padova. Lo stesso comunicato annunziava la nomina di Cadorna a membro consultivo della Commissione interalleata, senza aver chiesto il preventivo assenso dell'interessato. Da Padova Cadorna era partito la sera del 9 novembre. Si può ragionevolmente dire che egli cedette il comando la mattina di quel giorno. Il bollettino dell'8 novembre era ancora infatti a firma di Cadorna, mentre quello firmato da Diaz il giorno dopo fu uno dei più brevi della guerra: «Le truppe continuano ad affluire e ad afforzarsi sulle posizioni prescelte per la resistenza. Le retroguardie e i reparti di copertura proseguono valorosi e instancabili a trattenere l'avversario». Nel momento in cui lasciò il comando, Cadorna aveva praticamente condotto l'esercito italiano sul Piave. «Un mondo è finito, crollato, sprofondato, comincia un'altra epoca.» Era vero, ma non per le ragioni che credeva il colonnello Gatti, bensì per quanto avveniva a duemila chilometri di distanza. La sera del 7 novembre i bolscevichi si erano impadroniti a Pietrogrado - non più Pietroburgo, non ancora Leningrado - del Palazzo d'Inverno e la mattina dell'8 Lenin, pur non saldamente, era al potere. La sera stessa egli lesse un proclama ai popoli e ai governi dei popoli belligeranti in cui proponeva una pace immediata senza annessioni e senza indennità. Il proclama fu approvato all'unanimità: un solo oppositore, che alzò la mano, la riabbassò immediatamente, quando si avvide che ne andava della sua vita. Poi tutti intonarono l'Internazionale e andarono a casa, convinti che la guerra e le loro disgrazie fossero davvero finite. Era finita invece solo per Cadorna. La mattina del 9, quando egli partì da Padova, la III armata era già schierata lungo il Piave, mentre la IV le si agganciava solo in parte, perché il grosso stava ancora scendendo lungo la valle del fiume. Entro il 13 novembre, occupate Belluno e Feltre, i nemici erano a ridosso del massiccio del Grappa, che salda la valle del Piave con quella del Brenta. A occidente di questo le truppe, ancora intatte, della I armata, in via di leggero ripiegamento per saldarsi al Grappa, fin dal giorno prima erano state duramente impegnate dal gruppo Conrad. La ritirata dall'Isonzo al Piave era costata cara all'esercito italiano. Purtuttavia, senza rendersene conto, Cadorna aveva condotto una difesa elastica, se pur dispendiosa, su scala strategica anziché tattica.

Gli austro-germanici si erano tanto allontanati dalle loro basi, che spostare l'indispensabile apparato logistico per una vigorosa prosecuzione dell'avanzata diveniva estremamente penoso. Per ottenere ciò - inconsapevole - Cadorna aveva sacrificato il nerbo di un'armata, la II, dandola in pasto al nemico, per salvare le altre. I suoi provvedimenti erano stati tutt'altro che perfetti: l'invio all'ultimo momento di una divisione al corpo carnico, già condannato; il sacrificio inutile della brigata Bologna, che indebolì la difesa di Cornino; la prematura distruzione dei ponti di Codroipo, sua responsabilità indiretta, anche se non diretta. Ci fu chi, come Novello Papafava, si dilettò a conteggiare il risparmio di perdite che una prescienza del futuro avrebbe concesso. [Nota. Novello Papafava, Da Caporetto a Vittorio Veneto, Musei del Risorgimento e di storia contemporanea, Milano 1965. Fine nota.] Questi errori aggravarono una situazione, il cui sbocco era tuttavia destinato a finir male. Forse si sarebbero potute ridurre le perdite del 15 o del 20 per cento. Ma al Piave l'esercito italiano era costretto ad arrivare, perché il Tagliamento riproduceva, solo lievemente rimpiccioliti, i difetti della linea dell'Isonzo. L'Austria-Ungheria, riaccesa da una falsa idea «revanscista», trovava nella vittoria militare l'illusione di un impossibile recupero.

Capitolo XXIII DIFESA ELASTICA SUL GRAPPA La tempesta d'acciaio avanzava verso il Grappa con i lupi del gruppo Krauss. E le prime avvisaglie in fondo a val Brenta avevan fatto loro credere che il movimento retrogrado delle truppe italiane fosse l'abituale sintomo di una svogliata e timorosa capacità di resistenza. Sono gli stessi lupi che hanno attaccato il 24 ottobre: la 3a Edelweiss, la 22a Schützen, la 55a e la Jäger germanica, passate indifferenti in mezzo alla morte secca dei gasati di Plezzo. Dopo 20 giorni il loro comandante si trova di fronte a un problema, che gli pare analogo a quello già risolto a Caporetto: forzare verso la pianura per la val di Brenta e quella del Piave, evitando il massiccio del Grappa. Alcuni suoi divisionari, Müller, von Wieden, Schwanzenberg, sono però dubitosi: stavolta manca la sorpresa; e il Brenta, fra San Marino e Valstagna, per 8 chilometri, corre in una forra non più larga di qualche centinaio di metri, fra pareti verticali, che arrivano a mille. Il Piave, il burrone ce l'ha da una parte sola, perché l'altra sponda guarda la pianura ed è occupata dagli austriaci del gruppo Scotti, cui seguono, fino al Montello, i tedeschi di Stein: ma la stretta di Quero è dominata dall'artiglieria italiana, dislocata sul Grappa. La fortunosa ritirata della IV armata italiana dal Cadore è stata protetta da una retroguardia, comandata dal colonnello Piva: 7 battaglioni e 1 compagnia mitragliatrici con l'appoggio di 20 piccoli calibri. È stata una marcia di 80 chilometri, in cui essa ha subito perdite dolorose. Il capitano Gualtiero Gastellini definisce le vicende di tale colonna «un'odissea che resterà nella storia» e che invece fu coperta da una coltre di silenzio. Intanto fra Comando Supremo e comandi inferiori è scoppiato un diverbio: il 9 novembre, lo stesso giorno in cui ha assunto il comando, Diaz vorrebbe tenere una linea ben più avanzata di quella prevista, in particolare considera «indispensabili» per la difesa del Grappa il monte Roncone e il Tomatico, che interdicono al nemico la libera disponibilità della conca di Feltre. In realtà il disegno del Comando Supremo è errato: il Grappa non va «difeso», esso stesso è elemento base della difesa. Ma Diaz, pur sperando in cuor suo che sul Grappa si tenga, teme che ci si debba ancora ritirare. E in tal caso il Grappa diverrebbe effettivamente un

elemento ritardatore, da cedere a rate, anziché costituire il sostegno dell'ultima linea. Benché i comandi della I e della IV armata ritengano impossibile occupare una linea più avanzata, il generale Di Robilant per dovere di ubbidienza (lui, che ha «disubbidito» a Cadorna) il giorno 11 prescrive che il Roncone e il Tomatico siano inclusi nel sistema difensivo principale. Ma lo stesso giorno, divenuto improvvisamente saggio dopo la pazzia di voler difendere il «ridotto» cadorino, facendo circondare dal nemico tutta l'armata, avverte il Comando Supremo che il Tomatico e il Roncone «saranno avviluppati e in parte dominati dalle artiglierie avversarie», cosicché Diaz accetta a tamburo battente il criterio che l'occupazione del Tomatico e del Roncone sia definita «importante, ma non prevalente». Ciò consente il 14 a Di Robilant di prescrivere istruzioni più coerenti per la difesa del Grappa: la linea di difesa a oltranza - da ovest a est - è definita dalle sponde del Brenta, per col Moschin, cima Grappa, il Tomba e il crinale del Monfenera fino al Piave. L'occupazione avanzata si porterà sui monti Fontanasecca e Prasolan, protendendosi più a nord «per ordine del Comando Supremo» con l'occupazione del Tomatico e del Roncone, che le daranno spessore. Interessanti le prescrizioni tecniche: «Razionale schieramento in profondità... Reagire contro la preoccupazione dell'aggiramento... Il valore dell'aggiramento è del tutto morale... Qualora malauguratamente un reparto abbandonasse la sua posizione per effetto di minaccia di aggiramento, ne sarà tenuto strettamente responsabile il comandante». Questa dialettica non sarà superflua, ai fini della difesa del Grappa, avvolto fin dall'11 novembre da una bufera di neve. Il 13 i presidi del Roncone e del Tomatico hanno i primi scontri con pattuglie nemiche, poiché Krauss, che ha portato velocemente le sue truppe in conca di Feltre, vuole attaccare subito, prima che gli italiani si raccapezzino. Forma due gruppi da combattimento: il von Wieden, con la Edelweiss e metà della Schützen, che forzerà la forra del Brenta, puntando su Bassano; e lo Schwanzenberg, con la 55a e la Jäger, che forzerà la stretta del Piave con meta Pederobba. A Feltre resteranno di riserva i 6 residui battaglioni della 22a. Le colonne che puntano verso la pianura, en passant invieranno distaccamenti sulle vette del Grappa, per neutralizzarvi gli italiani là arroccati. Benché organizzata alla garibaldina, l'azione non era sottostimata nella sua importanza. Come

scrive Krafft: «La mossa... veramente decisiva di tutta la campagna consisteva senz'alcun dubbio nell'urto del corpo d'armata Krauss contro il Grappa». Per gli italiani questo nuovo scontro si presentava sfavorevolissimo. Contro monte Roncone, il 14 novembre, si lancia il 3° Kaiserjäger, seguito da un battaglione del 59° fanteria di Salisburgo, con l'appoggio, invero striminzito; di 2 batterie. Contro il Peùrna avanzano i due battaglioni del 26° della Stiria. Sul Roncone gli austriaci trovano gli alpini del Val Tagliamento, sul Peùrna quelli del Monte Arvenis: 2 battaglioni, che non cedono di fronte a 6, finché il Monte Arvenis, abbandonato il Peùrna, si arrocca su cima Sassumà. Sul Tomatico il 7° fanteria austriaco affronta gli alpini del Val Cismon che - anch'essi tengono duro. Lungo il Piave avanza la 38a brigata bosniaca. La affrontano i 3 battaglioni del 23° fanteria della brigata Como, appena reduce da Auronzo, nell'alto Cadore, dopo una ritirata di 80 chilometri. Il 23° cede la stazione di Santa Maria e monte Tese, allineandosi col 24° - che per suo conto aveva tenuto perfettamente sul Piave - sulla linea monte Cornelia-rocca Cisa. La superiorità numerica degli austriaci era schiacciante. Lo dice Krafft, che elenca con precisione le nostre forze: 8 battaglioni contro 17, scarse le artiglierie da entrambe le parti. Il risultato? Nullo contro il Roncone, il Tomatico ancora in mano italiana, un'avanzata di 3 chilometri, contenuta, lungo la riva destra del Piave. Questa metallica resistenza prese di sorpresa Krauss, Krafft, von Below. Il Peùrna era stato conquistato dopo indicibili fatiche e gravi perdite: pochissimi i prigionieri. Inoltre, nella notte sul 15, il Monte Arvenis ripiegò, come detto, sul Sassumà e il Val Cismon sul Fontanasecca, secondo criteri di difesa elastica, adottati d'istinto. Il giorno dopo Krauss rinforzò gli attaccanti: 21 battaglioni su 16 chilometri. Essi conquistano monte Roncone, monte Cismon, col Zaloppa, il Tomatico e il monte Santo. I nostri ripiegano sulla linea che, dallo sbocco del torrente Cismon nel Brenta, passa per il Prassolan, col del Prai, monte Casonet, col dell'Orso, i Solaroli e monte Fontanasecca, per raccordarsi a rocca Cisa con la difesa del Piave. Da parte italiana sono stati coinvolti, oltre alle forze precedenti, gli alpini del Matajur, 2 battaglioni bersaglieri e 2 di fanteria. Il Val Tagliamento, accerchiato, si fa strada verso il Grappa, ma ci arrivano in 200: pochi sono catturati, morti gli altri. Il 62° battaglione bersaglieri perde anch'esso metà degli effettivi. Sul Tomatico son catturati 500

prigionieri e 200 sul col del Prai. Ma contro il Prassolan gli austriaci non ce la fanno. Lo difende un battaglione e mezzo del 149° fanteria, brigata Trapani, un reparto che dopo la decima battaglia dell'Isonzo era stato punito per codardia, col disbando dei suoi appartenenti. Capello li aveva «perdonati» e spediti sulla Bainsizza a perdere altri 1100 uomini. In settembre la Trapani era stata inviata presso la IV armata, come riserva del Comando Supremo. Anch'essa, inquadrata nella 15a divisione, ha compiuto qualche giorno prima una ritirata di 35 chilometri. Sconfitta è anche la 26a brigata austro-ungarica lungo il Piave, dove perde, dopo averlo preso, monte Cornelia. In conclusione il giorno 16 il nemico era avanzato di 3 o 4 chilometri sui monti, quasi nulla lungo il Brenta e il Piave. Ma quelle montagne appartenevano a un massiccio, che era tutto un ribollio geologico: se una cima era presa, subito se ne profilava un'altra, un po' più alta, da raggiungere sprofondandosi in una valletta. Contro i 21 battaglioni nemici gli italiani ne hanno opposto 13, cioè poco più della metà. La perdita di 700 prigionieri non è certo un indizio di cedimento. Alle 8 del 16 novembre Krauss ritenta. Verso la parte occidentale del Grappa lancia 16 battaglioni, che raggiungono il Brenta a Collicello, dove la valle si restringe, fino a ridursi a un canyon. Le artiglierie italiane battono la strettoia e un'ulteriore avanzata è impossibile. Un po' più di fortuna gli austriaci l'hanno al centro. Investito in pieno e circondato, il I/149° perde 1100 prigionieri, fra cui - ferito - il comandante del reggimento. Intanto, mentre alcuni reparti italiani ripiegano verso cima Grappa, gli austriaci occupano di stretta misura il Prassolan, mentre sono bloccati davanti al Fontanasecca. Verso il Piave l'attacco è preparato più metodicamente, con concorso di artiglierie piazzate anche sulla sponda sinistra del fiume. L'attacco si scatena all'imbrunire: vi partecipa tutta la 55a divisione e parte della Jäger: una ventina di battaglioni, per quanto scossi. A mezzanotte, dopo lotta furibonda a base di lanciafiamme, è preso il Cornelia, qualche ora dopo è occupata Questo, alle 8 del 17 rocca Cisa: 2400 i prigionieri catturati. Complessivamente, il giorno 16 gli austro-germanici hanno impegnato più di 30 battaglioni, mentre si sono prosciugate le riserve italiane. Ma verso sera arriva in zona il Monte Rosa, mentre il 17 trascorre in relativa calma, perché il nemico deve riorganizzarsi, se vuol tentare la

conquista di monte Tomba, caposaldo della linea di difesa a oltranza italiana, che include la vetta del Grappa. Finora la difesa ha guadagnato 4 giorni. Montando attacchi di violenza crescente, il nemico si è scontrato con crescente resistenza. I 4000 prigionieri, moltissimi feriti, sono un'inezia. Il soldato italiano sembra irriconoscibile. E ciò non è avvenuto nel corso di qualche mese, come in Francia dopo gli ammutinamenti del maggio-giugno 1917, quando ci vollero parecchie settimane, per riportare le truppe a uno stadio di normale combattività. In Italia tutto è avvenuto da un giorno all'altro. La IV armata, che pure ha perso 10.000 uomini a Longarone, è divenuta una corazza di granito. Von Below, per i suoi, parla di perdite «fin qui sconosciute». E della mutazione si stupisce anche il Comando Supremo italiano che, dopo i primi infelici consigli, della lotta sul Grappa è rimasto spettatore. E tanto poco Diaz si fidava di poter resistere - mentre faceva studiare e sistemare, doverosamente del resto, una serie di barriere difensive a sud del Piave in previsione di una eventuale ritirata - che il giorno 13 aveva chiesto a Foch di portare a 20 divisioni l'aiuto alleato, cosa che Foch si rifiutò di consigliare al suo governo. Il rovesciamento della combattività italiana colpì, sì, i contemporanei, che ne diedero però una spiegazione distorta: le truppe erano rinsavite; dopo 3 settimane di fuga, riaccese d'amor patrio e vergognose dell'onta autoinflittasi, combattevano nuovamente come ai tempi del Carso. Un solo uomo di comando, il sottocapo di stato maggiore Gaetano Giardino, pose il quesito nella sua vitrea lucidità: «[Un] meraviglioso fenomeno o di perfetta immunità collettiva o di istantanea metamorfosi storica». [Nota. Gaetano Giardino, Rievocazioni e riflessioni di guerra, 3 voll., Mondadori, Milano 1929-1932, vol. I. Fine nota.] Tanto più stupefacente, ora che a rinforzare la IV armata giungono rinforzi ben singolari. Di che materiale umano si trattava? Di quello stesso che, pochi giorni prima, aveva partecipato al cosiddetto «sciopero militare». Il 17 novembre arrivava infatti sul Grappa il 264° della brigata Gaeta, che si affiancava al 144° della Trapani. Ed erano messi, questi 6 battaglioni di reprobi, alla difesa del Tomba. Il curriculum della Gaeta è presto riassunto: 1550 uomini perduti nella decima battaglia dell'Isonzo, 1578 nella undicesima, 1616 nel ripiegamento. Veniva dalla

24a divisione, VI corpo, II armata, Bainsizza meridionale: rifatta ora per l'ennesima volta con le reclute - le prime - della classe 1899. La sera del 18 novembre, dopo una giornata di continuo bombardamento di artiglieria, Krauss tenta la conquista del Pertica, che fallisce due volte, pur col favor delle tenebre. In val di Piave riesce invece, fra il 18 e il 19, la conquista di, una parte del crinale del Monfenera, Fener è perduta e al XVIII corpo d'armata, perché regga l'ulteriore urto, vengono mandate di rinforzo le brigate Re e Massa Carrara. La Re, Valentino Coda l'ha guidata dissolta al di qua del Piave. Quanto alla Massa Carrara, prima di Caporetto ha subito la cura d'obbligo per i reparti carsici: un paio di migliaia di uomini persi nella decima battaglia, 1746 sul Faiti nella undicesima. Poi ha vissuto intera la via crucis della ritirata: inviata di rinforzo al IV corpo d'armata il 23 ottobre, è stata sullo Stol, indi sulle pendici del Matajur e alla stretta di Stupizza, il 31 ha passato il Tagliamento a Cornino e il 9, retroguardia della II armata, ha varcato il Piave al ponte della Priula. Sia la Re che la Massa Carrara hanno i requisiti tipici delle brigate «Scappa». Ma questo è vero per tutti i rinforzi mandati alla IV armata dal 17 al 22 novembre: la Gaeta, la Re, la Massa Carrara, la Messina, la Trapani vengono senza eccezioni dalla II armata, come i battaglioni Val d'Adige e Morbegno del X alpini, «fuggiti» dallo Jeza. Sono 32 battaglioni, mandati di rinforzo ai 48, schierati nella zona del Grappa il 13 novembre. Ancora pochi giorni, e i difensori del Grappa saranno costituiti per il 50 per cento dall'armata dei reprobi. Come dice la terzina: “Palleggiando le colpe, i mimi tuoi nell'onta inpinguan la dorata pancia! Essi i Camilli, i traditor siam noi.” Le truppe della prima difesa del Grappa, le originarie della IV armata e i rinforzi tratti dalla II, sanno che il loro eventuale sfondamento sarebbe senza rimedio e segnerebbe con ogni probabilità l'inizio di un nuovo e più grave disastro. La prima resistenza sul Grappa fu, per ragioni di forze, di disagi e di clima, quella che più merita di essere ricordata. Perché il Grappa, in quella stagione, è già un acrocoro arido e gelato, dove - a quindici sotto zero - è secca anche la neve. Tanto che le reclute meridionali del '99, pur combattendo impavide,

piangono di freddo e invocano la mamma. E i combattimenti continuano violenti e senza respiro ma, per gli austro-germanici, senza risultati. Da parte italiana l'arrivo dei primi rinforzi consente uno schieramento più fitto. La 51a divisione sull'Asolone, la 15a sul Grappa e la 23a di riserva alle precedenti, costituiscono il nuovo XXVII corpo d'armata agli ordini del generale Di Giorgio. Intorno allo Spinoncia gravita la 56a e intorno a monte Pallone - importantissima posizione di concentramento delle nostre artiglierie - c'è la 24a, che con la 56a costituisce il XVIII corpo. Il IX corpo tiene l'estrema destra intorno a monte Tomba con la 17a divisione, rincalzata dalla 18a. Il VI corpo (divisioni 66a e 67a) è riserva d'armata, schierato dietro al IX. Sembrano molte, 9 divisioni: ma i reparti sono sotto organico e lo schieramento delle artiglierie ancora incompleto e difettoso. Il grande vantaggio, di cui usufruiscono gli italiani sul Grappa, è costituito dalla strada Cadorna (che l'ex generalissimo vi aveva previdentemente fatto costruire) e da alcune teleferiche, che assicurano l'alimentazione - di stretta misura - di viveri e materiale bellico. Gli austro-germanici dispongono invece solo di mulattiere e sentieri. E dalla piana di Feltre al Grappa è tutta un'implacabile salita fino all'orlo meridionale, che strapiomba in pianura. Fino a quest'orlo la geografia è nemica degli Imperi Centrali. Ma forse vi può porre rimedio l'abilità del comandante nemico: il generale di fanteria Otto von Below. Von Below riprese in mano le redini della battaglia, perché capì che, senza uno sforzo poderoso, il Grappa non veniva domato. All'impresa egli dedicò metà della sua XIV armata: il gruppo Krauss rinforzato (la 3a Edelweiss, la 22a Schützen, la 94a incorporata dalla X armata del Krobatin, il battaglione del Württemberg e qualche unità della 50a divisione) e un nuovo gruppo costituito dalla Jäger e dall'Alpenkorps, comandato da von Tutscheck. Tali forze sono articolate in tre masse d'attacco: von Wieden con 9 battaglioni, Müller con 12 e Tutscheck con altri 12: in totale sono 33 battaglioni di prima schiera, rincalzati da altri 27. Complessivamente 60 battaglioni per 25 chilometri di linea, contro i 122 (86 di prima schiera e 27 di seconda) disponibili a Caporetto per un fronte di 45. Si trattava di uno sforzo irripetibile: perché urgeva restituire al fronte occidentale le divisioni tedesche; perché queste e le unità

austro-ungariche associate erano stanche e indebolite; e infine perché l'inverno incalzava inesorabile. Con questo spiegamento von Below mirava a impadronirsi della linea col della Berretta-Asolone-cima Grappa-col dell'Orso-Fontanasecca-Spinoncia-monte Pallone-monte Tomba, così affacciandosi oltre l'orlo meridionale del massiccio del Grappa, pronto a traboccare in pianura. Inizio dell'azione: mattina del 20 novembre. Le versioni di questo memorabile scontro - ultimo capitolo della grande battaglia iniziatasi a Caporetto il 24 ottobre e terminata, per imposizione italiana, con la riaccettazione della guerra di trincea da parte austro-tedesca il 26 novembre - sono discordi nei particolari, poiché gli avvenimenti non furono mai ricostruiti con un dettaglio paragonabile a quello dei primi giorni di Caporetto. Concordano però le conclusioni: l'offensiva terminò con una secca sconfitta austrogermanica. Il gruppo von Wieden fallì tutti gli obbiettivi il 20, li fallì ancora il 21 salvo avvicinarsi al col dell'Orso, e solo il 22 conquistò di sorpresa il Pertica col 3° Schützen, che catturò 340 prigionieri. Ma il 23 nuovo completo scacco, salvo lungo il canal di Brenta, dove insieme a 462 prigionieri il gruppo conquistò una ridotta a nord-est di San Marino. Secondo la versione italiana il Pertica, difeso da 9 battaglioni appartenenti a 5 reggimenti diversi, fu perso la mattina del 22, riconquistato nel primo pomeriggio, riperso qualche ora dopo, ma ripreso alle 20 dal II/93°, brigata Messina, accorsa all'ultimo momento per intuizione del generale Bencivenga, già segretario di Cadorna. Sarebbe poi stato abbandonato il 23, senza che però gli austriaci lo occupassero, poiché - spazzato dal fuoco - nessuno vi poteva sopravvivere. La colonna Müller, respinta il 20, secondo Krafft il 21 avrebbe preso lo Spinoncia, cosa che von Below nega, precisando che ne furono occupati i rilievi, mentre in mano italiana restò la cima, sotto la quale si schierò il battaglione del Württemberg. Del Fontanasecca sarebbero stati conquistati i rilievi (von Below), mentre Krafft lo dà per conquistato. La versione italiana ammette la perdita del Fontanasecca, ma non quella dello Spinoncia. Nei giorni successivi il gruppo Müller segnò il passo e Rommel, che vi era aggregato, ebbe occasione di scottarsi le dita. Narra Rommel che il suo distaccamento, accampatosi il 18 a 700 metri dallo Spinoncia, tentò invano di prenderlo fino al 23, a

prezzo di gravi perdite. La mattina del 24 tutto il battaglione fu messo ai suoi ordini sul pendio nord-est del Fontanasecca, per rincalzare gli austriaci, che attaccavano i Solaroli, conquistandone a mezzogiorno una cima. Rommel chiese allora al suo comandante Sprösser, ottenendolo, il permesso di raggiungere sul Solaroli la 25a brigata austro-ungarica, per puntare fulmineo su cima Grappa. Ma, impossibilitato a scalare le pareti occidentali del Fontanasecca, scelse di procedere per val Stizzon dove, in località Dai Silvestri, fu sorpreso dall'oscurità e dalle ire del comando austro-ungarico, che lo accusò di aver sconfinato nel settore della 25a brigata. Della cosa Rommel informò Sprösser, che ottenne, per il battaglione del Württemberg, il ritiro dai combattimenti. Più prosaicamente von Below in data 25 scrive che «la 22a divisione Schützen prende d'assalto quota 1385 e quota 1222 a sud del Fontanasecca, ma non riesce ad andare oltre, perché il battaglione da montagna del Württemberg, incaricato di un accerchiamento, sbaglia strada e finisce in fondo alla val Stizzon». Guardando sulla carta dov'è la località Dai Silvestri, si capisce che Rommel mente: una macchia, non sul suo valore, ma sulla sua coscienza. Il gruppo Tutscheck il 20 conquistò Sengio, microscopico villaggio presso Fener, ma il 21 venne ovunque ributtato. All'alba del 22, però, i battaglioni della divisione Jäger, dopo una preparazione di fuoco di soli 5 minuti, riuscirono a compiere efficaci penetrazioni, per opera dell'effetto «straordinario» (von Below) dei lanciafiamme. Alle 8 venne conquistato il crinale del Monfenera, mentre l'Alpenkorps, che alle 9 si era avvicinato al Tomba, ne venne respinto. Ma alle 10,50 la cima venne conquistata, con 414 prigionieri, dalla Jäger, mentre con violentissimi contrattacchi gli italiani riuscirono a riprendere la metà occidentale del Monfenera. Nel pomeriggio, poi, essi riconquistarono il Tomba, per riperderlo definitivamente la sera, mentre i tedeschi si impossessarono anche della irrilevante località di San Lorenzo. Secondo la versione italiana il crinale, dai nostri riconquistato nel pomeriggio, era il tratto dall'Osteria del Monfenera alla vetta del Tomba esclusa. Qui, secondo Krafft, finirono i combattimenti. Von Below afferma però che il 24, incontrandosi con l'imperatore Carlo d'Asburgo, gli riconfermò la necessità di conquistare il Grappa a ogni costo. Parla inoltre di successivi combattimenti: il 25 occupato e perso il col

dell'Orso; il 26 preso e riperduto il col della Berretta. Questi eventi sono confermati da fonte italiana, che il 25 riporta la nostra evacuazione volontaria dello Spinoncia, del Tai e del monte d'Avien. Il 26, poi, gli austriaci avrebbero sferrato l'attacco della disperazione contro col della Berretta. La Edelweiss rinforzata (5 reggimenti pari a 15 battaglioni) attaccò la 15a divisione italiana (forte di 9 battaglioni più 3 di riserva), schierata a difesa del col della Berretta, che venne tenuto coi denti, infliggendo agli austriaci gravissime perdite. Il 26, effettivamente, finì la grande battagliai E fino all'11 dicembre ci fu, sul Grappa, una relativa calma. Inoltre, i combattimenti dell'11-18 dicembre appartengono al ciclo della «piccola offensiva», storicamente estranea alla battaglia cominciata a Caporetto il 24 ottobre e terminata dopo 34 giorni sull'orlo del Grappa il 26 novembre. Nell'ultima settimana, quella decisiva, i prigionieri catturati dagli austro-tedeschi furono, per l'intera IV armata, circa 1500; poco meno quelli catturati dagli italiani. Quali le perdite nella battaglia del Grappa? Rispetto a quelle precedenti la battaglia di Caporetto, regna una grande incertezza. La Commissione d'inchiesta indicò in circa 43.000 uomini le perdite subite dall'esercito italiano nel novembre 1917, presumibilmente escludendo quelle relative alla battaglia di Caporetto e alla successiva ritirata fino al Piave. Modeste quelle sul Piave, forti quelle inflitteci dal gruppo Conrad sull'altopiano d'Asiago, più di metà delle perdite di novembre si devono però attribuire alla difesa del Grappa. Se si pensa che i combattimenti furono sostenuti in media da non più di 40 o 50 battaglioni, si deve ammettere che furono gravissime, subite come furono in un paio di settimane. Ma lo scopo era stato raggiunto: inchiodare nuovamente il nemico nelle trincee. Il generale Giardino fu colui che più rimase colpito dalla subitanea ripresa della combattività del nostro esercito. Si arrovellò a pensarci per anni, non riuscì a formulare una risposta e la lasciò in eredità ai posteri. Io qui riporto la sua diagnosi interrogativa, notevole per tacitiana concisione, con talune menomazioni per ragioni di spazio, pur conscio di sacrificare qualche preziosa sfumatura: “Nessuna illusione si faceva il Comando di poter modificare istantaneamente lo stato morale delle truppe, mentre già si accendeva

la battaglia. Era un dato di fatto da accettare, per il momento, quale esso era… Nessun dubbio si presentava per le truppe dello schieramento ad ovest del Brenta... All'infuori della vaga ripercussione morale degli avvenimenti del fronte giulio, nessun fattore di demoralizzazione poteva essere intervenuto. Eguale sicurezza non si poteva avere per le truppe del Piave e del Grappa. Non sarebbe stato ragionevole temere che il loro spirito fosse simile a quello dei corpi e degli sbandati, che si sgombravano nelle retrovie..., travolti direttamente dalla rottura del fronte. Erano truppe di altre grandi unità. Ma erano dello stesso esercito e della stessa nazione: e anch'esse avevano dovuto compiere, a contatto o quasi a contatto di quelle..., sotto la pressione o la minaccia nemica ed assistendo da vicino a quello sfasciamento..., una lunga e difficile ritirata... Da uno schieramento ad arco disteso per circa 300 chilometri, avevano dovuto passare, dopo una ritirata media di 100 chilometri, ad uno schieramento di appena 100 chilometri... Per masse così grandi di uomini e materiali, bastano queste cifre a dare idea delle difficoltà, degli inevitabili disordini parziali, della conseguente scossa morale. Ed ora... nelle condizioni organiche dianzi riportate, e con linee improvvisate, od appena imbastite, o neppure imbastite, queste truppe avevano da sole il compito di resistere all'urto nemico... Se è vero, come sicuramente è vero, che il morale fra tutti gli imponderabili della guerra, è l'imponderabile più delicato, ognuno riconoscerà che, sotto questo aspetto, la situazione dei 9 novembre si presentava straordinariamente incerta per il Comando Supremo. L'indomani, senza respiro, si accendeva la battaglia... Una battaglia ininterrotta di 15 giorni, combattuta nelle condizioni esposte, sostenuta e vinta... Studiare nei suoi complessi elementi, questo meraviglioso fenomeno, o di perfetta immunità collettiva, o di istantanea metamorfosi storica, non è soltanto accertare storicamente un fattore essenziale della battaglia d'arresto. Può anche condurre a giustizia storica e a non disprezzabili ammaestramenti...” Il generale Giardino enumera i fattori, invocati a posteriori, per spiegare tale apparente mutamento. Tuttavia: - non il miglioramento del vitto, ché anzi in nessun periodo come durante la battaglia d'arresto fu difficile e scarso il rifornimento, non

soltanto di viveri, ma financo di indumenti invernali, specialmente per le truppe dislocate sul gelido Grappa; - non i doni di associazioni e privati, che diventò difficilissimo fare arrivare nella battaglia d'arresto, mentre nessuno pensò, naturalmente, di offrirne agli sbandati in via di riordinamento; - non l'arrivo incitatore delle reclute del '99, cominciato solo verso la metà di novembre, quando già la resistenza era in pieno vigore e la resipiscenza manifesta nei campi di ricostituzione; - non lo speciale servizio di propaganda verso le truppe, ché il relativo provvedimento fu preso in data 1° febbraio 1918; - non la polizza di assicurazione gratuita, entrata in vigore il 1° gennaio 1918, con esclusione, dal beneficio, proprio dei combattenti della battaglia d'arresto; - non i sussidi ai combattenti e alle famiglie, istituiti il 4 maggio 1918; - non i turni di riposo, che durante la battaglia d'arresto, specialmente nel primo periodo, furono impossibili per mancanza di riserve, e costituirono anzi la principale ragione del richiesto intervento degli alleati, avvenuto però solo in dicembre, quando il periodo più aspro era superato, sempre con le stesse truppe in linea; - non le ampliate licenze, istituite nel gennaio 1918; - non la presenza degli alleati, ché anzi la loro astensione dal campo di battaglia fino ai primi di dicembre poté semmai essere oggetto di scoramento; - nessuna influenza di governo, o di politica interna o di propaganda. Ma allora quale spiegazione poteva avere il fenomeno, come l'altro non meno sorprendente, della prontissima «resipiscenza» delle truppe in ricostituzione e degli sbandati? Per saperne qualcosa il Comando Supremo inviò nei campi degli sbandati dei questurini, mimetizzati da soldati. Non erano lì per fare inchieste, ma solo per raccogliere informazioni. Ma, essendo quasi tutti meridionali, furono riconosciuti dai soldati veri e fatti oggetto di dileggio. Analogo tentativo, svolto con i carabinieri, diede invece risultati positivi, ma deludenti. Il poco che emerse fu che, sì, forse, alcuni soldati avevano creduto «nell'inganno della pace bianca». Giardino sembra non condividere tale insipida conclusione. Comunque, se non della rivelazione, dell'animo intervenne immediatamente un controllo positivo e il comando

respirò. Per concludere: «La... storia non potrà in alcun modo disconoscere, anzitutto, un dato di fatto documentato: che il soldato italiano, non per virtù di provvedimenti di comando o di governo, né per favorevole rivolgimento di situazione militare (che dovette anzi conquistare col suo sangue), ma da sé e da solo, ben inteso sotto i suoi comandanti diretti di unità e di reparti, riprese la sua coscienza morale e il suo valore, istantaneamente, alla prova immediata di una lunga e sanguinosa battaglia per le truppe in linea, ed al controllo immediato di una rapida e salda ricostituzione per le truppe sbandate dal rovescio». Questo è il vero mistero di Caporetto. La prima battaglia del Grappa fu l'unica battaglia di difesa elastica, svoltasi con compiutezza sul fronte italiano, senza altra coercizione che quella di tenere la linea di ultima difesa, dietro la quale il Grappa precipita in pianura. Fra il parallelo del Tomatico e del Roncone, lungo il quale erano schierate le nostre truppe il 13 novembre, e la linea occupata il 26 a seguito dell'ultimo conato offensivo austro-germanico, correvano circa 10 chilometri, 6 dei quali furono ceduti nei primi 5 giorni e 4 nei successivi 9. La contropressione italiana crebbe col progressivo spostamento in avanti del nemico. E, lungi dall'opporre un contegno passivo (come all'epoca della controffensiva scatenata da Boroevic sul Carso dal 4 al 6 giugno), le truppe italiane reagirono con prontezza mediante contrattacchi fulmineamente organizzati ed eseguiti: ebbero quindi, nell'esecuzione di manovre pur prescritte, la sensazione di disporre di una notevole discrezionalità. La risposta psicologica non poteva non essere positiva in tempi brevissimi: slegati dai ceppi della disciplina «carsica», i reparti minori e i loro comandanti si comportarono come meglio non potevano. Non avevano frequentato la scuola di difesa manovrata, come i tedeschi, ma conoscevano le armi e improvvisarono la tattica a prezzo del loro sangue, perché le perdite cruente di parte italiana, anche sul Grappa, furono probabilmente superiori a quelle avversarie. Ma il tipo di combattimento impedì che si verificassero ecatombi, quali il dimezzamento di intere brigate in uno o due giorni, come era avvenuto nella decima e nell'undicesima battaglia dell'Isonzo. Che si sia trattato di difesa manovrata lo dice esplicitamente il generale Bencivenga, che in quei giorni fu un po' il coordinatore della difesa della parte occidentale del Grappa: «Nei giorni precedenti il

glorioso combattimento di col della Berretta [26 novembre], nei miei continui contatti coi capi e coi gregari, un solo obbiettivo mi proposi: quello di convincere tutti che un eventuale sfondamento dell'avversario non costituiva alcun pericolo, fino a quando i monconi fossero rimasti fermi sul posto, incuranti persino di essere presi alle spalle. Fermi i monconi, dicevo, lo sfondamento si può tradurre in una trappola per l'avversario, quando rincalzo e riserve accorrano prontamente a chiudere la breccia. Questo, e null'altro, fu la difesa di col della Berretta». [Nota. A. Cabiati, La riscossa, Corbaccio, Milano 1934. Le dichiarazioni di Bencivenga, citate da Cabiati, risultavano all'epoca inedite. Fine nota.] Tale «lezione» era la quintessenza della difesa elastica, come concepita da von Lossberg e prescritta da Ludendorff. Bencivenga, che aveva letto e approvato lo studio compiuto dal colonnello Gatti, conosceva le informazioni essenziali, forniteci dagli alleati nel corso del 1917, sulla tattica tedesca, che anch'essi subivano e studiavano. Era quindi la persona più adatta, forse l'unica, capace di spezzare rapidamente ai combattenti il pane della difesa manovrata. Il solo appunto, che gli si può rivolgere, è di far passare per farina del suo sacco ciò che egli certo sapeva essere di provenienza germanica. Altrettanto esplicita è la diagnosi di Krafft von Dellmensingen, non solo perché capo di stato maggiore della XIV armata, ma anche per aver comandato unità combattenti nei più svariati teatri di operazione: «La sistemazione delle posizioni italiane nella zona orientale del Grappa fu esemplare. E fu ottima anche verso il Brenta, dove però si sarebbe potuto anche meglio valorizzare lo sbarramento dell'importante direttrice d'attacco monte Roncone-monte Pertica; ma, tutto sommato, all'attaccante fu colà tesa una brutta trappola, nella quale egli penetrò piuttosto spensieratamente». Gli italiani, naturalmente, non tesero alcuna trappola: furono le circostanze a crearla. Krauss si «immerse» nel Grappa, cioè in un saliente, che gli italiani, protetti sui fianchi dal Brenta e dal Piave, difesero frontalmente «alla tedesca», cioè con continui contrattacchi, e lateralmente con efficaci sbarramenti di artiglieria. Krauss, in realtà, questa «immersione» la voleva evitare, lamentando la mancanza di strade - come se noi fossimo stati tenuti a costruirgliele dalla sua parte -, nonché quella di bombarde e proiettili a gas; e accusò i suoi divisionari (anche dopo la guerra) di non aver osato infilarsi

fulmineamente nelle valli del Piave e del Brenta. Nel 1927 questi gli risposero per le rime, ritorcendogli accusa per accusa, e dimostrando che, per sboccare in pianura, alternative alla conquista del Grappa non esistevano. La tattica italiana sul Grappa, adottata spontaneamente dai comandanti in campo, non certo per premonizione, sfociò in una manovra elastica, come una delle tante premeditate dai tedeschi nel 1917, sia sullo Chemin des Dames contro i francesi che nelle Fiandre contro gli inglesi. Naturalmente l'animo dei combattenti italiani ne fu galvanizzato, come succede quando si vede che una sorte disperata prende improvvisamente una piega più favorevole. Tuttavia, anche se dimostrata dalla profondità della ritirata in difesa, la messa in opera di una manovra elastica da parte italiana potrebbe apparire insufficientemente documentata, se a controprova non esistessero i suoi corollari. Essa e attuabile se il potere centrale allenta la presa sui comandanti minori e questi riacquistano sul campo l'autorità, che a loro spetta. Orbene, su questi punti le testimonianze sono più che esaurienti. La prima consiste nella sparizione, per quanto riguarda il Grappa, delle circolari del Comando Supremo: non un solo suo documento è riprodotto dalla Storia Ufficiale, di fronte alle inondazioni cadorniane. Scrive il generale Cabiati: «Il Comando Supremo fu tratto ad assumere la funzione di comando diretto della fronte orientale, lasciando quello della fronte montana ai singoli comandi d'armata... sui quali esso non poteva esercitare e non esercitò che saltuariamente un'azione diretta di comando». Il concetto è ampliato dal generale Giardino, pur sottocapo di stato maggiore, che su questo punto torna in modo meno involuto, di quanto avesse già fatto: «L'indole di questo studio non permette di mettere in tutta la giusta e doverosa luce i particolari gloriosi di questi 15 giorni di una battaglia che, affidata alle sole truppe in linea, potrebbe ben dirsi la battaglia del soldato italiano e dei suoi comandanti più immediati». Una manifestazione di tale autonomia di comando - mai ufficialmente riconosciuta, ma in quel periodo turbinoso tollerata di mala grazia - è narrata dal ventunenne capitano Luca De Regibus, che si trovò sul Grappa, inquadrato nella brigata Emilia proveniente dal medio Isonzo, nei giorni dell'ultima parossistica offensiva di Krauss. Lui e i suoi, di rincalzo alla prima linea, avevano davanti col dell'Orso, i Solaroli, il Valderoa e lo Spinoncia. Una sera il

nemico sopraffece una nostra posizione sul col dell'Orso e vi piazzò delle mitragliatrici, che falciavano fin verso l'Archeson. Gli artiglieri, come sempre, avevano l'ordine di economizzare le munizioni e di chiedere, prima di sparare un certo numero di colpi, l'autorizzazione del comando di corpo d'armata. Ma il maggiore Scarampi, comandante di un gruppo, prese una delle sue batterie, la fece piazzare molto avanti e allo scoperto: dopo due minuti le mitragliatrici non c'erano più; ma ci fu, più tardi, il telefono e la richiesta di spiegazioni: «Perché ha sparato tanti colpi senza autorizzazione?». «Pago io.» [Nota. Luca De Regibus, Fanti in trincea, La Prora, Milano 1935. Fine nota.] Una risposta che, in regime carsico, avrebbe per lo meno portato all'apertura di un'inchiesta. Ma sul Grappa, senza essere arroganti, gli artiglieri erano protetti dall'incalzare del generale Krauss. Un altro corollario della difesa elastica e del decentramento dell'autorità di comando fu il mutamento di funzione dei corpi d'armata, che vennero configurandosi come «Gruppen» alla tedesca, cioè con responsabilità più logistiche che tattiche. Tipico è ciò che accadde il 22 novembre, giornata cruciale dell'ultimo attacco sul Grappa. Alla richiesta di aiuto della 17a divisione il IX corpo le comunicò, alle 12,20, di disporre liberamente di due battaglioni della brigata Re. Contemporaneamente si appellò al suo vicino, il XVIII corpo d'armata. Alle 13,45 questo gli passò la brigata Cremona e un gruppo di artiglieria campale, e contemporaneamente informò l'armata delle difficoltà in cui il IX si dibatteva. Alle 14 il IX corpo avvisò la 17a divisione di averle messo a disposizione altri tre battaglioni della Re, autorizzandola a utilizzarli come credeva, con l'obbiettivo di tendere alla riconquista del monte Tomba. E aggiunse, probabilmente per alleggerirne la responsabilità, che l'armata aveva concesso al IX corpo l'intera 67a divisione. Avvenuta in meno di due ore, si confronti questa sequenza di eventi con quelli che accompagnarono il non riuscito contrattacco del VII corpo d'armata da Luico a Idersko il 24 ottobre. Su questi tre punti: elasticità della difesa, decentramento dell’unità di comando e trasformazione dei corpi d'armata in unità di mutuo supporto logistico, si basa la mia convinzione che l'eccezionale valore delle truppe italiane del Grappa non fu dovuto a incitamenti patriottici, ma alla sensazione di combattere una guerra diversa. Trovo quindi arrischiato che la Storia Ufficiale, benché pubblicata nel 1968, accenni sia pur dubitativamente - alla teoria che la ritirata da Caporetto

avrebbe «ripulito» l'esercito dai germi del dissolvimento o affermi perentoriamente che le manifestazioni della crisi morale si ebbero là dove avvenne il contatto col nemico e dove l'azione avversaria le provocava violente, mentre mancarono dove questa non ci fu più. Sul Grappa, dopo una lunga e penosa ritirata, ci fu il violento contatto col nemico, eppure la resistenza fu asperrima da parte di truppe «non ripulite». Sul Carso i soldati italiani avevano combattuto con le armi legate da milioni di circolari, sul Grappa gliele slegarono. Ma durò poco.

Capitolo XXIV SUL GRAPPA L'ULTIMO CARSO Non sempre si tien presente che l'esercito e la nazione italiana, in condizioni di continua osmosi nonostante le «precauzioni» prese dal Comando Supremo prima di Caporetto, furono separati con una cesura netta dopo la rottura del fronte. Le truppe in ritirata, sia quelle fustigate della II armata e del corpo carnico che quelle solo pungolate della III e della IV armata, vissero in condizioni di asettica mancanza di notizie dall'interno, dagli ultimi giorni di ottobre alla metà di novembre passata. Quando poi fu investito il Grappa, i soldati che là si batterono non ricevettero posta per settimane e l'arrivo di qualche giornale era un fatto sporadico: neppure si sapeva che era cambiato il governo. Esiste perciò una dicotomia, in quel periodo, fra esercito e paese. La reciproca influenza provvisoriamente si interruppe, e non è possibile parlare di due situazioni morali coerenti, quando furono talvolta in dissonanza. L'esercito sentì, istantaneamente, il beneficio del mutamento delle condizioni di combattimento, tutto ignorando della nazione. Questa invece - non fosse che per i comunicati che, molto tacendo sui particolari, facevano pur capire che dall'Isonzo si era retrocessi al Piave e al Grappa - comprese che era avvenuto qualcosa di eccezionale e di drammatico. E ciò spiega anche la credulità con cui la pubblica opinione si bevve le dicerie sulla mancata resistenza e sulla ignominiosa fuga di «taluni riparti della II armata», molti dei quali finirono con l'immolarsi sul Grappa venti giorni dopo. La reazione del paese fu dunque diversa e più lenta. A nessun italiano faceva piacere vedere la patria invasa dagli austro-tedeschi, neppure ai leninisti occulti o potenziali. Ma gli umori della collettività mediavano, col condimento delle proprie convinzioni ideologiche, quanto avveniva in Italia con quel che accadeva fuori. Il «disfattismo» era ben più spesso un ragionato pessimismo: la Russia fuori gioco, la sopravvalutazione del possibile sfruttamento delle risorse del defunto impero degli zar da parte degli Imperi Centrali, la sottostima del contributo degli Stati Uniti, da cui ci si attendevano dollari ma non si aspettavano uomini, l'atteggiamento del pontefice che, proprio la vigilia di Natale, nella sua allocuzione sulla «pace di Cristo», definiva il conflitto in corso «una truce tragedia», rincarando il giudizio di

condanna già espresso in agosto con «l'inutile strage»; tutto ciò mediava la spinta positiva che veniva dalla reazione all'invasione della patria con quella negativa, che un osservatore obbiettivo non poteva non registrare. Gli Imperi Centrali, prima dilaniati dalla guerra su due o tre fronti, erano finalmente riusciti a portare la guerra su un fronte solo (considerando quello italiano come l'ala destra del fronte occidentale) e devastavano i mari con i sottomarini, l'arma di satana, dio delle tenebre abissali. Nessuno immaginava lo stato di prostrazione, al quale gli Imperi Centrali erano stati ridotti dalla spartana difesa contro il mondo intero coalizzato contro di loro. È perciò che, ridotta la catastrofe militare in grande misura a una crisi tecnologico-tattica, aggravata dalla stanchezza e dallo scoramento accumulati in precedenza, ma pronta a reagire di guizzo al profilarsi della prima occasione favorevole, non le si può contrapporre un'analoga «resurrezione» morale del paese: tanto più che del fatto che la guerra mondiale fosse una truce tragedia e una scommessa contro il nulla erano ormai convinti i più dei dirigenti alleati, esclusi gli Stati Uniti. Il morale del paese fu perciò molto sensibile alle vicende politiche generali e, pur dando il posto dovuto a manifestazioni individuali e collettive di patriottismo, si deve anche ammettere che gli animi della nazione ondeggiarono e furono rimorchiati dalla prima valorosa resistenza delle truppe. Fu cioè il morale dell'esercito a pilotare quello del paese e non viceversa: un argomento, che andrebbe trattato ben più a fondo, qui solo delineato nei suoi contorni di ricerca storica. Il comando della XIV armata austro-germanica si rese ben conto, fin dagli ultimi giorni di ottobre, che in Friuli v'era un eccesso di truppe, che sarebbe stato bello, con un colpo di bacchetta magica, trasportare presso il gruppo Conrad, affinché questo attaccasse la I armata italiana, eseguendo così - se pure in tempi differiti - quella manovra che sempre era stata l'incubo di Cadorna: un doppio attacco dall'Isonzo e dall'altopiano di Asiago, la realizzazione in formato ridotto del piano Schlieffen. Sfortunatamente le difficoltà dei trasporti, che si svolgevano per linee esterne, lungo un arco ostacolato da continue barriere montane e mal servito da poche ferrovie, rendevano lenti e penosi i trasferimenti di truppe e materiali. D'altra parte, per potenziare l'offensiva sull'alto Isonzo, il gruppo Conrad era stato spremuto fino all'osso e, senza integrazioni, non poteva muoversi.

Fin dal 26 ottobre Conrad, ad attaccare sull'altopiano d'Asiago, ci aveva pensato da solo e cominciò a pianificare, non appena il comando del fronte sud-occidentale gli mise a disposizione due divisioni del gruppo Boroevic, per attaccare il 10 novembre. Ma nel frattempo era iniziato il volontario arretramento dell'ala destra della nostra I armata, proprio per saldarsi sul Brenta alle difese del Grappa. Le colonne nemiche avanzanti si scontrarono perciò con reparti nostri già in via di ripiegamento, cosicché l'offensiva di Conrad cadde in parte nel vuoto e prese consistenza solo quando gli italiani decisero di fermarsi. E si fermarono ai piedi del gruppo delle Melette. Combattimenti accaniti si accesero dalla sera del 13 fino al 17, per essere ripresi il 22 e interrotti il 24, su ordine dell'imperatore Carlo d'Asburgo, impressionato dalle gravi perdite subite. In quei pochi giorni, infatti, le truppe di Conrad avevano perduto 600 ufficiali e 15.500 uomini, catturando circa 15.000 prigionieri italiani e infliggendo la perdita di parecchie migliaia di morti e feriti. Ma sbando non ci fu. Lungo il Piave una parte della XIV armata e il gruppo Boroevic effettuarono numerosi tentativi, regolarmente frustrati, di passare il fiume. Ci riuscirono solo nell'ansa di Zenson, dove gli austriaci tennero una piccola testa di ponte, che dovettero evacuare alla fine dell'anno. Dai nostri venne però abbandonato il terreno compreso tra le foci del Piave e quelle del Sile, zona di nessun valore strategico, poiché alle sue spalle cominciava l'intransitabile laguna di Venezia. Nel quadro delle operazioni destinate a migliorare la situazione tattica, in vista di una più facile difensiva o per procurarsi una piattaforma di lancio per una prossima offensiva, gli austro-germanici attaccarono nuovamente sul Grappa dall'11 al 18 dicembre: conquistarono col della Berretta, la vetta dello Spinoncia, alcune cime dei Solaroli e il monte Asolone. L'ala occidentale dello schieramento del Grappa si tese così fino all'orlo del massiccio. Sul lato orientale, però, truppe francesi, entrate in linea sul Tomba, l'ultimo dell'anno sferrarono un violento attacco, impadronendosi del monte e costringendo gli austriaci a ripiegare sulle alture a nord di Alano. Più grave - una seconda piccola Caporetto - fu la battaglia che si svolse sugli Altipiani in dicembre. Il gruppo delle Melette, rimasto in mano italiana, avrebbe potuto assolvere a due compiti: o come linea avanzata, da cedere al profilarsi di un attacco nemico, operando una difesa manovrata, che tanto bene aveva funzionato sul Grappa; oppure

tenerla come piazza d'armi per un'offensiva, cosa allora impensabile. Venne invece considerata zona di assetto definitivo e subì la sorte del saliente del monte Nero. «Divenuta fine a se stessa, la difesa delle Melette non poteva ridursi - di fronte a un attacco in forze - che a un'ecatombe di uomini e ad un cospicuo bottino per il nemico, senza vantaggio da parte nostra.» Al mattino del 4 dicembre, con la consueta tattica dell'infiltrazione, Conrad attaccò le nostre 2a e 29a divisione. Si interruppero le comunicazioni, il nemico divaricò sui fianchi dalle brecce aperte, i rincalzi italiani, troppo lontani, arrivarono in ritardo e in due giorni le nostre perdite assommarono all'enorme cifra di 700 ufficiali, 18.000 uomini di truppa (dei quali 11.000 prigionieri, moltissimi feriti) e 85 cannoni. Il giorno 6, finalmente, il comando del XXII corpo d'armata ordinò il ripiegamento su una linea più consona alla difesa, dopo aver perduto, col Sisemol, altri 100 ufficiali e 3000 soldati. Ma in Italia si parlò nuovamente di ondata «caporettista»: anche alle Melette questi soldati, persino i vantati giovinetti del '99, di cui si era tessuto il panegirico, apparivano malati di disfattismo. In realtà il nuovo Comando Supremo capiva le cose poco meglio del vecchio, e si dimostrava che la difesa elastica del Grappa era stata assicurata dall'istinto e dal caso. A mano a mano che l'esercito si ricostituiva, tornavano in auge i vecchi sistemi e i vecchi errori. Sugli Altipiani tornò una relativa calma, perché anche le perdite austriache erano state gravissime. Ma un ultimo sussulto si ebbe sotto Natale, fra il 23 e il 26 dicembre. La nostra linea era ripiegata su cima Echar e monte Valbella, commettendo il collaudato errore di tenere troppe truppe nelle primissime linee, a detrimento dei rincalzi, destinati a contrattaccare il nemico che le avesse rotte. Tre divisioni austriache, appoggiate dal fuoco di 550 cannoni, ne attaccarono due nostre, che disponevano di 200 bocche da fuoco. Gli austriaci conquistarono monte Valbella e ci inflissero, in quei tre giorni, la perdita di 3200 morti e feriti e 8000 dispersi, in gran parte prigionieri feriti. E si dimostrò per la seconda volta che la lezione del Grappa, nonché capita, non era stata neppure studiata. Sbandierando il valore italiano sul Grappa, si evitava di pensare. Buon per noi che gli ultimi tedeschi se ne andarono e le 11 divisioni alleate erano ormai in linea, cosicché, alla fine dell'anno, l'esercito sul fronte italiano contava 49 divisioni. La disponibilità di altre 6 divisioni italiane, che avevano

completato la riorganizzazione, era questione di giorni, mentre altre 6 non avrebbero richiesto più di un paio di mesi. Col ritorno alla normalità, tornarono in vigore i vecchi metodi, salvo le migliorie di carattere sociale, ricordate nel capitolo precedente. L'impiego dell'artiglieria sul Grappa non aveva affatto allietato il Comando Supremo. Il 27 novembre esso si era svegliato dal letargo, con una strana circolare (n. 5990 di prot. G.M.), nella quale deplorava l'impiego dell'artiglieria da montagna come artiglieria da trincea. «Per l'illusorio vantaggio momentaneo di disturbo arrecato a qualche singolo tratto della fronte nemica, si rinuncia alla vera azione di sbarramento spettante alle artiglierie da montagna come a quelle da campagna.» Tale circolare è citata dalla Storia Ufficiale, quasi suggerendo che essa fosse stata ricavata a posteriori dall'esperienza vissuta dalla nostra artiglieria a Caporetto. Ma a Caporetto non si era affatto verificato il caso di «artiglierie da campagna... coinvolte nel corpo a corpo delle fanterie». L'osservazione sembra calzare a pennello, per smorzare iniziative come quella del maggiore Scarampo sotto col dell'Orso: mirava cioè a comprimere l'iniziativa autonoma dell'artiglieria, così come era stata usata sul Grappa. Passò l'inverno, venne la primavera, si arrivò al 15 giugno e alla grande battaglia del Piave. Indubbiamente essa fu un'indiscussa vittoria difensiva dell'esercito italiano. La nostra memorialistica ha il solo torto di esagerare le forze e le perdite nemiche, perché, anche ridimensionando le cifre, la conclusione non cambia. Contrariamente all'incredibile sovrastima di Caviglia, [Nota. Enrico Caviglia, Le tre battaglie del Piave, Mondadori, Milano 1935. Fine nota.] che agli austro-ungarici attribuisce una superiorità del 50 per cento in uomini e mezzi, le forze in campo si equivalevano. Da parte italiana 56 divisioni (di cui 6 alleate), con 725 battaglioni, si opponevano all'equivalente di 678 battaglioni nemici, numericamente un po' più forti. E ai nostri 7500 pezzi di artiglieria, di cui 500 antiaerei, gli austro-ungarici ne opponevano 6800, di cui 360 contraerei. Dall'Astico al mare la battaglia divampò violentissima tra il 15 e il 25 giugno 1918. Bloccata fin dal primo giorno sugli Altipiani e sul Grappa, la spinta austriaca fu contenuta anche sul Piave, dove il nemico era riuscito a costituire due teste di ponte, da cui si ritirò il 23. Terrificante il bilancio delle perdite: da parte italiana 87.000 uomini (di cui 43.000

prigionieri); da parte austro-ungarica 117.000 (di cui 24.000 prigionieri); fra le due parti una media di 20.000 uomini al giorno, di cui 6000, sì, prigionieri, ma moltissimi feriti. Fu una battaglia di generali, con la cooperazione dei soldati. Dopo sei mesi di cura ricostituente, l'esercito italiano si dimostrò capace di resistere a questa estrema prova. Ma Diaz si guardò bene dall'incalzare il nemico oltre il Piave, temendo - giustamente - che una controffensiva finisse male. Per attaccare voleva divisioni americane e ai primi di settembre, incontratosi a Parigi col generale Pershing, comandante del corpo di spedizione americano in Europa, chiese l'apporto di 20 divisioni statunitensi. Pershing lo lasciò parlare a ruota libera, e quando Diaz - pensando che chi tace acconsente - portò la richiesta a 25 divisioni, gli rispose che, a parte il reggimento già mandato in rappresentanza ai primi di luglio, non un soldato americano sarebbe venuto sul fronte italiano. Evidentemente nessuno aveva ricordato a Diaz la figuraccia che Porro aveva fatto a Rapallo il 6 novembre 1917. Pershing ribatté invece a Diaz che gli pareva che gli italiani potevano attaccare senza ulteriori aiuti, ma Diaz lamentò la mancanza di complementi, che voleva riservare per l'anno seguente. Così l'esercito italiano restò nell'inazione. Il 28 settembre il sottocapo di stato maggiore Badoglio diramò ai comandanti d'armata una relazione, [Nota. Alberto Lumbroso, Da Adua alla Bainsizza e a Vittorio Veneto, Rivista di Roma, Genova 1932. Fine nota.] in cui li informava sulla necessità di cominciare l'addestramento delle truppe alla guerra di movimento, ritenendo che «nella prossima primavera saremo pronti per lo sforzo finale, che già si intravede». La sordità del Comando Supremo di fronte al precipitare degli avvenimenti, che si leggevano sui giornali, costrinse il governo a premere perché l'Italia lanciasse un'offensiva qualsiasi, anche di parata, pur di non farci cogliere dalla fine della guerra con le armi al piede e il Veneto in mano nemica, perché il conto ci sarebbe stato presentato alla conferenza della pace. Così si arrivò a quella che sarebbe stata chiamata la battaglia di Vittorio Veneto. E si arrivò anche all'ultimo Carso, combattuto sul Grappa. L'Italia per opera della sua nomenklatura, stava rientrando nello stile caporetto: nel regime Cadorna, ogni 800 caduti in battaglia, vi era stato un fucilato; nel regime Diaz i fucilati furono il doppio.

Dalla fine di aprile del 1918, la IV armata, l'armata del Grappa, ebbe a comandante il generale Giardino. Passato l'uragano di giugno, in cui la IV armata ebbe 15.000 perdite, passati i mesi di inerzia, il Comando Supremo cominciò a pianificare l'offensiva «qualsiasi», sotto l'incalzare di Orlando e Sonnino. Fino al 18 ottobre esso non prevedeva di impegnarvi la IV armata. Dalla circolare sulla preparazione alla guerra di movimento per la primavera successiva, dal rifiuto di fare entrare in linea la classe 1900, mentre l'anno prima nello stesso periodo vi era stato immesso il 1899, dal fatto che nessuno gli aveva detto niente (a lui, comandante d'armata), Giardino si era convinto con un certo rammarico che a un'offensiva decisiva il Comando Supremo avesse rinunciato. E invece alle 10 del mattino del 19 ottobre, egli ricevette l'ordine di attaccare a oltranza a partire dal 24 ottobre: preparazione, mutamento dello schieramento delle artiglierie, arrivo di nuove batterie, aggiustamento dei tiri: tutto doveva essere compresso in cinque giorni. L'armata contava 9 divisioni - circa 250.000 effettivi (allora devastati dalla febbre spagnola), ma - come al solito - le fanterie (con bersaglieri e alpini) non arrivavano a 75.000. Alla IV armata venne affidato il compito immane di separare la massa austriaca del Trentino da quella del Piave. Giardino non capì perché mai si preparasse contemporaneamente un'altra azione di rottura - la più importante sul medio Piave, in cui erano coinvolte le armate VIII, X e XII, con 22 divisioni: forse si temeva uno scacco, col Piave ingrossato da piogge diluviali, e si sperava di sfondare almeno sul Grappa, pur senza adeguata preparazione. Scatenata l'offensiva la mattina del 24, la sera Giardino doveva confessare a se stesso che l'attacco era fallito. Ripetuta con risultati altrettanto deludenti il 25 e il 26, l'offensiva sostava il 27, per riorganizzare l'armata, mentre con violenti contrattacchi gli austriaci ripresero parte del pochissimo terreno perduto. Esiguo anche il numero dei prigionieri: in tutto 3200. Per il 28 il Comando Supremo prescrisse la prosecuzione degli attacchi a tempo indeterminato, finché l'attacco sul Piave non usciva dalle difficoltà. Se l'Austria-Ungheria era ridotta a una scorza, dentro la quale tutto marciva, la scorza era durissima. La resistenza del suo esercito sul Grappa continuava infatti inflessibile. La IV armata aveva combattuto e combatteva una battaglia carsica, annotava Giardino: «Certo li tratteniamo a noi e li logoriamo; ma

anche noi; tanto più, non avendo altre risorse sulle quali contare. Questo era il punto! Le battaglie carsiche venivano alimentate; questa non poteva esserlo». Enormi le perdite: un terzo degli effettivi delle fanterie, 824 ufficiali e 23.600 soldati, dei quali 5200 morti, 18.500 feriti e poco più di 600 dispersi. Alcuni reparti, come i 4 battaglioni del VII raggruppamento alpini, ebbero in 4 giorni più di 3000 uomini fuori combattimento, una proporzione che sul Carso non era mai stata raggiunta. Poi l'esercito austro-ungarico abbandonò le posizioni, si dissolse, cercò di sparire: fu inseguito, perseguito, accerchiato. La crisi interna dell'impero si era ripercossa sul fronte come la folgore. Ma l'esercito aveva resistito fino all'ultimo. La battaglia di Vittorio Veneto non fu un capolavoro tattico o strategico. Che le 9 divisioni della IV armata siano state chiamate a pagar col sangue due terzi delle perdite totali di quella battaglia è incomprensibile. La missione era sproporzionata alla sua forza. Se si dovevano attirare le riserve nemiche, lo si poteva ottenere con un atteggiamento più dimostrativo, con un'aggressione in potenza, non con un'aggressione in atto, per di più anticipata. Le 22 divisioni, che attaccarono sul medio Piave, subirono, nella vittoriosa offensiva, la perdita di 12.000 uomini. Le armate non impegnate (I, III, VI, VII) ne persero negli stessi giorni 2000. Perché rinnovare il Carso sul Grappa? Non aveva appreso dunque nulla il Comando Supremo. Certo, la vittoria italiana tagliò i garretti alla Germania: poteva resistere una settimana o un mese di più. Si vide perduta e si arrese. Non è questa la sede per narrare gli eventi di quel mese denso di storia: novembre 1918. Il capitolo termina con la domanda: cosa effettivamente apprese la corporazione militare italiana, cosa apprese il governo, cosa apprese il popolo italiano dalla sconfitta di Caporetto e dalla disperata resistenza sul Grappa? Meditando su quanto accadde a me stesso più di una generazione dopo, sono giunto alla conclusione che anch'io sperimentai, sia pure in modo banale, l'interessante conclusione che il popolo italiano e la sua classe dirigente, fino allora almeno, non avevano appreso la lezione.

Capitolo XXV VENTICINQUE ANNI DOPO Il pomeriggio del 31 luglio 1942, [Nota. Volle il destino che il luglio 1942 si collocasse a mezzo del secondo conflitto mondiale in Europa. Fino ad allora il Reich hitleriano aveva perso 1.700.000 uomini. Nella successiva metà del conflitto ne perse 8.000.000. Vedi M. Silvestri, La decadenza dell'Europa occidentale, cit., vol. 4°. Fine nota.] a Chiusa d'Isarco, salii su una vettura di terza classe. Il treno partì immediatamente. Barcollando per gli scossoni, entrai in uno scompartimento semivuoto. Sentii due scatti all'unisono: ne rimasi quasi intimorito, perché il sole abbagliante mi accecava la vista. Poi guardai meglio: erano due soldati tedeschi, anzi due graduati, un caporale e un caporalmaggiore. Più che constatarlo, lo dedussi: se mi avevano salutato, era perché avevo i galloni di sergente, dunque mi erano inferiori. I gradi tedeschi non li conoscevo, ma di striscioline sulla manica l'uno ne aveva una sola, l'altro due. Le loro divise erano diverse: uno aveva il berretto e un aquilotto azzurro cucito sulla giacca; l'altro soppesava fra le mani un elmetto senza bordi. Ci mettemmo a parlare: loro in pessimo italiano, io in un tedesco ancora peggiore. L'aviatore mi disse che veniva dalla scuola degli Jagdflieger di Vienna. Si spalancò in un sorriso radioso: «Vado in Libia, a combattere mit italienischen Kamaraden!». Aveva vent'anni e il suo sguardo di gioia ardente mi colpì. Io, che di anni ne avevo ventitré, mi sentii centenario, benché dovessi solo raggiungere la Scuola allievi ufficiali del genio a Pavia. L'altro era meno loquace. Tozzo e tarchiato, mi era più anziano di un anno. Capii finalmente, dallo strano elmetto, che era un paracadutista. Aveva partecipato allo sbarco aereo a Creta l'anno prima e ci aveva rimesso un quadratino di calotta cranica, che gli avevano sostituito con una ben sagomata placca d'argento. Veniva da Petsamo. Petsamo! Nella Finlandia del nord, sul mare artico. Che ci faceva un paracadutista da quelle parti? Avevano pensato di impiegarli per uno sbarco aereo su Murmansk, poi avevano cambiato idea. Anche lui andava in Africa, anzi in Afrika. Non aveva sorrisi radiosi: il suo sguardo era duro. Continuammo la conversazione. La guerra. Diventava lunga. E gli Stati Uniti? Fece un gesto con la mano, come per scacciare una mosca: l'Amerika, pfui! Intanto la Russia stava morendo,

anzi era già gestorben, kaputt! «E allora, fra qualche mese, l'Inghilterra diventerà piccola così!» Portando la mano all'altezza dell'occhio, avvicinò il pollice all'indice, come a schiacciare un insetto, finché le due dita quasi si toccarono. Mi sentii rabbrividire nella schiena, perché fra quelle dita mi pareva di esserci io. L'altro continuava con la sua aria ingenua. Condivideva le idee dell'amico con più allegria e meno torva determinazione. Mentre passavano i secondi, mi sentivo invecchiare di anni. Li invidiai, quasi, per la loro sicurezza, io che non ne avevo alcuna, e pensavo con terrore a una vittoria della Germania hitleriana: Rommel alle porte di Alessandria, Stalingrado accerchiata col Volga alle spalle, un nugolo di sottomarini che spedivano in fondo al mare centinaia di navi ogni mese. E i giapponesi? Avrebbero attaccato la Russia in Estremo Oriente o si preparavano a invadere l'India e a sbarcare in Australia? In questa cinematografica visione mentale, entrambi suscitavano in me un sentimento composito: pietà, ammirazione, orrore. Ma entrambi pareva sapessero il fatto loro. Io, che in dodici mesi di servizio militare non avevo appreso quasi nulla, avrei ora verificato alla Scuola allievi ufficiali, se mi avrebbero insegnato il mestiere che quei due sembravano possedere, pur essendo agli antipodi delle loro convinzioni. Il treno stava arrivando a Verona. Mi alzai, subii per la seconda volta il batter di tacchi, che non più mi aspettavo e che mi fece nuovamente sussultare: «Aufwiedersehen, Kamaraden!» «Heil Hitler! Aufwiedersehen.» Preso il treno per Milano, continuai pensieroso a rimuginare su quell'incontro: cosa traspirava da quei soldati? Grinta e truculenza. Mi ripugnava la truculenza, ma invidiavo la grinta. Il giorno dopo varcai la soglia della Scuola allievi ufficiali. Mi assegnarono alla specialità «marconisti», come erano denominati gli addetti alle telecomunicazioni senza filo: radiotelegrafia, radiofonia, telescrivente. La sveglia era alle quattro, alle cinque pronti in aula per lo «studio libero», alle sette e mezzo cominciavano le istruzioni, che terminavano alle sei di sera, con un intervallo di mezz'ora per il pasto e due ore di sonno, dalle tredici alle quindici. Dalle sei alle sette ci si riassettava e si cenava, e fino alle nove libera uscita. Alle nove, anzi, bisognava essere a letto. Solo il sabato la libera uscita durava tre ore è ci consentiva di andare in una delle due case di tolleranza esistenti a Pavia. Fuori dal portone la fila era così lunga, che si snodava nelle strade per qualche centinaio di metri. Varcata la soglia del piacere, si

disponeva di trenta secondi, dalla spogliazione alla rivestizione. Tutto si svolgeva con l'indispensabile celerità: non ci si toglieva nemmeno la baionetta né il cinturone. In tre colpi, il piacere era concluso. Sotto un altro! erano donne di ferro. Cominciarono le lezioni: armi e tiro, addestramento al combattimento, regolamento, elettrotecnica, radiotecnica, telefonia, apprendimento dell'alfabeto morse, apparati radiotrasmittenti campali. I volumi che ci propinarono erano molti e grossi. Su 700 allievi, oltre la metà, studenti di legge e di lettere, le trovavano totalmente incomprensibili. Tanto più che le lezioni erano tenute a livello pressoché universitario: l'induzione elettromagnetica, la trasmissione delle onde herziane, la teoria delle antenne, il campo magnetico rotante, le dinamo, gli alternatori, i motori asincroni, l'elettrochimica e così via. Nessuno degli istruttori aveva partecipato a campagne di guerra né mai aveva visto un combattimento. L'addestramento al combattimento veniva insegnato con l'ausilio di poderosi testi: cosa era la «pattuglia esplorante corazzata», come si doveva dispiegare una formazione di carri armati. Di molti di questi si pretendeva ne sapessimo a memoria le caratteristiche: a cominciare dal ridicolo L 33/35, poi l'L6 da 6 tonnellate, l'M-14 col cannone da 47, e ci vennero sommariamente descritti persino i T-34 sovietici da 30 tonnellate. Ogni tanto ci venivano assegnati compiti scritti, sorvegliati da occhiuti ufficiali che impedivano si copiasse. Per esempio: «Descrivere la trasmissione epicicloidale dall'asse motore ai cingoli dei carri armati». Bisognava riassumere quasi a memoria il paragrafo di un certo libro. Ero entrato nella Scuola allievi ufficiali, sperando di imparare qualcosa che non sapevo. E naturalmente rimasi male, vedendo che l'addestramento al combattimento si faceva con carta e penna, non solo, ma evitando qualsiasi riferimento a quanto avveniva sui fronti, che allora erano tre: l'Africa settentrionale, la Russia e la Balcania. Ma le difficoltà dei trasporti erano tali, che non ricordo di nessun reduce arrivato a raccontarci cosa succedesse effettivamente in guerra. Intanto, erano cominciati gli allenamenti. Il sabato si facevano marce, cosiddette veloci: la prima volta, 24 chilometri in 4 ore con affardellamento leggero (moschetto, borsa tattica, maschera antigas, totale 14 chili), che poi salirono via via a 32 chilometri, sempre nello stesso tempo. Constatai che era una buona ginnastica. Ma ci si

allenava più come atleti, che come soldati. Al rientro da tali marce, un'ora di ginnastica su pertiche, funi, parallele, salto a pesce e, per terminare, il canto di inni, che bisognava compiere perfettamente immobili. Di chi ondeggiava o sveniva, l'aiutante maggiore segnava nome e cognome in un suo notes, e la cosa finiva nelle note caratteristiche, che dovevano servire a giudicare, insieme al resto, se uno sarebbe stato un buon ufficiale. Anche le punizioni erano segnate, comprese le punizioni per decimazione. L'occasione più frequente per essere «decimati» era offerta dalla Messa domenicale. C'era l'ordine assoluto di non tossire, neppure di schiarirsi la voce, durante il suo svolgimento. Ma, su 700, qualcuno lo faceva, sembrava anzi che quella proibizione eccitasse la tosse, anche in chi non ce l'aveva. Se non si individuava il colpevole, si raccoglieva un gruppo di indiziati, fra i quali il comandante di plotone estraeva a sorte chi doveva subire la punizione. Una volta i 5 giorni di consegna toccarono a me: «Scelto a caso fra un gruppo di allievi, che tossivano durante la Santa Messa». I più maledivano la Messa, che impediva loro di andare al casino. Io, tra me e me, non sapevo se ridere o piangere: la caricatura del terrore, non c'è il terrore, resta la buffonata. I guai cominciarono con gli esercizi di trasmissione. Vennero fuori gli apparati: RF2 modello 1928, che mi sorprese sgradevolmente, per la grossezza delle sue valvole termoioniche: sembravano bulbi per un grosso lampadario. Ogni apparato era suddiviso fra sei cassette, trasportate a spalla da una sezione di genieri, ciascuna del peso di 32 chili. Data la forma parallelepipeda e gli spigoli metallici, data l'aggiunta dell'affardellamento leggero e del moschetto, si camminava piegati in due, sempre per 32 chilometri, percorsi però non in 4 ma in 8 ore. Delle sei cassette, ben quattro contenevano pile per l'alimentazione del trasmettitore: il quale aveva tuttavia una portata limitatissima, non superiore a 20 chilometri in telegrafia e a 10 in fonia. Non me ne intendevo, ma mi pareva un materiale antiquatissimo, in sintonia con le artiglierie ippotrainate, di cui abbondava la nostra artiglieria, nonostante le pattuglie esploranti corazzate, descritte sui libri con le sagomette di molte autoblinde, di cui non vedemmo un esemplare. Un carro armato, un M-11, lo vedemmo una sola volta, allorché, rovesciatosi in un fosso un nostro camion, uno di essi da una vicina scuola carristi venne a disincagliarlo. Ci sembrò enorme e potente.

A molti la telegrafia morse non andava giù, non avevano Orecchio. La telegrafia può sembrare oggi un mezzo antiquato, ma la possibilità di ricevere quei punti e quelle linee, in mezzo a scariche elettriche e fragore di battaglia, è molto migliore della ricezione in fonia, con la quale si prendevano abbagli colossali. Anche quando ci distribuirono gli apparati RF3C [Nota. L'RF3C era dato come modello 1935, ma la distribuzione ai reparti cominciò più tardi. Aveva un'antenna direzionale a forma di cerchio del diametro di circa 1 m. Fine nota.], più moderni e con maggiore portata, collegabili con modernissime telescriventi Siemens, la cosa risultò confermata. Le telescriventi erano belle e, via filo, funzionavano bene: ma via radio, al di là di 2 o 3 chilometri, le lettere sbiadivano per la scarsa potenza del trasmettitore e sulla strisciolina di carta comparivano macchie indecifrabili. C'era poi il fatto curioso che ai soldati del genio era richiesta la capacità di trasmettere e ricevere 80 segnali morse al minuto, mentre agli allievi ufficiali se ne richiedevano solo 60. La spiegazione era che, tanto, gli ufficiali non dovevano trasmettere, ma solo comandare. Io mi domandavo che figura avremmo fatto di fronte ai soldati. E non parlavo per me, perché riuscivo a trasmettere e ricevere a più di 100, ma per la maggioranza che a stento arrivava a 60. Poi arrivarono due disposizioni, che mi lasciarono di stucco. Con la prima la capacità di trasmissione e ricezione sufficiente per passare gli esami fu abbassata a 30 al minuto. Così tutti divenivano abili. Intanto dal fronte russo venivano pressanti richieste di personale, che sapesse trasmettere e ricevere a 150, perché questa era la velocità delle stazioni campali sovietiche, che si dovevano intercettare, un limite superato solo da taluni abilissimi sottufficiali nostri istruttori. La seconda disposizione riguardò una marcia di 180 chilometri, da compiersi in tre giorni consecutivi, marciando ogni giorno per 18 ore (comprese le soste e i tre ranci), seguite da 6 ore di sonno. Tra il percorrere 40 e 60 chilometri al giorno, affardellati, la differenza è immensa. Dopo 40 si è stanchissimi, se ci si getta a terra ci si addormenta di colpo, ma esistono capacità reattive, che il pericolo può ripristinare a livello quasi normale. Dopo 60 chilometri si diventa automi con le gambe di legno e sono quasi spente le facoltà intellettuali: credere che, in quelle condizioni, uno possa combattere, è pura follia. Ci domandavamo la ragione di questa assurda esercitazione. Nessuno ce la diede, ma si vociferò che, poiché le truppe

appiedate italiane non erano riuscite a tenere il passo con i reparti motorizzati tedeschi mentre inseguivano gli inglesi altrettanto motorizzati nella loro fuga verso el-'Alamein, il Comando Supremo italiano aveva escogitato di provare l'inseguimento «lungo» a piedi. Tuttavia, nonostante l'abbrutimento da cui ci eravamo sentiti pervadere, ci rendevamo ben conto che avevamo marciato ai primi di novembre in provincia di Pavia, mentre una simile marcia in Marmarica, sotto il sole del deserto, era inconcepibile. Passammo all'uso delle armi, anch'esse descritte con dovizia di particolari, che dovevamo sapere a memoria, in un volume di 500 pagine. Ma di tiri ne eseguimmo pochini, per risparmiare munizioni, dicevano. Un solo caricatore col moschetto, nel poligono di tiro. Poi, ciascuno, una bomba a mano. Il fucile mitragliatore, un gioiello di complicata meccanica, che non si capiva come non si inceppasse subito, tanto era ricco di pezzetti che dovevano essere accuratamente oliati, imparammo a montarlo e smontarlo celermente, senza mai eseguire un tiro. Ci fecero invece sparare con la mitragliatrice Breda calibro 8, che sembrava ed era un'ottima arma. Con le sagome a mille metri, dove un uomo appariva piccolissimo, ognuno di noi doveva consumare mezzo caricatore. Non appena schiacciato il doppio bottone, partiva la raffica e stop! L'arma sussultava, ma l'esercizio finiva, prima che uno si rendesse conto di quel che era successo, tanto più che il fragore era assordante, non come si sente alla televisione. Poiché la celerità di tiro era di 600 colpi al minuto e il caricatore conteneva 20 colpi, il tempo di addestramento al tiro si riduceva a un secondo, il che era decisamente poco. Il cannone anticarro da 47/32 ce lo fecero vedere a distanza. Si fecero anche quattro o cinque mezze ore di «scherma di baionetta», ripetendo movimenti da ridicoli samurai: nessuno si augurava di doverla sperimentare con un soldato nemico. Poi venne il momento della grande manovra di fine corso: il passaggio di un fiume su un ponte di barche, lanciato dai pontieri, e reparti che si scavalcavano a vicenda, fotoelettricisti, telefonisti, artieri, sempre accompagnati dalle sezioni radio. Io fui addetto alle intercettazioni: si viveva sotto la tenda ventiquattrore su ventiquattro, attaccati all'apparato o a dormire o a mangiare o a giocare interminabili partite a scacchi. Finì tutto in una grande confusione, ma ci dissero che avevamo vinto.

Alla fine di dicembre facemmo gli esami, in cui tutti - meno 5 fummo promossi. E i primi 10 in classifica, tra cui c'ero anch'io, avevano ancora l'assurdo privilegio, in piena guerra, di scegliere la destinazione. Scelsi ovviamente la più comoda: il 3° reggimento genio a Pavia, perché non ne esisteva uno a Milano. Da quei cinque mesi di Scuola allievi ufficiali ricavai che non ci avevano addestrato a combattere nel modo più assoluto. Non avevamo la più pallida idea di come combattesse la fanteria, dove si diceva che fossero mandati i più stupidi. Eppure il genio era un'arma combattente, i genieri erano soldati. Tentavo di immaginare cosa sarebbe successo in un'ipotetica battaglia, tra il fragore delle esplosioni, drappelli motorizzati nemici contro le nostre linee. E le sezioni del genio non potevano dire: non vale, noi non c'entriamo, siamo capaci solo di trasmettere e ricevere col ticchettio a 30 segnali morse al minuto, che non facevano male a nessuno. Perché poi si sfornassero tanti ufficiali del genio (e di altre armi), con manica larga, mi sfuggiva. Quando raggiunsi la prima destinazione da ufficiale, scoprii che in compagnia, oltre a un capitano e due tenenti, eravamo in 12 sottotenenti, cosicché prestavamo servizio a turno una volta la settimana, oziando per gli altri sei, giocando a poker e scambiandoci gli stipendi. I soldati, richiamati del 1902 o del 1903, erano lietissimi di non far niente. Nel frattempo la guerra aveva cancellato il fronte russo e 100.000 soldati italiani, stava sparendo il fronte tunisino e, come destinazione di guerra, restava solo la Balcania, da cui nessuno tornava, perché le comunicazioni erano divenute tanto precarie, che la concessione di licenze era impossibile. Qualcuno del mio corso morì, come il più caro amico che mi ero fatto alla Scuola: si chiamava Pignoloni, studente di ingegneria, e lo motteggiavamo bonariamente per il suo cognome. Finì nel modo più tragico e banale: annegato, perché il trasporto in cui era imbarcato, diretto in Sardegna carico di soldati, venne silurato. E me lo vedo ancora dibattersi tra i flutti, con la pesante divisa di panno grigioverde, che si inzuppava d'acqua e lo trascinava verso il fondo, mentre le mani annaspavano sopra le onde. Sarà andata così? O fu ucciso dallo scoppio, o rimase intrappolato a bordo? So che nella mente me lo immaginai come l'ho descritto: un ragazzo solo, di notte, in mezzo al mare freddo di marzo, gli occhi bruciati dal salso, spalancati di fronte alla sua ultima ora.

Dall'esperienza vissuta trassi una sola conclusione: a combattere non ci avevano affatto preparati. Non avevo la grinta dei due soldati tedeschi, incontrati in treno. Potevo solo morire. Ma poiché morire non volevo, decisi per conto mio che, se le cose si mettevano al brutto, sarei scappato con la coscienza tranquilla. Non lo sapevano loro, non lo sapevo io: ma avevano fatto di me il perfetto caporettista.

Capitolo XXVI L'ITALIA CAPORETTA L'idea di Caporetto come rivelatore di storiche responsabilità collettive - è stato osservato - sorse spontanea subito dopo la disfatta e continuò a essere alimentata anche negli anni successivi. Da questo spunto furono attratti uomini di tendenze diversissime: Croce, Gentile, Cadorna, Albertini, Gramsci e altri ancora. «Neppure oggi, del resto, potremmo accontentarci di definire Caporetto come un puro e semplice disastro militare... perché la Battaglia di Caporetto fu vissuta e interpretata dai contemporanei come sconfitta morale e dunque diventò tale, poiché ogni evento vale... anche per il modo in cui è vissuto e interpretato dai contemporanei.» Spingendo ben oltre la cauta illazione di Pietro Melograni - se pur lo è -, si può affermare che il caporettismo è un filo conduttore, che dall'Unità in poi lega l'Italia regia e liberale con l'Italia monarchicofascista e con l'attuale Italia repubblicana. La frattura creata dal fascismo è stata più apparente che reale, una parentesi che proporzionalmente sminuisce col trascorrere del tempo. Il fascismo ha naturalmente privato gli italiani di libertà politiche per un ventennio, dimostrando - sebbene non ve ne fosse alcun bisogno - che una società moderna non può essere governata con la tirannide, poiché la sua struttura complessa richiede la dialettica - nella pratica politica il dibattito parlamentare -, come mezzo insostituibile per governare alla meno peggio. Ma le carenze radicate nella mentalità politica italiana non sono state modificate dall'Unità, dal fascismo o dalla repubblica democratica. L'Italia caporetta non è l'Italia delle giornate di Caporetto: quelle sono solo la cartina di tornasole. L'Italia caporetta è soprattutto quella che prepara Caporetto. Caporetto - ho detto fin dall'inizio - viene da lontano e va lontano. È caporetta l'Italia che, attraverso una sovrapposizione di successive irrazionalità messe in atto dalla sua classe dirigente - che, con l'affermarsi del suffragio universale e col moltiplicarne l'impiego a istituzioni sempre più capillari, diviene un campione sempre più significativo dell'intera nazione -, crea le condizioni favorevoli alla nascita di una sensazione individuale di scoramento interno, di frustrazione, di senso di inutilità delle proprie

azioni, che si concreta nel rifiuto a contribuire all'alimentazione di una spiritualità nazionale. Eppure l'Italia, fatta di tremila anni della più ricca storia del mondo, è un patrimonio, cui anche l'italiano inconsapevole istintivamente non rinuncia. E allora dalle Caporetto storiche scaturiscono delle sorprendenti rivincite, che si esplicano nelle forme più diverse: esse vanno dalla fioritura giolittiana alla difesa del Grappa e alla rinascita economica del secondo dopoguerra. Finché la memoria corta, frutto dell'ignoranza di fondo, riproduce il corrosivo meccanismo di autolesione, che costringe a ricostruire dal principio. È un succedersi vichiano di malgoverno degli uomini, sopravvissuto indenne, passando dal calesse all'aereo supersonico, dall'abaco al calcolatore elettronico. L'Italia caporetta è, prima di tutto, l'Italia priva del senso delle proporzioni: la carenza dei corrispondenti freni inibitori prepara il terreno alle Caporetto storiche, che possono essere innescate da una causa qualsiasi e assumere contorni impensati. Se a Cadorna affibbio l'epiteto di caporettista, lui che di Caporetto fu la più illustre anche se colpevole vittima, è proprio per la mancanza di senso delle proporzioni, che nel maggio 1916 gli faceva sostenere con Orlando [Nota. O. Malagodi, Conversazioni della guerra (1914-1919), 2 voll., Ricciardi, Milano 1960, vol. 1°. Fine nota.] che, siccome la Germania teneva sotto le armi otto milioni di mobilitati, noi, con metà popolazione, potevamo tenerne quattro, e che nel 1917 gli faceva vaneggiare un esercito di 90 divisioni. Così dilatava l'esercito, ma non lo addestrava né si sforzava di intuire in che direzione l'addestramento dovesse essere perfezionato, preparando in tal modo il terreno per la sconfitta di Caporetto. Ma caporettista ante litteram fu anche Francesco Crispi, quando voleva l'Italia col bilancio in pareggio, con solidi istituti democratici e grande potenza coloniale. Adua fu una Caporetto antedatata, frutto di quella politica, inseguitrice di obbiettivi contraddittori. Se ad Adua noi avessimo vinto, la nostra condizione non sarebbe cambiata: l'Italia sarebbe rimasta quel che era: uno stato depresso in via di lentissimo decollo industriale. Non fu caporettista Giolitti, proprio perché ebbe acuto questo senso delle proporzioni, che gli faceva dire che all'Italia gobba doveva tagliare la giacca con la gobba: e per questo fu massimamente odiato dagli italiani gobbi, che si rifiutavano di esserlo. Caporettissimo fu Mussolini, poiché - predicando per lunghi anni la violenza internazionale come linea politica direttrice

a un popolo tiranneggiato ma sostanzialmente consenziente, e perseguendo una politica estera aggressiva - trascurava invece le forze armate, tenendo il nostro esercito a livello sudamericano, mentre proprio la logica della sua politica di potenza richiedeva il contrario: la voce suadente e la costruzione di un nodoso bastone (se ci riusciva). Ma è caporettista anche un attuale ministro del Lavoro, allorché nel 1984 osserva che l'Italia paga, di imposte, meno della Svezia o della Repubblica Federale tedesca, non tenendo conto che il nostro prodotto pro-capite è la metà del loro, e che, al limite, - quando un popolo è ridotto a un reddito di mera sopravvivenza - nessuno stato può estorcere imposte di alcun genere. E caporettisti furono coloro che vollero fare dell'Italia una grande potenza siderurgica, benché l'Italia non avesse né energia né minerali di ferro. Noi, che abbiamo sempre visto, come carattere negativo della Francia, il suo ipnotico sogno di grandeur, sopravvissuto all'epoca in cui tale grandeur essa poteva perseguire, con rischio ma non senza speranza, non ci accorgiamo di aver peccato in quel senso, molte volte e molto di più. Il caporettismo è cioè, innanzitutto, lo sfasamento fra le possibilità e gli obbiettivi, non l'azzardo e il rischio nell'intraprendere imprese temerarie - che è un difetto di altra natura: se no, fra i caporettisti dovremmo mettere anche Annibale, Napoleone o Metternich. Temerario fu Hitler nello sfidare il mondo per andare alla sua conquista. Ma Mussolini, quando intervenne in suo favore, non fu temerario ma puerile, credulo che, affiancandosi al presunto vincitore, ne avrebbe condiviso onori e bottino: l'Italia nell'ambito hitleriano sarebbe stata una grossa Bulgaria, non un piccolo «Grande Reich». Ma questo non basta. Occorre che alla mancanza del senso delle proporzioni si aggiunga una superficialità, frutto di scarsa cultura, che si trasfonde principalmente nel tentativo inconscio di perpetuare l'ignoranza, trascurando l'addestramento, l'educazione e l'istruzione delle nuove generazioni. L'italiano di successo - e ce ne sono moltissimi - è sempre un autodidatta spirituale, che poco deve alla società politica, che pur lo spreme, ferocemente ma all'impazzata, senza riuscire a dare ciò che pur sarebbe nelle sue intenzioni. Caporettismo è un confondere i sintomi con le cause, credendo, ad esempio, che con l'aumentare i professori universitari in dieci anni da 3600 a 45.000, si accresca proporzionalmente la potenzialità scientifica degli istituti italiani di alta cultura, così come nella prima e nella seconda guerra

mondiale la pletora di ufficiali fatti con lo stampino avrebbe dovuto fortificare la struttura dirigente dell'esercito. L'Italia caporetta prepara le varie Caporetto, più o meno drammatiche a seconda delle circostanze: la più grave, finora, fu l'8 settembre '43, allorché si manifestò massima la divaricazione fra illusione e realtà, mentre a Caporetto, la minore divaricazione impedì che la disfatta si mutasse in catastrofe nazionale. Nel 1984 stiamo assistendo al parto di una nuova Caporetto storica, preceduta e provocata da un'Italia caporetta, il cui avvio deve essere fatto risalire almeno al 1968 e forse anche a prima. Ne esamineremo nel seguito alcuni esempi, senza ordine e senza pretesa alcuna di completezza. Materialschlacht nell'epoca attuale. Quando l'Italia entrò nella civiltà industriale, la povertà di materie prime e di energia mantenne a basso livello l'industria siderurgica. Nel 1913 la produzione di ghisa fu di 430.000 tonnellate e quella di acciaio di 1.080.000. Dopo il picco del 1917 (1.340.000 tonnellate di acciaio) nel dopoguerra essa scese rapidamente, ma salì a 2.250.000 tonnellate di acciaio nel 1929, a seguito della ripresa degli anni Venti. Poi seguì la grande depressione. Ma il 15 maggio 1937 Mussolini, lanciando la parola d'ordine dell'autarchia, affermò la necessità vitale per l'Italia di raddoppiare la produzione siderurgica. Questa effettivamente raggiunse, nel 1938, il massimo storico del ventennio fascista, invero modesto, di 2.300.000 tonnellate. Poi declinò per gli eventi bellici e i bombardamenti aerei. Ma nel dopoguerra, benché l'industria siderurgica privata avesse dichiarato che l'Italia non era fatta per sviluppare l'industria dell'acciaio e che 3 milioni di tonnellate annue rappresentavano in quel momento un ottimo economico e strategico da non superare, io stato democratico, ma populista, uscito dalla guerra, decise che ciò che l'industria privata non trovava conveniente fare, l'avrebbe realizzato l'industria di stato con una pianificazione di tipo centralizzato. Fu perciò adottato politicamente l'antisillogismo: la produzione di acciaio richiede carbone e minerali di ferro; l'Italia non dispone né di carbone né di minerali di ferro; quindi l'Italia è una nazione adatta allo sviluppo di una grande industria siderurgica, pur senza tradizioni e conoscenze. Un'industria ad alta densità di capitale, ad alta intensità energetica e a bassa occupazione di manodopera. E doveva essere un'industria

veramente grande, di proporzioni statunitensi o sovietiche. Partorita dall'ignoranza, cominciò così la marcia verso una Caporetto storica. Nel 1955 erano già 5,4 i milioni di tonnellate di acciaio, saliti a 8,8 nel 1961, a 17,5 nel 1971 e a 26,5 nel 1980. In quest'anno la produzione pro-capite di acciaio in Italia fu di 0,47 tonnellate, contro 0,46 negli Stati Uniti e 0,55 nell'Unione Sovietica: Cadorna aveva trovato degli epigoni meno accorti. E non mi si tiri in ballo l'esempio del Giappone, la cui enorme industria siderurgica, basata su una scienza molto più profonda, non è frutto di mania di grandezza, ma di un calcolo meditato sui tempi lunghi, anche se non privo di rischi. Agli inizi degli anni Settanta ascoltavo il presidente della Finsider illustrare onirici diagrammi, che mostravano il fabbisogno di acciaio nel mondo dei futuro proiettarsi all'infinito. Erano gli anni in cui, per dar soddisfazione agli abitanti di Reggio Calabria, alquanto turbolenti per miseria endemica, il governo non trovava di meglio che promettere loro un quinto grande centro siderurgico. E subito si distrussero le coltivazioni arboree, per far posto all'enorme impianto. In quella stessa epoca facevo parte di una commissione di una società del gruppo ENI, che aveva il compito di studiare una nuova proposta di normativa per la progettazione dei metanodotti. Ed ebbi occasione di toccare con mano il futuro. L'acciaio diveniva sempre migliore, la sua qualità più riproducibile, mentre le lavorazioni meccaniche più precise rendevano sempre più uniformi gli spessori dei tubi. Se si voleva restare nel mercato mondiale della costruzione di lunghe condotte di gas naturale, era fatale - come già facevano i tedeschi - ridurre gli spessori e i pesi di un 20 o 30 per cento senza nulla sacrificare alla sicurezza. Inoltre l'introduzione del calcolo automatico consentiva di calcolare con precisione dove mettere l'acciaio e dove togliere il superfluo. Chiesi per curiosità a un mio collega, titolare della cattedra di tecnica delle costruzioni, quanto acciaio sarebbe stato oggi necessario per duplicare la torre Eiffel costruita nel 1889 con 7000 tonnellate di materiale. Egli ci pensò un po' e poi mi rispose «un terzo». Tutto ciò additava una sola tendenza: per fare le stesse cose, era richiesto meno acciaio, senza tener conto delle possibilità della sua sostituzione, in certi casi, con altri materiali più adatti. Non meno tragica la situazione della produzione di alluminio primario, fatto con bauxite di importazione e con l'energia elettrica più cara d'Europa per la mancata costruzione di impianti nucleari. Mi diceva nel 1983 un

dirigente dell'EFIM che, se avessimo fermato tutti i nostri impianti, se non avessimo licenziato nessuno, pagando perciò stipendi pieni a gente che oziava, e avessimo acquistato l'alluminio sul mercato internazionale, avremmo risparmiato 250 miliardi all'anno. Col monopolio di stato, a favore dell'ENI, dell'estrazione del metano nella valle Padana a partire dal 1953, e agganciando il suo prezzo a quello del petrolio di importazione, si creava una cospicua rendita a favore dell'ENI. Tale rendita non affluiva però nelle casse dello stato, come i proventi del monopolio sali e tabacchi, ma era liberamente utilizzata dall'ENI per l'espansione della sua attività nei campi più diversi, connessi in generale con la produzione di materie di base ad alto impiego di capitali e bassa occupazione (gomma sintetica, fertilizzanti, acquisto e immagazzinamento di enormi quantità di uranio 235, che rimasero inutilizzate). Enrico Mattei, da buon cadorniano, non ammetteva il controllo del governo sul suo modo d'agire, benché amministrasse beni dello stato. Cercava anzi di avere, come ministri delle Partecipazioni Statali, dai quali teoricamente dipendeva, persone a lui devote, così come Cadorna per i ministri della Guerra. Per Mattei vi era l'aggravante che guerre in corso non ve n'erano. La nostra civiltà era insomma già fuori dall'epoca del «ferro e del carbone» di treitschkiana memoria, o più in generale dall'industrializzazione basata sulla produzione massiva di materie di base, ma i nostri reggitori non avevano percepito il cambiamento. Sono errori che la Storia non perdona e si è quindi arrivati al redde rationem: ma col ritardo di una generazione, e il conto viene pagato dalla generazione successiva a quella che commise gli errori. I «fissi» e i «fessi». Nel 1917 gli italiani sottoposti all'obbligo del servizio militare avevano scoperto di essere divisi in due categorie: i «fissi» e i «fessi». Questi ultimi erano coloro che venivano scagliati nelle offensive carsiche, con i risultati di sopravvivenza citati. I «fissi» erano, ad esempio, gli ingegneri che, per evitare il servizio di linea, si adattavano a versar pitali negli ospedali, come soldati di sanità; oppure si facevano distaccare presso il Comando Supremo e i comandi periferici, come piantoni o telefonisti; altri, con laurea in giurisprudenza, finivano tornitori presso l'Ansaldo o l'officina del padre. Anche oggidì le due categorie sopravvivono, pur cambiando i soggetti e gli ambienti. Si scruti il tariffario nelle Ferrovie dello Stato.

Fra i molti tipi di treni, esistono gli espressi e i rapidi, sui quali ultimi si paga un supplemento non indifferente (circa il 30 per cento in più), oltre ad alcuni super-rapidi, sui quali vi è un ulteriore sovrapprezzo. Orbene si dovrebbe supporre che, essendo tutti gli italiani eguali di fronte alla legge e alle ferrovie, il supplemento rapido sia collegato a una maggiore velocità e a un maggiore conforto. Basta però consultare l'orario ferroviario, per constatare che sulle linee del centro-nord la velocità media dei rapidi è di 100 chilometri all'ora e quella degli espressi di circa 90. Nel centro-sud (e sulla riviera ligure occidentale), invece, la velocità media dei rapidi si aggira intorno ai 73 chilometri all'ora (contro i 59 degli espressi), inferiore perciò alla velocità degli espressi nell'Italia centro-settentrionale. Così i 184 chilometri della Venezia-Brescia sono percorsi in ore 2,32 a tariffa ordinaria, mentre i 182 chilometri della Messina-Siracusa sono percorsi in 2,26 ore col pagamento del supplemento. Esistono quindi cittadini più eguali degli altri. Un'altra rapina occulta delle Ferrovie di stato è perpetrata con i ritardi. Il ritardo medio può essere stimato pari al 20 per cento del tempo teorico indicato dall'orario. Si obbietterà che tale maggiorazione è troppo pessimistica. Ma, a ben riflettere, così non è. Se il disservizio elettrico fosse paragonabile a quello ferroviario, se cioè si potesse contare sull'affidabilità dell'energia elettrica con la stessa fiducia che si ha per l'orario ferroviario, lo scotto da pagare sarebbe altissimo, ben superiore al 20 per cento. Gli è che non sono i ritardi reali che contano, ma la loro erraticità e il timore che si avverino, non il fatto che si avverino realmente. Ognuno si prepara al peggio, anche se il peggio non gli toccherà, ed è in queste ipotesi che il 20 per cento sopra citato non sembra affatto eccessivo. Orbene, monetizzando tale disservizio, si arriva a un danno annuo valutabile in 1000 o 1500 miliardi, pari a 100.000 anni lavorativi. Tale danno, suddiviso sul traffico passeggeri, corrisponde a una maggiorazione di 30 o 40 lire al chilometro, qualunque sia la tariffa e la classe. Con le tariffe attuali, in corso di rapida lievitazione, di fronte a un costo chilometrico medio fittizio da 48 a 100 lire (passando dai treni meno veloci nella classe inferiore ai più veloci nella classe più alta), aggiungendo ora le 30 o 40 lire fisse attribuibili ai ritardi (o al «timore del ritardo»), si arriva rispettivamente a 80 e 140 lire al chilometro. Per decenni ci siamo sentiti raccontare la favola che i nostri trasporti ferroviari erano i meno

costosi d'Europa, a giustificazione del crescente disservizio e della continua riduzione della produttività del personale ferroviario, tacendo che ciò che sembrava guadagnato da un lato era perso dall'altro. Si è arrivati all'assurdo di avere le ferrovie meno veloci dell'Europa industrializzata e tariffe reali (tenendo conto che le comunicazioni ferroviarie avvengono tra punti fissi e non da porta a porta) tali che il costo chilometrico di un'auto di cilindrata piccola-media, con una sola persona a bordo, si avvicina a quello ferroviario con la tariffa reale più costosa, mentre quello più economico è insidiato dal trasporto automobilistico, quando le persone a bordo siano due. Occhio perciò all'ulteriore aumento delle tariffe ferroviarie! Esso potrebbe tradursi in una contrazione del traffico più che proporzionale. Altro rimedio non v'è che, a tariffe costanti, un vertiginoso aumento dell'affidabilità del trasporto ferroviario. Purtroppo lo stato non ha alcun interesse a migliorare il servizio ferroviario. Se la linea Milano-Roma fosse percorsa in 4 ore alla non eccezionale velocità di 145 chilometri all'ora (sul nuovo percorso), sparirebbe la maggior parte del pendolarismo, che riempie gli aerei della Milano-Roma. E l'Alitalia, anch'essa proprietà dello stato, benché più autonoma delle «autonome» ferrovie (può infatti ritoccare, a differenza delle ferrovie, il prezzo dei biglietti), non ha nessunissimo interesse alla modernizzazione del sistema ferroviario. Ciò è avvenuto più vistosamente nel trasporto pubblico urbano. In media le tariffe sono oggi mille volte quelle del 1938 - con un servizio a velocità inferiore, anche - obbiettivamente - per motivi estranei alla gestione delle aziende municipali, ma non alle autorità municipali, mentre l'indice Istat del deprezzamento della lira fra il 1938 e il 1983 è pari a 600. Se non fosse per l'enorme caduta di produttività del personale filotranviario, che rende impossibile l'operazione, le tariffe del trasporto urbano - per essere omogenee con la svalutazione della lira - dovrebbero, in valore reale, non già aumentare ulteriormente, bensì diminuire. Dove i pubblici poteri non sono intervenuti, la cosa si è verificata. Nel 1938 si calcolava che il costo chilometrico di una automobile utilitaria media fosse di 0,83 lire al chilometro, [Nota. G. Colombo, Manuale dell'ingegnere, Hoepli, Milano, 1939. Fine nota.] che per l'effetto dell'inflazione sarebbero oggi pari a 500 lire. Invece, anche lasciando da parte il maggiore conforto e la superiore velocità di

un'automobile odierna di eguale cilindrata rispetto a una vettura di 50 anni fa, il costo chilometrico, in termini reali, si è ridotto a meno della metà. Considerazioni ancor più scandalose si possono fare sul servizio postale: in tal caso non esistono «fissi» e «fessi», ma solo «fessi», cioè tutti i cittadini italiani. Ammettendo che il valore di una notizia sia pari al 100 per cento fino a 48 ore dal momento della spedizione (nella buca delle lettere) all'arrivo nella casella di destinazione, che si riduca al 50 per cento fra 48 e 72 ore e si annulli per tempi maggiori, si arriverebbe alla conclusione che l'efficienza è di pochi percento, e che una buona parte del traffico telefonico (anch'esso monopolio di stato, sia pure in forma diversa) è dovuta al totale collasso del servizio postale. Eppure, anche nel caso del servizio postale, le tariffe (da 800 a 1000 volte quelle del 1938) hanno largamente superato il livello di inflazione, cosicché un loro ulteriore inasprimento contrarrebbe le entrate, anziché aumentarle, per la inutilità di un servizio così costoso e inaffidabile. Tutto ciò, mentre si parla di informatica, cibernetica, telematica e altre scienze terminanti in ica, quasi che le parole sostituissero i fatti. Nel caso del servizio postale, il proliferare di tanti corrieri privati non li esime dall'affrancare i loro pacchi o la corrispondenza con i francobolli di stato. In tal modo lo stato non risente delle conseguenze economiche del disservizio da esso tollerato (vengono quindi meno i freni inibitori a un ulteriore peggioramento), e gli stessi francobolli, da ricevute per un servizio prestato, si sono trasformati in marche da bollo, equivalenti a una tassa di concessione: il che, sul piano costituzionale, è per lo meno discutibile. I Boccacci. Il colonnello Boccacci, nel 1917 capo di stato maggiore ed eminenza grigia del generale Cavaciocchi, là dove ogni camionabile, ogni carreggiabile, ogni mulattiera intersecava i «confini» del IV corpo d'armata, aveva messo posti di blocco con ben visibili cartelli: «Alt per tutti! Taglio capelli». E i tapini, che varcavano tali «confini», dovevano sottoporsi all'opera di velocissimi barbieri armati di tosatrice meccanica, che rapavano a zero anche chi lo era stato più volte. Benché a volerlo fosse stato il generale Cavaciocchi, e ancor prima di lui il generale Tassoni, [Nota. Come mi precisò il signor Felice Beretta con lettera in data 28 gennaio 1969. Fine nota.] come prevenzione contro il tifo petecchiale, di cui si erano manifestati alcuni casi,

Boccacci metteva una sua special passione nel far eseguire ripetutamente la rasatura a lametta. Oggi la razza dei Boccacci non è estinta: al contrario. Solo che essa agisce in campi diversi e su area più vasta del territorio del IV corpo d'armata. Abbiamo avuto un padre della patria che, per ben sette anni, ha imposto, col suo prestigio, il cartello immaginario: «Alt per tutti! Niente televisione a colori». Il popolo italiano doveva vivere nell'austerità e accontentarsi del «bianco e nero». I denari così risparmiati non li avrebbe dilapidati in beni di consumo ancor più frivoli e inutili, ma li avrebbe risparmiati, consentendo perciò il finanziamento di importanti opere industriali, come il quinto polo siderurgico di Gioia Tauro. Come i carinziani e i bosniaci del gruppo Krauss non furono intimoriti dal cartello «Alt per tutti», così non lo furono le onde elettromagnetiche colorate, provenienti d'oltralpe. A un certo punto quasi tutta l'Italia settentrionale - e persino Roma attraverso il Tirreno poteva ricevere le trasmissioni a colori straniere. L'invasione era inarrestabile, e per la RAI-TV l'adozione del colore fu ritardata solo dalla disquisizione se fosse meglio adottare il sistema pal tedesco o il secam francese. Poi i due sistemi furono resi compatibili e la diga crollò: anche l'Italia ebbe il colore, ultima fra le nazioni europee, dopo la Spagna e la Jugoslavia. Al tempo di Boccacci nessuno fece il conto se era meglio accettare qualche caso di tifo petecchiale oppure i ben più numerosi casi di polmonite o semplici influenze indotti dalla rapatura a lametta. Ma Boccacci, scegliendo, sia pure arbitrariamente, fra due mali, fu meno dannoso del citato padre della patria. La nostra industria elettronica di consumo rimase rachitica, poiché la mancanza di un mercato interno rese asfittiche anche le esportazioni. Il danno inferto fu irrimediabile. E nessuno ha conteggiato la produzione perduta, i posti di lavoro venuti meno, l'impossibilità di finanziare, in carenza di introiti, la ricerca scientifica di appoggio, cosicché oggi, se vogliamo le testine magnetiche fatte con metalli vetrosi ad altissima permeabilità dobbiamo andarle a comprare dai giapponesi. Ma quanti Boccacci sono in agguato? Ufficiali fatti con lo stampino. Da professore universitario ho vissuto la progressiva perdita della mia autorità, non meno che quella dei miei

collaboratori, e la contemporanea concentrazione del potere discrezionale nelle mani della burocrazia periferica e centrale. L'università italiana è divenuta cadorniana (al tempo di Cadorna non lo era) e lo spirito del Grappa non tanto è assente, quanto conculcato e represso con mali modi. Nel 1960-1961 ero solito offrire a giovani laureandi, con un brillante curriculum e che avessero ultimato gli esami, la possibilità di lavorare su una tesi di laurea - che durava 9 o 10 mesi -, con una retribuzione di 90.000 lire mensili (circa un milione di oggi). Tale comportamento fu giudicato «sfruttamento di manodopera» e quindi antisindacale (mentre non lo sarebbe stato, se non li avessi pagati). Successivamente passai all'assunzione a tempo determinato - sempre da parte dell'autorità accademica, da cui dipendeva l'istituto da me diretto -, come consente la legge: un anno prorogabile per non più di un anno. Si era nel 1970-1971 e lo stipendio offerto, oscillante sulle 200.000 lire mensili, superava notevolmente un milione di oggi. Lo stesso trattamento era offerto ai neolaureati in attesa di servizio militare: lavoravano a quelle condizioni, fino al giorno in cui erano chiamati alle armi. Anche queste assunzioni, benché previste dalla legge, furono dichiarate sfruttamento di manodopera, perché si sarebbe dovuto mantenere il posto all'assunto anche dopo il servizio militare e a tempo indefinito: cosa impossibile, perché non esistevano i corrispondenti posti di ruolo, e altamente dannosa, perché l'università - come la si concepisce in tutti i paesi moderni - è una sede di alta cultura, dove i quadri permanenti sono in minoranza, mentre quelli transitori, che sono la maggioranza, fluiscono, fermandosi per qualche anno o anche pochi mesi, vivendo una esperienza di ricerca scientifica, che resterà loro bagaglio spirituale per tutta la vita, pur svolgendo poi attività lontanissime dalla ricerca. Con le leggi attuali, ma specialmente con i decreti delegati che hanno disatteso la legge quadro, l'università è diventata un lebbrosario, in cui nessuno - se non è nei ruoli dello stato - può entrare, per svolgere attività di ricerca e insegnamento di alcun genere. Gli ingegneri più validi dell'industria, che si riesce a introdurre nelle facoltà di ingegneria perché svolgano alcune esercitazioni, in cui riversino il frutto della loro esperienza, non solo non sono pagati, ma devono farlo di soppiatto. Del personale scientifico e tecnico dell'università si è fatto un esercito di mestiere, in cui si entra solo

all'inizio e non esistono reclute, da rimandare alla vita lavorativa dopo un periodo di alcuni mesi trascorsi nell'attività di ricerca. Non per nulla l'età media dei ricercatori negli istituti pubblici di ricerca supera abbondantemente i quarant’anni, età in cui negli altri paesi la carriera di ricercatore non comincia, ma finisce. Si piange dunque sulla disoccupazione giovanile, ma si mantengono vacanti i posti di lavoro disponibili, nel folle terrore di creare dei «precari»; dall'altro si vuole fare la guerra per l'innovazione con quadri vecchi e svogliati, per il trattamento economicamente iniquo e moralmente persecutorio. Basta leggere le circolari del ministero della Pubblica Istruzione: esse hanno sempre carattere minatorio, qualunque ne sia il contenuto, più minatorio di quelle emanate dal Comando Supremo nella prima guerra mondiale. Oggi si stanno avviando i dottorati di ricerca. I dottorandi usciranno licenziati non più giovanissimi: laureati, qualche anno di attesa, tre anni di corso, e sono alla soglia dei trent'anni. Nel triennio di studio e ricerca essi sono beffardamente compensati con un assegno di 6,5 milioni all'anno, dei quali 3 tassati al 10 per cento. Ma l'assegno è ridotto a zero, per coloro che già possiedono un reddito imponibile di 8 milioni. Così si insinua il principio che il reddito imponibile, lungi dall'essere solo l'elemento conoscitivo per l'applicazione dell'imposta progressiva diretta, pagata la quale i cittadini dovrebbero ridiventare eguali, si trasforma in elemento di discriminazione, per far pagare in misura diversa gli stessi beni o servizi a chi ha imponibili diversi: una seconda tassazione occulta, estesa recentemente anche agli assegni familiari, che lo stato - secondo le dichiarazioni di un ministro - ha deciso di «confiscare», quasi che sia ladro chi finora li ha percepiti e non lo stato confiscatore. Mentre il personale universitario viene rinserrato nel lazzaretto dei lebbrosi, le porte dell'università accolgono più di un milione di studenti, presenti ogni anno. Da sempre l'università è stata aperta a tutti, non si sono mai dovute pagare tasse per assistere alle lezioni universitarie. Chi desidera cultura, la può avere gratis, come è giusto e sacrosanto. Le tasse sono imposte solo per acquisire il diritto a sostenere gli esami e, alla fine, a conseguire il titolo di studio, che ha valore legale. Ma anche in tal caso le tasse sono ridotte a cifre così esigue, che uno studente delle facoltà scientifiche - che usufruisce ogni

anno di un migliaio di ore di lezioni ed esercitazioni - paga per ognuna di queste ore - nelle università di stato - da 150 a 200 lire. Credo che in Italia nulla costi così poco: si assiste cioè all'assurdo (prescindendo dall'assegno di studio, che cancella anche il modesto obolo e aggiunge qualcosa) che l'università - a differenza della scuola media superiore - è «più gratuita» della scuola dell'obbligo. Se a un assegno di studio qualcuno ha diritto, sono i bambinelli delle elementari. Il proposito, o almeno la conseguenza, di questa politica caporettistica è la fabbricazione di laureati con lo stampino. Questi hanno naturalmente un corpo docente adeguato allo stampino. Imboscati e combattenti; sfruttatori e sfruttati. Nel 1973 in Italia veniva introdotta una nuova riforma fiscale, che doveva razionalizzare il sistema e applicare un'imposta progressiva, più razionale della precedente, sui redditi delle persone fisiche. A essa si era arrivati dopo anni di dibattiti parlamentari. E poiché le aliquote fiscali erano state fissate per legge in una situazione di moneta più forte, nel 1975 esse vennero modificate, secondo aliquote meno aspre, riportate in tutti i «moduli 740» dell'epoca. Dal 1975 al 1982 il prodotto nazionale lordo, in termini reali, è aumentato del 30 per cento pro-capite, ma l'inflazione, attraverso la quale la lira si è volatilizzata, ne ha ridotto il potere d'acquisto a un terzo. In termini monetari correnti il prodotto nazionale lordo è aumentato - nel periodo considerato - di 3,9 volte. Quali conseguenze ha avuto ciò sulla pressione fiscale? Consideriamo un nucleo familiare, che nel 1975 godesse di un reddito imponibile di 5 milioni all'anno. L'imposta da pagare (escluse le deduzioni di legge) era pari a 590.000 lire, cioè all'11,8 per cento e il reddito netto, cioè quello vero, ammontava a 4.410.000 lire. Nell'ipotesi che i redditi imponibili siano aumentati proporzionalmente al prodotto lordo pro-capite - cosa non inverosimile per un periodo tanto breve, con trascurabili variazioni nelle abitudini - l'aumento reale dell'imponibile ha portato nel 1982 tale reddito a 6,5 milioni, il che avrebbe implicato una tassazione di 890.000 lire, pari al 13,7 per cento, mentre il reddito netto è salito a 5,61 milioni. Pagate le tasse, il reddito è perciò salito di 1,2 milioni di lire, ossia del 27 per cento, mentre l'imposizione fiscale, passata da 590.000 a 890.000 lire, e aumentata del 51 per cento. Si tratta di un inasprimento fiscale, di cui

è lecito mettere in dubbio la legittimità, perché andrebbe giustificato con un miglioramento dei servizi di stato in proporzione all'aumentato tenore di vita: giustizia più celere, poste più veloci, treni più puntuali e confortevoli, scuole migliori. Se ciò non avviene - e ognuno ha sotto gli occhi cosa sta avvenendo -, il cittadino ha il diritto di contestare la legittimità dell'inasprimento fiscale. Ma il peggio è figlio dell'inflazione. A causa di essa nel 1982 il reddito reale di 6,5 milioni (espresso in lire del 1975) si è gonfiato di 3 volte, passando a 19,5. L'imposizione fiscale è salita a 4,7 milioni di lire e il reddito netto a 14,8. Deflazionando tali cifre, cioè esprimendole con lire al valore del 1975 - con una divisione per 3 - si ricava il reddito netto (sempre in lire 1975) di 4,9 milioni. Il reddito è quindi aumentato, in termini reali, del 12 per cento. E le imposte? Esse, sempre in lire 1975, sono salite a 1.565.000, si sono cioè quasi triplicate, aumentando, per la precisione, del 165 per cento. Esse rappresentano il 25 per cento dell'imponibile, anziché il 13,7 per cento, se la moneta avesse conservato inalterato il suo valore. In conclusione - e per riassumere - nel periodo 1975-1982, di fronte a un aumento del prodotto lordo pro-capite del 30 per cento in termini reali, il reddito netto è salito solo del 12 per cento e l'imposizione fiscale del 165 per cento. Questo aumento è costituito da due addendi: un primo di 300.000 lire 1975, di dubbia legittimità, dovuto all'inasprimento fiscale, e un secondo, pari a 675.000 lire 1975, che viene eufemisticamente denominato «fiscal drag», ma che in italiano si traduce «grassazione fiscale». Tale grassazione, perpetrata dallo stato, apparentemente non viola alcuna legge, salvo la legge morale e il settimo comandamento. Questa insostenibile situazione è in parte alleviata dall'aumento delle detrazioni, che favorisce e attenua - senza annullarla - la grassazione fiscale a danno delle famiglie meno abbienti. I ceti molto ricchi, pochi di numero, sono in grado di difendersi con molti metodi legali, consentiti dalla vigente legislazione. La grassazione fiscale si esercita quindi, con tutta la sua violenza, sulle classi medie e sugli agricoltori, che rappresentano le fanterie della prima guerra mondiale. Molti sono gli elogi per l'ingegno italico, per i piccoli imprenditori, per i funzionari, per gli ingegneri, per i professori, verso i quali si sprecano le parole di esaltazione, perché l'Italia «tiene» (la nostra bilancia dei pagamenti è infatti pressoché in pareggio da tempo immemorabile).

Ciò non toglie che la massa degli italiani sia divisa in combattenti e imboscati; in superlavoratori e in parassiti. E come, nella prima guerra mondiale, le fanterie erano una grossa minoranza e gli altri una esigua maggioranza, così anche oggi gli sfruttati sono una grandissima minoranza e gli sfruttatori una piccolissima maggioranza. Chi sono gli uni e gli altri? Sono sfruttatori le migliaia di impiegati che si fanno timbrare il cartellino da uno di loro a turno e poi arrivano in ufficio quando vogliono; sono sfruttatori coloro che non già svolgono un secondo lavoro, ma lo svolgono nelle ore in cui dovrebbero svolgere il primo; sono sfruttatrici le pensionate di stato dopo 14 anni, sei mesi e un giorno di servizio. Queste ultime sono sfruttatrici legali. Sono sfruttati ad esempio le migliaia di ingegneri, con alcuni anni di laurea, che le industrie metalmeccaniche pagano una volta e mezzo la dattilografa neo-assunta. Sfruttata, in generale, è tutta la classe intellettuale. Naturalmente la grassazione fiscale derivante dall'inflazione è secondaria rispetto alle conseguenze dell'inflazione stessa. L'inflazione non viene dal cielo, non è una piaga biblica: è fabbricata dallo stato. Una parte - minoritaria - è conseguenza della situazione internazionale ed è quindi importata (importarla non è fatale, ma si può chiudere un occhio); ma il resto è moneta falsa, che lo stato stampa a piacere, avendo come solo limite la tolleranza sociale, che, nei riguardi dell'inflazione, è storicamente elevata. La stampa di carta moneta si traduce in una espansione della circolazione monetaria, che lo stato accresce anche per un terzo motivo: a un aumento del reddito reale, a parità di velocità di circolazione, corrisponde un maggiore fabbisogno di carta moneta. E quantunque l'aumento del prodotto nazionale sia opera di tutta la collettività, è lo stato a incassare la tangente, stampando e utilizzando a suo talento la massa monetaria messa in circolazione. Dal 1975 al 1982 la circolazione monetaria in Italia è aumentata da 55.000 a 188.000 miliardi, si è cioè moltiplicata per 3,45. Nello stesso arco di tempo nella Repubblica Federale tedesca la circolazione monetaria è passata da 142 a 236 miliardi di marchi, moltiplicandosi per 1,66. In Germania l'inflazione è stata praticamente tutta di importazione e l'espansione del prodotto nazionale è stata molto vicina a quella verificatasi in Italia. Possiamo allora, semplificando molto le cose, affermare che l'aumento «perdonabile» nella

circolazione monetaria in Italia fra il 1975 e il 1982 avrebbe potuto eguagliare quello tedesco, aumentando di un fattore 1,66 e passando da 55.000 a 91.000 miliardi. La differenza fra l'espansione di circolante effettivamente verificatasi e quella (fittizia) sopra calcolata, rappresenta i miliardi di moneta falsissima, stampati dalla Banca d'Italia per ordine dello stato, miliardi di valore diverso a seconda dell'anno in cui furono stampati, e comunque rappresentante un valore ben superiore alla grassazione fiscale, di cui si è parlato prima. E quando mai lo stato ordina di stampare moneta falsa? Quando, come si dice, i suoi «mezzi di pagamento», nonostante le tasse, l'inasprimento fiscale, la grassazione fiscale, l'emissione di cartelle obbligazionarie, cioè l'indebitamento, non riescono a far quadrare i conti. Un'azienda fallirebbe: lo stato non può fallire, perché può rubare legalmente. La prossima caporetto. La caporetto in via di maturazione nella società italiana non assomiglia alle precedenti. La Caporetto storica maturò in alcuni mesi di cattivo addestramento delle truppe ed ebbe come contraccolpo il Grappa. Fu una lezione pagata a caro prezzo. La caporetto maturata sotto il fascismo dal fascismo culminò con la grande disfatta ed ebbe, come contraccolpo assai ritardato, il «miracolo economico». Benché deriso e dileggiato, esso rappresentò la reazione alla precedente tirannide, politica e successivamente economica, della società italiana, quando poté operare in un clima di libertà. Il «miracolo» collocò l'Italia, senza ulteriori incertezze, nella grande società industriale del nostro tempo. Nello stesso periodo, però, lo stato venne meno al suo compito fondamentale di sorvegliare tale sviluppo e reprimerne gli abusi. Tali abusi, di cui quello edilizio dei palazzinari è portato a emblema, dovevano essere repressi con le leggi, che già esistevano. E invece sono ricordati come i soli fatti salienti dell'epoca, mentre si tace che in quegli anni - solo in quegli anni - in Italia sparì la disoccupazione e si raggiunse per naturale processo il pieno impiego. Lo stato, se trascurò le attività che erano sua responsabilità diretta, si mise però a fare l'industriale, seminando vento. Ma lo spazio da esso occupato era ancora minoritario e il danno inferto alla nazione poteva essere compensato e recuperato dalle attività che si svolgevano al di fuori della sua competenza e della sua responsabilità. A partire dalla

metà degli anni Sessanta, tuttavia, lo stato andò dilatando il suo intervento economico ed entrò pesantemente nell'imprenditoria sociale, incanalandosi verso un caporettismo di rigore: il perseguimento di obbiettivi fra loro incompatibili, per raggiungere i quali scelse i mezzi meno idonei. Secondo Mussolini, l'economia non contava nulla. Secondo alcuni economisti è tutto. Limitiamoci a dire che l'economia è un utile indicatore, per mettere in evidenza situazioni eccezionali. Dalla sua unità l'Italia ha vissuto quattro crisi, compresa quella attuale, che hanno avuto e avranno influenza determinante sul suo sviluppo. La prima sopravvenne pochi anni dopo l'Unità -proprio a causa di questa , culminando nel 1866 con un disavanzo del bilancio statale pari al 7,4 per cento del prodotto lordo nazionale, allorché le spese dello stato superarono le entrate più del doppio. Nonostante la scarsa rilevanza del disavanzo della bilancia dei pagamenti con l'estero, la crisi, per essere superata, richiese tempi lunghissimi. Volendo evitare l'inflazione, fu necessario adottare la politica della «lesina», introducendo fra l'altro l'odiosa «tassa sul macinato» e il «corso forzoso» della lira, cioè la sua inconvertibilità aurea. Questi due provvedimenti, che si sperava di togliere dopo pochi mesi, furono mantenuti per una quindicina d'anni. Lo scotto pagato per evitare l'inflazione fu la stagnazione dell'economia italiana per circa un ventennio. Una seconda volta l'Italia si trovò ad affrontare una situazione drammatica nell'immediato primo dopoguerra. Scatenata dai sacrifici cui l'Italia si era sottoposta, l'inflazione divampò violenta subito dopo la fine del conflitto: nel 1919 il disavanzo del bilancio dello stato risultò pari al 28 per cento del prodotto nazionale lordo, mentre era elevato (circa il 10 per cento) anche il disavanzo della bilancia dei pagamenti. Quest'ultima fu sistemata nel modo più sbrigativo, non pagando i debiti. Poiché questi erano stati contratti soprattutto con gli Stati Uniti, e l'Italia era in buona compagnia con moltissimi altri debitori insolventi, l'insolvibilità italiana si annacquò in quella generale. Per contenere il disavanzo del bilancio dello stato, il rimedio consistette nell'abolizione dei prezzi politici (in particolare di quello del pane), in una più rigorosa politica fiscale e nell'imposizione di imposte straordinarie connesse con i sovrapprofitti di guerra. Ma grandissimo fu il sollievo portato dall'inflazione. Gli interessi sui prestiti interni, pagati in moneta buona,

poterono essere pagati in moneta svilita quattro o cinque volte, a spese naturalmente della piccola borghesia risparmiatrice. Analoga sorte subirono i combattenti, cui il governo, auspice il ministro delle Finanze Nitti, aveva «regalato» la polizza contro la morte a partire dal 1° gennaio 1918. Il tenente Palmieri, che alle 1000 lire gratuite ne volle aggiungere di sue altre 4000, con scadenza trent'anni, non avendo avuto la fortuna di morire prima di quella data, ricevette puntualmente le 5000 lire nel 1948. Tramite l'inflazione, insomma, la crisi postbellica fu superata in termini brevi sul piano economico: già nel 1921 il bilancio dello stato era avviato al pareggio. Sul piano politico il prezzo pagato fu però esorbitante: la tirannide. Ancor più drammatica fu la situazione che si presentò alla fine del secondo conflitto mondiale: nel 1946, 1947 e 1948, il disavanzo del bilancio dello stato fu rispettivamente il 12,6, il 7,6 e il 10,5 per cento del prodotto nazionale lordo, mentre disastroso era il contemporaneo deficit della bilancia dei pagamenti internazionali. A ripianare quest'ultima provvidero gli aiuti americani, che consentirono di rimettere in buon moto l'apparato produttivo. A riassestare il bilancio dello stato provvide Luigi Einaudi, nel 1947 vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio, con opportuni provvedimenti monetari, che bloccarono l'inflazione in tempi brevissimi, come era avvenuto nel 1921. Dal 1948 al 1969 l'inflazione strisciante italiana marciò al passo di quella mondiale, talché in 22 anni il costo della vita aumentò al ritmo medio del 3 per cento all'anno. Poi le cose peggiorarono. L'inflazione superò nuovamente il 5 per cento nel 1969, il 10 per cento nel 1973, il 20 nel 1979-1980 e tutt'ora incancrenisce sopra il 10 per cento, cosicché nel quindicennio 1969-1984 la moneta si è svilita di 6,5 volte. Per un terzo tale inflazione è spiegata - ma non giustificata dall'aumento dei prezzi dell'energia e dai contraccolpi dell'inflazione internazionale, specialmente americana. Ma il resto è fabbricazione nostrana. Gli ultimi venti anni sono anche caratterizzati dall'arretramento della posizione economica italiana rispetto a quella di altri paesi, con cui ci eravamo messi a contendere. Nel 1965 il Giappone aveva un prodotto pro-capite inferiore del 20 per cento a quello italiano, nel 1983 lo superava dell'80 per cento. Sempre nel 1965 la Spagna - per scegliere un esempio agli antipodi di quello giapponese - aveva un

prodotto pro-capite poco superiore alla metà di quello italiano, mentre nel 1983 si avvicinava a quattro quinti. Ma l'Italia ha perso terreno anche rispetto alla Francia e alla Repubblica Federale tedesca, il cui prodotto pro-capite è oggi doppio del nostro. Purtuttavia la bilancia italiana dei pagamenti internazionali non è mai stata realmente in pericolo, nonostante i timori di quando in quando manifestati dalla nostra classe politica, spesso al riguardo più apprensiva del necessario. Vista dall'esterno, l'Italia è una nazione solvibile: non è l'Argentina, non il Brasile, non la Polonia. È una nazione solvibile, il cui sviluppo si è rallentato - come del resto in tutto il mondo -, ma in misura maggiore che presso i suoi compagni di strada. Quanto all'inflazione, prendendo a riferimento il deprezzamento del dollaro americano, osservo che nel periodo 1965-1984 lo yen giapponese si è deprezzato di meno, come pure il marco tedesco occidentale, per non parlare del franco svizzero: la nostra moneta si è invece deprezzata due volte e mezzo più del dollaro. Dunque vi sono nazioni che, a differenza dell'Italia, sono riuscite a mantenersi al di sotto dell'inflazione americana, cosa che dimostra sommariamente come l'importazione dell'inflazione americana non fosse - come spesso si dice - una fatale necessità. L'inflazione, pur avendo lo svantaggio morale di trasformare lo stato in un ladro istituzionale, è una via obbligata, per sanare situazioni disperate, come quelle presentatesi alla fine dei due conflitti mondiali, volendo evitare stagnazioni, che sarebbero state ben peggiori di quella patita dall'Italia dopo il compimento della sua Unità. Ma diviene un ostacolo allo sviluppo, quando emerge dal nulla, come una carestia «senza siccità e senza guerra». Ed è in questo tipo di inflazione che l'Italia si trova immersa: dove si è annidata la guerra invisibile e quando si è sviluppata la carestia inavvertita? Queste due piaghe bibliche in visione contemporanea sono scattate quando al grido «il salario è una variabile indipendente», si è proceduto alla redistribuzione coatta del reddito complessivamente acquisito dalla nazione, anziché preoccuparsi maggiormente della sua continua crescita, che avrebbe automaticamente corretto una parte delle diseguaglianze sociali. In quest'ultimo caso sarebbe stato necessario un più leggero dirigismo di stato - che in uno stato moderno è necessario, ma deve essere contenuto al livello più basso -; dirigismo, che per sua natura è privo di controreazione o, per dirla in italiano più chiaro, di freni inibitori.

Tale invisibile carestia, tale invisibile guerra sono ricapitolate nei punti seguenti (senza pretendere che la lista sia completa): 1) Pretendere di organizzare un sistema sanitario nazionale «alla svedese», «dalla culla alla tomba», benché il prodotto pro-capite italiano sia meno della metà di quello svedese. Di sfuggita si può osservare che spesso si sente lamentare la «politicizzazione» di tale servizio, come causa di tutti i mali. Se a guidarlo fossero dei professionisti, dei clinici illustri, chissà come funzionerebbe bene! Ciò è lontanissimo dal vero. Chiunque lo guidi, è il sistema che non va: lo può constatare ogni italiano alla fine dell'anno, quando getta nella spazzatura un cassetto di medicinali scaduti o non più necessari. E non è il loro controvalore monetario il costo principale: esso è annidato nelle lunghe code per avere le ricette, nelle file per farle timbrare, nelle visite inutili e negli esami clinici non necessari, che aumentano vertiginosamente al declinare della professionalità del medico. Il sistema incoraggia tale sperpero, per mancanza, appunto, di freni inibitori. Il «medico burocrate» è una figura impossibile: la contraddizione non lo consente. 2) Mantenere a tutti i costi un'industria di stato, concentrata specialmente nel campo della produzione di base, che non fa che accumulare passivi. Questi devono essere ripianati dal fisco o da quella tassazione nascosta, che è l'inflazione. Ma lo stato si è impegnato in una industrializzazione sociale ancor più elegante: per anni ha costretto l'ENEL a comprare inevitabilmente a prezzi di mercato, ma a vendere il prodotto a prezzi imposti. E l'importazione di energia elettrica dai paesi con noi confinanti è salita a valori tali - per un bene ad alto valore aggiunto -, che essa corrisponde alla mancata ordinazione di almeno 2000 miliardi alla nostra boccheggiante industria metalmeccanica. Così lo stato, che vieta l'esportazione dei capitali al privato cittadino, la esercita in proprio su vasta scala. 3) Aver praticato per vent'anni (con l'intenzione di continuare) prezzi politici per molti servizi pubblici. Il danno evidente, da tutti compreso, è il carico che il cittadino si deve sobbarcare a vantaggio dell'utente del servizio. Ma ben maggiore, più nascosto e in generale misconosciuto, è il danno che proviene dalla perdita di conoscenza del

costo di produzione del servizio prestato «sotto costo». Chi conosce più il costo reale del trasporto pubblico o delle poste? Essendo venuta meno una gestione economica, esso non può essere dedotto dal costo che le relative aziende sopportano. Il costo sarebbe certamente inferiore - pur se, magari, superiore al prezzo -, qualora il criterio della gestione economica fosse stato oculatamente osservato. Sarebbe stato necessario escogitare un meccanismo, che funzionasse da forza di richiamo, per avvicinare i costi ai prezzi. Senza di esso, si sono solo ripianati i deficit delle aziende pubbliche, lasciando cadere a livelli incredibilmente bassi la produttività dei relativi addetti. E ora, chi riporta questi addetti a una maggiore disciplina morale? Un privilegio lungamente fruito diviene un diritto, non solo sul piano giuridico, ma anche su quello comportamentale. 4) Continuare a tollerare disastrosi disservizi nei servizi pubblici, senza preoccuparsi del danno diretto, che ne viene alla collettività: le poste sono un caso esemplare. Meno avvertibile è la giungla inestricabile in cui si muovono impiegati dello stato e cittadini, che sfortunatamente vi si incagliano. Bisogna smettere di considerare Il Castello di Kafka un capolavoro premonitore, perché esso è una versione rosea ed edulcorata di ciò che avviene nella burocrazia di stato italiana. Ci si lamenta, spesso giustamente, del comportamento delle società di assicurazione verso gli automobilisti; ma basta pensare a quel che succederebbe se il servizio fosse assunto in prima persona dallo stato (chi ha sperimentato le difficoltà di recuperare un credito d'imposta ne sa qualcosa), che ogni protesta subito si smorza. 5) Concedere prezzi politici, anche dove essi non sono giustificati sul piano sociale. Il museo tipico italiano è accessibile a prezzi risibili, ma è generalmente «chiuso per restauri». La clientela, italiana e straniera, è disposta a pagare prezzi ben più alti, pur di trovare i musei «restaurati e aperti». L'Italia, che offre paesaggi unici ed è tutta un museo archeologico, storico e artistico, possiede una fonte di reddito da alta cultura, che non si è mai sognata di sfruttare a beneficio della collettività mondiale. 6) Mantenere l'istruzione universitaria praticamente gratuita, se non addirittura più sovvenzionata della scuola dell'obbligo, tollerando

una resa del sistema assolutamente inaccettabile (rigetto del 60-70 per cento durante gli studi, anziché un fisiologico 10 o 20 per cento). 7) Pretendere di favorire l'occupazione, pur mantenendo coazioni impositive sulla libertà del lavoro, che diminuiscono, anziché accrescere l'occupazione stessa. Vi sono categorie di artigiani che anelano ad avere apprendisti, ma sono spaventate dai vincoli imposti dall'assunzione. Bisogna invece accettare la possibilità della contrattazione del lavoro a termine, sì che il contratto a vita - in certi casi - divenga più un'ambizione del datore di lavoro, che un'aspirazione del lavoratore. E bisogna far saltare fuori quei 50.000 posti di lavoro temporaneo, maledettamente chiamati «precari», che sono disponibili nelle università e negli istituti di ricerca pubblici, i cui responsabili sono però terrorizzati dalla pressione sindacale, che sempre vuole trasformarli in posti a vita. Tali posti sono stati cancellati, con danno evidente alla collettività e agli interessati, pur di non ammettere che essi fossero occupati da persone diverse in flusso continuo. 8) Come corollario ai punti sopra elencati, economicamente e politicamente meno appariscente, ma moralmente non priva di peso, vi è stata e si prolunga una tendenza a praticare una politica di facciata, di menzogna convenzionale, che va solo a detrimento del prestigio dei nostri governi. Si prenda, come esempio, l'amministrazione delle forze armate. Se si paragonano nazioni dotate solamente di armi convenzionali, come il Giappone, la Germania Occidentale e l'Italia, si vede che il costo di ogni militare (ottenuto dividendo le spese dedicate alla difesa per il numero di effettivi), nel 1981 era pari a 40.000-50.000 dollari in Giappone e in Germania, mentre era meno di 20.000 in Italia. Si noti che le forze armate giapponesi - le cosiddette forze di autodifesa - sono veramente lillipuziane (250.000 uomini per una nazione di 120 milioni di abitanti, uomini che pesano sul prodotto nazionale lordo appena per l'1 per cento). Ciò significa che le forze armate italiane non sono realmente né armate né addestrate, perché la componente incomprimibile di spesa (vitto, alloggio, vestiario e retribuzione) è all'incirca eguale dovunque. In tal caso non potendo o non volendo potenziare le forze armate, da parte italiana sarebbe onesto e saggio ridurre gli effettivi alla metà o meno (se si passa a un esercito di mestiere). In caso contrario,

proseguendo cioè nell'indirizzo attuale, tutti i militari entrano automaticamente nella categoria dei parassiti contro volontà. E un altro fatto da deplorare è l'esistenza di certi privilegi legali per i personaggi di più rilevante spicco politico. Personalmente io sono favorevole all'esenzione totale dall'imposta per l'indennità parlamentare (mentre oggi una parte è tassata), ma trovo iniquo che, anziché esentare dalle imposte il relativo imponibile, sia invece cancellato quest'ultimo. E ogni tributarista - e anche chi usa il proprio buon senso - percepisce la differenza. Mi diceva poi un professore universitario, alla soglia di andare fuori ruolo, che in una legislatura e mezza aveva accumulato, come senatore, una pensione, completamente indicizzata, superiore a quella maturata con 45 anni di servizio universitario, non totalmente indicizzata. L'inflazione non ha colpito quelli che un tempo erano chiamati «proletari», per la difesa fattane dai sindacati, che sono riusciti ad accrescere il loro reddito pro-capite più della media nazionale, a scapito delle altre categorie (e a spese dello sviluppo generale), né ha colpito i bottegai e i commercianti, che sono riusciti benissimo a difendersi da soli, aumentando i prezzi col crescere dell'inflazione, e ha colpito il capitale industriale in misura meno che proporzionale, per il parziale ricupero consentito all'industria dal progresso tecnologico. Ha invece colpito in pieno la classe media, di cui sono parte importante gli intellettuali e la dirigenza industriale. Mettendomi in questa categoria, osservo ad esempio che un mio articolo su un quotidiano è pagato esattamente come dieci anni fa, benché il valore della moneta si sia diviso per quattro. E la grassazione fiscale - poiché i miei redditi, in valore nominale, sono pur cresciuti, benché diminuiti in valore reale ha diviso il compenso per cinque. Poiché però il prezzo del giornale si è moltiplicato per cinque, è rimasto cioè invariato in moneta reale, io che ci ho rimesso in tale misura - mi domando chi sia stato beneficiato da ciò che mi è stato tolto. Oggi un professore universitario al massimo di carriera guadagna due terzi di un capo-mungitore (lavoratore richiestissimo, ma introvabile) e il doppio della sua impiegata. Se poi egli è membro di un consiglio scientifico di un organo del Consiglio Nazionale delle Ricerche (compito, che non è tenuto a svolgere, ma che qualcuno deve svolgere), per una riunione che lo impegna tutta una giornata, riceve

un «gettone di presenza» di 3000 lire lorde al giorno, che le tasse riducono a 2000. Credo che in Italia non esista altra prestazione pagata 200 lire all'ora. Ma anche presso l'alta dirigenza statale si nota lo stesso appiattimento. Il presidente dell'ENEL - figura simile a un superdirettore generale, che lavora a tempo pienissimo - ha un imponibile che non è dieci volte quello del suo più umile dipendente. Ma l'imposizione fiscale progressiva, inasprita dall'inflazione, riduce tale rapporto a sei. Contando poi le ore da lui lavorate, molto superiori a quelle dei suoi dipendenti, il compenso orario a stento arriva al triplo, il che sembra pochino. Casi limiti sono i dipendenti del Consiglio Nazionale delle Ricerche, in cui il rapporto fra retribuzione minima e massima non arriva a due: è lievitata la minima, è rimasta ferma la massima. Ma i dipendenti tecnici dell'industria manifatturiera (in genere ingegneri o comunque laureati in discipline scientifiche) non se la cavano molto meglio. Come conseguenza, le classi intellettuali sono state pauperizzate come non mai, a vantaggio di quelle che, indipendentemente dal censo, hanno scarsa cultura. Oggi la società non è divisa in borghesi e proletari, perché nessuno è più tale nel senso etimologico e filosofico. Al massimo si può parlare di «poveri» e «non poveri». Povero è colui, che dispone di un reddito inferiore a quello di sopravvivenza in una moderna società industriale e deve ricorrere a espedienti, in genere leciti, per colmare la differenza. Ma i poveri sono probabilmente meno del 20 per cento. È invece ancora possibile distinguere fra «borghese» e «non borghese»: borghese è chi è acculturato, non borghese chi non lo è, indipendentemente dal censo. [Nota. Devo questa definizione all'amico Ivano Casagrande. Fine nota.] Evidentemente la crisi delle industrie editoriali, a differenza delle altre, è strutturale di lungo periodo, perché è stato strappato potere d'acquisto alla classe colta, che comprava libri, per riversarlo su coloro che non leggono neppure i giornali e, se sporadicamente si danno alla lettura, preferiscono qualche fumetto. È la classe media quella in cui oggi alberga il massimo malcontento. Coloro che vi appartengono si sentono (pur non sapendolo), come le fanterie carsiche, mandate allo sbaraglio dai Cadorna attuali. Vedono sprecato il loro potenziale di iniziativa e si sentono sfruttati; ma non per questo sono dei rivoluzionari. Amano la democrazia, ma la

vorrebbero più democratica; non pretendono la Giustizia, ma vorrebbero subire meno iniquità. Di solito un fenomeno inflazionistico violento - come quello conseguente alla prima guerra mondiale, che divise il valore della moneta per 4,25; e quello conseguente alla seconda, che lo divise addirittura per 45 - riesce a cancellare i debiti dello stato, e consente di ricominciare da capo. Ma il processo inflazionistico agonizzante in cui viviamo - che fra il 1969 e il 1984 ha diviso il valore della moneta per 6,7 - non è affatto terminato. E non può terminare, poiché il bilancio «allargato» dello stato, cioè l'attività pubblica diretta e indiretta, investe il 50 per cento dell'economia nazionale. Orbene tale bilancio è scompensato al punto che il suo deficit ha raggiunto il 20 per cento del prodotto nazionale lordo. È come se mezza Italia, anziché 50, sia costretta a produrre 70, così da pareggiare i conti con l'estero, che rendono l'Italia tuttora una nazione solvibile. È anche una riprova che sfruttati e sfruttatori - combattenti e imboscati - sono all'incirca numericamente uguali. I cosiddetti partiti di massa tremano, perché sono essi ad aver creato, attraverso una folle politica di appiattimento brutale dei redditi a scapito dello sviluppo, attese e speranze in categorie di cittadini, che in passato sarebbero stati disposti ad attendere, ma che oggi non sono disposti a rinunciare. Dall'altro canto le categorie che potevano essere spremute, lo sono state in misura tale, che ulteriori inasprimenti allargherebbero la base del dissenso. Se il governo combattesse effettivamente l'evasione fiscale, si creerebbe centinaia di migliaia di nemici: perché quella che conta non è la grande evasione, scarsa di numero e che può essere facilmente perseguita, ma la moltitudine di piccoli evasori. E la grassazione fiscale ha contribuito a criminalizzare fasce sempre più vaste di cittadini italiani, non meno del divieto di esportazione di capitali per difendersi dall'inflazione, divieto che accettabile per brevi periodi - è immorale, se mantenuto a tempo indeterminato. Quanto al tentativo disperato di utilizzare la dichiarazione dei redditi come mezzo per introdurre prezzi differenziati per gli stessi beni, a seconda della categoria di reddito di appartenenza, esso si presenta estremamente pericoloso e potrebbe dar luogo a referendum abrogativi di esito dubbio. Ulteriori «confische» di questo genere, meglio che i ministri se le scordino.

Quando parlo di una caporetto in vista, non mi riferisco affatto a una situazione rivoluzionaria, nel senso etimologico: affermo solo che la classe media, insoddisfatta della tecnica economico-finanziaria finora adottata nei suoi confronti, voterà diversamente, provocando un cambiamento subitaneo degli schieramenti politici. Se i due partiti di massa - la Democrazia cristiana e il Partito comunista, che totalizzano oggi il 60 per cento dei voti dell'elettorato - scendessero al di sotto del 50 per cento, la loro situazione diverrebbe di colpo precaria. Significherebbe, per la DC, la fine del dominio politico sull'apparato di governo, e per il PCI la fine del controllo sui sindacati. La libertà d'azione di entrambi i partiti ne sarebbe estremamente ridotta, assai più che in proporzione alla perdita del 20 per cento del loro elettorato. Non dimentichiamo che, pochi anni fa, essi si spartivano il 70 per cento dei voti validi. Il 10 per cento finora perduto conta enormemente meno del successivo 10 per cento. Questa è la caporetto da essi temuta. I governi attuali sperano che l'economia italiana possa risistemarsi con un processo relativamente poco doloroso, basato su una diminuzione molto lenta dell'inflazione, così che gli inevitabili riaggiustamenti per correggere il dissesto provocato da una politica «bolscevizzante vecchio stile», facciano gemere poco le categorie, finora privilegiate, che ne saranno toccate, come quelle - la classe media - che dovranno continuare a esserlo, ma in misura un po' minore: esse gemeranno tanto meno quanto più sarà possibile stimolare l'accrescimento globale del prodotto nazionale, così da configurare i sacrifici dei colpiti come un minore accrescimento del reddito, anziché come una perdita secca. La cosiddetta «inflazione programmata» altro non può essere che il risultato di studi che la Banca d'Italia propina ai vari governi, per mostrare la strada da percorrere e la velocità con cui può essere percorsa, volendo mantenere gli attuali equilibri politici. Attraverso la via «lenta» gli attuali due partiti di massa sperano di non perdere la presa che conservano sull'elettorato. In caso contrario, se cioè la tecnica lenta non funzionasse o il processo di normalizzazione venisse accelerato, lo sconvolgimento elettorale sopra descritto (pur modesto in termini percentuali) porterebbe l'Italia a disporre di uno schieramento parlamentare più vicino a quello tipico dell'Europa centro-occidentale, cioè a una divisione in due parti non necessariamente uguali, l'una di tendenza liberale, l'altra

socialdemocratica, entrambe riformiste. In tali schieramenti i due partiti di massa, pur collocati l'uno di fronte all'altro, sarebbero minoritari rispetto alla coalizione necessariamente chiamata a governare. Dipingere tutto ciò come il Grappa dopo Caporetto può sembrare forzato: i tempi sono estremamente più lunghi. Ma i risultati sarebbero molto meno effimeri: perché, quando riprese le redini del comando, la nomenklatura militare dell'epoca soffocò il Grappa e ciò che significava. Se potesse liberarsi dalla egemonia dei due partiti, che finora l'hanno condizionata, partiti il cui bagaglio ideologico mostra la corda per la povertà di idee, l'Italia acquisterebbe una libertà politica che, formalmente esistente dal 1945, è stata troppo vincolata, per potersi definire piena. Credo che, per l'Italia contemporanea, ciò costituirebbe il fatto storicamente più importante dopo la fine della seconda guerra mondiale.

NOTE BIBLIOGRAFICHE La stesura di questo libro ha richiesto la consultazione o la rilettura di un numero di pubblicazioni ben superiore alla novantina citate nel testo per illustrare i punti più controversi o interessanti. Una bibliografia sulla battaglia di Caporetto - sempre una cosa enorme - è anche elastica, secondo i limiti temporali assegnati alla battaglia. Storicamente sarebbe ragionevole estenderla, per parte italiana, dal 18 settembre al 3 dicembre 1917. Per parte nemica, mentre la stessa è la data finale, l'inizio può essere fatto cominciare dalla fine di agosto. Rimando comunque alla bibliografia contenuta nel mio Isonzo 1917 disponibile anche nelle edizioni Oscar Mondadori. I circa 350 titoli della bibliografia originale (che contengono anche quella relativa alle operazioni dal maggio al settembre 1917) sono completati da 37 titoli, usciti fra il 1965 e il 1971, tutti riguardanti il periodo della battaglia di Caporetto. In questo scritto ho utilizzato poi le testimonianze o le osservazioni inedite dei signori Malandrone, Alessandro Sforza, Rivara, Sorrentino e Izzo. Della vecchia letteratura non consultata precedentemente, sono risultati importanti i volumi di von Lossberg (v. nota, cap. V), G.C. Wynne (v. nota, cap. V), Goutard (v. nota, cap. VII) e la Geschichte ecc. (v. nota, cap. IX), di autori vari. Della memorialistica, che non avevo visto, ricordo Bertocchi (v. nota, cap. IX) e Personemi (v. nota, cap. IX). Per la battaglia del Grappa è fondamentale l'opera del maresciallo Giardino (v. nota, cap. XXIII), come pure quella di De Rizzoli (v. nota, cap. XXI) per le vicende della testa di ponte di Ragogna. Segnalo, fra le pubblicazioni posteriori al 1971, Il memoriale Gortani in «Ce fastu» (v. nota, cap. VIII) e il contributo importantissimo di F. Fadini (v. nota, cap. XI), sia per le sue osservazioni che per il recupero e la traduzione del diario di von Below. Di grandissimo aiuto, infine, è stata la traduzione dell'opera di Krafft von Dellmensingen (v. nota, cap. IX), pregevolmente eseguita, tanto più che anche l'originale tedesco è di difficile reperimento. Per quanto riguarda gli avvenimenti precedenti il 18 settembre 1917, rimando al mio La decadenza dell'Europa occidentale (Einaudi, Torino, vol. I, 1977 e vol. II, 1978). In essi è contenuto un estratto - sia pure incompletissimo - della bibliografia relativa ai capitoli I, II e III di questo libro.

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